Non mi ricordo niente 8841868759, 9788841868751

Nora ha un problema con la memoria. E non c'entra l'età. È una cosa che va avanti da quando aveva trent'a

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Italian Pages 160 [111] Year 2011

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Titolo pagina
Presentazione
Sommario
Non mi ricordo niente
Io TI CONOSCO
Giornalismo: UNA STORIA D'AMORE
LA LEGGENDA
La mia Aruba
La mia vita da ereditiera
Al cinema
Venticinque cose DI CUI INCREDIBILMENTE LA GENTE CONTINUA A STUPIRSI
Fatemelo dire: l'omelette bianca
Fatemelo dire: il Teflon
Fatemelo dire: NO, NON VOGLIO UN'ALTRA BOTTIGLIA di San Pellegrino
Fatemelo dire: IL MONDO NON È PIATTO
Fatemelo dire: IL BRODO DI POLLO
Pentimento
La mia vita da polpettone
Assuefazione
I SEI STADI DELL'E-MAIL
Flop
La cena di Natale
La parola con la D
La parola con la V
Non mi mancheranno
Mi mancheranno
Ringraziamenti
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Non mi ricordo niente
 8841868759, 9788841868751

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Nora Ephron

NON MI RICORDO NIENTE

Presentazione Nora ha un problema con la memoria. E non c’entra l’età. È una cosa che va avanti da quando aveva trent’anni. Ci sono le prove. I personaggi incontrati di cui non ricorda nulla: Eleanor Roosevelt, i Beatles, ma anche Peter Ustinov, Benny Goodman, Cary Grant (Cary Grant!). Che cosa dissero? Com’erano vestiti? Nessuna idea. Gli eventi, anche importanti, in cui lei era in prima fila e che tuttavia non hanno lasciato traccia: le manifestazioni a Washington contro la guerra in Vietnam, la sera alla Casa Bianca in cui Nixon diede le dimissioni, almeno un centinaio di partite dei Knicks e un’infinità di concerti rock, alcuni persino leggendari. Non è stata a Woodstock, ma che differenza fa? Tanto non se lo ricorderebbe. In questa deliziosa raccolta di saggi, ci sono però anche le cose di cui Nora si ricorda benissimo. Come si fece assumere da Newsweek a ventun anni. I tabù di sua madre («Non comprare mai un cappotto rosso»). Le telefonate di suo padre. Perché finì la sceneggiatura di Harry ti presento Sally, pur avendo pensato che non valesse nulla. Il tremolio delle luci di Manhattan. L’amore, l’amicizia e la perdita. La sua ricetta dei pancake alla ricotta. Ciò di cui farebbe volentieri a meno («Le e-mail», «I reggiseni», «I sondaggi attestanti che il trentadue per cento degli americani crede nel creazionismo») e quello di cui invece sentirà la mancanza («L’autunno», «Leggere a letto», «Ridere», «Il burro») quando avrà davvero dimenticato tutto il resto. Scrittrice, sceneggiatrice e regista, Nora Ephron vive a New York con il marito, Nicholas Pileggi. Ha firmato gli screenplay di Silkwood (1983), Heartburn Affari di cuore (1986), Harry ti presento Sally (1989) e Avviso di chiamata (1999) e diretto Insonnia d’amore (1993), C’èpost@ per te (1998) e Julie & Julia (2009), ottenendo tre nomination agli Oscar per la miglior sceneggiatura originale. E autrice di diversi libri, veri

best seller negli Stati Uniti, fra i quali sono stati tradotti in Italia Affari di cuore (1986) e Il collo mi fa impazzire. Tormenti e beatitudini dell’essere donna (2007). Tiene un blog su The Huffington Post.

Titolo originale dell’opera: I Remember Nothing And Other Reflections Traduzione dall’inglese: Katia Bagnoli Copyright © 2010 by Heartburn Enterprises, Inc. All rights reserved © 2011 De Agostini Libri S.p.A., Novara Redazione: corso della Vittoria 91, 28100 Novara Tutti i diritti sono riservati. Prima edizione maggio 2011 www.deagostini.it

Per Richard e Mona

Sommario Non mi ricordo niente Chi sei? Giornalismo: una storia d’amore La leggenda La mia Aruba La mia vita da ereditiera Al cinema Venticinque cose di cui incredibilmente la gente continua a stupirsi Fatemelo dire: l’omelette bianca Fatemelo dire: il Teflon Fatemelo dire: no, non voglio un’altra bottiglia di San Pellegrino Fatemelo dire: il mondo non è piatto Fatemelo dire: il brodo di pollo Pentimento La mia vita da polpettone Assuefazione I sei stadi dell’e-mail Flop La cena di Natale La parola con la D La parola con la V Non mi mancheranno Mi mancheranno Ringraziamenti

Non mi ricordo niente Sono anni che dimentico le cose, almeno da quando ne avevo trenta. Lo so perché ho già scritto sull’argomento. Ne ho le prove. Ovviamente non ricordo dove l’ho scritto, o quando, ma se fosse necessario credo che riuscirei a recuperarlo. Nei primi tempi mi sfuggivano le parole, i nomi delle persone, e facevo quello che si fa in questi casi: scorrevo un dizionario mentale cercando di rintracciare con quale lettera cominciava il nome, e da quante sillabe era composto. Alla fine la parola perduta veniva ripescata. Non mi chiedevo se queste défaillance fossero le avvisaglie di una malattia o della vecchiaia, o di una vera e propria senilità precoce. Ero convinta che quel che dimenticavo sarebbe tornato prima o poi. Un giorno entrai in un negozio per comprare un libro sull’Alzheimer e mi accorsi di non ricordarne il titolo. Mi sembrò una cosa buffa. E lo era, all’epoca. Ecco qualcosa che non sono mai riuscita a ricordare: il titolo di quel film con Jeremy Irons. Quello che parla di Claus von Bulow. Avete capito quale. Non sono mai riuscita a ricordare altro, se non che erano tre parole e che quella centrale era of. Per molti anni non me ne sono preoccupata, perché non c’era nessuno fra i miei conoscenti che l’avesse presente. Una sera ci ritrovammo in otto al cinema e nessuno lo ricordava. Durante l’intervallo uno del gruppo uscì per cercarlo su Google e poi ce lo disse, e tutti giurammo che non lo avremmo più dimenticato. Forse gli altri sette se lo ricordano, ma io sono tornata al punto di partenza, quando sapevo solo che era composto da tre parole e in mezzo c’era of. A proposito, quando alla fine scovammo il titolo quella sera, ci trovammo tutti d’accordo sul fatto che fosse brutto. Non c’era da stupirsi che non lo ricordassimo. Guarderò su Google. Torno subito…

Il titolo è Reversal of Fortune. Come si fa a ricordare un titolo simile? Non c’entra niente con la storia del film. Ma eccoci al problema: dimentico cose da anni, però ora le dimentico in un modo diverso. Un tempo credevo di poter recuperare l’elemento perduto, prima o poi, e di riuscire a imprimerlo nella memoria. Adesso so che non mi è possibile. Ciò che è andato è scomparso per sempre. E le cose nuove scivolano via. L’altra sera un tale mi ha riferito di avere un disturbo neurologico che gli impedisce di ricordare le facce. A volte si guarda allo specchio e non sa chi sia la persona riflessa. Non è mia intenzione sminuire la sofferenza di quest’uomo, e sono sicura che la sua è una malattia vera e propria con un lungo nome scritto tutto maiuscolo, però sono riuscita solo a pensare: benvenuto nel mio mondo. Un paio di anni fa l’attore Ryan O’Neal confessò che poco tempo prima gli era capitato di non riconoscere la figlia Tatum a un funerale e di averle fatto delle avance. Tutti lo avevano giudicato severamente per questo, eccetto la sottoscritta. Un mese prima, mentre ero in un centro commerciale di Las Vegas, avevo visto una bella signora venirmi incontro sorridendo, le braccia spalancate, e avevo pensato: chi è questa donna? Dove l’ho conosciuta? Poi lei mi aveva rivolto la parola e mi ero resa conto che era mia sorella Amy. Magari potreste dire: come poteva sapere che sua sorella si trovava a Las Vegas? Mi duole ammettere che non solo ne ero al corrente, ma che ci eravamo date appuntamento proprio in quel centro commerciale. Tutto ciò mi rende triste e malinconica, ma soprattutto mi fa sentire vecchia. Non ci sono solo i segni fisici. A volte mi ripeto. Uso l’espressione «Quand’ero giovane». Spesso non colgo una battuta, anche se fingo di averla capita. Se vado a teatro o al cinema a vedere lo stesso spettacolo per la seconda volta, è come se non lo avessi mai visto, anche se l’ho visto di recente.

Non ho idea di chi siano le persone sulle pagine di People. Per un po’ ho pensato che il mio disco fisso fosse pieno; ora mi vedo costretta a concludere che è vero l’opposto: il disco si sta svuotando. Non ho ancora raggiunto il nadir della vecchiaia, la Terra dell’Aneddoto, ma ci sono vicina. Lo so, lo so, avrei dovuto tenere un diario. Avrei dovuto conservare le lettere d’amore. Avrei dovuto affittare un deposito a Long Island per immagazzinare tutte le carte e i documenti che credevo di non aver più bisogno di rileggere. Non l’ho fatto. E talvolta mi tocca concludere che non mi ricordo più niente. Per esempio: ho incontrato Eleanor Roosevelt nel giugno del 1961, quando stavo per cominciare un praticantato alla Casa Bianca di Kennedy. Tutte le laureate di Wellesley/Vassar erano andate a Hyde Park a conoscere l’ex first lady. Ero al settimo cielo. A casa, nella taverna, avevamo una foto di lei insieme ai miei genitori, dietro le quinte di un teatro dove andava in scena una loro commedia. Mia madre aveva un fiore appuntato sul vestito e Eleanor portava una collana di perle. Era una foto che mi era sempre sembrata iconica, se uso l’aggettivo correttamente, cosa che farei per la prima volta. Eravamo una delle migliaia di famiglie (soprattutto ebree) che avevano una taverna e una fotografia di Eleanor Roosevelt appesa alla parete. Era uno dei miei idoli. Non riuscivo a credere che ci saremmo trovate nella stessa stanza. Quindi vi chiederete come sia andata, quel giorno a Hyde Park. Non ne ho idea. Non so più che cosa disse né cosa indossava; ho solo una vaga immagine mentale della stanza in cui ci ricevette, anche se mi pare che ci fossero dei tendaggi. Ecco che cosa ricordo invece: mentre andavo lì, mi ero persa. E da allora, ogni volta che sono sulla Taconic State Parkway, mi torna in mente di essermi persa su quella strada mentre andavo all’incontro con Eleanor Roosevelt. Ma di lei non ricordo niente.

Nel 1964 i Beatles vennero per la prima volta a New York. Io ero una reporter e mi mandarono all’aeroporto a fare un servizio sul loro arrivo. Era venerdì. Passai il fine settimana seguendoli ovunque. Domenica sera fecero la loro apparizione all’Ed Sullivan Show. Si può dire che quella sera ebbero inizio gli anni Sessanta, all’Ed Sullivan Show. Fu una serata storica. Io cero. Ero nello studio e guardavo. Ricordo com’erano insopportabili i fan - le ragazzine urlanti che si agitavano come ossesse. Ma i Beatles, com’erano? chiederete. Be’, lo state domandando alla persona sbagliata. In pratica, li sentivo a stento. Ho marciato su Washington per protestare contro la guerra in Vietnam. Era il 1967, e si trattava della più grande manifestazione del movimento pacifista. Decine di migliaia di persone. Ci andai con un avvocato con cui uscivo. Passammo quasi tutta la giornata in una stanza d’albergo a fare sesso. Non ne vado affatto fiera, lo racconto per spiegare perché in tutta onestà non ricordo niente della protesta, e neanche se sono riuscita ad arrivare al Pentagono. Credo di no, ma non scommetterei un centesimo né in un senso né nell’altro. Norman Mailer ha addirittura scritto un libro su quella marcia, Le armate della notte, che ha vinto il Pulitzer. Io non riesco a scrivere neanche due paragrafi sull’argomento. Se conosceste me e Norman Mailer e qualcuno vi chiedesse chi di noi era più fissato con il sesso, di sicuro rispondereste: Norman Mailer. E vi sbagliereste di grosso. Ecco alcune persone che ho conosciuto e di cui non ricordo niente: Il giudice della Corte Suprema Hugo Black Ethel Merman Jimmy Stewart Alger Hiss Il senatore Hubert Humphrey Cary Grant Benny Goodman Peter Ustinov Harry Kurnitz George Abbott Dorothy Parker Sono andata a vedere la partita di tennis fra Bobby Riggs e Billie Jean King, e da dove ero seduta io non si vedeva nulla. La notte in cui Nixon diede le dimissioni sono andata davanti alla Casa Bianca e l’unica cosa che ho da raccontare è che mi hanno rubato il borsellino.

Sono stata a molti concerti leggendari dove ho passato il tempo chiedendomi a che ora sarebbero finiti e dove avremmo mangiato dopo, e se il ristorante sarebbe stato ancora aperto e che cosa avrei ordinato. Sono andata a veder giocare i Knicks almeno cento volte e ricordo solo la sera in cui Reggie Miller segnò otto punti negli ultimi nove secondi. Sono andata a seguire la guerra del 1973 in Israele ma il mio analista mi ha proibito categoricamente di raggiungere il fronte. A Woodstock non c’ero, ma avrei anche potuto esserci, perché in ogni caso non me lo ricorderei. In un certo senso la mia vita è andata sprecata. In fondo, se non la ricordo io, chi altri potrebbe ricordarla? Il passato mi sfugge e il presente è un continuo affronto. Non ce la faccio a tenere il passo. Quand’ero più giovane riuscivo a superare la resistenza nei confronti delle novità. Dopo una breve fase di rifiuto, diventai un’adepta del robot da cucina. La tecnologia mi incuriosiva. La posta elettronica e i blog mi avevano conquistata… li trovavo romantici, ho fatto persino dei film sull’argomento, ma adesso credo che quasi ogni novità sia comparsa sulla Terra per mettere in difficoltà la mia memoria vacillante, e ho eretto un muro per proteggermi da quasi tutto. Dall’altra parte del muro ci sono parecchie cose che mandano segnali. Di solito li ignoro. Per molto tempo non ho saputo che differenza c’è fra sunniti e sciiti ma, a furia di udire quei segnali, sono stata costretta a impararla. Non posso fare a meno di chiedermi perché ci tenessi. Non mi bastava sapere che non vanno d’accordo? Oltretutto l’ho già dimenticata. In questo momento fra le cose di cui non voglio sapere nulla ci sono: Le ex repubbliche sovietiche La famiglia Kardashian Twitter Tutte le serie di Housewives, Survivors, American Idol e Bachelors Il fratello di Karzai Il calcio La rana pescatrice Jay-Z

Tutti i cocktail inventati dopo il Cosmopolitan Specialmente quello con le foglie di menta pestate. Avete capito quale. Adesso lo cerco su Google. Torno subito… Il Mojito. Vivo nell’era di Google, non c’è dubbio. E ci sono dei vantaggi. Se ti dimentichi una cosa, tiri fuori il tuo iPhone e vai su Google. Il Momento di Vuoto è diventato il momento di Google, e ha un suono più piacevole, fresco, giovane, più contemporaneo, non è vero? Nel rispettare i criteri del meccanismo di ricerca, riesci quasi a dimostrare che ce la fai a stare al passo, ti puoi illudere che nessuno di quelli seduti intorno al tavolo pensi che sei decrepita. E scovare il tassello mancante è questione di un attimo. Sparito l’incubo del Momento di Vuoto - la lunga ricerca della risposta, il tirare a indovinare, l’autorecriminazione, l’incertezza, la pacca sulla fronte, lo schiocco di dita frustrato. Vai su Google e lo recuperi. Non puoi recuperare la tua vita (a meno che tu sia su Wikipedia, nel qual caso potrai recuperarne una versione inesatta). Però puoi recuperare il nome di quell’attore in quel film sulla Seconda Guerra Mondiale. E il nome dell’autrice di quel libro che parla della sua storia con quel pittore. O il titolo di quella canzone cantata da quel cantante, che parla d’amore. Avete capito quale.

Io TI CONOSCO Io ti conosco. Ti conosco bene. È così. Ho sempre avuto qualche problema con il tuo nome, ma so come ti chiami. È che in questo momento non mi viene in mente. Siamo a una grande festa. Ci siamo salutati con un bacio. Abbiamo conversato piacevolmente sul fatto di essere rimaste le uniche due persone sulla faccia della Terra che non si baciano su tutt’e due le guance. Ora parliamo di quanto sembrano falsi quelli che si baciano su tutt’e due le guance. Ah ah ah ah ah ah. Sei molto simpatico. Se solo riuscissi a ricordarmi come ti chiami! È imperdonabile. Sei stato a cena da me. Ho provato a leggere il tuo ultimo libro. So come si chiama la tua fidanzata. Quasi. Qualcosa come Chanelle. Non proprio. Chantelle? Nemmeno. Per fortuna non è qui, quindi non ho dimenticato entrambi i vostri nomi. Comincio a disperarmi. Una cosa tipo Larry? E Larry? No. Jerry? No. Però finisce con la Y. Il tuo cognome ha tre sillabe. Comincia con la c o comincia con la G? Mi gira la testa. Ma avviene un miracolo: il padrone di casa propone un brindisi all’ospite d’onore. Grazie al cielo posso rifugiarmi al bar. Ci CONOSCIAMO? Ci conosciamo? Penso di sì, ma non ne sono sicura. Ci hanno presentati, ma non ho sentito bene il nome, perché la festa è molto rumorosa. Voglio presumere che ci conosciamo e perciò non dirò: «Piacere di conoscerla». So cosa succede se dico: «Piacere di conoscerla». Dirai: «Ci conosciamo già». E lo dirai con un tono un po’ aggressivo, irritato. E siccome non mi dirai come ti chiami, non avrei modo di cavarmela. Perciò non dirò: «Piacere di conoscerla». Dirò : «Come va?». E sorriderò radiosa. Non sembrerò disperata. Intanto penserò: «Dimmi come ti chiami,

ti prego. Per favore, per favore. Dammi un indizio. E probabile che arrivi mio marito e allora ti dovrò presentare e non potrò farlo e tu capirai che non ho idea di chi tu sia anche se magari abbiamo passato un fine settimana insieme in barca nel 1984. Con mio marito ho concordato un segnale segreto che consiste nel dargli un pizzicotto sul braccio. Il segnale significa: «Presentati a questa persona, perché non so con chi sto parlando». Però mio marito se ne dimentica regolarmente e non posso fare affidamento su una sua risposta ai miei pizzicotti, neanche quando gli lasciano un livido. Vorrei sgridarlo per essere così smemorato, ma non sono nella posizione di farlo, perché io per prima ho dimenticato (ammesso che l’abbia mai saputo) il nome della persona con cui sto parlando. Vecchie amiche Vecchie amiche? Direi di sì. Sei molto contenta di vedermi. E io sono contenta di vedere te. Ma chi sei? Oh mio Dio, sei Ellen. Non ci posso credere. Ellen. «Ellen! Come stai? È da… da quant’è che non ci vediamo?». Vorrei suggerire che se non ti ho riconosciuta subito è stato perché hai cambiato pettinatura, ma non hai fatto niente ai capelli, niente che possa giustificare il fatto di essere diventata irriconoscibile. Quello che è successo è che sei invecchiata. Non ci credo. Avevamo la stessa età e adesso sei molto, molto più vecchia di me. Sembri mia madre. A meno che, è ovvio, io non sembri altrettanto vecchia senza saperlo. Il che non è possibile. Oppure sì? Mi guardo intorno e noto che tutte hanno un’aria familiare - e quando cerco di capire chi sono, scopro che mi ricordano una loro versione precedente, una versione più magra o più sana o pre-chirurgia estetica o più alta. Se questo è vero per le altre, dev’essere vero anche per me. Giusto? Non importa, tu stai parlando. «Maggie,» mi dici «è un secolo che non ci vediamo». «Non sono Maggie» dico io. «Oh mio Dio,» dici «sei tu. Non ti ho riconosciuta. Che cos’hai fatto ai capelli?».

Giornalismo: UNA STORIA D’AMORE Quel che ricordo è che durante il primo anno di liceo avevano organizzato una giornata dedicata al mondo del lavoro, e noi dovevamo indicare una professione su cui volevamo avere informazioni. Io avevo scelto il giornalismo. Non so perché. Sarà stato per via di Lois Lane, e anche perché un Natale mi avevano regalato un bellissimo libro intitolato: Treasury of Great Reporting. La giornalista che venne da noi quel giorno era una cronista sportiva del Los Angeles Times. Era molto affascinante, e durante il suo discorso accennò al fatto che nei giornali lavoravano pochissime donne. Ascoltandola, capii di colpo che desideravo con tutta me stessa fare la giornalista e che probabilmente era un buon sistema per conoscere degli uomini. Quindi non saprei dire che cosa sia venuto prima, se il desiderio di fare la giornalista o quello di fidanzarmi con un giornalista. Erano inscindibili. Durante il liceo e l’università lavorai al giornale della scuola, e una settimana prima di laurearmi a Wellesley, nel 1962, trovai un lavoro a New York. Ero andata in un’agenzia di collocamento sulla Quarantaduesima Ovest e avevo detto all’impiegata che volevo fare la giornalista. Lei aveva chiesto: «Le piacerebbe lavorare per Newsweek?» e io avevo risposto di sì. Mi aveva fissato un appuntamento e mi aveva mandata subito alla sede della rivista, al 444 di Madison Avenue. L’uomo che mi fece il colloquio mi chiese per quale motivo volessi lavorare da loro. Forse si aspettava che dicessi qualcosa tipo: «Perché è una rivista molto importante», ma io non avevo alcuna opinione in merito. Avevo a malapena letto Newsweek -, in quel periodo era Time ad andare per la maggiore. Risposi che era perché speravo di diventare una giornalista. Il mio interlocutore si

premurò di assicurarmi che le donne che lavoravano lì non diventavano giornaliste. Non mi sarebbe mai venuto in mente di obiettare, o di dire: «Vedrà che sul mio conto si sbaglia». All’epoca si dava per scontato che, se eri una donna e volevi fare determinate cose, dovevi per forza essere l’eccezione alla regola. Venni assunta come ragazza della posta, per cinquantacinque dollari a settimana. Avevo trovato un appartamento al 110 di Sullivan Street con una compagna dell’università. Era un brutto edificio di mattoni bianchi, appena costruito, fra la Spring e la Prince. L’affitto costava centosessanta dollari al mese e i primi due mesi erano gratuiti. L’agente immobiliare ci disse che il South Village era un quartiere emergente e che presto sarebbe stato richiestissimo. La sua previsione non si avverò prima di altri vent’anni, quando l’area prese il nome di SoHo e io me ne ero già andata da un pezzo. Comunque il giorno della cerimonia di laurea noleggiai un’auto, ci caricai tutti i miei averi e partii per New York. Mi persi solo una volta… non sapevo che non si doveva prendere il George Washington Bridge per arrivare a Manhattan. Ricordo il mio terrore nel rendermi conto che così sarei finita nel New Jersey e che forse non avrei più avuto modo di fare inversione; avrei guidato verso sud all’infinito e non avrei mai raggiunto la città in cui avevo sognato di vivere fin da quando avevo cinque anni e i miei genitori mi avevano scriteriatamente costretta a trasferirmi in California. Quando finalmente arrivai in Sullivan Street scoprii che c’era la festa di sant’Antonio. Parcheggiare nell’isolato era impossibile e davanti a casa mia stavano friggendo le zeppole. Non avevo mai sentito parlare delle zeppole. Ero euforica e pensavo che la festa sarebbe continuata per mesi e che avrei potuto mangiare tutto lo zucchero filato che volevo. Invece la settimana dopo era già finita. A Newsweek non c’erano ragazzi della posta, soltanto ragazze. Se eri una laureata (come me) che aveva collaborato al giornale dell’università (come me), ti assumevano come ragazza della posta. Se eri un ragazzo (come io non ero) con le

stesse qualifiche, ti assumevano come cronista e ti mandavano in una redazione locale. Era ingiusto, ma era il 1962 e così andava il mondo. Le mie mansioni non avrebbero potuto essere più prosaiche: le ragazze della posta smistavano la posta. Stiamo parlando di molto tempo fa, quando la mole di corrispondenza era spaventosa e arrivava a sacchi da mattina a sera. Però io non ero soltanto una ragazza della posta, ero anche la ragazza di Elliott, nel senso che il venerdì sera restavo in redazione fino a tardi per portare gli articoli dei giornalisti ai capiservizio, uno dei quali si chiamava Osborn Elliott. A volte il venerdì facevamo le tre, e l’indomani si doveva tornare al lavoro molto presto, quando chiudevano le pagine di politica interna ed estera. Era eccitante in un modo autoreferenziale, il che è l’essenza stessa del giornalismo. Finisci per credere sinceramente di essere al centro dell’universo e che il mondo lì fuori attenda con impazienza il prossimo numero del tuo giornale. In una zona delimitata da vetri vicino all’atrio c’erano le telescriventi, e toccava a me prendere i telex, perché di solito arrivavano dai corrispondenti e andavano consegnati ai giornalisti e ai capiservizio. Una sera ne arrivò uno che parlava di Philip Graham, il proprietario di Newsweek. Lo avevo visto alcune volte, un bell’uomo, alto, cui le fotografie non rendevano giustizia quanto a fascino e mascolinità. Faceva il giro della redazione lanciando battute a voce alta con un sorriso smagliante. Era in una fase maniacale della sua psicosi maniaco-depressiva, ma questo non lo sapeva nessuno, nessuno sapeva nemmeno che cosa fosse la psicosi maniacodepressiva. Graham aveva sposato Katharine Meyer, la cui famiglia possedeva il Washington Post, e adesso lui dirigeva il Post e l’impero editoriale che controllava Newsweek. Secondo quanto diceva il telex, Graham era nel bel mezzo di un esaurimento nervoso e non faceva nulla per nascondere la sua relazione con una ragazza che lavorava per la rivista. In non so quale occasione ufficiale, aveva tenuto un

comportamento disdicevole e aveva usato più volte la parola «cazzo». A quei tempi era grave. Questa è una delle cose che mi fanno diventare matta quando vedo un film ambientato negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta: c’è sempre qualcuno che dice «cazzo» e «vaffanculo». Credetemi: nessuno imprecava come si usa fare oggi. Vi dico un’altra cosa: nessuno beveva vino, in quegli anni. Neanche si sapeva cosa fosse, il vino. O meglio, qualcuno senz’altro lo avrà saputo, ma di solito a cena si bevevano superalcolici. Poco tempo fa ho visto un film in cui si mangiava pizza da asporto nel 1948 e non ci ho visto più. Nel 1948 la pizza da asporto non esisteva. Quasi non esisteva la pizza, e non esisteva neanche l’idea del cibo d’asporto. Queste sono alcune delle cose che so, cose perfettamente inutili che occupano troppo spazio nel mio cervello. Del crollo nervoso di Philip Graham - conclusosi con il suo suicidio - i redattori parlavano continuamente sottovoce e siccome io leggevo tutti i telex e captavo tutto, persino i sussurri, ne fui affascinata. Avevamo un archivio di ritagli che servivano per le ricerche; gli archivi erano uno dei grandi piaceri del giornalismo. Ci andavo, prendevo gli articoli che parlavano di Graham e li leggevo fra un’incombenza e l’altra. Mi aveva colpito la storia di quest’uomo straordinariamente attraente e della ragazza ricca che aveva sposato. Anni dopo lessi le loro lettere nella biografia di Kay Graham e capii che si erano amati, ma quando spulciavo i ritagli non l’avrei mai immaginato. Ne emergeva il ritratto di un giovanotto ambizioso che aveva pensato bene di sposare la figlia di un milionario. E adesso il matrimonio stava andando a rotoli sotto i miei occhi. Era terribile e drammatico, e alleviava la noia e la frustrazione del mio lavoro. Dopo qualche mese, fui promossa al livello successivo degli impieghi riservati alle signorine di Newsweek. Mi misero alla rassegna stampa. In pratica significava ritagliare gli articoli di tutti i giornali del Paese. Ci sedevamo al cosiddetto tavolo dei ritagli, armate di taglierina e matite grasse, ritagliavamo i giornali e li facevamo avere alle

redazioni di competenza. Se per esempio qualcuno usava una nuova cura per il cancro a St. Louis, mandavamo il ritaglio alla sezione di medicina. Era un lavoro tremendo nel quale, come se non bastasse, ero molto brava. Comunque qualcosa imparai: ebbi modo di conoscere tutte le principali testate d’America. Sono sicura che la cosa mi è servita, anche se non saprei dire in che modo. Anni dopo, quando ebbi una relazione con uno che aveva una rubrica sul Philadelphia Inquirer, se non altro sapevo che tipo di giornale fosse. Tre mesi più tardi fui promossa di nuovo, questa volta al livello più alto: divenni una ricercatrice. “Ricercatrice” era una parola elegante - e fantasiosa - per “verificatrice dei fatti”, termine che descriveva meglio il mio compito. Lavoravo per la redazione di politica interna. Ero felicissima. Non era male, per una che si era laureata da appena sei mesi, e proprio in Scienze Politiche: mi occupavo di un campo del quale sapevo qualcosa. Nella redazione c’erano sei giornalisti e sei ricercatrici e lavoravamo da martedì a sabato sera, quando chiudevamo la rivista. Per quasi tutta la settimana non facevamo niente. I giornalisti aspettavano che arrivassero i pezzi dai corrispondenti delle varie sedi, cosa che non succedeva fino a giovedì o venerdì. Poi il venerdì pomeriggio scrivevano tutti e infine affidavano gli articoli a noi. Svolgevamo i controlli utilizzando il materiale di consultazione che avevamo a disposizione; di tanto in tanto facevamo una telefonata o qualche piccola indagine. I giornalisti delle riviste di quei tempi usavano spesso l’espressione “tk”, che stava per “to come”, a seguire, quindi scrivevano frasi tipo: «Il lampadario della Camera dei Rappresentanti ha tk lampadine» e parte del mio lavoro consisteva nello scoprire il numero esatto di lampadine. Queste notiziole, dettagli insignificanti più che fatti veri e propri, erano una caratteristica delle riviste, ciò che le distingueva dai quotidiani; uno stile che raggiunse l’apoteosi con Theodore H. White, ex giornalista del Time, che scrisse una serie di libri, intitolati The Makingof thè President, pieni di informazioni su particolari come la minestra preferita dal

presidente Kennedy (zuppa di pomodoro con un cucchiaio di panna acida). Di conseguenza, la mangiai per anni. Quando eri sicura di aver verificato scrupolosamente i fatti, sottolineavi la frase. Il controllo di un articolo poteva essere considerato concluso se ogni parola era sottolineata. Un martedì mattina, appena arrivammo in redazione, scoppiò la crisi. In uno dei servizi di politica interna dell’ultimo numero c’era un errore: il nome di Konrad Adenauer era stato scritto con la C, anziché con la K. La responsabilità non ricadde né sull’autore del servizio (un uomo) né sui redattori (uomini) o sui capiservizio (uomini) che avevano passato il pezzo, bensì sui due ricercatori (donne) che avevano fatto i controlli. Le accusate ora stavano discutendo su chi di loro avesse sottolineato il nome Conrad. «Questa sottolineatura non è mia» diceva una delle due. Con il senno di poi, naturalmente, ho capito che il sessismo, a Newsweek, aveva una funzione ben precisa. Per ogni uomo, c’era una donna con una mansione inferiore. Per ogni giornalista maschio, un’ombra femminile. Per ogni sfavillante inventore di un dettaglio insignificantema-ignoto, una giovane sgobbona sulla quale si poteva contare per verificarlo. Per ogni responsabile che sbagliava, una sottoposta da mettere in croce. Ma ero troppo inesperta per rendermene conto, e inoltre cominciavo a intuire che, con ogni probabilità, lì dentro non sarei mai diventata una giornalista. E, se anche ci fossi riuscita, non ho alcuna ragione di ritenere che sarei stata brava. Il famoso sciopero dei quotidiani di centoquattordici giorni (più una serrata che uno sciopero) cominciò nel dicembre del 1962, e un effetto collaterale fu che molti giornalisti, non potendo lavorare, vennero a scrivere da noi, temporaneamente. Fra loro c’era Charles Portis, cronista del New York Herald Tribune, con cui uscii per qualche tempo, anche se questo non è importante (pur non essendo privo di importanza). Ciò che importa è che Charlie, penna straordinaria dallo stile inconfondibile (in seguito scrisse alcuni romanzi, fra cui Un vero uomo per Mattie Ross), non se la cavava troppo bene

con gli articoli aridi, impersonali, dalla lunghezza prestabilita e non firmati che uscivano su Newsweek. Nel frattempo ero diventata amica di Victor Navasky, che pubblicava una rivista satirica, Monocle, e sembrava conoscere tutti. Conosceva persone importanti e conosceva persone che riusciva a far sembrare importanti per il semplice fatto di conoscerle. Monocle usciva saltuariamente, però dava un sacco di feste dove conobbi persone che sarebbero rimaste mie amiche per sempre, come la moglie di Victor, Annie, Calvin Trillin e John Gregory Dunne. Victor mi presentò anche Jane Green, una redattrice della Condé Nast. Era più vecchia di me - aveva venticinque anni - molto elegante e sofisticata, e molto ben introdotta pure lei. Mi fece conoscere l’omelette, il brie e il vitello tonnato. Usava la parola “pittoricista” e cercò di spiegarmene il significato. Mi chiese che specie di ebrea fossi quando ancora ignoravo che esistessero diversi tipi di ebrei. Jane era un’ebrea tedesca, non perché veniva dalla Germania ma perché i suoi nonni erano nati lì. Ne era estremamente compiaciuta. Non avevo mai sospettato che potesse avere importanza (e non ne aveva, in realtà; quei tempi erano passati). Potrei andare avanti all’infinito a elencare tutte le cose che imparai da Jane. Mi parlò di de Kooning e mi portò al Musem of Modern Art a vedere la pop art e la op art. Mi spiegò le differenze tra Le Corbusier e Mies van der Rohe. Aveva frequentato un certo numero di giornalisti e scrittori celebri e, tramite lei, venni a conoscenza, ancora prima di incontrarli, di molti dettagli intimi sul loro conto. Alla fine, con uno di questi, ci andai a letto, e ciò segnò la fine della mia amicizia con Jane, ma sto correndo troppo. Un giorno, a un mese dall’inizio della serrata dei quotidiani, Victor mi chiamò per dirmi che era riuscito a trovare diecimila dollari per pubblicare alcune parodie dei giornali newyorkesi e mi chiese se volevo scrivere la parodia della rubrica mondana di Léonard Lyons sul New York Post. Risposi di sì, pur non avendo idea di come fare. Avevo conosciuto Lyons - di sera andava da Sardi’s, dove i miei genitori cenavano spesso quando erano a New York - ma non avevo mai prestato molta

attenzione alla sua rubrica. Telefonai alla mia amica Marcia, che poco tempo prima aveva portato a spasso i cani del figlio di Lyons, e le chiesi lumi. Mi spiegò che la rubrica di Lyons era una serie di aneddoti senza capo né coda. Andai nell’archivio di Newsweek, lessi le rubriche di alcuni numeri e poi ne scrissi una parodia. Le parodie sono una cosa singolare. In tutta la vita non ne ho scritte più di cinque o sei; ti assalgono come un vento impetuoso e le scrivi come se fossi posseduta. È la cosa più vicina alla recitazione che possa capitare a un giornalista… per un po’ ti cali in un personaggio, e poi la rappresentazione finisce. I giornali di Victor - il New York Pest e il Daily News arrivavano in edicola ma non vendevano. La parodia non veniva capita - era molto prima di National Lampoon e The Onion - e quasi tutte le copie tornavano al distributore come rese. Però gli addetti ai lavori li leggevano. Erano spassosi. I redattori del Post avrebbero voluto portarci in tribunale, ma l’editore, Dorothy Schiff, disse: «Non siate ridicoli. Se possono parodiare il Post possono anche scrivere per noi. Assumeteli». E così chiamarono Victor, e Victor chiamò me per chiedermi se volevo provare a lavorare al Post. Certo che volevo. Alcuni giorni dopo andai nei loro uffici su West Street. Era una gelida giornata di febbraio e mi persi cercando l’ingresso dell’edificio, che in realtà si trovava su Washington Street. Presi l’ascensore fino al secondo piano, percorsi un lungo corridoio buio e arrivai nella redazione delle pagine newyorkesi. Pensai di aver sbagliato piano. Era uno stanzone polveroso con le finestre sporche affacciate sull’Hudson, dalle quali non si vedeva niente. Nella penombra invernale tre o quattro redattori erano seduti alle scrivanie. Mi offrirono un servizio di prova per quando fosse finita la serrata. C’erano sette quotidiani a New York, e il Post era il meno importante, dal punto di vista della diffusione. Era sempre stato un giornale liberal, che aveva avuto i suoi giorni di gloria sotto la direzione di James Wechsler, ma

quell’epoca era tramontata ormai. Tuttavia contava ancora su una solida base di lettori fedeli. Dopo sette settimane di serrata, Dorothy Schiff lasciò la Publishers Association e riaprì il giornale, e io presi due settimane di congedo da Newsweek per cominciare il mio periodo di prova. Mi ero preparata studiando il giornale ma, soprattutto, ero stata imbeccata da Jane, che ci aveva lavorato per un breve periodo. Mi spiegò tutto quello che c’era da sapere. Che il Post era un giornale del pomeriggio e che i suoi articoli venivano chiamati “notturni”, e che non andavano confusi con le notizie pubblicate dai quotidiani del mattino. Erano servizi di varia attualità, e costituivano la ragione per cui qualcuno comprava un quotidiano della sera oltre a quello del mattino. In un giornale come quello non valeva la formula “Chi, Che cosa, Come, Quando, Dove e Perché”. Jane mi disse anche che, all’assegnazione di un incarico, non avrei mai dovuto dire: «Non capisco», né tantomeno: «Dove si trova esattamente?» o «Come faccio a mettermi in contatto con la tal persona?». Torna alla tua scrivania, mi disse, e cerca da sola la soluzione. Consulta i ritagli dell’archivio. Cerca nell’elenco del telefono. Apri le Pagine Gialle. Chiama gli amici. Qualsiasi cosa, ma non chiedere mai al tuo caposervizio che cosa devi fare o come ci puoi arrivare. Mi presentai per la prova aspettandomi che la redazione delle pagine cittadine fosse diversa da come l’avevo vista in quella buia giornata d’inverno, invece non era cambiato niente, c’era solo un po’ più di luce. Era una reliquia del passato, il set di un quotidiano degli anni Trenta. Le scrivanie erano vecchie, le sedie rotte. Fumavano tutti, ma non c’erano portacenere; le sigarette appoggiate sul bordo dei tavoli bruciavano il legno lasciando macchie scure. Dato che le scrivanie non bastavano per tutti, nessuno ne aveva una propria, a meno che non lavorasse li da vent’anni. Non avevi nemmeno un cassetto a tua disposizione, e ti dovevi conquistare un posto come nel gioco delle sedie musicali. Le finestre non venivano mai pulite. Le porte della redazione avevano vetri smerigliati coperti da uno strato di

polvere, e qualcuno ci aveva scritto “lavami” con un dito. Non me ne poteva importare di meno. Per metà della mia vita avevo sperato di scrivere per un quotidiano e ora era arrivata la mia occasione. Durante la prima settimana firmai quattro articoli. Intervistai l’attrice Tippi Hedren, andai all’acquario di Coney Island per scrivere di due foche crestate che non volevano saperne di accoppiarsi. Intervistai Nanni Loy, un regista italiano. Mi occupai di un omicidio avvenuto sulla Ottantaduesima Ovest. Venerdì pomeriggio mi proposero un posto in redazione. Uno dei giornalisti mi offrì da bere in un bar lì vicino che si chiamava Front Page, prima pagina. Non scherzo, si chiamava proprio così. Più tardi prendemmo un taxi e passammo davanti al Newsweek Building su Madison Avenue. Guardai in su verso l’undicesimo piano, dove scintillavano le luci, e pensai: Lassù stanno chiudendo il numero della settimana prossima e a nessuno gliene frega niente. Fu una rivelazione sconvolgente. Amavo il Post. Ovviamente era uno zoo. Il direttore era un maniaco sessuale. Il caporedattore era un pazzo. Certi giorni pareva che metà dei giornalisti fossero sbronzi. Ma io amavo il mio lavoro. Il primo anno imparai a scrivere, attività di cui non conoscevo nemmeno i rudimenti. Redattori e capiservizio mi guidarono. Mi svezzarono. Mi assegnarono pezzi brevi, all’inizio, poi più lunghi, poi serie da cinque. Imparavo sul campo e dopo qualche tempo acquisii un senso istintivo della struttura. C’era un redattore brillante, Fred McMorrow, che veniva da me con il mio articolo corretto e mi spiegava il perché dei suoi interventi. Mai cominciare un pezzo con una citazione, diceva. Non usare mai altro verbo che “disse”. Mai mettere qualcosa a cui tieni molto nell’ultimo paragrafo, perché verrà sicuramente tagliato per ragioni di spazio. Joe Rabinovich, geniale caposervizio, frenava i miei occasionali eccessi stilistici e mi salvò da una pessima figura quando Tom Wolfe cominciò a scrivere per l’Herald Tribune e io feci il patetico tentativo di imitarlo. Stan Opotowsky, il vicedirettore, mi assegnò parecchi incarichi originali. Scrissi delle ondate di caldo e delle ondate di gelo; feci servizi sui

Beatles e Bobby Kennedy e sul furto dello zaffiro Star of India. Lo staff del Post era ridotto all’osso, però c’erano più donne di quante se ne sarebbero potute trovare in tutti gli altri quotidiani di New York messi insieme. La più grande fra i rewrite men del Post era una donna, Helen Dudar. Ciao, tesoro, fammi vedere il pezzo. Allora il Post usciva con sei edizioni al giorno, a partire dalle undici del mattino per finire alle quattro e mezza del pomeriggio con la chiusura della Borsa. Se c’era una notizia, i cronisti chiamavano da un telefono pubblico e dettavano i particolari ai redattori interni che mettevano insieme l’articolo. La redazione delle pagine cittadine era adiacente al locale dei tipografi e tutti quei rumori - i giornalisti che battevano sui tasti delle macchine per scrivere, le linotype, le telescriventi e le stampatrici - incarnavano il fascino, l’idea stessa di giornalismo. Rimasi al Post cinque anni, poi cominciai a scrivere per le riviste. Credevo nel giornalismo. Credevo nella verità. Credevo che, quando qualcuno sosteneva di essere stato travisato, in realtà esprimeva soltanto il disagio di vedere le proprie parole messe nero su bianco. Credevo che, quando gli attivisti politici accusavano i media di cospirare contro di loro, non avessero idea del fatto che nell’ambiente erano quasi tutti troppo inetti per poter ordire complotti. Credevo che il giornalismo fosse la mia vocazione perché ero cinica e distaccata. A volte ammettevo che si trattava di difetti, però non lo pensavo davvero. Sposai un giornalista e non funzionò. Poi ne ho sposato un altro ed è andata bene. Ora so che la verità non esiste, che le persone vengono fraintese di continuo. Che i media pullulano di cospiratori (e che, in ogni caso, l’inettitudine è una forma di cospirazione). Che il distacco emotivo e il cinismo ti aiutano solo fino a un certo punto. Ma per molti anni sono stata innamorata del giornalismo. Amavo la redazione della cronaca locale, amavo il branco. Fumare e bere whisky e giocare a poker. Non sapevo niente di

niente, e facevo un mestiere in cui non era richiesto sapere. Amavo la velocità. Le scadenze da rispettare. Il fatto che, alla fine, con il giornale ci incartavi il pesce. Una cosa simile non la si può inventare, ripetevo. Sapevo fin da piccola che sarei andata a vivere a New York, presto o tardi, e che il periodo precedente sarebbe stato soltanto un intermezzo. Per molti anni New York era stata l’oggetto delle mie fantasie. Pensavo che fosse il luogo più eccitante, magico e traboccante di possibilità in cui si potesse vivere, un luogo dove se volevi veramente qualcosa non era impossibile ottenerla, un luogo dove sarei stata circondata da persone che volevo assolutamente conoscere, dove sarei riuscita a diventare l’unica cosa che valesse la pena di essere, una giornalista. E il tempo ha dimostrato che avevo ragione.

LA LEGGENDA Sono cresciuta a Beverly Hills, in una casa in stile spagnolo, nella zona pianeggiante. I miei genitori avevano moltissimi amici, quasi tutti newyorkesi trapiantati che lavoravano nel settore. Lo chiamavano così, “il settore” (quelli che non erano nel settore venivano definiti “i civili”). Gli uomini scrivevano per il cinema o per la televisione. Le mogli non facevano niente: erano casalinghe, come si suol dire, però nessuna di loro faceva i lavori di casa, perché tutte avevano cuoche e cameriere e lavandaie. Anche nostra madre aveva un aiuto domestico, però lei era diversa, perché lavorava. «Di’ che tua madre non potrà essere presente perché deve lavorare». Pronunciava quella frase diverse volte all’anno: serviva a esentarla dai colloqui con gli insegnanti e da altre seccature, ma anche a farci capire che lei era un gradino al di sopra delle altre madri. Era un gradino al di sopra anche delle altre donne in carriera: alcune lavoravano nel settore, come la costumista Edith Head, con cui mia madre una volta mi portò a pranzo, ma nessuna aveva una carriera e anche dei figli. Mia madre sì. Inoltre serviva piatti squisiti, un altro modo per ribadire il concetto. E riusciva a non far scappare le cameriere. E vestiva con gusto. L’idea della donna che può avere tutto era di là da venire, eppure mia madre aveva tutto. E poi rovinò la storia diventando un’ubriacona fuori di testa. Ma questo sarebbe accaduto molto tempo dopo. Ogni giorno, appena i miei genitori tornavano dal lavoro, ci ritrovavamo tutti insieme nella taverna. Loro bevevano l’aperitivo e per noi cerano le crudités, ma non si chiamavano crudités a quel tempo, si chiamavano semplicemente sedano e carote. Poi si cenava in sala da pranzo. I piatti erano caldi, e le palline di burro erano fatte con una spatolina di legno. C’erano l’antipasto, la portata principale e il dolce. Eravamo convinti che tutti vivessero come noi.

Alla nostra tavola si parlava di politica e dei libri che stavamo leggendo. Ci raccontavamo gli episodi divertenti accaduti a scuola quel giorno. Giocavamo con le sciarade. Mia madre, che aveva fatto l’istruttrice nei campi estivi, guidava i cori. Cantavamo Under thè spreading chestnut tree allargando le braccia e battendoci il petto. Oppure The bells they all go tingalingaling e facevamo tintinnare i cucchiai contro i bicchieri. Imparavamo a credere in Lucy Stone, nel New Deal, in Norman Thomas e Edward R. Murrow. Ci insegnavano che le religioni istituzionali erano la radice di ogni male e che Adlai Stevenson era Dio. Venivamo indottrinate con le regole materne: Mai comprare un cappotto rosso. Se si mangia carne rossa i capelli non diventano grigi. Ti puoi alzare da tavola ma sarebbe meglio di no. Il bustino indebolisce i muscoli addominali. Fine e mezzi sono la stessa cosa. E cerano le storie che hanno accompagnato la nostra infanzia. Come mamma e papà si erano incontrati e innamorati. La storia di loro due che fuggivano dal campo estivo dove lavoravano per andare a sposarsi e poter dormire nella stessa tenda. La storia di Minnie, zia di mia madre, che era stata la prima donna dentista al mondo. E infine - ed è qui che volevo arrivare - la storia di quella volta che mia madre buttò fuori di casa Lillian Ross. Una leggenda, più che una storia. A quanto pare Lillian Ross era venuta a una festa dei miei genitori, i quali più o meno una volta all’anno organizzavano una cena per una quarantina di ospiti, prendendo a nolo tavoli e sedie da Abbey Rents. Servivano i manicaretti preparati dalla domestica che lavorava per loro da molto tempo e mia madre sfoggiava un abito di Galanos comprato per l’occasione. Venivano invitati tutti gli amici: Julius J. Epstein (Casablanca), Richard Maibaum (Il tempo si èfermato, e in seguito i film di James Bond), Richard Breen (La retata), Charles Brackett (Ninotchka, Viale del tramonto) e Albert

Hackett con sua moglie, Frances Goodrich, i più quotati (L’uomo ombra, Sette spose per sette fratelli, La vita è meravigliosa, Il diario di Anna Frank). Io mi sporgevo dalla balaustra del piano di sopra e guardavo la festa, ascoltando Herbie Baker (Gangster cerca moglie) suonare il pianoforte dopo cena. Una sera intravidi Shelley Winters, che stava con Liam O’Brien (Tu sei il mio destino), e un’altra volta fecero la loro comparsa Marge e Gower Champion. Questo fu il nostro massimo di divismo. Una sera fu invitato St. Clair McKelway. McKelway era un famoso giornalista del New Yorker, e prima della cena chiamò per chiedere se poteva portare un’amica, Lillian Ross. Sapeva chi fosse? chiese a mia madre. Certo che lo sapeva. Il New Yorker ci veniva recapitato con la posta tutte le settimane, insieme all’edizione domenicale del New York Times e alla Saturday Review of Literature. Erano letture imprescindibili per gli intellettuali della diaspora di Hollywood, che leggendo quei giornali avevano l’impressione di tenersi aggiornati come se non avessero mai lasciato la costa orientale. Lillian Ross era giovane, ma aveva già raggiunto la notorietà grazie agli articoli per il New Yorker e alla sua abilità nel far sembrare i protagonisti degli sciocchi. Aveva appena pubblicato un impietoso ritratto di Ernest Hemingway e si trovava a Los Angeles per scrivere un pezzo su John Huston, che era impegnato a girare La prova del fuoco. Mia madre rispose a St. Clair McKelway che Lillian Ross era la benvenuta, a patto che non scrivesse neanche una parola sul ricevimento. E così Lillian Ross venne a cena a casa nostra. Prima che tutti si mettessero a tavola, chiese a mia madre di mostrarle la casa. Mia madre acconsentì e, a un certo punto, la Ross vide una foto di noi quattro sorelle. «Sono le sue figlie?» chiese. «Sì» rispose mia madre. «Le vede qualche volta?».

Bastò. Mia madre la riaccompagnò al piano di sotto e si avvicinò a McKelway. «Fuori» disse. E Lillian Ross se ne andò via, insieme a St. Clair McKelway. Questa è la leggenda di mia madre e Lillian Ross. Mia madre adorava raccontarla. Sembrava un film di cowboy. Eravamo cresciute nella convinzione che una donna potesse fare tutto e Lillian Ross aveva osato metterla in dubbio. Nella nostra casa. Ed era stata buttata fuori. Amavo quella storia. Amavo tutte le storie in cui mia madre aveva ragione e tutti gli altri torto, soprattutto perché una parte di me continuava a sperare che potesse diventare come le madri delle mie amiche. Passarono dieci anni prima che cominciassi a pormi delle domande. Era accaduto davvero? Da bambini si ascoltano gli aneddoti più assurdi e poi si diventa grandi e ci si accorge che qualcosa non va, che sono troppo perfetti, e la parte più sospetta è proprio il coup de grace, la battuta finale. Mio padre un giorno scrisse le sue memorie e raccontò vari episodi inverosimili in cui diceva a persone come Darryl Zanuck di andare a farsi fottere. La leggenda di mia madre e Lillian Ross in un certo senso era l’ennesima versione di questo genere di storie. Troppo bella per essere vera. Mia madre divenne un’alcolista quando io avevo quindici anni. Una cosa che non mi so spiegare. Un giorno non era alcolizzata e il giorno dopo era completamente andata. Beveva una bottiglia di whisky ogni sera. Intorno a mezzanotte si precipitava fuori dalla sua camera sbattendo dappertutto, gridava e ci terrorizzava. Anche mio padre beveva, ma era pigro e sentimentale, e in qualche modo il suo alcolismo era meno distruttivo. Quando partii per Wellesley, ormai i miei genitori non lavoravano più per il cinema, ma chissà come durante il giorno riuscivano a restare abbastanza sobri per collaborare, e

scrissero una commedia di successo, Prendila, è mia, che parlava di una famiglia del sud della California la cui figlia si iscrive a un’università femminile sulla costa orientale. Venivano citate le lettere che scrivevo dal college e la commedia esordì in un teatro di Broadway durante il mio ultimo anno di studi, con Art Carney nel ruolo del padre ed Elizabeth Ashley in quello della figlia. Tutte le mie compagne alla Wellesley erano informate sulla storia e sulla mia notevole madre, la scrittrice che riusciva a fare tutto. Non mi aspettavo di vedere i miei genitori alla cerimonia di laurea, invece qualche giorno prima mia madre chiamò annunciandomi che aveva deciso di venire. Arrivò in tutta la sua splendida eleganza. Tailleur, scarpe con sette centimetri e mezzo di tacco, orecchini a clip intonati alla spilla. Dormì per due notti nel dormitorio, nella stanza accanto alla mia. Sdraiata nel letto, ascoltavo le sue farneticazioni da sbronza al di là della parete sottile come carta. Tremavo all’idea che corresse nell’atrio della Tower Court e mi mortificasse davanti alle compagne, barcollando e gridando, e che tutte le mie amiche scoprissero la verità. Ma qual era la verità? Facevo parte del mito e ci credevo davvero. Mia madre era una dea. Ma era un’alcolista. I genitori che bevono generano grande confusione nei figli. Sono i tuoi genitori, e quindi li ami, ma sono degli ubriaconi, perciò li detesti. Li ami e li odi. In alcuni momenti sono ancora le persone che idolatravi da bambina, in altri non riesci a immaginare che possano essere stati altro che mostri. E poi, dopo qualche tempo, sono mostri a tempo pieno. Le persone che sono state condizionano la tua vita - passeranno quarant’anni prima che tu ti decida a comprare un cappotto rosso (e comunque lo metterai una volta sola) - ma le persone che sono diventate non hanno alcun potere su di te. Molto prima che mia madre morisse, ho desiderato la sua morte. E quando è morta, non mi è accaduto di pensare: Perché l’ho desiderato? Che cosa c’è di sbagliato in me? Che

razza di persona è una che si augura la morte della propria madre? No, non pensai niente del genere. Mia madre si era trasformata in un incubo. E l’alcol l’aveva uccisa, a cinquantasette anni. Io ne avevo trenta. Avevo lavorato cinque anni in un giornale e poi ero diventata una free lance. Scrivevo per Esquire nell’ultimo periodo della direzione di Harold Hayes e per la rivista New York nelle prime fasi di Clay Felker. Fu un momento esaltante. Riviste come Esquire e New York erano lo Zeitgeist, e i giornalisti (quasi tutti maschi) che vi scrivevano erano provocatori e pieni di energia. Credevano, a torto, di aver inventato il reportage romanzato, e persino di aver inventato l’abitudine di andare tutti insieme al ristorante e fare le ore piccole. A quei tempi il pubblico amava le riviste: l’uscita in edicola del nuovo numero di Esquire era una bomba e farne parte era davvero divertente. Io avevo una mia rubrica femminile. Nel mondo della carta stampata, il piccolo mondo in cui vivevo, conquistai una piccolissima fama. Non avevo mai incontrato Lillian Ross, ma ogni tanto mi capitava di pensare a lei. Avevo letto tutti i suoi primi lavori e l’ammiravo molto; ora lei aveva smesso di fare i suoi profili e scriveva soprattutto pezzi non firmati nel «Talk of thè Town» del New Yorker. Si diceva che avesse una relazione con il direttore, William Shawn, e sembrava (da una certa distanza) che avesse subito l’influenza nefasta della nuova linea che lui aveva imposto alla testata. Nel mondo delle riviste era in corso una guerra fredda: noi di Esquire e del New York contro quelli del New Yorker. Loro stavano da dio: buoni contratti e assicurazione sanitaria, e potevano dedicare anche mesi a un servizio; noi invece eravamo sempre oberati e in bolletta. Loro fingevano di essere modesti e di disdegnare il successo; noi eravamo presuntuosi e arrivisti. Loro erano gli unti del Signore, noi i pagani. Veneravano lo schivo “Mr Shawn” e ne sussurravano il nome come se fosse il rabbino

Ba’al Shem Tov in persona. Noi, dal canto nostro, saltellavamo da Harold a Clay e ritorno. Loro ci giudicavano narcisisti, noi li consideravamo fuori di testa. Io rappresentavo il tipo di persona che Lillian Ross avrebbe odiato, se avesse saputo chi ero, o perlomeno questo credevo la sera del 1978 in cui venni trascinata dall’altra parte di una stanza per le presentazioni. Ero a una festa a casa di Lorne Michaels, il produttore del Saturday Night Live. Lillian Ross stava lavorando al ritratto di Lorne da otto anni. «Voi due vi dovete conoscere» stava dicendo il padrone di casa quando ci ebbe messe una di fronte all’altra. Capii subito che lei non ne sentiva affatto la necessità. «Avete tante cose in comune» continuò Lorne facendoci sedere sul divano. «Sono molto lieta di conoscerla» dissi. «Il piacere è mio» rispose lei. Era una donna minuta con i capelli corti e ricci e gli occhi di un azzurro luminoso, e sorrideva, aspettando che io dicessi qualcosa. Avevo un obiettivo: scoprire se la storia di mia madre era vera e scoprirlo senza lasciar trapelare niente. Non volevo che Lillian Ross sapesse di essere diventata un personaggio della nostra saga familiare, e non volevo tradire mia madre raccontando che la sua breve apparizione nella nostra casa aveva lasciato il segno per tanti anni. Volevo che fosse mia madre a vincere il duello, indipendentemente dal fatto che l’episodio fosse accaduto davvero o no. Ma come fare a chiederglielo? «È vero che mia madre l’ha buttata fuori di casa?» sembrava un approccio un po’ troppo diretto. «Credo che lei abbia conosciuto mia madre» era troppo timido, specialmente se la Ross si ricordava dell’incidente. Non sapevo che cosa fare. Le dissi che ero una sua grande ammiratrice. Lei mi ringraziò e tacque in attesa che aggiungessi qualcosa. Ne dedussi che non aveva letto mai niente di mio o che detestava quello che scrivevo o che forse - ormai mi

arrampicavo sugli specchi - non sapeva nemmeno che ero una giornalista. Le domandai di suo figlio e le parlai del mio. L’esperienza mi ha insegnato che soltanto gli amici più intimi sono davvero interessati ai tuoi figli, comunque per un po’ continuammo a fingere. Poi le chiesi se stava ancora scrivendo il ritratto di Lorne, come avevo sentito dire. Si, rispose lei. Altra pausa. Era evidente che Lillian Ross non aveva intenzione di venirmi incontro. Cominciavo a irritarmi. Era vero che stava scrivendo il ritratto di Lorne da otto anni? chiesi. Sì, era vero, rispose. Quando pensa di finirlo ? chiesi in un tono che voleva sembrare innocente, ma lei non ci cascò. Non ne aveva idea, rispose. Al New Yorker nessuno ci mette fretta. Questo chiariva una cosa: sapeva chi ero. Decisi di procedere: le chiesi come mai avesse smesso di scrivere ritratti firmati. Era una domanda posta con astuzia, pensai. In tono mielato, aggiunsi che li avevo molto apprezzati e che mi mancavano, e continuavo a chiedermi perché non li scrivesse più. Rispose che aveva smesso di firmare i pezzi perché riteneva che ormai buona parte del giornalismo delle riviste fosse narcisista e autoreferenziale. Dovevo ammetterlo: un’ottima risposta. E poi Lillian Ross rispose alla domanda che non avevo fatto. «Una volta sono stata a casa vostra» disse. «Ho conosciuto sua madre». «Davvero?» esclamai, fingendo totale ignoranza. «Però non ho visto nessuna di voi figlie» ribatté lei. Dunque la storia era vera. Nessun dubbio. Era successo. In seguito ho incontrato molte volte Lillian Ross. Scrive ancora per il New Yorker, benché la rivista non pubblichi più articoli non firmati. A un certo punto scrisse una

confessione autobiografica sulla sua relazione con Mr Shawn, squarciando il velo, in un certo senso. Ritengo che sia narcisista e autoreferenziale come tutti, ed è un complimento. Ma Lillian Ross non c’entra, in realtà. C’entra mia madre. Avevo rinunciato a lei molto prima che morisse. Ma quella sera, con Lillian Ross, l’ho riavuta. Ho riavuto la madre che adoravo prima che tutto andasse a catafascio. Ho riavuto la versione semplice. Aveva messo alla porta Lillian Ross per le sue buone ragioni. La leggenda era autentica.

La mia Aruba Mi duole dover dire che ho un Aruba. Non sapete che cos’è, ma state per scoprirlo. Prende il nome dall’isola caraibica omonima, dove i venti soffiano con tanta forza che tutti gli alberelli crescono inclinati da una parte. Solo che la mia Aruba non è un’isola. È la cosa che sta succedendo ai miei capelli,proprio in cima alla testa, dietro. Le ciocche ribelli hanno vinto e adesso si inclinano tutte da una parte, lasciando uno spazio nudo. Non si tratta di un problema di calvizie. La ritrovo al risveglio, poi mi pettino e la faccio sparire, però un paio d’ore dopo ritorna. Una raffica di vento, una breve passeggiata, una corsa in metropolitana o semplicemente la vita, qualsiasi cosa può spostare i miei capelli e lasciare una zona dove si vede il cuoio capelluto. E il problema è che io non la vedo. Anche se colgo la mia immagine in una vetrina, non riesco a vederla perché è dietro. Vista da davanti sembro a posto. Sono giovanile quanto si può esserlo alla mia età. Da dietro, invece, sembra che mi sia dimenticata di pettinarmi o che stia diventando calva. Vi assicuro che nessuna delle due ipotesi corrisponde al vero. È vero però che ho più anni di quelli che dimostro, e la mia Aruba ne è un segno. Quand’ero più giovane non ce l’avevo, e adesso ce l’ho. Non è il guaio peggiore della vecchiaia, ma è scoraggiante. Praticamente nessuno ti avverte, quando ce l’Hal. Ci sono parecchie cose che nessuno ti dice: poi arrivi a casa e scopri che sei andata in giro tutto il giorno portandole con te. Ovviamente mi riferisco agli spinaci fra i denti, all’etichetta

che spunta dal colletto, o al pezzetto di carta igienica che ti è rimasto incollato alla scarpa. Parlo di quei granelli che certe volte ti finiscono negli angoli degli occhi, o del mascara colato. Parlo dei fili tirati sui tessuti. E molto triste guardarsi nello specchio del bagno alla fine di una serata e scoprire che Hal trascorso gli ultimi novanta minuti con gli spinaci fra i denti. O il prezzemolo, ancora più infido. E nessuno dei tuoi amici ti ha voluto bene abbastanza da trovare il coraggio di dirtelo. E doloroso specialmente perché, in fondo, sarebbe così facile dire a qualcuno che ha gli spinaci fra i denti. Tutto quello che devi dire è: «Hal un po’ di spinaci fra i denti». Ma cosa puoi dire a una persona che ha un’Aruba, soprattutto visto che, fino a quando non ho scritto questo pezzo, non c’era una parola per descriverla? Però adesso che le ho inventato il nome, mi farebbe piacere se mi diceste quando ce l’ho. Perché così potrei sistemarla, almeno per un po’.

La mia vita da ereditiera Non ho mai saputo perché mia madre non frequentasse suo fratello Hal. Posso solo fare qualche supposizione. Forse è venuto meno al dovere di aiutare i genitori anziani. È possibile che non le fosse simpatica sua moglie Eleanor. Magari ce l’aveva con lui perché i genitori avevano trovato i soldi per mandarlo alla Columbia mentre lei si era dovuta accontentare di un’università statale. Chi lo sa? Il segreto è morto e sepolto. Sta di fatto che sono cresciuta senza mai vedere mio zio Hal. Noi vivevamo a Los Angeles e lui viveva a Washington con la succitata Eleanor. Erano entrambi economisti che lavoravano per il governo, ma negli anni Cinquanta si licenziarono. Circolarono voci su un’affiliazione alla sinistra. I miei genitori non erano mai andati più a sinistra del socialismo, ma stiamo parlando degli anni delle liste nere. Conoscevano una dozzina di persone che avevano spifferato dei nomi e conoscevano anche almeno un paio dei “Dieci di Hollywood”, e alcuni altri che secondo loro sarebbero finiti in prigione, se dopo i primi dieci ci fossero stati anche l’undicesimo e il dodicesimo. I miei temevano che le voci sulle frequentazioni sinistrorse di Hal e Eleanor arrivassero fino in California e loro potessero ritrovarsi coinvolti, e a quanto pare fu quello che accadde, anche se i danni furono limitati. Un giorno, nei primi anni Cinquanta, furono convocati nell’ufficio di Spyros Skouras, il vecchio greco che dirigeva la Twentieth Century Fox. Skouras sventolò un foglio che riguardava Hal e disse: «Phoebe, sei comunista?». Lei gli spiegò che non aveva niente a che fare con suo fratello e che non era comunista, e la faccenda fu chiusa lì, diventando solo un aneddoto. Quando andai all’università zio Hal e zia Eleanor non erano più simpatizzanti comunisti, ammesso che lo fossero mai stati; si occupavano di proprietà immobiliari ed erano ricchissimi. Nel 1961, mentre facevo un periodo di praticantato a Washington, mi portarono a cena da Duke Zeibert. Hal era un uomo mite e gentile ed Eleanor era un tipo imprevedibile.

Aveva il viso lungo, da cavallo, i capelli biondi e il senso dell’umorismo. Durante i fine settimana andavo da loro a Falls Church, una splendida costruzione che faceva parte di un grande complesso residenziale. Eleanor e Hal non avevano figli ma avevano un sacco di case che compravano e vendevano, senza rimpianti. Collezionavano arte, antichità cinesi e tappeti persiani, e della gestione domestica si occupava con grande efficienza Louise, la governante. Parlo di lei per una buona ragione, come vedrete in seguito. I miei genitori erano davvero poco interessati ai rapporti con i parenti - non ho mai conosciuto i fratelli di papà e i miei primi cugini - mentre Hal e Eleanor si tenevano in contatto con membri di ogni ordine e grado della mia famiglia materna, e quell’estate a Washington mi presentarono alcune persone che, a seconda di come si conta, erano secondi o terzi cugini. Uno era Joe Borkin, rinomato avvocato di Washington ed esperto della nostra genealogia, il quale non voleva credere che fossi cresciuta ignorando dov’erano nati i nonni; me lo disse, e io per lealtà nei confronti di mia madre, che non aveva il minimo interesse per queste cose, lo dimenticai all’istante. Un altro cugino era Morty Plotkin, medico totalmente incapace di entrare in relazione con i pazienti, che saggiamente aveva scelto di dedicarsi alla radiologia. Era sposato con Tedda, e Tedda Plotkin era un nome che mi piaceva moltissimo. Qualche anno dopo, quando mia madre stava morendo di cirrosi epatica, Tedda mi telefonò sbraitando contro di me come se fosse colpa mia. Hal e sua moglie mi presentarono anche il nipote di Eleanor, Irwin il dentista, che a un certo punto si mise in affari con loro. Anche lui viene nominato per una buona ragione. Dopo l’università mi stabilii a New York e, di tanto in tanto, Hal e Eleanor venivano in città e mi invitavano a pranzo o a cena fuori. Quando sposai il mio primo marito, ci regalarono un enorme candelabro antico dorato che secondo loro, a quanto ricordo, era un Luigi XIV. Una cosa impossibile.

Comunque, quando divorziai, Hal mi telefonò per accertarsi che non se lo fosse tenuto mio marito. Il candelabro mi seguì nel nuovo appartamento, nei pressi della Cinquantesima Est, e poi nella mia seconda casa coniugale. Ricordo bene che faceva bella mostra di sé nel garage di Bridgehampton. Dove sia oggi non saprei. Mi piacerebbe saperlo, perché era molto bello e adesso sono abbastanza vecchia per apprezzarlo. Caduto nella battaglia del divorzio, probabilmente. Quando divorzi e non tieni tu la casa (a me non è mai successo), ti lasci alle spalle ogni genere di oggetti di cui non sai che un giorno vorresti avere notizie, o che rimpiangerai di non avere più o, peggio ancora, di cui avrai una sincera nostalgia. Nel 1974 Eleanor morì. Passarono gli anni. Qualche volta vedevo lo zio Hal a Washington o a New York. Lui e mio padre, entrambi vedovi, di tanto in tanto si parlavano al telefono, dopodiché mio padre chiamava me per aggiornarmi. Stava perdendo la memoria, però non dimenticò mai un numero di telefono, e nei suoi ultimi anni faceva almeno cento telefonate al giorno, tutte lampo. Non si perdeva in convenevoli. Non ti concedeva la possibilità di dire: «Ho da fare» oppure «Scordati il mio numero» o «Non ho tempo per parlare con te». Arrivava subito al punto e poi, come ha scritto mia sorella Delia nel suo libro Hanging Up, riagganciava. «Ho scritto la mia autobiografia» diceva «e la voglio intitolare Io». «Fantastico» rispondevo. Lui riagganciava. «Ho appena chiamato Kate Hepburn per dirle il titolo delle mie memorie» diceva. «Le è piaciuto». «Davvero fantastico, papà». E riagganciava. Ho sempre sperato che prima o poi si affezionasse ai miei figli, Max e Jacob, ma non ricordava nemmeno come si chiamavano. Un giorno Jacob rispose al telefono e mio padre gli chiese: «Sei Abraham o l’altro?».

Devo rendere onore a Jacob per il fatto che, a sette anni, lo trovò divertente. Però rattristava me. Continui a pensare che un fulmine colpirà i tuoi genitori e li trasformerà per magia nelle persone che tu vorresti che fossero, o nelle persone che sono state. Ma non succede mai. E pur sapendo che non succederà, continui a sperare. I bollettini paterni sul conto di zio Hal non si riferivano mai allo zio, bensì al suo patrimonio immobiliare che, a sentire mio padre, sarebbe stato lasciato in eredità alle mie tre sorelle e a me. «Ho parlato con Hal e sei nel testamento» diceva. Oppure: «Sei ancora nel testamento». «Tutto diviso fra voi quattro». «Un sacco di soldi». Ormai mio padre non era più credibile, quindi non pensai mai neanche per un attimo che potesse essere vero, che sarei stata la beneficiaria di un’eredità. Inoltre lo zio godeva di ottima salute. Ma un giorno d’estate del 1987, mentre combattevo con una sceneggiatura che dovevo scrivere per pagare le bollette, squillò il telefono; era un curatore testamentario di Washington che chiamava dall’ospedale per informarmi che Hal stava morendo di polmonite e che, in quanto parente più prossima, forse avrei dovuto prendere la decisione di sospendere le cure. Riappesi, sbigottita. Suonò di nuovo il telefono. Era Tedda Plotkin, moglie del radiologo, che mi chiamava, per la seconda volta nella vita, per dirmi che l’appartamento di Washington dello zio era zeppo di tappeti e opere d’arte di enorme valore e che dovevo affrettarmi a metterli sotto chiave se non volevo che Louise, la governante, si portasse via tutto. Risposi a Tedda che dubitavo seriamente che Louise potesse fare una cosa simile, ma che siccome aveva lavorato per Hal e Eleanor per quasi tutta la vita poteva prendersi quello che voleva. Il telefono squillò di nuovo. Era l’ospedale: Hal era spirato. Chiamai mia sorella un’ereditiera» dissi.

Delia.

«Preparati

a

diventare

Non avevamo la più pallida idea di quanto valessero le proprietà immobiliari di Hal. C’erano i profitti di tutte le compravendite fatte con Eleanor, e i grandi progetti realizzati a McLean e a Falls Church, interi isolati di ville da sogno, dotate di piscine coperte e palestra e angoli per la colazione e così via. E c’era anche la Famosa Impresa Portoricana. Hal e Eleanor avevano acquistato dei terreni a Portorico e avviato un progetto edilizio in società con Irwin il dentista. Di tanto in tanto, chiedevo notizie allo zio e lui rispondeva che stava venendo benissimo, che era appena stato a Portorico, che avevano parlato con gli architetti, che i progetti erano meravigliosi, che avevano visto i plastici e stavano cercando altri investitori. Dovevano essere almeno tre milioni di dollari. Che erano un sacco di soldi, all’epoca. Diviso per quattro faceva settecentocinquantamila dollari a testa. Non riuscivo a crederci, perché era davvero una cifra da capogiro. Avrebbe cambiato tutto. Okay, magari erano soltanto due milioni. Faceva pur sempre cinquecentomila a testa. D’altra parte potevano anche essere quattro. Un milione di dollari a testa! Continuavo a fare calcoli ipotetici e a dividere il risultato per quattro e pensavo a come l’avrei speso. Io e mio marito avevamo appena comprato una casa a Long Island, e i lavori di ristrutturazione ci erano costati molto più del previsto. Non era rimasto niente per il giardino. Uscii e feci il giro della casa. Piantai mentalmente parecchi alberi. Zappai il prato spelacchiato e immaginai i camion carichi di zolle erbose che adesso mi sarei potuta permettere. Pensai di fare un salto al vivaio a dare un’occhiata alle ortensie. Mi batteva forte il cuore. Strappai mio marito dal suo lavoro e ci mettemmo a parlare del tipo di alberi che avremmo voluto piantare. Un corniolo, certamente. Un grande corniolo bellissimo. Ci sarebbe costato una fortuna e adesso potevamo averlo. Andai di sopra e guardai la sceneggiatura che stavo scrivendo. Non avrei dovuto lavorarci mai più. Lo facevo

soltanto per i soldi e, per dire le cose come stavano, non sarebbe mai diventata un film, e poi era davvero complicata. Spensi il computer. Mi sdraiai sul letto a pensare ad altri modi per spendere il denaro di zio Hal. Mi venne in mente che ci serviva un’altra testiera. E così, nel giro di un quarto d’ora, passai attraverso i primi due stadi della ricchezza ereditata: Esultanza e Pigrizia. Squillò il telefono. Era mio padre. «Hal è morto» disse. «Lo so». «Voleva lasciare tutto a voi quattro, ma io gli ho detto di escluderti dal testamento perché guadagni già abbastanza». «Cosa?» dissi. Lui riappese. Ero stupefatta. Guardai il prato. Addio zolle erbose. Telefonai a Delia. «C’è una novità» dissi, e le raccontai tutto. «Oh, a questo c’è rimedio» disse Delia. «Ciascuna di noi ti darà un tot, una percentuale di quello che eredita e così avremo tutte la stessa quota». «Il venticinque per cento». «Sei sempre stata la più brava in matematica. Adesso telefono alle altre». Chiamò le nostre sorelle e mi ritelefonò subito. «Amy ci sta» disse. «Hallie no». Ero stupefatta. Fra noi c’era sempre stato l’accordo che, se una fosse stata esclusa dal testamento di nostro padre, le altre l’avrebbero fatta rientrare nella spartizione. Doveva valere lo stesso principio per zio Hal. La giornata non era ancora finita e noi stavamo già entrando nel terzo stadio della ricchezza ereditata: la Discordia.

L’indomani ricevetti una telefonata dall’avvocato dello zio. A quanto pareva, mio padre si era sbagliato. Hal non mi aveva esclusa dal testamento. Aveva lasciato metà dei suoi beni a noi quattro e l’altra metà a Louise, la governante. Ero felice per lei. Era giusto così. In quanto a me, mi toccava un ottavo. Non una fetta grande come un quarto, ma pur sempre un bel mucchio di soldi, se i beni valevano quattro milioni di dollari. «Di quanto si tratta?» chiesi all’avvocato. «Non di molto» disse lui. «E cioè?». «Meno di mezzo milione» rispose. Decisamente meno, si scoprì in seguito. Grazie a Irwin il dentista, Hal aveva perso quasi tutti i soldi nell’avventura portoricana. Quello che rimaneva, diviso per otto, avrebbe potuto pagare le zolle erbose ma non mi avrebbe salvata dalla sceneggiatura che stavo scrivendo. «La buona notizia» disse l’avvocato «è che fino a sessantottomila dollari non si pagano tasse di successione». Chiamai Delia e Amy e le misi al corrente. A Hallie non telefonai. Non avrei mai più parlato con lei. Andai di sopra, accesi il computer e mi rimisi al lavoro. La settimana seguente Amy mi telefonò per dirmi che aveva saputo dall’avvocato di Hal che forse c’era un Monet. Avevano trovato un quadro nell’armadio e l’avrebbero mandato a un esperto per la stima. A quel punto io avevo smesso di sperare, ma ciò non trattenne Amy dall’entrare nel quarto stadio della ricchezza ereditata: il Possibile Capolavoro nell Armadio. Non c’è bisogno di dirvi che non era un Monet. Alla fine, ereditammo all’incirca quarantamila dollari a testa. Quindi non ho mai raggiunto il quinto stadio della ricchezza ereditata: la Ricchezza.

Completai la sceneggiatura e ne fu tratto un film. Imparo in fretta dall’esperienza e da questa ho imparato di essere stata molto fortunata a non diventare un’ereditiera, perché altrimenti non avrei finito di scrivere Harry ti presento Sally, il film che ha cambiato la mia vita. Harry ti presento Sally fu un grande successo e guadagnò persino dei soldi. Comprammo un corniolo. È davvero bellissimo. Fiorisce a fine giugno e mi ricorda il dolce zio Hal.

Al cinema L’altra sera siamo andati al cinema. A New York vedere un film costa tredici dollari, senza contare il dollaro e cinquanta per la prevendita. Mi piace comprare i biglietti online in anticipo. Uno degli autentici prodigi della vita moderna, per quanto mi riguarda, è che quando entri in un cinema puoi infilare la carta di credito nell’apposita macchina e ottieni subito il biglietto per il posto che avevi prenotato. Ogni volta vorrei dire: «Non ci credo! E fantastico! Meraviglioso!». Peraltro c’è un ulteriore progresso tecnologico nella prevendita dei biglietti, che sciupa tutto il divertimento: adesso ti puoi stampare la ricevuta a casa, saltare il passaggio della macchina e andare direttamente dalla maschera. La maschera passa al lettore ottico la tua ricevuta e stampa un biglietto proprio all’ingresso del cinema, il che blocca la coda di persone in fila e cancella quell’unico istante prodigioso su cui potevi contare quando andavi a vedere un film. Ma l’altra sera non abbiamo dovuto presentare la ricevuta alla maschera perché, quando siamo arrivati, la maschera non c’era. L’atrio del cinema non era presidiato. Gli spettatori entravano senza far vedere il biglietto a nessuno, e abbiamo fatto così anche noi. Una volta scese le due rampe di scale, ci aspettavamo di trovare la maschera davanti alle porte della Sala 7, invece niente. Avevamo anche sperato di poter prendere qualcosa da bere o da mangiare, ma il bar lì sotto era chiuso e la montagna di popcorn stava diventando fredda e stantia. A questo punto probabilmente dovrei dire che il cinema in questione era il Loews Orpheum 7, che si trova a Manhattan, fra l’Ottantaseiesima e Third Avenue. Forse dovrei aggiungere che il Loews Orpheum è di proprietà dell’AMC, ma che un tempo apparteneva alla Loews Cineplex Entertainment Corporation, e che io ero nel consiglio

di amministrazione. Fu un’esperienza triste perché avevo la modesta ambizione di poter fare qualcosa, nel mio ruolo di consigliere, per migliorare la qualità del cibo in vendita nei cinema. Purtroppo, alla Loews non interessava a nessuno la mia opinione sul cibo che vendevano. Così presenziavo diligentemente alle assemblee e mi sorbivo lunghe presentazioni in PowerPoint, tese a sostenere la strategia di costruire enormi e costosi multisala, per lo più vantaggiosamente ubicati di fronte ad altri costosi multisala costruiti da società rivali. Un giorno, circa due anni dopo la mia nomina, ero in un albergo di Los Angeles e dovevo partecipare a un’assemblea del consiglio in collegamento telefonico. Era talmente noiosa che decisi di mettere la chiamata in attesa e scendere a farmi fare la manicure. Quando tornai nella mia stanza, non più di venti minuti dopo, e alzai il ricevitore, sentii un coro di urla. Non volendo ammettere di averli piantati in asso (del resto nessuno se nera accorto), ascoltai, e dopo un po’ capii che, mentre mi facevo le unghie, la società aveva fatto bancarotta. Fu uno shock, per me e per tutti gli altri membri del consiglio. Non ho mai saputo perché non se ne fosse parlato all’inizio dell’assemblea e ovviamente una delle ragioni delle urla era proprio questa: alcuni consiglieri rappresentavano società che avevano azioni della Loews Corporation e avevano appena scoperto di aver perduto centinaia di milioni di dollari in un disastro finanziario di cui non avevano avuto il minimo sentore. Nessuno aveva avuto la cortesia di metterli in guardia. Non era nemmeno nell’ordine del giorno! Alcuni mesi più tardi, un uomo d’affari canadese acquistò i cinema della Loews a un prezzo stracciato e li rivendette alla AMC che, a quanto mi è dato capire, non ha fatto niente per migliorare la qualità del cibo venduto al bar né di altro. Insomma, era così romantico andare al cinema… accomodarsi in una grande sala con la galleria, i palchi, gli stucchi dorati e il pesante sipario di velluto rosso. Adesso si va in orribili scatole grigie e disadorne dove il suono esce dalle scatole grigie vicine. È triste.

Ma torniamo all’altra sera. Oltrepassato il bancone del bar deserto, ci siamo seduti in sala. C’era già la pubblicità. Abbiamo visto lo spot di una bibita dietetica, talmente compiaciuto di sé da invitarci ad andare su un apposito sito web per vedere come era stato fatto. Ce n’era un altro che ci consigliava di prenotare e acquistare i biglietti online. Poi, di colpo, il sonoro è sparito e lo schermo è diventato nero. Sono trascorsi alcuni minuti. La sala era piena per tre quarti ma nessuno si muoveva. Sentendomi inspiegabilmente responsabile di quell’inconveniente, mi alzai, salii le due rampe di scale e andai nell’atrio del cinema, dove si era materializzata la maschera, che stava staccando i biglietti. Le dissi che nella Sala 7 non funzionava più niente. Mi guardò come se non capisse. Chiesi di comunicare a chi di dovere che c’era un guasto. Mi rispose che lo avrebbe fatto e continuò a prendere i biglietti. Dopo un paio di minuti, una volta entrati tutti gli spettatori, gridò: «Proiezione! C’è qualcosa che non va alla 7?». Tornai giù. L’impianto ripartì e cominciò il trailer di un film. Nella parte inferiore dello schermo c’era una larga striscia bianca e le facce degli attori erano tagliate all’altezza degli occhi. Mi alzai e tornai su. La maschera era sempre lì, che staccava i biglietti. Le chiesi di interpellare il proiezionista per regolare il quadro. Ancora una volta lei mi guardò inespressiva, perciò riformulai la domanda. Promise che lo avrebbe fatto. Aspettai finché non la vidi dirigersi verso l’invisibile proiezionista. Quando tornai giù nella Sala 7, il quadro era a posto, sebbene non del tutto, ma il mio eroismo mi aveva stremata, ed ero troppo stanca per tornare su a lamentarmi. Cominciò il film. L’audio era fuori sincrono, comunque era un bel film. Te ne accorgevi appena, che era fuori sincrono. C’era azione e un buon montaggio, perciò si poteva guardarlo anche così; sennonché negli ultimi venti minuti il film andò

fuori sincrono in maniera clamorosa, straordinaria, non più ignorabile. Ma era quasi finito. E io non volevo alzarmi per non perdere le ultime scene. Dopo, mentre uscivamo, chiesi di parlare con il direttore del cinema. Mi dissero che era in maternità. Chiesi di parlare con il suo vice. Non c’era nessun vice al momento. Allora mi rivolsi di nuovo alla mia vecchia conoscenza, la maschera, che come potete immaginare fu felicissima di rivedermi. Le spiegai che l’ultima parte del film che avevamo appena visto era fuori sincrono e che magari avrebbero potuto risolvere il problema prima dello spettacolo successivo. Mi promise che lo avrebbero fatto.

Venticinque cose DI CUI INCREDIBILMENTE LA GENTE CONTINUA A STUPIRSI 1. A volte i giornalisti inventano le cose. 2. A volte i giornalisti si sbagliano. 3. Quasi tutti i libri di memorie che vengono pubblicati sono stati scritti per essere romanzi e poi l’agente o l’editore ha detto: «Funzionerebbe meglio come memoir». 4. Le belle donne sposano talvolta uomini vecchi, brutti e ricchi. 5. Negli affari non esiste la sinergia, nel senso buono del termine. 6. La libertà di stampa è una prerogativa del proprietario del giornale. 7. Nelle pagine sportive non si legge niente che abbia un senso, se non si è letta l’edizione del giorno precedente. 8. Spiegare il mercato azionario è impossibile, ma la gente ci prova lo stesso. 9. I democratici sono sommamente deludenti. 10. Il cinema non ha alcun effetto sulla politica. 11. Gli uomini tradiscono. 12. Un sacco di gente prende la Bibbia alla lettera. 13. La pornografia è l’oppio delle masse. 14. È impossibile conoscere la verità sul matrimonio di qualcuno, compreso il proprio. 15. Esistono persone che firmano accordi prematrimoniali.

16. James Carville e Mary Matalin sono sposati. 17. I bagel non sono più buoni come una volta. 18. Tutti dicono bugie. 19. Perché è importante che alla presidenza della Corte suprema ci sia un democratico. 20. Pare che, di persona, Howard Stern sia parecchio affabile. 21. A Manhattan un appartamentino di due locali da ristrutturare costa un milione di dollari. 22. I cani assomigliano ai loro padroni. 23. Cary Grant era ebreo. 24. Cary Grant non era ebreo. 25. Larry King non ha mai letto un libro in vita sua.

Fatemelo dire: l’omelette bianca È uscito un nuovo libro sulle diete che, a quanto pare, afferma quello che io so da sempre: le proteine fanno bene, i carboidrati fanno male, e la pericolosità dei grassi è altamente sopravvalutata. Be’, era ora. Come diceva mia madre, il burro non è mai troppo. Per esempio, ecco come cuciniamo le bistecche a casa nostra. Cospargiamo la carne di sale kosher e poi la facciamo cuocere in una padella molto calda. Quando è pronta, ci mettiamo sopra una bella cucchiaiata di burro ed ecco fatto. A proposito, non parlo di burro insipido, mi riferisco a quello salato. Ecco un’altra cosa che c’è nel libro: il colesterolo alimentare non c’entra niente con il livello di colesterolo nel sangue. Anche questo l’ho sempre saputo, ed è il motivo per cui non mentirò sul letto di morte se mostrerò di rimpiangere di non aver mangiato abbastanza fegato marinato. In altre parole: potete mangiare qualsiasi alimento con un alto contenuto di colesterolo (come aragoste e avocado e uova) e NON Ci saranno effetti sul livello di colesterolo nel vostro sangue. Nessun effetto. Mai. Mi avete sentita? Chiedo scusa per il maiuscoletto, ma che cosa vi succede, gente? Il che mi porta al punto: l’omelette fatta con i bianchi d’uovo. Ho amici che mangiano omelette di solo albume. Li compiango ogni volta che mi tocca vederli. Innanzitutto, non hanno alcun sapore. Poi, la gente che le mangia crede di essere virtuosa e invece è soltanto disinformata. Certe volte provo a spiegare che stanno facendo una cosa priva di senso, ma non mi danno retta, perché i medici raccomandano di evitare gli alimenti che contengono colesterolo. Secondo il New York Times i medici lo dicono in buonafede, essendo a loro volta vittime di un fenomeno noto

come cascata informativa, che si verifica quando una cosa viene ripetuta così spesso da diventare vera anche se non lo è (mi chiedo perché non la chiamino cascata disinformativa). In ogni caso le vere vittime della disinformazione non sono i medici, ma le persone di mia conoscenza che si sono lasciate fare il lavaggio del cervello e credono che le omelette bianche facciano bene alla salute. Adesso voglio dire quello che ho nel cuore da anni: è giunta l’ora di mettere fine all’omelette bianca. Non voglio equiparare la questione con faccende ben più gravi, come la guerra in Afghanistan, a cui certo è giunta l’ora di mettere fine, ma per la guerra non posso fare niente, mentre posso lanciare una campagna contro il consumo di queste omelette, anche grazie al vento favorevole del libro appena uscito. Non si fa un’omelette eliminando i tuorli. Semmai li si aggiunge. Per una buona omelette ci vogliono due uova intere, più un tuorlo, e lo stesso vale per le uova strapazzate. Quanto all’insalata di uova, ecco la nostra ricetta: fate bollire diciotto uova, sgusciatele e mandate sei albumi agli amici in California che si ostinano a credere che servano a qualcosa. Triturate le dodici uova intere e i sei tuorli rimasti con un coltello, aggiungete la maionese Hellmann’s e salate e pepate a piacere.

Fatemelo dire: il Teflon Sto male per il Teflon. Finché è durato è stato fantastico. Adesso si scopre che è nocivo. Per essere più precisi, si scopre che una sostanza chimica che si libera quando lo si riscalda ti entra nel sangue e verosimilmente provoca tumori e malformazioni nei nascituri. Io adoravo il Teflon. Adoravo i pancake di ricotta senza carboidrati che ho inventato l’anno scorso e che si possono cuocere soltanto sul Teflon. Adoravo la mia padella antiaderente Silverstone, in cui le bistecche vengono benissimo. Adoravo la parola Teflon come attributo: ci ha dato un presidente di Teflon (Ronald Reagan) e persino un mafioso di Teflon (John Gotti) la cui teflonaggine alla fine si è consumata, facendo di lui un esatto doppio metaforico dei miei tegami. Mi piaceva il fatto che il Teflon fosse stato inventato da un certo Roy J. Plunkett, il cui nome sarebbe dovuto bastare da solo a garantire per sempre la non pericolosità del materiale. Ma recentemente la DuPont, che produce la resina di politetrafluoroetilene (PTFE), così si chiamava il Teflon quando nel 1938 fu scoperto per caso in laboratorio, ha patteggiato una pena pecuniaria di sedici milioni e mezzo di dollari nella causa intentata dall’EPA, l’agenzia per la protezione dell’ambiente; sembra che sapessero fin dall’inizio che era nocivo. Ormai è diventato un cliché americano: una società ha il brevetto di una scoperta scientifica, si scopre che il prodotto è dannoso e salta fuori che la società ne era al corrente. Il copione è sempre lo stesso. Comunque è triste. Quando il Teflon ha fatto la sua comparsa sul mercato, le pentole e i tegami antiaderenti non erano di buona qualità.

Erano leggeri, troppo sottili, e non reggevano il confronto con quelli di rame e di ghisa. Andavano benissimo per le frittate e ovviamente non si attaccava niente, ma non funzionavano per gli alimenti che avevano bisogno di arrostire, come le bistecche. Poi produttori come Silverstone fabbricarono pentole di Teflon di ottima qualità in cui si poteva cuocere una bistecca come sul barbecue. Sfortunatamente per farlo bisognava portare il tegame a una temperatura molto alta, prima di metterci la carne, ed è proprio questo che rilascia l’acido perfluoroctanoico, il PFOA. Detto composto chimico è il cattivo della vicenda, e DuPont ha promesso di eliminarlo da tutti i prodotti con rivestimento in Teflon entro il 2015. Sono certa che questa promessa sarà di conforto a chi è sotto i quaranta, ma per me vuole soltanto dire che trascorrerò almeno una parte dei miei ultimi anni sul pianeta a grattare via residui di cibo dai miei tegami non antiaderenti. Da tempo circolavano voci sul Teflon, ma io ho continuato a sperare che finissero in niente come nel caso delle voci sull’alluminio, che negli anni Novanta, per un po’, si era creduto causasse l’Alzheimer. Fu un brutto momento, perché oltre a dover rinunciare a pentole e tegami di alluminio, si sarebbe dovuto fare a meno anche del foglio di alluminio per conservare gli alimenti, delle vaschette da forno e, più importante ancora, degli antitraspiranti. Sono sopravvissuta a quelle voci, e mi compiaccio di poter dire che si sono spente. Ma temo che questa sul materiale antiaderente sia fondata, e immagino che dovrò buttare via tutte le pentole e i tegami di Teflon. Nel frattempo vado a preparare l’ultimo pancake di ricotta per la colazione. Sbattete un uovo, aggiungete 80 grammi di ricotta fresca e mescolate con la frusta. Riscaldate un tegame antiaderente basso fino a quando comincia a rilasciare nell’atmosfera il gas cancerogeno. Versate la crema con un cucchiaio e cuocete per due minuti. Girate il pancake con delicatezza e lasciate cuocere per un altro minuto, fino a quando sarà dorato su

entrambi i lati. Mangiatelo con la marmellata, se i carboidrati non sono un problema, o così come. È la dose per una persona.

Fatemelo dire: NO, NON VOGLIO UN’ALTRA BOTTIGLIA di San Pellegrino Vorremmo una bottiglia di San Pellegrino. Il cameriere la porta. Siamo in quattro. Il cameriere porta i bicchieri per l’acqua. Sono bicchieri molto alti. I bicchieri alti non sono necessariamente i più adatti per l’acqua San Pellegrino ma, prima che mi possa esprimere su questo profondo argomento, il cameriere li ha già riempiti. Nella bottiglia è rimasta un po’ d’acqua. Mio marito beve un sorso e il cameriere, veloce come un lampo, torna al nostro tavolo per versare le ultime gocce della nostra San Pellegrino nel bicchiere di mio marito. Adesso la prima bottiglia è finita. Siamo seduti da cinque minuti e, non so come, siamo riusciti a svuotare un’intera bottiglia. «Desiderate un’altra bottiglia di San Pellegrino?» chiede il cameriere. Non ho ancora bevuto nemmeno una goccia della prima! Non lo dico per davvero. Mi piace il sale. Lo adoro. A volte mi capita di mangiare in un ristorante dove (a mio avviso) il cibo che viene servito non ha bisogno che si aggiunga sale, ma accade di rado. Molti anni fa mettevano sale e pepe in tavola, al ristorante, e lo facevano così: c’erano una saliera e una pepiera. La pepiera conteneva pepe nero in polvere, che negli anni Sessanta fu dichiarato fuori legge e sostituito dall’Onnipresente Macinapepe e dal relativo ritornello: «Desidera un po’ di pepe fresco sull’insalata?».

Ho notato che nessuno vuole il pepe fresco sulla sua insalata, e perché i camerieri continuino a chiederlo rimane un mistero. Comunque non era del pepe che stavo parlando. Parlavo del sale. E, come dicevo, una volta veniva messo in tavola. Ora nella metà dei casi non c’è. La ragione dell’assenza della saliera è che lo chef è ben deciso a comunicare il messaggio che i suoi piatti sono stati salati a sufficienza e perciò non abbisognano di aggiunte di sale. Questo mi irrita profondamente. Mi irrita che la richiesta di sale mi faccia sembrare aggressiva nei confronti dello chef, quando in realtà è vero l’opposto. Nell’altra metà dei casi - quando il sale è in tavola non è quello che io chiamo sale. Si tratta della sostanza nota con la denominazione di sale marino (il sale marino un tempo si chiamava sale kosher, ma non è un nome abbastanza altolocato per i tempi). Il sale marino viene servito in una ciotolina minuscola. Nel tentativo di portarlo dalla ciotolina al piatto, lo rovesci sempre, ma questo sarebbe il meno: è che non svolge davvero la funzione del sale. Non si scioglie salando il cibo in maniera uniforme; ci rimane posato sopra come tanti sassolini. E ti graffia la lingua. «Tutto bene?». Ci hanno servito la portata principale e il cameriere ci ha appena rivolto questa domanda. Ho mangiato esattamente un boccone, quanto basta per ricordare che, come al solito, la portata principale è deludente. Comincio a chiedermi se considerare la cosa in termini metaforici e, nel caso, se valga la pena indugiare a riflettere. Ecco il cameriere con il macinapepe in una mano e una bottiglia di San Pellegrino nell’altra, che mi interrompe mentre racconto una storiella, proprio prima della battuta finale, per chiedere se va tutto bene. La risposta è no, non va tutto bene. Anzi, la risposta è no, non va tutto bene, mi hai rovinato la storiella! Va’ via!

Non dico nemmeno questo. Abbiamo ordinato il dolce. Ci stanno dotando di cucchiai da dessert. I cucchiai da dessert sono cucchiai grandi, ovali. Sono talmente grandi che ci potresti nuotare. Io non sono una di quelli a cui piace dare sempre la colpa ai francesi, soprattutto da quando si è visto che sull’Iraq avevano ragione loro, tuttavia non c’è dubbio che la moda sia nata in Francia, dove hanno sempre avuto un debole per i cucchiai da dessert. A parer mio, il fatto che non fossimo mai caduti nella trappola dei cucchiai da dessert era una delle cose che rendevano grande il nostro Paese. Se ti serviva il cucchiaio per il dolce, ti davano il cucchiaino da tè. Quei giorni sono finiti, ed è un peccato. Diciamo una cosa a proposito del dolce: vuoi che duri. Vuoi assaporarlo. Il dolce è squisito. Così dolce. Così dannoso, in genere, per la salute. E come succede con tutte le cose peccaminose, vorresti che durasse il più a lungo possibile. Ma non può durare, se lo devi mangiare con un cucchiaione gigante. In due bocconi te lo sei sbafato. Poi sarà scomparso. E la cena sarà finita. Perché non lo capiscono? È talmente ovvio. Talmente ovvio.

Fatemelo dire: IL MONDO NON È PIATTO La settimana scorsa ho partecipato a uno di quei convegni su internet a cui mi invitano ogni tanto, e naturalmente c’era anche Thomas Friedman, l’editorialista del New York Times. Non era presente in carne e ossa: non era un convegno così importante. Aveva mandato un video di venti minuti in cui condensava la tesi del suo best seller Il mondo è piatto. Per coincidenza, due sere prima mi ero trovata di fronte Friedman in carne e ossa, a Las Vegas, a un tavolo di dadi. Mentre lui lanciava i dadi cercando di fare cinque, gli avevo urlato: «Forza, Tom, hai l’occasione di farti perdonare i tuoi errori sull’Iraq». Invece fece un sette e perse. Rieccolo a questa conferenza. Sullo schermo c’era una grande scritta che proclamava “il mondo è piatto”, e tutta quella gente giovane e brillante ascoltava Friedman parlare della globalizzazione e dire che la tecnologia aveva abbattuto i muri del mondo. Pendevano dalle sue labbra, al punto che restarono concentrati e con i telefonini spenti per tutta la durata del discorso. Alla fine riaccesero istantaneamente i cellulari e nell’enorme sala iniziò la sinfonia di migliaia di piccole dita che premevano i tasti di centinaia di rettangoli luminosi. Ovviamente Friedman non è soltanto un editorialista del giornale più potente del mondo: è qualcos’altro. È un oratore. Oggigiorno abbiamo un’intera popolazione di oratori, quasi tutti uomini, che si guadagnano da vivere in vari modi ma la cui vera professione consiste nel fare apparizioni in convegni come questo. Alcuni sono giocatori e altri soltanto giornalisti, ma per un breve istante il dibattito li rende tutti uguali. Gli oratori parlano davanti a un pubblico di persone normali, ma in realtà si esibiscono l’uno per l’altro in

situazioni come la Foursquare Conference a New York o l’appuntamento di Herbert Allen a Sun Valley per gli amministratori delegati: il lavoro dell’oratore consiste nel mettere in prospettiva qualsiasi luogo comune adeguato al momento e convalidarlo. In effetti questi convegni tendono a convalidare qualsiasi cosa, e non stupisce che negli ultimi due a cui ho preso parte siano saliti sul palco alcuni rappresentanti di Walmart che non sono stati interpellati neppure una volta sui loro problemi di pubbliche relazioni a proposito di certe fastidiose questioni come il trattamento dei dipendenti. (In compenso sono stati piacevolmente interrogati sulla politica aziendale che impone ai manager che viaggiano di volare in classe turistica e di dormire in due per stanza. Entrambe le volte gli uomini di Walmart hanno risposto piacevolmente. In entrambe le occasioni il pubblico ha apprezzato). Comunque l’aspetto degno di attenzione è che, ogniqualvolta prendo parte a uno di questi convegni, sento un luogo comune sulla rete, un’asserzione inconfutabile che prima o poi si rivela errata. Non è facile sbagliarsi riguardo al web, dato che contiene praticamente ogni elemento dell’universo. Qualsiasi cosa si dica avrà una parte di verità, in un modo o nell’altro. Invece non è così. Per esempio, quando ho cominciato ad andare a questi convegni si dava per scontato che la rete ci avrebbe resi tutti liberi; a quel tempo per noi internet voleva dire e-mail. Manager e opinionisti si affannavano a sostenere che fosse molto più semplice rispondere a venti e-mail che a venti telefonate. Ora i manager rispondono a centinaia di e-mail quotidiane e la vita non è diventata nemmeno lontanamente più semplice. Rispondono alle e-mail giorno e notte. Non staccano mai. Oltretutto non assorbono quasi niente di quel che accade, perché nell’istante stesso in cui accade il BlackBerry lampeggia. Poi cominciò il boom delle dotcom e arrivò un altro luogo comune: le dotcom ci avrebbero fatti diventare ricchi. Era vero. E successo. E poi all’improvviso le dotcom crollarono. Quindi non era del tutto vero.

Era il momento di un nuovo luogo comune: non c’erano soldi nel web. Sconcertante: sembrava che nella storia del capitalismo si stesse verificando un fenomeno stupefacente, inedito e misterioso. Era sorto un business enorme, senza profitti. Warren Buffett, che è il re delle tavole rotonde, l’Iperoratore, il secondo uomo più ricco d’America, l’oracolo di Omaha che gioca a bridge online con l’uomo più ricco del Paese, in quel periodo fece un discorso e ricordò a tutti i suoi accoliti che fra il 1904 e il 1908 erano attive duecentoquaranta industrie automobilistiche, e che nel 1924 dieci di queste facevano il novanta per cento del fatturato complessivo. Una frase che veniva citata come se discendesse dal monte Sinai, sebbene nessuno ne capisse davvero il significato. Voleva dire che sarebbero falliti tutti? O quasi tutti? Quelli che avevano cominciato nei garage avrebbero fatto i soldi, ovviamente… anzi, li avevano già fatti. Quelli che avevano inventato la tecnologia e il software si sarebbero arricchiti. Ma tutti quelli arrivati dopo erano destinati al fallimento. Si organizzarono numerosi dibattiti, e molti dei partecipanti offrivano riflessioni interessanti (ed esprimevano perplessità) sul futuro, ma un dato era chiaro: nel web non c’erano soldi. E la pubblicità non era la soluzione: la pubblicità non poteva funzionare, perché la gente che usava internet non l’avrebbe mai accettata. Il web era libero. Era democratico. Era puro. La pubblicità era una scommessa persa in partenza. Cosa ancora più importante, nel mondo interattivo in cui viviamo gli utenti del web l’avrebbero rifiutata e bloccata. Il che mi porta al convegno su internet a cui ho partecipato la scorsa settimana, dove, non vi sorprenderà saperlo, circolava un nuovo luogo comune: con il web si possono guadagnare miliardi di dollari. All’improvviso si era capito che la pubblicità in internet era una miniera d’oro e che non si doveva far altro che fornire i contenuti che la giustificassero. Mi è venuto in mente che per una web company la vera definizione di “contenuto” è “qualcosa da fornire per giustificare la pubblicità”. Era un pensiero deprimente, anche se in qualche modo la mia convinzione che tutti i luoghi comuni sulla rete prima o poi vengono sfatati mi ha salvato da una crisi di sconforto.

A proposito, il mondo non è piatto. Ci sono muri dappertutto. Se non ce ne fossero non saremmo andati in Iraq dove tutti hanno perso, non soltanto Tom Friedman.

Fatemelo dire: IL BRODO DI POLLO L’altro giorno sentivo che mi stava venendo il raffreddore. Come misura preventiva, ho deciso di prendere un brodo di pollo. Ciononostante, mi è venuto il raffreddore. Succede sempre così: ti sembra che ti stia venendo il raffreddore, bevi il brodo di pollo, ti ammali lo stesso. È mai possibile che sia il brodo a farti ammalare?

Pentimento Conobbi Lillian Hellman nel 1973, poco prima della pubblicazione delle sue memorie, Pentimento. Io ero una redattrice di Esquire e stavamo pubblicando due sezioni del libro, una delle quali si intitolava La tartaruga e parlava di lei e Dashiell Hammett. Non avevo mai visto nessuno dei lavori teatrali della Hellman e i gialli di Hammett non erano stati una lettura facile, ma appena lessi La tartaruga in bozze pensai che era la cosa più romantica che fosse mai stata scritta. È la storia di una selvaggia tartaruga alligatore che lei e Hammett uccidono. Le tagliano la testa e la lasciano in cucina con l’intenzione di fare una zuppa. Non si sa come, la tartaruga resuscita, esce dalla porta e va a morire nel bosco, scatenando una lunga disputa ellittica tra Hellman e Hammett sull’ipotesi che l’animale sia una reincarnazione anfibia di Gesù. La mia infatuazione per quel racconto non ha scusanti. Non ero stupida e non ero nemmeno più una ragazzina ingenua, due circostanze che avrebbero potuto costituire un’attenuante. Non ero stata nemmeno sfiorata dal sospetto, come non lo fu quasi nessun lettore di Pentimento, che le storie del libro fossero inventate e che il dialogo fosse un’involontaria parodia dello stile ostico di Dashiell Hammett. La trovavo divina. Chiamai la New York Times Book Review per chiedere se potevo intervistare l’autrice in occasione dell’uscita del libro. Risposero di sì. Lillian Hellman era già avviata verso il notevole terzo atto della sua vita. Aveva pubblicato Una donna incompiuta, un libro di memorie che era diventato un best seller e aveva vinto il National Book Award, e adesso Pentimento prometteva di vendere ancora di più. Compariva ai talk show e ammaliava gli ospiti soffiandogli il fumo in faccia. Con quei due libri aveva cancellato il brutto ricordo delle sue ultime pièce

teatrali. Qualche anno dopo, dalla storia più famosa di Pentimento, Julia, fu tratto un film con Jane Fonda nel ruolo di Lillian e Jason Robards in quello di Hammett. Vanessa Redgrave era Julia, la coraggiosa spia antinazista a cui la Hellman sosteneva di aver consegnato nel 1939 in Germania cinquantamila dollari nascondendoli dentro un cappello di pelliccia. La fine della vita di Lillian Hellman fu un disastro ferroviario, ma questo accadde dopo. Ho scritto un testo teatrale sull’argomento, e questo è stato ancora più tardi. Quando incontrai Lillian, lei aveva sessantotto anni e ne dimostrava almeno dieci di più, persino per gli standard dell’epoca. Non era mai stata bella, ma se non altro era stata giovane; adesso era tutta una ruga ed era quasi cieca. Aveva la voce roca. Fumava con il bocchino e usava uno di quei portacenere che sembrano sacchettini con una striscia di metallo in mezzo per appoggiarci la sigaretta. Poiché non ci vedeva quasi più, il rischio che il lungo cilindretto di cenere non riuscisse ad arrivare fino al portacenere ma le cadesse in grembo dandole fuoco aggiungeva un brivido di suspence a ogni minuto trascorso con lei. Eppure, e su questo mi dovete credere sulla parola, aveva tutto il fascino di una persona piena di vita, seducente e sincera. Andai a trovarla nella sua casa di Martha’s Vineyard, sulla spiaggia rocciosa vicino a Chilmark. E un’intervista imbarazzante. Non le feci nemmeno una domanda di rilievo, anche perché non ne avevo preparata nessuna. Ero intimidita. Quella era la donna che aveva detto alla Commissione per le attività antiamericane: «Non posso e non voglio adattare la mia coscienza alla moda di quest’anno». Aveva amato l’uomo più difficile che si potesse immaginare e, benché lui fosse quasi costantemente in preda ai fumi dell’alcol, ne era stata riamata. E adesso si scopriva che in pratica aveva fermato Hitler. Nel pomeriggio, dopo il nostro primo colloquio, andai a fare una passeggiata sulla spiaggia. Ero arrivata da pochi minuti quando comparve un uomo. Sembrava essere sbucato dal nulla. Era un signore anziano, con i capelli grigi, grassoccio.

Mi chiese se ero ospite di Lillian e io mi innervosii. Balbettai delle scuse e mi incamminai il più in fretta possibile sulle rocce per tornare alla casa. Lillian era sulla veranda, con addosso un pareo hawaiano. «Com’era la spiaggia?» chiese. «Bella» dissi. «C’era qualcuno?». «Un uomo». «Vecchio? Grasso?». «Sì» dissi. «Adesso basta» sbottò lei. Si alzò e si avviò verso la spiaggia. Tornò poco dopo. L’intruso era scomparso. Era furibonda. A quanto pareva era in guerra con quel tizio. Dannazione, gli aveva detto di stare lontano dalla sua spiaggia. Dannazione, gli aveva detto di piantarla di attaccare bottone con i suoi amici. Glielo avrebbe ripetuto, se avesse osato ripresentarsi e l’avesse beccato. Era furibonda perché se l’era filata prima che lei potesse cacciarlo via. Non riuscivo a crederci. Moriva dalla voglia di litigare. Amava lo scontro. Era una drammaturga e aveva bisogno di drammi. Io ero una giornalista e mi piaceva osservare. Ero impressionata. Dopo che la mia pessima intervista uscì sul Times, Lillian e io diventammo amiche. Probabilmente “amiche” non è la parola giusta: diciamo che divenni una delle persone giovani della sua vita. Mi scriveva molte lettere, lettere spiritose, quasi sempre battute a macchina, e si firmava Miss Hellman. Mi mandava ricette. Veniva da me e io andavo a trovarla nelle sue case. Devo ammettere che era difficile immaginare che fosse stata comunista. Ero cresciuta frequentando molta gente di sinistra di Hollywood che se la passava bene, ma nell’appartamento al 630 di Park Avenue non c’era alcuna traccia della Vecchia Sinistra - niente arte messicana, per

esempio, né quadri e manifesti di Ben Shahn; l’arredamento era una via di mezzo fra lo stile Wasp e quello ebreo tedesco: divani di broccato, tavolini di mogano scuro, marine a olio, tappeti persiani. Organizzava cene per sei o otto invitati durante le quali raccontava storie strepitose che, ora me ne rendo conto, erano esagerate, ma allora mi divertivano molto. Una domenica aveva avuto un battibecco con una commessa del reparto pellicce di Bergdorf Goodman. Jason Epstein le aveva incendiato la cucina preparando cibo cinese. Lillian era divertente. Molto divertente. Aveva una risata profonda e contagiosa e sapeva come tener viva la conversazione. «È morto un mio prozio» raccontò una sera a tavola «e l’avvocato mi ha chiamato per dire: “Le ha lasciato una piacevole somma di denaro”. Secondo voi quanti soldi sono una piacevole somma di denaro?». Che gioco! Che gioco meraviglioso! Alla fine, dopo un’accesa discussione, stabilimmo che la nostra idea di piacevole somma di denaro ammontava a seicentosettantacinquemila dollari. Esatto, disse lei, avevamo indovinato. Era la verità? C’era qualcosa di vero in quella storia? Chissà. L’ascoltavo incantata raccontare della volta in cui Hammett era scappato con la moglie di S. J. Perelman, di quando Peter Feibleman (a cui alla fine lasciò la casa di Martha’s Vineyard) aveva ferito i suoi sentimenti corteggiando una delle sue migliori amiche, di come un giorno aveva visto una ragazza e aveva pensato che potesse essere la figlia di Julia. Era successo su una rupe, mi ricordo. Lillian e Hammett erano in piedi su una rupe quando una giovane donna si era avvicinata, le aveva toccato un braccio ed era fuggita. «Da allora ci penso sempre» diceva. «Assomigliava tanto a Julia». Ecco qui una lettera che mi scrisse a proposito di delicatessen, di mio padre Henry e di me: Sono seduta nel negozio di delicatessen P. J. Bernstein, dove vengo una volta al mese. Da tempo mi fanno tenerezza le signore di mezza età che devono lavorare in piedi, e alcune cameriere, essendo

ebree, approfittano di questa tacita simpatia. Una di loro sa che faccio qualcosa, ma non sa esattamente cosa, il che non le impedisce di baciarmi quando ordino il mio knockwurst. Qualche giorno fa, appena ha finito di baciarmi mi ha detto: «Conosce Henry Aarons?». «No, non lo conosco» ho risposto. Lei mi ha dato la tipica spinta ebraica che ti sloga la spalla. «Ma di sicuro conosce sua figlia» ha detto. «Può darsi» ho risposto, verificando se la spalla fosse ancora intera. Quando è tornata con il mio knockwurst ha detto: «La figlia è una brava scrittrice, vero?». Ho risposto che non lo sapevo; la spalla era ormai a posto. E lei: «Come sarebbe? Non sa riconoscere una brava scrittrice?». «Dove abita il signor Aarons?» ho chiesto, nella speranza di imprimere la direzione giusta alla conversazione. «Dalle mie parti?». E lei: «Viene qui». Be’, dopo venti minuti, il tempo di farmi venire un ‘indigestione, ho scoperto che parlava di tuo padre, il quale, per coincidenza, un paio d’ore più tardi mi ha chiamata per dirmi che aveva visto Julia. Non so perché ti racconto tutto questo, ma dev’essere perché voglio farti sentire in colpa. Una lettera deliziosa, non è vero? Le ho conservate, le sue lettere. Sono tante. Quando le sfoglio, mi tornano tutti i ricordi: come mi piacevano le prime, come ne ero incantata e lusingata, e come, dopo un po’, avevano cominciato a sembrarmi meno affascinanti, e com’erano diventate, alla fine, pesanti e noiose. È la storia di tutti gli amori. Vi racconto una cosa che le piaceva fare: l’es. Oggigiorno quasi nessuno sa che cosa sia, ma mia madre, chissà perché, ci aveva insegnato il significato dell’espressione. ES sta per Equo Scambio, ed ecco come funziona: telefoni a una persona e le dici che hai un ES per lei. Significa che hai sentito un complimento sul suo conto e che glielo riferirai a patto che lei ti riferisca una cosa bella che qualcuno ha detto su di te. Una transazione, in altre parole.

Inutile dire che è un modo strano, ingeneroso e seriamente narcisistico di riferire a qualcuno qualcosa di gentile detto sul suo conto. «Signorina Ephron» diceva al telefono. «Parla la signorina Hellman. Avrei un ES per lei». Le prime volte ero felice di stare al gioco… molte cose belle nell’aria riguardavano Lillian. Era la donna dell’anno. Ma con il passare del tempo le sue telefonate diventarono un incubo. I nodi venivano al pettine. Aveva scritto un altro libro, Il tempo dei furfanti, un testo autocelebrativo sul suo rifiuto di rispondere alle domande della Commissione per le attività antiamericane. A questo era seguita la decisione piuttosto problematica di posare per la pubblicità di un visone Blackglama. Parlavano di lei, ma non erano commenti che avrei potuto usare nello scambio di complimenti, e poi io vivevo a Washington e la gente di Washington non parla di quelli che vivono altrove, questa è la verità. Comunque eccola lì, all’altro capo del telefono, in attesa che io barattassi un complimento. Cercavo di farmi venire in mente qualcosa, qualsiasi cosa. Dovevo stare attenta, perché non volevo essere sorpresa a mentire. In ogni caso dovevo farle credere che il complimento venisse da un uomo perché, malgrado il suo affetto per me, a Lillian non interessavano le carinerie di altre donne. E non potevo dire: «Sono a Washington, qui nessuno parla di te». Così alla fine inventavo qualcosa, di solito una frase che attribuivo a mio marito, il quale l’adorava (ed era vero). Ma questo non poteva soddisfarla, perché Lillian voleva sentirsi dire che avevo trascorso la serata con uno come Robert Redford (tanto per fare un esempio a caso) e lui aveva confessato di morire dalla voglia di portarsela a letto. Quando il mio matrimonio finì e io tornai a New York, Lillian rimase scioccata. Non riusciva a capire perché avessi lasciato mio marito. Mi telefonò e mi pregò di ripensarci. Disse che dovevo perdonarlo.

Né io né mio marito avevamo la minima intenzione di rimetterci insieme, ma lei era decisa e continuò a insistere. Non puoi perdonarlo? Colsi il momento per uscire dalla sua vita. Dissi a me stessa che non potevo restare amica di una donna che reagiva così al mio divorzio. Poi, un anno più tardi, Muriel Gardiner scrisse un libro sulla sua vita di spia, prima della Seconda Guerra Mondiale, e fu chiaro che Lillian Hellman le aveva rubato la storia. Non era mai esistita nessuna Julia e lei non aveva mai salvato l’Europa con il suo stupido cappello di pelliccia. Dissi a me stessa che non avrei mai potuto restare amica di una donna che si era rivelata una bugiarda patologica. Poi Lillian fece causa a Mary McCarthy perché le aveva dato della bugiarda. E io dissi a me stessa che non potevo più esserle amica perché non potevo rispettare una donna che aveva violato il primo emendamento. L’ho fatto davvero. Ho pensato proprio questo. La verità è che quando un idillio come questo finisce, qualsiasi scusa va bene. I dettagli sono solo dettagli. E la storia è sempre la stessa: la donna giovane idealizza la più anziana; le gira intorno e l’altra l’accoglie nella sua cerchia; la giovane scopre che la vecchia è soltanto un essere umano, fine della storia. Se la giovane è una scrittrice, prima o poi scriverà qualcosa sulla vecchia. Gli anni passano. Diventa vecchia anche lei. E ci sono momenti in cui vorrebbe scusarsi… perlomeno per come è finita. Questo potrebbe essere uno di quei momenti.

La mia vita da polpettone Qualche tempo fa, il mio amico Graydon Carter mi annunciò che voleva aprire un ristorante a New York. Tentai di dissuaderlo, perché sono fermamente convinta che quella di avere un ristorante è il genere di fantasia universale di cui tutti dovremmo liberarci, prima o poi, per non rischiare di finirci intrappolati per davvero. Diventare proprietari di un ristorante crea parecchi problemi, tra cui il fatto non trascurabile che non si potrà più andare a mangiare da nessun’altra parte. Probabilmente, rinunciare alla fantasia di avere un ristorante è l’ultima fase dello sviluppo cognitivo. Graydon continuò imperterrito per la sua strada e il ristorante che aprì downtown si fece una buona clientela. Un anno dopo mi raccontò che stava per aprirne un altro, questa volta uptown, nei locali dell’ex Monkey Bar. Disse che si augurava di farlo diventare qualcosa come l’Ivy di Londra, uno dei miei posti favoriti, e mi chiese se avevo qualche suggerimento per il menu. Gli mandai senza indugio una lunga lista. In cima alla lista c’era il polpettone. Io amo il polpettone. Mi fa sentire a casa. Alcuni mesi prima dell’apertura del ristorante uptown, fui invitata a una serata di degustazione che comprendeva un piatto insolito: due grosse fette di polpettone leggermente rosolate e piuttosto croccanti all’esterno. Era un’ottima combinazione di morbido e croccante, che evitava il tranello principale del polpettone tenero come una poltiglia, che si fa spazzolare nel giro di un minuto. Non direi che questo polpettone mi facesse sentire proprio a casa, ma era delizioso. Lo servivano con sopra una gustosa crema di funghi che ci stava benissimo, data la presenza della crosta. Di solito ho forti riserve sulla crema di funghi, però quel polpettone sembrava chiamarla a gran voce, e non per lamentarsene. Non potevo certo immaginare che il polpettone del Monkey Bar avrebbe portato il mio nome: invece, quando il ristorante

aprì, eccolo nel menu: “Polpettone alla Nora”. Mi sentii in dovere di ordinarlo, per lealtà verso me stessa, e lo trovai eccellente come alla serata di degustazione. Ero entusiasta. Inoltre mi sentivo stranamente realizzata. Come se, pur non avendo mosso un dito, l’avessi creato io. Avevo sempre invidiato Nellie Melba per la sua pesca, Margherita di Savoia per la pizza e Reuben per il sandwich, e adesso ero entrata nel club. “Polpettone alla Nora”. Qualcosa per cui sarei stata ricordata. Non era esattamente quello che avevo in mente quando facevamo il gioco “A cosa vorresti dare il tuo nome?”, perché allora speravo in un nuovo ballo o un modello di pantaloni. Ma adesso ero più vecchia ed ero disposta ad accontentarmi di un polpettone. A proposito, non ero l’unica a comparire nel menu del Monkey Bar. La mia amica Louise dava il nome a un’insalata, la “Sunset Salad Louise”. Durante le due settimane successive mi arrivarono cinque o sei e-mail di amici che si complimentavano per il mio polpettone. Ecco che cosa non risposi: 1. Non c’entravo niente. 2. Non era esattamente “mio”. 3. Nel mio polpettone ci metto una busta di passata di cipolle liofilizzata Lipton. Risposi invece: 1. Grazie. 2. Sono molto contenta che tu l’abbia ordinato. 3. È buono, vero? Ero orgogliosa. Il mio polpettone faceva furore. Era lì che lavorava per me, mentre io me ne stavo a casa a navigare in rete e a perdere intere giornate pensando a come rinnovare il salotto. Quando tornai al Monkey Bar lo ordinai di nuovo. Dopotutto, se non lo chiedevo io, come potevo aspettarmi che altri lo facessero? Ma c’era stata una variazione inquietante. Invece delle due fette di polpettone ce n’era una sola e la crema veniva servita a parte. Ne parlai con il maitre

che, dopo avermi ascoltata cortesemente, mi spiegò che un altro cliente aveva suggerito di mettere la crema a parte e per questo adesso veniva servita a parte. Non potei fare a meno di pensare che avrebbero dovuto consultarmi. Con molto garbo, cercai di fargli capire che era stato commesso un errore catastrofico. Dissi che io ero la regina della “crema a parte”, ma che questo polpettone in particolare implorava di esserne cosparso. Il maitre promise che ci avrebbe pensato. Dopo un paio di settimane, all’improvviso notai che stranamente, come i cani che non abbaiano nel Mastino dei Baskerville, non mi erano più arrivate e-mail di complimenti per il “mio” polpettone. Quando tornai al Monkey Bar la volta successiva, c’era anche la mia amica Alessandra. Finita la cena lei si avvicinò al nostro tavolo e disse: «Il polpettone sembra un disco da hockey». Ero sconvolta. Non si poteva negare che stava peggiorando, ma paragonarlo a un disco da hockey mi sembrò eccessivo. Dubitai della nostra amicizia. Forse Alessandra non aveva notato che il piatto portava il mio nome? E se fosse stato proprio il mio polpettone, invece di un polpettone qualsiasi a cui era stato appiccicato con leggerezza il mio nome senza neanche chiedermi se fossi d’accordo? Mi sembrò crudele e insensibile da parte sua. Questo accadeva un sabato sera. Il lunedì successivo ricevetti un’e-mail dal mio amico Sandy. Diceva: «Re: polpettone Monkey Bar. Fagli causa». A quel punto scrissi a Graydon un’e-mail piuttosto lunga in cui spiegavo che pur non avendo alcuna intenzione di creargli problemi, mi sentivo obbligata a informarlo che la gente parlava del polpettone e ciò che diceva non era lusinghiero. Mi rispose che avevano già provveduto: avevano appena licenziato lo chef per sostituirlo con il famoso Larry Forgione. Erano scontenti da settimane. Il polpettone era soltanto un sintomo del problema. Forgione arrivò e modificò il menu e la ricetta del polpettone, che divenne un polpettone tradizionale, saporito e

morbido, e, pur non contenendo una busta di passata di cipolle liofilizzata Lipton, mi faceva davvero sentire a casa. Lo servivano ancora con la crema di funghi a parte, anche se non so bene perché, visto che questo polpettone non la richiedeva. Però c’era lo stesso, una specie di equivalente gastronomico della coda vestigiale. Mi sentii sollevata. Potevo rilassarmi. Il mio polpettone era stato salvato e adesso ero libera di ordinare gli altri piatti del Monkey Bar. Provai una versione perfetta del chili di Chasen, servita con un muffin di granturco. Talmente celestiale da farmi decidere di restargli fedele per un po’. Dopo qualche tempo mi accorsi che il polpettone era stato retrocesso al ruolo di piatto del giorno del martedì, ma ero troppo presa dal mio rapporto monogamico con il chili per farmene un cruccio. Ne sto scrivendo perché ieri sono andata a cena al Monkey Bar. Era martedì. Mi ero ripromessa di dare un’occhiata al mio polpettone. Ho aperto il menu e, prima ancora di posarci lo sguardo, sapevo che cosa avrei visto o, per meglio dire, che cosa non avrei visto. Il mio polpettone non c’era più. L’insalata di Louise c’era ancora, ma il polpettone alla Nora era sparito. Era stato cassato. Non c’era altra spiegazione. Ho chiesto se qualcuno ne avesse parlato, adesso che non c’era più. Ho chiesto se ci fossero state delle lamentele. Se qualcuno se ne fosse almeno accorto. Nessuno. Come se non fosse mai esistito. Ora il piatto del martedì sono gli spaghetti con le polpette. Li ho ordinati nella speranza di scoprire che era stata commessa una grave ingiustizia, ma spaghetti e polpette erano squisiti. Ho buttato lì un piccolo suggerimento sulla consistenza del parmigiano grattugiato, e ora non mi resta che augurarmi che qualcuno mi ascolti.

Assuefazione Alcuni anni fa incappai in una cosa che si chiamava Scrabble Blitz, su un sito che si chiamava Games. com. Era una versione della durata di quattro minuti del solitario Scrabble, e mi sono messa a giocare ignara del fatto che nel giro di un giorno - non esagero - mi avrebbe bruciato il cervello. Non sono nuova a questo genere di esperienze: un’estate, quando ero giovane, mi era venuta un’insana passione per il croquet, al punto che facevo sogni ricorrenti in cui, brandendo la mazza, ficcavo la testa di mia madre nella porta. Mi è successa la stessa cosa con Scrabble Blitz, senza mia madre, defunta da molti anni. Ho cominciato a fare sogni sullo Scrabble in cui le persone si trasformavano in lettere che mi giravano intorno in una danza sfrenata. Se qualcuno mi parlava, mi estraniavo dalla conversazione e mi ritrovavo a pensare a quante lettere aveva il nome di chi non stavo ascoltando. Mi addormentavo memorizzando le parole di due o tre lettere, che è ciò che distingue i drogati di Scrabble da quelli che non lo sono. (Per esempio, mentre voi eravate impegnati in altre faccende, nel dizionario di Scrabble le seguenti sillabe sono diventate parole: “qi”, “za”, e “ka”. Non chiedetemi che cosa significhino, ma posso presumere che, sulla scorta della tradizione, siano monete indonesiane. E anche “Luv” è una parola, come lo è “suq”). Ricordate quella pubblicità, «Questo è il vostro cervello. Questo è il vostro cervello se assumete droghe»? Io ero così. Avevo il cervello in pappa. E sentivo che stava andando in pappa. Diventavo ogni giorno più vaga, distratta e deconcentrata: mostravo tutti i sintomi di un deficit di attenzione all’ultimo stadio, mi stavo trasformando in un maschio adolescente. Mi informai su come internet altera il tuo cervello in modo permanente e tentai di condividere la mia nuova consapevolezza in luoghi di tutti i generi dove, se

ricordo bene, nessuno era particolarmente interessato ad ascoltarmi. Il sito di Scrabble Blitz era frequentatissimo da altri disturbati che gestivano la loro assuefazione scrivendo commenti in chat durante i due minuti d’intervallo tra una partita e l’altra, una pausa perfetta per fare il logout e smettere di giocare, solo che nessuno usciva perché eravamo totalmente drogati e pensavamo che tanto avremmo giocato solo un’altra partita o al massimo due. I commenti suonavano più o meno così: «Sono un drogato, lol» e «Non riesco a smettere, ah ah ah». Il mio disprezzo per questi commenti mi induceva a sentirmi diversa dalla gente che scriveva, ma in verità non lo ero: ero esattamente come loro, eccetto per lol e ah ah ah, sebbene mi sia capitato di usarli qualche volta, anche se non in chat e quasi sempre ironicamente, mi auguro. Ma, a essere sincera, non potrei giurarci. Alla fine Scrabble Blitz divenne ingestibile per il sito. Il “lag” era un grosso problema. Di tanto in tanto l’area restava inaccessibile per giorni e, quando tornava, tornavano anche tutti i drogati con i loro commenti su come era stata dura sopravvivere senza il gioco. Mi stava venendo la sindrome del tunnel carpale, non sto scherzando. Capii che dovevo liberarmi del vizio. Ci pensai seriamente. Promisi a me stessa che l’avrei fatto. Dopo un’altra partita. Dopo un altro giorno. Un’altra settimana. E poi, improvvisamente, fui salvata da quella che nelle polizze di assicurazione viene definita calamità naturale: Scrabble Blitz chiuse, per sempre. Era finita. Non esisteva più. Tornai allo Scrabble online normale, una versione del gioco blanda e soporifera. Mi limitai a due partite al giorno, non di più. Per parecchi anni vagai da un sito all’altro - ce ne sono un bel po’ - e adesso ho trovato Scrabulous.com. Gioco su questo sito da poco più di cinquanta giorni, lo so perché ho appena ricevuto un’e-mail di congratulazioni dallo staff in occasione della mia centunesima partita. Mi è venuto il dubbio che anche due partite al giorno sono troppe, forse. Ciò, tuttavia, non mi ha impedito di giocare. Sono in grado di controllarmi.

Questa settimana però ho avuto una brutta ricaduta. Entrando nel sito per giocare le mie abituali due partite, con grande stupore ho visto nella home page un link a Scrabble Blitz. Solo che non si chiamava Scrabble Blitz. Si chiamava Blitz Scrabble. Era tornato. Funzionava perfettamente. E non solo era tornato il gioco, erano tornati anche tutti quelli con cui avevo giocato, ognuno con le sue tristi battute sull’assuefazione, seguite da lol o ah ah ah e a volte da una ©. Ho deciso di giocare solo una partita, magari due. Un’ora più tardi ero ancora lì. Il cuore mi batteva forte. Il mio cervello stava andando di nuovo in pappa. Ero fatta. Sono passati cinque giorni, cinque giorni in cui ho giocato a Blitz Scrabble oppure ho pensato di giocare a Blitz Scrabble. Quando mi addormento, le lettere mi danzano nella testa. Sono di nuovo un maschio adolescente. È evidente che c’è una sola cosa da fare: devo attivare il filtro che blocca i siti vietati ai minori - sono sicura che il mio computer ce l’ha - e mettere Scrabulous.com sulla lista. Addio. Me ne vado. Me ne vado per sempre. Ma, prima di andarmene, voglio fare la mia ultima partita di Blitz Scrabble. O penultima. O terz’ultima. ©.

I SEI STADI DELL’EMAIL Primo stadio: INFATUAZIONE Ho un indirizzo e-mail! Non riesco a crederci! È fantastico! Ecco il mio indirizzo. Scrivimi. Chi ha detto che l’abitudine di scrivere lettere era morta? Come si sbagliavano. Per la prima volta da anni sto scrivendo lettere come una matta. Torno a casa, ignoro i miei cari e mi metto al computer per contattare perfetti sconosciuti. E non è grandioso Aol? È così facile. Così friendly. E la comunità globale. Iuuhuu! C’è posta per me! Secondo stadio: CHIARIMENTO Okay, comincio a capire… inviare e-mail non è affatto come scrivere lettere, è qualcosa di completamente diverso. È stata appena inventata, questa cosa, è appena nata e nel giro di poche ore ha già una forma e una serie di regole e un linguaggio tutto suo. Non succedeva niente del genere dall’invenzione della stampa. Dall’avvento della televisione. E rivoluzionario. Cambia la nostra vita. E una stenografia. Va subito al sodo. Non perde tempo. Con un’e-mail bastano cinque secondi per fare quello che al telefono richiederebbe cinque minuti. Al telefono devi parlare, dire cose come ciao e arrivederci, fingere una parvenza di interesse per il tuo interlocutore. Peggio ancora: il telefono a volte ti costringe a programmare un incontro con le persone con cui stai parlando, a suggerire di vedersi per prànzo o per cena, anche quando non ne hai voglia. Con un’email, questo pericolo non c’è. Le e-mail sono un modo completamente nuovo di comunicare con gli amici: intime ma non troppo, loquaci ma non troppo, comunicative ma non troppo; insomma, amici ma non troppo. Che invenzione! Come abbiamo fatto a vivere senza?

Avrei altro da dire sull’argomento, ma devo rispondere al messaggio urgente di qualcuno che quasi conosco. Terzo stadio: confusione Cos’ho fatto per meritarmi questo? Viagra!!!!!! Best Web source for Vioxx. Una settimana a Cancun. Per un bel prato verdeggiante. Astrid vorrebbe essere uno dei tuoi amici. XXXXXXXVideo. Allunga il tuo pene di sette centimetri. Il Comitato Nazionale Democratico ha bisogno di te. Virus Alert. Fw: Buffo. Fw: Comico. Fw: Esilarante. Fw: Uva e uvetta tossiche per i cani. Fw: L’ultimo addio di Gabriel Garcia Màrquez. Fw: Il discorso di Kurt Vonnegut al Mit. Fw: La ricetta dei biscotti al cioccolato Neiman Marcus. Membro di Aol: ci interessa la tua opinione. Un messaggio di Barack Obama. Mutui vantaggiosi, Nora. Anche tu puoi splendere, Nora. Vuoi ridurre le spese, Nora? Yvette vorrebbe diventare tua amica. La connessione è stata interrotta. Quarto stadio: DISINCANTO Aiuto! Affogo. Devo rispondere a centododici e-mail. Sono una scrittrice, chissà quante ne avrei se facessi un lavoro vero. Chissà quanto potrei scrivere, se non dovessi rispondere a tutte queste e-mail. Mi fanno male i polsi. Non riesco a concentrarmi. Appena comincio a scrivere qualcosa, l’icona si mette a saltare su e giù e devo per forza controllare se è arrivato un messaggio utile o interessante. No, niente. Però da un momento all’altro potrebbe arrivare. E in effetti è vero, con un’e-mail posso fare in pochi secondi quello che mi porterebbe via molto più tempo al telefono, ma nella maggior parte dei casi la posta mi arriva da gente che non ha il mio numero di telefono e comunque non mi chiamerebbe. Mentre scrivevo questo paragrafo, sono arrivate altre tre e-mail. Adesso devo rispondere a centoquindici e-mail. Aggiornamento: centosedici. Giù giù giù giù giù. Quinto stadio: ADATTAMENTO Sì. No. Non posso. Impossibile. Forse. Non credo. Mi dispiace. Mi dispiace tanto. Grazie. No, grazie. Fuori città.

Fuori. Riscrivi tra un mese. Riscrivi in autunno. Riscrivi tra un anno. [email protected] ora può essere raggiunta a [email protected]. Sesto stadio: morte Chiamami.

Flop Ho avuto molti flop. Film che sono stati un fiasco totale. Quando dico fiasco totale, voglio dire che hanno avuto pessime recensioni e non hanno guadagnato niente al botteghino. Ho avuto anche insuccessi parziali: lavori che hanno avuto buone recensioni e al botteghino non hanno guadagnato niente. Ho avuto anche successi. Un successo è bellissimo. Non c’è niente di meglio. Un insuccesso invece è orribile. E penoso e mortificante. È triste e solitario. Alcuni dei miei insuccessi alla fine sono diventati film di culto, che è l’ultima spiaggia per un flop, ma perlopiù sono rimasti insuccessi. Il flop ti rimane appiccicato addosso come ai film di successo non accade. Ti tormentano. Non trovi pace. Provi a girare di nuovo mentalmente il film. A cambiare il cast. A rifare il montaggio. A riscriverlo. A rifare le scene. Valuti tutti i se e i ma. Non sai a chi o a che cosa dare la colpa. Il bello di dirigere un film, a differenza di quando scrivi solo la sceneggiatura, è che non ti puoi sbagliare sul colpevole: sei tu. Ma prima di dedicarmi alla regia, quando ero soltanto una sceneggiatrice, potevo accusare chiunque. Anni fa ho scritto un film che non ha funzionato. Secondo me. Magari l’avete visto. Magari vi è persino piaciuto. Ma quando è andato nelle sale, è stato un flop; ha avuto una sola buona recensione in tutti gli Stati Uniti e poi è andato a fondo come un sasso. Per anni ho cercato di capire dove avevo sbagliato e che cosa avrei dovuto fare. Che cosa avrei dovuto dire al regista?

Che cosa avrei dovuto fare per difendere la prima versione della sceneggiatura, la versione migliore, quella con la voce fuori campo? Che cosa avrei dovuto fare per impedire al regista di inserire la sequenza del luna park o di tagliare i flashback, che erano molto divertenti? O no? Per anni mi sono interrogata su tutto questo. Poi un giorno sono andata a pranzo con la persona che aveva curato il montaggio. Stavo per lavorare alla mia prima regia e speravo che potesse darmi qualche consiglio. A un certo punto ci siamo messi a parlare di quel flop. Dev’essere stato lui a tirar fuori l’argomento, perché io non l’avrei mai fatto. È un’altra caratteristica degli insuccessi: dopo eviti di parlarne, perché fa troppo male. Comunque, lui mi assicurò che non avremmo potuto fare nulla; il problema, disse, era il cast. Mi tranquillizzai, almeno per un po’. Se non altro era una soluzione dell’enigma: il cast non era quello giusto. Logico. Quindi non era colpa mia. Che sollievo. Per molto tempo mi sono consolata con questa teoria. Poi, di recente, ho rivisto il film e ho capito perché non aveva funzionato. Gli attori andavano bene, il problema era la sceneggiatura. Non era abbastanza buona, non era abbastanza divertente, non era abbastanza solida. Quindi, dopotutto, la colpa era mia. A proposito, una delle cose in cui speri, quando il tuo film viene stroncato, è che un critico importante se ne appassioni e attacchi tutti i colleghi che non l’hanno apprezzato. Lo dico per due ragioni: primo, hai modo di capire quanto diventi patetica dopo un flop; secondo, mi è successo veramente con un film di cui ho scritto la sceneggiatura, Affari di cuore. Quando uscì nelle sale, Affari di cuore fu un fiasco. Un anno dopo, Vincent Canby, eminente critico cinematografico del New York Times, lo vide per la prima volta e scrisse un articolo in cui lo definiva un piccolo capolavoro. Non sono le sue parole esatte, ma quasi. E sostenne che gli sembrava assurdo che gli altri critici non se ne fossero resi conto. È una

magra consolazione, perché non ho potuto fare a meno di chiedermi come sarebbero andate le cose se lui l’avesse recensito all’uscita. Non sto insinuando che il film avrebbe potuto andare meglio al botteghino, però una recensione favorevole del Times sarebbe stata un buon paracadute. Uno degli aspetti più tristi di un flop è che, anche se in seguito riesce a cavarsela, anche se viene in parte redento, tu rimani scottata, ferita dal primo giudizio. La cosa peggiore è che puoi persino arrivare a trovarti d’accordo con il pubblico, vale a dire quelli a cui non è piaciuto. Sei d’accordo con loro, sebbene ciò significhi abbandonare la tua creatura. La gente che non è del mestiere si chiede sempre se lo sapevi, che sarebbe stato un flop. Dicono cose come: «Non l’avevano capito?». «Non se lo aspettavano?». La mia esperienza mi dice che no, non lo sai. Non lo sai perché sei tu che hai scritto la sceneggiatura. Perché gli attori ti piacciono. Adori la troupe. Due o trecento persone ti hanno seguito in quest’avventura, hanno dedicato sei mesi o un anno della loro vita a un’impresa in cui tu li hai convinti a credere. È la tua festa, sei la padrona di casa. Hai fatto l’impossibile per avere un buon catering sul set. Hai fatto arrivare in aereo il semifreddo dal Wisconsin. E tutti si stanno divertendo da matti. Ora so che quando giri un film in cui la troupe se la ride e il tecnico del suono continua a dirti che sarà la commedia più divertente della storia, sei nei guai. La prima volta che mi è successo non me lo aspettavo, ovviamente. La troupe era entusiasta. Si buttavano per terra dal ridere. L’operatore e l’assistente si ficcavano in bocca i fazzoletti di carta per non sghignazzare. Ma dopo il montaggio la proiezione di prova andò male. Voglio essere più esplicita: andò come vanno molte commedie, ovvero il pubblico rise delle battute eppure il film non piaceva. Questo è il momento in cui dovresti capire che ti stai avvicinando al flop, invece non lo capisci, pensi di poter ancora rimediare. Dopotutto, hanno riso, no? Deve pur

significare qualcosa. E poi girano tante storie sui film sistemati dopo la proiezione di prova. Sono fatti risaputi. Hanno sistemato Attrazione fatale. Non che il tuo film assomigli neanche lontanamente ad Attrazione fatale. Però ti dà una speranza. Così rifai il montaggio. E giri daccapo alcune scene. E la proiezione di prova va male di nuovo. A questo punto dovresti saperlo, che sarà un flop. Saresti una sciocca a non capirlo. Ma non lo ammetti. Perché speri. Speri nonostante tutto. Speri che ai critici piacerà. Forse le recensioni serviranno. Speri che lo studio prepari un trailer che spieghi il film al pubblico. Passi ore al telefono con quelli del marketing. Ti preoccupi per le cifre. Ti dici che le proiezioni di prova non contano, anche se contano, invece. Contano eccome, soprattutto quando fai un film commerciale. Poi il film arriva nelle sale ed è fatta. Le recensioni sono pessime e nessuno va a vederlo. Forse non lavorerai più. Nessuno ti telefona. Silenzio. Il tempo passa. La vita continua. Hai la fortuna di poter girare un altro film. Eppure, quel fiasco rimane nella storia della tua vita come un buco nero con un campo magnetico molto potente. A proposito, c’è gente che sottolinea gli aspetti positivi dei flop. Scrivono libri su come hanno raggiunto il successo grazie al fallimento e sul potere del fallimento. Fallire, dicono, è un’esperienza di crescita; dal fallimento si impara. Vorrei che fosse vero. A me pare che la cosa più importante che si impara da un fallimento è che può benissimo capitartene un altro. Il mio più grande flop è stato un lavoro teatrale. Ebbe un’accoglienza tiepida, vale a dire alcune buone recensioni ma neanche una riga sul New York Times. Ha vivacchiato per un paio di mesi e poi è morto. Tutti i soldi investiti sono andati persi. Era la cosa più bella che avessi mai scritto, quindi è stata

un’esperienza che mi ha spezzato il cuore. Se ci penso per più di un minuto mi metto a piangere. Alcuni lavori sono un flop ma continuano a esistere grazie ai teatri di repertorio e alle compagnie amatoriali. Questa no. Nessuno la mette più in scena, mai. Potreste pensare che io abbia rinunciato a sperare che possa succedere qualcosa di buono alla mia commedia, ma non è così: a volte fantastico che, quando sarò in punto di morte, qualcuno in grado di rimetterla in scena verrà al mio capezzale per dirmi addio e io gli dirò : «Posso chiederti un favore?». Risponderà di sì. Cos’altro potrebbe rispondere a una che sta morendo? E allora gli dirò: «Ti prego, potresti rimettere in scena la mia commedia?». Si può essere più patetici?

La cena di Natale Facciamo una cena di Natale tradizionale da ventidue anni. Siamo in quattordici - otto genitori e sei figli - e durante la settimana delle vacanze ci troviamo tutti da Jim e Phoebe. Per una sera all’anno siamo una famiglia, un’allegra famiglia improvvisata, una famiglia di amici. Ci scambiamo doni modesti, facciamo previsioni sull’anno nuovo e mangiamo. Ognuno di noi porta qualcosa. Maggie porta gli antipasti. Come tutti quelli a cui vengono affidati gli antipasti, Maggie non ha grandi doti culinarie, però è una grande esperta nell’acquisto degli antipasti. Jim e Phoebe, i padroni di casa, si occupano della portata principale. Quest’anno ci sarà il tacchino. A me e a Ruthie sono sempre toccati i dolci. La specialità di Ruthie era un meraviglioso pudding di pane. Io, siccome non riesco mai a decidermi fra varie ricette, di solito ne preparo tre: qualcosa con il cioccolato (per esempio una torta di cioccolato alla panna), una torta di frutta (come una tarte Tatin) e un plum pudding, il classico pudding e, che mangio solo io. Mi piace preparare i dolci per la cena di Natale, e sono sempre stata convinta di essere bravissima. Ma adesso che tutto è andato al diavolo e mi ritrovo qui a ripensare agli ultimi ventidue anni di cene, mi rendo conto che l’unico dolce che tutti hanno sempre mostrato di gradire è il pudding di pane di Ruthie; nessuno ha mai fatto un complimento ai dolci che preparavo io. Come ho potuto, in tutti questi anni, non accorgermi di una verità tanto semplice è uno degli aspetti più sconcertanti della faccenda. Poco più di un anno fa Ruthie è morta. Era la mia migliore amica. Era anche la migliore amica di Maggie e di Phoebe. E stata una tragedia per tutti. Un mese dopo c’è stata la nostra cena natalizia, ma senza di lei non era più la stessa… la vita non era più la stessa, la cena non era più la stessa e il pudding di pane di Ruthie (l’avevo preparato seguendo fedelmente la sua ricetta) non era lo stesso. Quest’anno, quando abbiamo aperto i negoziati per decidere la data della cena, ho detto a

Phoebe che non volevo fare di nuovo il pudding di pane di Ruthie, perché mi faceva sentire persino peggio di come stavo. Comunque abbiamo stabilito la data. Ma poi il marito di Ruthie, Stanley, ci ha rivelato che non se la sentiva. Era troppo triste, ha detto. Allora Phoebe ha deciso di invitare un’altra famiglia e ha chiesto a Walter e Priscilla di venire con i figli. Walter e Priscilla sono buoni amici, anche se quattro anni fa lei ha annunciato che non le piaceva più vivere a New York e che si trasferiva in Inghilterra con i ragazzi. Priscilla, essendo inglese, ha tutto il diritto di preferire l’Inghilterra a New York, eppure non è stato facile non prendere la sua decisione come un affronto personale. Comunque, lei e i ragazzi verranno a Manhattan per stare con Walter a Natale e hanno accettato l’invito alla nostra cena. Qualche giorno dopo Phoebe mi ha chiamata e mi ha detto che aveva chiesto a Priscilla di preparare un dolce. Ero basita. I dolci li faccio io. Mi piace fare i dolci. Faccio dolci squisiti, io. Priscilla odia occuparsi dei dolci. L’unico dolce che abbia mai preparato in vita sua è la zuppa inglese, e quando la serve non manca mai di dire che la detesta e non la mangia per nessun motivo. «Farà la zuppa inglese» ho detto. «No, non la farà». «Come lo sai?». «Le dirò di non fare la zuppa inglese» mi ha risposto Phoebe. «Senti, ma come te la cavi con il purè di patate?». «Benissimo». «Allora porta il purè» ha detto lei. «A noi non viene bene». «D’accordo». Nei giorni seguenti ho cercato di decidere che dolci avrei portato. Ho preso il nuovo libro di ricette di Martha Stewart e ne ho trovata una della torta alle ciliegie. Ho ordinato via internet le ciliegie dal Wisconsin. Ho comprato gli ingredienti per il plum pudding che mangio solo io. Stavo meditando di fare una torta alla menta. E poi è

accaduto l’impensabile: Phoebe mi ha mandato un’e-mail per dire che, siccome io avrei preparato il purè, aveva chiesto a Priscilla di pensare lei a tutti i dolci. No, non poteva essere vero. Defraudata dei dolci e retrocessa al purè? Lo sanno tutti che sono una cuoca fantastica… com’era possibile? Mi è balenato per la mente il pensiero che Phoebe stesse usando la morte di Ruthie per impedirmi di fare i dolci. Non era da escludere che ci stesse provando da anni; era soltanto questione di tempo e sarei stata incaricata degli antipasti, mentre Maggie, privata del ruolo, avrebbe portato la frutta secca. Per riflettere sul colpo inferto alla mia autostima, ho fatto un bagno. Sono uscita dalla vasca e ho scritto la mia risposta a Phoebe. Una parola sola: «Cosa?». Un messaggio laconico ed efficace, che avrebbe senz’altro catturato la sua attenzione. Qualche minuto dopo è squillato il telefono. Era lei. Non chiamava per parlare della mia e-mail. «Roba da non credere» ha detto. «Ho appena ricevuto un’email di Priscilla: dice che lei non prepara nessun dolce. Walter è andato a Londra e ha comprato le miricepies. Le porterà a New York. Io le odio, le miricepies. Non le posso vedere. Una volta le avevi fatte anche tu e poi non le ha mangiate nessuno, o sbaglio?». «Erano tortini con le uvette» ho precisato. «E a me piacevano». «Mince pies!» ha detto Phoebe. «Chi vuoi che le mangi?». «Cosa pensi di fare?» ho chiesto. «Ho già fatto» ha risposto Phoebe. «Le ho scritto e le ho detto che le mince pies sono fuori questione, e di ordinare un tronchetto di Natale e una torta al cocco da Eli e farmele consegnare direttamente. Mince pies. Figuriamoci». «Roba da non credere» ho detto. «Penso che a questo punto potremmo eleggere la donna più crudele del pianeta».

«Chi sarebbe?» chiese lei. «Tu» risposi. «Perché non posso occuparmi dei dolci? Mi piace fare i dolci. L’anno scorso la mia torta alla menta è stata un successone». «Me la ricordo» ha detto Phoebe. «Ho già ordinato le ciliegie dal Wisconsin. Solo la spedizione costa cinquantadue dollari». «Se vuoi portare il dolce, portalo» ha detto Phoebe. «Non vedo perché, visto che ci saranno il tronchetto e le mince pies…». «E la torta al cocco» ha aggiunto lei. «La torta al cocco non può mancare, ma tu puoi portare quello che vuoi». Ho chiuso la comunicazione. Ero fuori di me. Fra l’altro avevo già comprato quattro gelati alla menta per una torta che ormai non avrei più preparato, a meno che non volessi dimostrare di essere la campionessa mondiale di non-capiscol’antifona. Oh, come mi mancava Ruthie! Se fosse stata ancora viva non ci sarebbero stati tutti questi malintesi. Era lei a tenerci uniti, a darci l’illusione di essere una famiglia. Era la madre che, amandoci tutti, faceva sì che ci volessimo bene, era lo spirito del Natale. Senza di lei eravamo un gruppo di fratelli litigiosi; adesso che lei non c’era più, veniva fuori il nostro lato peggiore. Ho acceso il computer e ho aperto il file con le immagini del nostro ultimo Natale insieme. Eravamo felici, stretti l’uno all’altro, una cosa sola. E c’era Ruthie. Aveva un sorriso bellissimo. Il giorno dopo mi ha telefonato Walter. Era appena arrivato a New York con quattordici mince pies e le avrebbe portate alla cena di Natale, cascasse il mondo. «Ne vado pazzo» mi ha detto. «Senza le mince pies non mi sembra neanche Natale». So come si sente.

Ilpudding di pane di Ruthie 5 uova grosse 4 tuorli 200 grammi di zucchero semolato Una di cucchiaino da tè di sale mezzo litro di latte intero 250 ml di panna, più 250 per servire 1 cucchiaino da tè di estratto di vaniglia 12 fette di pan brioche alte un centimetro e mezzo, senza crosta e imburrate su un solo lato 65 grammi di zucchero a velo Riscaldate il forno a 180 gradi e imburrate una teglia bassa. Sbattete delicatamente uova e tuorli con lo zucchero e il sale, fino a ottenere una crema. Mettete latte e panna in una casseruola e scaldate a fuoco alto senza portare a ebollizione. Quando il liquido comincia a fremere toglietelo dal fuoco e aggiungete l’estratto di vaniglia. Unitelo al composto di uova e MESCOLATE DELICATAMENTE. Disponete a strati le fette di pane nella teglia, con il lato imburrato verso l’alto, e versateci sopra l’impasto. Mettete la teglia in un contenitore più grande ripieno di acqua calda fino a metà e fate cuocere per 45 minuti o fino a quando il pane è dorato e la lama di un coltello ne esce asciutta. Il pudding deve risultare dorato e gonfio. Lo si può preparare in anticipo, ma non va raffreddato in frigorifero. Prima di servirlo, spolverizzatelo con lo zucchero a velo e mettetelo sotto il grill. Non allontanatevi dal forno, basta un minuto. Oppure potete usare uno di quegli aggeggi che servono per caramellare lo zucchero sulla crème brulée. Servite con panna a parte.

La parola con la D Per un periodo piuttosto lungo, essere una donna divorziata ha rappresentato il fatto principale della mia vita. E ha continuato a essere così anche quando mi sono risposata, e quindi non ero più una donna divorziata. Ormai sono sposata con il mio terzo marito da più di vent’anni. Ma se hai avuto figli con l’uomo da cui ti sei separata, il divorzio definisce ogni cosa; è l’ombra in agguato, la fetta di rabbia nella torta della tua mente. Esistono i buoni divorzi, naturalmente, dove tutto si svolge in maniera civile e addirittura cordiale. Gli assegni di mantenimento per i figli arrivano puntuali. Le visite avvengono nei tempi e nei modi stabiliti. L’ex marito suona il campanello e si ferma sulla soglia, non entra mai senza bussare e non va dritto in cucina a prepararsi una tazza di caffè. Nella mia prossima vita vorrei avere un divorzio così. Una cosa buona da dire sul divorzio è che ti consente di essere una moglie migliore per il marito che viene dopo perché hai un bersaglio contro cui rivolgere la rabbia, e non è la persona che ti sta accanto. Un’altra cosa buona da dire sul divorzio è che ti mostra con chiarezza una realtà che il matrimonio occulta, ovvero che nella vita ti devi arrangiare da sola. Non ci sarà più nessuna lotta di potere su chi si alzerà nel cuore della notte; ti alzerai tu. Per quanto riguarda i figli, invece, nel divorzio non c’è niente di positivo. Non ci si deve illudere, come fanno molti. Si sentono affermazioni del tipo: è meglio che i bambini non crescano con genitori infelici. Ma a meno che i genitori si pestino a sangue o maltrattino i figli, i bambini staranno meglio se loro due rimangono insieme. Sono troppo piccoli per fare la spola fra una casa e l’altra. Troppo piccoli per affrontare l’idea che le persone che più amano al mondo non si

amino più, ammesso che si siano mai amate. Troppo piccoli per capire che non ci sarà desiderio capace di farle tornare insieme. E l’odierna tiritera della custodia condivisa non servirà a indorare la pillola: per vedere un genitore il figlio di separati deve abbandonare l’altro. Il tipo migliore di divorzio è quello in cui non ci sono figli. Come è successo a me la prima volta. Prendi la porta e te ne vai, senza guardarti indietro. Avevamo dei gatti a cui ero molto affezionata. Io e mio marito comunicavamo miagolando. Quando finì il matrimonio, non pensai più neanche ai gatti (finché non ne parlai in un romanzo dove li avevo trasformati in criceti). Qualche mese prima che ci separassimo, il mio primo marito e io, una rivista mi chiese di scrivere un pezzo sugli attori Rod Steiger e Claire Bloom e il loro favoloso matrimonio. Andai nella casa in cui vivevano, sulla Fifth Avenue, e vollero che li intervistassi separatamente. Questo avrebbe dovuto mettermi una pulce nell’orecchio ma io non mi insospettivo mai. In effetti, a ripensarci, mi sembra di non aver mai nutrito un sospetto in vita mia fino ai cinquant’anni. Comunque li intervistai separatamente. Sembravano molto felici. Scrissi l’articolo, lo consegnai, la rivista mi mandò un assegno, lo incassai e il giorno dopo Rod Steiger e Claire Bloom annunciarono che avrebbero divorziato. Era pazzesco. Perché non me l’avevano detto? Perché avevano fatto uscire un articolo sul loro matrimonio mentre stavano divorziando? Ma quando fu il mio matrimonio a finire e circa una settimana dopo un fotografo si presentò a casa per fare un servizio sulla nostra cucina, con me e mio marito, io non c’ero, ovviamente. Me n’ero andata. E avevo dimenticato l’appuntamento. La giornalista che doveva scrivere il pezzo era furiosa. Non l’avevo avvertita, e sicuramente era arrabbiata perché avevo accettato l’intervista e il servizio sulla nostra cucina coniugale, pur sapendo che stavo per divorziare. Ma la

verità è che a volte proprio non lo sai. Sei sposata da anni e poi un giorno l’idea del divorzio si insinua nella tua mente. Se ne sta lì per un po’. Ti ci avvicini e ti allontani. Fai una lista. Calcoli quanto ti costerà. Soppesi i torti subiti, i prò e i contro. Vai a letto con un altro, vai dallo psicanalista. E poi metti la parola fine al matrimonio, non perché sia successo chissà cosa, ma semplicemente perché ce un posto dove puoi stare per un po’ mentre cerchi un appartamento, oppure perché tuo padre ti ha regalato tremila dollari. Anche il contesto ha il suo peso. Il mio primo matrimonio finì nei primi anni Settanta, al culmine del movimento femminista. Jules Feiffer disegnava giovani donne che ballavano come invasate in cerca di se stesse, e noi eravamo proprio così. Prendevamo tutto troppo sul serio. Stendevamo contratti allo scopo di dividere le incombenze domestiche in maniera più equa. Facevamo gruppi di autocoscienza e, sedute in cerchio, fingevamo che fra noi la gelosia e l’invidia non esistessero. Leggevamo pamphlet che affermavano che il personale è politico. E, a proposito, il personale è politico, anche se non quanto avremmo voluto. In ogni modo, il vero problema dei nostri matrimoni non era che i mariti non ci aiutassero con le faccende domestiche, ma che eravamo giovani donne incredibilmente irritabili e i nostri mariti ci irritavano oltremisura. Ricordo che un giorno una donna del nostro gruppo di autocoscienza scoppiò a piangere perché per il compleanno suo marito le aveva regalato una padella per friggere. Lei non ha mai divorziato, comunque. Tutte le altre invece sì. Eravamo cresciute in un’era in cui non divorziava nessuno, e all’improvviso divorziavano tutti. Il mio secondo divorzio è stato del tipo peggiore. C’erano due bambini, uno dei quali neonato. Mio marito si era innamorato di un’altra e scoprii la sua relazione che ero ancora incinta. Ero andata a New York per parlare con una scrittrice e produttrice, Jay Presson Allen. Al momento dei saluti, prima

che tornassi all’aeroporto LaGuardia per prendere il volo della Eastern per Washington, lei mi diede una sceneggiatura, un dattiloscritto che aveva sulla scrivania, di un inglese che si chiamava Frederic Raphael. «Leggila» mi disse. «Ti piacerà». Cominciai a leggerla in aereo. Iniziava con una cena elegante a cui prende parte una coppia sposata, non ricordo i nomi, diciamo che si chiamavano Clive e Lavinia. E una cena estremamente raffinata dove tutti i commensali sono intelligenti e arguti. Clive e Lavinia sono brillanti e si punzecchiano in tono amabile e civettuolo. Tutti li ammirano, e invidiano il loro matrimonio. Gli ospiti si mettono a tavola e i motteggi proseguono. A metà della cena l’uomo seduto accanto a Lavinia le posa una mano sulla coscia. Lei gli spegne la sigaretta sulla mano. La conversazione brillante non si interrompe. Finita la cena, Clive e Lavinia salgono in macchina. Niente più chiacchiere. Arrivano a casa nel più assoluto silenzio. Non hanno niente da dirsi. Appena entrano Lavinia dice: «D’accordo. Chi è?». Ero a pagina 8. Chiusi il dattiloscritto. Mi mancava il respiro. In quel momento capii che mio marito aveva una relazione. Me ne restai così, impietrita, finché l’aereo atterrò. Arrivata a casa, andai direttamente nel suo studio. C’era un cassetto chiuso. Ovvio. Sapevo che ci sarebbe stato un cassetto chiuso. Trovai la chiave. Lo aprii ed ecco la prova: un libro per bambini, un regalo di lei con una stupida dedica che parlava del loro amore eterno. Ho scritto di questa storia in un romanzo, Affari di cuore. È un libro molto divertente, anche se all’epoca ero tutt’altro che divertita. Ero folle di dolore. Ero a pezzi. Mi chiedevo cosa ne sarebbe stato di me e dei miei figli. Mi sentivo plagiata, idiota, completamente mortificata. Mi chiedevo se sarei diventata una di quelle donne divorziate, costrette a trasferirsi con i figli nel Connecticut e di cui non si hanno più notizie.

Me ne andai dopo una scenata memorabile. E dopo le sue promesse tornai. Mio marito entrò in un prevedibile vortice di bugie, bugie e ancora bugie. Io entrai nel vortice del sospetto e del controllo: aprivo gli estratti conto della carta di credito con il vapore, facendo giurare agli amici di mantenere il segreto per poi scoprire che non ne erano capaci, e così via. Trovai una ricevuta misteriosa dell’antiquario James Robinson. Chiamai, fingendo di essere la segretaria di mio marito, e dissi che avevo bisogno di sapere cosa fosse l’oggetto in questione per poterlo assicurare. Si trattava di un’antica scatola di porcellana con la scritta “Ti amo con tutto il cuore”. Probabilmente non molto diversa da quella che aveva regalato a me un paio d’anni prima, su cui c’era una scritta che diceva: “Ti amerò per sempre”. Ne parlo perché sappiate che simili episodi sono parte del processo: una volta scoperto che ti ha tradita, ti senti costretta a continuare a cercarne le conferme, fino a quando ti sei umiliata al punto che non ti resta altro da fare che andartene. Quando il mio secondo matrimonio finì, ero arrabbiata, ferita e traumatizzata. Ora penso: Ma certo. Penso: Come si fa a essere fedeli quando si è giovani? Penso: Può capitare. Penso: Le persone si comportano con leggerezza e non ci sono quasi mai conseguenze (tranne che per i bambini, come ho già detto). Sono sopravvissuta. Sono una seguace del credo Fattela Passare. Ho trasformato l’esperienza in una storia divertente. Ci ho scritto un romanzo. Con i soldi guadagnati ho comprato una casa. Si dice che, quando è passato, il dolore si dimentica. È un cliché riferito alle sofferenze del travaglio e del parto: la madre dimentica il dolore. Non sono d’accordo. Io me lo ricordo, il dolore. Quello che dimentichiamo è l’amore.

Il divorzio sembra durare per sempre e poi, un bel giorno, i tuoi figli sono diventati adulti e se ne vanno a vivere la loro vita e, a parte qualche rara eccezione, non Hal più contatti con il tuo ex marito. Il divorzio è durato molto più a lungo del matrimonio, ma ora è finito. Non parliamone più. Il punto è che per molto tempo essere divorziata è stato il fatto principale della mia vita. E adesso non lo è più. Adesso il fatto principale della mia vita è che sono vecchia.

La parola con la V Sono vecchia. Ho sessantanove anni. Non proprio vecchia vecchia, diciamo. Sei vecchia quando ne hai ottanta. Ma, agli occhi di una persona giovane, sarei vecchia e basta. Per la verità, a nessuno piace ammettere di essere vecchio. Al massimo riusciamo ad accettare il fatto di invecchiare. O di non essere più giovani. In questi tempi di fitness, di capelli tinti e chirurgia estetica, è possibile vivere quasi tutta la vita senza sentirsi né sembrare vecchie. Ma poi un giorno un ginocchio cede, una spalla si blocca, o la schiena, o un’anca. Non hai più le vampate, la pelle è flaccida. Compaiono delle macchie. Il tuo décolleté è rugoso come il nocciolo di una pesca. Se i gomiti si piegassero all’interno, ti potresti perforare a morte. Sei cinque centimetri più bassa. Sei cinque chili più grassa e non riusciresti a perdere un etto neanche se ne andasse della tua vita. Le mani non funzionano più come prima e hai difficoltà ad aprire le bottiglie, i barattoli, le confezioni di plastica e soprattutto quegli involucri che sembrano fusi insieme all’oggetto che contengono. Se naufragassi su un’isola deserta e avessi solo cibo sigillato nella plastica, moriresti di fame. Al mattino prendi tante di quelle pillole che non hai più spazio nello stomaco per la colazione. Nel frattempo il nuovo argomento di conversazione riguarda Tac e risonanze magnetiche. Come ti guardi in giro, vedi casi di cancro. Ogni settimana c’è una cattiva notizia. Ogni mese un funerale. Perdi gli amici più cari e scopri una delle verità più amare della vecchiaia: sono insostituibili. Muore gente che corre per sei chilometri al giorno e mangia soltanto noci e

bacche. Muoiono quelli che bevono mezza bottiglia di whisky al giorno e fumano due pacchetti di sigarette. Sei in una lotteria, l’ultimo gioco del caso, e un giorno la fortuna non ti sorriderà più. Tutti muoiono. Non ci si può fare niente. Anche se mangi sei mandorle al giorno. Anche se credi in Dio. (Oh, non c’è dubbio che credere farebbe comodo. Sarebbe fantastico pensare che c’è un disegno divino e che ogni cosa accade per una ragione precisa. Io non la penso così. E ogni volta che un’amica mi dice: «Tutto accade per una ragione» mi verrebbe voglia di darle una sberla). A un certo punto non sarò soltanto vecchia, anziana o vecchiotta… sarò vecchissima. L’età mi avrà resa concretamente inabile, qualcosa mi impedirà di leggere, o parlare, o sentire quello che si dice, o di mangiare quello che voglio, o di fare il giro dell’isolato. Perderò la memoria, su cui riesco ancora a scherzare, e dovrò fingere di capire che cosa sta succedendo. La consapevolezza di avere davanti a me, forse, ancora pochi anni decenti, mi ha colpita con forza. Ci ho riflettuto a lungo. Mi piacerebbe averne ricavato un pensiero profondo, ma non è andata così. Provo a immaginare ogni giorno che cosa voglio fare davvero, cerco di dire a me stessa: Se questo è uno degli ultimi giorni della mia vita, lo sto usando per fare ciò che desidero fare? Non ho grandi pretese. La mia idea di una giornata perfetta prevede un gelato alla crema da Shake Shack e una passeggiata nel parco (seguita da un Lactaid). La mia idea di una serata perfetta è una bella commedia a teatro e la cena da Orso (niente aglio, grazie, altrimenti non dormo). L’altro giorno ho trovato una pasticceria dove fanno il mio dolce preferito di quand’ero bambina ed era esattamente come lo ricordavo. Mi ha resa felice per una settimana. L’altra sera, mentre risalivamo la FDR Drive e Manhattan sfoderava il suo spettacolo magico con le luci, riuscivo a pensare solo a quant’ero stata fortunata a passare tutta la mia vita a New York, da adulta.

Trascorrevamo l’estate nella nostra casa di Long Island. Partivamo in macchina con i ragazzi il giorno in cui finiva la scuola e non tornavamo fino al Labor Day, il primo lunedì di settembre. Eravamo sempre lì entro la fine di giugno, il momento dell’anno che preferisco, quando il sole tramonta alle nove e mezza e hai la sensazione che potrai vivere per sempre. Il 4 Luglio c’erano i fuochi d’artificio sulla spiaggia; noi preparavamo il necessario per il picnic, scavavamo un buco nella sabbia, accendevamo il fuoco e cantavamo… insomma, la serata di una famiglia americana convenzionale (invece che di una famiglia divorziata, allargata, psicoanalizzata e parecchio moderna). A metà luglio arrivavano le oche. Volavano in formazione, con le ali che battevano l’aria in un suono che ti toccava il cuore. Un suono che mi commuoveva. Le oche si spostavano da uno specchio d’acqua all’altro preparandosi a migrare verso sud, ma io capivo (dal puro suono delle ali) che quegli uccelli in volo sopra le nostre teste erano uno degli elementi che rendevano così magica l’estate a Long Island. Naturalmente il tempo passava, i ragazzi crescevano, e io e Nick ci ritrovammo soli nella casa. Il suono delle oche divenne qualcosa di diverso, il primo segnale che l’estate non sarebbe durata per sempre e che presto un altro anno sarebbe finito. Poi, mi addolora dirlo, diventarono il segnale che non solo l’estate sarebbe finita, ma anche ogni altra cosa. E così smisero di piacermi. Anzi, cominciai a odiarle. E soprattutto a odiare quel suono, che non era il suono del volo come avevo potuto pensarlo? - bensì uno starnazzio continuo e cacofonico. Ora d’estate non andiamo a Long Island e non sento più le oche. A volte andiamo a Los Angeles, dove ci sono i colibrì. Mi piace osservarli perché sono così indaffarati a trarre tutto il meglio dall’esistenza.

Non mi mancheranno La pelle secca Le cene come quella a cui siamo andati ieri sera Le e-mail La tecnologia in generale Il mio armadio Lavarmi i capelli I reggiseni I funerali La malattia ovunque I sondaggi secondo cui il trentadue per cento degli americani crede nel creazionismo I sondaggi Fox tv Il collasso del dollaro Joe Lieberman Clarence Thomas I bar mitzvab Le mammografie I fiori appassiti Il rumore dell’aspirapolvere Le bollette Le e-mail, so che l’ho già detto ma voglio ribadirlo I caratteri di stampa piccoli I convegni sulle Donne nel Cinema Struccarmi ogni sera

Mi mancheranno I miei figli Nick La primavera L’autunno I wajfles L’idea dei wajfles Il bacon Una passeggiata nel parco L’idea di una passeggiata nel parco Il parco Shakespeare nel parco Il letto Leggere a letto I fuochi d’artificio Ridere La vista dalla finestra Il tremolio delle luci Il burro Cenare a casa noi due soli Cenare con gli amici Cenare con gli amici in città dove non vive nessuno di noi Parigi L’anno prossimo a Istanbul Orgoglio e pregiudizio L’albero di Natale La cena del Ringraziamento Le porzioni generose Il corniolo Fare il bagno Percorrere il ponte in direzione di Manhattan Le torte

Ringraziamenti Ringrazio, come sempre, Delia Ephron, Bob Gottlieb, Amanda Urban e Nick Pileggi. E anche Arianna Huffington, David Shipley, Shelley Wanger, David Remnick, Paul Bogaards e Maria Verel. Inoltre J. J. Sacha. E ringrazio, naturalmente, i miei medici.

FINE