Operaismo e centralità operaia


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Operaismo e centralità operaia

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Argomenti

80

Napolitano

Tronti

Accornero

Cacciari

Operaismo e centralità operaia a cura di Fabrizio D'Agostini

Editori Riuniti

I edizione: marzo 1978 © Copyright by Editori Riuniti Via Serchio, 9/ 1 1 - 00 198 Roma Copertina di Tito Scalbi CL 63-1289-6

Indice

VII

Nota Elenco dei partecipanti con relazioni, comunicazioni e interventi Giorgio Napolitano

I ntroduzione al convegno

VIII

3

Relazioni Mario Tronti

Operaismo e centralità operaia Aris Accornero Operaismo e sindacato Massimo Cacci ari Problemi teorici e politici dell'operaismo nei nuovi gruppi dal 1960 ad oggi

15

27 45

Comunicazioni e interventi Paolo Perulli Paolo Pavin Egidio Pasetto

83

92 1 00

Adriano Palma

1 09

Massimo Ilardi

1 14

Marino Folin

1 19

Sergio Bologna

1 26

Giovanni Bianchi

131

Enrico Marrucci

1 49

Roberto Villetti

155

Paolo Sorbi

1 62

Alberto Magnaghi

1 67

Siegmund Ginzberg

173

Paolo Buran

1 78

Roberto Berengo

1 86

Rino Serri

1 89

Alberto Asor Rosa

197

Aldo Tortorella

21 1

Bianca Beccalli

218

Luciano Ongaro

225

Enzo Tamborra

23 1

Michele Bertaggia

237

Sandro Moro

246

Maurizio Trezzadore

252

Umberto Curi

258

Bruna Giacomini

267

Giorgio Napolitano

Conclusioni

275

Appendice Mario Tronti

Operaismo e centralità operaia. Tesi

preliminari Nino Magna

Per una storia dell'operaismo in Italia. Il trentennio postbellico

29 1

295

Nota

Questo volume raccoglie gli atti del convegno organiz­ zato dalla sezione veneta delflstituto Gramsci sul tema «Operaismo e centralità operaia », tenuto alla Fiera di Padova nei giorni 26 e 27 novembre 1977. Vengono ripor­ tati integralmente i testi della introduzione e delle con­ clusioni di Giorgio Napolitano; delle relazioni di Mario Tronti, Aris Accornero e Massimo Cacciari; delle comuni­ cazioni di Giovanni Bianchi, Alberto Asor Rosa e Aldo Tortorella. Gli interventi sono invece riassunti. I n appen­ dice sono riportati integralmente i materiali preparatori del convegno: lo schema approntato da Mario Tronti e la relazione storica di Nino Magna.

Elenco dei partecipanti con relazioni, comunicazioni e interventi

Aris Accornero, responsabile della sezione ricerche sociali del Cespe Alberto Asor Rosa, della facoltà di lettere dell'università di Roma Bianca Beccalli, della facoltà di sociologia dell'università di Milano Roberto Berengo, della commissione culturale del PSI di Venezia Michele Bertaggia, della commissione culturale del PCI di Padova Giovanni Bianchi, segretario regionale delle Adi lombarde Sergio Bologna, delle facoltà di scienze politiche dell'università di Padova Paolo Buran, dell'Istituto Gramsci di Torino Massimo Cacciari, deputato del PCI Umberto Curi, della facoltà di filosofia dell'università di Padova Marino Folin, segretario della sezione veneta dell'Istituto Gramsci Bruna Giacomini, della facoltà di filosofia dell'università di Padova Siegmund Ginzberg, redattore dell'Unità Massimo Ilardi, redattore di Città futura Nino Magna, dottore in sociologia Alberto Magnaghi, di Fabbrica e territorio Enrico Marrucci, segretario del PCI di Venezia Sandro Moro, segretario regionale della FGCI veneta Giorgio Napolitano, della direzione del PCI Luciano Ongaro, del circolo «A. Gramsci» di Bergamo Adri ano Palma, della commissione culturale del PCI di Venezia Egidio Pasetto, della segreteria della Cgil di Vicenza Paolo Pavin Paolo Perulli, segretario regionale veneto della Ggil tessili Rino Serri, della direzione del PCI Paolo Sorbi, delle Adi di Milano Enzo Tamborra, del PCI di Vicenza Aldo Tortorella, della direzione del PCI Maurizio Trezzadore, segretario regionale delle Adi venete Mario Tronti, della facoltà di filosofia dell'università di Siena Roberto Villetti, condirettore di Mondoperaio

Operaismo e centralità operaia

Giorgio Napolitano Introduzione al convegno

È giusto interrogarsi oggi sull 'effettiva consistenza del fe­ nomeno dell'« operaismo » in Italia : si può parlare di un filone di pensiero e di una componente del movimento reale che hanno raggiunto un apprezzabile grado di organicità e conti­ nuità; o si deve piuttosto parlare, da un lato, di alcuni ten­ tativi di elaborazione teorica e strategica in chiave operaistica ( tentativi venuti da gruppi intellettuali di formazione marxista in polemica con le tradizioni teoriche e con le strategie dei partiti della classe operaia) e, dall'altro, di varie tendenze - diverse tra loro per connotazioni ideali, politiche e orga­ nizzative - operanti nel movimento dei lavoratori e ricon­ ducibili genericamente o per approssimazione al filone dell'ope­ raismo? In ogni caso è importante verificare quali impulsi, po­ sitivi e negativi, siano venuti nel passato piu o meno recente da certe elaborazioni e da certe tendenze reali , e come queste tendenze si presentino oggi ; nel momento in cui, cioè, di fronte all'aggravarsi della crisi dell'economia , della società e dello Stato si fa di nuovo essenziale e drammaticamente de­ cisiva una corretta affermazione ed esplicazione della « centralità operaia », della funzione dirigente della classe operaia . In effetti, tra la seconda metà degli anni cinquanta e la prima metà degli anni sessanta, l 'organizzazione sindacale in cui si riconoscevano comunisti e socialisti, la Cgil, e gli stessi due partiti della sinistra, vissero periodi di crisi - di vario segno - nei rapporti con la classe operaia e si dovettero con­ frontare, ciascuno a suo modo, con esperienze diverse (quella, ad esempio, del movimento cattolico, della Cisl , sul piano sin3

dacale) e con sollecitazioni critiche di notevole livello (quelle, ad esempio, dei Quaderni rossi). Si trattò, dapprima , di recuperare un rapporto con la mu­ tata realtà della fabbrica cogliendo tutte le implicazioni delle trasformazioni tecnologiche già intervenute e in atto, assumendo i mutamenti prodottisi nella composizione della classe operaia e nella condizione operaia come punto di riferimento per la verifica autocritica e il rinnovamento, non solo della strategia rivendicativa e delle strutture del « sindacato di classe », ma anche dell'impegno e della presenza del partito nei luoghi di lavoro (penso allo sforzo compiuto dal PCI con le conferenze operaie, già nel 1 957 e nel 1 96 1). Si trattò, inoltre, di riscoprire i nessi tra fabbrica e società, di portarsi all'altezza dello stadio cui era giunto lo sviluppo capitalistico analizzando i caratteri da esso assunti all 'interno e all'esterno del processo produttivo in senso stretto, di lavorare per un rapporto nuovo ed organico tra lotta nella fabbrica e lotta nella società . Questo sforzo fu compiuto - parlo del PCI - in presenza di sollecitazioni critiche che passarono anche attraverso una certa rilettura di Marx e che peraltro vanno storicamente riportate , in partico­ lare , al travaglio apertosi nell'area socialista del movimento operaio, fin dal primo avvio della scelta del centro-sinistra, di fronte a quello che apparve un pericolo reale di « integra­ zione » della classe operaia. Ma al di là della situazione che si era venuta a determinare per una parte fondamentale del movimento operaio verso la metà degli anni cinquanta, del modo in cui vi si reagl negli anni successivi, e dei confronti, anche aspri, di posizioni e delle concrete, ricche esperienze che via via si svilupparono, va ritenuta - io credo - la validità permanente di un ri� chiamo al nesso fabbrica-società-Stato; la validità di un impegno a non cadere in alcuna forma di sottovalutazione del dato dina­ mico della realtà di fabbrica in tutti i suoi aspetti, e a radicare ogni disegno generale di progresso democratico, di trasforma­ zione della società e dello Stato, di direzione pubblica della economia, in un processo reale di crescita della partecipazione e del potere di intervento e di controllo della classe operaia nei luoghi di lavoro. Abbiamo invece sempre creduto necessario combattere, e abbiamo combattuto, le tendenze alla mitizzazione della classe 4

operaia e delle lotte operaie, all 'oscuramento del problema delle alleanze e della dimensione ideale, politica e statuale della lotta di classe, alla contestazione del ruolo dei partiti e alla esaltazione dell'azione sindacale come autosufficiente . Queste tendenze si sono ripresentate e hanno assunto particolare in­ tensità tra la fine degli anni sessanta e l 'inizio degli anni set­ tanta, e in effetti esse hanno in parte riflesso - nelle elabo­ razioni di alcuni gruppi intellettuali - un processo reale di notevole portata, quello dell 'avvicinamento, a partire dal 1 968-69 , di larghe masse studentesche, di forze anche lontane per estrazione sociale dalla classe operaia , al movimento ope­ raio ; e in parte si sono accompagnate all'impetuosa avanzata del movimento sindacale, al grande balzo del processo di unità e di autonomia sindacale, che hanno caratterizzato quegli stessi anni. In un quadro di grandi mutamenti sociali e politici, sono cOSI affiorate, in quel periodo, sia l 'illusione dell'estremismo piccolo-borghese di poter assumere la guida - deviandone il corso - del movimento della classe operaia, sia l 'illusione pansindacalista, come componente o variante di quelle « super­ ficiali ideologie » con cui ci si è illusi, appunto, « di scaval­ care il tema della democrazia politica e dello Stato ». E non si può negare che in quegli anni, pure tra i piu alti della storia delle lotte e delle conquiste operaie in Italia, mitizzazioni, im­ postazioni restrittive, spinte e teorizzazioni fuorvianti, abbiano pesato : ad esempio, nel determinare, tra il 1 97 1 e il 1 972, gravi rischi di frattura tra movimento operaio e larghi strati delle popolazioni meridionali, e di spostamento di questi ultimi su posizioni di destra . Poi, certi errori sono stati corretti, e si è giunti a una visione piu matura, in particolare, della strategia e del ruolo di quel fondamentale protagonista della vita sociale e politica del paese che era ormai diventato il movimento sindacale unitario. Ma oggi ? Dell'oggi io credo non si possa parlare dimen­ ticando, anche per un solo momento, gli eccezionali risultati acquisiti dalla classe operaia, dal movimento dei lavoratori, già con le lotte del '69 e poi estesi e consolidati in tutti questi anni : il forte aumento dei salari, la difesa del loro potere di acquisto attraverso un sostanziale miglioramento dei mecca­ nismi preesistenti, la garanzia della continuità del posto di 5

lavoro e del salario nei casi di crisi temporanea, anche pro­ lungata, dell'azienda, la riforma del sistema pensionistico e la difesa del potere di acquisto delle pensioni. A queste conquiste economiche se ne sono intrecciate altre, sostanziali, sul piano dei diritti democratici dei lavoratori e dei poteri di intervento del sindacato - attraverso le nuove strutture dei consigli di fabbrica - su tutta la materia dell'organizzazione del lavoro e da ultimo anche sui programmi di investimenti delle imprese. Non sembri fuor di luogo ricordare questi fatti: siamo dinanzi a un preciso, massiccio, martellante tentativo - che viene da diverse parti e si colora delle tinte piu varie'- non solo per amplificare la critica alle insufficienze del movimento sindacale unitario, ma per oscurarne - nella coscienza dei lavoratori - le storiche conquiste degli ultimi anni . Non bi­ sogna avere paura dell'enfasi, nel reagire a questo tentativo che si propone o rischia di diffondere - anche quando si presenti con l 'insegna della « rabbia » ultrarivoluzionaria elemen ti di demoralizzazione e di disgregazione nella classe operaia . Non si deve avere paura dell'enfasi, se è vero, come io penso, che non abbia precedenti l'esperienza dell'aumento del salario reale in anni di forte inflazione e in particolare l 'espe­ rienza di crescita del salario e di tenuta dell'occupazione in un anno di pesante recessione, di pesante caduta del reddito e della produzione industriale qual è stato il '75. E non si può parlare dell'oggi senza assumere, ovviamente, come punto di riferimento fondamentale quel che è accaduto dopo il '69 e dopo il '73 , in Italia e fuori d'I talia , nelle eco­ nomie capitalistiche e su scala mondiale ; quel che è accaduto e quel che matura nel senso di una crisi profonda dello svi­ luppo capitalistico e degli equilibri sociali e. politici su cui esso si è imperniato in un non lontano passato. Per quel che riguarda l 'Italia, proprio in questi giorni, da parte di alcuni esponenti della Confindustria e della Democrazia cristiana, si è scoperto, con molto ritardo e grande scandalo, che qualcuno di noi avrebbe rivendicato alle lotte operaie il merito di avere messo in crisi un tipo di sviluppo basato sui bassi salari, su uno sfruttamento incontrollato della forza-lavoro e sull'emar­ ginazione del Mezzogiorno. Quest'affermazione, già vecchia di alcuni anni, noi non la rinneghiamo in alcun modo ; diciamo in­ vece che è ridicolo presentarla come esaltazione di una volontà

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luddistica di distruzione del meccanismo di sviluppo. È alla rottura di certe condizioni di intollerabile sfruttamento che le lotte operaie del '69 e degli anni successivi hanno mirato, e non ciecamente, ma nella convinzione che si potesse e dovesse fondare su diverse basi una prospettiva di sviluppo e di auten­ tico progresso economico e sociale del paese. Certo, se si pensa anche solo al fenomeno dell'erosione dei margini di profitto - fenomeno riscontrabile peraltro in vario grado in diversi paesi capitalistici e non ricollegabile in modo esclusivo alla difesa e all'aumento dei salari - ci si rende conto che qualcosa si è spezzato o inceppato nella « mac­ china » , nel processo dell 'accumulazione capitalistica, e che il problema con cui il movimento operaio deve ormai confron­ tarsi è quello del come dare avvio, slancio e continuità, su basi diverse da quelle del passato, a un processo di accumu­ lazione e di sviluppo finalizzato alla soluzione delle grandi questioni sociali e nazionali dell'occupazione e del Mezzogiorno. Questo problema non è, naturalmente, separabile da quello del come rinnovare lo Stato e in particolare l'intervento pub­ blico nell'economia, dandogli efficacia e rendendolo funzionale a un disegno di profonda trasformazione economico-sociale del paese. La crisi assume infatti in I talia, piu che altrove, i caratteri di una crisi congiunta dell'economia e dello Stato, che ha tra i suoi punti piu critici quello della decomposizione delle vecchie strutture dello Stato amministrativo e del dissesto dello Stato assistenziale, mentre le nuove articolazioni dello Stato decentrato stentano ad acquisire l 'efficienza e l'incidenza necessarie per poter fungere da elementi portanti di un processo di trasformazione . Si tratta di vedere se il movimento della classe operaia riesce oggi a portarsi pienamente all'altezza di questi problemi . La necessità di misurarsi coi problemi del rilancio e del controllo del processo di accumulazione, e del rinnovamento dello Stato, costituisce lo sbocco di una lunga maturazione e di una difficile crescita del movimento dei lavoratori, culminate nella grande avanzata degli anni piu recenti : costituisce la prova a cui non ci si può sottrarre se si vuole affermare la capacità di governo della classe operaia e se si vuole evitare che la crisi marcisca, che ne nascano reazioni convulse e si creino le condizioni per una svolta in senso conservatore o addirittura apertamente 7

reazionario. In concreto, le esigenze che si pongono in termini immediati e che in questo momento tendono a farsi stringenti e drammatiche, sono quelle della difesa della democrazia e quelle dell'avvio di una programmazione volta all'aumento del­ l 'occupazione. Sul punto della difesa della democrazia, occorre essere chia­ ri : è in atto un grave tentativo di sconvolgimento della vita democratica e della convivenza civile, che viene condotto con insegne e parole d'ordine di una demagogia e di un estremismo deliranti, e con armi criminali, quelle della violenza piu spie­ tata, del terrorismo piu selvaggio. È da questo attacco che bisogna difendersi, perché è in esso che si innestano tutte le possibili provocazioni e trame reazionarie. Ammiccamenti, giu­ stificazioni, non sono ammissibili; ma è venuto anche il mo­ mento di denunciare la pericolosità di ogni scivolamento sul terreno della demagogia e dell'irresponsabilità nell'imposta­ zione e nella condotta delle lotte. Il movimento operaio pose all'inizio degli anni sessanta come problema centrale quello della democrazia nella fabbrica , non potendo essa considerarsi « garantita nel paese se è oppressa nella fabbrica »: e su questo terreno ha poi conseguito risultati di innegabile valore. Ma a loro volta le conquiste di democrazia nella fabbrica non pos­ sono oggi considerarsi garantite se nel paese la vita democratica e la convivenza civile vengono attaccate . O la classe operaia - concretamente, fuori di ogni mitizzazione - conferma di essere la forza piu risoluta e coerente nella lotta per la difesa e lo sviluppo del metodo , degli istituti, delle regole della de­ mocrazia, o si profilano pericoli gravi di involuzione per il paese e di arretramento per il movimento operaio, rispetto a tu tte le posizioni da esso acquisite negli ultimi anni e rispetto all'obiettivo e alla prospettiva generale dell'assunzione di un ruolo determinante nella direzione della vita nazionale. L'esigenza di un forte impegno della classe operaia sul terreno della programmazione scaturisce anche dal fatto che la crisi attuale è in non lieve misura crisi di classi dirigenti e, piu specificamente, di strutture e di capacità imprenditoriali : perché si vada verso sbocchi non di restringimento, ma di allargamento e riqualificazione della base produttiva e della occupazione, occorre che già al livello aziendale, nel confronto sui programmi di investimento delle imprese, e insieme al 8

livello nazionale, nella rivendicazione e nella discussione dei programmi di settore, si manifesti in concreto quella « ca­ pacità da superare i capitalisti nel governo delle forze pro­ duttive del paese » a cui è legata - questa rimane, sulle orme di Gramsci, la nostra convinzione - l 'effettiva affer­ mazione della funzione dirigente della classe operaia. Si ripropongono qui nodi non semplici : tra gli altri , ancora una volta, quello del rapporto tra fabbrica e società, tra condi­ zione operaia e bisogni di altri strati popolari , tra difesa degli interessi dei lavoratori occupati e costruzione di un ampio si­ stema di collegamenti unitari e di alleanze attorno alla classe operaia ; e nessuno dei due termini può essere annullato a favore dell 'altro . La riflessione critica su elaborazioni ed espe­ rienze del passato può a questo proposito, sempre essere di aiuto : si sono commessi errori e corsi rischi sia quando obiet­ tivi e lotte di carattere generale non hanno trovato riscontro nella classe operaia dentro la fabbrica, sia quando si è pensato che dalle impostazioni e dalle lotte di fabbrica potesse, per cosi dire, « sgomitolarsi » una visione, una battaglia di carattere generale, o addirittura che la battaglia per riforme di vitale interesse per altri strati sociali potesse concepirsi e svolgersi come pura proiezione o dilatazione delle lotte per il salario . In questo momento, nulla è pili pericoloso - di fro�e all 'aggravarsi di situazioni esplosive come quelle di alcune città e zone del Mezzogiorno e al delinearsi di possibili fratture tra occupati e disoccupati - che chiudersi nella fabbrica o nella categoria, per condurvi un 'azione meramente difensiva o me­ schinamente rivendicativa : e proprio questo è, peraltro, il pericolo con cui oggi si debbono fare i conti. Non si può tacere - se si vuole guardare in faccia alla realtà - la consi­ stenza che stanno assumendo le tendenze a una rinnovata chiusura aziendalistica, all'arroccamento corporativo , all'egoismo di categoria, in taluni settori del movimento dei lavoratori . Na­ turalmente, « non chiudersi nella fabbrica » non significa rinun­ ciare a porsi in tutta la loro ampiezza problemi come quelli delle trasformazioni tecnologiche e delle ristrutturazioni in atto nelle imprese pili dinamiche, dell'intervento critico e della lotta per indirizzare e controllare tali processi , della ricerca e ri­ vendicazione di soluzioni avanzate sul fondamentale terreno dell 'organizzazione del lavoro : occorre anzi rilanciare fortemen te 9

l'impegno del movimento dei lavoratori su questi problemi, ma sempre su una linea che tenda a collegarli con la battaglia generale per una nuova politica di sviluppo industriale ed economico del paese . Ed egualmente, « non chiudersi nella fabbrica », non significa - in quelli che possiamo chiamare i punti di crisi - subire le analisi e le decisioni delle controparti ma attrezzarsi per dare risposte valide nel quadro dell'azione per la riconversione e l'allargamento dell 'apparato produttivo nazionale. Mi sono riferito pili volte al movimento della classe ope­ raia o al movimento dei lavoratori considerando l 'insieme delle sue componenti ideali e politiche e delle sue espressioni partitiche e sindacali . Ma sappiamo di essere in presenza di realtà ben distinte e diverse, di una dialettica assai complessa, da cui la linea di tendenza comune non emerge mai senza difficoltà . E le difficoltà sembrano in questo momento farsi pili acute nei rapporti tra sindacati e partiti e all'interno della federazione sindacale unitaria . Si è in effetti giunti a un punto critico nell'evoluzione dei sindacati verso un nuovo ruolo che li faccia portatori di una visione generale dello sviluppo del paese, corrispondente agli interessi complessivi delle classi lavoratrici e di vasti strati popolari, anche se tale da com­ portare un contenimento di istanze rivendicative di categoria non compatibili con quegli interessi complessivi e con un rias­ sorbimento di posizioni settoriali di relativo privilegio. Si è giunti a un punto critico nel senso che o si superano - sba­ razzando il terreno da alcuni equivoci - le persistenti diffi­ coltà a definire fino in fondo e ad esercitare concretamente tale nuovo ruolo, o possono prendere forza le spinte a ritornare al passato, al « vecchio mestiere » del sindacato. Il dilemma dal quale occorre uscire è questo : tra un ripie­ gamento nella fabbrica e nella categoria, in un'ottica, come si dice, « salarialistica » e comunque sostanzialmente corporativa, e un infruttuoso sforzo di esasperata e generica politicizzazione del movimento sindacale unitario . Bisogna uscirne senza ab­ bandonare la grande intuizione e scelta strategica degli ultimi anni, il terreno dell'impegno prioritario del movimento sinda­ cale nella lotta per gli investimenti e per l'occupazione, per l'intervento e il controllo sull 'organizzazione della produzione e del lavoro e sul processo di accumulazione e di sviluppo : 10

ma giungendo a caratterizzare un modo di intervenire e di pesare in quanto sindacati come qualcosa di sostanzialmente diverso dal modo di fare politica dei partiti, a circoscrivere i rapporti tra sindacati e governo, a definire in termini co­ struttivi il metodo del confronto con i partiti e con le assem­ blee elettive, contando sulla forza che ai sindacati potrà di nuovo venire da una maggiore partecipazione democratica dei lavoratori alle scelte del movimento unitario e che certamente discende dal legame con i bisogni immediati dei lavoratori e dall'impatto delle lotte interne ed esterne alla fabbrica . Noi non crediamo che il movimento sindacale debba tor­ nare indietro per non disperdere la sua forza o perdere la sua autonomia, e non crediamo che, per affermare la sua autonomia e il suo ruolo di protagonista nel processo di formazione degli indirizzi della politica nazionale, debba tendere velleitariamente a farsi partito o debba contrapporsi strumentalmente all'uno o all'altro dei partiti. Che esso sfugga alla prima o alla se­ conda tentazione - non so quanto riconducibili, oggi, a un 'ispirazione « operaistica » o « pansindacalistica » interes­ sa da vicino i partiti della classe operaia, in quanto di qui passa lo sforzo comune per fare andare avanti un processo di trasformazione che abbia al suo centro la classe operaia : per farlo andare avanti lungo la strada ardua, ma irrinunciabile, del rispetto dell'autonomia di ciascuna delle componenti e delle espressioni del movimento della classe operaia e della ricerca di punti di equilibrio e di incontro tra esse. È la strada del pluralismo e del consapevole riconoscimento della peculiare, multiforme realtà istituzionale, ideale e politica in cui si è venuta storicamente incarnando in Italia la questione operaia . -

11

Relazioni

Mario Tronti operaismo e centralità operaia

Parlare di centralità operaia, vuoI dire trovarsi di fronte a un problema. Il convegno è l 'occasione per approfondire i termini di questo problema piu che per proporre soluzioni . Il rapporto classe operaia-terreno politico è un tema che sembra ormai maturo per essere ravvicinato e aggredito, ma la sua articolazione interna risulta ancora imprecisa, acerba , troppo rigida e compatta. Occorre andare piu avanti su questo tema e cominciare a sciogliere il discorso. La dimensione corretta dovrebbe essere quella internazio­ nale. Ma la riflessione diventerebbe molto astratta e tutta teorica. Per renderla praticamente produttiva, occorre isolare la storia politica di una classe operaia in concreto. La dimen­ sione internazionale è necessario dunque che stia sullo sfondo, ma in primo piano va messa questa situazione politica . E per prima cosa la rivelazione di un dato di fatto� la debolezza della nostra analisi strutturale. Tra ricerca sociale e analisi marxista c'è il buco della composizione dì classe. Il problema è di organizzazione : mettere insieme certe forze intellettuali in certe sedi istituzionali . Ma il problema è anche di contenuti : quali ricerche quantitative, quali metodologie aggiornate. Mentre gli altri parlano di crisi del marxismo, si tratta di lavorare per rilanciare dal ceppo della cultura marxista una nuova analisi del capitalismo contemporaneo : come è fatta questa società, le classi, i loro confini, la loro consistenza in­ terna, i comportamenti, i livelli di coscienza, l'organizzazione materiale. Al modo della marxiana critica dell'economia politica si

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impone oggi una critica della sociologia. Una critica sul campo. Sappiamo i limiti , le difficoltà, i blocchi che mettono in crisi oggi la sociologia industriale . Ma questo non può essere un alibi per non conoscere . Prendiamo quello che c'è da prendere di dati empirici, di tecniche d'analisi e usiamolo, pieghiamolo, ai nos tri bisogni politici . Su questa debolezza dell'analisi è cresciuta in questi anni l'immaginazione teorica. Molti fiori , pochi frutti. C'è da avver­ tire che senza la qualità di alcune idee-guida nessuna ricerca quantitativa produce conoscenze politicamente utili . Ma la mia impressione è che l'epoca delle scoperte folgoranti - tanto piu suggestive quanto piu senza prova - sia definitivamente passata e non risul ti piu adeguata alla dimensione e alla natura della lotta politica attuale. È necessaria una forma di pensiero in grado di cogliere la tendenza complessiva dei processi reali , leggendo le parti nel tutto : u n pensiero maturo, all 'altezza della maturità raggiunta dal movimento operaio organizzato . L'uni­ lateralità e il settarismo del punto di vista operaio sono oggi alla prova . O si raggiunge per questa via, e partendo da quel punto , un livello di scienza sociale politicamente funzionante, oppure, di fronte ad appropriazioni e distorsioni varie, si deve riconoscere che fin qui sono state prodotte non conoscenze per la lotta, ma ideologie per la cultura . Prendiamo questo spaccato di storia recente della classe operaia che è riassun to nel passaggio dall 'operaio di mes tiere all 'operaio massa, per usare categorie concettuali che vogliono essere al tempo stesso figure storiche. Lo schema teorico non è falso. Eppure la correttezza dello schema teorico non risulta politicamente produttiva di risultati. Come dire che la logica del discorso funziona, ma come logica formale. Confrontata con l'esterno delle contraddizioni - ad esempio uno stadio determinato di organizzazione del movimento operaio - non funziona piu . Qui c 'è un problema non solo teorico. La massificazione della forza-lavoro operaia, da non confondere con la dequali­ ficazione del lavoro operaio, la fine della professionalità e del mestiere, la nascita del ruolo e della funzione, cioè l'avve­ rarsi della profezia marxiana del lavoratore appendice della macchina, bene, questo presuppone processi in grande di so­ cializzazione della produzione, dello scambio e del consumo di

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capitale, processi di taylorizzazione, di razionalizzazione, di au­ tomatizzazione del processo lavorativo e presuppone cadute nella crisi del ciclo economico e momenti di iniziativa del ceto politico e ancora livelli alti di lotte operaie, sempre, alle origini e allo sbocco di questi processi . Ma quello di fronte a cui c'è da rimanere perplessi e a lungo incerti sul che fare, è come, di fronte a questi fatti, la storia politica, non solo del movimento operaio, sembra essere un' altra storia. Dicevo : non solo del movimento operaio. Perché , secondo me, è l 'intero livello istituzionale, l'intero terreno politico, che rischia di rimanere fuori, come non investito, non attraversato da questi processi . Pensate al periodo storico : tra le due guerre , negli USA, là dove si può collocare l 'atto di nascita dell'operaio massa, in presenza della « grande crisi » e dell'uscita dalla « grande crisi », il salto in produzione non produce un salto nell'organizzazione ; e nel secondo dopoguerra in Europa, l 'Unio­ ne Sovietica esporta l'apparato del partito-Stato, gli Stati Uniti esportano il modello dell'operaio massa , ma dov 'è che questo ultimo fatto si incontra con la storia politica dello Stato e dei partiti ? Pensiamo a questo impressionante residuo storico di storie nazionali, ai ritardi dei livelli sindacali tradizionali, alle risposte vecchie e sempre uguali delle socialdemocrazie, ai tra­ vagli, alle incertezze, alle divisioni del movimento comunista internazionale . Pensiamo alla storia dei « governi » . Un problema. Siamo d i fronte a due storie parallele - le lotte operaie e il politico, la storia dell'industria e la storia dello Stato - che vanno lette separatamente? O siamo di fron­ te a un 'incapacità nostra - del marxismo della nostra epoca a leggere unitariamente il processo complessivo ? Chiedo scusa per la soluzione prudente. Ma credo siano vere tutte e due le cose. Sono due storie, ma noi dobbiamo saperle vedere in

una sola. Lo stadio dell'« autonomia del politico » vuole richiamare violentemente l'attenzione sulla necessità di un'analisi specifica dell'oggetto specifico, in questo caso , la politica, il suo terreno, i suoi livelli di organizzazione nelle istituzioni, i suoi livelli di pensiero nella storia delle teorie, le sue tecniche, i suoi uomin�. Il richiamo viene fatto nel modo leninista di piegare il ferro dalla parte opposta per raddrizzarlo. Ma chi crede che sia questo l 'approdo finale della ricerca, non ha letto bene 17

neppure i passaggi precedenti. L'obiettivo è di unificare il di­ scorso sulla classe e il discorso sulla politica, non solo nel pensiero, ma nelle lotte e nell'organizzazione. Non c'è sponta­ neità in questo processo . L'immaginazione teorica deve sommar­ si a una presa politica sulle tendenze in atto. Il meglio deve ancora venire. Facciamo una prova sul campo, prendiamo un terreno limi­ tato e non concluso : qui da noi, questi anni settanta . Vediamo se si possono riuscire a legare le vicende politiche con la storia della produzione. Dal '62 al '69 indubbia è una crescita politica dell 'operaio massa e, possiamo dire, una crescita po­ litica della centralità operaia. Se vogliamo assolvere l 'operaismo italiano degli anni sessanta da qualcuno dei suoi tanti peccati , diciamo che nelle sue vicende migliori era un riflesso, secondo me fin troppo passivo, di questa crescita. Dopo il '69 altret­ tanto ovvia è la controffensiva capitalistica : ristrutturazione in­ dustriale e attacco alla composizione di classe degli anni ses­ santa sono una cosa sola . Questa era cresciuta sullo sviluppo, sia pure distorto, non poteva vivere con la crisi, sia pure provocata . Il ruolo di avanguardia di massa degli operai del­ l 'automobile e del settore metalmeccanico in genere viene at­ taccato dalla crisi e con la crisi del modello di sviluppo . Inutile mettersi a calcolare quanto c 'è di oggettivo e quanto di soggettivo nella crisi. Dobbiamo imparare a vedere nella crisi del ciclo economico sempre insieme queste due cose, i dati strutturali e i momenti congiunturali, cioè le contraddi­ zioni effettive e la manovra politica . Il sistema di potere dc si è trovato in buona posizione per un 'azione politica su questo passaggio. È chiaro che ci sono condizioni materiali che pro­ vocano il processo della disgregazione sociale, le spinte degli interessi corporativi, l 'esasperazione delle contraddizioni se­ condarie, ma queste non sono solo il prodotto spontaneo dello sviluppo capitalistico , cosi come non sono l 'effetto meccanico di un modello di funzionamento delle lotte operaie ; sono, tra l 'altro, anche la scelta di una via di contenimento della forza operaia, come la strategia della tensione e il rigurgito neo­ fascista sono stati tentativi di far arretrare il quadro politico. I compagni che teorizzano la nuova figura rivoluzionaria dell'operaio che esce dalla fabbrica per occupare il sociale, se­ guendo la trama di decentramento del lavoro, contenuta nella 18

fabbrica diffusa, incontrandosi con i processi di proletarizza­ zione del terziario e del . . . quaternario, dovrebbero riflettere sul fatto che ci troviamo di fronte a un processo guidato che mira all'isolamento politico della classe operaia di fabbrica . Cogliamo di questo oggi pericolosi riflessi nella crisi dell'unità sindacale e in accenni di crisi del ruolo stesso del sindacato. Non è una vicenda solo italiana . Quando parliamo di capi­ talismo assistito, di consumo improduttivo, di spreco delle risorse pubbliche, di moltiplicazione artificiosa degli interessi e di disgregazione sociale, cioè quando parliamo della OC e del suo sistema di potere, non dobbiamo temere di provincia­ lizzare il discorso. Questa è la vicenda dello Stato politico postkeynesiano, che con questi strumenti di politica economica ha tentato appunto di contenere e far arretrare la crescita della centralità politica operaia, che proprio le misure anticrisi, anti « grande crisi » avevano innescato. Dopo il '69 abbiamo assistito qui da noi a uno sviluppo classico di questo modello, che rende appunto significativo a livello internazionale il nostro terreno della lotta di classe. Lo specifico del caso italiano è semmai in due cose : 1 ) che qui la lotta alla produzione ha trovato alimento nell'ideologia cattolica e quindi si è riproposta (e noi non l'abbiamo usata) la contraddizione industria-potere, nella forma di due sistemi, il sistema industriale e il sistema di potere, ma anche nella forma di una sovrapposizione e contaminazione « perverse » nell'industria pubblica; 2 ) che qui c'è stata e c'è una resistenza e una risposta del movimento operaio, con livelli alti di co­ scienza politica, su un terreno forte di organizzazione, di sin­ dacato e di partito . Difficoltà e asprezze della lotta politica in I talia si spiegano anche cosI. Qui l 'iniziativa « politica » non passa senza una replica dal basso . Si pone a questo punto un problema teorico di grosso peso. Il concetto di centralità operaia è proprio organicamente, indissolubilmente, connesso con il concetto di lavoro pro­

duttivo? La mia idea è che oggi sul lavoro produttivo sono cresciute una serie di incrostazioni ideologiche . Parlando di lavoro pro­ duttivo dobbiamo quindi disporci prima di tutto su un piano di critica dell'ideologia. Due esempi, legati a due date che parlano da sé, il '68 e il '77. 19

Il movimento del '68 . In primo piano troviamo l'idea della « forza produttiva della scienza » (Habermas ) : proletarizza­ zione degli studenti , l'intelligentsija scientifica dentro il lavora­ tore totale produttivo, punto di formazione della stessa co­ scienza di classe dello stesso proletariato ; il tutto funzionante nella « nuova qualità di socializzazione del capi tale » (Krahl ) . Si ha una dilatazione del concetto di lavoro produttivo. Siamo tutti operai . È questa la forma in cui compare la centralità operaia nelle ideologie sessantottesche. Il movimento del '77 . L'area del lavoro produttivo che oggettivamente si contrae fa esplodere le ideologie dell'emar­ ginazione . Ci ritrovo una vecchia tesi di Baran : il lavoro è improduttivo quando si offre a una domanda che è specifica del sistema capitalistico. Il lavoro produttivo infatti è solo di una « società razionalmente ordinata » . Ha ragione Altvater quando dice che lavoro produttivo e lavoro improduttivo ven­ gono avanti in questo caso come categorie morali. Non c'è da lneravigliarsi allora se dietro questa selvaggia devastazione dei valori - jeu de massacre del « movimento » - fa capolino una strana morale del non-lavoro . Il restringersi sociale del lavoro produttivo va di pari passo infatti con il processo della sua integrazione politica . Donde, la conseguenza « strategica » che bisogna accerchiare le cittadelle operaie in produzione fa­ cendo scoppiare intorno una, cento, mille rivolte sociali esterne . Una originale combinazione di pensiero tra Sweezy e Lin Piao ! Occorre far segnare una svolta a questo dibattito sui prin­ dpi ideologici intorno al lavoro : recuperando un terreno pra­ tico di iniziativa politica . Occorre un salto nella teoria. È possibile oggi sganciare non la classe operaia, ma la cen­ tralità politica della classe operaia dal luogo fisico di eroga­ zione del lavoro produttivo ? È possibile sganciare la centralità operaia dal riferimento obbligato a quella figura storica del­ l 'operaio collettivo, che è l 'operaio massa ? È un 'operazione pericolosa . Tirar via da sotto i piedi della centralità operaia la terra ferma dei rapporti oggettivi, degli elementi strutturali , rischia di farla volare poi in mezzo al fumo dei « valori » . Il valore del lavoro, non quello marxiano che faticosamente si trasforma in prezzo della forza-lavoro, ma quello del socialismo utopistico, del cristianesimo ragionevole, quello delle rivoluzioni culturaH, il valore del lavoro non fonda la moderna cen-

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tralità operaia, fonda il suo contrario, l 'antica ottocentesca cen­ tralità del rapporto singolo di capitale, davanti a cui s tava la dispersa massa proletaria delle classi subalterne. Non ci serve . E di quello che non serve pili bisogna imparare a fare a meno . È necessario trovare un altro e pili funzionale ancoraggio oggettivo al concetto di centralità operaia . L'attracco con la politica è la prova del momento. Il rapporto partito politico­ gestione della macchina statale è il terreno fondamentale oggi in tutte le esperienze di governo della contraddizione sociale, nel capitalismo come nel socialismo. Attraversare in forme nuo­ ve questo rapporto vuoI dire far funzionare qui dentro la centralità operaia . Ancora un problema . Qual è il luogo fisico in cui vive la centralità operaia ? Grossi mutamenti sono intervenuti a questo livello. E incontriamo il tema dell'impresa. Qui ci sono insieme le difficoltà del tema oggettivo e le nostre insufficienze teoriche. Con la crescita in complessità e in ricchezza del rapporto di produzione, scontiamo i conti mancati del marxismo con la cultura industriale pili moderna, entro un nuovo livello di cultura politica complessiva. Incertezze, difficoltà, ci sono anche nel campo opposto, sul terreno politico e a livello imprenditoriale, nella DC e nella Confindustria . La proposta di « statuto dell'impresa » presen­ tata al convegno di Portofino recita ancora : « L'autonomia è il presupposto dell 'imprenditorialità » . Ma tra le 5 condizioni e i 22 gruppi di azione richiesti per la sopravvivenza e l 'espan­ sione dell 'impresa manca il punto centrale, che è strategico e storico . Dopo la « grande trasformazione » e la « grande crisi » , dopo l a divisione tra proprietà e gestione, tra capitalista e imprenditore, è partita e cresciuta una crisi dell'imprenditoria­ lità, che ha camminato di pari passo con la rinascita del po­ litico, cioè con la ripresa di importanza del terreno politico . Se non si può e non si deve parlare di fine dell'autonomia dell'impresa, senz'altro si può e si deve parlare di fine della centralità dell'impresa. C'è stata e c'è crisi di ruolo, di fun­ zione della borghesia industriale. E questa crisi non è legata alla congiuntura del capitale finanziario privato : questo è il passato storico. È legata alla struttura del capitale finanziario pubblico, perché questa è la politica presente. È legata quindi di nuovo alla presenza in prima persona sul luogo di produ21

zione dello Stato politico. Che cos'è l'impresa multinazionale, tra le tante altre cose, se non un tentativo di sfuggire a questa prigione di Stato? se non una volontà di farsi potenza da parte dell'industria, sopra gli Stati e non contro ma per mezzo degli Stati? La gestione Carli, con la sua centralità dell'impresa, sembra a me piu arretrata rispetto alla gestione Agnelli, con il suo rapporto impresa-sistema politico. Non abbiamo colto forse alcune potenzialità politiche di quest'ultimo discorso, soprat­ tutto quando è venuto a coincidere con il momento acuto della crisi dc . Occorre comprendere che il rapporto piano-mercato, come il rapporto impresa-organizzazione del lavoro, non sono piu - se mai lo sono stati - problemi di tecnica economica o di razionalizzazione scientifica, sono problemi di rapporto di forza sul terreno politico. È qui che comincia il ruolo dell'organizzazione . Sindacato e partito vanno dislocati, con funzioni diverse e con una divi­ sione del lavoro, su uno stesso punto strategico : come far

giocare la centralità operaia ormai in assenza di una centralità dell'impresa. Nella complessità, in questa rigidità articolata, dei moderni apparati di potere, la rappresentanza politica dei lavoratori ha ancora la possibilità di esprimersi a livello diretto di rapporto di produzione ? Si è parlato di fine del contrattualismo, in rea­ zione forse alle ideologie a lungo coltivate sulla fine del con­ flitto industriale. Non di fine del conflitto industriale penso si possa oggi parlare, ma di fine della sua autonomia . Chi rivendica oggi questa autonomia cade in una sorta di operaismo imprenditoriale . Operaismo e imprenditorialismo sono due fac­ ce di una stessa posizione. Hanno in comune la sottovaluta­ zione del politico . La « questione operaia » oggi - proprio in questi giorni torna ad indicare come determinante il proprio fronte di lotta politica. Due vie delle lotte, difficili da separare e difficili da tenere insieme : operai-impresa-Stato, la via tradizionalmente sindacale, e operai-Stato-impresa, la via propriamente politica. Uno schema che non funziona nelle forme vecchie , ma che in forme nuove deve tornare a funzionare. Il risultato, il residuo delle lotte operaie, dalla fine degli anni sessanta in poi, ha già avuto di fatto uno sbocco po22

litico : sul terreno elettorale, dove sono cambiati i rapporti di forza tra i partiti, sul terreno della società civile, dove si è rimesso in moto un meccanismo inceppato dello sviluppo. La fine dell'egemonia politica dc e il salto nella coscienza civile del paese, tutte e due queste cose hanno una lontana e pro­ fonda origine operaia . Questa positività direi che non è ritor­ nata però sulla classe operaia. Crisi del capitalismo internazio­ nale e manovre di un sistema di potere ancora in piedi, hanno lavorato in modo che il positivo sviluppo del rapporto operai­ politica si inceppasse poi nella crisi del sociale . Donde, la discrasia, la contraddizione - che è di oggi - tra iniziativa politica di partito, logica e conseguente, e incertezze e oscilla­ zioni nei movimenti di classe . Il livello sindacale è il punto di massima sensibilità dove si registra questo fatto. Si fa avanti un fenomeno nuovo , interessante e preoccu­ pante. L'egemonia della classe operaia possiamo dire che è la faccia soggettiva, l'espressione vivente, di quel fatto corposo e materiale, di quella funzione oggettiva che è la centralità ope­ raia . Bene. L'egemonia della classe operaia vediamo che oggi vince e conquista terreno verso l'alto - il nuovo ceto medio delle nuove professioni, un certo management dell'industria fi­ no a strati di piccola e media imprenditorialità, sezioni e spez­ zoni di ceto politico e amministrativo - mentre perde colpi e abbandona terreno verso il basso - appunto le zone del­ l'emarginazione sociale, del non lavoro o del lavoro precario, dei giovani e degli studenti in quanto parti interne di quel corpo fatto di terreno proletario e di cultura militante che è tradizionale nella geografia storica italiana. Qui c'è come una caduta, un vuoto, una devianza della centralità operaia. Solo l 'iniziativa politica può riportare dentro il nostro blocco storico quelle zone e quei settori del sociale in posizione periferica e centrifuga. La ricomposizione, la riu­ nificazione , deve essere politica, intorno a una complessiva strategia di cambiamento, non può essere identificazione so­ ciale, identità di comportamento sociale, in virtu di misure separate di politica economica. La riconquista alla lotta pratica di questi strati passa per il ristabilimento del rapporto con la classe operaia . E questa perderà, attraverso la ripresa di questo rapporto, pericolose tendenze all'isolamento. Perché la centralità operaia funzioni politicamente occor23

rono due grandi condizioni : 1 ) che intorno agli operai di fabbrica si formi e si consolidi un grosso retro terra di consenso sociale ; 2) che la loro uscita sul politico, il loro rapporto con le istituzioni, acquisti un profondo respiro di lungo periodo . Occorre far vedere, far toccare , in modo concreto, con azioni pratiche, che questo Stato si difende e si cambia nello stesso tempo . Si difende nelle garanzie formali, negli equilibri costi­ tuzionali , nel significato di patto politico democratico . E si cambia nel segno del potere, nel funzionamento del meccani­ smo della decisione, nel governo dell'economia, nel controllo, nel consumo, nell 'impiego della ricchezza. C'è questo senso politico diffuso , popolare, giustamente comune ancora a tutti i lavoratori, secondo cui lo Stato è ne­ mico, è il padrone . C'è questa sana origine popolare della classe operaia, da cui bisogna sempre partire se si vuole an­ dare veramente oltre . E d'altra parte , c'è il fatto materialmen­ te evidente che gli operai di fabbrica non sono piu solo una classe sociale, sono una forza politica: che si riconosce nelle forme della democrazia moderna e non delega ma commissiona la rappresentanza dei propri interessi al consiglio di fabbrica, al sindacato, al partito, e mantiene per sé il controllo sull'ese­ cuzione. Forza politica è quella che dimostra di saper governare. La capacità di governo della classe operaia è quello che siamo impegnati tutti a costruire . È un passaggio appunto strategi­ co . Si consuma la fine della lunga storia delle classi subalterne . Una svolta nella storia delle lotte di classe, che non c'è da meravigliarsi se provoca nello stesso nostro campo contraddi­ zioni dure e aspre contrapposizioni . Quello che è oggi il mino­ ritarismo di massa ha nella complessità, nella ambiguità, nella illeggibilità di questo passaggio la sua radice politica oggettiva . La risposta è in forte pieno possesso, teorico e pratico , del terreno politico . Bisogni proletari e interessi di classe vanno saldati oggi a una nuova pratica del potere . Ci deve pur es­ sere una via per mettere la parola fine al capitolo di storia che va sotto il titolo di sconfitte della rivoluzione in occidente . La riconquista operaia del politico è il momento decisivo di una transizione interna alle lotte di classe contemporanee. Il punto di vista operaio - sul campo della teoria - oggi è den­ tro ques ta nostra transizione . Dovrebbe essere chiaro allora

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perché si sono incredibilmente allungati i tempi della prepa­ razione. È stato necessario un processo di riconversione di un intero apparato conoscitivo, e di piu , di tutto un modo di disporsi di fronte ai contenuti e alle forme del fare politico . Chi parla di superamento della « questione operaia» ha diritto a non essere preso in considerazione. Noi lavoriamo a scavare il nuovo terreno su cui la questione operaia oggi vive . Si è parlato all'inizio della centralità della classe operaia come di un problema. Una prima conclusione è che il problema è politico. Penso che il dibattito dei prossimi mesi - da qui alla conferenza operaia del partito - debba stringere piu da vi­ cino la natura appunto politica di questo problema . Con un obiettivo pratico : consegnare un nuovo spazio di movimento ai livelli che contano, uno le lotte, due l'organizzazione.

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Aris Accornero operaismo e sindacato

1 . Premessa Nell'accezione che questo convegno vuoI dare dell'operai­ smo, c 'è un'ipotesi che proporrei preliminarmente alla discus­ sione . Questa : nel movimento sindacale italiano di questo do­ poguerra, l'operaismo non si presenta quasi mai come un pro­ dotto interno . Non che si tratti, per COSI dire, di un fenomeno d'importazione . Credo però che si possa parlare di un operaismo

indotto. Dove si fonda questa ipotesi ? Sulla considerazione che nel­ l 'esperienza italiana sono molto carenti quelle precondizioni dell'operaismo che possiamo riassumere nella struttura della organizzazione sindacale, e nel suo rapporto, se c 'è, con l'or­ ganizzazione politica : la prima, collegata anche alla composi­ zione della forza-lavoro rappresentata ; il secondo riguardante la genesi stessa del sindacato e del partito . Precondizioni am­ bedue riferibili alla specifica composizione di classe di cui quell'organizzazione è connettivo ed espressione . Non si vuole qui evocare quella corrispondenza fra fasi di evoluzione del lavoro operaio e del movimento operaio, che Mallet aveva meccanicamente desun to dal noto schema di Touraine 1. Si vuole soltanto dire che, in pratica, e nella situa­ zione data, contano il carattere pili o meno « politico» , cioè l Vedi in proposito la critica di A. Pichierri nell'introduzione a A. Touraine, L'evoluzione del lavoro operaio alla Renault, prima edizione

italiana, Torino, Rosemberg e Sellier, 1974, p. XIX.

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se l'organizzazione sindacale è permeata (o permeabile) di un finalismo esplicito, anche statuale, oppure se lo delega ad altri attenendosi al proprio mestiere. Base professionale e base politica di ciascun sindacato se accettiamo questa tipologia un po' sommaria - sono quelle che hanno cOSI nettamente diversificato, per esempio, l'espe­ rienza italiana da quella inglese. D'altra parte è comprensibile ehe un orientamento operaista possa affermarsi pili agevolmen­ te in un'organizzazione di soli lavoratori manuali qualificati, come sono tuttora non poche Unions, che non in una organiz­ zazione dove sono istituzionalmente presenti, insieme, operai e impiegati ; dove anzi ci si spinge fino a raggruppare brac­ cianti e contadini, come è stato per la vecchia e la nuova CgiI, per la CiI e poi per la Cis!. (Si potrebbero rievocare le discussioni appassionate e le reazioni « operaiste » nella Fiom dei primi anni sessanta, sulla costituzione di un sindacato im­ piegatizio dentro un 'organizzazione la cui sigla faceva addi­ rittura venire prima gli impiegati degli operai, a differenza del periodo prefascista, senza che fosse mai diventata un'or­ ganizzazione di « colletti bianchi » 2. Oppure si potrebbero rievocare i durissimi anni del centrismo, quando le organiz­ zazioni della CgiI vennero a trovarsi in una situazione di isolamento proletario quasi disperato, senza che derivassero spinte a rinchiudersi nelle cittadelle operaie. Questo spiega almeno in parte perché nel sindacato italiano non si presenti quella identità fra operaismo e corporativismo, che caratterizza certe altre esperienze sindacali . Ma se nell'operaismo del sindacato italiano non prevale iI mestiere, è anche per altre ragioni . Non è che per sua natura vi sia minore operaismo che in certe Trade Unions britanni­ che, semmai ce n 'è stato di pili nel nostro movimento operaio che nel Labour Party. A quest'ultimo fattore sarei propenso ad annettere maggiore importanza : a me pare che nella situa­ zione italiana gli influssi politico-ideali si facciano sentire ancor prima degli effetti organizzativi e strutturali . Quella che 2 Vedi ad esempio N. Coldagelli, Impiegati} tecnici e strutture sin­ dacali, in Sindacato moderno, n. 1-2, gennaio-aprile 1963 . Per le Tesi e le decisioni del XIV Congresso Fiom, Rimini 7- 1 1 marzo 1964, vedi Sindacato moderno rispettivamente n. 4-5, luglio-ottobre, pp. 49-50 e n. 1-3, gennaio-giugno, pp. 433-434.

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viene ritenuta una plU spiccata politicizzazione del sindacali­ smo italiano, esprimendosi innanzitutto in una sua maggiore permeabilità e partecipazione politica, ha consentito infatti agli indirizzi dei partiti e dei gruppi politici di manifestarsi e di misurarsi senza barriere pregiudizi ali anche se attraverso vari gradi di mediazione e vivaci dialettiche . Se consideriamo la Cis!, vediamo come l'operaismo entri nel sindacato provenendo dalla « politica ». Dopo anni in cui la linea di questa organizzazione era stata industrialista senza peraltro trovare un seguito operaio apprezzabile, in alcuni set­ tori cattolici emersero spinte operaiste quando essa abbandonò il riferimento al partito democristiano, espressione di un asse sociale tale da ostacolare comunque una presa operaia del sin­ dacato . Se poi si considerano le zone forti dell'operaismo si vede pili nitidamente come l 'influsso politico prevalente , nella tradizione e nei quadri del movimento operaio, venga maggior­ mente dalla componente politica che da quella organizzativa : come altrimenti spiegare le differenze fra Torino e Milano : soltanto col pili elevato indice di concentrazione industriale ed operaia ? Solamente con la Fiat ? 3 . No, bisogna semmai riandare a Gramsci e al suo tempo, senza neppure saltare il periodo fascista , come si fa di solito 4 . La mia ipotesi è dunque che in Italia non ci sia stata base sufficiente per il prodursi e il manifestarsi in proprio di forti correnti operaiste nel sindacato, prima di tutto perché esso aveva una pili o meno coerente volontà di rappresentanza « ultra categoriale », voleva tenere dentro tutti i lavoratori ; e poi perché, in carenza di origini « categoriali » autoctone, la formazione di orientamenti operaisti per influsso esterno era favorita dalla stessa sensibilità politica del sindacato, 01treché dal fenomeno della doppia militanza sindacale e poli­ tica. Cosicché concluderei questa premessa sollevando come prima questione l 'interrogativo, certo un po' provocatorio, se nel caso del sindacato italiano l 'operaismo non sia venuto dal­ l 'esterno, portato come si porta la coscienza di classe nel senso 3 A questo proposito rinvio agli interventi di R. Alquati e 1. Ariemma in Sindacato e dimensione regionale, a cura di P. Buran, Torino, Stam­ patori, 1977, pp. 42-43 e 57-59 . 4 Colma una lacuna G. Sapelli, Fascismo grande industria e sin­ dacato, Milano, Feltrinelli, 1975 .

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leninista , ma con la coscienza di classe ridotta a coscienza operaia pura e semplice. 2 . Le matrici Un presupposto ricorrente dell'operaismo sindacale sta nella convinzione che il sindacato sia di per sé, per sua natura , « piil vicino » alla classe , o comunque all'operaio 5 . Una prova piil che sufficiente di questa vicinanza è stata vista fra l'altro nella capacità mostrata dal movimento sindacale italiano nel racco­ gliere e riflettere meglio dei partiti, per qualche tempo, la « domanda politica » proveniente dai luoghi di lavoro dopo il 1 968. Non sempre e non necessariamente questa diventa un 'ipo­ teca sulla primogenitura o sulla rappresentatività operaia del1'organizzazione sindacale nei confronti di qualsivoglia organiz­ zazione politica o sociale ; ma quasi sempre questa convinzione implica per lo meno un giudizio di maggiore genuinità del sin­ dacato in quanto tale , nel senso operaio e classista ; e dove il sindacato ha avuto robuste ascendenze operaie, un filone del genere non è mai manca to . Oggi il seguito, la partecipazione e l'investitura giusta­ mente vantati dal movimento sindacale presso la classe operaia italiana , legittimano sentimenti di orgoglio . Se tuttavia da que­ sta realtà politica si trae una generalizzazione indiscriminata , quasi un « senso comune », allora trovano piena legittimità po­ litica anche quelle che a me paiono le matrici interne di qual­ siasi operaismo sindacale : il tecnologismo ed il contrattualismo. Tecnologismo chiamerei per comodità quel postulato in base al quale la verità della coscienza operaia si desume innan­ zitutto dall'analisi sul livello delle forze produttive ; e contrat­ tualismo quell 'altro postulato che fa dipendere il migliora­ mento della condizione operaia, soprattutto dalla bontà del metodo con cui l'affronta il sindacato . Sono cose note . Voglio soltanto sotteolinearne la portata 5 Cfr. ad esempio P. Praderi, che nella relazione al non fausto XVI I I Incontro Adi di Vallombrosa, agosto 1970, parla del « suo piu diretto legame con la base »: Strategia operaia e neocapitalismo, Roma, Coines, 1970, p. 144.

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quando vi SI Innestino elementi specifici di operaismo : e sic­ come su questa materia non ritengo di poter scagliare la prima pietra, ricordo tre esempi di tendenze concrete che ne deri­ vano, e di cui molti siamo stati partecipi . La prima tendenza, forse la piu rivelatrice e tutto sommato feconda , è quella a innovare gli strumenti tradizionali dell'organizzazione operaia sul luogo di lavoro, per renderIi espressione e leva dell'auto­ nomia operaia nella contestazione dello sfruttamento . Autono­ mia operaia intesa come ricomposizione molecolare e autogo­ verno originario della classe, fondativo dell'organizzazione me­ desima . (Per esempio, è altamente significativo che la spinta ai consigli di fabbrica, la quale veniva innanzitutto dal modo come gli operai avevano recepito, anche criticamente, la stra­ tegia sindacale sull'organizzazione del lavoro, sia stata moti­ vata invece con un 'analisi sulla struttura organizzativa delle fasi di lavorazione, e con una critica all 'impotenza negoziale dei vecchi organismi . ) Un'altra tendenza tipica, di cui bisognerà riparIare, è quella a dedurre pari pari non soltanto i salti tecnologici, ma anche il mutamento sociale dagli effetti dell'azione operaia 6 . Quanto nell'operaismo c'era già di forzato, o di forzante , in merito al potenziale di cambiamento insito nelle lotte della classe operaia, qui viene portato a conseguenze ulteriori giacché è nell'azione sindacaI-rivendicati va che si individua l'agente de­ cisi vo delle trasformazioni 7 . Segnalerei infine quella tendenza a far derivare la possi­ bilità di schieramenti unitari , o di blocchi omogenei, sempli­ cemente dalla capacità di rappresentare adeguatamente gli in­ teressi da coalizzare : alcune certezze in fatto di unità sinda­ cale riposavano appunto su questa sorta di fideismo cartesiano . 6 Un caso nobile e pienamente au tocosciente di questa tendenza

è in G. P. Cella, Per l'analisi dei rapporti tra azione operaia e muta­

mento sociale, in Studi di sociologia, a. XI I , n. I II-IV, lug1io�icembre 1 974, dove direi che il debito con M. Tronti di Operai e capitale (Torino, Einaudi, 19712) è mal ripagato. 7 Con conseguenze un po' allucinate e un ritorno a bomba in S. Mal­ let : vedi Maggio-giugno 1 968, primo sciopero per la gestione, introdu­ zione alla nuova edizione di La nuova classe operaia (Torino, 19702) , dove si chiamano a raccolta « i diversi strati di professionali dell'industria moderna, produttori di scienze e di tecniche piu che di prodotti, per fondare la vera società industriale, finalmente liberata dai suoi arcaismi capitalistici e tecnocratici » (p. 47) .

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Ritroviamo qui quel presupposto di genuinità sindacale, nel senso della coscienza e della condizione di classe, che fa poi leggere la sua organizzazione come dover essere della sua com­ posizione. 3 . I connotati Le due connotazioni piu caratterizzanti che l'operaismo ha assunto nel sindacato italiano sono state a mio avviso, e per certi aspetti lo sono tuttora, quella industrialista e quella sala­ rialista. È qui che l 'ideologizzazione del progresso tecnologico e dell'azione rivendicativa, a cui si possono ricondurre le ma­ trici interne, prende poi delle fisionomie concrete. Decisivo dev'essere stato il primo innesto, databile intorno al 1 956-57 , cioè all'epoca della svolta sindacale provocata dalla sconfitta subita dal movimento operaio alla Fiat, nel 1955 . I l punto cruciale dell'autocritica pronunciata d a D i Vittorio, i n quella occasione, cioè l 'insufficiente attenzione data alla con­ dizione di lavoro, diventò necessariamente un caposaldo del revisionismo sindacale del periodo, e tale da aprire un ana­ logo processo fra i partiti di sinistra , mentre il trauma della destalinizzazione allargava i dubbi e spingeva a ripensamenti profondi . Quella focalizzazione sul momento conoscitivo a li­ vello di fabbrica rimbalzò poi nuovamente sul sindacato di classe, attraverso una tematica politica che andava dal rap­ porto fra progresso tecnico e riforme di struttura, ai nuovi organismi di rappresentanza e di controllo operaio 8 . Avven­ ne perciò che quella prima « riscoperta della fabbrica » , cOSI feconda, lasciò un inconfondibile tratto industrialista alle com­ ponenti del sindacato che l 'avevano sentita come una « risco­ perta della classe », la sola possibile : una classe tutta mate­ riale perché operante nel vivo del processo produttivo, e non uno stereotipo dottrinario . Significativi, agli effetti del nostro discorso, furono due tipi di contributi . Uno si versò direttamente nel sindacato 8 Basta citare la nota polemica fra A. Giolitti (Riforme e rivo­ luzione, Torino, 1957) e L. Longo (Revisionismo nuovo e antico, To­ rino, Einaudi, 1957); e, cOSI pure, i noti dibattiti sull'Unità edizione piemontese e su Mondo operaio.

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provenendo da studiosi in prevalenza (o in avvenire) sociali­ sti, i quali si collegavano ad autorevoli scuole francesi di so­ ciologia del lavoro : Friedmann e poi Touraine. Questo inne­ sto di « operaismo tecnologico » ebbe anche una versione oli­ vettiana, che lasciò stimoli e strascichi . Ma non voglio ag­ giungere nulla a quanto già detto nella bella ricostruzione a cura di Nino Magna, con la quale abbiamo preparato questo convegno 9 . Un altro contributo fece invece da reagente, ma ebbe ef­ fetti di analogo peso . È quell'industrialismo classico della so­ ciologia statunitense, al quale si alimentavano gli studiosi che stavano costruendo la filosofia della Cisl sulla società industria­ le. E qui non posso che richiamarmi alla serrata disamina che ne fece Bruno Trentin parlando delle dottrine neocapitali­ stiche lO. Questo diverso tipo di industrialismo, terreno di coltura per peculiari ed inusi tati sbocchi operaisti, fu allora ribaltato, pili che contestato, dalle componenti Cgil pili sensibili alla riscoperta della fabbrica : la stessa cosa, in forme pili sofferte, avrebbero poi fatto vari militanti della Cisl negli anni a ve­ nire. Il comune ottimismo tecnologico aveva un segno diverso e opposto solamente per il fatto, e certo non è poco, che si riteneva lo sviluppo delle forze produttive capace di favorire l'azione, oppure l 'integrazione, della classe operaia . Pili tarda è la comparsa della connotazione salarialista, meno pervasiva ma a tratti dirompente. L'innesto si svolse in due tempi distinti, intorno alle ondate di lotta operaia del 1 962-63 e del 1968-69 , quando gruppi neomarxisti esterni al sindacato proposero prima e rilanciarono poi, estremizzandoli, i termini politici del rapporto fra salari e profitti . Talune for­ ze dell'operaismo cattolico vissero e motivarono questa spinta sul salario come simbolo di virtualità dell'azione rivendicativa 9 N. Magna (a cura di) , Per una storia dell'operaismo in Italia. Il trentennio post-bellico, Istituto Gramsci, sezione veneta, cicl. , pp. 7-10, ora in appendice a questo stesso volume. lO B. Trentin, Le dottrine neocapitalistiche e l'ideologia delle forze dominanti nella politica economica italiana, in Tendenze del capitalismo italiano, Roma, Editori Riuniti, 1962, v. I. Mi permetto altresl, di richia­ mare le osservazioni sulla Cisl, a pp. 79-91 del volume Movimento sindacale e società italiana, Milano, Feltrinelli, 1977, di cui lo scrivente è coautore con A. Pizzorno, B. Trentin e M. Tronti .

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di parte operaia, intesa come un keynesismo rivoluzionario; accanto a queste forze era presente altresl qualche elemento portatore di giustizialismo filooperaio, in cui il salario assur­ geva quasi a ricompensa terrena del lavoro manuale 11 . Questi influssi piuttosto eterogenei riecheggiavano poi nel movimento sindacale passando dentro al processo unitario e alle sue componenti, canalizzati a volte dalla doppia militan­ za oppure sentiti all'interno in piena sintonia, ma sempre fil­ trati e « tradotti » dall'organizzazione . Con esiti anche con­ traddittori . Un esempio che mi sembra vada segnalato è quello del destino toccato al salarialismo di certi gruppi . Quando la loro agitazione per un uso politico del salario - da mettere in mano al partito, si diceva12 - venne tradotta sindacalisti­ camente, cioè in termini rivendicativi, essa si risolse nel cosid­ detto « pili uno », vale a dire nel gioco al rialzo sul salario. Nelle spinte industrialiste come in quelle salarialiste , oltre al concorso delle forze di estrazione sia marxista sia cattolica, si è registrata anche una comune evoluzione di orientamenti 13 . Caratteristico di questa maturazione, spesso travagliata e a volte abbastanza repentina, è il capovolgimento puro e sem­ plice nelle relazioni causali all'interno del conflitto di classe, tra forze produttive e rapporti sociali, o tra meccanismo capi­ talistico e iniziativa operaia, ora privilegiata anche sulla tec­ nica. Queste conseguenze hanno fatto SI che i connotati indu­ strialisti e salarialisti dell'operaismo sindacale si avvicinassero fra loro, intersecati peraltro da concezioni politiche divergenti sul ruolo della classe operaia, che il singolo militante portava con sé ; ruolo « generale » o « particolare »: ma ne vedremo gli effetti pili avanti . Industrialismo e salarialismo si davano la mano sia nel­ l 'annettere un ruolo e una portata direttamente politica a quei 1 1 Vedi per esempio il libro di E. Gorrieri, La giungla retributiva, Bologna, Il Mulino, 1972, e la sua pur comprensibile fortuna. Dello stesso autore, vedi ora Il trattamento del lavoro manuale in Italia e le sue con­ seguenze, Fondazione G. Agnelli, Torino, 1977. 12 Cfr. M. Cacciari, introduzione a Ciclo capitalistico e lotte operaie Montedison Pirelli Fiat 1 968, Venezia, Marsilio, 1969, in particolare pp. 36-37 . 1 3 Vedi B. Trentin, Da sfruttati a produttori, Bari, De Donato, 1977, pp. C-CI I .

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contenuti ed a quegli strumenti che emanavano dall'azione ope­ raia di fabbrica, sia nel giudicare quelli circostanti come de­ stinati ad essere mediazione o istituzione. Emblemi possono essere considerate le universali valenze attribuite in parallelo a due conquiste pur fondamentali come il delegato di gruppo operaio omogeneo e la valutazione operaia sugli ambienti e i ritmi di lavoro. Forse fu anche una conseguenza delle resi­ stenze politiche ed incomprensioni culturali incontrate nel sindacato da queste due novità . Fatto sta che sullo strumento e sul metodo l'operaismo sindacale concentrò una petizione di autonoma politicità, di cui l 'organizzazione poteva e doveva diventare depositaria : bastava che li piazzasse entrambi nel cuore della propria struttura e strategia . (Per rendere l 'idea, bisognerebbe parafrasare la definizione di Bruno Manghi, e parlare di un operaismo dell'immagine . . . ) 14 Le implicazioni andavano pili in là. Se col delegato operaio la qualità rivendicativa si faceva immediatamente politica , con la valutazione operaia l'esperienza di lavoro diventava su­ bito scienza 15 . Scienza operaia : non teoria politica, cioè, se­ condo la classica proposizione dell'operaismo, bensl epistemo­ logia sociale. Cosicché nella versione sindacale, non solo i1 concetto di egemonia operaia ma anche il « punto di vis ta ope­ raio » 16 perdono i riferimenti col potere e si riducono ad una alternativa culturale, con venature di bogdanovismo 17 nostrano anni cinquanta, quando vari intellettuali di partito elogiavano il giornale di fabbrica, non perché sapevamo scrivere un edito­ riale politico ma perché pubblicavamo una « terza pagina » cul­ turale. 14 Vedi il saggio Quale sindacato serve: il sindacalismo dell'immagine, in Prospettiva sindacale, n. 20, giugno 1976, ora in Declinare crescendo, Bologna, Il Mulino, 1977. 15 E. Pugno, per la verità, parla di « una nuova scientificità prodotta dalla partecipazione operaia », in Scienza e organizzazione del lavoro, dibattiti preparatori del convegno dell'Istituto Gramsci, Roma, Editori Riuniti, 1973, p. 34 . Ma vedi Nuova cultura operaia e ricerca marxista, in Classe, n. 9, novembre 1974 ; e anche AA .VV., Movimento operaio e cultura alternativa, Milano, Mazzotta, 1977. 16 Il riferimento d'obbligo è a M. Tronti, op. cito 17 Vedi F. Fistetti, Stalinismo e partiticità della cultura, recensione ad A. Bogdanov, La science, l'art et la classe ouvrière, Paris, Maspero, 1977, in Rinascita, n. 35, 9 settembre 1977.

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4 . Gli effetti L'operaismo sindacale ha avuto effetti a volte non facili da analizzare distintamente, ma quasi sempre individuabili nel contesto dell'elaborazione Cgil, Cisl, Vil, e delle battaglie con­ dotte dai lavoratori italiani in questi anni. Personalmente, non ritengo neppure che il bilancio sia tutto negativo: anche se i guasti sono stati parecchi, qualche provocazione positiva, qual­ che spunto utile , l'operaismo sindacale lo ha dato. Anche al partito . Semmai bisognerebbe valutare quali cause concomi­ tanti possono averlo favorito, se non altro perché l'operaio­ massa non spiega tutto, né tutto si può ascrivere alla « sup­ plenza sindacale » 18 o ai gruppi extraparlamentari. Esaminiamo i principali punti critici che l'operaismo sin­ dacale ha manifestato con evidenza quando ha affrontato il decisivo rapporto tra fabbrica e società. Vedremo come han­ no pesato i vuoti sindacali .

1 . Innanzitutto, quell'andare continuamente « dalla fabbri­ ca alla società » 19 , presentato come la quintessenza della poli­ tica, si svolgeva in un limbo statuale e non approdava mai allo Stato. E ciò si doveva sicuramente : primo, all'approccio tecnologico , ovvero all'organizzazione del lavoro intesa come chiave di lettura per l 'intera struttura sociale ; secondo, alla proiezione contrattualistica, vale a dire al conflitto industriale inteso come modalità maestra per l'intervento sul sistema economico e sociale 20. Cioè alle matrici già ricordate all'inizio. Tuttavia c'era anche una debolezza piu generale nella strate­ gia unitaria, che riguardava in varia misura Cgil, Cisl e ViI . Era quel pansindacalismo confederale, ora apertamente ricono18 Per quanto sia pienamente accettabile la definizione di G. Giugni, Il sindacato fra contratti e riforme, Bari, De Donato, 1973, p. 44. 19 « Cette lutte doit passer sans solution de continuité du pIan de l'entreprise sul le pIan de la societé », come scriveva già nel 1964 un antesignano : vedi A. Gortz, Stratégie ouvrière et neocapitalisme, Paris, Editions du Seuil, 1964 , p. 99. In particolare, vedi il cap. V, Lotte sociali dei Quaderni Fim-Cisl, n. 2, novembre 197 1 . 20 È quel che B. Manghi h a definito lo spirito negoziale, il quale « segna l'insorgere della società e del suo sviluppo conflittuale fuori delle maglie tradizionali del sistema politico »; ed a questo punto « gli argini eretti dallo Stato, dal sistema dei partiti, dalla stessa cultura politica, non reggono », ult. op. cit., pp. 1 1-12.

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sciuto e ripudiato, che consisteva per lo piu nel sottacere le implicazioni politiche delle lotte di massa nella loro portata concreta ; e ciò a fini di unità, a riprova dell'autonomia, ma certo con risultati poco illuminanti per i lavoratori, che sta­ vano sostenendo battaglie ad altissimo impatto sugli equili­ bri di governo, sugli schieramenti di partito, sul quadro e sul sistema politico stesso. (Come si espresse poi Luciano Lama : « Dobbiamo continuare per dieci anni a dire che il governo de­ ve cambiare politica, o possiamo cominciare a dire che biso­ gna cambiare governo, perché abbiamo avuto la prova che questo governo non sa cambiare politica ? » 21 . ) Quel genere di debolezze pare ormai superato, al punto che c'è chi lamenta il fenomeno opposto 22. Ma su quel fon­ dale semivuoto, l'operaismo sindacale era in qualche modo giu­ stificato se collocava una versione semplificata del rapporto tra fabbrica e società, cOSI complesso. Al centro della scena stava il consiglio di fabbrica che, essendo emanazione diretta della classe, bastava porre alla base del sindacato non solo per radicarlo unitariamente sul luogo di lavoro come prima non era, e per permearlo di autonomia e democrazia operaia, ma anche per rifondarlo dal basso in una sorta di ordinovismo negoziate , capace d 'intervenire sulla società non meno che nella fabbrica . Il consiglio era uno stru­ mento di lotta cOSI necessario e un veicolo di partecipazione cOSI prestigioso - già prima che la Cgil ne avviasse la legitti­ mazione - che era forse inevitabile caricarlo di ulteriori va­ lenze ed aspettative politiche : al punto da non chiedersi come mai una tale portata si esprimesse tutta attraverso una nuova istanza sindacale 23 ; oppure da rispondere con il modello con21 Vedi la tavola rotonda con G. Benvenuto, P. Carniti, G. Giugru e A. Marianetti, L'impegno del sindacato per una svolta politica, in Mondoperaio, n. 4, aprile 1976. 22 A. Lettieri ad esempio affenna che « le ragioni del quadro p0litico prevalgono su quelle del sindacato », pur riconoscendo che l'azione sindacale « si arresta a livello dello Stato », e chiedendo di « allargare l'orizzonte e alzare il tiro, investendo i rapporti fra fabbrica, società e Stato »: vedi Problemi del sindacato nell'attuale fase politica, in Lettere di fabbrica e Stato, n. 7-8, 1° giugno 1977, rispettivamente pp. 107, 105 e 1 14. Vedi anche E. Mattina, Sindacato e controllo operaio, Milano 1977, Mazzotta, pp. 36-42 e 125-127. 23 Vedi F. D'Agostini, La condizione operaia e i consigli di fabbrica, Roma, Editori Riuniti, 1974.

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siliare, che veniva evocato con insistenza fuori del sindacato e che entrava nel dibattito alimentando le attese ma anche gli os tracismi . Forse nelle posizioni dell'operaismo sindacale si esprimeva la convinzione che in tal modo l'istituzione - come si dice non avrebbe potuto ingoiare il movimento, e tanto meno digerirlo. Fatto sta che quest'enfasi, questo sovraccarico in cui si ritrova quel titanismo rivendicativo tipico del sindacato ita­ liano d'oggi - o, come scrivono Romagnoli e Treu nel loro meditato saggio, quella « smisurata ampiezza degli obiettivi pro­ posti » dalle sue file e dalle sue lotte 24 - ponevano quasi il consiglio come un asso pigliatutto 25. E questa non era una forma di centralità operaia bensl di operaismo monocentrico. La nuova figura del delegato riempiva l'orizzonte avendo qua­ drato il cerchio della identificazione piena fra classe e orga­ nizzazione, al di là delle vecchie istanze sindacali e dei partiti in fabbrica 26 . Tutte le potenzialità politiche poggiavano sulle spalle del delegato, certo robuste ma già gravate da compiti impegnativi e vitali 27 . Cosi, a volte, questa figura pareva pre­ sentare due facce : verso l'organizzazione operaia, era il leader di base, portatore di una conoscenza diretta del processo pro­ duttivo, e di una conseguente padronanza sul sociale; verso l'operaio-massa , era il delegato pecuniario, tecnico del negozia­ to duro ed articolato sull'uso e sul prezzo della forza-lavoro. E cOSI pure, in questa accezione industrialistico-salariale, finiva che il rapporto fabbrica-società fosse equiparato ad un'affer24 U. Romagnoli e T. Treu, I sindacati in Italia: storia di una stra­ tegia (1 945-1976), Bologna, III Mulino, 1977, p. 99. 25 « Gestore estremista di tutti gli spazi contrattuali [ . .. ] strutturata incarnazione dell'antagonismo senza pacificazione [ . . ] contropotere ope­ raio in fabbrica che anticipi un nuovo tipo di società » : queste sono alcune definizioni che si trovano nei Documenti per una discussione sui delegati operai, raccolti da Agosti alla Fiat per Classe, n. 2, febbraio 1970. Vedi anche le espressioni usate da L. Castellina, Il movimento dei delegati, in Il Manifesto, n. 1 , gennaio 1970 : « Prima aggregazione p0litica unitaria a livello di fabbrica delle forze destinate a costituire i1 blocco storico rivoluzionario, primo germe di un diverso ordine s()­ ciale » . 26 Riprendo qui qualche passo del mio intervento al seminario Cgil, Vorganizzazione sindacale nelle aziende, 1 1-12 maggio 1970, in­ serto a Rassegna sindacale, n. 188-189, 3 1 maggio 1970. 27 aro gli studi e le opinioni di G. Romagnoli, Consigli di fabbrica e democrazia sindacale, Milano, Mazzotta, 1976. .

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mazione « intercategoriale » della democrazia operaia, e che i consigli di fabbrica venissero intesi come un farsi Stato assai piu e assai prima che un farsi sindacato.

2. Un altro punto critico del rapporto fabbrica-società nel­ l'operaismo sindacale è venuto bene in luce con la questione delle alleanze : al di là di un asse operaio fra nord e sud, te­ stimoniato del resto dalla lotta contro le « zone salariali » o dalla manifestazione di Reggio Calabria, c 'era un silenzio sul­ le altre forze sociali ; un 'ambiguità sui cosiddetti ceti intermedi . Qui c'era la risultante di un dualismo latente fra posizioni ope­ raiste : quelle di estrazione marxista, che richiamandosi alla « classe generale » ritenevano inutili le alleanze ; e quelle altre, di estrazione cattolica, che in nome di una « classe particola­ re », le ritenevano dannose . Oltre a tale convergenza in seno all'operaismo sindacale, la questione delle alleanze determinava un accostamento fra « sinistra » e « destra » della Cisl, una che rifiutava di accettare politicamente certi alleati (per esem­ pio , lavoratori autonomi o ceti intermedi) , l'altra che rifiutava politicamente di contrarre alleanze . Ma anche qui c'era un vuoto confederale, di cui la Cisl porta certo la maggiore re­ sponsabilità : parlare di alleanze veniva ritenuto cosa da partiti, e interesse dei comunisti; poi c'è stato un certo ripensamento 28 . Ciò legi ttimava però l' operaismo sindacale, quando aggirava la questione dilatando semplicemente contenuti e strumenti propri all'esperienza di fabbrica . I contenuti consistevano essenzialmente nell'ipotesi di una proiezione sociale dell'egualitarismo salariale che, quando la questione delle alleanze cominciò a porsi, era già diventato una prassi : anzi era in discussione l'idea di generalizzarlo unifi­ cando il « punto » della contingenza e rivendicando un con­ tratto unico, per tutta l 'industria 29 . Ma questo convincimento circa il valore trascinante della linea ugualitaria, oltreché una 28 Vedi la riflessione su Sindacato e politica delle alleanze, in Pro­ spettiva sindacale, n. 18, novembre 1975 ; la questione era stata posta già prima, senza troppa udienza; cfr. Sindacato e sistema democratico, Bologna, Il Mulino, 1975. 29 Per una seria definizione dell'egualitarismo sindacale cfr. La lotta per l'eguaglianza di B. Manghi in Per l'egualitarismo, Quaderni del Centro operaio, n. 1, luglio 1972, e anche in Relazioni sociali, n. 7, luglio 1972.

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esigenza giusta, esprimeva anche una visione circoscritta: quella di un'unità industriaI-salariale che faceva, si, uguali i lavora­ tori interessati, ma rischiava di fare diversi tutti gli altri. E l'insistenza sui legami di classe non colmava comunque le di­ visioni nella forza-lavoro. Come quando l'andare dalla fabbrica alla società o dal nord al sud si svolgeva dentro la categoria, senza portare aiuto alle zone deboli del movimento, e a volte non uscendo neppure dai cancelli della fabbrica . Gli strumenti consistevano naturalmente nei consigli di zona, una proiezione organizzativa del modello consiliare, de­ stinata ad estendere sul territorio quella capacità di aggrega­ zione della forza-lavoro su basi produttive, di cui il gruppo operaio omogeneo era la cellula costitutiva 30. Da qui l'insi­ stenza sull 'organicità della formula rappresentativa, cioè su una composizione dei consigli di zona espressa elettivamente dai consigli di fabbrica, in via - come si diceva - « intercate­ goriale », senza intrusioni spurie . Questo rigore, che assicu­ rava poco margine alla presenza di forze lavoratrici extraindu­ striali, riproponeva su basi operaiste una linea di chiusura alla questione delle alleanze, cioè del rapporto con altre forze so­ ciali della zona . Qui sfociavano anche le posizioni antiunitarie, che ai consigli di zona contrapponevano le strutture provinciali esistenti, in nome della loro dimensione « confederale » e quin­ di socialmente rappresentativa : queste resistenze conservatrici, tra l'altro, hanno recentemente ostacolato la sacrosanta scelta sindacale delle leghe dei disoccupati e dei giovani. Anche in questo aspetto non secondario della strategia fabbrica-società, 1 'operaismo sindacale mostrava e scontava dunque quei tratti salarialisti ed industrialisti che lo connotano ancora.

3. Un ultimo punto critico è quella nozione di potere come potere economico, con epicentro nella grande impresa, e quindi delle riforme come amplificazione dei contratti, che si vede benissimo nell'operaismo sindacale, ma anche in tutta una fase dell 'iniziativa confederale. Non direi che il problema consistesse nella momentanea e forse inevitabile propensione a « vertenzializzare » financo le 30 In proposito, cfr. G. Gili, Per un'attività formativa unitaria sul livello zonale, in Quaderni di Rassegna sindacale, n. 39-40, febbraio 1973 .

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riforme. Il problema era il contrattualismo come politica, con­ trapposto alla politica come mediazione. E meglio non si po­ trebbe esprimere che con lo slogan della Cisl , « potere contro potere » : dove l'apparente autosufficienza del sindacato copre una delega al ceto politico. Erano i tempi in cui le confede­ razioni, come ho già ricordato, si astenevano sulle formule di governo, e non si capiva bene perché un governo che aveva resistito a uno sciopero generale potesse cadere per una dichia­ razione di La Malfa, e un altro dimettersi invece al solo an­ nuncio dello sciopero generale. In questi frangenti l 'operaismo sindacale era portato a ve­ dere, nel rapporto da stabilire tra fabbrica e società, una di­ namica del conflitto , inteso come vertenza continua, e una statica del potere, spiegata col ritardo delle istituzioni. Da qui quel susseguirsi accelerato di richieste e quella ricerca inces­ sante di controparti, la cui concatenazione, oltreché rispondere a bisogni profondi dei lavoratori, mostrava lo sforzo di trovare negli interstizi del « sociale » quegli sbocchi che la lotta di fabbrica, per resistenze politiche, non riusciva ad avere . Da qui, a sua volta, quel riformismo selvaggio il cui legante era la crescita della qualità rivendicativa posta come grimaldello del sistema. Questi tre punti critici che l'operaismo sindacale ha mo­ strato nel rapporto fabbrica-società, e cioè la mediazione isti­ tuzionale, le forze sociali ed i rapporti politici , si vedono già nei linguaggi - in un certo « sinistrese » sindacale - e ancor meglio nelle logiche , benché non siano una sua prerogativa esclusiva. Con una logica in base alla quale leggere l'atomo­ fabbrica è come leggere l 'universo-società, per forza la catena dei nessi si allunga e si sfilaccia pure , man mano crescono il carnet rivendicativo e il fronte di lotta : capita come alle sal­ merie di Napoleone in Russia. E non basta che il volontarismo logico soccorra la semplificazione epistemologica, ponendo ma­ gari un problema nuovo quando non si riesce a risolveme uno vecchio. Anzi, questa sfida a se stessi dà, SI, l 'idea dell'immagi­ nazione, ma non al potere : all'opposizione. Naturalmente il problema cruciale rimane quell'altro: di voler andare « dalla fabbrica alla società » leggendo la società come se fosse la fabbrica , nel senso di non metterci dentro le forze politiche, le istituzioni politiche, il sistema politico . ln-

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somma i rapporti di potere - qui è il caso di dire - com­ plessivi, che non vengono evocati neppure ripetendo « classe operaia » Fiat, « classe operaia » Pirelli, « classe operaia » Mar­ zotto . Le domande vere sono semmai queste. Quali forze sociali esercitano il potere politico ? quali schieramenti politici diri­ gono lo Stato italiano ? si vede, dalla fabbrica, tutto questo ? È quanto chiedevano Tronti e Di Giulio al convegno del '73 su scienza e organizzazione del lavoro, dove veniva proprio voglia di domandarselo, e di dire : fabbrica, società, e Stato 3 1 . Giacché la centralità della classe operaia non può essere solo materiale, non può essere solo culturale. Ha da essere una

centralità politica. Fra l'autonomia operaia su cui l'organizzazione sindacale e poli tica si fonda , se è di classe, e l'egemonia operaia che essa cerca di esercitare sulla politica e sulla cultura, c'è questa centralità operaia che misura poi la presenza concreta della classe nei rapporti di potere, cioè nelle scelte e nello scontro per la trasformazione della società .

5 . Un epilogo Dico questo, e chiudo, perché una parte dell 'operaismo sin­ dacale è recentemente approdata a un epilogo inatteso, che va segnalato perché potrebbe non essere provvisorio . È quello spostamento del baricentro dalla classe operaia concentrata al lavoro disperso e all'emarginazione sociale. Come dire : la cen­ tralità è andata in periferia . Ciò viene giustificato dall'emergenza d i nuovi soggetti so­ ciali ai quali il sindacato dava scarsa importanza, o comunque poca tutela . E fin qui, qualche ragione ce la vedrei 32. Vorrei 3 1 Cfr. Istituto Gramsci, Scienza e organizzazione del lavoro, Atti, Roma, Editori Riuniti, 1973 , pp. 166 e 265. Richiamerei anche vari inter­ venti del Contemporaneo, I comunisti e il sindacato, in Rinascita, n. 1 , 3 gennaio 1975, i n particolare quello d i P . Ingrao, Quale ruolo dentro le istituzioni, ora anche in Masse e potere, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 337 sgg. col titolo La nuova frontiera del sindacato. 32 E fin qui si può consentire con G. Romagnoli, Democrazia di base e democrazia politica, in Problemi del socialismo, a. XVIII, n. 5, gen­ naio-marzo 1977. •

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però trarre una lezione da questo cambiamento dei soggetti ri tenu ti porta tori della lotta . Scegliere i lavoratori marginali, magari in nome della fab­ brica sociale, significa dare ora un giudizio diverso sulla com­ posizione di classe, non tanto perché questa composizione sia cambiata, ma perché è cambiato il criterio del giudizio . Ciò soppianta sia lo strumento che il metodo dell'interpretazione operaistico-sindacale sulla fabbrica e sulla classe . Per quale innesco esterno e per quale interna debolezza? Mi pare lecito rispondere che se dall'esterno è stata forte la provocazione di chi fa leva sugli emarginati contro i « tutelati » , all'interno ha nuociuto un 'interpretazione dello sfruttamento come problema umano del macchinismo industriale (piu che alla Friedmann , alla Simone Weil) , dove si intravede la fac­ cia populista dell'operaismo cattolico. In più , naturalmente, una certa volubilità politico-culturale. Sarebbe come se l'orga­ nizzatore industriali sta del Cio saltasse su un treno dei wob­ blies, a fare l'operatore sindacale, magari imprecando contro i « privilegi » testé conquistati e minacciando di accerchiare le fabbriche . (Con strane mescolanze. Due settimane fa , radio Onda rossa ha trasmesso un dibattito su salario ed emarginazione ; il pezzo forte era un tizio che spiegava l 'ingiustizia sopportata dagli operai dell'Enel, i cui scatti d 'anzianità non sono ancora al­ lineati in tutto a quelli impiegati .) Mi domando allora : basta inseguire i cicli delle ristruttu­ razioni produttive? E si può oscillare fra operaio-massa e ope­ raio sociale? Se si prescinde dal modo di produzione, questo tragitto dalla fabbrica alla società rischia di essere senza fine, e in ogni caso senza ri torno. Ecco i risultati di una centralità operaia intesa in senso solo materiale o solo culturale. Essa invece è per noi una centralità politica, su cui poggia e da cui parte ogni progetto di rinnovamento del paese . Perciò, questo baricentro noi lo teniamo ben fermo.

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Massimo Cacciati Problemi teorici e politici deltoperaismo nei nuovi gruppi dal 1 960 ad oggi *

Da « Quaderni rossi » a « Potere operaio » I problemi dell'operaismo degli anni sessanta, fino al '69'70, si rinserranno nella definizione che Tronti, indirettamente, ne diede : « Valore-lavoro vuoI dire prima la forza-lavoro poi il capitale ; vuole dire il capitale condizionato dalla forza-lavoro, in questo senso misurato dal lavoro. Il lavoro è misura del valore perché la classe operaia è condizione del capitale ». In questa definizione molto vi è di « problematico » . Vi è, innanzitutto, un « ritorno a Marx » assolutamente originale. Il nodo classico della tradizione marxista sulla teoria del valore, come conditio sine qua non del « sistema », subisce un taglio netto. Tale « teoria » non è piil letta « economicisti­ camente »: il problema di Marx nella « teoria del valore » con­ siste nel definire la centralità politica della forza-lavoro . Marx « usa » i classici a questo fine, totalmente anticlassico, o, se si preferisce « neoclassico » . L'« operaismo » degli anni ses­ santa, in Classe operaia in particolare modo, reinterroga il « marxismo » secondo questo punto di vista, estraneo al tra­ dizionale dibattito sulla teoria del valore, e piil che mai oggi di stringente « necessità ». Questo punto di vista non è presente in Panzieri . La rottura del gruppo di Quaderni rossi è lungi dall'avere motivazioni semplicemente tattiche o poli­ tiche (sull'attualità o meno di un progetto organizzativo auto* Con la collaborazione di Lorenzo Baldi, Fabio Milana, Lino Mor­ selli, Adriano Palma, Pino Trotta.

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nomo, ecc.) . Essa ha motivazioni teoriche , che riguardano le forme della lettura di Marx e della tradizione marxista . La ripresa di Marx da parte di Panzieri è addirittura let­ terale , nella sua analisi del processo di produzione, nella « ge­ rarchia » delle contraddizioni della forma di produzione, nello s tesso concetto di · « coscienza di classe » . In Panzieri non viene per nulla « a problema » la teoria marxiana del valore nei suoi , direi, fondamenti « epistemologici » generali . La grande impor­ tanza del discorso di Panzieri , all 'inizio degli anni sessanta, con­ siste nell 'uso - ma in un uso assai « lineare » - dell'analisi marxiana dentro la fabbrica concreta del capitale concreto emergente dai processi di concentrazione industriali degli anni cinquan ta . Non vi è in Panzieri un problema teorico della prio­ rità storico-politica dei movimenti di classe operaia. Vi è una analisi « materialistica » dello sviluppo del rapporto di produ­ zione, dal quale emerge, in questa fase concreta, la possibilità di un ciclo qualitativamente nuovo di lotte e di nuove aggre­ gazioni politiche. Sul piano del « metodo », è marxismo « clas­ sico ». A rigore, non si potrebbe neppure parlare di posizione « operaista » - o soltanto al negativo, e anche qui secondo tradizioni ben radica te nella storia della III Internazionale , nel senso, cioè , che la situazione politica contingente obbliga la classe operaia a « restare sola » . Quali problemi emergono invece dalla definizione di Tron­ ti richiamata all'inizio? Di carattere storico , anzitutto : la « prio­ rità » della forza-lavoro valeva per il ciclo capitalistico che si andava aprendo o per la spiegazione dell'« origine » stessa della forma di produzione capitalistica? Doveva valere come criterio per la « storia del capitalismo » o come linea politica dentro la fabbrica concreta del capitale concreto degli anni sessanta? Di carattere teorico , poi : può la « misura » marxia­ na del valore essere intesa solo metaforicamente, come « con­ dizione politica » del modo di produzione capitalistico ? E se un 'analisi piu ravvicinata del testo marxiano pare inevitabile, non emergerà da tale analisi una differenza tra questo testo e la « metafora » operaista assai piu ampia di quanto Classe operaia avvertisse ? In altri termini : che tipo di « traducibilità » si immagina possibile tra « condizionato » e « misurato » ? E se tale « traduzione » è impossibile, di che tipo di « ritorno a Marx » si tratta ? L'« operaismo » degli anni sessanta stringe 46

tali nodi, (assai piu che risolverli) ; irrisolto , potremmo dire è il suo rapporto con la « tradizione ». Dove invece esso « la­ vora » a fondo è su di un 'altra questione esplicita nella de­ finizione di Tronti : sul passaggio tra « forza-lavoro » e « clas­ se operaia » . In fondo, l 'intero lavoro di analisi e l'intera ipotesi politica di Classe operaia ruotano intorno alla possi­ bilità di tale « passaggio ». È il tema, la dominante, di Operai e capitale. La questione potrebbe essere cosi formulata : se condizione del capitale dal punto di vista storico-teorico può essere pensata la forza-lavoro , condizione del capitale dal punto di vista politico è concepibile soltanto la classe operaia. Sono movimenti di classe operaia a determinare le forme di gover­ no, di comando capitalistico sulla stessa forza-lavoro . La « dif­ ferenza » (concetto centrale per intendere Classe operaia ! ) tra forza-lavoro e classe operaia è l 'elemento di maggiore tensione e innovazione rispetto al « marxismo » - ma per la ragione che tale « differenza » non è pensata nei termini classici della « coscienza di classe » e dell '« organizzazione » che la rappre­ senterebbe. Il rapporto forza-lavoro/classe operaia è pensato nella tradizione marxista in termini di « superamento » . Tale superamento è reso possibile o dal « salto di coscienza » che organicamente si matura all'interno delle condizioni di vita e di lotta della forza-lavoro, o dall'intervento del « soggetto » politico come partito all'in terno di tali condizioni . L'« operai­

smo » pensa il rapporto non piu in termini di superamento . Questo è, a mio avviso, il problema centrale, e la questione di maggiore rilievo, che pone Classe operaia. Non si dà un livello di « coscienza » di classe , definibile sulla « salda roccia » dei principi del movimento organizzato, al quale deve tendere (eticamente o « naturalisticamente » poco importa) la forza­ lavoro . Il problema della sua organizzazione come classe è iscrit­ to nelle possibilità materiali, nelle linee di forza della sua s trut­ tura . Non si dà né livello « naturale » di obiettivi della « co­ scienza di classe » (e di questa « coscienza » s tessa) né livello « naturale della forza-lavoro, come insieme « ingenuo » di segni materiali da combinare secondo il « senso » dell'orga­ nizzazione . È rotto il rapporto teorico « classico » tra forza­ lavoro e classe operaia, come rapporto « segno-scrittura » , e Marx stesso è « usato » all 'interno di questa « differenza » . M a quale direzione assume questa importante soluzione 47

di continuità? A questa domanda va cercata risposta nell'am­ bito del concetto di « composizione di classe », idea-chiave del­ l'operaismo degli anni sessanta. Prioritaria sui processi di com­ posizione del comando capitalistico è la classe operaia, sono le forme della sua composizione. Non, dunque, soltanto le strutture organizzativo-tecniche della forza-lavoro, non i modi della divisione tecnica del lavoro. « Composizione di classe » è un'idea politica. Ma in che senso? Come va intesa, in po­ sitivo? Classe operaia risponde : « composizione di classe » è la struttura materiale della forza-lavoro, è il « disegno » della divisione tecnica, dal punto di vista dei comportamenti politici che quella struttura e quel disegno producono (per « compor­ tamenti » intendo forme di lotta, organizzazione, rapporto con le organizzazioni storiche del movimento, obiettivi generali) . Ma il problema consiste appunto in ciò : di che tipo è il rap­ porto tra « analisi » della forza-lavoro e « composizione » della classe ? Non vi è dubbio che la risposta originaria di Classe operaia una risposta che ha grande influenza sull'« operai­ sroo » successivo - sta nel senso di un rapporto di funzionalità lineare : la composizione riflette l'analisi, o, meglio, la fonna della struttura della forza-lavoro che l'analisi rileva è omogenea alla struttura della composizione. L'analisi della struttura della forza-lavoro, in Quaderni rossi e in Classe operaia, produce le forme della composizione di classe. In altri termini, la classe operaia, come concetto po­ litico, emerge nella sua struttura concreta dalle trasformazioni materiali della forza-lavoro. La composizione si incarna in queste trasformazioni. L'analisi della forza-lavoro rileva nuovi rapporti tra i suoi diversi settori, nuove dinamiche nelle condizioni della forza­ lavoro in rapporto al capi tale. Queste « informazioni » si co­ municano linearmente all'idea di « composizione di classe » . Forme d i lotta, obiettivi, comportamenti derivano d a tali « in­ formazioni » . Certo, esse possono risultare « disturbate » . La « tradizione » opera come disturbo del messaggio : essa vi in­ terviene per confonderlo, caricandovi i caratteri di precedenti strutture della forza-lavoro, di precedenti forme del rapporto capitale-lavoro. La « critica dell'ideologia » svolge qui un ruolo essenziale, in quanto individuazione di tali « funzioni di distur­ bo » e loro separazione dal messaggio « autentico ». La « critica -

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dell'ideologia » è funzionale, fondamentalmente, alla riduzione del messaggio alla sua « base reale » , a chiarire il messaggio come funzione lineare della struttura « elementare » della forza­ lavoro . Credo che questi cenni bastino a dimostrare la totale in­ fondatezza delle critiche che sono state rivolte all'« operaismo » di Classe operaia, come variante « hegeliana » della scuola fran­ cofortese. La differenza tra le due impostazioni (che emerge irriducibile nelle analisi sul capitale monopolistico, sul ruolo delle lotte delle « metropoli ») trova la sua spiegazione gene­ rale, a nostro avviso, in questa forma affatto wittgensteiniana del Wittgenstein del Tractatus - di « critica dell'ideologia », che Classe operaia pratica. Piu lontano di cos1 da Francoforte ! Riprendendo una indicazione di Asor Rosa, si potrebbe af­ fermare che il concetto di composizione di classe, tra Quaderni rossi e Classe operaia, è fortemente, quasi « paradossalmen­ te », strutturalistico. Le informazioni dell' analisi della forza­ lavoro producono la classe operaia . Composizione di classe, abbiamo detto, è un'idea politica ; ora aggiungiamo : è un pro­ gramma politico. Attraverso la critica delle ideologie che con­ fondono forza-lavoro/classe operaia, si pone la possibilità di una composizione di classe, nel senso di un'organizzazione p0litica di classe operaia, « all'altezza » della reale struttura della forza-lavoro, o, wittgensteinianamente, di un 'organizzazione po­ litica della classe cosi legata alla realtà della struttura della forza-lavoro , da far Sl che gli elementi della sua forma (le diverse variabili che costituiscono l'organizzazione) stiano tra loro nella stessa relazione delle « cose » (dei « dati » irridu­ cibili del rapporto diretto lavoro-capitale ) . Sarebbe assurdo non sottolineare l'importanza - non solo culturale - di questa impostazione . Versus la tradizione di un marxismo sempre piu ridotto a dibattito tra « filosofie », il « ritorno » al Marx della « storia dell 'industria », e dell'« or­ ganizzazione del lavoro », e dei loro conflitti fondamentali, im­ poneva di fondare il discorso teorico e anche organizzativo sulla « salda roccia » di proposizioni elementari, controllate sulla realtà della struttura della forza-lavoro - imponeva di partire dall'analisi delle trasformazioni avvenute in questa struttura , e perciò nella struttura del capitale complessivo. Un impor­ tante lavoro di « pulizia » era possibile avviare da questa base 49

- ma non solo, era possibile individuarvi anche una traccia per verificare l'attendibilità della proposta teorica e politica. È nel seguire tale traccia che si complica il concetto di « com­ posizione di classe », che « si divide » l'esperienza di Classe

operaia. Dal centro gravitazionale costituito dalla idea di « compo­ sizione di classe » si irradiano, come abbiamo visto , una serie di funzioni . « Composizione di classe » sta al centro di un tragitto che collega forza-lavoro e organizzazione politica. « Composizione di classe » è veramente concetto « pontificale » . Occorre che i « comportamenti » d i classe siano « ricomposti » in funzione diretta delle nuove forme del rapporto diretto capitale-lavoro ; e occorre che l'organizzazione politica sia de­ finita in funzione diretta della composizione di classe. « Critica dell 'ideologia » e pratica di questa critica (anche nell'inter­ vento diretto) debbono esplicitare la possibilità concreta di questo passaggio . Si è sempre sottolineato come questo ap­ proccio derivasse dalle trasformazioni avvenute nella struttura sociale di classe del paese tra anni cinquanta e anni sessanta, e come esso permettesse di coglierne le nuove « figure » cen­ trali , in rapporto alla storia del conflitto industriale in altri paesi a capitalismo avanzato (gli USA soprattutto) . Ma credo che i punti fondamentali di riferimento dei Quaderni rossi (nei suoi primi tre numeri ) e di Classe operaia siano ancora molto interni alla storia del movimento europeo. La rottura del rapporto (rapporto di « riflessione ») tra struttura di classe e organizzazione politica sta al centro della tragedia del movi­ mento operaio di Weimar . Il carattere ideologico della orga­ nizzazione comunista nei paesi europei, in Germania e Inghil­ terra in particolare, spiega in larga misura il loro carattere prima ancora che minoritario, non rappresentativo dei processi di composizione di classe . Questa critica coglie nodi fonda­ mentali, sui quali la storiografia non si era allora affatto fer­ mata, ma non risolve la questione che abbiamo fin qu i affrontato (e che « divide » Classe operaia) : qual è la forma del rapporto tra i livelli fondamentali che l'analisi ha rilevato : struttura della forza-lavoro, composizione, organizzazione? Il rapporto è fortemente strutturalistico : strutturale, cioè, « in senso forte » . Cosa significa? Che tale rapporto tende a rappre­ sentarsi come totalità, o, se si preferisce, e per indicare altre

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matrici di questo « operaismo » , mai neppure intraviste dai suoi critici, come Gestalt. La realtà dell'analisi della forza-la­ voro non deve essere assunta in senso « ingenuo » o « neutra­ le », poiché essa informa di sé il piano della composizione di classe - e COSI avviene nel rapporto tra quest 'ultimo e quello dell 'organizzazione . Ma questa operazione non è forse pensabile soltanto se vi agisce una tendenza « riduttivistica » in senso forte ? L'operazione è concepibile soltanto nella misura in cui siano definibili sia i dati elementari della stru ttura della forza­ lavoro che un loro rapporto « gestaltico » con le forme della composizione e dell'organizzazione . Ma la dimensione del « po­ litico » (implicata nel concetto di composizione) è riducibile in questa maglia? La dimensione del « politico » è deducibile dal rapporto capitale-lavoro ? A questo complesso esso deve essere ridotto, se l'organizzazione vuole rappresentare la realtà del conflitto, della contraddizione fondamentale . Tutto ciò che si presenta irriducibile a questo livello, funziona come « ideolo­ gia » - distorsione dell'« interesse » di classe che emerge dai rapporti diretti capitale-lavoro, che si realizza in un « punto di vista », che si elabora infine in una « teoria » o « scienza » . Questa impostazione ha due esiti possibili, nettamente con­ trapposti . Il primo mette in realtà in crisi l 'assetto teorico che abbiamo fin qui esaminato . La domanda centrale è: perché il problema dell 'organizzazione politica - della dimensione propriamente politica - si dimostra irraggiungibile a partire dall'analisi rigorosa del rapporto capitale-lavoro, delle sue « fi­ gure » centrali e della loro « composizione » ? La struttura della forza-lavoro non è definibile in un rapporto lineare con la com­ posizione . Il semplice non sempre è il sigillo del vero (come 1'« operaismo » è invece costretto ad affermare) . Vi è una « relativa autonomia » della composizione . E lo stesso « me­ todo » vale tra composizione e organizzazione. Ogni dimensione rivela elementi variabili irriducibili a rapporti « formali », a strutture onnideterminate . Su questi elementi si sposta sempre pili l'attenzione. Non si tratta (come accusò subito l'altro e contrapposto esito di Classe operaia) di « realismo oppor­ tunis tico », non è un arrendersi di fron te alla forza e all '« iner­ zia » di ciò che abbiamo definito « ideologia » - un suo « disperato riconoscimento ». La messa in crisi dell'ipotesi « strutturalista » deriva dal fatto che quella composizione di 51

classe, « condizione » del capitale, delle forme capitalistiche di comando, è irriducibile a linguaggio formalizzato . Il punto di vista del « superamento dialettico » tra forza-lavoro e classe operaia va criticato fino in fondo . Occorre studiare-analizzare le « differenze specifiche » che costituiscono questi diversi mo­ menti . Allora : il concetto di « composizione di classe » è poli­ tico, in quanto mai riducibile all'analisi della forza-lavoro. E l'organizzazione politica, a sua volta, va ridefinita su un terreno che ha una storia e uno spessore « relativamente autonomi » rispetto ai « linguaggi » precedenti. Se si vogliono ricomporre questi diversi livelli, essenziale è appunto coglierne le « diffe­ renze » - non disporle in modo da renderne a priori possibile un « superamento » dialettico. « Composizione di classe » è concetto politico non solo, al­ lora, perché riflette la struttura del rapporto capitale-lavoro dal punto di vista delle forme del conflitto di classe - ma perché è espressione della storia delle forme di organizzazione e lotta. La classe si « compone » intorno a figure, forme, obiettivi che parlano l 'interezza di questa storia, non i dati semplici della struttura determinata della forza-lavoro . Il discorso sul « po­ litico » viene con ciò enormemente complicato. La sua dimen­ sione non può piu essere trattata come « filtro » che trasmette o trattiene informazioni « originarie ». La sua dimensione co­ stituisce un problema incarnato nelle forme e negli obiettivi della lotta operaia. Questa lotta, il « suo punto di vista », parla anche questo problema specifico - come parla anche la situa­ zione determinata della struttura della forza-lavoro, del suo mercato, della sua organizzazione tecnica. « Composizione di classe » significa questi diversi linguaggi, ritrovati o ritrovabili nell 'unità storica (problematica sempre, sempre « revocabile ») delle lotte di classe operaia, irriducibili ad astratte unità. Com­ plicazione ulteriore : l'organizzazione politica della classe (e nelle sue differenze : come sindacato, come partito) : non piu terreno immediato di distorsioni e riflessioni, ma mediazione storicamente determinata tra dinamiche istituzionali-statuali e trasformazioni della composizione - mediazione che si riper­ cuote via via su tutti gli altri passaggi, che riplasma tutti i rapporti precedenti esattamente come ne viene formata e ri­ formata . E la misura di queste « reazioni » è il risultato di rapporti di forza, di lotta politica, mai decidibile a priori. 52

Tutto ciò viene indicato da un esito di Classe operaia come dimensione nuova di teoria e iniziativa politica . Dimensione affatto problem atica : poiché essa comporta ripensare le forme storiche dell'organizzazione operaia nella loro specifica e relativa « autonomia », ripensare la « mediazione » che esse operano come categoria centrale dell'iniziativa politica, del « politico », e dunque ripensare anche il primo termine di questa media­ zione - lo Stato, le forme di comando e di governo - in modi estranei alle matrici « classiche » del discorso operaista, che sono quelle di un violento appiattimento della forma-Stato alle coordinate del rapporto capitale-lavoro (coordinate mate­ rialistiche , piu ancora che strutturaliste) . Oppure l 'altro esito. La definizione di Tronti da cui siamo partiti vi viene assunta immediatamente. La contraddizione capitale-lavoro produce nuovi livelli di composizione di classe, ai quali parametrare l 'organizzazione rivoluzionaria . Organizza­ zione di questa composizione, e composizione di questa con­ traddizione. Da un lato, si nega qualsiasi « autonomia » delle fasi di composizione e organizzazione di classe rispetto alla fenomenologia dei nuovi « soggetti » ; dall'altra, si esalta 1'« au­ tonomia » della composizione e organizzazione rispetto ad ogni « tradizione » e organizzazione storica . La composizione e orga­ nizzazione di classe parlano immediatamente il linguaggio di quei nuovi « soggetti ». Tutto ciò che non è ad esso riducibile - o tutto ciò che in questo linguaggio non appare riducibile alla fenomenologia dei nuovi « soggetti » - va criticato-supe­ rato come « ideologia » o come punto di vista opposto al punto di vista di classe . In questo senso, tale linguaggio è perfetta­ mente « autonomo » . E in questo senso il concetto di « auto­ nomia » diviene centrale per l 'esperienza che, dall'interno delle contraddizioni di Classe operaia, conduce a La Classe prima e a Potere operaio, poi .

L'analisi rileva forme e strutture dell'organizzazione del lavoro, alle quali deve aderire la « mente » dei comportamenti e degli obiettivi di lotta - e ai « bisogni » (agli « interessi » si diceva) che questi esprimono deve aderire l 'organizzazione. Ciò che ostacola tale adaequatio mentis et rei è distorsione ideo­ logica, o « interesse » avversario. Il punto di vista operaio « autentico » parla, di per sé, esclusivamente - o parlerebbe, se « liberato » dall'inautenticità del suo dato organizzativo 53

il linguaggio della struttura della forza-lavoro e della compo­ sizione di classe che ne deriva . Esso è perciò autonomo. L'ini­ ziativa politica consiste nel rivelarne, nel « produrne », la so­ stanziale autonomia. Nella sua essenza (