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Italian Pages 238 [240] Year 2019
Mario Mazzeo
Orizzonti della cecità Piacere di esistere, confronto con il limite, integrazione scolastica
Orizzonti della cecità
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Progettazione/Editing Medialab Clelia Tonini Impaginazione Medialab Diego Mantica Fotografia di copertina ©Enzo Levantino Copertina Diego Mantica Direzione artistica Giordano Pacenza © 2019 Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. Via del Pioppeto 24 38121 TRENTO Tel. 0461 951500 www.erickson.it [email protected] ISBN: 978-88-590-3803-0 Tutti i diritti riservati. Vietata la riproduzione con qualsiasi mezzo effettuata, se non previa autorizzazione dell’Editore.
Mario Mazzeo
Orizzonti della cecità Piacere di esistere, confronto con il limite, integrazione scolastica
Autore Mario Mazzeo (1945-2001), pedagogista e psicologo, ha insegnato all’Istituto Augusto Romagnoli di Roma. In qualità di consulente tiflologico, ha collaborato con scuole e famiglie sparse in tutto il territorio nazionale. Ha pubblicato la monografia Il bambino cieco. Introduzione allo sviluppo cognitivo (Anicia, Roma 1988).
Indice
Presentazione (M. Barbuto) 9 Introduzione. Scritti brevi di Mario Mazzeo (1979-2001) (Marco Mazzeo) 11 Prima parte – Conoscere la cecità La conoscenza dei ciechi Lo sviluppo corporeo del bambino non vedente Il bastone bianco Il desiderio di vedere Una condizione di complesso equilibrio La conoscenza dell’opera d’arte Occhio non vede, cuore non duole La volontà di conoscere C’è ancora molto da conoscere
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Seconda parte – In un mondo di vedenti. Autonomia o indipendenza? Due obiettivi da conciliare Il diritto di essere ciechi «Handicap». Il disagio di una parola Protezione e iperprotezione Il padre cieco: cecità e autonomia Tra madre e figlio. Uno spiacevole paradosso I genitori del bambino non vedente Riflessione sul volontariato Per un’antropologia della cecità: la comunicazione
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L’esperienza del bello multimediale Ciechi al cinema Il sole continua a sorgere per tutti noi
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Terza parte – Pedagogia dell’integrazione Compensare o sostituire? Per una didattica delle differenze individuali Non sottolineare le diversità Come giocano i bambini non vedenti? La difficile identità percettiva dell’alunno ipovedente Il Braille: alfabeto da vivere Audiovisivi e cecità Gli alunni sordi tra classi speciali e ordinarie L’integrazione nelle università. Ascoltare i sordi, osservare i ciechi Apprendimenti radicali e minorazioni aggiuntive Seconda nascita. La riabilitazione nella scuola dell’autonomia Il bambino pluridisabile: compatibilità sociale e piacere di esistere Il bambino pluriminorato: un progetto riabilitativo personalizzato L’intervento socio-riabilitativo Fondamenti operativi per un buon inserimento scolastico Una questione non risolta
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Quarta parte – Storie. Vita quotidiana di un cieco civile Umile fierezza Un complimento non apprezzato L’insostenibile peso dell’ansia sociale Noi sollecitiamo l’iniziativa Una decisione di gruppo Il fascino della cattiveria Una ricerca fastidiosa Una storiella un po’ sadica
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Una frustrazione solo apparente L’apparenza della normalità Vivere il cambiamento Un po’ di riposo Una fata metropolitana Come prendere la parola? Un’esca pericolosa Un saluto significativo Si prega di guardare il film La ricerca del bicchiere Anche i ciechi sognano Due volte paziente Una stretta di mano Dov’è lo specchio dell’anima? Sono bella? Chi sono io? Ragazzi di strada Piacevoli conversazioni Chiodo scaccia chiodo La giornata dell’eclissi di sole Dolcezza insidiosa Convinti sì, ma non troppo! Nati per essere felici La presenza degli altri Impara l’arte e mettila da parte Vi prego, ascoltatemi Immaginare per conoscere
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Postfazione. Un profilo biografico-intellettuale di Mario Mazzeo (E. Bosco) 235
Presentazione
Poche pubblicazioni italiane hanno trattato il tema dell’istruzione dei ciechi in modo scientifico, sistematico, ordinato e chiaro, tale da lasciare tracce nel tempo. Augusto Romagnoli, il grande educatore della prima metà del Novecento, fu autore di un’opera sistematica che ancora oggi costituisce un punto di riferimento irrinunciabile nel campo dell’educazione dei ciechi; nel secondo dopoguerra Enrico Ceppi, allievo e continuatore dell’opera di Romagnoli, si pose sulla scia del Maestro con i suoi scritti che raccontavano di teorie pedagogiche e formulavano concetti educativi di grande valore, ma traevano fonte sempre da esperienze concrete. Mario Mazzeo è continuatore di questa Scuola e di questa tradizione: nei suoi scritti ci offre infatti un concentrato di esperienze e teorie che appaiono ancora oggi degne di attenzione e capaci di suscitare riflessioni di grande attualità. Il solco seguito da Mazzeo risale appunto alla Scuola di Romagnoli e Ceppi. Le radici affondano inconfondibilmente in quella tradizione che, un secolo fa, mosse da Bologna per stabilirsi a Roma, in un Istituto che accoglieva giovani ciechi per dare loro gli strumenti necessari di formazione, istruzione, socializzazione. Un Istituto e un luogo di produzione del sapere scientifico e educativo che, oltre a coltivare la crescita umana e sociale dei ragazzi, divenne vera e propria scuola di formazione degli insegnanti, garantendo così omogeneità di metodologie e di obiettivi su tutto il territorio nazionale. I curatori del volume, il figlio (prof. Marco Mazzeo) e la moglie (dott. Ersilia Bosco), ci propongono il testo in modo intelligente e ragionato, aiu-
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tandoci a percorrerne le pagine secondo un ordine sistematico che appare davvero pregevole e che aiuta la comprensione della materia. La lettura delle pagine di Mazzeo risulta tanto più interessante oggi, in un contesto educativo dai tratti sfuggenti, dove l’istruzione sembra smarrire quei connotati di efficacia e di urgenza pedagogica finalizzati alla formazione di donne e uomini pronti a compiere il balzo dentro la società di tutti, sostenuti da strumenti e competenze capaci di renderli davvero uguali tra gli uguali e non più oggetto di assistenza e di pietà. Nel sistema scolastico e formativo odierno dobbiamo distinguere tre aree di intervento che esigono professionalità e competenza: i ciechi assoluti, gli ipovedenti e le persone con disabilità aggiuntive. A ciascuno di questi grandi raggruppamenti dobbiamo risposte articolate, differenziate, coerenti con la specifica disabilità, lontane dalle tentazioni demagogiche di cui oggigiorno siamo spesso vittime e talvolta perfino artefici. Non sono uno specialista della materia e quindi mi tengo lontano da qualsiasi tentazione di offrire ricette, soluzioni, proposte. Ad altri, molto più competenti di me, il compito di elaborare strategie, proporre metodologie, attuare modelli, che siano in grado di offrire a ciascuno una prospettiva dignitosa di vita, a seconda delle sue esigenze, capacità, abilità. Nel mio ruolo di Presidente nazionale dell’associazione che da cento anni difende e tutela i diritti dei ciechi, ho il dovere di evidenziare inefficienze, sottolineare criticità, promuovere mezzi e soluzioni che diano finalmente una cifra nuova e soprattutto soddisfacente dei percorsi di inclusione spesso sbandierati, ma purtroppo non sempre praticati in modo efficace. Sono certo che il pensiero pedagogico di Mario Mazzeo potrà assistermi in questo compito, ma soprattutto consegnerà al lettore più accorto uno spaccato significativo della vita dei ciechi, delle loro necessità, aspettative e aspirazioni, per costruire i tratti salienti di una vita quotidiana che vogliamo semplicemente e fortemente normale. Grazie all’Irifor per questa preziosa iniziativa, che andrà ad arricchire il bagaglio scientifico e culturale di cui ci serviremo nel nostro lavoro di tutti i giorni, sperando di saperne interpretare al meglio spirito e obiettivi. Buona lettura! Mario Barbuto Presidente nazionale dell’Unione Italiana dei Ciechi e Ipovedenti
Introduzione
Scritti brevi di Mario Mazzeo (1979-2001)
Questo volume non ambisce a essere un’opera completa: l’ampia e multiforme produzione dell’autore avrebbe portato alla pubblicazione di un libro troppo corposo, con il rischio di una presentazione dispersiva. Il lettore ha tra le mani, però, una selezione ampia della saggistica di un pedagogista, psicologo e tiflologo dalle caratteristiche particolari. Mario Mazzeo è uno psicologo che sostiene l’importanza dell’autonomia pedagogica della scuola rispetto all’invadenza medicalizzante di tanta psicologia contemporanea. È un pedagogista che ribadisce l’importanza di una riflessione non frammentaria che poco si coniuga con la moda odierna dei settori scientifico-disciplinari. È un ricercatore full-time dallo stile non accademico: nei testi qui raccolti non sarà difficile rinvenire una moltitudine di riferimenti teorici (da Freud a Romagnoli, da Piaget a Pestalozzi) spesso sottotraccia. Alla bibliografia erudita l’autore preferisce un discorso fluido e comprensibile che possa orientare l’insegnante lasciato a se stesso, il genitore in difficoltà o il ragazzo cieco alle prese con le inquietudini dell’adolescenza. Questa raccolta prova a dare conto di un profilo inconsueto grazie a quattro parti. La prima è intitolata Conoscere la cecità perché insiste su un punto teorico ricorrente: la cecità è una dimensione dell’esistenza che necessita di essere esplorata, in modi diversi naturalmente, tanto dal vedente che dal cieco. Per il primo la privazione visiva scatena facilmente un pathos oscuro e magnetico, attraente quanto fuorviante. È su questa base
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che si articolano le risposte evitanti di chi sostiene che «il cieco a modo suo vede», non importa se grazie alle parole, al tatto o ai misteriosi poteri di un eroe dei fumetti. Per il non vedente la cecità è da conoscere perché richiede un confronto continuo con il limite. Non a caso, il titolo del libro (che segue una indicazione dell’autore risalente alla fine degli anni Novanta) allude all’orizzonte, nozione contemporaneamente modificabile ed eterna. L’orizzonte è modificabile perché, camminando, posso raggiungere i contorni più distanti di quel che percepisco. Posso raggiungere la fonte sonora che mi incuriosisce, andare a toccare il profilo di una roccia prima sullo sfondo. Nel contempo quando raggiungo la fonte di un suono o il profilo di un oggetto si dischiudono di fronte a me altri suoni, nuove sagome. Già nell’etimo l’«orizzonte» allude a «ciò che limita, che divide»: il confronto con il limite vive di superamenti mai definitivi, per questo piacevoli e dolorosi insieme. Non bisogna, però, nascondersi dietro un dito. Il titolo dell’opera contiene un ingrediente provocatorio, poiché allude a un termine dalla connotazione indubbiamente visiva. Per questo motivo, la seconda parte si chiama In un mondo di vedenti. Nell’universo della disabilità è diffusa una dicotomia paralizzante. A volte si sostiene la necessità di un separatismo sensoriale concentrato nel ribadire i caratteri identitari di chi vive la minorazione. Contro di esso si reagisce spesso con un atteggiamento opposto, puramente mimetico. Il cieco sarebbe destinato a vestire gli abiti del vedente. Il desiderio di coincidere con la privazione si alterna all’imperativo sociale di indossare vestiti della misura sbagliata. Contro le velleità di chi favoleggia la completa indipendenza sensoriale o l’imperativo strisciante di conformarsi a una docile mimetizzazione sociale, Mazzeo propone l’elaborazione teorica della coppia «indipendenza/autonomia». Qui, come altrove, emerge una caratteristica dei saggi contenuti nella raccolta. Qualunque sia l’oggetto del discorso, si procede con distinzioni concettuali (ad esempio ludico/ludiforme, danno/disabilità/handicap, protezione/iperprotezione, aggressività/violenza) il cui obiettivo è in primo luogo mettere a fuoco la complessità del problema. Con «autonomia» l’autore intende il diritto a esser ciechi, come recita il titolo di uno degli interventi, ma anche la necessità di una tiflologia che offra al bambino cieco la possibilità di essere gradevole anche per l’occhio di chi vede. Autonoma è l’aspirazione a vedere, uno dei temi che attraversano le varie
Introduzione
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sezioni del testo. Il desiderio di vedere è una delle dimensioni in grado di portare a una conoscenza più profonda della cecità, giacché sottolinea il carattere conflittuale di una mancanza. Allo stesso tempo, il confronto con il limite non coincide in alcun modo con una subalternità, con la rimozione sociale della condizione di chi non vede. Il cieco non può essere ridotto a un «aspirante vedente»: il fatto che il cieco debba confrontarsi con il proprio desiderio di vedere non vuol dire che sia opportuno piegarlo ai desideri di chi vede. L’indipendenza va intesa dunque non in termini assoluti ma relativi all’autonomia: la spinta verso uno spazio vitale più ampio, ad esempio nei confronti della famiglia o della scuola, è efficace solo se mantiene una relazione con le istituzioni contro le quali reagisce e non coltiva il mito di un mondo separato nel quale fare a meno degli occhi altrui. La terza parte contiene alcuni scritti legati più direttamente al tema dell’integrazione scolastica e sociale. L’articolazione di questa parte del libro mira a sottolineare il carattere necessariamente panoramico di una riflessione circa la disabilità. Attenzione particolare è dedicata, naturalmente, alla cecità. Della privazione visiva non si fa, però, un monolite nel quale identificarsi senza resto: l’intervento pedagogico che coinvolga il cieco totale non coincide con le necessità dell’ipovedente; l’infanzia ludica di chi non vede non può esser dimenticata in nome di una emergenza sensoriale che faccia del bambino cieco un adulto prematuro. Per questa ragione, la scelta editoriale è ricaduta su alcuni tra i saggi più coraggiosi dell’autore. In alcuni si prova a confrontare le realtà sensoriali di figure, il sordo e il cieco, che storicamente hanno proceduto lungo binari paralleli. Altri non evitano di trattare la condizione, apparentemente marginale o addirittura disperata, del bambino pluriminorato. La minorazione plurima consente, infatti, di analizzare il carattere paradossale della «diversità», espressione che negli ultimi decenni ha assunto un senso sempre più generico se non addirittura retorico. A partire dagli anni Ottanta, una impostazione pedagogica e filosofica di grande successo, Il pensiero debole, ne ha fatto il suo cavallo di battaglia. Secondo questa impostazione, la diversità coinciderebbe con l’allegra variazione delle forme di vita umane, un caleidoscopio colorato e privo di conflitti nel quale riservare a ciascuna minoranza il suo piccolo orto di coltura. In tal modo, una nozione decisiva per il mondo di chi non vede è finita col divenire la bocca dentata di una
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morsa. «Diverso» sarebbe colui che diverge da un ideale prestabilito, una forma standard della vita. «Diverso» sarebbe anche l’etichetta da incollare sul cassetto nel quale inserire, magari dedicando a ciascuno il suo scomparto, tutte le forme di devianza. Questa sezione si concentra invece sul volto della diversità più significativo e meno battuto: la sua logica autocontraddittoria. Il diverso è tale perché, innanzitutto, «diverso da se stesso». Il cieco è diverso non solo dal semplice vedente ma è differente dalle altre forme di minorazione visiva: il pluriminorato, il sordocieco, l’ipovedente. A sua volta, ciascuna di questa categorie differisce al proprio interno: quanto è diversa l’ipovisione che riguarda l’acutezza da quella che coinvolge l’ampiezza del campo visivo? Quanto è specifica la grammatica della mancanza sensoriale nel cieco nato rispetto a chi cieco è divenuto in età adulta? La diversità non è proposta, dunque, come una soluzione teorica o classificatoria. È un enigma dal quale una pedagogia dell’integrazione deve partire alla ricerca di quel che Mazzeo chiama «una società integrata»: una modalità di convivenza umana tutt’altro che idilliaca, che contempli il confronto e l’urto continuo tra le molteplici modalità del modo in cui si può essere umani. La quarta parte costituisce il resoconto stenografico di una delle differenti singolarità che compongono la galassia di chi non vede. Intitolata Storie, colleziona una quarantina di scritti particolarmente brevi. Si tratta di una fenomenologia della cecità in prima persona, volutamente «parziale» cioè di parte e incompleta. È la descrizione della vita quotidiana di un cieco «civile», nel doppio senso dell’espressione. Civile perché senza legami con l’eroismo della guerra; civile perché impegnato a fare la sua parte per richiedere un’elaborazione collettiva della propria condizione sensoriale. Quest’ultima articolazione del libro sarà composta dunque da «storie», cioè da racconti: se l’azione strabordante della parola tipica del verbalismo è una minaccia concreta per la crescita di qualunque bambino cieco, ciò non significa che il linguaggio verbale sia un nemico per chi non vede. Si tratta di storie, però, anche nel senso di contingenze temporali della nostra vita. La condizione di chi non vede può essere esemplare per tutti gli umani. La vita di ogni cieco suggerisce in modo vivido, a volte ruvido, che l’esistenza può conoscere trasformazioni sorprendenti perché il piacere di esistere non può darsi senza un continuo conflitto con il limite. Marco Mazzeo
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Nota Il volume raccoglie una parte consistente degli scritti pubblicati da Mario Mazzeo in numerose riviste (si veda a tal proposito il profilo biograficointellettuale). Il più lontano nel tempo è costituito da alcune dispense per i corsi di specializzazione per gli insegnanti tenuti all’Istituto Augusto Romagnoli di Roma nel 1979/80. Si tratta di un documento rivenuto da uno dei suoi studenti (Sergio Basciani, 2006, in «Tiflologia per l’Integrazione», vol. 16, n. 4, pp. 259-269). Gli scritti più recenti (ad esempio La giornata di eclissi di sole o Dolcezza insidiosa) risalgono al 2001, anno della morte dell’autore. Non compare qui, dunque, la monografia Il bambino cieco. Introduzione allo sviluppo cognitivo (Anicia, Roma 1988), che costituisce il complemento ideale di questa raccolta. Alcuni dei titoli originali sono stati modificati per tessere un filo tematico, a volte addirittura argomentativo, che potesse emergere sin dall’indice. Gli esecutori del testamento scientifico e letterario desiderano ringraziare le persone senza le quali questo progetto non sarebbe neanche partito: in primo luogo il vicepresidente dell’IRIFOR Massimo Vita per un entusiasmo contagioso e una tenacia senza pari; il presidente dell’UICI per la sua preziosa introduzione; Vincenzo Bizzi, Carmelo Guerrieri e Peppino La Pietra, che hanno animato le riunioni preparatorie alla composizione del volume; Fernanda Fazio e Nicola Striano, che in questi venti anni hanno promosso innumerevoli iniziative legate ai testi pubblicati qui di seguito.
Prima parte
Conoscere la cecità
Nella pagina precedente: Vincenzo, Istituto «Augusto Romagnoli» di Roma, metà anni Settanta (foto di Enzo Bizzi).
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La rappresentazione delle forme spaziali L’interesse scientifico dei filosofi sulla condizione di cecità si è sviluppato a partire dalla seconda metà del Seicento. La curiosità si è concentrata soprattutto sulla capacità, da parte del cieco nato, di riconoscere e distinguere tra di loro le diverse forme spaziali. Inizialmente molti pensatori erano convinti che un cieco dalla nascita non potesse distinguere un cubo da una sfera. Una simile convinzione scaturiva direttamente dal pensiero che fosse la vista e soltanto la vista il senso capace di consentire la concezione dello spazio e delle sue forme. La discussione su questo argomento rese i ciechi più degni di essere conosciuti e rafforzò gradualmente l’interesse sociale sulla loro condizione umana. Naturalmente furono i fatti a dimostrare con crescente chiarezza che la mancanza della vista non impedisce la costruzione mentale dello spazio. I ciechi nati dimostrarono inoltre di poter apprendere, mediante l’uso delle mani, l’alfabeto ordinario in rilievo. A questo proposito fu il Diderot per primo a capire che le mani avrebbero letto più agevolmente e più rapidamente un alfabeto speciale costituito da puntini in rilievo, poiché il tatto si dimostra più adeguato a percepire il puntino piuttosto che la linea. Soprattutto mediante l’uso delle mani, i ciechi ebbero la possibilità di esprimere e di comunicare la loro sostanziale normalità intellettiva e la loro capacità di partecipare attivamente alla vita sociale.
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Quattro sensi al posto di cinque Anche se il tatto viene generalmente considerato come la vista dei ciechi, è importante comprendere come la vista non possa venire sostituita validamente da un solo senso, considerato nella sua singolarità. Per organizzare un buon rapporto con la realtà circostante, la persona che non vede ha bisogno di attivare l’insieme dei propri sensi residui, utilizzando interamente le risorse provenienti dalla loro multimedialità complementare. In particolar modo la complementarità tra il tatto e l’udito ci fa capire come i ciechi possano entrare in contatto con la realtà del mondo e conoscere con apprezzabile efficacia. Il tatto possiede un campo percettivo molto ridotto e pertanto procede per successione di frammenti spaziali, ma presenta peraltro una capacità di analisi molto raffinata e puntuale. Viceversa l’udito possiede un campo percettivo notevolmente più esteso, che consente ai ciechi un ampio riferimento spaziale di insieme, ma offre informazioni insufficienti sugli oggetti e sulle caratteristiche particolari dello spazio circostante. Le informazioni provenienti dall’olfatto, dalle variabili termiche e anemestesiche e dal lavoro dei muscoli impiegati nel movimento offrono al soggetto non vedente la possibilità di integrare e di arricchire il quadro percettivo, migliorando sensibilmente le qualità della sua conoscenza. Naturalmente questo non significa che la privazione della vista possa essere sostituita dal patrimonio sensoriale residuo nei suoi aspetti essenzialmente visivi. Nella mente di un soggetto cieco dalla nascita non c’è la realtà dei colori né di alcun altro fenomeno propriamente visivo. Ciò nonostante possiamo dire che i ciechi ben educati dimostrano un buon senso della realtà e si rappresentano il mondo con efficace chiarezza e misura. La persona che non vede, per conoscere con chiarezza e misura la realtà che lo circonda, è costretta a muoversi e a osservare più a lungo di una persona vedente. Per questa ragione la sedentarietà, l’inoperosità delle mani e il verbalismo sono limiti molto gravi in una persona che non vede e rappresentano purtroppo l’immagine consueta di un soggetto non vedente diseducato.
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La funzione delle informazioni visive Ancora oggi sono davvero in molti a pensare che gli occhi offrano il vero contatto con la realtà del mondo oggettuale e che pertanto i ciechi, in particolar modo i ciechi dalla nascita, restino di fatto separati dalla realtà nella quale vivono. Ecco perché si cerca così spesso di trasmettere alla persona non vedente la realtà visiva con le parole, quasi che le parole fossero in grado di portare l’esperienza visiva nella sua mente. D’altra parte sono molti i ciechi che utilizzano con enfasi le cosiddette parole visive, sospinti dal desiderio di apparire normali e forse di sentirsi almeno un po’ vedenti. Purtroppo le parole non hanno questa capacità di trasmettere l’esperienza e quando vengono utilizzate a prescindere dall’esperienza producono l’effimero e nocivo fenomeno del verbalismo. Per l’appunto il verbalismo consiste in una singolare forma di affetto per tante parole che si riferiscono a oggetti dei quali non si possiede la benché minima esperienza personale. Il soggetto non vedente ha bisogno di fare esperienza a partire dalla sua condizione sensoriale. Egli può così sperimentare l’efficacia dei propri strumenti percettivi e confidare in essi come base di autonomia e di partecipazione. Le informazioni verbali sulla realtà visiva potranno arricchire la sua formazione socioculturale e migliorare la sua coscienza sociale come persona non vedente in un mondo di vedenti. Ben vengano quindi le così dette parole visive, purché non si voglia con esse mimetizzare e squalificare la condizione sensoriale dei soggetti non vedenti. I ricordi visivi di chi ha perduto la vista I cosiddetti ciechi divenuti rischiano di restare ancorati a una realtà mentale del passato, che vive soltanto nei loro ricordi. Infatti, per una persona che perda la vista, la cosa più difficile consiste proprio nell’entrare dentro la situazione della cecità e nel vivere con realismo la nuova condizione percettiva. In altre parole il cieco divenuto rischia di restare un ex vedente, vincolato ai propri ricordi visivi, che si rifiuta di considerare l’efficacia dei propri strumenti percettivi residui. In simili circostanze è davvero importante aiutare la persona a scoprire la validità del patrimonio percettivo di cui
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dispone, soprattutto per fare in modo nuovo attività che svolgeva prima di perdere la vista. Saranno queste esperienze di rinnovamento le più decisive per sollecitare in lui una ridefinizione dell’identità percettiva e la rinascita di un progetto di vita. Sincresi, analisi e sintesi Un luogo comune molto diffuso consiste nel pensare che i ciechi conoscano la realtà per via analitica e raggiungano la sintesi di ciò che hanno osservato solo attraverso una sorta di assemblaggio immaginativo. Se ciò fosse vero la mente dei ciechi avrebbe caratteristiche diverse dalla mente comune e tale diversità inciderebbe chissà come, ma quasi certamente, sullo sviluppo del loro pensiero. Fortunatamente i ciechi percepiscono e pensano come tutti noi. Il loro modo di osservare presenta la comune sequenza di un’impressione globale immediata (sincresi), seguita da una analisi e da una sintesi. Ciò che distingue i ciechi dai vedenti è soprattutto la qualità della sincresi iniziale, che comunque è presente e fondamentale anche nel caso della persona non vedente. Nella condizione di cecità l’impressione globale immediata, proprio perché deve prescindere dal contributo della vista, si presenta confusa e scarsa di informazioni oggettuali, tanto da costituire spesso una fonte di equivoci e fraintendimenti. In altri termini per coloro che non vedono la prima impressione di un ambiente è quasi sempre poco più di una sensazione di insieme, ma pur sempre una rappresentazione globale dove inserire i successivi dati dell’analisi. Durante questa fase di «prima impressione» la persona non vedente avrebbe bisogno di un aiuto, mediante una presentazione verbale dell’insieme da conoscere e, nelle situazioni più complesse, mediante una rappresentazione plastica dell’ambiente, da osservare con le mani. Infatti bisogna dire che la successiva esplorazione analitica deve poter poggiare su qualcosa di globale già rappresentato, per non divenire esperienza frammentaria e caotica. La sintesi sarà il naturale compimento dell’operazione, vale a dire la ridefinizione della sincresi iniziale arricchita dalle conoscenze analitiche. Quando si tratta di osservare ambienti molto complessi dalla fisionomia labirintica, anche i vedenti avvertono il bisogno di guide e di rappresentazioni globali con cui delineare meglio la
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prima impressione e procedere poi verso l’analisi in modo più consapevole e ragionato. Il movimento guidato dall’immaginazione L’aspetto che caratterizza meglio la condotta dei ciechi ben educati è la capacità di muoversi e di utilizzare le mani attraverso la guida dell’immaginazione. Per fare questo occorre avere una rappresentazione chiara del lavoro da svolgere e della realtà nella quale occorre operare. È inoltre necessaria, evidentemente, una buona coordinazione della funzione immaginativa con la funzione motoria. L’orientamento immaginativo-motorio non ha certo il compito di sostituire l’esperienza percettiva, ma di arricchire e controbilanciare la sua naturale insufficienza. Un soggetto non vedente che si muova mediante l’uso del bastone bianco ovvero che operi con il legno per costruire un tavolino costituisce un mirabile esempio di attività pratica, sostenuta e qualificata dalla funzione immaginativa. Purtroppo il movimento dei ciechi, quanto più appare guidato dall’immaginazione e non dagli occhi, presenta una fisionomia perturbante che talvolta sconcerta e preoccupa la cittadinanza. A questo proposito potrà giovare una migliore familiarità con simili comportamenti, che comunque rappresentano una significativa forma di evoluzione della specie umana e delle sue immense possibilità di adattamento. Che cos’è il buio per i ciechi? Con la parola «buio» si intende la mancanza di luminosità nell’ambiente e l’impossibilità che ne consegue di controllare gli eventi che accadono nello spazio circostante. Chiudere gli occhi è un’esperienza che ci può dare la medesima sensazione del buio, come se calando le nostre palpebre si spegnesse la luce, elettrica o naturale, dell’ambiente nel quale ci troviamo. Viceversa la persona che non vede, sempre che sia ben educata, possiede l’abitudine attiva di fondare la propria attenzione percettiva sui propri sensi residui e quindi non avverte l’assenza della luce con emozioni di smarrimento e di paura.
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Il vero buio per i ciechi è forse costituito dal silenzio, vale a dire da un ambiente privo di sollecitazioni, di riferimenti sufficienti per il necessario orientamento nello spazio circostante. Anche il silenzio dell’interlocutore può costituire per la persona che non vede un motivo di autentico disagio, proprio perché non sempre tale silenzio può essere da lei agevolmente interpretato. Certamente il buio per eccellenza è comunque rappresentato, nel caso della persona che non vede, da un eccesso di rumore e di caos, poiché in simili circostanze il soggetto non vedente, in particolar modo il bambino non vedente, subisce una esperienza mortificante di grave smarrimento, tanto da perdere, talvolta, la stessa rappresentazione del proprio sé. A questo proposito è necessario sottolineare che l’inquinamento acustico costituisce indubbiamente una tra le principali barriere per l’autonomia dei ciechi e per la loro serenità durante le attività della vita quotidiana.
Lo sviluppo corporeo del bambino non vedente
Per comprendere l’esperienza corporea di un bambino non vedente occorre mettere a fuoco un insieme di considerazioni che scaturiscono principalmente dalle particolari caratteristiche della relazione con sua madre, una relazione che possiamo definire di eccessiva appartenenza. Il corpo del bambino non vedente appartiene a sua madre in una misura maggiore di quanto non accada nel caso degli altri bambini normodotati. Soprattutto il senso di colpa, la preoccupazione, il desiderio di riparare inducono la madre a rafforzare l’attaccamento con il figlio, anche quando la sua condotta appare caratterizzata dal rifiuto. Infatti il rifiuto riguarda la disabilità del bambino, la sua privazione sensoriale e non la sua realtà corporea, vissuta dalla madre come parte di se stessa, benché frustrante e angosciante. Perfino nei casi di maltrattamenti non dovremmo parlare di «rifiuto», ma di un «attacco alla minorazione del bambino» che, inteso come parte della madre, può essere attaccato soltanto in un contesto di autolesionismo. La significativa incidenza della psicosi simbiotica nel caso di bambini non vedenti o gravemente ipovedenti rappresenta una delle estreme conseguenze di un eccesso di appartenenza reciproca. È forse un bene precisare che il sentimento di appartenenza costituisce il fondamento del nostro sviluppo, la condizione stessa della nostra nascita psicologica e della nostra esistenza personale. È pertanto l’eccesso di tale sentimento che non consente al bambino di organizzare la propria solitudine e di costruire adeguatamente la propria realtà individuale. Il più delle volte il bambino non
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vedente vive le cure materne nell’intensità di una preoccupazione ansiosa, in un contesto di necessaria riparazione. In questo modo le cure materne possono divenire un vero e proprio atto magico di riparazione e di negazione fantastica del limite sensoriale. Per quanto disancorato dal sentimento di realtà, il piacere della madre di occuparsi con estrema dedizione del corpo del figlio, ricavandone un immenso piacere liberatorio, può divenire per il bambino cieco un riferimento obbligato e una condizione permanente di orientamento per la sua esperienza corporea. In altre parole il suo corpo, invece di divenire uno strumento di conoscenza del piacere, viene vissuto come oggetto di ansia, di cura e di piacere liberatorio dal confronto con il limite. D’altra parte questo attaccamento eccessivo tra la madre e il bambino non vedente riduce sensibilmente lo spazio della relazione coniugale, sollecitando spesso nel padre risposte di chiusura e di evitamento che accentuano oltremodo l’isolamento della relazione madre-bambino. Per un verso il padre si sente tradito nella relazione coniugale da una moglie che si occupa quasi interamente del figlio non vedente; per un altro egli vive la necessità e il dovere di fare qualcosa anche lui per il figlio disabile e generalmente se ne occupa per quegli aspetti che potremmo definire tecnico-finanziari. In simili circostanze familiari il bambino non vedente tende a crescere in una condizione di iperdipendenza, nella quale rappresenta la propria realtà personale accompagnata tacitamente da una presenza complementare che lo solleva dal confronto con le difficoltà attraverso cure, attenzioni e prestazioni costanti. Anche la relazione con il suo corpo sarà naturalmente mediata da questa presenza complementare e ciò impedirà al soggetto non vedente, in misura più o meno grave, la possibilità di indossare e di vivere il proprio corpo come un’esperienza privata e personale, frutto di ricerca e di sperimentazione individuale. Attualmente accade con sempre maggiore frequenza che i ragazzi disabili visivi, spinti da una sorta di orgoglio ferito, vogliano combattere e negare questa loro condizione di iperdipendenza. Si tratta di una protesta velleitaria tale da indurre atteggiamenti e comportamenti incoerenti e difficili da comprendere da parte degli amici o di eventuali partner. Simili condotte assunte per mera velleità conducono verso un’ulteriore complicazione del rapporto con se stessi e, prima o poi, determinano situazioni insostenibili, così pesanti da suggerire la chiusura e la rinuncia. Per essere superata, la condizione dell’iperdipendenza ha bisogno di essere
Lo sviluppo corporeo del bambino non vedente
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riconosciuta, vissuta e ridotta progressivamente. Per questa ragione i ragazzi non vedenti hanno soprattutto bisogno di essere aiutati a divenire amici di se stessi e a comprendere il significato storico delle loro manchevolezze, al di là di sterili e distruttivi giudizi di merito. Per camminare lungo la difficile strada che ci conduce verso una progressiva riduzione dell’appartenenza e della dipendenza, occorre poter vivere l’opportunità di nuovi spazi socioesperienziali, almeno in parte esterni all’area psico-culturale della famiglia. A questo proposito, occorre comprendere che perlopiù si tratta di spazi sociali non graditi o poco graditi dai familiari del soggetto non vedente proprio perché sfuggono alla possibilità di un controllo, accentuando ansia e preoccupazione. Per consentire simili esperienze liberatorie di rinnovamento e, allo stesso tempo, evitare eccessivi strappi da una dipendenza che mantiene pur sempre la sua funzione e il suo significato, una prudente mediazione istituzionale, svolta ad esempio dall’Unione Italiana Ciechi, può risultare preziosa e risolutiva. Sia ben chiaro però: si tratta di avere la capacità di rispettare tutti i valori in gioco, senza sacrificare sbrigativamente la sensibilità e il vissuto di ciascuno dei partecipanti. Tutto questo naturalmente in funzione della crescita del ragazzo non vedente, affinché possa integrare la propria esperienza e divenire effettivamente protagonista del suo processo di integrazione sociale. In tale contesto di evoluzione, il ragazzo non vedente potrà conoscersi meglio, comporre in modo più equilibrato la rappresentazione di se stesso e conquistare una prospettiva di vita sociale che rispetti e contemperi le realtà contraddittorie della sua personalità. Vorrei dire che lungo questa via sono praticamente inevitabili le aberrazioni e gli eccessi. Più che cercare di evitarli, occorre saperli riconsegnare e presentare al ragazzo non vedente nel loro significato processuale, sdrammatizzando nell’errore l’emozione tragica dell’irreparabile. Naturalmente questo ci conduce a concepire la necessità di una consulenza per i ragazzi non vedenti e per i loro genitori. È importante concepire una consulenza che non entri quasi mai nel merito del che fare, ma si limiti a favorire, attraverso gli strumenti socratici dell’ironia e della maieutica, il processo di crescita appena descritto. Sul piano culturale mi sia consentito affermare, in sede di conclusione, che in buona sostanza sono tre gli errori che attualmente caratterizzano, nella forma implicita dell’inconsapevolezza, il nostro costume associativo.
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In primo luogo continuiamo a combattere l’iperdipendenza e l’iperprotezione con lo stile di chi combatte un nemico, senza comprendere che si tratta in definitiva di condizioni e di atteggiamenti che vanno mitigati, anche combattuti, ma pur sempre nel rispetto di relazioni interpersonali che trovano il loro giusto fine in una sempre migliore conoscenza reciproca. In secondo luogo stiamo cercando di inserirci nella realtà culturale del visualismo senza affermare con la necessaria grinta il bene sensoriale e immaginativo presente nella nostra condizione. In particolar modo, sono il tatto e l’immaginazione dei ciechi che vengono squalificati da questo nostro atteggiamento, che potremmo definire di aspiranti vedenti. Naturalmente il desiderio di vedere deve occupare un posto significativo nella nostra condotta sociale, ma ciò non può divenire un elemento che peggiora l’immagine della nostra condizione reale. In terzo luogo, ma è l’aspetto più importante, dovremmo concepire con maggiore lucidità che è la persona non vedente il principale e insostituibile protagonista del suo confronto con il limite sensoriale della cecità. Noi possiamo, così come stiamo facendo, creare opportunità preziose e anche entusiasmanti allo scopo di favorire questo confronto per renderlo più sostenibile. Dobbiamo però tenere presente che tra queste risorse e opportunità, che noi costruiamo con impegno e con tenacia, la più efficace resta pur sempre il colloquio educativo. La società, proprio perché ci vuole bene in modo sbagliato, è fin troppo contenta di vederci aspiranti vedenti e di accogliere con faciloneria questo nostro desiderio per poi magari lasciarci un po’ più soli nel momento del naufragio. Per questa ragione può inserirsi e integrarsi in una simile società soltanto un soggetto non vedente che sia divenuto amico di se stesso e che abbia saputo concepire una risposta personale alla sua limitazione visiva. Ragionevolmente, senza trascurare nessun altro settore delle nostre importanti attività, cerchiamo di potenziare questa nobile e prioritaria funzione educativa, che ha rappresentato e potrà continuare a rappresentare la cima più alta dalla quale osservare il cammino storico dei ciechi e il miglioramento della loro esistenza.
Il bastone bianco
Il bastone bianco è uno strumento semplice ma efficace, con il quale un cittadino non vedente può muoversi nel territorio civico urbano con un sufficiente grado di sicurezza. Il colore bianco del bastone segnala la condizione di cecità in misura vistosa e inequivocabile, allo scopo di evitare pericolosi fraintendimenti circa la condotta del cittadino non vedente. A questo proposito bisogna dire che sono molte le persone disabili visive che vivono con disagio l’esperienza pubblica della loro condizione sensoriale e che pertanto tendono a rifiutare la vistosità simbolica del bastone bianco. Si tratta di uno strumento che consente di anticipare la percezione degli ostacoli lungo il cammino. Il soggetto che lo utilizza può così assumere un’andatura meno incerta e più regolare, organizzando per altro una postura più disinvolta e dignitosa. Per ottenere l’effetto desiderato il bastone bianco dovrebbe essere piuttosto alto, tanto da raggiungere l’estremità inferiore dello sterno della persona che lo utilizza. Occorre manovrarlo con leggerezza e con decisione, facendolo oscillare di fronte a sé come un pendolo obliquo, con la punta rivolta in avanti, in modo tale che sfiori la superficie del marciapiede o del suolo stradale. Per essere svolta con sufficiente abilità, questa manovra esige un esercizio prolungato, non privo inizialmente di spiacevoli frustrazioni. In ogni caso è bene precisare con chiarezza che un buon uso del bastone bianco presuppone soprattutto la capacità di organizzare validi campi immaginativi del territorio da percorrere, una competenza percettiva nel riconoscere con i
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sensi residui i vari punti del percorso e una eccellente prontezza nel rendersi conto di insidie inusuali, tali da esigere un soccorso civico da parte della cittadinanza. Ciascuna persona non vedente o gravemente ipovedente, sulla base della consapevolezza circa i propri limiti, userà il bastone bianco in misura corrispondente alle proprie abilità acquisite. Purtroppo il discorso si complica nel momento in cui consideriamo la qualità del territorio civico urbano, vale a dire il suo disordine caotico e frammentario, il comportamento aggressivo e indisciplinato della cittadinanza, il volume assordante del traffico motorizzato. La molteplicità imprevedibile degli ostacoli presenti sui marciapiedi diviene frequentemente una barriera insormontabile e non soltanto per i soggetti non vedenti. In tali circostanze i cittadini sono spesso obbligati a camminare lungo la strada, al di là della fascia irregolare costituita dalle auto in sosta accanto al marciapiede e sul marciapiede. In questo modo il cammino del soggetto non vedente con il suo bastone bianco diviene molto più pericoloso. Da un lato egli si trova le auto parcheggiate nelle posizioni più stravaganti, talvolta in doppia e in tripla fila; d’altro lato egli si trova le auto in corsa che sfrecciano più o meno velocemente a pochi centimetri dal suo braccio. Il rumore prodotto dai motori, soprattutto di alcuni camion e di alcune moto, disorienta ulteriormente il cammino della persona non vedente che può essere indotta, da uno stimolo acustico assordante, a cambiare direzione d’istinto, senza rendersene conto. Si tratta insomma di un cammino avventuroso che richiede coraggio, determinazione e umiltà nel saper chiedere aiuto al momento opportuno. Occorre inoltre aggiungere che la popolazione osserva generalmente con angoscia il cammino faticoso della persona non vedente con il suo bastone bianco e non è affatto abituata a offrire il soccorso civico con modalità discrete ed efficaci. I comportamenti più frequenti, da parte della popolazione, sono l’evitamento del soccorso oppure un soccorso emozionato, con il quale si tende a salvare la persona non vedente da pericoli più fantastici che reali, senza capire le sue intenzioni e le sue possibilità rispetto alle circostanze concrete. Per ragioni del tutto involontarie, il soccorso civico talvolta può divenire un vero e proprio incidente che aggrava la situazione del cittadino non vedente, poiché aggiunge alle difficoltà del cammino una frustrazione psicosociale ancora più difficile da sostenere. D’altro canto occorre pur dire che, nei quartieri dove la presenza dei cittadini non vedenti è divenuta un fatto ordinario e quotidiano, si è
Il bastone bianco
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organizzato spontaneamente, nel corso del tempo, un equilibrio compatibile tra le persone non vedenti e la popolazione. In molti casi tale equilibrio è divenuto addirittura apprezzabile e confortante, sulla base di veri e propri cambiamenti nelle abitudini della cittadinanza, vale a dire maggiore disciplina e migliore capacità di comprensione e di collaborazione. In questi casi i cittadini non vedenti con il loro bastone bianco frequentano con grande disinvoltura il loro quartiere di residenza, costruendo relazioni sociali vivaci e gratificanti. Per quanto limitate, le situazioni migliori ci consentono di capire che il bastone bianco può divenire effettivamente uno strumento di civiltà e di socialità, promuovendo a un tempo la legittimazione dei cittadini non vedenti e una migliore consapevolezza civica nell’intera cittadinanza. La presenza reale dei cittadini non vedenti lungo le strade delle città sarà indubbiamente più convincente di qualsiasi messaggio lanciato attraverso i mezzi di comunicazione di massa. È pertanto necessario che i ciechi, soprattutto i più giovani, accolgano con fierezza le fatiche di una simile condotta civica. Camminare per la città, al braccio di un accompagnatore, è senza dubbio una scelta più comoda e rassicurante. Inevitabilmente però la sicurezza coincide con la dipendenza e diviene quasi sempre un impedimento sul cammino della libertà. Naturalmente qui parliamo della libertà di affermare la propria condizione sensoriale e di conoscerne meglio le possibilità e i limiti, superando il disagio proveniente dal sentimento della rinuncia. In definitiva qualche contusione in più e qualche spiacevole incidente psicosociale saranno ampiamente compensati da una considerevole estensione dello spazio personale di vita e da un rafforzamento confortante della propria soggettività.
Il desiderio di vedere
Un ospite scomodo Il desiderio è un ospite ingombrante che non chiede permesso, non bussa alla porta per essere accolto nella nostra vita interiore. Improvvisamente ce lo troviamo dentro già pronto a penetrare la nostra attenzione e la nostra volontà. Spesso il desiderio non rispetta le nostre abitudini, le nostre convinzioni, l’immagine che abbiamo di noi stessi. Esso ci sorprende, ci turba, mette a rischio le nostre sicurezze, ci costringe a guardare oltre l’orizzonte delle nostre esperienze. Può accadere pertanto che il desiderio costituisca un’insidia per l’equilibrio della nostra esistenza, poiché ci spinge verso nuovi equilibri più incerti e meno conosciuti. Per questa ragione il desiderio, soprattutto quando si manifesta con intensità, è accompagnato dalla paura e dal vacillamento della nostra abituale disinvoltura. Accogliendo il desiderio noi entriamo in contatto con nuove realtà e veniamo costretti a camminare fuori dai sentieri ordinari, lungo percorsi avventurosi che generalmente esigono il potenziamento e il rinnovamento delle nostre capacità. Allo scopo di respingere un desiderio che ci mette in crisi, noi ci concentriamo sulle paure che ci suscita. In questo modo ci separiamo dalle immagini del desiderio e riusciamo così ad allontanarle dal campo della nostra coscienza. Ciononostante il desiderio non muore e in qualche modo continua a esercitare la sua forza intrusiva, condizionando comunque le nostre scelte e i nostri ragionamenti con la sua indomabile
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pressione dal profondo. Quando i desideri repressi divengono troppi, rischiamo di essere governati dalle paure che fedelmente li accompagnano e dalle loro oscure pressioni. In questi casi ci converrebbe chiedere aiuto per trovare la forza di estendere i confini della nostra coscienza per accoglierne almeno qualcuno, tra i desideri non riconosciuti. Una volta nella coscienza, il desiderio può essere rappresentato, filtrato, mitigato, modificato, integrato nell’immagine che abbiamo di noi stessi. Imparando a trattare i desideri sapremo anche offrire alla nostra esistenza un continuo processo di rinnovamento, non privo di fasi critiche ma confortato dalla fiducia nella nostra capacità di buon governo. In definitiva sono i desideri che garantiscono alla nostra vita il senso della scoperta e del miglioramento. Il desiderio nell’esperienza della perdita Quando desideriamo intensamente qualcosa che abbiamo perduto, generalmente il desiderio presenta il suo volto più rigido e meno governabile. Si tratta infatti di vivere ancora qualcosa di già vissuto, di rendere attuale un passato interrotto bruscamente, di recuperare un aspetto importante della nostra identità personale. In questi casi il desiderio si concilia più difficilmente con un processo di rinnovamento e può divenire un insidioso motivo di rifugio nella memoria. A questo proposito coloro che perdono la vista rischiano di restare per anni, talvolta per sempre, degli ex vedenti che si comportano come sognatori di un tempo perduto, evitando i processi di adattamento e rincorrendo nei sogni ciò che la realtà non può più offrire. In questo senso occorre comprendere come una protesi retinica non costituisca il recupero di una esperienza perduta, se non in misura molto parziale. In ogni caso una protesi retinica non può prescindere da una complessiva risposta di adattamento da parte della persona non vedente. In una simile prospettiva è necessario che il desiderio di vedere venga rielaborato in un contesto di cambiamento e di rinnovamento, nel quale il passato non può esigere la sua immodificabilità. Curiosamente anche i non vedenti dalla nascita possono vivere l’esperienza visiva, in una dimensione fantastica e non cosciente, come un tesoro perduto per sempre che può essere riassaporato esclusivamente nella vita dei sogni. In queste situazioni, proprio perché
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Orizzonti della cecità
viene a mancare una memoria visiva, un’eventuale esperienza di adattamento verso forme di vista artificiale produce più che altro emozioni di sfiducia e di rinuncia. Non è adattabile infatti qualcosa che vive in noi al di là della memoria, nella forma incontaminata e soprannaturale del mitologico. Più realisticamente la vista potrebbe essere considerata come uno strumento, come un particolare tipo di finestra sul mondo. In questo modo essa si dimostra utilizzabile anche nelle forme più artificiali e parcellari. Il desiderio nell’esperienza della curiosità Quando desideriamo intensamente qualcosa che ci è stato precluso, il desiderio dimostra una maggiore adattabilità e può essere governato più facilmente. In questi casi infatti il desiderio vive più che altro nel rapporto fra noi e il mondo, in un contesto di nuove conquiste e di nuove esperienze. In altre parole la sua pressione è più erotica e meno narcisistica; è più rivolta verso gli oggetti della realtà e meno concentrata sulla rappresentazione del proprio sé. Per queste ragioni, in simili circostanze, il desiderio di vedere si lascia modellare e modulare dalla logica del «si fa quello che si può» e del «meglio poco che nulla». Secondo questa logica l’esistenza assume una fisionomia più dinamica, anche se forse un po’ meno ordinata. D’altra parte una quota sostenibile di disordine è la condizione che ci garantisce la libertà del cambiamento e del rinnovamento. Quando l’ordine costituito si rispecchia in se stesso i motivi della perfezione e i motivi dell’esperienza rischiano di entrare in un conflitto insanabile e paralizzante. Sempre nel più profondo rispetto per la sensibilità di ciascuno, ritengo che le prossime forme di vista artificiale che ci verranno proposte potranno offrirci interessanti e preziose esperienze sensoriali che ci aiuteranno a vivere meglio, oltre a nuove opportunità di conoscenza e di studio delle funzioni sensoriali.
Una condizione di complesso equilibrio
Osservazioni preliminari I servizi di consulenza e di orientamento, così come oggi vengono generalmente rivolti ai soggetti non vedenti e ipovedenti, presentano più che altro la tendenza ad agire e a riparare i danni della situazione, secondo schemi operativi e atteggiamenti poco predisposti ad accogliere e ad ascoltare la persona disabile. La persona che non vede richiede una consulenza poiché ha bisogno di essere ascoltata e capita, per avere poi la possibilità di capire le contraddizioni e la complessità della propria condizione. L’ascolto della persona disabile dovrebbe essere considerato come un processo, nel corso del quale un insieme confuso e disordinato di vissuti esperienziali assume lentamente le caratteristiche di un disegno mentale, di una rappresentazione rinnovata del proprio sé. Un simile processo, proprio perché trova la sua origine in una esperienza traumatica e in un’alterazione vissuta come essenziale, presenta naturalmente tempi e ritmi molto variabili, in rapporto con le capacità di elaborazione e di risposta presenti in ciascun soggetto. I principali aspetti che fondano la complessità dialettica della condizione di cecità possono essere elencati nel modo seguente: –– il desiderio di vedere; –– il rifiuto di conoscere la propria condizione sensoriale; –– la qualità dell’esperienza quotidiana del proprio limite sensoriale;
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–– la qualità della risposta all’insorgenza della minorazione nei suoi aspetti propriamente funzionali. Questi quattro aspetti fondamentali costituiscono le linee di evoluzione, ma anche le linee di involuzione del percorso di una persona di fronte alla sua limitazione visiva. Il desiderio di vedere L’ingenuità del senso comune ci indica l’opportunità, talvolta addirittura la necessità, di reprimere il desiderio di vedere della persona non vedente, quasi che la presenza viva e cosciente di un simile desiderio possa lacerare irreparabilmente la sua esperienza e la sua coscienza. Per converso si sta facendo strada anche la tendenza a soddisfare illusoriamente il desiderio di vedere della persona non vedente, attraverso esperienze suggestive, durante le quali il soggetto privo della vista costruisce, si fa per dire, prodotti significativi dal punto di vista visivo, come ad esempio disegni con le dita, fotografie, effetti luminosi, ecc. In entrambi i casi si tratta di atteggiamenti e di esperienze che non facilitano il confronto della persona non vedente con il desiderio di vedere, poiché nel primo caso si tende a mortificarlo e nel secondo si tende ad alimentare le fantasie di recupero della funzione visiva. Non è opportuno, invece, che il desiderio di vedere divenga una presenza costante nella coscienza della persona che non vede. Sia la repressione di tale desiderio, sia le fantasie di recupero della funzione visiva costituiscono una comprensibile e salutare valvola di fuga da una realtà che talvolta può assumere un volto eccessivamente penoso e frustrante. Riteniamo viceversa che tale valvola non possa opportunamente costituire una forma evolutiva di confronto con il desiderio di vedere. Per facilitare un simile confronto occorre comunque saper accogliere, nella sua drammaticità, la tristezza implicita in un desiderio legittimo che non può essere soddisfatto, perlomeno nella sua reale e immediata concretezza. Soprattutto quando viene compresa e accolta dalle persone che ci sono vicine, la tristezza ci consente di pensare e di promuovere un’evoluzione metaforica del desiderio, nella prospettiva di soluzioni concrete ma simboliche, capaci comunque di convogliare la vivacità e l’energia del desiderio originario in esperienze reali che, senza restituirci la
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funzione visiva, ci offrano il piacere di una rinascita della nostra integrità. Quando il desiderio di vedere non si incammina lungo i sentieri creativi della concretezza simbolica, esso è destinato a vivere la parte più consistente di sé durante l’esperienza onirica e l’esperienza fantastica, producendo effetti più o meno nocivi sull’equilibrio personale del soggetto non vedente. È purtroppo frequente osservare in un soggetto non vedente atteggiamenti e comportamenti che rivelano vistosamente il suo bisogno di ancorarsi ad appuntamenti mistico-sanitari o mistico-religiosi. In simili circostanze la persona non vedente organizza due esperienze quotidiane di base, diverse e complementari. Da un lato, un’esperienza quotidiana sfiduciata e depressa; d’altro lato fantasie quotidiane di puro desiderio, quasi del tutto svincolate, ab-solute, dai nessi causali del vivere ordinario. Per altro il desiderio di vedere può concretizzarsi anche nel tentativo e nello sforzo di apparire vedenti. In questo caso il dissidio tra realtà e fantasia procede oltre una semplice relazione di complementarità, assumendo le caratteristiche vere e proprie di un tragico paradosso, nel quale la finzione alimenta, allo stesso tempo, la fantasia di recupero della funzione visiva e l’angoscia della minorazione. Il rifiuto di conoscere la propria condizione sensoriale Nonostante il rifiuto di conoscere presenti con evidenza tutta la sua negatività, è importante sottolineare che anche questo rifiuto può svolgere una funzione considerevole nel percorso evolutivo di adattamento della persona non vedente di fronte alla propria condizione di cecità. A questo proposito dobbiamo considerare che la perdita della vista possiede una valenza affettiva che risulta per molti versi preponderante, se considerata in rapporto con gli effetti propriamente sensoriali. In questo senso la perdita della funzione visiva può essere verosimilmente paragonata alla perdita di un contesto affettivo, di persone e cose molto care. Una simile esperienza di perdita ha bisogno anche di una risposta di rifiuto cognitivo, poiché in questo modo la persona può prendere coscienza della nuova e difficile realtà secondo tempi e modi commisurati alle sue possibilità di rispondere con significato e con equilibrio. Pertanto il rifiuto di conoscere merita ascolto, rispetto e pieno riconoscimento di legittimità. Trattato con benevolenza e con intelligenza, il rifiuto di conoscere avrà semplicemente la funzione di
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conferire al processo di adattamento un andamento calibrato, al riparo dalle frenesie e dalle fughe in avanti della volontà. Viceversa, se trattato male con atteggiamenti di opposizione o di squalifica, il rifiuto di conoscere potrà favorire l’organizzazione di comportamenti ostinati e negativi, con i quali la persona non vedente potrà difficilmente orientarsi lungo i meandri della sua complessa condizione. Da un punto di vista propriamente scolastico, il rifiuto di conoscere dovrebbe essere considerato come un vero e proprio disturbo dell’apprendimento e conseguentemente trattato con la necessaria attenzione e cura. Si tratta di promuovere una vera e propria riattivazione della disposizione ad apprendere, che generalmente ha bisogno di una prima fase di contenimento affettivo, durante la quale l’alunno esperisce esclusivamente la buona disposizione dell’educatore nei suoi confronti. In una seconda fase l’alunno riesce a dichiarare o comunque a esprimere il proprio rifiuto di conoscere, che in tal modo perde l’originaria rigidità e assume una fisionomia più flessibile e intermittente. In una terza fase il rifiuto di conoscere diviene compatibile con la conoscenza della propria condizione sensoriale, assumendo più che altro la fisionomia di un atteggiamento di non rinuncia al superamento dei propri limiti sensoriali. Con il tempo tale atteggiamento potrà addirittura divenire sinergico e complementare alla conoscenza dei propri limiti. Infatti la coscienza dei limiti e la non rinunciabilità di un superamento dei limiti medesimi rappresentano la forma più adulta di una coscienza dove il realismo e la tensione ideale riescono a trovare un’efficace e serena coniugazione. La qualità dell’esperienza quotidiana del limite sensoriale Quando ci riferiamo alla condizione di cecità di una certa persona, non possiamo prescindere in alcun modo dalle circostanze psicosociali e socioculturali nelle quali tale condizione personale vive la sua esistenza quotidiana. Le abitudini dell’ambiente di appartenenza, i suoi pregiudizi e le sue fantasie, e le sue perturbazioni più o meno conflittuali incidono molto sul modo con cui il soggetto vivrà di fatto la sua condizione sensoriale. Qualunque sia l’ambiente di appartenenza, occorre comprendere che si tratta comunque dell’ambiente reale e quotidiano del soggetto, del luogo nel quale egli ha organizzato la rappresentazione del proprio sé e anche la propria identità
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personale. Quando in particolar modo la scuola organizza vere e proprie battaglie culturali, contesti giudiziari di condanna contro l’ambiente di appartenenza di un determinato alunno, essa ignora o finge di ignorare che in tal modo attacca e offende soprattutto l’integrità dell’alunno, rendendo molto più difficile il suo tentativo di conciliare e di calibrare conservazione e cambiamento, tradizione e rinnovamento. L’esperienza ci ha dimostrato con estrema chiarezza che il bambino non vedente, quando viene aiutato a conoscere le proprie reali possibilità, diviene capace di organizzare una duplice identità, vale a dire un sé scolastico che si evolve progressivamente senza entrare in conflitto con le personali abitudini socio-familiari. Non si tratta, come potrebbe apparire superficialmente, di un fenomeno di dissociazione, ma soltanto di un delicato processo di equilibrazione. A poco a poco il bambino diverrà infatti capace di introdurre nella propria famiglia e nel proprio ambiente un lento ma determinato processo di mutamento, nel corso del quale le sue effettive possibilità potranno affermarsi, rinnovando parzialmente anche l’intero contesto della famiglia. È necessario che la scuola impari a nutrire fiducia in una simile prospettiva e a organizzare con la famiglia una relazione più serena, caratterizzata soprattutto da un modo di comunicare rispettoso e propositivo, privo di accenti giudiziari e di strategie modellanti. Una scuola capace di credere nel valore delle proprie funzioni non entra in competizione con la famiglia, insidiando la vita interiore dell’alunno, ma si concentra nella sua prospettiva di apprendimento e di insegnamento. Soltanto così il bambino, e in particolar modo il bambino disabile, potrà sentirsi accolto e riconosciuto nella sua complessiva realtà personale. La qualità della risposta alla minorazione Occorre subito precisare che un soggetto privo della vista risponde generalmente al limite sensoriale restringendo il suo spazio di vita, per evitare soprattutto un confronto troppo doloroso e frustrante con le difficoltà e con le barriere presenti nella sua condizione. In altre parole possiamo dire che la persona risponde al limite, limitando la propria esistenza e conseguentemente anche i gradi della propria libertà. Questa risposta di reciprocazione del limite è la più tradizionale e nasce in buona sostanza
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dalla sfiducia della società negli strumenti di conoscenza posseduti dalla persona non vedente. Per questo motivo la scuola non dovrebbe limitarsi a promuovere un semplice inserimento sociale dei soggetti minorati della vista, poiché dovrebbe anche affermare l’efficacia dei mezzi di conoscenza presenti nella condizione di cecità. Per adesso, benché raramente, ciò è avvenuto e avviene soprattutto nel mondo dell’arte e dello spettacolo, piuttosto che negli ambienti propriamente scolastici. Si tratta di una lacuna molto grave che merita iniziative di vera e propria riparazione, capaci di offrire alla società un’immagine dei ciechi meno densa di pathos dell’oscurità e più ricca di informazioni positive e feconde. Nel frattempo spetta soprattutto ai ciechi, che ne abbiano la capacità, il compito di rendere più conosciuta la loro condizione sensoriale, dimostrando nel vivo della società l’efficacia e la validità dei propri strumenti di conoscenza. Rispondere a un limite mediante un processo di potenziamento compensativo è indubbiamente la cosa più difficile da fare. Ciò comunque non ci autorizza a pensare che la cosa più difficile debba necessariamente restare la cosa meno probabile. Nel caso dei ciechi la risposta di potenziamento compensativo, benché difficile, costituisce l’unico modo per offrire e restituire alla propria esistenza la dignità della conoscenza e il piacere di una libertà responsabile. Pertanto gli educatori e gli insegnanti dovrebbero lasciarsi ispirare dalla cultura del possibile, piuttosto che dalla cultura del probabile. È questa la condizione che potrà consentire alla scuola di emanciparsi e trascendere una concezione statistico-descrittiva del fatto educativo, per andare oltre la forza delle abitudini, lungo le vie della conoscenza e della buona volontà.
La conoscenza dell’opera d’arte
Queste mie considerazioni vogliono essere più che altro il ragionamento di un esperto interessato e informato, ma incapace di offrire un vero e proprio contributo scientifico. Per questo motivo cercherò di presentare le mie argomentazioni nella forma fluida del discorso, evitando nei limiti del possibile i riferimenti e le scomposizioni analitiche che renderebbero più difficile e faticoso a chi legge il significato complessivo della mia proposta. L’esperienza del bello e lo sviluppo di un raffinato sentimento estetico sono ingredienti essenziali per consentire a un soggetto non vedente una relazione con il mondo, con gli altri e con se stesso oltre i confini delle sue ferite narcisistiche, verso una prospettiva di conoscenza e di ricerca realistica del piacere. Privo di esperienze estetiche e di adeguate risorse sentimentali, il soggetto non vedente può restare concluso nell’angusto vissuto dell’irreparabile lasciando che l’invidia primaria divenga la forza motrice della sua esistenza. Soprattutto noi che abbiamo svolto per molti anni la delicata funzione di educatori, dapprima negli istituti per ciechi e successivamente nel contesto dell’integrazione scolastica, siamo convinti che la principale questione presente nella condizione di cecità sia come aiutare il bambino non vedente o gravemente ipovedente a concepire con gratitudine l’esperienza del vivere, quale occasione favorevole per essere nel mondo, con gli altri e con se stesso. In una simile questione, la funzione dell’opera d’arte occupa un posto di grande rilievo e merita quindi di essere considerata con estrema attenzio-
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ne. A questo proposito occorre precisare in primo luogo che l’opera d’arte dovrebbe essere considerata una presenza da vivere piuttosto che un oggetto da percepire. Per questa ragione il contesto nel quale si realizza l’incontro tra il soggetto e l’opera d’arte costituisce una condizione preliminare di estrema importanza. Naturalmente con la parola «contesto» intendiamo l’insieme delle circostanze sociali e ambientali che accompagnano l’incontro e offrono implicitamente al soggetto un’immagine di sé più o meno positiva. In questo senso possiamo dire che l’incontro con l’opera d’arte viene sensibilmente facilitato da condizioni socio-ambientali di sufficiente familiarità e di fiducia nelle possibilità del soggetto. Da un punto di vista percettivo occorre svolgere alcune considerazioni fondamentali. In primo luogo, le opere d’arte che si rivolgono ai sensi residui del soggetto non vedente non presentano, come è ovvio, alcuna difficoltà particolare e rappresentano pertanto il fondamento concreto del suo rapporto con il mondo artistico. Mi riferisco qui alla musica e alla letteratura che certamente non possono essere considerate arti minori. Nel caso specifico della poesia, quando le espressioni verbali alludono a esperienze propriamente visive, non possiamo che ripresentarle al soggetto non vedente mediante analogie presenti nella sua esperienza percettiva. Ci sono poi opere d’arte che, pur avendo un linguaggio propriamente visivo, si rivolgono anche e in modo significativo ai sensi residui del soggetto non vedente. I problemi che sorgono in questi casi sono prevalentemente di mediazione didattica e di integrazione immaginativa. Ad esempio, nel caso di opere scultoree e architettoniche, le opportune mediazioni linguistiche e figurative possono facilitare notevolmente nel soggetto non vedente una rappresentazione immaginativa dell’oggetto artistico. Soprattutto quando c’è armonia multisensoriale nel linguaggio di un’opera d’arte, il soggetto non vedente può giungere felicemente a una sua rappresentazione mentale realistica e a gustare alcuni suoi particolari mediante l’osservazione con i sensi residui. La scultura del Cinquecento è molto più avvicinabile dai soggetti non vedenti di quanto non lo sia la scultura del Ventesimo secolo. Nel caso del cinema il linguaggio artistico presenta una grande variabilità. Ci sono film che possono essere facilmente compresi e goduti dal soggetto non vedente, nonostante la privazione del messaggio visivo. Ce ne sono altri che presentano un linguaggio esclusivamente visivo che nella migliore delle ipotesi vengono compresi dal soggetto non vedente mediante le opportune integrazioni linguistiche, ma non goduti nella loro immedia-
La conoscenza dell’opera d’arte
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tezza espressiva. A mio modo di vedere le opere d’arte non soltanto visive costituiscono per i soggetti non vedenti il terreno di conquista culturale più interessante e accattivante. Nell’incontro e nel confronto con queste opere d’arte il soggetto non vedente integra e coordina meglio il proprio patrimonio percettivo, si avvicina in modo più sopportabile agli aspetti visivi del messaggio e ne comprende risvolti sempre nuovi che sollecitano e rinforzano il suo sentimento di appartenenza alla realtà dei vedenti. Ci sono infine opere d’arte che presentano un linguaggio propriamente ed esclusivamente visivo. In un certo senso queste possono essere considerate le opere d’arte che maggiormente sollecitano la curiosità dei soggetti non vedenti e ovviamente in particolar modo dei soggetti non vedenti dalla nascita. Questo accade perché tali opere d’arte si rivolgono proprio alla loro funzione mancante e rappresentano l’altro, l’aldilà da raggiungere a tutti i costi. Si tratta evidentemente di opere d’arte che non offrono a chi non vede la possibilità di un’esperienza immediata e che possono essere raggiunte esclusivamente per vie collaterali. La qualità della comunicazione assume in questi casi un’importanza focale, affinché il soggetto venga rispettato nelle sue effettive possibilità di esplorazione percettiva. Attualmente disponiamo di una fioritura di mediazioni figurative tattili che presentano ai soggetti non vedenti le opere dell’arte visiva, secondo una molteplicità di criteri per quanto concerne il materiale da usare, lo spessore, la delineazione delle forme e l’organizzazione figurativa dell’insieme. Personalmente ritengo che le migliori mediazioni figurative offerte al soggetto non vedente siano quelle che semplicemente consentono alla sua immaginazione di rappresentare il contenuto oggettivo e culturale dell’opera d’arte, senza simulare un’immediatezza esperienziale che non appartiene realisticamente alle possibilità di un disabile visivo. Generalmente il soggetto non vedente è già contento di riempire il vuoto racchiuso da una cornice con una rappresentazione figurativa e linguistica che ne illumini la storia, il significato e la fattura. Certamente egli avrà il desiderio e la speranza di vederlo, di entrare in contatto con il suo linguaggio specifico. Si tratta però di un desiderio che merita elaborazioni e risposte compensative, piuttosto che soddisfazioni illusorie. È nel confronto con il limite che il desiderio di vedere assume interamente la sua dignità culturale e può condurci verso scoperte scientifiche sempre nuove, capaci di offrire nuovi orizzonti alle prospettive di recupero della funzione visiva. Viceversa,
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sollecitando esperienza illusorie di soddisfazione del desiderio di vedere, il confronto con il limite si offusca e lascia il posto a tentativi di riparazione poco coerenti con il sentimento della realtà. Come si può osservare dalle precedenti considerazioni l’educazione della vita immaginativa, della condotta relazionale e delle esperienze fantastiche costituiscono il necessario corredo per una buona educazione sensoriale del soggetto non vedente. Aiutare il bambino disabile visivo a scoprire la bellezza del mondo e della vita significa aiutarlo a organizzare un potenziamento compensativo della sua personalità. Tale potenziamento non può essere ridotto alla conquista di alcune abilità e conoscenze. Necessariamente esso comprende anche l’apprendimento di alcuni atteggiamenti fondamentali, come ad esempio la disposizione a conoscere, la vivacità immaginativa e il piacere di rendersi utile. Simili atteggiamenti possono essere appresi principalmente attraverso attività ludico-sociali e prassognosiche. Ne consegue, naturalmente, che queste attività dovranno essere inserite nella vita scolastica e socio-riabilitativa in una misura davvero più consistente e qualificata.
Occhio non vede, cuore non duole
«Sono gli occhi che ci fanno sentire il mondo attraente, offrendoci la bellezza delle sue forme viventi e le maliziose tentazioni dell’orizzonte. Gli occhi ci consentono di scorgere gli oggetti del desiderio e la nostra vita diviene azione, ricerca, progetto. D’altra parte essi ci mostrano alcune ripugnanti brutture della realtà che francamente sarebbe molto meglio non vedere. La privazione della vista preclude entrambe le vie e conferisce alla vita mentale una pace, una chiarezza che rendono spesso il cieco capace di cogliere le verità profonde, fino a raggiungere la condizione della chiaroveggenza. Infatti il cieco non viene distratto o confuso dalle forme della vita esteriore e può concentrarsi sulla realtà umana osservando attraverso una luce spirituale ciò che gli altri non possono vedere.» Queste affermazioni rappresentano in sintesi uno tra i pregiudizi più antichi e suggestivi che dipingono la figura della persona non vedente. Volendo prescindere dai presupposti filosofici che orientano tale pregiudizio, qui ci interessa soprattutto mettere a fuoco la grave tesi che lo ispira in forma tacita e vistosa: «Proprio perché sono incapaci di percepire la manifestazione espressiva del mondo, degli altri e perfino di se stessi, i soggetti non vedenti sono incapaci di amare. Essi vengono a contatto con le verità più profonde dell’animo umano, restando però separati dalle dinamiche dell’azione e dalle esperienze relazionali.» Secondo una simile concezione pregiudiziale, la condizione di cecità consente un contatto con la verità, soprattutto nella sua dimensione ultra-
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mondana, ma non consente il contatto con la bellezza e neppure con la bontà, volendo escludere i suoi aspetti più utilitaristici. Proprio perché si tratta di un pregiudizio, non può risultare sufficiente una contestazione condotta sul filo del ragionamento e sulla base di un sereno esame della realtà. Occorre piuttosto ricercare l’efficacia del convincimento nel contesto dell’esperienza interpersonale, dimostrando con i fatti una competenza socio-relazionale in grado di penetrare nell’altro oltre i limiti del pregiudizio. Parafrasando l’espressione con la quale Augusto Romagnoli esortava i ciechi a essere amabili, potremmo dire: «Dimostrate agli altri di saper amare, poiché soltanto ciò potrà dissolvere questo arcaico e persistente pregiudizio negativo». Ma per dimostrare di essere capaci di amare, cosa bisogna saper fare? Quali sono gli ingredienti dell’amore? Quali le modalità più efficaci? L’esigenza di offrire una risposta ordinata e sintetica ci costringe in qualche modo a formulare uno schema che naturalmente presenterà i limiti caratteristici della semplificazione logica. Il desiderio di conoscere, la disposizione ad accogliere l’immagine che l’altro ci offre di se stesso, la capacità di esprimere i propri bisogni, la concezione di un possibile miglioramento di se stesso e dell’altro costituiscono i cardini intorno ai quali può evolvere e assumere consistenza il sentimento dell’amore. Nel suo significato più radicale il desiderio di conoscere rappresenta il superamento di un attaccamento esclusivo, con il quale il bambino resta confinato nell’ambito degli affetti materni e familiari. In altre parole il desiderio di conoscere può essere definito come l’interesse diffuso nello spazio e nel tempo, la curiosità rivolta verso gli oggetti del mondo. Naturalmente un simile sentimento presuppone la disposizione a incontrare nuovi oggetti d’amore e a rinnovare la propria relazione con la realtà. Frequentemente constatiamo che il bambino cieco non possiede questo sentimento, ma generalmente ciò dipende dagli effetti collaterali di una diseducazione involontaria. D’altra parte la fiducia, l’autonomia e l’iniziativa sono carenti in tutti quei bambini che non hanno l’opportunità di sviluppare le proprie competenze cognitive e affettive. In particolar modo il bambino cieco deve poter credere nell’efficacia dei propri mezzi di conoscenza, per desiderare di conoscere il mondo, gli altri, se stesso. Priva di tali requisiti una persona, cieca o vedente che sia, ci appare spenta, reclusa nei propri condizionamenti, incapace di offrire gratitudine all’esperienza del vivere. In secondo luogo la capacità di accogliere l’immagine che l’altro ci comunica di se stesso dipende soprattutto dalla
Occhio non vede, cuore non duole
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qualità del nostro sviluppo sociale. Molti fra noi vivono la comunicazione come uno spazio relazionale nel quale occorre occupare il centro, per non essere costretti dall’altro ad ascoltare cose che ci turbano, fatti che ci distraggono, pensieri ed emozioni che potrebbero cambiarci. Questa posizione egocentrica risulta generalmente fastidiosa, talvolta risulta affascinante, ma non può mai risultare amorevole. Nell’amore infatti noi siamo conquistati dall’altro, che regna sovrano nella nostra immaginazione e occupa uno spazio relazionale coerente con le proprie esigenze. Questa disponibilità comunque non deve essere intesa come una condizione passiva di subordinazione. Si tratta viceversa di una subordinazione attiva, vivace, convincente, ispirata e nutrita dal desiderio di conoscere l’altro. Di per sé la cecità non impedisce lo sviluppo di questa disposizione, ma certamente un contesto ambientale frustrante o eccessivamente protettivo può limitarla in misura significativa. In terzo luogo la capacità di esprimere i propri bisogni rende più stabile ed equilibrato il sentimento dell’amore, poiché da solo il desiderio può indurci a prendere un’eccessiva distanza dal confronto con i limiti della realtà. La capacità di esprimere i propri bisogni scaturisce dalla consapevolezza dei nostri limiti e dal confronto con essi. D’altra parte, il confronto con il limite non può e non deve reprimere il desiderio di oltrepassarlo e di estendere progressivamente i suoi confini. Questa dialettica tra bisogni e desideri offre significati e dinamismo alla nostra vita, regolando il suo flusso tra le sponde della dipendenza e della libertà. Una persona che senta eccessivi i propri bisogni può essere facilmente indotta a fuggirne, vivendo a quel punto il desiderio come alienazione dalla propria realtà personale. In ultima istanza la capacità di concepire il proprio miglioramento e il miglioramento dell’altro dipendono in misura preponderante dalla speranza di vivere in un mondo migliore e dalla capacità di immaginarne almeno alcuni aspetti. Questa tensione ideale rappresenta forse più di ogni altra la condizione dell’umanità, che attraverso simboli differenti e mutevoli e nonostante la forza delle abitudini non ha mai cessato di pensare al meglio, immaginando la sua realizzazione. Coloro che mancano di questa speranza potranno certamente vivere le attrazioni magnetiche del mondo e degli altri, ma non potranno trasformare queste attrazioni in una qualsiasi forma evolutiva del vivere insieme. Come si può facilmente constatare, la mancanza della vista non può costituire di per sé un ostacolo alla maturazione della capacità di amare, anche se gli effetti della disedu-
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cazione involontaria continuano a danneggiare in misura preoccupante lo sviluppo dei bambini non vedenti e gravemente ipovedenti. Enrico Ceppi diceva spesso che occorre in primo luogo aiutare il bambino non vedente a divenire amico di se stesso. Essere amici di se stessi ci consente di osservare la realtà con maggiore equilibrio e soprattutto di scorgere le opportunità in essa presenti. In ultima analisi è questa la virtù che più frequentemente viene a mancare nella persona non vedente, che non abbia ricevuto dall’ambiente educativo fiducia, accoglienza e riconoscimento. Aiutiamo pertanto i bambini non vedenti a innamorarsi della realtà e potremo così superare, in una sola volta, la loro chiusura e l’altrui pregiudizio.
La volontà di conoscere
In questa nostra società della tecnica e delle specializzazioni ci capita di immaginare che ogni problema possa trovare una soluzione mediante un meccanismo già pronto, ancora meglio se automatizzato da una scheda informatica. In altre parole ci piace sempre di più una vita nella quale qualcuno abbia già pensato tutte le soluzioni e a noi rimanga semplicemente il compito di riconoscere e di applicare ogni volta la soluzione corrispondente al nostro particolare problema. Talvolta continuiamo a pensare in questo modo perfino di fronte a situazioni molto complesse e ambivalenti, che viceversa richiederebbero, più che altro, il nostro spirito di ricerca, la nostra ragionevolezza, una buona dose di pazienza e molta, molta buona volontà. La condizione di cecità è appunto una di queste situazioni complesse e ambivalenti, che certamente si avvale anche di preziosi strumenti tecnici particolari, ma che altrettanto certamente esige la messa in opera delle virtù or ora accennate. Per essere ancora più precisi, dovremo dire che la condizione di cecità richiede simili virtù non soltanto al soggetto che la vive in prima persona, ma anche a coloro che in qualche modo vengano a confrontarsi quotidianamente con una persona non vedente. La condizione di cecità presenta una fisionomia enigmatica e talvolta sconcertante. Infatti il soggetto non vedente ci appare da un lato come un essere alienato dalla possibilità di conoscere e di agire, dall’altro lato ci appare spesso intelligente e sensibile, pronto a cogliere della realtà aspetti e sfumature che sfuggono alla nostra attenzione percettiva. È questa la ragione che ci spinge a cercare
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con fretta una ricetta di comportamento, recuperando sicurezza in uno schema pratico che ci allontani da uno spiacevole labirinto di sensazioni. In realtà, nelle situazioni interpersonali, le formule del tipo «si fa così» risultano favorevoli solo quando assumono un significato orientativo. In particolar modo con i ciechi prescindere dalla singolarità della situazione reale può indurci ad assumere condotte inadeguate e frustranti sia per noi che per il soggetto non vedente. Coloro che si avvicinano alla realtà dei soggetti disabili visivi vengono spesso turbati dalla complessità di questa condizione umana e pertanto sono attratti dalla possibilità di conquistare alcune semplificazioni logiche, tali da consentire soluzioni tecniche e automatiche. Dall’altra parte i mezzi di comunicazione di massa e il mercato tecnologico alimentano questa insidiosa attrazione. Una semplificazione logica, nel momento in cui si allontana da un contesto reale e penetra nel mondo dei nostri desideri, assume la fisionomia e la forza di un pensiero magico. Occorre comprendere che aiutare i ciechi non può prescindere dal dialogo con i ciechi e da un confronto quotidiano con i limiti derivanti dalla minorazione della vista. Per questo motivo il desiderio di conoscere meglio e di facilitare l’esistenza ai soggetti disabili visivi, per divenire un valido aiuto reale, deve essere accompagnato dalla capacità di paziente confronto con la condizione di numerose e diverse persone non vedenti o gravemente ipovedenti. Soltanto queste esperienze pratiche, guidate e ragionate mediante colloqui con personale qualificato, potranno offrire una conoscenza approfondita, al riparo dalle tentazioni della semplificazione logica. Da sempre è soprattutto lo studioso che continua a offrire dubbi al problema che studia, proprio perché la sua incertezza trova sostegno e orientamento nel piacere della conoscenza. Viceversa la persona che ancora teme gli sconvolgimenti provenienti dai percorsi di apprendimento deve essere aiutata a guardarsi dal bisogno di certezza e dal desiderio delle scorciatoie, che fatalmente ci allontanano dai difficili sentieri della realtà.
C’è ancora molto da conoscere
La consuetudine ci rende naturale l’ascolto dei ciechi, della loro voce, delle loro parole, che talvolta ci appaiono come il flusso di una sorgente misteriosa, che accarezza la nostra mente producendo suggestioni fantastiche e pensieri irreali. È la mente dei ciechi che soprattutto sollecita la nostra curiosità, poiché la immaginiamo immersa nell’oscurità di uno spazio segreto. Forse illuminato da un chiarore interno, prodotto da luci che trascendono le nostre cognizioni. Ascoltiamo le parole dei ciechi, talvolta il loro canto, con il desiderio di entrare in contatto con la realtà sconosciuta della loro mente, dei loro pensieri, delle loro immagini. Da parte loro, i ciechi hanno utilizzato prevalentemente la voce e la parola per socializzare le loro esperienze di vita con gli altri. Così facendo hanno conferito scarsa importanza alla loro realtà corporea e alla conquista dello spazio ambientale. Sono stati sempre un’esigua minoranza i soggetti non vedenti che hanno cercato nel movimento, nelle capacità spaziali, nelle abilità manuali, nell’interazione dinamica con i soggetti vedenti una realtà sociale privilegiata per la loro realizzazione umana. Il processo di integrazione scolastica e sociale è iniziato appunto sulla base di simili prospettive. D’altra parte bisogna pur ricordare che il professor Romagnoli, all’inizio di questo secolo, affermava con chiarezza e convinzione che il bambino cieco aveva bisogno, in particolar modo, di conoscere la corsa e i giochi di movimento, per poi dedicarsi allo studio e ai libri ben fornito di vivacità, di interessi, di esperienze piacevoli e reali.
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Anche per Augusto Romagnoli la scuola comune doveva essere considerata la sede ideale per concretizzare questi obiettivi, sempre che fossero forniti al bambino gli strumenti e le occasioni di sviluppo adeguati a favorire le sue effettive possibilità. Durante i primi anni Settanta questi pensieri divennero forti e insopprimibili, tanto da generare un cambiamento rapido e drammatico, forse un po’ frenetico, certamente vissuto con eccessive accentuazioni moralistiche circa le abitudini del passato. Più che altro si parlava dell’integrazione scolastica come qualcosa di giusto, di buono, come il segno di una società più bella e civile. Raramente si parlava e raramente si parla ancora oggi dell’integrazione scolastica come opportunità per conoscere meglio i bambini ciechi e, magari, anche i loro amici vedenti. Ci potremmo chiedere infatti come influisca la socializzazione delle differenze individuali sullo sviluppo del bambino non vedente, sull’estensione delle sue possibilità. In altre parole non c’è stata e non c’è tuttora una coniugazione tra integrazione scolastica e ricerca scientifica, come se la nuova realtà della scuola non mettesse in evidenza nuove realtà degli alunni che la frequentano. Le possibilità presenti in una persona sono profondamente connesse con la qualità del contesto della sua vita quotidiana e dipendono in forma ancora maggiore dalla qualità delle relazioni umane che caratterizzano il fluire della sua esistenza. Questo aspetto non ha ricevuto ancora la necessaria attenzione e cura, forse perché i significati che hanno ispirato l’integrazione scolastica e sociale sono stati prevalentemente la somiglianza e il piacere di vivere insieme. Senza voler minimizzare il valore di questi significati, giova ribadire con energia e con chiarezza che la socializzazione delle diversità individuali, soprattutto se vissuta come progetto per nuove conoscenze, può condurci, nonostante le difficoltà del percorso, verso una somiglianza più compiuta e lungimirante, rinnovando la nostra stessa identità personale e le nostre potenzialità collettive. Infatti le possibilità di una persona non vanno considerate riduttivamente nella prospettiva singolare dell’individuo. Sono la qualità del vivere insieme, l’adeguatezza delle regole che un gruppo concepisce per se stesso e la creatività con cui vengono percepiti i limiti di ciascuno che ci consentono di immaginare e di costruire un mondo migliore. Apprendere insieme, pensare insieme, lavorare insieme può addirittura coincidere con il sentimento della libertà personale, sempre che avvenga in un contesto dove le diversità individuali costituiscano i colori fondamentali della immagine del gruppo.
Seconda parte
In un mondo di vedenti. Autonomia o indipendenza?
Nella pagina precedente: Mario Devil, 2019 (disegno di Paolo Mazzeo).
Due obiettivi da conciliare
Si parla spesso di «autonomia» con argomentazioni e propositi che indicano soprattutto la volontà di raggiungere l’obiettivo dell’indipendenza. In questo senso ritengo possa giovare un chiarimento che distingua queste due parole nei loro rispettivi significati. L’autonomia riguarda le nostre modalità di partecipazione alla vita sociale, mentre l’indipendenza riguarda le nostre capacità di separarci dagli altri e di agire per nostro conto, senza confidare nella protezione di qualcuno. Evidentemente si tratta di significati che alcune volte risultano connessi e intrecciati, ma che altre volte si presentano addirittura in alternativa. Diciamo pure che in alcune circostanze e in misura ben calibrata possa divenire auspicabile un progresso dell’autonomia non accompagnato da un parallelo progresso dell’indipendenza. Analogamente può verificarsi che un passo in avanti sulla via dell’indipendenza (un’estensione dello spazio di vita) preceda opportunamente il raggiungimento di nuovi obiettivi nella dimensione dell’autonomia. Ad esempio un bambino, senza rinunciare all’aiuto e alla vicinanza della propria madre, può apprendere costumi e regole scoprendo così il piacere di una positiva partecipazione personale alla vita della famiglia. In questi casi il bambino avverte che i costumi e le regole sono conciliabili con la sua realtà personale e che, anzi, può trovare in quei costumi e in quelle regole una vera e propria affermazione di sé e una liberazione dal vissuto della vergogna, caratteristico di chi si sente inadeguato e fuori posto. In altri casi può accadere che il bambino, ad esempio, viva un eccesso di aspettative da parte dei suoi familiari e non
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riesca a trovare nei costumi e nelle regole un’opportunità di affermazione della propria realtà personale. In questi casi talvolta può risultare molto opportuno estendere lo spazio di vita sociale del bambino e promuovere in lui una parziale liberazione dal sentimento oscuro e oppressivo di un «dover essere» che non lascia spazio alla conoscenza di se stesso. Naturalmente è soprattutto la scuola che può sostenere un simile processo di liberazione e di conoscenza di sé, per poi facilitare il recupero dei significati e dei valori presenti nello sviluppo dell’autonomia. Immagino che a questo punto possa giovare un’ulteriore distinzione: mentre possiamo affermare con relativa sicurezza che il piacere dell’autonomia induca quasi fisiologicamente, nel corso del suo sviluppo, la ricerca e il gusto dell’indipendenza, non è possibile affermare con la medesima disinvoltura che la via dell’indipendenza implichi quasi naturalmente il piacere dell’autonomia e della partecipazione. Infatti la ricerca dell’indipendenza può facilmente acquisire un’intensità eccessiva e assumere così le caratteristiche dell’ostinazione, della sfida, dell’isolamento. In simili circostanze la persona può scivolare gradualmente nel culto dell’indipendenza che a questo punto assumerà le caratteristiche del mito. In tale prospettiva mitologica anche i costumi e le regole vengono vissuti come un vincolo oppressivo, come un ingiusto restringimento della propria libertà personale. Il mito dell’indipendenza può chiudere la persona in un vero e proprio sistema dell’orgoglio, dove i sentimenti di onnipotenza e di impotenza si alternano, si mescolano e si confondono, danneggiando gravemente la possibilità di relazioni interpersonali chiare e durature. I soggetti disabili visivi possono essere catturati dal mito dell’indipendenza con maggiore facilità, in particolar modo mentre cercano di fuggire dal confronto con il proprio limite sensoriale. Per questa ragione occorre dedicare una cura molto attenta e assidua ai processi di costumazione e di autoregolazione nella vita del bambino disabile visivo. Egli ha bisogno di constatare precocemente la possibilità di affermazione del proprio sé nel contesto della famiglia e della scuola, mediante costumi e regole capaci di rispettare, a un tempo, la sua somiglianza e la sua diversità dagli altri. La mancanza di una precoce cura educativa in questa direzione faciliterà soprattutto una risposta di evitamento del confronto con il limite e il bambino imparerà a fuggire da se stesso, sognando confusamente la sua uguaglianza sociale e la sua normalità.
Due obiettivi da conciliare
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Un effetto paradossale di simili circostanze è la spontanea combinazione di due elementi contraddittori: la ricerca di una mimetizzazione della diversità e il mito dell’indipendenza. Da un lato il soggetto cerca di apparire normale, evitando le manifestazioni del limite sensoriale, per lo più mediante il supporto visivo quasi permanente offerto con discrezione da un accompagnatore; d’altro lato egli cerca con atteggiamenti radicali la via dell’indipendenza, assumendo un comportamento orgoglioso e riluttante di fronte a qualsiasi forma di subordinazione. Questa condotta paradossale, tra indipendenza e iperdipendenza, rende la vita del soggetto particolarmente faticosa e densa di conflitti, destinati a produrre complicazioni non trascurabili nel corso della sua vita sociale. Francamente mi sembra che l’educazione dei bambini non vedenti e ipovedenti risenta di una più o meno grave disattenzione per quanto riguarda lo sviluppo dell’autonomia, nel senso ora indicato. Durante il convegno di New York, nel 1931, Augusto Romagnoli rivelò ai presenti che una partecipazione attiva e responsabile alla vita della sua famiglia poteva essere considerata il vero segreto positivo della sua crescita umana e sociale. Cerchiamo di osservare nel bambino non vedente il suo bisogno di partecipare e di rendersi utile; basterà questo per avviare lo sviluppo della sua autonomia e fondare le basi per una sua futura indipendenza.
Il diritto di essere ciechi
Quante volte, ogni giorno, ci capita di evitare un gesto, un comportamento, che renderebbe troppo evidente la nostra condizione di cecità? Talvolta simili rinunce scaturiscono dal desiderio di essere discreti, da un delicato sentimento di opportunità relazionale. Molto più spesso si tratta di rinunce nelle quali si restringe e si comprime il nostro disagio, vale a dire l’insufficiente stato di legittimità della nostra condizione sensoriale. A questo proposito occorre tener presente che ancora oggi la sfiducia, la vergogna e la colpa costituiscono le prevalenti emozioni che accompagnano l’esperienza della cecità, mentre la pena e la meraviglia ne costituiscono la corrispondente espressione sociale. D’altra parte la società, benché emancipata nel senso del risarcimento e della erogazione di servizi, non appare ancora predisposta a considerare la presenza di un soggetto non vedente come un evento ordinario e prevedibile. La comparsa sociale di un soggetto non vedente genera ancora, nella gran parte dei casi, un turbamento che assume in alternanza le manifestazioni della fuga e del pronto soccorso. Questa situazione sociale rende certamente più difficile alla persona che non vede la conquista di uno stato di fiducia, di partecipazione e di iniziativa. Egli viene indotto dalle circostanze a sentirsi fuori posto e a vivere, in qualche misura, la clandestinità della propria condizione, soprattutto per quanto riguarda i suoi effetti più intimi. Pertanto possiamo dire che non è affatto semplice superare questa condizione di disagio, questo sentimento di non legittimità. Non è facile
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soprattutto se ci troviamo in una condizione di solitudine, in una società di vedenti dove rappresentiamo qualcosa di singolare e di esclusivo. Il diritto di essere ciechi è una conquista personale che però si realizza molto più facilmente mediante la partecipazione alla vita associativa. È forse giunto il momento di pensare alla realizzazione di un grande convegno centrato sul diritto di essere ciechi, che l’Unione Italiana Ciechi potrebbe organizzare nel medio periodo. Ritengo che il sentimento del «noi ciechi» potrà ricevere da una simile iniziativa un piacevole rinnovamento e una più estesa vivacità culturale.
«Handicap». Il disagio di una parola
A partire dal suo ingresso in Italia, l’uso del termine «handicap» ha prodotto una confusione di significati che ancora oggi esige, da parte nostra, continue distinzioni. In una prima fase con la parola «handicap» si è voluto intendere il danno permanente conseguente a un evento morboso o traumatico. Successivamente si è precisato che l’«handicap» indica l’insieme di una disabilità funzionale e di un impedimento sociale che naturalmente aggrava le condizioni della disabilità. In una terza fase è stato affermato che l’«handicap» rappresenta una situazione nella quale le circostanze ambientali non prevedono la persona disabile e quindi costituiscono una vera e propria limitazione rispetto alle sue specifiche caratteristiche di comunicazione, di conoscenza e di movimento. D’altra parte l’espressione «portatore di handicap», non ancora scomparsa dall’uso quotidiano, continua a farci pensare che la persona disabile porti con sé il suo handicap, piuttosto che incontrarlo negli ambienti che frequenta. In verità si tratta di un bel pasticcio semantico nel quale vorremmo introdurre qualche cenno di chiarificazione. A nostro modo di vedere, occorre soprattutto distinguere con molta chiarezza il «danno», la «disabilità» e l’«handicap». Il danno è la privazione, sia funzionale che estetica, prodotta dall’evento morboso o traumatico. La disabilità rappresenta le possibilità residue presenti nella persona danneggiata, possibilità che, per divenire attuali, debbono essere riconosciute, sollecitate e sostenute. A sua volta l’handicap rappresenta la qualità del rapporto tra persona disabile e ambiente, prevalentemente nel
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senso del grado di corrispondenza da parte dell’ambiente alle diversità presenti nella persona disabile. Questa chiarificazione ci fa capire, ad esempio, che il disagio proviene soprattutto dall’handicap, mentre il danno e la disabilità procurano più che altro dolore e fatica. In un certo senso il superamento dell’handicap coinciderebbe, in grande misura, con il superamento del disagio. È già un sollievo, comunque, il fatto di poter chiarire definitivamente il significato della parola «handicap».
Protezione e iperprotezione
Soprattutto quando non se ne rende conto, la persona che non vede ha bisogno di essere protetta, poiché la sua condizione implica certamente qualche rischio in più e presenta inoltre uno sforzo di accomodamento quotidiano così costante da rendere opportuno il sollievo di una parziale facilitazione. Una simile esigenza di protezione viene spesso confusa con il desiderio, o talvolta con il bisogno, di eliminare dalla vita della persona non vedente il rischio e il dolore dell’esistenza, per compensare in qualche modo la fatalità negativa del danno sensoriale. Questa confusione genera una protezione del tutto particolare, con la quale si aiuta la persona non vedente a restringere e a semplificare il proprio spazio di vita. Purtroppo le persone che generalmente proteggono in questo modo non comprendono come una vita angusta e semplificata implichi un disagio ben più penoso e spiacevole del dolore proveniente dal confronto con la cecità, vissuto in un contesto reale esteso, articolato e dinamico. Possiamo pertanto definire iperprotezione quella forma di aiuto che logora e offende la fiducia della persona (sia disabile che normodotata) nelle proprie possibilità di autonomia e di iniziativa, limitando i gradi della sua libertà e della sua responsabilità. In altri termini, un conto è aiutare una persona a vivere un’esperienza pericolosa e un altro conto è vivere quell’esperienza al suo posto, invitando la persona a una partecipazione indiretta, mediante un’esperienza di comunicazione. Volendo scivolare ancor più nella concretezza del particolare, un’esperienza protetta è un’esperienza sostenuta e
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guidata, un momento di passaggio verso la conquista di un’esperienza autonoma. Viceversa un’esperienza iperprotetta è un’esperienza non vissuta, ma semplicemente suggerita attraverso informazioni e sollecitazioni suggestive. In definitiva, un’esperienza iperprotetta rappresenta la mutilazione della ricerca soggettiva e quindi una vera e propria deprivazione del gusto di esistere. È il gusto di conoscere, di scoprire, di concepire, di iniziare e di riuscire che restituisce alla persona non vedente il pieno sapore della vita: facciamo di tutto per favorire e comunque per consentire che ciò accada.
Il padre cieco: cecità e autonomia
Quando il padre è non vedente Le rapide e complesse trasformazioni socioculturali che hanno caratterizzato, durante questi ultimi decenni, il flusso del nostro vivere sociale rendono particolarmente difficile la definizione del ruolo paterno nel contesto della famiglia. Volendo eludere un tentativo che ci condurrebbe in un labirinto di variabili e di contraddizioni, possiamo limitarci ad asserire che il padre conserva nella famiglia una funzione di coordinamento, con la quale le regole di ciascun membro trovano una cornice che per un verso le compone e per altro verso le dispone a confrontarsi con la realtà extra-familiare. In buona sostanza si tratta di una funzione rassicurante che viene vissuta dagli altri come un elemento di fiducia e di orientamento. Occorre forse precisare che il ruolo paterno, per acquisire una fisionomia equilibrata ed efficace, deve essere controbilanciato dal ruolo materno, con il quale i membri della famiglia respirano un sentimento di comunione e di continuità. Volendo semplificare e ridurre la questione entro uno schema logico, potremmo dire che mentre la madre offre alla famiglia attendibilità, regolarità e attenzione, il padre offre chiarezza delle regole, distinzione delle identità personali e sollecitazioni verso progetti. Come si può ben constatare, entrambi i genitori costituiscono fonte di rassicurazione: la rassicurazione materna viene trasmessa soprattutto attraverso un segnale analogico di somiglianza, di rispecchiamento e di reciprocità, mentre la rassicurazione
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paterna viene trasmessa più che altro mediante segnali di autorevolezza e di abilità. A questo punto è necessario chiarire che non sempre il ruolo paterno viene svolto dal genitore maschio, così come non sempre il ruolo materno viene svolto dal genitore femmina. Nella maggior parte dei casi può verificarsi una mescolanza di questi ruoli nell’ambito della coppia genitoriale, cosa che rende più complesso, ma anche più ricco, il processo di identificazione sessuale dei figli. Dopo aver svolto queste brevi considerazioni preliminari, ci possiamo finalmente chiedere se la disabilità visiva costituisca un impedimento o comunque una difficoltà rilevante per un uomo che venga chiamato dalle circostanze o dalla propria volontà a svolgere la funzione di padre. Generalmente, quando si affronta un simile problema, ci viene subito da pensare ai compiti di controllo, di vigilanza e di soccorso dei bambini, in particolar modo se bambini molto piccoli. Effettivamente se ci concentriamo su questo punto la minorazione della vista costituisce un limite molto serio e non trascurabile, soprattutto in ambienti non conosciuti e in situazioni non familiari. Un padre non vedente può dimostrarsi poco adatto a tutelare l’incolumità fisica di suo figlio, anche se dobbiamo dire che frequentemente la disattenzione genitoriale produce molti più guai della condizione di cecità. In ogni caso bisogna comprendere che qui stiamo parlando di una prestazione di vigilanza e non certamente della funzione paterna. Se non riusciamo a distinguere le funzioni educative primarie che debbono essere svolte dai genitori e le cosiddette funzioni di assistenza educativa, che possono essere svolte dai genitori e anche da assistenti della famiglia, questo nostro discorso rischia di essere compromesso da un grave vizio di impostazione. Escludendo alcune cure materne fondamentali, che opportunamente dovrebbero restare congiunte con la funzione materna primaria, tutte le altre funzioni genitoriali non dovrebbero essere percepite come prestazioni, poiché riguardano quasi interamente l’interazione e l’interdipendenza nell’ambito di una relazione interpersonale. Sono la convivenza e la coesistenza dei figli con i loro genitori che offrono l’opportunità di una buona crescita, quando sono caratterizzate prevalentemente da qualità positive. Un padre non vedente non viene diminuito dalla sua disabilità sensoriale, poiché essa non è parte della sua funzione paterna, ma soltanto elemento della sua dimensione umana. La disabilità visiva può disabilitare la funzione paterna soltanto nel caso in cui la persona non vedente viva la propria mino-
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razione come causa di complessiva inferiorità e con sentimenti di squalifica della propria identità sociale. In tal caso sarà anche probabile che operi una scelta coniugale coerente con questo suo intimo sentimento, trovandosi poi a vivere con una moglie non disposta a riconoscergli l’integrità e la dignità del ruolo paterno. Può accadere anche di peggio quando la cecità sopraggiunge nel corso della vita coniugale, dopo la nascita di uno o più figli. In simili circostanze l’intero contesto socio-familiare può spontaneamente squalificare la funzione paterna della persona divenuta non vedente. Naturalmente i figli avvertono la tacita squalifica del padre e ne vengono sensibilmente disorientati. In questi casi non è davvero facile rimettere le cose a posto, perché si tratta di atteggiamenti che nascono da remote convinzioni pregiudiziali che difficilmente potranno essere rivisitate. Decisamente meno grave, anche se fastidiosa, è la squalifica che scaturisce dall’ambiente sociale generico, dalle parole e dai gesti della gente che si incontra negli ambienti pubblici. In queste situazioni il bambino avverte l’aggressività e la spiacevolezza del messaggio, non sempre ne coglie l’autentico significato, ma comunque lo rifiuta cercando successivamente di evitarlo, così come si evita il dolore quando ci appare estraneo al sentimento della necessità. Verso i dodici anni, mio figlio cominciò a rifiutare di accompagnarmi al supermercato, proprio perché in questo luogo gli altri clienti lo guardavano stranamente, mentre io toccavo le merci disposte sui banchi. Ricordo che fu importante rispettare la sua sensibilità. Il rispetto della sua posizione lo aiutò a conquistare la dignità della mia condizione sociale e a imparare come ci si comporta di fronte agli atteggiamenti intrusivi e compassionevoli, così frequenti in questa nostra società. Ancora una volta è il caso di ribadire che la condizione di un disabile dovrebbe essere più compresa e meno sofferta. Quando l’intelligenza prevale sul pathos, quasi magicamente le cose si semplificano, i dilemmi diventano problemi e le tragedie si trasformano gradualmente in storie di vita. A proposito di fiducia Il motivo principale che ci suggerisce di limitare la vita sociale di un soggetto minore è la convinzione che egli non abbia una sufficiente conoscenza dei propri limiti e delle proprie possibilità. Infatti l’autonomia e la
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responsabilità scaturiscono prevalentemente da questa conoscenza che ci consente di misurare il pericolo presente nelle nostre iniziative e di organizzare consapevolmente le relative circostanze pratiche. In altri termini la dipendenza consapevole dagli altri non compromette di per sé la cognizione dell’autonomia, anche se purtroppo la rende più impegnativa, più faticosa e anche più costosa. In tal senso ci sembra di poter asserire che una limitazione funzionale, purché consenta alla persona che ne vive gli effetti una sufficiente coscienza della propria condizione, non può essere indicata come causa di non autonomia. La condizione di cecità è particolarmente dolorosa proprio perché consente una lucida coscienza della perdita e del limite. Nel caso specifico dei cosiddetti «ciechi divenuti» tale coscienza assume addirittura una chiarezza così brillante da offuscare per contrasto la fiducia nelle proprie possibilità. Pertanto possiamo essere certi che una persona divenuta non vedente, nel pieno possesso delle facoltà mentali, non sottovaluti le insidie provenienti dalla propria limitazione e cerchi protezione nelle varie situazioni della vita sociale allo scopo di provvedere alla propria incolumità. Naturalmente un genitore non vedente dotato di simile consapevolezza sarà spontaneamente indotto a cercare protezione per salvaguardare l’incolumità, la salute e il bene dei propri figli in misura anche maggiore di quanto non faccia per se stesso. Conseguentemente non riconoscere a un simile genitore questo naturale sentimento di responsabilità e la capacità di concretizzarlo in un adeguato rimedio implica un’offesa della sua immagine personale e una squalifica del suo ruolo sociale. In simili circostanze la fiducia è un atto dovuto, sempre che non avvengano fatti tali da comprometterne realisticamente l’esercizio. Talvolta la sfiducia è il frutto dell’ignoranza o del pregiudizio. Tali barriere culturali esigono un superamento, poiché costituiscono ancora oggi il principale danno per la qualità dell’esistenza dei cittadini disabili.
Tra madre e figlio. Uno spiacevole paradosso
Durante la mia esperienza di consulente psicologo ho avuto molto spesso l’occasione di percepire le difficoltà di sviluppo e di apprendimento di un bambino non vedente, accompagnate fedelmente e talvolta commentate da espressioni di dolore da parte di sua madre. I due aspetti sono così coniugati e compresenti da assumere una fisionomia molto naturale e da sfuggire, pertanto, alla nostra osservazione critica. Quando i fatti presentano una loro naturalezza, vale a dire una loro familiare fluidità, ci diviene facile accoglierli immediatamente, senza porli in discussione e senza cercare in essi la presenza di eventuali contraddizioni. Il paradosso è appunto una circostanza complessa, che si presenta con estrema naturalezza, tanto da nascondere il conflitto profondo che in essa vive, producendo un danno graduale ma inesorabile. Qual è il rapporto tra la difficoltà di crescita di un figlio e l’espressione di dolore da parte di sua madre? Chi si trova costretto a vivere l’impegno e il disagio dell’esistenza in una condizione di parziale disorientamento ha soprattutto bisogno di essere aiutato a comprendere le proprie possibilità e i propri limiti, per riprendere il cammino della vita con rinnovata consapevolezza e fiducia. Ancorata com’è all’esperienza del danno da lei generato, la madre vive soprattutto il dolore e l’ira, considerando queste emozioni le risposte più autentiche. Il limite del figlio produce in lei il sentimento angoscioso dell’irreparabile. L’emozione tragica del limite non ci consente infatti di concepire una possibile e parziale riparazione, ma esclusivamente un totale annullamento del danno.
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Di fronte al dolore della madre, il bambino teme di esserne l’origine e generalmente si concentra nel tentativo di modificare tale espressione del dolore verso atteggiamenti più armoniosi e confortanti. Quando il bambino fallisce in questo tentativo, appare talvolta impegnato a irritare sua madre, a sollecitare la sua impazienza e la sua disapprovazione. Infatti il bambino cerca comunque una via d’uscita, poiché non riesce a sopportare il dolore assoluto della madre. Oltre alla colpa egli vive, in un simile dolore, la dimensione catastrofica di una situazione che si presenta opprimente e intrattabile. Egli avverte oscuramente in se stesso qualcosa di non accettabile, un qualcosa che può essere superato esclusivamente con una finzione, «facendo finta di niente». In questo modo però l’impegno a esistere, da parte del bambino, diviene un impegno senza confronto con il limite, un impegno che implica un insanabile conflitto interiore. Ecco perché la coppia madre-bambino cieco esige un sostegno terapeutico, un aiuto qualificato dall’obiettivo di distinguere le due situazioni personali, allo scopo di facilitare in ciascuna di esse un’adeguata e specifica evoluzione. Il bambino cieco potrà così affermare il senso e il valore della propria autonomia e divenire degno di essere conosciuto, di conoscersi e di conoscere. La madre potrà finalmente esprimere tutto il proprio dolore a qualcuno che sia capace di ascoltarne il sussulto e gli accenti più disperati, per divenire, come il figlio, degna di essere conosciuta, di conoscersi e di conoscere. In definitiva, si tratta di due percorsi che, per divenire simili e costruttivi, hanno prima bisogno di essere distinti e sostenuti. Questo difficile compito, troppo delicato e complesso per nascere spontaneo, chiede a tutti noi una risposta più decisa, più determinata e più qualificata. Cerchiamo di rendere il volto materno di questa nostra società più responsabile e meno compassionevole, mediante servizi socio-sanitari capaci di accogliere la specificità delle singole situazioni, per consentirci di guardare, perlomeno in qualche misura, oltre l’orizzonte del disagio.
I genitori del bambino non vedente
Introduzione Ci dimentichiamo spesso che i genitori del bambino non vedente sono semplicemente dei genitori, simili a tutti gli altri, destinati pertanto a sbagliare in questo loro difficile compito educativo. Non si tratta, così come potrebbe sembrare, di una chiarificazione superflua, poiché ci capita anche troppo spesso di mostrarci comprensivi verso i limiti dei genitori e di assumere in particolar modo un atteggiamento più esigente e intransigente di fronte ai genitori del bambino cieco. Evidentemente la cecità di un figlio rende molto più difficile il compito dei genitori e più comprensibili le loro eventuali manchevolezze. Per quale ragione pretendiamo da questi genitori, così provati da una vicenda complessa e perturbante, una quasi perfezione che neanche ci sogniamo di esigere dagli altri genitori, che generalmente vivono situazioni familiari più fluide e regolari? Non sarà forse che li riteniamo responsabili di aver messo al mondo un figlio non vedente e quindi nel sacrosanto dovere di mettere riparo con le loro forze a un limite che senza di loro non sarebbe divenuto concreto? I genitori del bambino non vedente sono già fin troppo soli di fronte a questo loro problema e queste nostre facili pretese rendono il loro compito ancora più difficile e tormentoso. Occorre viceversa costruire intorno alla famiglia del bambino non vedente una rete di solidarietà qualificata,
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poiché i problemi che la coinvolgono oltrepassano i confini del perimetro familiare e costituiscono una vera e propria emergenza sociale. Una famiglia che si sente sola di fronte al proprio bambino non vedente, a meno che non possegga doti eccezionali, è destinata a commettere una serie quasi interminabile di errori educativi e a compromettere in misura più o meno grave lo sviluppo del figlio disabile visivo. Cerchiamo pertanto di vivere i problemi del bambino non vedente con la sua famiglia, mediante una relazione di aiuto che non degeneri mai nella mancanza di rispetto e nella delegittimazione della funzione genitoriale. Da questo clima di collaborazione e di dialogo potrà certamente scaturire un atteggiamento di osservazione, di riflessione e di ricerca che ci condurrà a comprendere insieme il bene educativo del bambino. L’incontro con il consulente psicologo Non dovremmo meravigliarci se i familiari del bambino non vedente, nel momento dell’insorgenza del suo deficit visivo, concentrano la loro attenzione e le loro aspettative intorno alle soluzioni radicali del problema, vale a dire quelle capaci di cancellarlo e di restituire la situazione precedente. In questo senso, bisogna dire che la figura dello psicologo non promette niente di buono e in qualche modo lavora per favorire una migliore conoscenza di qualcosa che i genitori non vorrebbero neanche percepire. A questo proposito gli oculisti possono svolgere una preziosa funzione coadiuvante. Infatti, mentre svolgono la loro specifica funzione professionale possiedono l’opportunità di aiutare i genitori a capire che la consulenza di uno psicologo potrà comunque aiutarli a vivere le difficoltà presenti nella loro condizione. Per questa ragione è auspicabile che le strutture di accoglienza per la famiglia del bambino non vedente vengano dotate di un gruppo pluridisciplinare di professionisti, capaci di intervenire insieme sui molteplici aspetti del problema. Naturalmente il primo incontro con il consulente psicologo assume un’importanza quasi decisiva. Non si tratta di conquistare la fiducia dei genitori, poiché questo obiettivo oltrepassa di molto i limiti di un solo incontro. Si tratta viceversa di offrire ai genitori ciò di cui hanno più bisogno, con la semplicità di chi conosce il problema
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nei suoi aspetti più generali ma desidera comprendere la loro situazione particolare, vale a dire la storia, le circostanze e i vissuti personali che caratterizzano la loro realtà, a prescindere da classificazioni e da collocazioni statistiche. Quando vengono aiutati a esprimersi, senza la pressione di un orologio e di un questionario, i genitori raccontano la loro drammatica vicenda con parole e frasi più significative che, nonostante il disordine dell’esposizione, rappresentano molto bene la loro condizione reale. In definitiva nel corso del primo incontro i genitori del bambino non vedente possono vivere finalmente il piacere di esporre la loro storia a una persona che vuole conoscerla, per esserne partecipe e comprenderla nei suoi aspetti più profondi e indicativi. In tali circostanze i genitori apprendono spontaneamente che la loro storia può risultare interessante, degna di essere raccontata e conosciuta. Questa nuova consapevolezza potrà aiutarli efficacemente a percepire con maggiore attenzione i diversi aspetti della situazione e a maturare verso il figlio non vedente (e anche verso se stessi) una capacità di osservazione e di apprendimento. La consapevolezza del rifiuto Qui occorre subito chiarire che quando si parla di rifiuto da parte dei genitori ci si riferisce soprattutto al mancato riconoscimento del figlio e all’effetto angoscioso di estraneità che ne consegue. La minorazione della vista del bambino impedisce ai genitori di guardarlo come un figlio vero e proprio e di avvicinarsi a lui con la naturalezza e con la curiosità che generalmente caratterizzano il comportamento genitoriale. Durante la gravidanza essi hanno sognato l’arrivo di un bambino sano e libero e non si rassegnano all’idea di averlo perduto. È questa la ragione che li spinge a cancellare in ogni modo e a ogni costo la minorazione della vista, per ritrovare finalmente quel bambino tanto sognato e tanto desiderato. Il più delle volte si tratta di un rifiuto quasi del tutto inconsapevole o comunque inconfessabile. I genitori sentono il peso di tre colpe insopportabili e sono pertanto indotti a fuggire dalla propria vita interiore chiudendosi in una condotta piuttosto rigida e automatica. Essi avvertono oscuramente la colpa di aver generato un figlio non vedente, la colpa di rifiutarlo in quanto
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non vedente e anche la colpa di essere inadeguati a confrontarsi con le sue esigenze particolari. Francamente non è facile aiutarli a considerare con attenzione queste loro spiacevoli e intime emozioni per osservarle con occhi più benevoli, come l’effetto contraddittorio e ineluttabile di una difficile situazione. Durante questa fase dei colloqui occorre davvero saper condividere con umiltà e partecipazione la scabrosità delle loro esperienze vissute, offrendo gradualmente alla loro capacità di rappresentazione le parole per esprimere la penosità di un conflitto che appare impossibile da conciliare. La consapevolezza e la dichiarazione del rifiuto costituiscono il primo grande passo verso un confronto più realistico con il bambino non vedente. La mitigazione del senso di colpa, una parziale ma significativa conciliazione del figlio immaginato con il figlio reale, consentono ai genitori di assumere un comportamento riparatorio meno condizionato dalla mania di risanamento e orientato, almeno in parte, dalla prospettiva dei miglioramenti praticabili. Non bisogna pensare che una simile evoluzione possa avvenire in forma lineare e progressiva. Essa si manifesta in forma discontinua e irregolare, tracciando accelerazioni e improvvise regressioni, accusando periodi di stasi e decisivi recuperi di fiducia. Naturalmente al consulente spetta di favorire questo cammino, rispettando pazientemente il suo corso e offrendo la sua stabile fiducia come riferimento per le risorse del bambino e dei suoi genitori. Tutte le volte che il consulente decide quali debbano essere i tempi dell’evoluzione e cerca di indirizzare con eccessive pressioni il percorso della famiglia, questo delicato processo di miglioramento rischia di venire compromesso o comunque di assumere vizi involutivi difficili da correggere. Non di rado la consulenza viene ridotta e squalificata a un insieme di istruzioni per l’uso, comunicate ai genitori con accentuazioni pragmatiche, qualche volta addirittura sbrigative. Queste superficiali e inopportune sollecitazioni non aiutano certo i genitori a rinascere nella funzione di educatori del proprio bambino. Nella migliore delle ipotesi essi verranno indotti ad assumere una sorta di funzione riabilitativa che complicherà ulteriormente la relazione genitori-figlio, compromettendo talvolta l’equilibrio del sistema familiare. La drammatica urgenza di una situazione non può essere controbilanciata dalla fretta dell’agire. Occorre viceversa saper riconoscere gli autentici nodi del problema e scioglierli uno per volta, con prudente determinazione.
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Il significato di un doloroso evento Quando ci accade qualcosa di molto spiacevole, qualcosa che appare più grande di noi e che interrompe bruscamente il corso regolare della nostra esistenza, siamo indotti a cercare una ragione, una spiegazione che in qualche modo possa giustificare l’accaduto. Domande del tipo «perché è successo proprio a me?», «che cosa ho fatto per meritare tutto questo?», «perché queste cose non accadono a quelli che si comportano molto peggio di me?» tormentano giorno dopo giorno la nostra mente senza produrre il minimo beneficio. Volendo parlare in modo rigoroso, si tratta di domande che rivelano l’incapacità di confrontarsi con il mistero del vivere, con la casualità degli avvenimenti. Vogliamo a tutti i costi inserire l’evento spiacevole in una chiara sequenza logica. Siamo disposti ad accettare anche una spiegazione opprimente e dolorosa, purché ci liberi dalla necessità di confrontarci con ciò che è misterioso e aspetta da noi una risposta. In un certo senso vogliamo fuggire dalla libertà di offrire noi, con il passare del tempo, all’evento spiacevole un significato capace di colorire in qualche modo il corso della nostra esistenza. La fiducia nella possibilità di offrire un significato al mistero della vita con la nostra sensibilità e con la nostra intelligenza, ma anche con l’aiuto di coloro che ci dimostrano la capacità di comprendere e di partecipare, rappresenta il cardine attraverso il quale noi oltrepassiamo il limite degli atteggiamenti compassionevoli e dei comportamenti reattivi e ostinati. Solo grazie a una simile fiducia possiamo entrare finalmente in una dimensione di apprendimento per conoscere i limiti e le possibilità presenti nella condizione che siamo costretti a vivere. Per favorire tutto questo ritengo necessario che il consulente psicologo possieda un’eccellente conoscenza di se stesso e abbia vissuto, almeno in qualche misura, difficoltà simili a quelle dei genitori del bambino non vedente. Infatti i genitori hanno bisogno di ascoltare parole credibili che scaturiscono da una partecipazione profonda e consapevole. Fuori da una esperienza di intima condivisione, la pacatezza, la stabilità e la fiducia del consulente vengono percepite come l’esito scontato di una minimizzazione del problema, vale a dire come il frutto del disinteresse. Quando i genitori cominciano a cercare un significato da offrire alla condizione del figlio non vedente, alla sua crescita e al suo destino, la loro vita si trasforma,
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diviene attiva, curiosa e interessante, poiché assume la dimensione della scoperta e della crescita comune. In questi casi, purtroppo improbabili, l’insorgenza della minorazione visiva punteggia l’inizio di una rinascita e di un cambiamento che coinvolge interamente il senso della vita. Questi casi possono divenire un po’ meno improbabili, ma dobbiamo riuscire a formare consulenti più adeguati per questa delicata funzione. A questo proposito vorrei dire che un consulente psicologo non vedente, proprio in virtù della propria limitazione sensoriale, sempre che abbia raggiunto il necessario livello di maturità professionale, può essere considerato come il consulente ideale per simili situazioni. Soprattutto se è coadiuvato dalla valida assistenza di un collaboratore vedente, la sua può divenire una consulenza-testimonianza capace di offrire ai genitori un concreto riferimento allo scopo di percorrere con maggiore solidità le tappe evolutive che abbiamo descritto. Un centro clinico-pedagogico per i genitori del bambino non vedente La funzione del consulente psicologo presenta dei limiti insormontabili, se prendiamo in considerazione il bisogno dei genitori di essere accolti in un servizio capace di contenere il loro turbamento e di guidare la loro funzione genitoriale attraverso fatti da percepire piuttosto che parole da ascoltare. In questi servizi, per ora quasi inesistenti, i genitori possono finalmente usufruire di uno spazio sociale e istituzionale organizzato su misura allo scopo di riattivare, sostenere e guidare la loro funzione educativa. A questo proposito occorre chiarire che i semplici suggerimenti non sono sufficienti, poiché la famiglia deve conquistare nuove abitudini e vincere gradualmente la resistenza che la induce a conservare la tradizionale routine. Infatti nella famiglia è molto forte il timore di perdere la propria identità. Soprattutto i cambiamenti che incidono sulla vita quotidiana e sull’organizzazione della famiglia non possono essere decisi a tavolino. Occorre favorire, viceversa, l’assimilazione del cambiamento per apprendimento spontaneo, vivendo situazioni coinvolgenti e significative, durante le quali si manifesta con evidenza il miglioramento del bambino. La percezione dei miglioramenti e il piacere di esserne il promotore potrà indurre i genitori
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a vincere la forza delle vecchie abitudini e a muoversi con fiducia verso la conquista di una diversa organizzazione. In buona sostanza, le tappe cruciali di un simile percorso sono quattro: 1. imparare a comunicare con il bambino non vedente, rispettando e valorizzando la sua condizione sensoriale; 2. insegnare al bambino non vedente a muoversi per conoscere l’ambiente che lo circonda, utilizzando soprattutto i suoi strumenti sensoriali e chiedendo aiuto soltanto nelle situazioni di effettiva necessità; 3. insegnare al bambino a operare per rendersi utile nel corso della vita domestica e a divenire partecipe delle attività familiari; 4. aiutare il bambino a utilizzare la vista degli altri, allo scopo di acquisire una autonomia non esasperata dal desiderio dell’indipendenza. Con simili presupposti educativi il bambino non vedente potrà ben presto manifestare le proprie possibilità. In particolar modo egli potrà manifestare la sua vivacità, il suo dinamismo, la sua allegria, aspetti che potranno dissolvere ulteriormente le incertezze e le esitazioni della famiglia. La mancanza dei centri clinico-pedagogici ci obbliga a collocare anche questa funzione di guida nell’ambito della consulenza. Nella migliore delle ipotesi possiamo disporre di operatori tiflologici capaci di svolgere un servizio di assistenza domiciliare, durante la quale i suggerimenti del consulente possono concretizzarsi in esperienze pratiche guidate. Bisogna dire però che in un simile contesto i genitori si sentono più guidati che accolti e la loro disposizione a vincere le vecchie abitudini si sviluppa in modo molto più lento e contraddittorio. Il servizio domiciliare infatti può divenire un ottimo coadiuvante per consolidare le esperienze vissute durante l’accoglienza in un centro clinico-pedagogico. Considerato in se stesso, il servizio domiciliare presenta molti limiti e difficoltà che spesso non ci consentono di raggiungere risultati soddisfacenti. Qualcuno potrebbe aggiungere che in molte zone non esiste neanche il servizio domiciliare e la consulenza si dimostra piuttosto improvvisata. Purtroppo non possiamo che confermare tale affermazione, poiché descrive semplicemente la realtà dei fatti. Abbiamo davvero un lungo cammino da percorrere che non ci consente di indugiare nei sospiri e nei lamenti. Dobbiamo soltanto raccogliere tutte le nostre forze e procedere, poiché il cammino è comunque tracciato e non potrà che riservarci piacevoli sorprese.
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L’integrazione del bambino non vedente nei centri di puericultura Nei centri di puericultura imparare da piccoli a interagire con i coetanei, a giocare insieme superando conflitti, disarmonie e incomprensioni costituisce davvero una preziosa opportunità e il fondamento di uno sviluppo sociale più fluido e regolare. Ciononostante si tratta di una opportunità poco apprezzata nelle nostre famiglie, nelle quali i bambini, spesso da soli, vengono per così dire «goduti» dagli adulti e in particolar modo dai nonni, che nel rapporto con il bambino provano il grande sollievo di un illusorio ritorno a una fase più giovanile. I centri di puericultura vengono considerati, nella migliore delle ipotesi, una necessità da utilizzare soltanto quando in casa non c’è proprio nessuno che possa vigilare sul bambino tra i suoi giochi e i suoi passatempi. Nel caso particolare della famiglia del bambino non vedente questa tendenza è ancora più marcata, poiché generalmente questi genitori non hanno fiducia nelle capacità di accoglienza degli asili nido e d’altra parte neppure credono che il figlio possa integrarsi felicemente in un gruppo di bambini vedenti. Essi temono l’esclusione del figlio dalle dinamiche del gruppo e la vergogna di evidenziare pubblicamente le sue limitazioni, nonché il pericolo di eventuali offese o maltrattamenti. Di conseguenza lo tengono a casa, convinti che l’ambiente familiare costituisca comunque il luogo ideale dove crescere in pace, al riparo delle complicazione della vita sociale. Interagire con i coetanei e vivere la socialità infantile è una vera e propria necessità per lo sviluppo del bambino non vedente. Infatti nel rapporto con gli adulti egli impara a vivere da soggetto continuamente vigilato e assistito. In questo modo la sua immagine di sé si costituisce in rapporto alla presenza di un adulto benevolo e premuroso, ostacolando sensibilmente lo sviluppo della sua soggettività e il suo processo di individuazione come persona singola, protagonista della propria esistenza. Verso la fine del secondo anno di vita tutti i bambini accettano di buon grado un’esperienza di socialità infantile in un gruppo di coetanei al di fuori dell’ambiente familiare. D’altra parte la presenza di figure educative garantisce a questa esperienza di socialità una funzione qualificata di controllo e di sollecitazione. Per quanto riguarda l’inclusione di un bambino non vedente in un centro di puericultura, l’esperienza ci dice che generalmente non si presentano eccessive difficoltà. Semplicemente i puericultori desiderano essere
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rassicurati e indirizzati da un consulente che sappia guidarli nella prima fase, per comprendere il comportamento e le particolari esigenze del bambino disabile visivo. Occorre più che altro aiutare i genitori a scorgere l’importanza di una simile scelta e a considerare soprattutto che la facilità con cui il bambino si allontana verso la fine del secondo anno di vita non avranno la fortuna di sperimentarla alla fine del terzo anno, vale a dire, nel momento dell’ingresso nella scuola dell’infanzia. Sempre sulla base dell’esperienza, possiamo affermare con convinzione che i bambini disabili visivi che hanno avuto l’opportunità di vivere una socialità infantile adeguata manifestano una capacità di vivere con gli altri e di affermare se stessi del tutto particolare, tanto da essere riconoscibili proprio per queste loro caratteristiche. In particolar modo giova sottolineare la loro competenza ludico-sociale, che nello sviluppo infantile rappresenta il vero e proprio fondamento per una crescita armonica della persona. Un buon collaboratore familiare Un errore molto frequente che compromette l’educazione del bambino cieco in misura notevole consiste nel concepire la sua presenza nella famiglia come soggetto debole da aiutare con benevolenza e con generosità, allo scopo di compensare i suoi limiti e la sua sofferenza. Purtroppo anche nel contesto scolastico il bambino non vedente assume spesso questa fisionomia e diviene «oggetto di bene» da parte degli altri, punto di riferimento per esercitare le proprie virtù morali. Tale immagine di paziente designato impedisce al bambino non vedente di conoscere le proprie possibilità e la propria utilizzabilità. Nella migliore delle ipotesi il bambino cresce con la convinzione di essere una sorta di terminal, cui tutto è dovuto e con la pretesa che i suoi limiti debbano essere vissuti e controbilanciati dagli altri. In questo modo la sua crescita si realizza in un contesto di iperdipendenza, nella quale convivono l’imperiosità del comportamento e l’angoscia di essere lasciato solo. Per evitare uno sviluppo così fragile e contraddittorio, i genitori del bambino non vedente possono essere aiutati a immaginarlo come un soggetto capace di collaborare e in grado di offrire le sue capacità per il buon andamento della vita familiare. Soprattutto a partire dai tre anni di vita, un bambino disabile visivo può rendersi utile in molti modi nell’ambiente
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domestico e divenire partecipe delle attività familiari. Naturalmente egli vivrà questo suo servizio in una dimensione giocosa, ma ciò non deve ingannare circa il suo impegno che sarà comunque intenso e convinto. Lavare, pulire, riordinare saranno per il bambino non vedente attività divertenti e costruttive, durante le quali egli potrà finalmente essere uno tra gli attori del gruppo familiare e sentirsi un vero e proprio soggetto di iniziative. Inoltre egli potrà, per apprendimento spontaneo, conoscere la sua casa nei minimi particolari, sviluppando le funzioni senso-percettivo-motorie e anche le funzioni immaginativo-motorie. Sarà certamente necessario indulgere su qualche manchevolezza presente nelle sue esecuzioni, affinché questo suo servizio non assuma le odiose caratteristiche di un compito da svolgere con atteggiamento ossessivo. Occupato in questa funzione di collaboratore domestico, il bambino non vedente sarà meno coinvolto da passatempi sedentari e inoperosi, caratterizzati quasi esclusivamente da un mondo di suoni e di parole. Devo confessare che non sono molti i genitori che ascoltano questo mio suggerimento di rendere operoso, partecipe e responsabile il figlio non vedente. Generalmente essi sono così coinvolti nel dovere di facilitare la vita del figlio, da non comprendere il valore di tale indicazione. A questo proposito potrebbero risultare efficaci trasmissioni televisive fruibili anche per il non vedente, a cui assistere e da commentare insieme, così che le capacità del bambino non vedente possano manifestarsi in un clima di umoristica serenità, al riparo dai sensi di colpa e dagli stati compulsivi di riparazione obbligatoria. Condizioni più difficili Quando il bambino non vedente presenta ulteriori limitazioni funzionali, il percorso dei genitori, nel senso tracciato dalle precedenti argomentazioni, diviene molto più complesso, instabile e contraddittorio. Naturalmente questo accade soprattutto perché il bambino non vedente pluriminorato appare ancora più diverso da quel bambino desiderato e sognato durante l’attesa. I genitori avvertono più intensamente la necessità di una riparazione radicale e si dimostrano molto meno disponibili ad accogliere piccoli e graduali miglioramenti che in buona sostanza non cambiano la
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realtà della loro situazione. Pertanto il periodo durante il quale i genitori si affannano a cercare soluzioni più o meno miracolistiche diviene molto più lungo e più carico di emozioni ingovernabili che non consentono davvero un pacato colloquio con il consulente psicologo. In una seconda fase accade spesso che i genitori concentrino la loro attenzione e le loro illusioni su un particolare itinerario riabilitativo e tendono a trasformare la casa in un centro di riabilitazione. In questo modo essi percepiscono il bambino come un vero e proprio oggetto da riparare, soprattutto in alcune funzioni considerate più significative e normalizzanti nel contesto socioculturale di appartenenza. Inoltre questa frenesia riabilitativa induce i genitori a introdurre le medesime tecniche riabilitative nel contesto scolastico, trascurando il valore e il significato delle attività non precisamente finalizzate in senso funzionalistico. Tutto questo può comportare forti tensioni fra scuola e famiglia e conseguenze conflittuali che certamente non favoriscono lo sviluppo del bambino e la piacevolezza della sua vita quotidiana. In questi casi occorre essere molto prudenti e non accettare le dinamiche alienanti della conflittualità. Occorre innanzitutto rispettare la difficile condizione dei genitori e costruire una rete di solidarietà nella quale essi possano sentire un po’ meno il peso insopportabile della solitudine e della colpa. Accogliendo la loro rabbia e la loro esasperazione, possiamo forse aiutarli a comprendere che il figlio ha più che altro bisogno di essere accolto e riconosciuto nella sua realtà di bambino e nel suo diritto di conoscere il volto piacevole della vita, al di là dei suoi limiti funzionali. Quando ci riesce di conseguire questo importante obiettivo, le cose si semplificano e anche la prassi riabilitativa viene umanizzata in una prospettiva più rispettosa della vita umana e dei suoi ingredienti fondamentali. Infatti la gioia e la sofferenza sono i principali colori della nostra esistenza quotidiana e costituiscono il più significativo riferimento nei dilemmi del vivere insieme. Di frequente ci capita di fuggire dalla sofferenza e questa fuga ci impegna così tanto da impedirci la ricerca della gioia. Per questa ragione è necessario imparare a soffrire con i genitori per avere il tempo e lo spazio di scorgere il bene comune possibile che ci lega alla vita del bambino. Nelle situazioni migliori la presenza, il comportamento e la crescita di un bambino non vedente pluriminorato possono indurre un profondo cambiamento nella vita della sua famiglia e anche nella vita di tutti coloro che si occupano della sua
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educazione. Nei suoi desideri, nelle sue esigenze, nelle sue paure possiamo infatti riscoprire un senso della vita più consistente e radicale. Possiamo liberarci dalla confusione tra gioia e dominio, dissolvendo così le angustie che derivano da progetti troppo vincolati dal culto della competizione e della graduatoria. In definitiva dovremmo smetterla di considerare un soggetto con deficit funzionali una forma di umanità mancata. Impariamo viceversa a riconoscere in lui una manifestazione di umanità capace di ricondurci con i suoi limiti alla semplicità del vivere e alla capacità di convivere.
Riflessione sul volontariato
La buona volontà è stata sempre considerata una qualità fondamentale della persona sociale, vale a dire del soggetto nel contesto delle sue relazioni interpersonali. È la buona volontà che ci fa scommettere sul bene comune e ci consente di faticare volentieri per una causa incerta ma sublime che pertanto merita l’impegno di un percorso in salita. Le persone di buona volontà si riconoscono soprattutto nella tendenza ad accogliere un impegno prosociale con uno slancio che non ignora la fatica e le difficoltà, ma immagina con vivacità e chiarezza il raggiungimento dell’obiettivo, al punto da gettare, come si suol dire, «il cuore al di là dell’ostacolo». La persona di buona volontà cerca prevalentemente di rendersi utile, di porsi come aiuto nella relazione con l’altro, per compensare in qualche misura i suoi limiti funzionali o ambientali. Nel tentativo di essere utile è il piacere per il bene dell’altro che offre alla relazione di aiuto una garanzia di equilibrio e di reciprocità. L’equilibrio e la reciprocità scaturiscono dal fatto che entrambi gli interlocutori (la persona che offre l’aiuto e la persona che lo richiede) vengono accomunati dal medesimo piacere e in esso si riconoscono. Bisogna dire però che non sempre il tentativo di rendersi utile è animato e sorretto dal piacere per il bene dell’altro. La persona di buona volontà può essere sospinta soprattutto dal bisogno di sostenere la propria rappresentazione di sé, la propria immagine morale e psicosociale. In questi casi il soggetto che aiuta è concentrato più che altro nel contesto della propria realtà mentale e ciò lo rende meno attento, meno corrispondente alle reali
Riflessione sul volontariato
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esigenze dell’altro. In altre parole la persona che ha bisogno di sentirsi utile tende a realizzare un suo progetto interiore nel quale la realtà dell’altro è una buona occasione da utilizzare. Naturalmente quanto più è intenso e rigido il bisogno di sentirsi utile, tanto più la percezione delle esigenze dell’altro viene disturbata da processi mentali esuberanti. È questa la ragione per cui sono spesso le persone più semplici che dimostrano di possedere eccellenti qualità nella relazione d’aiuto. In alcuni casi estremi il bisogno di sentirsi utile diviene così intenso da assumere una vera e propria fisionomia compulsiva, al punto da risultare incompatibile con la funzione di aiuto. In ogni caso una sufficiente dose di realismo non ci consente di immaginare che esistano, salvo rare e preziose eccezioni, persone così limpide e disponibili da servire con semplicità l’altro nelle sue esigenze, senza corrispondere anche al proprio desiderio di sentirsi utile. A questo proposito occorre comprendere come le perdite affettive, i sensi di colpa, le offese e le frustrazioni, così frequenti nel corso della nostra esistenza ordinaria, alimentino il bisogno di rivalutare l’immagine che abbiamo di noi stessi. Non è facile condurre a guarigione le ferite che si producono nella rappresentazione del sé mediante una compiuta elaborazione rigeneratrice. Il più delle volte accade che la ferita narcisistica venga semplicemente protetta e un po’ nascosta mediante una condotta sociale affermativa, caratterizzata per l’appunto da impegno e buona volontà. Si tratta di provvedimenti compensativi e mimetici che caratterizzano diffusamente il nostro modo di esistere e che rappresentano indubbiamente il nostro desiderio di positività. La nocività effettiva di simili provvedimenti scaturisce più che altro dalla condizione di non coscienza con la quale spesso portiamo avanti il nostro impegno sociale. Non conoscere il proprio bisogno di sentirsi utile può condurre il soggetto a praticare il bene con eccessiva determinazione, decidendo quale sia il bene dell’altro a prescindere o quasi dalle sue richieste personali. Bisogna dire che inoltre tale inconsapevolezza induce una frenesia di comportamenti che rendono comunque la relazione d’aiuto meno valida e meno efficace. Una persona che si accinga a svolgere una funzione volontaria di aiuto sociale dovrebbe quantomeno valutare, mediante la guida di un professionista, le proprie modalità di comunicazione nella relazione d’aiuto. Sono infatti le modalità di comunicazione che rivelano le eventuali complicazioni presenti in una condotta di aiuto. Per quanto concerne specificamente il volontariato rivolto ai soggetti disabili
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visivi, occorre soprattutto ribadire che la cecità continua a essere una tra le privazioni più suggestive. Ciò rende molto più difficile una distinzione tra il piacere per il bene dell’altro e il piacere di sentirsi utile. Di solito questa confusione genera un atteggiamento che appare orientato principalmente dal desiderio di restituire la funzione visiva alla persona non vedente, piuttosto che a facilitare il flusso autonomo della sua esistenza. Per controbilanciare questa insidiosa confusione, è necessario in primo luogo che il volontario conosca bene le sue funzioni, dimostrando in tal senso una buona padronanza di esecuzione. Circa la chiarezza della coscienza, siamo portati a ritenere che dovrà trascorrere ancora molto tempo prima che la condizione di cecità venga normalmente percepita con occhi sereni, benevoli e intelligenti. Attualmente simili occhi sono così improbabili che sarebbe un grave errore utilizzarli come misura di riferimento per una selezione dei volontari. D’altra parte noi ciechi potremmo intanto tentare un miglioramento per quanto riguarda la qualità delle nostre richieste di aiuto. Nei suoi aspetti relazionali, la richiesta somiglia all’offerta più di quanto ci venga spontaneo immaginare. Con la richiesta offriamo comunque all’altro un’occasione di incontro, sempre che il nostro modo di chiedere presenti una buona dose di mitezza espressiva e di fiducia nell’interlocutore. Spesso confondiamo la richiesta con l’ingiunzione perentoria, che riduce la soggettività dell’altro a mera funzione complementare. Non c’è prospettiva di incontro in un’imperiosa (e quindi paradossale) richiesta d’aiuto; è vero, l’altro può acconsentire, ma lo farà seguendo un suo percorso nel quale anche noi siamo ridotti a mera funzione complementare. La chiarezza non può che essere sollecitata mediante la chiarezza e ciò richiama tutta la nostra responsabilità nel processo di qualificazione del volontariato. In definitiva nel volontariato si incontrano e si conciliano lo sviluppo civile e lo sviluppo morale della nostra società: basterebbe aver chiaro questo punto per sentirsi nel cuore di un momento storico molto interessante e coinvolgente, tutto da vivere e da sognare.
Per un’antropologia della cecità: la comunicazione
La minorazione visiva nella circolarità della comunicazione La comunicazione scaturisce dall’incontro interpersonale e si fonda sulla reciprocità interattiva di comportamenti significativi che presuppongono un comune sentimento di relativa somiglianza. L’incontro si realizza mediante un’esperienza di sincronizzazione, nel corso della quale ciascuno dei comunicanti manifesta le proprie intenzioni e risponde alle presunte intenzioni dell’altro. Evidentemente si tratta di un processo circolare di messaggi e di interpretazioni, entro il quale appare impossibile delineare in modo univoco una sequenza di cause e di effetti. La simultaneità espressiva del medesimo segnale rafforza il comune sentimento di somiglianza e di reciprocità, consolidando nei comunicanti la fiducia di condividere il medesimo sistema di riferimento segnaletico. In questo senso la reciprocità dello sguardo rappresenta la modalità più efficace nell’incontro interpersonale proprio in quanto consente immediatamente un’esperienza simultanea di «speculare reciprocità». L’incontro oculare intensifica e accelera il processo di sincronizzazione promuovendo direttamente e inevitabilmente l’interazione significativa dei comportamenti soggettivi. L’assenza di reciprocità oculare ostacola sensibilmente l’insorgenza dell’incontro simultaneo e complica il processo di sincronizzazione accrescendo nei comunicanti il timore dell’estraneità. La simultaneità dello sguardo favorisce per altro la regolazione dell’alternanza intersoggettiva dei messaggi verbali e consente un facile recupero
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intuitivo della reciprocità nelle fasi dissonanti della comunicazione. Soprattutto quando i comunicanti non possono utilizzare il contatto fisico, la mancanza della reciprocità visiva intensifica i pericoli del fraintendimento e genera frequentemente processi disarmonici e frammentari che talvolta mortificano l’entusiasmo espressivo e le motivazioni di socievolezza. La minorazione della vista può pertanto costituire un ostacolo rilevante nei processi di comunicazione, soprattutto quando provoca intense reazioni emozionali che alimentano il sentimento della diversità. Un interlocutore emozionato può concentrare la propria attenzione percettiva sulla cecità della persona che non vede e ricevere dal suo volto una spiacevole sensazione di alienità impenetrabile, derivante dalla mancanza di reciprocità oculare. Una simile osservazione della cecità può indurre l’interlocutore a chiudere gli occhi e a tentare spontaneamente un recupero del sentimento di somiglianza attraverso una sperimentale simulazione di cecità. Si tratta di una reazione impulsiva di avvicinamento emozionale che confonde ingenuamente la condizione di cecità con la condizione di chi percepisce transitoriamente a occhi chiusi. Questa simulazione non concorre di fatto a scorgere nel volto della persona che non vede i segni della reciprocità espressiva che viceversa possono essere recuperati mediante un’osservazione serena e libera da irrigidimenti emozionali. D’altra parte occorre sottolineare che la frequente povertà mimica e gestuale dei privi della vista favorisce nell’interlocutore la spiacevole sensazione di impenetrabilità e ostacola non poco i processi di sincronizzazione. Quando la persona che non vede dispone di una soddisfacente mobilità e scioltezza espressiva, i suoi messaggi mimici e gestuali possono facilmente risolvere l’imbarazzo e l’ansietà nella conversazione e promuovere rapidamente una comunicazione fluida e intuitiva. Soprattutto quando la persona che non vede sa dirigere espressivamente il proprio sguardo verso l’interlocutore, rispettando la normale postura cinesica del rapporto faccia a faccia, la comunicazione interpersonale non presenta difficoltà rilevanti e può acquisire una soddisfacente sincronicità. La competenza comunicativa della persona che non vede La persona che non vede predilige spontaneamente le manifestazioni espressive della vocalità e tende a concentrare la propria attenzione percettiva
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prevalentemente sul contenuto verbale della conversazione. L’intonazione vocale costituisce uno strumento molto efficace per articolare e accentuare il significato delle parole utilizzate e generalmente consente una sufficiente comprensione dei messaggi. Ciononostante la scarsità dei segnali mimicogestuali mortifica le esigenze di reciprocità oculare dell’interlocutore vedente e favorisce una comunicazione caratterizzata dal confinamento delle posizioni soggettive. Trascurando l’utilizzazione dei segnali mimico-gestuali, la persona che non vede ignora praticamente la funzione visiva dell’altro e manifesta nei suoi confronti una considerazione inadeguata e implicitamente egocentrica. L’interlocutore vedente percepisce l’implicita negazione della propria funzione visiva e può facilmente reagire riducendo reciprocamente la propria partecipazione espressiva. D’altra parte una scarsa espressività mimico-gestuale favorisce una postura corporea indiretta e sfuggente che di fatto ostacola la frontalità speculare della comunicazione faccia a faccia. Occorre inoltre osservare che una postura corporea sfuggente comporta effetti nocivi sulle qualità dell’emissione vocale limitando e modificando la sonorità significante delle parole. Ciò comporta generalmente una comunicazione incongrua nella quale il significato verbale appare disarticolato dalle manifestazioni non verbali. Tale disarmonia produce incertezza e disagio intensificando negli interlocutori sensazioni oscillanti e contraddittorie che talvolta producono il desiderio di concludere frettolosamente la conversazione. Queste brevi considerazioni consentono di affermare che la frequente noncuranza dei privi della vista verso le aspettative di reciprocità dell’interlocutore vedente costituisce la fondamentale menomazione della loro competenza comunicativa e segnala un’insufficiente socialità del loro comportamento linguistico. Occorre comunque precisare che la persona che non vede può conoscere e acquisire le modalità espressive della comunicazione faccia a faccia soprattutto quando la mimica del suo volto e la vitalità dei suoi gesti vengono sollecitati e valorizzati nel suo ambiente sociale di appartenenza quotidiana. Per accettare l’interazione espressiva con la funzione oculare dell’altro la persona che non vede deve prima conoscere e gustare gli effetti benefici di un’attenzione visiva amorevole quanto esplicita. Un’esperienza piacevole e propizia dello sguardo sollecita l’acquisizione di un comportamento mimico-gestuale più attivo e vivace. Viceversa molti ciechi temono l’esperienza dello sguardo dell’interlocutore perché ne conoscono
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quasi esclusivamente gli effetti ansiogeni e imbarazzanti. È necessario aggiungere che il privo della vista può sviluppare la propria vitalità espressiva soprattutto attraverso esperienze di comunicazione caratterizzate dalla prossimità corporea e dalla utilizzazione significativa del contatto fisico. In questo senso ancora una volta le convenzioni del costume vigente privilegiano nei processi di apprendimento della persona che non vede una compostezza posturale che riduce notevolmente le occasioni di interazione corporea. Inoltre il contatto fisico viene quasi esclusivamente considerato entro le prospettive dell’esperienza specificatamente personale e rischia così di smarrire la sua tradizionale dimensione semantica. Una compostezza rigida devitalizza e squalifica il carattere affettivo e creativo della comunicazione umana e in particolar modo offende la sensibilità di partecipazione sociale dei minorati della vista. La comunicazione della madre con il bambino cieco L’esperienza di reciprocità oculare costituisce una sollecitazione di cardinale importanza nello sviluppo della relazione madre-bambino, in quanto promuove la sincronizzazione dei loro segnali di socievolezza e potenzia la coesione affettiva della loro comunicazione. Durante le quotidiane esperienze di allattamento il bambino e la madre comunicano intensamente attraverso lo sguardo alimentando le rispettive sensazioni di reciproca appartenenza. La reciprocità dello sguardo conferisce ai vissuti di appartenenza una precisa fisionomia speculare mediante la quale il bambino e la madre si confondono spontaneamente nella medesima identità. L’esperienza di amorevole confusione rappresenta la base propulsiva della relazione madre-bambino in quanto favorisce i processi conoscitivi per una reciproca differenziazione, consentendo una progressiva e graduale liberazione dalla comune dipendenza. Il soddisfacimento del comune bisogno di attaccamento coesivo facilita una graduale modificazione dell’interdipendenza iniziale verso una prospettiva di crescente intersoggettività, caratterizzata da comportamenti maggiormente autonomi e creativi. Una simile condizione di base consente al bambino di vivere attivamente l’eventuale assenza della madre e di sviluppare curiosità e interesse nei confronti delle molteplici caratteristiche della realtà circostante. Una
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solida interiorizzazione della figura materna permette al bambino di stabilizzare il proprio sentimento di appartenenza e di acquisire uno stile cognitivo di partecipazione operativa. La cecità introduce nella relazione madre-bambino un elemento di estraneità e una sensazione di assenza che possono ostacolare notevolmente la realizzazione del comune sentimento di appartenenza, ritardando la sincronizzazione dei reciproci segnali di socievolezza e intensificando le rispettive emozioni di ostilità. La madre può subire l’assenza della reciprocità oculare e viverla come una privazione della possibilità di comunicare intuitivamente con il proprio bambino assumendo un comportamento incerto e timoroso. Il timore e l’incertezza concorrono a promuovere nella madre uno stato di irrigidimento e di preoccupazione che nuoce alla realizzazione di un soddisfacente attaccamento coesivo. La madre può ricercare il contatto corporeo mediante comportamenti eccessivamente premurosi e conflittuali senza ottenere la desiderata sensazione di speculare reciprocità. Da parte sua il bambino può cercare spontaneamente una pratica di accostamento e di comunicazione secondo modalità specifiche che facilitano nella relazione pericolosi fraintendimenti. Ad esempio il bambino può rivolgersi alla madre porgendo un orecchio e mortificare così l’esigenza materna di specularità frontale nonché la sua ricerca di reciproco sorriso. In questo caso occorre che la madre sappia riconoscere l’impulso di accostamento espresso dal bambino e corrispondere al suo gesto con prontezza consapevole, determinando così la sincronizzazione dei segni di socievolezza. Una recuperata comprensione dei segnali specifici del bambino può facilmente consentire alla madre di rivalutare la propria intuitività sollecitando il suo entusiasmo e la sua personale iniziativa nella comunicazione. La conquista dell’intimità vocale e di una corrispondenza di messaggi corporei condurranno la madre e il bambino a recuperare pienamente una comune sensazione di speculare reciprocità. Occorre tuttavia sottolineare che la madre può avere bisogno di essere aiutata in questa delicata operazione di recupero analogico della reciprocità affettiva da una persona competente e accorta che sappia sostenerla e sollecitarla a scorgere nel comportamento del bambino i segnali della socievolezza affettiva. L’assenza di tale contributo può infatti determinare una relazione madre-bambino disarmonica e conflittuale caratterizzata da una costante e contraddittoria ricerca dell’attaccamento, persistente quanto disperata.
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Le risposte familiari di reazione nei confronti del bambino cieco Le difficoltà presenti nello sviluppo della relazione madre-bambino possono essere aggravate da una risposta di autoconfinamento difensivo da parte dei rimanenti familiari, tacitamente alleati a evitare il disagio derivante da una comunicazione diretta con il bambino che non vede. La cecità può divenire una vera e propria barriera psicosociale che separa il bambino dai suoi familiari e rafforza l’ansietà e la disarmonia del suo rapporto con la madre. Tale rapporto può assumere una pericolosa fisionomia di attaccamento morboso e ambivalente che accresce nella madre colpevolizzanti e dolorose sensazioni di personale inadeguatezza. La madre può sentirsi trascurata e incompresa di fronte a un compito eccessivamente frustrante e nutrire una lacerante esperienza interiore di rifiuto delle proprie responsabilità, assumendo comportamenti di passiva depressione melanconica. Queste circostanze possono determinare un complessivo atteggiamento familiare di rinuncia della propria funzione educativa e promuovere la tendenza a delegare le proprie responsabilità verso istituzioni scolastiche qualificate in modo specifico. In questi casi la famiglia accompagna il bambino nell’istituto per i ciechi manifestando più o meno esplicitamente un atteggiamento di fiduciosa deresponsabilizzazione. Naturalmente il bambino cieco vive nella propria istituzionalizzazione un’esperienza mortificante di rifiuto affettivo, densa di effetti nocivi e destabilizzanti. In altre circostanze i genitori possono reagire al disagio derivante dalla comunicazione con il bambino cieco attraverso un comportamento eccessivamente protettivo impegnato principalmente a soddisfare le sue esigenze fisiologiche e tutelarlo nelle situazioni caratterizzate da una presunta pericolosità. Mediante un’eccessiva protezione i genitori tentano di assolvere con premura la loro funzione educativa e intendono compensare la loro scarsa competenza comunicativa nei confronti del bambino che non vede. Di fatto l’atteggiamento iperprotettivo ostacola sensibilmente lo sviluppo psicomotorio del bambino e limita gravemente il campo delle sue esperienze personali compromettendo spesso i suoi processi cognitivi di crescita autonoma. La costante premura dell’ambiente familiare non consente al bambino di conoscere e ponderare i propri desideri né di accettare il rischio e la responsabilità dell’impegno individuale. Il bambino iperprotetto si sente oggetto di continue attenzioni che presuppongono un’estrema sfiducia nelle sue possibilità soggettive e
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squalificano la sua dignità personale sottolineando la necessità della tutela genitoriale. In terzo luogo il disagio della comunicazione può favorire nei genitori un comportamento di eccessiva sollecitazione funzionale, finalizzata a verificare frettolosamente le ansiose aspettative di sviluppo nei confronti del bambino cieco. Generalmente simili sollecitazioni non si dimostrano commisurate alle reali capacità del bambino né corrispondono alle sue personali motivazioni. Per altro il bambino percepisce l’urgente aspettativa dei genitori e vive intensamente il pericolo del rifiuto affettivo. Una responsabilizzazione eccessiva alimenta nel bambino il terrore dell’insuccesso nelle prove di abilità e lo costringe a irrigidire le proprie qualità caratteriali. In questi casi il bambino cieco vive la propria crescita nella prospettiva di corrispondere compiutamente alle aspettative dei genitori e organizza in tal senso una tendenza perfezionistica, pervasa da sentimenti conflittuali di logorante ostinazione. I comportamenti qui descritti riassumono brevemente le modalità più frequenti della reazione al disagio di una comunicazione disaffettiva dei familiari con il bambino cieco e consentono di comprendere l’importanza e l’opportunità di sostenere la famiglia medesima mediante un valido servizio di consulenza psicopedagogica. L’evoluzione patologica dello sviluppo del bambino cieco nel sistema familiare In alcune famiglie la diversità del bambino che non vede viene automaticamente ignorata attraverso inconsapevoli meccanismi di rifiuto cognitivo che di fatto esorcizzano l’incertezza e la problematicità provenienti dal disagio della comunicazione. Il meccanismo di negazione del disagio si realizza secondo modalità pre-riflessive di mistificazione della realtà mediante le quali vengono eliminate magicamente le complicazioni e le difficoltà derivanti dalla cecità del bambino. Si tratta di una vera e propria simulazione collettiva, di un tragico gioco senza fine, proteso a mascherare il disagio e a cancellare le manifestazioni specifiche della condotta espressiva del bambino cieco. Tali famiglie presentano un sistema di relazioni interpersonali particolarmente rigido, caratterizzato da abitudini tacite e indiscutibili, assolutamente non predisposte ad accogliere eventi che richiamano l’esigenza di profondi cambiamenti. Il presagio di un possibile cambiamento induce in queste
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famiglie un’intima reazione di terrore e provoca una complice resistenza di tutti i familiari che tentano di neutralizzare la carica innovativa proveniente dall’evento indesiderato. La cecità del bambino costituisce indubbiamente un evento che richiama l’esigenza di radicali modificazioni delle abitudini familiari e che soprattutto esige pratiche di comunicazione più esplicite e spregiudicate nonché la capacità di valorizzare le diversificazioni individuali. In particolar modo i problemi di comunicazione conseguenti alla presenza del bambino cieco possono essere neutralizzati dai familiari trattando il bambino come se ci vedesse e affermando surrettiziamente che si tratta di un bambino perfettamente normale. Così facendo i familiari eludono il problema della minorazione visiva del bambino, consacrando la propria funzione visiva al suo servizio per compensare sistematicamente le sue continue difficoltà di adattamento socio-ambientale. In altre parole i familiari non si limitano a tutelare premurosamente il bambino nelle circostanze ritenute rischiose, ma sostituiscono con la loro presenza iperattiva il suo personale sforzo di adattamento operativo, interpretando arbitrariamente i suoi bisogni e le sue aspettative. Evidentemente in questo modo i familiari negano di fatto al bambino la dignità di rappresentare e di esprimere la propria posizione soggettiva e gli impediscono di sviluppare le sue funzioni vitali compromettendo l’autonomia della sua crescita individuale. In simili condizioni il bambino organizza un comportamento parassitario e gravemente ipofunzionale, che spesso presenta un rapido e preoccupante decorso patologico, caratterizzato da una progressiva disabilitazione esistenziale. La condizione parassitaria potenzia il disagio del bambino e lo conduce verso uno stato di crescente malessere aggravato prevalentemente dalla sua minima competenza comunicativa. Occorre infatti considerare che tali condizioni impediscono innanzitutto al bambino che non vede di maturare una valida presenza significante nel contesto della comunicazione familiare e frequentemente determinano un’involuzione autistica del suo comportamento espressivo. Paradossalmente l’autismo del bambino cieco consente ai genitori di eludere definitivamente il problema della comunicazione e di ribadire il proprio atteggiamento di autonoma interpretazione delle sue aspettative confermando la propria funzione vicariante. L’iperfunzione attiva dei familiari controbilancia e stabilizza la crescente invalidità esistenziale del bambino cieco limitando progressivamente le probabilità di una possibile e opportuna
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inversione del fenomeno. I genitori possono in questi casi chiedere l’intervento dello specialista per curare i sintomi psichiatrici presenti nel bambino senza rendersi conto che un eventuale miglioramento della sua condotta tenderebbe a riprodurre i problemi eliminati poiché si riprodurrebbe la necessità di un recupero della comunicazione intersoggettiva. La prospettiva di considerare il bambino cieco come un valido interlocutore, nonostante la sua diversità, rinnova nei familiari una spontanea resistenza oppositiva che pone allo specialista delicati problemi di strategia terapeutica. L’evoluzione sintomatica della condotta del bambino cieco rappresenta infatti il segnale di un disagio dell’intero nucleo familiare che si polarizza mimeticamente intorno alla minorazione visiva mediante un comportamento iperattivo e vicariante; conseguentemente un’eventuale terapia deve poter comprendere l’intero nucleo familiare allo scopo di consentire l’apprendimento delle capacità necessarie per accettare una prospettiva di radicale cambiamento.
L’esperienza del bello multimediale
La prima volta che misi piede nell’istituto Romagnoli fu nel 1965, durante una fredda mattina di febbraio. Benché fossero molti gli interrogativi e i timori che turbavano la mia mente, fui subito e piacevolmente coinvolto dalla bellezza dell’edificio e del parco circostante. In ciascun ambiente regnavano una insolita cura e un sapiente buon gusto, forse troppo sontuoso per la mia sensibilità di giovane studente, ma comunque armonico e interessante, tanto da sollecitare attenzione e rispetto. In particolar modo furono le piante e i fiori che suscitarono tutta la mia meraviglia, sconcertando e disorientando le mie aspettative. Non pensavo che un luogo per ciechi dovesse, quasi per sua natura, presentarsi oscuro e regolare, povero per inquietudine e movimento. Tuttavia quell’attraente vivacità di forme e di colori mi appariva eccessiva, quasi una forzatura, una finzione per mascherare il «vuoto di vita» che fatalmente opprimeva l’ambiente. A un certo punto mi accorsi addirittura che un gruppo di fotografi stava osservando con ammirazione alcune magnifiche rose da concorso, che esibivano la loro ricercata eleganza lungo le due siepi parallele del vialetto lastricato che ancora oggi conduce verso la parte antica della villa. Una cura estetica così raffinata e competitiva, tutta da vedere e da fotografare, fu capace di indispettire la mia immaginazione. Immaginai confusamente qualcosa di offensivo per i ciechi, una vera e propria disconferma della loro drammatica condizione, quasi una forma di cinismo che amplificava il dolore per un limite sensoriale così difficile da concepire.
L’esperienza del bello multimediale
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Quando ebbi finalmente l’opportunità di osservare i bambini non vedenti che giocavano, tra le piante e i fiori, lungo i vialetti del parco, cominciai a capire e il mio sconcerto incontrò il conforto di nuove immagini e di nuovi significati. Infatti i bambini giocavano e correvano con una vivacità e una grazia che non contraddiceva la bellezza di quel giardino e anzi ne esaltava le caratteristiche strutturali. Inoltre mi risultò con estrema evidenza che la bellezza di quel giardino non era semplicemente «da vedere». Compresi che il parco era stato pensato e realizzato per offrire la sua bellezza e la sua funzionalità all’intero patrimonio senso-percettivo-motorio di ciascun bambino. Nonostante la sua immagine immediata e naturale, si trattava di una vera e propria opera d’arte multimediale, nella quale lo spirito geometrico e la finezza estetica presentavano un felice esempio della loro coniugabilità. Più tardi ho avuto la possibilità di comprendere che il bello visivo rappresenta comunque un ingrediente fondamentale nella vita di una persona non vedente poiché costituisce la sua prima carta di identità, in quanto persona degna di essere osservata e conosciuta. Logicamente, per quanto riguarda il bello visivo la persona che non vede deve fare riferimento ad altre persone vedenti di sua fiducia e questo può frustrare i suoi legittimi desideri di completa indipendenza. Occorre però capire come talvolta il desiderio di indipendenza possa divenire un ostacolo durante la partecipazione alla vita sociale. Infatti possiamo divenire autonomi nella dipendenza dagli altri, mentre l’indipendenza ci conduce inevitabilmente verso una libertà dagli altri, una libertà ispirata prevalentemente dal sentimento e dal sistema dell’orgoglio. D’altra parte l’immersione nell’esperienza del bello ci accompagna anche verso il desiderio di conoscere il bello visivo. Nell’esperienza di chi non vede, un simile desiderio non potrà essere soddisfatto, ma potrà comunque garantire alla persona non vedente un’inquietudine e una vivacità che renderanno più significative le sue relazioni interpersonali. In definitiva l’esperienza del bello e il gusto di conoscere rappresentano i veri e propri antidoti per andare oltre una risposta orgogliosa e autarchica, pressoché priva di fondamento socioculturale. Naturalmente è la scuola che può garantire ai bambini ciechi un incontro quotidiano con il bello multimediale, sia naturale che artistico. Si tratta di un compito che ci trova talvolta ancora impreparati e non soltanto per quanto riguarda i bambini non vedenti. Sarà davvero importante rendersi conto che il bello è un alimento
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necessario nella vita di ciascuno di noi così come lo sono gli amminoacidi o le vitamine. È il bello infatti che ispira il nostro sentimento di gratitudine nel confronto con la vita e ci consente di riconoscere in essa la fisionomia di un dono misterioso, spesso sconcertante, ma comunque degno di essere accolto con spirito di ricerca e di corrispondenza.
Ciechi al cinema
Le prime volte che andiamo al cinema insieme con una persona che dimostri esitazione nel confronto con la nostra condizione sensoriale possono facilmente divenire anche le ultime. Infatti il nostro interlocutore, per uscire dallo spiacevole dubbio su come comportarsi, potrebbe decidere di guardare il film, limitandosi a comunicarci di tanto in tanto qualche sensazione, brevi commenti e considerazioni. Del resto da parte nostra, per evitare che la situazione divenga eccessivamente laboriosa e imbarazzante, potrebbe prevalere la tendenza a simulare una situazione normale, fingendo di guardare il film e cercando di capire il più possibile la vicenda e le singole situazioni dall’insieme delle fonti sonore. Questa ipotesi, per altro molto probabile, è un bell’esempio di mimetizzazione del problema che in certi casi può assumere aspetti propriamente paradossali come quando cominciamo a commentare, con l’interlocutore, la bontà delle interpretazioni oppure la qualità della fotografia. Soprattutto quando il film presenti una fisionomia esclusivamente visiva, l’esperienza può divenire molto frustrante e produrre, tra noi e l’altro, una sensazione di vera e propria estraneità che, al di sotto della superficiale cordialità della sensazione, insidierà seriamente la relazione fino a determinare una tacita e mascherata interruzione degli incontri. Tutto questo capita perché non riusciamo ad accettare che la nostra condizione sensoriale possa divenire oggetto di una riflessione comune e motivo di un accordo pratico. Forse vorremmo che l’altro già sapesse come comportarsi e ci fornisse le necessarie informazioni con disinvoltura e cor-
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dialità, risolvendo il problema con intuizione fluida, quasi che il problema non ci fosse. Un simile desiderio è comprensibile e naturale, ma bisogna dire purtroppo che appartiene inesorabilmente al mondo dell’esperienza magica oppure, se preferite, alla vita dei sogni. Per comprendere come comportarsi, l’altro non può fare a meno delle nostre indicazioni. La gran parte di simili indicazioni merita un adeguato dialogo e non può esser fornita durante la proiezione del film. Dobbiamo pertanto arrenderci all’idea di preparare l’esperienza, preoccupandoci di offrire alle difficoltà una soluzione prefigurata. Certamente questo potrà disturbare il fascino dell’immediatezza, ma renderà il rapporto più autentico, più costruttivo e anche più duraturo. Soprattutto ne risulteranno rafforzati il piacere e la qualità della nostra esperienza personale, cosa che indubbiamente ci aiuterà a estendere lo spazio della nostra vita sociale.
Il sole continua a sorgere per tutti noi
Possiamo nutrire molto meglio e molto di più il gusto e la sensibilità estetica di coloro che non vedono. Per superare la barriera mentale della minorazione visiva, la persona che non vede ha bisogno di essere aiutata a innamorarsi del mondo. Molto spesso la società non comprende in quali modi potrebbe facilitare la relazione tra il soggetto disabile visivo e la realtà che lo circonda. In simili circostanze tendiamo, per così dire, a divenire noi la sua realtà, il suo schermo verbale protettivo e, così facendo, mortifichiamo la sua fiducia nella possibilità di conoscere e di agire. Viceversa egli può intendere e trarre prezioso giovamento dalla bellezza della realtà nelle sue manifestazioni, che si offrono all’insieme dei nostri sensi e non soltanto al senso della vista. Con i suoi quattro sensi residui e con la sua immaginazione, il bambino non vedente può costruire con il mondo circostante una solida relazione affettiva di attaccamento, di curiosità, di autonomia e di iniziativa industriosa, sempre che i suoi mezzi personali vengano sostenuti e un po’ facilitati dall’organizzazione sociale. Come tutti gli altri bambini egli dovrà nutrirsi di bellezza, poiché in essa potranno risvegliarsi i suoi desideri e il coraggio di vivere con pienezza il corso dell’esistenza. Occorre che la fantasia di un bambino possa scorgere nella realtà il sublime sentimento della meraviglia per immergersi nel mondo e conoscere un respiro più ampio, oltre i limiti angusti di una vita mentale consegnata interamente all’esperienza socioaffettiva della comunicazione. Se consideriamo, ad esempio, il sorgere
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del sole al mattino, in un contesto naturale come la campagna, possiamo facilmente superare il luogo comune secondo il quale le albe e i tramonti sarebbero fenomeni esclusivamente visivi e pertanto sottratti all’esperienza dei ciechi. Infatti, a prescindere dalla vista, l’insieme delle modificazioni acustiche, anemestesiche, termiche, provenienti direttamente dal risveglio dell’ambiente, costituiscono di per sé un panorama nel quale immergersi con la propria fantasia e con la propria religiosità. L’individuazione poi di una fonte di calore crescente permette al soggetto non vedente di entrare in rapporto diretto con il sorgere del sole, nel suo manifestarsi quale fonte di vita e di orientamento. Naturalmente in un contesto urbano il sorgere del sole si inserisce in un panorama molto diverso, dove i segnali sono molto più sociali e francamente molto meno affascinanti. In ogni caso si tratta di segnali significativi e immensi, che possono ugualmente essere percepiti dalla persona che non vede, la quale ha bisogno di conoscere con i suoi mezzi il risveglio mattutino della città, con i suoi odori, sapori, rumori e le sue abituali e straordinarie trasformazioni quotidiane. A questo punto qualcuno potrebbe obiettare che comunque le manifestazioni visive della realtà occupano uno spazio prezioso e insostituibile nell’esperienza di noi tutti, uno spazio che non appartiene alle persone che non vedono. Evidentemente questo è vero, ma vorrei rispondere che l’universo nel suo interesse e nella sua bellezza, nonostante la privazione delle sue manifestazioni visive, permane sostanzialmente inalterato. D’altra parte è proprio l’intelligenza che ci consente di concepire la non essenzialità di una alterazione. Se viceversa restiamo concentrati e ristretti nell’immensità dell’alterazione non potremo focalizzare la ben più vasta immensità di ciò che permane inalterato. I bambini non vedenti meritano più che altro attenzione alla loro interezza di persone vive, presenti, che desiderano conoscere, agire e partecipare in un mondo che appartiene a tutti e che appare disposto a manifestare a ciascuno di noi la sua bellezza e la sua complessità.
Terza parte
Pedagogia dell’integrazione
Nella pagina precedente: Cristina, Istituto «Augusto Romagnoli» di Roma, metà anni Settanta (foto di Enzo Bizzi).
Compensare o sostituire?
Gli educatori dei soggetti disabili visivi sanno bene che la famiglia di un bambino non vedente si concentra molto spesso sul recupero della funzione visiva, evitando e rifiutando strategie di adattamento che scaturiscano dal confronto con il limite e da un compiuto esame di realtà. La soluzione viene immaginata o fantasticata nella riconquista del bene perduto o perlomeno di una sua parte considerevole. Dal canto loro gli educatori affermano l’importanza della compensazione che aiuterebbe il bambino a trovare una risposta alla disabilità mediante strategie scolastiche e riabilitative, finalizzate al recupero delle sue reali risorse personali. Il concetto di potenziamento compensativo viene spesso così enfatizzato da risultare apparentemente una piena soluzione del problema, quasi equivalente al recupero della funzione visiva. Anche se in misura ridotta, l’atteggiamento enfatico degli educatori presenta caratteristiche illusorie e si dimostra predisposto alla tentazione di trasformare l’obiettivo metodologico in una vera e propria riparazione magica. In simili circostanze l’atteggiamento dei genitori e l’atteggiamento degli operatori divengono, allo stesso tempo, complici e antagonisti, organizzando una relazione ambivalente, molto difficile da ristrutturare. A questo proposito occorre capire che un processo di potenziamento compensativo non può, né deve, dissolvere il sentimento della perdita che accompagna fedelmente l’esistenza della persona che non vede. Infatti la perdita della vista, escludendo le riparazioni chirurgiche o terapeutiche, non
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può essere dissolta da nessuna strategia educativa. Anche se può dispiacere, bisogna dire con franchezza che l’esperienza visiva, in alcuni suoi aspetti, è un patrimonio di vita insostituibile. Occorre peraltro aggiungere qualcosa di ancor più doloroso: la mancanza della vista limita la persona nel rapporto con il suo ambiente, nel movimento, nella conoscenza, nell’indipendenza e nella difesa dal pericolo. Si tratta di limiti non trascurabili che certamente intensificano la dipendenza sociale. Sono proprio queste considerazioni che hanno mosso alcuni educatori dei soggetti disabili visivi a concepire una strategia incardinata su obiettivi di competenza e di sviluppo sociale. Il soggetto non vedente ha bisogno di comprendere interamente il valore della vista, le sue preziose funzioni e quanto sia benefico che almeno gli altri ci vedano. In una società civile e solidale la vista degli altri, con i suoi benefici effetti, offre indirettamente ai soggetti non vedenti la possibilità di una vita più sicura, più organizzata, e un immenso miglioramento della vita quotidiana. In questo senso bisogna dire che i ciechi più sfortunati sono certamente quelli che non sono stati educati a cogliere il piacere dell’esistenza e la bellezza del reale. Costoro restano vincolati al sentimento della perdita e sentono la vista degli altri come un furto operato nei loro confronti. Un tale sentimento negativo tende a produrre atteggiamenti ostili di riappropriazione: «occorre governare la vista degli altri per vivere la sensazione di possederla». Naturalmente si tratta di un atteggiamento fastidioso che con il tempo assume una fisionomia quasi persecutoria: di fronte a questo atteggiamento, la persona vedente avverte dapprima il disagio di essere vedente, ma successivamente fugge dalla situazione che gli appare sempre meno sopportabile. In ultima analisi chi paga realmente le conseguenze di questo atteggiamento inadeguato è proprio la persona non vedente diseducata, che così facendo aggrava la propria condizione di isolamento e di angustia. Non sono pochi i soggetti non vedenti che tentano di eludere il problema della dipendenza sociale cercando nelle risorse della moderna tecnologia la via dell’indipendenza. Riconoscendo che tali risorse indubbiamente mitigano il grado della dipendenza, ritengo che la vista degli altri resti un bene irrinunciabile e che valga la pena di apprendere la buona grazia sociale per riuscire a conquistarne gli innumerevoli riflessi positivi. La mia esperienza di educatore, di consulente e di non vedente mi indica una coniugazione tra potenziamento compensativo e interdipendenza sociale, a meno che il
Compensare o sostituire?
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soggetto disabile visivo non voglia vivere da solo in qualche parte del mondo, magari in una piccola isola dell’Oceano Pacifico. A parte i Robinson Crusoe e l’umorismo, bisogna dire che generalmente chi scopre il valore e l’efficacia dei cosiddetti sensi vicarianti scopre anche il valore di ciò che gli manca. Pertanto possiamo dire, in definitiva, che il processo di potenziamento compensativo è un cammino virtuoso nel quale si coniugano capacità, coscienza e confronto con il limite. Si tratta di una cammino lungo e difficile che oltrepassa i monotoni confini della routine, offrendo alla vita i sapori dell’avventura, della costruzione, della conoscenza e della libertà.
Per una didattica delle differenze individuali
Accade spesso che la diversità di un alunno sembri inconciliabile e incompatibile con il flusso ordinario della vita scolastica. In particolar modo ciò si verifica quando il gruppo di apprendimento si concentra su contenuti disciplinari omogenei che richiedono una conformità prestabilita e prefigurata sia nel conoscere che nell’eseguire. Possiamo dire, in altre parole, che l’uniformità delle abitudini e delle convenzioni scolastiche è il più grande e difficile ostacolo da superare, per consentire agli alunni un effettivo processo di integrazione. A questo proposito giova ribadire che non è la somiglianza degli apprendimenti la misura adeguata per valutare un processo di integrazione scolastica. Ciò che integra un gruppo di alunni è la socializzazione dei processi di apprendimento, la conoscenza del modo con cui l’altro alunno apprende e si confronta con i contenuti delle varie discipline. In una simile prospettiva le differenze individuali tendono a costituire il volume delle opportunità didattiche presenti nella classe. Esse rappresentano il paesaggio di esperienze di un gruppo di apprendimento. Affinché possa avvenire questo mutamento di prospettiva, sarà necessario oltrepassare il concetto di prova scolastica intesa come prodotto individuale, da collocare in una virtuale graduatoria, secondo il criterio di una maggiore o minore congruenza rispetto a una prova ideale considerata perfetta. Il prodotto scolastico di un alunno potrebbe essere considerato come il suo contributo e la sua partecipazione alla costruzione di una prodotto più esteso, inteso
Per una didattica delle differenze individuali
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come espressione dell’intero gruppo scolastico. Ragionevolmente anche in questo caso il prodotto scolastico individuale potrà essere valutato secondo criteri oggettivi e personalizzati, ma il suo significato e il suo valore dovranno essere considerati all’interno di una realtà più complessa, nella quale tutti gli alunni potranno conoscersi e riconoscersi. Infatti un prodotto scolastico collettivo può divenire un vero e proprio testo di apprendimento per i singoli alunni che nell’insieme dei contributi potranno godere e apprendere un contenuto disciplinare molto più ricco di particolari e di modalità espressive. È in questo modo che un gruppo di alunni può costruire la consapevolezza della propria storia, concepita come un percorso comune lungo il quale ciascuno di essi procede con le proprie forze, abilità, atteggiamenti e conoscenze. Naturalmente anche un gruppo così organizzato avrà una tensione egemonica, esercitata prevalentemente dai cosiddetti alunni trainanti che in qualche misura cercheranno di imporre principi di conformità. Questa tensione egemonica sarà comunque caratterizzata da comportamenti e da atteggiamenti aggressivi e non violenti. Mentre l’aggressività svolge una funzione affermativa di sollecitazione, la violenza mira alla eliminazione o comunque alla minimizzazione di una persona, nella sua presenza, nella sua voce e nella sua verità individuale. In definitiva è opportuno che ci sia, all’interno di un gruppo, la ricerca di somiglianze, purché tale ricerca non si trasformi e non degeneri nella ricerca delle diseguaglianze, che fatalmente ci conduce verso la logica e la prassi delle eliminazioni. L’intelligenza, secondo Piaget, è appunto la capacità di riconoscere la somiglianza nella diversità e la diversità nella somiglianza. In questo senso l’integrazione scolastica può essere concepita come il frutto dell’intelligenza, come la capacità di cogliere la non essenzialità delle alterazioni provenienti dalle differenze individuali. Occorre inoltre considerare che il lavoro collettivo di un gruppo di apprendimento conduce verso il confronto e l’incontro delle esperienze personali di vita vissuta, avvicinando così i contenuti delle discipline alle singole esistenze degli alunni. La socializzazione delle esistenze conferisce ai processi di apprendimento un significato comunitario e legittima le difficoltà di ciascuno in una prospettiva di aiuto reciproco e di corresponsabilità. In un simile contesto sociale e umano la persona disabile può intraprendere con sufficiente equilibrio il difficile confronto con i propri limiti e scorgere sempre più chiaro l’orizzonte delle proprie possibilità.
Non sottolineare le diversità
Uno tra i principali «comandamenti» che ci ha suggerito la pedagogia dell’integrazione è il divieto di sottolineare le diversità, soprattutto quelle concernenti il danno funzionale, lo svantaggio culturale o comunque una limitazione delle ordinarie possibilità. In effetti non c’è alcun bisogno di sottolineare simili diversità. Generalmente infatti le limitazioni si manifestano con evidenza, talvolta addirittura con eccessiva evidenza, tanto da risultare ingombranti. Sarà forse perché i limiti attraggono magneticamente la nostra attenzione, ma indubbiamente ci accade spesso di vederli amplificati e deformati, vale a dire molto più grandi e mostruosi rispetto alla loro reale fisionomia. Non sottolineare le diversità significa, in buona sostanza, saper presentare un limite in modo ragionevole, come l’aspetto di un insieme dinamico, di una globalità in evoluzione. Una limitazione non oscura l’identità di una persona, neanche quando caratterizza vistosamente i suoi comportamenti quotidiani. Infatti l’identità di una persona riguarda prevalentemente la sua forma di vita, il cammino della sua esistenza, sulla base del suo patrimonio funzionale e ambientale. Alcuni traguardi del vivere sono ammirevoli se conquistati da persone colpite da gravi limitazioni, mentre appaiono banali e trascurabili nel corso della vita di persone normodotate. In un certo senso la nostra identità è la storia della nostra vita personale, intesa nella complessità del suo profilo dinamico. Quando ci riesce di presentare la diversità nel contesto di un profilo dinamico-personale, ci accade di scoprire che la
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diversità risulta interessante, degna di essere avvicinata e conosciuta. In particolar modo conoscere la diversità dell’altro ci rende più liberi e capaci di concepire la nostra vita in una prospettiva più ampia, ove il senso del possibile tende a prevalere sull’esperienza della necessità. In contrasto con simili riflessioni sono molte le persone che credono di non sottolineare le diversità evitando semplicemente di parlarne, quasi che non parlandone la diversità divenisse sempre meno reale, fino a scomparire nel nulla. A questo proposito bisogna dire che la diversità costituisce una dimensione importante della nostra realtà quotidiana, così importante da assumere una funzione essenziale, vale a dire la funzione del rinnovamento. Quando ci accade di rifiutare la conoscenza della diversità, la nostra vita si complica maledettamente, soprattutto quando tale diversità appartiene a noi stessi. In questi casi facciamo i conti senza un ospite interno presente ma indesiderato, che continua in tutti i modi a manifestare una volontà di presenza. Occorre forse precisare che il rifiuto per la diversità dell’altro scaturisce quasi inesorabilmente dal rifiuto per la nostra diversità, per quella parte di noi che non vorremmo sentire come nostra e che viceversa ci appartiene intimamente. È anche vero però che, talvolta, la conoscenza della diversità dell’altro ci spinge a conoscere meglio noi stessi e a vivere un creativo processo di riconciliazione e di rinnovamento. Sarebbe un bene che molti insegnanti considerassero con maggiore attenzione tale opportunità, molto presente nella loro attività professionale. La scuola potrebbe divenire, più di quanto non sia, un luogo di conoscenza, di sviluppo e di comunicazione.
Come giocano i bambini non vedenti?
A partire dai primi anni di questo secolo le riflessioni pedagogiche di Augusto Romagnoli ci hanno rappresentato un’educazione dei bambini ciechi centrata sul gioco e sul movimento, intesi nel loro significato più profondo, vale a dire come atto di conciliazione con la vita e con il mondo. Il professor Romagnoli aveva compreso molto chiaramente che il bambino non vedente incontra maggiori difficoltà nel correre e nel giocare, piuttosto che nel leggere e nello scrivere. D’altra parte egli sapeva bene che il leggere e lo scrivere assumono un ben misero significato nel corso di un’esistenza caratterizzata dalla mortificazione del desiderio e da una sedentarietà inoperosa e verbalistica. Infatti la forza del pensiero trova il suo riscontro più autentico nel saper agire. In una scuola davvero attiva, leggere e scrivere assumono valore in un contesto sociale dove la scoperta, la comunicazione e le relazioni interpersonali offrono il motivo saliente alla vicenda scolastica. I giochi a cui pensava il professor Romagnoli erano soprattutto giochi di gruppo e di movimento, tali da coinvolgere la vita percettiva, immaginativa e fantastica dei bambini. In questo modo, il bambino cieco avrebbe conosciuto la bellezza del mondo, se ne sarebbe innamorato, superando di slancio il limite angusto di una vita introversa e rinunciataria. Nonostante le testimonianze e i suggerimenti di questo grande pedagogista, ancora oggi incontriamo frequentemente educatori e specialisti convinti che i giochi dei bambini non vedenti debbano essere, quasi per natura, giochi sedentari caratterizzati soprattutto dall’uso delle parole. A tal
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proposito bisogna dire che purtroppo durante la prima fase dell’integrazione scolastica le attività ludico-sociali dei bambini non vedenti o gravemente ipovedenti non hanno ricevuto l’attenzione necessaria e un adeguato impegno organizzativo. La ragione preponderante di simile inadeguatezza va ricercata nella sfiducia, nella difficoltà e nel disagio con i quali è stato affrontato il problema di adattare i giochi alla presenza dell’alunno non vedente. Soltanto nella seconda metà degli anni Ottanta abbiamo inserito un esiguo numero di alunni non vedenti in alcune ludoteche italiane, cercando di adattare i giochi più antichi e più divertenti alla loro diversità sensoriale. Devo dire che questo adattamento si è dimostrato più agevole e gratificante del previsto, offrendo ai bambini ciechi la possibilità di partecipare attivamente a una consistente quantità di giochi, proposti all’intero gruppo dei coetanei. In tal senso giova considerare che soprattutto i giochi più antichi presentano una meravigliosa ricchezza di varianti sensoriali e motorie, tali da prevedere in qualche misura la partecipazione di persone disabili e in particolar modo di soggetti non vedenti. Per comprendere meglio questo aspetto dobbiamo pensare che i giochi tradizionali avevano tra l’altro la funzione latente di preparare i bambini all’esperienza del buio, che prima della scoperta dell’energia elettrica si presentava frequentemente nel corso della vita quotidiana. L’attuazione di simili giochi si è rilevata interessante e formativa anche per gli alunni vedenti, i quali hanno potuto così sdrammatizzare l’esperienza del buio e conoscere meglio la condizione percettiva dei bambini non vedenti. Da parte loro i bambini non vedenti hanno imparato meglio a localizzare le fonti acustiche, a rappresentarsi lo spazio e gli schemi di azione ludica, vivacizzando il rapporto tra coinvolgimento fantastico e adattamento ambientale. Occorre inoltre precisare che le attività ludico-sociali promuovono nello sviluppo del bambino non vedente il desiderio di conoscere meglio l’orizzonte delle proprie possibilità reali, offrendo all’esperienza della cecità una dimensione più esplorativa e ardimentosa. La relativa facilità con la quale siamo riusciti a inserire questo piccolo numero di bambini non vedenti in alcune ludoteche ci ha spinto successivamente a estendere l’iniziativa. Abbiamo pertanto cercato di introdurre in alcune istituzioni scolastiche, soprattutto materne ed elementari, i giochi più divertenti, meglio riusciti e più facilmente adattabili. A questo punto abbiamo dovuto constatare una resistenza culturale, da parte delle scuole,
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spesso non facile da superare. Un’attenta osservazione del fenomeno ci consente di ipotizzare che non si tratta di una resistenza connessa con la specificità dell’alunno disabile visivo. Infatti l’immagine del bambino cieco che corre e gioca, con vivace allegria, comincia finalmente a penetrare nel vissuto scolastico e desta molto meno le tradizionali emozioni di meraviglia e di incredulità. Più che altro si tratta di una vera e propria difficoltà, da parte della scuola, ad accogliere l’esperienza ludica nella sua autentica irrequietezza e imprevedibilità. Molto spesso le istituzioni scolastiche cercano di trasformare il ludico in ludiforme, non riuscendo a rinunciare alla esplicitazione dell’obiettivo didattico e alla organizzazione di un contesto valutativo. Diversamente dal gioco, l’esperienza ludiforme non riesce a suscitare quasi mai l’entusiasmo degli alunni che scorgono in essa, fin troppo facilmente, la fisionomia dell’insegnamento. A nostro avviso, la scuola potrebbe ospitare la vita del gioco nel suo spazio istituzionale, migliorando così la qualità del suo intervento, soprattutto per quanto concerne la conoscenza degli alunni e l’integrazione di aspetti scolastici con aspetti riabilitativi. Per fare questo però le istituzioni scolastiche dovranno gradualmente conquistare la capacità di organizzare anche testi di apprendimento più attraenti e ispirati prevalentemente dal gusto dell’azione.
La difficile identità percettiva dell’alunno ipovedente
«Certe volte mio figlio mi disorienta. Si comporta in modo davvero incomprensibile. La sua condotta mi rende nervosa e riesce a scatenare, per fortuna solo qualche volta, le mie reazioni più violente. L’altro giorno, ad esempio, mi ha indicato con curiosità un piccolo insetto che camminava lentamente sul soffitto; qualche minuto dopo è andato a sbattere con la testa contro una porta chiusa, ritenendo che fosse aperta. Come fa una persona che vede un animaletto sul soffitto a sbattere contro una porta chiusa? La sua disattenzione è insopportabile. Sembra voglia prendermi in giro e francamente questo pensiero mi fa impazzire dalla rabbia. Insomma, voglio dire, mio figlio ci vede o non ci vede?» Sono le parole della madre di un bambino ipovedente che nonostante una buona acutezza visiva presenta un grave restringimento del campo visivo. Egli vede come se guardasse da un cannocchiale molto stretto e ciò spiega le apparenti contraddizioni del suo comportamento. Con questo mio scritto intendo presentare i problemi sociopsicologici che generalmente caratterizzano la condizione esistenziale dell’alunno ipovedente e le difficoltà che spesso accompagnano drammaticamente il suo processo di realizzazione scolastica. Lo spazio disponibile non mi consente di procedere analiticamente, di considerare nella loro specificità le molteplici variabili dell’ipovisione per quanto concerne l’entità del danno visivo,
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Orizzonti della cecità
il momento di insorgenza della minorazione, le diverse situazioni umane e sociali in cui tale minorazione può manifestarsi. In ogni caso posso affermare subito che i problemi e le difficoltà di cui mi accingo a parlare si presentano in misura tanto più grave e limitante quanto più incerta e ambigua permane la conoscenza della funzione visiva residua. La condizione di ipovisione risulta caratterizzata prevalentemente da un inquietante problema di accertamento circa le qualità funzionali del residuo visivo e dalla difficoltà di provvedere adeguatamente a una sua integrale e prudente utilizzazione. L’alunno ipovedente viene abitualmente ostacolato nel suo spontaneo tentativo di conoscere meglio e di valutare le possibilità offerte dalla propria condizione visiva. Infatti l’ambiente sociale d’appartenenza osserva il suo comportamento percettivo con atteggiamento ansioso e inquisitorio. In particolar modo i suoi insegnanti e i suoi compagni di scuola ostacolano la sua condotta esplorativa sperimentale poiché manifestano il loro ingovernabile bisogno di rassicurazione e la paura di scoprire una verità deprimente e inaccettabile. Il più delle volte l’interrogativo resta per così dire paralizzato nello schema dicotomico «ci vedi o non ci vedi?». Una simile domanda è l’effetto più evidente di una condizione cognitiva irrigidita che di fatto preclude la possibilità di un autentico esame delle circostanze reali ed esprime più che altro un’ambivalente mescolanza di illusione e di terrore. Occorre considerare che questa domanda può facilmente divenire un interrogativo tacito e costante nell’esperienza quotidiana dell’alunno ipovedente, un motivo ricorrente di inquietudine, di turbamento, di rinuncia, di depressione. D’altra parte l’alunno ipovedente può facilmente rendersi conto in simili circostanze che quanto più la sua condotta appare normale e disinvolta, tanto più nell’ambiente si instaura un clima di serenità e buon umore. Questa connessione lo induce irresistibilmente a simulare una condotta da vedente che, del resto, riceverà calorosi rinforzi dalla spontanea complicità degli altri. Per simulare con efficacia un’apparenza di normalità, l’alunno ipovedente deve condizionare una buona parte della sua esistenza quotidiana, imparando a eludere tutte le circostanze nelle quali il suo difetto visivo potrebbe emergere con evidenza. Indubbiamente si tratta di uno sforzo frustrante e ipertensivo, destinato a produrre effetti nocivi sull’integrità psichica della persona e sulla sua integrazione con il mondo circostante. Imparando a nascondere un aspetto
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considerevole della propria realtà, il soggetto organizza un cronico conflitto interiore. Infatti, sforzandosi di essere accettato sulla base di una simulazione, il soggetto alimenta un intimo rifiuto di se stesso, della propria condizione, e perde progressivamente fiducia nelle proprie effettive potenzialità. D’altra parte il tentativo e lo sforzo di simulare un’apparenza di normalità inducono il soggetto a instaurare con la realtà circostante un rapporto inadeguato, limitato dalla medesima necessità di finzione, tale da ridurre effettivamente le sue capacità di agire, di conoscere, di pensare. Numerosi bambini ipovedenti assumono un comportamento ansioso, caratterizzato dalla instabilità motoria, dalla labilità dell’attenzione e da una forte tendenza a fuggire dalle prove. La loro condotta frammentaria, iperattiva e disarmonica può facilmente indurci a considerarli dei veri e propri insufficienti mentali. Viceversa questa loro condotta è il drammatico risultato di una cronica strategia di evitamento di situazioni che potrebbero evidenziare la gravità del limite visivo. In questi casi l’ansia del rifiuto può raggiungere una intensità davvero preoccupante poiché può gradualmente compromettere nel soggetto l’organizzazione del principio di realtà, determinando gravi comportamenti compulsivi e irrigidimenti di tipo prepsicotico. Volendo prescindere da questi casi più gravi, torna comunque opportuno precisare che la pratica della simulazione di normalità costringe l’alunno ipovedente nell’ambito di una angusta esperienza interiore sempre più difficile da comunicare. D’altra parte bisogna considerare che l’alunno ipovedente, anche quando desidera socializzare l’esperienza relativa alla propria condizione, generalmente incontra difficoltà notevoli, talvolta addirittura insormontabili. In modo particolare l’ipovedente dalla nascita non può fare riferimento a esperienze di visione normale e pertanto non trova termini di paragone per esprimere con sufficiente chiarezza la propria condizione visiva. Egli ha bisogno di essere aiutato, facilitato in tale compito da persone capaci di manifestare, con atteggiamento sereno e accogliente, il desiderio di conoscere meglio il suo residuo visivo. In altre parole l’alunno ipovedente ha bisogno di sentire che l’altro si interessa del suo limite sensoriale per fare meglio qualcosa insieme, per migliorare le circostanze dell’incontro e la chiarezza della relazione. Viceversa l’ipovedente deve spesso confrontarsi suo malgrado con una curiosità comunque offensiva, sia perché gravida di tensione e di paura sia perché cinica, frettolosa, superficiale. Infatti in entrambi i casi l’ipovedente avverte che non c’è vero interesse per la sua
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condizione e viene indotto dalle circostanze a tentare nuovamente la via della simulazione. Dobbiamo ammettere con franchezza che la nostra società non appare predisposta ad accogliere la presenza umana dell’ipovedente. Per molti aspetti si verifica il paradosso per cui la presenza dei ciechi nella società riceve maggiore rispetto e considerazione di quanto non accada nel caso degli ipovedenti. L’ipovisione viene spesso fraintesa, ridicolizzata e comunque minimizzata nella sua drammaticità. Il motivo del fraintendimento va ricercato indubbiamente nella difficoltà di riconoscimento di questa condizione sensoriale e nella sua relativa indefinibilità. Inoltre la vita civica urbana presenta ritmi frenetici che generalmente impediscono la possibilità di spiegazioni minuziose, riducendo notevolmente la nostra attenzione verso gli altri. D’altra parte la condizione di ipovisione non sollecita il sentimento del sacro così come invece si verifica nel caso della condizione di cecità. Più che altro l’ipovisione sollecita il senso del ridicolo poiché mette in evidenza uno stato di inadeguatezza di cui non è facile scorgere l’intima drammaticità. L’immagine di un ipovedente munito di occhiali che urta goffamente contro un ostacolo suscita più che altro nell’osservatore il concetto della distrazione colposa, autorizzando eventuali reazioni beffarde e superficiali. Inoltre la richiesta di soccorso civico da parte dell’ipovedente suscita sospetto, incredulità, sconcerto, tanto da impedire spesso una risposta di aiuto valida e soddisfacente. Allo scopo di evitare fraintendimenti e risposte inopportune, l’ipovedente spesso decide di non avvalersi dell’aiuto sociale e si avventura per la città da solo, con le proprie forze, praticando strategie di comportamento pazienti e faticose, che talvolta danno luogo a circostanze rischiose e ancor più frustranti. L’atteggiamento ansioso e inquisitorio delle persone care e la incomprensione superficiale e beffarda di gran parte della cittadinanza non aiutano certamente il soggetto ipovedente a organizzare con chiarezza e misura la propria vita quotidiana e a progettare con fiducia ed equilibrio la propria esistenza futura. Se poi consideriamo che frequentemente il residuo visivo non offre alcuna garanzia di stabilità, diviene ancor più facile comprendere come l’esistenza futura nella persona ipovedente possa assumere una fisionomia particolarmente incerta, insidiosa e oscura. Queste mie considerazioni nella loro sinteticità potranno forse apparire eccessivamente negative e drammatiche. A questo proposito vorrei precisare che tali considerazioni sono il frutto di una lunga esperienza di studio del problema nella sua
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concretezza e di un’esperienza vissuta personalmente ancora più lunga e indicativa. Rischiando di suscitare una qualche inquietudine, voglio qui affermare una mia verità personale davvero sconcertante. Nel periodo in cui sono divenuto cieco ho vissuto con profonda amarezza e con intensa nostalgia la perdita del mio residuo visivo, ma simultaneamente ho vissuto il sollievo di uscire da una condizione sociopsicologica ambigua, instabile, paradossale, caratterizzata dal fraintendimento e dal timore del futuro. La condizione sociopsicologica degli ipovedenti merita la nostra inquietudine e la nostra preoccupazione, poiché esige una risposta istituzionale e socioculturale molto più attenta e adeguata. Nel corso del Ventesimo secolo i ciechi hanno cercato di evolvere la pietà sociale sollecitando una preoccupazione più scientifica e feconda. Per quanto concerne gli ipovedenti, le circostanze sociali si dimostrano più contraddittorie e inospitali in quanto il loro problema non è stato ancora focalizzato nella sua effettiva gravità. Pertanto occorre soprattutto, da parte di noi tutti, una grande capacità di immedesimazione, tale da consentirci una solidarietà intelligente e operosa. Viviamo in una società poco predisposta ai processi di immedesimazione poiché pervasa dal desiderio di eludere la sofferenza che tali processi comportano. In definitiva non possiamo impostare e risolvere opportunamente il problema degli ipovedenti attingendo esclusivamente alle risorse della moderna tecnologia. Senza minimizzare affatto il valore e l’importanza di tali risorse, la soluzione di questo problema esige, principalmente da parte nostra, la capacità e il gusto di capire l’altro nella sua diversità di condizione, semplicemente per alimentare la gioia di vivere meglio insieme.
Il Braille: alfabeto da vivere
Quando mi capita di proporre ai docenti un’esercitazione per conoscere il sistema di scrittura e lettura Braille, già sento, ancor prima di iniziare, le loro esclamazioni di protesta, di paura e di smarrimento. Nella loro mente il Braille appare come qualcosa di labirintico, un insieme di puntini misteriosi che trovano ordine e significato esclusivamente nel pensiero della persona non vedente. Nel corso delle esercitazioni il timore e il rifiuto si trasformano gradualmente in una sorta di meraviglia, man mano che si evidenziano la semplicità del Braille, la sua chiarezza e la vivacità didattica con cui può essere presentato. A questo punto i docenti assumono una posizione di apprendimento molto più partecipe e attiva, dimostrando interesse e fiducia nei propri mezzi cognitivi. Le letterine Braille si formano nella loro mente con una fisionomia figurativa molto precisa, arricchita da integrazioni spontanee di natura immaginativa e fantastica. L’alfabeto Braille diviene finalmente qualcosa di vivo, una realtà culturale festosa, una sublime espressione dell’intelligenza e della socialità. Possiamo dire in altri termini che il Braille può essere conosciuto nelle sue effettive potenzialità solo quando venga distinto dai vissuti angosciosi che accompagnano regolarmente il pensiero della cecità. È infatti il vincolo tra scrittura Braille ed esperienza della cecità che rende così difficile ai genitori del bambino non vedente (o gravemente ipovedente) un confronto sereno con le possibilità offerte da questo straordinario alfabeto tattile. Talvolta i genitori rifiutano con decisione il Braille,
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proprio perché in esso vivono troppo intensamente il confronto con la minorazione visiva del bambino. D’altra parte un simile vincolo suggerisce quasi istintivamente ai docenti di presentare al bambino la scrittura Braille con timorosa esitazione, quasi fosse il triste surrogato dell’alfabeto vero, vale a dire l’alfabeto visivo. Tale presentazione appare luttuosa al bambino, il quale si sente un po’ legittimato nel rifiutare uno strumento che persino il docente considera penoso e squalificato. Il bambino ha bisogno di sentire che la scelta viene fatta dai suoi insegnanti, dall’istituzione scolastica, e che si tratta di una scelta particolarmente efficace e opportuna, allo scopo di realizzare le sue possibilità di studio e di socializzazione. Tutto questo potrà riuscire molto meglio in una classe dove le differenze individuali vengano vissute come un patrimonio comune, meritevole di interesse e di partecipazione. A questo proposito devo dire, sulla base della mia esperienza professionale, che gli alunni vedenti dimostrano generalmente, nel confronto con il Braille, un salutare atteggiamento di curiosità e una spontanea disposizione ad apprendere. Ciò non accade quando le circostanze socio-educative e psicosociali dell’istituzione scolastica presentano l’alunno disabile visivo concluso nell’angosciosa retorica dell’oscurità. Tale retorica riesce a disarmare la curiosità dei coetanei, anche dei più vivaci e intraprendenti. Ancora una volta dobbiamo concludere indicando il pensiero angoscioso della cecità come il principale ostacolo da superare lungo la difficile via dell’integrazione scolastica e sociale.
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Introduzione Una considerazione immediata di questo argomento potrebbe indurci a percepire prevalentemente la sua dimensione tecnica e a classificarlo come uno tra i numerosi problemi molto particolari. Se viceversa ci soffermiamo a valutare le sue molteplici implicazioni e focalizziamo la sua reale statura problematica, l’argomento induce interrogativi e analisi che penetrano profondamente la nostra attualità socioculturale. Durante questo secolo le conquiste scientifiche e tecnologiche e anche alcune complesse trasformazioni storico-culturali hanno modificato dalle radici la connessione tra immagine e parola, offrendo soprattutto nuove e imprevedibili prospettive alla cosiddetta cultura dell’immagine e della comunicazione. In un simile contesto ci limiteremo a evidenziare gli aspetti che riteniamo più significativi in rapporto con le esigenze dei soggetti non vedenti di partecipare attivamente alla vita culturale nel territorio sociale di appartenenza. Verso un linguaggio di immagini visive Con il passare del tempo il mondo dello spettacolo e anche il mondo delle comunicazioni di massa hanno affermato progressivamente la validità, l’efficacia e, in un certo senso, l’autosufficienza delle immagini visive.
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Non siamo in grado di valutare quanto abbia influito, in questa direzione, l’evoluzione dell’arte cinetica e lo studio scientifico delle percezioni visive. Riteniamo comunque che il motivo principale dello sviluppo dei messaggi visivi consista più che altro nella loro immediatezza, nella loro possibile globalità e anche nella loro grande capacità di condensare molteplici significati mediante immagini polivalenti. Secondo questa ipotesi non si tratterebbe pertanto di un vero e proprio interesse epistemologico circa la funzione visiva, ma piuttosto di un interesse per l’effetto prodotto dal messaggio visivo sulla persona che lo riceve. D’altra parte il nostro modo attuale di vivere l’attività visiva, considerata soprattutto nella sua immediatezza, ha occupato negli ultimi decenni uno spazio sempre più considerevole. Saper guardare intorno per cogliere rapidamente le indicazioni e le informazioni circa le scelte da compiere è divenuta oggi un’abilità molto importante, un’abilità che qualifica significativamente il nostro grado di adattamento sociale. Contemporaneamente si è consolidata la tendenza a guardare per sognare, utilizzando la sollecitazione visiva come un motorino di avviamento della nostra attività fantastica (per l’appunto sognare a occhi aperti). Bisogna dire che inoltre l’attività visiva si è molto sviluppata nel senso della partecipazione a distanza, vale a dire nel senso di un coinvolgimento interiore liberato dai vincoli della relazione interpersonale. In ultima analisi occorre aggiungere che gli aspetti minacciosi e ansiogeni di questa nostra società sollecitano nel soggetto la disposizione a essere guardingo, a osservare le circostanze e le situazioni per cogliere eventuali indizi di pericolosità. Tutto questo induce una emancipazione della funzione visiva dalla necessità di un rapporto con la parola e con il dialogo. Di conseguenza il messaggio visivo progredisce nel suo cammino verso l’indipendenza dal parlato e anche dal sonoro, assumendo una sua fisionomia e una sua articolazione sempre più intrinseca ed esclusiva. Parole indicative e parole rappresentative Evidentemente, il contesto sopradescritto non poteva non produrre importanti modificazioni sulla comunicazione verbale, sia parlata che scritta. In particolar modo è accaduto che la comunicazione verbale si è
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organizzata e qualificata sempre di più in riferimento all’attività percettiva, intesa soprattutto nei suoi aspetti visivi. In altri termini parliamo sempre di più per indicare all’altro qualcosa da guardare o da osservare meglio. Nel caso del linguaggio parlato questo «qualcosa» è un elemento della realtà, mentre nel caso del linguaggio scritto il «qualcosa» riguarda generalmente una figura, un fotogramma oppure un video collegato con il testo di lettura. In misura corrispondente ai fenomeni accennati nel paragrafo precedente, possiamo dire che il linguaggio delle parole va perdendo la sua tradizionale autosufficienza rappresentativa, assumendo sempre di più e sempre meglio una funzione indicativa rispetto a immagini di altra natura. In questo senso uno strumento audiovisivo presenta solitamente una sua implicita sintassi, secondo la quale il parlato e il sonoro accompagnano il visivo, svolgendo una funzione integrativa e complementare, che conferma e addirittura sottolinea la centralità e in qualche modo l’indipendenza del messaggio visivo. A questo proposito giova precisare che il linguaggio parlato, nello svolgere questa sua funzione prevalentemente indicativa rispetto a fenomeni visivi, assume anch’esso una certa fisionomia visiva che risulta poco accessibile al soggetto non vedente, soprattutto se divenuto cieco in età neonatale. Se osserviamo i testi presenti nella scuola dell’obbligo, è anche troppo facile constatare la fisionomia visiva del linguaggio verbale e la sua accentuata funzione indicativa. Un’accurata trascrizione in Braille di un libro di testo a vantaggio di un alunno non vedente esige un vero e proprio progetto di adattamento e in qualche modo un’autentica ristrutturazione. I soggetti non vedenti hanno bisogno di un linguaggio verbale rivolto, più che altro, alle loro capacità di rappresentazione immaginativa, sulla base delle loro esperienze concrete di vita. In un simile contesto verbale-rappresentativo, le eventuali figurazioni svolgono una funzione di facilitazione per le attività di analisi e di sintesi. Esperienza concreta e informazione Molto spesso, nelle scuole, gli audiovisivi vengono utilizzati per promuovere il coinvolgimento degli alunni e per attivare più spontaneamente la disposizione ad apprendere. Generalmente accade però che, in simili
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circostanze, lo strumento audiovisivo divenga un vero e proprio erogatore di informazioni vissute quasi come un sostituto dell’esperienza concreta. In questo modo la scuola svolge una funzione del tutto simile a quella caratteristica dei mezzi di comunicazione di massa che, cercando messaggi sempre più coinvolgenti e sensazionali, tendono a confondere il piano dell’informazione con il piano dell’esperienza reale. Viceversa la scuola potrebbe divenire il luogo ideale per qualificare e distinguere l’esperienza quotidiana della realtà e la funzione specifica delle informazioni. In particolar modo gli alunni non vedenti o gravemente ipovedenti avrebbero bisogno di una simile scuola per costruire un’esperienza personale sempre più ricca e qualificata. Infatti le informazioni programmate trovano il loro significato specifico nel fornire all’esperienza reale la possibilità di una rielaborazione, di una rivisitazione integrata allo scopo di qualificare progressivamente e potenziare la prospettiva di apprendimento. La confusione di questi due aspetti implica un processo di apprendimento che, allo stesso tempo, risulta emozionante e standardizzato. Nella migliore delle ipotesi un simile processo di apprendimento costruisce una giustapposizione di contenuti, accompagnati da una esperienza scolastica non personalizzata ma spettacolare. Parole per dire l’immagine visiva Tradizionalmente accade che i genitori del bambino non vedente, ma spesso anche i suoi insegnanti, vogliano compensare la sua privazione sensoriale trasmettendo la realtà visiva nel suo mondo interiore attraverso le parole. Questo desiderio irreale rende le loro descrizioni scarsamente rappresentative. Infatti le descrizioni animate da questo desiderio esprimono più che altro, generalmente in forma enfatica, il vissuto della persona vedente, piuttosto che fornire alla persona che non vede supporti verbali validi per la costruzione di realistiche rappresentazioni mentali. La descrizione della realtà visiva dovrebbe essere commisurata rigorosamente all’esperienza vissuta dalla persona non vedente, utilizzando parole, figure tattili e modelli tridimensionali adeguati alla sua condizione di apprendimento. In ogni caso sarebbe necessario comprendere che non è possibile offrire alla persona non vedente la realtà nei suoi aspetti propriamente ed
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esclusivamente visivi. A questo proposito bisogna dire che la nostra società dimostra con evidenza di non volersi rassegnare all’idea che un soggetto non vedente non possa in alcun modo entrare in contatto immediato con la realtà dei colori e più estesamente con la realtà visiva. Da un lato questo atteggiamento sociale può essere considerato positivo, poiché mantiene aperta la via della ricerca scientifica e della solidarietà interpersonale. D’altro lato però si realizza frequentemente attraverso comportamenti che, invece di facilitare i soggetti non vedenti nello sforzo di apprendere, ne rimarcano implicitamente ma vistosamente i limiti sensoriali. Per quanto concerne i supporti verbali a vantaggio dei soggetti non vedenti che vogliano fruire di alcune trasmissioni televisive o di alcuni film trasmessi in TV e in alcune sale cinematografiche particolari, occorre riconoscere una evoluzione molto positiva. Bisogna aggiungere, a onor del vero, che talvolta simili supporti verbali vengono espressi in forma indiscreta e invadente. Viceversa il supporto verbale dovrebbe mantenersi fuori dal campo della trasmissione, mediante una posizione acustica tale da assumere la fisionomia di un suggerimento rapido ed efficace. Alcune indicazioni operative Abbiamo raccolto e puntualizzato le indicazioni che riteniamo fondamentali: –– un soggetto non vedente, che ascolti un audiovisivo, vive in qualche misura la sua inadeguatezza sensoriale e non può fingere una condizione di normalità senza offendere la propria dignità cognitiva e la propria immagine personale; –– egli ha quantomeno bisogno di un supporto verbale, ma in alcuni casi anche di figurazioni in rilievo e di modelli tridimensionali; –– soprattutto quando parliamo di alunni non vedenti o gravemente ipovedenti è molto importante che l’audiovisivo risulti adeguato, per contenuti e per linguaggio, all’esperienza reale del soggetto disabile visivo; –– quando l’audiovisivo risulta inadeguato, occorre promuovere per l’alunno non vedente esperienze pratiche guidate, tali da consentire conoscenze che lo rendano capace di acquisire le informazioni dell’audiovisivo mediante un’assimilazione integrata.
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Il principale rischio presente nello sviluppo e nell’apprendimento dell’alunno non vedente consiste in una crescita disarmonica, rigida e parcellare; questa ragione dovrebbe suggerire agli educatori e agli insegnanti di garantire all’alunno non vedente un percorso di apprendimento caratterizzato, nei limiti del possibile, da motivi e da significati personali. Abbiamo spesso la sensazione che la scuola vada smarrendo il valore dei motivi e dei significati personali nel percorso di apprendimento. A questo proposito desideriamo affermare che anche gli alunni normodotati vivono l’esigenza di una migliore connessione tra i contenuti dell’insegnamento scolastico e la loro esistenza personale. Una scuola che mantenga saldo questo valore di riferimento è indubbiamente una scuola che sa apprezzare le diversità individuali e sa mantenerle unite secondo i criteri di una didattica integrata.
Gli alunni sordi tra classi speciali e ordinarie
Un esame critico dell’esperienza e del comportamento di un alunno sordo continua a risentire spesso della tendenza dicotomica con la quale la scuola speciale e la scuola ordinaria vengono poste a confronto. Occorre subito aggiungere, in secondo luogo, che permane anche una significativa resistenza a considerare la condizione umana e sociale di un alunno sordo nel singolare insieme delle sue variabili personali, vale a dire, l’entità del danno sensoriale, il momento d’insorgenza della minorazione e le caratteristiche individuali del rapporto persona-ambiente. Bisogna dire, in terzo luogo, che l’osservazione delle singole situazioni viene più che altro condotta mediante classificazioni schematiche secondo criteri convenzionali, che offrono uno spazio esiguo e comunque insufficiente a una ricerca più approfondita e a una osservazione clinica partecipe. Questi tre aspetti trovano una loro nitida connessione nel concetto di confronto con la diversità che rappresenta, a mio modo di vedere, la base «naturale» di un ragionamento che voglia impostare il problema in una forma dinamica e dialettica. A questo proposito ci sembra giunto il momento di affermare con la necessaria efficacia che un equilibrato e complessivo confronto con la diversità può attuarsi compiutamente soltanto nel caso in cui l’alunno disabile possa vivere la sua esperienza scolastica con alunni normodotati e anche con alunni che presentino la sua stessa limitazione funzionale: con gli altri sordi, l’alunno potrà consolidare la propria condizione personale, qualificando le proprie potenzialità di apprendimento in un contesto di familiarità, caratterizzato
Gli alunni sordi tra classi speciali e ordinarie
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da criteri di insegnamento già sperimentati e rispettosi dell’elevata specificità di una condizione sensoriale così complessa e difficile da focalizzare; nel gruppo dei coetanei normodotati l’alunno sordo potrà concepire la propria diversità personale, valutare e modellare meglio la propria identità di alunno e di futuro cittadino, imparando le più opportune strategie psicosociali di inserimento e di integrazione. Occorre soprattutto comprendere che il confronto con una diversità limitante può svilupparsi positivamente soltanto se accompagnato e sorretto da una forte esperienza di somiglianza, vale a dire di rispecchiamento critico tra simili. In particolar modo, quando la diversità presenta un elevato grado di specificità, tale da non consentire una comprensione intuitiva e immediata dei problemi dell’altro, il gruppo sociale tende ad assumere un comportamento analgesico e mimetizzante. In simili circostanze il confronto con la diversità perde quasi interamente il suo valore di apprendimento e di conoscenza, assumendo la connotazione della spiacevolezza e della penosità. Si preferisce minimizzare o addirittura eludere i problemi, concentrandosi su qualche aspetto tecnico-parcellare, nel quale vengano posti con enfasi i desideri e i sogni di cancellazione del problema. D’altra parte occorre anche comprendere che l’esperienza di somiglianza tra diversi dello stesso tipo tende a organizzare, con il passare del tempo, luoghi rassicuranti ove si possa coltivare, più o meno consapevolmente, una sorta di mito dell’indipendenza che certamente non facilita il confronto con il limite e con la diversità. Viviamo in una società che intende superare l’esperienza del dolore attraverso la fuga dal dolore, complicando ulteriormente la struttura della nostra esistenza. Cerchiamo pertanto di combattere questa pericolosa e nociva illusione, ascoltando con attenzione i segnali provenienti dal dolore per superarli mediante risposte più qualificate e costruttive, che non inseguano le frenesie di semplificazione mirando diritto alla soluzione dei problemi, intesi nella loro dimensione complessivamente umana. *** Riteniamo, in conclusione, che possa giovare una definizione di ciò che abbiamo chiamato «confronto con la diversità», poiché una simile espressione potrebbe indurre fraintendimenti legittimi quanto nocivi. Il confronto con la diversità scaturisce, a nostro avviso, dalla coscienza del
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limite e della specificità con cui possiamo rispondere al limite, compensando interamente o parzialmente la disabilità che esso comporta. Naturalmente la consapevolezza del limite non può maturare in misura sufficiente in un contesto sociale ove non sia possibile un confronto quotidiano con i coetanei normodotati. D’altra parte la consapevolezza di una risposta compensativa qualificata e della dignità del proprio modo specifico di percepire non possono che nascere da un confronto altrettanto quotidiano con altri coetanei caratterizzati dalla stessa disabilità. Più in generale potremmo dire che il confronto con la diversità è il confronto con i propri limiti, intesi come perimetro figurativo della propria identità personale e delle proprie possibilità. In questo significato più ampio il confronto con la diversità appartiene a ciascuno di noi, a prescindere dalla presenza di una disabilità. In effetti è il limite che ci rende riconoscibili e rappresenta, nello stesso tempo, l’orizzonte della nostra esistenza, un orizzonte da oltrepassare e da estendere di volta in volta. È nel dinamismo di una simile identità che diveniamo degni di conoscere, di conoscerci e di essere conosciuti. La scuola potrebbe e dovrebbe aiutarci in questo cammino, facilitando i nostri tentativi di orientamento e di impegno. Viceversa troppo spesso la scuola tende a chiudersi entro sterili convenzionalismi che non offrono adeguato respiro alla complessità polivalente dei processi di apprendimento e di sviluppo. È il piacere di conoscere che rende la scuola capace di accogliere le diversità individuali. Senza questo piacere la diversità ci offre soltanto il suo volto perturbante e la sua penosa vertigine. Non ci resta pertanto che affermare soprattutto l’interesse presente nella nostra condizione di disabili sensoriali e far capire che vale la pena conoscerci, poiché conoscere noi significa anche conoscere molto meglio la specie umana e le possibilità nascoste, talvolta oppresse, dal nostro vivere sociale.
L’integrazione nelle università. Ascoltare i sordi, osservare i ciechi
Verso un percorso di apprendimento personalizzato La condizione umana e sociale dei soggetti disabili sensoriali presenta rilevanti caratteri di complessità funzionale, tali da richiedere, a chi voglia comprenderne il profilo dinamico e le problematiche, eccellenti capacità di osservazione, di ragionamento e di equilibrio emozionale. Almeno per un aspetto possiamo dire che i ciechi e i sordi hanno commesso il medesimo errore nel corso della loro faticosa, difficile e ancora incompiuta integrazione socioculturale. I ciechi hanno cercato la socializzazione delle loro esperienze personali, comunicando soprattutto attraverso l’uso della parola, lo strumento di cui dispongono senza limitazioni. Analogamente i sordi hanno cercato di raggiungere il medesimo obiettivo, comunicando soprattutto mediante la realtà dell’agire e del sentire, nella sua immediatezza espressiva, vale a dire attraverso strumenti padroneggiati con naturalezza. In entrambi i casi il risultato è stato significativo ma insufficiente. Con le loro parole i ciechi hanno saputo magnetizzare l’attenzione degli altri, ma non sono riusciti a costruire con essi un soddisfacente e comune sentimento di realtà. Ancora oggi le loro parole vengono vissute in una dimensione di pathos inoperoso, affascinante ma svincolato dalle pratiche del vivere quotidiano. D’altro lato le azioni e la mimica dei sordi vengono percepite con occhio superficiale e bidimensionale, appiattito sulla concretezza immediata del contesto, al di qua dello spessore personale del
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soggetto non udente. Potremmo dire che i ciechi hanno bisogno di essere osservati maggiormente nella dimensione dell’agire, mentre i sordi meritano maggiore ascolto e intelligenza per quanto concerne i loro pensieri e la loro vita interiore. Affinché ciò possa avvenire occorre educare gli uni e gli altri in tale direzione e in particolar modo verso una consapevolezza dei loro limiti sensoriali e anche dei limiti incontrati dagli altri nel tentativo di comprendere la loro condizione. Nel caso dei soggetti disabili sensoriali la consapevolezza del limite costituisce il vero e proprio cardine di uno sviluppo sociale e di una crescita ispirata dal sentimento civico della reciprocità e della corresponsabilità. Per comprendere un cieco vale molto di più osservarlo mentre cammina, con il suo bastone bianco, tra le insidie e le difficoltà del territorio civico-urbano, che ascoltare una lezione magistrale sull’incidenza della disabilità visiva sullo sviluppo del bambino. Analogamente, per comprendere un sordo vale molto di più ricevere da lui il racconto della sua storia personale e le descrizioni più significative del suo modo di vivere le circostanze della realtà quotidiana. Queste considerazioni ci consentono di capire come, nel caso dei disabili sensoriali, un servizio di facilitazione debba partire, per dimostrarsi adeguato, da una conoscenza qualificata della condizione personale del soggetto disabile. È soprattutto importante conoscere le sue modalità di compensazione del limite sensoriale e le sue capacità di integrare esperienze, pensieri e comunicazione. Bisogna dire che in tal senso le facilitazioni standardizzate risultano scarsamente efficaci e molto inique, considerando la grande eterogeneità di condizione nella quale vengono a trovarsi i soggetti disabili sensoriali. Non si tratta soltanto di considerare con attenzione il profilo dinamico-funzionale di ciascuno studente, ma di praticare con lui, in misura significativa, una relazione interpersonale dalla quale possano emergere con chiarezza le sue difficoltà e le sue esigenze. Anche i sussidi e gli ausili per facilitare lo studio dei testi non possono essere costruiti e forniti efficacemente secondo una logica «standard», caratteristica dei servizi di base. In particolar modo, nel caso dei soggetti non udenti, l’efficacia delle mediazioni didattiche presenta una variabilità così estesa da richiedere il supporto qualificato e tempestivo di un vero e proprio laboratorio didattico. In altre parole possiamo chiederci se il mondo accademico abbia deciso di conoscere e di adeguarsi alla condizione degli studenti disabili sensoriali secondo astratti e semplificati criteri di categoria, oppure voglia davvero
L’integrazione nelle università. Ascoltare i sordi, osservare i ciechi
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conoscere simili studenti nella realtà singolare dei loro processi di apprendimento e di integrazione sociale. Il linguaggio della diversità e il confronto reale con i limiti del vivere possono affermarsi e crescere soltanto in una logica della coesistenza, al di qua di risposte e soluzioni automatiche che, per quanto ben concertate, ci proporrebbero ancora una volta un civile tentativo di evitamento del confronto. Il disagio del confronto interpersonale può essere superato soltanto da chi accetti di viverlo, generando gradualmente i presupposti di una buona relazione. È vero che viviamo in una società analgesica, nella quale il dolore viene percepito esclusivamente nella sua spiacevolezza e nella sua inutilità. È anche vero che troppe volte il dolore ci è stato presentato con la superficialità mistico-salvifica di coloro che ne parlano così tanto da non essere credibili. Ciononostante potremmo forse pensare che talvolta il dolore di un confronto rappresenta l’unica via per procedere oltre verso nuove e interessanti possibilità. Ritengo che le risorse e le potenzialità presenti nella condizione umana dei soggetti non udenti siano state esplorate e conosciute in una misura decisamente scarsa. D’altra parte ritengo che segni di risorse e potenzialità potranno essere conosciuti meglio in contesti psicosociali e culturali, dove il confronto con i limiti personali divenga l’espressione di un autentico tentativo di costruire nuove forme di libertà e di corresponsabilità. A questo proposito, mi sento di affermare che il mondo accademico potrebbe finalmente riuscire a coniugare la ricerca scientifica sui disabili sensoriali e la loro integrazione sociale, in quanto studenti e studiosi. Logicamente questo compito non poteva essere svolto dalle istituzioni speciali e nemmeno dalle associazioni dei disabili e dei genitori dei soggetti disabili. Naturalmente però queste realtà istituzionali potranno aiutare il mondo accademico in questo difficile compito, mediante un’ordinata collaborazione nel rispetto delle specifiche competenze e finalità di ciascuna istituzione. L’integrazione sociale, quando viene mossa dal desiderio di conoscere e dal piacere di capire, diviene una preziosa occasione per vivere meglio insieme. Quando viceversa viene mossa da una superficiale volontà di essere buoni e civili, può divenire, nelle migliore delle ipotesi, una moderna ripresentazione della beneficenza.
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Orizzonti della cecità
Tre aspetti rilevanti per una comune prospettiva di intervento sociale Volendo prescindere da esperienze del passato remoto, durante le quali i soggetti non vedenti e non udenti hanno vissuto insieme, «custoditi» confusamente all’interno di istituzioni segreganti e diseducative, queste due condizioni di limite sensoriale sono state raramente coniugate. Viceversa si tratta di condizioni che offrono importanti e significativi aspetti di convergenza, soprattutto se considerate in una prospettiva di intervento sociale. A questo proposito vogliamo qui evidenziare tre aspetti che a nostro avviso meriterebbero maggiore attenzione e un esame ben più approfondito. 1. In entrambe le condizioni, la risposta del contesto socio-familiare si dimostra decisiva ai fini di uno sviluppo adeguato e armonico del soggetto disabile. Cionondimeno la famiglia viene lasciata, quasi regolarmente, da sola di fronte ai propri atteggiamenti incongruenti e ai propri comportamenti disfunzionali. Questa potrebbe apparire una contraddizione incomprensibile se non considerassimo la naturalezza con la quale questa nostra società vive il destino dei soggetti disabili che oltre alla disabilità subiscono la non comprensione delle loro esigenze, molto spesso a partire dalle persone più vicine, più care e più significative. 2. In entrambe le condizioni, il piacere e la capacità di conoscere viene disgiunto e disarticolato dal piacere e dalla capacità di comunicare. In particolar modo l’esperienza della comunicazione viene enfatizzata, trascurando le esperienze di apprendimento implicite nel rapporto persona-ambiente. Per altro si tratta di un errore che viene intensificato da una scuola dove le tecnologie educative trascurano la qualificazione dell’esperienza quotidiana e il rapporto della persona con il proprio sé. 3. In entrambe le condizioni, possiamo auspicarci un processo di potenziamento compensativo, sempre che non siano presenti limitazioni delle possibilità simboliche e relazionali. Con il termine «potenziamento compensativo» intendiamo un potenziamento di risorse umane fondamentali, capaci di controbilanciare la valenza depressiva della limitazione sensoriale. In particolar modo ci riferiamo al piacere di osservare e di esplorare, al gusto di ricordare e di immaginare, al desiderio di rendersi utili e amabili. Evidentemente si tratta di risorse che poggiano su abilità specifiche, ma che non possono maturare dentro una logica riduttiva delle abilità.
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Questi tre aspetti, benché importanti e significativi, non ci consentono davvero di accomunare in alcun modo queste due diverse condizioni sensoriali. Naturalmente non è questa la sede per approfondire le diversità presenti in queste due condizioni, né le diverse prospettive psicopedagogiche, metodologico-didattiche e terapeutico-riabilitative. Vogliamo semplicemente limitarci a svolgere una breve considerazione per indicare la diversità del vissuto, derivante in qualche modo dalla diversità del limite sensoriale. La cecità implica la condizione di buio interiore, la perdita di un oggetto interno luminoso, che può essere facilmente vissuta come presenza minacciosa, come perdita dell’autostima e della fiducia nelle risorse personali. La sordità implica la condizione di silenzio esteriore e la squalificazione di un ambiente che non dice nulla, che ci esclude poiché non entra in contatto con la nostra interiorità. Per questa ragione la condizione di sordità implica prevalentemente un vissuto di esclusione da un ambiente nel quale, forse, non vale la pena di essere inclusi. Com’è facile constatare, si tratta di vissuti molto diversi che, pur nascendo entrambi da un’esperienza di limite sensoriale, tendono a concretizzarsi attraverso risposte divergenti. Nei ciechi è più forte il desiderio di essere inclusi, la volontà di partecipare e di agire insieme con gli altri. Nei sordi è molto più forte il sentimento dell’indipendenza, il desiderio di autonomia, la volontà di vivere tra sordi il piacere di esistere e di convivere.
Apprendimenti radicali e minorazioni aggiuntive
Uno schema degli apprendimenti radicali Un ambiente affettivo primario ci consente di apprendere le forme elementari della partecipazione e le principali condizioni del conoscere e dell’agire. Attraverso le quotidiane esperienze della vita domestica, il bambino impara a orientarsi nel contesto della sua famiglia, articolando le possibili dimensioni della sua presenza personale. Abbiamo voluto configurare simili articolazioni, allo scopo di offrire un valido schema di riferimento che possa in qualche misura migliorare la comprensibilità del nostro ragionamento successivo. 1. Il bambino impara a essere un «lui», mediante gli schemi sociali «noi ci occupiamo di lui», «io mi occupo di lui». In questo modo il bambino apprende a funzionare come oggetto di attenzioni, di cure e di iniziative. 2. Il bambino impara a essere un «tu», mediante gli schemi sociali «noi ci rivolgiamo a te», «io mi rivolgo a te». In questo modo il bambino apprende a funzionare come interlocutore; egli apprende l’esperienza della partecipazione, del conflitto, della separazione e della riconciliazione. 3. Il bambino impara a essere un «io», mediante gli schemi sociali «io mi rivolgo a te», «io mi rivolgo a voi». In questo modo il bambino apprende l’esercizio della soggettività, divenendo gradualmente più convinto e più responsabile delle proprie esperienze interiori (desideri, paure, aspettative, esigenze, ecc.).
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4. Il bambino impara a essere parte di un «noi», mediante le esperienze e le decisioni condivise con il gruppo della famiglia o con parte di esso. In questo modo il bambino apprende a contenere le possibilità e i limiti della propria soggettività. La dimensione del «noi» rappresenta, più di ogni altra, l’esperienza che rende possibile la coniugazione del senso di sicurezza con il senso di libertà. 5. Il bambino impara a essere parte di un «voi» mediante gli schemi sociali «io mi rivolgo a voi», «noi ci rivolgiamo a voi». In questo modo il bambino apprende a vivere un’azione comune e a condividere il senso della responsabilità. Nuove funzioni per la scuola Naturalmente, non sempre la famiglia possiede in misura adeguata le articolazioni sociali e la struttura organizzativa per consentire e promuovere nel bambino simili apprendimenti radicali. Le attuali condizioni dell’istituzione famiglia dimostrano più che altro un’accentuazione delle esperienze frammentarie e caotiche, nelle quali le varie forme della presenza personale tendono a intrecciarsi e a confondersi in una sorta di magma socio-affettivo, nel quale risulta molto difficile distinguere il chiedere dall’offrire, il giudicare dal conoscere, l’agire dal reagire, il pensare dal sentire. In simili circostanze il bambino entra nella scuola senza possedere una sufficiente capacità di governare le forme elementari della propria presenza personale. Questa incapacità rende pressoché impossibile al bambino collocarsi nel gruppo scolastico mediante una posizione di apprendimento. In altre parole il bambino non è in grado di assumere la funzione di alunno, di soggetto che apprende nel contesto di un gruppo sociale organizzato in tal senso. Da parte sua, l’istituzione scolastica dovrà gradualmente prendere atto di questa condizione infantile, sempre più frequente, anche se con differenti misure di gravità. A tale proposito l’istituzione scolastica ha bisogno di imparare a svolgere funzioni relativamente nuove, che per molti aspetti richiamano la funzione socio-riabilitativa. In particolar modo «osservare con l’alunno le sue caratteristiche personali», «riattivare la sua disposizione ad apprendere», «facilitare i suoi tentativi di apprendimento» dovranno divenire
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funzioni ordinarie dell’organizzazione scolastica, vale a dire funzioni che prescindono dalla segnalazione di specifici limiti funzionali. Per adesso la scuola continua più che altro a immaginare alunni esemplari, sempre meno frequenti e sempre meno esistenti. Per altro la scuola continua a meravigliarsi della gran parte degli alunni, vale a dire quelli che fanno ingresso nella scuola senza dimostrare una vera e propria disposizione ad apprendere. Per lo più si tratta di bambini che apprendono esclusivamente nell’immediatezza delle situazioni sociali e che rifiutano sistematicamente di collocarsi in una situazione sociale più strutturata, dove l’io, il tu, il lui, il noi, il voi e il loro possano essere distinti e complementari. In queste distinzioni il bambino avverte confusamente il pericolo della solitudine e tende immediatamente a rifugiarsi in un mondo fantastico che in qualche modo lo riconduce nella sua abituale confusione di esperienze frammentarie. Per aiutare un bambino che vive una simile condizione, è necessario rivisitare con metodo graduale e progressivo le forme elementari della sua vita sociale, aiutandolo a distinguerle e a conoscere i diversi vantaggi presenti in ciascuna di esse. Si tratta pertanto di svolgere una difficile funzione di contenimento emozionale, mescolando sapientemente la vicinanza affettuosa con la richiesta di responsabilità e di impegno. Per dirla con Enrico Pestalozzi, la scuola dovrà dimostrarsi capace di concretizzare il suo «amore pensoso», la sua funzione genitoriale pervasa di passione civile e di gusto per la libertà. Rinnovare le funzioni tradizionali della scuola Occorre inoltre chiarire che la scuola non potrà limitarsi ad acquisire queste nuove funzioni di contenimento emozionale. Sarà infatti necessario rinnovare le due funzioni tradizionali della scuola, il «fare lezione» e «organizzare un corso di lezioni». Per quanto riguarda il fare lezione, occorre soprattutto avvicinare i contenuti delle singole discipline all’esistenza degli alunni, affinché possano risultare maggiormente significativi. In questo senso bisogna dire che le istituzioni scolastiche hanno cercato soprattutto di semplificare i contenuti delle singole discipline, non considerando che la semplificazione conferisce al contenuto disciplinare una fisionomia ancora più logica e distante dall’esistenza dell’alunno. Soprattutto i bambini hanno bisogno di presentazioni
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complesse e vive, capaci di introdurre nell’aula la fragranza percettiva del contenuto disciplinare, la sua presenza coinvolgente, capace di attivare il loro impegno mentale. Fare lezione è una funzione magistrale che implica conoscenze, abilità e atteggiamenti. Apprendere questa funzione richiede studio ma anche tirocinio, esperienze pratiche e collaborazione tra colleghi. Per quanto concerne l’organizzazione di un corso di lezioni, sarà necessario individuare i contenuti essenziali di una disciplina, il loro oggettivo coefficiente di difficoltà e un adeguato ritmo di progressione. Gli alunni hanno bisogno di essere chiamati ad apprendere con energia e determinazione. D’altra parte essi hanno bisogno di ricevere gli strumenti adatti a consentire il loro percorso di apprendimento. Naturalmente la fornitura degli strumenti deve tener conto delle differenze individuali che distinguono i singoli alunni, allo scopo di offrire a ciascuno di essi l’opportunità di un successo scolastico. Tutto questo configura la scuola come un’istituzione dotata di validi gruppi funzionali di lavoro. In questo senso l’identità dei singoli docenti dovrà essere concepita con maggiore duttilità e con maggiore flessibilità, utilizzando ciascun docente secondo criteri più rispondenti alle caratteristiche personali. Una scuola così concepita sarà certamente più capace di accogliere e di riconoscere gli alunni nella loro identità personale, chiedendo a ciascuno il meglio di sé, lungo la prospettiva di un apprendimento più integrato e più significativo. Un contesto educativo di apprendimento per i soggetti disabili visivi con minorazioni aggiuntive Spesso la nostra scuola trascura l’importanza del contesto e non svolge in misura sufficiente un esame critico circa gli effetti nocivi derivanti da carenze contestuali, che in alcuni casi potrebbero essere colmate con relativa facilità. Tali carenze riguardano prevalentemente le condizioni estetiche dell’istituzione scolastica, i presupposti organizzativi del fatto educativo, le circostanze socio-relazionali della vita di classe e le articolazioni funzionali del gruppo dei docenti. L’inclusione scolastica degli alunni disabili ha posto in evidenza simili carenze con tale drammaticità da suscitare ulteriori turbamenti, che non hanno giovato alla comprensione del problema.
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Orizzonti della cecità
Il contesto della vita scolastica continua a essere considerato dagli insegnanti un aspetto quasi trascurabile della situazione, mentre per gli alunni rappresenta il colore e il senso delle loro esperienze nella scuola. La cura degli ambienti, la mimica dei volti, i toni della voce, la gestualità dei corpi, il rapporto tra parole e comportamenti, il valore reale delle regole, il rispetto dei progetti concertati sono alcuni tra gli aspetti che tra gli altri consentono a ciascun alunno una valutazione concreta della sua scuola e l’indicazione più efficace per orientarsi nel labirinto delle relazioni scolastiche. Gli alunni disabili visivi con minorazioni aggiuntive possiedono minori strumenti simbolico-relazionali e quindi subiscono maggiormente le carenze del contesto scolastico. Nel rapporto con simili alunni la scuola dimostra la sua effettiva adeguatezza nella misura in cui riesce a offrire un contesto educativo di apprendimento nel quale risultino coniugati e ben articolati il contenimento delle emozioni, l’invito a conoscere, a capire e a riuscire, nonché una facilitazione dei processi di apprendimento. In qualche modo le istituzioni scolastiche dispongono di queste tre funzioni ma generalmente le utilizzano ciascuna per volta, in contesti nettamente separati. Viceversa, nel caso di alunni così carenti dal punto di vista funzionale, occorre concepire un contesto nel quale queste tre delicate funzioni vengano a comporsi secondo una metodologia capace di coniugarle, calibrando le dosi della composizione in rapporto alle esigenze di ciascuna singola situazione. Infatti l’alunno disabile visivo e pluriminorato ha bisogno di sentirsi: «oggetto di cure», «interlocutore di sollecitazioni», «protagonista da sostenere» e «soggetto partecipe di azioni collettive». Occorre aggiungere che simili esigenze si presenteranno, nel corso della giornata scolastica, secondo misure molto variabili, a causa della sua labile struttura dell’io e della sua instabilità emozionale. Tutto questo richiede una prolungata esperienza e una competenza molto qualificata. Difficile pensare che simili doti possano diffondersi equamente sul territorio scolastico nazionale. È molto più realistico pensare a strutture scolastico-riabilitative nelle quali la dimensione clinico-pedagogica presenti una particolare consistenza nell’organizzazione del contesto educativo di apprendimento. Naturalmente non immaginiamo istituzioni segreganti ma istituzioni scolastiche ordinarie, arricchite da funzioni educative speciali integrate, nei limiti del possibile, nel contesto complessivo della realtà scolastica. Come sempre a questo punto ci sarà qualcuno che saprà evocare
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e agitare i fantasmi dell’esclusione e della separazione. Da parte nostra riteniamo soltanto che sia giunto il momento, forse anche tardivo, di offrire a simili alunni una risposta scolastica commisurata rigorosamente alle loro effettive difficoltà e anche alle loro reali possibilità.
Seconda nascita. La riabilitazione nella scuola dell’autonomia
Come proposizione introduttiva possiamo affermare, con la dovuta semplicità preliminare, che il processo di integrazione scolastica degli alunni con deficit nasce e si sviluppa in un contesto di riparazione. Il termine «riparazione» assume in questa sede un significato esteso e complesso, tale da richiedere almeno qualche distinzione fondamentale. In primo luogo riparazione degli errori del passato, durante il quale gli alunni con deficit erano stati esclusi dalla scuola comune e marginalizzati in ambienti scolastici speciali, dove la loro diversità assumeva le caratteristiche di una vera e propria divisa sociale, da indossare con spirito di sottomissione paziente e uniforme. In secondo luogo riparazione di tutti quei comportamenti che indicassero in qualche modo la diversità degli alunni con deficit per sottolineare la problematicità della loro presenza. In terzo luogo riparazione-dissolvimento del deficit stesso, mediante un contesto socio-organizzativo più adeguato che cancellasse con l’handicap anche il sentimento del limite. In quarto luogo riparazione come recupero di funzioni scolastiche e produttive, tale da restituire all’alunno il sentimento del saper agire e dell’essere utilizzabile nel corso della sua vita sociale. Per compiutezza possiamo inoltre affermare che il pathos della riparazione si collega prevalentemente con il sentimento del giusto e del necessario, piuttosto che con la concezione di un possibile miglioramento da praticare
Seconda nascita. La riabilitazione nella scuola dell’autonomia
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per gradi successivi. L’insieme di queste prime considerazioni può aiutarci a comprendere i motivi che hanno determinato un processo di integrazione scolastica accelerato e confuso dalla volontà un po’ frettolosa di mettere finalmente le cose a posto. Occorre soprattutto comprendere come in un simile contesto l’alunno con deficit abbia vissuto e viva spesso tuttora la sua presenza in classe tra i compagni come l’occasione per una disputa tra insegnanti curriculari e di sostegno, e in qualche misura avverta se stesso come un oggetto da riparare. Naturalmente tutto ciò limita la qualità della sua identità personale e il volume della sua soggettività psicosociale, complicando notevolmente il suo percorso di apprendimento e di sviluppo. La percezione sociosanitaria degli alunni con deficit e la tendenza a risolvere i loro problemi negli automatismi di un tecnicismo didattico costituiscono nel loro insieme la conseguenza più vistosa e preoccupante di una velleità di riparazione che fin troppo facilmente e frequentemente si discosta dal confronto con il limite e più complessivamente da un esame della realtà. Sulla base di simili presupposti possiamo ritenere che la riforma della scuola nel senso dell’autonomia rappresenti indubbiamente un’occasione storicoculturale per affermare i principi dell’integrazione all’interno di una cultura progettuale scolastica. Le disposizioni giuridiche che introdussero gli alunni con deficit nella scuola di tutti, nel corso degli anni Settanta, concentravano soprattutto la loro attenzione sulle cosiddette integrazioni didattiche e specialistiche, trascurando l’importanza di una cultura progettuale che sapesse portarci oltre le abitudini quotidiane della scuola, verso fatti educativi nuovi modellati e modulati nel rispetto delle diversità individuali e della vita di gruppo dei coetanei. In una scuola non integrata non è stato possibile attuare il processo di integrazione degli alunni disabili, neanche in presenza di validi supporti didattici e specialistici. Infatti un contesto dimostra di saper accogliere la diversità quando appare predisposto ai processi di ristrutturazione. Ciò è possibile se le norme che regolano la sua vita quotidiana presentano una loro ordinaria modificabilità. Soltanto una cultura progettuale è caratterizzata da regole chiare e modificabili, capaci di vincere la forza delle abitudini mediante una sequenza di obiettivi che rappresentano con la loro concretezza la via per un continuo miglioramento. Incluso in un contesto di miglioramento praticabile, l’alunno con deficit sarà percepito né più né meno come un soggetto che desidera conoscere una vita migliore e che magari ha paura
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di non farcela. Egli sarà semplicemente aiutato a considerare con maggiore attenzione e fiducia i propri mezzi e a percorrere il suo personale cammino tra persone che, ciascuna a suo modo, vivono un’analoga esperienza. La diversità individuale dell’alunno con deficit verrà percepita nella sua specificità, nelle sue caratteristiche particolari, ma anche come una delle differenze individuali, degna come la altre di essere conosciuta e celebrata. Si tratta di un percorso complesso e critico, tale da esigere il più delle volte il supporto di attività riabilitative. Non possiamo però considerare la dimensione riabilitativa come un’entità globale senza scivolare in un confuso e contraddittorio dualismo di interventi e di competenze professionali. In questo senso può giovare una distinzione teorica e organizzativa fra tre diversi settori della riabilitazione, aventi finalità autonome, convergenti e conciliabili con il fatto educativo scolastico. Innanzitutto è importante indicare la necessità di una riabilitazione che potremmo definire specifica, vale a dire confezionata ad hoc per quel tipo di deficit, da praticare in un contesto particolarmente attrezzato. Ad esempio nel caso del deficit visivo, possiamo riferirci alla riabilitazione delle funzioni percettive, immaginativo-motorie e socio-relazionali. In senso più strettamente funzionale possiamo inoltre riferirci al raggiungimento delle autonomie, con attenzione particolare all’autonomia nello studio, mediante la padronanza dei sussidi didattici speciali e di tutti quegli strumenti che facilitano il rapporto tra la persona non vedente o ipovedente e la realtà culturale. La diffidenza ancora oggi diffusa e persistente intorno ai contesti particolarmente attrezzati non si dimostra nei fatti rispettosa di un’esigenza fondamentale degli alunni con deficit visivo. Essi infatti hanno bisogno anche di confrontarsi con ragazzi che presentano la loro stessa condizione sensoriale, per conoscere e valutare meglio se stessi, le loro possibilità e i loro limiti. La riabilitazione specifica esige un contesto particolare per consentire all’alunno di tornare nella società dei vedenti su una base di consapevolezza e di equilibrio. In definitiva occorre capire che tra le altre cose c’è anche bisogno di un luogo dove il deficit visivo sia di casa, lontano dalla meraviglia e dalla facile indulgenza, in una parola lontano dal pathos della cecità tuttora presente nella realtà del nostro vivere sociale. In secondo luogo possiamo distinguere e indicare tutte quelle attività che potremmo comprendere nel concetto di socio-riabilitazione. Per lo più si tratta di attività motorio-espressive, ludico-sociali, ginnico-sportive,
Seconda nascita. La riabilitazione nella scuola dell’autonomia
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ricreativo-culturali, da praticare in ambiente sociale integrato. A questo proposito è necessario prendere atto che il nostro territorio civico dimostra una grave situazione di inadeguatezza. Non soltanto le realtà sociali di questo tipo sono carenti, ma generalmente dimostrano uno scarso coefficiente di integrazione, prevalentemente per la rigidità delle loro formule organizzative e per l’incapacità di accogliere i soggetti con deficit come una risorsa, come una opportunità di miglioramento. Malgrado le difficoltà della situazione dobbiamo comunque insistere in questa direzione, individuando modalità di pressione sociale sempre più incisive e convincenti. Le attività di socioriabilitazione costituiscono infatti un elemento centrale e propulsivo nel processo di integrazione sociale del bambino disabile visivo. Gli effetti positivi di queste attività irradiano l’intera esistenza del bambino e ne facilitano sensibilmente il processo di realizzazione umana. In particolar modo dovremmo sostenere con ogni mezzo l’inserimento dei ragazzi con deficit visivo nelle ludoteche. Un bambino non vedente o ipovedente che sappia giocare con gli altri bambini, che conosca e proponga giochi adattabili alla sua condizione sensoriale, è un bambino che difficilmente vivrà il disagio della marginalizzazione. In terzo e ultimo luogo dobbiamo soffermarci sulla riabilitazione propriamente scolastica, intesa soprattutto come facilitazione dei processi di apprendimento e riattivazione della disposizione ad apprendere. Indiscutibilmente questo settore è parte della funzione docente, anche se ne costituisce la dimensione più nuova e meno praticata. Storicamente la scuola è abituata a porre l’alunno di fronte alla prova, per valutarne le capacità e le incapacità. Diversamente la facilitazione ad apprendere è orientata dal desiderio e dalla prospettiva di procedere insieme con l’alunno, sostenendo le sue possibilità mediante supporti didattici in grado di attivare al meglio le sue effettive risorse. In questo modo si evita la cronicità dell’insuccesso e si favorisce un percorso di apprendimento secondo modalità e ritmi corrispondenti alle esigenze dell’alunno. Simili metodi di facilitazione didattica, quali ad esempio il metodo Feuerstein, non sono confezionati per gli alunni con deficit, ma più generalmente per tutti gli alunni che presentano in varia misura l’esigenza di una mediazione per affrontare con fiducia l’esperienza dell’apprendimento. Nel caso sempre più frequente di alunni disabili visivi pluriminorati il supporto riabilitativo, in queste tre dimensioni fondamentali, rappresenta la parte più consistente dell’intervento. Tale preponderanza
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Orizzonti della cecità
dovrà essere controbilanciata da una relazione educativa che sappia percepire nell’alunno, nonostante la sua grave limitazione, il desiderio di vivere, il piacere di esistere e il gusto di migliorare. Se necessario, i miglioramenti dovranno essere osservati con la lente di ingrandimento allo scopo di non scivolare in una vicenda scolastico-istituzionale di abitudini quotidiane prive di storia e di prospettiva. Più gravi sono le limitazioni funzionali, più importanza assume l’osservazione dell’umanità del soggetto, vale a dire le sue aspettative, le sue emozioni, gli sforzi della sua intelligenza per guadagnarsi uno spazio di vita più vantaggioso. In una scuola integrata, il paesaggio del vivere e dell’apprendere si presenta variopinto e interessante. Una molteplicità di soggetti che conoscono e si conoscono, che interagiscono vivendo insieme un’esperienza duratura e significativa. Quando la scuola riesce a rappresentare queste dimensioni non diviene soltanto contesto educativo di apprendimento, luogo di convivenza democratica, ma anche l’occasione di una seconda nascita che nel rispetto della prima ci offre nuove condizioni per conoscere noi stessi, gli altri e il mondo circostante.
Il bambino pluridisabile: compatibilità sociale e piacere di esistere
Abitualmente utilizziamo la parola «diversità» senza riflettere a fondo sul suo significato. Ciò accade soprattutto quando desideriamo enfatizzare il valore della diversità nelle sue implicazioni sociali, civili e culturali. In particolar modo l’aspetto su cui non riflettiamo abbastanza è il diverso modo con il quale ciascuno di noi vive una singola diversità nella sua qualità caratteristica. In questo senso la diversità è un concetto molto astratto che si riferisce a una molteplicità davvero immensa di significati concreti, molto diversi tra loro. In ogni caso bisogna dire che alcune diversità comprendono un insieme di fenomeni sufficientemente omogenei e altre invece comprendono insiemi decisamente eterogenei. Per quanto riguarda i soggetti disabili, il nostro desiderio di semplificazione ci induce a prediligere le categorie più omogenee, rispetto alle quali torna più facile concepire e praticare strategie di insegnamento. A questo proposito la categoria degli alunni pluridisabili non vedenti o ipovedenti è indubbiamente uno tra gli insiemi meno omogenei e quindi meno prediletti. Se poi ragioniamo sul nostro atteggiamento e sui nostri comportamenti in una prospettiva propriamente intrapsichica, dobbiamo subito renderci conto che ciascuna singolare diversità possiede una sua valenza perturbante in rapporto con la nostra personale realtà. In linea generale possiamo dire che ci riesce più facile concepire l’altro quando il suo modo di essere diverso non ci impedisce di rispecchiarci nella sua immagine e nella sua condotta. Una diversità concepibile poggia infatti sopra una base emozionale di so-
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miglianza e vive in un contesto di rispecchiamenti possibili. Viceversa può accadere che ci troviamo in relazione con una diversità che non riusciamo a concepire, che sembra non offrirci alcuna possibilità di rispecchiamento. In questi casi la diversità ci si presenta come aliena, come eccessiva, producendo in noi penose sensazioni di impotenza, di separazione e di smarrimento. In simili circostanze la fuga dal campo percettivo rappresenta la risposta più immediata e naturale, anche se frequentemente viene repressa dall’attaccamento affettivo e dal sentimento del dovere. Quando non possiamo fuggire dal campo di condivisione percettiva, siamo indotti a cercare comunque la via di un rispecchiamento e solitamente lo cerchiamo in un frammento dell’altro, in un suo aspetto parcellare nel quale trovare la forza per organizzare una relazione. Per questa ragione accade spesso che i genitori (e anche gli insegnanti) concentrino la loro attenzione su un aspetto estetico del bambino pluridisabile visivo oppure su una particolare abilità che possa lasciar fantasticare una futura funzione sociale, che faccia da riferimento per sognare in qualche modo «una sua rinascita». Generalmente questi aspetti parcellari del bambino vengono curati con grande sollecitudine e con pratiche di comportamento così rituali da risultare molto spesso compulsive. Naturalmente anche il bambino vive la propria identità rispecchiandosi in alcuni frammenti di se stesso e, così facendo, organizza una struttura dell’io frammentaria e disarmonica. Nel bambino vengono a mancare le coordinazioni complessive, poiché la sua presenza umana non viene mai considerata per intero. A questo proposito occorre comprendere come una persona (e in particolar modo un bambino in via di sviluppo) abbia l’esigenza di essere considerata nella sua interezza e di percepire nell’ambiente il significato della propria presenza umana. Essere costretti a riconoscere la nostra vita in un frammento estetico oppure in un comportamento funzionale non ci consente neppure di concepire e di individuare la globalità del nostro sé e della nostra realtà personale. In tali situazioni l’esperienza ci suggerisce che non giova contestare ai genitori e agli insegnanti la parcellarità della loro attenzione nel rapporto con il bambino. Si tratta invece di offrire loro una testimonianza concreta circa il significato da offrire alla presenza del bambino, inteso come persona partecipe e attiva nel suo contesto di appartenenza. Questa testimonianza diviene possibile quando riusciamo a liberarci da una concezione preconfezionata dell’esistenza umana e a rappresentarci le forme della vita umana con un sufficiente
Il bambino pluridisabile: compatibilità sociale e piacere di esistere
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grado di spregiudicatezza. Al di qua dei pregiudizi, un soggetto pluridisabile visivo offre la complessità e la ricchezza di una presenza umana, tutta da conoscere ma anche tutta da rispettare nella sua dimensione non conoscibile. Accogliendo la dimensione del «non conoscibile» diviene possibile rispecchiarci nella sua presenza globale, poiché gli aspetti misteriosi del vivere ci accomunano e ci rendono tutti molto somiglianti. L’attuale concezione del progresso tecnologico nutre un atteggiamento riluttante e aggressivo nel confronto con ciò che non può essere conosciuto, poiché enfatizza il valore della sicurezza di sé e la fiducia nei propri mezzi individuali e sociali. Evidentemente l’esistenza di un soggetto pluridisabile visivo trova spazio, respiro e significato soltanto in un contesto sociale caratterizzato da un clima di solidarietà, dove la presenza umana non venga misurata esclusivamente nei termini della produttività mercantile, ma anche secondo i criteri dell’appartenenza, della fecondità e della partecipazione. In questo senso bisogna dire che un soggetto pluridisabile visivo può darci davvero molto, con la semplicità dei suoi desideri, con l’immediatezza del suo affetto, con la meraviglia delle sue lente ma significative conquiste funzionali. Anche se talvolta, purtroppo, non ce ne accorgiamo, la sua presenza offre nuova autenticità alla vita del gruppo e moltiplica le opportunità di relazione interpersonale. I bisogni del bambino pluridisabile visivo, spesso primitivi e rudimentali, contribuiscono ogni giorno a farci sentire utili e a riconquistare un significato dell’esistenza più chiaro e fondamentale. Lo scambio che potrà avvenire tra una società tecnologica avanzata e i bambini pluriminorati non vedenti è davvero interessante in una prospettiva di cultura postmoderna. Infatti la società, da parte sua, potrà offrire sempre di più e sempre meglio strumenti e ambienti intelligenti, allo scopo di favorire la loro indipendenza e la loro autonomia. Da parte loro i bambini pluridisabili potranno offrire alla società un piacere di esistere più libero dai condizionamenti provenienti dal disagio della civiltà. Tutto questo presuppone però una prospettiva di riabilitazione, ispirata prevalentemente dalla finalità di armonizzare l’esistenza dei soggetti pluridisabili. Il potenziamento di singoli aspetti o funzioni della loro personalità dovrà essere opportunamente bilanciato nel contesto di tale imprescindibile finalità, globale e prioritaria. Siamo ragionevolmente convinti che da un lato occorra aiutare con ogni mezzo i bambini pluridisabili visivi a divenire più somiglianti e compatibili (accettabili) nel gruppo sociale di appartenenza. D’altro lato riteniamo che
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l’accettabilità di simili bambini non possa in alcun modo assumere le caratteristiche di un’offesa repressiva del loro piacere di esistere. Infatti in una società civile il rispetto della vita umana non dovrebbe mai risultare subordinato a un criterio di conformità, anche nel caso in cui alcune particolari forme di vita ci procurassero intense e spiacevoli perturbazioni emozionali. Essere perturbanti contro la nostra volontà non può davvero configurare una fattispecie di reato, né morale né civile. Si tratta invece di cercare tutti insieme una maggiore capacità di governare le nostre personali perturbazioni, per dare corpo a una società umana più tollerante e più intelligente. In una simile società i soggetti pluridisabili potranno conoscere molto meglio il gusto del vivere e potranno forse aiutarci a condurre un’esistenza più libera dall’ansia delle prestazioni e dall’impietosa pratica dell’obiettivo.
Il bambino pluriminorato: un progetto riabilitativo personalizzato
Anche le persone predisposte a confrontarsi ogni giorno con i limiti funzionali provano generalmente una sensazione di sgomento di fronte alla condizione del bambino non vedente pluriminorato. In particolar modo quando il danno funzionale comprende la percezione, il movimento e le funzioni simbolico-relazionali, il bambino ci appare «concluso» nei suoi limiti, irrimediabilmente sommerso nella realtà delle sue privazioni. Il sentimento angoscioso dell’irreparabile mortifica gravemente il piacere della conoscenza e soprattutto ci spinge a considerare l’altro come un insieme di frammenti funzionali più o meno compromessi. In questo modo noi evitiamo di concepire l’altro come un autentico interlocutore, come persona nella sua interezza, come soggetto destinato a esistere. Le diagnosi funzionali polivalenti e i progetti riabilitativi risentono frequentemente di tale frammentarietà, perché vengono redatti come elenchi di tratti da descrivere e di obiettivi da perseguire. Questi elenchi mancano di un profilo sintetico preliminare capace di offrire ai singoli frammenti e agli obiettivi particolari il significato autentico di un progetto personalizzato. Risulta impossibile redigere un progetto personalizzato prescindendo da un rapporto interpersonale con il soggetto pluridisabile. Infatti per comporre un ritratto verbale dell’altro, una sorta di fotografia della sua identità soggettiva, occorre quantomeno esserne stati osservatori partecipi. A questo punto dovremmo chiederci: «Cosa possiamo osservare nel bambino non vedente pluriminorato per vivere un contatto vero e proprio con la sua identità
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Orizzonti della cecità
soggettiva?» Diversamente da quanto ci si potrebbe aspettare, la risposta è semplice, chiara e disarmante. Per conoscere l’altro nella sua interezza, al di là dei suoi limiti funzionali, dobbiamo conoscere e confrontarci con i suoi desideri, con le sue paure, con le sue condotte di avvicinamento e di allontanamento, con le sue strategie di conquista degli oggetti desiderati. Gli eventuali limiti funzionali del bambino verranno successivamente considerati nel contesto di questa sua realtà soggettiva, allo scopo di non separarci troppo dal suo mondo, dal suo mentale e reale spazio di vita. La difficoltà di mettere in pratica una simile indicazione emerge quasi esclusivamente da ostacoli emozionali, vale a dire dalle perturbazioni che ci impediscono di osservare l’altro mantenendo viva la nostra disposizione ad apprendere. Osservando, viceversa, i suoi frammenti funzionali riusciamo in qualche modo a eludere il confronto con il limite, considerando esclusivamente microlimiti parcellari che presentano più che altro una dimensione tecnico-riabilitativa. Occorre comprendere che in tal modo invitiamo anche il bambino a rispecchiarsi nei propri frammenti funzionali e a smarrire il volume soggettivo della propria identità. La consapevolezza di ciò che dobbiamo osservare e la buona volontà di farlo, a costo di spendere una considerevole quota di energie, possono comunque aiutarci in misura decisiva verso la giusta direzione, anche perché i desideri e le paure di un bambino possiedono una grande forza di coinvolgimento. La cosa più difficile e più importante è riuscire a entrare in contatto con simili desideri, a viverne la dimensione umana e a conoscerne le caratteristiche peculiari. D’altra parte possiamo dire che conoscere i desideri dell’altro costituisce la vera e propria origine di un rapporto d’amore, poiché rappresenta la forma specifica della condizione di vicinanza. Naturalmente qui parliamo di una vicinanza disciplinata dalle regole di un contesto riabilitativo. Ciò nondimeno una relazione ispirata dalla presenza del desiderio assume comunque una valenza procreativa, del tutto propizia all’esito del trattamento. Alla luce di una esperienza interpersonale, i tratti funzionali del bambino potranno essere considerati in una prospettiva di potenziamento e di armonizzazione, conservando un vincolo sentimentale con la sua specifica volontà di vivere e soprattutto con il suo piacere di esistere. Al di là dei suoi gravi limiti, il bambino non dovrebbe mai divenire una macchina da riparare. Infatti nella sua vita quello che più conta è la qualità delle sue relazioni interpersonali. I colori del suo mondo, della sua realtà
Il bambino pluriminorato: un progetto riabilitativo personalizzato
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dipendono molto, forse troppo, dal modo con cui possiamo e sappiamo comunicare con lui e offrire alla sua vita una prospettiva di partecipazione. Sulla base di queste considerazioni, vorrei indicare quali potrebbero essere, a mio modo di vedere, gli ingredienti fondamentali di un progetto riabilitativo personalizzato: 1. Allegati a supporto: –– quadro delle informazioni medico-socio-psico-pedagogiche; –– profilo storico-personale; –– ritratto verbale della persona; –– diagnosi funzionale polivalente finalizzata alla riabilitazione. 2. Obiettivi funzionali: –– funzioni da potenziare; –– funzioni da stabilizzare; –– funzioni da coordinare; –– prospettiva di armonizzazione delle funzioni, intesa come risposta ottimale all’insieme dei limiti funzionali. 3. Obiettivi di contenuto: –– area della fiducia di base; –– area dell’autonomia e dell’indipendenza; –– area dell’iniziativa. Naturalmente per ciascun obiettivo sarà opportuno precisare le modalità del trattamento, il contesto di esecuzione e il criterio per la verifica del grado di apprendimento. Ci rendiamo conto che un simile programma di intervento presuppone un equilibrio delle competenze affettive e relazionali e delle competenze tecnico-riabilitative. Si tratta in effetti di un equilibrio difficile da raggiungere, ma la difficoltà non può divenire un alibi che consenta di nasconderci ciò che risulta necessario. Più che altro si tratta di accettare una logica gradualistica, secondo la quale si può crescere anche lentamente purché si percorra la strada più opportuna.
L’intervento socio-riabilitativo
Riteniamo opportuno precisare innanzitutto che, nel caso di alunni non vedenti e ipovedenti con disabilità aggiuntive a carico delle funzioni simbolico-relazionali, l’entità dell’intervento socio-riabilitativo si dimostra preponderante rispetto all’intervento propriamente scolastico. È in questo senso che un numero significativo di scuole ha già cominciato a organizzare nello spazio dell’istituzione scolastica contesti finalizzati a interventi riabilitativi, d’intesa con le aziende sanitarie locali e con gli altri soggetti istituzionali presenti nei gruppi di lavoro sull’handicap. Naturalmente non si tratta di un intervento vincolato rigorosamente al recupero di una singola funzione. Infatti simili interventi rigorosamente funzionali esigono l’apparato organizzativo caratteristico di una struttura riabilitativa. Nella scuola possono essere attuati interventi mirati a potenziare la qualità di alcune coordinazioni funzionali e conseguentemente l’armonia dello sviluppo personale, nel rispetto della storia dell’alunno, della sua identità e dei significati che orientano la sua esistenza. In alcune situazioni scolastiche l’intesa con le istituzioni riabilitative presenta un grado di articolazione progettuale ancora superiore. C’è infatti convergenza e corrispondenza tra l’intervento propriamente riabilitativo, svolto nella sede sociosanitaria, e un intervento scolastico transdisciplinare, finalizzato più che altro al recupero degli apprendimenti di base e della disposizione ad apprendere, concepita come atteggiamento caratteristico della relazione persona-ambiente.
L’intervento socio-riabilitativo
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Possiamo dire che in linea di principio tale forma di intesa e di collaborazione potrebbe avvenire anche nel caso in cui l’alunno venga sottoposto a un trattamento psicoterapeutico, sempre che la qualità dell’intervento venga ritenuta socializzabile dallo psicoterapeuta. Generalmente le difficoltà di collaborazione tra le istituzioni scolastiche e riabilitative insorgono da una insufficiente chiarezza di ruolo e di finalità, dalla quale consegue il timore di smarrire la propria identità istituzionale. Di fronte al danno funzionale della persona disabile, la struttura riabilitativa ha il compito di promuovere apprendimento di funzioni capaci di ridurre la portata disabilitante. Da parte sua la scuola ha il compito di promuovere una risposta di apprendimento più globale, tale da riattivare nella persona il piacere della conoscenza e il desiderio di incamminarsi verso un miglioramento di qualità della vita. Nel caso specifico di alunni non vedenti e ipovedenti, aggravati da limitazioni simboliche e relazionali, l’entità dell’intervento propriamente scolastico, benché essenziale, presenta tempi esigui e condizioni molto particolari. In questi casi occorre pertanto estendere e potenziare le dimensioni dell’intervento socio-riabilitativo che ordinariamente presenta le caratteristiche più avanti delineate. Frequentemente la vita emozionale di questi alunni è così perturbata e instabile da divenire un ostacolo pressoché insormontabile per qualsiasi iniziativa finalizzata a sollecitare apprendimento. Infatti l’apprendimento esige quantomeno una condizione emozionale di relativa sicurezza e stabilità, sulla cui base il soggetto possa sostenere il cambiamento in qualche misura presente nell’esperienza di apprendimento. Per facilitare il recupero di un relativo benessere emozionale, la persona ha bisogno di sentirsi contenuta e protetta, accolta e riconosciuta, confermata nel suo vissuto interiore e sostenuta dal conforto di una presenza amica, disposta a vivere con lei le difficoltà della situazione. In una prima fase le esperienze di contenimento dovranno essere frequenti e regolari, affinché il soggetto possa consolidare e stabilizzare una condizione di maggiore sicurezza, con la quale intraprendere il suo cammino di alunno. Bisogna dire che l’esperienza di acquaticità, condotta sapientemente nel rispetto di rigorosi criteri idroterapeutici, può produrre effetti molto benefici. Naturalmente una simile indicazione non vuole affatto escludere qualsiasi altra forma o metodologia di contenimento.
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In secondo luogo dobbiamo considerare che questi alunni hanno un grande bisogno di potenziare l’intensità e la varietà della loro vita percettiva, per migliorare la qualità del rapporto con l’ambiente, evitando così di restare segregati nell’ambito angusto di una vita endocettiva e fantasmatica. Giova precisare a questo proposito che, nel caso di alunni pluridisabili ipovedenti, si opera spesso esclusivamente nel senso di una riabilitazione visiva. Francamente riteniamo che un simile intervento sia riduttivo e insufficiente, poiché non mira alla promozione di una risposta percettiva globale, in una prospettiva di valido potenziamento compensativo. Senza voler minimizzare in alcun modo l’importanza e il significato della riabilitazione visiva, dobbiamo comunque ribadire che lo scopo dell’intervento riabilitativo non è l’apparenza della normalità ma una qualificazione della risposta di apprendimento che la persona assume di fronte al proprio limite funzionale. D’altra parte questi soggetti presentano, nella maggior parte dei casi, gravi limitazioni dell’attività immaginativa. Pertanto la pienezza della loro vita sensoriale e percettiva costituisce purtroppo il principale ed esclusivo cardine per la loro crescita umana. Conseguentemente e coerentemente, cerchiamo di valorizzarlo nella sua interezza per consentire il più possibile a questi bambini un’esistenza orientata dal sentimento della realtà. In terzo luogo un valido intervento socio-riabilitativo concorre al potenziamento della dimensione motorio-espressiva dell’alunno pluridisabile, sollecitando la sua capacità di essere in contatto con l’esperienza vissuta e di rappresentare emozioni, sentimenti e intenzioni personali mediante i movimenti corporei, le espressioni vocali, i suoni e i rumori o qualsiasi altra forma di manifestazione espressiva. Dobbiamo dire che anche gli alunni con limiti funzionali particolarmente gravi trovano nelle attività motorio-espressive un evidente sollievo, una maggiore vivacità e un complessivo miglioramento della vita relazionale. Naturalmente si tratta di individuare per ciascun alunno le modalità motorio-espressive congeniali e commisurate alla condizione somato-psichica. Occorre altresì condurre simili attività in un contesto ben calibrato da regole capaci di contenere e di moderare le inquietudini di ciascun alunno, evitando soprattutto i toni di eccessivo eccitamento che potrebbero introdurre risposte di agitazione spiacevoli e difficilmente governabili. Anche le regole infatti rappresentano una preziosa forma di contenimento delle emozioni, poiché costituiscono gli argini entro i quali l’alunno può fluire con la sua naturalezza espressiva e con la sua vivacità.
L’intervento socio-riabilitativo
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In quarto luogo bisogna tener presente che questi alunni nutrono generalmente una scarsa fiducia nelle loro capacità di apprendimento e spesso dimostrano di possedere una mortificante abitudine a vivere l’insuccesso. Per questa ragione l’intervento socio-riabilitativo deve curare con particolare attenzione il recupero della fiducia nell’esperienza di apprendimento, mediante supporti didattici di facilitazione, di orientamento e di guida. L’insegnamento scolastico appare vincolato per tradizione da una logica della prova secondo la quale l’alunno può riuscire a risolvere un problema così come l’insegnante glielo presenta oppure può fallire evidenziando la sua incapacità. Soprattutto con questi alunni occorre modificare una simile logica e concepire prove più adattabili alle condizioni di apprendimento dell’alunno, che in buona sostanza ha il diritto di conoscere le proprie possibilità, ricevendo dalla scuola supporti e mediazioni adatti a sostenere il suo cammino graduale e progressivo. In altre parole occorre evitare che l’alunno resti sommerso dall’impatto con le sue incapacità, poiché tale impatto non produce generalmente effetti responsabilizzanti, ma semplicemente il rifiuto dell’esperienza scolastica. Dobbiamo cercare con l’alunno la via del successo scolastico, corrispondente alle sue effettive possibilità, in una prospettiva di lenta ma continua evoluzione. Esperienze di apprendimento così concepite possono migliorare sensibilmente l’autostima dell’alunno e porre la basi per il rinnovamento della sua esperienza scolastica. Queste indicazioni nel loro insieme costituiscono un intervento socio-riabilitativo molto consistente e significativo, capace di elevare la qualità della vita dell’alunno e non soltanto nell’ambiente scolastico. In ultima analisi dovremmo chiederci che fare nei casi molto frequenti in cui le istituzioni scolastiche e riabilitative dimostrano con chiarezza di non possedere tale capacità organizzativa e tale cultura dell’intervento interistituzionale. In simili circostanze riteniamo necessaria la realizzazione di strutture socio-riabilitative specifiche, distribuite nel territorio e capaci sia di corrispondere alle esigenze degli alunni inseriti nelle pubbliche scuole, sia di sollecitare le istituzioni scolastiche e riabilitative verso un mutamento di prospettiva, più favorevole ai processi di sviluppo e di apprendimento di questi alunni, così bisognosi di una società più civile e più attrezzata a soddisfare i loro bisogni educativi speciali. D’altra parte i mutamenti culturali profondi non possono scaturire interamente da processi di rinnovamento fluidi e naturali. Per produrre simili trasformazioni occorre costruire fasi
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intermedie artificiose, ma capaci di aggregare i nostri sforzi e costruire strumenti validi per ottenere gli effetti desiderati. Coloro che ostacolano l’edificazione di queste fasi artificiose, senza indicare concretamente alternative convincenti, esibiscono una prudenza che forse nasce da uno stato di leggerezza, caratteristico di chi non vive la vicinanza dei problemi nella loro reale drammaticità.
Fondamenti operativi per un buon inserimento scolastico
Sembra che il trascorrere del tempo e il ripetersi delle esperienze non contribuiscano in misura soddisfacente a facilitare l’organizzazione di una struttura scolastica capace di accogliere gli alunni disabili con spirito ordinario, sulla base di valide strategie ben acquisite e consolidate. Per lo più l’ingresso di un alunno disabile nel contesto di una istituzione scolastica viene ancora percepito come un’emergenza inquietante, collocabile tra le esperienze straordinarie, alle quali si risponde con le misure transitorie del pronto soccorso. Nella migliore delle ipotesi vogliamo immaginare che la scuola non riesca a concepire l’ordinaria presenza degli alunni disabili per non abituarsi alla percezione del danno funzionale e perdere così la propria sensibilità relazionale nel confronto con la disabilità. Preferiamo ipotizzare, in ogni caso, che la persistenza di questo sentimento straordinario possa ricevere una benefica benché graduale mitigazione da una maggiore chiarezza di pensiero circa il processo di integrazione scolastica degli alunni disabili. A questo proposito riteniamo possa giovare la formulazione di un quadro sintetico delle «cose da fare» in relazione alla presenza di un alunno disabile nel contesto della vita scolastica. Naturalmente qui ci riferiamo alla realtà degli alunni disabili visivi, ma siamo convinti che un simile quadro possa, in qualche misura, essere trasferibile alle altre tipologie disfunzionali.
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Orizzonti della cecità
Ecco, dunque, un quadro sintetico: 1. Conosci la storia personale dell’alunno, nei suoi aspetti familiari e scolastici? In questo senso quali documenti hai raccolto, quali racconti, quali testimonianze? 2. In quale momento della sua esistenza è insorto il suo danno visivo? Ne conosci l’entità? Come hanno risposto il soggetto e il suo ambiente a questa drammatica insorgenza? 3. Conosci le qualità positive della funzione visiva residua? Che cosa hai fatto per comprendere la loro utilizzabilità nel corso della vita scolastica di classe? 4. Hai scoperto le sue possibilità ottimali di: (a) leggere; (b) scrivere; (c) comunicare mediante strumenti figurativi; (d) consultare testi; (e) comprendere messaggi audiovisivi; (f) osservare le realtà naturali, culturali e artistiche? 5. In quali modi egli partecipa alle attività ludico-sociali, ginnico-sportive, ricreativo-culturali? 6. Ritieni che alcune esperienze terapeutico-riabilitative e didatticodomiciliari possano favorire, sostenere e qualificare il suo processo di integrazione scolastica e il suo personale percorso di studio? 7. Quali iniziative sono state avviate per promuovere e facilitare l’interesse e la partecipazione del contesto scolastico ai suoi diversi modi di conoscere e di apprendere? Ritieni che le sue personali diversità siano divenute legittime, vale a dire degne di essere conosciute? 8. Esaminando la programmazione didattica, hai scoperto barriere sensoriali o culturali che potrebbero limitare il suo diritto a studiare? Un’opportuna realizzazione dell’ottavo punto richieda le seguenti indicazioni orientative: –– nel caso di alunni disabili visivi, le cosiddette barriere architettoniche sono costituite soprattutto dalla carenza ambientale di riferimenti sensoriali non visivi, in misura tale da limitare o da insidiare lo spazio di vita scolastica dell’alunno; –– la principale barriera culturale nella scuola consiste nella formulazione di messaggi esclusivamente visivi, ovvero, nell’uso di un linguaggio rivolto quasi esclusivamente agli occhi degli alunni e alla loro esperienza visiva; –– il più importante limite metodologico osservabile nella scuola consiste in una più o meno grave separazione delle informazioni disciplinari dall’e-
Fondamenti operativi per un buon inserimento scolastico
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sperienza personale vissuta dai singoli alunni e pertanto dalla difficoltà di coniugare queste due dimensioni; –– il più nocivo limite culturale di una scuola consiste generalmente nella «non abitudine» alla discussione, intesa come messa-in-evidenza e distinzione delle singole posizioni personali e anche come qualificazione dell’esperienza di ciascun alunno; –– per quanto concerne il valore delle diversità, la principale confusione presente nella scuola consiste nella tendenza a non distinguere l’esercizio del pensiero dall’esperienza del sentire. Generalmente da una simile confusione discendono modalità di comunicazione che facilitano il persistere degli atteggiamenti pregiudiziali e squalificano il contesto di apprendimento educativo. Queste brevi indicazioni ci consentono di chiarire come esistano alcune condizioni di base che costituiscono il vero e proprio presupposto per un processo di integrazione scolastica degli alunni disabili visivi. L’affermazione di tale presupposto renderebbe molto più facile l’inserimento scolastico dei nostri alunni e si dimostrerebbe propizia ed efficace per l’intera realtà scolastica. Viceversa siamo costretti a constatare che spesso questo punto rappresenta l’ultima e la più difficile conquista lungo il percorso dell’inserimento scolastico. Questa constatazione non ci sgomenta poiché sappiamo che il valore delle diversità personali è un traguardo di grandi proporzioni culturali e civili, che merita pertanto tutto il nostro impegno e la nostra determinazione.
Una questione non risolta
Verso la fine degli anni Sessanta un numero significativo di genitori cominciò a rifiutare gli istituti e le relative scuole speciali, affermando il diritto dei bambini non vedenti a vivere la famiglia e la scuola territoriale come tutti gli altri bambini. In particolar modo costoro rifiutavano il fatto di dover affidare a persone sconosciute il proprio bambino disabile visivo, in una struttura totale e segregante, rinunciando così alla propria funzione educativa. Durante questo periodo il sentimento sociale del possibile era molto forte, tanto da conferire al confronto con il limite il sapore dell’avventura e della sfida, nelle quali la sublimità dell’immaginazione non poteva mai cedere alla mediocrità del reale. Accadde così che tra mille controversie sociali, istituzionali e giuridiche una quantità sempre crescente di bambini ciechi venne inclusa nelle classi ordinarie delle pubbliche scuole. Bisogna dire che questi primi bambini inseriti, tranne qualche rara eccezione, dimostrarono di cavarsela egregiamente. Generalmente infatti si trattava di bambini appartenenti a famiglie molto motivate e responsabili, anche se un po’ velleitarie. D’altra parte le scuole che accoglievano questi primi bambini sentivano l’importanza dell’evento e tentavano di corrispondere alle aspettative dei genitori con sensibilità e impegno non abituali. Con il passare degli anni l’inserimento degli alunni disabili nella scuola di tutti è stato concepito dalla società civile e politica come un cambiamento opportuno, quasi doveroso, capace di offrire alle istituzioni scolastiche nuova vitalità e nuova responsa-
Una questione non risolta
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bilità, in una prospettiva di rinnovamento. Ciononostante, nel momento in cui questa trasformazione raggiunse la dignità della norma giuridica il processo di inserimento subì un’accelerazione eccessiva e improvvisa, tanto da svuotare le scuole speciali per ciechi, che tuttavia mantennero la loro legittimità. La scelta della scuola comune, di conseguenza, perse il carattere dell’affermazione di coscienza, assumendo più che altro la fisionomia di un’opzione più conforme ai criteri della modernità. Le istituzioni scolastiche continuarono a vivere l’inserimento dell’alunno non vedente come un evento straordinario, denso di pathos e preoccupazione, al punto da sollecitare atteggiamenti di autentico pronto soccorso. D’altra parte, però, la ridotta tensione ideale delle famiglie produsse nelle istituzioni coinvolte nel processo di integrazione scolastica una diminuzione dell’impegno clinico pedagogico e metodologico didattico. In un simile contesto la nascente figura dell’insegnante specializzato è diventata più che altro un riferimento obbligato, allo scopo di eludere il confronto del gruppo di apprendimento con il limite sensoriale, secondo una logica di somiglianza apparente e di mimetizzazione. L’inserimento dell’alunno non vedente è divenuto un vero e proprio processo di integrazione scolastica solo quando la tensione ideale della famiglia e delle istituzioni speciali ha pervaso la rete sociale, sollecitando e qualificando la comunicazione, la collaborazione e la solidarietà inter-istituzionale. Sulla base di queste considerazioni possiamo dire che ancora oggi l’inclusione degli alunni non vedenti o gravemente ipovedenti nella scuola comune non si presenta come un evento ordinario e prefigurato dal punto di vista organizzativo. D’altro canto la straordinarietà di questo evento ha perduto nella maggior parte dei casi quel significato ideale con cui si era inizialmente manifestato. Oggi si parla molto di confronto del gruppo di apprendimento con il soggetto disabile, ma francamente ciò avviene a partire da due equivoci fondamentali: –– che questi venticinque anni di inserimento scolastico abbiano effettivamente consolidato un’autentica cultura dell’integrazione; –– che l’alunno disabile possa semplicemente essere considerato un alunno diverso nel più ampio contesto problematico dell’intercultura. La diversità degli alunni non vedenti o gravemente ipovedenti è una realtà molto più specifica di quanto non si voglia credere e merita un esa-
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me approfondito e particolare, soprattutto nel contesto della metodologia didattica. Occorre prendere in considerazione la grande eterogeneità degli alunni disabili visivi e le differenti risposte che ciascuno di essi richiede nel contesto del suo percorso di apprendimento scolastico. A prescindere da ciò, dovremmo aver capito che la cultura dell’integrazione è cultura di analisi e approfondimento. Viceversa continuiamo ad affrontare i problemi dell’integrazione con il desiderio quasi frenetico di semplificare i problemi. Temo che finché non avremo la pazienza di esaminare le singole situazioni cercando per ciascuna di esse una risposta commisurata e libera dai vincoli derivanti da eccessi di convinzione, la scuola integrata resterà un’immagine confusa, benché luminosa, della nostra mente. Il panorama delle istituzioni scolastiche ci offre un immenso catalogo di risposte possibili: cerchiamo di pensare che ciascuna di queste risposte potrebbe corrispondere alle esigenze di un singolo alunno disabile visivo. Se viceversa continueremo a cercare l’adattamento di ciascun alunno a una risposta omogenea, soltanto perché la consideriamo «migliore», il nostro concetto di formazione implicherà come strumento operativo la pialla del falegname.
Quarta parte
Storie. Vita quotidiana di un cieco civile
Nella pagina precedente: Mario Mazzeo, 1979 (foto di Enzo Levantino).
Umile fierezza
In alcune situazioni la condizione di cecità mostra il suo volto più irritante e beffardo, che francamente ce la fa sentire inaccettabile. Un esempio concreto, che può confermare questa mia affermazione, si realizza quando ci capita di aver bisogno di una persona con la quale abbiamo litigato aspramente qualche minuto prima. L’esigenza di utilizzare la sua funzione visiva e il desiderio di non dipendere da una persona che vorremmo in qualche modo aggredire, o comunque ignorare, producono insieme un conflitto lacerante e non facile da risolvere. Qualche anno fa un mio amico professore non vedente mi diceva che sua moglie, anche dopo una furiosa litigata coniugale, continuava a offrire regolarmente il suo servizio visivo, svolgendo la sua funzione di assistenza a prescindere dalle vicende coniugali. Questo suo comportamento, per così dire «compartimentato», benché risultasse comodo nei suoi effetti pratici, indispettiva e non poco il mio amico professore, il quale avvertiva nella condotta della moglie qualcosa di artificioso che insidiava la naturalezza della vita di coppia. Ritengo non sia semplice giudicare simili circostanze. Indubbiamente ricevere aiuto da una persona che, mentre ci assiste, continua a vivere con noi un’esperienza conflittuale costituisce quanto meno una situazione perturbante. Accade qualcosa di peggiore quando il servizio riguarda una funzione di accompagnamento. In tal caso infatti occorre addirittura mantenere un contatto fisico costante con la persona che vorremmo ignorare o, in qual-
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che modo, aggredire. L’incongruità di una simile condizione è così forte da risultare un vero e proprio esercizio di violenza su noi stessi. Questi esempi ci indicano con chiarezza l’importanza di raggiungere il massimo grado di indipendenza possibile, soprattutto per sentirci liberi di vivere la naturalezza delle esperienze relazionali, al di là di eccessivi condizionamenti. Vorrei comunque introdurre un’ulteriore considerazione che potrà risultare inquietante ma che merita una seria riflessione personale. Una richiesta d’aiuto formulata con dignità, espressa con sentimento di legittimità, manifesta la nostra coscienza del limite piuttosto che la nostra inferiorità organica. In altre parole si tratta di un gesto di umile fierezza con il quale affermiamo un bisogno che di fatto trascende i limiti di un conflitto interpersonale. Talvolta un simile gesto può di per sé moderare i toni eccessivi del conflitto e avviare un processo di chiarificazione e di graduale concertazione. Evidentemente tutto questo ci rappresenta, ancora una volta, il primato dell’autonomia sull’indipendenza e il valore prioritario nella libertà di offrire alla nostra condizione il potere della consapevolezza e la forza della dignità.
Un complimento non apprezzato
Carezze morbide e prudenti, per conoscere il tuo volto e offrire ai miei pensieri un’immagine per vivere la tua presenza. Desidero sfiorare l’origine del tuo sorriso, le forme inafferrabili del tuo movimento. Qualche carezza per conoscerti non sarà, spero, la fonte di un disagio.
«Mi piacciono molto le tue mani, sono così delicate... Sono inquiete, sensibili, curiose di vivere!» Apprezzamenti come questo mi risuonano familiari e in qualche modo confermano qualcosa di costante nella storia delle mie relazioni personali. Le prime volte questo complimento mi appariva negativo, quasi esprimesse la volontà di dire comunque qualcosa di buono di una persona poco attraente. Immaginavo che le mie mani fossero una buona occasione per essere cortesi con me e questo pensiero, francamente, era per me fonte di un sottile ma profondo disagio. Ero convinto che i «veri complimenti» fossero rivolti agli occhi, al sorriso, ai lineamenti del volto oltre che alla qualità della figura corporea. Questa mia convinzione si traduceva in una sorta di condanna estetica, poiché non ricordavo di aver mai ricevuto complimenti di questo tipo, neanche dai familiari più generosi e benevoli. In una simile visione negativa, le mie mani apparivano una buona qualità trascurabile, sottolineata soltanto da chi volesse confortare la mia condizione umorale, di frequente pensosa e un po’ rabbuiata.
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Per fortuna, con il passare del tempo, ho avuto la possibilità e la capacità di rivedere questa mia posizione e soprattutto di rivalutare gli apprezzamenti ricevuti circa le qualità delle mie mani. Lentamente, infatti, ho capito che nelle mie mani si esprimeva e si affermava l’aspetto più vivace e dinamico della mia natura. Le mie mani erano il punto di osservazione attraverso il quale trovava forma e realtà il senso più profondo della mia irrequietezza e del mio grande desiderio di relazioni umane. Non mi sembra esagerato aggiungere che una maggiore attenzione alla vitalità delle mie mani mi ha suggerito una diversa valutazione di me stesso e delle mie attitudini personali. Naturalmente la sopraggiunta perdita della vista ha conferito alle mie mani un’importanza e un significato ancora maggiori. Posso dire che oggi ricevo questo tradizionale complimento con autentico piacere, poiché lo sento vero e rivolto a una dimensione intima della mia realtà personale.
L’insostenibile peso dell’ansia sociale
Ero appena sceso dal treno in una grande stazione molto affollata. Presi il bastone bianco pieghevole dalla borsa da viaggio e lo preparai per camminare al fianco del treno, verso la testa del marciapiede. Desideravo portarmi in un punto molto visibile, per facilitare il compito alla persona che sarebbe venuta a prendermi. Camminando ogni tanto sfioravo con il bastone il fianco del treno per assicurarmi di mantenere la giusta distanza dal bordo della banchina. Procedevo lentamente poiché il chiasso prodotto dalla folla disorientava la mia concentrazione. A un certo punto non trovai più con il bastone il fianco del treno e mi fu necessario cambiare strategia. Continuai il mio cammino toccando con il bastone, ogni tanto, il bordo della banchina ma la mancanza del treno mi procurava qualche esitazione. Fu proprio in quel momento che mi si avvicinò una signora che mi disse con voce ansiosa e un po’ aggressiva di stare molto attento, poiché correvo il rischio di cadere sul binario. Quella voce, spiacevole e improvvisa, turbò ulteriormente la mia concentrazione. Ebbi l’impulso reattivo di allontanarmi rapidamente da quella voce, quasi per allontanarmi anche dall’esitazione che già irrigidiva i miei passi e la mia postura. Una lieve imperfezione del suolo fece il resto: inciampai, persi l’equilibrio e caddi bruscamente sul binario. La mia risposta fu pronta e determinata. Mi alzai di scatto con la borsa da viaggio a tracolla, recuperando alla svelta il bordo della banchina e risalendovi con fatica ma senza esitazione. Un ferroviere era lì già proteso ad aiutarmi e mi consigliò di recarmi con
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lui al più vicino pronto soccorso. Replicai con frettolosa disinvoltura che non ce ne era bisogno, perché non mi ero fatto proprio nulla. La mia replica risultò efficace e il ferroviere si allontanò, forse perplesso circa la mia condotta, allo stesso tempo non curante e nervosa. Io avvertivo il bruciore e anche il dolore di varie contusioni e di qualche lacerazione sul mio corpo, ma non volevo toccarmi, non volevo osservare; desideravo soltanto che il mio accompagnatore, arrivando, non si accorgesse di nulla.
Noi sollecitiamo l’iniziativa
Camminavo lungo la strada sfiorando le automobili parcheggiate sulla mia destra. Il mio gomito destro urtava spesso contro gli specchietti retrovisori, quasi morbidamente, modificando la loro posizione. La mia scelta di camminare sull’asfalto al fianco delle automobili parcheggiate appariva come sempre inopportuna e imprudente, all’occhio dei passanti che avrebbero preferito vedermi al sicuro sul marciapiede. Bastava comunque guardarlo, il marciapiede, per comprendere la ragione di questa mia scelta: una vera e propria selva di ostacoli e di insidie, talvolta così ben combinati tra di loro da costituire una vera e propria barriera impervia. Era una tranquilla e fresca mattina domenicale. Il traffico delle automobili e dei motorini era già sostenuto ma non ancora caotico. Io camminavo con sufficiente disinvoltura, pensando nel frattempo alle mie cose, per riordinarle nella mente e accingermi a intraprendere le occupazioni della mia giornata, benché festiva. A un certo punto voltai a destra, in una viuzza laterale lungo la quale si trova la sede di alcune tra le mie occupazioni. In quel preciso istante una mano energica e determinata afferrò il mio braccio sinistro e una voce straniera con accento nordafricano mi disse: «Tu sbagliare, tu venire con me su strada dritta». Naturalmente io opposi resistenza e chiesi con sorpresa, ma anche con irritazione: «Che cosa vuole da me? Dove mi vuole portare?». L’altro comprese il mio disappunto e usò un tono rassicurante, dicendo che voleva soltanto ricondurmi sulla via principale, visto che avevo deviato sulla viuzza
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laterale. Non mi fu difficile spiegare che non si trattava di un errore, ma di una scelta consapevole e allora il mio interlocutore si mostrò dispiaciuto, mi chiese scusa e mi salutò con estrema cordialità, quasi con affetto. Mentre lo salutavo, allontanandomi da lui, mi sentivo frastornato e un po’ confuso. A poco a poco un pensiero sempre più chiaro si fece strada nella mia mente: «Essere l’oggetto consueto della preoccupazione e dell’iniziativa degli altri è un’esperienza che rende la nostra vita un fatto pubblico, che oltrepassa i confini della nostra volontà di privacy e ci obbliga a divenire occasione di iniziativa sociale». In questo fatto, di per sé complesso, si intrecciano aspetti creativi e confortanti con altri aspetti decisamente fastidiosi e talvolta offensivi. Per evitare questi ultimi, forse molti ciechi rischiano di non conoscere i primi.
Una decisione di gruppo
Ero salito sull’autobus con il sollievo di chi si lascia alle spalle una pioggia fredda e battente. Non avevo alcuna voglia di sedermi, poiché i miei abiti, bagnati quasi per intero, sarebbero divenuti ancor più fastidiosi, intensificando il contatto con la pelle. Mi ero fermato nella zona anteriore dell’autobus, nell’angolino formato dal sedile anteriore sinistro con la parete posteriore della cabina del conducente. Non mi ero accorto che proprio quel sedile era vuoto ma fui costretto a notarlo quasi immediatamente, poiché un signore mi chiese il permesso per occuparlo. Rimasi in piedi di fronte a lui, afferrando il man corrente della sua spalliera, per tenermi saldamente in equilibrio. Non riuscivo a liberarmi dal pensiero della pioggia, nel momento in cui sarei sceso dall’autobus. Dovevo percorrere un tragitto non lungo ma piuttosto complicato e sotto la pioggia questa cosa mi appariva difficile e insidiosa. Le urla di un altro signore, che mi si era avvicinato, mi costrinsero a tornare con la mente nella situazione di fatto. Si trattava di autentici insulti rivolti contro la persona che si era seduta di fronte a me: «Te ne stai seduto come un sacco di patate e questo disgraziato che non ci vede ti sta accanto in piedi, rischiando di cadere a ogni frenata!». La persona seduta cercò di ribattere che mi aveva trovato in piedi e che si era seduta pensando che io non volessi utilizzare quel sedile. L’interlocutore, però, non ascoltò le sue parole e continuò a insultarlo, elevando sempre di più il tono aggressivo della sua voce roca. Ben presto la disputa cominciò ad assumere la fisionomia
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di una rissa, poiché intervennero altri viaggiatori e tutti con voce alterata e con espressioni tutt’altro che cortesi. Cercai di allontanarmi, dirigendomi verso la porta centrale. Volevo fuggire da quella situazione nella quale mi sentivo impotente, disorientato, incapace di assumere una posizione personale. Due viaggiatori, però, mi presero con la forza e mi fecero sedere su un altro sedile vuoto, forse per mettere fine a quella disputa incivile oppure perché non riuscivano a sopportare di vedermi in piedi. Le urla si placarono e lentamente la situazione riprese il suo corso ordinario. Me ne stavo seduto, sentivo sulla pelle i panni freddi e appiccicosi. Cercavo di restare concentrato su questo fastidio, poiché ciò mi consentiva di non pensare ad altro. Francamente debbo dire che desideravo dormire ma purtroppo era necessario restare vigili, perché si avvicinava il momento di scendere e affrontare le insidie della strada.
Il fascino della cattiveria
Un fatto che da ragazzo mi appariva intollerabile era l’attrazione che alcuni miei compagni di scuola esercitavano su molte ragazze, malgrado la brutale scortesia e l’aggressività dei loro comportamenti. I miei tentativi di essere desiderabile mediante la disponibilità e la tenerezza venivano apprezzati dalle ragazze, ma soltanto in una prospettiva di amicizia, del tutto estranea all’intensità del desiderio. Tutto ciò mi appariva incomprensibile e soprattutto ingiusto. Cominciai a pensare che per divenire attraenti occorresse apprendere «l’arte della cattiveria», assumendo una condotta più aspra e inquietante. Debbo dire che i miei comportamenti bruschi e ostili non ottennero affatto risultati confortanti e anzi rischiai di perdere le relazioni di amicizia che avevo costruito mediante un atteggiamento tenero e disponibile. Fu allora che mi convinsi di possedere un aspetto fisico così brutto da risultare inaccettabile e ciò mi fece sprofondare poco a poco in uno stato di sconforto. Alcuni miei amici mi vennero incontro, facendomi notare che ragazzi decisamente più brutti di me riuscivano a conquistare le ragazze più di altri che apparivano meglio dotati sul piano dell’aspetto fisico. Non mi restava che attribuire il fallimento dei miei avvicinamenti sentimentali alla mia condizione di ipovedente, vale a dire, al mio stato di inferiorità organica. Non fu facile uscire da questa deprimente convinzione, che durò a lungo e non fu priva di effetti nocivi sul mio sviluppo personale e sociale. Molto più tardi una ragazza ebbe il coraggio di aiutarmi a capire quale fosse
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l’autentica origine del problema: «è desiderabile chi riesce a introdurre il proprio desiderio nella vivacità della relazione, in modo che l’altro possa sentirsi davvero desiderato». Molto spesso i ciechi non vengono educati a esprimere e a gestire i propri desideri nel contesto delle relazioni interpersonali. Crescendo in un ambiente iperprotettivo, impariamo a pretendere, piuttosto che a desiderare. Infatti il desiderio include necessariamente l’incertezza e il rischio di una situazione non controllabile, che può essere accolta e vissuta soltanto da chi abbia imparato a gustare il senso avventuroso dell’esistenza. Non è la minorazione della vista che generalmente preclude la via di una relazione sentimentale, ma soltanto la fragilità un po’ violenta che caratterizza il nostro modo di pretendere, senza il coraggio di desiderare. Ancora una volta l’educazione dei ciechi merita una riflessione profonda, ben aldilà del tecnicismo con il quale oggi ci capita frequentemente di rispondere all’insorgenza della minorazione visiva.
Una ricerca fastidiosa
Benché sconosciuto, un bagno non oppone eccessivi ostacoli alle esigenze della persona che non vede, nonché al suo desiderio di privacy e di indipendenza. Generalmente la ricerca del water, del lavello, della carta e degli altri accessori igienici risulta piuttosto agevole, fatta eccezione per qualche piccolo incidente, dovuto perlopiù alla nostra frenesia di fare le cose rapidamente. Qualche volta però la situazione si complica molto nel momento in cui decidiamo di mettere in azione lo sciacquone. Infatti non sempre il tasto, o comunque la leva per scaricare l’acqua nel water, occupa le posizioni più abituali e più facilmente intuibili. In simili circostanze la nostra caratteristica di esplorare toccando con le mani assume una fisionomia particolarmente fastidiosa e spiacevole. In alcuni casi peraltro la ricerca può divenire così lunga da scoraggiare il desiderio di compiutezza nel soggetto non vedente e indurlo a uscire dal bagno senza aver eseguito l’operazione. Naturalmente questa vergognosa omissione di atti d’ufficio produrrà un po’ di mortificazione nella persona non vedente e certamente rinforzerà il suo sentimento di inadeguatezza. D’altra parte la moderna tecnologia non dimostra, almeno per ora, di saper offrire ai ciechi un insieme di condizioni più favorevoli. Infatti i bagni dotati di comandi elettronici sono ancor più esclusivamente provvisti di indicatori visivi che, nella migliore delle ipotesi, offrono al tatto indizi labili, incerti e comunque laboriosi. Nel bagno a comandi elettronici di un treno in corsa, l’esplorazione tattile può divenire addirittura avventurosa e decisamente inquietante sul piano igienico.
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In queste situazioni davvero paradossali, per andare oltre il disagio occorre entrare nel paradosso e spendere le proprie carte con lo spirito di un guerriero che lotta per sopravvivere nella realtà virtuale di un gioco informativo. Naturalmente, se qualcuno decidesse di rifiutare questa prospettiva fantascientifica potrebbe risolvere la questione utilizzando esclusivamente il confortevole bagno della propria abitazione, oppure munirsi di un accompagnatore intimo, in grado di assisterlo durante queste piccole ma importanti obbligazioni private.
Una storiella un po’ sadica
Ricordo ancora una storiella che si raccontava su di me, quando frequentavo la scuola media superiore. A inventarla era stato il mio amico Romolo, un giovane burlone e intraprendente, al quale piaceva molto fare umorismo sulla mia condizione di ipovedente. Una volta egli aveva raccontato di avermi incontrato sulla via Cristoforo Colombo, nel quartiere romano dell’EUR, mentre strisciavo con la pancia per terra sul marciapiede, guardando la strada con estrema attenzione. Sorpreso e incuriosito, si era avvicinato e mi aveva chiesto cosa facessi in quella strana posizione. A quella domanda io avevo risposto con il tono reattivo di chi risponde a qualcosa di ovvio, dicendo che naturalmente stavo cercando le strisce pedonali. Questa storiellina fece il giro di tutto l’istituto e devo dire che in un certo senso contribuì a celebrare e a sdrammatizzare la mia condizione visiva. Non so giudicare se la storiella fosse più sadica o più divertente, fatto sta che in essa si esprimeva un’intelligenza che in qualche modo andava oltre i soliti sentimenti della pena e della meraviglia. Preferivo che si ridesse di me con piacere e realismo, piuttosto che si celasse la mia disabilità nello spazio vergognoso dell’«indicibile sussurrato». Certo, quelle risate ferivano la mia sensibilità, ma aprivano il sentiero del dialogo e di una possibile chiarificazione.
Una frustrazione solo apparente
Raffaella era una ragazza allegra, di aspetto piacevole e attraente. Per ricevere da lei qualche sorriso e una qualsiasi forma di attenzione, io cercavo di aiutarla durante i compiti in classe, rischiando la severità dei professori e l’ironia dei compagni. D’altra parte eravamo in molti a corteggiarla e ciascuno giocava le sue carte o almeno quelle che sapeva di possedere. Io ritenevo di trovarmi sul fondo della graduatoria dei pretendenti. La mia seriosità di studente un po’ secchione e i limiti del mio fisico, sia estetici che funzionali, mi si presentavano come un ostacolo pressoché insormontabile. Ciononostante camminavo sulla mia strada nell’illusione che prima o poi i miei desideri avrebbero incontrato maggiore fortuna. Le voci del paese dicevano che Raffaella frequentasse con piacere ragazzi più grandi di noi, ragazzi più disinvolti e più audaci, già in grado di confrontarsi con il mondo del lavoro e con i pericoli della vita sociale. Eugenio, il capo banda del mio quartiere, aveva fatto sapere che Raffaella era la sua ragazza e che avrebbe punito gravemente tutti coloro che avessero continuato a gironzolare, durante il pomeriggio, intorno alla sua casetta di periferia nei pressi della stazione. Io trascorrevo molte ore intorno alla casa di Raffaella. Quelle minacce turbarono la mia immaginazione e la loro forza terrifica bloccava sul nascere le mie iniziative. Una sera mi feci coraggio e il desiderio prevalse sulle immagini della paura. Mi spinsi con decisione verso la casa, passando per la via principale, la più diretta. Anche se tremavo di paura, non volevo dare l’impressione di un comportamento furtivo, volevo
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semplicemente esprimere il mio diritto e il mio desiderio. Arrivato sotto la casa fui raggiunto immediatamente dalla voce di Eugenio che apparve come una freccia sulla sua bicicletta gialla. La sua voce era tagliente e alterata, il suo volto quasi furioso. Senza scendere dalla bicicletta, mi disse che voleva essere buono e considerare la mia presenza in quel posto come il frutto di una pura casualità. Aggiunse che comunque non ci sarebbe stato un secondo incontro senza gravi conseguenze per la mia incolumità fisica. Io non ebbi la forza di replicare e mi allontanai lentamente, quasi stordito da quanto era successo. Sulla strada del ritorno avvertivo con sorpresa un emergente sentimento di fierezza che disorientava la mia comprensione dell’accaduto. A poco a poco compresi che la vistosa alterazione di Eugenio dimostrava che apparivo comunque come un rivale inquietante. Non potevo certo pensare di sostenere uno scontro fisico con Eugenio, cionondimeno la mia determinazione aveva scosso il suo quasi leggendario sentimento di padronanza. Per la prima volta quel giorno cominciai a pensare che in me ci fosse più forza di quanto avessi creduto fino ad allora. Questo pensiero rendeva più deciso il mio passo e più attraenti le forme del futuro.
L’apparenza della normalità
Non ricordo di aver mai usato con entusiasmo matite colorate o altri strumenti per disegnare qualcosa sopra un foglio. Ciononostante mia madre mi ha raccontato più volte che da piccolo, all’età di tre o quattro anni, chiedevo spesso l’occorrente per disegnare, collocandomi in ginocchio sulla sedia di fronte al bordo del tavolo della cucina. Forse, in questo mio desiderio, c’era il tentativo di imitare mio fratello, molto bravo e capace nel disegno dal vero e molto lodato per questa sua virtù. Per quanto prezioso, il mio residuo visivo era ben poca cosa e mi costringeva ad avvicinare di molto gli occhi al foglio, quasi al punto di sfiorarlo con la punta del naso. Mentre disegnavo in quella strana posizione, si avvicinava mia madre e con gesti tanto affettuosi quanto preoccupati cercava di allontanare la mia testa dal foglio, mostrandomi quale fosse la giusta distanza da assumere. Presumibilmente il mio dilemma consisteva in una scelta comunque disastrosa: accontentare mia madre, continuando a disegnare «alla cieca», con risultati che avrebbero ugualmente messo in evidenza il mio limite sensoriale, oppure mantenere gli occhi vicini al foglio, affermando vistosamente la mia diversità e producendo i già conosciuti effetti perturbanti sui miei familiari. Nell’impossibilità di decidere fra due «non soluzioni», mi andavo a sdraiare a pancia sotto sopra una vecchia cassapanca, vicino alla finestra, e continuavo a disegnare in una posizione che rendeva quasi naturale la vicinanza della mia faccia al foglio. Questa condizione di apparente normalità placava l’inquietudine di mia madre e soddisfaceva, allo stesso tempo, la mia
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volontà di disegnare. Qualcuno potrebbe obiettare, davvero ingenuamente, che anche la scelta della cassapanca non rappresentava una reale soluzione del problema, ma semplicemente una sua compassionevole mimetizzazione. Potrei rispondere a questo immaginario interlocutore che la soluzione del problema, per un bambino di tre o quattro anni, coincide quasi sempre con l’armonia del contesto familiare. In nome dell’armonia un bambino è disposto a sacrificare una buona parte di se stesso, poiché nell’armonia egli trova il necessario conforto alla grande paura di restare solo. Soltanto più tardi egli potrà comprendere l’importanza di rispettare se stesso e sentire nel dialogo, nella contraddizione, nel disaccordo l’opportunità e la prospettiva di un’intesa più ampia e più profonda, predisposta a concepire il valore e il significato delle differenze individuali.
Vivere il cambiamento
Ormai non riuscivo più a distinguere la posizione delle lancette dorate sullo sfondo bianco dell’orologio. Da qualche mese la mia vista peggiorava più rapidamente. Più che altro aumentava il numero delle macchie, color liquirizia squagliata, che ingombravano fastidiosamente il mio campo visivo, confondendo le forme e i colori degli oggetti reali. Acquistai un orologio nuovo con le lancette color bianco brillante, molto vistose soprattutto per il contrasto con uno sfondo scuro e opaco. Tornai finalmente a guardare l’orologio con relativa disinvoltura e questo fatto mi faceva sentire più sano e più normale. Ma fino a quando avrei potuto risolvere questi problemi migliorando la qualità degli strumenti? Fino a quando avrei potuto continuare a comportarmi da vedente e a poter dire di essere uno che ci vede? Il pensiero di un orologio tattile, da osservare con le dita, non poteva ancora divenire un’immagine della mia mente ed era quindi un’ipotesi verbale, lontana dalle cose pensate per essere fatte. Vivevo da vedente pensando che fosse l’ultimo giro, ma volevo illudermi che il giro fosse lungo, così lungo da non finire mai. Sempre più frequentemente mi accadevano incidenti di ogni tipo, causati soprattutto dall’ambiguità del mio comportamento, che non lasciava chiaramente intendere la mia reale condizione. Sentivo di non poter abbandonare il mio comportamento da vedente, nonostante tutto e contro ogni evidenza. Era come smettere un abito senza possederne un altro di riserva. Senza la vista, reale o presunta che fosse, non
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sapevo come indossare il mio corpo, come utilizzarlo, come interagire con me stesso, con gli altri e con il mondo circostante. Non fu semplice acquistare il nuovo abito e fu ancora più difficile imparare a indossarlo, tra la vergogna del sentirmi nudo e l’impulso ingovernabile di riattivare le vecchie abitudini. Furono anni scabrosi e contraddittori, durante i quali ho imparato almeno una cosa fondamentale: un cambiamento radicale può essere vissuto ma non può essere prefigurato con l’immaginazione. Dovremmo parlare meno del cambiamento e nel frattempo introdurre nella nostra vita quotidiana qualche piccolo fatto che furtivamente ma inesorabilmente ne produca la trasformazione. Forse da soli non siamo del tutto capaci di fare questo. Occorrono persone amiche, più lucide e serene di noi, che intervengano a darci una mano.
Un po’ di riposo
Sentivo con urgenza il desiderio di restare solo per offrire finalmente libertà di espressione alla mia stanchezza. Soprattutto ero stanco di comunicare, di fare i conti con la presenza degli altri. Desideravo naufragare nel mare conosciuto della mia stanza, divenire un rottame che si affida ai capricci di una corrente non ostile, nella quale si può esistere senza guarire, si può camminare senza la necessità di raggiungere una meta. Rimasto solo notai con sorpresa che non riuscivo a liberarmi dal pensiero del che fare, come se il passare del tempo chiedesse il suo biglietto d’ingresso e il suo prezzo da pagare. Ma io non volevo pagare nessun prezzo, ero tornato a casa per gustarmi il sapore del gratuito; dovevo assolutamente liberarmi dal sentimento del dovere. Proprio perché dovevo, non riuscivo a liberarmene. Infatti il dovere è un po’ come la paura: quando vogliamo eliminarlo ci assale con rinnovata energia, quasi ricevesse nutrimento dal nostro desiderio di eliminazione. Occorre viceversa iniettare nel sentimento del dovere ingredienti piacevoli, per addolcire il suo volto corrugato e minaccioso. Compresa la lezione, cercai qualcosa di buono nel frigorifero, trovai un programma televisivo scemo ma non troppo, feci un po’ d’ordine in casa e lentamente, quasi furtivamente, scivolai nell’inerzia tanto desiderata.
Una fata metropolitana
Era un pomeriggio di novembre così umido e caldo da evocare le immagini e i desideri dell’estate. Il traffico era intenso oltre i limiti della sopportazione. Come al solito i passeggeri erano troppi e si urtavano con fastidio, ma il fastidio era quasi sommerso dalla stanchezza e da un’inquieta sonnolenza. Seduto nel mio posto prediletto, dietro al conducente, al termine di una giornata di lavoro dinamica e impegnativa, io sonnecchiavo e fantasticavo perdendo spesso la cognizione del tempo e dello spazio. La mia scarsa vigilanza e l’intensità del traffico non mi consentirono di riconoscere la brusca curva a sinistra che ogni giorno sollecitava in me il pensiero di scendere. A un certo punto l’autobus cominciò a marciare più spedito e una spettacolare curva a destra in salita rimarcò con evidenza che non ero sceso al momento giusto. Naturalmente mi affrettai a scendere alla prima fermata per non prolungare quel tragitto inutile. Una volta sul marciapiede cercai di ricostruire con la mente quale errore avessi compiuto e il luogo dove mi trovavo, per poter tornare finalmente verso casa. Questo francamente non fu difficile; viceversa mi resi conto con timore e preoccupazione che dopo un breve tratto a sinistra lungo il marciapiede avrei dovuto traversare un viale molto largo, privo di semafori e caratterizzato dallo scorrimento veloce delle automobili. Raggiunto il viale guardai l’orologio e compresi che si era fatto buio. Di pedoni che potessero aiutare ad attraversare non c’era neanche l’indizio. Cercai di chiedere soc-
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corso agitando vistosamente il mio bastone bianco, ma gli automobilisti sfrecciavano così veloci da non avere il tempo necessario per fermarsi. Decisi di aspettare per mezz’ora, dopo di che avrei tentato la soluzione più rischiosa. La mezz’ora trascorse lentamente e nervosamente, senza risultati. Mi feci coraggio, mi avvicinai progressivamente al bordo della strada, sempre più vicino alla linea di scorrimento, mettendo bene in evidenza il bastone bianco. Alla prima occasione di relativo silenzio cominciai l’attraversamento, roteando il bastone bianco allo scopo di renderlo un segnale drammatico difficilmente trascurabile. Due frenate stridenti accompagnate da grida e da insulti mi fecero rabbrividire, ma raggiunsi comunque il marciapiede opposto, in uno stato di vera e propria agitazione. Non mi ero ancora ripreso quando un’automobile si fermò e una persona scese dirigendosi rapidamente verso di me. Ebbi un sussulto di paura, pensai a nuovi problemi da affrontare. Si trattava invece di una signora molto cordiale che aveva visto la scena e che desiderava rendersi utile. Con determinazione e semplicità volle conoscere il mio indirizzo e mi accompagnò a casa in pochi minuti, senza commentare l’accaduto. Ricordo il suo saluto affettuoso e discreto, la sua voce intelligente e misurata. Mi torna spesso nella mente il suo modo di essere e soprattutto la ricordo ogni volta che un bambino mi parla delle fate.
Come prendere la parola?
La riunione durava già da quasi due ore e io non ero ancora riuscito a esporre il mio pensiero, a prendere la parola per comunicare il mio punto di vista. Eravamo un gruppo di esperti qualificati e avevamo il compito di redigere un documento sulla formazione degli insegnanti in rapporto con l’integrazione scolastica. Il nostro coordinatore, un rinomato dirigente ministeriale, aveva deciso di avviare una discussione spontanea, senza un elenco degli iscritti a parlare. Egli aveva detto che in fondo eravamo pochi, circa una ventina, e potevamo quindi governare il dibattito evitando le procedure più formali. Da parte mia avevo capito abbastanza presto che la richiesta e l’offerta della parola avvenivano mediante segnali mimico-espressivi che, per diventare efficaci, avevano bisogno della reciprocità oculare. Ciononostante non mi ero preoccupato. Ritenevo infatti che nel momento in cui avessi desiderato parlare, sarebbe stato sufficiente alzare la mano come facevo a scuola da ragazzo. Prima o poi la mia mano sollevata avrebbe catturato lo sguardo del coordinatore e la parola mi sarebbe stata concessa. Arrivò finalmente il momento di alzare la mano e purtroppo dovetti constatare con il passare dei minuti che questa mia segnalazione, benché vistosa, non produceva l’effetto desiderato. Evidentemente nel mio gesto c’era qualcosa di non previsto, di extracontestuale. Probabilmente la mano sollevata veniva percepita a prescindere dal suo significato scolastico e assumeva la fisionomia della stranezza, da collocare al margine del campo visivo. Accadde comunque che la mia pazienza e la mia capacità di attendere si esaurirono. Mi alzai in
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piedi e con la voce alterata dall’emozione dichiarai clamorosamente il mio disagio, chiedendo che si scegliesse un criterio formale adatto a garantire a ciascuno di noi il diritto di parola e di espressione. Aggiunsi inoltre che mi sembrava quantomeno bizzarro che in un contesto concentrato sulle problematiche del deficit emergesse la necessità di simili chiarificazioni. Con il passare degli anni ho compreso sempre meglio che in quell’episodio non c’era nulla di strano. L’integrazione sociale delle persone con deficit non può essere conquistata una volta per tutte. Non esistono pertanto ambienti e contesti nei quali sia possibile vivere di rendita. In altri termini la distinzione e l’integrazione delle diversità individuali non possono divenire un’abitudine, una semplice routine. Indubbiamente le realtà sociali possono dimostrarsi più o meno sensibili, predisposte e organizzate ad accogliere la diversità di ogni singola persona. Cionondimeno la diversità individuale rischia sempre di impallidire, di perdere la sua pregnanza, di geometrizzare la proprie forme nella logica della semplificazione. Per questa ragione è molto importante mantenersi vivaci e capaci di riconoscere la propria diversità e, se necessario, aiutare gli altri a riconoscerla, anche attraverso i toni decisi dell’affermazione di sé.
Un’esca pericolosa
Quante volte, durante un’esperienza festosa con gli amici, siete improvvisamente divenuti pensosi e un po’ tristi, per un gesto non apprezzato, una vostra parola non ascoltata o più semplicemente per una risata non corrisposta? A quel punto vi è capitato di percepire una sorta di inadeguatezza per un ambiente scherzoso ed eccitato, quasi una differenza inavvicinabile tra la vostra condizione interiore e il clima psicosociale del gruppo. Forse vi siete addirittura forzati a rimanere tristi, come se la tristezza fosse una condizione più limpida e inalterabile, al riparo dalla confusione e dall’aggressività di relazioni umane un po’ caotiche. Non mi sento di escludere che questo comportamento possa essere stato suggerito dal desiderio, diciamo semiconscio, di attrarre con la vostra misteriosa e rabbuiata introversione un possibile partner, commosso e incuriosito dal vostro isolamento. Francamente posso dire che una simile condotta si rivela spesso una vera e propria trappola per coloro che la mettono in atto, poiché la tristezza, come tutte le emozioni, possiede una vita transitoria e potrebbe lasciarvi soli nello sforzo di continuare a essere pensosi e rabbuiati, senza sapere come uscire da questa artificiosa situazione. Altre volte può capitare che, per così dire, l’eventuale partner abbocchi all’amo della vostra tristezza e questo, in un primo momento, potrà apparirvi come un bel successo. Occorre però considerare che, proprio perché contenti dell’avvicinamento desiderato, vi resterà molto difficile continuare a nutrire la vostra tristezza. Per farlo sarete costretti a ricordare le vicende
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più sfortunate della vostra esistenza e rischierete, così facendo, di cadere nell’esagerazione o comunque nel ridicolo involontario. Il partner, una volta compresa la forzatura e la finalità della vostra condotta, rimarrà deluso, a meno che non si tratti di persona così avida nel conoscere le altrui disgrazie, da interessarsi comunque alle vostre storie, semplicemente per il gusto della partecipazione. Anche in tal caso le cose non si metteranno bene, in quanto il vostro partner tenderà a riconoscervi come una vittima, come un perdente a vita, e questo naturalmente comincerà ben presto a darvi noia e fastidio. Da quanto detto risulta fin troppo chiaro che in un ambiente scherzoso l’improvvisa e transitoria comparsa del cattivo umore o di brutti pensieri meriterebbe minore attenzione e una risposta di evitamento piuttosto che di concentrazione. Sempre che non ci interessi approfondire davvero l’origine del nostro malumore: in questo caso la cosa migliore da fare sarebbe quella di allontanarsi dall’ambiente scherzoso e magari farsi una bella passeggiata riflessiva in riva al mare.
Un saluto significativo
Per molti anni ho incontrato spesso tre ragazzi sordi sull’autobus, mentre tornavo a casa, generalmente nel tardo pomeriggio. Per la verità non si trattava di veri e propri incontri, ma soltanto di brevi cenni di saluto, anche se molto significativi. Infatti, al momento di scendere, essi mi passavano vicino e mi carezzavano la testa. Il contatto delle loro mani era intenso ed energico, assolutamente privo di fretta, ed esprimeva il segnale di un vincolo colorato di compassione e di fraternità. Ancora per qualche fermata, io restavo seduto, assaporando il ricordo di quelle carezze, tra vergogna e piacere. Soprattutto mi chiedevo cosa io potessi rappresentare nella mente di quei tre ragazzi sordi. Forse un cieco, nella mente di una persona non udente, è qualcosa di più rispetto a ciò che rappresenta nell’immaginazione di una persona comune. È privo della vista, vale a dire della funzione che per i sordi costituisce il principale se non esclusivo vincolo di riferimento nel contatto con la realtà. La mancanza della vista, per un sordo, costituisce l’immagine stessa dello smarrimento, della separazione e forse dell’impotenza. Qualcuno potrebbe dire che la vista per i sordi è un po’ come l’udito per i ciechi e che pertanto un soggetto non vedente, immaginando la mancanza dell’udito, può sperimentare per analogia cosa significhi per un sordo la mancanza della vista. Personalmente ritengo che le cose siano più complesse e meno simmetriche. Per i ciechi l’udito non costituisce affatto l’esclusivo senso di riferimento nel contatto con la realtà dell’ambiente. Per
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molti aspetti è il tatto che ci consente di vivere con maggiore intensità e concretezza la relazione con il mondo. Naturalmente qui dovremmo cominciare a distinguere la realtà degli oggetti e la realtà della comunicazione, ma in questo modo andremmo oltre un semplice discorso sulle emozioni che accompagnano la perdita di una funzione sensoriale. Più che altro gioverebbe, a questo punto, il conforto da parte di una persona sordo-cieca ben educata, che ci comunicasse la concretezza della sua esperienza reale e la vivacità realistica della sua vita immaginativa.
Si prega di guardare il film
Amici inseparabili, entrambi ipovedenti, entrammo nel cinema con l’entusiasmo di sempre e con la fiducia di poterci gustare in santa pace il film che da molti giorni avevamo scelto di vedere. Come al solito ci dirigemmo nella zona anteriore della sala di platea, per sederci in terza fila, una posizione da noi prediletta e regolarmente evitata da tutti gli altri perché troppo vicina allo schermo. Quel giorno però l’afflusso di gente fu davvero sorprendente e in pochi minuti il cinema era gremito in ogni ordine di posti. Eravamo letteralmente circondati da persone un po’ eccitate che parlavano senza sosta, mangiando caramelle e popcorn. Quando il film ebbe inizio il chiasso sembrò diminuire, trasformandosi in una condizione di fitto brusio. Noi cercammo pazientemente di concentrarci sul film, tralasciando inutili considerazioni sulle sgradevoli circostanze di quella situazione. A questo punto occorre sapere che il mio amico aveva una visione periferica nel solo occhio sinistro, che lo costringeva a guardare lo schermo con la testa ruotata di novanta gradi verso destra. Considerando che generalmente in terza fila eravamo soli, io prendevo posto alla sua sinistra, per evitare di confrontarmi con la sua faccia, girata verso di me, per l’intera durata del film. L’incidente accadde alla fine del primo tempo, quando si riaccesero le luci. La voce quasi furiosa di un giovane energumeno apostrofò il mio amico con toni aggressivi e molto minacciosi. Eccitato dalla gelosia, egli voleva sapere, naturalmente dal mio amico, se fosse venuto al cinema per guardare
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il film o viceversa per fissare con insistenza il volto della sua ragazza. Fatta eccezione per noi due, a tutti i presenti sfuggiva l’involontaria comicità della circostanza e ciò naturalmente rendeva pericolosa la situazione. Fu necessaria tutta la nostra competenza relazionale per riuscire a spiegare la condotta del mio amico senza ricevere nel frattempo una consistente porzione di percosse. Nonostante la chiarificazione, il giovane furioso prese il posto della sua ragazza e non fu facile per il mio amico continuare a concentrarsi sul film, con la testa girata verso di lui. Uscimmo dal cinema un po’ disorientati e sostanzialmente delusi. Cercammo di scherzare sull’accaduto ma non ci veniva naturale e presto scivolammo in un silenzio molto pensoso. Decidemmo comunque di tornare a vedere il film, in una giornata non festiva, durante il primo spettacolo pomeridiano, per avere finalmente la possibilità di gustarcelo al meglio delle nostre abitudini.
La ricerca del bicchiere
Quando ci troviamo a tavola con parenti o con amici può divenire difficile l’esercizio della nostra autonomia. Infatti la cosa che risulta più semplice e normale è immaginare che qualcuno si occupi di noi, una sorta di «commensale specializzato» pronto con i suoi servizi a renderci più agevole e più gradevole la partecipazione al pranzo. La funzione del commensale specializzato viene vissuta dagli altri commensali con gratitudine ma anche con occhio critico e talvolta con giudizio severo circa la qualità delle sue prestazioni. Generalmente viene giudicata male soprattutto la sua mancanza di prontezza nel versarci da bere, nel tagliarci la carne e nell’offrirci le varie delizie presenti sulla tavola. La manifestazione della nostra autonomia viene frequentemente vissuta male dai commensali e questo accade per due motivi che insieme possono costituire una vera e propria barriera culturale. In primo luogo bisogna dire che la nostra autonomia presuppone un costume di ordine e di attenzione, che non coincide affatto con l’ordinario caos di una tavola da pranzo. In secondo luogo le nostre mani, che si muovono sulla tavola guidate dalla mente e non dagli occhi, costituiscono molto spesso per gli altri un motivo di turbamento. Essi infatti confondono l’incertezza misurata e strategica del nostro agire con l’esperienza angosciosa dello smarrimento e sono indotti con urgenza ad arrestare la nostra ricerca, offrendoci con ansia il presunto oggetto del nostro desiderio. Può tornare utile aggiungere che i nostri tentativi di autonomia vengono spesso consi-
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derati come un atteggiamento di orgogliosa indipendenza e quasi come un segnale di scarsa socievolezza. Cosa fare, quindi, di fronte a questa barriera culturale, che considera la nostra solitudine attiva come una specie di peccato sociale a cui riparare con fretta? Evidentemente non ci sono ricette da prescrivere e da ritenere valide per ciascuna situazione. Dovremmo comunque dimostrare agli altri di aver compreso il loro punto di vista e il loro modo di sentire. Dopo aver fatto questo, però, dovremmo affermare con gradualità e fermezza le nostre personali esigenze di partecipazione, di autonomia e di indipendenza. Se non percorriamo la via dell’affermazione, può davvero capitarci di tutto, compresa la perdita del diritto all’autogestione del bicchiere.
Anche i ciechi sognano
Mi trovavo seduto in una sala da tè piuttosto affollata di voci che, per quanto discrete, componevano un fitto brusio penetrante e fastidioso. Accanto a me sedeva una giovane giornalista socievole e nervosa, che parlava rapidamente agitando le braccia e producendo un tintinnio di bracciali ritmico e implacabile. Il tavolo era pieno delle sue carte e dei suoi libri, tanto che la mia tazza di tè sporgeva dal bordo, provocando nella mia mente l’immagine inquietante della caduta. Mi affrettai a berne l’acquoso contenuto, per allontanarla da me e liberarmi così dal pericolo di essere il colpevole, la causa della sua rottura. Le argomentazioni della giornalista apparivano integrate da una logica stringente, così stringente da sollecitare il pensiero della fuga. Mi sentivo nel posto sbagliato, stavo perdendo del tempo prezioso e non sapevo come affrettare il corso di quella spiacevole circostanza. A un tratto qualcuno sfiorò con tenerezza il mio braccio destro e una voce soffice e intensa risuonò dolcemente nel mio orecchio, così vicina da offrire l’emozione del contatto: «Ti prego, prendi la mia rosa e dammi quello che vuoi!» Era la voce di una bambina, piccola e già capace di governare l’efficacia della seduzione. La pronuncia slava e una vibrazione profonda conferivano alle sue parole una fisionomia magica e fatale. Recuperai il borsellino nella tasca della giacca e le diedi dei soldi, con vergogna e gratitudine. Mi vergognavo di essere così emozionato, mi sentivo molto ingenuo e permeabile. La gratitudine era comunque la nota prevalente del mio stato d’animo,
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poiché quella voce, quella bambina avevano risvegliato in me il sentimento del piacere e la forza del desiderio. Mentre giocavo con la rosa tra stupore e nostalgia, sfiorando con i petali le mie labbra ancora un po’ incantate, notai con sorpresa che la giornalista era scomparsa. Fu allora che mi svegliai e il mattino mi appariva denso di buoni presagi.
Due volte paziente
In una camera di ospedale, un paziente cieco può muoversi con sufficiente disinvoltura, sempre che vengano rispettate le più elementari norme dell’ordine e dell’igiene. Generalmente il suo arrivo e la sua presenza vengono accolti dagli altri pazienti e dal personale in servizio con sincera benevolenza e con quel pizzico di commozione che rende più difficili le domande pratiche e molto più facili le considerazioni e le espressioni mistiche e morali. Naturalmente anche in ospedale la persona non vedente viene giudicata meno capace di quanto non sia in realtà. Si ritiene infatti che, a prescindere dalle sue condizioni di salute, preferisca mangiare a letto, essere accompagnato al bagno, essere aiutato a muoversi in qualunque circostanza. D’alta parte si cerca la sua attenzione mediante comportamenti visivi, ma in compenso ci si scusa con lui per aver usato parole visive come «vedi, guarda, rosso» e così via. Fin qui nulla di particolare. Le reali difficoltà sopraggiungono quando il paziente che non vede chiede che le abitudini quotidiane dell’ospedale vengano in qualche misura adattate alle sue particolari esigenze: cambiare posto al cestino dei rifiuti, descrivere il contenuto delle scatole che compongono il pranzo precotto, offrire un’assistenza più assidua durante le fleboclisi, anticipare con le parole qualunque manipolazione corporea, facilitare il passaggio pedonale lungo il corridoio del reparto e tante altre accortezze di questo genere. La forza delle abitudini induce il personale in servizio a preferire la presenza di un parente o di un amico del paziente
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cieco, affinché integri le sue funzioni sensoriali e consenta così la continuità della solita routine. Desidero sottolineare che simili considerazioni non intendono amplificare la dimensione dei problemi pratici, che in ogni caso risultano affrontabili e risolvibili, soltanto con qualche fatica in più. Vogliamo piuttosto riferirci all’esperienza interiore del paziente cieco, che già è costretto a pazientare a causa delle sue condizioni di salute e deve inoltre esercitare la sua pazienza poiché ancora una volta si trova incluso in un contesto che non dimostra l’intenzione di conoscerlo ma soltanto emozioni e fantasie compassionevoli nei suoi confronti. Per fortuna si presentano anche alcune eccezioni, vale a dire persone che dimostrano di voler capire e che sollevano sensibilmente il nostro spirito, rafforzando la convinzione che i nostri problemi sono comunque comprensibili da una convivenza sociale un po’ più attenta e un po’ più caratterizzata dal desiderio di conoscere. Qualcuno potrebbe osservare che in fondo l’ambiente dell’ospedale non rappresenta che uno dei tanti ambienti di una società che offre nel suo complesso le caratteristiche descritte in precedenza. E che pertanto una persona non vedente dovrebbe immaginare, al momento del ricovero, quella che sarà presumibilmente la sua esperienza ospedaliera. Voglio dire semplicemente che la condizione di malattia, soprattutto quando presenta segnali preoccupanti, rafforza oltremodo il nostro bisogno di essere accolti, riconosciuti, compresi e confermati nella nostra condizione personale. In tal senso ritengo sia lecito esigere che un contesto sanitario presenti, almeno in misura osservabile, la disposizione a capire e a ragionare circa le differenze individuali.
Una stretta di mano
Era mezzogiorno di Natale. Io avevo ventuno anni ma sentivo il peso di una storia molto più lunga. Scendevo gli scalini della clinica e mi sembrava di salire. Cercavo con gli occhi qualcosa che mi portasse lontano, al di là dei pensieri e delle paure che opprimevano la mia immaginazione. Presi l’autobus, il numero 36, per raggiungere la stazione Termini. Allontanarmi dalla clinica psichiatrica, avvicinarmi a casa, dover parlare con i miei familiari; volevo qualcos’altro, qualcosa che mi facesse sentire un po’ meno solo. Improvvisamente mi resi conto di essere l’unico passeggero. Mi trovavo accanto al conducente e guardavo la strada. Un sole tiepido e luminoso rendeva quasi luccicanti alcuni fiocchi di neve che cadevano sull’asfalto, liquefacendosi in fretta. Il conducente guidava assorto nella sua mente ma ogni tanto mi guardava con interesse, intenso e labile come i fiocchi di neve. Tutto mi appariva intenso e labile, viceversa mi occorrevano riferimenti stabili, affidabili, riposanti. Meccanicamente, senza gemiti, cominciai a piangere. La liberazione che avvertivo mi impediva di provare vergogna. Fu allora che il conducente mi rivolse la parola. Desiderava conoscere la ragione del mio pianto e io gli raccontai di Maria, della sua improvvisa e grave malattia, del mio dolore e delle mie paure. Confessai che non volevo più sposarla, perché mi appariva troppo inquietante e inaffidabile, ma non volevo neanche lasciarla al suo destino, uscire dalla sua storia soltanto perché non volevo sposarla. Mentre parlavo, accadde la cosa più strana. Il
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conducente cominciò a singhiozzare; il suo pianto era più angoscioso del mio, più contratto e più disperato. Mi raccontò che sua moglie, appena dopo tre anni di matrimonio, aveva contratto una grave forma di malattia mentale e si era ricoverata per un lungo periodo. Era rimasto solo, con due figli molto piccoli, in una condizione molto difficile e del tutto imprevedibile. Il suo racconto fu interrotto dall’arrivo nel piazzale della stazione Termini, sede del capolinea. Scendemmo entrambi dall’autobus e ci salutammo. Ricordo bene quella stretta di mano, così espressiva e così inesprimibile. Ne ricordo l’energia, il calore, la passione. Mi ritorna in mente soprattutto quando vorrei fuggire dalla realtà, senza capire che la fuga dall’esistenza è, allo stesso tempo, un lusso e una disgrazia che molte persone non possono prendere in seria considerazione.
Dov’è lo specchio dell’anima?
Naturalmente è nel corpo che si esprime la nostra storia personale. In esso la storia lascia le sue tracce, i segni di un passato che talvolta offrono anche, mirabilmente, qualche presagio del nostro futuro. La concretezza del corpo intero, con le sue caratteristiche e con i suoi limiti, è il libro della nostra vita e del nostro esserci. Ciò nondimeno esistono nel corpo parti più o meno significative, più o meno osservabili allo scopo di conoscere la nostra storia e la nostra identità. Si dice che gli occhi siano lo specchio dell’anima, poiché in essi possiamo scorgere le intenzioni dell’altro e la sincerità delle sue parole. Non tutti sono convinti che ciò sia vero, ma è comunque innegabile che gli occhi offrano questa sensazione di penetrabilità dell’altro. È forse vero che gli occhi consentono quasi sempre di comprendere le intenzioni dell’altro. Il guaio, se mai, sta nel fatto che le nostre intenzioni sono spesso mutevoli e offrono quindi una relativa affidabilità. Diversamente si dice che le mani siano l’espressione della nostra vita concreta, lo strumento con il quale la nostra mente entra in contatto con la realtà del mondo, per incidervi e produrre le trasformazioni desiderabili e anche quelle non desiderabili. Indubbiamente, osservando le mani di una persona si può comprendere molto del suo passato, della sua storia personale. Soprattutto si possono comprendere le condizioni pratiche di vita, vale a dire la condotta operativa di una persona. Occorre aggiungere che sulle mani dell’altro possiamo riconoscere i suoi atteggiamenti costitutivi, quelli che caratterizzano maggiormente il suo modo di essere, la sua condotta relazionale.
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Infatti, nel comportamento di una persona, i movimenti delle mani sono molto immediati e poco controllabili. In particolar modo i motivi dell’aggressività, dell’inquietudine e dell’affermazione di sé trovano spesso il loro specchio involontario nei micromovimenti delle mani. Al riparo da certezze mistiche, che inevitabilmente ci condurrebbero a parlare della lettura della mano come chiaroveggenza del nostro futuro e di altre portentose funzioni connesse con questa importante parte del corpo, possiamo dire che la stretta di mano rappresenta, più di qualsiasi altro gesto, l’atto con il quale mettiamo in gioco la credibilità delle nostre parole. Si potrebbe dire che l’occhio rappresenti il principale punto d’ingresso immediato nel labirinto emozionale e fisiologico di una persona. Le mani viceversa rappresentano forse il principale punto di uscita, con il quale il soggetto dà corpo alle sue intenzioni e si compromette con il mondo, costruendo la sua storia e gli aspetti più responsabili della sua identità. D’altra parte nelle nostre mani si articolano, si mescolano e si distinguono tre funzioni fondamentali: il comunicare, l’agire e il conoscere. Conoscere con le mani è qualcosa che appartiene alla specie umana, ma è certamente la funzione che caratterizza l’esistenza dei soggetti non vedenti. Purtroppo l’ingenuità del sentire comune vive con angoscia l’immagine delle mani che conoscono e che si muovono senza la guida degli occhi. Per questa ragione è importante che i ciechi apprendano a simulare uno sguardo che accompagni il movimento delle loro mani, allo scopo di rendere più naturale e accettabile questa loro specifica necessità. In casi come questo, fingere non esprime il desiderio di fuga ma piuttosto la volontà di conciliare le proprie esigenze con la sensibilità degli altri. Le mani dei ciechi ben educati sono sensibili ed energiche, vivaci e prudenti, curiose e ben misurate; sono soprattutto mani che hanno più bisogno di toccare e chiedono alla società di essere più avvicinabile. In fondo sarebbe sufficiente recuperare, in qualche misura, il gusto di toccare caratteristico dei bambini, per accogliere con sufficiente serenità le mani dei ciechi nella quotidianità ordinaria del vivere sociale. Un simile recupero sarà un bene per tutti ma in particolar modo offrirà ai soggetti non vedenti la possibilità di assaporare, finalmente, il diritto di essere ciechi.
Sono bella?
Essere belle e attraenti resta comunque una preziosa virtù naturale, anche quando chi la possiede non può valutarne l’entità con mezzi conoscitivi personali. Che una ragazza non vedente possa risultare bellissima e magnetica ci appare come un fatto scontato, poco degno di fare notizia. Una limitazione sensoriale non ferisce il corpo nella sua manifestazione plastica, nel fascino delle sue forme in movimento. Inoltre spesso la persona che non vede possiede uno sguardo integro, significativo e stimolante, contenuto da un volto mobile ed espressivo, che non richiama affatto la presenza di una minorazione. Ciononostante, il fatto che una ragazza ipovedente si sia presentata a un concorso di Miss Italia può divenire ancora una notizia da prima pagina e catturare globalmente l’attenzione di tutti i mezzi di comunicazione di massa. La bellezza di una ragazza non vedente fa meraviglia e la storia della cecità ci insegna che la meraviglia viene accompagnata, anche troppo fedelmente, dal sentimento della pietà. Restando nel superficiale, saremmo costretti a dire che l’ammirazione e i festeggiamenti rivolti alla concorrente disabile visiva non hanno mostrato una fisionomia pietosa e che i riconoscimenti morali hanno voluto sottolineare più che altro il coraggio della ragazza, che, nonostante tutto, ha rischiato di vivere il desiderio di mostrare la propria immagine in una competizione così importante. Per approfondire un tantino, dobbiamo viceversa chiederci come mai si è parlato, per la prima volta, di una vincitrice morale, nel contesto di un
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concorso che finora non era mai stato penetrato direttamente dalle categorie del bene e del male. Perché si è parlato di bellezza interiore in un concorso che per sua natura è centrato sulla figura visiva della persona e pertanto sulle sue qualità corporee immediatamente osservabili? Proviamo a rispondere dicendo che forse ancora oggi la condizione di cecità ci procura di norma un turbamento così sotterraneo e ingovernabile da indurci a cercare rifugio nel sentimento del bene. In altre parole non ci riesce di accettare semplicemente che una ragazza disabile visiva risulti bella e attraente. Abbiamo la necessità di pensare che sia soprattutto buona, che sia bella dentro. In effetti è il suo dentro che turba, poiché appare così difficile da immaginare, richiamando l’esperienza del buio e dello smarrimento. In realtà la vita interiore dei ciechi è molto meno misteriosa e inquietante di quanto si voglia o si tenda a credere. Un’informazione più accurata e incisiva potrebbe forse mitigare questo senso del mistero. La condizione di cecità diverrebbe qualcosa di meno affascinante, ma certamente sarebbe avvicinata e conosciuta da noi tutti con maggiore semplicità e serenità. Vorrei comunque tornare sulla ragazza non vedente e sulla sua immagine visiva. Essere bella da guardare è senza dubbio un problema che tocca da vicino la ragazza non vedente, anche se si tratta di un problema che sottolinea immediatamente una sua quasi totale dipendenza da suggeritori vedenti. La ragazza può compensare e mitigare questo stato di dipendenza scegliendo persone di sua fiducia, con le quali si trovi a suo agio e avverta una certa affinità culturale ed estetica. Quando però la sua immagine visiva diviene un aspetto molto consistente della sua esistenza personale, la dipendenza assume proporzioni tali da incidere con il tempo nel delicato rapporto che ogni persona coltiva con se stessa. Per divenire amici di noi stessi dobbiamo confidare nelle nostre possibilità personali, a partire da ciò che ci fa sentire meno dipendenti dagli altri. In questo modo possiamo gradualmente imparare le forme della nostra partecipazione anche nelle situazioni che accentuano la nostra dipendenza. Sia ben chiaro comunque che questa mia riflessione non vuole essere una lezione di vita, poiché ritengo che certi errori, soprattutto i più importanti, difficilmente possono essere prevenuti. D’altronde il diritto a sbagliare è aspetto fondamentale del diritto a esistere, con la speranza che l’errore divenga, sempre di più, un’occasione per pensare.
Chi sono io?
Alcuni tratti della nostra cultura sembrano resistere al progresso della civiltà con una forza davvero sconcertante, che talvolta ci spinge pericolosamente verso la rassegnazione. Per conservare fiducia e volontà di fronte alla permanenza di alcuni fenomeni culturali tanto fastidiosi e offensivi quanto apparentemente immodificabili, occorre considerare che la forza delle abitudini può cedere soltanto al sopraggiungere di nuove abitudini più vivaci e confortanti. Uno tra questi fenomeni culturali così refrattari al cambiamento è certamente il «saluto a indovinello» con il quale molti si avvicinano ancora oggi alla persona non vedente. Soprattutto i bambini non vedenti sono spesso investiti dal saluto a indovinello con cui parenti e amici di famiglia mettono alla prova la loro capacità di riconoscere la voce. Nel caso positivo, vale a dire di avvenuto riconoscimento, simili persone esprimono con enfasi tutta la propria meraviglia, celebrando le sorprendenti capacità del bambino non vedente. Sentirsi afferrare improvvisamente e subire una voce invadente e perentoria che ci chiede: «Chi sono io?», è un’esperienza spiacevole e perturbante, anche quando conosciamo, per così dire, la buona fede e la bontà della persona che ci ha posto l’indovinello. In tali circostanze ci sentiamo esposti a un’esperienza che gli altri fanno di noi stessi, un’esperienza che trae la sua origine esclusivamente dalla nostra diversità limitante. Un simile indovinello possiede qualcosa di superficiale e di sperimentale, caratteristiche che insieme producono spesso la crudeltà di un atteggiamento, anche se involontaria.
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La persona che pone l’indovinello non si sente affatto crudele, poiché vive semplicemente il desiderio di avvicinarsi e il timore di non essere riconosciuta. Per questa ragione non è facile indurla a mutare comportamento. Possiamo comunque imparare a esprimere con delicata chiarezza il nostro disagio e, nel caso l’interlocutore dimostri di non avere orecchie da intendere, potremmo iniziare a telefonargli e, al suo «Pronto», interagire con uno squillante: «Chi sono io?».
Ragazzi di strada
Avevo tredici anni quando cominciai a prediligere la compagnia dei cosiddetti ragazzi di strada. Familiari, professori, sacerdoti rimasero tutti sorpresi e contrariati da questo mio brusco e imprevisto cambiamento. Essi compresero ancor meno questa mia trasformazione quando si resero conto che io continuavo ad amare lo studio, la scuola e l’impegno sociale e ciononostante trascorrevo una buona parte del mio tempo libero con ragazzi, per così dire, maleducati, aggressivi e antisociali, che fuggivano dalla vita scolastica e deridevano le autorità costituite. A onor del vero devo dire che anche questi ragazzi non capivano questa mia scelta, ma fiutavano per istinto la sincerità del mio avvicinamento e ciò bastava a placare la loro naturale diffidenza. Per quanto mi riguarda, in loro compagnia io vivevo un immenso sentimento di liberazione. Questo mi accadeva anche quando i loro riti di iniziazione mi sottoponevano a prove dure, pericolose e frustranti. Infatti io capivo che simili prove miravano a farmi divenire un membro regolare del gruppo e ciò gratificava il mio senso di appartenenza. Per altro quando si trattava di compiere azioni che io ritenevo moralmente riprovevoli, avevo quasi sempre la forza di non partecipare e di esprimere con franchezza e rispetto il mio dissenso. Mi piaceva tanto il modo con cui ci accampavamo sulle panchine dei giardini pubblici, tra gli alberi lungo la ferrovia, dentro i palazzi diroccati, semidistrutti dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Insieme a loro riuscivo a trascorrere ore spensierate, talvolta inquiete, ma sempre
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confortate dal sentimento della partecipazione. Il fatto che ci vedessi così poco era più che altro un motivo di scherzi e di denigrazione, vissuta con semplicità aggressiva, ma comunque priva di penosi turbamenti. In altre parole, essi deridevano il mio difetto visivo così come deridevano i difetti di ciascuno. Dai loro scherzi la mia diversità usciva legittimata e sdrammatizzata. Le aggressioni un po’ sadiche rappresentavano per ciascuno di noi una tassa di partecipazione al gruppo, accompagnata però da emozioni affettuose di fiducia e di solidarietà. Malgrado numerosi e ripetuti tentativi, non sono mai riuscito a far capire queste cose a coloro che mi hanno voluto più bene e che proprio per questo hanno nutrito e nutrono tuttora, nel confronto con la mia diversità, vissuti di pena e di profondo turbamento. Con il passare degli anni ho conosciuto modalità di coesistenza sempre migliori e fortunatamente ho potuto estendere sempre di più i gradi della mia libertà personale e le dimensioni della mia vita sociale. Quei ragazzi di strada sono comunque rimasti nel mio ricordo come i principali protagonisti del mio processo di liberazione. Infatti affermando come potevano la loro diversità hanno saputo e voluto ospitare anche la mia, offrendomi la possibilità di concepire i limiti di un ordine sociale troppo sostenuto dalla logica dell’abitudine e dal bisogno del prevedibile.
Piacevoli conversazioni
Ricordo con grande piacere le mie discussioni con i professori. Le vivevo con tale partecipazione da dimenticare la noia dei miei compagni di scuola per quei ragionamenti astratti e interminabili, così lontani ed estranei dai loro interessi quotidiani. Quasi certamente essi non potevano cogliere il significato che simili discussioni assumevano nel corso della mia vita. Finalmente io mi sentivo considerato, perlomeno nelle mie opinioni. Avvertivo nei professori gratificazione e gratitudine per questo mio impegno critico, persino quando le mie considerazioni apparivano a me stesso ingenue e improvvisate. Si creava fra me e i professori un clima serio e confidenziale che nutriva la fiducia nelle mie possibilità e confortava implicitamente alcuni stati di frustrazione che non avevo il coraggio di esprimere. Raggiungevo il massimo dell’entusiasmo quando il professore di latino, durante l’intervallo, mi invitava al bar per gustare tra un argomento e l’altro il caffè e la solita sigaretta. C’era chi vedeva in questo comportamento una scorretta ricerca di benevolenza e per questa ragione faceva di tutto per comunicarmi il suo disprezzo e la sua avversione. Io soffrivo per questo ma il mio bisogno era così forte, così pressante da apparirmi legittimo e incontestabile. Sentivo di non poter rinunciare a quelle opportunità, senza rischiare lo scivolamento graduale sulla via dell’indifferenza. D’altra parte i miei compagni cominciarono a vedere gli aspetti positivi di questo mio comportamento: le mie dispute interminabili evitavano
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le interrogazioni e impedivano al professore un ulteriore svolgimento del programma. Alcune volte erano proprio i compagni che mi chiedevano di farla un po’ lunga per salvare uno di loro dall’esito disastroso di un’interrogazione fallimentare. A poco a poco si organizzò una sorta di intesa complementare che, per quanto contraddittoria, favorì decisamente i miei rapporti con la classe, tanto da offrirmi nuovi spazi di socialità e prospettive di vita scolastica assolutamente impreviste. Con il passare del tempo venni considerato sempre di più «una persona strana ma simpatica», un’immagine che peraltro mi ha accompagnato per una grande parte della mia esistenza. Voglio dire che l’espressione del bisogno è comunque una via maestra di realizzazione per ciascuno di noi e generalmente rappresenta l’inizio di un processo di liberazione umana.
Chiodo scaccia chiodo
Era un pomeriggio di fine aprile, umido e noioso, semplicemente privo di attrattive che potessero conferire al ritmo del tempo la caratteristica della vivacità. Erano già due mesi che mi trovavo in ospedale e Laura non era ancora venuta, né aveva scelto un qualsiasi altro modo per essermi presente. Io avevo quasi rinunciato a immaginare il suo arrivo, scivolando in una finzione di indifferenza che tacitamente alterava il rapporto con me stesso. Cercavo di essere allegro e divertente con tutti, ma in fondo mi sentivo stanco e umiliato, per non parlare dell’angoscia con la quale attendevo il giorno del difficile intervento chirurgico che avrebbe dovuto restituire un po’ di funzione al mio occhio sinistro. Era quasi arrivato il momento della cena quando mi fu annunciata una visita. Qualche secondo più tardi Laura entrò nella mia camera e mi salutò con affetto misurato, quasi diplomatico. Avvertivo con intensità l’incongruenza della situazione, ma fui contento di vederla. Benché sfuggente, la sua presenza ebbe comunque la forza di risvegliare i miei desideri e di condurmi fuori dal torpore psichico nel quale mi ero calato. Il colloquio non riuscì comunque a superare il livello dell’intervista, resa più cordiale da qualche minuscolo spunto affettuoso, sovraccarico di esitazione. A un certo punto cominciai a intuire che tra le pieghe del non detto stava per emergere qualcosa di pesante, che mi avrebbe fatto male, e desiderai per un attimo che l’incontro si interrompesse improvvisamente, quasi per magia.
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Dal suo comportamento capivo sempre meglio che Laura era venuta per dirmi qualcosa, qualcosa di definitivo, e io non avevo alcuna voglia di ascoltare. In fin dei conti neanche lei aveva voglia di dirmelo e per questa ragione aveva tardato tanto nel venire a trovarmi. Forse già la notizia del ricovero, con il suo significato drammatico, aveva suscitato in lei sentimenti così penosi da risultare incompatibili con la nostra relazione. Inesorabilmente arrivò la sua dichiarazione pronunciata con voce inespressiva, quasi meccanica: «Vedi Mario, sento che la tua vita è troppo dolorosa e non credo di avere la forza per starti vicino, sento che devo allontanarmi da te, anche se mi dispiace». Non riesco a ricordare se pronunciai qualche parola di replica. Certamente allungai la mano per salutarla e porre fine a un colloquio che da un momento all’altro avrebbe potuto essere travolto da un’onda impietosa di inutili emozioni. Non fu facile superare quella frustrazione e accogliere in qualche modo una realtà così amara. Confesso che mi fu di grande aiuto una simpatica e allegra infermiera che comprese questa mia difficile situazione e volle rendersi utile a suo modo, mediante un comportamento rispettoso ma incisivo. Devo dire che mise a frutto tutte le sue grazie e le sue virtù per ricordarmi che ero un ragazzo di diciannove anni e che non avrei dovuto lasciarmi travolgere da una singola occasione perduta. Forse non fu romantico scacciare un ricordo e affogarlo in una vicenda episodica e superficiale. Sta di fatto che dopo trentacinque anni io ricordo con maggiore intensità e affetto la ragazza che mi restituì, a suo modo, il coraggio di esistere, piuttosto che l’altra e il suo bisogno di tenersi alla larga dal dolore.
La giornata dell’eclissi di sole
Quel giorno del 1961 uscimmo con molto anticipo dalle classi per cercare in giardino una buona postazione da dove osservare, forniti delle più moderne attrezzature, questo interessante fenomeno naturale che si sarebbe manifestato, così dicevano gli studiosi, con insolita e drammatica evidenza. Gli studenti erano piuttosto eccitati dall’attesa e gareggiavano nel mostrare le potenzialità tecniche delle loro macchine fotografiche, dei loro cannocchiali e dei filtri per guardare meglio proteggendo gli occhi. Io non avevo portato nulla con me, se vogliamo escludere un semplice filtro protettore della retina che mi era stato consegnato dalla direzione della scuola. Non si può dire che vivessi con estraneità quella situazione, ma certamente ero molto meno interessato degli altri, molto meno incuriosito da ciò che avrei visto, e del resto non sapevo neanche bene cosa avrei potuto vedere. Arrivò il momento dell’eclissi e devo dire che provai una forte emozione nel constatare questo improvviso e intenso oscuramento del cielo. Non si trattava soltanto di qualcosa da vedere con gli occhi. Ad esempio il suono degli uccelli che cercavano riparo tra gli alberi delle ville d’intorno, mostrava un batter d’ali eccessivamente rapido, quasi disperato. Il quasi totale oscuramento del sole aveva prodotto in pochi minuti un brusco e imprevisto abbassamento della temperatura, tanto da provocare brividi di freddo e una vaga sensazione di smarrimento. Tutto questo mi procurava entusiasmo e mi faceva essere contento di partecipare con i miei compagni di scuola a un’esperienza che chissà quando avremmo avuto l’occasione di rivivere.
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Tornata la normalità, i miei compagni parlarono molto delle loro osservazioni e dissero cose che se analizzate con attenzione mi avrebbero fatto comprendere l’incomparabile acutezza della loro funzione visiva e per contrasto la gravità del mio limite. Viceversa accadde che il piacere della partecipazione all’evento rafforzasse in me il desiderio di annullare la sensazione del limite visivo e di concentrarmi su ciò che avevo vissuto in comune con gli altri. Ero soddisfatto, ma nel tornare a casa con alcuni miei amici sentivo la necessità di cambiare l’argomento della conversazione e cercai di parlare con una mia amica della festa da ballo del prossimo sabato sera. Qualche giorno più tardi avvenne qualcosa di ben più importante, che fece cambiare non poco il mio atteggiamento nel confronto con il limite sensoriale. Un ragazzo portò a scuola per primo le immagini fotografiche dell’eclissi di sole. Io le presi in mano e dovetti constatare contro ogni mio desiderio che vi si vedeva in forma chiara e molto ben delineata la luna che si sovrapponeva al sole, lasciandone libera soltanto una piccola porzione. Si potevano vedere anche le disomogeneità della luna e gli effetti cromatici d’intorno dell’intera eclissi. Uno spettacolo davvero emozionante, capace di offrire concretezza al nostro rapporto con l’universo e di conferire all’astronomia un valore estetico oltre che scientifico. Il pensiero che un occhio normale potesse vedere tutto questo rappresentò un vero ciclone nella mia mente. Pensavo alle stelle, agli altri fenomeni naturali, ai paesaggi, agli orizzonti urbanistici, e per la prima volta mi sentivo nell’angustia di un limite che mi separava molto dalle grandi realtà del mondo circostante. Da quel giorno mi occupai molto di più di osservare le fotografie che ritraevano oggetti lontani, soprattutto di aerei e di uccelli d’alto volo. Avevo sempre ridotto banalmente questi oggetti lontani a minuscoli punti oscuri, accompagnati nel caso degli aerei da un grande frastuono. Numerosi viaggi in mare mi spinsero ad acquistare un cannocchiale da marina, devo dire con qualche soddisfazione. Dovetti rendermi conto molto presto che l’uso del cannocchiale mi provocava violenti dolori alla testa che naturalmente, oltre al disagio fisico, non costituivano certo un trattamento benefico per la salute dei miei occhi. Il giorno dell’eclissi di sole ha rappresentato per la mia vita un giorno di crescita della mia curiosità e anche una dolorosissima presa di coscienza del mio limite visivo. Nella vita la curiosità e il dolore del limite si intrecciano indissolubilmente. Per crescere compiutamente occorre senz’altro
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viverli entrambi. Spesso le istituzioni scolastiche, soprattutto con gli alunni ipovedenti, tendono più che altro a mimetizzare il limite presente. In questo modo eludono il confronto con la disabilità senza sostenere e promuovere i motivi della curiosità. Possiamo dire che così facendo l’istituzione scolastica rinuncia al suo mandato per naufragare in una scuola di trasmissione delle abitudini. Per non far soffrire il soggetto ipovedente, lo si lascia nel suo far finta di essere normale, sperando che il futuro riservi alla sua vita meno amarezza possibile. Pensate se io fossi stato educato dalla scuola a utilizzare il mio residuo di funzione visiva. È vero che avrei conosciuto prima il dolore del confronto con i miei limiti, ma è altrettanto vero che questi miei limiti si sarebbero ridotti e soprattutto si sarebbero potenziate la mia disposizione ad apprendere e la mia capacità di utilizzare strumenti di apprendimento. Molti ragazzi ipovedenti vogliono andare in motorino, trasgredendo spesso le regole delle loro famiglie e diventando un pericolo per se stessi e per gli altri. Nel parlare di educazione stradale, ci dovremmo riferire con particolare attenzione alla condizione del ragazzo ipovedente perché in lui il desiderio, quando non viene moderato dalla consapevolezza, assume carattere esplosivo e incontrollabile. Giova sottolineare che per fare tutto questo non sono necessarie molte energie sia economiche, sia mentali. Si tratta semplicemente di comprendere il valore di questo discorso e trovare in classe una forma di comune coinvolgimento, un gusto di apprendere insieme anche i limiti del ragazzo non vedente, in modo da offrire una concreta e significativa esperienza di integrazione scolastica.
Dolcezza insidiosa
Mi piacevano le ragazze sensibili, delicate, attente e disponibili, dal comportamento mite e costante, dai modi discreti e rassicuranti. Era il mio desiderio-bisogno di armonia e di concordia che mi faceva prediligere questo tipo di ragazze, al punto da minimizzare certi loro difetti estetici, assolutamente inaccettabili dai compagni di scuola. Dovetti comunque ben presto rendermi conto che di ragazze così ce n’erano veramente poche e quelle poche erano molto difficili da trovare. Molto spesso la dolcezza era semplicemente l’ingrediente di una condotta seduttiva e di una determinazione a governare, a manovrare il corso delle circostanze. Il mio grande bisogno di attenzione e di pace mi spingeva comunque verso queste apparenti dolcezze con la naturale ingenuità di un assetato che trova ristoro anche nel gusto di un’acqua fresca ma ferruginosa. Ovviamente con ragazze così abili e lucide andavo incontro a brucianti e ripetute frustrazioni. Essere utilizzato mi piaceva; il dolore nasceva dall’inconsistenza di quella apparente dolcezza e dalla percezione di una determinazione aggressiva che procurava sgomento alla mia urgenza di pace. Io che amavo ragazze da intuire e da immaginare continuavo a trovarmi di fronte persone animate da obiettivi circoscritti, molto ben individuati, perseguiti con assiduità e con perseveranza. Mi faceva soffrire anche la presa in giro dei compagni di scuola che in questa mia ingenuità si limitavano a riconoscere, più che altro, il segno infamante della stupidità. Con il passare del tempo cominciai a provare verso la dolcezza di una ragazza attrazione e diffidenza, cosa
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che, devo dire, non mitigò affatto il mio disagio e rese ancor più incerto il mio comportamento. Molto più tardi compresi che nel mio modo di amare risultava decisivo il sentimento della solidarietà, dell’intreccio di esistenze animate da storie avvicinabili e da motivi comuni di crescita. In un simile contesto sentimentale la grazia e l’intelligenza non fanno certo difetto, ma non possono comunque divenire il riferimento prioritario di una scelta. Questa nuova consapevolezza mi aiutò molto a superare l’incertezza e il disagio. Finalmente il corso della mia vita sentimentale ebbe la possibilità di evolversi e conoscere sempre nuove e migliori soddisfazioni. Nella mia fantasia resta comunque indelebile il sogno di una ragazza da intuire e da immaginare, con cui vivere al di là, o se preferite al di qua, della pesantezza del reale, liberi dalle dinamiche della comunicazione e dalle ruvide esperienze del confronto. Un desiderio infantile e immaturo, non c’è dubbio, da non incoraggiare. Pur tuttavia un desiderio legittimo, soprattutto nei momenti gravi, quando la vita ci opprime con la sua logica della necessità. In questi momenti il piacere della conoscenza abbandona i vincoli dell’oggettività e vola in alto, nello spazio dell’intuizione, dove il viaggio prevale sul traguardo e dove un discorso non ha bisogno di conclusioni.
Convinti sì, ma non troppo!
Non sono certamente poche le persone che affermano la validità delle proprie ragioni mediante toni di voce e accentuazioni verbali così accesi e intensi da risultare invadenti e aggressivi. Solitamente costoro vivono con naturalezza un simile comportamento come se il fatto di esprimersi con le modalità di un torrente in piena costituisse un aspetto trascurabile della conversazione, una variabile minore. Viceversa l’interlocutore, di fronte a tanta irruenza espressiva, può restare sommerso dal disagio per una comunicazione così pressante da esigere una quota eccessiva di energie e di coraggio. In simili circostanze può accadere che l’interlocutore più aggressivo si trovi improvvisamente di fronte al silenzio dell’altro, un silenzio di chiusura che non indica affatto una posizione di consenso. Ciononostante il «torrente in piena» può percepire nel silenzio dell’altro una debolezza di ragioni e di convinzioni, confermando così la forza e la validità del proprio convincimento. Accade poi che simili persone, molto convinte ma poco ragionevoli, debbano improvvisamente constatare il dissenso degli altri, non espresso con le parole ma con i comportamenti pratici. A questo punto la loro meraviglia e la loro rabbia assumono più che altro la fisionomia dell’impotenza. La convinzione, infatti, diviene motivo di violenza e di isolamento quando non è sostenuta dalla capacità di discutere secondo le forme caratteristiche di un civile dialogo.
Nati per essere felici
Dalle nostre parti una volta i figli venivano messi al mondo per accrescere la forza vitale della famiglia e anche la sua capacità di produrre. In un certo senso essi venivano accolti e riconosciuti in una prospettiva di utilità e naturalmente, secondo questa logica, i più sani e i più forti venivano accolti con maggiore gradimento. Nello spazio di vita della famiglia c’era posto comunque per tutti, sani e malati, forti e deboli, belli e brutti, capaci e incapaci, erano tutti presenti nella cosiddetta area della convivialità, dove si svolgeva una parte considerevole della vita quotidiana, in un contesto di esseri umani, di animali e piante. In ogni caso i più sani e i più forti rappresentavano la parte valida della famiglia, quella che di fatto contava nell’ambito della vita sociale. Evidentemente oggi le condizioni sono mutate e questo è vero in particolar modo nella realtà sociale del benessere, vale a dire nelle famiglie ispirate dalla cultura dell’abbondanza. In simili famiglie i figli vengono messi al mondo per essere felici e per confermare in questo modo la buona riuscita della famiglia. Considerato con superficialità, questo fatto appare un bel segno del progresso, un traguardo confortante lungo il cammino della nostra civiltà. Viceversa se lo esaminiamo con maggiore attenzione, esso presenta la sua natura insidiosa e la sua struttura paradossale. Infatti la conquista della felicità, nella più semplice delle ipotesi, ci sembra un’operazione piuttosto complessa e più che altro l’esito propizio proveniente dalla conquista di un altro obiettivo. Ad esempio, possiamo essere felici per un successo sportivo,
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per un’impresa avventurosa, per un’esperienza sentimentale, per un buon risultato scolastico e così via. Pertanto nel momento in cui è la felicità che diviene l’obiettivo da raggiungere, essa tende a coincidere e a confondersi con il piacere immediato e con le pratiche del consumo di merci desiderate. In altre parole non si può essere felici per aver gustato un ottimo gelato, poiché il ricordo di un simile piacere si trasforma troppo rapidamente in un nuovo desiderio. D’altra parte neppure una lunga sequenza di simili piaceri può comporre efficacemente un quadro di felicità, perché la moltiplicazione dei piaceri immediati intensifica proporzionalmente anche la paura della privazione delle merci desiderate. Dobbiamo inoltre aggiungere che fare un figlio affinché sia felice rappresenta un vero e proprio paradosso. Anche se involontariamente, infatti, in questo modo la felicità diviene una prescrizione, una sorta di dovere da realizzare, il compito della propria esistenza.
La presenza degli altri
Quella mattina il treno appariva più deserto del solito. Presi posto agevolmente in uno scompartimento vuoto, vicino alla toilette, assaporando il piacere della comodità e della solitudine. Avrei potuto sdraiarmi e dormire senza disturbo, sempre che non fosse arrivato qualcuno durante i pochi minuti che mi separavano dalla partenza. Per allontanare questa eventualità chiusi la porta dello scompartimento e mi accomodai per bene sulla poltrona vicino al finestrino, in direzione di marcia, assumendo la posizione del dormiente per gustare in anticipo la felice condizione del viaggio. Lentamente il treno iniziò la sua marcia lungo il tratto accidentato della stazione ferroviaria. Il suono metallico delle rotaie contro i numerosi scambi presenti sul binario appariva più forte e scabroso, per via del contrasto con il silenzio nel treno. Non soltanto lo scompartimento ma l’intera carrozza sembrava deserta. La corsa del treno prese vigore e nella mia mente cominciò a farsi strada un eccessivo senso di solitudine. Neanche una persona per chiedere soldi era venuta a disturbare la mia quiete. Neanche un venditore di bibite, un passeggero in cerca di informazioni, un controllore delle ferrovie. Non mi piaceva l’idea di essere l’unico passeggero di quella carrozza. Mi alzai per guardare meglio la situazione e passeggiando per il corridoio mi resi conto che non c’era proprio nessuno. A quel punto mi rassegnai e cercai di dormire, ma una sottile inquietudine impediva al mio corpo la via del rilassamento. Avvertivo la necessità di mantenere uno stato di vigilanza, anche se le circostanze reali non indicavano un pericolo imminente. Le tre
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ore del viaggio trascorsero così, in una condizione di leggera preoccupazione, durante la quale il più piccolo rumore insolito destava in me immagini e pensieri di autentica paura. Quando il treno si fermò nella stazione di arrivo, fui costretto a scegliere una porta per scendere, non avendo sufficienti indicazioni per sapere quale delle due fosse quella vicina al marciapiede. Scelsi la porta sbagliata e rischiai di cadere giù lungo la ferrovia. Per fortuna avevo mantenuto saldamente la presa del mancorrente. Con qualche affanno riconquistai l’equilibrio posturale, chiusi la porta sbagliata e con fretta scesi dall’altra parte. Una volta sul marciapiede andai quasi a sbattere contro la persona che premurosamente mi aspettava. Salutarla affettuosamente e prendere il suo braccio mi resero felice. Il polso e la spalla mi facevano male, avevo la sensazione di essere scampato da chi sa quale pericolo, ma soprattutto sentivo intensamente, come poche altre volte, la gioia di essere in compagnia.
Impara l’arte e mettila da parte
Sono ancora numerosi i genitori che, dopo aver iscritto un figlio nella prima classe della scuola elementare, aspettano con fiducia le vacanze di Natale per leggere con emozione una letterina, un biglietto o qualche altra cosa che comunque rappresenti la sua capacità di scrivere. Dopo aver constatato con soddisfazione il positivo avvenimento, generalmente i familiari del bambino lo archiviano, così come si archivia un trofeo per riprenderlo tra le mani in occasione di qualche anniversario o di qualche nuova festa di famiglia. In altre parole ci capita di considerare spesso l’apprendimento della scrittura come un traguardo importante da raggiungere ma trascurabile come nuova funzione da utilizzare. Durante la sua vita quotidiana quante volte un bambino sente il bisogno di mettere in opera la sua capacità di scrivere? Quante volte il fatto di saper scrivere gli consente di rendersi utile nel rapporto con i suoi familiari? In quali occasioni lo scrivere diviene per lui motivo di libertà per esprimersi con discrezione e comunicare meglio con gli altri? Affinché una capacità possa divenire personale, possa acquisire significato e valore nel corso di una singola esistenza, occorre che tale capacità divenga una parte considerevole dell’attività quotidiana, penetrando nella forma del vivere con gli altri. Oggi la scuola chiede ordinariamente ai suoi alunni una migliore capacità di espressione personale negli elaborati scritti. D’altra parte la scuola fa poco o nulla per promuovere nei suoi alunni il piacere della scrittura,
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sollecitando attività di comunicazione mediante il linguaggio scritto. In questa nostra società il desiderio di avere subito una risposta, la difficoltà di elaborare con ponderazione un’offerta o una richiesta, il disagio di immaginare l’interlocutore senza poterlo percepire, la fatica di sostenere la solitudine dello scrivere senza gratificazioni immediate o comunque garantite conferiscono alla scrittura un sapore antico e superato, troppo lontano dalla nostra volontà di semplificazione. Per quanto mi riguarda sono convinto che scrivere costituisca forse l’attività che più di ogni altra caratterizza la storia evolutiva della nostra cultura. Rinunciare a scrivere, a disegnare, a incidere sulla realtà con segni complessi e duraturi significa forse rinunciare alle forme più importanti e preziose del nostro destino specifico. In questo senso, ma beninteso soltanto in questo senso, la scuola dovrebbe diventare nuovamente una scuola dello scrivere, del leggere e del contare.
Vi prego, ascoltatemi
Ho sempre avuto l’esigenza di essere ascoltato con molta attenzione, soprattutto quando voglio esprimere un’opinione, un desiderio o comunque un vissuto della mia esperienza interiore. L’insolito contenuto dei miei pensieri e la diversità del mio sentire rendono spesso difficile agli altri un ascolto paziente delle mie parole. In particolar modo ciò è accaduto durante l’infanzia quando forse la mia diversità veniva direttamente associata alla mia disabilità sensoriale. Familiari e conoscenti vivevano probabilmente con ansia la mia condotta espressiva, giudicandola una conseguenza della mia inferiorità organica e comunque una modalità inquietante da non considerare con molta attenzione. Solo raramente mi veniva concesso di esprimere con calma i contenuti del mio pensare e del mio sentire. In modo particolare mi veniva concesso quando il mio malessere diveniva evidente e preoccupante, tale da richiedere una cura straordinaria. Ricordo che il piacere di essere ascoltato con attenzione era così intenso e benefico da produrre in me un immediato recupero di entusiasmo e di buon umore. Ciò peraltro rassicurava vistosamente i miei familiari e rimetteva, per così dire, le cose a posto. Naturalmente dentro di me restavano seri dubbi circa la dignità dei miei pensieri e dei miei sentimenti. Mi sentivo inadeguato e improbabile, mi opprimeva il dovere di essere più normale, più consueto, più prevedibile. Posso dire che il corso del mio sviluppo è stato condizionato sensibilmente da questa ricerca della normalità, nella quale anch’io confondevo la mia diversità e la mia disabilità.
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Attualmente mi capita di provare irritazione e sconcerto quando i destinatari delle mie lezioni mostrano un’insufficiente grado di attenzione e non costruiscono un adeguato clima di attivo silenzio. È fin troppo semplice associare questa reazione un po’ eccessiva con gli elementi qui descritti della mia storia personale. Sarebbe comunque un errore da parte mia rinunciare al silenzio di un ascolto impegnato, allo scopo di eludere il pudore relativo alle mie ferite narcisistiche. Oggi gli alunni hanno quanto mai bisogno di comprendere il valore dell’ascolto. Più che altro sono costretto a controllare con estrema cura questa mia irritazione eccessiva. Sarebbe davvero beffardo che gli studenti confondessero il valore dell’ascolto con un mio bisogno da disabile sensoriale! È vero che i ciechi generalmente sopportano con maggiore difficoltà il brusio e l’inquietudine posturale di chi ascolta. È altrettanto vero, però, che stare più zitti in omaggio a una simile difficoltà costituisce, nella migliore delle ipotesi, un esempio di buona educazione ma non aiuta certamente a comprendere le opportunità di apprendimento presenti e vive nell’esperienza dell’ascolto.
Immaginare per conoscere
L’educazione del bambino cieco può divenire per l’educatore un interessante percorso di apprendimento e talvolta può modificare le dimensioni della sua professione, offrendo nuovi segnali al senso della sua stessa vita. La prima volta che vidi un ragazzo cieco di quattro anni prendere la rincorsa per poi saltare, con sufficiente disinvoltura, cinque panche avvicinate in parallelo, pensai che il sesto senso dei ciechi fosse davvero una realtà. Avevo avuto l’occasione di osservare la tecnica e le modalità con cui il bambino prendeva distanza dall’ostacolo, misurando con grande accortezza i passi all’indietro, per poi scattare in avanti all’improvviso, ripercorrendo gli stessi passi identici per numero e lunghezza nella direzione dell’ostacolo. Avevo osservato con attenzione il momento entusiasmante dello stacco da terra, lo slancio dinamico e ben governato al di là delle panche. Avevo vissuto il sollievo dell’atterraggio morbido e leggero. I miei occhi avevano percepito con certezza tutto questo, e pure persisteva nella mia mente qualcosa di inspiegabile e di incredibile, che mi spingeva a pensare questa sorprendente esperienza mediante spiegazioni magiche che richiamavano strumenti extrasensoriali. L’aspetto più sconcertante era pensare che il bambino potesse fidarsi di una realtà presente nella sua immaginazione ma non di fronte ai suoi occhi. Sembrava che il bambino si lanciasse nel vuoto, confidando esclusivamente nelle misurazioni di allontanamento e di avvicinamento all’ostacolo. Veniva a mancare nella sua esperienza quel contatto, quel controllo dell’ambiente
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circostante che consente di slanciarci in avanti con sufficiente sicurezza. Per me diveniva necessario immaginare un suo modo di essere in contatto con il mondo d’intorno, una specie di occhio magico interno, con il quale il bambino percepisse la realtà dell’ambiente e trovasse il coraggio di saltare. Quello che avrei capito conoscendo meglio le possibilità presenti nella condizione di cecità riguarda soprattutto l’interezza del suo percepire e la forza possibile della sua immaginazione. Forse gli speleologi, costretti in alcuni casi a usare misurazioni e deduzioni logiche per decidere la praticabilità di un cunicolo cieco, non farebbero fatica a comprendere la situazione percettiva del bambino non vedente nell’atto di saltare le panche. Occorre comunque precisare che la condizione di cecità, se confrontata con l’assenza della luminosità ambientale, presenta una più solida interezza percettiva, in quanto l’impossibilità di vedere viene in essa avvertita come più naturale e meno incombente. Nel suo essere cieco, il bambino vive con naturalezza la sua condizione percettiva, utilizzando gli strumenti sensoriali e immaginativi di cui dispone. Sono i sensi residui che offrono le dimensioni del suo rapporto con l’ambiente, logicamente integrati e potenziati dalla vita immaginativa. È proprio l’immaginazione che ci consente di oltrepassare l’orizzonte del nostro campo percettivo e di guardare ben al di là del nostro patrimonio sensoriale. La concezione del possibile poggia interamente sulla forza dell’immaginazione e sulla convinzione che tale forza potrà consentirci di conoscere un mondo più ampio e di costruire una realtà migliore. Quando il campo percettivo risulta più esteso del volume esplorabile con le mani, il patrimonio sensoriale del soggetto non vedente si dimostra piuttosto confuso, soprattutto per quanto concerne un rapido ed efficace orientamento. Occorre che il bambino cieco impari a integrare ricordi, percezioni e deduzioni rappresentative affinché i suoi limitati strumenti sensoriali divengano significativi e affidabili. In altre parole nel caso del bambino cieco il passato, il presente e il futuro costituiscono un continuum interattivo e vissuti della coscienza molto più elaborati. Potremmo dire che da una condizione di limite scaturisce per necessità uno sviluppo epistemico molto più qualificato. Naturalmente ciò avviene solo quando questa necessità è riconosciuta dall’educatore ed è conseguentemente assunta come riferimento metodologico fondamentale. Viceversa educare il soggetto disabile visivo come un soggetto vedente, in
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attesa di recuperare la perduta normalità sensoriale, non potrà che produrre un esito disastroso. Se riuscissimo a comprendere il valore delle possibilità presenti in un’esperienza conoscitiva più coinvolgente l’intero soggetto che conosce e più elaborata dalla sua coscienza, saremmo indotti a estendere la metodologia didattica utilizzata per i ciechi anche agli altri bambini. Questo avverrà soprattutto quando impareremo a guardare con maggiore fiducia oltre i confini del nostro orizzonte sensoriale, offrendo maggiore forza alla concezione del possibile e maggiore vivacità alla nostra immaginazione.
Postfazione
Un profilo biografico-intellettuale di Mario Mazzeo
Mario Mazzeo nasce a Spoleto (PG) il 6 agosto 1945. In quel periodo la sua famiglia — il padre maresciallo maggiore dell’esercito, la madre casalinga e il fratello Renzo, più grande di qualche anno — vive in pieno le conseguenze e le difficoltà della Seconda guerra mondiale. Mario era solito ricordare con ironia la coincidenza della sua nascita con il giorno dello scoppio della bomba atomica a Hiroshima: la scoperta da parte dei genitori della gravissima miopia da cui era affetto il proprio figlio minore avrebbe provocato non pochi sommovimenti e difficoltà. Mario frequenta le scuole elementari e medie a Cisterna di Latina (LT), paese natale della madre. Nonostante il piccolo residuo visivo ottiene eccellenti risultati: la sua foto viene pubblicata sul giornale locale tra i «primi della classe», durante le scuole medie vince la medaglia d’oro al concorso di cultura religiosa Veritas e alla fine del ciclo di studi ottiene una borsa di studio. Nonostante il divieto paterno ama andare in bicicletta. Frequenta l’oratorio, ma anche un gruppo di ragazzi ritenuti «poco raccomandabili», perché tra loro trova un’autenticità di rapporto e può mettersi maggiormente alla prova. Il 29 dicembre del 1959 si trasferisce con la famiglia a Roma, dove frequenta l’Istituto Magistrale «G. Carducci» continuando ad assicurarsi la borsa di studio «ENPAS» necessaria per il proseguimento del percorso scolastico. Dopo il diploma (1961-62) si iscrive alla Facoltà di Magistero. Nel 1964 viene ricoverato presso la clinica Oculistica dell’Università «La Sapienza» (direttore prof. G. Bietti). Viene sottoposto a due interventi chirurgici per
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grave distacco retinico dell’occhio destro: per complicanze emorragiche perde completamente la vista a destra, mentre mantiene un piccolo residuo a sinistra (miopia di oltre 30 diottrie), residuo che negli anni Settanta perderà completamente. Sempre nel 1964 decide di frequentare il corso di specializzazione per gli educatori dei minorati della vista presso l’Istituto Statale «Augusto Romagnoli», conseguendo nel 1966 il diploma di specializzazione. La decisione contrasta con il desiderio del padre, che riteneva la possibilità di gestire un’edicola di giornali una buona opportunità per raggiungere la tranquillità economica. Per due anni (1966-1968) insegna lingua francese presso la scuola media dello stesso Istituto Romagnoli. Nel 1970 vince il concorso per passaggio in ruolo degli insegnanti negli Istituti per ciechi. La scelta di Mario si rivela fondamentale per la sua crescita personale e la formazione professionale. Lo studio, le ricerche, l’insegnamento ai bambini ciechi (in particolare ai bambini ciechi con disabilità associate), il confronto con le famiglie, il rapporto con il professore Enrico Ceppi, preside dell’Istituto, la collaborazione e l’amicizia con altri insegnanti ed educatori eccellenti, quali la maestra Luciana Picchiarelli, il prof. Vincenzo Ciocchetti, la prof. Isabella Natoli e il prof. Enzo Bizzi, contribuiscono ad arricchire la sua competenza umana e professionale. Il 23 novembre del 1970, Mario si laurea in Pedagogia con una tesi sull’educazione sessuale dei giovani non vedenti. Si tratta di un corso di studi dalla forte impostazione filosofica che lavora su Kant e Husserl, l’esistenzialismo di Enzo Paci e la filosofia della logica di Bertrand Russell. Nel 1972 si sposa con Ersilia Bosco. Nel 1973 nasce il figlio Marco. Alla fine degli anni Settanta perde il piccolo residuo visivo e diviene cieco assoluto: non è più in grado di percepire nemmeno la differenza tra luce e ombra. Il primo luglio del 1985 si laurea in psicologia, indirizzo applicativo, con una tesi sullo sviluppo cognitivo del bambino cieco, testo che rappresenta la base del libro pubblicato poi nel 1988 Il bambino cieco. Introduzione allo sviluppo cognitivo (Edizioni Anicia, Roma). Presso lo stesso editore il volume ha una seconda edizione nel 1990. Mario continua ad approfondire la sua formazione personale, concentrandosi in particolare sulla conoscenza delle dinamiche familiari e delle problematiche sessuali. Nel 1996 si iscrive all’albo degli psicologi. Da sempre interessato a comprendere e condividere la vita sociale, partecipa a diverse esperienze etico-politiche. Frequenta la comunità di base di San Paolo
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fuori le mura, animata dall’abate dom Franzoni, e il gruppo giovanile della Parrocchia dei Protomartiri, da cui poi uscirà per impegnarsi nelle attività del Comitato di Lotta per la casa di un quartiere romano di frontiera come Primavalle. Con lo pseudonimo Barabba collabora con la rivista «Re nudo» e, poi, con «Il manifesto». Al ritorno dalla manifestazione del 12 maggio 1977 durante la quale viene uccisa la giovane Giorgiana Masi (lui stesso rischia di essere travolto dalla folla e dalle cariche della polizia), Mario comincia a maturare la convinzione di ritirarsi dall’azione politica diretta. Concentra sempre più le proprie energie su un lavoro dedicato allo studio e alla promozione delle capacità infantili di fare esperienza e rappresentare il mondo. Presso l’Istituto Romagnoli non lavora solo come maestro elementare con bambini ciechi e pluriminorati, ma insegna diverse materie nei corsi di formazione per gli educatori dei minorati della vista: pedagogia generale, tiflopedagogia, psicologia generale dello sviluppo, antropologia culturale, metodologia didattica ed educazione linguistica. Anche in seguito terrà costantemente corsi di aggiornamento per migliaia di docenti in scuole di diverso ordine e grado. Da Milano a Pantelleria, da Pescara a Mondragone (Caserta), Mario attraversa la penisola con il bastone bianco. L’obiettivo è offrire consulenze psicopedagogiche di sostegno alle famiglie e collaborare con gli insegnanti per la diagnosi funzionale o programmi didattici per i bambini e ragazzi ciechi. Fino all’anno della sua scomparsa, scuole e istituzioni richiedono e utilizzano le sue competenze di formatore, psicologo e pedagogista anche nei confronti di tematiche educative generali. Numerosissimi sono i convegni, seminari, corsi di formazione e progetti cui Mario contribuisce, avendo al centro del suo interesse l’educazione del bambino e dell’adulto cieco o ipovedente. Iscritto all’Unione Italiana Ciechi in giovane età, svolge la sua opera in diverse commissioni e offre il suo contributo con numerosi articoli che compaiono sulle riviste pubblicate dall’Unione o da altre associazioni (ad esempio «Il corriere dei ciechi», «Univoc», «Tiflologia per l’integrazione», «Handicap: risposte», «Orizzonti»). Come direttore della rivista «Il Gennariello» contribuisce a rendere il mensile per ragazzi ciechi più moderno, vivace e interessante. A partire dal 1986 svolge il lavoro di psicoterapeuta, soprattutto con persone vedenti. Nel 1991 fonda l’associazione «Immagini per vivere», con la quale realizza numerose attività: gruppi di sostegno e di socializzazione dell’e-
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sperienza per gli insegnanti di sostegno; gruppi di psicoterapia; convegni e corsi di formazione. La sua linea teorica e il suo stile esistenziale non lo esentano da confronti accesi: la partecipazione, ad esempio, all’Osservatorio permanente per l’integrazione scolastica del Ministero della Pubblica Istruzione si distingue per un esercizio critico mai rinunciatario, anche a favore di posizioni fortemente minoritarie. Come racconta Ruggiero Pierantoni (I non astuti contrabbandieri della visione, in Le tattiche dei sensi, Roma, il Manifesto Libri, 2001, pp. 154-155), Mazzeo scalda l’uditorio, specie tra le fila dei giovani non vedenti, quando spiega le ragioni del suo dissenso verso i presupposti teorici di alcune ricerche circa il presunto carattere visivo del disegno dei bambini ciechi esposte durante il penultimo convegno al quale partecipa (Toccare ad arte. Percezione tattile e cognizione della forma artistica nel non vedente e ipovedente, CNR e Istituto per ciechi «Cavazza», 30-31 ottobre 2000). Nel 1994 gli vengono diagnosticate una epatite C cronica attiva e una cirrosi epatica, conseguenza della contrazione del virus trent’anni prima, con buona probabilità durante una trasfusione subita nel suo ricovero ospedaliero in tempi in cui la malattia non era conosciuta. Nel 1996 entra in pensione ma continua il suo impegno di psicologo, tiflologo e convegnista. Accetta di sottoporsi a tutte le cure proposte, spesso di carattere incerto e sperimentale, che affronta con non comune capacità di collaborazione e sopportazione. Durante i periodi di ricovero all’Istituto dei Tumori di Milano e al S. Orsola-Malpighi di Bologna stabilisce relazioni significative con gli altri ricoverati, per alcuni dei quali diviene punto di riferimento, e suggerisce modalità relazionali e indicazioni agli operatori per la gestione di un soggetto particolarmente problematico. Nonostante le condizioni di salute sempre più precarie, Mario partecipa, alla fine di febbraio 2001, al convegno conclusivo di un lavoro significativo svolto in collaborazione con l’Istituto Rittmeyer di Trieste: non vuole mancare a un impegno preso né perdere la possibilità di godere di una passeggiata sul lungo mare. Muore sul volo di ritorno a Roma il primo marzo 2001. Ersilia Bosco
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