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Italian Pages 286 [289] Year 2019
9 CLAVIS
Nel tempio di Mnemosine L’arte della memoria di Giordano Bruno M A R C O M AT T E O L I
© 2019 Scuola Normale Superiore Pisa isbn 978-88-7642-668-1
A Francesco e Annalisa che sopportano le mie invadenti assenze
Elas são vaporosas, Pálidas sombras, as rosas Nadas da hora lunar… Vêm, aéreas, dançar Com perfumes soltos Entre os canteiros e os buxos… Chora no som dos repuxos O ritmo que há nos seus vultos… Passam e agitam a brisa… Pálida, a pompa indecisa Da sua flébil demora Paira em auréola à hora… Passam nos ritmos da sombra… Ora é uma folha que tomba, Ora uma brisa que treme Sua leveza solene… E assim vão indo, delindo Seu perfil único e lindo, Seu vulto feito de todas, Nas alamedas, em rodas, No jardim lívido e frio… Passam sozinhas, a fio, Como um fumo indo, a rarear, Pelo ar longínquo e vazio, Sob o, disperso pelo ar, Pálido pálio lunar… F. Pessoa, Minuete invisível, in Id., Ficções do Interlúdio. Poesias, Nota explicativa de João Gaspar Simões e Luiz de Montalvor, Lisboa 1942, p. 72.
Sommario
Introduzione
11 Prima parte Conoscenza, natura, arte
I. L’ombra della conoscenza Il doppio volto dell’ombra Il gioco delle ombre La forma del mondo
29 29 37 43
II. Il potere della mente Pensare per immagini Fisiologia della conoscenza Lo spazio vivo della memoria
55 55 62 73
III. La natura dell’arte L’arte delle arti Conoscere l’uno Il metodo dell’uno
83 83 93 104
Seconda parte L’arte della memoria IV. Le fonti e i fondamenti tecnici della mnemotecnica bruniana 117 I luoghi: dai percorsi locali alle architetture 118 Le immagini, tra ‘memoria rerum’ e ‘memoria verborum’ 145 V. L’arte della memoria di Giordano Bruno tra continuità e innovazione La ridefinizione tecnica dei luoghi: da sostegno a sostrato Le immagini: da raffiguranti a forme vive dell’espressione interiore
187 187 212
VI. Il teatro dei mondi L’irruzione della combinatoria fantastica Nel tempio di Mnemosine
225 225 241
Conclusioni Bibliografia Indice dei nomi
267 275 283
Introduzione
Analizzare, all’interno delle contrastanti vicende della storia della critica del pensiero e dell’opera di Giordano Bruno, la funzione e il funzionamento dell’arte della memoria non è semplice, anche perché essa è stata a lungo ignorata e, quando vi si è posto attenzione, il più delle volte è stata incompresa o fraintesa. Eppure egli la praticò per tutto il corso della sua vita, divenendo molto noto a suoi contemporanei anche come cultore e maestro di mnemotecnica: è un dato oggettivo che l’elaborazione e la pubblicazione della quasi totalità dei suoi scritti possono essere idealmente racchiuse in una cornice che va dal 1582, data in cui comparve il De umbris idearum, al 1591 quando a Francoforte, assieme ai tre noti poemi filosofici, uscì anche il De imaginum, signorum et idearum compositione. La cifra più significativa della mnemotecnica bruniana consiste dunque in questo stretto legame tra tecnica e prospettiva teorica, di conseguenza l’arte della memoria non può essere considerata né un accessorio meramente strumentale, né tanto meno un sistema di simboli per rivelare altri e più importanti significati; essa è, piuttosto, la veste ‘pratica’ di una visione del cosmo e dell’uomo che si esplica in una peculiare concezione dei rapporti sociali, del sé e della conoscenza. La critica tuttavia, come si osservava, ha per lo più trattato la mnemotecnica di Bruno alla stregua di un fenomeno bizzarro, mai veramente integrato nel più solido corpus della sua filosofia: è il caso, ad esempio, di Felice Tocco, che pur dedicando all’analisi e alla valutazione delle ‘opere mnemoniche’ la seconda parte del suo imponente lavoro su Le opere latine di Giordano Bruno esposte e confrontate con le italiane1, arrivava ad una conclusione tutt’altro che positiva: Il Bruno forse ad arte si serviva di questo procedimento oscuro, perché gli scritti non fossero se non la guida di un insegnamento orale; ma è proprio
F. Tocco, Le opere latine di Giordano Bruno esposte e confrontate con le italiane, Firenze 1889, pp. 21-101. 1
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il caso di dire che non francava la spesa di circondare di tanto mistero una tecnica, che non era fatta certamente per aprire nuovi orizzonti al sapere e per giunta riusciva impari allo scopo che si proponeva2.
Sebbene avesse compreso l’importanza della componente pedagogica e propedeutica propria di questi testi, Tocco non riconobbe ad essi alcuna importanza teorica; sulla negatività di tale valutazione incideva, del resto, una più generale sfiducia nei confronti dell’efficacia dell’arte della memoria nel suo complesso, considerata uno strumento obsoleto – rispetto alle più moderne riflessioni sul metodo che sorgevano nel tardo Rinascimento – e dunque sterilmente irrazionale. A ciò si aggiungeva la netta separazione che Tocco operava, nella propria disamina, tra gli scritti lulliani e quelli mnemotecnici3, riconoscendo solo ai primi il pregio di essere un tentativo di esplorare nuove direzioni dialettiche in qualche modo riconducibili a particolari istanze teoriche di carattere più ampio; al contrario negli scritti sull’arte della memoria si assisteva – in modo particolare nel De imaginum, signorum et idearum compositione, che Tocco individuava come l’opera mnemotecnica più compiuta – alla quasi totale rimozione di ogni riferimento filosofico4. A distanza di circa vent’anni il giudizio di Ernst Cassirer sull’arte della memoria di Giordano Bruno non risultava affatto diverso da quello di Felice Tocco. Nella lunga analisi della filosofia rinascimentale compiuta nel primo volume della Storia della filosofia moderna (Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, Berlino 1906) Cassirer collocava la figura di Bruno nella sezione dedicata alla «filosofia della natura», evidenziandone, tuttavia, alcuni aspetti a suo parere antinomici: il rapporto tra senso e intelletto, non pienamente risolto nella teoria delle ‘ombre delle idee’; quello tra particolare e universale, al quale secondo Cassirer la metafisica bruniana fornisce una soluzione che, per quanto innovativa, radicalizza ulteriormente lo scarto tra individuo e cosmo; infine, la relazione tra ‘astratto’ e ‘concreto’, rispetto alla quale neppure l’introduzione del concetto di minimo sembra apportare soluzioni soddisfacenti5. Uno dei punti Ibid., p. 101. Ibid., pp. 92-3. 4 Ibid., pp. 91-2. 5 Cfr. E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, I, Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza, Torino 19526, pp. 308-53. 2 3
13 Introduzione
più controversi, in contrasto con la ‘modernità’, veniva quindi individuato nella mancata risoluzione in senso matematico del rapporto tra dimensione intellettuale ed esperienza sensibile, alla quale faceva da contraltare il ruolo eccessivo – persino rispetto ai parametri della gnoseologia aristotelica – accordato all’immaginazione e, di conseguenza, all’arte della memoria: «poiché non può guardare liberamente a una teoria matematica dell’esperienza, la teoria del metodo di Bruno si perde nelle vie aride e infruttuose dell’arte mnemonica del Lullo e deve rinunciare all’ideale moderno della conoscenza, di cui aveva tuttavia tracciato le linee generali»6. Una lettura, dunque, assai severa che viene in parte ammorbidita, alcuni decenni dopo, in Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento (Individuum und Kosmos in der Philosophie der Renaissance), pubblicato nel 1927 nella collana scientifica edita dalla Biblioteca Warburg. In questo testo la figura di Bruno è diffusamente e significativamente presente, non solo a motivo della sua particolare concezione cosmologica, ma – rovesciando il giudizio di anni prima – anche per il contributo che egli dà nel ridefinire l’uso e l’importanza dell’immaginazione e delle immagini nel discorso filosofico. In sostanza il valore della gnoseologia bruniana viene completamente riconsiderato, mostrando come essa costituisca il tentativo di rappresentare per via figurativa e simbolica le principali istanze culturali del proprio tempo: «l’allegoria non è un semplice accessorio esteriore, né un rivestimento casuale, ma diviene il veicolo del pensiero stesso»7. Questa parziale rivalutazione della dimensione fantastica può essere ricondotta al giudizio che Aby Warburg stesso esponeva sull’opera e il pensiero di Bruno, a seguito del viaggio compiuto in Italia tra il 1928 e il 1929: Il fatto è che si finisce per arrivare ad un punto cruciale in cui il tentativo dello storico del pensiero puro sfiora di diventare [sic] l’impresa dello storico della ‘pura irragionevolezza’ che ho individuato in Giordano Bruno, la cui singola ambiguità mi si è chiarita proprio qui, in Italia, ove ho potuto approfondire indisturbato la sua opera. La sua insurrezione contro l’indicazione figurativa delle cause (bildhafte Ursachensetzung) che è attestata soprattutto nello Spaccio della bestia trionfante, ci permette infatti di farci un’idea della lotta che nel Cinquecento è stata ingaggiata in modo titanico con la Controriforma per
Ibid., p. 353. E. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, Torino 2012, p. 86. 6 7
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la libertà nella formazione dei concetti nell’ambito delle scienze naturali. A questo proposito mi sarà utile visitare Napoli e Nola. […] Se possibile, vorrei anzitutto cercar di caratterizzare Giordano Bruno come un uomo che pensa per immagini, e lo vorrei fare nel corso di una seduta comune tra storici e storici dell’arte che si svolgerà nel prossimo semestre estivo8.
La comprensione da parte di Aby Warburg del ruolo preminente, all’interno del discorso filosofico bruniano, dell’immagine fu senz’altro di ispirazione per due opere fondamentali di Frances Amelia Yates – che era profondamente legata al Warburg Institute di Londra –, Giordano Bruno and the Hermetic Tradition, del 1964, e The Art of Memory, del 19669. In questo secondo testo, che riprendeva e sviluppava le direttrici interpretative del primo, Yates esamina l’arte della memoria di Bruno inserendola nel solco della tradizione mnemotecnica, ma motivandone anche i caratteri di novità, che consistevano nel riconsiderare tali tecniche entro la cornice dell’ermetismo filosofico, della magia e dell’astrologia rinascimentali: Questi fenomeni singolarissimi, i sistemi di memoria di Camillo e di Bruno […] appartengono al Rinascimento. Nessun studioso del Rinascimento può ignorare gli spiragli che aprono sulla mente rinascimentale. Essi fanno corpo con quella particolare corrente del Rinascimento che è la tradizione occultista. Mostrano un convincimento profondo che l’uomo, immagine del mondo più grande, può afferrare, tenere, capire il mondo più grande grazie ai poteri della sua immaginazione10.
Nella prospettiva ‘occultista’, ovvero secondo quella sapienza iniziatica che, su basi filosofiche, intende mettere in comunicazione la mente umana con la dimensione metafisica ed agire, in virtù di tale acquisizione, sulla natura tessendo una rete di trame simboliche ed efficaci tra i piani divino, mentale e naturale, si risolveva dunque anche l’arte della memoria di Giordano Bruno, quale strumento – assieme all’astrologia e alla magia – per potenziare la consapevolezza individuale. Si trattava di un’interpretazione originale, che applicava un paradigma ampio e A. Warburg, E. Cassirer, Il mondo di ieri, a cura di M. Ghelardi, Torino 2003, pp. 94-6. 9 Cfr. F.A. Yates, Giordano Bruno and the Hermetic Tradition, London 1964, e Ead., The Art of Memory, London-Chicago 1966. 10 Ead., L’arte della memoria, Torino 19932, pp. 212-3. 8
15 Introduzione
radicale, caratterizzante, tra l’altro, gran parte dei lavori della studiosa inglese; esso poneva Bruno in una cornice ermetizzante e neoplatonica che stride con la prospettiva materialistica e infinitistica costituente il cuore teorico della sua filosofia: eppure aveva il merito di riportare all’attenzione degli studiosi dell’opera e del pensiero di Bruno l’arte della memoria, cercando di evidenziare come essa fosse organica al suo sistema filosofico e non un ‘bizzarro’ pretesto retorico per catturare il consenso dei suoi contemporanei. Un punto di vista, quest’ultimo, che, da una prospettiva differente, era stato sviluppato alcuni anni prima anche da Paolo Rossi, in un testo fondamentale sia per la storia del metodo scientifico, sia per quella dell’arte della memoria: Clavis Universalis. Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz. Anche per Rossi l’arte della memoria di Bruno doveva essere letta all’interno di una tradizione che vedeva evolvere le tecniche di memoria dall’antichità classica fino all’età moderna, ma, diversamente dalla studiosa inglese, il filo conduttore che teneva assieme questo percorso era individuato nella componente metodologica sottesa a questa disciplina e che, perfezionandosi nel corso dei secoli – soprattutto durante l’età medievale –, finiva per divenire sempre più importante, se non addirittura preponderante, nel Rinascimento. L’arte fondata sui luoghi e sulle immagini si era trasformata, con il passare del tempo e con l’accrescersi degli ambiti disciplinari per i quali essa era utilizzata, in un sapere nel quale assumeva grandissimo rilievo l’aspetto dialettico ed organizzativo, sviluppato per mezzo di un più strutturato ordinamento dei luoghi e, soprattutto, grazie all’apporto, a partire dal Cinquecento, della combinatoria lulliana. All’interno di questo quadro interpretativo lo storico della scienza inseriva anche l’arte della memoria di Bruno, definita – proprio per il suo denso intrecciarsi di lullismo e mnemotecnica – una «logica fantastica»11; a Rossi non sfuggiva, infatti, l’esplicita funzione retorico-dialettica che Bruno conferisce ai propri sistemi di arte della memoria e, soprattutto, egli intuiva che a soddisfare realmente questa istanza è un ricorso quasi sistematico al metodo lulliano: Tra logica e arte della memoria non si danno, per Bruno, differenze sostanziali. […] Si è d’altra parte sottolineato anche il fatto che quest’idea di una logica memorativa si presenta strettamente collegata a quella interpretazione
Cfr. P. Rossi, Clavis universalis. Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Milano-Napoli 1960, pp. 109-23. 11
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enciclopedistica del lullismo […]. Chi abbia presenti queste conclusioni non potrà certo meravigliarsi dell’insistenza bruniana sugli aspetti mnemotecnici del lullismo12.
Anche in Rossi agiva dunque l’idea che per comprendere la filosofia di Bruno fosse necessario fare i conti con lo spazio teorico e funzionale assunto dall’immaginazione; a differenza di Yates, tuttavia, egli non considerava tale elemento come un abbandono del piano razionale in favore del simbolismo magico-ermetico, piuttosto vi leggeva il tentativo bruniano di costruire una diversa logica, che avesse una più aderente prossimità con il mondo naturale: l’arte non è una tecnica legata alle limitate finalità del discorso retorico, ma è, sopra ogni altra cosa, lo strumento di cui servirsi per dar luogo ad un edificio le cui strutture costituiscano l’esatto rispecchiamento delle strutture della realtà. Le regole della memoria, così come le tecniche combinatorie, traggono il loro fondamento e trovano la giustificazione della loro validità nel postulato chiaramente ammesso, di una piena e perfetta corrispondenza tra i simboli e le res, tra le ombre e le idee, tra i sigilli e le ragioni che presiedono alle articolazioni del mondo reale13.
Le letture compiute da Yates e da Rossi, pur tracciando due ampi, ancorché differenti, quadri interpretativi dell’arte della memoria di Bruno, non davano tuttavia pienamente conto della peculiarità del sistema mnemonico bruniano e non ne rivelavano in alcun modo il ‘funzionamento’; avevano però il merito di concentrarsi su aspetti dell’opera di Bruno che, fino ad allora, erano stati minimizzati o, perfino, criticati: eppure – forse a motivo dell’elevata autorevolezza scientifica dei due autori –, piuttosto che stimolare l’approfondimento da parte di altri studiosi, esse ottennero un effetto contrario, quasi inibitorio, rigettando la mnemotecnica bruniana, per quasi tre decenni, nel sotterraneo oblio in cui era stata relegata per secoli. Fu così che solo all’inizio degli anni Novanta si assistette al risvegliarsi di un certo interesse per questi argomenti, quando, in seno al progetto di una nuova edizione critica degli scritti latini di Bruno promossa da Eugenio Garin, dopo l’importante studio preparatorio che catalogava
12 13
Ibid., p. 119. Ibid., p. 112.
17 Introduzione
tutte le antiche edizioni di Giordano Bruno14, Rita Sturlese si dedicò ad una redazione del testo del De umbris idearum15. Nell’introduzione di questo lavoro la studiosa compiva un’analisi della genesi del testo, esaminando le varianti e gli interventi correttivi apportati dall’autore nella fase di stampa della prima edizione, attraverso il confronto tra i numerosi esemplari sopravvissuti, ma soprattutto elaborava anche una assai utile «ricostruzione filologica del sistema delle cinque ruote»16. In queste pagine veniva quindi, per la prima volta, dato conto dell’effettivo codice elaborato da Bruno per la memoria verborum – riordinando gli alfabeti di sillabe secondo la corretta sequenza, venuta meno sia per errori di composizione tipografica, sia per la mancanza di un sufficiente numero di caratteri adeguati –, svelandone una volta per tutte il funzionamento allo scopo di creare scene mnemoniche raffiguranti parole. In particolare Sturlese, rovesciando il paradigma di Yates, sottolineava che «il congegno delle cinque ruote non vuole essere soltanto un artifizio psico-tecnico»17, ma uno strumento generatore di «immagini-simboli considerate nella loro funzione inventiva ed interpretativa e come imprescindibile medio conoscitivo»18; dunque «un insieme ben determinato di segni che, proprio in quanto tali, in quanto cioè suscettibili di una funzione simbolica, potevano essere manipolati e divenire così strumento di interpretazione e scoperta»19. Una valutazione dell’arte della memoria che, pur nella sua parzialità – poiché limitata all’espediente mnemonico del De umbris idearum –, sanciva una netta scissione con la lettura ermetizzante ed astrologica della studiosa inglese, attirando su di sé anche numerose critiche, dato che l’applicazione delle ruote lulliane alle immagini pareva richiedere uno sforzo mnemonico eccessivo rispetto ai risultati proposti, risultando inefficace o, addirittura, inutile20. Il maggior merito dell’interpretazione di Rita Sturlese consisteva, tuttavia, nell’aver dato finalmente credito alla mnemotecnica bruniana in quanto tale, ovvero in quanto sistema di segni per sostenere la meR. Sturlese, Bibliografia, censimento e storia delle antiche stampe di Giordano Bruno, Firenze 1987. 15 G. Bruno, De umbris idearum, a cura di R. Sturlese, Firenze 1991. 16 Cfr. R. Sturlese, Introduzione a Bruno, De umbris, pp. liv-lxxiii. 17 Ibid., p. lxxii. 18 Ibid., p. lxxiii. 19 Ibid. 20 Cfr. F. Torchia, La chiave delle ombre, «Intersezioni», 17, 1997, pp. 131-51. 14
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moria e incentivare la creatività in senso retorico e dialettico; una riflessione, quella sul valore tecnico-simbolico delle immagini bruniane, certamente in linea con la chiave di lettura suggerita pochi anni prima da Umberto Eco in un intervento intitolato Mnemotecniche come semiotiche nell’ambito del convegno La cultura della memoria, svoltosi a Firenze nella primavera del 1989 e confluito poi, un anno dopo l’uscita dell’edizione critica del De umbris idearum, in un volume curato da Lina Bolzoni e Pietro Corsi21. In questo intervento Eco si chiedeva se le arti e le tecniche per la memoria della tradizione umanistica e rinascimentale potessero essere lette come «sistemi semiotici» ante litteram, cioè sistemi di segni che, come per i linguaggi verbali o scritti, sapessero tradurre in simboli gli specifici contenuti e i singoli significati, nonché la struttura logica ad essi soggiacente. Pur non potendo assimilare una mnemotecnica ad una lingua, poiché un tale strumento è, infatti, del tutto privato, cioè destinato a una comunicazione ‘interna’ tra sé e sé, restava comunque possibile esaminare se esso possedesse un valore semantico peculiare e complesso che si manifestava sia sul piano generale, sia su quello particolare: Il problema è se ci siano mnemotecniche che non siano solo artifici semiosici, ma, per usare un termine di Hjelmslev, delle semiotiche, ossia un sistema che dispone un piano dell’espressione, forma e sostanza, correlato a un piano del contenuto, forma e sostanza22.
Con ciò intendeva dunque la possibilità pratica che quell’insieme di segni, personali e arbitrari, che sono le architetture mnemoniche, soprattutto quelle del Cinquecento e del Seicento, non solo fossero in grado di rappresentare i contenuti di cui sono espressione, ovvero i singoli significati, ma possedessero anche una ‘sintassi’ – delle regole con cui formare e organizzare i luoghi – tale da farli corrispondere alla struttura logica delle informazioni in essi raccolte. Tuttavia, osservava Eco, se è evidente che vi sono norme e precetti da seguire per fare in modo che un’immagine sia un segno fedele di ciò che è destinata a rappresentare e, conseguentemente, a conservare in memoria, il legame tra il sistema dei luoghi e l’insieme delle informazioni tradotte in immagini risulta del tutto accidentale: non si sceglie una cattedrale, U. Eco, Mnemotecniche come semiotiche, in La cultura della memoria, a cura di L. Bolzoni e P. Corsi, Bologna 1992, pp. 35-55. 22 Ibid., p. 42. 21
19 Introduzione
una casa o un palazzo perché rappresenti anche il senso complessivo dei segni lì conservati, ma, semplicemente, perché ci assicurano la sequenzialità e la lettura in serie delle informazioni secondo l’ordine in cui si presentano nel discorso, nel testo, ecc. Perché avessero anche questo valore ‘sintattico’ gli scenari mnemotecnici avrebbero dovuto assicurare che: (i) a livello espressivo, appaia un sistema sintattico di loci, destinato a ospitare immagini le quali appartengano allo stesso campo iconografico e rivestano la funzione di unità lessicali; (ii) a livello di contenuto, le res memorandae siano a propria volta organizzate in un sistema logico-concettuale a tal punto che, se questo sistema potesse essere tradotto nei termini di un’altra rappresentazione visiva, essa potrebbe fungere da piano dell’espressione di una seconda mnemotecnica, il cui contenuto diventasse il sistema dei luoghi e delle immagini che costituiva il piano dell’espressione della prima mnemotecnica23.
Sollecitato dagli studi di Paolo Rossi e confrontandosi con le tecniche ed i sistemi di arte della memoria, nonché con le ‘pansofie’ della tradizione rinascimentale e barocca, Eco concludeva quindi che questi parametri erano sistematicamente disattesi: non esisteva nessuna arte della memoria, compresa quella di Giordano Bruno, che si preoccupasse veramente di realizzare, anche nella struttura dei luoghi, quella correlazione tra il contenuto e la sua espressione, che invece è assicurata con tanta efficacia dall’immagine mnemonica. Le importanti osservazioni di Umberto Eco, sebbene volte a negare certe caratteristiche ‘semiotiche’ dei sistemi di memoria artificiale, furono implicitamente alla base di una nuova interpretazione dell’arte della memoria di Bruno fornita, a partire dagli inizi degli anni Duemila, dalla stessa Rita Sturlese e, qualche anno dopo, dai curatori dei due tomi delle Opere mnemotecniche di Giordano Bruno editi sotto la direzione scientifica di Michele Ciliberto24. A quest’ultimo, in particolare, va riconosciuto il maggior merito di aver rilanciato, nei suoi scritti e nei progetti editoriali da lui diretti, una complessiva revisione Ibid., p. 44. Cfr. R. Sturlese, Arte della natura e arte della memoria in Giordano Bruno, «Rinascimento», s. II, 40, 2000, pp. 123-42; M. Matteoli, L’arte della memoria nei primi scritti mnemotecnici di Bruno, ibid., pp. 75-122; G. Bruno, Opere mnemotecniche, edizione diretta da M. Ciliberto, a cura di M. Matteoli, N. Tirinnanzi e R. Sturlese, 2 voll., Milano 2004-09. 23 24
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del pensiero e dell’opera di Giordano Bruno, considerando in un’ottica unitaria, seppure salvaguardandone le peculiarità teoriche, tutti i vari aspetti della sua produzione, compresi quelli ritenuti minori o marginali: magia, mnemotecnica e lullismo vengono così ad integrarsi con le riflessioni sulla natura, giungendo a individuare il necessario punto di passaggio e di mediazione tra l’antropologia e la cosmologia nella concezione politica e civile di Bruno25. Per quanto riguarda le Opere mnemotecniche, l’arte della memoria risultava colta nel suo complesso e in tutte le sue molteplici sfumature, ovvero nei differenti livelli di presentazione (più propedeutico e introduttivo il Cantus Circaeus, più tecnica e di difficile accesso la silloge dei trenta sigilli), nelle varie applicazioni e nei differenti espedienti mnemonici (la memoria verborum, le ruote combinatorie del De umbris idearum, l’animazione e composizione delle immagini, ecc.). Ne è risultata quindi una lettura più completa, fornendo un’edizione critica di tutti gli scritti di Bruno di argomento mnemotecnico, una traduzione in italiano e, assieme a un denso apparato di fonti, un ampio commento che ne spiegava in dettaglio il funzionamento: soprattutto, emergeva che uno degli aspetti di novità della mnemotecnica di Giordano Bruno consisteva nell’estendere la forza simbolica delle immagini a tutta la costruzione mnemotecnica, quindi anche ai luoghi, che diventavano parte integrante dell’intero apparato semiotico, proprio come ‘auspicato’ anni prima da Umberto Eco. Il senso di questo lavoro si ricollega al lungo percorso di disamina dell’arte della memoria di Giordano Bruno descritto sopra; in particolare prende le mosse dal lavoro di ricerca svolto per le Opere mnemotecniche, cercando, per non ricadere in una sterile ripetizione di quanto lì trattato, di ricollocarne la lettura in una nuova o differente cornice interpretativa, che dia più ampio spazio alla componente filosofica, che intrecci comunque uno stretto legame con la tradizione mnemotecnica precedente e che, infine, rilegga l’arte bruniana per ‘grandi linee’, evidenziando cioè i nuclei tematici e tecnici portanti, così da mostrarne, piuttosto che il funzionamento, la peculiare funzione rispetto al l’obiettivo metodologico e ‘logico’ prefissato da Bruno. Nel far ciò si asseconda un paradigma che è più affine a quelli di Rossi e di Sturlese, che a quello di Frances Yates, considerando in modo primario il ruolo Cfr. M. Ciliberto, Umbra profunda. Studi su Giordano Bruno, Roma 1999; Id., L’occhio di Atteone. Nuovi studi su Giordano Bruno, Roma 2002; Id., Pensare per contrari. Disincanto e utopia nel Rinascimento, Roma 2005. 25
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della combinatoria lulliana nella mnemotecnica di Bruno in qualità di supporto tecnico e pratico per rendere l’animazione e la composizione dei segni fantastici una dialettica vera e propria. I primi tre capitoli che formano la prima parte vertono così sulla gnoseologia bruniana, esaminando la teoria delle ombre delle idee, la concezione del metodo che emerge dal Sigillus sigillorum e, infine, il rapporto che sussiste tra l’idea della produttività naturale e la creatività umana negli scritti di argomento mnemotecnico e, più in generale, nell’intera opera del Nolano. I suoi testi sull’arte della memoria – il De umbris idearum, il Cantus Circaeus, la silloge dei trenta sigilli e il De imaginum compositione – si caratterizzano per una struttura interna particolare, che li differenzia dai trattati mnemotecnici ‘tradizionali’: sono accompagnati infatti da importanti sezioni teoriche che, ben oltre le mere acquisizioni della gnoseologia e psicologia aristoteliche che spesso introducono i manuali sulle regulae mnemoniche, affrontano una vera e propria riflessione filosofica, inerente allo statuto dell’uomo. Queste sezioni sono volte a teorizzare le forme della conoscenza, il modello e il metodo per la sua acquisizione, ma rivelano, sullo sfondo, la peculiare idea della natura che Bruno va presentando in quegli stessi anni, in testi più apertamente filosofici. In aggiunta, questi scritti sono accomunati da un lessico e da un registro filosofico che rimanda in modo esplicito ad una prospettiva neoplatonica, con fortissimi riferimenti all’ermetismo: è una scelta, non solo stilistica, che spesso ha portato gli studiosi dell’ars memoriae bruniana e, in generale, della sua intera opera, a fraintendere il valore delle opere mnemotecniche, falsandone l’interpretazione. Se, da una parte, è un fatto che tali testi siano tutti caratterizzati da questa evidente impronta neoplatonizzante, è anche vero che Bruno non può essere ridotto a quella prospettiva, pena il perdere il senso della sfida teorica che egli vuol portare avanti contro l’antropocentrismo teologico e cosmologico proprio del cristianesimo, il quale passa anche, seppur in maniera eterodossa, attraverso i paradigmi del platonismo rinascimentale, in particolare di quello ficiniano, densamente evocato negli scritti bruniani. Si tratta di una premessa dovuta e non così scontata, poiché i testi sull’arte della memoria sono proprio quelli in cui questa presenza è più copiosa, e non solo per quanto riguarda il lessico, ma anche per gli oggetti teorici, i concetti e i motivi propri della riflessione di Ficino e degli scritti ermetici, che il filosofo fiorentino contribuì in modo sostanziale a far conoscere in tutta Europa. Nella prima parte, a fianco di una lettura della gnoseologia che accompagna la mnemotecnica di Bruno, si cercherà pertanto di mostra-
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re anche come tali strutture vengano risemantizzate per potenziare la ricchezza concettuale della «nolana filosofia», senza schiacciarla sotto il loro peso: il cuore di questa operazione, come si vedrà, è proprio lo schema che giace alla base della dottrina delle ombre delle idee, nella quale i termini fondamentali dell’ontologia platonico-cristiana – Dio, uomo e natura – vengono ricollocati in un nuovo equilibrio teorico, nel quale Dio e natura diventano gli attori primari del confronto, mentre l’uomo, perduto il suo ruolo di mediazione e congiunzione tra il piano metafisico e quello fisico, è radicato in quest’ultimo. È all’interno di quest’orizzonte che si risolve il destino dell’uomo: la sua tensione verso la verità è un tendere che si manifesta in maniera esclusiva attraverso l’esperienza della totalità infinita della natura e raggiunge il suo massimo grado di compimento nell’intuizione della totale identificazione – e dissolvimento – del sé con la fonte attiva che anima l’universo naturale. Questo approccio interpretativo – già proposto da Rita Sturlese e Nicoletta Tirinnanzi – si basa sulle riflessioni sviluppate da Bruno intorno al rapporto tra metodo, conoscenza e filosofia in testi quali il Sigillus sigillorum e il De gli eroici furori: l’idea bruniana è che il conoscere, inteso come conoscenza del complesso naturale, sia una pratica progressiva che può essere portata avanti solo attraverso una determinata acquisizione metodologica – entro la quale l’arte della memoria ha quindi una funzione ineludibile –, ma che conduce a una consapevolezza eminentemente filosofica, raggiunta con il trascendere la conoscenza stessa (come mera ‘somma’ dei dati acquisiti e compresi), per prendere coscienza della funzione creativa e produttiva del pensiero e cogliere, infine, che questa fonte interiore da cui scaturiscono tutti gli atti del pensiero è l’effetto della voce della natura stessa che fonda l’identità personale sia in senso sostanziale che generativo/ attivo. La creatività umana, come si vedrà, è dunque prosecuzione e espressione di quella naturale e l’uomo non può darsi altrimenti che come ente della natura che, al pari di ogni altro, contribuisce all’universale e vicissitudinale attività di produzione naturale attraverso le sue azioni e i suoi stessi pensieri. La seconda parte, specificamente dedicata all’esposizione della mnemotecnica, si apre con il quarto capitolo che costituisce una sorta di snodo centrale perché in esso vengono prese in esame la storia e l’evoluzione della trattatistica rinascimentale a stampa sull’ars memoriae con l’intenzione di rilevarne poi, nei capitoli seguenti, il grado di vicinanza, continuità e discontinuità con l’arte di Bruno. Si tratta di un lavoro molto esteso rispetto all’economia dell’intero volume, ma necessario, anzitutto in quanto offre un’indagine originale all’interno
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del quadro interpretativo della mnemotecnica bruniana e, in secondo luogo, perché mette in luce aspetti peculiari della sua tecnica in rapporto a uno scenario storico che si è voluto mostrare essere lungo e assai articolato. È significativo, in questo senso, rilevare la fedeltà, almeno da un punto di vista formale, dell’ars memoriae bruniana rispetto a quelle precedenti, segno non solo della scelta di collocarsi entro una determinata tradizione, ma anche dell’individuazione esplicita di un pubblico ben preciso, con il quale, appunto, Bruno condivideva un codice espressivo e un ‘genere letterario’. È un aspetto non secondario che occorre valutare con attenzione: le fonti mnemotecniche di Bruno, i testi con i quali a maggiore o minore distanza egli si confronta, fanno riferimento ad una specifica tradizione e tecnica sviluppatesi negli ambienti religiosi e diffuse in particolare nelle università, prima italiane, poi tedesche e francesi, come dimostra la circolazione degli autori e degli scritti a cavallo tra il quindicesimo e il sedicesimo secolo. Una linea che dalle fonti classiche, Cicerone e Quintiliano, passa rinnovandosi e sviluppandosi, attraverso i conventi degli ordini mendicanti – in primis tra i domenicani – e giunge al Cinquecento per mezzo di autori quali Giacomo Publicio e Pietro da Ravenna, poi Johannes von Romberch, Jacques Colin, Giovanni Battista Della Porta e altri mnemonisti ‘minori’, ma non meno celebri tra i contemporanei e i cultori del genere26. Si prenderanno quindi in esame varie opere, tutte ugualmente significative, sia per illustrare la continuità di tale traditio, sia per poi rilevare il debito che Bruno ha nei loro confronti; occorre qui tuttavia precisare che è proprio perché la mnemotecnica bruniana fa riferimento a questa peculiare linea ‘evolutiva’ che essa risulta meno avvicinabile a quei tentativi umanistici volti ad applicare l’ars memoriae agli studia Oltre ai già citati testi di Paolo Rossi e Frances Amelia Yates, per inquadrare la storia e lo sviluppo dell’arte della memoria è utile leggere anche C. Vasoli, Arte della memoria e predicazione, «Lettere italiane», 38, 1986, pp. 478-99; L. Bolzoni, La stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici nell’età della stampa, Torino 1995; A. Torre, Divenire memoria, introduzione a L. Dolce, Dialogo del modo di accrescere e conservar la memoria, a cura di A. Torre, Pisa 2001, pp. ix-lii; M. Carruthers, Machina memorialis. Meditazione, retorica e costruzione delle immagini (400-1200), Pisa 2006; Ead., The Book of Memory. A Study of Memory in Medieval Culture, Cambridge 20082; Culture of Memory in East Central Europe in the Late Middle Ages and the Early Modern Period, ed. by R. Wójcik, Poznań 2008; Ars Reminiscendi. Mind and Memory in Renaissance Culture, ed. by D. Beecher and G. Williams, Toronto 2009. 26
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humanitatis e alla filosofia rinascimentale, compiuti da autori come Giulio Camillo o Alessandro Citolini. Questo, a dire il vero, costituisce uno degli elementi di maggior fraintendimento da parte della critica ed è dunque utile chiarirlo e argomentarlo fin da subito: l’arte della memoria bruniana non è una ‘pansofia’, non prevede cioè la costruzione e l’assimilazione di mondi di riferimenti simbolici ‘chiusi’ o predefiniti come il theatro del Camillo, la Tipocosmia di Citolini, il denso ed enigmatico assembrarsi di icone della Hypnerotomachia Poliphili o lo strutturarsi enciclopedico del cosmo virtuale di Fludd, tutti testi ed autori ai quali l’arte della memoria di Bruno è stata spesso accostata. L’arte bruniana è parte della traditio delle regulae mnemoniche medievali e dei primi trattati a stampa mnemotecnici, sebbene offra soluzioni ed espedienti assai più complessi (come del resto fanno altri autori rinascimentali, sempre in linea con questa tradizione): tali tecniche insegnano come archiviare e recuperare i contenuti mnestici, senza soffermarsi, se non per scopi esemplificativi, sul cosa memorizzare; mostrano gli schemi e gli strumenti per la memoria, non i suoi contenuti. Il motivo è facilmente intuibile, anche se la distanza rispetto alle pansofie mnemoniche non è – soprattutto nel caso di Bruno, dove l’intreccio tra ars e filosofia è strettissimo – altrettanto ovvia: i trattati mnemotecnici, infatti, hanno lo scopo di insegnare un mezzo retorico e dialettico per gestire il sapere e la sua memorizzazione; le pansofie si prefiggono, invece, di comunicare attraverso il loro ricco impianto di immagini una particolare visione del mondo, da far propria e da assimilare e che è molto più importante, in fondo, del modo con cui la si apprende e conserva. Come si colloca e si risolve, dunque, la posizione di Bruno rispetto a questi due differenti atteggiamenti, se è vero che egli è tecnicamente fedele al primo, ma ha come scopo primario il secondo obiettivo, ovvero diffondere e far conoscere la propria filosofia? La soluzione, come si vedrà, proviene dal diverso modo di intendere, da parte di Bruno, sia la mnemotecnica che la filosofia e si fonda sul tratto vicissitudinale e infinitistico che è il cuore teorico della sua visione del mondo: l’arte della memoria bruniana è per necessità aperta e dinamica, perché tale è il suo cosmo. Di più: lo scopo ultimo della sua ars memoriae è far sì che il lettore incarni i princìpi fondamentali della sua filosofia, divenendo egli stesso protagonista di un fecondo processo creativo interiore – un vero e proprio pensare per immagini – che coincide, per modi ed impulso essenziale, con l’operare proprio della natura. Per questa serie di motivi, il quarto capitolo risulta cruciale per la lettura dei successivi due, nei quali vengono mostrate le novità tecniche
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dell’arte della memoria di Bruno e si delineano le direttrici teoriche fondamentali dell’arte di «comporre le immagini», dando anche sinteticamente conto dei princìpi mnemotecnici che animano i principali «sigilli». Nel concludere queste pagine introduttive è doveroso ricordare e ringraziare le persone e le istituzioni scientifiche che hanno reso possibile il presente lavoro. È stato Michele Ciliberto a indirizzarmi, sostenermi e formarmi negli studi su Giordano Bruno e sulla sua arte della memoria ed è dunque anzitutto a lui che sono principalmente debitore, come allievo e persona. Gli sono grato anche per avermi permesso di essere parte di una ‘scuola’ di brunisti – e non solo – di altissimo profilo umano e scientifico, dai quali, tutti, ho imparato e continuo a imparare tanto: Simonetta Bassi, Elisabetta Scapparone e Fabrizio Meroi sono stati tra i miei riferimenti primari di questa feconda cornice intellettuale. Negli intensi anni di ricerca passati presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, ho poi avuto la fortuna e il piacere di lavorare a fianco di Nicola Panichi: il suo sguardo sul Rinascimento, intessuto di densi e preziosi riferimenti alla cultura moderna e contemporanea, è stato per me uno stimolo fondamentale nell’approfondire i miei temi di studio; a lei va dunque una altrettanto importante attestazione di gratitudine. Un ringraziamento particolare va inoltre a Annarita Angelini, Laura Carotti e, soprattutto, Laura Fedi, per aver letto con attenzione e rigore critico questo testo ed avermi aiutato a renderlo migliore: a loro non posso però imputare i molti difetti e i limiti che questo libro ancora contiene. Una scuola non sarebbe tale senza un luogo, così come brunianamente una forma è vuota e sterile senza un corpo che la esprima e la renda vivente: l’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento di Firenze, il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa, la Scuola Normale Superiore; queste istituzioni culturali sono stati gli spazi che hanno accolto e scandito il mio percorso di crescita professionale e va agli amici, ai colleghi e al personale, che mi hanno accolto e assistito con generosa disponibilità, un pensiero riconoscente. Ringrazio infine Gabriella Lorenzi, della Biblioteca dell’Università degli Studi della Repubblica di San Marino, per avermi messo a disposizione i volumi del Fondo Young e avere autorizzato la riproduzione delle immagini: si tratta del più importante fondo europeo di trattati sulla mnemotecnica, un patrimonio prezioso per ogni studioso, senza il quale non avrei mai potuto realizzare le mie ricerche. Questo libro è nato in seguito a un’esperienza scientifica profondamente formativa per la mia vita: l’edizione dei due tomi delle Opere
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mnemotecniche e quella delle Opere lulliane, pubblicate da Adelphi. Maestre e compagne, in questi lavori, sono state Rita Sturlese e Nicoletta Tirinnanzi, purtroppo prematuramente scomparse in anni recenti: è con gratitudine e amicizia che dedico questo libro anche alla loro memoria, ricordando con altrettanto affetto i loro familiari che hanno dovuto sopportare il peso di una dolorosa e incolmabile perdita. Carrara, 18 agosto 2018
prima parte
Conoscenza, natura, arte
I. L’ombra della conoscenza
Il doppio volto dell’ombra Il De umbris idearum, sebbene si presenti come un manuale di arte della memoria, è in realtà un testo densamente filosofico, che anticipa molti degli aspetti più significativi di quella che sarà l’ossatura portante della «nolana filosofia» esposta nel ciclo dei dialoghi italiani. Il nucleo teorico intorno al quale si dipana la trattazione è, come indica il titolo stesso, il tema dell’ombra nel suo fondamentale rapporto dialettico col tema della luce; l’ombra è la metafora scelta da Bruno per descrivere il limite della conoscenza, ma anche le potenziali e feconde risorse celate nella mente dell’uomo. Il libro sulle «ombre delle idee» si apre con un Dialogo prelibatorio che, oltre a presentare e giustificare il valore della mnemotecnica, sottolinea la centralità della luce del sole, prospettando quella prossimità tra copernicanesimo e ‘eliocentrismo filosofico’ bruniano che diverrà, ne La cena de le Ceneri, il motivo di partenza per una ben più complessa costruzione cosmologica. In queste prime pagine l’azione del sole è descritta come quella di una forza superiore che si riversa su ogni cosa e illumina tutto, secondo proprie e peculiari specificità, tanto che, pur essendo il sole «perennemente uno e identico», esso appare a tutti sempre diverso, secondo le varie e differenti disposizioni di ciascuno1. Hermes – il personaggio cui Bruno affida la declamazione introduttiva – descrive la luce del sole come una forza vitale onnipervasiva, che si impone sul mondo e si distende su tutte le cose per crearle, ma anche illuminarle alla conoscenza, svelandone la radice unitaria Una seconda versione di questo capitolo, che è stato poi ulteriormente rivisto e approfondito, è stata pubblicata nel 2014 con il titolo Giordano Bruno e l’ombra della conoscenza, sul numero 19 della rivista «Dianoia», alle pagine 91-115. 1 Cfr. G. Bruno, De umbris idearum, in Id., Opere mnemotecniche, I, p. 20: «Unus ergo idemque perpetuo sol perseverans atque manens, aliis atque aliis, aliter atque aliter dispositis, alius efficitur atque alius».
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rispetto a un quadro di diversificazione e frammentarietà universale che è costitutivo della realtà e del quale solo ‘l’arte’ del De umbris può restituire la visione d’insieme. L’unicità del sole richiede dunque una pari e organica unità dell’arte, e tale paradigma viene sancito, quasi per assioma, fin dalla prima battuta del testo del De umbris, non riducendosi al solo accostamento tra l’universalità del primo e la supposta versatilità della seconda, ma evocando temi e argomenti che si radicano profondamente in una nuova visione della natura e dell’uomo. Il sole – riprendendo un motivo teorico che riverbera da Platone, dal neoplatonismo e dall’ermetismo – è infatti simbolo della centralità e della luminosità del vero sostanziale che, quando si espande nella molteplicità dei fenomeni della natura, si rifrange in infinite sfaccettature, conferendo a tutti realtà e senso, ma offuscando dietro l’apparenza materiale la pregnanza della loro essenza originaria. Ne consegue una multiforme varietà dell’esperienza che, quando è illuminata con metodo e attraverso uno strumento conoscitivo appropriato, può acquistare anch’essa il medesimo senso unitario che è proprio della luce-verità: il lungo e dettagliato elenco di ‘effetti’ e caratteristiche del sole – o meglio di come la sua luce è percepita nel mondo e dagli uomini – rimanda perciò alla fecondità di una tecnica di memoria che può essere praticata da tutti, «incolti o eruditi», efficace a vari gradi e a vari livelli secondo le capacità e le disposizioni di ciascuno e che soprattutto, a quanti sono «buoni conoscitori della metafisica platonica, […] apre la via e introduce alla scoperta di numerose facoltà»2. Il riferimento alle dottrine platoniche – che Bruno leggeva, assieme a Plotino e agli scritti ermetici, nella versione ficiniana – manifesta come l’obiettivo ultimo della sua operazione non sia solamente di natura metodologica, ma, attuando una considerevole riorganizzazione del processo conoscitivo, acquisti anche un valore più profondo. L’intensa valenza filosofico-simbolica dell’equazione luce-verità e la condizione corrispondente e asimmetrica propria dell’esperienza conoscitiva – asimmetria sanabile almeno in parte grazie all’apporto di una praxis metodologica attiva e creativa – possono essere colte anche in un’altra importante costruzione metaforica della prima produzione bruniana: l’incantesimo di Circe descritto nel dialogo iniziale del Cantus Circaeus, opera contemporanea al De umbris idearum. Lo scopo dell’azione della maga non è – come nella tradizione – alterare e maIbid., pp. 34-6: «Ars ista non simplicem ad memoriae artem confert, sed et ad multarum facultatum inventionem viam aperit et introducit». 2
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scherare la verità, ma rivelarla, restituendo alle cose il loro vero volto, ovvero far sì che esse appaiano esteriormente in coerenza e conformità con la ragione essenziale che internamente le anima e dà loro forma: per troppo tempo, infatti, gli uomini hanno tradito l’opera della natura, inquinandone le leggi, mistificando, dietro l’apparenza umana, i peggiori vizi e le deviazioni morali più nefaste, rivelatori di un animo ferino3. Anche l’invocazione di Circe è rivolta al sole, facendo appello alla sua forza universale e illuminante, portatrice di energia vitale e di luce intellettuale: purtroppo i primi riti compiuti dalla maga hanno esito negativo e la frammentaria e confusa massa dei fenomeni resta avvolta nella sua sovvertita ambiguità; per far sì dunque che le cose tornino a mostrare il loro naturale e veritiero volto, Circe deve evocare tutte le potenze planetarie, deve cioè chiamare a sé l’intera complessità del sistema della natura che solo in questo modo, illuminata da un’antica e superiore luce sapienziale, può finalmente tornare a mostrarsi per quello che è. L’incantesimo circeo conferma quindi quanto viene descritto nell’introduzione del De umbris idearum: se si desidera che l’arte doni i suoi frutti più alti nel campo della conoscenza filosofica, quest’ultima deve fare appello al mondo dei fenomeni naturali e confrontarsi inevitabilmente con la loro complessità rispetto ad una totalità unitaria, spingendo la luce del sapere fino alle più oscure parti del ‘regno delle ombre’. La nozione bruniana di ombra si fonda, con evidenza, su quella di luce: ciò non dà luogo tuttavia a un sistema di rapporti biunivoci, perché per effetto della luce/verità viene posto di fronte agli occhi della conoscenza un mondo di ombre, mentre dall’ombra non si risale di fatto e direttamente alla luce. Tale acquisizione teorica rimane uno dei punti più fermi della «nolana filosofia», ritrovandosi in quasi tutte le fasi della sua produzione come punto di partenza necessario a definire i rapporti tra la conoscenza, il mondo e il principio divino, soprattutto nel ribadire l’esclusivo ambito naturale dell’esperienza umana4. Cfr. Id., Cantus Circaeus, in Id., Opere mnemotecniche, I, pp. 599 sgg. Cfr. Id., Sigillus sigillorum, in Id., Opere mnemotecniche, II, pp. 274-7; Id., Oratio valedictoria, in Eiusd. Opera Latine conscripta, publicis sumptibus edita, recensebat F. Fiorentino [F. Tocco, H. Vitelli, V. Imbriani, C.M. Tallarigo], Napoli-Firenze, 3 voll. in 8 tomi, 1879-91, I, 1, p. 15; Id., Lampas triginta statuarum, in Id., Opere magiche, edizione diretta da M. Ciliberto, a cura di S. Bassi, E. Scapparone e N. Tirinnanzi, Milano 2000, pp. 1022-3, 1040-1; Id., Theses de magia, ibid., pp. 340-1; Id., De monade, numero et figura, in Eiusd. Opera Latine conscripta, I, 2, p. 360; Id., De immenso 3 4
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Così, ad esempio, nel secondo dialogo del De la causa, principio et uno Bruno afferma che «dalla cognizione di tutte le cose», «non possiamo inferire altra notizia del primo principio e causa, che per modo men efficace che di vestigio»5, poiché della sostanza divina, infinita e «lontanissima» dall’uomo («quelli effetti, che sono l’ultimo termine del corso della nostra discorsiva facultade»6), non possiamo conoscer nulla, se non per modo di vestigio come dicono i Platonici, di remoto effetto come dicono i Peripatetici, di indumenti come dicono i Cabalisti, di spalli o posteriori come dicono i Talmutisti, di specchio, ombra et enigma come dicono gli Apocaliptici7.
L’ombra è, nel suo senso più profondo, metafora dello statuto stesso della condizione umana: è il limite entro il quale si produce e si costruisce la conoscenza del vero, ma anche lo spazio nel quale sorge l’intuizione del principio divino e sostanziale sotteso alla realtà fenomenica. L’ambivalente natura del potenziale gnoseologico umano rispetto al piano metafisico della verità è ribadita, in chiave negativa, anche nel quinto dialogo della seconda parte del De gli eroici furori, ove è affidato alle figure di nove ciechi il compito di simboleggiare i tipi di ‘cecità’ cui sono soggette le facoltà intellettuali nel corso della loro attività speculativa più alta, ovvero «le nove raggioni della inabilità, improporzionabilità e difetto dell’umano sguardo e potenza apprensiva de cose divine»8. La prima e più significativa forma di accecamento sorge quindi dalla condizione stessa del conoscere, è «da natività» e «per la natura che ne umilia et abbassa»9, concerne cioè la forma stessa del sapere al quale è irrimediabilmente precluso ogni accesso al vero,
et innumerabilibus, ibid., I, 1, p. 345; Id., De imaginum compositione, in Id., Opere mnemotecniche, II, pp. 491-7. Sul tema dell’ombra in Bruno si veda soprattutto N. Tirinnanzi, Ombra (umbra), in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, direzione scientifica di M. Ciliberto, 3 voll., Firenze-Pisa 2014, II, ad v. 5 G. Bruno, De la causa, principio et uno, in Id., Dialoghi filosofici italiani, a cura e con un saggio introduttivo di M. Ciliberto, note a cura di N. Tirinnanzi, Milano 2000, p. 206. 6 Ibid., p. 207. 7 Ibid. 8 Id., De gli eroici furori, in Id., Dialoghi filosofici italiani, p. 767. 9 Ibid.
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avendo l’intelligenza occhi che «accesi non furo, né son spenti»10. Il conflitto tra la luce e la condizione dell’oscura ignoranza caratterizza la distanza e lo squilibrio ‘ontologici’ propri dell’uomo, poiché «non è infatti tanto eccelsa la nostra natura da dimorare per virtù propria nel campo stesso della verità»11; un orizzonte d’ombra circoscrive l’intera sfera della conoscenza, in modo da imprigionare il sapere umano esclusivamente entro il contesto naturale, relegandolo alla mera riflessione sulle cause naturali e fisiche che determinano la molteplicità dei fenomeni. In realtà, nello stesso momento in cui Bruno asserisce la radicale incommensurabilità tra il piano metafisico e quello umano, non appena racchiude il limite della conoscenza nella sfera naturale, egli inizia subito con il costruire una visione del sapere aperta e complessa che ricuce uno ad uno i fili del disperso potenziale conoscitivo umano, nel tentativo di riavvicinare l’infinito alla finitezza dell’esperienza. Ed è proprio il motivo dell’ombra ad essere portatore di altre e più positive sfumature semantiche, potendo esprimere la separazione tra i due poli estremi dell’essere, il divino e l’umano, la causa e i suoi ultimi e più remoti effetti, anche nei termini di una loro sostanziale affinità, dando spiegazione di come ciò «il cui essere non è propriamente il vero, e la cui essenza non è propriamente la verità, abbia comunque l’efficacia e l’atto della verità»12: L’ombra non è tenebra, ma traccia della tenebra nella luce, o traccia della luce nella tenebra, o partecipe di luce e tenebra, o composto di luce e tenebra, o mistione di luce e tenebra, o elemento distinto da luce e tenebra, e separato da entrambe. E tutto questo o perché non è piena verità della luce, o perché è luce falsa, oppure perché non è né vera né falsa, ma traccia di ciò che può essere veramente o falsamente13.
Ibid., p. 936. Cfr. Id., De umbris, p. 42: «Non enim est tanta haec nostra natura ut pro sua capacitate ipsum veritatis camput incolat». 12 Ibid., p. 42: «Qui autem fieri potest, ut ipsum, cuius esse non est proprie verum et cuius essentia non est proprie veritas, efficaciam et actum habeat veritatis?». 13 Ibid., p. 44: «Non est umbra tenebrae, sed vel tenebrarum vestigium in lumine, vel luminis vestigium in tenebris, vel particeps lucis et tenebrae, vel compositum ex luce et tenebris, vel mixtum ex luce et tenebris, vel neutrum a luce et tenebris et ab utriusque seiunctum. Et haec vel inde, quia non sit plena lucis veritas, vel quia sit falsa lux, vel quia nec vera nec falsa, sed eius, quod vere est aut false, vestigium». 10 11
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L’asse bipolare di verità-luce e oscurità-falsità, posto da Bruno come incipit del De umbris idearum (attraverso la citazione del versetto biblico «mi sono seduta all’ombra di colui che avevo desiderato»14), assume in questo passo della medesima opera una più complessa configurazione chiamando in causa non più due, ma tre soggetti (luce, ombra e tenebra) e ponendo l’ombra in posizione intermedia tra i due, come partecipe di entrambi e, soprattutto, definendola con elementi che caratterizzano la sua continuità e conformità sia con la luce della verità sia con l’oscurità dell’ignoranza. L’ombra infatti non è più solamente l’immagine della separazione della mente rispetto alla verità, ma, grazie al motivo della ‘traccia’ (vestigium), vengono sottolineati gli aspetti che mettono la ‘sfera umbratile’ in comunicazione con la luce, ribadendone il graduale oscuramento o, per opposta e simmetrica visione, la progressiva illuminazione dell’oscurità. La doppia natura dell’ombra si manifesta quindi nell’articolazione stessa dell’esperienza umbratile, secondo la quale si può avere «l’ombra della tenebra», che avviene quando «l’animo si racchiude nei limiti della vita corporea e del senso», oppure «l’ombra della luce», quando «le potenze inferiori si fanno dominare dalle superiori» e «aspirano ad oggetti eterni e più alti»15. In ogni caso tale esperienza è, sebbene qualitativamente orientata in modi contrapposti, quella di una non completa definizione della verità – un tendere maggiore ad essa, o uno smarrirsi nella sua confusa e fenomenica dispersione –, poiché nell’«orizzonte della luce e della tenebra», «non possiamo certo intendere altro che l’ombra», la quale di fatto è al contempo possibilità e garanzia del vero e del falso, del bene e del male16. La condizione gnoseologica dell’ombra configura quindi uno spazio aperto, rivolto Ibid., p. 42: «sub umbra illius, quam desideraveram sedi». Ibid., pp. 46-8: «quod, cum umbra habeat quid de luce, et quid de tenebris, duplici aliquem accidit esse sub umbra: umbra videlicet tenebrarum et – ut aiunt – ‘mortis’, quod est cum potentiae superiores emarcescunt et ociantur, aut subserviunt inferioribus, quatenus animus circa vitam tantum corporalem versatur atque sensum; et umbra lucis, quod est cum potentiae inferiores superi[i]oribus adspirantibus in aeterna eminentioraque obiecta subiiciuntur, ut accidit in caelis versanti qui spiritu irritamenta carnis inculcat». 16 Ibid., p. 48: «In orizonte quidem lucis et tenebrarum nil aliud intelligere possumus quam umbram. Haec in orizonte boni et mali, veri et falsi. Hic est ipsum quod potest bonificari, et maleficari, falsari, et veritate formari; quodque istorsum tendens sub istius, illorsum vero sub illius umbra esse dicitur». 14 15
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sia in direzione della verità (luce), sia della falsità (tenebra), il quale, essendo caratterizzato dalla natura di entrambe, è per questo il fondamento della conoscibilità e dell’esperienza di tutte e due: indica le potenziali risorse conoscitive che permettono di aspirare al vero, ma segnala anche quegli ostacoli che precipitano l’uomo nell’errore. Tra i due estremi l’equilibrio non è stabile e la prospettiva di Bruno oscilla continuamente tra la pienezza e la pregnanza della luce e lo smarrimento dell’ingannevole oscurità; il superamento del punto di stallo consiste nel volgere tutta la propria forza intellettiva in direzione della verità ponendosi entro un cono d’ombra conoscitivo che, progressivamente, svela i princìpi divini, così come sono manifesti nella realtà naturale: questa, o simile a questa, è l’ombra cui alludono i Cabalisti, poiché il velo che secondo tipo e figurazione era posto sul volto di Mosè – e che figuratamente adombrava il volto della legge – non doveva ingannare, ma dirigere con ordine graduale l’occhio degli uomini, cui risulta dannoso l’improvviso passaggio dalle tenebre alla luce. […] L’ombra dunque prepara l’occhio alla luce. L’ombra tempera la luce. Attraverso l’ombra la divinità attenua e manifesta all’occhio offuscato dell’anima affamata e assetata quelle immagini che sono ambasciatrici delle cose17.
L’ombra intesa come risorsa conoscitiva non è dunque solamente il frutto di una personale scelta intellettuale che spinge a gettarsi consapevolmente nella ricerca del vero; piuttosto questo modo di considerare l’esperienza del mondo mettendola in relazione con la fonte stessa del suo sussistere (e del suo essere conosciuto) consiste in un’acquisizione di tipo filosofico, la quale sorge da un’attenta lettura delle cose stesse, poiché la natura non permette «che si passi da un estremo all’altro immediatamente», ma fornisce alla conoscenza «la mediazione delle ombre» e, di conseguenza, il «progressivo svelarsi della luce»18. Le ombre, per mezzo delle quali è possibile ricostruire un Ibid., p. 64: «Hanc vel huic similem figuratam habent, qui Cabalistae dicuntur, quia velamen, quod erat typice seu figurative in facie Mosis, figurate vero in facie legis, non erat ad deceptionem, sed ad ordinate promovendos hominum oculos, in quibus accidit laesio si repente de tenebris in lucem promoveantur. […] Umbra igitur visum preparat ad lucem. Umbra lucem temperat. Per umbram divinitas oculo esurientis, sitientisque animae caliganti nuncias rerum species temperat, atque propinat». 18 Ibid.: «Neque enim natura patitur inmediatum progressum ab uno extraemorum 17
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percorso che conduce fino alla comprensione piena delle cose, provengono dalla natura, che, se correttamente interpretata, offre tutte le risorse necessarie per realizzare una feconda conoscenza. Emerge così un ulteriore e terzo modo di intendere l’ombra, evoluzione dei precedenti e punto di arrivo di questa analisi dei fondamenti della gnoseologia bruniana: dall’ombra letta come metafora della condizione umana caratterizzata dall’incolmabile distanza e separazione dalla verità, si passa infatti alla valutazione per la quale l’ombra può essere spazio e possibilità di mediazione tra l’ignoranza e la verità dal momento che costituisce il terreno comune sul quale entrambe si generano e si offrono all’esperienza conoscitiva; infine, si scopre che l’ombra può simboleggiare proprio la forza e il potere intellettuale insiti nell’uomo che, sebbene ‘gettato’ nell’oscurità, è comunque radicato in qualcosa che porta in sé l’essenza della luce (la natura) e da questa inizia a ricostruire il proprio ‘cammino’ verso la verità sperimentando un mondo di frammenti e fraintendimenti che, via via che vengono ricondotti all’unità originaria, restituiscono un’immagine sempre meno offuscata della realtà. È propriamente entro quest’ultima cornice teorica che vanno intese le «ombre delle idee», quali strumenti intellettuali (le idee universali, le nozioni e i concetti delle cose) che vengono astratti e ricavati, anzitutto, dalla conoscenza sensibile delle cose (le ‘tracce’, i ‘vestigi’, le ‘impronte’ delle idee) e grazie alla loro proiezione interiore (le ‘ombre fantastiche’). Di fatto i tre modi di intendere l’ombra che abbiamo evidenziato non si escludono a vicenda, ma si integrano nel formare un medesimo e plurivalente sfondo interpretativo: ne consegue che qualsiasi cosa sia oggetto di conoscenza è ‘ombra’, perché nasce all’ombra e dall’ombra, cioè come frutto della relazione dinamica tra la verità divina, la sua espressione fisica (il mondo) e la successiva e conseguente interiorizzazione cognitiva di quest’ultimo (la dimensione detta propriamente umbratile); quella traccia luminosa implicita nella nozione di ombra e costitutiva d’essa (perché un’ombra si genera per effetto della luce) motiva dunque la positività, seppur minima, di uno statuto gnoseologico che implica potenzialmente l’abbandono dell’oscurità e l’iniziale ascesa e ritorno alla luce del vero.
ad alterum, sed umbris mediantibus, adumbratoque lumine sensim. Naturalem videndi potentiam perdidere nonnulli de tenebris in repentinam lucem prodeuntes, tantum abest ut perquisito potirentur obiecto».
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Il gioco delle ombre L’ombra come strumento e oggetto della conoscenza è dunque tutto quanto viene percepito, proiettato e interiorizzato dalla mente dell’uomo: sono ombre le impressioni delle cose, le visioni fantastiche con le quali pensiamo e ricordiamo, le idee universali che vengono astratte; tutte queste sono ombre perché sono generate attraverso il filtro del mondo fisico che, per l’appunto, adombra la verità divina e, al tempo stesso, rivela attraverso i molteplici effetti la forza della causa prima (in questo senso anche la natura può dirsi ombra, anche se in tal caso Bruno usa primariamente il termine ‘vestigio’, per sottolineare il doppio scarto tra i tre ‘mondi’). La natura copre il volto della divinità come un velo, perché pur celandone l’essenza all’esperienza umana, ne manifesta i contorni, il profilo e la superficie che emergono dal profondo di essa, dalla sua azione, dagli effetti prodotti. In questa complessa dinamica la simbologia dell’ombra si mostra quanto mai efficace nell’esprimere i molti livelli e le intricate relazioni intrecciate tra la divinità, la sua estrinsecazione nella natura e la dimensione cognitiva; così nel corpo centrale della prima parte del De umbris idearum (intitolata Intentiones umbrarum, «i significati delle ombre»), la dialettica luce/ tenebra si trasforma in un vero e proprio ‘trattato sull’ombra’, cioè in una approfondita spiegazione di come, tanto in campo prospettico quanto in quello dell’indagine dei fenomeni fisico-percettivi, sia possibile descrivere la condizione cognitiva umbratile passando attraverso l’analisi delle ombre ‘fisiche’, ovvero le ombre propriamente tali. I soggetti che entrano in gioco nel produrre le ombre sono tre: la fonte luminosa, i corpi posti di fronte ad essa e la superficie sulla quale le ombre vengono proiettate. Modulando e variando vicendevolmente i rapporti tra questi punti di riferimento si danno varie possibilità, alcune delle quali utili nel significare – in forma paradigmatica e al tempo stesso simbolica – il rapporto tra la verità, gli oggetti della conoscenza e i frutti dell’esperienza. Ad esempio: «se un corpo lontano dai nostri occhi si avvicina a una luce distante, è minore l’ombra che promana fino ai nostri occhi; ma via via che questo corpo si ritrae dalla luce, l’ombra proiettata si fa minore, e reca maggiore impedimento alla vista»19. In questo passo è mostrato, attraverso il gioco prospettico che Ibid., p. 68: «Si ab oculis nostris elongatum corpus ad distantem lucem accedat, minoratur illius ad oculos nostros umbra; sed ipso corpore magis a luce recedente, minor ab illo transfunditur umbra, visuique maius affertur impedimentum». 19
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vede allontanarsi o avvicinarsi un corpo opaco rispetto alla fonte luminosa, il variare dell’intensità conoscitiva di determinati fenomeni: un corpo posto di fronte agli occhi oscura infatti completamente la visione della luce, mentre se è portato distante dalla vista lascia intravedere di più la fonte luminosa e la copre con un’ombra minore e meno intensa. In maniera simile, quanto è oggetto dell’esperienza ed è alla immediata portata dei sensi nasconde maggiormente la verità che le sta dietro, mentre se si allontana il punto di vista e si considerano cose più ‘distanti’, cioè più astratte, universali o riferentisi a contesti più ampi e complessi, allora emerge una definizione più precisa, seppure ancora parziale, dell’intero. Un analogo concetto è espresso nella intentio successiva: «quanto maggiore è l’intensità della luce e la densità del corpo, tanto più l’ombra si fa perspicua», ovvero acquista «maggiore capacità di esprimere e riprodurre nitidamente la forma [del corpo]», poiché «essa imita il corpo secondo densità e rarefazione, continuità e discontinuità»20. La considerazione si sposta, in questo caso, sui ‘corpi’, ovvero le cose che in natura adombrano la luce divina e che, in ultima analisi, sono gli unici oggetti dell’atto conoscitivo: l’ombra, infatti, non svela informazioni riguardanti la luce, ma descrive il corpo opaco che è frapposto tra la luce e l’osservatore. Certo: lo rivela perché è illuminato secondo l’intensità e la prospettiva con la quale la luce ricade su di esso, ma è pur sempre il corpo che proietta la ‘propria’ ombra. L’ombra – e, sul piano gnoseologico, le ombre delle idee – è dunque vincolata alla natura dei corpi, ovvero alla fisicità percettiva di essi; tuttavia è grazie alla luce, cioè alla sua intrinseca radice essenziale, che la natura tutta si offre come vestigium, impronta esteriore e unitaria dell’azione del divino: quello che si conosce è dunque la natura, ma la si conosce perché essa è effetto di una potenza e di una forza produttiva di origine divina che la rende tale, cioè estrinseca, attuale e reale. L’ombra fisica – come si è già visto a proposito della contemporanea presenza di verità e falsità nella condizione umbratile – è l’effetto comune di «luce» e di «corpo», ovvero «segue ad un tempo il moto del corpo e quello della luce», ma in modo ambiguo e contraddittorio perché «segue necessariamente il moto del corpo verso la luce, e il moto della luce verso il corpo», salvo poi comportarsi in maniera contraria «nel momento in cui luce e corpo concorrono spostandosi l’una verso Ibid.: «Maiori intensione lucis et densitate corporis umbra perspicacior efficitur: expressior, inquam, redditur atque formatior, quod inde est, quia in densitate et raritate continuitate et discontinuitate corpus imitatur». 20
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l’altro con moti opposti»21. Le caratteristiche delle ombre variano al variare dei rapporti tra la fonte luminosa e il corpo, «fuggendo» il movimento della luce e «seguendo» la forma del corpo; analogamente l’esperienza della realtà fisica oscilla tra la supposta continuità ontologica della natura (tutta illuminata dalla luce sostanziale) e la dispersione e frammentazione di essa, zone imperscrutabili e oscure entro le quali la conoscenza può smarrirsi, o per l’eccessiva prossimità all’unità, o perché schiacciata sulla superficie immediata delle cose: la comprensione dell’unità della molteplicità degli atti naturali non produce infatti l’immediata e unitaria intuizione della totalità della natura, ma occorre inseguire ed ‘eseguire’ quest’ultima attraverso le intricate trame dei primi. In maniera analoga si può ragionare sulla consistenza e densità delle ombre, rispetto ai corpi e alla sorgente luminosa e alle diverse angolazioni con cui questa illumina il corpo e ne proietta il cono d’ombra; in qualsiasi caso l’ombra si manifesta comunque in quanto fenomeno prodotto dalla luce che trova però ‘fondamento’ nei corpi. Uscendo definitivamente dalla suggestiva allegoria bruniana e cercando di trasferire l’analisi sul piano gnoseologico, queste dense riflessioni sulla natura delle ombre fisiche lasciano intravedere un’importante e più generale ricerca intorno allo statuto della conoscenza e alla fondazione della veridicità dei dati cognitivi: «cosa diremo dunque delle ombre che promanano dalle idee? Devi comprendere che esse non sono né sostanze né accidenti, ma nozioni di sostanze e di accidenti»22. Le impressioni percettive, le immagini interiori, i concetti e, soprattutto, le idee universali (chiamate da Bruno «ombre delle idee») non sono ‘sostanze’, cioè oggetti che hanno un proprio statuto ontologico, né ‘accidenti’, ovvero caratteristiche inerenti a sostanze, ma ‘nozioni’ di sostanze e accidenti, cioè segni, simboli, proiezioni (tutti termini collegabili a una costellazione semantica comune a quelle di luce e di ombra) che rimandano agli enti presenti nella dimensione naturale (essi stessi non propriamente sostanze, ma ‘accidenti’ dell’unica sostanza universale)23, descrivendola nei suoi molteplici aspetti e fenomeni. Il Ibid.: «Umbra motum corporis simul persequitur atque lucis. Movetur corpus? Umbra movetur. Movetur lux? Umbra movetur. Movetur utrumque? Umbra movetur. Contra physicas observantias idem subiectum – subiectum, inquam, motus – simul diversis contrariisque subest motionibus». 22 Ibid., p. 72: «Porro quid dicimus de idealibus umbris? Ipsas nec substantias esse intelligas nec accidentia, sed quasdam substantiarum, et accidentium notiones». 23 Su questo peculiare e originale aspetto teorico Bruno si diffonde ampiamente 21
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mondo della conoscenza si dà dunque come uno specchio virtuale, un palpitante crogiolo di ‘segni’ rivolti alla realtà, della quale è un riflesso parziale e indefinito – ne è per l’appunto l’ombra –, tuttavia perfettibile, poiché la densità, la definizione e la fedeltà con il corpo e con la fonte luminosa dai quali deriva la sua stessa consistenza sono in continua tensione e in perenne mutazione. Dalla serie delle intentiones umbrarum emerge in ultimo una concezione dell’ombra che è, al tempo stesso, dinamica e dialettica, posta com’è tra due estremi – luce e tenebra – dei quali condivide l’opposta natura e per questo è effetto e conseguenza del variabile rapporto tra sorgente luminosa e corpo opaco. Questa concezione dell’ombra è quindi quella definitiva, perché con più profondità e maggior efficacia riesce a rappresentare simbolicamente, nella seconda metà della prima sezione del De umbris, gli oggetti filosofici e gnoseologici al centro della riflessione di Bruno. I tre elementi che entrano in gioco per determinare l’ombra – la fonte luminosa, il corpo opaco e l’ombra stessa – scandiscono secondo questo preciso ordine, che è anche una ‘scala’ di rapporti causali, i soggetti che contribuiscono alla costituzione della realtà. La luce è metafora del mondo divino, della sua forza generatrice e del principio creatore che si rende manifesto e conoscibile attraverso il suo stesso atto produttivo; il corpo simboleggia la natura, la sua vitalità e, in generale, tutto quanto è fisico, reale e determinato; infine, l’ombra è immagine della dimensione conoscitiva, del principio che la anima – l’intelletto umano – e della sua azione creatrice, sia sul piano pratico che mentale: «l’ente si intende distinto in tre capi, metafisico, fisico e logico in senso generale; ugualmente tre sono i principi di tutte le cose, Dio, natura e arte e tre sono i loro effetti, divino, naturale e artificiale»24. Con queste parole si apre il De imaginum, signorum et idearum compositione, l’ultima opera di Giordano Bruno dedicata all’arte della memoria: pur composta a distanza di quasi dieci anni dal De umbris idearum, essa rimanda a quella stessa prospettiva filosofica, richiamando esplicitamente i termini fondamentali della dialettica dell’ombra. A ciò si collega il riconoscimento che vi è un’ese dettagliatamente nel De la causa, principio et uno, in modo particolare nel terzo e quarto dialogo che riguardano lo statuto della materia. Cfr. S. Carannante, M. Matteoli, Materia, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, II, ad v. 24 Bruno, De imaginum compositione, p. 492: «Ens in tria capita distributum intelligitur, metaphysicum, physicum et logicum universaliter dictum; ut tria sunt omnium principia, Deus, natura atque ars; et tres sunt effectus, divinus, naturalis, artificialis».
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senza formale dietro ogni atto della monade divina, secondo ciascun grado della rinnovata scala bruniana dell’essere: essa è l’«idea quando precede le realtà naturali», la «forma o traccia delle idee nelle realtà naturali» e, infine, «nei contenuti che fanno seguito alle realtà naturali», cioè gli atti della conoscenza, essa è «ragione o intenzione», la quale a sua volta «si distingue in intenzione prima e seconda, che un tempo siamo stati soliti chiamare ombra delle idee»25. Idea, traccia e ombra dell’idea, espressione di altrettanti ambiti dell’essere – quello divino, quello naturale e quello umano –, indicano anche le corrispettive funzioni produttive: Dio, in quanto causa prima, produce l’intero universo, la natura partorisce gli enti e l’uomo crea pensieri e atti; il primo agisce attraverso le ‘idee’, princìpi assoluti e universali, la seconda si appoggia alle ‘forme’ scaturite dall’incontro di aspetto efficiente e sostrato materiale, il terzo si basa sulle proprie facoltà intellettive e sulle nozioni acquisite tramite di esse. Inoltre idea, traccia e ombra non sono indipendenti l’una dall’altra, ma, essendo vincolate ai rispettivi ambiti di realizzazione, secondo questo stesso ordine stanno in un reciproco rapporto di derivazione: «le idee sono cause delle cose prima delle cose; le tracce delle idee sono le cose stesse o ciò che è nelle cose; le ombre delle idee sono ciò che discende dalle cose o è posteriore alle cose»26. In tale descensus si dissipa in un modo duplice – nell’attuarsi delle cose e nel derivarne l’esperienza – un contenuto di perfezione e verità che è assoluto e ‘contratto’ al primo grado, parziale ed estrinseco nel secondo e si dissolve e frammenta definitivamente nello stato di ombra, tanto che l’essere delle ombre delle idee è «tanto meno perfetto di quello delle realtà che discendono dal grembo della natura, quanto meno perfette sono le cose naturali stesse rispetto alla mente, all’idea e al principio effettivo soprannaturale, sostantifico, superessenziale»27. Il mondo metafisico, quello naturale e la sfera della conoscenza sono, Ibid., p. 492: «Omne agens proposito et non necessitate quadam constitutum speciem rei efficiendae ut praeconcipiat oportet. Quae sane species ante naturalia appellatur idea, in naturalibus forma sive vestigium idearum, in postnaturalibus ratio seu intentio, quae in primam atque secundam distinguitur, quam nos aliquando idearum umbram consuevimus appellare». 26 Ibid: «Ideae sunt causa rerum ante res, idearum vestigia sunt ipsae res seu quae in rebus, idearum umbrae sunt ab ipsis rebus seu post res». 27 Ibid.: «quae tanto minori ratione esse dicuntur quam res ipsae quae a naturae gremio proficiscuntur, quanto res ipsae quam mens, idea atque principium effectivum, supernaturale, substantificum, superessentiale». 25
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secondo questo ordinamento, i tre ‘gradi’ dell’ontologia bruniana, le tre direttrici fondamentali entro le quali si inscrive tutta la «nolana filosofia», e la dinamica che nasce dal loro reciproco rapporto ne costituisce il cuore teorico. In particolare, la dimensione dell’esperienza umana e le facoltà intellettive non sono più viste come luogo di mediazione tra Dio e la natura, la sostanza spirituale e il mondo materiale: l’umanità è completamente calata nel contesto naturale, come parte organica ed essenziale di esso e, da questo punto di vista, essa guarda verso la divinità attraverso il filtro e lo schermo della natura, che limita ogni atto conoscitivo. Conoscere il mondo tuttavia è l’unico mezzo possibile per riconquistare la verità, grazie al valore semantico dei segni che è possibile leggere in esso, ovvero le ombre delle idee ricavate dalla conoscenza della natura. Questo schema rinnova, ribaltandolo, l’equilibrio e l’ordine della metafisica platonico-rinascimentale, dell’aristotelismo scolastico, della teologia tomista, per i quali l’uomo è visto come superiore alla materialità fisica, in virtù della potenza intellettuale, ‘dono’ della divinità e marchio di una condizione spirituale superiore alla natura. Tale status conferisce dunque un valore quasi ‘simbolico’ alla conoscenza umana e ai suoi contenuti intellettuali: non più radicato nel divino, l’uomo non ha altri strumenti per determinare la verità, se non cogliendo il vero in maniera dinamica, come praxis di costruzione progressiva e perfettibile da operare attraverso gli atti della conoscenza stessa. Anche se minimamente collegato con l’essenza, ogni atto del pensiero rimanda comunque in qualche modo all’oggetto dal quale è scaturito e porta in sé un contenuto conoscitivo (intentio) che, seppure in maniera parziale, si riferisce all’aspetto percepito e da questo alla forma di esso: il doppio livello di scrematura del vero – dalla sostanza alla forma-traccia (vestigium) e da questa all’ombra – non permette dunque di risalire alla verità prima, ma offre un frammento concreto ed efficace di un quadro esperienziale che, se non può condurre alla piena luce, può almeno portare il punto di osservazione a identificarsi con la totalità dell’ombra, ovvero abbracciare nella sua unità sempre più parti della proiezione naturale. Se dunque l’uomo tende al vero, che è divino, egli in realtà lo attinge nella natura e attraverso di essa: come è esplicitamente definito nel secondo dialogo della seconda parte del De gli eroici furori, ogni «cacciatore» della verità sa che egli non mira ad una «preda» che è «inaccessibile», «inobiettabile» e «incomprensibile», «ma sì bene la sua ombra, la sua Diana, il mondo, l’universo, la natura che è nelle cose, la luce che è nell’opacità della materia», «cioè quella
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in quanto splende nelle tenebre»28. Il percorso per compiere questo complicato passaggio, colmando la distanza che costitutivamente separa l’uomo dall’espressione piena e ‘fisica’ della verità, cioè la natura universale, è fondato su una meditata e progressiva attività conoscitiva che si compie sia per arte (soprattutto, in questa prima fase speculativa, grazie all’arte della memoria), sia con metodo, ovvero sfruttando tutte le possibili risorse dell’esperienza intellettuale. L’ultimo passo per comprendere come ciò possa avvenire, consiste dunque nell’approfondire l’analisi dei rapporti che vincolano la dimensione conoscitiva a quella naturale e quest’ultima con quella metafisica e sostanziale, ovvero comprendere le relazioni che sussistono tra il principio intrinseco e formale che genera le cose, il loro aspetto e i concetti ideali che ricaviamo da esso. La forma del mondo Nella seconda parte della prima sezione del De umbris, dopo aver presentato in tutta la sua suggestiva complessità la dottrina associata alla ‘metafora’ dell’ombra, Bruno propone trenta «concetti delle idee» (conceptus idearum), una serie di concetti dal tono più esplicitamente filosofico che devono essere «assunti prima di per se stessi» e in seguito esaminati «in connessione con le intenzioni delle ombre»29, sottolineando così che la teoria delle ombre delle idee deve agire come ‘filtro’ teorico per rileggere le più importanti e consolidate nozioni ricavate dalle tradizioni aristotelica e platonica. Queste riflessioni puntuali e concise presentano, infatti, le posizioni di pensatori come Aristotele, Platone, Tommaso D’Aquino e Marsilio Ficino intorno allo statuto della conoscenza, la natura del mondo e il ruolo della divinità rispetto agli enti prodotti da essa; in sintesi illustrano il rapporto tra ‘idee’ metafisiche, forme essenziali e concetti umani. Il punto di partenza consiste nel constatare, con Plotino, che «esiste qualcosa di singolare che dal mondo intelligibile si estende fino [ai nostri occhi]»30, cioè che Id., De gli eroici furori, p. 920. Id., De umbris, p. 86: «Iam ad triginta idearum conceptus, primo simpliciter, secundo cum intentionibus umbrarum complexe concipiendis, consequenter progrediamur». 30 Ibid., p. 86: «“Luciferos – inquit Plotinus – in facie Deus oculos fabricavit, caeterisque sensibus adhibuit instrumenta, ut inde tum naturaliter servarentur, tum etiam 28 29
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la conoscibilità e la vera comprensione del mondo sono garantite da una ‘continuità’ ontologica che è costitutiva del tutto e che unifica e mette in comunicazione gli archetipi ideali delle cose con le cose stesse e con la mente umana che ne fa esperienza. Secondo la prospettiva dell’ombra tale connessione non è immediata e l’essere della divinità non è identico – per qualità e dignità ontologiche – a quello della natura; a sua volta la sostanza delle cose non si trasmette incorrotta alla mente umana: al contrario i tre ‘mondi’ nel loro reciproco ‘contatto’ manifestano uno scarto e una perdita di intensità d’essere che, pur nella sostanziale affinità di questi tre passaggi – poiché ognuno è effetto di quello precedente –, sancisce un incolmabile divario tra l’unità e l’assolutezza divine e l’uomo. Questo tipo di rapporto, secondo Bruno, si caratterizza con una prossimità e una correlazione tra piani diversi dell’essere che sono simili, per certi versi, a quelle che sussistono tra quanto è principio fondativo di una cosa e la cosa stessa che sorge «per l’agire di una forma che in modo del tutto naturale si esprime quasi all’esterno, ovvero esplica ed effonde qualcosa muovendo dalla propria natura». La ‘forma’ infatti è, aristotelicamente, l’anima essenziale che determina la struttura e la configurazione dell’ente e nel conferire esistenza attuale agli individui non opera dall’esterno della sostanza, ma è una ‘forza’ agente intrinseca e organica. Ciò vale per quanto riguarda la produzione dell’ente universale (nel passaggio da mondo divino a mondo naturale), ma anche per i singoli enti naturali che sorgono grazie alla potenza formale e attuativa (che per Bruno è unica e universale) che è presente nell’intimo della natura e, infine, anche per i concetti che, sorti nell’incontro tra l’universo logico e quello mondano, sono effetto dell’azione della ‘natura’ intellettiva della mente (anima intellectualis) che funziona come elemento ‘formale’ rispetto alle idee prodotte da essa. Viene così ordinata una sorta di scala che mostra in che modo debba essere inteso il movimento ‘discensivo’ del principio sostanziale, universale e produttivo dall’astratta dimensione metafisica alle cose naturali e alla loro introiezione: le forme delle cose sono nelle idee, sono in qualche modo in se stesse, sono nel cielo, sono nella rivoluzione del cielo, sono nelle cause prossime seminali, sono nelle cause prossime efficienti, sono nell’effetto come molteplicità
cognata luce aliquid contraherent”. Quibus sane verbis manifestat aliquid esse praecipuum, quod de mundo intelligibili ad ipsos pertineat».
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di individui, sono nella luce, sono nel senso esterno, sono nel senso interno, secondo il modo che è loro proprio31.
Gli archetipi ‘ideali’ in virtù dei quali le cose ricevono la propria configurazione sono parte della dimensione metafisica che ‘precede’ la natura e risiedono nella stabilità e assolutezza del principio divino; essi vengono ‘attualizzati’, cioè trasmessi alla sostanza naturale e, in quanto tali, diventano le forme delle cose. Tra tutti gli enti che esistono l’universo stesso (il «cielo») è l’ente che contiene tutti gli altri: la sua ‘forma’, cioè il principio generante, pur essendo unica, implica la molteplicità di tutte le cose che prendono corpo al suo interno e anche tutte le possibili vicende (la «rivoluzione del cielo») cui esse sono soggette; pertanto l’essenza del tutto e del ritmo globale con il quale esso diviene è, in un certo senso, ontologicamente più alta di quella delle singole cose, che sono partorite sulla superficie della natura per la forza di una causalità più particolare e individuale (le «cause prossime seminali»). La forma dell’universo è il principio che progetta la multiforme struttura del tutto, la anima e ne esplica i diversi caratteri; il divenire delle cose non è dettato dal solo prodursi degli enti, ovvero una cosa non viene ad essere per rimanere estranea al proprio contesto e alle relazioni intrattenibili con altri soggetti, ma la mutabilità degli enti è il segno visibile di un ‘ordine’ di grado superiore che abbraccia ogni cosa, mostrando che vi è un che di essenziale anche nel modo in cui le cose interagiscono tra loro, producono effetti e trasformazioni l’una rispetto all’altra, dando espressione al potenziale produttivo insito nella natura (le «cause prossime efficienti») e manifesto negli atti stessi di tale attualità interagente (la «molteplicità di individui»). L’ultimo grado è infine quello della sfera della conoscenza fondata, innanzitutto, sul fatto che le cose stesse sono conoscibili, ovvero che il fine stesso della mente è quello di conoscere e quello del mondo di essere conosciuto: tale ‘luminosità’ («con il termine luce intendo qui il carattere intelligibile delle cose»32) è dunque propria della natura, come tutto ciò che appartiene alla sostanza delle cose; anch’essa è un modo di essere delle forme e della forma prima. Il fatto che le cose Ibid., pp. 90-2: «Rerum formae sunt in ideis, sunt quodammodo in se ipsis, sunt in coelo, sunt in periodo caeli, sunt in causis proximis seminalibus, sunt in causis proximis efficientibus, sunt individualiter in effectu, sunt in lumine, sunt in extrinseco sensu, sunt in intrinseco, modo suo». 32 Ibid., p. 96: «Lucem hic intelligo intelligibilitatem rerum». 31
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siano oggetto di conoscenza implica poi che esse possano essere messe in comunicazione con la dimensione ‘logica’ e ciò avviene in virtù delle capacità percettive dell’uomo che agiscono su due livelli, quello della mera sensazione (il «senso esterno») e quello della introiezione del percepito (il «senso interno»), ovvero della proiezione interiore dei dati sotto forma di immagini fantastiche: queste ultime sono i veri e propri oggetti della conoscenza, ovvero il dato concreto ed effettivo a partire dal quale la mente elabora i concetti individuali (intentiones primae) e le idee universali (intentiones secundae). Il procedere delle forme dalla dimensione metafisica a quella naturale e da questa alla sfera della conoscenza è dunque conseguenza di uno stato di fatto intrinseco e peculiare della realtà ed è espressione della sua continuità sostanziale: un’unica sostanza, infatti, accomuna la natura e la mente umana e questa è costituita dall’unione (e dalla coincidentia nel caso della dimensione metafisica) di due principi opposti e complementari, la potenza e l’atto che, in natura, si traducono nella materia e nella forma delle cose. La materia prima è potenza perché è indistinta, omogenea e, pur essendo il fondamento della determinatezza, è priva di qualsiasi caratterizzazione individuale essendo il sostrato sul quale si appoggia l’azione formale nella produzione di tutti gli enti. La forma consiste invece nel principio attivo di circoscrizione, che specifica e determina la materia, un impulso agente ed efficiente, intrinseco alla sostanza stessa; tale forza si trasmette alla materia sotto l’aspetto delle forme che, contestualmente alla trama degli esseri, esprimono la peculiarità e l’individualità propria di ogni ente. Materia e forma sono due aspetti correlati e non si può ammettere l’uno senza riconoscere la realtà dell’altro: essi sono i due volti di una natura unica e complessa. La forma bruniana, infatti, non si traduce nel semplice aspetto delle cose, ma è il principio attuante della pluralità e identità delle singole cose – i cui effetti sono sempre più ‘frammentati’ a mano a mano che le forme si allontanano dall’unità della totalità – e accoglie in sé e contiene tutte le varie e possibili configurazioni delle cose che si realizzano secondo modi molteplici nell’incontro con la materialità: in questo senso, secondo uno schema derivato dal sistema filosofico di Cusano, ogni atto è anche possibilità, così come la potenza – nel concedersi all’azione e fondarla in concreto – è anche attualità33. Le forme assunte dalle singole Il modo in cui Bruno descrive questo intrecciarsi unitario di potenza ed atto nella sostanza naturale (e in particolare nell’anima mundi) nel De la causa, principio et uno ricorda, infatti, i termini con i quali Cusano descrive il coincidere di potenza ed atto 33
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cose e poi percepite dai sensi sono dunque l’esplicazione ultima e individuale di una forza vitale e creatrice che, nella sua massima e primigenia condizione, è perfettamente omogenea, identica e permanente: L’intelletto primo per la sua fecondità nel modo che gli è proprio propaga idee che non sono nuove, né si producono per effetto di nuove operazioni. La natura produce cose nuove secondo un numero di individui sempre nuovi, ma non – al modo che le è proprio – secondo operazioni nuove, se è vero che essa opera sempre nel medesimo modo. La ragione all’infinito forma contenuti nuovi e secondo nuove vie di procedere, componendo, dividendo, astraendo, contraendo, aggiungendo, sottraendo, ordinando, dissolvendo l’ordine34.
Le ‘idee’ universali che giacciono sul fondo di tutta la realtà sono una sorta di progetto, anzi, una stratificazione complessa e dinamica di infiniti progetti che racchiudono, nel medesimo impulso generativo, tutta la forza produttiva del principio originario e divino, per distenderla e disperderla nella realtà, garantendo, a partire da questa azione organica e sistematica, la diversità e la peculiarità di tutti gli enti. In maniera analoga la materia, pur dando continuamente vita sul suo «dorso» a enti sempre diversi tra loro, opera assecondando una funzione produttiva unitaria e «perpetua» che è, per l’appunto, la matrice del suo stesso essere, ovvero la sostanza, che, come una specie di codice genetico/ontologico dell’universo, prescrive e ordina le possibili configurazioni che il tutto assume, realizzandosi nei molteplici e differenti atti di produzione e ‘oggettivandosi’ nel sostrato materiale. in Dio, attraverso il concetto chiave di possest: «Lo stesso è dell’universo rispetto a Dio, salvo che Dio non è l’anima del mondo come è anima l’anima dell’uomo, e non è forma di qualche cosa, ma di tutte, perché è causa efficiente, formale o esemplare, finale. […] Ci sia una qualche espressione che significhi in modo semplicissimo quanto dice questo complesso di parole: potere-è, cioè che lo stesso potere è. E poiché ciò che è, è in atto, dunque potere-essere è lo stesso che potere-essere-in-atto» (N. Cusano, De possest, in Id., Scritti filosofici, I, a cura di G. Santinello, Bologna, 1965, p. 251). Sul complesso rapporto tra Cusano e gli scritti bruniani, cfr. S. Carannante, Niccolò Cusano, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, II, ad v. 34 Bruno, De umbris, p. 96: «Primus intellectus foecunditate sua modo suo propagat ideas non novas, nec noviter. Natura novas res producit in numero, non noviter tamen – modo suo –, si semper eodem modo operatur. Ratio novas atque noviter in infinitum species format, componens, dividens, abstrahens, contrahens, addens, subtrahens, ordinans, deordinans».
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Di fronte all’esperienza naturale la mente umana percepisce la massima frammentazione nell’estesa diversificazione delle cose, così che la varietà, la variabilità e l’apparente originalità dei contenuti mentali è sintomo dell’estrema distanza che sussiste tra il piano divino – in assoluta stabilità – e quello umano. Diversamente, a livello naturale e globale i princìpi formale e materiale si caratterizzano come sostanza unica, perché non si identificano con una particolare struttura e un corpo o con una gamma predefinita e ristretta di forme superiori, ma sono, appunto, la piena totalità e universalità di tutte le cose esistenti, sia sul piano della loro forma, che della sussistenza stessa. Una concezione della forma in quanto aspetto attivo e attuativo dell’essere deve dunque trovare il suo necessario ed esclusivo completamento in una visione della materia che è intesa come «infinita potenza passiva» di attuare gli enti, di modo che l’unione di entrambe, forma e materia, nella sostanza naturale viene a costituire l’unica modalità dell’essere assolutamente alternativa o opposta a Dio (in cui questi due aspetti sono assolutamente coincidenti); il principio formale e quello materiale sono pertanto i due volti congiunti della medesima natura, nel cui seno tutto trova realtà ed esplicazione e di cui anche l’ente logico, sebbene con una sua determinazione qualitativa peculiare, fa parte. Appoggiandosi a tale concezione della sostanza, letta in queste pagine soprattutto dal punto di vista formale, Bruno sostiene che le idee non si danno solamente per gli archetipi universali, ma anche per le singole cose e, addirittura, per gli accidenti, ovvero per i dettagli e gli aspetti della realtà che esistono in esclusivo riferimento ad altri enti. L’atto formale, infatti, è il modello per ogni possibile configurazione assunta ed assumibile dalla natura (mentre la materia ne garantisce, con altrettanta malleabilità, la determinazione) e non solo prevede in sé tutte le possibili forme degli enti che nasceranno nel mondo – con l’insieme di tutte le caratteristiche qualitative proprie di ciascuno –, ma implica anche gli ‘schemi’ delle possibili relazioni che i singoli individui andranno ad intrattenere con tutti gli altri nel corso della loro vicenda. La natura, del resto, accogliendo in sé secondo differenti ordini di complessità tutti gli enti, estende il suo raggio d’azione dal più piccolo e individuale degli esseri fino al ‘contenitore’ massimo per eccellenza, ovvero l’universo e, viceversa, non vi è nulla entro la totalità che non abbia in essa la sua debita ragione d’esistere35. In questa prospettiva i concetti di essere ed ente convergono nell’idea di ‘sostanza prima’, che 35
Cfr. ibid., pp. 112-4.
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a sua volta viene ridefinita in una chiave estremamente innovativa dal punto di vista teoretico: essa è una sorta di eterna ‘formula’ generativa delle cose – che contiene addirittura tutti i possibili casi che verranno ad essere –, ma è anche l’immagine simultanea e ‘contratta’ di tutte le cose che sono, un’istantanea multidimensionale della realtà, secondo tutte le possibili configurazioni che essa assume all’infinito. Le complesse e originali concezioni filosofiche di forma, materia e, più in generale, dell’universo elaborate da Bruno non costituiscono il cuore delle riflessioni del De umbris idearum: esse trovano più espliciti e definiti argomenti nel ciclo dei dialoghi italiani pubblicati in Inghilterra durante il triennio successivo al primo soggiorno parigino; il tema centrale di questa opera è invece, come si è più volte detto, l’analisi dei limiti e delle risorse della conoscenza umana, con lo scopo di conferire all’arte della memoria una fondazione filosofica, epistemologica e, al tempo stesso, ‘fisiologica’. Certamente la teoria della conoscenza di Bruno trova giustificazione solo entro una visione del cosmo e del suo rapporto con la divinità che possiede tali e inevitabili implicazioni di carattere filosofico: attingendo ai lessici dell’aristotelismo, del platonismo cinquecentesco e della teologia – senza sposare in maniera acritica nessuna di queste visioni – egli dà vita ad un nuovo quadro interpretativo che rovescia i tradizionali assi della filosofia occidentale, ponendo la natura immediatamente di fronte a Dio, come suo riflesso infinitamente complesso ed esteso e facendo dell’uomo una parte finita e organica del contesto naturale. Uno degli aspetti più originali di questo innovativo progetto consiste perciò nel far coesistere gli elementi di scarto e di distanza tra i vari piani dell’essere, con quelli di continuità e comunicazione, salvando tuttavia una prospettiva teorica che esclude radicalmente ogni possibile corrispondenza tra infinito e finito: la metafora dell’ombra è efficace proprio nel rappresentare, con una sola immagine, questa strutturale asimmetria. Uno dei punti cardine intorno ai quali ruota tale visione è, come si è visto, il concetto di idea/forma che, prendendo le mosse da una serie di definizioni derivate dalle dottrine filosofiche tradizionali, si arricchisce di ulteriori riflessioni fino a consegnarci un oggetto filosofico decisamente nuovo, che descrive la dinamica attitudine del prodursi universale e la graduale esplicazione dell’essere attraverso tutti i complessi gradi e gli ordini che caratterizzano il piano naturale infinito. Questo incessante movimento di estrinsecazione e diffusione dell’unità dell’essere in direzione della massima molteplicità è l’esito dell’infinito inseguirsi di forma e materia, della tensione inarrestabile che vede l’una infondere nell’altra tutte le possibili forme e configurazioni implicite nella sua ragione
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d’essere, mentre la materia «non è mai sazia» di accoglierle, partorirle tutte e dissolverle per determinarne altre ancora36. Il punto dell’inarrivabile incontro tra tutti i possibili atti formali e l’inesauribile potenza del sostrato materiale si sposta così all’estremo limite di una dimensione spazio-temporale infinita, modello perfettamente imperfetto della loro assoluta e quieta coincidentia nell’archetipo divino. Quando una forma prende corpo (e poi si produce anche una sua proiezione e interpretazione nella mente umana) accade così che l’essere in parte preservi e, contemporaneamente, disperda la sua integrità: un contenuto qualitativo e caratterizzante va a determinare la forma esteriore delle cose – o, nella dimensione logica, il loro significato – e qualcosa si trasmette, si manifesta e si conserva nella nuova veste assunta, costituendo l’ente individuale, che altro non è che la momentanea e instabile unità di forma e materia. Secondo Bruno, per descrivere il rapporto tra l’essere e l’ente le filosofie aristotelica e platonica si rifacevano principalmente a tre definizioni di forma: «la prima di queste è la forma da cui avviene che la cosa stessa sia formata, in quanto produce l’atto» e quindi, in qualità di causa efficiente o agente, è definita idea «in senso improprio»; «la seconda è la forma da cui una certa realtà è formata come da una sua parte» e, in tal caso, «non è pertanto corretto definirla modello»; infine vi è «la forma che determina un particolare ente e lo configura come se fosse una qualità inerente ad esso», ma «neppure questa può avere natura di idea, dal momento che non può essere separata da ciò di cui è forma»37. Questi modi di definire la forma, pur nella loro specifica e apparente validità teorica, non bastano né da soli né tutti insieme a circoscrivere efficacemente la nozione che Bruno ha in mente e che è funzionale alla sua proposta filosofica: a lui serve una forma «secondo la quale viene formata una certa realtà e che una certa realtà imita»38, che garantisce cioè proprio quella sfuggente prossimità tra principio formale ed Ibid., p. 93; cfr. Id., De la causa, pp. 264-75. Id., De umbris, p. 106: «Triplicem considera formam. Quarum prima est, a qua rem ipsam formari contingit, utpote quae producit actum; et istam non proprie ideam vel rerum producendarum formam appellamus. Secunda, qua res ipsa formatur tanquam parte; et huic non convenit similitudinem dici eius, cuius est pars. Tertia, quae aliquid terminat et figurat tanquam inhaerens qualitas; et eiusmodi non potest recipere ideae rationem, cum ab eo, cuius est forma, non separetur». 38 Ibid.: «Quarta, ad quam aliquid formatur, et quam aliquid imitatur; et haec usu loquentium consuevit nomen ideae retinere». 36 37
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espressione materiale che è il motore del divenire naturale, ponendoli uno di fronte all’altro, quasi in un’immagine riflessa, dove si uguagliano e immediatamente si danno, nella loro reciprocità fondazionale, distinti uno dall’altra. ‘Imitare’ è quindi il termine intorno al quale vengono fatte convergere tutte le definizioni di forma e in esso è racchiuso il valore della filosofia e della gnoseologia bruniana: tra l’essenza e l’ente vi è una referenzialità ‘forte’, ‘visuale’, ‘analogica’, che rimanda dall’una all’altro (e, in maniera depotenziata, in direzione opposta), in modo che la configurazione assunta dall’ente sia impronta, immagine, traccia e segno della prima e la forma sia il sigillo, il marchio, l’incisione che si trasmette al secondo: Certe forme imitano quasi per via naturale, come l’immagine nello specchio riflette la forma di ciò che gli è posto davanti. Certe invece in conseguenza di una imposizione, come la figura impressa imita il sigillo. Ancora, certe forme imitano, se così vogliamo dire, per la loro stessa natura, come nel caso del dipinto, che secondo il modo di intendere del pittore, rappresenta qualcuno. Altre si situano a metà tra l’imitazione accidentale e l’imitazione per propria natura, come nel caso di un dipinto fatto per rappresentare qualche realtà che può rappresentare. Accade invece che altre imitino quasi per caso, come quando in modo del tutto fortuito un’immagine dipinta imita involontariamente un particolare individuo. Altre non imitano né per propria natura, né accidentalmente, in quanto non è minimamente possibile ricondurle all’imitazione di qualche realtà – se pure è possibile che a tali immagini spetti il titolo di forme39.
L’analisi dei modi dell’imitazione si mostra sfuggente e poco accurata, grossolana, si potrebbe dire pragmatica: del resto è della forma (cioè dell’aspetto) delle cose che si sta parlando e a Bruno, in queste pagine, preme più ragionare su come risalire da questa alle essenze (e, conseguentemente, costruire le visioni mnemoniche più efficaci), Ibid., pp. 106-8: «Quaedam formae imitantur ut ex natura, veluti imago in speculo obiectae rei formam. Quaedam ex institutione, veluti figura impressa sigillum. Rursum quaedam imitantur ut per se, quemadmodum pictura quae ex intentione pictoris aliquem presentat. Quaedam medio modo inter per accidens et per se, ut si fiat pictura ad presentandum quem potest presentare. Quaedam vero ut forte obtigit, quemadmodum cum effigiem depictam accidit praeter intentionem quempiam imitari. Quaedam nec per se neque per accidens, quae ad nullum prorsus referuntur nec referri possunt imitandum, si possibile est tales esse formas». 39
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piuttosto che definire per via teorica come la forma si realizzi negli enti. Non c’è quindi la ricerca di una ‘legge’ – che non esiste, poiché l’unico parametro creativo della natura è la varietà infinita dei suoi atti – che, dall’alto, sancisca in che modo l’essenza dà forma alle cose, ma il tentativo di comprendere come le tante sfumature secondo cui è possibile cogliere il rapporto tra mondo materiale e il modello formale/universale siano frutto di un percorso di affinamento dei processi conoscitivi della mente stessa, dato che «nelle prime [modalità di imitazione] c’è una ragione ideale maggiore, nelle seconde minore, nelle terze minima, nelle quarte nessuna»: la forma per eccellenza è quella che si proietta e si esplica con la maggiore ‘specularità’ nel reale; diversamente – mano a mano che aumenta la dispersione nella frammentarietà – la distanza tra la sostanza e la sua conformazione naturale diviene sempre più articolata e meno perspicua risulta la relazione tra le due, fino ad arrivare a certi stati dell’essere in cui è molto difficile poter risalire alla fonte e al loro fondamento. La massima prossimità tra la forma e la materia si dà infatti nella maggiore estensione e nella più ampia complessità, dove tutto ciò che esiste appare più stabilmente ed esaustivamente affine a tutto quello che può esserci, mentre nell’individuo e nel dettaglio l’atto e la possibilità non collimano, ma si inseguono convergendo nella frenetica danza della vicissitudine, tanto che, dal punto di vista del singolo, risulta difficile afferrare la sfuggente coreografia universale. Così l’archetipo ideale e sostanziale che prevede e attua tutte le possibili configurazioni della realtà trova la sua più fedele espressione nell’intera natura, considerata in tutta la sua infinita attualità e colta nel suo perenne mutare; al contrario l’ente che più dista da questo optimum formale – e la cui essenza giace nell’intricata trama di tutte le molteplici occorrenze del possibile – è il singolo individuo coi suoi aspetti accidentali, che sono tanto più lontani dalla irrequieta perfezione dell’essere sostanziale, quanto meno contribuiscono a manifestare la gamma delle possibilità intrinseche ad esso. Infine vi sono gli enti logici, cioè i prodotti dell’anima intellettuale, la cui forma è così poco coerente con quella degli oggetti da cui sono scaturiti, che il loro rapporto con la realtà è poco più che contingente. Tra questi due estremi – l’infinito massimo e il pensiero umano – si dispiega dunque tutto lo spazio della natura, la cui esperienza proietta un cono d’ombra di intensità variabile secondo la diversa ampiezza e multiforme complessità dalla quale la si contempla: esso può e deve essere decifrato a partire dalle relazioni che l’uomo è in grado di stabilire tra i dati raccolti in esso, andando a costituire una tessitura che sia continuamente in grado di affinarsi; ciò è possibile solo attraverso
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un’idea pratico-tecnica del conoscere e un metodo che sia ‘naturalmente’ asservito alla comprensione della verità. In conclusione si può osservare come la dottrina dell’ombra esprima nel De umbris idearum tutte le valenze semantiche implicite in tale metafora: essa circoscrive, innanzitutto, il campo dell’esperienza umana che avviene esclusivamente «all’ombra» della prima verità. L’ombra definisce infatti la posizione dell’universo logico entro la scala dell’essere, come terzo e ultimo grado di un sistema bipolare, che vede la natura universale contrapporsi tutta e in maniera speculare alla divinità (colmando nell’infinita varietà e vicissitudine degli enti quella pienezza di possibilità ed attualità che in Dio si dà coincidente e omogenea). Di conseguenza, il piano della comprensione umana viene determinato come spazio logico ricavato a partire e all’interno del contesto naturale, di fatto subordinato ad esso: il ‘corpo’ della natura si pone tutto di fronte alla luce della divinità e la conoscenza non può che esperirne, appunto, l’ombra da esso proiettata, cioè la manifesta ed articolata complessità dei fenomeni. In secondo luogo, apparentemente in opposizione al primo significato, l’ombra serve ad esprimere il potenziale di continuità e comunicazione che emerge dalla frattura e dalla distanza che separa l’uomo dal divino: l’ombra infatti non è assenza totale della luce, ma è una condizione che è prodotta dalla luce e per l’interposto effetto del corpo opaco, dunque è una percezione ‘in negativo’ dell’una e dell’altro. Secondo questa accezione l’ombra, pur precludendo la visione della luce, comunica qualcosa di essa: se attentamente esaminata può svelare importanti informazioni sull’intensità e natura della fonte luminosa, così come permettere di affinare la comprensione del corpo stesso, mostrandone i contorni e la densità. Un elemento decisivo per afferrare questo aspetto (centrale anche per la gnoseologia bruniana) è la nozione di imitazione che, nel lessico della «nolana filosofia», attinge parte del suo valore espressivo da concetti come quello di immagine, riflesso, impronta e, su un piano più strettamente filosofico, forma. In modo particolare la nozione di forma – privata di quasi tutte le valenze ontologiche ereditate dalla tradizione aristotelica – si dimostra decisiva nel definire il rapporto tra essenza ed ente, dimensione metafisica e mondo naturale, ma anche tra fenomeni reali e universo logico. Nel configurare ogni ente il principio formale/vitale agisce come qualcosa che si esprime e si manifesta dall’interno all’esterno, dunque le qualità di un ente e la conformazione che lo riveste materialmente stanno tra loro in un rapporto molto stretto da un punto di vista sia ontologico che gnoseologico. La forma interiore e l’aspetto esteriore di un ente sono uno l’immagine dell’altra, così come l’idea può tendere ad essere
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un’impronta fedele del «vestigio» e della «traccia» esperita nelle cose naturali, garantendo una certa continuità e ‘analogia’ tra i diversi piani dell’essere. Si accede così a un terzo modo di definire e intendere l’ombra, connesso con il tema della conoscibilità del mondo e la validità dell’esperienza umana: l’uomo, come tutti gli enti della natura, rientra nella dialettica ente/essenza e, in particolare, la sua facoltà intellettiva è ‘formatrice’, perché tale è la caratteristica più peculiare della sua identità; la catena dell’essere che dalla divinità si disperde nel contesto naturale e nella frammentazione fenomenica si comunica dunque fino al piano della conoscenza e il valore di verità delle forme intellettuali è fondato nella medesima sostanza che accomuna tutta la natura. L’ombra diventa così lo spazio potenziale dove il sapere può investigare, scegliere costruttivamente il vero e rifiutare il falso, operando la rigenerazione di quanto è disperso e dissipato, in favore dell’unità e della complessità: artefice di ciò è l’intelletto anch’esso animato dalla medesima forza vitale che anima tutte le cose, ovvero è parte di una realtà la cui caratteristica strutturale per eccellenza è individuabile nella dinamica atto/potenza, forma/materia. Da questo specifico nucleo teorico, che è la chiave di volta di tutta la filosofia di Bruno e sul quale la speculazione bruniana ritorna continuamente e problematicamente fino alle soluzioni atomistiche dei Poemi francofortesi, scaturisce la visione di un universo infinito: in esso converge tutta la complessa costellazione di concetti che giustificano la necessità di un’esperienza umana condotta con metodo e per mezzo della fisiologica visualità ‘imitativa’ che è propria degli oggetti e delle tecniche dell’arte della memoria.
II. Il potere della mente
Pensare per immagini La dottrina delle ombre delle idee definisce la distanza e i rapporti che intercorrono tra la dimensione divina, l’universo naturale e la dimensione gnoseologica, facendo di quest’ultima una funzione ed un effetto dell’esperienza della natura. L’intelligenza umana è il cuore di un’attività conoscitiva e creativa intimamente radicata nella sostanza universale di cui anche l’uomo è, appunto, espressione: negli atti del pensiero l’intelletto manifesta infatti le medesime dinamiche e potenzialità produttive che animano tutta la vicissitudine naturale. I rapporti tra i diversi piani dell’essere (Dio, natura e mente umana), pur nel loro scarto essenziale, sono altresì scanditi da una sorta di proporzionata continuità caratterizzata dall’analogia tra la forza attuante dell’azione formatrice universale (le «idee»), la sua molteplice espressione fisica (le «traccie delle idee») e la conseguente elaborazione concettuale operata dalla mente (le «ombre delle idee»). Attraverso ognuno di questi tre distinti livelli di espressione, l’ente unico e universale trasmette e al contempo disperde un potenziale qualitativo la cui traccia finale è talmente dissipata e frammentata da costituire, da sola, un appiglio non sufficiente a dare conto di tutta la pienezza della matrice divina che l’ha generata; al contrario, mano a mano che i dati della conoscenza, i concetti e le idee convergono in un quadro sempre più unitario, tanto più si coagulano i frammenti di verità dispersi nell’esperienza, affinando non solo la comprensione delle cose, ma aprendo la via alla percezione dell’unità del tutto e alla complessa visione della natura infinita. Rispetto a questo quadro teorico la nozione che risulta più significativa nel definire il legame tra la conoscenza e il mondo (e, in controluI temi trattati in questo capitolo sono già stati in parte affrontati nel saggio Intelletto, immaginazione e identità: la forza della ‘contractio’ nel Sigillus sigillorum di Giordano Bruno, «Lo sguardo – rivista di filosofia», 10, 2012, pp. 147-66, al quale si rimanda per un ulteriore approfondimento di essi.
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ce, il suo fondamento sostanziale) e che giustifica anche il valore di verità degli atti conoscitivi è quella di imitazione (e di immagine, termine che, secondo la tradizione scolastica deriva direttamente dal concetto di imitatio)1. Tra tutte le possibili modalità di imitazione si è visto che Bruno considera come la più efficace ed affidabile quella dello ‘specchio’, che pone in una diretta relazione di rappresentazione l’oggetto e la sua riproduzione (sensibile, logica, ecc.). Per questo motivo, all’inizio del De imaginum compositione, riprendendo un motivo squisitamente neoplatonico in un capitolo che si intitola per l’appunto Luce, raggio, specchio2, il mondo della conoscenza è definito come «uno specchio vivente nel quale è l’immagine delle cose naturali e l’ombra delle divine»3. Dal punto di vista gnoseologico e metodologico ciò comporta che «uno specchio simile concepisce certo l’idea come causa delle cose» secondo un atteggiamento per cui «l’immagine della cosa da fare», concepita nella mente di colui che si accinge a compierla, «assume il carattere di causa efficiente»; allo stesso modo spinge a realizzare che la forma coincide «con la cosa di per se stessa», per il semplice fatto che «ne costituisce la configurazione esteriore», poiché «la sostanza della cosa si riconduce […] totalmente a questa»4; così è possibile, grazie alla concettualizzazione, desumere la struttura formale delle cose dalla loro mera sussistenza fisica5. Di fatto ogni proiezioCfr. Sancti Thomae Aquinatis Opera omnia iussu impensaque Leonis XIII P. M. edita, IV-V, Pars prima Summae theologiae, Roma, Ex Typographia Polyglotta S. C. de Propaganda Fide, 1888-89, q. 35., art. 1, ob. 3: «imago ab imitando dicitur»; Id., Scriptum super libros Sententiarum magistri Petri Lombardi episcopi Parisiensis, ed. P. Mandonnet, Parigi, P. Lethielleux, 1929, lib. 1, d. 28, q. 2, a. 1 co.: «ratio imaginis consistit in imitatione, unde et nomen sumitur». Su questi temi, cfr. M.P. Ellero, Lo specchio della fantasia. Retorica, magia e scrittura in Giordano Bruno, Lucca, 2005; M. Cambi, Imitatio, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, I, ad v. 2 Bruno, De imaginum compositione, pp. 492 sgg.: «Caput primum. De luce, radio et speculo». 3 Ibid., p. 497: «Actum praesentis considerationis proponimus in universo iuxta tertiam significationem, quod est veluti speculum quoddam vivens, in quo est imago rerum naturalium et umbra divinarum». 4 Nel De la causa, principio et uno, in particolare nel secondo dialogo, Bruno non ammette il valore sostanziale delle forme o delle sostanze individuali: cfr. Id., De la causa, pp. 220-1; M. Matteoli, Forma, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, I, ad v. 5 Cfr. Bruno, De imaginum compositione, p. 497: «Hoc sane speculum concipit 1
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ne interiore della realtà si comporta e si manifesta intimamente come «l’effetto della cosa stessa che emana in qualche modo dalla superficie e va ad imprimere la propria forma nella potenza conoscitiva con la luce prima dei sensi, e successivamente della ragione»6. Il motivo dell’immagine, rispetto a quello dell’ombra che gli è affine e alla quale trasmette gran parte del suo valore mimetico, possiede all’interno della «nolana filosofia» una portata teorica assai più ampia, finendo per caratterizzare anzitutto il rapporto tra il piano metafisico e l’universo naturale, inteso nella sua estensione massima e infinita. Nel terzo dialogo del De la causa, principio et uno, ad esempio, si legge che «lo universo […] è il grande simulacro, la grande imagine e l’unigenita natura»7; esso è, infatti, «tutto quel che può essere per le medesime specie e membri principali e continenza di tutta la materia», tuttavia lo è secondo una modalità esclusivamente estensiva e non intensiva. Bruno sottolinea infatti che la natura è solamente «un’ombra del primo atto e prima potenza», poiché in essa «la potenza e l’atto non è assolutamente la medesima cosa, perché nessuna parte sua è tutto quello che può essere», ovvero «è tutto quel che può essere, secondo un modo esplicato, disperso, distinto»8. In questo senso il rapporto di immagine che sussiste tra l’universo e Dio si basa su uno scarto ontologico del primo rispetto al secondo (ancor più efficacemente sintetizzato dal ricorso in tale contesto del termine ‘ombra’), rafforzato da un ulteriore decadimento del potenziale attuativo, quando si guarda alla realtà delle singole cose; ciò nonostante il riferimento tra causa prima, effetto universale ed effetti particolari è comunque tracciato entro l’estensione infinita e per l’incessante vitalità produttiva dell’ente universale, che fanno sì che questo sia comunque ‘immagine’ del divino: esso, infatti, «è un grandissimo ritratto, mirabile imagine, figura eccelsa, vestigio altissimo, infinito ripresentante di ripresentato infinito, e spettacolo conveniente all’eccellenza et eminenza di chi non può esser capito,
ideam tanquam causam rerum, sicut imago rei faciendae in mente efficientis imbuit efficientis rationem. Concipit formam tanquam rem ipsam, nempe speciem: tota enim rei substantia ad hanc refertur, licet physice non sine materia consistat». 6 Ibid., p. 497: «Concipit imaginem tanquam rei ipsius effectum a rei quodammodo superficie emanantem et potentiam cognoscitivam informantem primum quidem sensitiva, subinde vero rationali luce». 7 Id., De la causa, p. 248. 8 Ibid.
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compreso, appreso»9. Tali parole riecheggiano del resto anche nelle pagine già esaminate del De imaginum compositione: si arriva infatti alle conclusioni sopra esposte sul rapporto ‘esemplaristico’ sotteso alla dimensione conoscitiva rispetto a quella naturale solamente dopo aver riconosciuto l’asse teorico che contrappone e al tempo stesso lega i due principali termini dell’analisi filosofica bruniana, attraverso una rimodulazione pressoché medesima dell’argomentazione del De la causa: «sul piano soprannaturale», pertanto, occorre considerare «l’unico ente infinito, intensivamente tutto in ogni luogo e totalmente presente nell’immenso»10; rispetto a quanto è prodotto naturalmente, invece, «poniamoci ugualmente davanti agli occhi l’unico universo estensivamente infinito, che si fa manifesto come realtà corporea in parti sempre e sempre diverse, in luoghi sempre e sempre diversi»11. A questo punto, di fronte alla sostanziale ‘specularità’ di questi due ‘oggetti’ – la sostanza universale e la natura infinita –, è facile desumere le reciproche relazioni di dipendenza e derivazione, comprendendo infine come «l’ordine del mondo razionale» sia «a similitudine del naturale di cui è ombra; e quello a sua volta è immagine del divino, di cui è traccia»12. Volendo inseguire ulteriormente l’incisività della componente visiva che caratterizza questo tipo di considerazioni, si può cogliere anche l’importanza di un altro tema presente nell’opera bruniana – già in parte colto nel capitolo precedente – e connesso a quelli dell’ombra e dell’immagine; si tratta del motivo che associa la luce e la luminosità allo sfondo sostanziale, come efficaci metafore per sottolineare il passaggio di un pregnante valore di verità tra i diversi piani ontologici, ovvero mezzo per allestire una diversa strumentazione teorica che, in controtendenza rispetto a una fitta costellazione simbolica che rimarca lo scarto ontologico tra Dio, natura e conoscenza, descrive invece una dinamica effusiva che si propaga fino all’intelligibilità delle cose e che scorre parallela al loro stesso attuarsi nella realtà. La luce viene così identificata con l’azione produttrice del principio efficiente universale, caratterizzando in maniera originale la ripresa di un tema centrale del platonismo e del neoplatonismo, utilizzato tuttavia per la descrizione del contesto naturale universale. Mentre ancora nel De umbris idearum l’opposizione luce/oscurità definisce l’asse di contrapposizione tra Id., De l’infinito, universo e mondi, in Id., Dialoghi filosofici italiani, pp. 317-8. Id., De imaginum compositione, p. 495. 11 Ibid. 12 Ibid., pp. 495-7. 9
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il piano metafisico e quello fisico/materiale e l’ombra designa lo spazio impermanente di confine tra i due, indicando la conoscenza stessa con tutte le sue potenzialità negative e positive, la medesima polarità ritorna nelle due serie di «principi infigurabili» che aprono la Lampas triginta statuarum, ma questa volta per denotare i termini contrari dell’unica sostanza dell’ente universale, ovvero l’aspetto attivo e attuativo propri della forma e quello passivo, ricettivo e potenziale della materialità13. All’interno di questo particolare quadro, l’immagine della luce viene poi utilizzata per denominare, nello specifico, il ruolo dello «spirito dell’universo» o «anima del mondo», la quale «opera tutto in tutto», costituendo il principio formatore della realtà naturale e universale14; essa, come la si definisce nel De la causa, principio et uno, è sia «il principio formale constitutivo de l’universo, e di ciò che in quello si contiene»15, ma anche e soprattutto l’efficiente «che empie il tutto, illumina l’universo et indrizza la natura a produre le sue specie»16 e «forma la materia, e la figura da dentro»17. In modo assai efficace la luce è dunque l’immagine scelta da Bruno per caratterizzare la componente attiva ed effusiva propria della sostanza dell’ente infinito e, in quanto tale, essa è «dentro» la natura, cioè a livello dell’essenzialità formale delle cose, ma anche «fuori», cioè si manifesta ‘visibilmente’ nella loro configurazione, essendo quest’ultima il risultato effettivo e materiale dell’atto sostanziale18. È quindi sulla base di questa accezione che è possibile ricondurre anche la condizione gnoseologica all’idea della luminosità – rafforzando ulteriormente l’importanza della vista nel suo senso più ampio, cioè esteriore e interiore –, facendo appello, sia nelle pagine iniziali del Sigillus sigillorum19 sia in quelle poco Cfr. Id., Lampas triginta statuarum, pp. 942-1009, 1008-65. Cfr. ibid., pp. 1044-61. 15 Id., De la causa, p. 220. 16 Ibid., p. 210. 17 Ibid., p. 211. 18 Nell’ultima sezione della Lampas triginta statuarum, dedicata all’applicazione delle trenta statue, a p. 1315, la luce è definita «sostanza sensibile, in quanto è luce universale ed elemento essenziale del fuoco, che tutto illumina, colora, forma, riscalda e via dicendo, dalla quale traggono luce e calore i corpi primi. La luce è infatti una sostanza che per natura precede il sole e gli altri astri, al modo in cui lo spirito universale per natura precede tutti gli esseri animati. Prima viene la luce, quindi viene il sole»; cfr. S. Carannante, Luce, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, II, ad v. 19 Cfr. Bruno, Sigillus, pp. 186-99. 13 14
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fa richiamate del De imaginum compositione, a questa corrispondenza universale e onnipervasiva della forza produttiva dell’anima mundi, la quale si manifesta e agisce anche nell’uomo sotto forma della sua stessa creatività intellettuale e, per questo motivo, tanto più forte ed efficace se consapevolmente e attivamente vissuta: La totalità di questa luce è presente, chiara e manifesta alla nostra intelligenza più di quanto possa essere manifesta agli occhi esterni la luce del sole; questa infatti sorge e tramonta, né è sempre presente ogni volta che ad essa volgiamo lo sguardo, mentre quella non è meno presente a noi di quanto noi lo siamo a noi stessi, ed è a tal punto presente alla nostra mente da essere essa stessa mente20.
Il passaggio dalla natura alla sua esperienza e quindi alla conoscenza avviene pertanto anche ‘alla luce’ di una ‘continuità’ che è garantita sia dal fatto che la forma fisica delle cose è conseguenza diretta della forza naturale che le produce, sia e soprattutto perché il principio intellettuale che gestisce e guida tutto il pensiero è appunto della medesima natura di quello che fa le cose ed è, in ultimo, riconducibile all’anima mundi21. È questo dunque il motivo per cui i temi della proiezione, dell’imitazione e della riproduzione caratterizzano – anche oltre la metafora dell’ombra che abbiamo visto essere fondamentale per definire la gnoseologia bruniana – il conoscere: così come gli enti di natura, poiché ne sono espressione, manifestano nella loro configurazione fisica l’impronta formale, allo stesso modo l’esperienza di essi, cioè l’introiezione per mezzo dei sensi e la loro successiva e conseguente elaborazione operata dall’intelletto, avviene secondo la medesima cifra ‘generativa’, andando a determinare un contenuto concettuale finale che, sebbene non abbia la stessa natura e conformazione peculiare dell’ente esperito e percepito sensibilmente, ne ricostituisce e riproduce in qualche modo gli elementi strutturali ed essenziali, assicurando Id., De imaginum compositione, pp. 486-7: «Haec tota lux magis est praesens, clara et exposita nostrae intelligentiae quam externis lux solis exposita possit esse oculis: haec enim oritur et occidit, neque quoties ad eam convertimur adest; altera vero non minus nobis praesens est quam ipsi nobis: tam praesens est nostrae menti, ut et ipsa sit mens». 21 Bruno introduce esplicitamente per la prima volta questa nozione nel De la causa, principio et uno, p. 210, definendola «forma universale» del mondo; cfr. S. Carannante, Anima del mondo, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, I, ad v. 20
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una proporzione e analogia tra la ‘forma’ dell’ente naturale e il concetto ricavato da essa, la quale è sufficiente a garantirne la veridicità. La forza di tale valore di verità, tuttavia, può essere individuata anche nella struttura stessa del processo conoscitivo e nella conformazione delle facoltà cognitive ad esso dedicate: se, ad un grado più generale, la continuità ‘mediata’ tra il piano naturale e l’universo logico riposa infatti sulla omogeneità della sostanza che caratterizza entrambi (facendo della mente un luogo, per così dire, circoscritto, ma non esterno alla natura), da un punto di vista più specifico il passaggio dal dato sensibile al concetto viene assicurato da una progressione cognitiva che è fortemente centrata sul ruolo della potenza visuale propria della phantasia, che è la facoltà centrale per l’esperienza del mondo, l’organo primario che fa da sfondo unico per tutti gli atti del pensiero ‘visivo’, finendo per essere il nucleo fisiologico/spirituale di una mediazione tra il corpo e lo spazio mentale, che va ben oltre la tradizionale funzione di collegamento cognitivo riconosciutagli dalla gnoseologia di matrice sia aristotelica che platonica. Il confronto con queste ultime, del resto, è al centro delle pagine che risultano essere le più intensamente critiche tra le parti teoriche degli scritti mnemotecnici e non è mai neutrale anche rispetto alle tesi portanti della cosmologia e della filosofia bruniane22; piuttosto, come si è più volte osservato, essa deve risultare perfettamente ‘organica’ all’intera impalcatura della «nova filosofia». Così, se in apertura della sezione mnemotecnica del Cantus Circaeus Bruno presenta il tradizionale «ordine delle facoltà e degli organi» e il conseguente «ordine delle operazioni o atti» come premessa metodologica per giustificare che «niente entra nella memoria, se non Tale atteggiamento critico, ma non pregiudiziale, nei confronti delle altre filosofie, è ben esplicitato in apertura del De umbris idearum, a p. 37, per bocca di Hermes: «Chi avrà tra le mani quest’opera sappia inoltre che la natura del nostro ingegno non è tale da vincolarci ad un genere determinato di filosofia, o da far sì che disprezziamo in linea di principio ogni altra via di filosofare. Tutti coloro che si sono valsi del proprio ingegno per contemplare le cose e che seguendo la via additata da arte e metodo hanno conseguito qualche risultato, meritano infatti di essere da noi magnificati. Non aboliamo i misteri dei pitagorici, non sminuiamo la fede dei platonici, né disprezziamo le argomentazioni dei peripatetici, purché riposino su un fondamento reale». Tuttavia, nel De la causa, principio et uno, a p. 244, Bruno sottolinea che «tra le specie della filosofia, quella è la meglior che più comoda et altamente effettua la perfezzion de l’intelletto umano, et è più corrispondente alla verità della natura, e quanto sia possibile [ne renda] coperatori di quella». 22
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attraverso l’atrio della facoltà cogitativa; nulla entra nella facoltà cogitativa, se non per l’atrio della fantasia; nulla entra nella fantasia, se non per l’atrio del senso comune»23, nel De imaginum compositione emerge in forma ancora più esplicita il ruolo dello spiritus phantasticus, che «ordina quelle figure che raccoglie, abbraccia e compone in modo tale che da esse ricava e per così dire astrae certi contenuti di pensiero, i quali poi introduce, insinua, semina e salda nel granaio della facoltà ritentiva»24. Lo spirito fantastico è il «senso dei sensi», «il senso più originario e il corpo primo dell’anima»: «è questo […] che si nasconde e opera dall’interno; nell’essere vivente esso tiene il posto più alto e occupa per così dire la cittadella: intorno ad esso la natura ha infatti costruito tutto l’edificio della testa»25. Le pagine nelle quali tale concezione viene più approfonditamente esaminata e ricondotta ad una visione centrale e unitaria dell’interiorità, fondata sull’innovativa antropologia bruniana, si trovano tuttavia nel Sigillus sigillorum. Fisiologia della conoscenza Il frontespizio del Sigillus sigillorum svela una delle componenti teoriche principali celate nel testo, il quale è stato «composto per conseguire tutte le disposizioni dell’animo e portarne a perfetto compimento le attitudini»26. Esso è quindi un’opera che riguarda l’animus nella sua completezza; il ‘sigillo dei sigilli’ esplora infatti il terreno stesso sul quale l’arte della memoria e la conoscenza si esercitano, ovvero la sfera dell’identità, dell’interiorità e delle facoltà che la caratterizzano, delle Bruno, Cantus Circaeus, p. 667: «nihil ingrediatur memoriam nisi per atrium cogitativae, nihil cogitativam nisi per atrium phantasiae, nihil phantasiam nisi per atrium sensus communis». 24 Id., De imaginum compositione, p. 543: «Eas iste, quas colligit, amplectitur et componit, species ita digerit, ut quasi ex eisdem excogitabilia quaedam educat vel abstrahat et in horreum retentivae facultatis – nisi et ipse retentiva sit facultas – introducat, immittat et inserat et confirmet». 25 Ibid., p. 541: «haec enim sensus est sensuum, quoniam phantasticus ipse spiritus sensorium est communissimum primumque animae corpus, et hoc quidem latet agitque intus, praecipuum animalis habet et velut arcem: circa enim universam ipsum capitis fabricam natura construxit». 26 Id., Sigillus, p. 186: «Sigillus sigillorum ad omnes animi dispositiones comparandas habitusque perficiendos adcommodatus». 23
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forze che, per l’appunto, animano l’individuo in rapporto alle sue parti più fisiche (il corpo e i cinque sensi), ma anche con quelle «disposizioni» e «attitudini» che riguardano gli atti conoscitivi della fantasia, della razionalità e dell’intelletto. Attraverso la descrizione dei gradi e dei passaggi di elaborazione del sapere, la dimensione conoscitiva viene ricondotta ad un’unità di fondo che, come estrema conseguenza teorica, rimanda a un altrettanto unitario principio universale che si manifesta all’infinito nella natura attraverso i suoi stessi atti produttivi. Cinque facoltà (senso, fantasia, immaginazione, ragione e intelletto)27 in ‘progressione’ e reciproca comunicazione accompagnano l’uomo dall’esperienza sensibile alla sua valutazione astratta e concettuale, non solo in virtù della stretta interdipendenza delle diverse competenze cognitive, ma soprattutto per la reale ed effettiva ‘identità’ di esse, in quanto aspetti diversi di una medesima funzione logico-mentale che rimanda, a sua volta, a un’unica attitudine creatrice. L’analisi di questo processo mette tuttavia a confronto realtà costitutivamente differenti, sebbene comunicanti tra loro: i cinque sensi vertono intorno a realtà fisiche, mentre i sensi interni hanno una natura meno sensibile e più spirituale ed esaminano ‘oggetti’ che non sono né del tutto fisici, né ancora ‘logici’; ugualmente la ragione (non più ‘analogica’ come la fantasia, ma ‘sintetica’) ha a che fare con dati astratti, anche se di genere meno universale di quelli elaborati dall’intelletto28. Il divario tra gli enti naturali e quelli logici viene perciò progressivamente colmato grazie al riversarsi dei dati forniti dai sensi nella fantasia, nella quale le molteplici impressioni sensibili ‘rivivono’ come phantasmata, proiezioni visive interiori: in ciò vi è già, quindi, un primo e importante cambiamento di ‘stato’; ma è di fronte a tali immagini che l’immaginazione/ cogitativa ricava le forme individuali e particolari dotate di senso (intentiones individuales), la ragione astrae i concetti (intentiones primae) e da questi l’intelletto ricava nozioni ancora più astratte (intentiones secundae)29. Il centro dell’esperienza conoscitiva consiste dunque nel fatto che, di fronte alle immagini fantastiche e in virtù della particolare Cfr. ibid., pp. 208-27: «De quintuplici et simplici progressionis gradu». Cfr. ibid., pp. 208-10: «ut a sensu, qui est circa corpora, ad phantasiam, quae circa corporum simulacra versatur, ab hac ad imaginationem, quae circa simulacrorum consistit intentiones, et inde ad intellectum, qui circa singularum intentionum naturas comunes meditatur». 29 Cfr. L. Spruit, Species intelligibilis. From Perspective to Knowledge, II, Renaissance Controversies, Later Scholasticism, and the Elimination of Intellegible Species in 27 28
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competenza che Bruno assegna loro, l’imaginatio ricava un significato dalle percezioni; ma non vi è solo questo: è anche e soprattutto grazie al fatto che i concetti possono assumere per mezzo di essa una forma sensibile, ovvero essere associati ai propri e corrispondenti segni fantastici, che avviene l’elaborazione del sapere. Questa specifica funzione, infatti, che presiede alla creazione ex novo di phantasmata a partire dalle intentiones, svolge un ruolo fondamentale per la conoscenza, poiché la trasformazione di un concetto in un’immagine e la loro conseguente associazione può servire sia a sottoporre ulteriormente quel dato intenzionale alla valutazione dell’intelletto – confrontandolo con altri concetti o con altre figurazioni formatesi a partire dai sensi –, sia per ‘archiviare’ quell’informazione nella memoria. Il memorizzare e il ricordare30, infatti, sono competenze individuate in un preciso ‘spazio’ fisico del cervello e come tali necessitano anch’esse di un medium sensibile. La struttura del conoscere e del memorizzare ha dunque il suo fulcro nella capacità di trasformare i dati sensibili, i contenuti astratti e, infine, anche i ricordi in immagini fantastiche: Non dimentichiamo poi che come tutti i sensi insieme ai propri organi, facoltà ed atti si riconducono naturalmente verso un centro per così dire, unico, e da qui vanno ad ornare il successivo atrio della fantasia con le forme che attraversando il triclinio della cogitativa accedono alla camera della memoria, così anche chi desidera ricordare tutto a suo piacere dovrà aprirsi la strada seguendo il medesimo ordine31.
Modern Philosophy, Leiden-New York-Cologne 1994, pp. 203-13; S. Bassi, Intentio, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, I, ad v. 30 La teoria della memoria, la distinzione tra memoria e reminiscentia, assieme alla descrizione dei processi memorativi vengono formulati da Aristotele nei Parva naturalia, in particolare nel De memoria et reminiscentia. Questo testo ebbe una larghissima diffusione fin dall’antichità, fu oggetto di importanti commenti in epoca tardo-antica – in particolare quello di Avicenna – e venne ampiamente ripreso anche nel Medioevo, non solo in senso ‘tecnico’ tra gli studiosi che si occupavano di mnemotecnica, ma fu oggetto di riflessioni teoriche di carattere più generale da parte di autori quali Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, i cui commentari sono fonti primarie per l’analisi bruniana. Cfr. Yates, L’arte della memoria, pp. 27-46; Tracce nella mente. Teorie della memoria da Platone ai moderni, a cura di M.M. Sassi, Pisa, 2007. 31 Bruno, Sigillus, p. 194: «Illud subinde non praetereundum, quod veluti naturaliter sensus eorumque organa, facultates et actus ad unum quasi centrum reducuntur, unde proximum phantasiae atrium formis memoriae cubile per cogitativae triclinium
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Bruno insiste sul valore mediatore della fantasia, in qualità di terreno comune di confronto e interscambio tra realtà esterna e realtà interiore, guardando a questa, in particolare, non solamente come a un mero schermo sul quale le impressioni sensibili vengono proiettate, ma concependola come una sorta di vitale nucleo fisico/sensibile verso il quale la ‘luce’ razionale ‘tende’ e dal quale questa riceve fondamentali sollecitazioni cognitive: Perché dove Plotino pose tra immaginazione e intelletto due specie di prima ragione […] non dovrei invece porre una medesima potenza ora passiva, operosa, inclinata verso il basso, ora invece protesa verso l’alto, svincolata dall’operare e attiva?32
Sebbene ogni singolo atto del processo conoscitivo possa essere analizzato in maniera distinta ed autonoma, il conoscere avviene, in realtà, in modo ‘sincrono’ e spontaneo, nell’immediatezza dell’atto cognitivo stesso: se Bruno si prende dunque la briga di ‘sezionare’ ciascuna competenza, sviscerandone ogni aspetto, è proprio perché desidera ribadire non solo la straordinaria convergenza di tutte queste operazioni verso un unico esito – quello che porta alla formazione del concetto –, ma anche la sostanziale e ultima unità del pensiero, ovvero che il processo che conduce alla formazione di una singola nozione ha come sfondo l’identità del singolo e, contemporaneamente, contribuisce a definire questa stessa identità: la conoscenza/memoria è l’atto costante di costruzione e formazione del sé, nel continuo e ineludibile confronto con la realtà. Tale impostazione teorica, pur partendo da una prospettiva differente, si riverbera anche nell’analisi dei sensi: il senso si definisce di solito in due modi: o come senso inferiore […] oppure come senso superiore, che sente perfettamente natura e qualità della cosa. […] Ma esiste anche un terzo modo di essere da cui il senso è significato. […] È infatti la mente che anima la mole dell’universo, quella che dal centro figura
subeuntibus colant, haud secus per bene placitum memorari cupienti opere praetium est ordine eodem atrectare viam». 32 Ibid, pp. 220-2: «Cur ubi Plotinus dixit inter imaginationem et intellectum geminam primae rationis speciem […] non dixerim eamdem potentiam hic et nunc passivam, laborantem, declinantem, tunc et ibi adsurgentem, non laborantem et activam?». Sulle corrispondenze e le distanze tra le teorie gnoseologiche di Ficino e di Bruno, cfr. N. Tirinnanzi, Umbra naturae. L’immaginazione da Ficino a Bruno, Roma 2000.
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il seme e lo fa germinare con tanto mirabili ordini nella sua figura esteriore, intesse con tecniche così sapienti, abbozza e dipinge in modo perfettissimo le piante e le vene delle pietre, cui non viene ancora a mancare spirito di vita, e da tutte le quali si effondono le virtù animali, come è abbastanza evidente a quanti non sono ciechi nella contemplazione delle cose naturali33.
In questo caso il ‘senso’, nella sua accezione più ampia, è espressione della vita stessa: tutti gli enti, infatti, possono essere ricondotti all’unica fonte dell’essere che si manifesta come potenza vitale, creatrice e produttiva; se dunque tutte le cose comunicano tra loro, si toccano e scambiano qualità e impressioni, cioè ‘sentono’, è proprio perché la vita stessa delle cose – tesa dal punto di vista formale alla massima eterogeneità dei possibili – è manifestazione della natura universale che si realizza come impulso alla varietà, al cambiamento e allo scambio, all’assunzione di una configurazione e alla sua trasformazione. Un analogo modello argomentativo, del resto, si ritrova anche nella descrizione della fantasia: essa è caratterizzata da due tipi di ‘stati’, apparentemente differenti; il primo, come si è visto, è più attivo, perché desume i significati dalle immagini, oppure dà loro una forma fantastica e, dunque, in entrambi i casi, agisce come una sorta di pensiero per immagini, comportando la sistematica associazione tra i contenuti e la loro rappresentazione visiva. L’altro modo è invece più passivo, poiché riguarda la fase in cui i phantasmata si formano per le impressioni ricevute dai sensi e, nel caso degli animali, produce anche reazioni istintive, immediate e spontanee. Il primo, che Bruno sceglie di denominare ‘immaginazione’ (vis imaginativa, termine che risulta tuttavia interscambiabile con vis cogitativa)34, è contiguo al pensiero razionale; il Ibid., pp. 212-5: «dupliciter dici sensus consuevit: inferior […] et superior, qui naturam qualitatem persenit. […] Est porro et tertius quidam modus, quo sensu significatur. […] Mens enim, quae universi molem exagitat, est quae a centro semen figurat, tam mirabilibus ordinibus in sua hipostasim educit, adeo aegregiis technicis intexit, exquisitissime planta lapidumque adhuc spiritu vitae non carentium venas caracterizat et impingit, a quibus omnibus animales virtutes effluere satis est compertum iis, qui in naturalium consideratione non caecutiunt». 34 Tommaso d’Aquino, riprendendo Avicenna, considera la cogitativa come una funzione ‘intermedia’ tra il sensibile e il razionale, poiché pur operando sulle immagini fantastiche e facendo parte dei sensi interni, produce i primi contenuti intenzionali ed individuali del processo razionale ‘raccogliendoli’ attraverso il confronto tra le specie sensibili: «Et ideo quae in aliis animalibus dicitur aestimativa naturalis, in homine 33
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secondo è rivolto verso la sensibilità (infatti è chiamato ‘senso comune’ o ‘interno’); entrambi tuttavia fanno riferimento a «una mente indivisibile» che «è intima alle cose» ed è «così feconda da generare in tutte le cose, secondo il loro modo di recepire, quell’intelletto cui sarai libero di attribuire il nome di senso, o di mente propria o istinto»35. Il ‘figurare’ le cose, sia attivamente che passivamente, può essere infatti considerato come una sottospecie del concepire, del configurare e del produrre che sono propri della ragione e dell’intelletto e, risalendo ancora di più la ‘scala’, della potenza formale espressa nell’aspetto di tutti gli enti. La presenza – sebbene secondo termini e proporzioni differenti – della vis phantastica in ogni essere vivente più complesso, così come già per il senso36, spinge quindi Bruno alla ben più ampia e importante conclusione che «una non debole connessione, unione e forse addirittura unità e identità fanno sì che dalla facoltà elementativa si produca la vegetativa, da questa la concupiscenza e il senso, da quelle la ragione e l’immaginazione, da cui in ultimo discendono volontà e intelletto»37: la quintuplice progressione bruniana delle facoltà conoscitive si chiude così con la paradossale constatazione che «se nel senso si dà partecipazione all’intelletto, il senso non sarà altro che intelletto» e lo stesso ardicitur cogitativa, quae per collationem quandam huiusmodi intentiones adinvenit. Unde etiam dicitur ratio particularis, cui medici assignant determinatum organum, scilicet mediam partem capitis, est enim collativa intentionum individualium, sicut ratio intellectiva intentionum universalium» (Sancti Thomae Aquinatis Pars prima Summae theologiae, q. 78, art. 4, co). Seguendo questa prospettiva, Tommaso identifica la cogitativa con l’intelletto passivo di Aristotele («Unde et Aristoteles dicit quod nequaquam sine phantasmate intelligit anima; et quod nihil intelligit sine intellectu passivo, quem vocat virtutem cogitativam, qui est corruptibilis», Id., Summa contra gentiles, lib. 2, cap. 80, n. 6), che, a loro volta, i commentatori arabi individuarono nella componente attiva e produttiva dell’immaginazione (cfr. F. Piro, Il retore interno. Immaginazione e passione all’alba dell’età moderna, Napoli 1999, pp. 89-99). 35 Bruno, Sigillus, pp. 215-7: «individuamque mentem magis intimam esse rebus […] eamque ita fecundam esse, ut in omnibus pro captu proprium pariat intellectum, quem libere sensum mentemve propriam vel instictu possis appellare». 36 Cfr. ibid., pp. 214-9. 37 Ibid., pp. 217-9: «Et certe a non imbecilli connexione, unione et forte unitate et identitate quadam provenit, quod a facultate elementativa vegetativa perficitur, ab hac concupiscentia et sensus, ab iis ratio et imaginatio, a quibus tandem voluntas atque intellectus; ex quibus demonstrative concludi potest, quod si in sensu sit participatione intellectus, sensus erit intellectus ipse».
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gomento può facilmente e a maggior ragione essere esteso anche all’immaginazione e agli altri singoli aspetti del conoscere38. La stessa dimensione intellettuale, del resto, è strettamente vincolata a tutte le potenze cognitive – sensibili e non –, così che, se anche l’intelletto risulta essere il centro e il cuore pulsante dell’identità umana, la conoscenza tutta è il frutto unico dell’esperienza del mondo; in questo senso anche la trattazione presente in un’opera che ha visto la luce dopo la morte di Bruno – la Summa terminorum metaphysicorum –, che raccoglie in forma sintetica la sua interpretazione dei termini principali della metafisica scolastica, non offre una prospettiva differente da quella del Sigillus: l’analisi del lemma cognizione (cognitio) dà infatti modo di ribadire anche in questo contesto l’unità dei processi cognitivi più astratti, così come la spiegazione del termine conceptus svela il fondamentale rapporto di dipendenza tra il fare esperienza e il trarne una comprensione intellettuale. La conoscenza è definita canonicamente come una «potenza apprensiva degli oggetti conoscibili»39 ed è un processo intermedio tra l’apprendere (apprehensio) e il comprendere (comprehensio), scandito essenzialmente da una prima fase di astrazione sensibile (cognitio sensitiva) che porta, come si è visto, dalla percezione e dalla visualizzazione interiore alla definizione di un contenuto intenzionale individuale per mezzo dell’immaginazione, e da una fase più astratta compiuta dalla ragione e dall’intelletto che produce i concetti di primo e secondo livello (intentio prima et secunda). Su questo tipo di nozioni si fonda la capacità stessa di comprendere e interpretare l’esperienza: per questo motivo l’atto di cognizione dell’intelletto è detto anche ‘intellezione’ (intellectio), poiché è una «lettura interna, come se fosse una sorta di vivido [vivum] specchio»40; il conoscere imIbid. Id., Summa terminorum metaphysicorum, in Eiusd. Opera Latine conscripta, I, 4, p. 31: «potentia apprehensiva obiectorum cognoscibilium». 40 Ibid., p. 32: «et dicitur intellectio, quasi interna lectio, atque si speculum vivum quoddam sit». La peculiare etimologia bruniana può essere ricondotta ad una tradizione che prende le mosse dal platonismo e dai suoi interpreti tardo antichi e che passa anche attraverso Cusano e Ficino, fonti primarie per le riflessioni gnoseologiche contenute nel De umbris idearum e nel Sigillus sigillorum. Una definizione assai vicina alla formula bruniana può tuttavia essere rinvenuta in Tommaso, nelle Quaestiones disputatae de veritate, q. 15, art. 1, co.: «Intellectus enim simplicem et absolutam cognitionem designare videtur; ex hoc enim aliquis intelligere dicitur quod intus in ipsa rei essentia veritatem quodammodo legit». Secondo un registro teorico affine a quel38 39
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plica infatti la capacità di abbracciare e contemplare interiormente anche se stessi, oltre al proprio sapere, vedendo attraverso l’intelletto e, al contempo, guardando a ciò che in esso è presente e conosciuto41. La fortissima impronta visiva anche della conoscenza intellettuale è confermata da quello che Bruno considera l’ultimo e più alto grado di cognizione – proprio della ‘mente superiore’ – che consiste nel cogliere «per semplice intuizione» (simplici intuitu) e «senza alcun processo argomentativo precedente o concomitante» il senso delle cose, come se questo fosse riflesso in uno specchio, o fosse la piena visione di una luce, da abbracciare, con un unico sguardo, da tutte le direzioni42. Nella stessa opera il lemma conceptus viene definito (in alternativa e rafforzamento della nozione di intenzione) come il contenuto mentale di natura astratta e intellettuale che deriva dal dato esperienziale: «concepire è la stessa cosa dell’intendere»43; «il concepire in senso assoluto può dirsi analogo all’intendere»44. Vi è tuttavia anche una maniera ‘relativa’ di indicare il concetto, secondo cui esso «è un termine ulteriorlo bruniano, Cusano nel De coniecturis, volendo descrivere la potenzialità cognitiva della mente, propone invece l’espressione visio intellectualis: «Varietas autem modi, ex entium diversitate exsurgens, ita concipiatur, quasi unitas absoluta modus quidam absolutae necessitatis exsistat, qui in alteritate rerum varie recipiatur, ut omne ens seu unitas omnis sit modus quidam necessitatis. Uti visio sensibilis est modus quidam necessitatis visionis illius, quae est absoluta necessitas, ita et visio rationalis est modus quidam, et visio intellectualis est modus quidam» (N. Cusano, De coniecturis, in Eiusd. Opera omnia, III, Hamburg 1972, p. 72). Una breve, ma efficace sintesi storica di tali questioni si trova nel terzo capitolo – intitolato Il concetto di intuizione nella storia del pensiero: conoscenza e visione – di P. Pozzi, Visione e parola. Un’interpretazione del concetto spinoziano di ‘scientia intuitiva’. Tra finito e infinito, Milano 2012, pp. 65-91. 41 Bruno, Summa terminorum metaphysicorum, p. 32: «tum videns, tum in se ipso habens visibilia, quibus obiicitur vel quae illi obiiciuntur». 42 Cfr. ibid.: «Sequitur mens superior intellectu et omni cognitione, quae simplici intuitu absque ullo discursu praecedente vel concomitante vel numero vel distractione omnia comprehendit et proportionatur speculo tum vivo tum pleno, quod idem est lux, speculum et omnes figurae, quas sine distractione videat et sine emporali seu vicissitudinali successione, sicut si caput totus esset oculus, et undique visus uno actu videret superiora, inferiora, anteriora et posteriora, et, cum sit individuum, interiora et exteriora». 43 Ibid., p. 113: «Concipere etiam eorundem est, quorum est et intendere». 44 Ibid., p. 50: «conceptio absolute tot modis sumitur quot et intentio».
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mente distinto dall’intenzione»45: mentre infatti l’intenzione è «l’atto della potenza conoscitiva o appetitiva rivolto verso l’oggetto [conoscibile]»46, il concetto è definito come «quell’atto di in-formazione o ricezione dell’oggetto in potenza»47. Mentre dunque l’intentio è ‘assertiva’ e ‘referenziale’, la conceptio indica l’apertura della potenza cognitiva intellettuale che si lascia plasmare e saturare dal dato informativo: l’intenzione (sia prima che secunda) va a ‘cogliere’ il significato nel dato, il concetto invece lo ‘accoglie’ per estrapolarne il senso; l’intenzione ‘mira’ ad esso, lo afferra e lo definisce, perciò è «dispositio, apparatio, appulsus»48; il concetto, che appunto è un riempirsi di senso, si configura piuttosto come «habituatio, adimpletio, impraegnatio»49. In questa lettura emerge quindi un’idea ancora più articolata del processo conoscitivo; esso è infatti l’aperta e progressiva formazione del concetto, attraverso il possesso e l’organizzazione delle intenzioni e, cosa più importante, tramite il passaggio dal vaglio sensibile dell’esperienza: «che cosa infatti possiamo concepire, se non ciò che apprendiamo e sulla base di ciò a cui perveniamo facendolo proprio?» si chiede Bruno ragionando intorno all’impossibile conceptio di Dio50. L’elaborazione di un concetto è subordinata all’intenzione, proprio perché è il passo successivo di completamento dell’attività cognitiva intellettuale; senza intentio la comprensione non può iniziare, né quindi può concludersi: «ciò che pertanto attraverso l’intenzione non abbiamo toccato, non lo afferrammo e quindi neppure lo comprenderemo»51. La stretta relazione che unisce l’intendere al concepire è quindi parte dell’unica, dinamica e progressiva successione che conduce dai sensi alle immagini e a un contenuto particolare, da questo alle astratte intenzioni e, finalmente alla loro concettualizzazione e comprensione. Ciò che, in ultimo, emerge dal Sigillus sigillorum è che tutti gli atti di cognizione possono essere ricondotti sotto la sfera del pensiero intellettivo o, meglio, sono espressioni determinate di un unico principio Ibid.: «est terminus appositus et condistinctus ab intentione». Ibid.: «actus potentiae cognoscitivae vel appetitivae versus obiectum». 47 Ibid.: «actus quidam informationis seu receptionis ab obiecto in potentiam». 48 Ibid. 49 Ibid. 50 Ibid., p. 85: «quid enim concipere possumus, nisi quod apprehendimus et ad quod attingendum pervenimus?». 51 Ibid.: «quod ergo intentione non pulsavimus, non tetigimus, neque comprehensione complectemus». 45 46
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attivo e agente che si manifesta, a livello dell’uomo e al suo massimo grado, nelle operazioni intellettuali. La coerenza interna di tale argomentazione poggia su un’analisi delle singole facultates che si concentra soprattutto sulla loro specifica funzione, piuttosto che intorno allo status dei loro dati, prendendo in esame come i loro atti si susseguano e giustifichino reciprocamente, per arrivare all’elaborazione del concetto astratto; tutto ciò, finalmente, trova la sua sintesi compiuta nella constatazione che «una simile trasfusione di virtù» è propria «non della materia, ma della forma», ovvero riguarda l’aspetto formale, attivo e efficiente della natura dell’uomo, la quale è medesima per tutte le cose52. Nella definizione bruniana delle dinamiche gnoseologiche la tradizionale contrapposizione tra corporeità sensibile e anima intellettiva va dunque sfumandosi: l’intelletto non è il laboratorio per l’emancipazione dell’uomo dalla condizione materiale che lo caratterizza ab origine, con il fine di liberare quel principio spirituale superiore in esso racchiuso e l’anima non è, come nella prospettiva platonico-cristiana rielaborata da Marsilio Ficino, una sorta di veicolo per innalzare l’uomo fino alla divinità, sua ultima e vera dimora. La conoscenza intellettuale circoscrive l’uomo dentro l’esperienza del mondo e la mente umana, lo ribadiamo, non costituisce un ‘inserto’ metafisico all’interno di un complesso fisico, bensì è l’eco individuale dell’azione generatrice della vitalità naturale che intrinsecamente anima ogni ente53. La dimensione cognitiva caratterizza l’uomo in maniera specifica, tanto da farne un unicum nella natura, dotandolo di un ‘ruolo’ definito, come si vedrà tra poco, proprio in virtù della sua creatività, intesa anche in senso pratico e civile. Tale condizione tuttavia non lo differenzia ontologicamente rispetto agli altri esseri viventi, restando unica la sostanza di cui anch’esso è atto particolare e distinguendosi – come viene sostenuto nella Cabala del cavallo pegaseo – solo per la peculiare configurazione che assume la sua struttura fisica: è questa, infatti, che assicura anche Id., Sigillus, pp. 216-9: «a non imbecilli connexione, unione et forte unitate et identitate quadam provenit, quod a facultate elementativa vegetativa perficitur, ab hac concupiscientia et sensus, ab iis ratio et imaginatio, a quibus tandem voluntas atque intellectus; ex quibus demonstrative concludi potest, quod si in sensu sit participatio intellectus, sensu erit intellectus ipse. Haec enim transfusio virtutis ab una potentia in aliam non est materiae, sed formae». 53 Cfr. S. Carannante, Mente, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, II, ad v. 52
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le diverse attitudini cognitive e indirizza le varie disposizioni dell’intelligenza nei confronti del mondo sensibile54. Alla luce di ciò è lecito chiedersi, dunque, quale sia l’effettiva valenza della sfera intellettuale e, in ultimo, quale lo scopo dell’uomo e come esso sia funzionale ad una prospettiva naturale e infinita. Seguendo il punto di vista di certe pagine bruniane, del resto, può essere fin troppo facile appiattire la condizione umana su quella di tutti gli altri esseri e perderne di vista il valore; al contrario, è proprio nella fragile specificità di ogni esistente che possiamo cogliere, invece, uno dei motivi più originali della visione filosofica di Bruno: se tutte le cose sono identiche rispetto alla sostanza, è proprio nell’essere configurate in maniera diversa e ‘unica’ che viene assecondata la piena esplicazione dell’essere, poiché la potenza divina esprime tutte le sue possibilità diversificando il medesimo principio sostanziale in infiniti ed eterogenei effetti. Ciò, tuttavia, non riesce ancora a rendere pienamente conto dello specifico valore della condizione umana e, soprattutto, della complessa struttura cognitiva i cui processi abbiamo appena descritto: qual è, infatti, il senso ultimo dell’astrarre e del produrre nozioni universali e, infine, qual è nell’uomo la relazione tra il pensiero stesso – che in maniera autonoma forma i pensieri e circoscrive l’identità – con il corpo e l’esperienza sensibile? Se l’astrazione intellettuale è l’obiettivo finale di tutti gli atti del conoscere, poiché le altre facoltà, come si è visto, sono asservite all’intelletto, ovvero predispongono il ‘materiale’ per la sua ultima e definitiva concettualizzazione, occorre allora guardare alla memoria come alla facoltà che solidifica tutte le nozioni in una coerente ‘contemplazione’ del mondo e di sé, grazie al potere di conservare e riattualizzare ogni pensiero.
Cfr. G. Bruno, Cabala del cavallo pegaseo, in Id., Dialoghi filosofici italiani, p. 717: «Sebasto. Dumque constantemente vuoi che non sia altro in sustanza l’anima de l’uomo e quella de le bestie? e non differiscano se non in figurazione? Onorio. Quella de l’uomo è medesima in essenza specifica e generica con quella de le mosche, ostreche marine e piante, e di qualsivoglia cosa che si trove animata o abbia anima: come non è corpo che non abbia o più o meno vivace e perfettamente communicazion di spirito in se stesso. Or cotal spirito secondo il fato o providenza, ordine o fortuna, viene a giongersi or ad una specie di corpo, or ad un’altra: e secondo la raggione della diversità di complessioni e membri, viene ad avere diversi gradi e perfezzioni d’ingegno et operazioni». 54
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Lo spazio vivo della memoria All’interno della gnoseologia bruniana la riflessione sulla memoria è, ovviamente, centrale: essa assicura la continuità dell’identità stessa e la conservazione di quanto appreso; se il conoscere e il raggiungimento della piena consapevolezza di sé costituiscono un processo dinamico e progressivo, è senz’altro attraverso l’accumulazione e l’ordinamento delle frammentarie esperienze del mondo che si perviene alla costruzione di un vero e proprio sistema nel quale tutte le informazioni sono classificate e rapportate entro una visione unitaria; per questo la descrizione dei processi cognitivi viene costantemente svolta in maniera complementare alla definizione ed esposizione delle tecniche di memoria. Come per le altre facoltà, anche la riflessione sulla memoria segue un andamento che in parte diverge dalla visione tradizionale: se fin da Aristotele era in uso distinguere la memoria in senso conservativo dalla reminiscentia, Bruno, coerentemente col quadro unitario che è andato formando della sfera conoscitiva, considera entrambe le funzioni come aspetti diversi di un medesimo spazio cognitivo, cioè il senso interno animato dallo spiritus phantasticus, descrivendo la memoria come un’azione di conservazione ‘dinamica’ di tutti i tipi di informazione, attribuendo ad altre facoltà o potenze intermedie del conoscere – la cogitativa, lo scrutinium, l’immaginazione: ma in generale qualsiasi aspetto attivo del pensare fantastico – il compito di ricercare e collegare tra loro i ricordi, associando le immagini ai corrispondenti significati. Se nella Summa terminorum metaphysicorum, ancora all’interno della trattazione del lemma cognitio, troviamo una definizione non originale della memoria («è la potenza ritentiva, cioè conservativa di quelle immagini che i sensi interiori ovvero esteriori hanno appreso»55), nella Lampas trigintas statuarum, in riferimento alla statua di Minerva – cioè «della cognizione» – e partendo da termini simili a quelli presenti nella Summa, si distingue invece tra una «memoria sensitiva», che «accoglie le immagini sensibili» e che «i peripatetici […] chiamano anche fantasia», e una «memoria intellettiva», la quale «custodisce le immagini [species] elaborate dalla ragione e colte dall’intelletto, ed è in un certo modo la mente in sé»56. Da queste affermazioni risulta eviId., Summa teminorum methaphysicorum, pp. 31-2: «est potentia retentiva seu conservativa earum specierum, quas sensus interiores vel exteriores apprehenderunt». 56 Id., Lampas triginta statuarum, pp. 1230-1: «Est memoria, utpote potentia reten55
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dente che c’è una maniera più complessa di considerare la memoria, un modo che ha a che fare con l’identità stessa del soggetto, ovvero con la percezione totale e perdurante del sé; anzi, proprio perché tale memoria costituisce una forma superiore di attività cognitiva, essa è forse quella che meglio caratterizza il senso dell’intera funzione mnemonica. Vi è dunque un superamento della concezione della memoria come mero deposito dei ricordi – come una sorta di statico ‘magazzino’ – in favore dell’integrazione di questo specifico aspetto cognitivo con tutte le altre funzioni del conoscere e del pensare, all’interno di un quadro descrittivo dello spazio logico che è, alla fine, unitario – centrato, ancora una volta, sugli aspetti attivi e produttivi del pensiero. Non a caso, nelle stesse pagine della Lampas, Bruno prende in esame anche l’altra competenza cognitiva fondamentale per i processi della memoria: si tratta della reminiscentia, che è la «facoltà distinta dalla memoria vera e propria», dal momento che «quanto può essere ricordato […] per via naturale, e tuttavia […] non si presenta spontaneamente alla memoria, viene infatti ricordato per opera della reminiscenza, attraverso un’attenta e avida ricerca [studiosa et quadam avida collatione]»57. Pur evidenziando quindi che la memoria è, in essenza, l’atto naturale del ricordare (per associazione e collegamento spontaneo tra le immagini), viene messa in luce anche la specificità gnoseologica propria della ricerca attiva e consapevole dei ricordi, sottolineandone la componente razionale e avvicinandola così alla dimensione intellettuale58; ma tiva specierum receptarum et digestarum; et haec est duplex: sensitiva specierum sensibilium, quam Peripathetici etiam phantasiam appellant, et intellectivam, quae retinet species rationee et intellectu perceptas, et quodammodo est ipsa mens». 57 Ibid.: «Est reminiscentia, utpote differens a memoria, quoniam [haec] illud, quod veluti natura et sine studio seu industria est memorabile et quodammodo latet et per se memoriae non occurrit, per reminiscentiam – studiosa et quadam avida collatione – occurrit». 58 Come è già stato osservato, la distinzione tra memoria e reminiscenza risale ad Aristotele. Questi, nel definire il peculiare processo di associazione tra le immagini dei ricordi nell’atto rimemorativo, lo paragona all’illazione propria della logica (συλλογισμός; cfr. De memoria et reminescientia, 453 a, 10). Tommaso riprende l’osservazione aristotelica, sottolineando come ciò possa indicare che il ricordare attivamente spetti esclusivamente all’uomo: «Causa autem quare soli homini convenit reminisci, est quia reminiscentia habet similitudinem cuiusdam syllogismi; quare, sicut in syllogismo pervenitur ad conclusionem ex aliquibus principiis, ita etiam in reminiscendo aliquis quodam modo syllogizat se prius aliquid vidisse, aut aliquo alio
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quello che, in ultimo, è più significativo è che in entrambi i casi, Bruno, come ha già fatto per le altre competenze cognitive, tende a descrivere anche la facoltà della memoria sulla base dei suoi atti e non attraverso gli oggetti che la caratterizzano. Gli scritti nei quali la facoltà della memoria e le funzioni ad essa connesse (il conservare/ricordare spontaneamente e il ricordare per ricerca) sono più approfonditamente esaminate sono quelli di argomento mnemotecnico. Come si è già visto, la parte sull’ars reminiscendi del Cantus Circaeus si apre con il capitolo dedicato all’«ordine delle facoltà e degli organi» nel quale si espone la tesi secondo cui esistono quattro cellette in corrispondenza di ciascuno dei quattro sensi interni; la prima di queste, detta senso comune, si trova nella parte anteriore del cervello; la seconda, che si estende fino a metà cervello, si definisce sede della facoltà fantastica; la terza, subito dopo la precedente, è detta dimora della facoltà cogitativa, mentre la quarta è attribuita alla facoltà memorativa59.
modo percepisse, ex quodam principio in hoc deveniens: et reminiscentia est quasi quaedam inquisitio, quia non a casu reminiscens ab uno in aliud, sed cum intentione deveniendi in memoriam alicuius procedit. Hoc autem, scilicet quod aliquis inquirat in aliud pervenire, solum illis accidit, quibus inest naturalis virtus ad deliberandum: quia etiam deliberatio fit per modum cuiusdam syllogismi; deliberatio autem solis hominibus competit: cetera vero animalia non ex deliberatione, sed ex quodam naturali instinctu operantur» (Sancti Thomae De Aquino Opera omnia iussu Leonis XIII P. M. edita, XLV/2, Sentencia libri De sensu et sensato cuius secundus tractatus est De memoria et reminiscencia, Roma-Parigi, Commissio Leonina-J. Vrin, 1984, tr. 2, l. 8, n. 2). Ciò, fra l’altro, motiva un significativo accostamento tra la reminiscentia e la cogitativa, configurandosi entrambe come potenze superiori e pre-razionali dell’attività cognitiva fantastica: «Praeterea, actus cogitativae, qui est conferre et componere et dividere, et actus reminiscitivae, qui est quodam syllogismo uti ad inquirendum, non minus distant ab actu aestimativae et memorativae, quam actus aestimativae ab actu phantasiae. Debent ergo vel cogitativa et reminiscitiva poni aliae vires praeter aestimativam et memorativam; vel aestimativa et memorativa non debent poni aliae vires praeter phantasiam» (Sancti Thomae Aquinatis Pars prima Summae theologiae, Q. 78, art. 4, arg. 5). 59 Bruno, Cantus Circaeus, pp. 664: «Satis famosum est atque concessum, quatuor esse cellulas pro quatuor sensibus internis: quarum prima sensus communis appellatur, situata in anteriori parte cerebri; secunda, usque ad cerebri medietatem, phan-
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La specifica organizzazione anatomica che individua gli spazi cerebrali propri di ciascuna funzione serve a sottolineare la stretta interdipendenza delle varie facoltà sensibili interne e, soprattutto, l’ordine progressivo e concatenante dei processi ad esse correlati. In realtà, come è stato già osservato in relazione alle pagine iniziali del De imaginum compositione, le quattro «cellette» delimitano piuttosto quattro aree sulle quali si esercitano i diversi atti di un comune sistema cognitivo che è animato dall’unico spiritus phantasticus: questo, infatti, gestisce le operazioni dei sensi esterni, le coordina e ne convoglia i dati nell’impressione ‘fenomenica’ prodotta dal sensus communis, stimolando la loro proiezione visiva nella fantasia e – in forza della capacità propria di quest’ultima di collegare e unificare tali immagini – ne sintetizza il valore specifico; infine ‘condensa’ in un ricordo tale contenuto associandolo al suo phantasma60. Per comprendere al meglio il complesso funzionamento della memoria è quindi utile considerare le «cautele» proposte da Bruno nei capitoli iniziali del Sigillus sigillorum; tra queste una delle più significative suggerisce di «non credere […] che la memoria si produca o si acquisti […]: discende infatti da una sorta di effusione, per mezzo della quale una cosa pur distante e separata viene comunque contemplata […] da una facoltà innominata dell’animo che si ritiene appartenga al genere dell’intenzione o dell’atto di intendere»61; di fronte al ricordo, pertanto, «non bisogna contemplare le immagini che sono in noi, ma guardare alle cose stesse attraverso le immagini che sono in noi», cioè «dobbiamo tenderci con l’animo non come per guardarla, ma come per guardare attraverso di essa»62. Bruno intende tasiae domicilium nuncupatur; tertia, illam contingens, cogitativae domus dicitur; quarta vero memorativae». 60 Oltre alle già citate pagine del secondo capitolo de L’arte della memoria di Frances Yates, che descrivono le teorie antiche intorno alla memoria, un’approfondita analisi del processo memorativo in Aristotele, associato alle competenze percettiva e fantastica, è svolto anche in M.M. Sassi, Aristotele fenomenologo della memoria, in Tracce nella mente, pp. 25-46; Ead., Percezione e conoscenza nei Parva Naturalia, in «Studia graeco-arabica», 4, 2014, pp. 265-74. 61 Bruno, Sigillus, pp. 202-3: «Ne, inquam, putes per introspectum quemdam potius quam adspectum seu prospectum memoriam fieri vel comparari: effusione enim quadam provenit, qua non inquam ex oculis, sed ex innominata quadam animi facultate, quae in genere intentionis vel intendentiae cuiusdam habetur, et sepositum velutique seorsum positum intuetur». 62 Ibid.: «Memento igitur, non ea quae sunt in nobis, sed res ipsas per ea quae sunt
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qui sottolineare come il dato mnestico, nella sua funzione strumentale, non sia l’immediata impressione sensoriale di quanto viene esperito e memorizzato, ma una sorta di segno rielaborato ad hoc dalle potenze interiori con lo scopo di sintetizzare simbolicamente quell’insieme di nozioni, affezioni e connotazioni visive che si riferiscono a quella particolare esperienza e del quale si ha, per l’appunto, memoria. La potenza semiotica dell’immagine conservata in memoria, infatti, è tale da convogliare su di essa non solo il ricordo specifico, ma tutto un insieme di connotazioni affettive e semantiche collaterali, in virtù delle quali l’immagine rimanda a tutte le altre figurazioni interiori che ne sostengono e permettono la ricerca e il recupero: il ricordo, dunque, non è l’istantanea di un evento reale, ma un’elaborazione ‘intenzionale’, che ha cioè lo scopo di rappresentare quelle cose, quell’evento, con tutto ciò che ad essi è collegabile. Bruno ha quindi una consapevolezza teorica del funzionamento della memoria molto ‘moderna’: non la staticità di un deposito, ma la dinamica vitalità di uno spazio logico-psicologico, nel quale i ricordi sono entità vive, modificabili e sulle quali si addensa una complessa stratificazione di rimandi e sollecitazioni emotive. Per questo motivo, in tutti gli scritti mnemotecnici e a un grado che non è comparabile con l’attenzione dedicatale da altri autori, Bruno insiste sulla potenza affettiva delle immagini mnemoniche, sulla loro varietà e originalità; sulla forza che esse devono avere di impressionare il soggetto, sulla loro motilità e vivacità, sul colore, sulla dimensione, sui rapporti di proporzione, sulla prospettiva della loro visualizzazione, affinché in ultimo esse siano estremamente realistiche, pur nella loro virtualità63. L’idea di fondo è quella di esasperare tutti gli aspetti qualitativi64, poiché questi sono insiti nelle ‘figure’ delle cose le quali, a loro volta, rimandano alle forme e, quindi, aprono un canale di comunicazione tra l’interiorità e il principio formale che configura e produce ogni cosa, il lato attivo e creativo dell’unica sostanza di tutto ciò che esiste. A margine di questa importante definizione della funzione mnemonica, nell’Ars memoriae che segue il De umbris idearum Bruno propone una possibile individuazione della specifica competenza cognitiva che presiede alla selezione dei ricordi, ipotizzando l’esistenza di uno in nobis, esse inspiciendas; quamvis enim animae praesens adsit imago, non tanquam ipsam, sed tamquam per ipsam aspicientes intendamus animo». 63 Cfr. Id., Sigillus, pp. 199-201; Id., De umbris, pp. 172-81. 64 Cfr. infra, pp. 145 e sgg.
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scrutinium, «mediante il quale la facoltà cogitativa tocca nel modo che le è proprio le immagini conservate, dividendole e separandole secondo la sua capacità, procedendo per via di connessione, associazione e variazione, attribuendo forme e ordini determinati e facendole convergere nell’unità complessiva che si è stabilito produrre»65. Lo scrutinio è quindi una delle componenti più ‘razionali’ della cogitativa/imaginatio, che a sua volta è il più ‘alto’ dei sensi interni; esso è anche un «numero», perché è principio di scansione e articolazione operante attivamente all’interno del processo rimemorativo. In particolare gli atti del reminiscere, alla luce di tale apporto, vengono riorganizzati secondo nove fasi: vi è, infatti, «l’intenzione preliminare», per cui, stimolati da un impulso esterno o interno il richiamare alla memoria si mette in moto; seguono «lo stimolo impresso sull’immaginazione» e «la reazione irriflessa che spinge l’immaginazione a investigare». A questi primi passi che muovono l’immaginazione verso la memoria, fa seguito «l’atto consapevole con cui l’immaginazione subito inizia la sua indagine» e, quindi, «lo scrutinio con cui l’immaginazione ricerca intendendo». Tutto ciò ha come oggetto «l’immagine, ovvero la specie memorabile», il cui contenuto consiste in quel «carattere peculiare in virtù del quale essa può farsi oggetto specifico di memoria» e che produce una rappresentazione interiore di fronte alla quale l’immaginazione/cogitativa emette un «giudizio», ovvero l’atto con cui «si comprende che tale è il contenuto di quell’immagine» che stavamo ricercando66. Da tutte queste riflessioni emerge pertanto come la facoltà della memoria sia la funzione interiore intorno alla quale, con maggiore complessità e intreccio di operazioni, convergono tutti i sensi interni e anId., De umbris, pp. 188-9: «Est igitur scrutinium numerus quidam, quo cogitatio tangit modo suo species conservatas, eas pro sua facultate disterminando, disgregando, colligendo, applicando, immutando, formando, ordinando, inque seligendam unitatem referendo». 66 Ibid., pp. 182-3: «Novem concurrunt ad rememorationem faciendam et memoriam. Intentio antecedens, qua primum aliquis sensus extrinsecus vel intrinsecus fit in actu ex hoc, quod movetur ab obiecto. Provocatio imaginationis, ubi sensus commotus iam mediate vel immediate expergefacit imaginationem. Imaginationis motus passivus, quo pellitur ad investigandum. Imaginationis activus motus, quo iam investigat. Scrutinium, quo intendens imaginatio investigat. Imago, utpote species memorabilis. Intentio imaginis, nempe ratio qua memorabilis efficitur in praesentiarum, aliis exclusis. Praesentatio illius intentionis, quod scilicet intentio illa praesens efficiatur. Et iudicatio, qua apprehenditur eam esse intentionem illius imaginis». 65
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che le facoltà razionali, muovendo ciascuno dalla propria competenza specifica: solamente così è possibile del resto dare consistenza all’identità stessa del soggetto, sottraendolo alla fugacità frammentaria del trascorrere del tempo. Si tratta di un aspetto estremamente complesso dal punto di vista teorico, poiché il tema della trasformazione vicissitudinale e universale degli enti è uno dei fulcri portanti della cosmologia e della filosofia di Bruno e la memoria, che svolge un’importante funzione in relazione alla società e alla civiltà degli uomini, può apparentemente sembrare contraria e opposta al procedere naturale, proprio a motivo della sua azione conservativa. Non è un caso, dunque, che nel principio della parte mnemotecnica del De umbris idearum, Bruno rilevi come l’arte della memoria sostenga l’uomo in un compito che può, effettivamente, essere considerato contronaturale: per mezzo dell’arte la forma estrinseca e la figura dell’inventore della grande chiave vengono affidate alla dura pietra e al diamante. In modo simile, affidandoli agli oggetti della memoria e della facoltà cogitativa, se ne perpetuano le condizioni, gli atti e il nome, che la natura non avrebbe potuto conservare altrimenti, poiché lo stomaco della fluttuante materia assorbe compiutamente ogni ente67.
Vi è in ciò, indubbiamente, l’eco di una specificità primale che il Nolano, «inventore della grande chiave», cioè la perduta opera Clavis magna più volte evocata e citata nelle pagine del De umbris idearum, attribuisce a se stesso, in linea con quella autorappresentazione mercuriale del proprio ruolo e destino, che costituisce uno dei motivi teorici e biografici più significativi di tutta la sua opera68. Ma al di là di questa prospettiva interpretativa, la forza conservativa della memoria può esIbid., pp. 128-9: «Forma vero extrinseca atque figura inventoris clavis magnae per artem duro committitur lapidi vel adamanti. Item conditiones, actus et nomen memoriae et cogitativae obiectis perpetuanda committuntur, quae tamen natura retinere non potuisset, quandoquidem fluctuantis materiae stomachus mature omnia digerit». 68 Cfr. M. Ciliberto, Giordano Bruno. Il teatro della vita, Mondadori, Milano, 2007, p. 12: «Il destino del Mercurio, oltre che un ‘dono’ degli dèi, è una ‘scelta’ che l’uomo deve fare, assumendo consapevolezza della propria sorte, trasfigurando a questa luce i ‘ricordi’ del passato e proiettandosi, con coraggio e speranza, verso il futuro che si sta dischiudendo, e di cui la sua stessa vita, con gli eventi straordinari che la scandiscono, è il primo annuncio. In Bruno, così intesa, la biografia si trasfigura in una sorta di ‘teofania’, alla quale il Mercurio deve contribuire con tutte le sue forze». 67
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sere coerentemente ricondotta – come si è già visto in precedenza e si esaminerà in dettaglio nel prossimo capitolo – ad un modo peculiare di agire e produrre della natura stessa, o, meglio ancora, può essere letta come conseguenza materiale di questo agire stesso, che procede eternamente di trasformazione in trasformazione secondo esiti che possono essere interpretati dalla prospettiva temporale e parziale nella quale l’uomo è immerso in senso ‘progressivo’. Secondo un’accezione simile, in un altro passo del De umbris è descritto l’evolversi nel tempo dell’arte della scrittura, dalle forme primitive dell’incisione su legno e su pietre alla tecnologia della stampa, progresso al quale viene accostata la vicenda della «scrittura interiore», cioè l’ars memoriae, che nella versione ideata da Giordano Bruno giunge a un ulteriore stadio di perfezionamento tecnico69: tale movimento evolutivo viene colto infatti come lo stratificarsi di un’esperienza che si addensa storicamente. Questa ambivalente rilettura del senso della storicità umana nel quadro di una prospettiva temporale infinita e non lineare si ritrova, per certi versi, anche nella riforma morale e civile del cielo astronomico proposta nello Spaccio de la bestia trionfante, dove alla «gran madre Mnemosine con le nove Muse sue figlie» viene assegnato il posto della costellazione della Lira: alle Muse è fatto dono da parte di Giove di uno dei «nove collirii», posseduti da Minerva, «che son stati ordinati per purgar l’animo umano, e quanto alla cognizione, e quanto all’affezione». Alla più giovane delle Muse, l’Etica, spetta «l’ultimo, più grande, più precioso e più eccellente», affinché «prudentemente, con sagacità, accortezza e generosa filantropia», essa possa «instituir religioni, ordinar gli culti, metter leggi, et esecutar giudicii; et approvare, confirmare, conservar e defendere tutto il che è bene istituito»70. Questa esigenza di fondare l’azione dell’etica sia sulla memoria che sulla sapienza si ricollega a quanto esposto da Bruno poche pagine prima per bocca di Sofia, la quale interpella Mercurio affinché faccia presente a Giove la propria istanza «circa gli gran torti che mi vegnono fatti da diverse sorte di uomini in terra», ordinando «che tutte le espedizioni tanto civili quanto criminali vegnano registrate nella camera [di Giove] non senza tutte le occasioni, mezzi e circostanze loro»71. La richiesta di Sofia comporta infatti che «ogn’uno di gli dèi in questo modo venga costretto a far la giustizia: perché per la registrazione che eternizza la memoria de gli 69 70 71
Cfr. Bruno, De umbris, pp. 134-5. Id., Spaccio de la bestia trionfante, in Id., Dialoghi filosofici italiani, pp. 576-7. Ibid., pp. 531-2.
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atti vengano a temer l’eterna infamia, e d’incorrere biasimo perpetuo con la condannazione che si deve aspettar dall’absoluta giustizia che regna sopra li governatori, et è presidente sopra tutti dèi»72. La memoria giudiziale agisce in questi frangenti come antidoto contro l’oblio dei misfatti, dei crimini e dei vizi perpetrati e perpetuati dal potere e dagli uomini, ma è anche protezione e conservazione di quanto vi è di buono e utile al convitto umano e, soprattutto, stimolo etico a realizzare il bene comune, grazie al premio (o alla punizione) della ‘eternizzazione’ delle imprese: senza memoria non vi sarebbe la possibilità né di confrontarsi con modelli virtuosi, né di conservare traccia dei comportamenti delittuosi e, di conseguenza, seguire e coltivare gli uni, biasimare e fuggire gli altri. La memoria è pertanto una potenza cognitiva, ma anche politica che agisce in modo incisivo e determinante sulla conservazione e sul progredire della civiltà, oltre che sulla costituzione dell’identità personale; tuttavia, nella prospettiva infinita della vicissitudine universale non può esservi memoria così forte e stabile da contrastare la trasformazione continua ed eterna cui tutti gli aspetti del reale sono sottoposti: ogni evento naturale «non accade per modo di memoria, di discorso e considerazione: per che ogni […] opra è opra eterna, e non è atto che gli possa esser nuovo»73. Cultura e natura, azione umana e naturale, sono, in questo senso, collocati su versanti opposti: per l’uomo, infatti, il conservare implica perpetuazione e durata, progresso e crescita; dal punto di vista della vita universale, invece, la memoria, nel senso del ripetersi del medesimo o conservazione di quanto è specifico, è staticità, annullamento delle possibilità e mancanza di sviluppo. I due piani non sono, almeno ad una prima analisi, compossibili e il quadro che ne risulta è una visione del divenire che si dipana nell’orizzonte infinito per l’incessante azione naturale, consegnando gli uomini ad un’eterna vicissitudine che alterna ciclicamente epoche di oscura barbarie a fasi dominate dalla luminosità e da civiltà della sapienza, senza che l’una abbia mai la definitiva supremazia sull’altra74.
Ibid. Id., De la causa, p. 215. 74 Su questi temi si veda: N. Tirinnanzi, Bruno e l’arte dell’oblio, in Ead., L’antro del filosofo. Studi su Giordano Bruno, a cura di E. Scapparone, Roma 2013, pp. 55-82; L. Carotti, Oblio, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, II, ad v. 72 73
III. La natura dell’arte
L’arte delle arti All’inizio della seconda parte del De umbris idearum, intitolata Ars memoriae, Bruno dichiara che la propria arte della memoria ‘dimora’ «sotto l’ombra delle idee», «allorché precedendola incita una natura torpida, o la dirige e la guida quando devia ed eccede, o la rafforza e la sostiene quando è stanca o mutila, o la corregge quando erra, o allorché segue la natura perfetta e ne emula la provvida operosità»1. La mnemotecnica bruniana, esplicitando un motivo che nel corso delle due prime sezioni è emerso soprattutto in chiave gnoseologica, investe pienamente la relazione tra uomo e natura, attribuendosi il ruolo di «sostenere», «rafforzare», oppure «emulare» l’azione di quest’ultima. Questa premessa così gravida di conseguenze teoriche è accompagnata da una definizione dell’ars memoriae non meno carica di implicazioni: essa «è dunque un’architettura ragionata di ciò che vogliamo perseguire, e una disposizione dell’anima raziocinante che da quanto è principio della vita del mondo si comunica al principio di vita di tutte e di ciascuna realtà»2. Una tecnica per gestire le immagini mnemoniche, tradizionalmente parte del bagaglio di ogni retore e, in quanto tale, non certo legata immediatamente a considerazioni di carattere filosofico, viene quindi posta sullo sfondo di una particolare idea della natura e, più nello specifico, viene letta come espressione del «principio della vita del mondo» che si «comunica» a tutte le cose, attraverso la loro intrinseca vitalità e, dunque, anche all’«anima raziocinante» Bruno, De umbris, pp. 122-3: «Tunc artem sub umbra idearum degere arbitramur, cum aut torpentem naturam antecedendo sollicitat, aut deviam et exorbitantem dirigit et perducit, aut deficientem lassamque roborat atque fulcit, aut errantem corrigit, aut perfectam sequitur et industriam emulatur». 2 Ibid., pp. 122-5: «Est quidem huiuscemodi ars rerum prosequendarum in genere discursiva architectura et habitus quidam ratiocinantis animae, ab eo quod est mundi vitae principio ad omnium atque singulorum se exporrigens vitae principium». 1
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dell’uomo. Si tratta indubbiamente di un’affermazione affatto neutrale, che esige una lunga e articolata argomentazione, sviluppata infatti nelle pagine successive del testo bruniano e volta ad approfondire quale sia «il principio generale che consente all’anima di procedere a tutte e a ciascuna singola operazione»3, ovvero «quale sia il principio per cui l’anima assume la disposizione dell’arte», che, detto in modo più diretto, può essere sintetizzato nella questione: «quale arte consente all’anima di acquisire l’arte?»4. L’originalità della riflessione bruniana può essere colta, pertanto, partendo proprio da questo primo e cruciale punto teorico, ovvero la connessione tra arte – e più in generale ogni attitudine operativa e creativa umana – e natura, relazione che viene affrontata tuttavia attraverso un rovesciamento dei termini, muovendo anzitutto dalla definizione dell’azione naturale come ‘arte’. Al di là dei numerosi e importanti precedenti nella storia del pensiero5 noti a Bruno, egli ritiene che uno Ibid., pp. 124-5: «quo generaliter ad omnes atque singulas functiones anima fertur, quale sit et quomodo, non satis est apertum». 4 Ibid.: «Quaeritur enim quid est quo artem induit anima? Qua arte anima artem induit?». 5 Come osservato da Rita Sturlese nell’apparato del De umbris idearum, la fonte primaria per l’argomentazione bruniana di queste pagine è il capitolo primo del IV libro della Theologia Platonica di Marsilio Ficino, le cui parole sono fedelmente riprese da Bruno: «Proinde, si ars humana nihil est aliud quae naturae imitatio quaedam, atque haec ars per certas operum rationes fabricat opera, similiter efficit ipsa natura, et tanto vivaciore sapientioreque arte quanto efficit efficacius et efficit pulchriora. Ac si ars vivas rationes habet, quae opera facit non viventia, neque principales formas inducit neque integras, quanto magis putandum est vivas naturae rationes inesse, quae viventia generat formasque principales producit et integras. Quid est ars humana? Natura quaedam materiam tractans extrinsecus. Quid natura? Ars intrinsecus materia temperans» (M. Ficino, Platonic Theology, I, books I-IV, Latin text edited by J. Hankins, Cambridge (Mass.)-London, Harvard University Press, 2001, p. 252). Il ragionamento ficiniano, come pure fa Bruno ma con esiti radicalmente opposti, si volge poi ad esaminare il rapporto tra artefice, artefatto e materia, sempre rilevando e ribadendo la presenza di un piano ‘razionale’ sullo sfondo dell’azione naturale, cercando poi di mostrare che l’azione del divino ‘discende’ fino al piano naturale, attraverso l’azione ‘intelligente’ («l’arte») della natura stessa, conclusione che è, come si vedrà, diametralmente opposta a quella di Bruno. Anche in Cusano, nel XII capitolo della seconda parte del De coniecturis, vi è un ragionamento simile a quello bruniano intorno al rapporto tra arte umana e creatività naturale: il fulcro del ragionamento di Cusano 3
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dei fulcri della «nolana filosofia» sia proprio la concezione secondo cui la natura stessa sia la prima e principale «artefice» delle cose che sorgono sulla sua «superficie»; nel De la causa, ad esempio, descrivendo le caratteristiche dell’anima mundi, viene più volte sottolineato che essa è l’efficiente interno alla natura, attribuendole un «intelletto agente» che è la sua «intima, più reale e propria facultà e parte potenziale»6 e che agisce intrinsecamente alla materia in qualità di «artefice interno», operando in modo immediato in ogni cosa e dando forma concreta a tutto. È dunque da un simile genere di considerazioni che deriva la constatazione che se credemo non essere senza discorso et intelletto prodotta quell’opera come morta che noi sappiamo fengere con certo ordine et imitazione ne la superficie della materia, quando scorticando e scalpellando un legno, facciamo apparir l’effige d’un cavallo, quanto credere debbiamo esser maggior quell’intelletto artefice, che da l’intrinseco della seminal materia risalda l’ossa, stende le cartilagini, incava le arterie, inspira i pori, intesse le fibre, ramifica gli nervi, e con sì mirabile magistero dispone il tutto?7
Se l’arte umana è tale perché, assecondando un fine e una progettualità propri, trasforma le cose fuori di sé, a maggior ragione deve dunque dirsi ‘arte’ – anzi, «prima arte» – anche l’azione formatrice della natura, la quale, mossa da una ancor più potente finalità intrinseca, produce dall’interno del sostrato materiale tutte le cose. Assai più chiaramente ed esaustivamente, ben oltre ogni metafora, tale concetto è espresso anche nella Lampas triginta statuarum, nell’ultimo dei trenta argomenti riferiti al principio ‘infigurabile’ della «luce effusa», cioè lo «spirito dell’universo»: è che vi è una fonte ontologica comune (Dio) alla natura e all’intelligenza dell’uomo, tuttavia l’argomentazione conduce a una minore antropomorfizzazione del piano naturale e a un’ultima subordinazione dell’azione umana a quella naturale, almeno per quanto riguarda il fine ultimo della generazione universale. Ciò adduce un’innovativa prospettiva alla quale Bruno guarda indubbiamente con maggiore affinità teorica: «Intelligentiam enim facile, ut a ratione emanat divina, artem participare concipitur, ut autem a se artem exserit, naturam esse videmus. […] Rationes vero artificialium ordinantur ad finem naturalium. Initium enim atque finis artificialium natura exstitit» (N. Cusano, De coniecturis, II, 12, pp. 127-9). Cfr. Sturlese, Arte della natura. 6 Bruno, De la causa, p. 210. 7 Cfr. ibid., pp. 213-5.
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Infine lo definiamo e lo onoriamo con il titolo di «arte delle arti»: è infatti la stessa natura formatrice, o la sostanza stessa della natura, ed è dunque la prima arte, mediante la quale tutti gli artefici si impadroniscono del principio che regola perfettamente le opere da compiere, poiché addirittura coincide perfettamente con il principio stesso che regola correttamente le opere da compiere. Non è pertanto accidente, ma sostanza, ed è certo in primo luogo sostanza di chi opera, mentre in secondo luogo è certo sostanza delle opere da compiere8.
Qui il piano del ragionamento è nuovamente invertito, con conseguenze teoriche significative: non solo la natura è «artefice», ma in quanto tale essa fa sì che tutto ciò che è protagonista di un atto produttivo sia anche, a suo modo, ‘naturale’, cioè derivi da questo originario principio del ‘fare’ la forza e l’impronta attiva che caratterizza anche il suo operare. Estremizzando i termini dell’argomentazione bruniana, quindi, anche ogni arte umana è a suo modo una forma di produzione naturale, poiché muove dal medesimo principio sostanziale e ne asseconda i fini, anche se opera agendo solo sulla superficie delle cose. Dal punto di vista delle dinamiche di apprendimento, ciò traspare nell’affermazione che l’arte umana, quando è totalmente assimilata alla spontaneità dei comportamenti abituali, è a tal punto «imitatrice» della natura che può essere considerata tutt’uno con l’agire della natura: conosciamo infatti per esperienza come un’arte ormai del tutto padroneggiata in noi non abbia più alcun bisogno di riflessione e che un’arte perfettamente compiuta non ricorra più alle argomentazioni della ragione, o perché sappiamo operare a similitudine della natura, o perché la natura stessa coopera con noi9.
Il punto più alto, come si vedrà tra poco, consiste proprio nel gestire e perseguire questa convergenza tra azione umana e attività naturale con Id., Lampas triginta statuarum, pp. 1060-1: «Tandem ars artium dicitur et inscribitur: ipse enim est vel ipsa natura formatrix, vel ipsa naturae substantia, estque prima ars, per quam omnes artifices agibilium rectam rationem habent, immo, et ipsa agibilium recta ratio; non quidem accidens, sed substantia, quidem primum agentium, secundo quidem agendorum». 9 Id., Sigillus, pp. 258-9: «Experimur etenim in nobis absolutissimam artem nihil amplius consultare et artem consummatam nullis rationis discursibus indigere, vel quia naturae similitudine operamur vel quia natura nobiscum cooperatur». 8
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piena adesione intellettuale (e metodologica), giungendo a percepire nell’intimo la fonte unitaria dell’impulso operativo universale, ovvero, con altre e più efficaci parole, «operare in unione con quest’anima»10. Il percorso di avvicinamento dell’arte umana all’arte naturale, fino alla loro piena e consapevole identificazione, costituisce il punto di arrivo di un’analisi che si sviluppa attraverso un significativo rovesciamento di prospettiva: muove dall’iniziale definizione di natura come «arte», per poi interpretare ogni arte come una forma di produzione naturale. L’argomentazione di Bruno in merito al rapporto tra arte e natura viene modulata tuttavia anche attraverso un’altra linea di riflessione, nella quale la questione viene esaminata non più dal punto di vista dell’azione di produzione universale degli enti, ma facendo specifico riferimento alle attività umane e partendo dalla distinzione tra artefice e artefatto, tra il soggetto agente, gli strumenti utilizzati per l’operazione e la materia che è soggetta all’opera di trasformazione. In questo caso il ragionamento bruniano si focalizza sul concetto di strumento (organum) come mezzo dell’artefice per l’azione produttiva: ogni atto artificiale opera infatti attraverso una serie di strumenti, i quali denotano le caratteristiche stesse dell’arte e degli artefatti; ma questi strumenti sono essi stessi il prodotto di un’attività, così che, risalendo a ritroso la catena causale, si arriva infine all’organo degli organi, cioè allo ‘strumento’ naturale che produce tutti gli altri strumenti, la mano11, mezzo primario per la definizione della specificità naturale dell’essere umano stesso – come si sostiene in una celebre pagina della Cabala del cavallo pegaseo12 –, «organo che è efficacissiIbid.: «animae mundi te copulari cumque ipsa copulatum agere oportet». Cfr. Id., De umbris, p. 125. 12 Cfr. Id., Cabala, pp. 718-9: «E che ciò sia la verità, considera un poco al sottile, et essamina entro a te stesso quel che sarrebe se posto che l’uomo avesse al doppio d’ingegno che non have, e l’intelletto agente gli splendesse tanto più chiaro che non gli splende, e con tutto ciò le mani gli venesser transformate in forma de doi piedi, rimanendogli tutto l’altro nel suo ordinario intiero: dimmi dove potrebbe impune esser la conversazion de gli uomini, come potrebero instituirsi e durar le fameglie et unioni di costoro parimente, o piú, che de cavalli, cervii, porci, senza esserno devorati da innumerabili specie de bestie, per essere in tal maniera suggetti a maggiore e piú certa ruina? e per conseguenza dove sarrebono le instituzioni de dottrine, le invenzioni de discipline, le congregazioni de cittadini, le strutture de gli edificii, et altre cose assai che significano la grandezza et eccellenza umana, e fanno l’uomo trionfator veramente invitto sopra l’altre specie? Tutto questo, se oculatamente guardi, si referisce non 10 11
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mo a colpire le profondità stesse degli animi»13. Tale organo è dunque ben più di una metafora dell’attitudine produttiva umana tout court; la mano è l’espressione materiale dell’ingegno (ingenium)14, la manifestazione originaria dell’attualità del soggetto umano che ‘progetta’ e realizza ogni produzione15. Da questo ulteriore passaggio si inferisce, infine, la risoluzione di tutta la catena argomentativa costruita da Bruno: «da che cosa trae la sua prima origine l’uomo con tutte le facoltà che gli sono proprie? Certo dalla natura che lo genera»16. In definitiva «se vuoi considerare la cosa fin dalla sua scaturigine», occorre prestare «attenzione al principio che ci chiama, ci esorta a gran voce e ci illumina nell’intimo»17. Prima di passare ad esaminare come questa sollecitazione a guardare al fondamento ultimo e attivo del pensiero possa tradursi, sia sul piano teorico che su quello metodologico, in una praxis orientata alla scoperta del riflesso interiore del principio di animazione naturale, è utile soffermarsi ancora sull’analisi che Bruno sta compiendo all’inizio dell’Ars tanto principalmente al dettato de l’ingegno, quanto a quello della mano, organo de gli organi». 13 Cfr. Id., Cantus Circaeus, pp. 621-3. 14 Sull’ingenium come origine dell’azione creativa, nell’incontro tra intelligenza e corporeità, cfr. E. Canone, Ingegno, in Enciclopedia Bruniana e Campanelliana, PisaRoma 2006, pp. 59-70; S. Bassi, Ingegno, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, I, ad v. 15 Tale passaggio è evidenziato, oltre che nelle pagine dell’Ars memoriae che stiamo esaminando, anche nel De compendiosa architectura et complemento artis Lullii, dove si tratta dell’ultimo dei nove ‘soggetti’ dell’ars lulliana che è, appunto, il subiectum instrumentativum: esso viene descritto come ciò che racchiude le cose che sono soggette ad essere strumento e non come capacità di usarle; quest’ultima, infatti, pertiene invece all’analisi dell’ente razionale e quindi «è riconducibile al soggetto dell’uomo e dell’ente immaginativo»; cfr. G. Bruno, De compendiosa architectura, in Id., Opere lulliane, edizione diretta da M. Ciliberto, a cura di M. Matteoli, R. Sturlese, N. Tirinnanzi, Milano 2012, pp. 92-5 e il relativo commento, pp. 175-80. 16 Id., De umbris, pp. 128-9: «Sed unde, inquam, haec arti facultas? Inde nimirum ubi viget ingenium. Ingenium cuius est proxime? Hominis. Homo vero cum suis facultatibus omnibus unde emanavit primo? A natura sane parturiente». 17 Ibid.: «Ergo si rem ab exordio intueberis et ab ipsa radice hanc arborem transplantandam velis evellere, ad naturae cultum atque recognitionem inclinator. Id sane praestabis cum vociferanti clamantique principio intimiusque nos illustranti animum intenderis».
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memoriae del De umbris intorno al rapporto tra arte naturale e arte umana, per arrivare a coglierne l’ultima e significativa conclusione. Se infatti anche l’ingegno umano è un prodotto della natura stessa, non resta che inferire che «è la natura che produce ogni possibile, sia prima delle realtà naturali, sia nelle realtà naturali, sia attraverso le realtà naturali», potendo così affermare che «da ogni realtà naturale deriva azione» e «attraverso di esse opera la natura stessa»18. La natura è qui identificata con il principio stesso della vita e della materialità e non con la sua apparenza superficiale e contingente: essa è «un universale fisico, che è in tutte le cose e che ugualmente si contrae in ciascuna»19. Questo nucleo di argomentazioni finisce per influire su un altro livello della riflessione bruniana, già toccato in precedenza ed al quale possiamo ora aggiungere importanti elementi chiarificatori: all’interno dell’incessante avvicendarsi degli enti naturali, l’aspetto conservativo che è proprio del ricordare non è, da un punto di vista ontologico, in contrasto con il moto vicissitudinario, a patto di intendere la memoria non come ‘persistenza’ del medesimo, ma come ‘stratificazione’ del sapere, dell’esperienza o del soggetto stesso, all’interno di un percorso evolutivo personale o storico, comunque circoscritto al ‘mondo’ umano. La natura infatti crea anche attraverso le cose stesse, si serve di esse trasformandole, passando da un contrario all’altro per gradi simili e contigui20, producendo ciò che le è intimamente possibile e che tuttavia può ‘toccare’ solo nella contingenza. Così, la vitalità naturale attinge la propria forza produttrice dalla potenza della stessa sostanza (ante naturalia), la esprime e la indirizza intrinsecamente nella materia (in Ibid., pp. 130-1: «Cum igitur omne possibile natura praestet, sive ante naturalia, sive in naturalibus, sive per naturalia, ita intelligas a naturalibus omnibus actionem proficisci, ut naturam per eadem agere non ignores». 19 Ibid., pp. 132-3: «non enim ut universale logicum vel ad eius similitudinem licet apprehendere naturam, sed ut physicum, quod est tum in omnibus, tum ad singula contractum». 20 Cfr. Id., De umbris, p. 56: «Quoniam vero quod est simile simili, est etiam simile eidem similibus sive per ascensum sive per descensum sive per latitudinem, hinc accidit ut – infra suos limites – natura facere possit omnia ex omnibus […]. Porro simile remotum ad suum distans per simile medium sibique proximum tendit. Hinc herbae forma spoliata materia non immediate formam induitur animalis istius, sed formis chili, sanguinis et seminis mediantibus. Hinc qui noverit apta extraemorum media, et naturaliter et rationaliter omnia poterit ex omnibus elicere»; cfr. Id., De la causa, pp. 293-5. 18
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naturalibus), ma la attua e la manifesta in concreto nella produzione delle cose e, soprattutto, nella relazione produttiva tra le cose (per naturalia), ovvero negli atti generativi e creativi che esse eseguono e che nascono nella contingenza delle «complessioni», vero e unico termine ultimo dell’azione naturale, in cui essa si risolve e, in fondo, si dissolve, se si guarda al fondamento sostanziale da cui ha origine. Non a caso, nel De umbris, è più volte ribadito che anche ciò che è accidentale e particolare è contenuto in potenza nella matrice sostanziale del tutto21, mentre nello Spaccio della bestia trionfante con estrema chiarezza si afferma che nell’orizzonte della complessità naturale ogni parte, anche minima, è comunque «importantissima», in quanto elemento organico di una «infinitamente grande providenza»: tutto dumque quantumque minimo, è sotto infinitamente grande providenza; ogni quantosivoglia vilissima minuzzaria, in ordine del tutto et universo è importantissima: perché le cose grandi son composte de le picciole, e le picciole de le picciolissime, e queste de gl’individui e minimi. Cossì intendo de le grande sustanze, come de le grande efficacie e grandi effetti22.
Rispetto a questa fondamentale cornice teorica, l’apparente opera di progressivo ‘perfezionamento’ del contingente che l’uomo compie o coglie nella storia stessa23, non è altro che una modalità peculiarmente umana del più ampio e universale processo di trasformazione delle cose attraverso le cose stesse; essa è quindi parte integrante dell’azione naturale, in quanto espressione, appunto, per naturalia della sua forza creativa, il cui scopo e «perfezione» «è che in diverse parti della materia tutte le forme abbiano attuale existenza»24. La memoria bruniana è conforme a un’idea dello scorrere temporale inteso come flusso e movimento continuo di generazione e dissoluzione: per Bruno il tempo è il movimento vicissitudinale di trasformazione del tutto, è vita che si fa
Cfr. Id., De umbris, pp. 112-5: «Et nos in proposito ideo omnium volumus esse ideas, quia ab omni conceptabili ad easdem conscendimus»; «Et nos in proposito singularium ideas volumus, quia sumimus ideati rationem secundum universalem figurati et apprehensi similitudinem, sive illa sit ante rem, sive in re, sive res, sive post rem, atque ita sive in sensu sive in intellectu, et hoc sive practico sive speculativo». 22 Id., Spaccio de la bestia trionfante, p. 530. 23 Cfr. Id., De umbris, pp. 134-5. 24 Id., De la causa, p. 213. 21
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vita nelle cose e attraverso le cose stesse25. Così anche l’arte della memoria dovrà fare ampio riferimento alla corporeità, e non solo per la sua componente fisiologica, perché avviene per aggregazione, «agglutinazione» e trasformazione degli enti-ricordi: essa non passa per una via esclusivamente ‘qualitativa’ e, soprattutto, non può essere fondata sulla atemporale e innaturale astrazione dell’«essenza» (che è nulla), come isolamento puntuale di dati mnestici; ma è piuttosto matrice, rete e campo fertile all’interno del quale tutte le cose sono connesse e sgorgano ciascuna tra le relazioni e in interdipendenza reciproca. Essa è quindi una memoria della natura – come l’arte è propria della natura –, nel momento in cui si configura come rete di rimandi mnestici, articolata trama di riferimenti all’esperienza del reale, forza che sedimenta e genera una complessa ‘realtà’ interiore, non per ‘immobilizzarla’ ed estrometterla dalla vicissitudine del tempo naturale, ma per ‘reificarla’ come parte della stessa natura: guardando ‘attraverso’ la rete delle immagini non le immagini stesse, ma le cose del mondo di cui esse sono ‘memoria’ e ‘segno’26, potremo cogliere in ogni cosa, non importa quanto grande o «esigua», «un mondo e non semplicemente un simulacro del mondo»27. Un’arte e una memoria naturali che Bruno vuole dunque insegnare ad utilizzare e a scoprire dentro ciascuno, attingendo a una praxis interiore di trasformazione e di azione che è simile al processo generativo delle cose, consapevole che è la natura, come si è più volte ribadito, ad agire primariamente ed esclusivamente anche attraverso le arti umane, come si legge a conclusione della lunga
Cfr. La concezione bruniana di tempo, al contempo circolare e vicissitudinale, è al centro delle riflessioni di M. Ciliberto, La ruota del tempo. Interpretazione di Giordano Bruno, Roma 1986; F. Raimondi, Il sigillo della vicissitudine. Giordano Bruno e la liberazione della potenza, Padova 1999 (si veda in particolare il VII capitolo, pp. 12937). Anche Nicoletta Tirinnanzi e Maria Elena Severini nei loro studi hanno insistito su tale aspetto: cfr. N. Tirinnanzi, Ficino e Bruno sulla vicissitudine, in Ead., L’antro del filosofo, pp. 303-34; M.E. Severini, Vicissitudine e tempo in Giordano Bruno, in La mente di Giordano Bruno, a cura di F. Meroi, Firenze 2004, pp. 225-58; Ead., Tempo, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, II, ad v. Si veda, infine, E. Fantechi, Moto, ibid., ad v. 26 Cfr. Bruno, Sigillus, p. 202: «Memento igitur, non ea quae sunt in nobis, sed res ipsa per ea quae sunt in nobis, esse inspiciendas». 27 Ibid., p. 259: «in quacumque re etiam exigua et abscisa mundum, nedum mundi simulacrum valeas intueri». 25
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argomentazione in cui Bruno riconduce l’arte dell’uomo sotto quella della natura: È questa che attraverso i mezzi opportuni rende presente e visibile quanto è ormai passato e assente: da un lato, attraverso scultura e pittura, conferisce stabilità e durata alle realtà che la vista ha percepito; dall’altro, attraverso la scrittura, rende stabili e fisse le parole fuggevoli destinate a svanire, per così dire, nel nulla. E ancora, trasmette a grande distanza in tutti i luoghi e in tutti i tempi i concetti e i pensieri silenziosi, di per sé comunicabili solo da vicino28.
La memoria, la scrittura, la scultura; tutto ciò che sedimenta e frena l’incessante flusso della vicissitudine naturale o supera gli angusti confini della spazialità umana sembra apparentemente ‘contronatura’, ma non è così: in realtà la natura si serve dell’uomo, della sua memoria e delle sue arti per affermare il valore della sua stessa azione nel contingente, prolungando i suoi ‘organi’ e i suoi effetti non solo fino alle «minuzzarie», ma anche oltre ciò che è costitutivamente sfuggente, transeunte, per ricondurre ogni cosa nell’alveo del suo perenne divenire, nell’illimitato orizzonte del suo spazio infinito. Dal confronto tra tempo della natura e tempo dell’uomo, sorge così una diversa idea di temporalità sottesa alla memoria, in base alla quale il ricordo non è più considerato come una statica istantanea del passato, ma diviene l’inseguirsi di trame progressive individuali o storiche intessute all’interno di uno sfondo universale che è ciclico – ma mai ripetitivo dell’identico – e soprattutto infinito. Da una parte, pertanto, viene rifiutata l’idea di una natura piegata ad una provvidenzialità storica e lineare; dall’altra, nel determinare anche la storia come azione della natura, si coglie in profondità il senso della memoria bruniana: rispetto al fine ultimo e immanente della natura, che è dare attualità a tutto il possibile, l’operatività e la creatività umane risulterebbero infatti sterilmente antinaturali se fossero private della memoria, la quale, nel donare loro continuità, definire il progresso delle arti o scandire la rivoluzione delle fasi storiche, assicura una valenza civile – impedendo il ripetersi di possibilità già esplicate (come, ad esempio, nel caso delle cattive leggi), Id., De umbris, pp. 132-3: «Haec est quae mediate sensibilia praeterita et absentia praesentia reddit atque conspicua; hinc quidem visu sensibilia per sculpturam atque picturam, inde vero fluentia verba et quasi in nihilum prodeuntia, stabilia fixaque reddit per scripturam. Insuper et conceptus et silentes intentiones, cominus comunicabiles, eminus ad omnia loca transmittit atque tempora». 28
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oppure perpetuando l’immagine e la memoria di grandi uomini – che è centrata sul ruolo attivo e produttivo dell’uomo. Se dunque all’interno del ciclo vicissitudinale trova posto e giustificazione anche la memoria, nei termini sopra descritti, natura, arte umana ed esperienza non sono più in contrasto, almeno non sotto ogni aspetto, poiché l’agire dell’uomo apre uno spazio limitato che è comunque naturale, perché naturalmente creativo. Certo, da un punto di vista macrocontestuale, la natura non è dominabile secondo i principi che caratterizzano la progettualità umana, poiché essa si muove di trasformazione in trasformazione, «secondo moto e tempo»29, con una ‘ragione’ interna e una forza attuativa universale della quale anche l’uomo è parte e, appunto, strumento; d’altro canto, se l’azione umana e la memoria sono anzitutto ‘fatti’ fisici, cioè naturali, non può che conseguirne che l’uomo deve compiersi tutto secondo la ‘sua’ natura, ossia nella storia, nella società e per mezzo dell’azione civile e della filosofia. Conoscere l’uno Uno dei passi più eloquenti che sono stati richiamati a proposito del rapporto tra arte e natura, anima mundi e conoscenza umana, si conclude con l’esortazione a farsi tutt’uno con il principio di animazione universale: «per acquisire un’arte assoluta e perfetta ti devi dunque congiungere all’anima del mondo e operare in unione con quest’anima»30. Il primo e immediato corollario di questo congiungimento, richiesto a chi vuole ‘agire’ profondamente e creativamente, è che l’azione stessa cambierà la propria natura, facendosi più che spontanea: Quando dunque qualcosa si produce secondo quanto sembra richiedere a tale materia l’essenza stessa della sua anima, ciò non accade né per intervento di un proposito esterno, né per una ponderata riflessione – questo è il modo
Cfr. Ibid., p. 134: «Quod libere sive fatum, sive necessitatem, sive bonum, sive demourgon, sive mundi animam, sive naturam appellare consuevere, ab imperfectis ad perfecta, inferioribus istis communicanda, motu atque tempore procedit, quod in omnibus, et singulis est idem principium». 30 Id., Sigillus, pp. 258-9: «Ut igitur absolutam consummatamque artem adipiscare, animae mundi te copulari cumque ipsa copulatum agere oportet, quae naturali foecunditate rationibus plena mundum rationibus similibus plenum generat». 29
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in cui fabbrica l’arte, che è posteriore alla natura e la emula –, ma come se la natura facesse esplicare dall’interno la forma che attualmente si presenta31.
L’operatività umana si fa ‘naturale’ non solo nel momento in cui si rende ‘automatica’, piuttosto quando essa è ‘non-mediata’, cioè intuisce la forza essenziale di determinati principi e, nel metterli in pratica, opera come se il soggetto stesso agisse dall’interno della materia e con le sue medesime dinamiche. Ciò significa agire nella piena consapevolezza di sé, poiché la sostanza e il sostrato che siamo chiamati ad ‘animare’ sono la mente stessa e lo spazio fantastico nel quale essa elabora, quasi crea ‘fisicamente’, i propri contenuti. Una simile chiave di lettura, che necessita dell’acquisizione di un ‘metodo’ per operare di concerto con la natura, è mostrata del resto anche nel De la causa, investendo tuttavia, secondo un’articolazione maggiore, diversi e molteplici piani disciplinari, pur nel comune sfondo filosofico: «tra le specie della filosofia, quella è la meglior che più comoda et altamente effettua la perfezzion de l’intelletto umano, et è più corrispondente alla verità della natura, e quanto sia possibile [ne renda] coperatori di quella»32. La «perfezione» dell’intelletto è un tutt’uno con l’aspirazione a «cooperare» con la natura e ciò può avvenire secondo distinte modalità: «divinando» – e si vedrà tra poco secondo quali termini –, «ordinando leggi e riformando costumi», «medicando», infine «conoscendo, e vivendo una vita più beata, e più divina»33. A questo ultimo risvolto sapienziale si affiancano quindi tre modalità ‘pratiche’, tra le quali una espressamente ‘civile’, cioè governare e riformare le istituzioni e la società; a questa modalità – che, non a caso, nello Spaccio è definita «arte delle arti», creando un significativo e ulteriore corto circuito tra anima mundi e praxis civile34 – viene affiancata l’arte del medicare, per la quaIbid., pp. 260-1: «Cum igitur aliquid ita perficitur, prout animae illius essentia ad talem materiam requirere videtur, non fit adventitia quadam sententia et expectata consideratione – ita enim ars, quae posterior est et emula, fabricat –, sed velut ab intrinseco praesentem formam explicante natura». 32 Id., De la causa, p. 244. 33 Ibid., p. 245. 34 Cfr. Id., Spaccio de la bestia trionfante, p. 540: «ché certo bisogna che sia cosa divina, arte de le arti, e disciplina de le discipline quella per cui hanno da esser retti e reprimuti gli uomini, che tra tutti gli animali son di complessioni più distinti, di costumi più varii, d’inclinazioni più divisi, e di voluntadi più diversi, di appulsi più inconstanti». 31
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le nessuno «può aver buono principio», se «non ha buon termine di filosofia»35. Per prima nell’elenco compare però la capacità di divinare, dalla quale però Bruno esclude quei tipi di divinazione che si compiono «per ordine naturale, e raggione di vicissitudine», «per animale istinto come fanno le bestie, e que’ che gli son simili», «per ispirazione di buoni, o mali demoni, come fanno i profeti», infine, «per melancolico entusiasmo, come i poeti et altri contemplativi»36. Il rifiuto di queste accezioni del divinare, in quanto non derivano dall’acquisizione di una superiore consapevolezza filosofica e quindi, pur nella loro presunta spontaneità, non sono in linea con la natura e non realmente cooperatrici con essa, rimanda direttamente a due nozioni centrali del percorso gnoseologico di Bruno: quella di contractio, esaminata nella prima parte del Sigillus sigillorum, e quella di furore, oggetto del De gli eroici furori. In entrambi i casi l’opera di potenziamento intellettuale viene contrapposta a stati in cui la coscienza ha un ruolo passivo; con la contrazione e il furore Bruno cerca infatti di definire lo sforzo di approssimazione da parte della conoscenza all’unità originaria percepita e intravista dietro l’infinita varietà del mondo naturale. In particolare, la contractio animi consiste in un’azione interiore volta a «contrarre lo spirito, chiamarne a raccolta le forze, tendere l’animo a riflettere» con lo scopo di «intendere le proprie riflessioni e ritenere le proprie intellezioni, e formare e concepire […] nuove impressioni»37. Contrarre l’animo significa concentrare le funzioni cognitive all’interno di sé, attraverso una determinata rappresentazione interiore, come un’impressione affettiva, un’immagine, un’idea, affinché tutta la forza vitale e mentale di cui siamo dotati possa essere convogliata su di essa con la massima efficacia possibile, conseguendo così uno stato di coscienza potenziato rispetto agli obiettivi intellettuali che ci siamo prefissi. In questo senso Bruno considera «quindici specie di contrazione»38, in base all’oggetto della concentrazione e alle possibili finalità verso le quali essa è rivolta: tra queste ammette anche modalità non sostenute o indirizzate dalle giuste motivazioni etiche e quindi di Id., De la causa, p. 245. Ibid. 37 Id., Sigillus, pp. 252-3: «Ex his habes contemplandi locum, quot modis frugaliter, inutiliter et pertiniciose spiritum contrahere, vires accire, animum intendere ad speculandum, speculata intelligendum et intellecta retinendum novasque per temet formandum et concipiendum impressiones valeas». 38 Cfr. ibid., pp. 226-52. 35 36
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per sé nefaste. L’aspetto negativo, così come avveniva per i modi di divinazione esclusi nel brano del De la causa, non riguarda in realtà la finalità preposta, ma è individuato nella maggiore o minore componente attiva di tali intenzioni: a colui che si confronta «troppo spesso con le immagini fantastiche e non come chi le comprende, ma come chi ne è compreso», può infatti succedere di trovarsi «nel novero di quelli che sono agiti e non di quelli che agiscono», risultare cioè un soggetto passivo e vittima della propria stessa ‘illusione’, «sconvolgendo completamente la fantasia con la vana contemplazione dei suoi prodotti», finendo «per incorrere in una miserabile insensatezza»39. Essendo la contractio un’esperienza che è, al contempo, gnoseologica e pratica, essa costituisce pertanto una sorta di strumento a disposizione del sapiente, che può essere rivolto ‘verso il basso’ o farne un mezzo attivo di potenziamento intellettuale. Il valore teorico di questa possibilità conoscitiva e al contempo operativa, protesa verso l’unità della sostanza, risiede nell’opposto movimento di esplicazione e moltiplicazione del principio formatore universale stesso nella realtà materiale, anch’esso definito, nel Sigillus sigillorum, attraverso il termine contractio40: Ibid., pp. 252-3: «Illud tamen importunius spectandum, ut maxime caveas, ne in phantasmata nimium incurrens nec velut ea comprehendens, sed potius tamquam ab iisdem comprehensus – quemadmodum in Antipheronte factum ferunt –, in eorum numero qui aguntur potius quam agant te constituas. Tales diximus, qui victus ratione, solitudine, silentio, umbra, perunctione, flagris, calore, frigore vel tepore, spiritu hinc contracto, inde abacto, vana phantasmatum meditatione perturbata phantasia, miserabilem incurrunt insensationem». 40 La prima accezione del termine contractio deriva da una tradizione ermetizzante e neoplatonica che ha, nel caso di Bruno, come fonti primarie Ficino (in particolare la Theologia Platonica e il De raptu Pauli, cfr. E. Scapparone, ‘Raptus’ e ‘contractio’ tra Ficino e Bruno, in Letture bruniane I-II del Lessico intellettuale europeo 1996-1997, a cura di E. Canone, Pisa-Roma 2002, pp. 263-85) e il De occulta philosophia di Cornelio Agrippa. La seconda, invece, trova fondazione nel lessico di Cusano e, nello specifico, nelle riflessioni condotte nei capitoli III-VI del secondo libro del De docta ignorantia, dove si esamina il modo in cui la divinità dalla sua assolutezza si ‘contrae’ per comunicarsi all’universo e a tutte le cose, secondo una progressione ‘matematica’: «Et ita reperimus tres universales unitates gradualiter descendentes ad particulare, in quo contrahuntur, ut sint actu ipsum. Prima absoluta unitas omnia complicat absolute, prima contracta omnia contracte. Sed ordo habet, ut absoluta unitas videatur quasi primam contractant complicare, ut per eius medium alia omnia; et contracta prima videatur secundam contractant complicare, et eius medio tertiam contractam; et secunda con39
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La prima [modalità di contrazione è quella] per cui la forma assoluta si fa forma di questo e di quell’ente […]; per la seconda forma di contrazione la natura inferiore […] congiunge se stessa in quanto è partecipe della molteplicità e congiunge in uno i molti che partecipano di essa. La prima contrazione è quella per cui la forma infinita e assoluta attraverso l’essenza si definisce a questa e a quella materia; la seconda è quella per cui la materia infinita e indeterminata attraverso il numero si determina a questa a quella forma41.
La contrazione descrive dunque, nel suo senso più originario, la concrezione dell’uno, l’attuazione dell’essere nelle singole cose e, in un senso più ampio, il rifulgere dell’unità nella totalità; l’unità è la fonte, il motore e il fine di un movimento espansivo e moltiplicativo, di conseguenza è anche il nucleo animatore del processo ad esso contrario. La contractio animi, che coinvolge esclusivamente il piano psicologico e gnoseologico, ha dunque come parametro fondamentale di riferimento l’uno: muove dall’unificazione degli oggetti della contemplazione e mira all’unità dell’interiorità. Il medesimo orizzonte concettuale traspare anche sullo sfondo dell’esperienza del furioso e nel concetto stesso di furore; anche la sua definizione, infatti, riprendendo un paradigma simile a quello che orienta il brano del De la causa dal quale si è partiti, è sottoposta a un vaglio selettivo che tende a distinguere, anzitutto, quei furori che «non mostrano che cecità, stupidità et impeto irrazionale» da quelli che «consisteno in certa divina abstrazzione per cui dovegnono alcuni megliori in fatto che uomini ordinarii»42. Rispetto al furore virtuoso e sapienziale, che porta a un potenziamento delle forze interiori e, da questo, ad un potenziamento intellettuale, Bruno distingue, nuovamente, tra una modalità passiva ed una attiva, che consiste nello sforzo di approssimazione e trasformazione di se stessi in direzione della tracta tertiam contractam, quae est ultima universalis unitas et quarta a prima, ut eius medio in particulare deveniat. Et sic videmus, quomodo universum per gradus tres in quolibet particulari contrahitur» (N. Cusano, De docta ignorantia, II, VI, p. 79). 41 Bruno, Sigillus, pp. 294-7: «Duplici ergo existente contractione: altera, qua absoluta forma fit huius illiusque in hoc et in illo forma […]; altera contractio est, qua inferior natura […] multitudo particeps colligitur, et multa participantia colligit in unum. Prima contractio est, qua per essentiam infinita et absoluta forma finitur ad hanc et ad illam materiam; secunda est, qua per numerum infinita et indeterminata materia ad hanc illamque formam terminatur». 42 Id., De gli eroici furori, p. 805.
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verità divina e che quindi, pur non potendo travalicare i termini della propria coscienza, ne porta al massimo grado il potenziale gnoseologico. I furori di tipo ‘passivo’, dei quali sono preda gli uomini «nelli quali come vòti di proprio spirito e senso, come in una stanza purgata, s’intrude il senso e spirto divino», «hanno più dignità, potestà et efficacia in sé: perché hanno la divinità»; tuttavia gli uomini ricolmi di questi furori «son degni come l’asino che porta i sacramenti», poiché in essi «si considera e vede in effetto la divinità e quella s’admira, adora et obedisce»43. I furori di tipo ‘attivo’, quelli cui Bruno guarda con favore, sono «più degni, più potenti et efficaci»: infatti gli uomini che sanno suscitarli in se stessi possono essere considerati «divini» – e non posseduti dal divino – perché in loro «si considera e vede l’eccellenza della propria umanitade»44. Nel furore che viene definito ‘eroico’, l’uomo si ‘fa’ divino non perché viene ad essere riempito dalla divinità e, posseduto da essa, ‘agito’ dallo spirito, ma perché egli opera in modo da essere tutto se stesso, cioè nella massima consapevolezza e coscienza di tutte le proprie facoltà e potenzialità umane e nella piena attuazione di esse: Questi furori de quali noi raggioniamo, e che veggiamo messi in execuzione in queste sentenze, non son oblio, ma una memoria; non son negligenze di se stesso, ma amori e brame del bello e buono con cui si procure farsi perfetto con transformarsi et assomigliarsi a quello. Non è un raptamento sotto le leggi d’un fato indegno, con gli lacci de ferine affezioni: ma un impeto razionale che siegue l’apprension intellettuale del buono e bello che conosce; a cui vorrebbe conformandosi parimente piacere, di sorte che della nobiltà e luce di quello viene ad accendersi, et investirsi de qualitade e condizione per cui appaia illustre e degno45.
La dialettica del furore è complessa; più che il conseguimento di uno status, è una tensione portata tra l’unità dell’interiorità e quella del tutto. I canali attraverso i quali essa passa sono espliciti: innanzitutto la «memoria», che è stratificazione e coscienza del vissuto e, di conseguenza, pienezza del sé, intesa anche in senso affettivo – mediata cioè dall’uso consapevole delle immagini fantastiche –, oltre che gnoseologico, secondo le direttrici teoriche che vincolano la memoria all’azione 43 44 45
Ibid., p. 806. Ibid. Ibid.
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naturale e che abbiamo precedentemente esposte. In secondo luogo vi è il tendere verso il bello, che implica l’attenzione e l’attrazione per l’esperienza naturale, ma anche il potenziamento intellettuale rispetto a ciò che è vero: il furore è quindi vincolato alla «luce» – lemma che, nei Furori, è continuamente connesso all’asse bene/bello – poiché indirizza alla scoperta della ‘divinità’ attraverso la conoscenza naturale. Infine vi è il riconoscimento della duplicità della forza – emotiva e razionale – richiesta al progresso dell’intelletto, evocata nella nozione stessa di furore eroico; esso connota infatti l’impeto di colmare e superare lo scarto tra il piano divino e quello umano, passaggio che può essere compiuto solamente grazie a quanto è concretamente posto tra i due, cioè la natura: è solo essa, infatti, e non il divino in sé, che può essere colta nella sua infinità, se il furioso esplica e attua tutto il proprio potenziale logico e psicologico. In questo senso gli ‘eroici furori’ descrivono una praxis intellettuale che permette al furioso di portarsi, in un impeto estremo, sulla soglia del cono d’ombra che circoscrive la conoscenza umana: da una dimensione depotenziata e frammentaria del vero, come già nel De umbris e nel Sigillus, si indirizza verso il campo luminoso della verità, fino a lambirne i margini. La tensione di questa sfida intellettuale, ‘eroica’ in quanto conduce al limite della condizione umana stessa, è tale che, oltre a dover fare ricorso agli strumenti del conoscere, necessita del costante apporto della volontà, dell’amore, del cuore («che significa tutti l’affetti in generale»)46, richiede cioè il massimo concorso della fantasia nel suo senso più attivo e creativo. Si tratta di un punto decisivo per la prospettiva gnoseologica bruniana: senza il coinvolgimento consapevole degli ‘affetti’, cioè della potenza proiettiva dell’immaginazione, non è possibile né avere accesso a una lettura corretta e completa della realtà esteriore, né tanto meno comprendere se stessi, ovvero cogliersi come «specchio» nel quale il mondo è riflesso e, in virtù di ciò, rendersi conto che nel fondo dell’identità agisce e opera creativamente il medesimo principio vitale del mondo naturale47. Del resto, se l’oggetto della ricerca del furioso è l’intuizione della verità, in quanto verità del mondo, di sé e del tutto, non è possibile che ciò possa essere colto scindendo l’aspetto ‘spirituale’ da quello ‘corporeo’, la vitalità da ciò che è vivo, la forma dalla materia; semmai è dalla forza della corporeità, dall’esperienza profonda di essa che il furioso riesce ad intuire quello che vi è oltre, la sostanza della realtà: «l’a46 47
Ibid., p. 892. Cfr. S. Bassi, Affetto, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, I, ad v.
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mor di bellezza corporale a color che son ben disposti non solamente non apporta ritardamento da imprese maggiori, ma più tosto viene ad improntargli l’ali per venire a quelle»48. Il proprio corpo e quello della natura costituiscono dunque il luogo della massima sfida per il furioso, poiché possono indurlo a disperdersi nella frammentarietà dei fenomeni, oppure a servirsi di essi come «immagine», «simulacro» e simbolo dell’unità divina; così «la moltitudine, numero e volgo delle potenze de l’anima» «è diviso in due fazioni […] de le quali altre invitano a l’alto dell’intelligenza e splendore di giustizia; altre allettano, incitano e forzano in certa maniera al basso»49; tuttavia «è dimostrato che il senso di cose basse è attenuato et annullato dove le potenze superiori sono gagliardamente intente ad oggetto più magnifico et eroici»50, citando come esempio di ciò, e non a caso, le forme di «contrazzione» del Sigillus sigillorum: «onde la speranza, la gioia, e gli diletti del spirito superiore siano di tal sorte intenti, che faccian spente le passioni tutte che possano aver origine da dubbio, dolore e tristezza alcuna»51. Tutto ciò si traduce nell’ambigua lotta tra intelletto e mondo esteriore, ricerca dell’uno nella complessità e totalità dell’esperienza e, al contempo, nella radice sostanziale che fonda l’unità dell’interiorità, fino a raggiungere una sintesi ideale grazie alla quale l’uomo possa intuire l’identità e convergenza sostanziali dei due piani: È vero che tal volta avendo per fida scorta l’amore, ch’è gemino, e perché tal volta per occorrenti impedimenti si vede defraudato dal suo sforzo, allora come insano e furioso mette in precipizio l’amor di quello che non può comprendere: onde confuso da l’abisso della divinità tal volta dismette le mani, e poi ritorna pure a forzarsi con la voluntade verso là dove non può arrivare con l’intelletto. È vero pure che ordinariamente va spasseggiando, et or più in una, or più in un’altra forma del gemino Cupido si trasporta; perché la lezion principale che gli dona Amore, è che in ombra contemple (quando non puote in specchio) la divina beltade52.
‘Ombra’ e ‘specchio’: due lemmi che, si è visto, sono densamente significativi per la gnoseologia bruniana, usati anche in questo fran48 49 50 51 52
Bruno, De gli eroici furori, p. 881. Ibid., p. 896. Ibid., p. 893. Ibid. Ibid., p. 807.
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gente per indicare la potenza e, al contempo, i limiti del pensiero, il radicamento dell’io nella sostanza della natura e, al contrario, lo smarrimento di sé, dovuto alla sua condizione di singolarità entro l’orizzonte infinito e universale. Il percorso e il progresso del furioso è, del resto, tracciato tra questi tre assi cardinali: la divinità intrinseca a tutte le cose, il frammentato mondo dell’esperienza e la fonte unitaria di sé, la quale può generare un’immagine veritiera del mondo, pur dietro il velo proteiforme delle ombre fantastiche, se colto nelle sue componenti produttive e vitali, in quanto espressioni del primo principio. La corretta lettura di tali dinamiche, con la conseguente messa in relazione di interiorità e mondo esteriore, è lo scopo finale della ‘caccia’ del furioso; non quindi la ‘visione’ di Dio, ma l’intuizione che in se stessi vi è il divino della natura, inferendone di fatto l’identità: «a nessun pare possibile de vedere il sole, l’universale Apolline e luce absoluta per specie suprema et eccellentissima; ma sì bene la sua ombra, la sua Diana, il mondo, l’universo, la natura che è nelle cose, la luce che è nell’opacità della materia: cioè quella in quanto splende nelle tenebre»53. Questo tipo di conoscenza è comunque trasformatrice dell’io stesso, poiché non è la semplice acquisizione di un particolare contenuto, ma, attraverso un sistema di nozioni e un modo innovativo di considerarle tutte assieme, porta all’estrema identificazione del soggetto con l’oggetto ultimo del pensiero, annullandosi in esso: Perché il fine ultimo e finale di questa venazione è de venire allo acquisto di quella fugace e selvaggia preda, per cui il predator dovegna preda, il cacciator doventi caccia; perché in tutte le altre specie di venaggione che si fa de cose particolari, il cacciatore viene a cattivare a sé l’altre cose, assorbendo quelle con la bocca de l’intelligenza propria; ma in quella divina et universale viene talmente ad apprendere che resta necessariamente ancora compreso, assorbito, unito54.
Lo scarto tra l’unità assoluta del piano divino e la molteplicità del mondo fenomenico/umbratile viene così colmato e mediato dall’idea dell’universalità e vitalità della natura e, sul fondo di questa, della sostanziale unità ontologica di ogni cosa, identità personale compresa; il cerchio si può chiudere perché, come nel movimento discensivo che
53 54
Ibid., p. 920. Ibid., pp. 920-1.
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caratterizza la generazione di tutte le cose, l’unità è resa, anche sul piano gnoseologico, fonte, via e meta della ricerca: Vede l’Amfitrite, il fonte de tutti numeri, de tutte specie, de tutte raggioni, che è la Monade, vera essenza de l’essere de tutti; e se non la vede in sua essenza, in absoluta luce, la vede nella sua genitura che gli è simile, che è la sua imagine: perché dalla monade che è la divinitade, procede questa monade che è la natura, l’universo, il mondo; dove si contempla e specchia, come il sole nella luna, mediante la quale ne illumina trovandosi egli nell’emisfero delle sustanze intellettuali55.
Lo stesso oggetto, cioè l’unità che è radice sostanziale della totalità fenomenica della natura, era, del resto, anche l’obiettivo della praxis intellettuale proposta dal Sigillus sigillorum, non a caso definito, nel frontespizio, ars artium, proprio per l’intento universalistico del suo approccio metodologico e interdisciplinare, anche se corroborato da numerosi riferimenti filosofici56. Nel tentativo di invertire il ritmo del movimento discensivo il compito del ‘filosofo’ è infatti quello di ‘ascendere’ alla verità che è dietro la natura, attraverso la natura stessa e il sé, dal momento che la natura può essere conosciuta non tanto in quanto oggetto specifico (che è infinito), ma sotto la specie delle forze vitali che la animano, in qualità di ‘sistema’ universale e, in ultimo, come proiezione e introiezione di tutto questo nella dimensione fantastica: mediante memoria e intelletto potrai concepire la struttura e la scansione ordinata dei tre mondi, insieme a tutto quanto essi contengono. E non appena avrai esposto quest’utero e matrice mirabile alla luce che si propaga da occidente o da oriente, dalla mezzanotte o dal mezzogiorno, subito correrai ad abbracciarla57.
Ibid.; cfr. sulla dinamica della ‘caccia’ del furioso, cfr. S. Carannante, Giordano Bruno e la caccia divina, Pisa 2013. 56 Bruno, Sigillus, p. 34: «Et non temere ars artium nuncupatur, hìc enim facilè invenies quidquid per logicam, metaphysicam, cabalam, naturalem magiam, artes magnas atque breves theoricè inquiritur». 57 Ibid., pp. 194-5: «Sic memoria et intellectu mundi triplicis fabricam atque seriem, non sine iis quae continentur in eo, concipere valebis atque parere. Uti uterum ipsum atque matricem admirandam propaganti lumini exposueris ab hespero vel ab ortu, a merinoctio vel a meridie, ita occurrens ipsum amplecteris». 55
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Ancora una volta, ben prima di una constatazione solo metodologica o, all’altro estremo, astrattamente speculativa, la base per una tale consapevolezza – grazie al duplice apporto di memoria e intelletto – finisce per consistere in una praxis contemplativa centrata sull’unità, chiave di volta di tutto il percorso intellettuale della gnoseologia bruniana; l’uno non va solo utilizzato, o pensato, ma soprattutto vissuto nell’esperienza e nei modi stessi del conoscere: Abbiamo voluto svolgere queste considerazioni non perché qui ci sia spazio per riflettere sulla natura di realtà simili, ma per insegnare a cercare, pensare e produrre l’unità in ogni molteplicità, l’identità in ogni diversità. Chi infatti non dispone, cerca, intende e fa l’uno nulla dispone, nulla cerca, nulla intende e nulla fa; chi non conquista da sensi molteplici e da molteplici gradi di conoscenza un senso unico e una conoscenza unica e semplice non possiede alcun senso, alcuna conoscenza; chi infine non conosce questa unità e non opera attraverso di essa nulla conosce e nulla intende. Conformandosi ai gradi dell’unità di cui tutto è partecipe alcuni sanno invece conoscere e agire in modo partecipativo58.
Dopo aver compreso la necessità teorica e al contempo pratica di una visione unitaria dell’esperienza naturale, anche come controparte metodologica di una concezione del divino che si realizza totalmente nella natura, il passo ulteriore consiste dunque nel percorrere in modo attivo e creativo la via dell’unità nella propria interiorità, inscenando dentro di sé – anche grazie all’arte della memoria – le medesime dinamiche generative, ma, soprattutto, creando un orizzonte di consapevolezza che è centrato sull’idea dell’uno, inteso come centro ontologico di generazione e propagazione di ogni cosa. Ciò vale – cogliendo così il senso più profondo della gnoseologia bruniana – non solamente per la mnemotecnica, la quale (per il coinvolgimento affettivo e per l’uso delle immagini) svolge senz’altro un ruolo privilegiato tra le ‘pratiche Ibid., pp. 224-6: «Haec non quia de istarum rerum natura hic considerandi locus habeatur, tractasse volumus, at vero ut in omni multitudine unitatem, in omni diversitate identitatem tentare, meditari et efficere doceamus. Qui enim non disponit, quaerit, intelligit et facit unum, nihil disponit, nihil quaerit, nihil intelligit, nihil facit; qui ex multiplici sensu et multiplici cognitionis gradu unum sensum simplicemque unam cognitionem non est adeptus, nullum possidet sensum, nullam cognitionem; qui tandem ipsam non cognoscit et per eam non operatur, nihil cognoscit et nihil operatur. Pro gradibus autem participatae unitatis quidam participative cognoscunt et agunt». 58
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intellettuali’, ma anche per altre discipline operative analizzate da Bruno nelle sue opere, come la magia naturale, la geometria, la medicina, la teoria dei vincoli e, in modo particolare, l’azione politica e civile: tutti questi ambiti devono essere, sia tecnicamente che teoreticamente, disciplinati dal principio unitario, colto nella sua infinita espressione e vicissitudine naturale, fino alle ultime e più complesse intuizioni legate alla nozione di minimo e ad una prospettiva materialistica di tipo atomistico/corpuscolare. Il metodo dell’uno L’unità nella complessità e molteplicità dei fenomeni, l’omogeneità sostanziale nell’eterogeneità e diversità degli enti; continuità, ciclicità e trasformazione nella vicissitudine: sono queste le cifre dominanti attraverso le quali leggere la realtà naturale, con il fine di scoprire, dietro ognuno di questi aspetti, la sostanziale identità di interiorità e natura. Ciò, come si è visto, non costituisce solo un obiettivo gnoseologico, un contenuto da pensare, comprendere e fare proprio, ma – unica condizione, tra l’altro, per acquisirlo veramente e stabilmente – è anche un percorso intellettuale/affettivo da vivere in prima persona, praticandolo nell’interiorità, con il ‘mettere in scena’ un modello fantastico e, al contempo, concettuale, fatto delle cose stesse che sappiamo e, soprattutto, della consapevolezza di come le sappiamo, di come esse sono prodotte dal nostro stesso pensiero. Una praxis, quindi, fondata sulla comprensione che il pensare creativo è in ultimo un atto naturale, che ha il suo punto di partenza e di arrivo nell’idea di unità, il suo mezzo privilegiato nella visualità interiore (anche in chiave mnemotecnica, ma non solo) e il suo ‘metodo’ nella strutturata e dinamica organizzazione dei concetti. La fondazione di quest’ultimo, che viene delineato nelle opere di argomento lulliano, oltre che in quelle sull’arte della memoria, va ricercata, infatti, nell’affermazione di un principio ordinatore che, così come ogni altra attitudine creativa e attiva del soggetto pensante, sia massimamente conforme alle dinamiche e agli schemi costitutivi del tessuto naturale: esso consiste, in ultimo, in una comprensione organica e unitaria della complessità e pluralità dei fenomeni esperiti. La dialettica bruniana, come anima logica e teorica delle artes speculative, compresa quella mnemotecnica, nasce pertanto da un confronto analitico con la realtà che è anzitutto colta in quanto molteplice ed eterogenea:
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Guarda del resto quanto sia grande la varietà manifestata dall’eccelsa natura. Varie sono le membra del mondo. Varie sono le specie nelle membra del mondo. Varie sono le figure degli individui nelle singole specie: nessuna oliva è identica a un’altra, nessun uomo è totalmente simile a un altro. Ecco che tutte le cose sono contraddistinte da caratteri differenti in ragione della propria capacità, ciascuna è distinta dall’altra e tutte da tutte per le proprie differenze, quasi in virtù di appropriati confini. Per conformarti dunque alla natura, cerca di portare la diversità in tutte le cose59.
Per agire operativamente nell’interiorità occorre «comprendere quanto grande sia la potenza della varietà e quanto conforme alla natura»60, poiché la natura nel creare le cose ricorre alla varietas61, mentre l’alterità è la necessaria conseguenza dell’affermazione dell’identità: «ente e uno si dicono reciprocamente; ciò che non è uno, non è ente; ma proprio per questo motivo sentiamo che ciascuna cosa è uno, perché a suo modo è determinata dalla propria differenza»62. La diversità non è quindi solo un aspetto superficiale del contesto mondano, ma è espressione nel contingente delle caratteristiche formali degli enti; essa sorge per la condizione del loro stesso essere e deriva dall’azione creativa della natura, all’interno di una dinamica forma/materia
Id., De umbris, pp. 164-5: «Aspicis proinde quam sit ab eminente natura prelata varietas. Varia sunt mundi membra. Variae sunt in membris mundi species. Variae sunt in speciebus individuorum figurae: non enim altera olea alteri oleae prorsus est configurata, non alter homo prorsus alteri similis. Itaque differentiis omnia sunt pro capacitate distincta, singula a singulis omniaque ab omnibus propriis secernuntur tanquam finibus differentiis. Tenta igitur naturae conformaturus in omnibus diversitatem». 60 Ibid., pp. 178-9: «Quantum quippe valeat naturaeque consona sit varietas, ex supradictis desumi potest». 61 La varietà è, come si è già osservato, una cifra consustanziale alla struttura del mondo: «Il scopo e la causa finale la qual si propone l’efficiente, è la perfezzion de l’universo: la quale è che in diverse parti della materia tutte le forme abbiano attuale existenza: nel qual fine tanto si deletta e si compiace l’intelletto, che mai si stanca di suscitando tutte sorte di forme da la materia» (Id., De la causa, p. 213). Cfr. F. Dell’Omodarme, Varietas, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, II, ad v. 62 Bruno, De umbris, pp. 164-5: «Vicissim quidem dicuntur ens et unum; quidquid unum non est, ens non est; numquodque autem hoc ipso unum esse sentimus, quia modo suo propria terminatur differentia». 59
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che intreccia l’unità e l’omogeneità del sostrato unico, con l’alterità e la pluralità delle possibilità da attuare in esso63. Allo stesso modo e specularmente a ciò, seppure l’uomo, nell’esperienza del mondo, è posto di fronte ad un orizzonte composito di eterogenee identità, esse devono comunque essere ricondotte ad una visione unitaria; non si tratta tuttavia di un movimento intellettuale che, anche da un punto di vista ‘pratico’, riposa sull’appiattimento indifferenziato della pluralità, piuttosto esso si fonda sull’idea della composita e organica complessità delle cose: «considera che questo mondo corporeo non avrebbe potuto essere bello se le sue parti fossero risultate del tutto simili. La bellezza si manifesta dunque nella connessione di varie parti, e in questa medesima varietà consiste la bellezza del tutto»64. Ancora una volta torna in scena la nozione di bello per definire la convergenza tra il piano meramente filosofico e quello degli «affetti», dimensione estetica e spazio logico, entro una comune cornice teorica che è tesa a naturalizzare l’esperienza e il pensiero umani; tale nozione ribadisce del resto che la percezione sensibile del mondo deve essere filtrata da una lettura intellettuale che ha come paradigma concettuale l’idea dell’unità: Vero caos di Anassagora è la varietà priva di ordine. Così dunque nella stessa varietà delle cose possiamo scorgere un ordine mirabile, che connettendo supremi e infimi, infimi e supremi, fa sì che tutte le parti si congiungano armonicamente per creare il volto bellissimo di un unico grande animale – quale è il mondo –, poiché un ordine così grande richiede diversità altrettanto varie, e differenze tanto varie richiedono un ordine altrettanto grande – nessun ordine sussiste infatti dove non si dà alcuna diversità65.
Cfr. Id., De la causa, p. 262: «quello che è comune tien luogo di materia, quello che è proprio e fa distinzione, tien luogo di forma». 64 Id., De umbris, pp. 58-9: «Considera, mundum istum corporeum, partibus eius omnino similibus existentibus, formosum esse non potuisse. In variorum ergo connexione partium pulchritudo manifestatur, et in ipsa varietate totius pulchritudo consistit». 65 Ibid., pp. 58-9: «Verum Anaxagoricum chaos est sine ordine varietas. Sicut igitur in ipsa rerum varietate admirabilem concernimus ordinem, qui supraemorum cum infimis et infimorum cum supremis connexionem faciens, in pulcherrimam unius magni animalis – quale est mundus – faciem universas facit conspirare partes, cum tantum ordinem tanta diversitas et tantam diversitatem tantus ordo requirat – nullus 63
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L’unità ordinata e organica della complessità non è dunque solamente la cifra che caratterizza costitutivamente il sussistere delle cose nella natura, ma anche il parametro teorico da porre alla base della sua contemplazione; ed è in quanto tale che essa diviene paradigma metodologico per dirigere il pensiero: «quando muovendo da una pluralità confusa sarai capace di accedere ad una unità distinta, allora veramente scoprirai e sperimenterai di aver concluso l’itinerario da noi descritto»66. Ciò non significa, come puntualizza Bruno stesso nel De umbris idearum in margine a queste riflessioni, estremizzare al massimo l’universalizzazione dei concetti, ovvero generalizzare e «gonfiare a dismisura gli universali logici»67, piuttosto indica che occorre strutturare i dati dell’esperienza, «quasi muovendo da parti informi e molteplici», in «una totalità unica e armoniosamente formata»68. L’esempio che in proposito ci viene fornito è eloquente e rimanda, per l’ennesima volta, ad un piano speculativo più pregnante, il quale ha come riferimento principale la natura infinita, intesa come unione di parti molteplici, tutte comunque funzionali ad un’unità organica e totale: La mano congiunta al braccio, il piede alla caviglia e l’occhio alla fronte, una volta posti insieme, hanno la capacità di essere conosciuti in modo più chiaro di quando sono posti separatamente l’uno dall’altro; allo stesso modo, poiché nessuna delle parti e configurazioni dell’universo è posta separatamente e fuori dall’ordine – che nella prima mente è semplicissimo, perfettissimo e indipendente dal numero –, se costituiremo i nostri concetti congiungendo l’una con l’altra le diverse parti e unendole secondo ragione, cos’è che non potremo intendere, ricordare e fare?69
enim ordo, ubi nulla diversitas extat, reperitur –, unde primum principium nec ordinatum nec in ordine licet intelligere». 66 Ibid., pp. 100-1: «Talem quidem progressum tunc te vere facere comperies et experieris, cum a confusa pluralitate ad distinctam unitatem per te fiat accessio». 67 Ibid.: «Id enim non est universalia logica conflare». 68 Ibid.: «sed quasi ex informibus partibus et pluribus formatum totum et unum aptare sibi». 69 Ibid.: «Sicut manus brachio iuncta pesque cruri et oculus fronti, cum sunt composita, maiorem subeunt cognoscibilitatem quam posita seorsum, ita, cum de partibus et universi speciebus nil sit seorsum positum et exemptum ab ordine – qui simplicissimus, perfectissimus et citra numerum est in prima mente –, si alias aliis connectendo et pro ratione uniendo concipimus, quid est quod non possimus intelligere, memorari et agere?».
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L’immagine dell’ordinamento organico del corpo evoca lo stare insieme delle parti in direzione di un finalismo interno e autoportante, contribuendo ciascuna di esse in maniera funzionale e dunque costitutiva, alla composizione dell’intero. Tale criterio di organizzazione, che possiede implicitamente una fortissima valenza visuale, oltre che simbolica, non deve essere utilizzato solamente in riferimento alle raffigurazioni mnemoniche, ma, andando alla radice della loro efficacia semantica, deve essere applicato soprattutto ai concetti: rispetto a questi, ‘universale’ non indica, pertanto, l’individuazione di un termine ulteriore che esprima sinteticamente la subordinazione di molti rispetto ad uno, né, tanto meno, corrispondente a un genere ideale e reale, ma circoscrive una ‘classe’ di elementi, cioè lo stare insieme di molti termini in una nozione che si completa proprio grazie ai tanti significati raccolti dalla sua definizione. Come si è visto in precedenza, questa particolare idea del concetto universale viene modellata assecondando una visione ‘organicistica’ della natura e trova una peculiare descrizione nel De lampade combinatoria Lulliana, ove si tratta della ‘moltiplicazione’70 dei praedicata absoluta, che sono i termini più generali del sistema dialettico di Lullo. Lì si afferma esplicitamente che l’universalità di un termine consiste nel considerarlo uno spazio semantico aperto, in grado di raccogliere e abbracciare tutto ciò che in qualche modo gli può essere riferito: «quelle cose che sotto tutte le figure e le loro membra risultano conformi, simili, analoghe a quel predicato», «ma anche realtà contrarie e in qualsiasi modo avverse a queste e dissimili», «infine le circostanze e le distinzioni che caratterizzano tutte le realtà definite in precedenza»71. Bruno teorizza il mondo del linguaggio con tratti incredibilmente simili a quelli del contesto naturale, descrivendolo nei termini di una aggregazione corpuscolare di concetti e secondo una vicissitudine dei significati che trova la sua più efficace rappresentazione nell’uso delle ruote lulliane: queste – sia nella ricostruzione grafica della dialettica centro/periferia, sia nella raffigurazione stessa della circolarità – renCfr. Id., De lampade combinatoria lulliana, in Id., Opere lulliane, pp. 336-9. Ibid., pp. 338-9: «His adde cathalogum eorum quae sub figuris omnibus et earum membris illi praedicato sunt conformia, similia, analoga, et ea omnia quae per elementa proxime positae figurae denotantur, et alia; contraria item et quomodolibet his adversantia et dissimilia, quae pro negativis remotivisque discursibus habendis extant aptiora; adde dictorum omnium circumstantias atque distinctiones, prout in cuiuscunque altitudine latitudineque scalae insinuatur». 70 71
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dono visivamente conto del potenziale esplicativo e dinamico che da una radice tematica porta a molti sensi e, nel movimento contrario, mostra la forza unificatrice attraverso la quale sensi molteplici ed eterogenei possono essere ricondotti a un nucleo semantico unitario. Il paradigma combinatorio viene così innestato all’interno della dialettica bruniana – in seguito a una particolare e personale rilettura dell’ars Lulliana che ne intensifica al massimo gli aspetti generativi a discapito della stessa coerenza interna perseguita da Lullo72 –, con lo scopo di sovrapporre in maniera totale il piano della fecondità e creatività retorica con quello dell’organicità classificatoria ed ‘enciclopedica’ proprio della dialettica. Inventio e dispositio diventano così i due termini polari e, al tempo stesso, complementari della ‘logica’ bruniana, ricorrendo come centrali in tutte le sue principali opere sull’arte di Lullo e sull’arte della memoria, mentre la duplice verticalità descensus/ascensus e l’organicità dell’universo naturale che esemplificano il rapporto di dipendenza, esplicazione e riferimento tra i piani metafisico, fisico e logico, vengono tradotte nelle scale e nelle gerarchie sottese tra concetti generali e termini individuali. Creatività e organizzazione si riflettono, cognitivamente, sia nell’attitudine del pensiero a formare immagini e a trarre da esse concetti, sia nell’attività stessa di elaborare, ordinare e inferire idee dai contenuti intellettuali, passando appunto attraverso una visualità interiore che può manifestarsi, oltre che come attiva e consapevole gestione degli spazi mnemotecnici, anche e soprattutto nell’ordinata ricostruzione della trama logico-dialettica dei dati concettuali. La riproposizione sistematica di tale paradigma sul piano metodologico intreccia ugualmente logica e fantasia, mente e corpo e si riconnette con il tentativo da parte di Bruno di equiparare l’attività del pensiero con quella naturale, venendo a costituire il nucleo teorico centrale anche della sua riflessione dialettica. Ciò viene formulato in modo esplicito in una pagina assai significativa dell’Explicatio triginta sigillorum nella quale è spiegato il sigillo del «pittore»: Il primo e principale pittore è la potenza della fantasia ed il primo e principale poeta si trova nello stimolo creativo della facoltà cogitativa ed è quel tipo di entusiasmo – o innato o acquisito ex novo – per cui, o per l’ispirazione divina o per qualcosa di simile a questa, pittori e poeti sono spinti a
Sulla rilettura bruniana dell’ars combinatoria di Lullo, cfr. M. Cambi, La machina del discorso. Lullismo e retorica negli scritti latini di Giordano Bruno, Napoli 2002. 72
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rappresentare nel modo più conveniente ciò che viene pensato. Un medesimo principio è dunque comune ad entrambi e, per questo stesso motivo, i filosofi sono in qualche modo pittori e poeti, i poeti, pittori e filosofi ed i pittori, filosofi e poeti e reciprocamente i veri poeti, i veri pittori e i veri filosofi si apprezzano e si ammirano73.
La sovrapposizione tra piano visuale, creatività interiore e astrazione concettuale diviene completa nella constatazione che «non è filosofo se non chi immagina e raffigura» e ciò trova il suo fondamento ultimo nella definizione stessa dei ruoli delle specifiche funzioni cognitive, secondo il paradigma «progressivo» e generativo che abbiamo già più volte evidenziato: «riterrai […] la fantasia come un pittore, la cogitativa un poeta e la ragione un filosofo, i quali sono così ordinati e congiunti che l’azione di quello che segue non è svincolata dall’atto di quello che precede»74. L’argomentazione giunge così alla sua piena conclusione, con l’estensione del principio del pensare creativamente per immagini anche al piano dialettico, ovvero facendone un criterio direttivo per l’organizzazione dei contenuti logici e i termini del discorso: «considera tu stesso come questa sia una riflessione utile per l’analisi, l’invenzione, la disposizione ed il giudizio»75. In concreto esso agisce spingendo chi opera dialetticamente (con immagini, concetti, parole, ecc.) a muoversi nello spazio compreso tra l’assoluta universalità – cioè l’insieme massimo di tutti i significati che, in ulG. Bruno, Explicatio triginta sigillorum, in Id., Opere mnemotecniche, II, pp. 120-1: «Primus praecipuusque pictor est phantastica virtus, praecipuus primusque poeta est in cogitativae virtutis adpulsu vel connatus vel inditus noviter quidam enthusiasmus, quo vel divino vel huic simili quodam afflatu ad convenienter aliquid praesentandum excogitatum concitantur. Idem ad utrumque proximum est principium; ideoque philosophi sunt quodammodo pictores atque poetae, poetae pictores et philosophi, pictores philosophi et poetae, mutuoque veri poetae, veri pictores et veri philosophi se diligunt et admirantur». 74 Ibid.: «Non est enim philosophus, nisi qui fingit et pingit, unde non temere illud: ‘intelligere est phantasmata speculari’ et ‘intellectus est vel phantasia vel non sine ipsa’; non est pictor nisi quodammodo fingat et meditetur; et sine quadam meditatione atque pictura poeta non est. Phantasiam ergo pictorem, cogitativam poetam, rationem philosophum primum intelligito, qui quidem ita ordinantur et copulantur, ut actus consequentis ab actu praecedentis non absolvatur». 75 Ibid.: «Quomodo haec contemplatio ad inquirendum, inveniendum, disponendum et iudicandum faciat, ipse considera». 73
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timo, è il mondo stesso – e i singoli elementi concettuali, servendosi di meccanismi compositivi (per andare dal particolare al generale) o risolutivi (in direzione opposta) senza preoccuparsi della coerenza logica delle inferenze, ma servendosi piuttosto della reticolarità dei riferimenti che, in virtù della loro stessa interconnessione, riesce comunque a tenere unificato nel senso lo spazio logico. Questo spazio comune, ordinato e gerarchizzato in chiave classificatoria, diviene esso stesso un modello concettuale del mondo, cioè di tutto quello che conosciamo: esso può essere intensificato sia in senso verticale (altitudo), ossia nella trama di livelli logici che lo compongono, sia orizzontalmente (latitudo)76, ovvero nella quantità di termini che possono afferire ad uno principale – evitando però, punto sul quale Bruno insiste più volte, la sinonimia77 –, ma in generale tenendo fermi i due aspetti fondamentali della ‘dialettica’ bruniana, appunto la compositio e la divisio78. Queste due istanze, grazie alla capacità di unificare i concetti e quella di distinguerli tra di loro, si fondono in un atteggiamento metodologico dinamico e al tempo stesso unitario che affonda le proprie radici nella naturale attitudine ad acquisire e ad elaborare i contenuti dell’esperienza, ma conducono ad una progressiva costruzione della ‘rete’ semantica: Poiché dunque esistono tre operazioni dell’intelletto […] delle quali la prima è l’apprensione dei termini semplici, la seconda la composizione e di-
Si veda, a titolo di esempio applicativo, Id., De lampade combinatoria lulliana, pp. 286-93: «De schala praesentis figurae», dove altitudo e latitudo indicano la gerarchia e l’estensione semantiche da individuare nei termini della «Seconda figura» del sistema di Lullo. 77 Cfr. Id., De umbris, pp. 366-8: «Et adverte animum in hoc quod dicimus ‘proprie significari’, quia opinio est eandem rem pluribus nominibus atque diversis in eodem idiomate significari, quae sub diversis generibus articulantur. Cui nimirum iam diu est non subtus scripsimus sententiae: semper enim nescio quam ex se ipsis dictiones prae se ferunt diversae diversam – ut ita dicam – emphasim, ut non omnino idem per tunicam, vestem et indumentum intelligamus. Synonymiam igitur excludentes, nullam prorsus in hoc similibusque aliis negociis patiemur difficultatem»; Id., Sigillus, p. 276: «Nos etenim si haec per alia nomina explicare velimus, progressum numquam terminandum adoriemur: synonimiam enim puram in nominibus nullam esse credimus»; M. Matteoli, Sinonimo, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, II, ad v. 78 Cfr. M. Cambi, Dialettica, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, I, ad v. 76
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visione o verifica, la terza il discorso o l’argomentazione, il metodo dovrà ugualmente volgersi dalla prima alla seconda, dalla seconda alla terza79.
In particolare «l’apprensione dei termini semplici» è «l’atto ovvero l’azione con cui l’intelletto apprende una qualche nozione non complessa, quale è, ad esempio, il significato di un termine», oppure, spostandosi ad un livello ancora più prossimo allo spontaneo funzionamento cognitivo, «essa coincide con l’intenzione semplice, attraverso la quale, vale a dire, un termine è assunto in se stesso nella sua semplicità e non in connessione con altro o quale attributo di altro»80. La composizione, come secondo grado del procedere logico-dialettico, «connette insieme più nozioni precedentemente colte nella loro assolutezza, come accade nel momento in cui può enunciarle in quanto o reciprocamente congiunte o reciprocamente disgiunte», mentre il discorso o argomentazione è quell’attitudine a «procedere» e «avanzare» «dall’una all’altra delle composizioni o divisioni che consistono delle nozioni prima composte o distinte»81. Le tre operazioni fondamentali del pensare sono tutte definite in forma dinamica (apprehendit, connectit, componit, egreditur) e nell’ottica di una composizione reticolare; ciò serve a ribadire, del resto, la naturalità della dialettica, rispetto allo sfondo cognitivo stesso, dal momento che «noi comprendiamo non in una sorta di semplicità, stabilità e unità, ma nella composizione, nel confronto e nella pluralità, mediante discorso e riflessione»82. In maniera analoga anche nel Sigillus sigillorum veniva affrontata l’analisi Bruno, De lampade combinatoria Lulliana, pp. 232-5: «Tribus igitur existentibus intellectus operationibus, ut philosophorum schola testatur et per sese res ipsa insinuat, quarum prima est simplicium apprehensio, secunda compositio et divisio seu verificatio, tertia discursus seu argumentatio, a prima ad secundam, a secunda ad tertiam est intentanda methodus». 80 Ibid., pp. 234-5: «Est autem simplex apprehensio actus sive actio intellectus, qua aliquod incomplexum apprehendit, utpote alicuius termini significationem vel simplicem intentionem, nempe qua terminus ipse per se sumitur et non cum aliquo alio complicatum alioque adiectum». 81 Ibid.: «Compositio vero prima seu (quam ita proprie dici volumus) verificatio est actus seu actio intellectus secunda, primam consequens, quae plura simpliciter apprehensa connectit, componit, dum invicem haec copulata vel ab invicem dissita valet enunciare. Discursus autem est actio seu actus intellectus, quae ab una ad aliam compositionem vel divisionem, quae ex talibus compositis divisisque consistit, egreditur». 82 Id., De imaginum compositione, pp. 488-9: «Hoc est quod non in simplicitate 79
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dei processi basilari del pensiero logico, individuando nella similitudine, nella proporzione, nell’ordine e nella simmetria le sue funzioni direttive; anch’esse – come per i precedenti esempi sulle analoghe ‘forme’ principali del conoscere e del metodo – hanno un andamento progressivo nella reciproca e strutturale interconnessione: «una volta costituite le serie delle similitudini, tutto ci è possibile fare»; «non soltanto», tuttavia, «certe cose sono simili a certe altre, ma certe cose sembrano comportarsi le une con le altre allo stesso modo in cui altre si comportano con altre», pertanto «dalla proporzione discende […] la consistenza racchiusa nella configurazione esteriore delle cose […], il diletto nel ragionare e la gloria nell’intelligenza»83. Attraverso l’ordine, invece, «regoliamo il caos immaginabile a formare un terzo mondo, simulacro dei due [metafisico e fisico] che lo precedono», mentre infine «solo concependo la simmetria giungiamo a conoscere qualsivoglia cosa composta, connessa, congiunta, mista, unita e ordinata», poiché per quanto si tenti di cogliere l’affinità, la proporzione e l’ordine delle parti, «non riusciamo tuttavia a cogliere la ragione del tutto perfetto se non connettendo in modo armonioso e consonante tutte le cose con tutte le cose»84. quadam, statu et unitate, sed in compositione, collatione, terminorum pluralitate, mediante discursu atque reflexione comprehendimus». 83 Id., Sigillus, pp. 298-9: «Simile aliud simile amat, alio simili gaudet, ad aliud simile fertur; simile simile excitat, movet atque trahit; simile simili fit, est atque cognoscitur. Similitudinibus ergo paratis omnia facimus, iisdem comparatis omnia perficimus. Proportione, quatuor existentibus in duplici genere terminis sicut duobus similitudine collatis, operae pretium est uti: haud enim solum res rebus sunt similes, sed et sicut illa ad alia, pariter haec ad ista sese habere videntur. Ex proportione in rerum specie consistentia, in earum dispositione pulchritudo, gratia in sensu, delectatio in ratione et gloria in intelligentia enascitur». 84 Ibid.: «Ordine chaos physicum in pulchrum mundi spectaculum est digestum; ordine chaos intelligibile discussum methaphysicum mundum ab aeterno distrinxit, distinctumque praebuit; ordine chaos imaginabile in mundum tertium, utriusque mundi praecedentis simulacrum, promovemus. […] Symmetriae tandem conceptione sola quodcumque compositum, complexum, copulatum, mixtum, unitum, ordinatum cognoscimus. Quantumvis enim partem post partem, membrum post membrum, speciem post speciem distincte exterius intimiusque contemplemur, non tamen nisi harmonica consonanteque collatione omnium ad omnia, vel saltem praecipuorum ad praecipua, perfecti rationem erimus adepti nec consequenter eam, quae in quadam habitudine consistit partium, essentiam».
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La chiave di volta della dialettica bruniana è l’intreccio connettivo e unitario, il quale rimanda alla legge universale che definisce, da un punto di vista ontologico, la relazione tra tutte le cose rispetto alla totalità85; se dunque «gli antichi certo conobbero e insegnarono in che modo si sviluppi il processo discorsivo della ragione umana [discursus hominis], che da molti individui ascende alle specie, dalle molteplici specie all’unico genere»86, il lettore di Bruno, mosso da una consapevolezza più filosofica, ovvero «tenendo innanzi agli occhi la scala della natura», è soprattutto invitato a procedere sempre mediante operazioni interiori dal moto e dalla molteplicità per raggiungere la quiete e l’unità. Se riusciremo a far ciò secondo le nostre facoltà, secondo le nostre stesse facoltà sapremo anche conformarci in modo da compiere opere divine e straordinarie agli occhi del volgo. A questo fine ci sostiene e ci esorta la trama segnata di connessioni e il rapporto consequenziale tra le realtà connesse87.
Il fine ultimo della dialettica bruniana è dunque, anche a motivo dei modi di organizzare e gestire i concetti elaborati dall’intelletto, di uguagliare e di conformarsi all’azione naturale, farsi tutt’uno con essa non solo nell’impeto creativo e generativo, ma anche nel tracciare in maniera unitaria una estesa e fitta trama di riferimenti semantici tra le immagini, i pensieri e, in generale, tra tutte le sue operazioni, quale corrispettivo gnoseologico di quel tessuto ontologico unitario che è costituito dalla sostanza unica del cosmo infinito, espressa nella molteplicità degli enti naturali per mezzo dell’azione creativa e vitale dell’anima mundi.
Cfr. Id., De umbris, pp. 51-5. Ibid., pp. 54-5: «Novit quidem et docuit antiquitas quomodo proficiat discursus hominis a multis individuis ad speciem, a multis speciebus ad unum genus ascendens». 87 Ibid., pp. 52-5: «pro egregiis animi operationibus naturae schalam ante oculos habentes, semper a motu et multitudine ad statum et unitatem per intrinsecas operationes tendere contendamus. Quod cum pro facultate praestiterimus, pro facultate quoque divinis multitudini mirabilibus operibus conformabimur. Ad ipsum rerum praesignata connexio et connexorum consequentia nos confortet et adhortetur». 85 86
seconda parte
L’arte della memoria
IV. Le fonti e i fondamenti tecnici della mnemotecnica bruniana
Ars memoriae, artificiosa o artificialis memoria, ars memorativa: sono solo alcuni dei nomi tradizionalmente assegnati all’arte per memorizzare informazioni per mezzo della loro visualizzazione e della conseguente collocazione in luoghi immaginati e visualizzati interiormente. Una tecnica che risale all’antichità classica – come si vedrà, l’inventore è considerato il poeta greco Simonide di Ceo – e che fu parte integrante della memoria, la quarta delle componenti fondamentali dell’attività retorica, assieme alla inventio, la dispositio, l’elocutio e, ultima, la pronuntiatio. Marziano Capella, nel De nuptiis Philologiae et Mercurii, sintetizza efficacemente la ricezione di questa tradizione, contribuendo in parte a trasmetterla all’età medievale: l’ordine dell’esposizione ci presenta i precetti relativi alla memoria, la quale, certo, si sa che è naturale, ma non c’è dubbio che possa essere aiutata anche dall’arte. Ora, quest’arte è formata da precetti brevi, ma con una grande esercitazione: e di questa parte il dono è questo, di cogliere le cose e le parole con una comprensione non soltanto sicura, ma anche rapida1.
La memorizzazione naturale del discorso da pronunciare in pubblico può dunque essere rafforzata per mezzo di un insieme di insegnamenti la cui base tecnica è l’ordinata visualizzazione interiore dei termini o delle nozioni fondamentali da recitare, associata ad una loro frequente ripetizione. Questa idea estremamente pratica dell’arte della memoria è il tratto che la distingue maggiormente e che, in ultimo, decreta la fortuna nella storia della trasmissione di questo specifico aspetto della retorica classica nei secoli successivi, fino alla prima età moderna. DeCfr. Marziano Capella, Le nozze di Filologia e Mercurio, a cura di I. Ramelli, Milano 2001, pp. 372-3: «Nunc ordo praecepta memoriae subministrat, quam quidem constat esse naturalem, sed et arte adiuvari posse non dubium est. haec autem ars brevibus praeceptis sed magna exercitatione formatur; cuius partis hoc munus est, ut non tanto firma, verum etiam celeri comprehensione res verbaque percipiat». 1
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cisivo, in questo senso, è il contributo tecnico apportato dagli ordini religiosi dediti principalmente alla predicazione, come i francescani e i domenicani: questi ultimi, in particolare, tentarono di sistematizzare e perfezionare quel corpus di insegnamenti conferendogli quasi uno statuto autonomo e disciplinare, cercando soprattutto di potenziarne gli aspetti organizzativi, lavorando sulla creazione di complessi scenari di luoghi2. Di fatto il Medioevo consegna alla prima età moderna un folto corpus di trattati manoscritti, per lo più simili nei contenuti, che elencano le regole della mnemotecnica classica, corredate da esempi di applicazione agli argomenti principali della predicazione religiosa o della teologia scolastica, andando così a costituire quell’ampio repertorio di immagini e specifiche soluzioni tecniche che fornirà il materiale alla base della successiva trattatistica mnemotecnica a stampa, che sarà presa in esame nelle seguenti pagine sulle fonti dell’ars memoriae bruniana. Tuttavia, per completezza d’esposizione, è utile qua premettere e ricordare che la larga diffusione a stampa dei testi sull’arte della memoria tra la seconda metà del Quattrocento e per tutto il XVI secolo segnala non solo la nascita di un vero e proprio ‘genere’ letterario – per quanto specialistico –, ma anche l’apertura di tali tecniche ad un pubblico più ampio, ‘laico’, cioè formato dalle nuove classi intellettuali che caratterizzano la cultura europea di quegli anni: giuristi, mercanti, studiosi di storia, umanisti, politici e governanti. Quel genere di pubblico a cui si rivolge anche Giordano Bruno nel tentativo di promuovere, attraverso l’arte della memoria, la propria filosofia. I luoghi: dai percorsi locali alle architetture Come si è appena detto, alla base della procedura mnemotecnica, fin dalla fondazione classica dell’arte stessa, vi è la rappresentazione dei Frances Yates nel capitolo quarto de L’arte della memoria, dedicato a L’arte della memoria nel Medioevo, insiste in modo particolare sul ruolo decisivo di Tommaso D’Aquino nell’accreditare i fondamenti della mnemotecnica in relazione alle riflessioni sulla memoria formulate da Aristotele nel De anima e nel De memoria et reminiscentia; cfr. ibid., pp. 78 sgg. Sulla storia della mnemotecnica, oltre ai già citati studi di Paolo Rossi, Lina Bolzoni e Mary Carruthers, si veda anche M. Matteoli, L’arte della memoria. Retorica, metodo, enciclopedia, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, V, Le scienze, a cura di A. Clericuzio e G. Ernst, Angelo Colla Editore, Treviso 2008, pp. 391-402. 2
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ricordi sotto forma di immagini e la loro disposizione entro cornici visive che riproducono luoghi e che fungono da riferimenti per il loro recupero. Sia Cicerone che Quintiliano concordano nel sottolineare che la forza della ‘scoperta’ di Simonide di Ceo non fu solamente nella scelta – obbligata da un punto di vista cognitivo – di richiamare visivamente i volti delle persone scomparse nel tragico incidente al quale egli era sopravvissuto, ma soprattutto nel poterne riepilogare la successione sulla base della loro disposizione nella stanza del banchetto3. La distribuzione delle immagini nei luoghi, l’importanza dei quali è dunque considerata a fondamento della tecnica stessa, viene paragonata, secondo un’efficace e fortunata metafora che possiederà un fortissimo valore paradigmatico nella letteratura mnemotecnica, alla scrittura: Fu così che Simonide scoperse che è soprattutto l’ordine che illumina la memoria. Pertanto coloro che vogliono esercitare questa facoltà della mente debbono prendere dei luoghi e imprimere nell’animo, collocandole in questi luoghi, le cose che vogliono tenere a memoria: in questo modo l’ordine dei luoghi conserverà l’ordine delle cose e le immagini delle cose indicheranno le cose stesse e noi ci serviremo dei luoghi come di cera e delle immagini come di lettere4.
L’ordinamento dei segni mnemonici, assieme alla costruzione delle immagini e forse con maggiore rilevanza rispetto a questa, costituisce il vero elemento di azione ‘tecnica’ che qualifica l’ars memoriae in quanto tale: non a caso la totalità delle trattazioni sull’arte della memoria, fin dall’antichità, prende le mosse proprio dalla definizione delle caratteristiche dei luoghi, forti anche della consapevolezza che Aristotele stesso, sottolineando nel De memoria et reminiscentia che il passaggio da un ricordo all’altro avviene per un tipo di inferenza che è simile a quella logica, permetteva di accostare la consequenzialità Cfr. Yates, L’arte della memoria, pp. 3-4. Marcus Tullius Cicero, De oratore, II, lxxxvi, 353-4: «hac tum re admonitus invenisse fertur ordinem esse maxime, qui memoriae lumen adferret. Itaque eis, qui hanc partem ingeni exercerent, locos esse capiendos et ea, quae memoria tenere vellent effingenda animo atque in eis locis conlocanda; sic fore, ut ordinem rerum locorum ordo conservaret, res autem ipsas rerum effigies notaret atque ut locis pro cera, simulacris pro litteris uteremur» (trad. it. Opere retoriche, I, a cura di G. Norcio, Torino 1970, p. 441). Cfr. Rhetorica ad Herennium, III, xvii: «Nam loci cerae aut chartae simillimi sunt, imagines litteris, dispositio et conlocatio imaginum scripturae». 3 4
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propria dei processi memorativi ai processi razionali/deliberativi e, di conseguenza, all’utilizzo tecnico dei luoghi mnemonici5. Se dunque il pensare stesso e la memoria non possono avvenire senza l’ausilio di immagini fantastiche, seguendo l’impostazione aristotelica, il ricordare esige ordine e successione, quali la visualizzazione e la distribuzione dei ricordi nei sistemi di luoghi possono assicurare6. L’arte della memoria latina, così come è stata trasmessa alla modernità, viene pertanto definita come «memoria locale»7, poiché la totalità delle tecniche elaborate successivamente alle riflessioni dei retori classici si fonda sulla costruzione di scenari visivi interiori nei quali, in un secondo momento e in base al tipo e alla complessità dei ricordi, vengono collocate le immagini in qualità di segni dei dati da memorizzare. L’operazione di ‘scrittura’ delle informazioni mnemoniche segue pertanto quella preliminare di preparazione del supporto, a sua volta basata su una serie di prescrizioni pragmatiche che, alla stregua di vere e proprie norme, sono state codificate e trasmesse fin dall’antichità, pur lasciando – relativamente a particolari aspetti che, come si vedrà, non sono affatto secondari – un certo spazio per l’evoluzione e il perfezionamento della tecnica stessa. Dal momento che il fine del sistema locale è quello di restituire artificialmente la sequenzialità dei Cfr. Aristotele, De memoria et reminiscentia, 453a10; Sancti Thomae Aquinatis Sentencia libri De sensu et sensato, tract. 2, l. 8, n. 2: «in reminiscendo aliquis quodam modo syllogizat se prius aliquid vidisse, aut aliquo alio modo percepisse, ex quodam principio in hoc deveniens: et reminiscentia est quasi quaedam inquisitio, quia non a casu reminiscens ab uno in aliud, sed cum intentione deveniendi in memoriam alicuius procedit». 6 Si tratta di argomenti centralissimi alla riflessione di Bruno, non solo mnemotecnica, ma, come si è visto, anche gnoseologica. Si veda, ad esempio, l’inizio del De imaginum, idearum et signorum compositione, pp. 486-8: «Hoc est quod ab Aristotele relatum ab antiquis prius fuit expressum et a neotericorum paucis capitur: “intelligere nostrum – id est operationes nostri intellectus – aut est phantasia aut non sine phantasia”; rursum: “non intelligimus, nisi phantasmata speculemur”. Hoc est quod non in simplicitate quadam, statu et unitate, sed in compositione, collatione, terminorum pluralitate, mediante discursu atque reflexione comprehendimus. Quod si tale est nostrum ingenium, talia nimirum eiusdem esse oportet opera, ut scilicet inquirens, inveniens, iudicans, disponens, reminiscens non extra speculum divagetur, non absque imaginibus agitetur». 7 Su questi temi si veda, in generale, il primo capitolo di Yates, L’arte della memoria, pp. 3-26: «Le tre fonti latine per l’arte della memoria nel mondo classico». 5
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ricordi, ma anche di richiamarne interiormente la visione, le principali componenti, al tempo stesso tecniche e teoriche, della definizione dei luoghi consistono nella loro caratterizzazione visiva, nella disposizione, nel numero e nella loro indicizzazione. Per quanto riguarda il primo aspetto, cioè come i luoghi debbano essere formati nella fantasia, ovvero rappresentati visivamente, fin dai primi trattati mnemotecnici si suggerisce che essi siano la riproduzione di spazi reali, appartenenti all’esperienza di chi li visualizza. Una conoscenza stabile e immediata di essi, infatti, è la condizione necessaria e sufficiente al conseguente moto di reminiscenza delle immagini che sorge dal ripercorrerli8; ciò può essere altresì facilitato dal ricorso a particolari accorgimenti. Cicerone, ad esempio, stabilisce come criterio di massima che «bisogna servirsi di luoghi numerosi, chiari, evidenti, poco distanziati l’uno dall’altro»9 e già nel trattato pseudociceroniano Rhetorica ad Herennium ci si soffermava sul fatto che «se vogliamo ricordare molte cose» occorre «predisporci molti luoghi, sicché possiamo collocare molte immagini nei molti luoghi»10. Quanti, quali e come debbano essere organizzati i luoghi sono questioni strettamente legate tra loro nella trattatistica mnemotecnica, dal momento che ad esse è direttamente connessa la riuscita dell’operazione mnemonica. Così nell’Ad Herennium, non appena viene dichiarata l’importanza di istituire tanti luoghi quante sono le cose da memorizzare, si rileva che, per non essere «impacciati dalla confusione», «bisogna disporre questi luoghi secondo un ordine»11, suggerendo, addirittura, di contrassegnarli attraverso un espediente visivo che sarà ripreso e rielaborato molte volte nei trattati successivi: «porremo nel quinto luogo una mano d’oro, […] nel
Anche se la critica non l’ha sufficientemente sottolineato, il passaggio dalla visione dei luoghi al ricordo della sequenza delle immagini lì collocate, asseconda, di fatto, il modello aristotelico: i primi, infatti, si presentano spontaneamente alla ‘memoria’, mentre le immagini accorrono per ‘reminiscenza’, dopo che il processo è stato appunto innescato. Cfr. Aristotele, De memoria et reminiscentia, 451a20-451b20. 9 Cicero, De oratore, II, lxxxvii, 358: «locis est utendum multis, inlustribus, explicatis, modicis intervallis» (trad. it., p. 443). 10 Rhetorica ad Herennium, III, xvii: «Oportet igitur, si volumus multa meminisse, multos nos nobis locos conparare, uti multis locis multas imagines conlocare possimus» (trad. it. La retorica a Gaio Erennio, a cura di F. Cancelli, Milano 1992, p. 428). 11 Ibid.: «Item putamus oportere ex ordine hos locos habere, ne quando perturbatione ordinis inpediamur» (trad. it., p. 428). 8
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decimo porremo qualcuno conosciuto, il cui prenome sia Decimo»12. L’anonimo autore è del resto oltremodo consapevole della centralità degli scenari interiori al fine di assicurare l’efficacia del recupero dei dati mnemonici; per questo motivo si diffonde con dovizia di particolari anche sulla qualità della loro rappresentazione: «è più conveniente», ribadisce nel prosieguo della sua trattazione, «disporre i luoghi in una plaga abbandonata che in una frequentata, per il fatto che l’affollamento e il viavai di persone disturba e indebolisce i segni delle sembianze, la solitudine serba intatte le figure delle immagini»13. La confusione o sovrapposizione dei riferimenti, la scarsa nitidezza o l’eccessiva luminosità delle costruzioni sceniche, una sproporzionata ampiezza delle ‘inquadrature’, una troppo ampia o un’insufficiente distanza tra le ‘scene’14 sono fattori di distrazione e di indebolimento della visione mnemotecnica, che deve avvenire soprattutto assecondando l’esigenza organizzativa e semplificatrice della registrazione dei dati mnestici. Per tutti questi motivi, pur raccomandando di fare ricorso a luoghi reali, cioè tratti dalla propria e personale esperienza, noti e di per sé già memorizzati, nel trattato pseudociceroniano non ci si esime dall’osservare che è utile non tanto la realtà dei luoghi, quanto il loro realismo; è assai conveniente intervenire con l’immaginazione per ottimizzare la visione dei luoghi ed adattarli maggiormente agli scopi mnemotecnici, secondo le prescrizioni appena ricordate: è possibile addirittura fare Ibid., III, xviii: «Et, ne forte in numero locorum falli possimus, quintum quemque placet notari: quod genus, si in quinto loco manum auream conlocemus, si in decimo aliquem notum, cui praenomen sit Decimo; deinde facile erit inceps similis notas quinto quoquo loco conlocare» (trad. it., p. 430). 13 Ibid., III, xix: «Item commodius est in derelicta, quam in celebri regione locos conparare, propterea quod frequentia et obambulatio hominum conturbat et infirmat imaginum notas, solitudo conservat integras simulacrorum figuras» (trad. it., p. 430). 14 Cfr. ibid.: «Praeterea dissimilis forma atque natura loci conparandi sunt, ut distincti interlucere possint: nam si qui multa intercolumnia sumpserit, conturbabitur similitudine, ut ignoret, quid in quoquo loco conlocarit. Et magnitudine modica et mediocris locos habere oportet: nam et praeter modum ampli vagas imagines reddunt et nimis angusti saepe non videntur posse capere imaginum conlocationem. Tum nec nimis inlustris nec vehementer obscuros locos habere oportet, ne aut obcaecentur tenebris imagines aut splendore praefulgeant. Intervalla locorum mediocria placet esse, fere paulo plus aut minus pedum tricenum: nam ut aspectus item cogitatio minus valet, siue nimis procul removeris sive vehementer prope admoveris id, quod oportet videri». 12
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ricorso a ulteriori luoghi immaginari – un aspetto determinante per l’ars memoriae rinascimentale – nel caso in cui i luoghi che abbiamo a disposizione non siano congrui di numero rispetto al materiale da memorizzare: sarà dato di formarsene lui quanti più vorrà. L’immaginazione infatti può contenere un’area qualsivoglia, e in essa e fabbricare e apparecchiare a suo talento un edificio d’un certo luogo. Per cui sarà permesso, se non saremo soddisfatti di una tale disponibile scelta, formarci noi stessi con la nostra immaginazione uno spazio e disporvi una varietà opportunissima di luoghi appropriati15.
Anche Quintiliano, nella Institutio oratoria, elencando le caratteristiche dei luoghi, osserva che una certa complessità, rispetto al numero e all’organizzazione degli spazi mnemotecnici, può risultare significativa per custodire con più efficacia grandi quantità di informazioni; non è quindi secondario, rispetto a questo proposito, l’apporto dell’immaginazione creativa: Studiano attentamente dei siti quanto più ampi possibili, caratterizzati da grande varietà ambientale, per esempio una casa ampia e divisa in molte stanze. Tutto quel che di notevole è in essa, lo si fissa con ogni cura nella mente, perché il pensiero possa percorrerne senza alcun indugio e impedimento tutte le parti. Perciò la prima fatica consiste nel non avere incertezze nel percorrerla: infatti il ricordo che voglia aiutarne un altro, deve essere più che sicuro. […] Quanto ho detto a proposito della casa, può valere anche a proposito delle opere pubbliche e di un lungo viaggio e del perimetro delle città e dei dipinti. È lecito, anche, formarsi queste immagini. C’è, dunque, bisogno di luoghi o immaginari o reali e di figure e rappresentazioni mnemoniche, che debbono essere sempre immaginate16.
Ibid.: «ipse sibi constituat quam volet multos [locos] licebit. Cogitatio enim quamvis regionem potest amplecti et in ea situm loci cuiusdam ad suum arbitrium fabricari et architectari. Quare licebit, si hac prompta copia contenti non erimus, nosmet ipsos nobis cogitatione nostra regionem constituere et idoneorum locorum commodissimam distinctionem conparare» (trad. it., pp. 430-2). 16 M. Fabius Quintilianus, Institutio oratoria, XI, II, 18, 21: «Loca discunt quam maxime spatiosa, multa varietate signata, domum forte magnam et in multos diductam recessus. In ea quidquid notabile est animo diligenter adfigunt, ut sine cunctatione ac mora partis eius omnis cogitatio possit percurrere. Et primus hic labor est, non haerere in occursu: plus enim quam firma debet esse memoria quae aliam memoriam 15
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L’insieme di queste considerazioni sui luoghi tratte dai principali testi di retorica classica che presentano riferimenti anche all’arte della memoria – come artificio tecnico posto in ausilio dell’ultima e non meno importante sezione della retorica, cioè la memoria – costituisce un vero e proprio corpus di prescrizioni che viene ripreso sia dalla tradizione mnemotecnica medievale (anche se in una cornice tematicamente differente)17, sia (e soprattutto) nel corso del Rinascimento, divenendo poi anche il principale oggetto per la ridefinizione tecnica dell’arte stessa. Non a caso la maggior parte delle soluzioni elaborate nel corso dei secoli XV e XVI riguarderanno proprio il numero, l’organizzazione e la virtualizzazione degli scenari mnemotecnici, fino ad arrivare alla creazione di impianti mnemonici più complessi, se non addirittura visionari. In quello che viene considerato uno dei primi trattati a stampa di arte della memoria, l’Ars memorativa di Jacobus Publicius18 – pubblicata a Tolosa e a Parigi intorno alla metà degli anni Settanta del Quatadiuuet. […] Quod de domo dixi, et in operibus publicis et in itinere longo et urbium ambitu et picturis fieri potest. Etiam fingere sibi has imagines licet. Opus est ergo locis quae vel finguntur vel sumuntur, et imaginibus vel simulacris, quae utique fingenda sunt» (trad. it. M. Fabio Quintiliano, L’istituzione oratoria, a cura di R. Faranda e P. Pecchiura, Torino 2003, II, pp. 539-41). 17 Cfr. Yates, L’arte della memoria, pp. 47-96: «L’arte della memoria nel Medioevo»; «La memoria medievale e la formazione di un sistema di immagini». Mary Carruthers mostra ampiamente e approfonditamente come nei secoli che seguono la fine dell’età classica, l’arte della memoria non riguardi soltanto «la memoria localizzante» (cfr. Carruthers, Machina memorialis, pp. 14-20), ma debba giustamente estendersi ad altre concezioni di memoria (storica, morale, ecc.), le quali poi si intrecciano e si sovrappongono, sul piano pratico, con gli atteggiamenti organizzativi e visuali propri della prima, andando a costituire un più ampio fenomeno culturale che caratterizza peculiarmente la retorica, la spiritualità, ma anche la pittura e l’architettura dell’età medievale. Si tratta di un paradigma teorico del resto già affrontato anche da Lina Bolzoni, in particolare ne La stanza della memoria. 18 Giacomo Publicio è noto come il principale diffusore in Germania dell’umanesimo italiano; nato a Salamanca all’inizio del Quattrocento, ma figlio di un medico fiorentino (da cui il toponimo che Publicio spesso usa), morì a Vienna nel 1472. Cfr. F.J. Durán Barceló, Jacobus Publicius in Diccionario Biográfico Español, edición electrónica: (Novembre 2018); A. Sottili, Giacomo Publicio, «Hispanus», e la diffusione dell’umanesimo in Germania, premessa di F. Rico, Barcelona, Universidad Autónoma de Barcelona Facultad de Letras, 1985.
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trocento e, successivamente negli anni Ottanta e Novanta a Venezia e a Colonia, per un totale di dieci edizioni19 – il testo si apre con la dichiarazione che «in ogni azione, disciplina e arte, la misura, la disposizione delle cose e l’ordine […] sono di massimo giovamento agli uomini»20, pertanto anche nell’arte della memoria è necessario prendere avvio dall’esame dei luoghi: vengono quindi valutati, in termini non difformi dalle fonti classiche, i temi della qualità (visiva) e della inventio locorum, optando, di fronte alla scelta di ispirarsi alla natura e alla realtà o agire creativamente con la fantasia, per un pragmatico ricorso ad entrambe le tipologie, dal momento che «non è possibile reperire tutte le cose fatte dalla natura: e ritengo sia arduo e pericolosissimo servirsi solo di luoghi immaginati»21. Si suggerisce inoltre di guardarsi dalla similitudo nei luoghi, diversificando le scene interiori non tanto nella struttura, quanto nell’aspetto, adottando materiali e colori differenti oppure aggiungendo lungo il percorso locale oggetti peculiari (alberi, altari, tumuli di pietre)22. Per quanto riguarda il numero e l’organizzazione dei luoghi, Publicio, dopo aver ricordato le prescrizioni classiche intorno alla regolare distanza da tenere tra uno spazio e l’altro, sottolinea che il modo più efficace per conservare l’ordine consiste nell’aggiungere, sulla scorta dei precetti dell’Ad Herennium, riferimenti numerici o alfabetici ogni cinque o dieci luoghi; in maniera analoga la sistematica distribuzione di alcune figure caratteristiche negli gli spazi mnemonici, oltre a rafforzarne la visione, ne aiuta anche la regolare indicizzazione. L’istanza della notatio locorum è del resto uno dei tratti centrali della mnemotecnica classica che più viene sviluppato e perfezionato dalle tecniche quattro-cinquecentesche, grazie a originali soluzioni per raffigurare le cifre numeriche, le lettere o, addirittura, le sillabe per poi usarle come indici dei luoghi: già nella Epitoma in utramque Ciceronis Cfr. R. Wójcik, Masters, Pupils, Friends, and Thieves. A Fashion of Ars memorativa in the Environment of the Early German Humanists, «Daphnis», 41/2, 2012, pp. 409-11. 20 Jacobus Publicius, Artes orandi, epistolandi, memorandi, Venezia, Erhard Ratdolt, 1482, f. c 2v: «cum in omni actione disciplina et arte modus rerumque rerum et dispositio […] summo adiumento mortalibus sit»; dove non indicato espressamente, la traduzione italiana è mia. 21 Ibid., f. c 3v: «omnia enim a natura constituta reperire est impossibile: et fictis omnibus uti durum et pericolosissimum duco». 22 Cfr. ibid. 19
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rhetoricam cum arte memoriae nova et modo epistolandi utilissimo di Conrad Celtis23, ad esempio, si trova un elenco di figure caratterizzate dall’essere disposte in ordine alfabetico sulla base della sillaba iniziale del loro nome24. Questo stesso espediente – con il medesimo alfabeto sillabico – ritorna anche nell’Ars memorativa di Georg Sibutus (la cui prima edizione è del 1497)25, nell’Ars memorandi di Jodocus Wetzdorf26 e nel Tractatulus artficiosae memoriae di Johannes Cusanus27. Anche nella Margarita philosophica nova di Gregor Reisch28, la seconda edizione di una delle prime e più note ‘enciclopedie’ rinascimentali, a fianco all’esposizione della Phoenix di Pietro da Ravenna29 viene proposto un elenco di oltre cento immagini-sillabe per indicizConradus Celtis, Epitoma in Ciceronis rhetoricas; De artificiali memoria; Tractatus de condendis epistulis; Alphabetum memorativum; Carmina quaedam, Ingolstadt 1492. Conrad Celtis (o Celtes), al secolo Konrad Pickel (1459-1509), fu un umanista tedesco, formatosi inizialmente a Heidelberg sotto gli insegnamenti di Rodolfo Agricola e, in seguito, a Roma, presso l’Accademia Romana. Insegnò retorica a Ingolstadt e a Vienna. Cfr. J. Robert, Celtis, Konrad, in Deutscher Humanismus 1480-1520: Verfasserlexikon, I/2, Berlin 2006, pp. 375-427. 24 Cfr. ibid., ff. c iir-c iiv: «balneator, begutta, bibulus, bossequus, buccinator, cardinalis, cesar, cirurgicus, cocus, cursur, […]». 25 Cfr. Ars memorativa Gerogii [sic] Sibuti Daripini concionatoribus et jurisperitis multum utilis et fructuosa carmen eiusdem in vitam sancte anne heroicu carmen in vitam sanctae Annae heroicum, Colonia, haer. Heinrich Quentel, 1505, f. Aiiiir. Georg Darapinus Sibutus (1480-1528) fu allievo di Conrad Celtis a Vienna, insegnò retorica a Wittenberg e poi a Rostok. Cfr. K. Hartfelder, Sibutus, Georg in Allgemeine Deutsche Biographie, 34, 1892, pp. 140-1, Online-Version: (Novembre 2018). 26 Cfr. Jodocus Wetzdorf, Ars memorandi nova secretissima continens precepta paucissimis bonarum artium militibus visa, Strasburgo, Johann Grüninger, 1501, f. [a 2r]. 27 Cfr. Johannes Enclen de Cusa, Tractatulus artificiose memorie omnibus cuiuscunque etatis studiosis admodum utilis et necessarius, Vienna, Hieronymus Vietor & Johann Singriener, 1514, f. [Aiiiv]. Per informazioni biografiche relative all’autore, cfr. A.J.E.M. Smeur, Johannes Enclen de Cusa en zijn «Algorismus Proiectilium», Zwolle 1502. I. Bibliografie en biografie, «Scientiarum Historia: Tijdschrift voor de Geschiedenis van de Wetenschappen en de Geneeskunde», 4/1, 1962, pp. 12-23. 28 Cfr. G. Hess, Reisch, Gregor, in Neue Deutsche Biographie, 21, 2003, pp. 384-6, Online-Version: (Novembre 2018). 29 Pietro Tomai da Ravenna, Phoenix seu De artificiosa memoria, [Venezia], Bernardinus de Choris, 1491. 23
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zare i luoghi30, così come nel Ludus artificalis oblivionis di Nicolaus Simonis31 si fa riferimento a questa modalità sillabica per realizzare figure da porre nei luoghi particolari, dare loro ordine e, infine, moltiplicarli di numero32. In tutti questi ed altri analoghi casi si tratta di espedienti tecnici che derivano direttamente dalla tradizione mnemotecnica medievale33 e che vertono, in vari modi, intorno al problema dell’organizzazione dei luoghi34: a partire da queste istanze, con l’evolversi della trattatistica quattro-cinquecentesca, molti autori arriveranno ad escogitare soluzioni sempre più peculiari per rappresentare i numeri, le lettere e le sillabe che, a loro volta, invaderanno l’ambito della memoria verborum, andando a sovrapporsi alle altre modalità raffigurative già in uso35. Oltre a queste importanti prescrizioni, a metà tra la gestione dei luoghi e la figurazione delle immagini, Publicio insegna anche un modo per ‘cancellare’ i segni mnemonici – visualizzandoli mentre, per la forza di una tempesta o di un temporale, vengono strappati e gettati via dai luoghi –, dal momento che lo stesso sistema locale può essere utilizzato per differenti materiali mnestici: a fronte, dunque, di una difficile e in fondo eccessiva moltiplicazione dei luoghi, egli ne propone piuttosto il riutilizzo o eliminando quanto non serve più, oppure variando in molti modi l’aspetto del medesimo percorso e rendendolo, di fatto, un’esperienza visiva diversa per ogni gruppo di immagini ivi collocate36. La tecnica della abolitio imaginum – perseguita anche da altri autori37 assecondando, più o meno, gli stessi stratagemmi visivi – costituisce tuttavia uno degli aspetti più controversi della mnemotecnica, poiché, pur avvalorando l’esigenza di eliminare quelle informazioni che si ritengono non più necessarie, si dimostra, nei fatti, del tutto inefficace: forse è per questo che, nelle altre edizioni
Cfr. Gregor Reisch, Margarita philosophica nova, Basileae, Michael Furter & Johann Schott, 1508, f. Qiiiir. 31 Nicolaus Simonis, Ludus artificialis oblivionis, Lipsia 1510. Non si hanno informazioni sull’autore: dal frontespizio si apprende tuttavia che Nikolaus Simonis era originario di Weida e professore di arti e filosofia presso l’università di Erfurt. 32 Cfr. ibid., ff. aiiir-aiiiv. 33 Cfr. Carruthers, The Book of Memory, pp. 135-52: «The alphabet and the keyword system». 34 Cfr. ibid., pp. 118-22: «Formatting the page memory». 35 Cfr. infra, pp. 154 e sgg. 36 Cfr. Publicius, Artes orandi, epistolandi, memorandi, ff. c 4v. 37 Cfr. infra, pp. 178 e sgg. 30
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del testo di Publicio, a partire da quella del 1485, questo particolare aspetto della sua trattazione venne escluso. La Phoenix seu artificiosa memoria di Pietro Tomai da Ravenna38 (per la prima volta edita a Venezia nel 1491 e più volte ristampata) rappresenta, all’interno di questo ‘genere’ letterario, un’opera estremamente interessante, non soltanto per la fortuna del testo e la lunga eco che ebbero gli insegnamenti in esso contenuti, ma anche perché, rispetto al tentativo di codificazione delle norme classiche appena descritto, essa introduce alcune novità. In questo, come in altri testi, tradizione e innovazione si fondono sia nel rendere norma ciò che prima era pratica, sia nel modulare e perfezionare la tecnica stessa sulla base dell’esperienza personale: rispetto a tale atteggiamento è utile considerare la prima delle conclusiones che, nel riprendere la metafora classica che paragona l’arte della memoria alla scrittura, la ‘modernizza’ rimuovendo definitivamente le tavolette di cera in favore della sola carta39. In maniera simile, nel dichiarare che i luoghi «sono le finestre poste nelle pareti e le colonne negli angoli e quanti sono simili a questi»40, Pietro Tomai da Ravenna (1448-1509) è uno dei più celebri mnemonisti del XV e del XVI secolo, rinomato soprattutto, oltre che per la straordinaria memoria naturale, per le innovative soluzioni tecniche ideate nella Phoenix, che saranno riprese e riproposte in moltissimi testi sull’arte della memoria. Formatosi come giurista a Padova, insegnò diritto a Pisa, Ferrara, Brescia, Pavia, Cremona, Bologna. Dal 1497 si trasferì in Germania dove il suo trattato mnemotecnico ebbe una larghissima fortuna: insegnò a Greifswald, Wittenberg e a Colonia. Sulla fortuna e sulla diffusione a stampa della Phoenix, soprattutto nella Germania del Cinquecento, cfr. Wójcik, Masters, Pupils, Friends, and Thieves, pp. 408-9; L. Merino Jerez, La fortuna de la Artificiosa memoria sive Phoenix de Pedro de Rávena: entre el éxito y la retractatio, «Cuadernos de filología clásica. Estudios latinos», 35, 2015, pp. 299-318. 39 Cfr. Pietro da Ravenna, Phoenix, f. biiir : «ars ista constat ex locis et imaginibus: loca sunt tamquam charta seu alia materia in qua scribimus: Imagines sunt similitudines rerum quas memoriae volumus commendare». Tale esclusione non è del tutto neutrale o meramente superficiale: l’impressione lasciata da un segno nella cera, fin da Aristotele (De memoria et reminiscentia, 450a30), era un esempio assai eloquente per illustrare il funzionamento fisiologico e ‘analogico’ della memoria stessa; l’adozione di un diverso paradigma (carattere/carta) è dunque sintomo di una differente e più complessa concezione del memorizzare, ovvero di una ‘semiotica’ che va sempre più elaborandosi. 40 Ibid.: «loca sunt fenestrae in parietibus positae columnae anguli et quae his similia sunt». 38
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Pietro da Ravenna enuncia anche il canone di misurazione per le singole scene fantastiche, proponendo che «i luoghi non siano alti, perché ho voluto che gli uomini collocati come immagini, riescano a toccare i luoghi stessi, cosa che ho sempre giudicato utile»41. Suggerisce inoltre anche una peculiare soluzione visiva per organizzare e poi percorrere gli spazi interiori: Prendo dunque una chiesa a me molto nota e ne considero diligentemente le parti […] e do principio ai luoghi in questo modo: al lato destro della porta da cui si va direttamente all’altare maggiore, mi costituisco il primo luogo. Quindi, nella parete, dopo cinque o sei piedi, il secondo: e, se qui si trova qualcosa di reale, come una colonna, una finestra o altro simile, lì pongo il luogo; se invece non c’è, allora a mio arbitrio ne fingo uno immaginario […]. Così si procederà di luogo in luogo, finché nel costituire i luoghi, non si ritornerà alla medesima porta e ciò lo si farà per le pareti della prima chiesa, tralasciando però tutto quanto si trova nel mezzo di quella stessa42.
Come si può osservare, la riproduzione del reale e la creatività fantastica interagiscono nel virtualizzare la scenografia mnemonica, adattandola alle esigenze della memorizzazione e nutrendosi pragmaticamente dell’esperienza: Pietro da Ravenna ricorda, ad esempio, di essere solito procurarsi contesti locali in qualsiasi posto si rechi, tanto che ogni luogo da lui visitato diviene fonte ispiratrice per gli spazi mnemonici che egli conserva e utilizza nella sua memoria43; prescrive poi di rafforzare la visione dei luoghi attraverso la collocazione in essi di immagini di persone conosciute, di animali di piccole dimensioni oppure di oggetti personali da far interagire con l’osservatore e con
Ibid.: «loca non sint alta quia voluit quod homines pro imaginibus positi loca tangere possint quod utile sempre iudicavi». 42 Ibid., ff. [biiir]-[biiiv] : «Accipio ergo ecclesiam mihi multum notam cuius partes diligenter considero […] et hoc pacto principio locis do: In parte dextra portae ex qua recto tramite ad altare maius itur mihi primum locum constituo: deinde in pariete post quinque aut sex pedes secundum et si ibi aliquid reale sit positum ut est columna fenestra aut his simile ibi locum pono: si autem reale deficiat ad arbitrium meum imaginarium fingo […] et sic de loco in locum procedatur donec ad eandem portam loca fabricans revertatur et ista fiant in parietibus primis ecclesiae omissis omnibus quae in medio ipsius sunt». 43 Cfr. ibid., f. [biiiv]. 41
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i segni mnemonici che vi verranno collocati44. A questo proposito va sottolineato che le tradizionali prescrizioni della mnemotecnica classica su come ‘indicizzare’ i luoghi con immagini poste ogni cinque o dieci luoghi, vengono tradotte dal Ravennate in una vera e propria praxis di produzione di immagini dei numeri (con le quali creare i relativi segni), la quale sarà ripresa e sviluppata con significative varianti anche da altri autori45. L’indicazione di Pietro da Ravenna di attingere alla ‘geografia’ personale dei luoghi visitati viene raccolta e ulteriormente enfatizzata anche nell’Ars memorativa di Georg Sibutus, il quale espone un ampio repertorio di citazioni letterarie che descrivono accanto al mondo allora conosciuto anche i paesaggi della Sacra Scrittura, della poesia latina e dell’epica greca: tale apertura all’immaginario ritorna in altri autori, i quali approntano scenari fantastici come cornice primaria e di grado più generale nella quale accogliere i luoghi mnemonici46. Un testo contemporaneo alla Phoenix di Pietro da Ravenna è il De omnibus ingeniis augendae memoriae del medico Giovanni Michele Alberto Carrara47: sebbene sia essenzialmente un trattato che raccoglie consigli medici per rafforzare la memoria – sulla scorta dei più celebri scritti di Matheolus Perusinus48 e Domenico Carpani49 – questo testo presenta anche una sezione relativa alla memoria artificiale, composta per lo più da un’elencazione delle regulae e dei consigli dei retori classici e da una serie di riflessioni teoriche sui proCfr. ibid., f. [bivr]. Cfr. ibid., ff. [civr]-[civv]; infra, p. 159. 46 Cfr. Sibutus, Ars memorativa, ff. A iiv-B ir. 47 Giovanni Michele Alberto Carrara, De omnibus ingeniis augendae memoriae, Bologna, Platone Benedetti, 1491. Cfr. A. Mazzi, Sulla biografia di Giovanni Michele Alberto da Carrara, Bergamo 1901; Id., Bibliografia delle opere di Giovanni Michele Alberto da Carrara, «Rinascimento», 6, 1955, pp. 125-43; Id., Contributi alla biografia di Giovanni Michele Alberto da Carrara, «Bergomum», 49/1, 1955, pp. 45-58. 48 Matteolo Mattioli da Perugia, De memoria et reminiscentia, Padova 1474. Cfr. Wójcik, Masters, Pupils, Friends, and Thieves, pp. 410-1; R. Lupi, Mattioli Matteolo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 2008, 72, pp. 306-8; Matheolus Perusinus, Tractatus de Memoria, a cura di G.R. Levi Donati e E. Sacchi De Angelis, Soroptimist International - Università degli Studi di Perugia, Benucci Editore, Perugia, 2006. 49 Domenico Carpani, De nutrienda memoria, Napoli 1476. Cfr. F. Troncarelli, Carpani Domenico, in Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto Enciclopedia Italiana, Roma 1977, 20, pp. 574-5. 44 45
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cessi rimemorativi tratte da Aristotele, Avicenna, Tommaso d’Aquino e altri autori50. Tra queste pagine vi sono, tuttavia, alcuni interessanti spunti autobiografici, come quando, a proposito della scelta e del numero dei luoghi, Carrara ricorda un espediente insegnatogli dal padre e da questo stesso utilizzato per organizzare i luoghi, che consiste nel creare un alfabeto di animali reali o fittizi («asino, basilisco, cane, drago, elefante, […]») in ciascuno dei quali vengono letti cinque riferimenti ‘locali’, in corrispondenza del capo, delle zampe anteriori, del ventre, delle zampe anteriori e della coda51. Questo particolare sistema offre l’esempio – oltre del fatto che, nella tradizione mnemotecnica, resta di fondamentale importanza l’iniziativa e l’esperienza personale – di un atteggiamento tecnico abbastanza comune all’ars memoriae, ovvero quello di creare un sistema mnemonico nel quale l’istanza creativa delle immagini, la notatio locorum e i luoghi stessi si fondono in un unico spazio mnemonico, attraverso la realizzazione di un alfabeto visivo che diventa ‘indice’ di se stesso, scandendo l’ordine di luoghi formati dalle stesse figure-lettere. Nel fiorire straordinario di trattati sull’arte della memoria che si addensa tra la fine del XV secolo e all’inizio di quello successivo le soluzioni tecniche sulla costruzione e distribuzione dei luoghi costituiscono, del resto, un aspetto centrale: l’anonima Ars memorativa52 presenta, ad esempio, un’ampia e articolata sezione sulla moltiplicazione dei luoghi, mostrando come stanze dalla diversa forma geometrica – circolare, triangolare, quadrangolare o formate da poligoni di più lati – possano offrire l’opportunità di individuare moltissimi luoghi nei loro specifici recessi (agli angoli e al centro delle stanze), il numero dei quali può essere scandito, oltre che essere rafforzati visivamente, dall’indicizzazione creata per mezzo di opportune figure53. Tali idee sono riprese, in una forma più sintetica, anche nell’Ars memorandi di Jodocus Wetzdorf, accompagnate, tuttavia, dalla rappresentazione di un sistema locale organizzato come un palazzo suddiviso in stanze, nelle quali, a loro volta, vengono ricavati i luoghi particolari per le immagini mnemoniche54. Cfr. Carrara, De omnibus ingeniis augendae memoriae, ff. [air]-[aviv]. Cfr. ibid., f. [avr]. 52 Ars memorativa ad commemorandum terminos, quaestiones argumenta sive sermones quotas, Ingolstadt 1499. 53 Ibid., ff. [aiir]-[aiiiiv]. 54 Wetzdorf, Ars memorandi, f. [aivr]. 50 51
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Si è insistito particolarmente su questo primo nucleo di trattati sull’ars memoriae, per mostrare come, di fatto, la tecnica antica intorno ai luoghi, tra i secoli XV e XVI, vada sempre più codificandosi, anche grazie all’esperienza maturata dai retori stessi, in prescrizioni e norme standard che, senza mai dichiararlo in maniera esplicita, considerano l’uso dei luoghi come la creazione visiva di un’architettura virtuale interiore, fatta di più ‘livelli’: è un dato oramai pienamente acquisito il distinguere tra i luoghi intesi nel senso della cornice visuale nella quale viene rappresentata la scena mnemonica e lo spazio nel quale questi stessi luoghi e le immagini in esso collocate sono disposti in serie. È con questa idea di architettura interiore che, con maggior consapevolezza, si confronta gran parte degli autori cinquecenteschi, i quali studiano e perfezionano le soluzioni che meglio conducono alla costituzione di scenari stabili, complessi e minuziosamente numerati, in modo da avere contenitori fantastici sufficientemente ampi e strutturati per accogliere un materiale che non è più il semplice elenco lineare degli argomenti di un discorso, ma è il ‘cumulo’ stratificato e diversificato del sapere dei repertori e, in seguito, la composita e interrelata materia delle discipline55. In questo senso, rafforzando un aspetto già presente nella tradizione retorica, la dispositio locorum diviene un modo pratico per soddisfare la dispositio in senso più generale, poiché se da una parte l’organizzazione metodica dei concetti risulta essere comunque prioritaria rispetto a quella delle immagini e dei luoghi pensati per memorizzarli, non di meno anche la struttura locale, attraverso la metafora architettonica stessa, può agire come parametro di ulteriore ordinamento per le nozioni memorizzate. Uno dei primi testi nei quali questa presa di coscienza si manifesta in maniera più esplicita e che – per certi versi – può fungere da cerniera di un’ideale congiunzione fra i trattati quattrocenteschi e quelli del secolo successivo, è il breve Tractatulus artificiosae memoriae di Johannes Cusanus che rimanda, a sua volta, ad una tradizione trattatistica saldamente ricollegabile al testo di Conrad Celtis e, da questo, alle tecniche medievali stesse56. In particolare nel testo di Cusanus si Si tratta del tema al centro dell’analisi di Paolo Rossi; cfr. in particolare Clavis universalis, pp. 41-80: Enciclopedismo e combinatoria nel secolo XVI. 56 Cfr. Wójcik, Masters, Pupils, Friends, and Thieves, pp. 414-5; F.G. Kiss, Valentinus de Monteviridi (Grünberg) and the Art of Memory of Conrad Celtis, in Culture of Memory in East Central Europe in the Late Middle Ages and the Early Modern Period, pp. 105-18. 55
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fa riferimento ad una tripartizione dei luoghi in massimi, maggiori e minori, la quale in qualche modo sancisce e ribadisce quanto era già in uso fin dall’epoca tardomedievale, distinguendo appunto tra luoghi più piccoli (angoli, colonne, recessi, ecc.), spazi in cui questi vengono raccolti (stanze o saloni) e gli scenari più complessi che racchiudono entrambi (cattedrali, palazzi, abbazie)57. A margine di queste riflessioni sui luoghi vengono poi rievocati anche i precetti sulla multiplicatio locorum riportati nell’anonima Ars memorativa di fine Quattrocento58: tutto ciò lascia intravvedere che tali insegnamenti appartengono ormai definitivamente a un patrimonio comune di pratiche consolidate nei secoli passati. Questo genere di istanze occupa del resto un posizione centrale nella trattatistica del primo Cinquecento; non è un caso, dunque, che l’Ars memorativa di Jacobus Philippus59 o il De memoria artificiosa compendium opusculum di Jacques Colin60 si aprano proprio con la definizione della triplice ripartizione delle tipologie di luoghi: i luoghi sono pertanto di tre tipi: i primi sono massimi, i secondi maggiori e gli ultimi che verranno considerati adattissimi in qualità di parole e che definiremo piccoli. I massimi conterranno i maggiori e i piccoli saranno contenuti dai maggiori. Massimi vengono considerati qualsiasi tipo di edificio di grandezza assoluta, come i templi, le case o i monasteri; i maggiori sono dette singole dimore quadrate; i piccoli le pareti, gli angoli e le aperture dei maggiori61.
Cfr. Johannes Enclen de Cusa, Tractatulus artificiosae memoriae, f. Aiir-Aiiv. Cfr. ibid., ff. [Aiiiv]-[Aivr]. 59 Jacobus Philippus, Ars memorativa naturali proficua plurimum memoriae, Norimberga 1515. 60 Jacques Colin, De memoria artificiosa compendiosum opusculum partim ex Cicerone & Quintiliano: Partim ex divo Thoma Aquinate conflatum, [Parigi], Josse Bade, 1515. Nato intorno alla fine del Quattrocento ad Auxerre e morto nel 1547, Jacques Colin fu umanista, diplomatico e infine abate di Saint-Ambroise a Bruges; fu noto soprattutto per aver tradotto in francese il Cortegiano di Baldassare Castiglione, più volte ripubblicato tra il 1537 e il 1546. Cfr. V.L. Bourrilly, Jacques Colin, abbé de Saint-Ambroise. Contribution à l’histoire de l’humanisme sous le règne de François Ier, Paris 1905. 61 Colin, De memoria artificiosa, ff. aiiiv-avr: «Locos igitur sunt triplices. Alios maximos: Alios maiores: ceteros vero quoad aptiora invenientur vocabula: parvos appellabimus. Maximi maiores continent: parvi a maioribus continentur. Maximi absoluta quaecumque aedificia. ut templa/domus/coenobia. Maiores dicuntur singulae habita57 58
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Assieme a questa precisazione, che definisce i rapporti di inclusione e subordinazione tra le varie tipologie di luoghi, Colin, a proposito della multiplicatio locorum, suggerisce di individuare in ciascun luogo ‘maggiore’ fino a dieci luoghi piccoli, secondo una scansione che individua nei quattro angoli, nei punti mediani delle pareti e in due collocazioni laterali rispetto all’ingresso (nonché in corrispondenza di questo stesso) i punti significativi di ogni stanza, proponendo di percorrerli visivamente sia in senso orario (‘diretto’), sia antiorario (‘retrogrado’), ma consigliando comunque di non ammetterne più di dieci62. Partendo dal contributo di autori della seconda metà del Quattrocento come Giacomo Publicio, Pietro da Ravenna e Conrad Celtis che, a loro volta, fanno proprie le prescrizioni della tradizione classica e medievale, all’inizio del Cinquecento vengono dunque fissati in forma definitiva alcuni dei parametri fondamentali della formazione dei luoghi: la misura standard di ciascun luogo individuale, cioè dedicato ad ospitare una singola immagine mnemonica; l’andamento e la direzione per percorrerne la successione; la relazione di reciproca inclusione tra luoghi particolari, stanze ed edifici. Tutte queste prescrizioni costituiscono le norme basilari per l’architettura degli spazi mnemonici e vengono recepite in forma ancora più sistematica nei trattati immediatamente successivi. Nell’Ars memorativa di Guillelmus Leporeus63
tiones quadratae. Parvi vero maiorum parietes et anguli cum ianua»; cfr. Philippus, Ars memorativa, f. Aiir: «Trifario igitur ars memorativae scientiae generaliter locos divisere: sicut in maximos maiores et minimos». 62 Colin, De memoria artificiosa, f. [avr]; nell’Ars memorandi di Jodocus Wetzdorf è presente l’illustrazione di un sistema locale – raffigurato come un castello o un’abbazia – in ciascuna ripartizione del quale (stanze e saloni) vengono individuati cinque luoghi particolari (cfr. Wetzdorf, Ars memorandi, f. A4r). 63 Guillaume Le Lièvre, Ars memorativa, [Parigi], Josse Bade, 1520. Nonostante la discreta diffusione del testo, sono scarse le informazioni biografiche su Guillaume Le Lièvre: nato ad Avallon in Borgogna probabilmente nella seconda metà del XV secolo e morto negli anni Trenta o Quaranta del Cinquecento, sicuramente dopo il 1523, anno in cui pubblica a Tolosa la seconda edizione del suo testo. Queste poche notizie possono essere riscontrate in J.J. Morcillo Romero, El Ars memorativa de G. Leporeo (estudio, edición crítica, traducción, notas e índices), tesi di dottorato presso l’Universidad de Extremadura, Departamento de Ciencias de la Antigüedad, 2015, (Novembre 2018).
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– pubblicata da Josse Bade, lo stesso editore del testo di Colin64 – viene ad esempio ripresa la scansione della tipologia dei luoghi in massimi, maggiori e minori, apportando tuttavia alcune rilevanti precisazioni: per maggiori, infatti, si intendono quelli «come templi, corti, case immaginarie e stanze»; i massimi, invece, sono «città, collegi, palazzi, cittadelle, castelli ed altri immaginabili»65. Le Lièvre pone dunque una maggiore attenzione – rispetto alla sua fonte ispiratrice primaria che, molto probabilmente, è proprio Colin – alla resa realistica delle relazioni tra i vari tipi di spazi mnemonici, assegnando ai luoghi maggiori (sempre di forma quadrata, come mostrato anche in una suggestiva illustrazione)66 [fig. 1] dimensioni inferiori a quelli massimi e garantendo che questi ultimi siano effettivamente in grado di accogliere i primi, relativizzandone le proporzioni: così se gruppi di dieci luoghi piccoli saranno raccolti in stanze queste verranno poste in un palazzo; diversamente se saranno collocati in piccole case o templi, allora essi saranno raccolti in una città, in un monastero, oppure in un castello67. Le riflessioni dell’Ars memorativa di Le Lièvre continuano poi riepilogando le conclusiones di Pietro da Ravenna, compresi gli espedienti per annotare e numerare i luoghi, attraverso un sistema di codifica visiva dei numeri, ed evocando la non meno importante osservazione sul rafforzamento della stabilità memorativa degli spazi ottenuta per mezzo di caratteristiche figure agenti poste lungo il percorso68. Il testo che, tuttavia, costituisce la più compiuta sintesi e sistematizzazione di tutte le precedenti istanze mnemotecniche sui luoghi, è il Congestorium artificiosae memoriae69 del domenicano Johannes Romberch. Rispetto alle indicazioni di Pietro da Ravenna, Georg Sibutus Oltre a questi due testi, Bade pubblica, nel 1511, il De mente et memoria libellus di Nicolas Chappuis; cfr. P. Renouard, Bibliographie des impressions et des oeuvres de Josse Badius Ascensius, imprimeur et humaniste, 1462-1535, 3 vols., Paris 1908. 65 Le Lièvre, Ars memorativa, f. VIIIr: «loca maiora minoribus dissimilia sunt, quae quadrangolarem forma habent: ut templa, aulae, domus imaginabiles, et camerae. Loca maxima, quae ad similitudinem et aequiparantima maiorum et minorum accedunt: sunt loca maiora et minima: ut oppida, collegia, magnae domus, arces, castra, et alia imaginabilia». 66 Cfr. ibid., f. IXr. 67 Cfr. ibid., f. VIIIr. 68 Cfr. ibid., ff. Xr-XIIIv. 69 Johannes Host von Romberch, Congestorium artificiosae memoriae, Venezia, Giorgio Rusconi, 1520. Sulla figura di Romberch, cfr. A. Torre, Divenire memoria, 64
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1. Le Lièvre, Ars memorativa, f. IXr.
e altri sulla possibilità di trarre ispirazione per la scelta dei luoghi dai paesaggi naturali, dalle città visitate e dagli scenari fittizi descritti dalla letteratura, Romberch mostra, ad esempio, che è possibile ricavare moltissimi luoghi, reali o immaginari, da qualsiasi circostanza ed esperienza, perfino dalle ipotetiche sfere concentriche, sia celesti che angeliche, della cosmologia e della teologia scolastiche70 [fig. 2]. Ciò lo porta introduzione a Dolce, Dialogo del modo di accrescere e conservar la memoria, pp. xvii-xxviii. 70 Dove non diversamente dichiarato, per le citazioni e i riferimenti al Congestorium si rimanda all’edizione del 1533: Romberch, Congestorium artificiosae memoriae, Venezia, Melchiorre Sessa, 1533, f. 32v. Per la traduzione italiana, che utilizza il testo della seconda edizione, si veda Dolce, Dialogo del modo di accrescere e conservar la memoria.
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2. Romberch, Congestorium artificiosae memoriae, f. [32v].
a suggerire, fattivamente, la creazione di un’articolata architettura formata da uno spazio massimo (una città) suddiviso in gruppi di cinque edifici/case, ciascuno dei quali scandito in dieci luoghi minori. In particolare propone di denotare il luogo massimo con una lettera iniziale e principale («abatia» per la A), i gruppi di cinque luoghi maggiori che lo suddividono con altrettante parole le cui sillabe iniziali sono scandite alfabeticamente (ad es.: «barbitonsor, bellator, bibliopola, bovicida, bubulcus») e di ‘numerare’ i dieci luoghi particolari per mezzo di oggetti indicatori, ripartendoli ogni cinque e dieci71 [fig. 3]: ecco quindi che le architetture interiori, che abbiamo visto prendere una forma sempre più complessa nell’evolversi della trattatistica mnemotecnica d’inizio Cinquecento, si rivestono anche delle soluzioni per la 71
Cfr. Romberch, Congestorium artificiosae memoriae, ff. 35r-38v.
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3. Romberch, Congestorium artificiosae memoriae, f. [35v].
notatio locorum descritte già dagli autori del XV secolo, distribuendo i livelli di organizzazione del materiale mnestico secondo la struttura dell’alfabeto sillabico. In questa prospettiva vengono rielaborati anche i termini con i quali sono denominate le tipologie di luoghi, suddivisi in ‘comuni’, ‘propri’ e ‘particolari’72; per quanto riguarda questi ultimi, muovendo dalle indicazioni della Phoenix, viene ulteriormente ridefinito il canone ‘spaziale’ ideale per accogliere una singola immagine: se applicherai alla superficie un huomo di convenevole statura con le braccia distese, tu misurerai pienamente la lunghezza all’in su, e la larghezza dalla destra e dalla sinistra. Né si faccia il luogo più alto che la mano di chi sta nel
72
Cfr. ibid., f. 17v.
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pavimento vi possa arrivare; né sia maggior la statura de l’immagine d’un comune huomo73 [fig. 4].
Quello che colpisce maggiormente di queste pagine di Romberch è tuttavia l’ampia premessa filosofica a supporto non solo di una più approfondita teoria della memoria – elemento del resto presente già nei trattati precedenti –, ma anche dell’assegnazione di una specifica funzione mnemonica ai luoghi e della valutazione del loro statuto teorico, per la quale sono esplicitamente chiamati in causa Aristotele e Tommaso74: diciamo in questo nostro artificio il luogo essere una superficie di alcuna cosa fatta dalla natura, dalle arti, overo dall’opera di alcuno artefice, o formata dalla nostra imaginazione; percioché nella sola virtù del pensiero e imaginazion nostra formiamo o similitudine, o imagine, o segno, che poi con devuto ordi-
4. Romberch, Congestorium artificiosae memoriae, f. [28v].
Cfr. ibid., f. 28r: «ut si comperentis staturae virum expansis lacertis superficiei applicaveris recte longitudinem scilitem sursum et latitudinem dextrorsum atque sinistrorsum metieris. Non enim altior erit locus quam in pavimento sistens manu contingere valeat: neque amplior erit statura mediocris viri» (trad. it. Dolce, Del modo di accrescere e conservar la memoria, p. 60). 74 Cfr. ibid., ff. 16r-17v. 73
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ne ci rappresenta le cose, delle quali vogliamo ricordarci, a ogni nostro talento. E si come il luoco al corpo, che è posto in quello, è termino esteriore […], così parimente le specie o forme delle cose, da loro col mezo della fantasia prese e da i luoghi, per via della imaginazione solamente, ridotte nella nostra mente, possono dimenticarsi et uscir di quella, rimanendo i luoghi75.
La lunga riflessione sviluppata da Romberch, della quale, dal passo citato, emerge il nucleo centrale, è volta quindi ad accostare il mondo della creatività fantastico/mnemonica a quello della natura, mostrando come le ‘leggi’ fisiche della seconda si rispecchino nella virtualità del primo e, pertanto, come possano essere a ragione riproposte anche per gli scenari fantastici le nozioni filosofiche che definiscono lo statuto degli oggetti della realtà: in linea con le principali istanze della riforma cinquecentesca del metodo, anche le architetture interiori possono pertanto considerarsi un debito sviluppo, nel campo proprio dell’immaginazione, di quella strutturazione che, sia sul piano logico sia nella natura stessa delle cose, raccoglie la varietà dei fenomeni in un’unità organica. Sulla scia di queste importanti acquisizioni tecniche e teoriche si muove anche l’Artificiosae memoriae libellus76 del teologo protestante Johann Spangenberg77, il quale mostra l’avvenuta condensazione di tali insegnamenti in un vero e proprio corpus di prescrizioni sui luoghi mnemotecnici che assommano quelle della retorica latina a quelle medievali riprese e sviluppate dalla trattatistica quattrocentesca e d’inizio Cinquecento; è in questa veste di sistematizzazione ormai pienamente normativa dell’ars memoriae che, nella seconda metà del XVI secolo, il testo del teologo luterano giunge a godere di una noteCfr. ibid., f. 17r: «in hoc nostro opificio dicimus locum esse superficiem alicuius rei natura vel arte operave fabrili sive mechanica: aut nostra imaginatione effectam: quatenus in ea sola imaginaria virtute: similitudinem sive idolum aut simulachrum vel imaginem effingamus quae debito ordine memoranda repraesentet cum erigere libuerit. Quaemadmodum nempe locus est corpori locato terminus extrinsecus […] ita pariformiter species rerum per fantasiam nostram ab ipsis abstracte locisque imaginatione duntaxat mancipate possunt obliterari et deleri» (trad. it. Dolce, Dialogo del modo di accrescere e conservar la memoria, p. 34). 76 Johann Spangenberg, Artificiosae memoriae libellus in usum studiosorum collectus, Lipsia, Michael Blum, 1539. 77 Cfr. T. Kaufmann, Spangenberg, Johann in Neue Deutsche Biographie, 24 (2010), pp. 622-3, Online-Version: (Dicembre 2018). 75
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vole fortuna editoriale in Germania, essendo, ad esempio, ripubblicato a Wittenberg nel 1570 e nel 1588, a Stoccarda nel 1591. Diverso è il destino de L’arte del ricordare di Giovan Battista Della Porta, che propone nuove e personali soluzioni per l’animazione dei luoghi e il rafforzamento della loro efficacia memorativa, secondo modalità che risulteranno fonte di ispirazione anche per la tecnica bruniana78. In particolare, nelle pagine iniziali del suo trattato, con l’intento di distanziarsi criticamente dalle prescrizioni che l’hanno preceduto – comprese quelle della classicità79 –, Della Porta propone infatti un sistema di sua invenzione per rafforzare visivamente la forza mnestica dei luoghi individuali: Perciò che io sono il primo, se non m’inganno, che voglio che ne’ luoghi già eletti si accomodino le persone […] là dove noi, ritrovando una persona dritta in quel luogo e sapendone tutti i costumi e condizioni […] in un punto nell’atto desiderato l’accomodiamo e potremo spogliarla e vestirla e figurarla in tutte quelle fattezze e modi che parerà che bisogni80.
Pubblicata dopo la Magia naturalis (1558) e il De furtivis literarum (1663) – un manuale di steganografia – L’arte del ricordare del signor Gio. Battista Della Porta napolitano (Napoli, appresso Mattia Cancer se vendeno per Marcantonio Passaro, 1566) si presenta come una versione in volgare di un’omonima e smarrita opera latina che fu tradotta da Dorandino Falcone da Gioia, uno sconosciuto umanista che in realtà cela il Della Porta stesso; questi ne ripubblicò poi una versione rivista nel 1583 ed una più estesa – questa volta in latino – nel 1602. L’Arte del ricordare, a motivo della lingua in cui fu scritta e forse anche oscurata dalla maggiore fama che ebbe la Magia naturalis, circolò prevalentemente in ambito napoletano e spagnolo, sebbene, come si vedrà, sia possibile cogliere certe affinità tecniche con le soluzioni adottate anche da Bruno. Cfr. R. Sirri, L’Ars reminiscendi di G.B. Della Porta, «Annali dell’Istituto universitario orientale di Napoli, Sezione romanza», 34, 1992, pp. 365-85; S. Ricci, Della Porta, Giovan Battista, in Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Filosofia, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2012, pp. 213-20. I passi citati sono tratti da: G.B. Della Porta, The Art of Remembering. L’arte del ricordare, a cura di A. Maggi e F.A. de Armas, trad. di M. Aloisio et al., Longo Editore, Ravenna 2012, che riporta il testo dell’edizione del 1566; per l’edizione critica delle versioni italiana e latina, cfr. Id., Ars reminiscendi, a cura di R. Sirri, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1996. 79 Cfr. Della Porta, The Art of Remembering, p. 127: «Di alcune opinioni confutate». 80 Ibid., p. 128. 78
142 Nel tempio di Mnemosine
L’idea di Della Porta è di rivisitare quanto aveva già suggerito, ad esempio, Pietro da Ravenna – cioè l’utilizzo di immagini di conoscenti associate ai luoghi e la raffigurazione, attraverso queste, di informazioni come i nomi o, semplicemente, l’indice di successione del luogo stesso –, ma con un evidente incremento dell’effetto visivo dovuto all’animazione e alla versatilità della figura stessa, che è posta come elemento di qualificazione aggiuntiva per il luogo: questa stessa funzione di rafforzamento visivo da parte di un’immagine animata rispetto al luogo verrà ripresa anche da Bruno che la definirà, per l’appunto, «aggettivante» (subiectum adiectivum)81. Un’ulteriore e significativa concezione dell’architettura mnemotecnica, che non può essere ignorata in questo excursus sulle fonti degli scritti mnemotecnici bruniani, la incontriamo anche in un testo che non è propriamente un trattato sull’arte della memoria e che tuttavia, per la sua singolare vicenda culturale e la peculiare declinazione dell’ars memoriae, avrà ampia fortuna nel secondo Cinquecento: si tratta de L’idea del theatro82 di Giulio Camillo, nella quale è descritto il progetto teorico per la realizzazione di un reale teatro dove ‘contemplare’, reificato in suggestivi simboli, un corpus di informazioni di carattere filosofico e iniziatico83. In questo testo l’istanza enciclopedica e quella scenotecnica si sovrappongono alla componente mnemonica, andando a configurare uno spazio fisico semicircolare articolato in gradinate e gallerie, volto a contenere le ‘immagini’ di un sistema di sapere di ispirazione ermetica, cabalistica e neoplatonica. Emerge così una struttura di luoghi nella quale la combinatoria – declinata in senso lulliano – è evidente nella disposizione classificatoria delle varie parti: sette porte che dal proscenio, nel quale con un rovesciamento precipuamente mnemotecnico è collocato il punto di vista dello spettatore, conducono verso la ribalta, a sua volta scandita in altri sei gradi principali, implementando in tal modo il numero sette sia in senso ‘orizzontale’ sia ‘verticale’; ciò va a costituire, in ultimo, una sorta di denso casellario ordinato in maniera gerarchica, contenitore dettagliaCfr. infra, pp.205 e sgg. L’idea del theatro dell’eccellen. m. Giulio Camillo, Firenze, appresso Lorenzo Torrentino, 1550. 83 Cfr. Yates, L’arte della memoria, pp. 121-47; su Giulio Camillo sono fondamentali gli studi di Lina Bolzoni, curatrice della recente edizione G. Camillo, L’idea del theatro, con L’idea dell’eloquenza, il De transmutatione e altri testi inediti, Milano 2015. 81 82
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to per un sistema di informazioni già stabilite e preventivamente ordinate dall’autore stesso84. L’ultimo testo che si vuole prendere in considerazione in questo percorso attraverso le fonti della mnemotecnica bruniana sulla costruzione e organizzazione dei luoghi mnemonici, è il Thesaurus artificiosae memoriae85 di Cosimo Rosselli, fiorentino, dell’Ordine di San Domenico86. Questo scritto rappresenta uno dei più completi testimoni della mnemotecnica tardocinquecentesca, assommando, con un intento sistematico che è pari a quello del Congestorium di Romberch, tutta la tradizione teorica e tecnica che l’ha preceduto; anch’esso, come le opere di trattatistica mnemotecnica, prende le mosse dalla definizione dei luoghi, cercando di intervenire nel semplificarne le tipologie: Per quanto riguarda la suddivisione dei luoghi, alcuni li denominiamo comuni, altri particolari. I luoghi comuni sono quelli che contengono i particolari e sulla base dei quali essi sono divisi: come il genere rispetto alle proprie specie […]. I luoghi particolari sono le parti dei luoghi precedentemente definiti e vengono detti luoghi in quanto tali, poiché permettono di alloggiare le figure e muoversi tra di esse87.
Per una ricostruzione dell’impianto e delle immagini del Teatro, si vedano: la tavola fuori testo elaborata da Yates, L’arte della memoria, inclusa tra le pagine 184 e 185; l’ampio apparato di immagini fuori testo, in Camillo, L’idea del theatro, tra le pp. 239 e 240 e le relative indicazioni bibliografiche, pp. 311-24. 85 Cosimo Rosselli, Thesaurus artificiosae memoriae. Concionatoribus, philosophis, medicis, iuristis, oratoribus, procuratoribus, caeterisque, bonarum litterarum amatoribus…, Venezia, Antonio Padovani, 1579. 86 Il domenicano Cosimo Rosselli (Firenze 1535-Viterbo 1576), al secolo Bernardo, fu figlio del medico fiorentino Romolo Rosselli (1497-1552) e nipote del pittore Bernardo di Stefano Rosselli (1450-1526), a sua volta cugino del più noto Cosimo Rosselli. Entrò nel Convento di San Marco nel 1552 all’età di sedici anni e l’anno dopo prese i voti sotto la guida del Padre Provinciale Mauro Arrighetti. Le scarse notizie intorno alla sua vita si trovano scritte per mano del fratello Damiano (anch’egli domenicano) nell’introduzione del Thesaurus artificiosae memoriae, pubblicato per sua cura a Venezia nel 1579, pochi anni dopo la scomparsa di Cosimo. Cfr. M. Matteoli, Rosselli, Cosimo, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, II, ad v. 87 Rosselli, Thesaurus artificiosae memoriae, ff. 1v-2r: «Quo a divisionum locorum quaedam communia vocamus: quaedam particularia. Loca communia sunt illa, quae paricularia continent, in qua et dividuntur; quasi genus in species suas […]. Loca par84
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Da questa sintetica definizione emergono con chiarezza due aspetti fondamentali della concezione dei luoghi. Anzitutto che, al di là dell’ampiezza e complessità dei possibili scenari e della rilettura critica della loro classificazione tripartita, sussistono al fondo solo due modi di intenderli: o sono luoghi che contengono altri luoghi, oppure sono luoghi che accolgono immagini. Tale osservazione porta quindi ad accostare il rapporto tra luogo comune e luogo particolare a quello che sussiste tra genere e specie e rivela che la mutazione dell’ars memoriae da ambito secondario della retorica a strumento portante della riflessione dialettica ed ‘enciclopedica’, nell’ultima fase della cultura rinascimentale, si è ormai pienamente consumata: la dispositio metodologica e disciplinare, che è il cuore teorico del nuovo metodo cinquecentesco88, è attuata anche attraverso il materiale mnestico e trova in una sempre più preponderante gestione dei luoghi la principale risposta tecnica nell’ambito della memoria artificiale. La trattazione del Rosselli si sviluppa poi, per tutta la prima sezione del Thesaurus, mostrando al lettore un’amplissima gamma di possibili scenari mnemonici, che parte dai luoghi ‘comuni’ ispirati ai gironi infernali [fig. 5], si sposta alle regioni terrestri procedendo fino alle sfere e cerchie celesti [fig. 6], per giungere in ultimo al paradiso [fig. 7], sovrapponendo e mescolando spazi fittizi a luoghi reali, ma finendo di fatto per creare un vastissimo casellario di luoghi nei quali la struttura scenografica è tenuta insieme dalla complessa tessitura dei paesaggi stessi, scandita in molteplici livelli che vanno dal cosmo fino alla regione, al paese, alla città e agli edifici in esso contenuti, arrivando perfino all’indicizzazione alfabetica dei singoli luoghi particolari, ricavati anche nelle parti di figure umane, di animali e di alberi. Tutte le prescrizioni e le soluzioni tecniche intorno ai luoghi dei secoli passati vengono pertanto riunite e concentrate in questa prima sezione, trasformando i percorsi locali della mnemotecnica tradizionale in una densa virtualizzazione fantastica delle tassonomie e delle enciclopedie tardocinquecentesche; ciò avviene grazie alla definizione vertiginosamente minuziosa di interi territori visuali, perseguendo lo scopo di ottenere la massima organizzazione del maggior numero possibile di dati mnestici: sarà questa, del ticularia, sunt praedictorum locorum partes, quae loca et ipsa dicuntur; quia figuras ambire et continere possunt». 88 Per una disamina di questi temi risulta fondamentale, oltre al già citato Clavis universalis di Paolo Rossi, C. Vasoli, La dialettica e la retorica dell’Umanesimo. ‘Invenzione’ e ‘metodo’ nella cultura del XV e XVI secolo, Milano 1968.
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5. Rosselli, Thesaurus artificiosae memoriae, f. [12r].
resto, una delle tendenze preminenti della trattatistica mnemotecnica del secolo successivo89. Le immagini, tra ‘memoria rerum’ e ‘memoria verborum’ Le immagini sono l’altro fondamentale strumento dell’arte mnemonica: esse sono la rappresentazione segnica del ricordo, anche se, da un punto di vista conoscitivo, tutto ciò che è presente nella memoria, che sia un ricordo ‘naturale’, oppure una raffigurazione simbolica e ‘artificiale’ dello stesso, ha la caratteristica di essere visualizzato nella fantasia. Poiché dunque il ricordare passa necessariamente dai phantasmata, non è facile definire l’ambiguo statuto delle immagini mnemotecniche, dal momento che la loro natura è sia quella di ‘segno’ che rimanda a un contenuto mnemonico (che ne è il significato), sia di essere esse stesse un ricordo; perfino la successione dei dati mnestici, che cognitivamente consiste in un processo dinamico, viene di fatto proiettata simbolicamente nella disposizione delle immagini nei luoghi e, dunque, anche la rappresentazione stessa degli scenari mnemotecnici è, a suo modo, una figurazione mnemonica. 89
Cfr. Rossi, Clavis universalis, pp. 179-200: Enciclopedismo e pansofia.
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6.-7. Rosselli, Thesaurus artificiosae memoriae, ff. [27v] e [37v].
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Questo stratificato modo di intendere i phantasmata rispetto all’ars memoriae ha condotto, fin dalla nascita di quest’ultima, ad affrontare tutti i diversi aspetti della definizione dei simboli mnemotecnici nell’ambito delle specifiche sezioni dedicate alle immagini. All’interno di queste – che per consuetudine seguono le sezioni relative ai luoghi, in quanto sono il supporto visivo da approntare prima di ogni altra specifica figurazione – si possono pertanto incontrare riflessioni che riguardano sia le modalità secondo le quali è più opportuno creare i segni mnemonici per le cose da ricordare, sia le caratteristiche visive affinché, in base a determinati attributi, l’impressione fantastica sia la più efficace possibile nel suscitare emozioni, maggiormente perspicua alla vista interiore e distinta dalle altre. Lo scopo di questa semiotica ante litteram è del resto quello di rafforzare il valore del significante (approfondendo anche tutti i possibili riferimenti alle differenti tipologie di significati), per far sì che il segno risultante sia al massimo grado rammemorabile e, al contempo, evocativo del senso che gli è collegato. Restano escluse da questo tipo di analisi – ma, lo vedremo, non in maniera assoluta o sistematica – tutte quelle considerazioni che riguardano l’ordine e l’organizzazione dei ricordi che afferiscono invece alla trattazione intorno ai luoghi. Le pagine relative alla memoria artificialis del De oratore si aprono, come si è visto, con la descrizione dell’atto (mitico) di fondazione della mnemotecnica, ovvero la narrazione del drammatico episodio occorso a Simonide di Ceo. Se da una parte questo brano rimanda a un esplicito riconoscimento del valore primario dei luoghi, considerati la vera e propria ossatura dell’ars, dall’altra in esso Cicerone sottolinea anche l’importanza dell’aspetto visivo come caratteristica preminente di questa tecnica, oltre che dell’intera sfera cognitiva: i concetti che s’imprimono più profondamente nei nostri animi sono quelli trasmessi dai sensi. Ora, siccome tra tutti i nostri sensi, il più acuto è quello della vista, ne deriva che i concetti appresi con le orecchie e col pensiero sono più facilmente ricordati se vengono affidati alla mente con l’aiuto della vista: per questa ragione una certa configurazione o immagine visiva rappresenta i concetti oscuri e lontani dalla vista in modo tale che noi teniamo, per dir così, sotto i nostri occhi ciò che difficilmente possiamo abbracciare col pensiero90.
Cicero, De oratore, II, lxxxvii, 357: «ea maxime animis effingi nostris, quae essent a sensu tradita atque impressa; acerrimum autem ex omnibus nostris sensibus esse sensum videndi; qua re facillime animo teneri posse ea, quae perciperentur au90
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Quello che ne consegue è un’accentuata attenzione all’aspetto di trasformazione in chiave visuale delle cose che si intendono memorizzare artificialmente, vera attitudine peculiare dell’arte: Tale capacità verrà dall’esercizio che dà origine alla consuetudine, e dalla formazione di parole simili ma diverse e mutate nei loro casi o trasportate per il significato dalla specie al genere, e dalla rappresentazione di un intero concetto mediante l’immagine di una sola parola, secondo il metodo di un grande pittore che rappresenta le distanze dei luoghi per mezzo della differenza delle figure91.
La metafora pittorica diviene il paradigma – adottato da Cicerone e ripreso in seguito da molti altri autori – che si sovrappone a quello della ‘scrittura interiore’ nel caratterizzare la particolare disposizione tecnica e mentale del costruire i segni della memoria. Un’arte rappresentativa che, in questo caso, si muove nello sterminato spazio semiotico che va dalla riproduzione mimetica sino all’allegoria, al simbolismo e all’aperta costruzione di codici visuali arbitrari, adottati per trasformare in immagine ciò che non è propriamente sensibile o del quale non è richiesto di tradurre visivamente il significato, bensì altri aspetti. Tali istanze possono essere colte nella distinzione – che diverrà centrale a tutta la tradizione mnemotecnica – tra la memoria rerum e la memoria verborum: la prima riguarda le ‘cose’ ed «è propria dell’oratore» che la esercita «col disporre le singole immagini al loro giusto posto, per potere ricordare i concetti per mezzo delle immagini»92. La seconda concerne l’arte di riprodurre visivamente l’espressione fonetica (o talvolta ‘grafica’) di un termine e «si distingue per una maggiore varietà di immagini», dal momento che sono molti i termini «che non si ribus aut cogitatione, si etiam commendatione oculorum animis traderentur; ut res caecas et ab aspectus iudicio remotas conformatio quaedam et imago et figura ita notaret, ut ea, quae cogitando complecti vix possemus, intuendo quasi teneremus» (trad. it. Cicerone, Opere retoriche, I, p. 443). 91 Ibid., II, lxxxvii, 358: «quam facultatem et exercitatio dabit, ex qua consuetudo gignitur, et similium verborum conversa et immutata casibus aut traducta ex parte ad genus notatio et unius verbi imagine totius sententiae informatio pictoris cuiusdam summi ratione et modo formarum varietate locos distinguentis» (trad. it., p. 443). 92 Ibid., II, lxxxvii, 359: «rerum memoria propria est oratoris; eam singulis personis bene positis notare possumus, ut sententias imaginibus, ordinem locis comprehendamus» (trad. it., p. 443).
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possono rappresentare con nessuna immagine somigliante», e dunque risulta necessario «raffigurarci delle speciali immagini e farne un uso frequente»93. Questo tipo di parole è di solito costituito, nella prospettiva di un oratore che deve imparare a memoria un testo, dai termini sincategorematici, ovvero congiunzioni, interiezioni e altre parti non aventi un significato proprio, ma unicamente una funzione sintattica o grammaticale, attiva all’interno del processo di costruzione del senso del discorso94. Nella Rhetorica ad Herennium si attribuisce un diverso valore alla memoria di parole, intendendo quest’ultima come la modalità per raffigurare attraverso immagini le specifiche parole dei versi di una poesia o di uno scritto, e identificando invece la memoria rerum come quella che concerne i concetti elementari e basilari di un testo e che devono essere memorizzati. In entrambe le circostanze, tuttavia, l’anonimo autore proponeva un’analoga soluzione tecnica: isolare una serie di nuclei fondamentali dal materiale da memorizzare (i singoli concetti o le parole), trasformarli in immagini e creare una scena che le raccogliesse tutte in una composita visione in cui venivano messe in relazione tra di loro, secondo gli stessi rapporti di connessione logica e subordinazione che sussistevano nelle informazioni d’origine95. Ciò, come si è detto, vale anche per le parole, anche se in questo caso l’elemento che stimola creativamente la produzione dell’immagine è di tipo fonetico: il cultore di arte della memoria viene infatti invitato a formare delle scene unendo termini assonanti con quelli da memoIbid.: «multa enim sunt verba, […] quae formari similitudine nulla possunt; eorum fingendae sunt nobis imagines, quibus semper utamur» (trad. it., p. 443). 94 Cfr. ibid. 95 Cfr. Rhetorica ad Herennium, III, xx: «Rei totius memoriam saepe una nota et imagine simplici conprehendimus; hoc modo, ut si accusator dixerit ab reo hominem veneno necatum, et hereditatis causa factum arguerit, et eius rei multos dixerit testes et conscios esse: si hoc primum, ut ad defendendum nobis expeditum sit, meminisse volemus, in primo loco rei totius imaginem conformabimus: aegrotum in lecto cubantem faciemus ipsum illum, de quo agetur, si formam eius detinebimus; si eum non, at aliquem aegrotum non de minimo loco sumemus, ut cito in mentem venire possit. Et reum ad lectum eius adstituemus, dextera poculum, sinistra tabulas, medico testiculos arietinos tenentem: hoc modo et testium et hereditatis et veneno necati memoriam habere poterimus. Item deinceps cetera crimina ex ordine in locis ponemus; et, quotienscumque rem meminisse volemus, si formarum dispositione et imaginum diligenti notatione utemur, facile ea, quae volemus, memoria consequemur». 93
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rizzare, in modo che il ‘testo’ venga ricostruito attraverso una sorta di rebus enigmistico96. Relativamente alle immagini, la parte più interessante dell’opera di retorica indirizzata ad Herennium è tuttavia quella in cui si tratta delle qualità, ossia la loro impressionabilità affettiva; mostrando una chiara consapevolezza del funzionamento della memoria, è ribadito infatti il carattere eccezionale del segno mnemonico, che deve colpire l’immaginazione in modo efficace per rimanere più saldamente radicato nella mente, attraverso il ricorso a una vasta gamma di emozioni, sia piacevoli che spiacevoli, considerate tutte utili mezzi per rafforzare l’immagine stessa: nessun elemento della rappresentazione mnemotecnica può essere ordinario, ma ovunque sono il paradosso, lo squilibrio, il contrasto – a partire da quello cromatico, per giungere a quello morale –, l’inversione e il ribaltamento a costituire gli sregolati paradigmi di una creatività figurativa che attinge alle parti più sensibili dell’immaginario e dell’emotività umani97. Viene così ribadito e codificato un modello che, come si vedrà, sarà uno degli aspetti più suggestivi dello sviluppo della tradizione mnemotecnica e che, forse non a caso, riecheggia proprio nella truculenza e tragicità dell’episodio di Simonide di Ceo. Anche la Institutio oratoria di Quintiliano si diffonde nell’esaminare il funzionamento delle immagini, riconoscendo ad esse un’importanza quasi maggiore, all’interno della tecnica, rispetto ai luoghi. Tale atteggiamento è tuttavia eminentemente pragmatico, teorizzando per via empirica il corretto approccio alla loro formazione: quel che si è già scritto o si pensa sul momento lo si mette in risalto con qualche segno che serva a fare ricordare: il quale può essere preso o dall’argomento nel suo insieme, come dalla navigazione, dal servizio militare, oppure da una parola. In sostanza basta ricordare un solo termine per ricollocare nella
Cfr. ibid., III, xxi: «Cum verborum similitudines imaginibus exprimere volemus, plus negotii suscipiemus et magis ingenium nostrum exercebimus. Id nos hoc modo facere oportebit: ‘Iam domum itionem reges Atridae parant’ in loco constituere manus ad caelum tollentem Domitium, cum a Regibus Marciis loris caedatur: hoc erit ‘Iam domum itionem reges’». 97 Cfr. ibid., III, xxii: «Nam si quas res in vita videmus parvas, usitatas, cottidianas, meminisse non solemus propterea quod nulla nova nec admirabili re commouetur animus: at si quid videmus aut audimus egregie turpe aut honestum, inusitatum, magnum, incredibile, ridiculum, id diu meminisse consueuimus». 96
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memoria pensieri dimenticati. Come segno della navigazione, poi, si prenda, ad esempio, un’ancora; del servizio militare, qualcuna delle armi98.
Al di là e prima ancora di definire le tipologie dei segni o dei significati da rappresentare visivamente, Quintiliano insiste sul valore segnico dell’immagine mnemonica, ovvero sul trasferimento di senso da un oggetto all’altro, tra il dato mnestico e la sua raffigurazione; ciò gli permette di concentrare la sua analisi sulla modalità della rappresentazione, cosa che, a suo parere, è più essenziale poiché prende in esame il senso stesso dell’essere segno di qualcosa. Egli pertanto considera in primo luogo l’analogia (o similitudine): «un mezzo per rendere la memoria ancora più ferma è quello di trasferire la memoria alla cosa da ricordare, partendo da qualche altra a questa simile»99; ciò può accadere per la prossimità del senso («se il nome da ritenere è Fabio, cerchiamo di avere presente il celebre Temporeggiatore»100), oppure per una certa identità tra i due soggetti («qualche amico che porti lo stesso nome»101), visualizzando un significato peculiare («ciò avviene più facilmente quando si tratti di nomi come Aper, Ursus, Naso o Crispus, giacché si tratta solo di fissare nella memoria le cose o gli animali donde sono tratti»102), oppure derivando un segno a partire dall’etimologia del nome stesso103. Questa riflessione è applicata da Quintiliano a qualsiasi tipo di oggetto, di conseguenza viene esplicitamente criticata la distinzione tra memoria rerum e memoria verborum, non considerando necessario – a differenza di Cicerone – memorizzare le parti non semanticamente attive ed autonome del discorso e, in ogni caso, M. Fabius Quintilianus, Institutio oratoria, XI, II, 19: «tum quae scripserunt vel cogitatione complectuntur et aliquo signo quo moneantur notant, quod esse vel ex re tota potest, ut de navigatione, militia, vel ex verbo aliquo: nam etiam excidentes unius admonitione verbi in memoriam reponuntur. Sit autem signum navigationis ut ancora, militiae ut aliquid ex armis» (trad. it., M. Fabio Quintiliano, L’istituzione oratoria, II, pp. 539-41). 99 Ibid., XI, II, 30: «Haec magis adhuc adstringunt qui memoriam ab aliquo simili transferunt ad id quod continendum est» (trad. it., p. 545). 100 Ibid.: «ut in nominibus, si Fabius forte sit tenendus, referamus ad illum cunctatorem» (trad. it., p. 545). 101 Ibid.: «ad aliquem amicum qui idem vocetur» (trad. it., p. 545). 102 Ibid., XI, II, 31: «Quod est facilius in Apris et in Vrsis et Nasone aut Crispo, ut id memoriae adfigatur unde sunt nomina» (trad. it., p. 545). 103 Cfr. ibid.: «Origo quoque aliquando declinatorum tenendi magis causa est». 98
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ritenendo di poter rappresentare qualsiasi cosa attraverso il sistema di riferimenti analogici da lui proposto104. Da questo breve excursus compiuto nella mnemotecnica classica intorno alla definizione delle immagini si può osservare che, diversamente da quanto avvenne per i luoghi, vi fu una minore tendenza normativa, mentre è più evidente la condivisione di esperienze personali o soluzioni e intuitive. Se dunque va segnalata l’assenza di una teoria generale della creazione del segno mnemonico, occorre comunque sottolineare che già i latini individuarono i principali aspetti semiotici dell’immaginazione mnemotecnica, come ad esempio la similitudine, che costituiva la forma prioritaria per la trasformazione del concetto nella sua rappresentazione e, per opposta derivazione, la contrarietà105. Emergevano poi il meccanismo di assonanza tra il termine e l’immagine, la necessità di tradurre i significati complessi attraverso la costruzione di scene composite, la maggiore efficacia memorativa delle relazioni animate tra le immagini e, infine, l’esasperazione delle componenti emotive e dei contrasti visivi. Lo sviluppo della mnemotecnica nel Medioevo fu ancora più caratterizzato dal valore allegorico e simbolico delle immagini, non solo come elemento di potenziamento della loro forza mnestica, ma soprattutto come fulcro di un’esperienza di ‘lettura’ interiore che chiamava in causa aspetti morali, meditativi e contemplativi, in grado di generare perfino senso e discorsi, all’interno di un quadro valoriale dominato dalla religione106. La persistenza di questo sfondo si mostra ancora con chiarezza nella prima fase della trattatistica mnemotecnica della Cfr. ibid., XI, II, 25-6: «Mitto quod quaedam nullis simulacris significari possunt, ut certe coniunctiones. Habeamus enim sane, ut qui notis scribunt, certas imagines omnium et loca scilicet infinita, per quae verba quot sunt in quinque contra Verrem secundae actionis libris explicentur, ne meminerimus etiam omnium quasi depositorum: nonne impediri quoque dicendi cursum necesse est duplici memoriae cura? Nam quo modo poterunt copulata fluere si propter singula verba ad singulas formas respiciendum erit? Qua re et Charmadas et Scepsius de quo modo dixi Metrodorus, quos Cicero dicit usos hac exercitatione, sibi habeant sua: nos simpliciora tradamus». 105 Similitudine e contrarietà costituiscono già gli elementi alla base delle relazioni associative tra i ricordi (nei processi di reminiscenza) definiti da Aristotele nel De memoria et reminiscientia (451b, 19), a sua volta ripresi dalle leggi di associazione mnestica teorizzate da Platone nel Fedro (73d-74a). 106 Oltre ai già citati scritti di Mary Carruthers, cfr. F.G. Kiss, Performing from 104
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seconda metà del Quattrocento, attraverso le prime edizioni a stampa di manoscritti nei quali i contenuti mnemonici erano un tutt’uno con il ricco e suggestivo repertorio di immagini ideate per rappresentarli: l’Ars memorandi notabilis per figuras evangelistarum107 o l’Ars contemplativa vitae108 costituiscono due tra i più notevoli esempi di come questa tradizione – al confine tra la retorica, la preghiera e l’ars memoriae – potesse continuare la sua fortuna anche nel campo della trattatistica mnemotecnica rinascimentale, stimolando l’evolversi di norme per la formazione delle immagini. Ciò comportò, tra l’altro, anche la prosecuzione di una tendenza ‘creativa’ e fortemente operativa che si esplicitava nella maggiore e più eterogenea varietà di soluzioni e innovazioni personali caratterizzanti questi testi. Già nell’Ars memorativa di Giacomo Publicio si può osservare come tale atteggiamento si riversasse, per contrasto, nel tentativo di sistematizzare i molti modi della rappresentazione segnica usando come cornice definitoria termini e nozioni della tradizione retorico-dialettica109. «Il segno», si legge all’inizio del terzo libro, dedicato esclusivamente alle immagini, «si divide in dodici parti. La prima delle quali è detta ‘ritratto’ [effictio]» ed «è quella per cui l’aspetto esteriore del corpo viene delineato attraverso certi segni»110. Il secondo modo della semiotica di Publicio è la notatio, «grazie alla quale riferiamo gli affetti naturali attraverso un termine di paragone»111, come quando, ad esempio, la voracità è raffigurata da un Memory and Experiencing the Senses in Late Medieval Meditative Practice, «Daphnis», 41/2, 2012, pp. 419-52. 107 Ars memorandi notabilis per figuras evangelistarum, Basilea 1470; cfr. L’arte della memoria per figure con il fac-simile dell’Ars memorandi notabilis per figuras evangelistarum (1470), a cura di M. Gabriele, postfazione di U. Rozzo, Trento 2006. 108 Ars et modus contemplativae vitae, Norimberga 1470; Cfr. Kiss, Performing from memory and experiencing the senses, pp. 424-9. 109 Tentativi del genere sono comunque già presenti anche in altri scritti della prima metà del Quattrocento, come le Regulae artificialis memoriae (1432) di Leonardo Giustiniano (cfr. A. Oberdofer, Le Regulae artificialis memoriae di Leonardo Giustiniano, «Giornale storico della letteratura italiana», 60, 1912, pp. 117-27) o le Artificialis memoriae regulae (1434) di Jacopo Ragone (cfr. S. Seelbach, L’‘ars memoriae’ in volgare: il ruolo di Jacopo Ragone, in Di l’artifitial memoria, ms. 3368 Bibliothèque Sainte-Geneviève di Parigi, a cura di F. Pich e A. Torre, Napoli 2017, pp. 167-81). 110 Publicius, Ars memorativa, f. d 4r: «Signum enim duodecim partibus resolvitur. Quarum prima effictio dicitur. Ea est cum corporis facies certis describitur signis». 111 Ibid., f. d 4v: «Qua naturales affectus in medium afferimus».
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lupo, la pavidità dalla lepre o dalle colombe, l’avarizia dalle donne e la liberalità dagli uomini, ecc.112 La terza modalità prescrive invece di ricavare l’immagine dall’etimologia d’una parola: l’esempio classico è quello del nome Filippo che rimanda a qualcuno ‘che ama i cavalli’113; ma, analogamente, anche l’assonanza (onomathopeya), «cioè il derivare la comprensione di una parola dalla sua espressione vocale»114, può suggerire la figura adatta a rappresentare qualcosa. Il quinto modo si basa sul fatto che «talvolta è assai efficace raffigurare ed evocare gli effetti delle cose»115, come quando, nel caso dei nomi dei mesi, si evince che «Marzo è dedito alla guerra, dal mese di Aprile vengono aperti tutti gli altri […], Maggio sovrabbondava di fiori», ecc.116 Similmente da determinati oggetti (ad esempio le armi o certi strumenti) si può rinviare ai propri autori – come avviene con le lunghe lance della falange che richiamano immediatamente i Macedoni117 –, così come certe parti del corpo evocano le relative azioni (i piedi il camminare o il saltare, le ginocchia il chiedere misericordia, ecc.)118. Anche i termini che stanno in una stretta relazione logica o semantica tra di loro possono favorire rimandi reciproci: ad esempio due elementi che sono opposti, come l’accidente e il soggetto, la causa e ciò che è prodotto; infine certe nozioni che sono caratterizzate da una natura mista possono essere simboleggiate attraverso animali fantastici, che assemblano tra loro parti eterogenee, come il centauro, la chimera e simili119. Si può osservare, da quanto è emerso, che il tentativo da parte di Publicio di fissare delle norme per la creazione dei segni naufraga, di fatto, nell’elencazione esemplificativa di specifiche pratiche: ciò non impedisce tuttavia che tale analisi dia vita a riflessioni simili in altri autori, anche se, almeno fino alla seconda metà del Cinquecento, non si riuscirà ad arrivare ad una vera e propria codifica delle modalità di creazione dei segni mnemonici. Diverso ed estremamente interessante è invece il passo che Publicio Ibid. Cfr. ibid., f. [d 5r]. 114 Ibid.: «cognitio verbi e sono vocis ducta». 115 Ibid.: «rerum effectus nonnunquam notare et colligere praeclarum est». 116 Ibid.: «Martem bello deditum, Aprili mense omnia aperiuntur […]. Maius floribus redundabat». 117 Cfr. ibid., f. [d 5v]. 118 Cfr. ibid. 119 Cfr. ibid., ff. [d 5v]-[d 6r]. 112 113
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compie rispetto alla memoria verborum, alla quale dedica il secondo libro della sua opera. In questa sezione viene mostrato, grazie all’apporto di numerose figure che diventeranno veri e propri modelli iconografici per i successivi autori, come rappresentare le lettere per mezzo di oggetti che, nella forma, ne richiamano l’aspetto. In questo modo la A verrà raffigurata per mezzo di un compasso o una scala aperti, la B da un liuto, la C con un ferro di cavallo o un corno, la D attraverso la testa di un bue messa trasversalmente, ecc.120 [fig. 8]. Queste immagini-lettere, come viene dichiaratamente esplicitato in apertura della pagina di spiegazione che le precede, devono essere unite tra di loro in una scena, in modo da formare figurazioni più complesse che rappresentino sillabe o addirittura parole: una modalità per far ciò viene poi insegnata da Publicio stesso per mezzo di un’altra illustrazione che rappresenta una macchina combinatoria per formare sillabe e parole partendo dalle singole lettere. Si tratta di una figura quadrata nella quale, agli angoli e alla metà dei lati, sia internamente che esternamente al perimetro, sono riportate le quindici lettere di un alfabeto ridotto (A, B, C, D, E, F, I, L, M, N, P, R, S, T, V); attorno al quadrato sono tracciati cinque cerchi concentrici sui quali sono disposti altri caratteri e alcuni gruppi di annotazioni che variano a seconda dei settori individuati in corrispondenza di ciascuno degli angoli del quadrato interno; queste indicano le possibili posizioni di un’immagine-lettera rispetto alla sillaba o ad una parola: la combinazione di una consonante con le vocali (sillaba aperta), oppure la ‘ricezione’ da parte di una vocale della consonante (sillaba chiusa); la frapposizione di una lettera in mezzo ad altre due o la collocazione in posizione finale; se una o più lettere siano parte della prima, seconda o terza sillaba di una parola [fig. 9]. Il funzionamento di questo espediente non è tuttavia molto perspicuo, poiché la succinta spiegazione di Publicio risulta piuttosto oscura121: dice che essa implica tre modalità operative, ovvero servendosi di una figura dalle fattezze umane, della possibilità di ‘unire’ tra loro i punti significativi presenti nell’illustrazione e della rotazione di una lettera Cfr. ibid., ff. [c 7v]-[d 2v]. Tale perplessità è espressa già nell’ars memoriae presente all’interno dell’Epitoma in utramque Ciceronis rhetoricam (1492) di Conrad Celtis che dichiara comunque di far proprio il sistema di Publicio delle figure-lettere per la memoria verborum, senza tuttavia assumerne il macchinoso sistema per comporle (cfr. ff. biiiiv-[bvr]); anche Romberch, sollevando apertamente i propri dubbi, nel Congestorium artificiosae memoriae (1520) ne fornisce una personale e semplificata rilettura, cfr. ff. 57v-58v. 120 121
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8. Publicius, Artes orandi, epistolandi, memorandi, f. [c 7v].
rispetto alle quattro direzioni cardinali. L’insieme di queste operazioni dovrebbe dare vita a una composizione avente il valore delle sillabe, ammettendo anche l’aggiunta di lettere intermedie e finali; questo stesso meccanismo prevederebbe, in qualche modo, la possibilità che ogni sillaba si combini con le altre così da portare alla creazione, come dichiara il suo inventore, di raffigurazioni che assommino su di sé il valore di un’intera parola122. L‘originalità di tale sistema – al di là del suo effettivo funzionamento o praticità d’uso – è dovuta alla sua componente ‘combinatoria’ che ispirerà altri autori – tra i quali, come si vedrà, anche Giordano Bruno – nel realizzare espedienti per la memoria verborum improntati a simili meccanismi. Anche Pietro da Ravenna, nella Phoenix, propone soluzioni innovative per la memoria verborum: invece di adottare figure di oggetti per le lettere dell’alfabeto, egli suggerisce di utilizzare immagini di persone la cui iniziale del nome indica la corrispondente lettera. Queste lettere ‘viventi’ – che possono evocare i volti di amici, ma anche di fanciulle dall’aspetto sensuale così da far leva maggiormente sull’impressione emotiva – verranno usate secondo due scopi: come indici dei luoghi, 122
Cfr. Publicius, Ars memorativa, f. [c 7r].
157 Le fonti e i fondamenti tecnici della mnemotecnica bruniana
9. Publicius, Artes orandi, epistolandi, memorandi, f. [H 8r].
servendosi del loro ordine alfabetico e marcando le posizioni entro il percorso locale123; oppure, più propriamente, come immagini-lettere per costruire scene che abbiano il valore di sillabe o parole124. Secondo questa particolare modalità, tali figurazioni devono essere ‘legate’ a strumenti con i quali esse agiscono, unendo così il proprio valore a quello espresso – come risultato della codificazione di un ulteriore alfabeto – dall’oggetto stesso: «se dunque porrò Raimondo che percuote con un bastone [baculum = ba] il luogo, vi si leggerà la sillaba bar e se Simone colpirà il luogo si avrà la sillaba bas»125. A margine della memoria verborum, e comunque all’interno di una serie di novità che riguardano la costruzione di segni mnemonici, Pietro da Ravenna propone poi un altro espediente che avrà successivamente grande Cfr. Tomai da Ravenna, Phoenix, f. [bivv]. Cfr. ibid., ff. cr-cv. 125 Ibid., f. cr: «si ergo in locum raimundum cum baculo locum percutientem posuero legetur in loco syllaba bar: et si Simon locum percusserit habebitur syllaba bas». 123 124
158 Nel tempio di Mnemosine
fortuna nella trattatistica cinquecentesca, il quale serve per esprimere figurativamente i casi grammaticali, associandoli alle parti del corpo e presupponendo quindi una sorta di analogia tra la funzione di queste e il valore dei primi: «nel corpo umano ritrovai le immagini dei casi: infatti la testa corrisponde al caso nominativo, la mano destra al genitivo, la sinistra al dativo; il piede destro è l’accusativo e quello sinistro il vocativo; infine il ventre oppure il petto sarà il caso ablativo»126. Assecondando poi il precetto di impressionare sempre con la massima forza la sfera immaginativa, viene indicato che la distinzione tra i casi singolari e quelli plurali può essere assicurata per mezzo di una figura umana (il Ravennate suggerisce una fanciulla) svestita o sontuosamente abbigliata127. La dodicesima conclusio della Phoenix è invece interamente dedicata alla maniera di produrre immagini per i numeri, partendo da un gruppo fisso di nove immagini arbitrarie (di persone e cose) che rappresentano le unità e combinandole con altre figure (di cose) che stanno per le decine: ciò va a formare un vero e proprio codice di simboli i quali composti assieme in un’unica scena potranno riprodurre qualsiasi cifra128. Anche l’Ars memorativa di Georg Sibutus, pur non aggiungendo alla tradizione della mnemotecnica classica alcunché di particolarmente significativo – rifacendosi in generale, sia per quanto riguarda i luoghi che per le immagini, ai precetti di Cicerone e Quintiliano – sviluppa un peculiare sistema per raffigurare i numeri che è analogo a quello di Pietro da Ravenna, componendo undici figure di oggetti (per le decine e il primo centinaio) con nove di persone distribuite secondo l’ordine alfabetico (per le unità), per formare le varie cifre: mi raffiguravo tutti i numeri per mezzo di undici segni e nove persone […] in questo modo: una croce per il dieci e Anna per l’uno; una forca il venti e Barbara per il due; uno sgabello per il trenta e Caterina per il tre; una sedia per il quaranta e Dorotea per il quattro […]. Pertanto se mi dovevo ricordare
Ibid., f. ciir: «in corpore namque humano casuum imagines inveni: nam caput est casus nominativus manus dextra genitivus manus sinistra dativus: pes dexter accusativus pes sinister vocativus et venter seu pectus casus ablativus». L’anonima Ars memorativa (Ingolstad 1499) propone un sistema abbastanza simile, associando i casi alle posizioni del corpo: «Nota figura in casibus diversis: Nominativus stat. Genitivus iacet. Dativus praebet. Accusativus inclinat. Vocativus vertet. Ablativus defert» (f. [aiiiv]). 127 Cfr. ibid. 128 Cfr. ibid., ff. [ciiiv]-[civr]. 126
159 Le fonti e i fondamenti tecnici della mnemotecnica bruniana
del numero tredici, ponevo Caterina con una croce; [assegnavo] il capitolo quarto a Dorotea che si tocca la testa129.
La Memoria artificiosa di Christian Umhauser130, che è un testo debitore della Phoenix oltreché degli insegnamenti classici, presenta invece una differente rivisitazione dell’espediente per creare immagini per i numeri, basata, in questo caso, sui principi raffigurativi che animano l’alfabeto di Publicio, muovendo cioè dalla forma esteriore dei segni scelti: un bastone è quindi usato come simbolo dell’uno, un’oca del due, un serpente per il tre, ecc.131 Tale sistema riecheggia nell’Ars memorandi di Jodocus Wetzdorf, nella quale si propone, in aggiunta, una codificazione estesa dell’alfabeto ‘sillabico’ da utilizzare per l’indicizzazione e l’ordinamento dei luoghi ‘particolari’ alla quale accenna anche Sibutus e, anteriormente, presente già in Celtis132. L’anonima Ars memorativa, pubblicata a Ingolstad nel 1499, mostra invece un peculiare sistema per raffigurare i numeri dall’uno al dieci, basato sull’utilizzo delle figure geometriche, associando il due ad un segmento, il tre ad un tratto di linea spezzato nel centro, il quattro al ‘tetragono’ (cioè un triangolo nel quale vengono individuati quattro punti significativi nei vertici e nel centro), conseguentemente il cinque è un quadrato, il sei un pentagono, il sette un esagono e così via133. Il Tractatulus artificiosae memoriae di Johannes Cusanus, un testo che, come si è già detto, dipende dalla trattatistica mnemotecnica quattrocentesca di area germanica, affronta – sulla scorta del tentativo definitorio di Publicio – l’analisi dei modi della rappresentazione segnica attraverso l’individuazione di quattro tipologie principali: l’analogia Sibutus, Ars memorativa, f. biir: «omnem quippe numerum undecim signa et novem personae mihi praesentabant […] hoc modo crux semper decimum, anna primum; furca vicesimum barbara secundum; tripes tricesimum, catharina tertium; sedes xl, dorothea quartum […]. Cum igitur debebam meminisse decimotertio, Catharinam cum cruce posui; capitulo quarto Dorotheae caput tangentem». 130 Christian Umhauser, Memoria artificiosa, Basilea, Michael Furter, 1500. Sulla biografia dell’autore e la storia dello scritto, sul ritrovamento dell’unico esemplare di una precedente e prima edizione risalente al 1499-1500, cfr. N. Vacalebre, La Memoria ritrovata: C. Umhauser, Artificiosa memoria, [Speyer], C. Hist, [1499-1500], «La Bibliofilía», 115/2, 2013, pp. 237-44. 131 Cfr. ibid., f. [4v]. 132 Cfr. supra, pp. 125-6. 133 Cfr. Ars memorativa, f. [aivr]. 129
160 Nel tempio di Mnemosine
(similitudo), l’accostamento associativo (comparatio), il riferimento simbolico (figmentum) e la codificazione (inscriptio), considerando le ultime due utili soprattutto per la memoria verborum134. Ognuna di queste viene sviluppata in modo specifico, evidenziandone l’applicazione al materiale mnemonico, esplicitando i modi con cui elaborare il significante a partire da diversi significati e sistematizzando, di fatto, il complesso elenco di casi particolari enucleato da Publicio. Per quanto riguarda la formulazione di espedienti per la rappresentazione di lettere, sillabe e parole – al di là di soluzioni ‘classiche’, basate sulla ricostruzione di termini assemblando immagini il cui nome rimanda alle singole parti della parola –, viene illustrato dal Cusanus un alfabeto basato su oggetti-lettere (per le consonanti oppure le vocali) componibili con altre lettere, a loro volta espresse da particolari gesti e azioni compiute da una figura agente (ad esempio impugnandolo nella mano destra o sinistra e rivolgendolo in alto, in basso, avanti, dietro, ecc.)135. Il Ludus artificialis oblivionis di Nicolaus Simonis è un testo che al singolare titolo associa una vivacità creativa altrettanto sorprendente, evidenziata fin dalle pagine iniziali per mezzo di una suggestiva illustrazione «per annotare facilmente in forma figurativa tutte le lettere, le sillabe e i numeri»136, la quale riproduce una grottesca figura antropoide che assembla arti animali, oggetti e membra umane, nelle cui molteplici parti sono annotate le cifre e le lettere137 [fig. 10]. Questa immagine è propedeutica a una tecnica nella quale si dà piena esplicitazione a tutte le prescrizioni classiche e medievali, alle soluzioni ideate da Pietro da Ravenna, da Publicio e da altri trattati della seconda metà del Quattrocento e che tuttavia non esprime alcuna pretesa di razionalizzazione metodica; piuttosto, secondo uno spirito che si riallaccia più alla mnemotecnica medievale, dà massima espressione alla forza allegorica e simbolica del figurare mnemonico, fornendo un intricato repertorio di applicazioni specifiche per vari soggetti e, addirittura, offrendo un’ampia sezione nella quale vengono riportate in forma sintetica le opinioni in merito a numerosi argomenti di tutti i principali filosofi. Simile è anche il caso del De memoria artificiosa compendium opusculum di Jacques Colin, che, in generale, pur presentando marcate Cfr. Cusanus, Tractatulus artificiose memorie, ff. [Avr]-[Avir]. Cfr. ibid., f. [Avir]. 136 Simonis, Ludus artificialis oblivionis, f. [Aiv]: «Figuralis omnium litterarum et syllabarum, totiusque numeri facilis annotatio». 137 Cfr. ibid.. 134
135
161 Le fonti e i fondamenti tecnici della mnemotecnica bruniana
10. Simonis, Ludus artificialis oblivionis, f. [Aiv].
istanze organizzative che riprendono la classificazione tripartita dei luoghi, affronta invece l’analisi delle tipologie del segno mnemonico limitandosi ad elencare varie soluzioni applicative. Così, alla prima e immediata riflessione che le cose sensibili devono essere raffigurate in base al loro aspetto138, segue il suggerimento di rappresentare «le sostanze corporee e inanimate»139 attraverso figure umane che agiscono con essi; al contrario, le sostanze incorporee e invisibili richiedono un tipo di mediazione altamente simbolica, mentre i personaggi della storia sacra possono essere riprodotti con persone note e viventi dallo stesso nome (o simboli e oggetti che ne richiamino le caratteristiche)140. Recuperando i precetti dell’Ars memorativa di Publicio, gli accidenti possono quindi essere resi per mezzo delle sostanze corporee alle quali 138 139 140
Cfr. Colin, De memoria artificiosa, f. [aviiv]. Cfr. ibid.: «substantiae corporeae et inanimes». Cfr. ibid.
162 Nel tempio di Mnemosine
essi ineriscono, se riguardano l’aspetto esteriore, mentre, se denotano qualità invisibili o interiori, attraverso i concomitanti effetti esteriori, oppure con gesti o azioni di figure umane ad esse in qualche modo riconducibili141. A questa serie di prescrizioni pratiche, seguono due brevi riflessioni su come raffigurare i numeri e le lettere dell’alfabeto. Nel primo caso, non diversamente dai suoi predecessori, Colin suggerisce per i singoli numeri (compreso lo zero) immagini di oggetti dalla forma simile, con i quali comporre le cifre, che serviranno per numerare sia il percorso locale, sia gli elenchi di termini o le citazioni da libri, capitoli e articoli142. Per quanto riguarda le lettere, anche in questo caso, il testo del De memoria artificiosa non si discosta molto dagli espedienti allora in uso, proponendo di codificare l’alfabeto per mezzo di figure umane la cui iniziale del nome corrisponde a ciascuna lettera143. Il testo che più è vicino al trattato di Colin, temporalmente e geograficamente, oltre che per la ricezione dei medesimi temi e delle soluzioni tecniche, è l’Ars memorativa di Guillaume Le Lièvre: come già visto per i luoghi, anche rispetto alle immagini l’intento sistematico di quest’opera è evidente non solo nella fitta e speculare ripresa del De memoria artificiosa, ma anche nell’attenta e mai ridondante collazione dei precetti classici con le più significative innovazioni introdotte da Publicio, Pietro da Ravenna e da Jacques Colin stesso. Per quanto attiene, ad esempio, alla costruzione di alfabeti visivi, nell’Ars memorativa si fa riferimento al sistema della Phoenix di utilizzare immagini di persone note i cui nomi indicano le varie lettere sia come indici dei luoghi, sia per formare, nello stesso modo suggerito dal Ravennate, le scene per le sillabe144. Diversamente, per quanto concerne la codificazione delle cifre numeriche, ad essere utilizzato è il sistema di Colin – che segue una modalità operativa fatta propria anche dalla Memoria artificiosa di Christian Umhauser e dall’Ars memorandi di Jodocus Wetzdorf – basato sull’associazione di numeri ad oggetti che ne evocano la forma grafica (il bastone o un pugnale per l’uno, l’oca per il due, le curve ondulate di un serpente o un cane eretto sulle zampe posteriori per il tre, ecc.)145 [fig. 11]. In merito alla creazione dei segni mnemonici anche 141 142 143 144 145
Cfr. ibid. Cfr. ibid., f. [aviiir]. Cfr. ibid. Cfr. Le Lièvre, Ars memorativa, ff. XIv-XIIr. Cfr. ibid., ff. Xr-Xv.
163 Le fonti e i fondamenti tecnici della mnemotecnica bruniana
11. Le Lièvre, Ars memorativa, f. [Xv].
Le Lièvre, al pari di Publicio, Colin e altri, tenta di elencare i possibili modi di riproduzione e trasformazione del dato mnestico in immagine, prendendo tuttavia le mosse da una classificazione preliminare che è particolarmente interessante per quanto riguarda la completezza e la profondità dell’analisi: L’immagine vera è il concetto di una cosa percepita visivamente e che rappresenta ai nostri sensi ciò che deve essere memorizzato. L’immagine ‘fittizia’ [ficta] è l’apprensione di una cosa della quale non si è fatta esperienza e che si sarebbe potuta vedere a suo tempo e luogo. L’immagine ‘casuale’ [casualis] è l’apprensione di qualcosa di visibile che per noi rappresenta una realtà invisibile146.
Ibid., cc. XIIIIr-XIIIIv: «Imago vera, est conceptus rei visae repraesentantis nobis sensum rerum memorandarum. Imago ficta, est apprehensio rei non cognitae quae 146
164 Nel tempio di Mnemosine
Queste tre definizioni circoscrivono il campo della ‘semiotica’ di Le Lièvre a tre classi di segni fondamentali: quelli iconici e mimetici, che riproducono le sembianze di una cosa quale essa è (parzialmente o integralmente), quelli ‘virtuali’, che ne rappresentano in maniera realistica il potenziale aspetto, e quelli simbolici, che traghettano nella propria conformazione significati astratti e concettuali. Preso atto di questa prima e fondamentale suddivisione, è possibile analizzare come tradurre in immagine le varie tipologie di dati e ricondurre indirettamente ciascuna di esse a questi parametri principali. Ciò viene fatto sulla base di otto regulae: la prima di esse riguarda le «sostanze invisibili» (Dio, gli angeli, l’anima, ecc.), che devono essere raffigurate in forma simbolica partendo dai loro effetti sensibili oppure in virtù di tratti esteriori o gesti di persone che le possano evocare; queste indicazioni valgono in linea di massima anche per gli accidenti non sensibili, ovvero le caratteristiche morali e interiori, che possono essere rese attraverso figure viventi o oggetti. Tra le sostanze invisibili rientrano poi anche i santi e i personaggi storici dei quali non conosciamo l’aspetto: tutti questi vanno tradotti in termini simbolici rilevanti (Pietro, ad esempio, attraverso le chiavi, san Paolo per mezzo di una spada, ecc.)147. Le sostanze sensibili, invece, come è ribadito da tutti gli autori precedenti, fin dalla classicità, vengono rappresentate sulla base del loro aspetto: di conseguenza anche i relativi accidenti esteriori ricadono sulla figurazione di quanto è visibile nei soggetti che ne sono portatori. La terza regola riguarda i casi grammaticali, per i quali vale la prescrizione del Ravennate di riportarli alle parti del corpo, secondo la medesima scansione proposta nella Phoenix148; successivamente, come si è già visto in Publicio, viene proposto di utilizzare le insegne e gli oggetti caratteristici di popoli ed epoche della storia per evocare quegli stessi popoli o determinati personaggi storici, i cui nomi, tuttavia, potranno essere rammentati anche tramite quelli di conoscenti omonimi149. L’ultima parte della riflessione di Le Lièvre riguarda la memoria verborum che ne risulta depotenziata, perché non si serve di lettere o sillabe, ma chiama in causa direttamente le parole o i concetti fondamentali dei testi. Così i versi e le poesie saranno memorizzati partendo potuisset videri suis locis et temporibus. Imago casualis est apprehensio rei visibilis repraesentantis nobis rem invisibilem». 147 Cfr. ibid., f. XVr. 148 Cfr. ibid., f. XVv. 149 Cfr. ff. XVIv-XVIIr.
165 Le fonti e i fondamenti tecnici della mnemotecnica bruniana
dalla raffigurazione della prima parola o del primo verso, mentre i testi in prosa come gli aneddoti o gli apologhi saranno scomposti nei loro elementi concettuali essenziali (collocazione temporale, protagonisti, ambientazione e fatti), che verranno tradotti in immagini adeguate e messi poi in collegamento tra loro in un’unica costruzione scenica150. I discorsi, infine, si adatteranno alla creatività fantastica per mezzo del medesimo vaglio analitico: rinvenute le parti principali – considerate come unità semantiche da organizzare allo stesso modo degli apologhi – e la loro scansione, individuate le ‘autorità’ citate (che, in quanto persone storiche, verranno trattate secondo i precetti delle precedenti regole), il tutto dovrà essere tradotto in un’opportuna sequenza di scene poste in successione nel percorso locale151. Come si può osservare, Le Lièvre non fa altro che riorganizzare in una forma più ordinata l’insieme di precetti, consigli ed esempi ereditati dalla tradizione classica e dalla trattatistica precedente, cercando di trarne una sorta di impianto sistematico: tre tipi di figurazioni per tutte le cose e, a seguire, varie forme di oggetti mnemonici che possono essere riportati ad ognuna di queste tipologie – adottando le strategie raffigurative più consone per ognuna di esse – e infine, qualora esse si mescolino e si sovrappongano in materiali più complessi ed eterogenei, la scomposizione di questi in ‘oggetti’ più semplici che ricadano nelle suddivisioni precedenti. Questo tipo di istanza sistematizzatrice applicata alla creatività fantastica trova il suo tentativo più compiuto in quello che, indubbiamente, è uno dei testi più densi e articolati della trattatistica mnemotecnica cinquecentesca, ovvero il Congestorium artificiosae memoriae di Johannes Host von Romberch. Alle immagini è dedicata la terza parte del testo152, che si apre con la definizione stessa di immagine mnemonica e assembla poi, nello sviluppo della sezione, tutte le prescrizioni e gli espedienti degli mnemonisti più noti, a partire da Giacomo Publicio, Pietro da Ravenna e i trattati di fine Quattrocento/inizio Cinquecento di area germanica (Celtis, Umhauser, Weztdorf, Sibutus, Cusanus), citando anche Giovanni Alberto Michele Carrara e altri autori minori. Il primo capitolo del tractatus tertius ha inizio, quindi, con l’elenco dei Cfr. ff. XVIIr-XVIIv. Cfr. ibid., ff. XVIIv-XVIIIr. 152 Cfr. Romberch, Congestorium artificiosae memoriae, ff. 39v-74r. Come sottolineato in precedenza per le citazioni e i rimandi di questo testo si fa riferimento alla seconda edizione, Venezia 1533; per la traduzione italiana si utilizza Dolce, Dialogo del modo di accrescere conservar la memoria. 150 151
166 Nel tempio di Mnemosine
vari termini utilizzati, sia nella retorica latina che dai filosofi antichi e medievali, per definire che cosa siano le immagini mnemotecniche: così fatte figure hanno vari nomi: percioché si chiamano più volte specie, idoli, simolacri, somiglianze, figure, forme, idee et imagini, e l’una si prende per l’altra. Il perché, quantunque nell’effetto a quel fine per il quale le usiamo in vece di lettere una stessa cosa elle siano, nondimeno per diversi rispetti ricevono diversi nomi153.
Da questa prima distinzione si può evincere chiaramente la consapevolezza di Romberch nei confronti dell’implicita ambiguità della semantica mnemotecnica: da una parte ogni immagine creata per memorizzare un dato mnestico è a pari grado un segno, ovvero è una delle tante ‘lettere’ tracciate dalla fantasia nella sua opera di ‘scrittura interiore’; dall’altra, rispetto al significato intrinseco ai segni e, soprattutto, guardando al senso che essi rappresentano e come lo raffigurano, si apre una pluralità eterogenea di varianti che denotano i diversi approcci nel tradurre ciascun dato – la cui natura è a sua volta molteplice – in un’immagine. Questa gamma di possibilità copre uno spettro che va – come si può leggere nelle riflessioni fatte da Aristotele, Cicerone, Quintiliano, Agostino e Tommaso citate da Romberch – dalla pura e immediata riproduzione mimetica di una sembianza esteriore alla costruzione virtuale e fittizia di possibili aspetti, fino all’astrazione di un senso puramente concettuale e alla sua conseguente simbolizzazione: in sintesi le tre classi del segno circoscritte anche da Le Lièvre e presenti, pur non delineate con tale nettezza, fin dalle origini della mnemotecnica. Una volta posta questa premessa dal fortissimo valore teorico, è quindi possibile, questa volta analizzando il problema dal punto di vista del dato, ritornare alla definizione di origine ciceroniana, ripresa e da Publicio, ma non ugualmente accolta da tutti gli autori, quella cioè che distingue tra memoria rerum e memoria verborum («che è somiglianza del termino in tutto o in parte somigliante all’istesso, secondo ch’è appreso dalla memoria»154): è quest’ultima che nella Ibid., f. 40r: «huiusmodi figurae variam habent denominationem utque species, idolum, simulachrum, similitudo, figura, forma, idea et imago, saepe nominentur ac alterum pro altero dicatur unum; et si re ipsa hoc ipsum quo litterarum loco utimur unum sit, diversa tantum diversis respectibus sortitur nomina» (trad. it., p. 82). 154 Ibid., f. 42r: «Vocabuli imago est similitudo termini in toto vel in parte, similis eisdem pro illis memoria capta» (trad. it., p. 87). 153
167 Le fonti e i fondamenti tecnici della mnemotecnica bruniana
presente sezione del Congestorium viene elaborata con maggior attenzione, sia in vista della creazione di espedienti tecnici per agevolare la notatio locorum, sia con l’intento di affinare i modi per raffigurare i termini. Ne deriva quindi un’analisi oltremodo approfondita, che parte dalle specifiche applicazioni ideate da Publicio (gli alfabeti di oggetti e il sistema ‘combinatorio’ per creare immagini di sillabe e parole) e dal Ravennate (gli alfabeti di persone e oggetti), per proporre poi altre soluzioni, ulteriormente innovative. Romberch tenta poi di ricondurre la distinzione tra le due tipologie di memoria (per le parole e per le cose) a un piano di maggiore prossimità teorica con l’iniziale definizione di immagine seguendo, prima, la scansione delle quattro cause aristoteliche, poi, quella delle dieci categorie: il materiale mnestico può infatti essere anzitutto distinto sulla base della sua ‘materia’ e quindi o essere ‘suono’ (vox) o essere ‘esperienza’ (visibile) di cose; queste, a loro volta, possono essere colte a partire dalla loro ‘forma’ esteriore, la quale è anche impressione (causale), cioè effetto/affetto che esse producono nell’immaginazione quando le si apprende, da cui nasce l’astrazione del loro significato e la conseguente significazione di esso. In ultimo, guardando al valore più metaforico e allegorico del segno mnemotecnico (quando esso è costruito per comparatio, figmentum, transumptio e inscriptio), si possono creare potenti simboli che puntano ‘finalisticamente’ verso il dato mnestico155. La riflessione di Romberch prosegue concentrandosi sulle immagini in sé; come primo aspetto viene esaminata la ‘sostanza’, cioè a quale tipo di ente esse fanno riferimento: ogni figurazione mnemonica deve quindi essere ‘viva’, cioè rappresentare uomini o animali ed essere in movimento, compiere delle azioni; ne consegue, recependo un precetto ormai tradizionale, che quando si ha a che fare con oggetti inanimati, questi devono essere sempre usati e mossi da qualche figura agente156. Per quanto riguarda la quantità, sia in termini di dimensioni che di numero, Romberch segue le prescrizioni tradizionali che invitano alla medietas e alla proporzione rispetto ai luoghi particolari (che seguono, lo ricordiamo, un canone che ha alla base la figura umana)157, mentre sconsiglia, con il Ravennate, di utilizzare figurazioni troppo piccole o troppo numerose158. Dopo di ciò il Congestorium presenta un’altra serie di regole sulla «qualità delle 155 156 157 158
Cfr. ibid., ff. 42v-43r. Cfr. ibid., c. 43r. Cfr. supra, p. 129. Cfr. Romberch, Congestorium artificiosae memoriae, ff. 43r-43v.
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immagini»159, che ne ribadiscono il carattere «eccezionale», «meraviglioso» e «impressionante» – sia in senso positivo che negativo – sul piano emotivo; tra queste rientra poi anche un breve excursus su due delle modalità rappresentative considerate principalmente da Publicio, cioè l’effictio e la notatio, in quanto modi per evocare, rispettivamente, elementi esteriori o interiori di un soggetto160. Nel capitolo quinto del terzo trattato Romberch torna di nuovo sul tema dell’animazione delle immagini161, sottolineando che il raffigurarle mentre compiono o subiscono azioni comporta, oltre a un maggiore radicamento nella memoria, anche una migliore specificità; ciò rimanda al principio che è fondamentale evitare ogni equivocità dell’immagine, quale può sorgere dalla non immediata comprensione della modalità con la quale essa rimanda al proprio significato: è utile in questo senso determinare preliminarmente un dispositivo segnico accessorio da apporre alle immagini stesse per indicare quando debbano essere intese in senso diretto o traslato162. Per analizzare le differenti tipologie di dati mnestici e, di conseguenza, le strategie più efficaci per rappresentarli, Romberch rinvia alla quarta e ultima sezione del suo testo che, come è tradizione in moltissimi trattati, è applicativa: in essa vengono forniti esempi pratici di come scegliere immagini diversificate per i vari tipi di materiale mnemonico. Qui, prima di esaminare la memoria verborum, viene proposta una sintetica classificazione di tutti gli enti (sostanze, accidenti, enti intelligibili, sensibili, creati, increati, ecc.), mentre, specularmente, viene offerto anche un elenco per le voces, che riguardano sia i numeri (semplici e composti) sia tutto ciò che è ‘parola’, a partire dalle lettere e le sillabe, fino ai versi, i discorsi e gli argomenti, logici e retorici, dell’attività dialettica: questi ultimi, in particolare, saranno gli oggetti specifici delle tecniche esposte nelle pagine immediatamente successive163. La parte più cospicua di questa sezione164 analizza la memoria verborum in tutte le sue possibili componenti tecniche e teoriche, offrendo molteplici soluzioni per metterla in pratica: la disamina di Romberch inizia osservando che, poiché la forma migliore di rappresentatività 159 160 161 162 163 164
Cfr. ibid., f. 44v: De qualitate imaginum. Cfr. ibid., f. 45r. Cfr. ibid., f. 45r: De actione, passione et univocatione imaginum. Cfr. ibid., ff. 45v-46r. Cfr. ibid., f. 48r. Cfr. ibid., ff. 48r-74r.
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mnemotecnica, secondo il parere dei retori classici e della tradizione che ne è derivata, consiste nel riprodurre il simile, cioè nell’imitare l’aspetto di una cosa ricreandolo con l’immaginazione, allora anche nel figurare le lettere dell’alfabeto la via da prediligere è quella di Publicio, che prevede la visualizzazione di oggetti che assomiglino alle lettere. Segue dunque la presentazione di un alfabeto di quarantadue figure, costituito da tre oggetti per ogni vocale e due per le consonanti, e, dato che si tratta di immagini inanimate, viene prontamente suggerito che esse appaiano sulla scena mnemotecnica usate e rese ‘vive’ da immagini agenti. Questa prescrizione non è richiesta nei sistemi per la memoria verborum che si rifanno al metodo di Pietro da Ravenna, basato su un alfabeto di figure umane il cui nome inizia con le corrispettive lettere: Romberch propone una serie di espedienti che oscillano tra queste due differenti soluzioni, suggerendo prima un alfabeto di utensili per il lavoro manuale (inevitabilmente associabili a soggetti animati) la cui forma richiama quella delle lettere165 [fig. 12] e poi un altro alfabeto formato da animali nel quale le lettere vengono espresse dalle iniziali dei nomi (Auca, Buffo, Corvus, Draco, ecc.)166 [fig. 13]. Sebbene queste modalità guardino soprattutto in direzione di Publicio, l’autore del Congestorium non dimostra comunque di disdegnare quanto ideato dal Ravennate, del quale dà pienamente conto sia fornendo due alfabeti di nomi-lettere ricavati da un gruppo di donne e uomini i cui volti devono essere noti, sia adottandone la tecnica per i numeri, proponendo nove figure di persone per le unità e undici oggetti come simboli delle decine, del primo centinaio e del migliaio167. Dopo una complessa tavola che riepiloga tutti gli alfabeti illustrati e i simboli scelti per i numeri, Romberch passa ad esaminare le tecniche per costruire immagini di sillabe: anche in questo caso le vie individuate nel Congestorium sono due e risultano, per certi versi, polari: la prima è ispirata alla Phoenix e ad altri autori (tra i quali Celtis, Umhauser e Weztdorf) che hanno proposto alfabeti sillabici sia per la notatio locorum che per la memoria verborum, mentre la seconda riprende l’espediente combinatorio ideato da Publicio. Nel primo caso viene fornito un lungo elenco di imagines agentes che esprimono il valore della sillaba attraverso le due lettere iniziali: a servire da riferimento segnico non è il nome proprio, ma, come si è già visto, la caratterizzazione della figura, cioè l’attività che 165 166 167
Cfr. ibid., f. 53r. Cfr. ibid., ff. 53v-54r; Publicio, Ars memorativa, f. diiir. Cfr. Romberch, Congestorium artificiosae memoriae, ff. 54v-55r.
170 Nel tempio di Mnemosine
essa svolge, la quale può richiamare sia la combinazione delle cinque vocali con tutte le consonanti (Abbas, Accolitus, Advocatus, Affricanus, ecc.), sia quella delle consonanti con le cinque vocali (Barbitonsor, Begina, Bibulus, Bovarius, Bubulcus)168. L’altro metodo concerne invece la ripresa dell’artificio per la costruzione di sillabe, del quale Romberch elogia l’efficacia, anche se immediatamente ne dichiara l’oscurità e ne offre una versione che, estrapolandone il senso combinatorio, lo declina tuttavia in una forma più semplice: Quello che egli voglia dinotar per queste parole, le quali promettono una divina commodità, tu stesso considerando, stimo che non lo intendi, e che sia più agevole intendere gli oracoli di Apollo. Io nel vero ho trovato più facile il trovar da me stesso alcuna cosa nuova, della quale altri come di cosa rara e non usata prendessero maraviglia, che io possa interpretar gli altrui sogni. Quanto alle parole di questo autore, parmi che’l suo intento sia tale che se lettera, o sillaba, o qualsivoglia parola venga applicata a questa figura, si varierà in diverse guise169.
La versione proposta da Romberch parte quindi dall’intuizione che la funzione primaria del sistema di Publicio consiste nel creare composizioni sillabiche di due o tre lettere, aperte o chiuse, unendo assieme le tre modalità operative indicate nell’Ars memorativa170 e immettendo le figure-lettere all’interno della figura quadrata, dove si completano di altri valori sia volgendo il proprio orientamento rispetto ai punti cardinali, sia componendosi con le lettere presenti nei cerchi concentrici che ‘ruotano’ intorno ad esso (viene omesso invece che nel sistema di Publicio tali cerchi restano immobili). Tale versione è dunque orientata ancora di più in senso combinatorio – facendo emergere con maggiore evidenza l’impronta, sullo sfondo, della tecnica lulliana – dal momento che le diverse figurazioni sgorgano dalla combinazione tra segni che sono doppiamente mobili, ruotando essi nel centro rispetCfr. ibid., ff. 56v-57r. Cfr. ibid., f. 58r: «Quid ex hisce velit tuipse coniectabis: si ex verbis divinam commoditatem volicentibus divinari queas quod obscura Apollinis oracula permittant: Unum fatero saepenumero compertum habui facilius mihi fore quippiam excogitare quis alii ammirentur veluti sibi rarum et insolitum: quae ipsae queas aliorum somnia interpretari. Ea aiunt huius authoris mihi sententia videtur: Cum si littera aut syllaba vel quavis dictio ad haec figura applicetur diversimode variabitur» (trad. it., p. 113). 170 Cfr. supra, pp. 154-6. 168 169
171 Le fonti e i fondamenti tecnici della mnemotecnica bruniana
12-13. J. Romberch, Congestorium artificiosae memoriae, ff. 53r e 54r.
to alle circonferenze e nei cerchi in relazione allo spazio centrale171. Il procedimento può essere ulteriormente semplificato per mezzo di un altro espediente proposto da Romberch, ispirato in maniera ancora più esplicita ai sistemi di Lullo, che insegna come ottenere tutte le possibili sillabe combinando tra loro due serie alfabetiche complete e una di vocali e sostituendo poi queste composizioni con le relative figure, avendo l’accortezza di far sì che quella che indica la lettera iniziale sia animata, alla quale aggiungere un dispositivo simbolico che identifichi quando quelle sillabe siano da intendersi come aperte o chiuse. Sebbene in molti esemplari – così come in quelli dell’edizione volgare di Dolce – sia venuta meno l’illustrazione con le ruote mobili, l’immagine descritta è formata da tre cerchi concentrici – il primo e più esterno dei quali è considerato fisso mentre gli altri due mobili, proprio come era in uso nelle edizioni a stampa dell’ars Lulliana172 – indicanti due serie alfabetiche di ventuno lettere (nei cerchi più esterni) e, in quello centrale, le sole vocali173 [fig. 14 e 14bis.]. 171 172
Cfr. Romberch, Congestorium artificiosae memoriae, ff. 58r-59v. Cfr. Rossi, Clavis universalis, pp. 41-51; Yates, L’arte della memoria, pp. 160-
82. 173
Cfr. Romberch, Congestorium artificiosae memoriae, ff. 59v-60r.
172 Nel tempio di Mnemosine
14. Romberch, Congestorium artificiosae memoriae, [1533], f. 60r. 14bis. Romberch, Congestorium artificiosae memoriae, [1520], f. [Gv].
Un altro strumento figurativo ripreso e riletto da Romberch si basa sull’idea di Pietro da Ravenna di distribuire i casi grammaticali sulla figura umana; l’associazione tra i casi e le parti del corpo viene tuttavia riorganizzata affinché siano più espliciti ed efficaci i legami tra il significato ed il segno: in tal modo, se già sussisteva un’evidente corrispondenza tra il nominativo e la testa (simbolo per eccellenza del soggetto), l’accusativo viene ora posto nel petto (che si usa battere quando ci si ‘accusa’), il vocativo nel ventre e l’ablativo in corrispondenza delle ginocchia174 [fig. 15]. Dopo le lettere e le sillabe, viene poi trattato a lungo il tema della figurazione della parola; l’autore ritiene utile premettere, riprendendo le indicazioni del Ravennate e di altri autori, che è preferibile non farlo attraverso la riproduzione diretta dell’espressione fonetica (vox), ma cercare piuttosto di raffigurarla mimeticamente, avendo cognizione del suo significato: per questo motivo Romberch propone un’estesa tassonomia che raccolga tutti gli enti esistenti, elencandoli in ordine alfabetico a partire da quelli divini e celesti, fino agli elementi naturali, comprendendo i viventi (di terra, d’acqua e di cielo) e le varie condizioni sociali degli uomini175. Soltanto quando si è sicuri dell’impossibilità di memorizzare un termine in maniera immediata e in forCfr. ibid., ff. 60v-61v. Sul particolare valore di questo tipo di riferimenti simbolici, oltre al già citato articolo di Umberto Eco, Mnemotecniche come semiotiche, si veda, dello stesso autore, I limiti dell’interpretazione, Milano 20162, pp. 78-96: La somiglianza mnemotecnica. 175 Cfr. Romberch, Congestorium artificiosae memoriae, ff. 61v-65r. 174
173 Le fonti e i fondamenti tecnici della mnemotecnica bruniana
15. Romberch, Congestorium artificiosae memoriae, f. 61r.
ma simbolica, diviene necessario raffigurarne il nome. A questo scopo il Congestorium, facendo un significativo passo indietro rispetto alla complessità delle costruzioni figurative prese in considerazione fino ad ora, ripropone la via seguita dai retori classici di cercare l’assonanza tra le parti di un termine e altri oggetti conosciuti, visualizzando questi ultimi in una composizione scenica unitaria che rimandi al primo; emerge così la necessità di collegare tra loro le immagini prima di porle nei luoghi: entrano pertanto in gioco vari espedienti estremamente utili per rafforzare la connessione tra le figure individuate per rappresentare le parti delle parole o di versi, i quali si servono, ad esempio, di acronimi o acrostici quali riferimenti d’ordine per la composizione delle scene interiori176. È in questo frangente, inoltre, che l’autore del Congestorium compie un’importantissima distinzione teorica – che
176
Cfr. ibid., ff. 65r-65v.
174 Nel tempio di Mnemosine
attinge direttamente alla tradizione mnemotecnica medievale177 – tra il legame che si crea tra le immagini per mezzo dei luoghi quando li si percorrono visivamente (colligantia) e quello che, invece, è intessuto indipendentemente dal contesto locale e attraverso le sole immagini messe in relazione tra loro (catena): questa così fatta allogazione da noi è detta colleganza, e ciò perché quasi per rispetto de’ luoghi ciascuna delle imagini si lega con l’altra. Ma queste imagini perciò fatte senza i luoghi sono più caduche, e le chiamiamo catena. Ma dove l’accoppiamento non sarà naturale lo faremo col mezo dell’arte, imaginandoci l’una esercitarsi con l’altra, in guisa che o tutte o alcune imagini con iscambievole (per così dire) azione o passione si colleghino l’una con l’altra; essendo spesso necessarissimo che una imagine, che da sé sola dalla nostra mente si dileguerebbe, per un’altra si conservi nella memoria178.
La successione dei segni e, di conseguenza, la concatenazione del senso, alla stregua del sistema di immagini-luoghi evidenziato da Carrara179, poggia non sul percorso locale, ma, per l’appunto, sulla sussistenza e consistenza di un gruppo di figure, la cui reciproca attività è elemento di unificazione e, al contempo, di rafforzamento visivo per le immagini mnemoniche, fungendo esse stesse sia da segni, sia da principio e supporto del loro ordine. Nel prosieguo della parte finale della sezione sulla memoria verborum del Congestorium, i precetti del Ravennate continuano a sovrapporsi soprattutto a quelli di Publicio e, quasi per la naturale prossimità di tali argomenti, il raffigurare le paroCfr. Carruthers, The book of memory, pp. 265-73; un esempio di associazione attiva e dinamica tra le immagini mnemoniche, denominato cathena, è già presente nel Tractatulus artificiosae memoriae, f. [Avir-Aviv], di Johannes Cusanus, un testo che, come è già stato detto, rimanda direttamente alla trattatistica mnemotecnica quattrocentesca di area germanica. 178 Romberch, Congestorium artificiosae memoriae, f. 66r: «et huismodi locatio a nobis colligantia est nuncupata: eo quod quasi per respectum ad loca: imaginum quaeque cum altera ligant: absque loci tam effictae caduciores sunt: et cathena dicimus. Ubi vero ea naturalis non fuerit coeherentia eam arte efficimus: unam imaginantes cum altera exercitari ut vel aliqaue vel omnes mutua actione et passione ad invicem colligantur» (trad. it., p. 127). «La catena» è anche il nome di uno degli espedienti mnemonici e dei sigilli più noti di Bruno, il quale consiste, per l’appunto, nella concatenazione visiva delle immagini attuata per mezzo della loro reciproca interazione; cfr. infra, pp. 256-7. 179 Cfr. supra, p. 134. 177
175 Le fonti e i fondamenti tecnici della mnemotecnica bruniana
le o i versi di un carme ritorna nell’alveo delle più generali problematiche legate alla rappresentazione delle varie tipologie di dati mnestici; vengono così richiamati molte soluzioni già adottate da altri autori (ad es. riprodurre l’effetto al posto della causa o viceversa, la sostanza tramite l’accidente, ovvero l’opposto, ecc.), e l’opera di Romberch si chiude con densissime pagine di esempi applicativi tratti dalla propria esperienza o dalla ormai tradizionale trattatistica, cercando di includere tutti i possibili campi di studio e le professioni del pubblico al quale egli intende rivolgersi (non solo teologi, retori e grammatici, ma anche filosofi, giuristi, storici, avvocati e mercanti), alternando stratagemmi pratici, specificatamente pensati per particolari argomenti, alla preliminare necessità di ordinare e classificare tutto il sapere in vista di una sua più facile memorizzazione. Gli insegnamenti del Congestorium artificiosae memoriae, pur non inseriti in una cornice così ampiamente sistematica, ritornano, assieme a quelli degli autori classici e degli altri celebri mnemonisti – Publicio e il Ravennate in primis – anche nell’Artificiosae memoriae libellus di Johann Spangenberg. In questo testo, che, come si è detto, ebbe una larga fortuna nella Germania della seconda metà del Cinquecento, la trattazione relativa ai luoghi non è particolarmente innovativa, mentre quella intorno alle immagini presenta alcuni spunti rilevanti, soprattutto per quanto riguarda il tentativo di classificarle. È infine significativo che vengano isolati ed evidenziati, come una sezione a sé stante, gli esempi relativi alla praxis dell’ars memoriae180, cioè l’applicazione dei principi tecnici sui luoghi e sulle immagini al materiale mnestico: ciò segnala la presa di coscienza che anche l’aspetto ‘pratico’, al pari degli altri, è andato ormai sempre più condensandosi in vere e proprie prescrizioni dal valore normativo. Per quanto riguarda la classificazione delle immagini, Spangenberg si mostra stringatamente tassonomico: Di quanti tipi sono le immagini? Due: di cose e di parole. Le cose a sua volta sono duplici: visibili e invisibili. Corporee e incorporee. Tra quelle corporee alcune sono sostanze, altre accidenti. Analogamente anche le parole sono duplici: certe sono conosciute, altre invece ignote. Tra le immagini ve ne sono alcune semplici, come quelle dei termini, altre che sono composte, come quelle delle proposizioni181.
Cfr. Spangenberg, Artificiosae memoriae libellus, ff. Br-C5v. Cfr. ibid., f. [A8r]: «Quotuplice sunt imagines? Duplices, rerume et vocum. Res sunt duplices, visibiles et invisibiles. Corporales et incorporales. Corporalium, aliae 180 181
176 Nel tempio di Mnemosine
A margine di queste definizioni vi è poi la netta presa di posizione contro la memoria syllabarum che, a detta di Spangenberg, «è curiosa e inutile» ed è dunque esclusa volutamente dalla sua trattazione182. La riflessione prosegue elencando le caratteristiche delle immagini attraverso la ripresa dei tradizionali precetti, secondo i quali devono essere animate, chiare, peculiari e fortemente impressionanti dal punto di vista emotivo. L’ultima sezione, dedicata all’applicazione pratica, riguarda invece il modo di raffigurare le diverse tipologie di dati da memorizzare e si apre con uno schema molto esplicito che suddivide la memoria verborum tra parole delle quali non si conosce il significato – che vanno raffigurate attraverso dispositivi simbolici che ne riproducano il ‘suono’ per assonanza, di una parte o del tutto, oppure attraverso un codice di sole immagini-lettere – e parole delle quali si conosce il significato e che, di fatto, vengono trattate alla stregua delle res. Se queste sono costituite da enti invisibili, allora si utilizza una modalità simbolica e con immagini che vi rimandano indirettamente; se visibili, o si tratterà di accidenti – la cui rappresentazione ricade su quella delle sostanze alle quali essi ineriscono – o di sostanze: in tal caso si deve ulteriormente distinguere tra inanimate, raffigurate come oggetti utilizzati da imagines agentes, o animate, le quali sono invece immediate (cioè in base al loro aspetto) sia che esse siano di genere comune (e in tal caso ci si serve di un soggetto specifico che appartiene a quel genere), oppure proprio, venendo quindi le immagini a coincidere con il soggetto stesso183. A margine viene poi svolta anche una riflessione sulle consuete forme della rappresentazione che riprende la ripartizione del Tractatulus di Johannes Cusanus – testo verso il quale l’Artificiosae memoriae libellus è fortemente debitore – così come quella del Congestorium di Romberch: per similitudine (a sua volta distinta in effictio e substantiae, aliae accidentia. Voces similiter sunt duplices, quaedam notae, quaedam ignotae. Imaginum, aliae sunt simplices, ut dictionum, aliae compositae, ut sententiarum». 182 Ibid.: «Memoria syllabarum est curiosa et inutilis»; Spangenberg rifiuta l’uso delle immagini di sillabe per la memoria verborum – con tutte le sue conseguenti derive combinatorie che rimandano alla tradizione lullista – per evidenti motivi ideologici, essendo un teologo di fede luterana e formazione melantoniana; tuttavia non ne prende in considerazione neppure l’uso denotativo rispetto ai luoghi, affidandosi solamente alle soluzioni ‘classiche’ di Cicerone e Quintiliano di porre simboli peculiari che indichino la scansione di ogni quinto luogo; cfr. ibid., f. [A7v]. 183 Cfr. ibid., f. Bv.
177 Le fonti e i fondamenti tecnici della mnemotecnica bruniana
notatio)184; per comparazione, «quando al posto di una cosa poniamo un’immagine a motivo di una qualche relazione che esse possiedono reciprocamente»185; e, nuovamente, tramite una codificazione arbitraria e fittizia (figmentum). In quest’ultima modalità rientrano anche gli alfabeti di immagini-lettere derivati da Publicio e Pietro da Ravenna. Prima di chiudere il trattato mostrando come trasformare in immagini mnemoniche vari tipi di informazioni (la materia storica, un discorso, un’argomentazione dialettica, una poesia) e alcune prescrizioni ‘mediche’ su come rafforzare la memoria o quali comportamenti e cibi evitare per non danneggiarla, Spangenberg introduce un utile approfondimento sul concetto di collegamento tra le immagini (colligantia), ribadendo con un esempio esplicito quella distinzione introdotta da Romberch relativamente alla ‘catena’: [il collegamento artificiale] si ha quando un’immagine, sulla base di una nostra scelta e finzione, interagisce con un’altra. Questo espediente è peculiarmente tipico di questa arte, dal momento che è in grado di eccitare e muovere la memoria. […] Così se vuoi memorizzare questi termini: Pietro, frusta, cane, suino, acqua, vermi, sabbia, farai una connessione e una raffigurazione tali che Pietro colpisca il cane con la frusta, il cane gemente per le percosse morda il suino, il maiale volendo sfuggirgli rovesci un vaso d’acqua, sul fondo del quale si troveranno dei vermi li generatisi, che andranno a nascondersi sotto la sabbia186.
L’immagine seriale e composita che ne deriva è piuttosto eloquente nel descrivere un meccanismo raffigurativo – ripreso anche da Bruno187 – che risulta assai efficace dal punto di vista mnestico, sia per la Cfr. supra, pp. 153-4, 168. Ibid., f. Biiir: «cum pro ea locamus imaginem propter aliquam habitudinem, quam habent ad invicem». 186 Ibid., f. Biiiiv: «est quando secundum nostram considerationem vel imaginationem una imago se excercet cum alia. Huius enim artis peculiare officium est, ut exicet et moveat memoriam. […] ut si velis haber memoriam horum nominum, Petrus, flagellum, canis, sus, aqua, vermes, arena, fac talem colligantiam et imaginationem, ut Petrus flagello canem percutiat. Canis vero verbere commotus, suem mordeat. Sus vero evadere cupiens, vas aquae evertat, in cuius fundo sint vermes procreati, qui tegantur arena»; si tratta del medesimo esempio presente nel Tractatulus artificiosae memoriae di Johannes Cusanus, ff. [Avir]-[Aviv]. 187 Cfr. infra, pp. 256-7. 184 185
178 Nel tempio di Mnemosine
suggestione creata dalle inaspettate azioni e reazioni tra i vari soggetti, sia per l’effettiva continuità impressa all’intera messinscena, motivo essa stessa di rafforzamento mnemonico. A pochi decenni di distanza dal trattato di Spangenberg, l’Arte del ricordare (Napoli 1566) di Giovan Battista Della Porta costruisce un’interessante sintesi di tutte le istanze fin qui descritte, includendo anche soluzioni tecniche per la realizzazione di immagini mnemoniche abbastanza originali e frutto dell’esperienza personale dell’autore. A fronte di una brevissima riflessione sulla memoria rerum, che riguarda il precetto di riprodurre le cose in base al loro aspetto, (oppure simbolicamente, se astratte) e di raffigurare sistemi di informazioni più complessi con scene composite all’interno delle quali le singole immagini sono in relazione animata tra di loro, Della Porta dedica gran parte della seconda sezione del suo testo alla memoria verborum, nonché ad un originale metodo per cancellare le immagini, considerato utile in quanto il dimenticare selettivo giova alla memoria quanto il conservare: bisogna imitare i pittori, i quali, dispiacendo loro il ritratto, con ingessare di nuovo la tavola, la rendono bianca e preparata per la nuova pittura. A questo modo bisogna che noi, con una spogna intinta di rubrica, iscancelliamo tutte le imagini fatte con gli occhi della mente vediamo tutte le persone ignude e con le braccia pendenti o raccolte in lenzuola bianche, e le andiamo discorrendo con la memoria tre o quattro volte, facendo pensiero come se ma noi figurate l’avessimo e che mai più vi ritornino188.
Tale espediente recupera un motivo già presente in molti trattati – evidenziato in particolare da Publicio 189 –, e sebbene, come ha sottolineato Umberto Eco nel suo saggio sull’ars oblivionalis, tali tentativi siano sostanzialmente inefficaci, finendo piuttosto per rafforzare la memoria delle figure190, essi fanno emergere comunque un aspetto teorico assai significativo, centrale anche in questo scritto: la principale causa del radicamento mnestico dei segni interiori risiede nella loro animazione e vitalità, mentre, al contrario, le immagini che risultano ‘morte’, inattive e ‘spente’ sono di fatto spogliate di ogni loro virtù rappresentativa – come viene anche metaforicamente simboleggiato dalla loro nudità – e dunque non sono più portatrici di alcun significato, 188 189 190
Della Porta, The art of remembering, p. 131. Cfr. supra, p. 127. Cfr. Eco, An Ars oblivionalis? Forget it!, «PMLA», 103/3, 1988, pp. 254-61.
179 Le fonti e i fondamenti tecnici della mnemotecnica bruniana
venendo meno l’attenzione e la motivazione memorativa nei loro confronti. L’analisi delle immagini prosegue distinguendo, secondo il dettato classico, tra la modalità che rappresenta l’aspetto di una cosa («dal proprio») e quella simbolica («dal simile»): nel primo caso, che è più immediato e spontaneo, si raccomanda che le immagini di cose inanimate siano rese ‘vive’ per mezzo di figure agenti che le usino, le muovano e, in generale, portino l’attenzione della vista interiore su di esse191. Per quanto riguarda il «dipingere quelle parole che stanno senza le loro imagini», ma muovendo «dal simile» – cioè immagini «propinque, affini, e se non in tutto, almeno rassomiglianti in qualche parte»192 –, Della Porta si appoggia alla consapevolezza che «la somiglianza è nel predicamento della relazione: conosciuto un estremo, è forza che si conosca l’altro»193 e seguendo uno stile argomentativo piuttosto metodico, giunge ad esaminare «le spezie del simile», dividendole in due ambiti, ovvero quello che muove dal significato della parola e quello che poggia sulla «scrittura» della medesima, in modo che «alternando quelle lettere o sillabe che la compongono, le darò somiglianza nel suono»194. Quest’ultima soluzione si realizza modificando ‘visivamente’ una parola, in modo che essa prenda il significato di qualcosa che possieda un’immagine propria; ciò lo si può compiere aggiungendo delle lettere (che → Oche; ria → riVa), togliendole («duo CORI di alcuno animale, mi farà ricordar di DECORI»), scambiandole di posto o invertendole tutte ( lato → alto, Roma → amor), sostituendone alcune (parla → perla, ponno → panno) infine separandole in parti significative (amorosa → amo rosa, Apollodoro → Apollo d’oro)195: nell’edizione del 1602, tale dispositivo si evolverà nella costruzione di veri e propri carmi figurati, in cui, come nei moderni giochi enigmistici, lettere e immagini collaborano per formare parole e frasi196 [fig. 16]. L’autore passa quindi a illustrare alcuni espedienti visivi per indicare quale tipo di riferimento segnico sia in atto nelle immagini così trattate: se io ho aggiunto alla dizzione, torrò alla figura, e se ho tolto vi aggiungerò […]. Alla diminuzione delle dizzioni aggiungeremo al capo, ventre o piede della fi-
191 192 193 194 195 196
Cfr. Della Porta, The art of remembering, p. 132. Ibid., p. 135. Ibid. Ibid., p. 136. Cfr. ibid., pp. 136-40. Cfr. Id., Ars reminiscendi, Napoli, Giovan Battista Sottile, 1602, pp. 17-9.
180 Nel tempio di Mnemosine
gura dove manca […]. Al trasponimento rivolgeremo l’imagine fatta all’in giù, per esser così riversata la dizzione […]. Alla mutazione muterassi parimente alcuna cosa […]. La divisione si farà quella dividendo in più parti197.
Le ultime pagine del breve trattato L’arte del ricordare tornano ad occuparsi della rappresentazione simbolica, che è usata per raffigurare, oltre alle cose non sensibili, anche le parole il cui significato è astratto, per le quali Della Porta sostiene la necessità di fare proprio il principio della «scrittura degli egizzii», «i quali, non avendo lettere con che potessero scrivere i concetti degli animi loro, ed acciò che più facilmente si tenessero a memoria le utili speculazioni della filosofia, ritrovorno lo scrivere con le pitture»198. Tale efficacia può essere proiettata anche sui gesti tipici di personaggi agenti, considerati eloquenti nell’esprimere visivamente qualsiasi carattere interiore, morale, psicologico, ecc.199 L’ultimo accorgimento riguarda infine quella modalità raffigurativa che, specularmente alla similitudine e applicandosi anche a tutte quelle appena descritte, ne raddoppia la forza, muovendo non dall’analogia, ma dalla contrapposizione, purché tale inversione semantica sia opportunamente segnalata200. Più vicino ai temi e alla struttura del Congestorium artificiosae memoriae – che costituisce comunque uno dei punti più alti del tentativo cinquecentesco di sistematizzare le prescrizioni mnemotecniche dell’antichità, del Medioevo e del primo Rinascimento – è invece il Thesaurus artificiosae memoriae di Cosimo Rosselli, appartenente come Romberch all’Ordine dei domenicani. A differenza del Congestorium, questo testo si offre, nell’ampiezza della sua trattazione, come un denso repertorio delle esperienze passate, piuttosto che come un manuale vero e proprio: le oltre settanta carte – per un totale di circa centocinquanta pagine – della secunda pars dedicata alle immagini sono piene di elenchi, di alfabeti, di esempi e applicazioni, che però non toccano gli aspetti teorici più sensibili e controversi dell’ars memoriae, ma anzi li eludono, mettendoli talvolta tutti sullo stesso piano. Questa diversa Ibid., p. 141. Ibid., p. 142. 199 Cfr. ibid., p. 143. 200 Cfr. ibid., p. 144; l’edizione del 1602, intitolata Ars reminiscendi, aggiunge al testo del 1566 una sezione finale che descrive e mostra alfabeti visivi di oggetti, persone (in posizioni che ricordano la forma delle lettere) e utensili; cfr. Id., Ars reminiscendi, pp. 37-41. 197 198
181 Le fonti e i fondamenti tecnici della mnemotecnica bruniana
16. Della Porta, Ars reminiscendi, p. 17.
impostazione emerge, ad esempio, nell’iniziale affermazione secondo cui nella seconda parte del testo non verranno trattati tutti i tipi di immagini, «ma solo quelle a noi più conosciute e familiari, le quali possano giovare alla nostra memoria»201. Questo implica, di fatto, l’esclusione preliminare di tutti gli aspetti inerenti alla memoria verborum riferita alle semplici voces, cioè all’espressione fonetica dei termini dei quali non conosciamo, per l’appunto, il significato: come si vedrà, ciò non avviene realmente, poiché tutte le prescrizioni classiche rispetto a questo peculiare ambito tecnico vengono recepite anche dal Rosselli, sebbene egli non ne contempli l’utilizzo in chiave di codice simbolico
Cfr. Rosselli, Thesaurus artificiosae memoriae, f. 77r: «primo enim figuras, non omnes, sed notiores nobis, et familiariores, quae nostrae memoriae prodesse possint, ponere volumus». 201
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per denotare i luoghi o scrivere parole, ma le analizza dal solo punto di vista figurativo, integrandole con le altre modalità di formazione delle immagini all’interno di un unico supporto mnemotecnico costituito dai complessi e amplissimi scenari interiori che, nella prima parte e sulla scia di Romberch, egli ha insegnato a costruire. Le immagini di lettere ricadono pertanto in una più generale classificazione dei segni mnemonici, che vengono distinti non tanto in virtù di ciò che rappresentano, ma sulla base di ciò che essi propriamente sono: l’attenzione si sposta così dai dati mnestici alle figurazioni in quanto tali – non è un caso quindi che, fin dall’inizio della sezione, il termine scelto per denotarle non sia imago, ma figura – perché di fatto, come Rosselli afferma, esse sono il vero oggetto del nostro ricordare, anche se dal recuperarne la visione risaliamo poi ai contenuti che vi sono associati202. Si tratta di una constatazione che, per certi versi, era già presente in Romberch203, o in Spangenberg204, i quali tuttavia non nascondevano l’implicita ambiguità di tale oggetto, sospeso tra il raffigurare ciò che esso stesso è e, al contempo, l’essere segno artificiale di qualcos’altro, soffermandosi maggiormente ad analizzare tale tensione semiotica. L’interesse di Rosselli è invece, in questo senso, del tutto semplificatorio e volto a ignorare le istanze più profonde della semantica mnemotecnica, fermandosi ad una lettura ‘superficiale’ dell’immagine che, di fatto, ne appiattisce la peculiare funzione simbolica. Questa tendenza emerge, un’altra volta, nel mancato approfondimento dei diversi nomi usati per indicare le immagini: Per quanto riguarda il secondo punto, ovvero le molteplici denominazioni delle figure, affinché si possa avere piena comprensione di quanto segue, è utile sapere che alle sopraddette figure, delle quali ci serviamo in questa nostra arte, da persone più esperte in questa tecnica sono stati attribuiti loro molti nomi. Vengono infatti dette immagini, simulacri e idoli; ma anche segni, similitudini e specie e sono pure chiamate note e ombre delle cose da memorizzare205.
Cfr. ibid., f. 77v. Cfr. supra, pp. 166-7. 204 Cfr. supra, pp. 175. 205 Cfr. ibid., f. 78r: «Quod ad secundum, id est figurarum multiplices denominationes, ut sequentium intelligentiam habere possimus, oportet noscere, quod hae supradictae figurae, huic nostrae arti inservientes multiplici appellatione, ab huius artis 202
203
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A questa preliminare riflessione non segue infatti una specifica disamina di tale terminologia; Rosselli passa subito ad analizzare la natura stessa delle raffigurazioni, distinguendole in naturali, artificiali e immaginarie e suddividendole ulteriormente in base allo loro dimensione. Le figure che sono cose naturali possono essere estremamente grandi (maximae), oppure più piccole (minores): le prime, a loro volta, saranno ‘inferiori’ (Inferno, Purgatorio e Limbo) o ‘superiori’, secondo vari gradi, ossia dalle sfere elementali, a quelle celesti e sovracelesti. Anche le figure minori seguono una simile scansione, ripartendosi tra quelle infernali (diavoli, dannati e vari tormenti), quelle terrestri (minerali, vegetali, animali e umani, secondo ulteriori ripartizioni), quelle astronomiche e, in ultimo, quelle di origine divina e superiore206. Come si può osservare, lo schema delle immagini fornito da Rosselli è volto a coprire tutta la gamma degli enti esistenti, ad ogni grado della scala dell’essere, ed è del tutto speculare rispetto a quello dei luoghi fornito nella prima parte, a testimonianza di quella tendenza enciclopedica e tassonomica che caratterizza in maniera sostanziale tutto il Thesaurus e che, per certi versi, segnala, nell’arte della memoria tardocinquecentesca, il rafforzarsi di un peculiare paradigma metodologico che si affermerà ancora più esplicitamente nel secolo successivo207. Anche per quanto riguarda le figure artificiali, che derivano cioè dall’operatività dell’uomo, intesa sia in senso ‘meccanico’ che culturale, si trova un’analoga scansione graduale e gerarchica degli oggetti prodotti dalle arti e dalle discipline umane; tra queste, costituendone la parte più cospicua, ricadono anche le lettere dell’alfabeto, alle quali vengono dedicate molte pagine, proponendo diversi tipi di alfabeti visivi, che codificano le singole lettere e le sillabe, secondo le due modalità classiche per la costruzione di questi strumenti: ‘oggetti’ (minerali, piante, animali, persone) la cui iniziale coincide con la lettera da esprimere208, oppure strumenti, posizioni delle mani e persino singole parti del corpo umaperitis, denominantur. Dicuntur enim etiam imagines: Simulacra, et Idola: Signa quoque, similitudines, ac species, Notae etiam vocitantur, et memorandorum umbrae». 206 Se per le immagini di grandi dimensioni Rosselli rimanda apertamente alle descrizioni tratteggiate nella prima parte a proposito dei luoghi, le categorie di figure ‘minori’ vengono esplicitate nelle pagine successive, disponendole in copiosi elenchi di minerali, vari tipi di animali, enti mondani e sovramondani, tutti ordinati alfabeticamente; cfr. ibid., ff. 79v-90r. 207 Cfr. supra, pp. 144-5. 208 Cfr. ibid., ff. 93r-93v.
184 Nel tempio di Mnemosine
no, espressioni del volto e gesti, la forma dei quali richiama quella delle varie lettere209. A completamento del quadro vi è anche un suggestivo alfabeto formato dai versi e dai rumori propri di animali o oggetti che sono in grado di evocare il valore fonetico delle lettere corrispondenti: così lo stridore di un’anatra rimanda alla A, il muggito del bue alla B, il gracchiare del corvo alla C, il suono della campana alla D, il frusciare delle foglie su un albero alla F, ecc.210 Solo nella parte conclusiva del trattato vengono esaminate le modalità di applicazione delle precedenti prescrizioni al materiale mnemonico, analizzando le forme della rappresentazione che sono, in generale, raccolte sotto la categoria della similitudine, considerata fin dalla classicità quella più peculiare dell’ars memoriae. In realtà la distinzione di questi modi (la sostanza dall’accidente, la causa dall’effetto, il padre dal figlio e qualsiasi altra forma di correlazione, essendo valide anche nel senso opposto) offre a Rosselli il pretesto per diffondersi in un lungo elenco classificatorio di soggetti disposti secondo una tassonomia costruita sulla base delle loro caratteristiche ontologiche e qualitative211: la disamina dei vari modi per mezzo dei quali dall’immagine si può risalire al contenuto viene quindi sussunta sotto la categoria della somiglianza, considerando i singoli esempi come possibili declinazioni del significare attraverso l’aspetto, che può essere dipinto su un supporto, denotato dalla scrittura, riferito per mezzo di simboli, evocato per assonanza, metafora, ecc.212 Si comprende pertanto che la distinzione effettuata all’inizio della seconda parte e che ha come scopo quello di separare il piano della mera raffigurazione delle forme mnemotecniche dall’analisi della vis repraesentativa che emerge strumentalmente e artificialmente per mezzo di esse è, nel caso di Rosselli, programmatica e volta a stemperare – per via di forzate semplificazioni ed estese elencazioni, che eludono la complessità teorica delle varie componenti tecniche – l’ambigua natura della semiotica mnemotecnica. Anche la spiegazione di come memorizzare particolari tipologie di informazioni (testi di storia, discorsi, testi di dialettica o di teologia), pur non discostandosi molto dalle prescrizioni tradizionali, se non per l’esaustività e l’estensione degli esempi, soddisfa di fatto
209 210 211 212
Cfr. ibid., ff. 94r-106r. Cfr. ibid., ff. 106r-106v. Cfr. ibid., ff. 107r-119r. Cfr. ibid., ff. 119r-123r.
185 Le fonti e i fondamenti tecnici della mnemotecnica bruniana
questa assunzione generale213. La stessa istanza può ugualmente essere colta nel successivo capitolo, dedicato alle animadversiones intorno alle figure, nel quale vengono riepilogate varie prescrizioni sul modo di collocare e gestire le immagini raccolte, tratte da numerosi testi, senza tralasciare neppure le indicazioni su come cancellare le figure dai luoghi, abbattendole, distruggendole o, addirittura, fingendo che vengano lanciate fuori dalle finestre presenti nelle architetture interiori214. La trattazione del Thesaurus artificiosae memoriae si correda quindi di consigli pratici su come utilizzare al meglio i luoghi e le immagini, formate secondo le modalità insegnate nel testo stesso, ovvero partendo da quelli massimi e più generali, fino ai particolari e individuali e, seguendo in modo speculare l’andamento della sezione sui luoghi, comprendendo così anche quelli più piccoli, come le parti del corpo umano, le espressioni del volto e le dita delle mani. Anche i caratteri alfabetici, resi immagini secondo le tecniche descritte in precedenza, sono ancora oggetto di ulteriori raccomandazioni e viene insegnato, finalmente, a comporre per mezzo di essi oltre alle parole anche le cifre numeriche. Tra queste ultime spiegazioni applicative ve ne è una – che riecheggia significativamente anche tra i sigilli bruniani215 –, che riguarda in particolare «l’utilità dell’alfabeto ebraico»216: facendo riferimento alla tradizione cabalistica, la quale vuole che le radici dei termini ebraici siano forme aperte alla combinazione dei caratteri e, di conseguenza, alla mutazione dei significati correlati ad esse, Rosselli fornisce l’elenco dei valori associati a ciascuna lettera secondo le interpretazioni di sant’Ambrogio e Ugo di Saint-Cher217; in tal modo le corrispettive figure potranno essere utilizzate come simboli per le corrispondenti lettere o, al contrario, questi diverranno i segni per esprimere quei significati determinati. Cfr. ibid., ff. 123r-129r. Cfr. ibid., ff. 129r-131v. 215 Cfr. infra, pp. 229. 216 Cfr. ibid., ff. 143r-144v. 217 Per il primo dei due elenchi Rosselli fa riferimento al commento sopra il Salmo 118 di sant’Ambrogio (cfr. Sancti Ambrosii Mediolanensis Episcopi In Psalmum David CXVIII Expositio, in Patrologia Latina, a cura di J.P. Migne, 15, 1197-1526A). Il secondo elenco, invece, è tratto dal Commento al capitolo trentunesimo del libro dei Proverbi di Ugo di Saint-Cher (cfr. Hugonis cardinalis Opera omnia in universum Vetus et Novum Testamentum: Tomus tertius, in libros Proverbiorum Ecclesiastae Canticorum Sapientiae Ecclesiastici, Venezia, Niccolò Pezzana, 1632, ff. 66v-70r). 213 214
186 Nel tempio di Mnemosine
In definitiva il Thesaurus artificiosae memoriae, né da un punto di vista teorico, né tantomeno tecnico, apporta alcunché di originale all’arte della memoria rinascimentale; al contrario, a motivo della sua ampia sistematicità e tassonomia, può a ragione essere considerato, proprio come il titolo stesso dell’opera suggerisce, un repertorio, densissimo, di casi, esempi e soluzioni per quella tecnica della memoria artificiale che, sul finire del Cinquecento, si era oramai codificata in una serie di prescrizioni ricorrenti e stabilmente acquisite, presentando raramente, a seconda dell’autore, alcune varianti ancora significative. È da questo corpus stratificato di insegnamenti che attingerà anche Giordano Bruno; il quale, formatosi come domenicano e dotato di una memoria straordinaria, era profondamente intriso della tradizione classica, medievale e rinascimentale dell’ars memoriae ed intervenne con autorevole sicurezza nel modificare e adattare le soluzioni tecniche più note, per renderle coerenti con il proprio progetto filosofico: l’arte della memoria – al pari di quella combinatoria – appariva infatti ai suoi occhi come uno strumento retorico/dialettico estremamente potente per la divulgazione della «nolana filosofia».
V. L’arte della memoria di Giordano Bruno tra continuità e innovazione
La ridefinizione tecnica dei luoghi: da sostegno a sostrato Le radici della mnemotecnica bruniana affondano saldamente nella tradizione medievale e rinascimentale, prendendo le mosse da autori, come Bruno stesso lascia trapelare, quali Pietro da Ravenna e Johannes Romberch, ma riferendosi anche, costantemente, alla lezione dei classici della retorica latina. Fra tutti questi il Ravennate è quello che, forse, segna con maggiore effetto la tecnica di Bruno, come egli stesso dichiara esplicitamente nell’Explicatio triginta sigillorum: Ancora ero un fanciullo che potei attingere agli insegnamenti del Ravennate. Fu una piccola scintilla che, progredendo in una ininterrotta meditazione, insinuò un incendio su vaste alture. Da quei fiammeggianti fuochi sprizzano ora molte scintille e quelle che avranno raggiunto una ben disposta materia potranno suscitare ardenti lumi. Mi è piaciuto annoverare questo tra i nostri sigilli per rendere un omaggio sincero a colui che il destino mi diede come primo maestro in quest’arte. Se la facoltà della nostra anima non avesse raccolto il seme gettato da lui, quanto e quale esso fosse (ma fu certamente grande e appropriato), forse non saremmo arrivati grazie a nessun altro a mietere tante messi (che esaminiamo nell’aia di questo campo)1.
Bruno, Explicatio triginta sigillorum, pp. 114-5: «Ipsum adhuc puer ex monimentis Ravennatis expiscare potui. Hoc modica favilla fuit, quae iugi meditatione progrediens in vasti aggeris irrepsit accensionem, e cuius flammiferis ignibus plurimae hinc inde emicant favillae, quarum quae bene dispositam materiam attigerint, similia maioraque flagrantia lumina poterunt excitare. Iuvit istum inter nostros adnumerare sigillos, ut illi, quem mihi fata primum in arte ista tradidere institutorem, ex animo litem. Eius quippe sparsum semen, quantum et qualecunque fuerit – fuit certe magnum atque dignum –, nisi animae nostrae facultas concepisset, ad tantas segetum aristas – quas in huius campi area discutimus – emetendas fortasse non essemus aliunde promoti». 1
188 Nel tempio di Mnemosine
Il debito e la gratitudine nei confronti dell’autore della Phoenix, considerato il «primo maestro» non solamente in senso cronologico, emergono in moltissimi luoghi degli scritti mnemotecnici di Bruno e si rivelano soprattutto nella spiccata creatività e nella originalità con le quali vengono affrontati molti aspetti tecnici e, in particolare, nella scelta sistematica di fare affidamento, per conferire più forza semantica agli espedienti di memoria, soprattutto su singole figure animate ed agenti. Il rapporto con le fonti mnemotecniche, tuttavia, non si ferma solo a Pietro da Ravenna; andando ad analizzare attentamente gli scritti che Bruno dedica all’arte della memoria – ma anche quelli in cui è evidente la presenza sullo sfondo di sistemi mnemotecnici –, si può constatare come il filosofo si muova con sicurezza sul saldo terreno di un genere che egli conosce, pratica e sa riproporre con innovazioni coerenti e pertinenti a una linea interpretativa tradizionale. Prendendo in esame, ad esempio, la struttura del De umbris idearum e del Cantus Circaeus, entrambi pubblicati a Parigi nel 1582, è palese la piena adesione, anche nella componente paratestuale (l’individuazione delle parti da trattare, l’inserimento ricorrente di determinate illustrazioni, l’uso di alfabeti mnemonici, ecc.), alla ‘forma’ del trattato mnemotecnico; preceduti da dense sezioni nelle quali si intrecciano teoria e filosofia, le due opere sviluppano gli aspetti propriamente tecnici seguendo la medesima scansione argomentativa della trattatistica tradizionale: prendendo in esame i luoghi, poi le immagini, tra queste quelle per la memoria verborum e, infine, fornendo esempi di applicazioni pratiche degli insegnamenti teorici e tecnici esposti in precedenza. La stessa suddivisione può essere riscontrata anche nell’Explicatio triginta sigillorum – dietro la scansione volutamente criptica dei trenta sigilli – e perfino nel De imaginum, signorum et idearum compositione (che, come il titolo stesso suggerisce, è un testo che sovradimensiona il tema dell’animazione e gestione creativa delle immagini mnemoniche) viene assecondato, in una forma meno esplicita, il medesimo andamento. A questo proposito è utile osservare con più attenzione la struttura del Cantus Circaeus che, sia nella forma che nei contenuti, può essere considerata, tra tutte le opere mnemotecniche di Bruno, quella più vicina al tradizionale manuale di ars memoriae. Il secondo dialogo presente nell’opera – «che contiene il metodo per applicare l’arte della memoria al dialogo precedente»2 – viene infatti articolato in questo modo: parte Id., Cantus Circaeus, pp. 654-5: «Philothei Iordani Bruni Nolani / dialogus II / applicatorius ad artem memoriae». 2
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da un’analisi preliminare del valore e dell’efficacia dell’ars memoriae, alla quale fa seguito una breve digressione sui fondamenti cognitivi della memoria; vi sono poi due ampie sezioni che presentano il funzionamento dei luoghi e delle immagini; infine è proposta l’applicazione di tali precetti alla memoria delle cose e delle parole, nonché a quanto contenuto nel primo dialogo. Il suggestivo racconto introduttivo – sebbene nell’incantesimo di Circe e nella descrizione dei suoi effetti siano presenti moltissimi spunti di riflessione filosofica – viene dunque proposto come testo per l’esercitazione pratica dei precetti tecnici successivamente offerti, secondo quanto viene esplicitamente insegnato nell’Applicatio pregnans posta a conclusione del libro e dichiarato nelle pagine dedicatorie iniziali3. Lasciamo alle perspicue parole di Bruno il compito di illustrare la struttura del proprio trattato: Il metodo proposto chiede di essere diviso in una parte teorica e in una pratica, ovvero in una sezione che illustra la natura e i princìpi dell’arte e in una sezione dedicata ai procedimenti che costituiscono il principale e immediato fondamento delle operazioni mnemoniche. La sezione teorica si articola in tre parti: la prima tratta del modo di acquisire l’arte di governare le facoltà che sono porte della memoria, la fantasia e la cogitativa; la seconda illustra la natura dei sostrati ovvero dei luoghi mnemonici; la terza dove infine si chiarisce la natura delle figure aggiunte, ovvero delle immagini. La sezione pratica si articola a sua volta in due parti: la prima tratta della memoria di cose; la seconda della memoria di parole4.
In tale schematica articolazione si riflette l’esigenza metodica sviluppatasi lungo tutto il corso dell’evoluzione quattro-cinquecentesca della trattatistica mnemotecnica a stampa, che aveva raggiunto il proprio compimento nel Congestorium artificiosae memoriae di Romberch e nella sua ‘versione’ più enciclopedica e densamente barocca, il Thesaurus artificiosae memoriae di Rosselli: testi che, per la loro comune maCfr. ibid., pp. 588-9; 734-6. Ibid., pp. 662-3: «Habet praesens negotium, ut dividatur in theoriam et praxim, utpote in rationem artis et principiorum ipsius et praecepta illa, a quibus maxime proximeque operatio proficiscitur. Theoria habet tres partes: aliam, quae est de modo inquirendae artis in gubernanda phantasia et cogitativa, quae sunt portae memoriae; aliam, quae est de ratione subiectorum seu locorum; aliam, quae est de ratione adiectorum seu imaginum. Praxis vero habet duas partes: alteram, quae respicit memoriam rerum; alteram, quae respicit memoriam verborum». 3 4
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trice riconducibile alla cultura, alla formazione e alla ‘strumentazione’ per la predicazione elaborate dall’ordine di San Domenico, hanno costituito un riferimento primario anche per la preparazione mnemotecnica di Bruno. Dalle parole del filosofo emerge però anche un’altra caratteristica della sua arte: la ridenominazione dei principali oggetti dell’ars memoriae, ovvero i luoghi e le immagini. Si tratta di un aspetto importante, segnale di una profonda revisione del loro valore teorico, oltreché tecnico. La scelta di usare il termine ‘sostrato’ (subiectum) per definire il luogo mnemotecnico è, infatti, una delle innovazioni che doveva con maggiore evidenza risaltare agli occhi del potenziale lettore e discepolo5 dell’arte della memoria di Bruno e che, a ragione, può aver generato non pochi sospetti tra i suoi contemporanei6. Di questa spinosa implicazione è del resto ben consapevole Bruno stesso che, nel Cantus Circaeus, si prodiga per fugare ogni possibile ambiguità dal ricorso a questo termine, elencando anzitutto che cosa non sia il sostrato che egli intende: In questo trattato il concetto di sostrato non si assume nel significato secondo cui lo intendono la logica e la fisica […]. Non è infatti sostrato nel senso di soggetto di predicazioni formali, contrapposto al predicato; non è il sostrato della forma sostanziale, il quale si definisce ‘ile’ e coincide con la materia prima; non è il sostrato delle forme accidentali, come l’ente naturale composto; non è sostrato delle forme artificiali che si imprimono sulla superficie dei corpi naturali7.
Sull’attività di Bruno come insegnate di mnemotecnica e, rispetto a questo ambito, sull’ipotetico ruolo avuto dalla Clavis magna, cfr. N. Tirinnanzi, Bruno in cattedra, in Bruno, Opere mnemotecniche, I, pp. xi-lxvi (anche in Tirinnanzi, L’antro del filosofo, pp. 3-54). 6 Eppure Bruno non è affatto il primo, nella lunga e articolata traditio della mnemotecnica tra Medioevo e modernità, a suggerire l’accostamento, evidentemente non così sconsiderato, tra luogo e materia o immagine e forma. Lo si trova già, ad esempio, nel manoscritto Di l’artifitial memoria, volgarizzamento riconducibile alle Artificialis memoriae regulae di Jacopo da Ragone del 1434, dove in apertura si dice esplicitamente che «gli luochi sono come materia, imagine sono come forma» (Di l’artifitial memoria, p. 99). Il corrispondente luogo in Jacopo da Ragone è citato da Rossi, Clavis universalis, pp. 19-23. 7 Bruno, Cantus Circaeus, pp. 670-3: «Subiectum ergo in proposito non sumitur secundum intentionem logicam vel phisicam […]. Et est subiectum non formalium 5
191 L’arte della memoria di Giordano Bruno tra continuità e innovazione
Diversamente, spiega Bruno, deve intendersi quale luogo mnemotecnico ciò che fa da «sostrato delle forme plasmabili dalla fantasia, apponibili e rimovibili, vaganti e procedenti qua e là secondo il volere della fantasia e della facoltà cogitativa di chi opera»8, ovvero l’effettivo supporto per le immagini, «la pagina», come è detto metaforicamente poche righe sopra, sulla quale avviene l’incisione e la scrittura dei segni mnemonici: si osservi, a questo proposito, come nel De umbris idearum la metafora che, da Cicerone in poi, accosta scrittura e mnemotecnica venga declinata seguendo l’evoluzione degli strumenti tecnici fino alla stampa con i caratteri mobili, ad indicare proprio nella intercambiabilità delle immagini rispetto ai luoghi una delle principali innovazioni dell’ars bruniana9. Se dunque il richiamo metaforico alla carta e alla pagina per descrivere la funzione dei luoghi costituisce la manifesta ripresa di un topos classico che compare anche in apertura della Phoenix e di altri trattati della prima età moderna, l’esclusione di eventuali implicazioni filosofiche legata a questo uso del termine subiectum non può essere letta come una presa di distanza dalla contestualizzazione aristotelica operata in proposito da Romberch – che i lettori esperti di ars memoriae non potevano ignorare10 –, ma piuttosto si rivela essere una forma di precauzione strumentale, la quale difatti viene meno già nel contemporaneo De umbris idearum, dove la forte valenza filosofica di tale scelta terminologica viene dichiarata senza alcuna remora fin dalla presentazione della sezione sui luoghi, che «tratta della materia, ovvero delle immagini-sostrato»11. L’accostamento tra il sostrato materiale e quello mnemotecnico, cioè il luogo, diventa poi ancora più esplicito nella successiva definizione: Il primo sostrato è dunque una estensione artificiale, ovvero un seno predisposto nella facoltà fantastica, occupato dalle figure dei ricettacoli confluite a partire dalle finestre dell’anima, distinto secondo parti diverse, capace di rece-
praedicationum, quod distinguitur contra praedicatum; non formae substantialis, quod ile dicitur, quod est materia prima; non formarum accidentalium, quod est compositum physicum; non formarum artificialium inherentium naturalibus corporibus». 8 Ibid., pp. 672-3: «est subiectum formarum phantasiabilium, apponibilium et remobilium, vagantium et discurrentium ad libitum operantis fantasiae et cogitativae». 9 Cfr. Id., De umbris, pp. 134-5. 10 Cfr. supra, pp. 139-40. 11 Ibid., pp. 146-7: «de materia sive de subiecto».
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pire tutte le realtà viste e udite secondo il loro ordine e di trattenerle secondo la volontà dell’anima12.
Questa formulazione perentoria, da cui emergono i tratti tecnici fondamentali del luogo mnemonico, così come viene determinato anche nelle corrispondenti pagine del Cantus Circaeus, è, almeno da un punto di vista formale, estremamente fedele alla versione ‘classica’: è la visualizzazione di un contesto locale, con tutta la sua specifica articolazione, allo scopo di conservarvi in maniera ordinata i segni fantastici. Si fa riferimento, dunque, al luogo inteso come contenitore, come spazio che accoglie altri luoghi particolari e le corrispettive immagini mnemoniche; infatti a conclusione Bruno rileva che «una simile definizione guarda al sostrato comune delle forme comuni secondo quell’arte comune che dall’antichità si è trasmessa fino a noi»13. Pur nella revisione terminologica, è dunque chiara la sua volontà nominale di collocarsi nel solco della tradizione della trattatistica rinascimentale; tuttavia tale adesione non viene elaborata con passiva subordinazione, ma intrecciando continuamente una tecnica che si mostra peculiare a un’altrettanto originale prospettiva filosofica. Subito dopo aver dichiarato, infatti, la continuità tra il suo sostrato mnemonico e il luogo comune, ecco che in un ulteriore inciso, che rimanda alle pagine della propria Clavis magna, opera perduta o mai veramente edita14, Bruno ribadisce al lettore che il sostrato primo è invece il caos fantastico, così duttile da sapersi esprimere – a mano a mano che la potenza cogitativa riconduce a un criterio comune le realtà viste e udite – in un ordine e in una figura tali da presentare costantemente, con le proprie membra principali e le proprie parti ultime, tutto ciò che orecchie ed occhi hanno percepito, quasi si affrettasse a presentare il ritratto di un nuovo albero, di un nuovo animale, di un nuovo mondo. Un caos simile si comporta infatti come una nube scossa dai venti esterni, la quale,
Ibid., pp. 148-9: «Primum ergo subiectum est technica extensio, sive sinus in phantastica facultate ordinatus, ex speciebus receptaculorum consitus, quae ex animae fenestris influxere, diversis distinctum partibus, visa omnia atque audita suo recipiens ordine et ad animae libitum retinens». 13 Ibid. 14 Cfr. N. Tirinnanzi, Bruno in cattedra, pp. xiv-xix. 12
193 L’arte della memoria di Giordano Bruno tra continuità e innovazione
secondo la varietà e l’intensità degli impulsi ricevuti, può recepire figure infinite e di tutte le specie15.
Come si può osservare da queste parole, l’analisi tecnica dell’Ars memoriae del De umbris idearum è inevitabilmente collegata alla gnoseologia presentata nelle prime due sezioni, richiamando non solo il potere creativo del sinus phantasticus – che evoca la vitalità simbolica di un mondo di ‘ombre’ potentemente significative –, ma introducendo motivi teorici che ritorneranno soprattutto nei dialoghi italiani – in primis nel De la causa16 –, intorno alla potenza vicissitudinaria e infinita della materia. Viene con ciò stabilita una stretta corrispondenza, non solo metaforica, tra la vitalità della natura e la dimensione fantastica e, in subordine, con il ricco mondo di simboli mnemonici che l’arte è in grado di costruire all’interno di se stessa. A questa suggestiva descrizione del «sostrato primo», identificato con la materia stessa, fanno del resto da contrappeso i versi di una delle poesie che accompagnano le artes breves che chiudono il De umbris idearum e che offrono accorgimenti pratici per memorizzare particolari soggetti. Al centro dell’enigma che correda il secondo di questi espedienti vi è infatti l’immagine del «motore immobile», che, rovesciando il corrispondente concetto aristotelico, è associato alla figura di Proteo il quale «nelle procellose onde carpatiche di Nettuno, […], / Trainato da bipedi cavalli dietro armenti deformi, / Si mantiene identico mentre contrae tutte le forme / E perenne opera tra i grandi numi del cielo»17. Questa, dichiara Bruno, è allegoria della natura, rispetto alla quale «vige permanente e dunque sottostà la monade», mentre «questa che vedi sottostare, non neghi a
Bruno, De umbris, pp. 148-9: «Primum autem subiectum ex principiis Clavis magnae est phantasticum chaos ita tractabile ut, cogitativa potentia ad trutinam redigente visa atque audita, in talem prodire possit ordinem et effigiem, quale suis membris primis ultimisque partibus felicissime valeat ipsa per aures vel oculos percepta constanter presentare, tanquam novae arboris vel animalis vel mundi pros pectum incurrens. Haud enim secus tale chaos se habere videtur quam nubes ab externis impulsa ventis, quae pro impulsuum differentiis atque rationibus infinitas omnesque subire valet specierum figuras». 16 Cfr. il dialogo quarto del De la causa, pp. 255-75. 17 Id., De umbris, pp. 370-1: «Carpathio Proteus Neptuni in gurgite vasto,/ Turpia per bipedes post pecora actus equos,/ Idem servatur dum formas contrahit omnes,/ Numinaque intra alti magna perennis agit». 15
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se stessa alcun atto, / In modo che di tutti sia più sollecita»18. Al motivo della materia universale, come elemento teorico cui è associata la fantasia nel senso di ‘sostrato’, cioè in qualità di supporto per le immagini generate da essa, viene pertanto affiancato quello dell’agente formatore universale, che, nella stretta corrispondenza intrecciata tra interiorità e universo naturale, viene a significare, attraverso un confronto che non è più simbolico, il ruolo dell’immagine – che non a caso, come si vedrà in seguito, è detta anche forma –, la quale, intesa finalmente nel suo senso originario, è l’atto creativo stesso, l’azione figurativa dello spiritus phantasticus mosso dall’intelligenza umana. Questa fondamentale premessa è seguita, sia nella trattazione del Cantus Circaeus che in quella del De umbris idearum, dalla disamina intorno al ‘genere’ dei luoghi, ovvero i tipi di contesti locali valutati partendo dalla loro ampiezza. Rispetto a questo argomento, l’atteggiamento di Bruno si mostra abbastanza ‘conservatore’, sebbene in una prospettiva di riorganizzazione classificatoria delle varie tipologie: riprendendo un tema che abbiamo visto essere già presente nella trattatistica medievale, in quella quattrocentesca di area germanica ed infine in Romberch e in Rosselli, la classica distinzione in luoghi ‘massimi’, ‘maggiori’ e ‘minori’ viene sviluppata attraverso più gradi, identificando esplicitamente l’eventuale dimensione dei luoghi con i vari aspetti che questi possono assumere. Ad un grado massimo, pertanto, il luogo «può essere o comunissimo, in quanto lo si concepisce pari per estensione all’universo», oppure, ad un secondo livello, «più comune, in quanto si estende nello spazio descritto dalla geografia», o, ancora, «comune, in quanto coincide con i confini di un determinato continente»; «può essere inoltre proprio, in quanto corrisponde ad una città, o più proprio in quanto lo si immagina della grandezza di una casa o di ampiezza domestica», infine «proprissimo, in quanto coincide con una delle molteplici e numerose parti e sezioni della casa»19. Così nel Ibid., pp. 372-3: «Praestat perdurans ergo subestque Monas./ Quamque subesse vides, nullum sibi deneget actum,/ Quo veniat cunctis officiosa magis»; su questi temi cfr. M. Matteoli, R. Sturlese, La nuova ‘arte’ del Bruno in tre enigmi, «Rinascimento», s. II, 41, 2001, pp. 113-65. 19 Bruno, Cantus Circaeus, pp. 672-3: «potest esse communissimum, extentum iuxta latitudinem ambitus universi, vel communius iuxta latitudinem geographiae, vel commune iuxta latitudinem alicuius continentis, vel proprium iuxta latitudinem politicam, vel proprius iuxta latitudinem domesticam seu oeconomicam, vel propriissimum iuxta multitudinem atque numerum partium domus et particularum eiusdem». 18
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Cantus Circaeus. Ancora più dettagliata e teoricamente definita è la scansione del De umbris: Il primo di questi sostrati è massimamente comune, potendosi estendere quanto il seno della fantasia, che può dilatare a proprio piacere il circolo dell’orizzonte, ma non restringerlo a suo piacere. Il secondo è il sostrato comune, che consta dell’insieme di regioni individuate all’interno del cosmo. Il terzo è meno comune, ovvero, se ti piace chiamarlo così, pari ad una città. Il quarto è il sostrato proprio, e potrai definirlo pari ad una casa. Il quinto è il sostrato più proprio, ovvero una porzione di spazio che può essere divisa in quattro o cinque settori. L’ultimo è massimamente proprio, e coincide con il sostrato che si definisce ‘atomo’, atomo – voglio dire – non nel senso proprio del termine, ma secondo l’uso che se ne fa in questo genere di arte20.
In entrambe le classificazioni riecheggiano anzitutto i motivi e i termini della trattatistica rinascimentale e classica, a partire da quella identificazione dei luoghi con le parti del cosmo che allude alla struttura locale ideata e utilizzata da Metrodoro di Scepsi e che, fin dagli scritti dei retori latini, è stata contestata e criticata per la sua estrema ‘visionarietà’ e dunque, non a caso, inserita anche da Bruno tra quelle tipologie di luoghi che non sono reputati molto utili per la praxis mnemonica21. Segue poi la tipologia dei paesaggi geografici (continenti, regioni, ecc.) che rimanda alle lunghe descrizioni di nazioni, territori e ambienti tratti dalla letteratura classica, come già nel testo di Sibutus, di Carrara e altri, oppure rigorosamente elencati secondo l’ordine della loro ampiezza e collocazione (superiori, celesti, terrestri, inferiori) come in Romberch e Rosselli. Il fatto che venga poi evidenId., De umbris, pp. 150-3: «Horum aliud est communissimum, quia tantum valet extendi, quantum phantasiae potest comprehendere sinus, qui positae orbis quantitati quantumlibet addere potest, licet non quantumlibet substrahere. Aliud est commune, quod cosmicarum perspectarum partium cumulo constat. Aliud est minus commune, utpote si libet politicum. Aliud est proprium, nempe si placeat oeconomicum. Aliud est magis proprium, tetrathomum videlicet vel pentethomum. Aliud est propriissimum, quod est athomum, athomum, inquam, non simpliciter, sed in isto genere». 21 Cfr. Id., Cantus Circaeus, p. 672: «Tot existentibus subiecti speciebus, ipsae, quae sunt infra latitudines proprietatis, maxime sunt ad usum praesentem accommodatae, licet etiam hae, quae sunt infra latitudinem communitatis, usu venire valeant». Sul sistema astronomico/mnemonico di Metrodoro di Scepsi, cfr. Yates, L’arte della memoria, pp. 38-40. 20
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ziato come il termine dell’ampiezza adeguata per iniziare a costruire gli spazi mnemotecnici sia quello della città, rimanda invece, pescando fin nelle radici della mnemotecnica medievale, alle complesse abbazie (o ai castelli) presenti nei trattati di Wetzdorf, Cusanus, Le Lièvre e altri e, soprattutto, alle più ordinate costruzioni di Romberch e Rosselli22. L’edificio scandito in luoghi particolari costituisce infatti uno dei canoni dell’architettura della memoria fin dalla trattatistica classica, mentre il palazzo suddiviso nelle proprie stanze, nelle quali a loro volta vengono individuati i singoli luoghi, ne rappresenta l’evoluzione medievale, quale emerge dalla letteratura mnemotecnica della seconda metà del Quattrocento sviluppatasi soprattutto nell’area germanica e recepita poi dall’ars memoriae cinquecentesca23. Una riflessione speciale merita, tuttavia, la definizione di luogo individuale, cioè quello atto ad accogliere la singola immagine mnemonica: anche in questo caso, seguendo gli insegnamenti di Pietro da Ravenna fino a giungere a Romberch, Bruno ricorda anzitutto che per determinare la giusta configurazione dei luoghi «è necessario rispettare il corretto equilibrio tra una rappresentazione troppo grande ed una troppo piccola, facendo riferimento alle dimensioni e alla figura dell’uomo»24, cioè «pari, in altezza e in larghezza, a quella di un uomo con braccia alzate ed allargate»25. Con una maggiore profondità teorica, tuttavia, nel De umbris idearum il luogo particolare è detto anche «atomo», volendo indicare il fatto che esso è il punto di fondazione della composizione mnemotecnica, l’elemento semplice dal quale muove ogni conseguente e successiva costruzione che, per l’appunto, procede secondo il fine di mettere in ordine le immagini e, dunque, i luoghi specifici che le accolgono. Si tratta di una puntualizzazione terminologica niente affatto secondaria, perché ad essa corrisponde, su un piano teorico più ampio, una delle prese di posizione tecniche più innovative di tutta l’ars memoriae bruniana, ovvero quella che prescrive di adattare la costruzione degli scenari mnemotecnici all’organizzazione del materiale mnestico e non viceversa: Cfr. supra, pp. 134-5, 137-8. Su architettura e mnemotecniche nel Medioevo, cfr. Carruthers, Machina memorialis, pp. 368-426. 24 Bruno, De umbris, pp. 150-1: «In horum constitutione servanda est ratio inter magnitudinem et parvitatem, relata ad hominis molem atque prospectum». 25 Id., Cantus Circaeus, pp. 674-5: «ad hominis magnitudinem talem, quae sit iuxta altitudinem elevatorum et latitudinem extentorum brachiorum». 22 23
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poiché ci è stato concesso di scoprire e perfezionare quella tecnica, non abbiamo avuto più bisogno di luoghi materiali – vale a dire, di luoghi che siano stati verificati dai sensi esterni – né abbiamo dovuto connettere l’ordine dei concetti da memorizzare all’ordine dei luoghi; affidandoci invece al puro architetto della fantasia, abbiamo fatto dipendere l’ordine dei luoghi dall’ordine delle cose da ricordare. Per questa ragione riteniamo di aver portato la tecnica a un tale punto di perfezione che tutto quanto è stato teorizzato, prescritto e ordinato dagli autori più antichi – almeno per quel che sappiamo dagli scritti che sono giunti fino a noi – non può essere legittimamente accolto come parte del nostro metodo: si tratta infatti di una scoperta oltremodo feconda, e ad essa è appropriato il libro della Clavis magna26.
Come si vede, Bruno è consapevole che, da un punto di vista operativo, ciò comporta una completa inversione della tradizionale praxis: la rinuncia a luoghi «verificati dai sensi esterni», cioè tratti dalla personale esperienza, contraddice totalmente uno dei precetti fondamentali dell’ars memoriae, se si considera l’insistenza con la quale Pietro da Ravenna sottolinea la sua capacità di ricavare migliaia di luoghi dai posti che egli visitava; l’efficacia del recupero dei dati mnestici, conservati sotto forma di immagini attraverso la scansione sequenziale di un percorso visivo, può infatti essere gravemente inficiata se la memorizzazione stessa di tale percorso non è più un fatto spontaneo, ‘naturale’, ma ci obbliga a ricorrere a un aggiuntivo sforzo mnemonico o, addirittura, un ulteriore espediente tecnico. Eppure molti mnemonisti, fin dall’antichità, non escludevano la possibilità di mescolare luoghi reali con luoghi fittizi – se questi meglio si adattavano alla quantità e tipologia delle immagini – e si è visto come esistessero esempi concreti di percorsi visuali formati solo da immagini (le catene di azioni reciproche evocate già da Cusanus o il casellario di figure animali, la cui invenzione Carrara attribuisce al padre); tuttavia nessuno dichiarava esplicitamente l’esigenza di far «dipendere l’ordine dei luoghi dall’orId., De umbris, pp. 140-1: «Nobis autem cum datum est illam invenisse et / perfecisse, nec locis materialibus – verificatis scilicet per sensus exteriores – ultra non indiguimus, nec ordini locorum memorandorum ordinem adstrinximus, sed puro phantasiae architecto innixi, ordini rerum memorandarum locorum ordinem adligavimus. Unde nobis ita successisse presumimus, ut quidquid ab antiquioribus hac de re fuit consideratum, praeceptum et ordinatum – quatenus per eorum scripta, quae ad nostras devenere manus, extat explicatum –, non sit conveniens pars inventionis nostrae, quae est inventio supra modum praegnans, cui appropriatus est liber Clavis magnae». 26
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dine delle cose da ricordare», ovvero invertire la consuetudinaria prassi di costruire prima un ampio e articolato sistema di luoghi, autonomamente e indipendentemente da ciò che vi si voleva collocare, e, solo in un secondo momento, inserirvi le immagini. Quello che propone Bruno è, per certi versi, esattamente il contrario, dal momento che prescrive di subordinare la struttura, il numero e l’ordine dei luoghi – perfino la forma e il loro aspetto – a quello delle immagini che vi devono essere accolte. Ciò implica una rivoluzione anche e soprattutto da un punto di vista teorico; mentre infatti è chiaro a tutti gli mnemonisti che tra immagine e contenuto mnemonico deve esservi una stretta relazione simbolica, per costituire un vero e proprio ‘segno’, non è così, tuttavia, per i luoghi: essi non sono il segno di qualcosa, ma la visualizzazione di un contesto la cui scansione viene utilizzata artificiosamente associandola a quella delle immagini, per richiamarle in modo ordinato. L’ordine dei luoghi, però, non coincide con quello delle immagini, non ne è la simbolizzazione: vi è solo un’arbitraria corrispondenza tracciata tra gli uni e le altre. Se da un punto di vista pragmatico ciò è sufficiente ad instaurare una proficua relazione tra i due livelli (rievocando così la successione delle cose da ricordare), tuttavia questa associazione non è efficace nell’esprimere tutte le relazioni d’ordine che sussistono tra i dati mnestici, poiché la sequenza dei luoghi ne rappresenta solamente la serialità senza ‘contestualizzarli’ veramente. La proposta di Bruno è dunque quella di trasformare anche il luogo in un segno, trasferire cioè la potenza semiotica delle immagini su tutto l’apparato mnemotecnico, facendo dell’intera scenografia della memoria un sistema correlato di simboli, o meglio ancora, un unico, complesso e composito segno, l’ordine e le parti del quale sappiano essere riferimento non solo dei singoli significati, ma anche delle relazioni di ordine logico e semantico che sussistono tra di loro27. Ciò, del resto, si è già visto messo in pratica, su scala indubbiamente inferiore, nell’idea di associare, ad esempio, i casi grammaticali alla figura umana, così che le varie membra Come si è visto nell’Introduzione (cfr. supra, pp. 18-9), Umberto Eco si pone di fronte alla questione se i sistemi mnemotecnici possano essere considerati sistemi semiotici veri e propri, osservando che non possono essere tali poiché «a livello espressivo», non sussiste «un sistema sintattico di loci, destinato a ospitare immagini le quali appartengano allo stesso campo iconografico e rivestano la funzione di unità lessicali» (cfr. Eco, Mnemotecniche come semiotiche, p. 44). La novità tecnica dell’arte bruniana consiste dunque proprio in ciò, ovvero rendere anche i luoghi e il loro rapporto con le immagini semanticamente attivi e significativi. 27
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esprimessero sia lo specifico significato attraverso la corrispondente funzione organica, sia, per mezzo dell’organicità stessa del corpo, la convergenza unitaria dei casi nel termine declinato attraverso di essi; in generale, l’uso mnemotecnico di statue, scene e altre figurazioni composite come ‘luoghi’, cioè riferimenti visuali di un ordine – previsto in varie forme dalla quasi totalità degli autori – è già un tentativo compiuto di rappresentare, oltre alla singola informazione mnestica, anche le relazioni che questa intrattiene con altre. L’idea bruniana, per quanto innovativa, non è dunque incoerente rispetto ai tradizionali valori della prassi mnemotecnica, oltreché essere convalidata da analoghe esperienze, seppure di portata assai meno radicale; ma si nutre, in più, della profonda consapevolezza teorica che l’immagine (e tramite di essa il significato) debba agire nei confronti dei luoghi come la forma rispetto alla materia, ovvero plasmarla, renderla il costrutto esteriore di una vitalità tutta intrinseca, esattamente come fa, per via naturale, la mente stessa dell’uomo quando, nei processi di elaborazione dell’esperienza, associa, deriva e forma un ‘contenitore’ fantastico per ogni contenuto intellettuale. L’archetipo ultimo di questo fitto intrecciarsi di corrispondenze va infine ricercato nell’orizzonte del divenire naturale: è lì che forma e materia si intessono reciprocamente negli enti innumerevoli e transeunti e in ciò danno vita ad un paradigma generativo che si moltiplica in tutti gli atti e gli stati dell’essere, da quello universale, al singolo individuo, fino alla «minuzzaria»28. Come è stato sottolineato nei primi tre capitoli, non sfugge a questo modello neppure l’uomo e, soprattutto, la sua interiorità, con la dimensione conoscitiva: è dunque da ciò che sorge la necessità di allineare coerentemente l’arte della memoria con l’arte della natura, riproducendo strumentalmente in essa le stesse dinamiche della realtà. Il primo grado di tale processo di rinnovamento teorico dell’ars memoriae si compie facendo sì che ogni immagine visualizzata – sia essa la visione di un luogo o la raffigurazione di un singolo ricordo – venga ad essere il significante ‘materiale’ di un significato ‘formale’ di vario ordine, ampiezza e complessità: mentre le immagini rappresentano i singoli dati, i luoghi mostrano dunque le relazioni contestuali che questi intrecciano, a vari livelli, tra di loro. Da un punto di vista tecnico ciò non cambia di molto la procedura di preparazione e visualizzazione del materiale mnestico: Bruno non prescrive di ‘costruire’ i luoghi dopo le immagini, ma di valutare preventivamente l’organizzazione e la struttura dei dati da me28
Cfr. supra, pp. 89-90.
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morizzare e, nel tradurli in segni mnemonici, sia di rendere il sistema di spazi coerente con il loro ordine, sia di creare le singole figure per ciascuno di essi. Se, ad esempio, si deve mandare a memoria un testo scandito in libri, capitoli e paragrafi, si procederà quindi adattando un edificio (un palazzo suddiviso in piani, stanze e angoli nelle stanze) ai livelli di reciproca inclusione delle informazioni; non solo: la foggia, la forma e l’aspetto di tale contenitore dovrà in qualche modo rimandare anche ai corrispondenti contenuti; per ultimo vi si collocheranno le immagini raffiguranti le unità informative più piccole, le quali verranno disposte nei luoghi particolari seguendo l’articolazione degli ordini più generali, che, di fatto, è quella che i dati da esse rappresentati possedevano nel loro contesto di origine. Il tutto può essere efficacemente sintetizzato dalla formula usata nel De umbris: «metti i sostrati comuni insieme a quelli comuni; i meno comuni con i meno comuni, i propri con i propri; i più propri ed i massimamente propri con i più propri e i massimamente propri»29. Un’ultima osservazione sul densissimo brano sulla ‘rivoluzione’ tecnica e teorica dell’ars memoriae bruniana riguarda l’ennesimo richiamo alla Clavis magna: questo testo, composto, annunciato e mai pubblicato – se non, come ha evidenziato Nicoletta Tirinnanzi, nelle parti e nelle versioni che emergono in altre opere30 –, doveva contenere una versione dell’ars bruniana che portava a pieno compimento queste prescrizioni declinate secondo il loro massimo potenziale, allineando ancora di più, rispetto a quanto si fa nel Cantus Circaeus e nel De umbris, la creatività e l’azione mnemotecnica a quella naturale. Tale aspetto si manifesta, tuttavia, anche nei primi scritti mnemotecnici di Bruno, quando, ad esempio, è affrontata la memoria verborum, ed emerge nella sua piena evidenza nei trenta sigilli e con l’animazione e la composizione delle immagini che sono oggetto del suo ultimo testo sull’ars memoriae: a questi livelli si può cogliere compiutamente come l’importante indicazione che spinge a fare di tutta la scenografia mnemonica un segno articolato, composito e unitario sia solo una delle due facce dell’ars bruniana, poiché questa struttura e ‘corpo’ visuale non sono mai ‘statici’, ma vengono a prendere letteralmente ‘vita’ per mezzo dell’animazione delle immagini, della Bruno, De umbris, pp. 154-5: «Committe communia communibus; minus communia minus communibus, propria propriis; proprioribus atque propriissimis propriora atque propriissima». 30 Cfr. Tirinnanzi, Bruno in cattedra, pp. xvii-xix. 29
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loro combinazione e trasformazione, operate sistematicamente con l’applicare agli oggetti mnemotecnici i precetti dell’ars combinatoria lulliana31. È del resto grazie a tale aspetto dinamico e generativo che l’arte di Bruno, come si vedrà nelle pagine seguenti, si conforma alla sua visione vitale e vicissitudinale della natura, divenendo, in virtù di tale consistenza teorica, un mezzo efficacissimo non solo per archiviare e conservare le informazioni, ma anche per elaborarle, un vero e proprio strumento dialettico/visuale che il filosofo collega agli esiti più significativi della sua produzione intellettuale. Tralasciando per il momento le molte altre implicazioni che questo inciso teorico può richiamare – e che comunque verranno ulteriormente approfondite nel prosieguo della trattazione –, è utile continuare a seguire l’andamento del testo del Cantus Circaeus, la cui articolazione, come si è osservato, ricalca abbastanza fedelmente quella della tradizionale trattatistica mnemotecnica cinquecentesca, per mostrare di volta in volta – anche attraverso frequenti incursioni tra le sezioni del De umbris idearum – come la tecnica bruniana offra costanti motivi di originalità rispetto al ‘genere’ letterario con il quale si confronta in questi scritti. Classificate infatti le tipologie dei luoghi, Bruno passa ad elencarne le caratteristiche secondo i medesimi parametri valutativi del testo di Romberch, ovvero seguendo una scansione che riprende lo schema delle categorie aristoteliche. Esamina pertanto la sostanza dei luoghi (cioè la natura delle cose che essi riproducono), la quantità – ossia dimensioni e numero –, poi la qualità, la differenza, la relazione, l’ordine e il luogo. Sebbene in queste pagine le prescrizioni bruniane siano del tutto coerenti con quelle La nuova teorizzazione delle architetture mnemotecniche proposta da Bruno costituisce, del resto, il punto di partenza per le versioni più ‘complesse’ della sua ars memoriae; l’Explicatio triginta sigillorum, ad esempio, si apre con il sigillo del ‘campo’ che rimanda direttamente alle definizioni di sostrato del Cantus Circaeus e del De umbris idearum, chiarendole ulteriormente. Innanzitutto si dichiara la piena corrispondenza tra il sostrato inteso in senso primario e la fantasia (definita «amplissimus sinus»); viene qui esplicitato, poi, anche il fondamentale principio della reciproca inclusione dei luoghi e della necessaria corrispondenza tra la portata logica delle immagini e quella dei luoghi: «Iam ut aliquid adferatur huius disciplinae proprium, ad instar Solimae per Thalmutistam divisae praecipimus ut generalissima forma generalissimum, generalis generale, specialis speciale, individualis individuale subiectum consequatur, haud aliter quam aliam formam ab alia comprehendi conspicimus» (Bruno, Explicatio triginta sigillorum, p. 100). 31
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della tradizione classica, medievale e rinascimentale – ricordando, ad esempio, l’equilibrata misura e la giusta distanza tra gli spazi, la luminosità equamente distribuita delle scene – il Nolano non manca a tal proposito di introdurre alcune valutazioni peculiari, sottolineando un aspetto che apre la strada alle riflessioni sull’organizzazione degli scenari fantastici che abbiamo appena evidenziato. Per quanto riguarda, infatti, il numero dei luoghi, suggerisce di fare fronte all’eventuale mancanza di spazi per l’archiviazione dei dati mnestici connettendo «luoghi comuni ad altri luoghi comuni», e «unire, congiungere ed avvicinare, ad opera della facoltà cogitativa e della fantasia, quelle realtà che di fatto risultano divise, disgiunte e lontane le une dalle altre»32. In pratica si tratta di collegare la ‘scrittura’ e la ‘lettura’33 di un insieme di luoghi particolari con un altro, attraverso un espediente che ne prolunghi la visione con continuità, come se, di fatto, fossero lo stesso contesto: alla fine e all’estremità di un luogo sia contiguo o s’immagini tale il principio di un altro. Niente infatti t’impedisce di aggiungere al termine e all’estremo
Id., Cantus Circaeus, pp. 676-7: «ita ferme nobis consulitur in praesenti operatione, ut propria institutione loca communia locis communibus connectamus et opere nostrae cogitationis et phantasiae ea, quae re ipsa sunt divisa, disiuncta et ab invicem elongata, uniantur, coniungantur et adproximentur». 33 Come metafora esplicativa per questo tipo di operazione mnemotecnica, Bruno usa l’efficace immagine dello scrittore che, mosso dalla scarsità di spazio, «cuce» un’altra pagina al proprio testo (cfr. De compaginatore, in Id., Explicatio triginta sigillorum, pp. 56-7, 116-9). È un’immagine che, ovviamente, si ricollega ancora una volta al topos dell’arte della memoria quale scrittura interiore e non a caso identificante i luoghi con le pagine, ma che, tuttavia, contiene anche suggestivi rimandi autobiografici, se consideriamo l’attenzione che Bruno dedicava anche alla composizione materiale e tipografica delle proprie opere (cfr. M. Gabriele, Introduzione a G. Bruno, Corpus iconographicum. Le incisioni nelle opere a stampa, Milano, Adelphi, 2001, pp. xcvi-ciii; M. Ciliberto, N. Tirinnanzi, Il dialogo recitato. Per una nuova edizione del Bruno volgare, Firenze 2002, pp. 103-24). Non solo: quello che resta degli scritti incompiuti o non terminati lascia spesso intravedere un’interpolazione effettiva nei fascicoli, con l’aggiunta di altri fogli, quasi che lo spazio della scrittura di Bruno – in un paradossale rovesciamento dell’immagine appena richiamata – fosse l’esito di un lavoro pianificatorio, tutto mentale, per adattare al meglio il materiale che egli voleva sviluppare sulla pagina. Si veda, ad esempio, l’analisi compiuta da Rita Sturlese in merito al fascicolo contenente le Animadversiones circa lampadem Lullianam, in Bruno, Opere lulliane, pp. liii-lix. 32
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di una casa situata in una determinata parte della città, il principio di un edificio posto in un altro quartiere. Ugualmente, niente t’impedisce di poter connettere all’ultimo di una serie di luoghi situati a Roma il primo di un complesso di luoghi situati a Parigi, purché tu abbia fissato e stabilito una volta per tutte che a quella determinata estremità faccia sempre seguito quel preciso inizio34.
La pragmaticità di questa soluzione riprende e puntualizza l’esigenza di adattare i luoghi alle immagini: il loro ordine, la loro scansione hanno sempre la massima priorità – essendo anche ciò parte integrante del loro significato –, quindi non è scandaloso intervenire arbitrariamente sulle architetture della memoria e modificarle, anche quando esse sono previsualizzate e prestabilite secondo canoni mnemotecnici improntati ad un realismo che molto asseconda il modus operandi della tecnica del Ravennate. Tale suggerimento non va dunque affrontato in maniera sbrigativa e superficiale, perché ha sullo sfondo l’idea dell’unità organica degli scenari mnemotecnici; ciò trova conferma nel fatto che esso viene ripreso, ampliato e codificato anche nel sigillo Compaginator dell’Explicatio triginta sigillorum, in cui si dichiara che questa soluzione, apparentemente pratica, deriva in realtà il proprio senso da valutazioni di ordine teorico ben più fondate, ispirate allo stile organizzativo dell’ars Lulliana e addirittura ai principi originari di tale tecnica, la quale garantisce coerenza logica ai contenuti da essa elaborati proprio grazie alla peculiare successione/ progressione delle ‘figure’ combinatorie35. Un’altra significativa riflessione che può essere colta nelle sezioni sui luoghi dei primi scritti mnemotecnici di Bruno riguarda la qualità dei sostrati e, indirettamente, conduce alla loro animazione, che, assieme all’innovativo modo di intendere l’articolazione dei luoghi, Id., Cantus Circaeus, pp. 676-7: «fini et termino unius adhereat principium alterius vel adherere intelligatur. Nihil enim obstat, quo minus possis fini atque termino tuae domus, quae est in una parte civitatis, apponere principium unius aedificii, quod est in alia parte civitatis. Pariter nihil obstat, quo minus valeas extremo locorum Romanorum adnectere primum locorum Parisiensium, dummodo sit fixum apud te atque sancitum, ut semper tali fini tale principium intelligas succedere». 35 Cfr. Id., Explicatio triginta sigillorum, pp. 116-8: «Ratio quoque compaginatoris est similis deductionibus, quas Lullius et nos in inventivis artibus instituimus, dum ad conceptuum et contemplationum multiplicationem una figura per alias omnes deducitur, unus inveniendi modus alio inveniendi modo cohaeret». 34
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è l’altro aspetto, complementare, della sua rinnovata arte della memoria: la prescrizione di diversificare e rendere quanto più singolari e univoche le rappresentazioni visive interiori – anche per quanto riguarda le contestualizzazioni locali – viene sottolineata, e per certi versi esasperata, nel De umbris idearum associando questa stessa varietà al differenziarsi vicissitudinale e creativo della natura, attraverso un densissimo passaggio che, per le sue importanti implicazioni filosofiche, abbiamo già citato parzialmente nei primi capitoli36 e ora riproponiamo integralmente, per ribadire il costante intrecciarsi, in queste pagine, di filosofia e ars memoriae: Guarda del resto quanto sia grande la varietà manifestata dall’eccelsa natura. Varie sono le membra del mondo. Varie sono le specie nelle membra del mondo. Varie sono le figure degli individui nelle singole specie: nessuna oliva è identica a un’altra, nessun uomo è totalmente simile a un altro. Ecco che tutte le cose sono contraddistinte da caratteri differenti in ragione della propria capacità, ciascuna è distinta dall’altra e tutte da tutte per le proprie differenze, quasi in virtù di appropriati confini. Per conformarti dunque alla natura, cerca di portare la diversità in tutte le cose: nel modo di sussistere, nella grandezza, nella forma, nella figura, nell’attitudine, nella disposizione, nel termine, nell’ubicazione, quanto più ti sarà possibile, adotta tratti distintivi nell’agire, nel patire, nell’elargire, nel prendere, nel sottrarre, nell’aggiungere, nell’alterare secondo le varie modalità che abbiamo descritto. Ente e uno si dicono reciprocamente; ciò che non è uno, non è ente; ma proprio per questo motivo sentiamo che ciascuna cosa è uno, perché a suo modo è determinata dalla propria differenza37.
Cfr. supra, p. 105. Id., De umbris, pp. 164-5: «Aspicis proinde quam sit ab eminente natura prelata varietas. Varia sunt mundi membra. Variae sunt in membris mundi species. Variae sunt in speciebus individuorum figurae: non enim altera olea alteri oleae prorsus est configurata, non alter homo prorsus alteri similis. Itaque differentiis omnia sunt pro capacitate distincta, singula a singulis omniaque ab omnibus propriis secernuntur tanquam finibus differentiis. Tenta igitur naturae conformaturus in omnibus diversitatem: in modo subsistendi, in magnitudine, in forma, in figura, in habitu, in habitudine, in termino, in situ, et quot poteris discriminibus indue in agendo, patiendo, elargiendo, capiendo, subtrahendo, addendo, aliisque modis, ut diximus, alterando. Vicissim quidem dicuntur ens et unum; quidquid unum non est, ens non est; unumquodque autem hoc ipso unum esse sentimus, quia modo suo propria terminatur differentia». 36 37
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Questo brano è posto a chiusura del lungo percorso di disamina dei luoghi mnemotecnici, serie argomentativa che – dopo la definizione di luogo e l’analisi delle relative tipologie – si apre con la constatazione che i sostrati devono essere vivi e animati, secondo quanto insegnato tradizionalmente38. È questo un tema, tuttavia, che a Bruno preme in modo particolare e che emerge in maniera significativa in tutti gli aspetti tecnici, divenendo, mano a mano che l’ars si fa più complessa, sempre più centrale. Come si può osservare, la varietà chiamata in causa in questo passo, infatti, non si riferisce solamente al semplice aspetto dei luoghi, ma anche e soprattutto alla differenziazione delle azioni e delle animazioni messe in scena in essi; tale motivo è del resto così importante da ricorrere anche nel Cantus Circaeus, dove, seppure questo testo abbia una natura più ‘manualistica’ e meno innovativa dal punto di vista tecnico, viene posto all’attenzione del lettore attraverso un’esposizione molto più esplicita: i sostrati devono essere intesi come realtà suscettibili di essere formate, mosse e alterate dalle immagini che via via sopraggiungono; in questo modo infatti sarà possibile rappresentarle nel modo più opportuno. Si dovranno intendere, dico, come luoghi destinati a subire un qualche mutamento ad opera delle immagini, proprio come la pagina viene di fatto mutata dalle lettere tracciate su di essa; ovvero, se risulta possibile – ed è il metodo migliore –, si dovrà intendere che il sostrato muta così come muta la cera quando vi viene impressa una nuova immagine39.
Riprendendo un topos tradizionale delle mnemotecniche antica e moderna – che, come si è visto rimanda all’idea stessa di memoria teorizzata da Aristotele40 – Bruno evidenzia che l’animazione e la vivificazione dei luoghi particolari debbano essere intese come qualcosa di più del mero fatto ‘tecnico’ che vuole questi ultimi non inerti rispetto alla collocazione delle immagini: essi devono ‘mutare’ nell’aspetto e ‘fondersi’ attraverso l’azione con quanto sono chiamati a conservare, producendo così un rafforzamento visivo e ‘fisico’ del legame stabilito Cfr. ibid., p. 152. Id., Cantus Circaeus, pp. 678-9: «subiecta debent intelligi formata, mota et alterata adventu imaginum, ut easdem valeant commode repraesentare. Intelligantur, inquam, affecta, sicuti de facto afficitur pagina per advenientem literam; vel si fieri potest, et melius, sicut afficitur cera per novae imaginis impressionem». 40 Cfr. supra, p. 128, nota 39. 38 39
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tra il piano dei dati mnestici e quello del loro ordinamento. Ciò avviene facendo interagire parti del luogo con le immagini stesse – che devono essere sempre a loro volta agentes – e, per questo motivo, Bruno, assecondando gli insegnamenti dei suoi predecessori, consiglia di disseminare lungo il percorso locale degli oggetti da poter essere utilizzati in queste messinscene. Questa soluzione tecnica, solo apparentemente ordinaria, viene presentata in una specifica parte della sezione sui luoghi del Cantus Circaeus, nella quale si insegna «come dar vita a quei luoghi sensibili che prima erano tenuti per morti»41, quasi a voler segnalare l’apertura di una riflessione che porta ad un ordine di valutazioni più complesso. L’inserimento, pertanto, di «certi elementi che si possono aggiungere nei suddetti luoghi mnemonici», i quali «possono essere mossi, alterati e utilizzati in modi sempre vari e diversi, come più conviene alla natura delle forme e delle immagini che balzano in scena, producendo qualcosa con la loro comparsa o inserendosi in qualche modo nell’azione che viene svolta»42, spinge anzitutto Bruno a circoscrivere e rinominare – come già era avvenuto per i luoghi e le immagini – la funzione denotante di questi particolari segni mnemotecnici, definendola «aggettivante» rispetto al sostrato e chiamandoli, pertanto, subiecta adiectiva43. Egli insiste poi sul valore peculiare di tale operazione, codificandola attraverso un’espressione molto forte che ribadisce la densità delle implicazioni teoriche che si celano dietro di essa: «rispetto all’efficacia dei luoghi mnemonici, simili sostrati hanno senz’altro la stessa funzione che ha l’anima rispetto al corpo, al punto che senza i sostrati attributivi i luoghi mnemonici si reputano morti, mentre la loro presenza li rende vivi»44. Vi è dunque un diretto riferimento al legame che sussiste tra la forma e la materia, dietro questa particolare relazione visiva tra il luogo, certi oggetti posti in esso Id., Cantus Circaeus, pp. 680-1: «quae mortua prius habebantur, per ea, […], vivificare doceat». 42 Ibid., pp. 682-3: «Subiecta adiectiva sunt quaedam, quae locis praedictis adiici possunt, differentia a suis substantivis in hoc, quod illa perpetuo manent eadem et immobilia; haec vero, licet perpetuo inibi manere debeant atque maneant, tamen pro occasione adventantium formarum atque imaginum moventur, alterantur et in varios atque diversos usus assumuntur, dum per ea aliquid fit vel ipsi actioni eadem inseruntur quoquo pacto». 43 Cfr. ibid. 44 Ibid.: «Ista nimirum addere valent virtuti locorum quantum anima corpori, adeo ut sine istis loca mortua habeantur, cum istis vero viventia». 41
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e le immagini mnemoniche: essa è espressione – non solo simbolica, ma anche pratica – di una vitalità interiore, che rimanda alla funzione vivificante dei significati e, oltre ancora, al ruolo formale e creativo giocato dall’immaginazione rispetto al sostrato fantastico. Tutto ciò viene pienamente alla luce in uno specifico sigillo presente sia nell’Explicatio triginta sigillorum sia nel De imaginum compositione, intitolato «il coltivatore» (De agricola)45, il quale consiste in uno sviluppo del principio di memorizzazione alla base dei subiecta adiectiva: Chiamo con il nome di coltivatore quell’anima raziocinante perpetuamente unita al proprio sostrato e che, comportandosi in modo diverso a seconda delle diverse immagini che sopraggiungono, è adattabile alla produzione di qualsiasi raffigurazione e si offre come gestore dei ricordi molto più efficace del sostrato attributivo da noi in altro luogo introdotto46.
Il coltivatore è una figura agente, posta in modo permanente in ognuno dei vari luoghi individuali, che si presta ad interagire sia con oggetti presenti nel luogo stesso (e ad esso adattabili), sia con i segni mnemonici che vi vengono collocati; esso, come si sostiene nella parte esplicativa del sigillo, è molto più efficace del subiectum adiectivum, poiché mentre quest’ultimo è ‘agito’ dall’immagine agente, il ‘coltivatore’ è «animato» e «animatore», cioè «per azioni sostenute o subite o altre sensibili alterazioni, è ciò che manifesta attivamente quanto è da richiamare alla memoria»47. Attraverso questo ‘soggetto’ mnemotecnico, protagonista e mediatore dell’interazione tra il luogo e l’immagine mnemonica, si entra quindi in contatto con la prima e vera forma di vivificazione creativa della mnemotecnica bruniana, con un espediente di animazione visiva che, proprio grazie alle sue azioni, riesce a rendere ancora più perspicua – e dunque più memorabile – la presenza delle immagini nei luoghi. Il coltivatore non è, infatti, propriamente il segno Cfr. Id., Explicatio triginta sigillorum, pp. 54-5, 112-5; Id., De imaginum compositione, pp. 848-53. 46 Id., Explicatio triginta sigillorum, pp. 54-5: «Animam ratiocinantis perpetuo unitam proprio subiecto, pro diversarum formarum adventantium occasione diversimode se gerentem, adque specierum quarumcumque productionem convertibilem, longeque vivacius quam alibi institutum adiectivum subiectum rerum nobis subministrantem occursum, agricolam appello». 47 Ibid., pp. 114-5: «per sui mutationem, per susceptas actiones, passiones et alias sensibiles alterationes est id quod ea, quae sunt referenda, praesentat». 45
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di qualcosa, ma una figura che sostiene e permette il rafforzamento dei segni e, ad un livello ancora più complesso, anche la produzione di significati, come si evince nel De imaginum compositione, dove a tale innovativo strumento della mnemotecnica bruniana è attribuita anche la facoltà di formare immagini per raffigurare sillabe e parole, fino a identificarlo, in toto, con la forza generativa dell’interiorità e, dunque, della natura stessa: Difatti un essere animato di tal genere prende tutto e / Porta qualsiasi cosa tu richieda per tua comodità; / Trasforma tutto quanto gli capita sotto mano, esprime tutto / Perché lo ha dentro sé, essendo ritenuto un duplice microcosmo. / Formatore del mondo e qualunque cosa formabile da lui, / O che sia attivo o passivo oppure meditante, / Un tempo il Trismegisto lo definì miracolo grande48.
Il sostrato con funzione aggettivante è quindi una versione ‘propedeutica’ all’agricoltore49: prepara una forma di animazione ancora più forte sul piano visivo, ma, indubbiamente, anche più difficile da gestire per chi non è molto esperto nelle novità dell’arte della memoria di Bruno; giustamente, non viene ritenuto adatto ad un testo come il Cantus Circaeus e, forse, neppure per il De umbris idearum, nel quale il compito di introdurre tale livello di animazione spetta invece alle praxeis per la memoria verborum e alle artes breves poste alla fine del testo, la Id., De imaginum compositione, pp. 850-1: «Dein quid agat videas, quo versus queisque relatis./ Namque huius generis capit omnia spiritus atque/ Adducit quidquid pro commoditate reposcis;/ Omnia convertit quae adcurrunt, omnia promit/ Intus habens, duplex quoniam microcosmos habetur./ Formator mundi et quidquid formabile ab illo,/ Seu sit agens seu sit patiens seu sit meditator,/ Miraclum dixit magnum Termaximus olim». 49 Non si può fare a meno di sottolineare, nel confronto tra queste due versioni progressive del medesimo principio operativo, che, mentre la prassi di disseminare oggetti nei luoghi da fare interagire con le immagini era abbastanza diffusa nella trattatistica mnemotecnica, diversamente la peculiare animazione suscitata dal ‘coltivatore’ rimanda sia alla tecnica di Pietro da Ravenna (che poneva figure di persone note nei luoghi da animare in presenza dell’osservatore e richiamare così particolari informazioni), sia e soprattutto ad un espediente del quale Della Porta rivendica la paternità e che consiste proprio nel porre figure agenti nei luoghi per rafforzare, tramite la loro interazione con l’immagine, la rievocazione dei ricordi e della loro successione; cfr. supra, pp. 141-2. 48
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difficoltà delle quali è, non a caso, crescente e progressiva. Tuttavia, ed è il punto saliente di quelle pagine, è fondamentale che il lettore dell’ars bruniana cominci subito a familiarizzare con l’animazione e la trasformazione dei segni fantastici che, al pari della peculiare strutturazione dei luoghi ideata da Bruno, costituiscono uno dei pilastri portanti della sua nuova ars memoriae. Per soddisfare comunque tale esigenza, viene quindi introdotta, dopo la riflessione appena illustrata sui subiecta adiectiva, una specifica sezione nella quale si insegna a formare immagini per rappresentare le cifre numeriche. È significativo, in questo senso, osservare che tali pagine sui numeri sono poste nella parte dedicata ai luoghi, perché Bruno intende ricollegarsi alla tecnica della notatio locorum propria della trattatistica a lui precedente, che prescriveva la simbolizzazione delle cifre numeriche, sia per esprimere figurativamente le cifre quando esse stesse fossero state oggetto di memoria sia, e soprattutto, per utilizzarle come indici dei luoghi50. Ciò che Bruno propone nel Cantus Circaeus consiste dunque nella caratterizzazione dei sostrati con i valori numerici, detti «sostrati semimatematici», creando figure simboliche per le cifre; alla luce di tutto ciò non sorprende – come per altri interventi dal tenore simile – la sua rivendicazione dell’originalità di tale applicazione, che, pur medesima ad altre per quanto riguarda la praxis, risulta differente nei principi fondativi. Il punto sul quale poggia questa ‘novità’ è infatti la ridefinizione della terminologia mnemotecnica: non si può parlare propriamente di sostrati ‘matematici’, ma di «semimatematici». Tale distinzione fa evidentemente riferimento alla prassi, da parte di alcuni autori, di raffigurare i numeri per mezzo delle figure geometriche, conferendo addirittura agli spazi, cioè alle stanze contenenti i luoghi particolari, la forma di poligoni e quindi inserendovi un numero di immagini corrispondente a quello dei corrispettivi angoli51. Questa soluzione viene scartata perché considerata inefficace e macchinosa nel raffigurare grosse o molte cifre, mentre viene preferita l’idea di codificare in forma simbolica i numeri. Di fatto quanto Cfr. supra, pp. 125 e sgg. Questo tipo di soluzione per la notatio locorum attraverso la forma geometrica del luogo stesso è presente nell’anonima Ars memorativa pubblicata a Ingolstad nel 1499, nell’Ars memorandi di Wetzdorf, nel Tractatulus artificiosae memoriae di Johannes Cusanus e in altri scritti di area germanica. Solo nel testo del 1499, tuttavia, abbiamo riscontrato l’uso del particolare lemma «mathematicalia» per denotare questo tipo di intervento tecnico («ex figuris mathematicalibus […] commemorari poterit», f. Aivr), evocato anche da Bruno nella sua definizione; cfr. supra, p. 159. 50 51
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proposto nel Cantus Circaeus non si discosta poi molto dalla prassi tradizionale di visualizzare alcune immagini per rappresentare le singole cifre, componendole poi tra di loro, quale si ritrova in Publicio, Pietro da Ravenna, Umhauser e altri, riepilogata e sintetizzata efficacemente nel testo di Romberch52; anzi: proprio come nel Congestorium artificiosae memoriae, Bruno sceglie una via che è mediana tra il raffigurare oggetti dalla forma che richiama quella delle cifre (come, ad esempio, per Umhauser e Publicio), oppure inventare dei simboli arbitrari, possibilmente di figure animate da far interagire tra di loro (Pietro da Ravenna). In pratica egli suggerisce di denotare secondo materiali diversi (lino, legno, oro, ecc.) o attività differenti (agricoltura, arte fabbrile, arte militare, ecc.) le decine e fare riferimento poi a singoli oggetti peculiari per ognuna di essa per rappresentare le unità53. Come si è detto e si può constatare, in questo tipo di espediente non vi è una particolare originalità, eppure Bruno ne vanta – anche isolando ed evidenziandone la trattazione – la novità rispetto all’ars memoriae tradizionale, evocando sullo sfondo, neppure troppo tacitamente, un collegamento diretto tra questo modus operandi – che combina parti e ‘pezzi’ di immagini tra di loro in figurazioni che hanno un significato ‘nuovo’ –, la precedente riflessione sui subiecta adiectiva (con le relative implicazioni operative presenti nella loro versione effettiva, cioè il ‘coltivatore’), la successiva sezione sui «luoghi verbali positivi», infine la memoria verborum, della quale si tratta in chiusura del testo: Per quanto riguarda l’argomento trattato [cioè i sostrati semimatematici], vorrei inoltre segnalarti che l’autore – insegnando a vivificare i luoghi attraverso le immagini e le immagini attraverso i luoghi – ha illustrato un criterio estremamente fecondo per formare non soltanto i luoghi, ma le immagini stesse. In questa tecnica ravviso infatti il fondamento delle arti che si dicono relative alla scrittura interiore54.
La puntualizzazione che segue questa lapidaria conclusione, la quale verte specificamente intorno ai luoghi cosiddetti ‘verbali’ – cioè formaCfr. Romberch, Congestorium artificiosae memoriae, ff. 54v-56r; supra, p. 169. Cfr. Bruno, Cantus Circaeus, pp. 686-9. 54 Ibid., pp. 688-9: «Illud etiam in re proposita perpendas velim, quod non solum locorum, sed et imaginum foecundissimam rationem explicuit, ubi et loca per imagines et imagines per loca docuit vivificare. Hic etiam rationem engraphice habendarum artium inspicio». 52 53
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ti da parole di versi prese come riferimento mnemonico –, si segnala soprattutto per quanto omette, piuttosto che per ciò che dichiara, rimandando ancora una volta, per più approfonditi chiarimenti, al libro della Clavis magna: il lettore viene così sollecitato ad andare oltre la natura manualistica del Cantus Circaeus per ricercare e apprendere la ‘vera’ arte bruniana, nella sua più compiuta e innovativa versione, alla quale in queste pagine si allude solamente. Ed è infatti tra i sigilli dell’Explicatio triginta sigillorum e del De imaginum compositione che ci si imbatte nella modalità più ‘estrema’, da un punto di vista della vitalità e creatività fantastica, di tali espedienti per la raffigurazione dei numeri: nel sedicesimo sigillo dell’Explicatio, ad esempio, intitolato «il numeratore» (De numeratore) è riproposto il sistema del Cantus Circaeus, chiarendo che le immagini relative alle unità devono possedere una forma che richiami quella delle cifre corrispondenti («una colonna per indicare l’unità, un portico per il numero due, uno sgabello per il tre, una cassapanca per il quattro […]»55). La cosa più significativa di tale sigillo, tuttavia, è che la sua forza raffigurativa viene direttamente accostata a quella del subiectum adiectivum: «il numero non sarà solo l’ordine dei pensieri e dei ricordi, ma (se si saprà raffigurarlo con immagini fantastiche), una volta memorizzate e numerate, sarà anche in grado di farci rivedere le immagini di quanto abbiamo ordinato»56. L’indubbio valore creativo di tale applicazione tecnica non solo viene ribadito nella sezione esplicativa – dove si mostra come «comprendere sotto il segno di una sola cosa più cose da esprimere con segni»57 –, ma giunge alla sua piena espressione nel corrispondente sigillo del De imaginum compositione, che consiste in un vero e proprio sistema di animazione delle immagini, in base al quale una figura agente variamente caratterizzata (come segno delle decine) può combinarsi con dieci oggetti (per le unità) e declinarsi secondo differenti atteggiamenti (significanti le centinaia)58. Con la praxis per modificare i sostrati in senso ‘matematico’, che costituisce il punto ultimo e più complesso Id., Explicatio triginta sigillorum, pp. 60-1: «ut columna unitatem, porticus dualitatem, tripes trinitatem, arca quaternitatem». 56 Ibid.: «Hic in presentiarum non ordinem conceptandorum retinendorumque modo, sed et – si phantasiabilis effingatur – ipsas retentas atque / numeratas obiectare valebit ordinatorum formas». 57 Ibid., pp. 130-1: «ita hic sub uno rei significato plurima significanda intelligere eadem ratione docuisse putemur». 58 Cfr. Id., De imaginum compositione, pp. 812-9. 55
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della sezione sui luoghi del Cantus Circaeus, Bruno porta dunque a compimento, almeno rispetto al livello introduttivo qui proposto, il suo intervento sulla tecnica e sulla teoria dei luoghi, trasformandoli da mero supporto statico per i segni mnemotecnici a spazio vivo e mutevole, conforme a quello materiale; conseguentemente, come si vedrà tra poco in riferimento alle immagini, l’azione mnemonica intorno ad un tale ‘sostrato’, così riccamente formabile, tenderà ad approssimarsi sempre più ad una creatività produttiva e generativa che ha come proprio modello quella naturale. Le immagini: da raffiguranti a forme vive dell’espressione interiore Così come per i luoghi e altri elementi tecnici, anche per la definizione e la descrizione del funzionamento delle immagini – che Bruno, seguendo la tradizionale scansione della trattatistica mnemotecnica, pone come seconda sezione della parte sull’arte della memoria del Cantus Circaeus e del De umbris idearum – la spinta innovativa prende le mosse dalla ridenominazione dei termini principali, esplicito segnale di un conseguente cambiamento anche sul piano teorico. Prima di affrontare, tuttavia, questo particolare aspetto, è utile soffermarsi su una riflessione, che Bruno stesso compie nei primi capitoli dell’Ars memoriae del De umbris idearum, in merito al rapporto tra significato e significante nella rappresentazione mnemotecnica, introdotta dalla seguente classificazione: «nel libro della Clavis magna trovi dodici sostrati degli indumenti [subiecta indumentorum]: specie, forme, simulacri, immagini, spettri, esemplari, tracce, indizi, segni, note, caratteri e sigilli»59. La densità della breve definizione bruniana, pur nella sua immediatezza, è notevole: non solo si rimanda, per questo genere di considerazioni, alla versione più complessa e teoricamente più pregnante della sua ars, ma le si declina secondo un registro filosofico, legando il problema del rapporto tra il contenuto e l’espressione di un segno a quello che sussiste tra l’ente e la sua configurazione esteriore. La formula «sostrati degli indumenti» ritorna nel Sigillus sigillorum, dove si dice chiaramente che i vari termini usati per denotare l’immagine si riferiscono, in realtà, ai dodici modi per definire Id., De umbris, pp. 136-7: «Habes in libro Clavis magnae duodecim indumentorum subiecta: species, formas, simulachra, imagines, spectra, exemplaria, vestigia, indicia, signa, notas, characteres et sigillos». 59
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l’«esplicazione della forma» («le forme intrinseche delle cose naturali si esplicano attraverso dodici modi di essere») e sono quindi i «dodici indumenti della forma intrinseca»60. L’elencazione che ne segue, sebbene riprenda l’esaustività terminologica degli analoghi elenchi posti da Romberch e da Rosselli all’inizio delle rispettive sezioni sulle immagini61, si sviluppa poi, ben diversamente da questi autori, specificando la differente natura semiotica di ciascuna modalità rappresentativa ed evidenziandone, di conseguenza, le molteplici applicazioni in ambito mnemotecnico. L’analisi di Bruno prende dunque le mosse dalla constatazione che le varie tipologie di immagini si riferiscono o all’aspetto esteriore delle cose, o «rimandano al senso interno», offrendosi cioè «alla manipolazione della facoltà fantastica»62, oppure, infine, fanno appello, direttamente e in forma simbolica, a contenuti di natura astratta. In sintesi: La specie, la forma, il simulacro, l’esemplare e lo spettro presentano dunque Mercurio. Note, caratteri e sigilli presentano invece la sostanza, l’essenza, la bontà, la giustizia e la sapienza di Mercurio. Quanto invece può rappresentare indifferentemente sia Mercurio sia tutti i predicati riferibili a Mercurio è propriamente chiamato con il nome di indizio63.
Queste modalità, secondo un paradigma metodologico tipico dell’argomentazione filosofica bruniana, individuano il modularsi graduale della vis repraesentativa dei segni mnemonici che va dall’esteriorità sensibile all’interiorità concettuale di quanto è significato, non mancando di evidenziare quelle tipologie intermedie che, come per l’appunto l’indizio, possono rimandare sia ad aspetti esteriori che ‘interiori’, servendosi dell’apporto metaforico e simbolico della creaId., Sigillus, pp. 276-9: «Intrinsecae rerum naturalium formae duodecim rationibus – secundum quas duodecim sumunt denominationes – explicantur»; «duodecim indumentorum intrinsecae formae». 61 Cfr. supra, pp. 165 e sgg., 180 e sgg. 62 Id., De umbris, pp. 136-7: «ad internum sensum referuntur, […], ut sunt quae contrectanda phantasticae se offerunt facultati». 63 Ibid., pp. 138-9: «Mercurium ergo praesentat species, forma, simulachrum, exemplar et spectrum. Mercurii vero substantiam, essentiam, bonitatem, iustitiam et sapientiam praesentant notae, characteres et sigilli. Quae vero promiscue tum Mercurium, tum et omnia, quae de Mercurio dicuntur, praesentia reddunt, indicia sunt proprius appellata». 60
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tività fantastica per rinviare da caratteri sensibili a elementi di natura concettuale. Gli effetti ambigui di tale tentativo classificatorio – non è chiaro, infatti, come stabilire, trovandosi di fronte al segno piuttosto che partendo dalla costruzione di esso, a quale tipo di contenuto esso rimandi – possono essere in qualche modo arginati, sottolineando che, alla fine, si tratta comunque di rappresentazioni visive, di figurazioni che coinvolgono esclusivamente il piano dell’esperienza fantastica: poiché dunque ogni atto conoscitivo ha il suo fondamento nella visualità interiore, sostrato unico sensibile e cognitivo, con il quale la conoscenza si confronta sistematicamente, ne deriva che ogni segno (mnemonico), qualunque sia la sua forma, è in ultimo un‘immagine (fantastica), mentre, ancora più a monte, tutte le immagini fantastiche sono anzitutto segni cognitivi, cioè gli specifici oggetti che l’intelligenza vaglia e interpreta nel processo del conoscere64. A rendere poi ancora più complicato questo tipo di distinzioni – evidentemente motivate dalla ricerca di una maggiore coerenza teorica –, occorre aggiungere il fatto che Bruno svolge questa analisi del segno in quanto tale – cioè colto dal punto di vista della relazione significante/significato nella fase della sua ‘interpretazione’ –, in maniera separata da quella relativa ai modi della rappresentazione mnemotecnica in quanto tale – cioè nella fase di creazione dei simboli fantastici –, esaminando come il contenuto mnestico (il dato da memorizzare) possa essere trasformato in un segno mnemonico attraverso trenta possibili «modi di impiegare le immagini per raffigurare cose e parole»65. L’importante approfondimento che esplora lo statuto della simbologia fantastica, soffermandosi in particolar modo sul rapporto che sussiste tra ogni immagine interiore e il suo immediato significato e inserendolo in una riflessione assai più ampia che coinvolge il piano della determinazione materiale dell’ente rispetto alla forma – ascrivendo la figura esteriore alla categoria di ‘rivestimento’ e ‘indumento’ di quest’ultima66 –, è complementare a quello che viene compiuto, ad un Cfr. ibid., pp. 138-41. Cfr. Id., Cantus Circaeus, pp. 704-17: «Modi aliquot imaginum ad rerum figurationem atque vocum»; Id., Explicatio triginta sigillorum, pp. 94-7: «Triginta formarum non sensibilium de sensibilibus deductiones». 66 Bruno ricava il termine «indumento» (indumentum) dalla tradizione cabalistica e lo usa per esprimere il rapporto di diretta dipendenza ontologica, ma anche gnoseologica, tra il piano divino e quello naturale (Cfr. M. Matteoli, Indumenta, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, I, ad v.). Si veda, ad esempio, il De compendiosa 64
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secondo livello, per le immagini mnemotecniche, in quanto segno di un contenuto memorizzato per mezzo di esse: questo non è infatti il significato proprio dell’immagine, ma quanto ‘artificialmente’ e arbitrariamente si sceglie di mettere in relazione ad esso. A monte della naturale e immediata relazione tra significato e significante vi è dunque la comprensione, da parte di Bruno, che nell’arte della memoria si pone una correlazione arbitraria tra significati – ovvero tra oggetti concettuali – ed è questo legame associativo ad essere il vero cuore semantico della rappresentazione mnemotecnica e, al contempo, il punto di forza di essa, mentre la trasformazione di questo legame in un’immagine è solamente il passo ulteriore per far sì che l’informazione mnemotecnica diventi dato mnestico. L’acuta consapevolezza di tale complessa convergenza ‘semiotica’, che fa del segno mnemotecnico un dispositivo simbolico la cui forza rappresentativa è, per certi versi, doppia rispetto al semplice phantasma cognitivo, può essere colta nel fatto che Bruno ridefinisce le immagini dell’ars memoriae con i termini adiecta e formae, sottintendendo con tali appellativi, oltre alla loro funzione di mere portatrici del contenuto mnemonico, anche e soprattutto il loro essere ‘anime’ attive rispetto al luogo-sostrato. Nuovamente tutto ciò viene espresso, nel Cantus Circaeus, attraverso una formula che, specularmente ai luoghi, mette in chiaro, anzitutto, quale non sia l’accezione di questa ‘forma’, concludendo che essa la si «assume invece secondo il significato che le viene attribuito dalla logica non razionale ma fantastica […] e che corrisponde al modo in cui in precedenza abbiamo riconfigurato la definizione di sostrato»67. Tra queste parole risalta in maniera singolare l’accostamento tra «logica» e «fantastica» («in quanto assumiamo il termine ‘logica’ in senso più ampio»68) che evoca, al contempo, sia il tema dell’unità intellettiva di tutta la dimensione gnoseologica, sia quello non meno importante dell’uniformità ‘linguistica’ e ‘dialettica’ degli spazi interiori, caratterizzati dalla loro architectura et complemento artis Lullii, dove, a proposito degli attributi divini, Bruno associa le dieci Sephirot al suo modo di considerare trenta principali modalità di relazione tra Dio e la natura (dette appunto «indumenti»), marginalizzando in maniera critica e anticristiana qualsiasi figura di mediazione tra i due (cfr. Bruno, Opere lulliane, pp. 79-80). 67 Bruno, Cantus Circaeus, pp. 691-2: «Sed secundum rationem logicam non quidem rationalem, sed phantasticam […] respondentem intentioni subiecti, quod supra». 68 Ibid., pp. 692-3: «quatenus nomen logices amplius accipitur».
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funzione simbolica e, soprattutto, fondati sull’azione creativa dello spiritus phantasticus animato, appunto, dall’ingenium69. Ancora una volta le implicazioni teoriche annidate in tali innovazioni terminologiche vengono completamente alla luce non appena il lettore compie il passaggio da questo primo livello introduttivo dell’ars memoriae bruniana a quello immediatamente successivo, quale è proposto nel De umbris idearum; qui, infatti, è detto chiaramente – richiamando ancora la Clavis magna – che l’immagine-forma, nel suo senso primario, è l’ordine delle raffigurazioni che possono essere oggetto del pensiero, costituito e reso visibile, disposto secondo una serie di statue, ovvero in un microcosmo, ovvero, in generale, all’interno di qualsiasi altra struttura architettonica, per scrivere o raffigurare interiormente – sotto la guida del caos fantastico, suscettibile di ogni metamorfosi – tutto quanto può essere espresso attraverso il linguaggio70.
A differenza dello spazio aperto e informe della fantasia, che è tutta luogo per l’azione creatrice dell’ingegno umano, con il fine di farne il potenziale sostrato di tutta la memoria, la forma per eccellenza e unitariamente intesa non è la mera attitudine alla ‘scrittura interiore’, ma qualcosa di più complesso e determinato: essa è l’insieme ordinato dei segni mnemonici, è un sistema e un’architettura di immagini che, in ultimo – per il principio di composizione e reciproca inclusione dei luoghi – è un unico segno, tuttavia non statico, ma suscettibile di continue trasformazioni e ricombinazioni delle sue parti significative e perennemente disposto – pur nella sua finitezza contestuale – ad assumere innumerevoli aspetti, dunque significati. Il modo per comprendere nel dettaglio questa importantissima precisazione ci viene offerto dallo stesso Bruno attraverso un’immagine – purtroppo non presente nelle edizioni a stampa del De umbris idearum pervenuteci, per lo meno non nella sua forma integrale71 – che descrive il «datore di forma», cioè il principio volontario di azione trasformatrice del mondo interiore, posto al centro di un sistema combinatorio di ruote e di raggi che queCfr. supra, p. 88. Id., De umbris, pp. 168-9: «est depromptus et explicatus ordo cogitabilium specierum, in statuas vel microcosmon vel in aliam generaliter architecturam dispositus, ad quodlibet dicibile interius notandum vel figurandum ex ductu phantastici chaos methamorphoses omnes admittentis». 71 Cfr. Commento a ibid., pp. 495-7. 69 70
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sti «percorre», mescolando e combinando le varie parti (in questo caso lettere, numeri e i simboli dei pianeti e delle costellazioni zodiacali), creando composizioni e figurazioni sempre nuove, cioè mai ripetibili e peculiarmente univoche72. L’idea di fondo, supportata da un esplicito impianto combinatorio di tipo lulliano, consiste dunque nel definire l’immagine prima come un’architettura viva e vivificante di tante figurazioni, cioè come la possibilità di creare i segni fantastici a partire da altri segni costruiti per essere mobili e modificabili e per assumere qualsiasi configurazione si voglia loro imporre. Sia ben chiaro: non si tratta di creare nella propria fantasia un unico paesaggio ‘chiuso’, seppure sempre mutevole, ma di pensare lo spazio mnemotecnico come, appunto, un apparato operante la scrittura interiore, nella consapevolezza che luoghi e immagini sono, in ultimo, la medesima forma di espressione simbolica di significati di differente portata logica, quindi necessariamente interrelati tra di loro. Solo a partire da questa premessa teorica è allora possibile costituire quell’unico sistema-segno composito sul quale agire, a qualsiasi livello lo si consideri, con i dati della memoria e della conoscenza, integrandoli e arricchendoli di valori, che sfociano in ulteriori rappresentazioni, modificandole, ampliandole e rendendole sempre più dense di contenuti, dando così vita ad un organismo simbolico, strutturato in senso combinatorio, che viene continuamente coltivato e nutrito di dati mnemonici e informazioni e che dunque risulta efficace anche al fine di ‘scrivere’ nell’interiorità. «È vero», sottolinea Bruno a questo proposito, da un punto di vista teorico tale ‘impianto’ mnemotecnico «risulterebbe più perfettamente caos qualora consistesse di elementi eterogenei e senz’ordine, ma in questo modo non potrebbe essere di alcuna utilità»73. Come si può dunque osservare in queste pagine, è già nel Cantus Circaeus (con il riferimento alla «logica fantastica») e nel De umbris idearum – con l’introduzione del sostrato e della forma primari e la ‘novità’ di ascrivere al «puro architetto della fantasia» il compito di creare scenari ad hoc per determinati insiemi di informazioni – che si delinea sullo sfondo la versione più autentica della mnemotecnica bruniana, basata sulla mobilità dei segni, sulla loro composita mutevolezza e, infine, sulla possibile e costante riorganizzazione e ridefinizione dei significati acquisiti attraverso di essi, in modo da produrne sempre di nuovi; tale versione, Cfr. Id., De umbris, pp. 168-71. Ibid., pp. 170-1: «Esset communi iudicio magis perfecte chaos, si ex inordinatis constaret etherogeneis, sed tale nulli posset esse usui». 72 73
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come si vedrà in seguito, si sviluppa, a partire da queste forme embrionali, anche nelle praxeis per la memoria di parole e nelle artes breves; la si vedrà pienamente in azione nei sigilli e nella composizione delle immagini dell’ultimo scritto mnemotecnico di Bruno. Dopo queste definizioni preliminari, la scansione, sia del Cantus Circaeus che del De umbris idearum, prosegue con una trattazione delle immagini mnemotecniche che è conforme a quella tradizionale e che, specularmente a quanto fatto per i luoghi, si sviluppa secondo l’andamento analitico delle categorie aristoteliche. A tal proposito si può osservare come, rispetto alla trattatistica mnemotecnica classica e rinascimentale e in accordo con la propria impostazione teorica, Bruno accentui maggiormente gli aspetti dell’animazione e della varietà della raffigurazione mnemonica, secondo modi, tuttavia, che in fondo non si discostano molto dalle vie praticate da Pietro da Ravenna o dal Della Porta, per i quali questi elementi erano considerati di primaria importanza. Prova ne è che anche la tecnica per la memoria verborum, insegnata in chiusura della brevissima sezione ‘pratica’ del Cantus, che segue immediatamente quella sulle immagini, ripropone in tutto e per tutto il metodo elaborato nella Phoenix di caratterizzare le lettere dell’alfabeto secondo il nome di figure agenti e di oggetti, i quali verranno composti assieme in scene animate, in base al valore della sillaba o della parola da produrre visivamente74. Lo sviluppo della riflessione bruniana sulle immagini, dunque, non appare particolarmente originale, ma anzi viene rafforzata dall’esplicita affermazione che di «tutti i precetti necessari e degni di nota che sono stati enunciati dagli antichi autori, l’autore non sembra aver dimenticato niente»75. Nonostante questa ostentata adesione alle proprie fonti, Bruno non si esime, anche in questo frangente, dal continuare a ribadire la novità della sua tecnica, la quale è dotata di una forza creativa e generativa che affonda le proprie radici in ben altre prospettive e conseguenze operative: Due sono tuttavia i caratteri che quest’arte può rivendicare come proprie peculiarità. Il primo è che – se pienamente compresa – essa insegna a regolare lo spirito stesso con tanta efficacia che, ben lontana dall’insegnare a dipingere forme nei sostrati, addirittura chiarisce con straordinaria efficacia il modo di scolpirvele; il secondo, invece, è che valendosi di pochi accorgi-
Cfr. Id., Cantus Circaeus, pp. 722-5. Ibid., pp. 702-3: «De iis, quae ab antiquis necessaria notatuque digna praecepta sunt […] nihil est quod praetermisisse videatur». 74 75
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menti porta a perfezione le tecniche elaborate dagli altri autori e le conduce a ulteriori sviluppi76.
Un esempio di questo differente sfondo, per cui una tecnica che anche nel non mostrarsi nuova risulta alla fine radicalmente innovativa perché tali sono i principi teorici sui quali essa poggia, può essere scorto nella densa classificazione dei modi per raffigurare i contenuti mnestici che accompagna la precisazione appena citata. Le trenta tipologie elencate da Bruno sono sviluppate in una direzione non troppo diversa dalle riflessioni ‘semiotiche’ del De umbris idearum sopra evidenziate, guardando questa volta non tanto al rapporto tra il significante e il significato della specifica immagine, ma all’associazione – come si è detto, artificiale e arbitraria – che viene posta tra il significato dell’immagine e quello che si vuole esprimere tramite essa, ovvero tra ciò che propriamente essa rappresenta e quello che invece ci indica nel contesto mnemotecnico. La prima e più ovvia modalità consiste nell’azzerare tale scarto semiotico, ovvero nel far coincidere i due piani, «come avviene quando poniamo nella memoria l’immagine di uno sgabello in luogo dello sgabello reale»77. Nelle successive tre tipologie di rappresentazione vengono condensate tutte le forme di associazione legate alla omofonia e all’assonanza (parziale o totale) tra il nome dell’immagine e quella del dato; vengono poi rilevati quei modi di associazione che puntano sulla ‘consequenzialità’, sia essa ‘naturale’ (dall’alba si deduce il giorno), associativa (due termini correlati) o causale. Ancora, viene notato che il sostrato può rimandare ai suoi accidenti (e viceversa), oppure che i simboli e i segni caratteristici (anche in senso storico) possono rinviare a ciò che vi è solitamente correlato: proseguendo nell’articolazione delle altre tipologie dell’associazione simbolica, vengono sviscerate tutte le modalità che, più o meno ordinatamente od esaustivamente, erano già state evidenziate nella trattatistica mnemotecnica, prendendo come implicito riferimento il Congestorium di Romberch che, assieme al Thesaurus di Rosselli, è forse, in questo senso, il più completo. Questa classificazione sistematica, con l’espediente per la memoria Ibid.: «Duo sunt, quae sibi peculiariter potest vendicare: alterum, quod adeo – si intelligatur spiritum ipsum regulare docet, ut tantum absit, ne formas in ipsis doceat depingere subiectis, ut mirum in modum quomodo eaedem in ipsis insculpi valeant, aperiat; alterum, quod paucis aliorum inventa perficiat et ad ulteriora promoveat». 77 Ibid., pp. 704-5: «ut scamnum pro scamno». 76
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verborum che la segue e l’applicazione finale e «feconda» dell’arte al dialogo sull’incantesimo di Circe e ai suoi sorprendenti effetti, segnano il momento più alto della sezione mnemotecnica del Cantus Circaeus e concludono, completandola, l’esposizione dell’ars memoriae, almeno nella sua versione ‘base’. Bruno è, del resto, pienamente consapevole della parzialità di essa e, in fondo, della non reale novità, da un punto di vista tecnico, di quanto esposto, sebbene ne abbia ribadito più volte la portata innovatrice; per questo – e nel De umbris idearum lo fa con ancora maggiore efficacia e rilievo introducendo le complesse praxeis combinatorie per la memoria di sillabe e parole – in chiusura del testo concede al lettore un assaggio della sua ‘vera’ arte, consapevole che quanto fin qui esposto «non è che un’inezia rispetto ad altri procedimenti – del tutto originali – elaborati dal nostro autore»78. L’espediente che viene presentato – definito una «arte breve»79, perché, oltre ad essere un’applicazione specifica e limitata della reale tecnica mnemonica bruniana, ne compendia anche alcuni dei principali fondamenti di animazione e combinazione visiva – è un sistema per la memorizzazione di parole che insegna a formare immagini di sillabe composte da fino a tre o quattro lettere; esso è inoltre accompagnato da un’importante figura che illustra la configurazione delle parti da animare nella procedura di ‘scrittura’. Va osservato, anzitutto, che sia l’arte che la raffigurazione proposte sono esplicitamente ispirate all’analogo sistema inventato da Giacomo Publicio – e ‘perfezionato’ da Romberch – per la costruzione di immagini-sillabe, dunque un chiaro e consapevole segnale, ad un pubblico non certo ignaro di esso, che tale ‘novità’ sorge dalla continuità e ripresa di una determinata tradizione: il sistema è, infatti, costituito da uno spazio quadrato (una stanza) suddiviso in quattro quadranti, con l’individuazione delle relative parti specifiche (negli angoli e nel centro) e la collocazione in esse di alcune immagini significative che cambiano di aspetto/significato orientandosi rispetto ai quattro punti cardinali [fig. 17]. In questa rappresentazione grafica dell’espediente manca, tuttavia, il richiamo alle ruote circolari, quasi a voler demandare questo aspetto, che declina visivamente con ancora più forza espressiva l’elemento combinatorio, ad un ulteriore e più difficile livello di presentazione della propria arte, quale emerge, ad esempio, nelle pagine dedicate alla memoria verborum del De umbris ideaIbid., pp. 727-8: «nihil tamen est aliarum respectu, quarum integer inventor apparet iste». 79 Cfr. ibid., pp. 730-5. 78
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17. Bruno, Cantus Circaeus, p. 254.
rum. Questo strumento mnemotecnico, descritto anche dal suggestivo e breve componimento che Bruno definisce con il termine «enigma», prevede quindi la costruzione preliminare di ventiquattro stanze di questo tipo, ciascuna cioè caratterizzata da una figura principale, posta al centro, che esprima il valore di ognuna delle lettere dell’alfabeto80. Le stanze-lettere costituiscono quindi il punto di partenza per la costruzione all’interno di esse di una scena complessa che esprima il valore della corrispondente sillaba; occorre pertanto, come primo passo, stabilire in che modo declinare ognuna di tali immagini secondo le cinque vocali e, per far ciò, devono essere inserite, nei quattro quadranti e al centro di ciascuna stanza, altrettante figure agenti animate – «spiriti astanti»81, come vengono detti richiamandosi al funzionamento del subiectum adiectivum, nella versione dell’«agricoltore» – che, oltre a questa specifica azione denotativa, possano esprimere anche altri significati accessori, indicare, ad esempio, per mezzo di un particolare In Publicio e Romberch erano invece le figure-consonanti ad alternarsi al centro di un medesimo spazio per la formazione della sillaba relazionandosi con un segnovocale e ulteriori immagini per esprimere le lettere intermedie e/o finali; cfr. supra, pp. 154-6, 169-71. 81 Cfr. Id., Cantus Circaeus, pp. 730-1: «Spiritus adstantes habeant d’hinc singula quinos». 80
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gesto o oggetto, se la loro combinazione con l’immagine principale dia vita ad una sillaba ‘aperta’ o ‘chiusa’. Il codice simbolico così formato è, ovviamente, arbitrario, cioè avulso da ogni riferimento mnemonico personale, pertanto uno dei tratti fondamentali dell’intera operazione sarà che i differenti valori espressi dalle figure-vocali, portatrici e protagoniste dell’intera rappresentazione, siano ben perspicui e quanto più univoci possibile; ciò lo si otterrà diversificando le varie composizioni sulla base di un triplice addensarsi di peculiari caratterizzazioni: Esistono cinque differenze relative ai punti cardinali: occidentale, orientale, settentrionale, australe e centrale. Esistono altresì cinque differenze relative alla posizione: stare in piedi bene in vista, flettersi, sedere, sdraiarsi, giacere. Esistono infine altre cinque differenze relative al luogo: davanti, dietro, sopra, sotto, in mezzo. Mediante questi tre tipi di differenze potrai senz’altro produrre cinque diversi suoni mettendo in accordo il sostrato, l’insegna e l’operazione82.
Le tre modalità di raffigurazione richiamano la lunga tradizione di pratiche per differenziare e potenziare la qualità e la forza delle immagini mnemoniche: la scansione secondo le quattro direzioni cardinali, ad esempio, come abbiamo visto è già presente – proprio in un espediente per creare immagini di sillabe – in Publicio e Romberch83; l’associazione di un gesto o una posizione ad un significato specifico – come ulteriore e subordinata declinazione di quello espresso dalla figura principale – è una soluzione che ricorre nella Phoenix di Pietro da Ravenna, nell’anonima Ars memorativa del 1499 e in altri trattati, spesso associata alla rappresentazione dei casi grammaticali84. Infine, allo scopo di rafforzare le immagini, anche lo spostarsi all’interno dello spazio locale (sempre in relazione ad una figura fissa e principale) viene utilizzato come una forma di caratterizzazione visiva e, dunque, come un segno, certamente meno ‘codificato’ o consueto, ma che comunque richiama molto l’intensa vivacità raffigurativa della tecnica Ibid., pp. 733-5: «Extant quinque cardinales differentiae: occidentale, orientale, septentrionale, australe et medium. Extant aliae quinque situales: prostare, flecti, sedere, cubare, iacere. Extant aliae quinque locales: ante, retro, sursum, deorsum, in medio. Quibus quidem trinis differentiis subiectum, insigne et operationem quintuplicare consonando valebis». 83 Cfr. supra, pp. 154-6, 169-71. 84 Cfr. supra, pp. 157-8, 172-3. 82
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del Ravennate o del Della Porta. La composizione così ottenuta può quindi essere completata inserendo nella scena, affidati alla gestualità o all’attività delle figure agenti e assistenti, altri oggetti che esprimano il valore delle lettere finali o intermedie, così da condurre l’intera messinscena a formare sillabe ancora più complesse; ma l’intento di Bruno non si ferma solamente a questo livello: come si può evincere dai versi dell’enigma, alla base di questa «arte breve» vi è in realtà un principio di animazione e combinazione visiva che può ‘spingere’ la rappresentazione visiva che poggia sugli «spiriti astanti» fino alla raffigurazione di intere parole, declinando e moltiplicando la portata simbolica di essi secondo ulteriori aspetti particolari («Cosa sia, cosa faccia, cosa possieda, cosa intraprenda e cosa / Sia compresente»85), e assecondando una modalità che, come si vedrà in seguito, non è molto dissimile da quella utilizzata con le ‘ruote’ del De umbris idearum. Del resto, come si è sottolineato, l’intento bruniano è, in queste pagine, prospettare al lettore la versione più efficace della sua ars memoriae, una tecnica che esprime al massimo il potenziale simbolico dei segni mnemotecnici, servendosi dell’animazione e della combinazione di essi e arrivando, in questo modo, a mostrarsi non solo come strumento per l’archiviazione passiva e statica delle informazioni mnemoniche, ma come un vero e proprio mezzo per la ‘scrittura interiore’, cioè per la generazione attiva e creativa del sapere, giungendo quasi a ‘pensare’ per mezzo delle stesse immagini mnemoniche e delle architetture dinamiche alle quali esse sono così vitalisticamente interconnesse. Non è un caso, pertanto, che dopo aver introdotto questi importanti elementi preliminari e propedeutici all’animazione fantastica, che di fatto sono un modo per sviluppare il potenziale raffigurativo del subiectum adiectivum in direzione dei sigilli, insegnando al lettore uno dei due capisaldi tecnico-teorici alla base della ‘rivoluzione’ dell’ars bruniana, si presenti, in chiusura al Cantus Circaeus e dietro il pretesto di mostrare un «procedimento per memorizzare il canto di Circe con più rapidità»86, anche l’altro e fondamentale principio, ovvero quello della reciproca inclusione dei luoghi e della costruzione ordinata e unitaria degli scenari mnemotecnici, quale produzione di un unico segno organico, negli stessi termini in cui viene definito anche nell’Ars memoriae del De umbris idearum: Id., Cantus Circaeus, pp. 730-1: «Quid sit, quid faciat, quid habet, quid suscipit et quid / Adstet». 86 Ibid., pp. 734-5: «Sed rogo te, aliquid expeditius pro cantu Circaeo digneris elargiri». 85
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Ecco come una forma generalissima dovrà necessariamente riferirsi a un sostrato generalissimo; una forma generale ad un sostrato generale; una forma speciale ad un sostrato speciale e, in ultimo, una forma individuale ad un sostrato individuale. Questo procedimento dovrà essere attuato in modo tale che un sostrato includa in sé e contenga l’altro e che una forma includa in sé e contenga l’altra: con questo metodo potrai facilmente ricordare non solo il canto di Circe, ma anche tutte le altre nozioni che ti capiterà di dover memorizzare87.
Alla fine del Cantus Circaeus – e a maggior ragione del De umbris idearum – il lettore di Bruno è dunque pronto a fare un passo ulteriore nel difficile mondo dell’arte della memoria bruniana: dagli spazi seppur vivaci e suggestivi delle scenografie interiori insegnate dalle tecniche tradizionali, rafforzati da una vitalità fantastica ispirata ad autori quali Pietro da Ravenna e Giovan Battista Della Porta e sostenuti da una schematizzazione architettonica che molto deve agli ordinati paesaggi degli mnemonisti dell’ordine di San Domenico, l’invito è quello di passare ad un vero e proprio laboratorio della fantasia, un regno di figurazioni vive, mobili e mutabili che, ad ogni grado di strutturazione, siano efficacemente e semanticamente espressive e, soprattutto, possano ‘generare’ significati e senso in virtù della loro forza combinatoria.
Ibid., pp. 736-7: «Itaque generalissima forma generalissimum consequatur subiectum, generalis generale, specialis speciale, individualis individuale, adeo ut subiectum aliud aliud includat et contineat et forma alia aliam includat et contineat; et memoriam facilem non modo cantus Circaei, sed et omnium, quae tibi memoranda proponentur, adipisceris». 87
VI. Il teatro dei mondi
L’irruzione della combinatoria fantastica La terza e più corposa parte dell’Ars memoriae del De umbris idearum è dedicata alla pratica mnemotecnica e insegna come costruire un sistema di luoghi, animarlo attraverso i segni della memoria e, in particolare, applicarlo alla realizzazione di un codice visuale per la memoria verborum. Quest’ultimo aspetto, quello della memoria delle parole, è un motivo centrale della trattatistica mnemotecnica fin dalla sua fondazione classica; con le modalità per visualizzare lettere, sillabe e parole, per quanto macchinose e più difficili da realizzare, si compie infatti un’ideale convergenza tra la scrittura – il più efficace sistema meccanico per conservare e trasmettere informazioni inventato dall’uomo – e l’arte della memoria quale scrittura interiore, ovvero come tecnica per rafforzare le capacità naturali di memorizzare e recuperare i contenuti mentali attraverso la disposizione ordinata (i luoghi-pagina) dei loro simboli (le immagini-carattere). Nel caso della memoria di parole, l’associazione tra segno, dato mnemonico e scrittura oltrepassa la metafora e diviene piena identificazione, poiché l’immagine mnemotecnica rappresenta propriamente il valore delle lettere e la loro composizione nei luoghi produce una raffigurazione che ha il valore del termine corrispondente. È dunque lo stringente parallelismo tra questa modalità di visualizzazione e il principio ideale della scrittura interiore ad avere un’attrattiva sugli autori e i cultori delle tecniche di memoria artificiale, piuttosto che l’effettiva utilità di queste procedure; di fatto, seguendo la distinzione posta in età classica tra memorizzazione dei significati delle cose (memoria rerum) e dei semplici termini (memoria verborum), tutti i trattati di mnemotecnica dedicano una sezione a questo aspetto – spesso corredando i testi di ampi e complessi alfabeti di immagini e procedimenti per comporle assieme –, ma ciononostante tale componente possiede in genere uno spazio marginale e, soprattutto, un impiego limitato: si ricorre alla memoria verborum se si ha la peculiare necessità di ricordare uno o più termini specifici (un nome, uno o più versi poetici, una particolare espressione), se occorro-
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no immagini-lettere come segni per la notatio locorum, oppure, infine, quando non si conosce il significato delle parole (perché, ad esempio, appartenenti ad un’altra lingua). Non deve sorprendere, tuttavia, che, nella trattatistica mnemotecnica, alla memoria verborum venga dedicata un’attenzione così insistita: la discrepanza tra il suo valore teorico e l’effettiva praticità stimola infatti quasi tutti gli autori a riconsiderare in chiave originale proprio questo aspetto tecnico, proponendo spesso nuove soluzioni per migliorarlo o, addirittura, adattarlo anche ad altri usi (come, ad esempio, l’indicizzazione dei luoghi). Tali approcci si caratterizzano per la realizzazione di alfabeti di immagini più complessi e in sistemi per comporle assieme più efficaci: uno dei casi che aveva avuto più fortuna, come si è già visto, era il meccanismo per comporre immagini di sillabe ideato da Publicio, criticato da alcuni suoi contemporanei per la sua oscurità, perfezionato, in seguito, da Romberch e al quale si ispira anche Bruno1. Ed è proprio dall’analisi di questo espediente per la formazione di immagini-sillabe che emerge un aspetto che deve essere valorizzato per comprendere a fondo la peculiarità della mnemotecnica bruniana: l’unione di immagini-lettere in scene e visioni composite, che esprimano il valore di una sillaba o di un termine, non viene attuata – come nel caso di Pietro da Ravenna e del primo sistema proposto dal Cantus Circaeus – per mezzo dell’immediata interazione di immagini agenti, ma in virtù della combinazione ‘circolare’ degli elementi visuali attraverso ruote combinatorie, a loro volta ispirate alle tecniche dialettiche di Raimondo Lullo. Non è questo il luogo per soffermarsi sull’importanza, la diffusione del metodo lulliano nei secoli successivi alla scomparsa del mistico catalano, soprattutto nell’Italia del secolo XV e, nel resto d’Europa, nel corso del XVI e XVII secolo2; né è necessario qui porre in evidenza la conoscenza da parte di Bruno di tale metodo, testimoniata, tra le altre cose, dall’elaborazione di
Cfr. supra, pp. 154-6, 169-71. Cfr. P. Zambelli, Il De auditu kabbalistico e la tradizione lulliana nel Rinascimento, «Atti e Memorie dell’Accademia Toscana di Scienze e Lettere - La Colombaria», 30, 1965, pp. 113-247; Rossi, Clavis universalis, pp. 41-79; J.N. Hillgarth, Ramon Lull and Lullism in Fourteenth-Century France, Oxford 1971; M. Pereira, Bernardo Lavinheta e la diffusione del lullismo a Parigi nei primi anni del ’500, «Interpres», 5, 1984, pp. 242-65; A. Bonner, Introduction a Raimundus Lullus, Opera. Reprint of the Strasbourg 1651 edition, edited by A. Bonner, Stuttgart-Bad Cannstatt 1996. 1 2
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alcuni trattati di commento all’Ars brevis3. Quello che, invece, è significativo è che tale idea di operatività seriale e combinatoria sia stata trasmessa, a cavallo tra il XV e il XVI secolo, all’arte della memoria e si sia potuta esprimere proprio nella composizione visiva dei ‘caratteri’ della memoria verborum. Non si tratta, certamente, di una presenza così insolita entro una tecnica che, già nel Medioevo, mostrava il ricorso a modelli visuali ispirati alla schematicità di certi espedienti retorici in uso per l’elencazione argomentativa o, addirittura, la meditazione e la mistica4; tuttavia, con la trasposizione delle ruote lulliane sul piano mnemotecnico operata da Giacomo Publicio e ripresa da Romberch e poi da Bruno, si afferma per la prima volta l’istanza di un automatismo compositivo che, almeno fino a quel momento, era estranea alla mnemotecnica, per quanto tanti autori avessero cercato di valorizzare al massimo la plasticità e l’animazione delle figurazioni mnemoniche. La tecnica combinatoria, del resto, così come era stata pensata da Lullo stesso, metteva in pratica l’idea che dalla combinazione di pochi ed elementari oggetti di partenza si potesse far scaturire molte e nuove argomentazioni, quindi ‘generare’ conoscenza: anche per le immaginilettere vale dunque lo stesso principio, poiché dalla loro ripetuta e continuata associazione si possono formare tutte le sillabe e le parole che si desiderano5. La scelta di utilizzare questa potenzialità operativa per la memoria di parole risulta quindi significativa perché fa riferimento ad un ambito nel quale, come si è sottolineato in precedenza, prevalevano motivazioni di carattere teorico rispetto ai risultati pratici: non è un caso, dunque, che Bruno scelga addirittura di estendere l’applicazione della combinatoria lulliana a tutta l’arte della memoria e, proprio per la sua fortissima implicazione, farne uno dei paradigmi portanti della sua rinnovata ars. La memoria delle parole viene affrontata, nel De umbris idearum, per mezzo di due procedure definite da Bruno stesso praxeis per sottolineare la componente pragmatica e tecnica di questi modi di costruire immagini per le lettere, le sillabe e le parole. Le due modalità, inolCfr. M. Ciliberto, Fortune (e sfortune) di un maestro ‘onnisciente’ e ‘quasi divino’, Introduzione a Bruno, Opere lulliane, pp. xi-xli. 4 Cfr. Yates, L’arte della memoria, pp. 160-82. 5 Anche Pietro da Ravenna, che sceglie una soluzione tecnica nella quale non emerge alcun riferimento esplicito alla combinatoria lulliana, si serve in fondo del medesimo principio compositivo, il quale, tra l’altro, è implicito al sistema stesso dell’alfabeto, non a caso preso ad esempio e paradigma da Lullo per il suo sistema. 3
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tre, vengono presentate secondo un ordine di difficoltà crescente, con una prima versione animata da tre ruote e formata da trenta immagini principali per raffigurare sillabe e poi quella che insegna ad usare centocinquanta figurazioni per costruire immagini di parole composte da cinque sillabe: dunque l’utilizzo della prima è propedeutico all’apprendimento della seconda. L’intento didattico di queste pagine deve tuttavia intendersi in un senso ancora più ampio: imparare tali sistemi ha una funzione preparatoria all’intera ars memoriae bruniana, poiché, al pari dell’espediente proposto alla fine del Cantus Circaeus, ma con un grado di difficoltà ancora maggiore, introduce il lettore alla versione più propriamente autentica della sua rinnovata mnemotecnica, quella che anima e sostiene il mondo della simbolizzazione fantastica e che tende a imitare, nei processi di produzione e trasformazione dei segni, l’operare della natura. L’esercizio della memoria verborum prende quindi le mosse dall’allestimento di un alfabeto di trenta lettere «figurabili per mezzo di quelle immagini aggiunte attissime a compiere tutte le azioni impiegate nonché a subire qualsiasi passione»6. Queste immagini vanno prese nel numero di trenta, cifra che, oltre ad essere particolarmente rilevante per la numerologia bruniana7, riesce a racchiudere, a detta di Bruno, «tutte le lettere utilizzate per pronunciare tutte le diverse parole nelle tre lingue principali»8, ovvero ventitré lettere per l’alfabeto latino, quattro dell’alfabeto greco (psi, phi, omega e theta) e tre tratte dall’alfabeto ebraico (aijn, tzadi, šin), poiché tali lettere «non rientrano Bruno, De umbris, pp. 222-3: «illis adiectibilibus explicabilium, quae ad omnes producendas actiones necnon ad passiones omnes recipiendas sunt aptissima». 7 Sono trenta le intentiones umbrarum e i conceptus idearum del De umbris idearum, così come, per l’appunto, le lettere degli alfabeti delle praxeis per la memoria verborum; trenta sono i sigilli nell’Explicatio triginta sigillorum e nel De imaginum compositione, e altrettante le serie di ‘statue’ della Lampas triginta statuarum. Trenta sono, infine, gli attributi principali che Bruno riconosce per la divinità, secondo quanto affermato nel De compendiosa architectura (cfr. Id., Opere lulliane, pp. 878-81: «Quod ad relationes attinet […] veritatem, vitam, amorem, ideam, cognitionem, potentiam, creationem, providentiam, conservationem, amorem, iustitiam, misericordiam, beatificationem et caetera, quibus ea, quae sunt extra divinam substantiam, respiciuntur. Quae omnia Iudaei Cabalistae ad decem Sephiroth et nos ad triginta, haud quidem illis addentes sed easdem explicantes, redegimus indumenta»). 8 Bruno, De umbris, pp. 224-5: «quae completum reddunt numerum eorum, quae diversis inserviunt in tribus idiomatibus pronunciationum differentiis». 6
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nel nostro alfabeto», oppure, nel caso delle ultime tre, «non trovano corrispondenti né in greco, né in latino»9. L’impianto iniziale è dunque un chiaro segnale della direzione verso la quale Bruno intende spingere la propria versione della memoria verborum, raffigurare cioè anche i termini appartenenti a lingue straniere, dei quali, per l’appunto, si ignora il significato o, diversamente, che occorre memorizzare in quanto tali: volendo approfondire ancora di più questa istanza, alcuni tra gli espedienti conclusivi dell’Explicatio triginta sigillorum sono specificatamente dedicati all’alfabeto ebraico e, dunque, alla rappresentazione di parole di quella lingua10. Precisata questa caratteristica del suo alfabeto visuale, Bruno passa a descrivere la tipologia delle immagini: è necessario fare ricorso a trenta figure agenti – lui stesso suggerisce, come esempio paradigmatico, trenta scene tratte dalle Metamorfosi di Ovidio – che possano compiere determinate operazioni con l’ausilio di peculiari strumenti. A questo proposito viene rilevato che, nella scelta delle figure, delle azioni e degli oggetti, «non è necessario che i nomi […] abbiano per iniziale la lettera da essi indicata: basta infatti che […] siano stati posti per significare questa determinata lettera»11, la qual cosa costituisce uno smarcamento dalle tecniche adottate da Pietro da Ravenna e da altri autori – compreso Bruno stesso in altri suoi espedienti mnemotecnici – che tentavano di raffigurare la lettera attraverso l’iniziale del nome dell’oggetto o per mezzo della sua forma (un ferro di cavallo per la C, un compasso aperto per la A, ecc.). Alla fine di questa prima fase il lettore ha dato forma ad un alfabeto di trenta scene triplicemente caratterizzate (personaggio, azione e oggetto), ciascuna delle quali esprime quindi il significato di una lettera moltiplicata per tre (ad esempio: Lica sdraiato ad un banchetto e con indosso una catena indica A+A+A). Questa è, a detta di Bruno, la versione ‘statica’ del sistema e se si vuole animarlo per comporre tutte le possibili sillabe di due o tre lettere è necessario anzitutto immaginare tre ruote – delle quali quella più esterna è fissa, mentre le due più interne sono mobili – sulle quali sono inscritte le trenta lettere dell’alfabeto: la prima Ibid.: «Ubi vero super nostri generis elementa sunt Graeca, ut ψ, ω, θ et ultra haec et illa sunt Hebraea, propriis sunt notata caracteribus». 10 Cfr. Id., Explicatio triginta sigillorum, De claustro cabalistico et templo. XXVIII sigillus, pp. 80-3, 150-3; De interprete, qui XXX est sigillus, pp. 92-4, 154-64. 11 Id., De umbris, pp. 228-9: «In quibus non requiritur necessario primum nominis agentis vel actionis elementum idem esse cum illo cuius est expressivum: sufficit enim ambo haec determinato huic significando esse adscripta». 9
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rappresenta la serie dei personaggi, la seconda quella delle azioni, la terza quella degli oggetti. Dal movimento circolare delle ruote nasce la composizione delle parti del sistema, in modo che a ogni lettera della serie più esterna venga associata ognuna di quella intermedia, mentre queste, a loro volta, si compongono con tutte quelle della ruota più interna, arrivando a formare fino a ventisettemila combinazioni diverse di tre lettere [fig. 18]. Si badi bene: non tutte queste combinazioni sono necessarie per la ‘scrittura’ di sillabe – perché non esprimono suoni utili alla formazione di parole –, e, cosa assai più importante, non occorre visualizzare le trenta figure affisse su ruote, circolanti in una sorta di vorticosa giostra mentale. L’immagine delle tre ruote concentriche e dello sprigionarsi, dalla loro rotazione, di così tante combinazioni costituisce piuttosto un archetipo, potentissimo, della forza generativa dell’immaginazione fantastica e indica in maniera schematica – fornendo la ‘formula’ per il calcolo delle combinazioni e, al contempo, la procedura operativa da seguire – il modo in cui realizzare le varie immagini-sillabe: le trenta immagini devono essere trasformate, come se le parti che le caratterizzano («azione» e «insegna») fossero «mobili», cioè interscambiabili con le altre figure; così, l’azione propria di una viene adattata allo spazio dell’altra e l’oggetto peculiare passa di gesto in gesto e di personaggio in personaggio, portando con sé il valore simbolico che gli è stato inizialmente assegnato. In questo modo, ad esempio, il personaggio che simboleggia la C posto a compiere il gesto che è tipico della A («stare al banchetto») e avendo lo strumento/oggetto della B («una benda») forma la sillaba CAB ottenuta dalla composizione dei tre differenti indici visuali. Questo tipo di esercizio mnemotecnico richiede una grande versatilità e dinamicità nella gestione delle immagini, ma è il cuore dell’atteggiamento che la fantasia deve possedere per soddisfare l’idea dell’arte della memoria bruniana: ogni immagine, oltre ad esprimere ciò che le viene associato nel momento in cui è posta entro lo spazio della visione mnemonica, è anche, in potenza, il segno di qualsiasi altro contenuto, se si è in grado, con particolari accorgimenti, di trasformarne la conformazione. La convergenza tra piano teorico e piano tecnico si fa, in questo caso, sempre più efficace: il codice da ‘fermo’ e in seguito messo ‘in movimento’ dà vita a una suggestiva simbolizzazione della ‘materia’ fantastica prima morta (e in quel ‘prima’ è da intendersi anche il modo tradizionale di concepire sia la nozione di materia, sia il funzionamento dell’arte della memoria) e poi viva, non perché ha ricevuto una specifica forma o un set di forme individuali, ma proprio perché incarna la possibilità di assumere innumerevoli forme. È per questo
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18. Bruno, De umbris idearum, in Iordani Bruni Nolani Opera Latine conscripta, II, 1, p. 111.
motivo che, immediatamente dopo la praxis basata su trenta figure agenti e sulle tre ruote che ne esemplificano la modalità combinatoria, Bruno ne propone un’altra ancora più complessa, questa volta basata su centocinquanta immagini e cinque livelli di combinazione. Il numero di centocinquanta figure proviene infatti dalla moltiplicazione delle trenta lettere per le cinque vocali ed esaurisce, quindi, la serie di tutte le possibili composizioni sillabiche di due lettere; le cinque ruote scandiscono, invece, i livelli combinatori derivabili dal personaggio stesso, dall’azione che compie, dall’oggetto usato, da alcuni elementi assistenti e partecipanti all’azione e, infine, da altri oggetti o personaggi compresenti e circostanti. Dall’unione e combinazione di queste cinque serie sorge una scena composita che esprime il valore corrispondente all’unione di cinque sillabe, ossia un termine di tale lunghezza; anche in questo frangente l’immagine che accompagna il testo del De umbris, che condensa le centocinquanta figure e le cinque serie in un sistema di ruote combinatorie concentriche, costituisce l’archetipo dell’atteggiamento figurativo che sta dietro questo macchinoso espediente [fig. 19]. La scena/parola finale si configura perciò come il risultato dell’unione e combinazione visiva delle parti delle immagini dei cinque ‘alfabeti’, trasformando ogni figura agente sulla base degli elementi che denota-
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19. Bruno, De umbris idearum, in Iordani Bruni Nolani Opera Latine conscripta, II, 1, p. 123.
no le corrispondenti sillabe da esprimere, ovvero il personaggio stesso, l’azione, lo strumento, ecc. Sia nella prima che nella seconda praxis, allo scopo di rendere più agevole ed efficace la raffigurazione del termine, Bruno suggerisce di completare l’impianto combinatorio con una serie di accorgimenti visuali per esprimere se la sillaba sia aperta o chiusa, per apporre eventualmente le lettere intermedie e finali, raddoppiare in alcuni casi i suoni, oppure aggiungervene di ulteriori12. Anche in questo caso l’istanza teorica di concepire una potente ‘macchina’ per la produttività dei segni fantastici si scontra con l’esigenza pratica di far sì che essa faccia almeno ciò per cui è stata ideata – produrre, cioè, immagini di parole –, ma è evidente che lo sforzo richiesto all’immaginazione in questo peculiare frangente venga indirizzato verso tutt’altra direzione: lo scopo finale è, infatti, sviluppare una profonda versatilità visuale, in modo che il concepire, il trasformare e l’elaborare le immagini siano tutt’uno con il valutare i corrispondenti significati. In tal modo l’esercizio del pensiero astratto viene rafforzato non per mezzo di un’articolazione dei contenuti mentali che poggia sulla ‘parola’ interiore – il cui andamento, seppure logico, è comunque lineare, mono12
Cfr. ibid., pp. 338-43.
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dimensionale –, ma privilegiando cognitivamente la visualità interna e, di conseguenza, un’interrelazione semantica più immediata, potente, evocativa di senso – data l’eterogeneità e complessità degli input semantici/simbolici – che chiama in causa una modalità di pensiero che è stata a ragione definita «per immagini»13. È questo, del resto, l’obiettivo della mnemotecnica bruniana: divenire, da mero strumento di archiviazione e recupero del conosciuto, il mezzo vivo per produrre la conoscenza, una tecnica tanto più efficace quanto più, nelle sue modalità operative, emula l’azione naturale, riproponendola non solo negli atti – dare forma e plasmare i contenuti in ‘enti’ sensibili –, ma, come si è detto, soprattutto nelle dinamiche vicissitudinali che caratterizzano sia il divenire della natura, sia il procedere del pensiero creativo. Prima di esaminare come questo livello più compiuto di operatività mnemotecnica emerga fin dalla parte finale del De umbris idearum – all’interno di una sezione che ospita alcuni espedienti specifici, che rimandano direttamente ai ‘sigilli’ –, è utile mettere in rilievo un altro aspetto legato alle cinque ruote per la memoria verborum, che può aiutare a comprendere ulteriormente il profondo nesso che sussiste, in Bruno, tra praxis operativa e visione teorica e, ad un livello più generale, tra autobiografia e filosofia14. Per meglio esporre il funzionamento di questo secondo sistema, infatti, viene proposto un elenco di centocinquanta immagini di «celebri inventori»15 con uno scopo meramente esemplificativo: esso è formato da figure di personaggi mitologici, ma anche storici, come Pitagora, Talete, e Archimede, e a ciascuno di questi è associata la propria invenzione. Come per il precedente sistema basato su tre ruote, anche in questo caso la serie di coppie inventore-invenzione è disposta su due ‘ruote’, ciascuna contenente centocinquanta sillabe ottenute combinando ognuna delle trenta lettere dell’alfabeto precedente (comprese quindi le quattro lettere greche e le tre ebraiche) con le cinque vocali. Nella parte finale dell’elenco, tra le posizioni centoventuno e centoventicinque, vi è un gruppo di inventori che indica, secondo la corretta ricostruzione della serie elaborata
Cfr. M. Ciliberto, Per speculum et in aenigmate, Introduzione a Bruno, Opere mnenmotecniche, II, pp. xi-xlvi. 14 Cfr. Ciliberto, Umbra profunda (in particolare la Parte prima, pp. 35-95). 15 Cfr. Bruno, De umbris, pp. 256-71. Come viene fatto notare nell’apparato del testo, l’elenco è in gran parte ricavato dal De rerum inventoribus dell’umanista Polidoro Virgilio. 13
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da Rita Sturlese per la prima edizione critica del De umbris idearum16, il combinarsi della lettera greca phi con le cinque vocali: essi sono l’astronomo Cleostrato (ΦA), considerato l’inventore del sistema zodiacale («con i dodici segni»17), il pitagorico Archita (ΦE) «con il cubo geometrico»18, il presocratico Senofane (ΦI), negatore di un universo antropomorfico – e quindi, brunianamente, anche non geocentrico («con i mondi innumerevoli»19) –, Platone (ΦO) «con le idee e dalle idee»20, e infine, pur distante di secoli rispetto a questi quattro, Raimondo Lullo (ΦU), assieme alle «nove lettere»21, cioè le serie di nove termini (l’alphabetum) che sono alla base del suo sistema combinatorio. La scelta di porre in questo elenco anche il mistico catalano è abbastanza insolita, se si tiene conto del profilo degli altri personaggi; fra l’altro Lullo è uno dei tre ‘inventori’ – su centocinquanta elencati – che non appartengono alla mitologia o alla storia antica: l’altro, precedente di qualche posizione nella serie delle sillabe, è Johannes Gutenberg (ZI), «con i caratteri da imprimere col torchio»22, che, significativamente, segue Theut (ZE), «con le lettere, la scrittura»23. La successione dell’invenzione di Gutenberg rispetto alla scoperta di Theut è intuitiva, ma non può non richiamare, agli occhi del lettore del De umbris idearum, l’importante riflessione compiuta da Bruno nella parte introduttiva dell’Ars memoriae, dove ad essere messe in parallelo sono l’evoluzione della scrittura e quella dell’arte della memoria24. Theut e Gutenberg costituiscono gli estremi di un percorso che è speculare a quello dell’arte della memoria e che, tuttavia, in queste pagine, non viene riproposto con l’asse che va da Simonide di Ceo fino a Bruno, ma è articolato secondo una diversa prospettiva: Bruno presenta se stesso come l’inventore di una nuova dialettica basata sulla composizione/ combinazione delle immagini mnemoniche e per questo sceglie di collocarsi immediatamente dopo Raimondo Lullo assieme al frutto delle Cfr. R. Sturlese, Introduzione a G. Bruno, De umbris idearum, Firenze 1991, pp. liv-lxxiii. 17 Bruno, De umbris, pp. 266-7: «in signa duodecim». 18 Ibid., pp. 266-7: «in cubum geometricum». 19 Ibid., pp. 266-7: «in mundos innumeros». 20 Ibid.: «in ideas et ab ideas». 21 Ibid.: «in novem elementa». 22 Ibid.: «Conradus in literas praelo praemendas». 23 Ibid.: «Theut in literas, scripturam». 24 Cfr. ibid., pp. 134-5. 16
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sue scoperte, la «chiave» e le «ombre» («in clavim et umbras»), cioè la Clavis magna e il De umbris idearum. Vi è, in questo senso, un dato particolare, oltreché suggestivo, che motiva e avvalora ancora di più la presenza di Bruno tra gli inventori moderni, assieme a Lullo e a Gutenberg – rappresentanti l’apice della dialettica e la più efficace forma di scrittura, unite e perfezionate nell’arte bruniana – e che rafforza non solo questa significativa emersione di un motivo autobiografico, ma svela e al contempo dissimula quella peculiare forma di autodescrizione ‘mercuriale’ che caratterizza le opere e la vita stessa del Nolano25: la coppia di lettere che corrisponde alla posizione di Bruno, seguendo l’esatta ricostruzione della serie, è infatti omega-alfa (ΩΑ), ossia l’opposto dell’appellativo di Cristo nel testo dell’Apocalisse; un bizzarro dettaglio, dunque, volto a ribadire la centralità dell’anticristianesimo26 bruniano e, soprattutto, del ruolo innovatore e radicalmente sovvertitore che Bruno riteneva di svolgere rispetto alla cultura e alla storia del proprio tempo. L’ultima parte dell’Ars memoriae contiene tre «arti brevi», che possono essere lette come esempi di applicazioni pratiche degli insegnamenti precedentemente esposti – seguendo così la struttura tipica dei trattati mnemotecnici –, ma anche come un piccolo trattato di arte della memoria a sé stante, il quale condensa la versione più difficile della mnemotecnica bruniana. Come ha rilevato Rita Sturlese27, vi è più di un elemento che vada a suffragio di tale ipotesi: principalmente la particolare struttura del testo, quasi separato dal resto del De umbris idearum e aperto da una sorta di secondo frontespizio contenente una nuova dedica a Enrico III; in secondo luogo il contenuto, che consiste in una presentazione di temi già trattati nelle pagine precedenti, ma riorganizzati in una diversa veste e, soprattutto, proposti con un grado di difficoltà tecnica maggiore. Ciò fa pensare a un compendio della mnemotecnica bruniana, quale sintesi, o presupposto, del materiale mnemotecnico che Bruno avrebbe esposto alla corte parigina per dimostrare che la sua prodigiosa memoria «non era per arte magica
Cfr. supra, p. 79, nota 68. Cfr. M. Ciliberto, Bruno e l’Apocalisse. Per una storia interna degli Eroici furori, in Giordano Bruno. Destino e verità, a cura di D. Goldoni e L. Ruggiu, Venezia 2002, pp. 23-52. 27 Cfr. Sturlese, commento a De umbris, pp. 545-7; Ead., Introduzione a Bruno, De umbris, pp. xl-xlviii. 25 26
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ma per scientia»28. Ad essere raccolta in tre espedienti mnemotecnici – l’ultimo dei quali viene fornito in tre varianti – è dunque la ‘scienza’ che può produrre i risultati mnemonici straordinari dei quali il suo stesso ideatore aveva dato prova a Parigi: una tecnica che è dedicata al re, ma che è in realtà rivolta ad un folto pubblico di intellettuali, che raccoglie «storici», «oratori», «giuristi»29, «medici», «maestri di grammatica», «astronomi»30. Si tratta dell’esposizione di alcuni dei sigilli che ritorneranno nell’Explicatio triginta sigillorum, in particolare del «Pellegrino»31, della «Ruota del vasaio»32, dei «Campi, giardini e antri di Circe»33, facendo un generale riferimento alle tecniche per la memoria verborum lì presenti34. Forse, un’anticipazione del testo che verrà pubblicato l’anno successivo al De umbris idearum, all’inizio del soggiorno inglese, oppure il recupero e la diffusione di parte del materiale della Clavis magna: di fatto, la prova che l’arte dei sigilli, cioè la versione più efficace perché ‘animata’ al massimo grado, era l’unica e vera arte di Bruno, rispetto alla quale quanto esposto nel Cantus Circaeus e nel De umbris idearum costituiva una versione introduttiva e semplificata. Nel dettaglio questi espedienti insegnano a gestire i luoghi e le immagini secondo le modalità animate e combinatorie della nuova mnemotecnica bruniana, in grado di moltiplicare e rendere ancora più complessa la forza espressiva degli spazi interiori. Si prenda, ad esempio, il caso della prima arte breve: l’intera strutturazione del materiale da memorizzare, ovvero la ripartizione e l’ordine in cui esso è suddiviso, è affidata prevalentemente ad una serie di figure agenti che, passando lungo una galleria comune di spazi (o anche attraverso percorsi differenti), hanno il compito di animare in modo figurato gli oggetti e gli strumenti che, nella rappresentazione complessiva, evocano simbolicamente le informazioni immagazzinate: Tutti questi personaggi – percorrendo successivamente la medesima via, ovvero procedendo divisi lungo vie diverse, indirizzati verso un unico atrio a
L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, pp. 161-2. 29 Cfr. Bruno, De umbris, pp. 358-61. 30 Cfr. ibid., pp. 366-8. 31 Cfr. Id., Explicatio triginta sigillorum, pp. 78-9; 148-51. 32 Cfr. ibid., pp. 68-9; 140-1. 33 Cfr. ibid., pp. 76-7; 144-9. 34 Cfr. ibid., pp. 80-95; 150-65. 28
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tutti comune, ovvero condotti attraverso più atri appropriati a ciascuno – permetteranno infatti di ricordare immediatamente l’ordine di tutti i vari accidenti sottesi all’ordine dei soggetti della storia35.
Una sorta di processione di viandanti – per questo motivo, nell’Explicatio, il relativo sigillo è detto del «pellegrino» –, i quali hanno il compito di rappresentare, oltre a un contenuto specifico, anche l’organizzazione dei dati (in relazione alle figure che li precedono o li seguono), svolgendo sia la funzione di imagines agentes sia di luoghi, cioè riferimenti d’ordine e segni della strutturazione dei dati. In questo modo una squadra di figure, opportunamente collegate tra di loro, può rimandare alla scansione dei vari capitoli di un testo oppure a quella dei capitoli, dei paragrafi e delle ulteriori sezioni: gran parte del valore espressivo e organizzativo di un sistema di dati mnestici è dunque affidato a immagini mobili e agenti, alla loro capacità di relazionarsi visivamente e attivamente con altre e con gli scenari mnemotecnici; sono queste, infatti, che rafforzano fino all’esasperazione la tradizionale funzione della notatio locorum, a rappresentarci l’ordine delle immagini mnemoniche, ad indicarci la ‘strada’ della loro organizzazione interna e, infine, ad accompagnarci lungo la lettura dei loro significati. Anche la seconda «arte breve» riguarda la disposizione delle informazioni, ma, in questo caso, la raffigurazione dell’ordine dei dati è riferita tutta all’architettura dei luoghi, che viene minuziosamente costruita secondo livelli tra loro subordinati e reciprocamente inclusi: una struttura indubbiamente più statica e rigida rispetto alla prima arte, nella quale viene tuttavia enfatizzato il valore enciclopedico e ricettivo degli spazi mnemotecnici e che, non a caso, viene proposta – in via esemplificativa – per ‘archiviare’ le proprietà farmacologiche dei rimedi naturali, secondo la distribuzione delle qualità umorali e dei vari gradi e sotto-gradi di esse. In pratica, Bruno propone al lettore di approntare visivamente un ampio giardino e dividerlo in quattro parti, ciascuna ordinata per ospitare piante o minerali che abbiano la qualità del caldo-umido, del caldo-secco, del freddo-umido o del freddo-secco. Dopo di ciò, ciascun quadrante andrà a sua volta ripartito in quattro parti (secondo i vari gradi del caldo e del freddo) e, successivamente, Id., De umbris, pp. 358-9: «Mox enim omnes successive eandem vel diversi diversas peragentes vias, per atrium vel unum omnibus commune vel plura singulis propria deducti, sub ordine subiectorum historiae ordinem accidentium universorum facient retinere». 35
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ognuno di questi settori dovrà essere ripartito in altre quattro sezioni (per distribuire i sottogradi del secco e dell’umido), fino a che si avrà una sorta di casellario completo, adattato ad accogliere le piante ed i minerali utili alla pratica medica36. Le prime due arti insegnano perciò due atteggiamenti operativi apparentemente opposti: spostare tutta la potenza organizzativa degli spazi sull’animazione e mobilità delle immagini; piegare e adattare una strutturata architettura di luoghi alle immagini che vi sono contenute, assecondando il precetto, già esposto nel testo del De umbris idearum, di trasporre l’organizzazione propria delle informazioni da memorizzare nell’ordine e nella forma dei luoghi37. Pur differenti negli esiti immediati, si tratta comunque di approcci complementari, perché poggiano entrambi sul principio secondo cui all’interno del mondo mnemotecnico tutto è ugualmente segno, sia che venga rappresentato e animato da figure agenti e vaganti per gli spazi sia che venga saldamente ancorato ad una particolare scenografia: è questo, del resto, uno dei fondamentali contributi che la mnemotecnica bruniana offre alla mnemotecnica tradizionale, rinnovandola profondamente nell’impianto teorico. Il secondo aspetto, cioè quello dell’animazione combinatoria dei segni, viene invece esemplificato, ancora una volta, attraverso la memoria verborum: nella terza delle artes breves vengono infatti fornite tre versioni dell’arte di produrre immagini di lettere e di sillabe che si ispirano alle praxeis precedentemente esposte, al sistema del Cantus Circaeus e, infine, evocano abbastanza esplicitamente la soluzione ideata da Publicio e ripresa da Romberch di far variare il valore espresso da una figura posta al centro della scena mnemotecnica, sulla base del suo orientamento rispetto ai punti cardinali o ad altri oggetti presenti nella scena38. Di fatto anche queste tre modalità offrono altrettanti esempi e applicazioni di come un’immagine, trasformando il proprio aspetto in virtù della relazione con altre figure, possa modificare la propria funzione e il proprio valore espressivo: ciò mostra ancora una volta come la configurazione e l’elaborazione dei segni mnemonici debba avvenire entro un sistema unico di simboli interrelati e, per questo, reciprocamente modificabili, in un magma
Cfr. ibid., pp. 364-9. Cfr. Matteoli, Sturlese, La nuova ‘arte’ del Bruno in tre enigmi, pp. 134-44. 37 Cfr. supra, pp. 196 e sgg. 38 Cfr. Bruno, De umbris, pp. 370-7. 36
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vitale di enti fantastici il cui statuto e la cui dinamicità sono simili a quelli della natura. Ed è proprio questo riferimento a uno sfondo filosofico il tratto che maggiormente risalta dall’esposizione delle arti brevi che chiudono il De umbris idearum, ribadendo quella inscindibile connessione tra filosofia ed arte della memoria che caratterizza tutto il testo e, più in generale, fonda e giustifica, in Bruno, il valore dell’ars memoriae stessa. Ognuna di queste arti, non a caso, è introdotta da un «enigma e paradigma», cioè da un componimento poetico che, nel descrivere più o meno cripticamente la ‘formula’ mnemotecnica che è alla base del funzionamento dell’espediente, evoca una serie di riferimenti iconografici e simbolici (i sette pianeti erranti in un unico cielo, la maga Circe che, come nel Cantus a lei dedicato, riordina la natura secondo i suoi parametri essenziali, la materia come «mare» che tutto genera, ecc.) che delineano alcuni dei motivi principali della filosofia di Bruno. Tra questi componimenti spicca in particolare il terzo che, a motivo della sua importanza, riportiamo per intero: Il motore immobile con impulso sempre costante/ Dona moto godendo di eterna immobilità. / Come il tracciato ricurvo della circonferenza riconosce un unico / Centro, dal quale non può mai separarsi, / E la mobile ruota si volge attorno al suo fisso asse, / Né la via percorre con moto rettilineo, / Non varierà la natura sagace il volto delle opere, / A meno che entrambi i princìpi non saranno sempre permanenti. / Nelle procellose onde carpatiche di Nettuno, Proteo, / Trainato da bipedi cavalli dietro armenti deformi, / Si mantiene identico mentre contrae tutte le forme, / E perenne opera tra i grandi numi del cielo. / Non diversamente in tutte le realtà governate dalla natura / Vige permanente e dunque sottostà la monade. / E questa che vedi sottostare, non neghi a se stessa alcun atto, / In modo che di tutti sia più sollecita. / Ascrivi il caos ad Anassagora, e gli atomi abbiano / Come padre Democrito, la selva il suo Platone. / Conserva, nutre, ordina e congiunge i semi che riceve. / Provvida è la madre, se il padre non è senza mente. / Questa giova distenderla nella serie dei microcosmi, / Che il massimo orbe racchiude al suo interno39.
Ibid., pp. 370-3: «Inmotus motor compulsu semper eodem / Dat motum, aeterna immobilitate vigens. / Ut circumlato centrum cognoscitur unum / Gyro, quod numquam destituisse valet, / Utque manente suo rota mobilis irrotat axe, / Nec peragit recta mobilitate viam, / Non operum natura sagax faciem variabit, / Principium ni sit semper utrumque manens. / Carpathio Proteus Neptuni in gurgite vasto, / Turpia per bipedes post pecora actus equos, / Idem servatur dum formas contrahit omnes, / 39
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Ad un primo livello il componimento mostra per via allegorica il ruolo dell’unica figura («il motore immobile» e «Proteo») posta al centro del luogo («la mobile ruota», «le procellose onde»), i cui movimenti, le posizioni che assume o le azioni che compie in relazione agli oggetti che le stanno attorno, possono rappresentare tutte le possibili sillabe. In realtà, andando ad analizzare con più profondità il testo, si scopre che si tratta di una suggestiva messa in scena di quanto Bruno, da lì a pochi anni, descriverà con maggiore rigore teorico nel De la causa, principio et uno e negli altri dialoghi pubblicati in Inghilterra: una sostanza unica, eterna e infinita che fonda e sostiene la natura stessa, alla cui base agiscono due principi opposti, complementari. Il vasto mare delle mutazioni simboleggia dunque l’elemento potenziale e ricettivo, che è «madre» e «non nega a se stessa alcun atto», mentre Proteo significa il principio produttivo che «si mantiene identico mentre contrae tutte le forme» ed è «mente». Una volta definito questo orizzonte, quelli che sono gli elementi più semplici possono essere denominati in molti modi, di fatto tutti equivalenti tra loro, se li si riconduce alla loro funzione primaria: così il caos, gli «atomi», perfino le idee di Platone, non sono altro che definizioni di aspetti isolati e parziali di tale dialettica assoluta, sottesa tra la potenza e l’atto, la materia e la forma. Il vertice sommo di questa tensione, in qualità di principio assoluto e unitario nel quale le due forze contrastanti e «sempre permanenti» coincidono, è l’unità sostanziale divina, il «motore immobile», l’«unico centro, dal quale non può mai separarsi» e dal quale deriva il dinamico inseguirsi di potenza e atto entro la «natura sagace» e infinita. Lo schema delineato in questi versi, scandito tra i piani divino, universale e infranaturale, è lo stesso che si trova descritto e argomentato nelle due serie che aprono il De umbris idearum e nella sezione introduttiva dell’Ars memoriae e costituisce il paradigma filosofico che deve essere assunto anche nell’arte della memoria. Occorre infatti tenere Numinaque intra alti magna perennis agit. / Haud secus in cunctis, quibus est natura gubernans, / Praestat perdurans ergo subestque Monas. / Quamque subesse vides, nullum sibi deneget actum, / Quo veniat cunctis officiosa magis. / Verte in Anaxagoramque chaos, habeantque parentem / Democriton atomi, sylva Platona suum. / Semina – quae recipit – servat, fovet, ordinat, arctat. / Consulta est mater ni sine mente pater. / Hanc iuvat in seriem protendere τῶν μικροκόσμων, / Quos intus clusos maximus orbis habet». Per una ulteriore e più approfondita lettura di questi versi si veda quanto scrive Rita Sturlese in Matteoli, Sturlese, La nuova ‘arte’ del Bruno in tre enigmi, pp. 152-63.
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presente che nell’attività fantastica e perfino nel pensiero concettuale agisce come fondamento ultimo il principio che tutto fa e trasforma; al contempo la fantasia/memoria è la ‘materia’ di tutti i pensieri e delle immagini interiori, lo spazio della pura possibilità e potenzialità, atto a essere infinitamente plasmato dalle forme del conoscere. Sono questi gli estremi teorici di un sistema essenzialmente pratico che Bruno comunica ai lettori del Cantus Circaeus e del De umbris idearum quali punti di arrivo della sua rinnovata arte della memoria, presentata per il momento solo in controluce e mai veramente nell’espressione piena e ultima del suo potenziale creativo e dialettico. Diversa e più esplicita è invece la prospettiva di chi si accosta all’Explicatio triginta sigillorum e al De imaginum, signorum et idearum compositione, testi che accompagnano il lettore di Bruno dentro il tempio della sua memoria. Nel tempio di Mnemosine La dedica del De imaginum, signorum et idearum compositione si apre con la dichiarazione che «l’argomento principale» dell’opera «è la composizione di immagini, segni e idee, per sviluppare in generale le capacità di ritrovare argomenti, di organizzarli e memorizzarli»40. Gli obiettivi della composizione delle immagini, dei segni e, dunque, delle idee, sono pertanto la inventio, la dispositio e la memoria, ovvero i nuclei centrali dell’attività retorico/dialettica: l’arte della memoria è quindi strumento per il ragionamento e per l’argomentazione che si serve non delle parole, ma della rappresentazione in immagini e segni dei contenuti mentali. Il motivo di questa peculiare direzione conferita alla dialettica, l’abbiamo già detto più volte, è la consapevolezza, tutta bruniana, che prima della parola, prima dell’ombra dell’idea elaborata dal pensiero, vi siano la traccia e il segno che la natura imprime negli enti da essa prodotti, i quali perciò, quando vengono colti nella trama unitaria delle loro relazioni, riescono ad essere rivelatori della forza creatrice e unificante della natura stessa. Una sorta di esemplarismo tutt’altro che metafisico, bensì esprimentesi nel contesto naturale, che rimarca, al contempo, continuità e scarto tra Dio, natura e uomo:
Id., De imaginum compositione, pp. 484-5: «Propositum est de imaginum, signorum et idearum compositione principale, propter universalis inventionis, dispositionis et memoriae finem». 40
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Idea, immaginazione, assimilazione, configurazione, designazione, notazione costituiscono nella sua totalità l’opera di Dio, della natura e della ragione, e secondo l’analogia che congiunge questi gradi, avviene che la natura mirabilmente riproduca l’azione divina e subito dopo – quasi aspirando a mete ancor più alte – l’ingegno umano emuli l’operazione della natura41.
Il rapporto tra i gradi di questa particolare ‘scala’ dell’essere è determinato dalla forza creatrice dell’essere stesso: esso si manifesta infatti nella relazione tra il soggetto agente e gli atti che esso compie, caratterizzando i vari «gradi» di trasmissione e fondandone sia la derivazione degli enti sia la dipendenza di questi rispetto alla sostanza. La scala si risolve, nel suo livello più basso, nella conoscenza umana che, spontaneamente, cioè in virtù della sua stessa costituzione naturale, è portata e spinta ad ‘ascenderla’ attraverso l’imitazione dell’operare generativo che ne ha prodotto la ‘discesa’; tale attitudine creativa coincide, in ultimo, con il pensare stesso. A circa dieci anni di distanza il paradigma che definiva la teoria delle ombre delle idee è ancora valido e riecheggiano in queste righe le considerazioni del De umbris idearum e del Sigillus sigillorum sul rapporto tra l’ombra sotto cui riposa la conoscenza umana, l’opacità materiale della natura universale e la luce divina che vi è celata dietro; ma vi è qualcosa di più, in queste pagine, qualcosa che definisce ancora più chiaramente il valore dell’atteggiamento compositivo e combinatorio, rivelando una consapevolezza teorica che, evidentemente, in questi anni si era ulteriormente arricchita: chi non vede con quanto pochi elementi la natura produca realtà a tal punto molteplici? […] essa dispone quattro medesimi elementi semplici nel proprio sito, li ordina, li compone, li applica, e formati e figurati sotto vari segni, li conduce dal profondo della potenza alla sublime altezza dell’atto42.
Ibid.: «Idea, imaginatio, adsimulatio, configuratio, designatio, notatio est universum / Dei, naturae et rationis opus, et penes istorum analogiam est ut divinam actionem admirabiliter natura referat, naturae subinde operationem humanum – quasi et altiora praetentans – aemuletur ingenium». 42 Ibid., pp. 484-7: «Quis non videt quam paucis usque adeo multa natura faciat elementis? Id vero nemo est qui nesciat inde fieri, quod quattuor eadem varie adsituet, ordinet, componat, moveat, applicet, subque variis formata figurataque signis de profundo potentiae ad actus promoveat sublimitatem». 41
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Il punto di novità è che nel rileggere in chiave compositiva e ‘atomistica’ la forza produttiva naturale – che parte dalla composizione reiterata e diversificata di pochi oggetti dal valore primitivo ed elementare per sprigionarsi nella totalità infinita e molteplice degli enti – Bruno crea una immediata corrispondenza non con la fantasia e l’immaginazione creativa, ma con la logica stessa, ovvero con la radice razionale del pensiero, che è di per sé compositivo e combinatorio: può forse esistere per l’uomo qualcosa che sia più semplice dei numeri? Primo, che cosa sia l’uno, il due, il tre, il quattro; secondo, che uno non sia due, due non siano tre, tre non siano quattro; terzo, che uno e due siano tre, che uno e tre siano quattro: fare questo è fare tutto, dire questo è dire tutto, immaginare, esprimere con segni e ricordare questo consente che ogni oggetto sia appreso, che sia inteso quanto si è appreso e ricordato quanto si è inteso43.
Si tratta di un’importante evoluzione nella concezione del rapporto tra interiorità individuale e natura, che passa attraverso l’approfondimento di nozioni quali mathesis e numero, già presenti nel Sigillus sigillorum, dove erano considerate «mezzi» per la direzione e l’assistenza del pensiero, assieme all’astrazione, alla simmetria, alla proporzione, addirittura, alla magia e all’amore44. In quel testo l’atteggiamento compositivo era visto quindi come un aspetto parziale della determinazione del pensiero e non come quello principale, dal quale scaturiscono, come si legge nel brano sopra citato, tutte le altre attitudini cognitive, tutte le potenze e le competenze del pensare. Di fatto, nel corso di pochi anni e a partire dal suo secondo soggiorno parigino, in Bruno è andata sempre più rafforzandosi una concezione atomistica della natura e della geometria45, i cui effetti traspaiono anche in questa riflessione dialettica e ‘logica’: la ‘combinatoria’ non è più solamente un’arte, ma diviene ancora più marcatamente ‘legge’, ovvero è l’espressione, seppure tecnica, dell’idea di numero come disposizione di unità puntuali Ibid.: «quid homini numeratione facilius esse potest? Primo quod sit unum, duo, tria, quatuor; secundo quod unum non sit duo, duo non sint tria, tria non sint quatuor; tertio quod unum et duo sint tria, quod unum et tria sint quatuor: hoc facere est facere omnia, hoc dicere est dicere omnia, hoc imaginari, significare et retinere, omnia facit obiecta apprehendisse, apprehensa intellexisse, intellecta meminisse». 44 Cfr. Id., Sigillus, pp. 256-67; 288-301. 45 Cfr. M. Matteoli, Materia, minimo e misura: la genesi dell’atomismo ‘geometrico’ in Giordano Bruno, «Rinascimento», s. II, 50, 2010, pp. 425-49. 43
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(«che cosa sia l’uno, il due, ecc.»), differenza, relazione e distanza tra di esse («che uno non sia due …»), infine composizione nel suo senso più proprio («che uno e due siano tre, …»). Vi è, dietro tutto ciò, anche la nuova geometria degli Articuli centum et sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos atque philosophos (Praga 1588) e, soprattutto, del De triplici minimo et mensura, contemporaneo del De imaginum compositione (pubblicati entrambi a Francoforte nel 1591), la quale rivela una visione della matematica che, pur rimandando a uno sfondo pitagorico, come alcuni interpreti hanno correttamente evidenziato46, si appoggia in prima istanza a un’ontologia dell’Uno che è, a sua volta, modulata intorno al concetto di minimo47. Si tratta di un paradigma teorico che acquista una valenza fondamentale nella «nolana filosofia»: se, infatti, nei dialoghi italiani il corrispettivo naturale dell’unità era l’orizzonte infinito dell’universo (il «massimo»48), nel ciclo dei «poemi francofortesi», la prospettiva è completamente rovesciata e il minimo – che è ‘triplice’ perché si esprime sul piano formale, materiale e geometrico/gnoseologico – risulta essere il fondamento di ogni cosa in natura fino alla sua massima totalità: Il minimo è la sostanza delle cose e sebbene sia espresso da un genere diverso da quello della quantità, costituisce il principio della quantità e della grandezza. È materia, ossia principio elementare, efficiente, determinazione, totalità ovvero punto nell’ambito delle grandezze a una o due dimensioni, atomo, nel senso più proprio del termine, in quelle entità corporee che costituiscono gli elementi originari e nel senso meno proprio del termine in quelle che sono tutte in tutto e nelle singole parti, come nella voce, nell’anima e entità simili; monade da un punto di vista razionale nei numeri; da un punto di vista essenziale in tutte le cose. Quindi il massimo altro non è che il minimo. Prescindi dal minimo e non ti rimarrà nulla49.
Cfr. K. Atanasijevic, The Metaphysical and Geometrical Doctrine of Bruno, as given in His Work De triplici Minimo, translated into English from French original by G.V. Tomashevic, St. Louis 1972, pp. 3-19; P. Zellini, Figure della ripetizione nella filosofia della natura di Giordano Bruno, in Aspetti della geometria di Giordano Bruno, a cura di O. Pompeo Faracovi, Lugano 2012, pp. 103-28. 47 Cfr. M. Matteoli, Minimo, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, II, ad v. 48 Cfr. Bruno, De la causa, Dialogo V, pp. 277-96. 49 Id., De minimo, numero et mensura, I, 2, in Id., Opere latine, a cura di C. Monti, Torino 1980, p. 97; Eiusd. Opera Latine conscripta, I, 3, pp. 139-40: «Minimum est 46
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La composizione e l’aggregazione, prima ancora di essere modelli per pensare o leggi della ragione, costituiscono dunque l’essenza stessa dell’essere delle cose e del loro divenire: «il minimo è la più potente di tutte le cose in quanto sono in esso in ogni momento numero, grandezza e virtù. Sono infatti sue proprietà insieme il comporre, l’accrescere, il formare e l’essere composto, formato fino a raggiungere la massima aggregazione»50. Il cuore teorico del De imaginum compositione consiste pertanto nella ripresa della concezione gnoseologica dell’ombra dell’idea – cardine interpretativo della relazione tra Dio, natura e uomo –, fondandola tuttavia sopra una mutata visione metafisica che declina in modo nuovo il rapporto tra l’unità e la molteplicità, l’essere e l’ente. Ne consegue un più corroborato sfondo anche per l’arte della memoria, rispetto alla quale diviene ancora più decisivo, se non necessario, cogliere nell’atto del pensare la profonda connessione tra la sfera intellettuale e il principio generatore e formatore della natura: l’asse di comunicazione tra esperienza e verità muove quindi dalla ‘puntualità’ geometrico/logica che è alla base del pensiero stesso, passa attraverso la composizione dei contenuti interiori quale espressione creativa ‘naturale’ del piano mentale, giunge infine all’intuizione filosofica dell’unità e identità del principio che intimamente anima il pensiero e la sostanza universale stessa. Tale ‘visione’ però non può essere immediata – l’occhio non può vedere se stesso, la mente non può abbracciare se stessa51 –, perciò «il nostro intelletto» coglie la verità e unità di sé come proiettato in substantia rerum, quatenus videlicet aliud a quantitatis genere significatur, corporearum vero magnitudinum prout est quantitatis principium. Est, inquam, materia seu elementum, efficiens, finis et totum, punctum in magnitudine unius et duarum dimensionum, atomus privative in corporibus quae sunt primae partes, atomus negative in iisce quae sunt tota in toto atque singulis, ut in voce, anima et huiusmodi genus, monas rationaliter in numeris, essentialiter in omnibus. Inde maximum nihil est aliud quam minimum. Tolle undique minimum, ubique nihil erit». 50 Ibid., I, 4, p. 104; Eiusd. Opera Latine conscripta, I, 3, p. 146: «Minimum potentissimum est omnium, quippe quod omne momentum, numerum, magnitudinem claudit atque virtutem. Eius est componere, augere, formare, et tandem esse compositum, formatum atque magnum usque ad maximum, quod cum eodem coincidere alibi planius expressimus». 51 Cfr. Id., De imaginum compositione, pp. 486-7: «Quia oculus videt alia, se non videt. At quis est ille oculus, qui ita videt alia ut et se videat? Ille qui in se videt omnia, quique est omnia idem. Illi sublimi ratione similes essemus, si nostrae speciei substan-
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uno specchio, «in una sorta di configurazione esteriore, simulacro, immagine, figura, segno»52. L’arte della memoria è dunque lo strumento che affina e perfeziona questa visione indiretta, che forma il simulacro interiore, ponendolo davanti alla vista intellettuale nella sua configurazione viva e mai conclusa e in tal modo offrendoci l’esempio vivente di tale azione plasmatrice, assimilabile a quella naturale: è per questo che noi comprendiamo non in una sorta di semplicità, stabilità e unità, ma nella composizione, nel confronto e nella pluralità, mediante discorso e riflessione. E se tale è il nostro ingegno, tali necessariamente devono essere le sue opere, di modo che quando esso ricerca, trova, giudica, dispone e ricorda non possa mai vagare oltre i limiti dello specchio, né muoversi se non con immagini. Se dunque attraverso la natura è esposto uno specchio terso e senza imperfezioni, e se attraverso l’arte rifulge vigorosa la luce dei princìpi nell’orizzonte del raziocinio, allora secondo la facoltà elargitaci dalle immagini chiare e perspicue che vengono a presentarsi al nostro sguardo saremo indirizzati a quella somma felicità che si esplica in atti di genere molteplice e che è massimamente propria dell’uomo in quanto uomo53.
La «composizione» è, come si è detto, ‘legge’ del pensare, mentre la costruzione e la trasformazione delle immagini è l’esercizio consapevole di tale legge, l’attuazione della forma più autentica di conoscenza o, per lo meno, di quella che l’uomo può mettere in atto più efficacemente trovandosi in un orizzonte esperienziale caratterizzato da frammentarietà e dispersione ad infinitum. Il comporre le immagini tiam cernere possemus; ut noster oculus se ipsum cerneret, mens nostra se complecteretur ipsam». 52 Ibid.: «ita etiam neque intellectus noster se ipsum in se ipso et res ipsas omnes in se ipsis, sed in exteriore quadam specie, simulacro, imagine, figura, signo». 53 Cfr. ibid., pp. 488-9: «Hoc est quod non in simplicitate quadam, statu et unitate, sed in compositione, collatione, terminorum pluralitate, mediante discursu atque reflexione comprehendimus. Quod si tale est nostrum ingenium, talia nimirum eiusdem esse oportet opera, ut scilicet inquirens, inveniens, iudicans, disponens, reminiscens non extra speculum divagetur, non absque imaginibus agitetur. Heic si per naturam speculum tersum subiiciatur atque planum, nec non per artem in horizonte ratiocinii lux canonum vigeat et splendeat, illico iuxta elargitam facultatem ex imaginibus rerum claris atque perspicuis in prospectum venientibus ad summam in multiplici genere actus faelicitatem dirigemur illam, quae homini maxime quatenus homo est adpropriatur».
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mnemotecniche costituisce, di conseguenza, il motivo teorico centrale dell’opera e non si esprime solo a un livello operativo o tecnico; nel suo insieme questo testo ci insegna a formare delle figurazioni che possano essere organizzate e poi modificate in modo da esprimere per mezzo di esse qualsiasi cosa, come pezzi di un composito quadro che, ad ogni configurazione impostagli, viene a rappresentare qualcosa di diverso: Nel secondo libro sono le immagini dei dodici prìncipi che sotto l’unico ottimo massimo ineffabile infigurabile sono produttori, significatori ed elargitori secondi e medi di tutte le cose; e tutte le realtà assistenti, circostanti, adiacenti, inerenti e insite a ciascun principe sono state da noi esplorate per consentirne un impiego straordinariamente fecondo54.
Già nel primo libro del De imaginum compositione, dopo la parte nella quale si tratta della fantasia, del ruolo determinante dello spiritus phantasticus – la cui forza creatrice è ricondotta appunto a quella del pensiero – e delle svariate modalità di rappresentare i contenuti attraverso le immagini55, vi è una seconda sezione, più ampia della prima56, nella quale si presentano le prime forme di costruzione delle scenografie interiori, con il pretesto di insegnare un sistema per la memoria verborum. Gli espedienti che vengono insegnati in queste pagine sono, indubbiamente, i più difficili tra quelli elaborati da Bruno per la memoria di parole e si basano su una complessa architettura di luoghi e di immagini che rappresenta vari tipi di alfabeti di lettere e sillabe, i quali possono essere composti tra di loro secondo tre varianti principali. La prima modalità prevede la preparazione di un sistema di ventiquattro atrii, cioè stanze di ampie dimensioni, in cui vengono individuati altrettanti riferimenti specifici negli angoli e alla metà delle pareti: il numero ventiquattro esprime quello delle lettere dell’alfabeto latino, che sono rappresentate sia dalle figure alle quali ogni atrio è dedicato, sia dagli oggetti posti in ciascuno di essi [fig. 20]. In questo modo il personaggio che è «signore» dell’atrio indica esso stesso la prima lettera della parola da formare, la quale verrà costruita facenIbid.: «In secundo imagines duodecim principum, qui rerum omnium secundi mediique – sub uno optimo maximo ineffabili infigurabili – sunt effectores, significatores, elargitores; quidque eorum singulis adsistat, circumstet, adiaceat, inhereat et insit ad tantum exploramus usum». 55 Cfr. ibid., pp. 492-549. 56 Cfr. ibid., pp. 450-663. 54
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20. Bruno, De imaginum, signorum et idearum compositione, in Iordani Bruni Nolani Opera Latine conscripta, II, 3, p. 127.
dolo muovere nella stanza e interagire con i relativi oggetti-lettere. A fianco di questo primo sistema di luoghi, già di per sé funzionante per la figurazione di parole, si possono approntare altre due serie di figure che, rispettivamente, esprimono il valore di sillabe aperte o chiuse. Altre stanze ed oggetti di differente grandezza (la prima serie formata da dodici spazi con all’interno cinque figure; la seconda da trenta con altrettanti luoghi particolari) [fig. 21-22] servono per implementare e reiterare tutte le combinazioni possibili per formare le sillabe e, di conseguenza, costruire rappresentazioni composite che abbiano il valore di una parola. Sistemi difficili poiché applicano al massimo tutto il potenziale espressivo della mnemotecnica bruniana; eppure, nonostante ciò, tali espedienti costituiscono non un punto d’arrivo, ma un’esperienza preparatoria a quanto segue nel secondo libro, dove sono finalmente presentate le dodici «corti», come le chiama Bruno, cortei di figure collegate e subordinate tra loro, sulle quali poggia tutto il peso della rappresentazione e della composizione fantastica. Giove, assistito da otto gruppi di figure, Saturno con altrettanti gruppi di immagini, poi Marte circondato da quattro schiere, Mercurio e dodici gruppi e an-
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21-22. Bruno, De imaginum, signorum et idearum compositione, in Iordani Bruni Nolani Opera Latine conscripta, II, 3, pp. 158 e 164
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cora, Pallade, Apollo, Esculapio, il Sole, la Luna, Venere, Cupido, la Terra, ciascuno con una corte che varia dalle due alle dodici schiere, ognuna delle quali, a sua volta, formata da decine di figure, esprimenti valori riconducibili all’iconografia del loro «signore». Per ribadire, poi, quanto sia importante, a questo livello dell’operatività mnemonica, la ricchezza e l’eterogeneità delle raffigurazioni, è utile sottolineare che anche ogni singola immagine si dà in forma composita. Saturno, ad esempio, è composto da quattro scene, tutte molto suggestive; prendiamo, per illustrarne l’intensa forza immaginifica, la quarta: «una vecchietta con una veste nera dal lungo strascico, che nella destra ha un gufo, con la sinistra tira per una cordicella un porco con un serpente attorcigliato intorno al collo a modo di collana»57. Questo primo gruppo di immagini relative a Saturno è quindi seguito da una prima schiera di «assistenti»: Assistono Saturno in prima fila Vecchiaia annosa, Vetustà carica d’anni, sfinita Decrepitezza, Spossatezza, Stanchezza, Lentezza, Indebolimento, Estenuazione, Macerazione, Disfacimento, Malattia, Putrefazione, Infermità, Decadimento, Fragilità, Logoramento, Snervatezza, Mollezza, grave Fardello, Peso morto, curvo Piegamento, vacillante Tremore, Tribolazione, Putredine, Deformità, Magrezza, Squallore, Indecenza, Turpitudine, Inopia, Odiosità, Tristezza, Lamento, Balbuzie, Tetraggine, Intrattabilità, Severità, Impazienza, Invalidità, Follia, Rigidità, Rugosità, Mancanza di denti, Calvizie, Parsimonia, Esperienza, Circospezione, incredibile Smemoratezza, ingannevole Memoria, delirante Ingegno, invida Ambizione, ambiziosa Invidia, Orrore e le prime, seconde, terze combinazioni di tutti questi58.
Ibid., pp. 678-9: «vetula in veste longe caudata et nigra, in dextera bubonem habens, sinistra porcum funiculo traherens, cuius collo hidrus in morem torquis erat involutus». 58 Ibid.: «Adstant Saturno in primo ordine Senectus annosa, gradaeva Vetustas, defecta Decrepitas, Fessitas, Lassitudo, Tarditas, Exhaustio, Extenuatio, Maceratio, Caries, Morbus, Tabes, Infirmitas, Decoctio, Fragilitas, Attritio, Enervitas, Mollities, gravis Sarcina, Pondus iners, curva Inclinatio, titubans Tremor, Pressura, Putredo, Faeditas, Macies, Squalor, Indecentia, Turpitudo, Inopia, Odiositas, Tristitia, Querela, Balbuties, Tetricitas, Morositas, Severitas, Impatientia, Invaliditas, Desipientia, Rigiditas, Ruga, Edentulitas, Calvities, Parcitas, Experientia, Circumspectio, fabulosa Oblivio, mendax Memoria, delirum Ingenium, invida Ambitio, ambitiosa Invidia, Horror et compositiones ex iis primae, secundae, tertiae». 57
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La folta e cupa rappresentanza di oltre cinquanta immagini non è sufficiente, tuttavia, a soddisfare la potenza raffigurativa propria dell’immaginario bruniano, così dopo avere elencato le molte sfumature della corte di Saturno, Bruno invita anche ad elaborarne «le prime, seconde, terze combinazioni» (una Vecchiaia decrepita e stanca, ecc.), moltiplicandole ulteriormente di numero. Questa lunghissima processione di termini dal significato affine può suggerire, ad una prima e superficiale lettura, che essi siano la ridondante ripetizione dello stesso valore e non la densa analisi e circoscrizione di esso; per chiarire questo aspetto è quindi utile fare riferimento a quanto Bruno stesso ha specificato, in chiusura della lettera dedicatoria del De imaginum, a proposito della sinonimia, che come si è visto59, egli rifiuta categoricamente: Una cosa vorrei fosse chiara a tutti: in queste pagine non tratto, accumulando sinonimi, della sciocca abbondanza retorica (sempre congiunta a scarsità di senso) dei costruttori di discorsi artificiosi; i diversi vocaboli che considerati dall’occhio del grammatico sono sinonimi, per noi significano infatti cose sempre diverse, o almeno in una prospettiva sempre diversa, allo stesso modo in cui ‘signore’, ‘possessore’, ‘proprietario’ non hanno il medesimo significato rispetto all’ignoranza, al servo e al cavallo; questo perché nella curia della filosofia non esistono termini perfettamente sinonimi, a meno di non annoverare tra i filosofi quei grammatici del nostro tempo60.
Una precisazione, che risuona piuttosto come un’avvertenza, che invita a vagliare con attenzione il piano della rappresentazione e quello dell’interpretazione, evidenziando, alla base di entrambi, l’univocità del rapporto tra segno e significato: questo deve, in ultimo, fare riferimento alla specificità di ogni atto naturale, in virtù della quale il singolo ente è espressione di un irripetibile atto produttivo. Si tratta di una considerazione metodologica e logica che, in realtà, deriva dall’idea della sostanza universale intesa come fondamento unico e assoluto: in esso tutte le Cfr. supra, p. 111. Id., De imaginum compositione, pp. 490-1: «Ubi neminem praetereat velim me non nugas synonimizando tractare et logodedalorum – cum illa sensus inopia – copiam; diversae quippe voces quae grammatico oculo perspectae synonymae sunt, eae nobis alia atque alia vel saltem aliter atque aliter significant, sicut dominus, possessor, herus, non sunt idem ignorantiae, servo et equo; quoniam in curia philosophiae non ulla possunt esse synonyma, praeterquam si velimus grammaticales internumerare in hoc seculo philosophos». 59 60
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cose possibili vengono a essere in atto in maniera infinita e incessante, conseguentemente nulla si conserva stabile e si ripete identico, come drammaticamente riconosce perfino il padre degli dèi nel celebre passo della Epistola esplicatoria dello Spaccio de la bestia trionfante: Però, conoscendo egli che in tutto uno infinito ente e sustanza sono le nature particolari infinite et innumerabili (de quali egli è un individuo) che come in sustanza, essenza e natura sono uno: cossí per raggion del numero che subintrano, incorreno innumerabili vicissitudini e specie di moto e mutazione. Ciascuna dumque di esse, e particularmente Giove, si trova esser tale individuo, sotto tal composizione, con tali accidenti e circonstanze, posto in numero per differenze che nascono da le contrarietadi, le quali tutte si riducono ad una originale e prima, che è primo principio de tutte l’altre, che sono efficienti prossimi d’ogni cangiamento e vicissitudine: per cui, come da quel che prima non era Giove, appresso fu fatto Giove, cossí, da quel ch’al presente è Giove, al fine sarà altro che Giove61.
I termini sinonimi sono pertanto inammissibili perché, oltre a gettare ambiguità sulla rete di rapporti simbolici stesa sul mondo mnemonico, tradiscono quell’idea di corrispondenza e univocità semantica che, come si è appena detto, è tesa a rispecchiare, sul piano mentale, l’individualità degli enti naturali: ogni immagine deve avere un solo e univoco senso, così come un nome può essere collegato a un solo significato e, ancora più a fondo, un ente possiede quell’unica e specifica complessione materiale, per cui venuta meno quella, esso non sarà più tale, poiché, nel gioco infinito della vicissitudine, mai più si ridarà quell’intreccio di circostanze particolari e cause contestuali che lo hanno prodotto62. La struttura di ogni «corte» si presenta dunque come una lunga e palpitante variazione visiva sul tema espresso dall’immagine principale: gli assistenti di Saturno sono seguiti da schiere di figure relative al Lutto, alla Cura, al Timore, al Dubbio, alla Tristezza, alla Fame, all’InId., Spaccio de la bestia trionfante, p. 465. Al contrario i pedanti e ‘grammatici’, raffigurati da Bruno nei suoi dialoghi e nel Candelaio, vengono stigmatizzati in quanto tali, proprio per il loro sistematico ricorso ai sinonimi, il cui uso svuota di senso e pregnanza il loro parlare, che, infatti, risulta completamente privo di valore e funzione rispetto all’andamento delle argomentazioni. Cfr. F. Meroi, Pedante, pedanteria, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, II, ad v. 61 62
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vidia, all’Ozio, alla Morte, all’Orco e all’Esilio, in un tenebroso crescendo che estrinseca tutte le possibili connotazioni dell’iconografia di Saturno e che si snoda per decine di pagine, con centinaia di immagini organizzate in gruppi e subordinate tra di loro. Il medesimo schema raffigurativo viene proposto anche per Giove, per Marte e per le altre nove corti, creando un articolato sistema di riferimenti simbolici al quale si sovrappone la rappresentazione di ventitré nozioni comuni (attributa): principio, medio, fine, convenienza, differenza, contrarietà, bene e male in natura, conoscenza e verità, ignoranza e falsità, volontà e moto, amore, discorso, vaniloquio, parlare bene, parlare male, azione, avere e ricevere, bene, fortuna e male, bellezza, grandezza, esiguità, beatitudine e gloria, durata63. Queste nozioni, che costituiscono una sorta di topica la cui estensione va dalla filosofia, alla logica e all’etica – evocando anche lemmi appartenenti alla dialettica lulliana – possono essere ricercate, in maniera trasversale, all’interno di tutte le corti del secondo libro del De imaginum compositione: l’attributo della bellezza, ad esempio, può essere rintracciato nella «Corte di Venere e di Cupido»64; il principio tra i «Precedenti e circostanti di Giove, talari di Mercurio, astanti del Sole»65, ovvero tra le immagini di «Causa, Principio, Inizio, Intrapresa, Avvio, Via, Vestibolo, Limitare, Adito, Ingresso, Cominciamento, Incoazione, Elemento, Fondamento, Radice, Seme»66, tra quelle di «Paternità, Dominazione, Dittatura, Impero, Regno, Principato, Ducato, Presidenza, Governo, Moderazione, Potere, Redini»67, «Inizio, Esordio, Spiegamento di vele, Scioglimento di ormeggi, Adito, Limitare, Porta, Guado, Entrata, Soglia, Battenti, Cardine, ecc.»68, ed infine tra la folla di figure che circondano il Sole69. SiaCfr. Bruno, De imaginum compositione, pp. 800-1. Ibid., pp. 802-3: «Veneris et Cupidinis curia». 65 Ibid., pp. 800-1: «Sunt antecedentia Iovis et circumstantes, talaria Mercurii, adstantia Solis». 66 Ibid., pp. 668-9: «Procedunt ante Iovem Causa, Principium, Initium, Adorsio, Occeptio, Via, Vestibulum, Limes, Aditus, Ingressus, Ceptio, Inchoatio, Elementum, Fundamentum, Radix, Semen». 67 Ibid., pp. 670-1: «Secundo circumstant illum Paternitas, Dominatio, Dictatio, Imperium, Regnum, Principatus, Ducatus, Praesidentia, Gubernatio, Moderatio, Potestas, Habenae». 68 Ibid., p. 721: «Inceptio, Exordium, velorum Explicatio, orae Solutio, Aditus, Limes, Porta, Vadum, Ostium, Ianua, Fores, Cardo». 69 Cfr. ibid., pp. 742-5. 63 64
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mo di fronte alla piena esplosione dell’universo fantastico bruniano: ovunque vi sono segni e tutto è immagine, o, meglio, l’immagine è una sola, fluente, infinitamente composita, componibile, trasformabile, in modo da poter rappresentare qualsiasi significato; l’esercizio dell’arte della memoria ha dunque alla sua base proprio questo magma incessante di innumerevoli forme e configurazioni, che ne è, più che lo strumento operativo, il sostrato, il corpo vivo, la ‘sostanza’. La composizione delle immagini finisce così per identificarsi con il linguaggio stesso dell’interiorità, divenendo un codice privilegiato che può scandire e descrivere in forma ordinata tutto ciò che è possibile conoscere, collegandolo a quanto gli è affine, pertinente o perfino opposto, in virtù della forza evocativa dei tanti ed eterogenei legami simbolici: attingendo alle componenti semplici o articolate di ciascuna «corte», come da una massa primordiale di materiale iconico, può essere generato qualsiasi discorso, ragionamento o argomentazione. Molto più del complesso set di caratteri mobili delle praxeis del De umbris idearum o del primo libro del De imaginum compositione, il sistema delle dodici corti è un grande e ricco catalogo di simboli utilizzabili in molti contesti, che condensa la tipizzazione di altrettanti ambiti tematici – celati dietro i potenti archetipi delle divinità planetarie e mitologiche e le personalizzazioni allegoriche ad esse subordinate – a loro volta riconducibili ad un’ampia gamma di significati di natura filosofica, logica o morale: non è un caso, quindi, che molte di queste raffigurazioni siano presenti anche nel pantheon iconografico dello Spaccio de la bestia trionfante, nella Lampas triginta statuarum, nella Figuratio Aristotelici Physici auditus e in altri scritti bruniani. Di fronte a questa complicata e visionaria macchina mnemotecnica può, a ragione, sorgere il dubbio sulla sua effettiva efficacia, non solo nei termini retorici e dialettici prospettati da Bruno: già l’idea di praticare interiormente la visualizzazione fantastica come forma di sostegno al pensiero può sembrare del tutto impraticabile ad un lettore moderno, per il quale la visualità è qualcosa di esclusivamente esteriore e l’immaginario e la memoria sono dominati da una tecnologia massmediale e digitale che li hanno resi ormai di natura prevalentemente collettiva. Eppure tale atteggiamento mentale era patrimonio comune degli intellettuali del Medioevo e del Rinascimento e l’esercizio della memoria, anche attraverso tali tecniche, era parte consistente del loro percorso formativo. A ciò va aggiunto che il De imaginum compositione fu pubblicato in Germania, terra nella quale le mnemotecniche godevano di larga notorietà, come testimonia la diffusione dei numerosissimi trattati a stampa dei più celebri mnemonisti fin dalla
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fine del Quattrocento, in misura ancora più ampia nel Cinquecento e nel secolo successivo70. È dunque a un pubblico di esperti in tale disciplina che Bruno intende rivolgersi con un’opera che è per noi di così difficile lettura, evidentemente consapevole della forte tradizione mnemotecnica presente nelle università e negli ambienti culturali tedeschi, non certo minore di quella che, nei secoli precedenti e nelle stesse terre, aveva caratterizzato i conventi, soprattutto dell’ordine dei Domenicani. Ciò pone il problema di come i potenziali fruitori dell’ars memoriae bruniana avessero potuto interpretare la presenza in questo e negli altri suoi testi di così tanti e tanto ampi riferimenti filosofici: in realtà, portandosi nel punto di vista di un esperto di mnemotecnica che affronta la lettura e la pratica della composizione delle immagini, è proprio introiettando questi sistemi, facendo della propria interiorità un vivace laboratorio per la scrittura e la combinatoria fantastica, che si mettono in pratica, cioè si vivono in prima persona, i princìpi teorici alla base della «nolana filosofia». L’arte della memoria finisce dunque per essere, da strumento per valorizzare e rafforzare la memoria, il mezzo che conduce a una nuova consapevolezza di sé e del mondo, che è perfettamente in linea con la concezione della natura elaborata da Bruno e, a un piano più alto della riflessione teorica, ne è l’immediata espressione. La totale subordinazione della mnemotecnica alla filosofia bruniana è quindi il punto di partenza e di arrivo della lunga riflessione portata avanti in queste pagine; tuttavia, ciò non inficia il peculiare valore tecnico degli espedienti ideati per la memoria di cose e di parole: pertanto, per completare questa escursione nel tempio della memoria di Giordano Bruno, occorre dare sommariamente conto anche dei trenta sigilli raccolti nell’Explicatio triginta sigillorum e alla fine del De imaginum compositione, mostrando attraverso di essi gli schemi fondamentali e i paradigmi mnemotecnici che ricorrono negli scritti sull’ars memoriae. Si è già visto, nel capitolo precedente, quali sono le due componenti tecniche principali dell’arte bruniana: la reciproca inclusione dei luoghi, che crea un’architettura fantastica che è un unico segno, e l’animazione sistematica delle immagini, che conferisce un’universale vitalità compositiva ed espressiva a tutti i segni dell’interiorità. Entrambi gli aspetti vengono implementati, secondo varie modalità, negli espedienti bruniani, privilegiando talvolta l’uno o l’altro, oppure combinandoli sapientemente in soluzioni tecniche originali: un esempio di ciò, forse 70
Cfr. supra, pp. 132, nota 55, 145, nota 89.
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il più significativo, può essere colto nel subiectum adiectivum – che nella versione dei sigilli è chiamato «coltivatore» – una figura agente che, interagendo attivamente sia con la raffigurazione del luogo sia con quanto vi viene collocato, finisce per rafforzare non solo la visualizzazione di entrambi, ma anche il legame tra l’immagine e il contesto al quale essa è collegata71. Un altro degli elementi portanti della mnemotecnica bruniana è il concetto di «concatenazione visiva» al quale sono specificatamente dedicati il terzo e il quarto sigillo dell’Explicatio triginta sigillorum72 (il quinto ed il sesto nel De imaginum compositione)73, mentre già nella tredicesima intentio umbrarum del De umbris idearum se ne anticipa il principio operativo74: una concordia in qualche modo indissolubile congiunge gli estremi dei primi ai princìpi dei secondi, vincolando i talloni di quanti precedono alle teste di quelli che li seguono da vicino […]. Tale connessione stabilita per via di artificio ci consente di dare grande sollievo alla memoria, poiché essa può presentare alla memoria come serie ordinata anche quelle realtà che di per se stesse non manifestano alcuna relazione reciproca75.
La tecnica consiste nel legare un’immagine precedente con quella successiva attraverso un’azione comune – possibilmente della prima nei confronti della seconda –, in modo che il passaggio dall’una all’altra risulti visivamente senza soluzione di continuità, secondo l’esempio che mostra tale principio applicato ai segni delle costellazioni dello Zodiaco: «Impennandosi furioso, il capo del gregge / Colpisce con la fronte impetuosa il re dell’armento. / Spinto via dalla propria sede il vendicativo Toro dissennato / Aggredisce con furia inarrestabile i
Cfr. Id., Explicatio triginta sigillorum, pp. 54-5; 112-5; Id., De imaginum compositione, pp. 848-53. 72 Cfr. ibid., pp. 50-1; 102-7. 73 Cfr. ibid., pp. 832-41. 74 Cfr. Id., De umbris, pp. 60-3 75 Ibid., pp. 60-1: «quemadmodum indissolubilis concordia fines primorum connectit principiis secundorum et calcem eorum, quae antecedunt, capitibus eorum, quae proxime sequntur […]. Per hanc artificiosam connexionem magnum experiri possumus memoriae relevamen, quae valet etiam nullam ad invicem per se retinentia consequentiam memoriae ordinata presentare». 71
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fratelli Gemelli»76. Anche se tale modalità è già presente nella mnemotecnica tradizionale77, nel presentare questo sigillo Bruno riconosce il proprio debito nei confronti della dialettica lulliana, rivelando lo schema che è alla base di questo espediente mnemotecnico attraverso sequenze alfabetiche che si richiamano esplicitamente alle analoghe serie presenti nei testi di Lullo: «AB. BC. CD. DE. EF. FG. GH. HI. IK. KL»78. Da questa prima modalità organizzativa Bruno fa poi derivare anche il successivo sigillo, denominato «albero», che sovrappone tra loro più catene, secondo uno schema che da una sequenza principale e gerarchica (il ‘tronco’), fa diramare altre serie secondarie [fig. 23]: La parte centrale dell’albero consiste in quella catena che nello schema sopra proposto sale dalla A fino alla L e prende in esame, una dopo l’altra, le parti più importanti di un argomento; i rami dell’albero sono invece le riflessioni collaterali, in modo che ad ogni anello della catena principale siano connessi tutti gli anelli in quella quantità e misura tale da essere sufficienti ad esaurire la materia della considerazione79.
Da un punto di vista mnemotecnico ciò si traduce in una schematizzazione ‘ad albero’ del materiale da memorizzare, ovvero in un’articolazione gerarchizzata e ramificata degli argomenti: «se riunirai i concetti semplici per mezzo di quel criterio che li faccia germogliare come rami, rametti, fronde, fiori e frutti, non farà alcuna differenza se li penserai come una catena, ovvero come il tronco dell’albero»80. Un Ibid.: «Dux gregis armenti regem, sublatus in iram/ In geminosque pedes, impete fronte ferit./ Vindex, mente vacans, hinc Taurus concitus ictu/ Irruit in Geminos impaciente fratres»; cfr. Bruno, Explicatio triginta sigillorum, pp. 102-3; Id., De imaginum compositione, pp. 834-5. 77 Cfr. supra, pp. 173-4. 78 Id., Explicatio triginta sigillorum, pp. 50-1; cfr. Id., De imaginum compositione, pp. 834-7. 79 Ibid., pp. 106-7: «Dorsum arboris habetur ipsa cathena, ut in schemate ibi proposito ab A usque ad L facto conscensu, qui per praecipua materiae capita successive continueque discurrit; rami vero arboris sunt ipsae collaterales assumptiones, dum singulis praecipuae cathenae annulis hinc inde toties totque annuli connectuntur, quoties quotque ad implendam considerationis materiam sufficere possunt». 80 Ibid., pp. 50-1: «Si ea ratione simplices conceptus aggregaris, ut in ramos, ramusculos, frondes, flores fructusque repullulent, nihil prorsus interesse videtur, si uti cathenam sive uti arboris stipitem conceperis». 76
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23. Bruno, Philothei Iordani Bruni Recens et completa ars reminiscendi et in phantastico campo exarandi…., in Iordani Bruni Nolani Opera Latine conscripta, II, 2, p. 81.
principio di organizzazione che non solo ricorda molti testi di retorica e dialettica cinquecenteschi – soprattutto quelli che seguono il metodo di Pietro Ramo –, ma che Bruno riconosce anch’esso di diretta ascendenza lulliana, riferendolo all’Arbor scientiae, seppure egli dichiari di averne migliorato l’efficacia e, soprattutto, averne trasferito la forza logica a qualsiasi tipo di ‘materiale’, non ultimo passando proprio attraverso le immagini mnemoniche81. Ulteriori applicazioni e sviluppi del principio della catena consistono nei sigilli chiamati «selva» – ovvero l’unione di più schemi ad albero – e «innestatore», che insegnano a mescolare assieme catene ed alberi; la sua evoluzione ultima è quindi la «scala», un altro modo di legare insieme sequenze lineari e gerarchie, in cui, tuttavia, prevale l’aspetto gerarchico (le serie servono per «percorrere» «ascensivamente» o «discensivamente» la scala)82 [fig. 24]. Tutti questi sistemi sono accomunati da uno schema di fondo che, come si è visto, è di impronta combinatoria e si ispirano direttamente agli scritti di Lullo: a questi si rifanno anche gli espedienti detti «a base circolare» – che moltiplicano o suddividono gli argomenti o le imma-
Cfr. Id., De imaginum compositione, pp. 840-1: «Differt ab illa arbor nostra, quia haec solida est, illa plana, nempe sicut pyramis differt a triangulo, corpus a superficie. Ideo illa promit inventionis viam per altum et latum, haec vero etiam per multiplex profundum». 82 Cfr. Id., Explicatio triginta sigillorum, pp. 52-5; 108-13. 81
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24.-25. Bruno, Philothei Iordani Bruni Recens et completa ars reminiscendi et in phantastico campo exarandi…, in Iordani Bruni Nolani Opera Latine conscripta, II, 2, pp. 82 e 88
gini a due a due – e «a base quadrata» (che hanno come riferimento il numero quattro)83 [fig. 25]. Diversamente da questi sigilli, che privilegiano l’aspetto organizzativo del materiale mnemonico/fantastico – dunque sia prima, che dopo la sua trasformazione in immagini –, vi è poi un’altra tipologia di stru83
Cfr. ibid., pp. 62-3; 134-5; Id., De imaginum compositione, pp. 840-3.
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menti mnemotecnici, basata soprattutto sull’animazione delle figure. È il caso del «personaggio», del «pellegrino», della «ruota del vasaio», del «medico empirico», del «dado», di «Gorgia» e di tutti quelli che, nel De imaginum compositione, si riferiscono a particolari discipline («il nomenclatore», «la storia», «la legge», «la fisica», «il geometra»84). La loro versatilità raffigurativa e la forte espressività rimandano al precetto fondamentale, sancito nei sigilli «Zeusi» e «Fidia» attraverso la formula «tutte le cose possono essere raffigurate per mezzo di tutte le altre»85, che a sua volta ripropone ed estende all’arte della memoria il principio teorico che la natura fa tutto da tutte le cose: Dicsono Voi mi scuoprite qualche modo verisimile con il quale si potrebe mantener l’opinion d’Anaxagora, che voleva ogni cosa essere in ogni cosa: perché essendo il spirto o anima o forma universale in tutte le cose, da tutto si può produr tutto. Teofilo Non dico verisimile, ma vero: perché quel spirto si trova in tutte le cose, le quali se non sono animali, sono animate; se non sono secondo l’atto sensibili d’animalità e vita, son però secondo il principio e certo atto primo d’animalità e vita86.
Partendo da questa idea di diffusione vitale ed animazione universale del principio formatore, l’immagine è chiamata, nella dimensione fantastica, ad attingere a tale potenza primaria e farsi così portatrice e ‘generatrice’ della maggiore quantità possibile di informazioni, rese segno sia per la sua relazione con altre figure, sia in virtù del suo passaggio all’interno degli spazi mnemonici. Il modello di questo atteggiamento può essere appreso nel sigillo del «personaggio» (chiamato anche propagator): Visualizzavo cinque atrii, dal primo dei quali partiva un uomo, nel secondo sceglieva uno tra molti oggetti da porre sul capo, nel terzo uno tra gli indu-
Cfr. ibid., pp. 862-5. Cfr. Id., Explicatio triginta sigillorum, pp. 124-6: «Hic locus est adducendi principii artis figurativae, in qua illud praeaccipiendum est, quod omnia per omnia possunt figurari: cogitatio enim naturalis virtus est, quae matris naturae vestigia facile consequitur, si diligentiae auribus vocem eius intimius adclamantis exhaudiat. Tunc enim phantasia omnia in omnibus fingere et imaginatio omnia ex omnibus concipere valebit». 86 Id., De la causa, p. 219. 84 85
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menti per il corpo, nel quarto assumeva su di sé una particolare azione, nel quinto affrontava una tra molte situazioni, nel sesto indicava un uomo tra i molti addetti ad assisterlo, nel settimo sceglieva un bambino, una donna o un animale per intervenire in qualche modo nell’azione87.
Questo tipo di operazione mnemonica si compie aggregando simboli intorno ad una figura principale – che è la protagonista dell’intera rappresentazione – e può essere utilizzata per vari scopi, dalla memoria verborum (se le cose e gli strumenti che usa hanno il valore di lettere)88 alla raffigurazione di cifre numeriche89, e, più in generale, può significare qualsiasi contenuto, dato che il passaggio della figura agente possono essere messi in relazione con varie tipologie di materiale mnemonico. Nel caso del «pellegrino», che si è visto in riferimento alle «arti brevi» che chiudono il De umbris idearum, è la sequenza dei ‘personaggi’ a produrre sia la simbolizzazione dei contenuti, sia la loro ordinata strutturazione; parimenti, per il «medico empirico»90 o il «dado»91, uno o più figure agenti, assegnate a luoghi peculiari oppure vaganti all’interno di specifiche gallerie di spazi, grazie alla loro interazione con le immagini presenti intorno a loro o con altre che possono essere aggiunte per esprimere ulteriori significati, raffigureranno attivamente anche materiali mnemonici di notevole complessità. Il massimo sviluppo di tale atteggiamento può essere colto nel sigillo «Gorgia», il quale mette in scena un campo di battaglia in cui le diverse opinioni intorno ad un argomento si scontrano e si affrontano sotto forma di combattenti, eserciti e armi, dando luogo all’animata rappresentazione di una disputa dialettica:
Id., Explicatio triginta sigillorum, pp. 58-9: «Inspexi atria quinque, de quorum primo prodibat homo, qui in secundo de capiti adaptabilibus unum eligebat de pluribus, in tertio de indumentis corporis unum, in quarto determinatam sibi perscribebat operationem, in quinto certum de pluribus casum perpetiebatur, in sexto quemdam de multis adsistentibus hominem determinabat, in septimo puerum, foeminam vel brutum ad opus quoquo pacto concurrens sortiebatur». 88 Cfr. Id., De imaginum compositione, pp. 842-5; come si è ormai ben visto, in realtà, tutti gli espedienti bruniani per la memoria verborum adottano soluzioni ispirate a questo principio mnemotecnico. 89 Cfr. ibid., pp. 812-7. 90 Cfr. Id., Explicatio triginta sigillorum, pp. 70-1; 142-3. 91 Cfr. ibid., pp. 72-3; 144-5. 87
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Ogniqualvolta in verità il medesimo lanciatore scagliava i dardi degli argomenti contro le molteplici e diverse torri della verità, era utile guardare non tanto l’ordine delle torri da espugnare, quanto quello degli arieti impegnati nell’assalto e dei dardi che stavano volando. Mi assicuravo inoltre che in uno stesso campo i provetti lanciatori si susseguissero nei propri lanci, in ordine uno dietro l’altro, mirando ora contro questo ora contro quel bersaglio92.
Un ulteriore aspetto operativo che ricorre spesso nella mnemotecnica bruniana emerge dall’immagine del «vessillo» presente nel corrispondente sigillo e in altri simili: dove si insegna a creare visivamente un legame, anche di carattere gerarchico, tra più immagini. Una di esse esprime infatti il concetto principale – dunque è ‘portatrice’ del vessillo –, mentre le altre le vengono riferite, in serie o secondo vari gradi di subordinazione logica: «lo chiamiamo vessillo perché, secondo l’esigenza della parola o della cosa, potrai comprendere e destinare molti o pochi, più o meno, personaggi a rappresentare una medesima cosa»93. A questo proposito è interessante notare che il valore associativo che accomuna più immagini rispetto al medesimo significato – costituendo quasi una forzatura al veto bruniano nei confronti dei sinonimi – è teoricamente fatto dipendere dalla medesima idea di universalità naturale che giustifica anche l’animazione e la trasformazione delle immagini, sancita nel «pittore», ovvero il sigillo che segue immediatamente il «vessillo», ed esplicitata filosoficamente nel passo del De la causa, principio, et uno esaminato sopra: Di qui risulta come tutti i prìncipi della natura e nella natura riconoscano in tutte le cose dei propri e particolari soldati, e questi a loro volta ne riconoscano altri ancora e in numero maggiore; per cui è da tale sovrabbondare che si definiscono i veri signori. Ciò lo intuì ottimamente Anassagora94.
Cfr. ibid., pp. 74-5: «Quandoque vero ubi iaculator idem in plures diversasque veritatis turres argumentorum tela intorqueret, iuvabat non in oppugnandorum castrorum, sed impetentium arietum et volitantium iaculorum ordinem respicere. Curabam ut in eodem campo ordinate sui ictus suos sequerentur nunc in istud, nunc vero in illud collineantes iaculatores». Cfr. ibid., pp. 144-5. 93 Ibid., pp. 56-7: «Ideo vexillum dicimus, quia pro exigentia vocis aut rei ad idem referendum multos paucosve, plures paucioresve valebis intelligere atque destinare». 94 Ibid., pp. 118-9: «Hinc apertum est, quod omnes naturae et in natura duces in omnibus sibi definitos milites agnoscunt, quorum alii alibi magis proprios, explicatos 92
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Come si è visto sia nei capitoli iniziali sia nelle pagine precedenti di questo capitolo, l’unità e la vitalità della sostanza sono garanzia della comunicazione di ogni cosa con tutte le altre, dando forma ad un cosmo, infinito e vivente, che è l’ente sommo e l’atto primario e assoluto della produzione divina95; da tale paradigma teorico derivano dunque anche il principio per la composizione e la trasformazione delle immagini e, più in generale, gli schematismi logici sottesi all’attività del pensiero. L’ambiguo timore nei confronti della sinonimia può quindi essere definitivamente disinnescato se ci si volge, ben oltre la superficie delle cose, alla loro radice essenziale: poiché lì regna l’unità indistinta e l’identità di quanto sul «dorso» è differente, è dunque la natura stessa che, nel frammentato orizzonte dell’esperienza, ci orienta a cercare l’unità nella molteplicità96. Un atteggiamento che richiama la tensione dell’uomo tra ombra della morte e ombra della luce che è al centro della teoria delle ombre delle idee e che trova, nel Sigillus sigillorum, una più chiara definizione in senso epistemologico e metodologico, ribadendo proprio l’importanza di organizzare la conoscenza e i concetti elaborati da essa avendo come paradigma l’unità, la quale non è uniformazione del diverso, ma organizzazione, tessitura di una rete di relazioni, semanticamente coerente – nella quale ogni termine trova la propria ed univoca collocazione – e creativamente generativa, ovvero aperta ad essere integrata con quanto ancora (infinitamente) possiamo conoscere97. L’evoluzione del sigillo del «vessillo» conduce pertanto al prevalere, nella gestione delle relazioni tra le immagini, di una prospettiva ancora più gerarchica, quale viene espressa dal «centurione»: Mi radunavo mentalmente i Nolani nella prima centuria, i Napoletani nella seconda, i Capuani nella terza e i Salernitani nella quarta; poi nella prima decina di ciascuna centuria vedevo radunarsi gli amici, nella seconda i fratelli (veri o immaginari), nella terza i consiglieri, nella quarta i servi, nella quinta i bambini, nella sesta i governatori, nella settima i docenti, nell’ottava gli oratori, nella nona gli avversari, nella decima i compagni di studio98.
atque plures agnoscant; unde fit ut ex superabundante domini peculiares habeantur. Id optime persensit Anaxagoras». 95 Cfr. supra, pp. 55-62. 96 Cfr. supra, pp. 93-104. 97 Cfr. supra, pp. 104-14. 98 Id., Explicatio triginta sigillorum, pp. 62-3: «Nolani primam, Partenopaei secundam, tertiam Capuani, Salernitani quartam mihi centuriam conflavere, dum in
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Una struttura e un ordine che poggiano unicamente sul valore delle relazioni visive e simboliche intrattenute dalle immagini e che possono essere distesi su più livelli di reciproca inclusione, garantendo, di fatto, quella rete di riferimenti che, solitamente, viene conferita ai luoghi; la cosa non può più stupirci, oramai, viste le ripetute considerazioni fatte sulla specularità di luoghi e di immagini e sulla loro definitiva e piena identificazione funzionale, assicurata dallo sfondo teorico che assimila i parametri operativi e cognitivi del piano fantastico ai princìpi metafisici che animano l’orizzonte naturale. Come si è potuto cogliere da questo excursus attraverso i sigilli bruniani presenti nell’omonimo testo e alla fine del De imaginum compositione, essi non consistono in altro che nell’ implementazione di alcune modalità operative che sono alla base della versione più difficile e pregnante della mnemotecnica bruniana, quella che compone e trasforma le immagini interiori gestendo e generando attraverso di esse i significati corrispondenti. Le fondamenta teoriche di tale arte sono ormai chiarissime: così come la natura è unica, organicamente unita e infinitamente mutevole, altrettanto unitario, strutturato e palpitante di trasformazioni deve essere il mondo della fantasia mnemonica. A ciò si salda poi la teoria del primato gnoseologico della proiezione fantastica, quale corrispondente ‘materiale’ dell’atteggiamento inventivo e ‘formatore’ proprio dell’attività intellettuale, la quale, in particolare, si consegna definitivamente ad un paradigma pitagorico/lulliano (per l’idea della composizione combinatoria di elementi unitari) quando, nell’ultima fase di sviluppo del pensiero di Bruno, diviene sempre più centrale il tema del minimo quale espressione reale e puntuale, sul piano metafisico, fisico e mentale, della monade divina. Per ultimo, e tuttavia con un valore teorico primario, va riconosciuto che a determinare profondamente la definizione dell’arte della memoria bruniana, è la ‘rivelazione’ filosofica della completa identità di natura e uomo, della totale subordinazione ontologica dell’umano ad un orizzonte naturale infinito del quale egli è parte integrante ma attiva, nel gioco dell’incessante vicissitudine universale. L’alta dignitas dell’uomo non dipende, staticamente, da un privilegio ontologico, ma è fondata sulla specificità della sua complessione fisica, la quale è espressa, non a primam de singulis centuriis decadem perceptos amicos, in secundam imaginatos verosve fratres, in tertiam consiliarios, in quartam servos, in quintam pueros, in sextam gubernatores, in septimam doctores, in octavam concionatores, in nonam adversarios, in decimam condiscipulos convenire conciperem».
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caso, dalla mano, ossia dalla sua attitudine inventiva e produttiva; essa è dunque una ‘conquista’, dinamica e dialettica: l’esistenza e, ancora di più, l’essenza dell’uomo si fondano sulla praxis che si alimenta di consapevolezza filosofica, creatività intellettuale – sostenuta e rafforzata dall’ars memoriae – e azione civile (la cui arte peculiare è la «magia» dei «vincoli»), le quali, a loro volta, si rafforzano e nutrono vicendevolmente, dando compimento a quella che è l’humanitas e, attraverso di ciò, contribuendo a rendere ancora più completa e una la natura99.
Cfr. M. Matteoli, Uomo, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, II, ad v.; Id., Umanità, ibid., II, ad v. 99
Conclusioni
Nel corso di questo lavoro si è cercato di mostrare in che cosa consista, e quale funzione svolga all’interno della «nolana filosofia», l’arte della memoria di Giordano Bruno. Si è visto che l’adozione di tale tecnica prevede l’utilizzo di espedienti studiati non solo per rafforzare la memoria, ma anche per organizzare il materiale mnemonico e rielaborarlo in senso produttivo, dando vita a nuovi significati a partire da quanto già si è appreso: e questo avviene peculiarmente per mezzo di immagini e all’interno di scenari mnemotecnici. È in vista di ciò che Bruno sottopone la tradizionale arte della memoria ad una riorganizzazione delle sue principali componenti, ossia i luoghi e le immagini. Tale operazione prende le mosse dall’innesto nella mnemotecnica di origine classica e medievale – già potenziata in senso enciclopedico dagli sviluppi quattro-cinquecenteschi – dei principi e delle operazioni dell’arte combinatoria di Lullo, trasferendone la forza dialettica all’arte della memoria. In particolare, Bruno rafforza la caratteristica organizzativa dei luoghi, agendo sulle modalità secondo cui questi sono messi in relazione con il materiale mnemonico e subordinando la strutturazione dei percorsi locali a quella delle informazioni: in tal modo ribalta il modus operandi tradizionale e fa sì che i luoghi, per mezzo della loro reciproca inclusione, simboleggino i rapporti logici che sottostanno ai dati memorizzati. Specularmente a ciò, per approssimare ancora di più il piano della rappresentazione visuale alla dinamicità organica dei fenomeni dell’esperienza, viene anche riorganizzato completamente il modo di realizzare e gestire le immagini, portandone al massimo delle potenzialità espressive sia la formazione – rafforzandone di conseguenza l’impatto emotivo –, sia l’animazione e la mobilità all’interno dei luoghi, finendo per vincolare reciprocamente e fondere sempre di più i due livelli (addirittura introducendo la possibilità di invertire tra loro le rispettive funzioni) e configurando un universo interiore mnemonico/fantastico in cui tutto ciò che viene rappresentato visivamente è segno vivo e vitale di corrispondenti contenuti mentali1. 1
Si è osservato in precedenza come il fatto che i luoghi della mnemotecnica tradi-
268 Nel tempio di Mnemosine
Queste rilevanti innovazioni tecniche rispondono all’esigenza teorica di rendere l’arte della memoria sempre più simile all’operare naturale, sia per soddisfare il principio della retorica classica e poi rinascimentale per cui l’arte si configura come imitatio naturae, sia e soprattutto per assecondare una precisa idea della natura che, come si è più volte ribadito nel corso del testo, è il cuore della «nolana filosofia». Teoria e praxis sono, nella prospettiva bruniana, inscindibili: l’uomo è parte della natura, ne è un effetto e ne è una funzione; la natura si esprime e si attua attraverso la sua stessa azione produttiva, che è il modo in cui il principio trascendente si realizza e manifesta, ovvero come l’Uno diviene sostanza e, necessariamente, ente, infine molteplicità. L’universo naturale è quindi atto della Monade, così come l’uomo è atto della natura; conseguentemente il principio formale che agisce all’interno della natura è il medesimo che genera l’uomo – e così per tutte le altre creature –, che lo anima e, intimamente, ne sostiene il pensiero; all’ultimo grado di questo percorso vi sono dunque l’intelletto e la conoscenza, intesi come espressione interiore della forza creativa naturale e sono rivolti verso la natura stessa, che ne costituisce l’esclusivo termine di confronto. Il pensare è infatti doppiamente vincolato alla natura: essa si esprime nell’intimo dell’animo umano, che è radicato nel principio formale/attivo che anima tutte le cose; in secondo luogo la natura è l’esclusivo oggetto della sua conoscenza, poiché l’uomo apprende ogni cosa a partire dall’esperienza. Così dunque, come ogni ente si caratterizza per l’unione della forma con la materia, ugualmente anche il pensare si manifesta come una azione attiva e generatrice che ha per ‘sostrato’ il sensibile e la sua proiezione fantastica: l’arte della memoria funge quindi da tramite e mediazione tra questi due estremi, aiutando a mettere tutta la vitalità, la forza produttiva dell’anima mundi – che è, lo ribadiamo, la più intima radice del pensare, l’essenza dell’uomo stesso – a contatto con gli enti del mondo, resi immagini zionale fossero ricordi naturali di luoghi familiari – dunque ‘memorie’ e non ‘reminiscenze’, secondo la distinzione aristotelica –, li rendesse il necessario innesco per il processo di rimemorazione ‘artificiale’. È una prerogativa che, indubbiamente, nella prospettiva bruniana viene meno, essendo la loro figurazione totalmente affidata al «puro architetto della fantasia»: è dunque anche per questo motivo che Bruno investe così tante energie nell’insegnare ad animare sia i luoghi che le immagini, per rendere tutte le figurazioni fantastiche di maggior impatto emotivo possibile, in modo da colmare quella minore memorabilità – non più supportata dalla familiarità dei luoghi – con altre forze psicologiche e competenze cognitive proprie dell’attività mnemonica.
269 Conclusioni
nella fantasia e tradotti poi nel materiale semantico dal quale si produce la conoscenza. Alla luce delle considerazioni fatte, è dunque lecito definire l’arte della memoria come lo strumento principe del pensare bruniano, il «metodo dei metodi», la via più efficace per organizzare ed elaborare la conoscenza. Questo non significa, naturalmente, che l’intera vicenda speculativa di Bruno si risolva nell’arte della memoria o che la mnemotecnica pervada invasivamente ogni aspetto della sua produzione; anzi, è piuttosto il contrario: una volta colto il senso ultimo dell’ars memoriae, si può meglio comprendere che quando Bruno scrive i suoi trattati di mnemotecnica (o quelli in cui tale veste tecnica è rilevante), affrontando una riflessione che è essenzialmente dialettica, egli cerca, in realtà, di veicolare attraverso di essi la propria concezione della natura. E ciò, a ben vedere, vale per ogni scritto bruniano, sia che esso tratti di lullismo, geometria, magia, poesia o teatro: la protagonista, l’oggetto ultimo della trattazione è sempre la sua filosofia, imperniata su una nuova definizione dell’universo naturale e, di conseguenza, del ruolo dell’uomo all’interno di un quadro che ne ridisegna le coordinate fondamentali, ricollocandolo in una nuova prospettiva postcristiana, postumanista e affatto antropocentrica. I testi sull’arte della memoria sono pertanto solo parti del composito quadro attraverso cui viene rappresentata la «nolana filosofia», forse quelle che hanno una forma più suggestiva, senz’altro tra le più complesse: eppure per Bruno l’uso creativo dell’immaginazione non è solo un espediente retorico per esporre in maniera simbolica il proprio pensiero, ma fa parte della sua stessa forma mentis, costituisce un punto di passaggio necessario e ineludibile per l’attività speculativa, non potendo concepire egli – nell’esasperazione del principio aristotelico – un pensare senza immagini. Tale aspetto è a tal punto dominante nella sua produzione che risulta decisivo saper legger i testi andando oltre il velo ‘umbratile’ dei riferimenti immediati, che sono «simboli», «figurazioni», «tracce» e «impronte» di un’essenzialità teorica ad essi sottesa; le immagini, le imprese, le rappresentazioni allegoriche, le brillanti e complesse messinscene, la teatralità dei dialoghi, la ricchezza e la varietà delle descrizioni, il sovrapporsi degli stili, infine il linguaggio esplosivo e ridondante, sono dunque tutti aspetti ed effetti di questa idea della creatività fantastica, inscindibile dalla persona stessa di Bruno, dalla sua mente: i quali, se non vengono correttamente tenuti in conto, rischiano di spingere il lettore a confondere il ‘volto’ dell’opera con il suo contenuto, gettandolo in una sterile prospettiva interpretativa che non è molto dissimile da quella che Bruno stesso stigmatizzava negli eruditi e pedanti del suo
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tempo. Certo, come si è osservato in precedenza, è difficile cogliere oggi il senso e l’importanza di una tecnica completamente caduta in disuso, che apparteneva non solo al curriculum formativo e alla cultura del passato, ma caratterizzava un modo di concepire la memoria stessa che ora è del tutto estraneo alla sensibilità contemporanea, perfino alla nostra psicologia e all’idea della mente che la scienza moderna ha elaborato. Non era così, invece, ai tempi di Bruno, quando le arti per memorizzare erano insegnate in tutte le scuole, nelle università, negli istituti religiosi e servivano ai retori, ai predicatori, agli avvocati, ai notai, agli storici, ai medici, perfino agli uomini di governo; erano insomma parte del bagaglio culturale delle élites intellettuali e di potere. Non dimentichiamoci poi che in tutte le tappe della sua lunga e faticosa peregrinatio Bruno, dotato di una straordinaria capacità mnemonica, affiancò, all’attività di professore di filosofia nelle università frequentate, anche quella di maestro di arte della memoria: lo rivelano, oltre alle varie opere pubblicate, le testimonianze processuali in merito al soggiorno francese – durante il quale diede dimostrazione a Enrico III della sua arte –, le amicizie e le frequentazioni inglesi (prime fra tutte John Florio, autore fecondissimo, dalla ricchezza linguistica non certo inferiore a quella di Bruno)2, le dichiarazioni dei suoi stessi allievi; perfino le tristi circostanze che lo portarono all’arresto sono legate alla sua attività di mnemonista e cultore delle tecniche magiche. Quello dell’attività di insegnante di arte della memoria è del resto un aspetto che resta da investigare e che merita di essere approfondito, non solo per arricchire di ulteriori informazioni la biografia del Nolano. Ancor di più, sarebbe interessante indagare quale fu, tra la fine del Cinquecento e la prima metà del secolo successivo, il grado di penetrazione e ricezione delle innovazioni tecniche di Bruno nella trattatistica mnemotecnica, considerando che nella continua fioritura di quel genere per tutto il Seicento, essa andò declinandosi accentuando in maniera peculiare proprio gli aspetti dialettici ed enciclopedici. A questo proposito è utile fare riferimento a due vicende particolarmente esemplificative della presenza dell’arte della memoria di Bruno all’interno del tessuto culturale del proprio tempo. Il primo riguarda gli anni del soggiorno inglese e verte intorno alla polemica tra Cfr. F.A. Yates, John Florio. The life of an Italian in Shakespeare’s England, Cambridge 1934; M. Wyatt, The Italian Encounter with Tudor England. A Cultural Politics of Translation, Cambridge 2005; D. Pirillo, Filosofia ed eresia nell’Inghilterra del tardo Cinquecento. Bruno, Sidney e i dissidenti religiosi italiani, Roma 2010. 2
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Alexander Dicson – amico e ‘allievo’ di Bruno – e William Perkins, teologo e predicatore puritano: lo scontro tra i due, analizzato per la prima volta da Frances Yates3, ebbe come motivo di partenza la pubblicazione, da parte di Dicson, di un testo intitolato De umbra rationis et iudicis, sive de memoriae virtute Prosopopoeia (1583), nel quale si presentava una versione dell’arte della memoria ispirata a quelle del De umbris idearum e del Cantus Circaeus; la tecnica lì esposta, assieme alla temperie ermetizzante che introduceva il testo, vengono duramente criticate da William Perkins, nel 1584, con il Libellus de memoria verissimaque bene recordandi e con il più esplicito Admonitiuncula ad Alexandro Dicsono de artificiosae memoriae, quam publicae profitetur, vanitate. In questi due scritti il teologo e predicatore puritano contrappone, alla mnemotecnica di stampo tradizionale, la dialettica di Pietro Ramo, che proprio per il suo efficiente modo di organizzare la conoscenza, rende implicitamente inutile l’arte delle immagini e dei luoghi, superata da questo nuovo paradigma metodologico. Di fronte alle critiche di Perkins, Dicson ribadisce le proprie posizioni, sempre nel 1584, con lo scritto Heii Scepsii Defensio pro Alexandro Dicsono Arelio adversus quendam G.P. Cantabrigiensis, al quale Perkins risponde immediatamente con altri due testi: l’Antidicsonus cuiusdam Cantabrigiensis G.P. e il Libellus in quo dilucide explicatur impia Dicsoni artificiosa memoria et scientia. È in questi libri che emerge esplicitamente la figura di Giordano Bruno, evocato come uno dei cultori della lunga tradizione della mnemotecnica medievale e rinascimentale e, soprattutto, riconosciuto come il vero autore – o per lo meno come la fonte ispiratrice principale, se non esclusiva – della tecnica presentata da Dicson. Nello spiegare criticamente il sistema di Dicson, Perkins cita il De umbris idearum e il Cantus Circaeus – riletto nella versione dell’Ars reminiscendi che apre la silloge dei trenta sigilli – e, in modo ancora più particolare, l’Explicatio triginta sigillorum: vengono così esposte e commentate le definizioni bruniane di luogo e di immagine, viene dato conto dei sistemi per la memoria verborum – attraverso descrizioni ancora più particolareggiate rispetto alle versioni fornite da Dicson – e si illustra un espediente per la memoria dei numeri – che Perkins dichiara di Cfr. Yates, L’arte della memoria, pp. 247-65; M. Ruisi, Note sulla disputa tra Alexander Dicson e William Perkins, «Nouvelles de la République des Lettres», 18/2, 1998, pp. 109-38; L. Brotto, Dicson, Alexander, in Giordano Bruno. Parole, concetti, immagini, I, ad v.; L. Carotti, Perkins, William, ibid., II, ad v. 3
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sua invenzione – che riprende in maniera fin troppo suggestivamente (o forse provocatoriamente) simile il metodo che Bruno propone nei sigilli, addirittura secondo la variante presente in calce al De imaginum compositione. Tutto ciò testimonia che Perkins, mentre attacca Dicson, ha sotto i suoi occhi materiale bruniano: non solo i suoi scritti sull’arte della memoria, pubblicati in Francia e in Inghilterra, ma forse anche appunti presi dagli uditori di lezioni tenute da Bruno ad Oxford, oppure a Londra e destinate a quegli intellettuali con i quali il Nolano era in contatto presso l’ambasciata francese. L’altro esempio riguarda la fortuna della mnemotecnica bruniana in Germania: tra il 1587 e il 1591, oltre al ciclo dei poemi francofortesi, vengono dati alle stampe il De imaginum compositione, il De lampade combinatoria Lulliana e il De lampade venatoria logicorum, il Camoeracensis acrotismus, gli Articuli adversus mathematicos. Si tratta di testi in cui questioni filosofiche e metodologiche sono strettamente intrecciate e ciò è pienamente in linea con la consolidata tradizione dialettica, enciclopedica e mnemotecnica propria di quell’area culturale che, nel diciassettesimo secolo, andrà sempre più consolidandosi, sovrapponendo all’ars memoriae le istanze del ramismo e del lullismo4. Tra i numerosi rappresentanti di tale corrente si segnala Lambert Schenckel, retore e mnemonista di origine olandese, autore di un importante trattato di arte della memoria che ebbe notevole diffusione nei primi decenni del diciassettesimo secolo: il Gazophylacium artis memoriae5. In questo scritto Schenckel ripercorre tutta la tradizione mnemotecnica precedente, riprendendo Pietro da Ravenna, Giacomo Publicio, Romberch, ma anche mnemonisti oggi meno noti, ma allora molto conosciuti, come Johannes Magirus, Girolamo Marafioto e Johann Spangenberg. Un autore che non viene citato esplicitamente, e che pure è presente nel testo, è Giordano Bruno: ce ne dà conferma un allievo e seguace dello Schenckel, Jan Paëpp, che nel commentare il testo del maestro, nell’Eisagoge seu introductio facilis in praxim artificiosae memoriae, aggiunge anche Bruno alla lunga lista degli autori di trattati mnemotecnici ai quali il Gazophylacium e altri scritti di Schenckel si ispirano6. Cfr. Rossi, Clavis universalis, pp. 179-99; C. Vasoli, L’enciclopedismo nel Seicento, Napoli 2005. 5 L. Schenckel, Gazophylacium Artis Memoriae, Strasburgo 1610. 6 J. Paëpp, Eisagoge seu introductio facilis in praxim artificiosae memoriae, Lione, apud Bartholomaeum Vincentium, 1618, p. 1: «quot enim ab Aristotele, Cicerone, 4
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I due episodi mostrano come l’arte della memoria di Bruno, seppur talvolta valutata negativamente, fosse considerata parte integrante di un humus culturale comune ai cultori di mnemotecnica del sedicesimo e del diciassettesimo secolo; il riconoscimento di una presenza che tuttavia appariva ai lettori e agli interpreti dell’ars bruniana slegata dalle implicazioni teoriche e filosofiche cui essa è invece profondamente connessa, risultando di conseguenza incompleta e, in fondo, incompresa: vi sono pertanto questioni da risolvere anche in questa direzione, vi è lo spazio per continuare a ragionare sui temi affrontati in questo lavoro e ciò costituisce, forse, il modo migliore per concluderlo.
Quintilliano, D. Thoma, Tritemio, Lullio, Gratuloro, Ravennate, Spangenbergio, Marafioto, Sennecto, Sebaldo Smariguso, Ioanne Romberch, Gregorio Reisch, Nicolao Simonis ex Vveydam, Iordano Bruno; Paulo Rossello, Conrado Celte, Melchiore Iunio, Hieronymo Teutlero, Adamo Bruxio, Kekermanno, Ioanne Alstedio in diversis operibus, Schenckelio, caeterisque conscripta sunt praecepta, et tamen quam pauci ipsius artis secretiora penetrarunt». Cfr. Rossi, Clavis universalis, pp. 124-5; Yates, L’arte della memoria, pp. 278-9.
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Indice dei nomi
Agostino d’Ippona, 166 Agricola Rodolfo, 126 n. Agrippa Cornelio von Nettesheim, 96 n. Alberto Magno, 64 n. Aloisio Miriam, 141 n. Alsted Johann Heinrich , 273 n. Ambrogio Aurelio (Santo), 185 e n. Anassagora, 106 e n., 239, 240 n., 260, 262, 263 n. Angelini Annarita, 25 Apollo, 101, 170 e n., 179, 250 Archimede, 233 Archita di Taranto, 234 Aristotele, 43, 64 n., 67 n., 73, 74 n., 76 n., 118 n., 119, 120 n., 121 n., 128 n., 131, 139, 152 n., 166, 205, 272 n. Arrighetti Mauro, 143 n. Atanasijevic Ksenija, 244 n. Avicenna, 64 n., 66 n., 131 Bade Josse, 133 n., 134 n., 135 e n. Bassi Simonetta, 25, 31 n., 64 n., 88 n., 99 n. Beecher Donald A., 23 n. Benedetti Platone, 130 e n. Blum Michael, 140 n. Bolzoni Lina, 18 e n., 23 n., 118 n., 124 n., 142 n. Bonner Antony, 226 n. Bourrilly Victor-Louis, 133 n. Brotto Luisa, 271 n. Bruxius Adam, 273 n. Cambi Maurizio, 56 n., 109 n., 111 n.
Camillo Giulio, 14, 24, 142 e n., 143 n. Cancelli Filippo, 121 n. Cancer Mattia, 141 n. Canone Eugenio, 88 n., 96 n. Carannante Salvatore, 40 n., 47 n., 59 n., 60 n., 71 n., 102 n. Carotti Laura, 25, 81 n., 271 n. Carpani Domenico, 130 e n. Carrara Giovanni Michele Alberto, 130 e n., 131 e n., 165, 174,195, 197 Carruthers Mary, 23 n., 118 n., 124 n., 127 n., 152 n., 174 n., 196 n. Cassirer Ernst, 12 e n., 13 n., 14 n. Castiglione Baldassarre, 133 n. Celtis Conrad (Pickel Konrad), 126 e n., 132 e n., 134, 155 n., 159, 165, 169, 273 n. Chappuis Nicolas, 135 n. Choris Bernardinus de, 126 n. Cicerone Marco Tullio, 23, 119 e n., 121 e n., 125, 126 n., 133 n., 147 e n., 148 e n., 152 n., 155 n., 158, 166, 176 n., 191, 272 n. Ciliberto Michele, 19 e n., 20 n., 25, 31 n., 32 n., 79 n., 88 n., 91 n., 202 n., 227 n., 233 n., 235 n. Circe, 30, 31, 189, 220, 223, 224, 236, 239 Citolini Alessandro, 24 Cleostrato, 234 Clericuzio Antonio, 118 n. Colin Jacques, 23, 133-5, 160-3 Corsi Pietro, 18 e n.
284 Indice dei nomi
Cupido, 100, 250, 253 Cusano Niccolò, 46 e n., 47 n., 68 n., 69 n., 84 n., 85 n., 96 n., 97 n. Cusanus Johannes (Enclen Johannes de Cusa), 126 e n., 132, 159, 160 e n., 165, 174, 176, 177, 196, 197, 209 n. De Armas Fredrick A., 141 n. Dell’Omodarme Francesca, 105 n. Della Porta Giovanni Battista , 23, 141 e n., 142, 178 e n.-181, 208 n., 218, 223, 224 Democrito, 239, 240 n. Diana, 101, 42 Dicson Alexander, 260, 271 e n., 272 Dolce Ludovico, 23 n., 136 n., 139 n., 140 n., 165 n., 171 Durán Barceló Francisco Javier, 124 n. Eco Umberto, 18 e n., 19, 20, 172 n., 178 e n., 198 n. Ellero Maria Pia, 56 n. Enrico III di Valois, 235, 270 Ermete Trismegisto, 208 e n. Ernst Germana, 118 n. Esculapio, 250 Falcone Dorandino da Gioia, 141 n. Fantechi Elisa, 91 n. Faracovi Pompeo Ornella, 244 n. Faranda Rino, 124 n. Fedi Laura, 25 Ficino Marsilio, 21, 43, 65 n., 68 n., 71, 84 n., 91 n., 96 n. Fidia, 260 Fiorentino Francesco, 31 n. Firpo Luigi, 236 n. Florio John, 270 e n. Fludd Robert, 24 Furter Michael, 127 n., 159 n. Gabriele Mino, 153 n., 202 n. Garin Eugenio, 16 Ghelardi Maurizio, 14 Giove, 80, 248, 252, 253 e n.
Giustiniano Leonardo, 153 n. Goldoni Daniele, 235 n. Gorgia, 260, 261 Gratarolo Guglielmo, 273 n. Grüninger Johann, 126 n. Gutenberg Johannes, 234, 235 Hankins James, 84 n. Hartfelder Karl, 126 n. Hess Gilbert, 126 n. Hillgarth Jocelyn N., 226 n. Hjelmslev Louis, 18 Imbriani Vittorio, 31 n. Kaufmann Thomas, 140 n. Keckermann Bartholomäus , 273 n. Kiss Farkas Gabor, 132 n., 152 n., 153 n. Lavinheta Bernardo, 226 n. Le Lièvre Guillame, 134 e n., 135 e n., 136, 162 e n., 163-6, 196 Leibniz Gottfried Wilhelm, 15 e n. Leporeus Guillelmus v. Le Lièvre Guillame Levi Donati Gemma Rosa, 130 n. Lorenzi Gabriella, 25 Lullo Raimondo, 13, 15 e n., 88 n., 108, 109 e n., 111 n., 171, 203 n., 215 n., 226 e n., 227 e n., 234, 235, 257, 258, 267, 273 Lupi Regina, 130 n. Maggi Armando, 141 n. Magirus Johannes, 272 Mandonnet Pierre, 56 n. Marafioto Girolamo, 272, 273 n. Marte, 248, 253 Marziano Capella Minneo Felice, 117 e n. Matheolus Perusinus (Mattioli Matteolo da Perugia), 130 e n. Matteoli Marco, 19 n., 40 n., 56 n., 88 n., 111 n., 118 n., 143 n., 194 n., 214 n., 238 n., 240 n., 243 n., 244 n., 265 n. Mazzi Angelo, 130 n. Mercurio, 79 n., 80, 117 n., 213 e n., 248, 253 e n.
285 Indice dei nomi
Merino Jerez Luis, 128 n. Meroi Fabrizio, 25, 91 n., 252 n. Metrodoro di Scepsi, 152 n., 195 e n. Migne Jacques Paul, 185 n. Minerva, 73, 80 Montalvor Luis de, 7 Monti Carlo, 244 n. Morcillo Romero Juan José, 134 n. Mosè, 35 e n. Nettuno, 193 e n., 239 e n. Norcio Giuseppe, 119 n. Oberdofer Aldo, 153 n. Ovidio Nasone Publio, 229 Padovani Antonio, 143 n. Paëpp Jan, 272 e n. Pallade, 250 Panichi Nicola, 25 Passaro Marcantonio, 141 n. Pecchiura Piero, 124 n. Pereira Michela, 226 n. Perkins William, 271 e n., 272 Pessoa Fernando, 7 Pezzana Niccolò, 185 n. Philippus Jacobus, 133 e n., 134 n. Pich Federica, 153 n. Pirillo Diego, 270 n. Piro Francesco, 67 n. Pitagora, 233 Platone, 30, 43, 64 n., 152 n., 234, 239, 240 e n. Plotino, 30, 43 e n., 65 e n. Pozzi Patrizia, 69 n. Proteo, 193 e n., 239 e n., 240 Publicio Giacomo, 23, 124 e n., 125 e n., 127 e n., 128, 134, 153 e n.-156 e n., 157, 159-68, 169 e n., 170, 174, 175, 177, 178, 210, 220, 221 n., 222, 226, 227, 238, 272 Publicius Jacobus v. Publicio Giacomo Quaglioni Diego, 236 n. Quentel Heinrich, 126 n.
Quintiliano Marco Fabio, 23, 119, 123 e n., 124 n., 133 n., 150, 151 e n., 158, 166, 176 n. Ragone Jacopo, 153 n., 190 n. Raimondi Fabio, 91 n. Ramelli Ilaria, 117 n. Ramo Pietro (Pierre de la Ramée), 258, 271 Ratdolt Erhard, 125 n. Ravenna Pietro Tomai da, 23, 126 e n., 128 e n., 129, 130, 134, 135, 142, 156, 157 e n., 158, 160, 162, 164, 165, 167, 169, 172, 174, 175, 177, 187 e n., 188, 196, 197, 203, 208 n., 210, 218, 222-4, 226, 227 n., 229, 272, 273 n. Reisch Gregor, 126 e n., 127 n., 273 n. Renouard Philippe, 135 n. Ricci Saverio, 141 n. Rico Francisco, 124 n. Robert Jörg, 126 n. Romberch Johann Host von, 23, 135 e n.137 e n., 138-40, 143, 155 n., 165 e n.174 n., 175-7, 180, 182, 187, 189, 191, 194-6, 201, 210 e n., 213, 219-22, 226, 227, 238, 272, 273 n. Rosselli Cosimo, 143 e n., 144, 145, 146, 180, 181 e n.-185 e n., 189, 194-6,213, 219 Rosselli Cosimo (pittore), 143 n. Rosselli Damiano, 143 n. Rosselli Romolo, 143 n. Rossi Paolo, 15 e n., 16, 19, 20, 23 n., 118 n., 132 n., 144 n., 145 n., 171 n., 190 n., 226 n., 272 n., 273 n. Rozzo Ugo, 153 n. Ruggiu Luigi, 235 n. Ruisi Manuela, 271 n. Rusconi Giorgio, 135 n. Sacchi de Angelis Enrica, 130 n. Santinello Giovanni, 47 n. Sassi Michela Maria, 64 n., 76 n.
286 Indice dei nomi
Saturno, 248, 250-3 Scapparone Elisabetta, 25, 31 n., 81 n., 96 n. Schenckel Lambert, 272 e n., 273 n. Schott Johann, 127 n. Seelbach Sabine, 153 n. Senofane, 234 Sessa Melchiorre, 136 n. Severini Maria Elena, 91 n. Sibutus Georg, 126 e n., 130 e n., 135, 158, 159 e n., 165, 195 Simões J. Gaspar, 7 Simonide di Ceo, 117, 119, 147, 150, 234 Simonis Nicolaus, 127 e n., 160 e n., 161, 273 n. Singriener Johann, 126 n. Sirri Raffaele, 141 n. Smeur Alphons Johannes E. M., 126 n. Sottile Giovan Battista, 179 n. Sottili Agostino, 124 n. Spangenberg Johann, 140 e n., 175 e n., 176 e n., 177, 178,182, 272, 273 n. Spruit Leen, 63 n. Sturlese Rita, 17 e n., 19 e n., 20, 22, 26, 84 n., 85 n., 88 n., 194 n., 202 n., 234 e n., 235 e n., 238 n., 240 n. Talete, 233 Tallarigo Carlo Maria, 31 n. Teofilo, 260 Theut, 234 e n. Tirinnanzi Nicoletta, 19 n., 22, 26, 31 n., 32 n., 65 n., 81 n., 88 n., 91 n., 190 n., 192 n., 200 e n., 202 n. Tocco, Felice, 11 e n., 12, 31 n.
Tomashevich George Vid , 244 n. Tommaso D’Aquino, 43, 56 n., 64 n., 66 n., 67 n., 68 n., 74 n., 75 n., 118 n., 120 n., 131, 133 n., 139, 166, 273 n. Torchia Francesco, 17 n. Torre Andrea, 23 n., 135 n., 153 n. Treutler Hieronymus, 273 n. Tritemio Giovanni (Heidenberg Johann), 273 n. Troncarelli Fabio, 130 n. Ugo di Saint-Cher, 185 e n. Umhauser Christian, 159 e n., 162, 165, 169, 210 Vacalebre Natale, 159 n. Vasoli Cesare, 23 n., 144 n., 272 n. Vietor Hieronymus, 126 n. Vincentius Bartholomaeus (Vincent Barthélemy), 272 n. Virgilio Polidoro, 233 n. Vitelli Girolamo, 31 n. Warburg Aby, 13, 14 e n. Wetzdorf Jodocus, 126 e n., 131 e n., 134 n., 159, 162, 196, 209 n. Williams Grant, 23 n. Wójcik Rafał, 23 n., 125 n., 128 n., 130 n., 132 n. Wyatt Michael, 270 n. Yates, Frances Amelia, 14 e n., 16, 17, 20, 23 n., 64 n.,76 n., 118 n., 119 n., 120 n., 124 n., 142 n., 143 n., 171 n., 195 n., 227 n., 270 n., 271 e n., 273 n. Zambelli Paola, 226 n. Zellini Paolo, 244 n. Zeusi, 260
Finito di stampare nel mese di dicembre 2019 presso la CSR srl, via di Salone, 31/c, 00131 Roma