Morfologia [Voll. 1-2] 8884196140, 9788884196149

I volumi raccolgono gli scritti sulla morfologia in ordine cronologico (dal 1776 al 1832) e in una nuova traduzione: dag

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Morfologia [Voll. 1-2]
 8884196140, 9788884196149

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Johann Wolfgang Goethe

MORFOLOGIA (voll. 1-2)

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BIBLIOTECA ARAGNO

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Johann Wolfgang Goe­the

Morfologia volume I a cura di Giovanna Targia

Nino Aragno Editore

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© 2013 Nino Aragno Editore sede legale via San Francesco d’Assisi, 22/bis - 10121 Torino sede operativa strada Santa Rosalia, 9 - 12038 Savigliano ufficio stampa tel. 02.72094703 - fax 02.34591756 e-mail: [email protected] sito internet. www.ninoaragnoeditore.it

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Indice

VOLUME I Introduzione di Giovanna Targia

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Studi sugli organismi naturali, fino al ritorno dall’Italia (1776-1788) [Contributo di storia naturale per i Frammenti fisiognomici di Lavater] Saggio di teoria osteologica comparata, in cui si dimostra come l’osso intermedio della mascella superiore sia comune all’uomo e agli altri animali Descrizione dell’osso intermascellare di diversi animali, con riferimento alla ripartizione e alla terminologia scelte Descrizione di un grande fungo delle case Alcune osservazioni sulla cosiddetta Tremella Infusori [Dei cotiledoni] [Appunti dall’Italia] [su singoli fogli di appunti] [dai quaderni di appunti] [quaderno di appunti del viaggio di ri­ torno]

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Teoria della forma, della trasformazione e della comparazione (1788-1794) [La botanica come scienza] Introduzione [Leggi della formazione delle piante] Saggio di una spiegazione della metamorfosi delle piante

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101

[Altri saggi sulla metamorfosi delle piante] Metamorfosi delle piante. Secondo saggio; Gemme, stoloni: [Pellicole dei semi] [Proprietà delle monocotiledoni]

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Saggio sulla forma degli animali [Sulla teoria della comparazione] Prima sezione. Saggio di osteologia generale; [Ulteriori descrizioni, a completamento della teoria osteologica] Seconda sezione. Saggio di una teoria generale della comparazione

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Muscoli di una testa caprina

195

Sul bello in natura In che misura l’idea secondo cui la bellezza è perfezione unita a libertà sia applicabile alle nature organiche [Recensione delle lezioni di Petrus Camper]

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Abbozzi per un tipo osteologico (1795-1796) Primo abbozzo di un’introduzione generale all’anatomia comparata, fondata sull’osteologia I. Vantaggi dell’anatomia comparata e ostacoli che le si oppongono. II. Sulla necessità di stabilire un tipo per agevolare il compito dell’anatomia comparata. III. Esposizione generalissima del tipo. IV. Applicazione dell’esposizione generale del tipo al caso particolare. V. Del tipo osteologico in particolare. VI. Il tipo osteologico ricomposto nella sua suddivisione. VII. Ciò che occorre notare, per

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indice

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il momento, nella descrizione delle singole ossa. VIII. Secondo quale ordine si debba considerare lo scheletro e cosa si debba notare a proposito delle sue diverse parti. Conferenze sui primi tre capitoli dell’abbozzo di un’introduzione generale all’anatomia comparata, fondata sull’osteologia I. Vantaggi dell’anatomia comparata e ostacoli che le si oppongono. II. Sulla necessità di stabilire un tipo per agevolare il compito dell’anatomia comparata. III. Sulle leggi dell’organizzazione in generale, che dobbiamo tener presenti nella costruzione del tipo

239

Osservazioni su piante e animali (1796-1798) L’azione della luce sui corpi organici (estate 1796) Saggi riguardo all’influsso della luce sulla crescita delle piante; [Coltura delle piante al buio] Azione della luce

257

Studi entomologici [Singole osservazioni] Punti da seguire nell’osservazione della metamorfosi del bruco

285

Studi di storia naturale Viscere della rana; Anatomia della lumaca

309

Preparato patologico

313

Saggi per una metodologia della scienza del vivente Morfologia [Ordine dell’impresa] Lavori preliminari per una fisiologia delle piante Schema generale per l’intero saggio sulla morfologia [Considerazioni sulla morfologia] [La morfologia come scienza] [Modalità di rappresentazione] [Ordinamento]

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indice

Contributi per la Allgemeine Literatur-Zeitung di Jena (1805-1806) [La negazione della parola ‘organico’] Berlino: idee per una fisiognomica delle piante, di Alexander von Humboldt [Osservazioni di Cotta sulla natura] Gall

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Idee sulla formazione organica (1806-1807) Giustificazione dell’impresa Esposizione degli scopi Conferenze di botanica [Pietra fungaja]

Note

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369

VOLUME II Quaderni sulla morfologia. Primo volume (1817-1822) Giustificazione dell’impresa. Esposizione degli scopi Premessa al contenuto La metamorfosi delle piante [Sulla metamorfosi delle piante] Storia dei miei studi botanici; Genesi del saggio sulla metamorfosi delle piante; Vicende del manoscritto; Vicende del testo a stampa Scoperta di un eccellente precursore Caspar Friedrich Wolff sulla formazione delle piante Alcune osservazioni Lieto evento Parole originarie, orfiche

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indice

Intermezzo Influenza della filosofia recente Giudizio della intuizione Esitazione e rassegnazione Impulso alla formazione [A proposito dello scritto sulla metamorfosi] Tre recensioni favorevoli; Altre attestazioni amichevoli; Rielaborazioni e raccolte Primo abbozzo di un’introduzione generale all’anatomia comparata, fondata sull’osteologia Ἀϑροισμός All’uomo, come agli animali, è da ascrivere un osso intermedio della mascella superiore [Sull’anatomia comparata] [Estratti da scritti vecchi e nuovi] [Supplementi] Conferenze sui primi tre capitoli dell’abbozzo di un’introduzione generale all’anatomia comparata, fondata sull’osteologia Polverizzazione, evaporazione, gocciolamento Appello amichevole [Esclamazione risentita] Introduzione [Aforismi] Botanica [Appello per l’unità di intenti] [Difficoltà nell’insegnamento della botanica] Singolare guarigione di un albero gravemente ferito; Schema di un saggio sulla coltura delle piante nel Granducato di Weimar Zoologia Nota alla pagina 292, a proposito della polverizzazione; Analogon della polverizzazione I bradipi e i pachidermi, illustrati, descritti e comparati dal dr. E. d’Alton Dr. Carus: Delle parti originarie della struttura del guscio e delle ossa Toro fossile

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indice

Tavola che raffigura la natura organica nella sua distribuzione sulla Terra, dipinta da Wilbrand e Ritgen, litografata da Päringer Storia della vita e delle forme del mondo vegetale di Schelver Prosecuzione delle osservazioni a pagina 315

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Quaderni sulla morfologia. Secondo volume (1823-1824) Sul secondo quaderno di morfologia di Wilhelm von Schütz Considerazioni riguardo ad una raccolta di avorio patologico Problema e replica Problemi; Replica Importante incoraggiamento, ricevuto grazie a un unico giudizio acuto Sull’esigenza di illustrazioni di argomento storico-naturale in generale e osteologico in particolare [Predatori e ruminanti illustrati, descritti e comparati dal dr. E. d’Alton] [Riflessione generale] Tavola che raffigura la natura organica nella sua distribuzione sulla Terra, dipinta da Wilbrand e Ritgen, in Giessen Friedrich Siegmund Voigt, consigliere aulico e professore a Jena: Sistema e storia della natura, Jena 1823 Sul luppolo e la sua malattia, detta fuliggine I lepadi Ernst Stiedenroth, Psicologia volta alla spiegazione dei fenomeni psichici. Prima parte, Berlino 1824 Specimen anatomico-pathologicum inaugurale de labii leporini congeniti natura et origine, auctore Constant. Nicati, 1822 La struttura del cranio costituita da sei vertebre

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indice

Secondo toro preistorico Osteologia comparata A) Ossa pertinenti all’apparato uditivo; [B] Ulna e radio [C] Tibia e fibula Gli scheletri dei roditori, illustrati e comparati da d’Alton Genera et species palmarum, del dr. C. F. von Martius. Fasc. I e II, München 1823

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Frammenti sulla morfologia (1817-1826) Dilatazione [Un ginepro nel giardino di Goe­the] Craniologia Bryophyllum calycinum [I] Sulla polverizzazione [Inserzione per Mursinna] Una pretesa ingiusta A proposito dell’opera di Martius sulle palme [Variabilità delle razze] Foglia e radice A proposito di due radici emetiche Bryophyllum calycinum [II]

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Studi sulla morfologia a partire dal 1828 [Note per un saggio sulla viticoltura] [Introduzione] [La vite] Schema per un saggio sulla viticoltura Sulle leggi della formazione delle piante Visione estetica delle piante Metamorfosi poetiche Monografie fondate sulla morfologia [Bignonia radicans] Gesneria flacourtifolia; Rhus cotinus; Cissus [Anthericum comosum] Rapa ranuncola mostruosa

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indice

[Aggiunte alla metamorfosi delle piante] [Decorso della metamorfosi] Annotazioni al 15o paragrafo della mia Metamorfosi delle piante, su sollecitazione del signor Ernst Meyer di Königsberg; Sul § 15 della Metamorfosi; Singoli aspetti destinati alle annotazioni Vita e meriti del dottor Joachim Jungius, rettore ad Amburgo [Ulteriori studi su Jungius]

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Edizione franco-tedesca del saggio sulla metamorfosi delle piante (1831) La metamorfosi delle piante I. L’autore comunica la storia dei suoi studi di botanica II. Influenza di questo scritto e ulteriori sviluppi dell’idea esposta III. Sulla tendenza a spirale Appendice

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Ultimi saggi sulla morfologia fino al 1832 [Sulla tendenza a spirale] A proposito dell’osso intermascellare dell’uomo e degli animali Principes de Philosophie Zoologique discutés en Mars 1830 au sein de l’Académie Royale des Sciences par Mr. Geof­froy de Saint-Hilaire [Prima sezione] [Seconda sezione] Anatomia plastica

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Note

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Tavole Indice dei nomi

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Introduzione di Giovanna Targia

I. Mancata fortuna critica del Goe­the naturalista. Il caso delle tre edizioni della Metamorphose der Pflanzen: 1790-1831 Da più di mezzo secolo sono conosciuto, in patria e anche all’estero, come poeta, e valutato tutt’al più come tale; non è invece noto, e ancor meno considerato con attenzione, il fatto che mi sono impegnato con serietà e solerzia, e con grande scrupolo, di tutti i fenomeni naturali organici e più in generale fisici, seguendo silenziosamente, con costanza e passione, le opinioni che venivano esposte seriamente al riguardo.1

Con queste parole, un anno prima di morire, l’anziano Goe­the lamentava il silenzio che la comunità scientifica e il mondo intellettuale tedesco e straniero avevano opposto ai suoi molteplici e ininterrotti studi nell’ambito della ricerca naturalistica. Era il 1831 e l’editore Cotta di Stoccarda dava alle 1 J.W. Goe­the, Deutsch-französische Ausgabe des Versuchs über die Metamorphose der Pflanzen (1831), in Id., Schriften zur Morphologie, hrsg. v. Dorothea Kuhn (Sämtliche Werke. Briefe, Tagebücher und Gespräche, 40 Bde. hrsg. v. Hendrik Birus, Dieter Borchmayer u.a., I. Abt., Bd. 24), Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt am Main 1987 (d’ora in avanti DK 24), pp. 751-752: «Seit länger als einem halben Jahrhundert kennt man mich, im Vaterlande und auch wohl auswärts, als Dichter und läßt mich allenfalls für einen solchen gelten; daß ich aber mit großer Aufmerksamkeit mich um die Natur in ihren allgemeinen physischen und ihren organischen Phänomenen emsig bemüht und ernstlich angestellte Betrachtungen stetig und leidenschaftlich im stillen verfolgt, dieses ist nicht so allgemein bekannt, noch weniger mit Aufmerksamkeit bedacht worden»; trad. it. infra, p. 766.

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stampe l’edizione franco-tedesca del saggio sulla metamorfosi delle piante, pubblicato così per la terza volta durante la vita dell’autore, e destinato a rimanere uno dei suoi contributi più noti in ambito scientifico. Il testo era stato composto da Goe­the al ritorno dal primo suo viaggio in Italia (degli anni 1786-1788), pubblicato nel 1790 e ristampato più di vent’anni dopo, nel 1817, nel primo dei Quaderni sulla morfologia, accompagnato da alcuni brevi scritti che illustrano la storia degli studi botanici dell’autore e la genesi del lavoro. Già in questa prima ristampa, Goe­the ritenne necessario corredare il saggio di considerazioni autobiografiche e di notizie relative alle vicende del suo manoscritto, nonché alla sorte del testo stampato, non tacendo il proprio disappunto per la tiepida accoglienza che gli ambienti scientifici avevano riservato alla sua tesi, e più in generale al suo ingresso nel campo della letteratura botanica. Emerge, da tali considerazioni, un intimo legame tra ragioni esistenziali e lavoro di ricerca, che rivela apertamente in che modo e con quale profondità le istanze connesse all’attività poetica e agli interessi artistici di Goe­the si fondessero con la sua passione per l’indagine in ambito scientifico-naturale. Non si tratta di epidermiche prossimità di immagini e di semplici analogie, se si dà il giusto peso al tono entusiastico della narrazione autobiografica che annovera le indagini e acquisizioni scientifiche tra le tappe principali della formazione dell’autore: il celebre passo in cui Goe­the pone Linné accanto a Shakespeare e Spinoza come l’uomo che su di lui ha esercitato la massima influenza2 allude precisamente a un simile intreccio di istanze. Allo stesso modo, il racconto della composizione del saggio sulla metamorfosi delle piante, in cui non è irrilevante il ruolo del dialogo con amici e interlocutori del calibro di Herder, lascia trasparire in tutta evidenza la serietà delle intenzioni che avevano indotto l’autore a cimentarsi pubblicamente in un ambito apparentemente distante dal suo consueto. La

«Wie es mir dabei ergangen, und wie ein so fremdartiger Unterricht auf mich gewirkt, kann vielleicht im Verlauf dieser Mitteilungen deutlich werden, vorläufig aber will ich bekennen, daß nach Shakespeare und Spinoza auf mich die größte Wirkung von Linné ausgegangen und zwar gerade durch den Widerstreit zu welchem er mich aufforderte»: Geschichte meines botanischen Studiums: ivi, p. 408; trad. it. infra, p. 418.

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lettura dell’epistolario e dei diari di Goe­the conferma senz’altro tale serietà di intenzioni e consente di misurare inoltre la vastità del suo impegno. E se in superficie l’autore effonde un certo tono lirico, quasi ingenuo, narrando della sua attitudine contemplativa del mondo naturale e rievocando il modo in cui aveva concepito l’intuizione della metamorfosi delle piante, un tale trasporto non è da intendersi come un effetto letterariamente ricercato, potendosi invece ritenere emblematico della pervasività e costanza dell’impegno profuso dall’autore in simili studi. Lungi dal rappresentare, dunque, mere divagazioni eclettiche, prodotto di un temperamento poliedrico e di un geniale dilettantismo, tali studi si rivelano in realtà una dimensione integrante dell’esistenza per Goe­the, inseparabile dagli altri ambiti della sua attività. Lo rivelano sintomaticamente i profondi fattori che legano poesia e scienza nella sua concezione della natura, nonché gli argomenti anche più astratti ed esteriori cui l’autore allude nel tentativo di giustificare e legittimare il proprio cimentarsi in un ambito in apparenza eterogeneo rispetto all’ispirazione letteraria e lirica. In particolare, ricordando le resistenze e i contrasti affrontati al momento della progettata pubblicazione del saggio sulla metamorfosi delle piante, Goe­the argomenta contro la comune tendenza a ritenere inaffidabile e velleitario ogni tentativo di uscire dal proprio ambito disciplinare: pur concedendo una certa ragionevolezza al pensiero che sostiene tale tendenza, l’autore cita esempi che concretamente lo confutano, o meglio ne confutano l’assolutizzazione. E dopo aver menzionato stimabili studiosi e ricercatori distintisi in più di un campo specifico, rammentando la tenacia cui egli in prima persona dovette far ricorso per far tacere le diffidenze che il pubblico di lettori e amici manifestava riguardo alle sue ricerche botaniche, ricorre infine all’esemplificazione emblematica dell’intima unitarietà degli ambiti scientifico e poetico, citando e trascrivendo l’elegia da lui composta nel 1798, dedicata a Christiane Vulpius, sulla metamorfosi delle piante. Che non si tratti di ambiti distanti e inconciliabili, dunque, lo dimostra la stessa composizione e la chiave interpretativa della poesia, che tesse insieme ispirazione teorica e fantastica, istanze del sentimento e dell’intelletto, liriche e scientifico-razionali, nell’unica intuizione del mondo

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della natura come unità dinamica e corale, di forme in perenne trasformazione secondo una legge3. Tuttavia, pur essendo riuscito a tradurre e trasfondere nel proprio linguaggio poetico la sua tesi di argomento botanico sulla metamorfosi, l’autore non manca di osservare quanto i suoi sforzi siano rimasti inefficaci presso la comunità scientifica, il cui pregiudizio, di natura quasi corporativa, continuava a costituire un filtro ineliminabile alla comprensione delle idee da lui sostenute. Tratteggiando, dunque, la cronaca delle prime reazioni ricevute all’apparire del suo scritto nel 1790, egli lamenta di aver subìto la sorte di chi, parlando una lingua totalmente straniera, sia costretto a sentir deplorata quella che è giudicata un’incursione in un territorio non di libero accesso, munito di rigidi guardiani di confini disciplinari. Non essere compresi, – scrive Goe­the, trasponendo in termini universali la propria esperienza, – è il tormento più grande, quando, dopo grande impegno e fatica, si ritiene infine di capire se stessi e l’argomento indagato; fa impazzire sentir ripetere sempre lo stesso errore da cui ci si era liberati con difficoltà, e non c’è nulla che possa capitarci di più doloroso che vedere come proprio ciò che dovrebbe unirci a uomini colti e ragionevoli dia invece adito ad una separazione inconciliabile.4

Applicando una riflessione generale alla propria esperienza autobiografica, Goe­the rievoca l’incomunicabilità e l’incomprensione sopportata, sottolineando la difficoltà di traduzione perfino delle idee espresse nel modo più lucido e piano. Il

3 Sulle diverse forme di esposizione di tale intuizione del mondo dei fenomeni naturali, in cui è possibile riconoscere la differenza specifica tra il procedimento seguito da Goe­the come poeta e come ricercatore, si rimanda qui alle considerazioni espresse da Ernst Cassirer nel saggio Goe­the und die mathematische Physik, in: Id., Idee und Gestalt. Goe­the, Schiller, Hölderlin, Kleist. Fünf Aufsätze, Bruno Cassirer, Berlin 1921, pp. 33-80: p. 77 (rist. in Id., Gesammelte Werke. Hamburger Ausgabe (ECW), Bd. 9: Aufsätze und kleine Schriften 1902-1921, hrsg. v. B. Recki, Meiner, Hamburg 2001, pp. 268-315: p. 311). 4 «Es ist die größte Qual nicht verstanden zu werden, wenn man nach großer Bemühung und Anstrengung, sich endlich selbst und die Sache zu verstehn glaubt; es treibt zum Wahnsinn den Irrtum immer wiederholen zu hören aus dem man sich mit Not gerettet hat, und peinlicher kann uns nichts begegnen als wenn das was uns mit unterrichteten, einsichtigen Männern verbinden sollte Anlaß gibt einer nicht zu vermittlenden Trennung»: Schicksal der Druckschrift, in: DK 24, p. 423; trad. it. infra, p. 431.

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massimo che un recensore favorevole gli ha concesso, scrive l’autore esemplificando, è stato di riconoscere la chiarezza di esposizione del suo saggio, senza mostrare, tuttavia, di cogliere il significato e il potenziale dell’idea così limpidamente presentata. Ciò che interessava Goe­the in effetti, e ciò che causava l’amarezza delle sue considerazioni retrospettive, era una sincera ambizione conoscitiva, per nulla mirante ad una colonizzazione di un territorio ulteriore, ma in grado al contrario di fornire sempre nuovi spunti per la sua attività, osservativa e creativa, teoretica e pratica5. Una peculiare conferma di tale atteggiamento disinteressato e di tale disposizione per così dire anti-accademica nei confronti della ricerca scientifica è fornita proprio dall’ordito entro cui l’autore intesse la prima ristampa del suo saggio sulla metamorfosi delle piante: infatti, dato il rilievo decisivo che Goe­the assegnava allo scambio produttivo di idee in ambito scientifico-naturale, e alle opinioni «esposte seriamente al riguardo», nei Quaderni sulla morfologia egli sceglie di pubblicare, accanto ai propri, anche contributi di altri studiosi, nonché proprie valutazioni di ricercatori le cui idee si sono dimostrate concordi con quelle da lui elaborate. Ed è in un simile contesto che si situa, come in una narrazione continua, il racconto della genesi del saggio sulla metamorfosi delle piante. Non apparirà dunque senza significato l’affermazione formulata diversi anni dopo in un analogo contesto, con cui l’autore introduce una più diffusa versione della storia dei propri studi botanici: «Per chiarire la storia delle scienze, e conoscere con precisione il loro percorso, solitamente ci si informa con cura sui loro inizi»6, scrive Goe­the, alludendo per traslato all’operazione che egli stesso stava realizzando dise-

5 Goe­the soggiunge infatti, tracciando le sue osservazioni conclusive a proposito dell’insoddisfacente ricezione toccata alle sue tesi: «Da man mir nun zugab daß ich den Weg ins Wissen von meiner Seite wohl gebahnt habe, so wünschte ich brünstig, daß man mir von dort her entgegen käme: denn es war mir gar nichts daran gelegen hier irgendwo Fuß zu fassen, sondern so bald als möglich durch diese Regionen, unterrichtet und aufgeklärt, durchzuschreiten»: ivi, p. 424; trad. it. infra, p. 432. 6 «Um die Geschichte der Wissenschaften aufzuklären, um den Gang derselben genau kennen zu lernen, pflegt man sich sorgfältig nach ihren ersten Anfängen zu erkundigen»: Deutsch-französische Ausgabe des Versuchs über die Metamorphose der Pflanzen (1831), in: DK 24, p. 732; trad. it. infra, p. 749.

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gnando la storia di un testo – il suo saggio sulla metamorfosi delle piante – che egli evidentemente riteneva, come altri autori col passare dei decenni sono stati disposti a ritenere, una durevole acquisizione in ambito botanico e più in generale naturalistico. Confortato costantemente da una tale consapevolezza del valore delle proprie indagini scientifiche, con o senza l’approvazione della comunità accademica degli specialisti della materia, Goe­the prosegue con ininterrotto impegno i suoi studi, fin negli anni della vecchiaia, con immutato entusiasmo. In particolare, in lunghi e ripetuti soggiorni a Dornburg del periodo 1828-1829, l’autore si volge a compulsare la più recente letteratura in francese di argomento botanico, e concepisce concretamente il progetto di far realizzare una traduzione francese del proprio saggio sulla metamorfosi delle piante, per potersi proporre come interlocutore in ambito naturalistico anche oltre i confini patrii, e offrire le proprie acquisizioni ad un pubblico più vasto. Malgrado alcune difficoltà materiali e congiunturali, che causano una riduzione dell’iniziale piano del lavoro, l’edizione franco-tedesca della Metamorfosi delle piante appare infine nel 1831, composta, oltre che della traduzione del saggio vero e proprio, di altri tre contributi redatti da Goe­the per l’occasione: una storia dei suoi studi botanici, una storia della ricezione dell’opera e un breve saggio sulla tendenza a spirale della vegetazione. Quest’ultimo costituisce il primo schizzo di uno studio più diffusamente elaborato da Goe­the durante l’intero anno 1831 e non pubblicato, ma preparato con una paziente raccolta di osservazioni proprie e altrui, idealmente pensate entro una cornice più ampia, come una declinazione ulteriore del principio della metamorfosi, indagato sotto il profilo dell’analogia tra struttura interna e conformazione esteriore dei vegetali7. Quanto alle pagine che delineano le tappe della ricezione del suo saggio sulla metamorfosi, Goe­the si avvale del lavoro di Friedrich Siegmund Voigt ed Ernst Meyer, che raccolgono excerpta e menzioni del testo geothiano presenti in lavori di altri scienziati, a partire dalle prime recensioni, apparse nel 1791, fino ai più recenti contributi in lingua

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Cfr. infra, pp. 787 sgg.

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francese di Reichenbach e Vaucher, datati 1830, includendo anche la versione francese di Gingins-Lassaraz apparsa a Ginevra nel 1829, da cui il traduttore incaricato da Goe­the, Frédéric Soret, si discosta mirando ad una maggior fedeltà terminologica e concettuale al testo originale8. Riguardo invece al contributo più marcatamente autobiografico dei tre, l’autore impiega le considerazioni già formulate nel 1817, inserendole entro un più vasto quadro, non soltanto cronologico9. Infatti, introducendo il racconto della storia dei suoi studi botanici, Goethe mostra una più decisa consapevolezza del ruolo delle sue ricerche nel quadro generale della storia della scienza, osservando peraltro cursoriamente, durante l’esposizione: «il percorso della mia formazione botanica somiglia in certa misura a quello della storia della stessa botanica»10, alludendo ai propri progressi, sia sul piano del metodo sia su quello delle acquisizioni particolari. Al contempo, tuttavia, considera i ricordi narrati in prima persona come argomenti necessari a illustrare quella che ancora poteva sembrare un’incongruenza, spiegando «come un uomo di mezza età, poeta di un certo valore e inoltre dotato, a quanto pareva, di molteplici interessi e oneri, avesse potuto inoltrarsi nel regno sterminato della natura, studiandolo al punto da essere in grado di formulare una massima che, applicabile comodamente alle forme più varie, esprimeva quella legge cui migliaia di eventi singoli obbediscono necessariamente»11.�

8 Si rimanda, per i dettagli biografici e bibliografici relativi alle vicende dell’edizione franco-tedesca della Metamorphose der Pflanzen, alle note di commento poste più oltre nel presente volume: infra, pp. 891 sgg. 9 Tra le pagine qui riassunte e commentate trova posto infatti anche una diffusa e positiva valutazione del testo di Rousseau intitolato La Botanique de Rousseau, apparso nel 1822 e significativo per l’occasione presente in quanto opera di un autore francofono: cfr. infra, pp. 758 sgg. 10 «[…] der Gang meiner botanischen Bildung einigermaßen der Geschichte der Botanik selbst ähnelte»: Deutsch-französische Ausgabe des Versuchs über die Metamorphose der Pflanzen (1831), in: DK 24, p. 735; trad. it. infra, p. 752. 11 «[…] wie ein Mann von mittlerem Alter, der als Dichter etwas galt und außerdem von mannigfaltigen Neigungen und Pflichten bedingt erschien, sich habe können in das grenzenloseste Naturreich begeben und dasselbe in der Maße studieren, daß er fähig geworden eine Maxime zu fassen, welche, zur Anwendung auf die mannigfaltigsten Gestalten bequem, die Gesetzlichkeit aussprach, der zu gehorchen tausende von Einzelheiten genötigt sind»: ivi, p. 732; trad. it. infra, p. 749.

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Si tratta di una sorta di bilancio autobiografico, in cui la genesi del saggio del 1790 riceve una caratterizzazione meno impressionistica rispetto a quella che emergeva tra le pagine redatte per l’edizione del 1817. E inoltre indubbiamente la quantità di documenti e recensioni raccolti compensa la sensazione di incomprensione e di isolamento che in quella prima ristampa si avvertiva esplicitamente. Tuttavia, permane ancora una costante insoddisfazione per quella che sembra una singolare intraducibilità dell’attività e dell’ispirazione goethiane, composte di più fibre apparentemente eterogenee: in effetti, l’unità molto equilibrata di poesia, interesse artistico e ricerca scientifico-naturalistica, incarnata dalla figura e dall’opera di Goe­the, tarda ancora ad essere riconosciuta, pur essendosi dimostrata alla prova dei fatti concretamente operante e composta di aspetti armonicamente fusi tra loro. La scoperta e la formulazione del principio della metamorfosi assume così un ruolo paradigmatico, e non manca di suscitare meraviglia, più che per la semplicità ed efficacia del suo oggetto, per la sua stessa provenienza, dalle carte e dal lavoro di un uomo che si immagina impegnato in tutt’altre riflessioni, abituato a trattare di tutt’altre facoltà, ad esprimere affetti, sentimenti e massime morali, piuttosto che leggi scientifiche e razionali. Più di ogni altra cosa, dunque, l’autore intende correggere tale impressione, sottolineando come la sua scoperta non si debba ritenere frutto del caso, ma di un’intensa e costante dedizione. È proprio per confutare un simile pregiudizio che ho redatto il presente saggio, che dovrà chiarire come io abbia trovato l’occasione per dedicare una gran parte della mia vita, con fervore e passione, allo studio della natura. Non è dunque a causa di un dono straordinario dello spirito, né grazie ad un’ispirazione estemporanea, imprevista e improvvisa, che sono giunto infine ad un risultato così felice, ma grazie ad un impegno coerente.12

12 «Diesem Vorurteil zu begegnen, ist eigentlich vorstehender Aufsatz verfaßt; er soll anschaulich machen: wie ich Gelegenheit gefunden einen großen Teil meines Lebens mit Neigung und Leidenschaft auf Naturstudien zu verwenden. Nicht also durch eine außerordentliche Gabe des Geistes, nicht durch eine momentane Inspiration, noch unvermutet und auf einmal, sondern durch ein folgerechtes Bemühen bin ich endlich zu einem so erfreulichen Resultate gelangt»: ivi, p. 752; trad. it. infra, p. 766.

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Nulla sarebbe dunque più inverosimile e ingiusto che attribuire i contributi forniti da Goe­the alla ricerca scientifica alla dote imponderabile del genio, all’irripetibile estro del momento, affatto disgiunto dal corso ordinario dell’attività e dell’esistenza dell’uomo Goe­the. Una simile confutazione del pregiudizio ingenuo, che ritrae un Goe­the artista e poeta rimasto affascinato fin dalla prima giovinezza dalla letteratura esoterica e alchemica, nonché dal movimento stürmisch, si pone come una necessaria correzione di un’immagine fin troppo romanzesca e oleografica dell’autore, cui egli stesso forse durante la vita si espose, ma che, particolarmente fuori dalla Germania, sembrava imporsi come unica e cristallizzata sua impronta intellettuale. Chi si fosse invece impegnato a discutere degli argomenti volta a volta elaborati da Goe­the avrebbe senz’altro potuto sperimentare in concreto la molteplicità e la vividezza delle dimensioni del suo impegno intellettuale, rendendo peraltro più semplice l’operazione di traduzione di idee e strumenti espressivi, nonché una loro più rapida circolazione e fecondità in ogni direzione. Già nel 1795 Goe­the scriveva a Schiller, parafrasando una massima di Epitteto, che «purtroppo è più frequente che siano le opinioni sulle cose a dividere gli uomini, piuttosto che le cose stesse»13: si tratta, evidentemente, di una riflessione che l’autore non ha mai potuto disgiungere dalla propria percezione dell’accoglienza variamente tributata ai suoi lavori, e alla luce di quanto si è venuto dicendo fin qui, appare tanto più emblematica la scelta della stessa massima di Epitteto in epigrafe all’edizione franco-tedesca del saggio sulla metamorfosi delle piante: taravssei tou;" ajnqrwvpou" ouj ta; pravgmata, ajlla; ta; peri; tw'n pragmavtwn dovgmata.

«[…] leider sind es öfter die Meinungen über die Dinge als die Dinge selbst wodurch die Menschen getrennt werden»: lettera a Schiller del 15.XII.1795: Goethes Briefe, textktitisch durchgesehen und mit Anmerkungen versehen von K.R. Mandelkow, unter Mitarbeit von B. Morawe, 4 Bde., Wegner, Hamburg 1962-1967 (neue Aufl., Beck, München, 1982-1988), Bd. II, München 1988, p. 209

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II. Ricezione italiana del Goe­the scienziato Ciò che valeva nel 1831 per il pubblico francofono vale forse ancora oggi per i lettori italiani di Goe­the, da noi noto tuttora in massima parte come poeta e autore di teatro e di romanzi. I suoi interessi e saggi scientifici hanno avuto in Italia un’accoglienza molto esigua, per lo più orientata dai rappresentanti di determinati indirizzi teorici ed epistemologici, spesso meramente occasionale, frammentaria, se non addirittura antiquaria. Lo dimostra uno sguardo alla storia delle traduzioni e degli studi diffusi in Italia sull’opera scientifica di Goe­the, e forse non a caso anche a tale proposito il saggio sulla metamorfosi delle piante offre l’esempio più emblematico della fortuna critica del Goe­the naturalista: per il pubblico italiano si può infatti considerare il più celebre degli studi di argomento scientifico dell’autore, nonché quello su cui più sono pesati fraintendimenti e ricezioni parziali. Si tratta, in primo luogo, dell’unico tra i suoi scritti scientifici le cui traduzioni si sono succedute con una certa continuità, rivelando un interesse non episodico per il tema e per la particolare prospettiva scelta da Goe­the come chiave d’indagine del mondo vegetale (applicabile, peraltro, secondo le sue intenzioni, anche agli altri regni della natura organica e inorganica). Tradotto per la prima volta nel 184214 e legato per ragioni biografiche al motivo frequentatissimo dei rapporti tra Goe­ the e l’Italia15, il saggio è apparso in una nuova traduzione nel 1907, nella versione curata da Giovanni Castelli16, che presentava il testo annoverando Goe­the tra i precursori di Darwin, in linea con una tendenza interpretativa inaugurata dal biologo

14 J.W. v. Goe­the, Saggio sulla metamorfosi delle piante, tradotto da Pietro Robiati, Tipografia e libreria Pirotta e C., Milano 1842. 15 Celeberrimi sono i passi goethiani riferiti alla intuizione della Urpflanze, concepita durante le visite ai giardini botanici di Padova e Palermo: si rimanda alle note di commento agli Appunti dall’Italia e alla Metamorfosi delle piante (infra, pp. 380 sgg.) per l’indicazione dei passi paralleli dalla Italienische Reise e dall’epistolario dell’autore. 16 J.W. v. Goe­the, La metamorfosi delle piante, versione di Giovanni Castelli, Lazzeri, Siena 1907.

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Ernst Haeckel, le cui opere erano circolate tempestivamente in Italia sullo scorcio del diciannovesimo secolo17. Nel 1878 invece, in pieno clima positivistico, appariva in rivista una traduzione dell’elegia intitolata Metamorphose der Pflanzen.18 Nell’anno goethiano 1949, secondo centenario della nascita dell’autore, vide la luce una nuova traduzione, curata dal botanico modenese Giorgio Negodi19 e invariabilmente in linea con l’interpretazione evoluzionistica già in voga da alcuni decenni. Infine, nell’ambito della prima edizione italiana in cinque volumi delle opere di Goe­the, curata da Lavinia Mazzucchetti, il saggio apparve nel 1961, inserito nel quinto volume accanto ad altri scritti scientifici nella traduzione di Bruno Maffi20, poi ripubblicata nella silloge curata da Stefano Zecchi poco più di vent’anni dopo e più volte ristampata21. Volta a volta, dunque, si è letto questo lavoro goethiano in funzione di altre sfere di ricerca: in primo luogo come singolare momento della storia della conoscenza scientifica, considerato tecnicamente dai biologi darwinisti un antesignano della teoria della discendenza e dell’evoluzione. Ed è sintomatico già il fatto che questa prima interpretazione sia stata oggetto, fuori d’Italia, di una notevole controversia verso la

Gli scritti del biologo evoluzionista Ernst  Heinrich  Philipp  August Haeckel (1834-1919), che per primo volle indicare in Goe­the un precursore di Darwin (cfr. la sua opera dal titolo Die Naturanschauung von Darwin, Goe­the und Lamarck, apparsa a Jena nel 1882), furono tradotti in Italia in un breve giro di anni: si veda Ernesto Haeckel, Le opere, a cura di Daniele Rosa, 3 voll., Unione tipograficoeditrice, Torino 1892-1895. 18 J.W. v. Goe­the, La metamorfosi delle piante, trad. di Anselmo Guerrini Gonzaga in «Rassegna settimanale», Firenze, vol. I, 1878, n. 15, pp. 274 sgg. 19 J.W. v. Goe­the, Saggio sulla metamorfosi delle piante, trad. e introd. di Giorgio Negodi, Società Tip. Modenese, Modena 1949. 20 J.W. Goe­the, Opere, a cura di Lavinia Mazzucchetti, vol. V, Sansoni, Firenze 1961: il saggio sulla metamorfosi delle piante occupa le pp. 97-134, inserito nella sezione degli scritti scientifici intitolata Morfologia delle piante, che raccoglie anche contributi successivi aggiunti da Goethe a integrazione del lavoro in occasione della seconda edizione del testo nei quaderni sulla Morfologia, nel 1817. 21 J.W. Goe­the, La metamorfosi delle piante e altri scritti sulla scienza della natura, a cura di Stefano Zecchi, Guanda, Milano 1983-Parma 20086. Si segnala inoltre una più recente traduzione, inserita nel quadro di un’edizione degli scritti scientifici goethiani intrapresa sotto gli auspici della Associazione Scientifica Goetheanistica Italiana e realizzata da un gruppo di studiosi e professionisti di estrazione teorica steineriana: cfr. J.W. Goe­the, Gli scritti scientifici, vol. I: Morfologia I – Botanica, a cura di Emilio Ferrario, Il Capitello del Sole, Bologna 1996, pp. 27-63. 17

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fine dell’Ottocento tra il già citato Haeckel ed Emil Du BoisReymond22, dal significato politico-culturale prima ancora che scientifico, che trascendeva evidentemente il merito delle tesi espresse da Goe­the. Quasi complementare rispetto ad una tale lettura si può ritenere l’interpretazione della metamorfosi in chiave alchemica ed ermetica, in base alla quale alcuni accentuano il ruolo delle suggestioni derivate dalle letture giovanili di Goe­the, fino a farne un rappresentante di tendenze occultiste, e a leggerne le indagini di tema scientifico, oltre che le opere narrative e poetiche, in chiave mistico-allegorica23. Si può citare infine, schematicamente, un’ulteriore tendenza interpretativa, che amplifica invece gli spunti autobiografici e letterari del testo goethiano sulla metamorfosi delle piante, accostando la teoria ivi esposta a posizioni filosofiche o estetiche rintracciate negli scritti dello stesso Goe­the o di altri autori24. Forse una simile lettura è quella che più perpe-

Cfr. il suo polemico Goe­the und kein Ende, Rede bei Antritt des Rectorats der königl. Friedrich-Wilhelms-Universität zu Berlin am 15. Oktober 1882, Veit, Leipzig 1883. Si rimanda in generale allo studio di F. Vidoni, Ignorabimus! Emil du BoisReymond e il dibattito sui limiti della conoscenza scientifica, presentazione di L. Geymonat, Marcos y Marcos, Milano 1988. Cfr. anche D. von Engelhardt, Gli studi scientifici di Goe­the nel giudizio delle scienze naturali del XIX secolo, in: Aa. Vv., Arte, scienza e natura in Goe­the, a cura di G.F. Frigo, R. Simili, F. Vercellone, D. von Engelhardt, Trauben edizioni, Torino 2005, pp. 69-94. Riguardo alla valutazione dei rapporti tra Goe­the e Darwin, si rimanda invece agli articoli di Manfred Wenzel, Goe­the und Darwin. Der Streit um Goethes Stellung zum Darwinismus in der Rezeptionsgeschichte der morphologischen Schriften, in «Goe­the-Jahrbuch» 100 (1983), pp. 145-158 e allo studio di Federica Cislaghi, Goe­the e Darwin. La filosofia delle forme viventi, Mimesis, Milano 2008. 23 Si rimanda qui al più noto tra i rappresentanti di un simile orientamento, vale a dire allo studio di Ronald Douglas Gray, Goe­the the Alchemist: a Study of Alchemical Symbolism in Goe­the’s Literary and Scientific Works, University Press, Cambridge 1952 (rist. 2010) e, tra i critici italiani, alle pagine di Italo Alighiero Chiusano, Vita di Goe­the, Rusconi, Milano 1981, pp. 14 sgg., nonché all’intervento di Maria Fancelli al convegno triestino dedicato a Goe­the e l’idea di natura (16-17 ottobre 1982), in Goe­the und die Natur: Referate des Triestiner Kongresses, hrsg. v. H.A. Glaser, Lang, Frankfurt am Main 1986, pp. 177-187. Non immune da simili orientamenti è stata naturalmente l’influente interpretazione di Rudolf Steiner, largamente diffusa in Italia (cfr. le traduzioni dei suoi studi sulle opere scientifiche di Goe­the: R. ­Steiner, Tre saggi su Goe­the, trad. di I. Levi Bianchi e L. Schwarz, Bocca, Torino 1932, e Id., Le opere scientifiche di Goe­the, Bocca, Torino 1944) e tuttora rappresentata da taluni commentatori (cfr. il progetto editoriale di traduzione integrale degli scritti scientifici goethiani, previsto in 10 volumi, citato alla fine della precedente nota 21). 24 Riferimento principale di tale tendenza negli studi italiani, particolarmente di ambiente germanistico, è certamente la monografia di Croce, pubblicata per 22

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tua il pregiudizio compendiato nell’immagine tradizionale del Goe­the poeta, innamorato della natura e ad essa rivolto con animo lirico e contemplativo: un pregiudizio che, oltre a restituire un quadro unilaterale e infedele dell’intero corpus degli scritti dell’autore, valuta unicamente la traduzione poetica del suo interesse naturalistico, e ignora di fatto l’entità e il carattere della sua attività sperimentale e tecnica, costantemente affiancata al momento dell’elaborazione teorica. Un tale sbilanciamento delle proporzioni può ritenersi per un verso, naturalmente, un portato dell’impostazione critica crociana, per l’altro un prodotto dell’attenzione rivolta al tema del Grand Tour, per cui il viaggio in Italia di Goethe costituiva un esempio paradigmatico25 della fascinazione esercitata dal paesaggio mediterraneo sul viaggiatore e intellettuale straniero, motivo tradizionale se non addirittura topico, rintracciabile trasversalmente negli studi letterari e storico-artistici sul nostro Paese. Pur potendo risultare utile ad illustrare concetti di ambito estetico e storico-letterario, in particolare grazie al confronto tra Goe­the ed altri pensatori, intellettuali e artisti, una simile interpretazione rischia però, in ultima analisi, di snaturare le intenzioni espresse così chiaramente dall’autore a proposito del suo saggio sulla metamorfosi, e che possono riassumersi in un suo sincero desiderio di contribuire alla edificazione e chiarificazione della teoria botanica e, in senso lato, biologica. Certamente le direzioni interpretative appena menzionate colgono aspetti presenti e rilevanti nel quadro complessivo dell’attività scientifica di Goe­the, anche quando non la considerino per se ma in funzione di altre tesi e altri scopi, e non v’è dubbio che, nel caso particolare del saggio sulla metamorfosi delle piante, tutti gli elementi singolarmente evidenziati dalle varie tendenze si trovino intrecciati nel testo, esplicitamente o implicitamente; tuttavia, se un intreccio è riconoscibile, non è tale per ragione di semplice prossimità o associazione logica di concetti, bensì per intimo e originario concrescere delle varie

la prima volta nel 1919: B. Croce, Goe­the. Con una scelta delle liriche nuovamente tradotte, Laterza, Bari 1919. Cfr. le considerazioni di Giorgio Negodi, esposte nell’introduzione alla sua traduzione del Saggio sulla metamorfosi delle piante cit., part. pp. 5 e 15. 25 Cfr. ad esempio E. Agazzi, Il prisma di Goe­the: letteratura di viaggio e scienza nell’età classico-romantica, Guida, Napoli 1996.

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istanze in un’unica e organica direzione, come può confermare l’analisi di tutti gli scritti di argomento scientifico dell’autore, specie se considerati come parte integrante del complesso dell’opera e dell’esistenza del grande francofortese. Ad ogni modo, come si accennava, il caso della ricezione italiana del saggio sulla metamorfosi delle piante si rivela emblematico e rappresentativo della ricezione dell’intera l’opera scientifica di Goe­the, salvo il fatto che parzialità e fraintendimenti, più o meno consapevoli, sono acuiti, nel caso degli altri lavori, dal ruolo ancor più marginale loro assegnato quasi sempre da studiosi, traduttori e commentatori. Si consideri, ad esempio, la prima traduzione italiana di un’antologia di scritti goethiani di osteologia e anatomia comparata: essa è stata pubblicata nel 1885 in un breve volumetto provvisto di poche righe di presentazione a firma del traduttore, che si riferisce con gratitudine ad Ernst Haeckel, colui che ha reso nota la dottrina del Goe­the «cultore di filosofia naturale», nonché a Martin, che lo ha tradotto in francese26. Oppure si legga la prefazione di Giuseppe Monti ad un’altra piccola antologia di traduzioni dagli scritti anatomici e osteologici di Goe­the, apparsa circa vent’anni dopo, in cui si insiste sulla lettura retrospettiva alla luce della teoria evoluzionista, e si sostiene che il darwinismo si può ritenere un ritorno «ai princìpi di Goe­the, lasciando da parte però le divagazioni fantastiche» del poeta tedesco27. Tali affermazioni riecheggiano non a caso nelle parole del botanico Giorgio Negodi, autore, come si è visto, di una versione del saggio sulla metamorfosi delle piante: ancora nel 1949 egli lamentava, in veste di naturalista di professione, la «concezione poetica e fantasiosa» di Goe­the, che lasciava tuttavia tra-

26 Cfr. J.W. Goe­the, Principii di Filosofia zoologica e anatomia comparata, prima trad. it. per Michele Lessona, Perino, Roma 1885, p. 5. Il volume contiene la tradu­ zione dell’intervento redatto in occasione della nota disputa del 1830 tra Cuvier e Geof­froy  de Saint-Hilaire (Principii di Filosofia zoologica discussi nel marzo 1830 all’Accademia delle Scienze di Parigi da Stefano Geof­froy-Saint-Hilaire), il breve testo teorico Dell’esperienza considerata come mediatrice tra l’Oggetto e il Soggetto (1792), nonché l’Introduzione generale all’anatomia comparata fondata sull’osteologia, del 1796. 27 Cfr. J.W. Goe­the, Studi scientifici sulle origini, affinità e trasformazione degli esseri, trad. e prefazione di Giuseppe  e  Giovanni Monti, Bocca, Torino 1903, p. 25. L’antologia raccoglie scritti di periodi vari, dalla Conformazione della natura organica (1807), al saggio Dell’esistenza dell’osso intermascellare (1784), dalla Dissertazione sull’osteologia (1795) alla Storia dei lavori d’anatomia (1819).

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sparire degli «spunti che preludono ad idee evoluzioniste»28, e che dunque sembrerebbero giustificare la traduzione di un’opera che riveste un interesse in primo luogo antiquario o biografico, pubblicata nel duecentesimo anniversario della nascita del suo autore come omaggio al grande poeta. Altre due antologie di traduzioni vedono la luce negli anni Cinquanta del Novecento: rispettivamente nel 1952 alcuni scritti nella versione di Arturo Pellis29 e nel 1958 una silloge a cura di Mazzino Montinari30. Quest’ultima costituisce una raccolta dichiaratamente orientata al reperimento di un fil rouge nell’opera di Goe­the catalogabile, pur se a costo di «alcunché di arbitrario»31, sotto la rubrica di «teoria della natura», nel tentativo di mostrare per la prima volta con una certa chiarezza ed estensione la presenza di un pensiero goethiano della natura, non meramente figlio dello slancio letterario, ma costruito sulla base di una riflessione e di un’indagine che scandisce l’intera biografia dell’autore. La raccolta più ampia, infine, ordinata tematicamente per ambiti di ricerca, è quella curata da Bruno Maffi e inserita nel già menzionato quinto ed ultimo volume dell’edizione italiana delle opere di Goe­the, apparso nel 196132. Sintomatico appare invece il fatto che le traduzioni di altri scritti scientifici, in

Cfr. G. Negodi, introduzione a J.W. Goe­the, Saggio sulla metamorfosi delle piante cit., pp. 15 e 5. 29 J.W. Goe­the, Scienza e natura. Scritti vari, traduzione di Arturo Pellis, con una introduzione di Francesco Albergamo e una presentazione di A.V. Geremicca, Laterza, Bari 1952. Ma si cfr. la recensione di Claudio Cesa in «Quaderni di Cultura e Storia sociale», I (1952), n. 12, pp. 461-463, in cui si rivelano gravi imprecisioni nelle scelte del traduttore, che compromettono la comprensione di testi che pure meritoriamente venivano pubblicati per la prima volta in italiano. 30 J.W. Goe­the, Teoria della natura, traduzione di Mazzino Montinari, Boringhieri, Torino 1958. 31 Cfr. la presentazione di Montinari, che si pone come una sorta di giustificazione e legittimazione dell’operazione editoriale sui generis intrapresa: ivi, p. 9. 32 J.W. Goe­the, Scritti scientifici, con una introduzione di Bruno Maffi, in J.W. Goe­ the, Opere cit., vol. V, pp. 3-370. Tale sezione del volume è a sua volta divisa in cinque parti, rispettivamente intitolate Natura e scienza, Morfologia delle piante, Morfologia degli animali, Intermezzo geologico-meteorologico, e La teoria dei colori. Come in parte si è già osservato, alcune singole sezioni sono state in seguito ripubblicate in più agili antologie degli scritti scientifici goethiani: è il caso del saggio sulla metamorfosi delle piante, ma anche della sezione di argomento zoologico: alcuni dei testi ivi contenuti sono stati ripubblicati infatti, in una versione modificata, nel volumetto intitolato Metamorfosi degli animali, a cura di B. Maffi, SE, Milano 1986. 28

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parte ancora ignoti al lettore italiano, siano state pubblicate come corredo alla più recente edizione italiana del saggio sulla metamorfosi delle piante, come sue premesse33 e come suoi corollari e ‘paralipomeni’34. È sufficiente questa breve rassegna per mettere in luce, dunque, il carattere prevalentemente occasionale dell’attenzione che i traduttori italiani hanno rivolto in generale agli scritti scientifici di Goe­the, visti come isolati contributi che punteggiano la biografia dell’autore, o come frammenti di una riflessione intesa, per più di un rispetto, come marginale, disorganica e asistematica35. È un simile pregiudizio che ha legittimato anche l’aspetto frammentario, spesso dispersivo e molto delimitato assunto dai lavori interpretativi su tali scritti36, con poche eccezioni in anni più recenti. Per tutto l’Ottocento in Italia si incontrano solo pochi brevi accenni all’opera scientifica di Goe­the, in forma di singole notizie, curiosità o riassunti di articoli apparsi in Germania; al volgere del secolo si segnalano alcuni brevi saggi dedicati alla figura del Goe­the scienziato firmati da Carlo Del Lungo37, che si inseriscono nella corrente interpretativa connotata dal pregiudizio evoluzionista di cui si è detto, mentre occorrerà attendere la pubblicazione, nel 1938, del volume di Walter

Cfr. J.W. Goethe, La metamorfosi delle piante e altri scritti sulla scienza della natura, cit. Si veda la prima parte del testo, intitolata Botanica, che raccoglie gli scritti autobiografici e introduttivi con cui Goe­the volle accompagnare la seconda edizione del suo saggio, nel 1817. 34 Si tratta degli scritti della parte seconda, intitolata Teoria generale della natura e delineata sulla base del corrispondente piano del volume tredicesimo della Hamburger Ausgabe. 35 Emblematico il caso delle idee sparse tra le Maximen und Reflexionen, erroneamente considerate come episodi puntiformi nel quadro del diario morale dell’autore. 36 Per un generale orientamento (per quanto non esaustivo) sulle prime fasi della ricezione italiana del Goe­the scienziato, si può consultare il lavoro di G. Avanzi e G. Sichel, Bibliografia italiana su Goe­the (1779-1965), Olschki, Firenze 1972, nonché i contributi 30 Jahre Goe­the-Forschung in Italien, apparsi sul «Goe­the-Jahrbuch», nei nn. 92 (1975), pp. 45-73 e 93 (1976), pp. 150-164. 37 Cfr. C. Del  Lungo, Goe­the scienziato, in «Nuova Antologia», S. IV, vol. LXIV (1896), pp. 105-131; Id., L’evoluzione in due poesie di W. Goe­the, in «Rivista d’Italia», II (1899), pp. 664-677; Id., Meteorologia goethiana, in «Rassegna Internazionale», III, vol. IX (1902), fasc. V, pp. 233-239 e Id., Goe­the ed Helmholtz, Bocca, Firenze 1903. 33

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Jablonski38 per poter disporre di una monografia interamente dedicata al rapporto tra Goe­the e le scienze naturali. Un contributo di Sebastiano Timpanaro39, apparso nell’anno goethiano 1932 aveva affrontato per la prima volta la questione degli scritti scientifici ponendo l’attenzione anche sul profilo filologico e fornendo alcune indicazioni orientative che tuttavia, ancora per diversi decenni, non sono confluite in specifiche operazioni editoriali. Se si esclude la traduzione del volume di Rudolf Steiner40 a commento delle opere scientifiche di Goe­ the, infatti, i contributi in italiano che si susseguono nel secondo dopoguerra restano per lo più confinati ad alcune note di discussione in seno agli storici della biologia, della fisica e della medicina, o a singoli capitoli nel quadro più vasto dell’interpretazione dell’opera goethiana. Per poter indicare uno studio più comprensivo sul pensiero scientifico di Goe­the, occorre rifarsi all’attento lavoro di Paola Giacomoni41, pubblicato nel 1993 e tuttora di riferimento, nonché ai contributi pubblicati in varie sedi da Francesco Moiso42, dedicati anche all’importante tema del rapporto tra arte e scienza in Goe­the. Il panorama più recente della bibliografia italiana sull’argomento, certo più fitto che nei decenni passati, è costituito prevalentemente da raccolte di contributi dedicati a singoli aspetti specifici dell’ampia e complessa opera scientifica goethiana, spesso esiti di convegni43 di ispirazione

Cfr. W. Jablonski, Goe­the e le scienze naturali. Saggi, Laterza, Bari 1938. S. Timpanaro, Goe­the e la scienza, in «L’Italia letteraria», IV (1932), n. 16. 40 R. Steiner, Le opere scientifiche di Goe­the, Bocca, Torino 1944. 41 P. Giacomoni, Le forme e il vivente. Morfologia e filosofia della natura in J.W. Goe­the, Guida, Napoli 1993. 42 Cfr. da ultimo il volume apparso postumo: F. Moiso, Goe­the tra arte e scienza. Lezioni dell’Anno Accademico 2000-2001, Cuem, Milano 2001. 43 Il riferimento è anzitutto al volume einaudiano dal titolo Goe­the scienziato, a cura di G. Giorello e A. Grieco, Torino 1998, realizzato a seguito del convegno Goe­the scienziato – percorsi goethiani tra scienza etica e arte (Castelgabbiano, Cremona, maggio 1994) che inaugura una serie di incontri organizzati con il contributo della Associazione Scientifica Goetheanistica Italiana, fondata nel 1993 e di ispirazione steineriana (cfr. nota 21): di tale serie fanno parte anche i volumi Scienza e poesia in Goe­the, a cura di A. Destro (Atti del convegno tenuto a Bologna nel 1999), Bologna 2003, Il paradigma vegetale: la scienza e l’arte contemporanea rileggono la Metamorfosi delle piante di Goe­the, a cura di B.E. Camoni (Atti del convegno tenuto a Bologna nel 2000), Bologna 2003. In Italia un primo congresso dedicato al tema era stato organizzato già nel 1982, grazie a una collaborazione 38

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multidisciplinare, e di sparse menzioni, inserite entro quadri di sintesi, di inquadramento più o meno ampio, di storia della scienza e della filosofia44. Una considerazione a parte vale tuttavia per gli studi dedicati alla Farbenlehre, che in questa sede non è possibile trattare più diffusamente45, ma che ruotano, come è noto, attorno alla celebre controversia tra Goe­the e Newton, nonché, sempre più negli ultimi anni, al rapporto tra indagine scientifica, pratica artistica e giudizio critico sulle opere d’arte figurativa. Quest’ultimo tipo di indagine risulta attualmente sempre più spesso mediato dal riferimento ai campi della psicologia, delle scienze cognitive e delle neuroscienze, dunque supportato da una maggiore consapevolezza e interazione di metodi prove-

tra l’Università di Trento e quella di Essen, anche se le relazioni raccolte nei relativi Atti sono state stampate in tedesco dall’editore francofortese Peter Lang (cfr. nota 23). Si segnalano inoltre i più recenti volumi, anch’essi risultati da convegni tenuti in varie città italiane: Arte, scienza e natura in Goe­the cit., e Goe­the e la pianta: natura, scienza e arte, a cura di D. von Engelhardt e F.M. Raimondo, Palermo 2006. 44 Cfr. ad es. Emil Ungerer, Fondamenti teorici delle scienze biologiche, Feltrinelli, Milano 1972; G. Solinas, Il microscopio e le metafisiche. Epigenesi e preesistenza da Cartesio a Kant, Feltrinelli, Milano 1967; Lorenzo Bianchi, Signatura rerum. Segni, magia e conoscenza da Paracelso a Leibniz, Ateneo, Roma 1987; A. La Vergata, L’equilibrio e la guerra della natura. Dalla teologia naturale al darwinismo, Morano, Napoli 1990; Aa. Vv., Il problema del vivente tra Settecento e Ottocento. Aspetti filosofici, biologici, medici, a cura di V. Verra, Roma 1992; S. Poggi, Il genio e l’unità della natura. La scienza della Germania romantica (1790-1830), Bologna 2000. Ma già Albergamo all’inizio degli anni Cinquanta, in concomitanza con la pubblicazione dell’antologia di traduzioni di scritti scientifici realizzata da Arturo Pellis (cfr. nota 29), inseriva il pensiero di Goe­the nella sua Storia della logica delle scienze empiriche, Laterza, Bari 1952; inoltre non sarà inutile osservare che, quasi contemporaneamente, in Italia si ascriveva alla medesima categoria uno dei volumi della celebre opera cassireriana sul problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza di età moderna, infedelmente ed erroneamente considerato un manuale di storia della filosofia: cfr. Ernst Cassirer, Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeiten, 4 Bde., Bruno Cassirer, Berlin 1906-1957, in part. Bd. 4: Von Hegels Tod bis zur Gegenwart (1832-1932), rist. in ECW, Bd. 5, hrsg. V.B. Recki, Hamburg 2000; trad. it. con il titolo Storia della filosofia moderna, Einaudi, Torino 1952-1958, vol. IV in 2 tomi: I sistemi posthegeliani, Torino 1958. 45 La prima traduzione italiana è quella a cura di Renato Troncon: J.W. Goe­the, La teoria dei colori: lineamenti di una teoria dei colori. Parte didattica, introduzione di Giulio Carlo Argan, Il saggiatore, Milano 1978; le principali interpretazioni si situano per la stragrande maggioranza nell’ambito della storia della scienza; cfr. però altre voci, come l’edizione a cura di G. Quattrocchi: J.W. Goe­the, Dalla teoria dei colori: tra scienza e mistero, Demetra, Bussolengo 1995, orientata ad una lettura ancora in chiave occultista.

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nienti da discipline ritenute fino a non molti anni fa piuttosto distanti dalla sfera estetica e storico-artistica, ma quanto mai frequentate in questi ultimi decenni. Si dovrà dunque constatare, con questo distinguo, che gli studi sull’opera scientifica di Goe­the, salvo pochissime eccezioni, la affrontano in misura a volte frammentaria, a volte parziale, come un argomento collaterale o funzionale ad altri fini espositivi. Gli studi più cospicui e organici restano quelli di ambito tedesco o anglosassone, ed è significativo che gli spunti che paiono più fedeli alle intenzioni dell’autore siano quelli provenienti dall’alveo del dibattito teorico scientifico, da noi giunto a lungo soltanto di riflesso nelle traduzioni degli interventi di Helmholtz, Heisenberg, René Thom, D’Arcy Thompson, Portmann, Cramer. Si tratta, come è evidente, di un caso paradigmatico del danno che l’atteggiamento di chiusura disciplinare reca alla comprensione di un’opera e di un autore. Ciò che non è accaduto, o è accaduto solo in parte (certo non a caso, data la statura dell’autore) in Germania, in cui si sono succedute varie edizioni, più o meno comprensive e sistematiche, dei lavori scientifici di Goe­the, le cui proporzioni, anche quantitative, non sono rimaste così a lungo ignote. In particolare la fondamentale Leopoldina-Ausgabe, inaugurata nel secondo dopoguerra, si segnala per la completezza, la competenza scientifica e filologica e la collaborazione critica interdisciplinare dei curatori. Ma già la monumentale Sophienausgabe weimariana, pubblicata tra il 1889 e il 1919, comprendeva in una sezione piuttosto cospicua 14 volumi di scritti di argomento scientifico, che sarebbe difficile trascurare, sia sul piano quantitativo sia su quello contenutistico e sostanziale. È questo uno dei casi, dunque, in cui l’aggiornamento culturale in Italia ha subìto un considerevole ritardo.

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III. Correzione di un ritratto: breve cronologia dei lavori scientifici di Goe­the In un intervento pronunciato nel 1932 su Goe­the e le scienze naturali, Gottfried Benn poneva l’attenzione su un’apparente macroscopica sproporzione nell’immagine tramandata del maggiore poeta tedesco: «Nella grande edizione di Weimar gli scritti di scienze naturali riempiono quattordici volumi; se si calcola poi che nei cinquanta volumi di lettere e nei trentasette volumi di diari molti e ampi passi trattano gli stessi temi, già questo panorama statistico dà un’impressione dell’importanza dell’opera scientifica»46. Certo, aggiungeva ancora Benn, «da un punto di vista scientifico assoluto si tratta più di un’eredità che di un’opera». Tuttavia il loro valore non è stato ancora compreso a sufficienza. Uno sguardo sintetico alla cronologia dei lavori scientifici di Goe­the consentirà pertanto di verificare questo giudizio, e di valutare più correttamente da un lato la percezione che l’autore ebbe del mancato riconoscimento toccato in sorte alla sua opera scientifica, dall’altro l’entità della deformazione impressa, nel nostro Paese, alla sua immagine di intellettuale e di pensatore. L’interesse per la ricerca scientifica e la passione per l’osservazione e lo studio dei fenomeni naturali si manifestarono in Goe­the fin dagli anni dell’infanzia e della giovinezza, come dichiara egli stesso in celebri pagine autobiografiche di Dichtung und Wahrheit, con allusioni alle collezioni di oggetti naturali presenti nella casa paterna di Francoforte e alle letture che avevano costituito già in questi primi anni un potente stimolo intellettuale per la sua formazione47, tanto che dei suoi juvenilia possono considerarsi a buon diritto parte, accanto alle prime prove liriche e drammatiche, anche i primi esperimenti di botanica e di allevamento di bachi da seta condotti intorno al 1760 nel giardino della casa paterna. Ancora alla fase della sua

46 Gottfried Benn, Goe­the und die Naturwissenschaften, in Id., Gesammelte Werke: Essays, Reden, Vorträge, hrsg. v. Dieter Wellershoff, Limes, Wiesbaden 1965, pp. 162200; trad. it. in Gottfried Benn, Lo smalto sul nulla, a cura di Luciano Zagari, Adelphi, Milano 1992, pp. 89-125: p. 89. 47 Cfr. Dichtung und Wahrheit, II, 8, a proposito dell’Aurea catena Homeri, del culto della natura e dell’alba.

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formazione appartengono le notizie di conversazioni di tema storico-naturale che il giovane studente di diritto intratteneva con i compagni studenti di scienze durante i primi anni del suo soggiorno lipsiense (che si data dall’ottobre 1765 all’agosto 1768), e non è casuale il fatto che un certo ben marcato «proteismo cosmico»48 divenga cifra ricorrente della sua prima produzione poetica. Sul finire degli anni Sessanta, rientrato da Lipsia a Francoforte, dopo aver superato una grave malattia polmonare, è noto come Goe­the si sia occupato più intensamente di temi alchemici, con particolare interesse per le questioni sulle origini della vita, sperimentando anche una più forte influenza del pietismo, ereditato per parte della madre e dell’amica materna Susanne Katharina von Klettenberg. Negli anni 1770-1771 è a Strasburgo per proseguire i suoi studi di diritto, e contestualmente frequenta lezioni di medicina e di anatomia. È qui che, oltre a pubblicare delle prime raccolte di Lieder, stringe amicizia con Herder, che avrà un ruolo determinante come interlocutore nei suoi primi lavori scientifici. Intrapresa la professione di avvocato nell’autunno del 1771, Goe­the pubblica il suo primo lavoro teatrale, il Götze von Berlichingen, due anni più tardi, e mentre all’estate del 1773 si data l’inizio del lavoro al Faust, al 1774 risalgono contemporaneamente la prima rappresentazione teatrale del Götze a Berlino, la pubblicazione del Werther, e i primi contatti con il teologo zurighese Lavater, nonché con il futuro duca di Sassonia-Weimar, Karl August, il quale nel 1775 invita Goe­the a recarsi a Weimar, che diventerà, come è noto, sua città di adozione. Nel biennio 1774-1776 Goe­the presta la sua collaborazione ai Physiognomische Fragmente di Lavater, realizzando dei brevi contributi, in particolare dedicati all’osservazione di cranî animali, pubblicati nel 1776 nel secondo volume dei Fragmente lavateriani. Dal maggio 1776 fino all’estate del 1782 Goe­the si stabilisce nel «Gartenhaus am Stern» di Weimar e inizia ad occuparsi dell’allestimento di giardini; nel 1779 è documentato un lavoro sulla sistematica e sulla terminologia botaniche condotto in collaborazione con Batsch. Risalgono a questo periodo due viaggi in Svizzera, l’inizio del lavoro al Wilhelm Meister e

48 L’espressione è di Ladislao Mittner: Storia della letteratura tedesca, vol. II: Dal pietismo al romanticismo (1700-1820), tomo secondo, Einaudi, Torino 1971, p. 332.

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le redazioni, in prosa e in versi, della Iphigenie auf Tauris. Nel 1781 frequenta le lezioni di anatomia di Loder a Jena, e tiene alcune conferenze di argomento anatomico presso l’Accademia del disegno di Weimar; in autunno si trasferisce nella casa sul Frauenplan, quindi inizia a lavorare all’Egmont mentre, nel 1783-84, prosegue lo studio dell’anatomia del cranio degli animali superiori, formulando infine la scoperta dell’osso intermascellare anche nell’uomo, e facendo realizzare la prima Prachthandschrift del suo saggio intitolato Versuch aus der vergleichenden Knochenlehre daß der Zwischenknochen der obern Kinnlade dem Menschen mit den übrigen Tieren gemein sei. Al 1786 sono datate varie osservazioni al microscopio sugli animali infusori, e in questa attività, come in ogni altra sua intensa occupazione, coinvolge l’amico Karl Ludwig von Knebel e Charlotte von Stein. Dal settembre 1786 al giugno 1788, come è noto, Goe­the soggiorna in Italia in diverse città, proseguendo il lavoro a varie opere narrative e drammatiche, e compiendo una gran quantità di osservazioni botaniche e zoologiche, registrate su taccuini di appunti e in seguito rielaborate, e prevalentemente dedicate al problema della Urpflanze e dello sviluppo individuale degli organismi. Di ritorno a Weimar, nel 1788, inizia il lavoro alle Römische Elegien e conlcude il Torquato Tasso, mentre, tra il 1787 e il 1790, appare per i tipi dell’editore Göschen una prima raccolta di opere letterarie tra cui Faust. Ein Fragment. Nel frattempo inizia a deteriorarsi il rapporto con Charlotte von Stein, e si intreccia la relazione con Christiane Vulpius (che sposerà nel 1806), dalla quale nasce un primo figlio, Julius  August Walther, nel 1789. Nel 1790 Goe­the compie un secondo viaggio in Italia, tra Verona, Vicenza e Venezia, e in quest’ultima città gli si manifesta l’intuizione della teoria vertebrale del cranio. In questi mesi compone i Venetianische Epigramme, segue la non semplice pubblicazione del Versuch die Metamorphose der Pflanzen zu erklären e inizia a studiare la teoria dei colori. L’anno successivo, 1791, pubblica i Beiträge zur Optik ed è nominato a guidare le attività del teatro di Weimar, alla cui direzione resterà fino al 1817. Risalgono a questo periodo anche le pagine del Versuch über die Gestalt der Tiere. Nel 1792-1793 è al seguito di Karl August nella campagna di Francia, ed è testimone dell’assedio di Magonza, ma porta con sé il suo opuscolo sulla metamorfosi delle piante, nonché

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altro materiale di studio. Nel 1794 si rinsalda l’amicizia con Schiller, e al 20 luglio risale la celebre conversazione tra i due sulla metamorfosi delle piante, raccontata da Goe­the nel breve testo autobiografico dal titolo Glückliches Ereignis. Al biennio 1794-1796 risalgono le conferenze di argomento osteologico tenute a Jena; nel 1795 programma una pubblicazione delle Beobachtungen und Betrachtungen aus der Naturlehre und Naturgeschichte, mentre l’anno successivo è impegnato nelle osservazioni riguardo all’azione della luce sui corpi organici. In una pagina di diario datata 25 settembre 1796 impiega per la prima volta il termine «Morphologie» per riferirsi alle sue indagini scientifiche, come risulta anche da un passaggio di una lettera a Schiller datata 12-13 novembre 179649. Nel biennio successivo si concentra su alcuni studi entomologici, basati sul concetto di metamorfosi, mentre nel 1797, su esortazione di Schiller, riprende il lavoro al Faust, interrotto da diversi anni, e fonda la rivista «Die Propyläen», per cui programma di pubblicare anche dei contributi di carattere scientifico. Compie un ulteriore viaggio in Svizzera e incontra lo scienziato, anatomista, zoologo e botanico Karl  Friedrich Kielmeyer, che resterà suo interlocutore per le questioni sullo sviluppo dei corpi organici. Nel 1798 conosce Schelling a Jena, e ha rapporti, non sempre agevoli, anche con Hegel, Hölderlin e Kleist, mentre elabora un poema sulla natura, di cui sarà parte la celebre elegia sulla metamorfosi delle piante. Nel frattempo completa la stesura del Wilhelm Meisters Lehrjahre, delle Unterhaltungen deutscher Ausgewanderten, delle Römische Elegien e dello Hermann und Dorothea, mentre nel corso degli anni 1792-1800 vedono la luce i sette volumi di una nuova edizione delle sue opere (Goe­ the’s neue Schriften) realizzata dall’editore Unger. Tra il 1804 e il 1805 mostra un’attenta considerazione per la craniologia di Franz Joseph Gall, di cui frequenta anche le lezioni a Halle. Il 9 maggio 1805 muore l’amico Schiller. Tra il 1806 e il 1807 progetta la pubblicazione delle Ideen über organische Bildung, redige il capitolo introduttivo al suo lavoro sulla morfologia, nonché i Botanische Vorträge, mentre alcuni episodi della storia politica entrano prepotentemente

Cfr. J.W. Goethe, Sämtliche Werke II. Abt., Bd. 4 (31), Mit Schiller I, 1794-1799, Frankfurt am Main 1998, p. 258.

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nella sua biografia: nell’ottobre 1806, dopo la battaglia di Jena, le truppe napoleoniche saccheggiano Weimar, ma la casa di Goe­the viene risparmiata. All’ottobre 1808 risale il noto incontro con Bonaparte ad Erfurt, mentre viene data alle stampe la prima parte della tragedia dedicata a Faust, e prende forma il romanzo Wahlverwandtschaften. L’editore Cotta realizza, nel quadriennio 1806-1810, una nuova edizione delle sue opere (Goethes Werke), mentre l’autore lavora intensivamente alla Farbenlehre, inizia la stesura delle pagine autobiografiche Dichtung und Wahrheit (pubblicate in quattro parti tra il 1811 e il 1833), dei Wilhelm Meisters Wanderjahre e della Italienische Reise (uscita tra il 1816 e il 1829). Al 1811 si data anche il breve studio sulla Pietra fungaia, mentre nel 1814, sulla scorta dell’impressione ricevuta dalla lettura del Divan di Hafez, inizia la stesura delle poesie del West-östlicher Divan (apparse a stampa nel 1819). Nei due anni successivi compie osservazioni sui colori delle piante in collaborazione con Friedrich  Siegmund Voigt, mentre nel 1816, che è anche l’anno della scomparsa della moglie Christiane, inizia a pubblicare la rivista «Kunst und Altertum», che proseguirà fino al 1832. Gli anni 1817-1824 vedono la pubblicazione degli Hefte zur Morphologie, che contengono una raccolta di articoli e saggi più o meno recenti, resoconti di carattere autobiografico e contributi inediti, mentre l’autore intrattiene scambi con scienziati come Carus, d’Alton, Nees von Esenbeck ed Ernst Meyer. Nel frattempo appare una nuova edizione dei suoi scritti, in venti volumi pubblicati tra il 1815 e il 1819; nel 1820 esce la prima raccolta di Zahme Xenien e inizia a scrivere Die Campagne in Frankreich. Nel decennio successivo riprende quindi la composizione del Faust e prosegue la stesura di Dichtung und Wahrheit e dei Wanderjahre. Nel giugno 1828 muore il granduca Karl August; Goe­the soggiorna a Dornburg e prosegue i suoi studi sulla morfologia, elaborando monografie di argomento botanico e progettando, con la collaborazione di Soret, una edizione franco-tedesca del suo saggio sulla metamorfosi delle piante. Organizza nel frattempo un’altra edizione delle sue opere, l’ultima che vedrà la luce durante la sua vita, con il titolo Goethes Werke. Vollständige Ausgabe letzter Hand, e che sarà completata da venti volumi di scritti postumi curati da Eckermann e Friedrich  Wilhelm Riemer. Tra il 1829 e il 1831 si impegna a studiare la tendenza

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a spirale della vegetazione, mentre nel 1830 si appassiona alla disputa tra Cuvier e Geof­froy de Saint-Hilaire, di cui pubblica una prima recensione dal titolo Principes de Philosophie Zoologique. I. Abschnitt. Nell’ottobre del 1830 muore a Roma il figlio August, e solo nell’anno successivo, 1831, vedono la luce alcuni progetti da lungo tempo accarezzati: una nuova edizione, corredata di tavole, del saggio sull’osso intermascellare, e l’edizione franco-tedesca della Metamorphose der Pflanzen; nell’agosto completa la stesura della seconda parte del Faust, che decide però di far pubblicare solo dopo la sua morte. Fino alla fine dei suoi giorni Goe­the lavora ancora su temi scientifico-naturali: nel 1832 scrive una memoria intitolata Plastische Anatomie, nonché la seconda parte della sua recensione ai Principes de Philosophie Zoologique. Eckermann descrive così le sue ultime occupazioni: «Dopo che, l’estate scorsa, fu completata la seconda parte del suo immortale Faust, nell’inverno passato si occupò a preferenza di studi naturali. Prese parte alle discussioni parigine fra Cuvier e Saint-Hilaire e, in proposito, scrisse ancora negli ultimi tempi un importante saggio su argomenti osteologici e sul procedimento sintetico e analitico nella trattazione delle scienze naturali in generale. Questo saggio è stato inviato poco prima della sua dipartita alla redazione dei “Berliner Jahrbücher” e apparirà probabilmente fra breve in quella rivista. Inoltre si occupò con me di una nuova redazione della seconda parte della Teoria dei colori, cosicché anche durante la sua malattia ha parlato moltissimo dei colori»50.� IV. Goe­the morfologo Con quanto precede si è inteso fornire un semplice e asciutto ritratto storico-documentario della produzione complessiva di Goe­the, cercando di riequilibrare le proporzioni tra le varie sfere della sua attività: probabilmente anche soltanto uno schematico riassunto biografico come quello appena esposto può servire a correggere l’immagine cristallizzata di un Goe­ the letterato con qualche velleità da scienziato naturalista. Le

50 J.P. Eckermann, lettera a Kiesewetter del 3 aprile 1832, citata da Gottfried Benn, op. cit., p. 162, trad. it., pp. 89-90.

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date stesse mostrano che la sua produzione scientifica non può essere valutata come un’incursione occasionale in ambiti eterogenei rispetto al proprio, o al massimo collaterali, a margine della corrente principale dell’ispirazione poetica: la presenza degli scritti scientifici si rivela invece densa e continua nell’arco dell’esistenza dell’autore, fittamente intrecciata alla cronologia delle sue opere poetiche, narrative e drammatiche. Nel già citato contributo di Gottfried Benn si potrà leggere un brillante racconto biografico che con grande vividezza pone ancor più in luce l’intensità dell’attività scientifica di Goe­ the, accentuando da un lato il motivo, interno all’autore, della «necessità interiore» che lo spingeva ad occuparsi del campo degli studi di scienza naturale (un’occupazione, scrive Benn, inserita «nella sua struttura più intima» e da essa derivata51), e insistendo d’altro lato sul senso storico-culturale della rivalutazione della sua opera scientifica, con l’intenzione di esortare a contrapporre un diverso tipo di ricerca all’imperante «fisicalismo» meccanicista della scienza moderna e contemporanea. Una decisa rivendicazione di quest’ultimo aspetto, ispirato dalla lettura di questi scritti di Goe­the, è sostenuta dalla corrente di orientamento steineriano e antroposofico, sotto la cui egida si riuniscono scienziati, professionisti e intellettuali che dichiarano la propria posizione consapevolmente alternativa rispetto alla ricerca accademica «ufficiale» e, reputandosi dei continuatori, sostengono la fecondità e applicabilità concreta al campo della ricerca e pratica scientifica, dell’interpretazione «goetheanistica» della natura. Dal loro ambito provengono, oltre a pubblicazioni degli scritti dello stesso Rudolf Steiner e delle interpretazioni di Goe­the da lui inaugurate, anche le già citate iniziative dei convegni, studi e traduzioni52 che recano la chiara impronta di un simile orientamento culturale, ma che corrono il rischio talvolta di deformare eccessivamente l’autore in senso agiografico e spiritualista. Senza pretendere di sbilanciare il quadro in quest’ultima direzione, la presente traduzione degli scritti morfologici di

51 Gottfried Benn, op. cit.; trad. it., p. 94; Benn contraddice qui la tesi di Du BoisReymond, che contrapponeva in maniera faziosa Voltaire a Goe­the come un ricercatore a un dilettante. 52 Cfr., ad esempio, i riferimenti citati supra, alle note 21 e 23.

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Goe­the intende porre l’attenzione sulle peculiarità di un metodo che appare fecondo e applicabile a una grande varietà di discipline e di ambiti di ricerca, anche se difficilmente si può parlare di una sua vera e propria formalizzazione. Lo si potrebbe definire un metalinguaggio, che tuttavia può essere padroneggiato e studiato correttamente solo nella sua declinazione concreta: quella esemplificata dagli studi goethiani qui presentati, che hanno costituito l’occasione e il motivo della sua coniazione. Non è questa dunque la sede per entrare nel merito di un’interpretazione complessiva della concezione della natura del nostro autore, o della sua teoria epistemologica. Il proposito qui adottato è piuttosto in primo luogo documentario e, si vorrebbe dire, protrettico, per cui si ritiene importante fornire lo spunto per una Anregung ed una Aufregung (termine goethiano), potenzialmente rivolte ad una molteplicità di ambiti particolari. Se dunque le tendenze che finora ha seguito la storia degli studi sulla morfologia si possono riassumere negli ambiti della Goe­the-Forschung, della storia delle teorie scientifiche e in particolare della biologia (spesso in seno al dibattito tra sostenitori e avversari del metodo morfologico, o alle controversie relative al confronto con altri scienziati), oppure ancora nella storia della letteratura e della filosofia, per cui la morfologia compare come termine di paragone nel quadro della ricerca su altri autori, con il presente lavoro si intende tornare al dettato del testo goethiano, valutando così il potenziale della morfologia come stimolo intellettuale e non mera suggestione astratta o ‘antiquaria’. Si potrà così verificare come sia determinante, nella scelta di tradurre la Morfologia tra gli scritti scientifici, il richiamo alla fecondità, storica e teorica, di concetti come la «exakte sinnliche Phantasie», la «rationelle Empirie», il «sinnliches Anschauen» di Goe­the, l’impiego misurato dell’analogia e il legame profondo tra natura e arte, nella dimensione formale, sensibile, e in quella creativa, che essenzialmente trascendono l’idea della mera fascinazione per la bellezza o per il regno naturale. La molteplicità di accezioni del termine ‘forma’, spesso non semplici da districare, sovrapporre, coordinare e subordinare; la complessità del tema del mutamento secondo leggi, come metamorfosi e trascorrere da una forma all’altra, in una successione di incessanti e provvisorie ‘traduzioni’; la centra-

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lità della prospettiva relazionale e funzionale come modello logico: tutto questo confluisce nella definizione (mai compiutamente sistematizzata da Goe­the) dei princìpi della sua morfologia. Esula dagli scopi della presente introduzione ripercorrere la storia delle risonanze, molto spesso profonde, che tali princìpi hanno avuto nelle opere di filosofi e scienziati, in particolare nel corso del Novecento53. Tracciare una simile sequenza di ripercussioni e di ispirazioni originate dal metodo goethiano costringerebbe a divergere rispetto al percorso cui è necessario attenersi per illustrare i testi qui presentati, poiché i cerchi concentrici determinati dal nucleo di queste riflessioni si estendono in territori molto vasti. Sarà indispensabile, tuttavia, far riferimento ad un autore che ha interpretato e rivitalizzato con grande finezza, e nelle vesti di una generale filosofia della cultura, questa eredità goethiana, vale a dire Ernst Cassirer, a cui si deve non soltanto la più lucida esposizione sintetica dei princìpi dell’approccio scientifico morfologico, ma anche una frequente e profonda riflessione sul significato e sull’efficacia sempre operante dell’opera di Goe­the, della sua geistige ­Leistung 54. Come è noto, è difficile sopravvalutare la rilevanza che Goe­ the ebbe per Cassirer, sotto il profilo biografico, intellettuale e simbolico55. Numerosi sono gli interventi che il filosofo di Breslau ha dedicato esplicitamente a diversi aspetti dell’opera e della personalità di Goe­the, e non è forse un caso che tra i vari argomenti, egli abbia insistito sugli spunti derivati dalla produzione scientifica dell’autore56. È possibile inoltre

Si pensi ad esempio, oltre che a biologi come Portmann, d’Arcy Thompson o Agnes Arber, a studiosi come Vladimir Propp, o al secondo Wittgenstein. 54 Goethes geistige Leistung è, significativamente, il titolo dato da Cassirer ad un ciclo di lezioni datate 1941: cfr. Ernst Cassirer, Nachgelassene Manuskripte und Texte (ECN), hrsg. v. K.C. Köhnke, J.M. Krois und O. Schwemmer, Meiner, Hamburg 1995-, Bd. 11: Goe­the-Vorlesungen (1940-1941), hrsg. v. J.M. Krois, Hamburg 2003, pp. 233-380. 55 Cfr., in proposito, i ricordi di Toni Cassirer, Mein Leben mit Ernst Cassirer, Meiner, Hamburg 2003 [1948], nonché i contributi raccolti nel volume Cassirer und Goe­ the: neue aspekte einer philosophisch-literarischen Wahlverwandtschaft, hrsg. v. B. Naumann u. B. Recki, Akademie Verlag, Berlin 2002. 56 Si veda, infatti, oltre agli interventi di stampo più decisamente storico-filosofico (Goe­the und die geschichtliche Welt, Goe­the und die kantische Philosophie, in ECW 18: 53

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riferire tale affermazione non soltanto agli studi di impianto prevalentemente storiografico, ma alla stessa impresa teorica maggiore di Cassirer, la Philosophie der symbolischen Formen, sulla cui impronta goethiana molti hanno richiamato l’attenzione. L’intero arco della sua attività, infatti, è caratterizzato da una costante compenetrazione di analisi storica ed elaborazione teorica, e l’ispirazione goethiana si rivela non a caso paradigmatica in tutti i suoi lavori. La trattazione più diffusa ed esplicita della morfologia goethiana, inserita in un contesto di esposizione storico-critica, si trova però nel quarto volume del monumentale Erkenntnisproblem cassireriano, in cui l’autore, ripercorrendo diacronicamente le soluzioni storicamente date al problema della conoscenza nella produzione filosofica e scientifica di età moderna, si sofferma sulla «morfologia idealistica», e sulla particolare e duratura influenza che i suoi princìpi hanno esercitato nel pensiero scientifico dei decenni successivi alla formulazione goethiana57. Di tali princìpi fanno parte l’idea di un ordinamento continuo e graduale dell’universo naturale, che rende possibile confrontare i fenomeni e, in prospettiva comparativista, l’ipotesi dell’esistenza di un piano strutturale dato, in base al quale sono costituiti i viventi. Inoltre, la concezione degli esseri viventi come totalità organiche in cui la struttura e disposizione relativa delle parti sono costanti, mentre variabili sono le proporzioni in cui i rispettivi organi si trovano gli uni rispetto agli altri (in base alla legge di compensazione). Ancora, cruciale è la concezione della ininterrotta formazione e trasformazione degli esseri, di una metamorfosi che procede per contrazione e dilatazione, secondo l’alternanza di sistole e diastole, per cui si può distinguere da un lato un’intima natura degli organismi, dotata di caratteri riconoscibili, dall’altro l’influsso delle circostanze ad essi esterne e mutevoli: è dalla lucida considerazione

Aufsätze und kleine Schriften (1932-1935), Hamburg 2004, pp. 363 sgg., e il capitolo dedicato a Goe­the in Freiheit und Form (ECW 7, pp. 181-284)), anche la recensione dal titolo Der Naturforscher Goe­the (1932), in ECW 18, pp. 437-441, il contributo su Goe­the und die mathematische Physik, in Idee und Gestalt cit., o i materiali pubblicati tra le carte del Nachlaß, nei volumi: ECN 11, cit., ed ECN 10: Kleinere Schriften zu Goe­the und zur Geistesgeschichte, hrsg. v. B. Naumann in Zusammenarbeit mit S. Zumsteg, Hamburg 2006. 57 Cfr. E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem cit., Bd. IV, ECW; trad. it., pp. 219 sgg.

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dell’interazione tra tali elementi che sorge dunque l’idea del modello originario ideale, il tipo, la «pianta simbolica»58, l’Urphänomen, elemento caratterizzante dell’intera speculazione goethiana. In un’alternanza e accurata giustapposizione di una molteplicità di stili e forme espositive, dall’epistola al trattato, dal frammento alla recensione al resoconto autobiografico, dall’asciutta registrazione di esperimenti alla forma lirica, gli scritti sulla morfologia offrono costanti stimoli al lettore, incitandolo quasi al dialogo. Più in generale, si può osservare come nell’intera attività scientifica di Goe­the, dalla botanica alla zoologia all’anatomia comparata alla mineralogia, meteorologia e teoria dei colori, dall’ottica fisiologica e fisica alla teoria generale della natura (espressa in singoli saggi o nelle massime) il nucleo concettuale ed euristico possa ritenersi senza dubbio la morfologia, pur nella difficoltà della sua traduzione (e spesso nell’intraducibilità) dei suoi concetti e metodi. Presentare al lettore italiano gli scritti sulla morfologia di Goe­the significa dunque correggere una deformazione invalsa nella storia della sua ricezione, ma anche fornire uno sguardo prospettico, oltre che retrospettivo, su vari aspetti della prassi scientifica multidisciplinare. Si è insistito, tra le pagine di apertura di questa introduzione, sull’insoddisfazione patita da Goe­the di fronte alla scarsa risonanza dei suoi lavori scientifici; le sue parole, citate in proposito, sono state spesso ricordate dai suoi commentatori italiani, ma di fatto raramente verificate sui testi e nelle analisi storico-critiche dei contesti. Tuttavia, l’assimilazione e l’intreccio di motivi scientifici e di ispirazione artistica e lirica sono rintracciabili ad ogni lettura attenta, oltre che al mero esame della cronologia. «È la solita sorte dei grandi», scriveva Pavese riguardo a Melville, «su cui piace ai posteri spargere eloquenza, salvo poi a trattare anch’essi i contemporanei nell’antichissimo modo»59.�

58 Cfr. infra, p. 448 nonché l’importante breve testo sul simbolismo in WA II, 11, pp. 167-169. 59 C. Pavese, prefazione a H. Melville, Moby Dick, o la Balena, Adelphi, Milano 2000, p. 11

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V. Conclusione In uno dei suoi primi manoscritti dedicati ad analisi di osteologia comparata, Goe­the definisce se stesso un Liebhaber der Naturlehre 60, da interpretare nel senso che ebbe il dilettantismo nel Settecento e Ottocento, particolarmente nei Paesi di area tedesca. Jacob Burckhardt, altro grande ‘dilettante’ della ricerca storica e storico-artistica, concludendo una conferenza pronunciata nel novembre 1876 e dedicata al mondo dei Feaci descritto nel racconto odissiaco, scrisse che: Fa male dover pensare che le preoccupazioni botaniche sulla Ur­ pflanze si siano manifestate anticipando l’ispirazione di quell’ora solenne e forse decisiva nel giardino di Palermo (il 17 aprile 1787), a scapito del lavoro alla tragedia [Nausicaa, rimasta incompiuta, allo stadio di frammento]; la scienza botanica, infatti, avrebbe conseguito le sue scoperte e le sue verità effettive anche senza Goe­the, come, ad esempio, sarebbe accaduto per l’ingegneria idraulica e la meccanica anche senza Leonardo da Vinci, mentre le grandi creazioni della poesia e dell’arte sono legate solo a grandi e ben determinati maestri, e sono destinate a non veder mai la luce se essi impiegano le loro energie per altri scopi.61

Forse non è possibile confutare l’argomento ‘controfattuale’ così espresso da Burckhardt; tuttavia, come si è cercato di mostrare, nell’arco della sua esistenza Goe­the non poté mai scindere l’ora dell’ispirazione lirica dal momento dell’intuizione scientifica e teorica, poiché entrambi scaturivano da una

60 J.W. Goe­the, Beschreibung des Zwischenknochens mehrerer Tiere bezüglich auf die ­beliebte Einteilung und Terminologie, in DK 24, pp. 25-42: p. 25; cfr. infra, p. 19. 61 «Schmerzlich wäre es denken zu müssen, daß botanische Präoccupationen wegen der Urpflanze auf Kosten der Tragödie jene weihevollste und vielleicht entscheidende Stunde im Garten von Palermo (17. April 1787) möchten vorweggenommen haben; denn die botanische Wissenschaft würde auch ohne Göthe, so wie zB: die Wasserbaukunst und Mechanik auch ohne Lionardo da Vinci auf alle ihre wirklichen Wahrheiten und Entdeckungen gerathen sein, während die großen Schöpfungen der Poesie und Kunst nur an ganz bestimmte große Meister gebunden sind und ungeboren bleiben wenn diese ihre Kräfte anderwertig verwendeten»: Jacob Burckhardt, Die Phäakenwelt Homer’s, in: Jacob Burckhardt Werke: kritische Gesamtausgabe, hrsg. von der Jacob Burckhardt-Stiftung, Basel, Beck, München 2000: Bd. 13: Vorträge 1870-1892, aus dem Nachlass hrsg. v. M. Ghelardi und S. Müller unter Mitarbeit von R. Bernauer, München 2003, pp. 167-178: pp. 177-178.

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medesima «necessità interiore» e confluivano in un’identica volontà conoscitiva. Del resto, al pari della tragedia rimasta frammento, anche l’elaborazione del concetto della Urpflanze non ha trovato una vera e propria elaborazione sistematica, e probabilmente proprio questa circostanza ne amplifica la forza, sul piano intellettuale e su quello immaginativo, palesandone la capacità euristica e suggestiva. Ma ancora una volta si dovrà sottolineare come l’incomprensione che ha spesso indotto a sottovalutare il ruolo dell’attività scientifica di Goe­the si possa descrivere come un portato della ricezione parziale e segmentata della sua opera, cui è da ascrivere anche l’ulteriore ombra che ha offuscato la sua produzione in ambito estetico: a fronte della mole dei suoi interventi da critico e amatore d’arte, gli scritti goethiani più noti di tale argomento restano in proporzione decisamente poco numerosi62. Sarà interessante dunque, a commento generale della Wirkungsgeschichte del paradigma scientifico immaginato da Goe­ the, dei tentativi di attualizzazione e delle critiche presenti nella letteratura scientifica specialistica, ricordare, per analogia non casuale di atteggiamenti e metodi di ricerca, le parole che, in tutt’altro contesto, scrisse un secolo fa Aby Warburg, in quello che resta forse tuttora il più noto dei suoi saggi pubblicati: Con il mio tentativo di interpretare gli affreschi di Palazzo Schifanoia mi auguro di aver mostrato che un’analisi iconologica può rischiarare una singola oscurità e illuminare nella loro connessione le grandi fasi dell’evoluzione. Certo, un metodo simile non si deve far intimorire dal controllo poliziesco dei confini, ma deve considerare l’Antico, il Medioevo e l’evo moderno come un’epoca indissolubile e collegare altresì le opere d’arte più pure o più utili come documenti equivalenti dell’espressione umana. In effetti, ciò che mi premeva non era tanto una soluzione elegante, quanto sollevare un nuovo problema […]63

62 Cfr. i cinque volumi della ed. DK che raccolgono le Ästhetische Schriften: DK 1822. 63 A. Warburg, Italienische Kunst und internationale Astrologie im Palazzo Schifanoja zu Ferrara, in Id., Gesammelte Schriften, Bd. 1, 2: Die Erneuerung der heidnischen Antike: kulturwissenschaftliche Beiträge zur Geschichte der europäischen Renaissance, reprint der von Gertrud Bing unter Mitarbeit von Fritz Rougemont edierten Ausgabe von 1932; neu hrsg. v. Horst Bredekamp und Michael Diers, Akademie Verlag, Berlin 1998, pp. 459-481: 478-479; trad. it. in: Aby Warburg, Opere I: La rinascita del paga-

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Analoga sorte rispetto al Goe­the scienziato è toccata a Warburg, per l’esiguità del numero dei suoi lettori e per l’enorme quantità di commenti deformanti di cui è stata ed è oggetto la sua opera e la sua stessa figura. Che l’analogia tra i due autori non si limiti, però, a simile circostanza tutto sommato esteriore, è evidente ai lettori attenti che con scrupolo storico-critico e vivacità di immaginazione accostano i loro lavori, scorgendo il nucleo ancora vivo e fecondo di ambiziosi tentativi che non hanno raggiunto lo stadio di una compiuta sistematizzazione. Costoro sapranno riconoscere che il lascito di tali autori non è costituito da semplici pagine che contengono la soluzione di singoli enigmi, ma dall’indicazione di nuovi problemi e di nuove vie per risolverli64. La morfologia come modello logico e metalinguaggio, la centralità del processo di simbolizzazione, la confluenza profonda, efficace e virtuosa di paradigmi provenienti da varî ambiti della ricerca, l’organicità e unitarietà del vasto insieme di problemi indagati sono solo alcuni degli spunti di prossimità su cui è necessario riflettere65. Leggendo i testi editi e inediti relativi a vari periodi della biografia di Warburg, dalle pagine di diario alle tracce di conferenze, si trovano passaggi che documentano la sua lettura e meditazione dei lavori scientifici di Goe­the e alludono, esplicitamente o implicitamente, ad alcuni tra i saggi che costituiscono il suo lascito ‘morfologico’. L’analisi puntuale e sistematica di tali luoghi potrebbe rivelarsi complessa e potenzialmente inesauribile, se si considera il modo in cui Warburg era solito elaborare le proprie fonti, le cui tracce sono spesso solo implicite, anche se ben percepibili nei suoi scritti: era infatti sua consuetudine assimilare i testi e gli autori che gli fornivano i maggiori stimoli intellettuali fino a far proprio un intero strumentario concettuale o lessicale, che diventava poi fibra organica del suo linguaggio. In questa sede risulterà senz’altro

nesimo antico e altri scritti (1889-1914), a cura di Maurizio Ghelardi, Aragno, Torino 2004, pp. 515-555: p. 552. 64 Cfr. la dedica a Warburg nel volume: Ernst Cassirer, Individuum und Kosmos in der Philosophie der Renaissance (1927), in ECW 14, hrsg. v. F. Plaga und C. Rosenzweig, Hamburg 2002, p. xi; trad. it. Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, a cura di G. Targia, Bollati Boringhieri, Torino 2012, p. 2. 65 Cfr. su Warburg Maurizio Ghelardi, Aby Warburg. La lotta per lo stile, Aragno, Torino 2012.

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significativo, a titolo di esempio, un luogo tratto da uno dei suoi ultimi lavori: commentando una serie di confronti funzionale ad una riflessione sul Déjeuner sur l’herbe di Manet, Warburg in estrema sintesi si riferisce ad «un’opera d’arte che, per lo studioso d’arte di tipo evoluzionistico, adempie, in quanto oggetto, agli stessi postulati di un osso intramascellare»66. Si tratta, è vero, del riferimento ad uno dei problemi più dibattuti dalla scienza biologica del Settecento, che si interrogava, al pari della filosofia, sulla differenza tra l’uomo e gli animali; ma è inequivocabile l’allusione alla soluzione del problema individuata dal lavoro empirico, comparativista e morfologico, di Goe­the e al celebre saggio del 1784. Anche in questo caso, dunque, l’analogia tra i due autori richiama alla mente la distanza tra l’atteggiamento di chi cerca unicamente soluzioni a singoli enigmi circoscritti entro i confini della propria disciplina, e chi invece applica a quegli stessi problemi, molto concreti, un peculiare e più vasto modo di porre domande e di indicare prospettive di ricerca. Comprendere quest’ultima strada, senza escluderla a priori in quanto difficile da percorrere e da insegnare, incerta e non misurabile, consente spesso di modificare valutazioni erronee e interpretazioni invalse, rendendo senz’altro giustizia agli autori che hanno osato intraprenderla. Tornare al testo goethiano consentirà dunque di correggere molte deformazioni interpretative, lasciando scorgere, in controluce, l’immagine con cui l’autore stesso si dipingeva alla fine della sua vita, in una lettera indirizzata al conte von Stern­ berg: Un antico navigatore, che ha trascorso l’intera sua esistenza navigando avanti e indietro da isola a isola sull’oceano della natura, osservando le singolari forme prodigiose in tutti e tre i suoi elementi e intuendone le segrete e comuni leggi di formazione, e che tuttavia, non potendo distogliere l’attenzione dall’indispensabile lavoro di remo, vela e timone, non ha potuto dedicarsi esclu-

66 «[…] ein Kunstwerk […], dass für den evolutionistisch gestimmten Kunstbetrachter als Objekt geradezu die Postulate eines Zwischenkieferknochens erfüllt»: Aby Warburg, Manet’s Déjeuner sur l’herbe. Die vorprägende Funktion heidnischer Elementargottheiten für die Entwicklung modernen Naturgefühls, hrsg. v. M. Ghelardi in: Aa. Vv., «Conosco un ottimo storico dell’arte…»: per Enrico Castelnuovo: scritti di allievi e amici pisani, a cura di M.M. Donato e M. Ferretti, Edizioni della Normale, Pisa 2012, pp. 431-443: p. 435.

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sivamente a tali attraenti considerazioni. Soltanto ora infine è giunto a poter sperimentare e osservare come lo smisurato abisso sia stato indagato, le forme che si moltiplicano all’infinito a partire dalla più semplice siano state infine poste in luce nelle loro relazioni, come sia stato infine compiuto un lavoro di proporzioni tanto grandiose e incredibili.67

«Ein alter Schiffer, der sein ganzes Leben auf dem Ozean der Natur mit Hinund Widerfahren von Insel zu Insel zugebracht, die seltsamen Wundergestalten in allen drei Elementen beobachtet und ihre geheim-gemeinsamen Bildungsgesetze geahnet hat, aber, auf sein notwendigstes Ruder- Segel- und Steuergeschäft aufmerksam, sich den anlockenden Betrachtungen nicht widmen konnte, der erfährt und schaut nun zuletzt: daß der unermeßliche Abgrund durchforscht, die aus dem Einfachsten ins Unendliche vermannigfaltigten Gestalten in ihren Bezügen aus Tageslicht gehoben und ein so großes und unglaubilches Geschäft wirklich getan sei»: Goethes Briefe cit., Bd. IV, München 1988, pp. 279-280.

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La presente traduzione è stata condotta sul volume: J.W. Goethe, Schriften zur Morphologie, hrsg. v. Dorothea Kuhn (Sämtliche Werke, I. Abt., Bd. 24), Deutscher Klassiker Verlag, Frank­furt a.M. 1987, a cui si rimanda anche per la bibliografia. Ringrazio molto Maurizio Ghelardi, nonché l’editore Aragno per aver voluto e incoraggiato questa traduzione. Sono grata anche a Lorenzo Armando e a tutti coloro che mi hanno offerto il loro sostegno, condividendo con me le vicende di queste pagine. Questo lavoro è dedicato a Paolo Zanotti.

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[Contributo di storia naturale per i Frammenti fisiognomici di Lavater]1

Introduzione La differenza tra il genere umano e gli animali2 si mostra con evidenza già nella struttura ossea. Si consideri il modo in cui il nostro capo poggia sul midollo spinale e sulla forza vitale, e il modo in cui l’intera figura umana si erge come pilastro della volta in cui deve specchiarsi il cielo! Il nostro cranio si inarca come il cielo sopra di noi, affinché in esso possa ruotare la pura immagine delle sfere eterne! Questo contenitore del cervello costituisce la parte maggiore della nostra testa, e al di sopra delle mascelle salgono e scendono le nostre sensazioni, per radunarsi quindi sulle labbra! L’occhio, poi, è il più eloquente di tutti gli organi, e non ha bisogno di parole, ma di affettuoso e amorevole abbandono o di furibonde accensioni delle guance, nonché di tutte le sfumature intermedie per esprimere, o anche solo per accennare, ciò che scuote le più intime profondità dell’animo umano! Si consideri ora come la struttura degli animali costituisca l’esatto contrario di ciò che si è descritto. La testa è semplicemente attaccata alla colonna vertebrale; il cervello, con cui termina il midollo spinale, ha l’estensione strettamente necessaria a concedere spazio agli spiriti vitali e a guidare una creatura dal carattere meramente sensibile. Infatti, anche se non possiamo negare agli animali né ricordi né capacità di decisione riflessa3, il ricordo si trova, vorrei dire, in primis viis nei sensi, mentre la facoltà di scelta scaturisce dallo stimolo del momento e dalla preponderanza di un oggetto su un altro.

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Il muso e le fauci costituiscono le parti principali di una testa preposta essenzialmente all’azione di fiutare, masticare e ingoiare. I muscoli sono piatti e saldamente tesi, rivestiti di una pelle grezza e scabra, incapaci di assumere un’espressione più pura. Su questo bastino le annotazioni appena esposte, poiché penso di dover parlare soltanto di ciò che riguarda il cranio. La differenza tra le varie tipologie di cranî, che indica il carattere determinato degli animali, consente di osservare nel modo più chiaro come le ossa costituiscano le fondamenta della struttura e comprendano tutte le proprietà di una creatura. Le parti mobili si formano in base alle ossa, o per meglio dire insieme ad esse, e fanno gioco solo in quanto è loro concesso dalle parti fisse. Questa osservazione, innegabile in tale contesto, dovrà tuttavia incontrare grandi resistenze quando sarà applicata alla diversità dei cranî umani. Cranî degli animali Aristotele a proposito della fisiognomica Non c’è mai stato un animale che avesse l’aspetto di uno appartenendo alla specie di un altro: ciascuno ha il corpo e il carattere che gli è proprio, e pertanto ad ogni corpo si associa necessariamente la natura che gli è propria. Inoltre, un esperto può giudicare gli animali in base al loro aspetto: così procede il cavaliere con i cavalli, il cacciatore con i cani. Se ciò è vero (e in effetti è sempre vero), allora può esistere una fisiognomica4. I. La docilità degli animali da soma e da pascolo è contrassegnata dalle linee allungate e piane, che corrono in superficie le une contro le altre e si piegano verso l’interno. Si considerino: 1. il cavallo, 3. l’asino, 5. il cervo, 6. il maiale, 7. il cammello. Una tranquilla dignità, un innocuo piacere è l’unico scopo cui tende l'aspetto delle teste di queste specie animali.

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La linea rivolta all’interno che si disegna tra la cavità oculare e il naso nelle specie 1 e 3 è indice di pazienza. Nella specie 6 la linea che parte leggermente all’indietro, per poi tornare rapidamente retta, indica ostinazione. In rapporto a tutte le specie citate si noti la pesantezza e l’ampiezza eccessiva della mascella inferiore, e si avvertirà come questa sia la sede del desiderio di ruminare continuamente, proprio di simili animali. 4. Il bue – Sopportazione, resistenza, pesantezza nei movimenti, modo di ruminare ottuso. 15. L’ariete. Punto di appoggio fisso, stolido istinto aggressivo. II. Anche l’aspetto degli animali voraci ma non crudeli, la specie dei ratti, che vorrei definire la specie dei ladri, è molto significativo. Eccone un paio di esempi. 16. Il castoro. 19. Il più grande topo di campagna. Le loro linee leggermente piegate verso l’alto, lievemente inarcate, le poche superfici piane, le forme sottili e appuntite indicano la prontezza con cui questi animali avvertono gli oggetti sensibili, la loro capacità di afferrare rapidamente, l’avidità e il timore, da cui deriva la loro astuzia. La mandibola spesso debole, i denti anteriori curvi e appuntiti servono a rosicchiare e assaggiare; sono in grado di mangiare di gran gusto la preda afferrata e senza vita, ma non sanno prendere con la forza e lacerare prede ancora vive che oppongano loro resistenza. III. Può dirsi in certo modo contigua a questa specie, tra i predatori, il nr. 12. la volpe, che si rivela debole a fronte dei suoi parenti più prossimi. La deviazione così piatta che corre dal cranio fino al naso, e la mandibola quasi parallela a questa linea, conferirebbero alla sua figura un aspetto debole o insignificante, se non fosse per la mascella superiore ripiegata verso l’alto, e per i denti aguzzi e staccati, che lasciano intravedere una certa crudeltà.

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Nel caso di questa testa e delle successive, le calotte craniche, per quanto si allontanino l’una dall’altra in virtù delle varie modificazioni che le individuano, hanno tuttavia in comune il fatto di essere più grandi, forti e singolari rispetto a quelle delle specie precedenti. Inoltre esse costituiscono la parte principale della testa, e ciò è indice di forza e solidità. 13. Il cane ha già dei tratti più solidi: in particolare, ha un aspetto comune, insignificante (ma mi esprimo in modo inesatto: ogni cosa, anche la più quotidiana, anche la più mediocre, è significativa proprio quanto la più eccezionale, ma il significato non è così evidente. ‘Insignificante’ vuol dire dunque in questo caso ‘non così impressionante’). Il modo in cui il cranio si stacca dalle cavità orbitali mostra, vorrei dire, precisione nella forza percettiva. Le fauci sono costruite per una voracità calma, non crudele o avida, anche se il cane possiede una certa dose di entrambe. Mi pare inoltre di trovare, in particolare nelle cavità orbitali e nel loro rapporto con il naso, una certa fedeltà e lealtà. La scarsa differenza rispetto al lupo (14.) è già di per sé singolare. La rientranza alla sommità del capo, la forma arrotondata al di sopra delle cavità orbitali, e le linee rette che conducono da lì fino al muso fanno intuire movimenti più bruschi. A ciò si aggiunge nell’orso (10.) una maggiore ampiezza, saldezza e resistenza; nella tigre (8.) si nota una particolare rapidità espressa dall’estremità appuntita della parte posteriore e dall’ampiezza della parte anteriore. Si può rilevare il contrasto rispetto agli animali da soma e da pascolo. Sulla parte posteriore, a rafforzare la nuca, la leva che vi poggia sopra; il cranio poco arrotondato, sede di una fantasia leggera e di un’avida crudeltà. Il muso è ampio ed esprime una forza molto intensa, le fauci sono un vestibolo a volta dell’inferno, in grado di afferrare saldamente, maciullare e divorare. Se solo il leone (9.) fosse meglio disegnato! Ma già in Buffon5, da cui sono tratte queste immagini, proprio un simile cranio, così magnifico, è riprodotto in modo assolutamente imper­ fetto. Ma quanto è singolare anche in questa riproduzione, questo occipite oblungo e smussato! La curvatura è così nobile, l’allontanamento delle linee contigue così lieve! L’abbassamento delle ossa del muso così

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rapido e forte! Così riuscita la parte anteriore della testa! E forte! Calma e possente! Degna di un confronto dettagliato con la tigre! Quanto esigue, ma quanto numerose sono le differenze tra le due specie! Solo una parola a proposito del nr. 17., il gatto. Un’attenta golosità. Tra tutti, come si staglia il nr. 2., l’elefante! Soprattutto il cranio, l’occipite, la fronte, autentica e naturale espressione di memoria, ingegno, intelligenza, forza, e delicatezza. 11. La lontra – una testa deforme – è chiaramente destinata solo a ingurgitare cibo. 16. Il castoro, salvo la struttura del cranio visto di profilo, non possiede nulla di furtivo nel suo istinto. È dotato di un ingegno calcolatore piuttosto che di mera astuzia. Tra tutti i cranî, nessuno come quello del castoro ha un profilo così delicato, diritto, privo di spigoli, orizzontale fino al naso. 20. L’istrice ha qualcosa di simile al castoro nella parte superiore del profilo, e tuttavia è molto diverso l’aspetto dei denti, in particolare di quelli della mascella superiore. 18. La iena si differenzia notevolmente da tutte le altre specie nella zona occipitale. Questa testa, quando è rigida e massiccia, e quando non coincide con l’intera curvatura del capo, manifesta negli uomini durezza e forza di cuore. Nel complesso il suo profilo sembra esprimere una ferrea caparbietà.

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Saggio di teoria osteologica comparata, in cui si dimostra come l’osso intermedio della mascella superiore sia comune all’uomo e agli altri animali6

Raccolgo qui alcuni saggi di disegni7 osteologici con l’intento di presentare a esperti e appassionati di anatomia comparata una piccola scoperta che credo di aver fatto. Osservando i cranî animali, risulta immediatamente evidente il fatto che la mascella superiore consta di più di un paio di ossa: la parte anteriore è legata a quella posteriore da giunture e armonie8 molto ben visibili, e individua una coppia di ossa particolari. A questa sezione della mascella superiore è stato dato il nome di os intermaxillare9. Già in antichità era noto quest’ossoA, e più recentemente esso ha ricevuto un’attenzione particolare, poiché lo si è considerato come il segno della differenza tra l’uomo e la scimmia: è stato infatti attribuito alla scimmia e negato all’uomoB, e se nelle cose naturali non prevalesse l’apparenza esteriore, avrei delle remore ad affermare che questa sezione ossea si ritrova anche nell’uomo.

A Galenus, Lib. de ossibus, Cap. III [Cfr. Claudius Galenus, Introduction to the Bones (De ossibus ad tirones), a critical edition with translation and indices by Michael Garret Moore, Ann Arbor (Michigan) 1994]. B Campers, Sämtliche kleinere Schriften, herausgegeben von Herbell. Ersten Bandes zweites Stück pp. 93 e 94 [Cfr. Petrus Camper, Herrn Peter Campers sämmtliche kleinere Schriften die Arzney-Wundarzneykunst und Naturgeschichte betreffend, hrsg. v. J.F.M. Herbell, 3 Bde. in 6 Stücken, Leipzig 1782-1790, Bd. I, 2, Leipzig 1784, pp. 93 e 94]. Blumenbach, De varietate generis humani nativa, pag. 33 [Cfr. Johann Friedrich Blumenbach, De generis humani varietate nativa liber, 2. ed., Göttingae 1781, p. 33.].

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Mi esprimerò dunque nel modo più conciso poiché è sufficiente l’osservazione e comparazione di diversi cranî per giudicare rapidamente un’affermazione senz’altro molto semplice come questa. L’osso di cui parlo riceve il suo nome dal fatto di trovarsi inserito tra le due ossa principali della mascella superiore. Esso si compone a sua volta di due parti, che si incontrano nel centro della faccia. Nei diversi animali, tale osso assume forme molto differenti e la sua struttura varia considerevolmente, a seconda che sporga in avanti o che rientri all’indietro. La sua parte anteriore, più larga e più forte, a cui ho dato il nome di ‘corpo’, è conforme al tipo di nutrimento cui la natura ha destinato l’animale, che deve in primo luogo catturare e afferrare il suo cibo con questa parte del muso, deve strapparlo, rosicchiarlo, lacerarlo, e appropriarsene in un modo o nell’altro; per questo motivo, il suo osso intermascellare risulta in un caso piatto e dotato di cartilagini, in un altro caso munito di incisivi più o meno aguzzi, oppure assume un’altra forma, adatta al suo tipo di nutrimento. Esso si unisce in alto alla mascella superiore, all’osso del naso e in alcuni casi all’osso frontale mediante un’apofisi laterale. All’interno, a partire dal primo incisivo, o dal luogo che questo dovrebbe occupare, si trova una spina rivolta all’indietro, che poggia sull’apofisi del palato situata lungo la mascella superiore, e forma a sua volta una scanalatura in cui si inseriscono le parti inferiore e anteriore del vomere. Tale spina, vale a dire la parte laterale del corpo di quest’osso intermedio e la parte anteriore dell’apofisi del palato lungo la mascella superiore, costituisce i canali (canales incisivi o naso-palatini) attraverso i quali passano piccoli capillari e ramificazioni nervose del secondo ramo della quinta coppia. Queste tre parti si mostrano chiaramente nel caso del cranio di cavallo raffigurato nella prima tavola. A. Corpus B. Apophysis maxillaris C. Apophysis palatina In queste parti principali è possibile osservare e descrivere molte altre sottosezioni. A tale scopo potrà risultare utile guida

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una terminologia latina che ho messo a punto grazie all’aiuto del consigliere Loder, e che qui riporto. Dovendosi adattare a tutte le specie animali, tale terminologia ha sollevato molte difficoltà. In alcuni animali certe parti si contraggono o confluiscono le une nelle altre, in altri invece svaniscono del tutto; è certo dunque che questa tabella sarà suscettibile di ulteriori miglioramenti se si vorrà raggiungere una maggiore precisione. Os intermaxillare. A. Corpus. a. Superficies anterior. 1. Margo superior in quo Spina nasalis. 2. Margo inferior seu alveolaris. 3. Angulus inferior exterior corporis. b. Superficies posterior, qua Os intermaxillare iungitur Apophysi palatinae Ossis maxillaris superioris. c. Superficies lateralis exterior, qua Os intermaxillare iungitur Ossi maxillari superiori. d. Superficies lateralis interior, qua alterum Os intermaxillare iungitur alteri. e. Superficies superior. Margo anterior, in quo Spina nasalis. vid. 1. 4. Margo posterior sive Ora superior canalis naso-palatini. f. Superficies inferior. 5. Pars alveolaris. 6. Pars palatina. 7. Ora inferior canalis naso-palatini. B. Apophysis maxillaris. g. Superficies anterior. h. Superficies lateralis interna. 8. Eminentia linearis. i. Superficies lateralis externa. k. Margo exterior. l. Margo interior. m. Margo posterior. n. Angulus apophyseos maxillaris. C. Apophysis palatina. o. Extremitas anterior.

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p. Extremitas posterior. q. Superficies superior. r. Superficies inferior. s. Superficies lateralis interna. t. Superficies lateralis externa. Le lettere e le cifre che nella tabella precedente designano le varie parti anatomiche sono riportate anche negli schizzi e in alcune figure. Forse non risulterà sempre evidente il motivo per cui abbiamo scelto una certa suddivisione o una particolare denominazione: naturalmente tali scelte non sono state casuali e, se si esaminano varie tipologie di cranî ponendole a confronto, sarà ancor più chiara la difficoltà cui ho accennato. Mi volgerei adesso a una breve illustrazione delle tavole. La corrispondenza e chiarezza delle figure mi solleverà dal compito di descriverle dettagliatamente, poiché in ogni caso una simile descrizione risulterebbe inutile e noiosa a chi abbia già una qualche conoscenza di tali oggetti. Più di tutto mi augurerei che i miei lettori potessero esaminare direttamente i cranî di cui si parla. La seconda tavola10 rappresenta la parte anteriore della mascella superiore del bue, vista dall’alto, quasi a grandezza naturale: il suo corpo piatto e largo non contiene incisivi. La terza tavola raffigura l’os intermaxillare del cavallo, in particolare il nr. 1 lo riproduce nel rapporto di un terzo, i nrr. 2 e 3 in scala dimezzata. La tavola IV mostra la superficies lateralis interior ossis intermaxillaris di un cavallo, in cui è caduto l’incisivo anteriore, mentre il dente successivo si trova ancora nel corpo cavo dell’os intermaxillare. La tavola V illustra il cranio di una volpe visto da tre lati. I canales naso-palatini sono allungati e più chiusi rispetto al caso del bue e del cavallo. Tavola VI. L’os intermaxillare del leone, visto dall’alto e dal basso. Si noti in particolare nel nr. 1 la sutura che separa l’apophysis palatina maxillae superioris dall’os intermaxillare. Tavola VII. Superficies lateralis interior dell’os intermaxillare di un giovane trichechus rosmarus, colorata in rosso per maggiore chiarezza, insieme alla maggior parte della maxilla superior. La tavola VIII mostra un cranio di scimmia visto da davanti e dal basso. Si veda come, nel nr. 2, la sutura scaturisca dai

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canales incisivi, confluendo verso il canino, e prosegua poi in avanti verso l’alveolo, attraversi il tratto fra l’incisivo successivo e il canino, molto vicina a quest’ultimo, e separi i due alveoli. Le tavole IX e X mostrano le stesse parti in un cranio umano. Il nr. 1 fa risaltare nel modo più evidente l’os intermaxillare dell’uomo. Si vede molto chiaramente la sutura che separa l’os intermaxillare dall’apophysis palatina maxillae superioris; tale sutura si diparte dai canales incisivi, la cui apertura inferiore confluisce in un foro comune, chiamato foramen incisivum o palatinum anteriore o gustativum, e si perde infine tra il canino e il secondo incisivo. Nel nr. 2 è già un po’ più difficile notare in che modo la sutura si mostri alla base del naso. Il disegno qui riprodotto non è dei più riusciti; tuttavia, è possibile vederla nella maggior parte dei cranî, in particolare in quelli giovani. Quella prima sutura era stata notata già da VesalioC, che l’aveva indicata chiaramente nelle sue figure, sostenendo che essa si estende fino al lato anteriore dei canini, pur non giungendo in nessun caso ad una profondità tale da far ritenere che la mascella superiore ne risulti divisa in due. Per spiegare Galeno, che aveva basato la sua descrizione su un solo animale, Vesalio rimanda alla prima delle figure di pagina 46, in cui ha aggiunto al cranio umano quello di un cane, allo scopo di porre davanti agli occhi del lettore il rovescio della medaglia, che si mostra più chiaramente impresso, per così dire, nel caso dell’animale. Tuttavia l’autore non ha notato che la seconda sutura, posta alla base del naso, ha origine dai canales nasopalatini e si può seguire fino alla zona della concha inferior. Entrambe le suture si trovano invece riprodotte nella grande Osteologia di Albin11, alla tavola I, indicate dalla lettera M: l’autore le definisce suturae maxillae superiori propriae. Di esse non si trova traccia nella Osteographia di Cheselden12, né nella Natural History of the Human Teeth di John Hunter13, pur essendo tali suture visibili più o meno chiaramente in ogni

C Vesalius, De humani corporis fabrica (Basel 1555), Lib. I, Cap. IX. Fig. II, pp. 48, 52, 53 [Cfr. Andreas Vesalius, Andreae Vesalii Bruxellensis, invictissimi Caroli V, Imperatoris medici, de Humani corporis fabrica Libri septem, per Ioannem Oporinum, Basileae 1555.].

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cranio, tanto che è impossibile non riconoscerle ad una osservazione attenta. La tavola X mostra una metà della mascella superiore di un cranio umano spezzato: in particolare ne mostra il lato interno che unisce le due metà. Nell’osso dal quale è stato tratto questo disegno mancavano due incisivi, un canino e il primo molare, ma non ho voluto reintegrarli, soprattutto perché ciò che qui manca non è rilevante, e la lacuna consente anzi di osservare più liberamente l’os intermaxillare. Sulla pictura linearis ho segnato con un tratto di china rossa l’elemento che coincide incontestabilmente con l’os intermaxillare. È possibile seguire la sutura dagli alveoli dell’incisivo e del canino fino ai canali: essa riemerge oltre la spina o apophysis palatina, che qui forma una sorta di pettine, ed è visibile fino all’eminentia linearis, su cui poggia la concha inferior. Sulla pictura linearis l’ho segnato con un asterisco rosso. Se si accosta questa tavola alla tavola VII si noterà con meraviglia come la forma dell’os intermaxillare di un mostro quale il trichechus rosmarus ci insegni a riconoscere tale osso nell’uomo e a interpretarlo. Anche l’accostamento della tavola VI nr. 1 alla tavola IX nr. 1 mostrerà in tutta evidenza la presenza della medesima sutura nel leone e nell’uomo. Non aggiungo nulla riguardo alla scimmia, dato che in questo caso la concordanza è fin troppo vistosa. Non resterà quindi alcun dubbio sul fatto che la sezione ossea appena descritta si trova sia nell’uomo che negli animali, sebbene, nel caso della nostra specie, siamo in grado di determinare con esattezza solo una parte del perimetro di quest’osso, dal momento che le parti restanti sono scomparse e interamente fuse con la mascella superiore. In tal modo, la parte esterna del cranio non mostra la minima sutura o armonia, da cui si possa congetturare che nell’uomo l’osso che esaminiamo sia separato. A me pare di poter rintracciare la causa di ciò principalmente nel fatto che l’osso intermascellare, così prominente negli animali, assume nell’uomo una dimensione molto piccola. Se si considera il cranio di un bambino o di un embrione, si vedrà come i denti che iniziano a spuntare esercitino una spinta tale su queste parti, e tendano a tal punto il periostio, che la natura è costretta a impiegare ogni forza per tenerle intimamente unite. Si consideri invece un cranio animale, in cui gli incisivi

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si spingono molto in avanti, e dunque non causano una pressione molto forte, né gli uni sugli altri, né sui canini. Altrettanto avviene all’interno della cavità nasale. Come si è notato in precedenza, è possibile seguire la sutura dell’os intermaxillare a partire dai canales incisivi fino al punto in cui hanno origine gli ossa turbinata o conchae inferiores: è in questo punto che agisce l’impulso alla crescita di tre diverse ossa, che premono le une contro le altre saldandosi strettamente fra loro. Sono convinto che questo punto risulterà ancor più chiaro per i cultori di questa scienza. Ho avuto modo di esaminare diversi casi in cui, anche in animali, l’osso in questione era concresciuto in tutto o in parte, e in futuro si potrà forse dirne di più. Esistono anche casi in cui le ossa che si possono separare facilmente negli animali adulti non si riescono più a distinguere negli individui giovani. Le tavole che allego costituiscono per la maggior parte i primi saggi di lavoro di un giovane artista, che ha migliorato le sue qualità in corso d’opera. In realtà, solo la terza e la settima tavola sono state interamente elaborate in base al metodo di Camper14; tuttavia, in un secondo momento, ho fatto disegnare l’os intermaxillare di diversi animali secondo questo stesso metodo nel modo più preciso possibile. Se un simile contributo all’osteologia comparata risulterà interessante per gli esperti di quest’ambito, non mi dispiacerebbe far incidere su rame una di queste serie di illustrazioni15. Osservando i cetacei, gli anfibi, gli uccelli e i pesci, ho riscontrato la presenza dell’osso intermascellare, o almeno ne ho trovato delle tracce. La straordinaria varietà con cui quest’osso si mostra nelle diverse creature merita effettivamente una considerazione più dettagliata, e potrà colpire anche persone che altrimenti non troverebbero alcun interesse in questa scienza in apparenza così arida. Si potrebbe poi scendere più nello specifico e procedere, grazie a una comparazione più accuratamente graduata di diversi animali, dai più semplici ai più complessi, dal piccolo e limitato al più gigantesco e sviluppato. Si vedrà quale abisso separa l’os intermaxillare della tartaruga da quello dell’elefante! Tuttavia è possibile disporre una sequenza intermedia di esseri16 che unisce i due estremi, e ciò

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che nessuno negherebbe nel caso di corpi interi si potrebbe mostrare anche in relazione ad una piccola parte. Sia che si vogliano abbracciare con lo sguardo nella loro totalità e grandiosità le manifestazioni viventi della natura, sia che si vogliano esaminare i resti da cui il suo spirito si è dileguato, la natura rimane sempre uguale a se stessa e sempre ci colma di ammirazione. La storia naturale riceverebbe in tal modo alcune determinazioni. Poiché, ad esempio, una delle principali caratteristiche del nostro osso intermascellare è che esso contiene gli incisivi, allora, per converso, i denti che vi sono inseriti dovranno essere considerati degli incisivi. Finora non si è voluto riconoscere questo tipo di denti al trichechus rosmarus, né al cammello, ma mi sbaglierei molto se non potessi attribuirne quattro al trichecus e due al cammello. Concludo ora questo piccolo saggio con l’auspicio che non dispiaccia agli esperti e agli appassionati di scienze naturali, e che, stretto ancor più il mio legame con loro, mi offra l’occasione di compiere ulteriori progressi in questa affascinante disciplina, per quanto me lo consentiranno le circostanze.

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Descrizione dell’osso intermascellare di diversi animali, con riferimento alla ripartizione e alla terminologia scelte17

Un amante delle scienze naturali18 è stato condotto, grazie alla riflessione e al caso, alla scoperta che intende comunicare in questa sede al pubblico, dopo averne parlato a un dotto studioso di anatomia19, che gli è stato di grande aiuto per stabilire la terminologia e stilare una descrizione a regola d’arte. Inoltre, un abile disegnatore20 si è assunto l’onere di realizzare le incisioni su rame. L’autore riconosce pubblicamente e con gratitudine ciascun singolo contributo, e si augura che, nonostante la sua imperfezione, a questa piccola opera non manchi l’approvazione degli esperti, e l’apporto di un vero maestro possa far progredire ulteriormente la materia di cui si tratta. L’importanza e la singolarità di una ricerca più approfondita sull’osso intermascellare nell’ambito delle scienze naturali risulterà immediatamente evidente se si riflette sul fatto che tale osso è costituito in un determinato modo affinché l’animale possa appropriarsi del nutrimento da cui la sua intera esistenza dipende. Il sistema di Linneo si basa eminentemente su quest’osso, tanto che si potrebbe, ad un’indagine più approfondita, istituire una classificazione solo in base all’os intermaxillare, pur senza tralasciare del tutto la mascella inferiore. Anche la linea indicata dal celebre Camper21 per la determinazione della fisionomia si basa sulla maggiore o minore prominenza di quest’osso. Se è possibile dire, osservando ciascun tipo di osso animale, che una sua modificazione contribuisce a individuare una diversa forma a seconda della specie, pro-

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babilmente poche ossa risultano così eccezionali come l’osso intermascellare e così vistosamente mutevoli. Non è certo indifferente il fatto che, descrivendo ed esaminando in particolare le ossa della testa, siamo indotti a separare ciò che la natura22 ha separato o ad associare alcuni elementi, descrivendo uno come parte di un altro. La natura mostra una grande sapienza nell’aver composto la testa di varie parti, e noi dobbiamo, con le nostre osservazioni, seguirla il più possibile. Essa ha formato ad esempio in modo molto semplice le grandi ossa piatte che contengono la massa cerebrale, affinché possano fornire una copertura generale; e non le ha composte di parti ancor più piccole, né ha affidato loro la funzione di un laboratorio organico. Ha inoltre protetto da ogni lato la mascella superiore, dandole come chiave di volta l’os intermaxillare. I condyli su cui poggia l’intera testa sono parte dell’osso occipitale piatto, e l’incavo in cui si inserisce la mascella inferiore è fissato all’osso temporale. Per queste ragioni non posso che esprimere il desiderio che in futuro l’osso che contiene l’organo dell’udito, e che finora è stato chiamato pars petrosa ossis pro tempore, sia esaminato come un osso molto particolare, poiché tale risulta effettivamente, come si può vedere chiaramente negli animali; anche nell’uomo esso resta separato dall’osso temporale lungo quasi tutti i lati, tranne che in un punto, in cui scompare precocemente. Secondo tale importante principio, universalmente seguìto, la natura ha nascosto all’interno la molteplicità indicibilmente saggia dell’osso sfenoide, per esprimere la quale non bastano le parole; e in tal modo ha prodotto su di esso e grazie ad esso gli effetti animali e intellettuali più sottili. Ha fatto in modo che quest’osso toccasse per lo più le altre ossa, ponendolo in connessione con ogni altro, e lo ha tuttavia preservato da tutte le funzioni di minore importanza, conservandolo al contempo protetto e ornato. Lo si consideri in tal senso rispetto alle altre ossa e in relazione ad esse, e non ci si potrà mai stancare di guardarlo. Se questa proposta sarà accolta, in avvenire si conteranno un paio di ossa della testa in più, come sembra suggerire la causa che ho addotto, poiché sono convinto che la necessità e l’utilità di tale proposta non mancherà di mostrarsi agli occhi di altri ricercatori nel campo dell’anatomia comparata.

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Privi dei denti

Bruta. Tav. I, II.

Privi di incisivi su entrambe le mascelle Tav. III, IV. Con piccoli incisivi aguzzi Privi di incisivi sulla mascella superiore

Con lunghi incisivi curvi per rosicchiare

Con incisivi smussati

Tav. V, VI. Pecora.

{

Myrmecophaga. Manis. Dasypus.

Elephas. Trichechus rosmarus.

Tav. VII.

{

Tav. VIII.

Bos taurus.

Cervus capreolus. Cervus elaphus.

Glires. Tav. IX.

Lepus timidus. Sciurus.

Belluae. Tav. X. Tav. XI. Tav. XII.

Equus caballus. Sus scrofa. Sus Babirussa.

Ferae.

{

Tav. XIV. Tav. XV.

Didelphis. Canis Vulpes. Mustela canadensis. Ursus maritimus. Felis Leo.

Primates. Tav. XVI. Tav. XVII.

Simia. Homo.

Tav. XIII.

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L’elefante 23 A. [Il suo osso intermascellare,] di straordinaria larghezza e altezza, occupa l’intera parte anteriore del muso, e non contiene incisivi. a) Incavato. 1. Interamente spinto contro l’osso frontale, e proteso verso l’esterno con una forte protuberanza. 2. Notevolmente smussato e gonfio b) Presenta un incavo piatto verso il basso e verso il lato anteriore, rialzato e smussato verso l’alto. Si dispone attorno al grande canino e forma verso il basso 3. l’angolo 4. È arrotondato e sembra perdersi nell’orbita. 5. Presenta dei prolungamenti con varie gemmazioni ai margini della superficie anteriore, e diventa sempre più affilato man mano che procede verso il canino NB: il canino ha una particolare linea di demarcazione, al di sopra della quale si dispongono sia la parte laterale dell’os intermaxillare, sia una parte della mascella superiore, che si deve tuttavia distinguere dalle due ossa. c) non è largo ma lungo. d) Consta di una superficie molto ampia, copre l’intera estensione da a) a b), si dispone sull’osso della mascella superiore, e si allarga sopra la linea di demarcazione del canino. e) È interamente spostato a causa dell’ampia parte prominente della mascella superiore che coincide con il pa­ lato. 6. È arrotondato e presenta varie gemmazioni. 7. Una protuberanza sporgente. 8. Strettamente aderente all’os intermaxillare superiore. I canali si volgono verso l’alto e sono lunghi e sottili. f) volto all’indietro, a fianco delle orbitae. g) Questo volgersi all’indietro è di fatto un innalzamento, anche se si contrae poi decisamente. Non ho avuto modo di esaminare con una sonda le uscite dei canales naso palatini.

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B. Non è facile riconoscerlo in tutte le sue parti. Potrebbe forse essere possibile se si avesse davanti a sé lo spaccato di una testa. La linea designa certamente k) margo posterior o inferior. i) è il punto estremo. NB: le suture della maxilla superior sono ben riconoscibili. Il capriolo A. Piatto e leggermente appuntito, privo di incisivi, le due ossa non sono perfettamente chiuse anteriormente a) Un bordo affilato e appuntito 1. La punta di questo bordo, incurvata verso l’alto, fa le veci della spina anterior 2. non è particolarmente degno di nota b) si inarca impercettibilmente su a), chiudendosi in prossimità dell’angolo a formare un osso piatto e triangolare 3. si richiude con una piccola punta sulla mascella superiore, che non si spinge molto in fuori sotto la base. La punta della maxilla superior forma un naso peculiare. 4. arrotondato 5. piatto c) affilato. NB: Collegamento con l’os maxillare superiore. d) piatto. 6. e 7. confluiscono l’uno nell’altro 7 a. arrotondato e) altrettanto piatto 8. come 1. 9. ovale appuntito B. Piatto e incurvato verso il naso, liscio e lievemente convesso g) appiattito sulla mascella superiore h) Em[inentia] lin[earis] molto breve e protesa in avanti, arrotondata, appuntita verso l’alto i) affondato nell’osso della mascella superiore. k) spinto tra l’osso della mascella superiore e quello del naso, che sporge leggermente su di lui. NB: Il piccolo prolungamento della M[ascella] s[uperiore] dell’angulum implica che [quest’osso] non è a contatto

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con l’osso del naso. Q[uaest.]. Similmente si può constatare per montoni e capre. Il bue A. Piatto e largo, privo di incisivi, spesso e tondeggiante ai lati a) rivolto verso l’alto 1. affilato e trasversale 2. rivolto in avanti, acuminato e con l’angolo interno arrotondato b) arrotondato 1. molto smussato, non presenta quasi alcun angolo, linea curva 2. arrotondato. 3. verso il lato anteriore il margine dell’osso è affilato. Nel lato posteriore è tondeggiante c) volto verso il lato interno, a partire dal quale è connesso con l’osso mascellare superiore d) incavo piatto 7. confluiscono l’uno nell’altro. 7.a termina in forma tondeggiante in un ovale acuto e) leggermente incavato. 8. come il punto 1. 9. marcatamente arrotondato dall’alto verso il basso. B. f) liscio e arrotondato g) giunge in basso fino all’inizio dell’osso della mascella superiore h) marcatamente arrotondato verso l’estremità superiore E[minentia] lin[earis] manca del tutto. NB. Poiché non si estende sopra la M[ascella] sup[eriore]. i) saldamente legato all’osso della mascella. k) appuntito, giunge fino all’osso nasale, che sporge ancora di un tratto al di sopra C. Ha origine da un’incisione laterale del corpus, di forma pressoché ovale l) il taglio ovale provoca un’incurvatura verso l’esterno m) diviene più forte e in ultima analisi presenta tre lati n) piuttosto largo, digrada verso il centro o) piatto e diritto

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p) incavato verso il lato posteriore, si perde gradualmente sul lato anteriore verso la superf[icies] inf[erior] q) appuntito, si collega alla spina dell’osso che vi è accoppiato: si crea così un canale su cui si dispone il vomer. La lepre A. Arrotondato, presenta soltanto gli alveoli del lungo incisivo e del dente più corto posto sotto il primo a) di solito si tratta dell’apertura per il dente che presenta una sporgenza arrotondata 1. arrotondato e senza prominenze 2. il grande incisivo sporgente lo spinge decisamente verso la parte alta della superficie anteriore. Ne consegue che l’alveolo è tagliato in modo obliquo, con il margine superiore molto più corto di quello inferiore. b) è interamente unito ad a) e aderisce verso l’alto all’alveo­ lo dell’incisivo anteriore 3. si dispone verso il basso ed entra con un’estremità appuntita nell’osso della mascella superiore 4. è arrotondato 5. si perde impercettibilmente nella superficies inferior manca del tutto c) si piega in lamelle, sottile e piatto d) arrotondato 6. ha un margo posterior dell’incisivo proteso in avanti, come si è notato in precedenza, a tal punto da diventare inferior, e una piccola cavità rotonda per il dente più piccolo posto dietro l’incisivo 7. arrotondato verso l’esterno 7a. Ha un piccolo margine rialzato, e si collega alla Spina tramite un angolo acuto. e) tondo e arcuato 8. come al punto 1. 9. molto appuntito B. molto lungo e sottile f) è orientato con il lato verso il basso, mentre la sua parte superiore è volta verso l’alto. g) si volge, nella sua parte curva, verso l’esterno. Si nota ap-

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pena, poiché la maxilla superior si dispone in un piccolo incavo. h) corre lungo l’intero osso del naso, fino all’osso frontale. i) si collega all’osso poroso e spugnoso della mascella superiore k) si inserisce con una parte molto appuntita nell’osso frontale, che gli manda incontro un paio di appendici per rinsaldarlo. Il cavallo A. forte, contiene sei incisivi a) 1. smussato in forma piatta e rotonda e volto all’indietro 2. spinto molto in fuori, a causa dei denti sporgenti b) confluisce con a) in una tenue curvatura. 3. nello stallone è molto smussata la sutura sopra il canino, e anche nella giumenta lo è la sutura che si trova sul tuberculo posto in luogo del canino, e per lo più concresciuto 4. molto arrotondato 5. affilato e tagliato per i denti, angoli appuntiti tra due denti. c) si collega alla maxilla superior. d) presenta un incavo piatto 6. con due tagli semicircolari e uno arrotondato e allungato 7. largo, arrotondato e piatto 7a. Arrotondato e allungato. NB. Fovea. e) arrotondato 8. come al punto 1. 9. è particolarmente notevole, a causa dello spessore e della profondità della spina anterior, che giunge fino all’inizio della spina nasalis posterior; il loro congiungimento crea un angolo molto acuto. B. completamente tondeggiante f. g.) arrotondato h) altrettanto i) acuto e concresciuto k) si pone tra la mascella superiore e l’osso nasale, che

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sporge lungo e acuto sopra quest’ultimo; le suture che ne derivano sono spesso in varia misura concresciute. C. completamente piatto e a forma di lama l) largo e piuttosto incurvato verso l’alto m) appuntito e poggiato sull’apofisi palatale della mascella superiore. n) piatto, con una lieve prominenza che dà luogo ad una sorta di incavo, mentre le due ossa si saldano l’una all’altra o) completamente liscio p) da considerare come margo. q) Come sopra, e tuttavia questo è connesso all’extrem[itas] anter[ior] con una dentatura molto forte, e lascia all’extr[emitas] post[erior] un forte spazio intermedio. Il maiale A. Il primo incisivo si incurva in avanti e dall’esterno verso l’interno; il secondo è posto di solito lungo le parti laterali e sporge in avanti, il terzo si incurva all’indietro a) sporgente e tondeggiante 1) una punta smussata 2) si perde in a) e le fessure degli incisivi si trovano un po’ all’indietro b) lungo e largo 3) all’esterno è smussato, mentre verso l’interno è inserito nella mascella superiore con dei prolungamenti appuntiti e sottili come foglie 4) rispetto ad a) troppo arrotondato, e più acuto nella parte superiore 5) determinato dalla forma dei diversi alveoli degli spazi intermedi c) è costituito solo da una punta molto acuta, e tuttavia è possibile considerare come sue parti i prolungamenti sottili come foglie di cui al punto 3. d) è lungo, rialzato e abbassato in vari modi 6) contiene le cavità consecutive degli incisivi di varie forme 7) leggermente incavato e distinto da 6 tramite uno spigolo acuto.

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7a.) rotondo. e) piatto e piuttosto allungato all’indietro, con un piccolo incavo 8) come al punto 1. 9) si appiattisce verso il basso, e tuttavia l’apertura è piuttosto stretta, come nella parte inferiore. B. largo nel punto in cui si collega al corpo. Verso l’alto diventa rapidamente appuntito f) liscio e quasi perpendicolare rispetto al naso, leggermente rivolto verso l’alto g) leggermente incavato. L. emin. presenta una prominenza appuntita, che corre nel senso della lunghezza, e si unisce al corpus[;] in altri animali non sempre si presenta, e per questa ragione merita un nome proprio, nonché una certa attenzione nel descriverla h) dritto e acuto, è interamente collegato all’osso nasale i) si incurva dalla parte posteriore verso il basso e in avanti verso il 3), ed è affilato (si raddrizza in forma di onde serpentine). k) appuntito, termina tra l’osso nasale e quello mascellare C) sulla parte anteriore presenta una lama incavata e lievemente arcuata l) più forte m) diventa una lamella n) liscio e leggermente volto verso l’interno e verso il basso o) non molto largo all’estremità, diventa un elemento del margine p) largo e incavato q) sottile La volpe A) piccolo e contratto; non presenta più ossa di quante siano necessarie alla solidità degli alveoli per i denti piccoli e affilati a) incurvato verso l’alto e all’indietro. 1) arrotondato 2) una piccola fessura davanti all’incisivo anteriore più piccolo

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b) con l’alveolo del secondo incisivo diverge sensibilmente da a), e diventa molto più forte dopo il terzo. Da determinare con più precisione. Passa all’esterno 3) nella parte della mascella superiore che sporge a causa del grande dente canino cresce smussato, arrotondato e spostato verso l’alto 4) arrotondato e inclinato all’indietro 5) ciò che non è alveolo è inarcato verso l’alto. Da determinare meglio. c) molto affilato NB. d) incastonato in uno spazio sottile, incavato sul lato anteriore verso l’alto e verso il lato posteriore 6) gli alveoli sono molto piccoli 7) presenta un incavo verso il canale nasale, verso la fovea Generale 7a) ovale. e) arcuato su tutti i lati NB 8) come al punto 1) 9) arrotondato verso il basso B) largo verso il canino, termina poi a punta f) liscio. Generale. g) molto più largo che f), giunge in basso fin sotto alla mascella superiore E[minentia] L[inearis] h) affilato e interamente collegato all’osso nasale vero e proprio. i) appiattito sulla mascella superiore k) molto affilato, tra la mascella superiore e l’osso nasale, termina all’incirca alla metà di quest’ultimo. NB.) si trovano dei prolungamenti estremamente affilati che scendono dall’osso frontale verso questo angolo, e tuttavia non giungono a toccarlo. Sono queste le appendici rispetto alle quali l’apophysis maxillaris della lepre si svolge verso l’alto, si divide in due parti e infine assorbe quest’ultima. C) Il canale ha origine all’incirca dalla superficie superiore della base l) si estende da una superficie all’altra. m) termina come sempre in forma lamellare

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n) è liscio e incurvato verso il centro. o) molto sottile nella parte anteriore, più largo sul lato posteriore p) liscio. q) deve essere considerato come margo. NB. Questa descrizione si adatta piuttosto bene anche al cane, considerando però che in questo caso tutto è spostato in larghezza. Il leone A. Largo e saldo. a) tondeggiante e piegato verso l’alto. Molto sottile, mentre il dente anteriore è il più piccolo, ed è leggermente incurvato verso l’interno. 1. arrotondato, nessuna traccia della Spina. 2. Con una piccola fessura, in forma di mezza luna, con la punta inferiore rivolta all’indietro. b) molto largo. La sua parte anteriore confluisce nella superficie anteriore ed è completamente rivolta in avanti. L’alveolo del terzo incisivo crea un forte rilievo, in modo tale da formare lateralmente il grande spazio impresso tra il dente suddetto e il canino. 3. Un collegamento arrotondato, che sulla metà anteriore del canino si congiunge alla mascella superiore 4. arrotondato 5. una fessura più piccola e una più grande per i due incisivi, un arrotondamento smussato nel succitato spazio intermedio. c) largo, secondo la forma del corpo d) largo e unito all’osso della mascella superiore. e) 6. Tre incisioni, di diversa grandezza. 7. Posto su un lato, presso il grande canino. 8. Con una linea affilata e rilevata corre verso il centro dell’alveolo dell’incisivo mediano NB. Le fosse dei canali, sempre visibili nelle ferae, sono in questo caso le più grandi. f) arrotondato. 9. L’apertura è semicircolare, arrotondata verso il basso.

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B. Si può considerare come costituito da tre lati; all’estremità inferiore è marcatamente più appuntito verso l’alto. g) di solito è volto in avanti. h) 10. Una prominenza un po’ meno evidente, che si estende dalla parte posteriore verso quella anteriore, e lievemente verso il basso. i) Arrotondato e molto largo. k) connesso all’osso della mascella superiore. l) Esternamente inserito nell’angolo che l’osso nasale forma con l’osso della mascella superiore. Il tricheco A. Esternamente forte e solido. a) molto più alto che largo. 1. Il margine è arrotondato, la spina si estende come un grande tubero dall’alto verso il basso e in avanti. 2. Il margine è arrotondato verso il basso e all’indietro mediante un rigonfiamento della superficie anteriore, ma resta accidentato, e diviene spugnoso verso l’interno. Molto indietro si trova un piccolo dente aguzzo. b) è molto sottile e dunque più alto del primo; si può assumere che si tratti della sottile striscia situata tra il rigonfiamento simile a un tubero e la mascella superiore. È rivolta interamente in avanti. 3. non forma un angolo 4. una superficie tondeggiante. 5. Arrotondato; un grande dente aguzzo si trova molto più indietro. NB. La singolare forma di questo cranio, che lo distingue da quelli finora descritti, ci costringe a far violenza alla terminologia che abbiamo fissato, oppure a mutarla. Vorremmo invece tentare di evitare entrambe le strade facendo ricorso ad un’osservazione.

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La scimmia A) a) lievemente piegato verso l’alto e all’indietro. 1) interamente arrotondato e incavato 2) rivolto più in avanti che verso il basso b) molto arretrato sul lato 3) non esiste affatto, mentre dall’estremità di 5) una linea retta conduce fino a k); piccolo angolo quasi per niente volto verso b. 4) completamente verso l’interno, arrotondato verso il naso 5) rivolto all’esterno c) diventa una vera superficies, che dopo il canino concresce fin troppo saldamente con la maxilla superior d) con protuberanze irregolari 6) piuttosto spostata all’indietro 7) con lievi irregolarità 7a) ampiamente incavato; nella parte posteriore è più largo che in quella anteriore. e) arrotondato. 8) come al punto 1. 9) Si gira sotto l’eminentia linearis, ed è molto più stretta dell’ora inferior. B) Di solito è nascosto sotto la maxilla superior f) sottile, corre verso l’alto in modo estremamente appuntito, arcuato secondo la forma del muso g) largo e molto teso all’indietro E[minentia] l[inearis] h) affilato i) si trova nell’os maxillare k) molto appuntito, tra la maxilla superior e l’osso nasale. C) esile e sottile. L’uomo A) riunito in uno spazio ristretto, e incluso nella mascella superiore piuttosto che spinto in essa. a) quasi perpendicolare. 1) sporgente e appuntito. Questa Spina inizia già con un piccolo bordo, dall’angolo più interno dell’alveo­

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lo del primo incisivo, e termina verso l’alto con una punta affilata; si dispone poi lateralmente e costituisce il margine inferiore affilato della cavità nasale. 2) Di forma semicircolare, tagliato verso l’alto. b) leggermente rivolto di lato e sollevato verso l’interno. 3) nell’uomo è sempre concresciuto, non presenta angoli. 4) Prosecuzione di 1) non affilata, che si perde però gradualmente nella base del naso. 5) Tagliato verso l’alto in forma di mezzaluna c) è una vera superficies, saldamente attaccata all’osso della mascella superiore. d) 6) contiene i due alveoli degli incisivi; le fessure si estendono molto all’indietro. 7) Costituisce la parte anteriore e inferiore del palato, che si inarca da questo punto verso l’alto. 7a) forma una sorta di incavo a forma di imbuto. e) 8) la Spina nasalis anterior è unita all’apophysis palatina mediante una piccola crista 9) Questo corpus forma un piccolo angolo verso l’appendice palatale della mascella superiore, e anche questo os è un incavo a forma di imbuto, anche se si restringe subito. B) Sale dritto verso l’alto e concresce quasi completamente con l’osso della mascella superiore. f) i suoi confini rispetto all’osso mascellare si possono solo congetturare. g) Dall’eminentia linearis scendendo fino all’os superiore del canalis naso palatinus è visibile la sutura squamata. Verso l’alto è ancora da determinare. h) Diventa del tutto perpendicolare e si situa marcatamente in avanti e verso l’interno. Notevole, e tuttavia ha forma di tuberculo, e costituisce il margine della cavità nasale. i) in tutto e per tutto concresciuto. k) come sopra, interamente concresciuto, anche se si devono cercare analogie nell’angolo in cui le ossa nasi propria terminano anteriormente verso la maxilla superior. C) Rispetto alla struttura degli animali, questa presenta i mutamenti più notevoli

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l) L’extremitas anterior è allo stesso tempo inferior e si unisce, all’estremità del canale nasale, all’alveolo del primo incisivo. m) L’extremitas posterior è allo stesso tempo superior ed è posta su una crista che forma l’os maxillare superius n) è molto affilato e si situa in alto. In una testa più antica e ben formata l’ho visto inclinato di lato, in modo da formare il canale per il vomer con la sua controparte. o) è una fessura che si collega all’os maxillare nel canalis naso palatinus, ed è posta in alto. NB. Ciò che negli animali in questa apophysis è una superficie, diventa nell’uomo un margine, e viceversa. Diventa posterior. p) si trova in alto, a partire dall’apertura superiore del canale e attraverso la base del naso. q) l’altro lato di p) si connette alle ossa appaiate, oppure costituisce con p), come si è detto, una sorta di canale. La parte inferiore corre insieme a questa nel lato interno del corpus. NB. Ciò che negli animali è pressoché orizzontale, come ad esempio la base, nell’uomo è verticale e viceversa: ad esempio la spina è in tutti gli animali più o meno piana, mentre nell’uomo è eretta. D’altra parte in una descrizione più dettagliata si possono osservare condizioni diverse. Nel caso degli uccelli, nei quali generalmente le ossa sono molto concresciute, anche quest’osso, che costituisce la parte anteriore del becco, concresce completamente con l’os maxillare superius; tuttavia si trovano sue inconfondibili tracce, e chi avesse l’opportunità di confrontare diverse teste di volatili, potrebbe fornire anche di esso una determinazione migliore di quanto non sia in grado di fare io adesso. Ora dobbiamo anzitutto cercare quelle parti che possono dirsi inconfutabili e da cui derivano facilmente le altre. Si prenderà qui a modello il cranio di un’anatra. (*) è evidentemente l’apertura per i canales naso palatini. C) La Spina nasalis posterior. Se dunque procediamo verso l’alto rispetto all’angolo che essa forma, e verso l’angolo nettamente segnato, e se la seguiamo nel suo andamento verso l’alto e

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verso l’esterno, allora non sbaglieremo di molto se considereremo la parte designata con a) come la base, e quella contrassegnata dal punto 3) come la parte inferiore del suo angolo. Osservando dall’alto ciò appare ancora più evidente. È chiaro che il vero e proprio osso nasale d) è collegato con il margo superior della superficies anterior a) e con la sua spina, e tale collegamento, secondo la mia opinione, avviene presso il punto 1). Togliamo ora anche la linea definita sul lato interno e tracciamo una linea x indicata dalla natura, che definisca i confini certi dell’os maxillare superius; ci resta il punto a), [vale a dire] lo spazio che rimane per i confini indefiniti delle due ossa addossate l’una all’altra. È questo il caso dell’anatra, in cui la parte superiore del becco è costituita da una singola lamina. Nei pesci essa si trova in forma di cartilagine, così come negli anfibi, anche se in questi ultimi vi si osserva con molta precisione.

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Descrizione di un grande fungo delle case24

Era lungo 11 pollici renani, largo tra i 7 e gli 8 pollici e alto 4; da una cresta lunga 5 pollici e larga 1 si era sviluppata l’intera pianta, rugosa e lamellare; tagliandola è apparso una sorta di fusto o ceppo, dal quale si dipartivano tutt’intorno le lamelle, che si presentavano all’esterno simili alle foglie di un cavolo rugoso, mentre all’interno erano unite da cellule25 irregolari in modo tale che non era possibile separare quelle che sembravano foglie una dall’altra. All’esterno il fungo aveva l’aspetto di un insieme di foglie sottilmente corrugate, di colore bianco-giallastro, che si brunivano sempre più con l’esposizione all’aria; il suo odore, penetrante, era aromatico e piacevole.

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Alcune osservazioni sulla cosiddetta Tremella26

Agli inizi di settembre del 1785, dopo un temporale, un luogo ampio ricoperto di sabbia si è trovato improvvisamente cosparso di una quantità di piccoli lobi gelatinosi di colore giallo-verde, che avevano all’incirca tutti le stesse dimensioni: nessuno superava i 3 pollici di lunghezza. Lamelle irregolari conferivano loro l’aspetto di foglie, in tutto simile alla Linckia di Micheli, disegnata alla tav. 67 fig. 1. dei Nova plantarum genera 27. All’aria mostravano un colore un po’ più scuro ma, non avendole osservate fin dall’inizio, non potrei dire se in origine il loro stato fosse più acquoso di quanto non si sia mostrato in seguito. Una parte di esse è stata immersa in acqua pura di fonte ma, dopo 14 giorni e fino a 3 settimane dopo, non sono apparse macerate, e benché salissero delle bolle non si avvertiva nessun cattivo odore. In un vaso di porcellana coperto, questi piccoli lobi si asciugano molto lentamente; durante i primi giorni, alla lente di ingrandimento ho creduto di vedere in una massa verde delle forme simili a quelle che il signor von Gleichen28 chiama animaletti a sferule concatenate: si tratta di due bollicine collegate da un tubo appena incurvato, che si disponevano disordinatamente una sull’altra, in tutte le direzioni. Dopo alcuni giorni mi è sembrato che i tubi si fossero trasformati in serie di sfere. In questa occasione ho notato che si era generato un essere verde e a fiocchi, che aveva avuto origine in un’acqua con forte concentrazione di alunite, rimasta al sole per l’intera estate

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in un contenitore di vetro aperto e dal collo molto stretto. Tendeva a scendere verso la base in assenza di sole, altrimenti fluttuava verso l’alto. Ne ho prelevato una goccia per osservarla al microscopio e ho visto delle forme simili a quelle che si vedono nella Tremella, anche se, con lo stesso ingrandimento, risultavano molto più piccole.

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Infusori29

La Tremella, posta in un recipiente di vetro aperto, ma con una leggera copertura, galleggiava sempre in superficie, e ho notato che un tessuto sottile aveva ricoperto il fondo e le pareti del recipiente, e sembrava unito alla massa superiore; a poco a poco si è spinto anch’esso verso l’alto e si è infine unito al resto. Ho inoltre notato che il fondo del recipiente era ricoperto di una materia gialla molto sottile; ne ho raccolto un piccolo recipiente dal coperchio scorrevole e al microscopio si è rivelata in tutto simile a polline sottilissimo, rotondo e trasparente. La Tremella stessa aveva conservato a lungo il suo colore verde intenso al sole. a* Una goccia di infusione di polpa di banana in un recipiente di vetro pieno d’acqua pura. aàInfusione di polpa di banana diluita con acqua 8 aprile

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a) Polpa di banana b) cactus c) tartufi, che tuttavia vengono tolti c* stessa cosa, in un piccolo recipiente di vetro chiuso d) funghi porcini, preparati a lungo e diluiti 1) funghi porcini essiccati 2) segale 3) semi di lino

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9 aprile 14 aprile

4) grani di pepe 5) Birra di città 6) muffa 7) lenticchie 8) fagioli 9) patate 10) Acqua distillata purissima in 2 bottiglie, che ho in primo luogo accuratamente pulito e risciacquato di nuovo con acqua distillata. 18 aprile 11) ramoscello di abete rosso 19 aprile 12) pozione di gramigna 21 aprile 13) tè 14) Conferva: non è facile ottenerla del tutto pura, poiché in essa e nell’acqua con cui è stata raccolta si trovava già ogni tipo di insetti 30 aprile 15) Cactus flagelliformis 16) Cactus coccinellifera 1 maggio 17) una morchella 18) gocce di vite. 19) uova di rana. L’8 aprile 1786 ho preparato le seguenti infusioni: No. I. Funghi porcini, che ho portato con me, già essiccati, da Karlsbad. No. II. Segale No. III. Semi di lino. No. IV. Grani di pepe Dopo 24 ore le ho osservate al microscopio. No. I. Per l’infusione l’acqua ha preso un colore giallo intenso, e si vedono degli esseri gelatinosi di forma indefinita, alcuni più grandi, altri più piccoli. Solo alcune delle particelle trasparenti e libere erano ovali e tonde; quasi tutte erano gibbose, per nulla simili a bollicine con un contorno chiaro. No. II. L’acqua non risultava quasi per nulla intorbidita, conteneva poche sferule trasparenti, tutte più o meno rotonde, alcune delle quali sembravano contenere dei punti opachi. Si vedevano solo pochi organismi gelatinosi.

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No. III. Conteneva molte bolle e organismi rotondi o quasi, ovali, schiacciati, trasparenti e non completamente formati, ai quali mancava per lo più solo il movimento, perché si potessero considerare infusori. No. IV. Per l’infusione l’acqua aveva ricevuto un colore giallo chiaro, conteneva pochi organismi informi e gelatinosi; in un’intera goccia si trovavano solo 3 corpuscoli rotondi e trasparenti e alcune parti informi di colore marrone, che avevano potuto liberarsi dalla buccia. Il 9 aprile ho portato: No. V. Una goccia di birra di città al microscopio; era piena di corpuscoli molto piccoli, trasparenti e rotondi che, radunati in masse più grandi, non mostravano alcun movimento, simili all’incirca all’aspetto che assume solitamente il polline ad un ingrandimento minore. 12 aprile Il n. 3 non si muoveva quasi per nulla e rimaneva isolato. Immergendo un legnetto anche molto in profondità nella goccia, sembravano sospesi alla superficie dell’infusione; fluttuavano in modo molto vivace e rapido, insieme ad una parte di materia gelatinosa a cui si erano fissati con la coda, pur senza radunarsi mai in un solo punto. Ho visto molto chiaramente i filamenti laterali dei viticci della campanula muoversi impetuosamente, producendo su entrambi i lati un vortice, che prende la direzione indicata dal disegno sottostante. NB. [se ne osserva] anche uno con una campanula allungata e un peduncolo più corto. 2 e 3 meno numerosi. Numerosi animaletti, verosimilmente di forma ovale, dei quali però non sono riuscito a cogliere la figura a causa della loro rapidità di movimento. Nessuna traccia di vita. 12 aprile ’86. No. 1. Nessuna traccia di vita. Molte gelatine, odore molto sgradevole.

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2. Nessuna traccia di vita. Molte gelatine, odore putrido. 3. Nessuna traccia di vita. Molte gelatine, odore piuttosto vago. 4. punti gelatinosi molto lievi sul fondo, infusori piccolissimi, la cui forma si distingue a stento, si muovono in modo lento e incerto; hanno un lato più scuro, cosicché li si nota dapprima come mezzelune nere. Odore forte e aromatico. 5. Nessuna traccia di vita. Odore acido di birra. Bollicine gelatinose. 6. Minuscoli animaletti sferici. I granelli di muffa sembrano divenuti trasparenti, e trasformati in infusori. 7. Un animaletto di forma straordinariamente ovale, e una diversa creatura informe dal movimento rapido. 9. Nessuna traccia di vita. Belle bollicine chiare di polpa di patata. Odore putrido. 8. Nessuna traccia di vita. Poche gelatine, odore putrido. a 1. molto vivace, si avvita su se stesso. Cerca, si appoggia, sfugge verso il basso e si volge di lato in ogni verso. b 2. movimenti moderati. Raccolti in truppe. 1 è frequentemente impegnato nel suo consueto movimento. a lo è meno. c c* d. 14 aprile 1786. a) L’infusione era diventata piuttosto asciutta e forte; degli animali di cui al punto a. 1, tav. II, e di quelli al punto a II non se ne vedeva più nessuno, e pochi erano ancora visibili tra quelli al punto a 4 e 5 della medesima tabella. Ho versato l’infusione e l’ho allungata con acqua. Ho quindi lasciato in infusione di nuovo la polpa di banana, il suo odore era di muffa, ma non putrido. Ho notato anche un’altra singolarità nella goccia: si trattava di una sorta di tubi vuoti, che tuttavia a tratti contenevano al loro interno qualcosa di gelatinoso, anche se non si muovevano, né sembravano racchiudere alcun organismo vivente; avevano le forme e le dimensioni più diverse, e ho congetturato che potesse trattarsi di parti di una membrana che l’infusione

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aveva ricoperto e che era stata strappata dalle scosse provocate. Alcuni di essi sono raffigurati alla tav. 5, fig. b. b) Innumerevoli organismi a forma di campanule, presenti in una goccia, come alla tav. II fig. b 1. Restavano fissi mentre trasferivo la goccia [sul piano del microscopio], mentre per il resto muovevano il peduncolo nel modo consueto, e si radunavano con molta frequenza. Ho notato poi la rotazione all’apertura della campanula, non appena avevano preso posto. Si vedevano anche di nuovo molti e vivaci esemplari dei piccoli organismi di cui alla tav. II fig. b 2. Non c’era invece alcuna traccia degli animali più grandi della tav. I fig. 2, di solito presenti in grande quantità, per quanto io abbia steso sul vetro [del microscopio] delle gocce piuttosto grandi, finché non mi è venuto in mente di arrivare con il legnetto anche sul cactus, e ne ho pescati subito 3 da una goccia; il loro movimento era straordinariamente rapido. Li avevo visti alcuni giorni prima al sole, a occhio nudo e in tutta comodità giocare attorno al fico. Lavoravano con forza con gli uncini anteriori che sono visibili sotto la membrana superiore. Dopo un certo tempo si sono volti all’indietro in un guizzo impetuoso, mentre il loro movimento in avanti era rapido e oscillante. Li ho osservati nell’infusione, in particolare nel momento in cui li ho tirati su dal fondo: filamenti diversi che sembravano composti di piccole sfere. Tav. 1, fig. 4. c) Nessun mutamento in quegli organismi, i più grandi simili a quelli rappresentati alla tav. II, lettera e. Del resto, se ne osservano molti più piccoli e altri che si muovono con velocità indescrivibile. Alcuni filamenti lunghi e intrecciati, di cui non è però possibile osservare le parti, e piccole sferule e bollicine, simili al polline. d) Nessuna traccia di vita; tuttavia si trovano non poche sferule e punti grandi e piccoli, a cui manca solo il movimento perché si possano considerare infusori. Un odore urinoso molto forte. Ne ho posto una goccia nella precedente infusione. Gli organismi non sono morti, ma continuavano a muoversi vivacemente come prima. No. 1. Odore altamente sgradevole e putrido, nessuna traccia di vita, ma presenza di gelatine e bollicine. No. 2. Odore putrido e volatile, membrana viscida, innumerevoli e minuscoli animaletti puntiformi, che si muovono con grande vivacità, e sembrano di forma ovale. Ad un’osservazio-

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ne più attenta, ciò che poc’anzi ho chiamato membrana viscida in effetti si muove lungo i bordi e in ultima analisi ho avuto modo di riconoscerne anche il movimento interno, e ho potuto così riscontrare che essa risulta composta da piccoli infusori. No. 3. Odore guasto, membrana viscida simile alle precedenti, anche se non sembra animata. Animaletti puntiformi in quantità moderata, che si muovono lentamente; ho visto tuttavia anche infiniti altri punti più piccoli, di cui però non ero in grado di notare il movimento. No. 4. Odore aromatico, una quantità infinita di animaletti puntiformi visibili a stento, che si muovono con grande vivacità, molte gelatine, tuttavia non in un ambiente viscido, che appaiono molto animate. Con una certa inclinazione dello specchio concavo se ne poteva osservare un lato con un’ombreggiatura particolarmente intensa, a tal punto che ad un primo sguardo, se non si fosse prestata attenzione alla parte chiara, si sarebbero potuti ritenere dei corpuscoli neri a forma di mezza luna. No. 5) Odore acidulo, nessuna traccia di vita, molte gelatine composte unicamente di piccole bollicine. No. 6) Animaletti puntiformi infinitamente piccoli, anche ovali, molto vivaci. No. 7) Animaletti molto piccoli, ovali e puntiformi, in movimento moderato. No. 8) [Infusione] dall’odore molto sgradevole, una membrana gelatinosa costituita da punti infinitamente piccoli; il movimento non è visibile con sicurezza, e tuttavia lo si può ipotizzare. 9) Odore di fermentazione acidula. Le cosiddette bollicine di polpa, che appaiono al microscopio già nel caso di una patata schiacciata, erano diventate più grandi, più trasparenti e più belle. Vorticelle piuttosto grandi, con il peduncolo per lo più rivolto leggermente verso destra, si agitavano frequentemente all’interno, e si muovevano tra le bollicine sospingendole leggermente da una parte all’altra, malgrado queste sembrassero molto più grandi. Gli infusori, dal movimento molto vivace, presentavano delle sferule sparse sul corpo e molto visibili. Sembrava non avessero nulla a che vedere con quelle bollicine di polpa limpide e chiare, e si raccoglievano ancor più sotto il cappuccio di alcune gelatine che si trovavano nelle vicinanze. Quando erano liberi di girare, ho notato il prodursi di

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uno strano movimento: dei corpuscoli infinitamente piccoli si muovevano incontro all’infusore con una certa veemenza, attirando anche le bollicine di polpa di media grandezza, anche se ciò avveniva solo quando queste si trovavano nelle immediate vicinanze, e in particolare nei momenti in cui l’animale se ne distanziava. Tutte le infusioni qui descritte sono rimaste per tre giorni in una stanza calda e alla luce del sole. Ho versato alcune gocce dell’infusione di funghi in quella del cactus e della patata. Nel primo caso, dopo un quarto d’ora tutti gli animali sono scomparsi, compresi i più grandi, senza lasciare alcuna traccia. Nell’altro caso, gli animaletti hanno mutato notevolmente forma, e nella maggior parte di essi l’inclinazione del peduncolo anteriore verso il lato destro è scomparsa quasi del tutto, sicché sono diventati per lo più regolari infusori ‘a peduncolo’. Tutti sembravano diminuiti in lunghezza e aumentati in larghezza. Il 16 aprile ho osservato il No. 9, l’infusione di patate, che era rimasta al sole in un giorno caldo; era sera, intorno alle otto. [Gli organismi] non si presentavano vivaci come durante l’osservazione precedente, in particolare nelle prime gocce, mentre nelle successive si mostravano già più vispi. La loro forma non si era molto modificata: mi è sembrato solo che fossero divenuti un po’ più lunghi rispetto alla fig. 9 b di tav. II. Ciò che per me costituisce il dato più singolare è il fatto che essi davano l’impressione di avere tra loro una condotta gregaria: infatti, nei luoghi in cui non si trovavano ricoperti di gelatina e potevano nuotare liberamente, sembrava si trattenessero volentieri insieme. C’era una buona dozzina di loro che si manteneva in gruppo, e quando urtavano gli uni contro gli altri non cercavano di evitarsi bruscamente come avveniva tra gli altri infusori: piuttosto, scivolavano lentamente sfiorandosi, girandosi intorno e tornando indietro; sembravano annusarsi vicendevolmente con le estremità anteriori appuntite, o almeno il modo di comportarsi che tenevano tra loro si addiceva a quello di animali molto più organizzati. Il numero delle bollicine di polpa belle e chiare si era molto ridotto. Ho versato una goccia

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dell’infusione di pepe in quella di patata, e in pochi istanti ho visto gli organismi della patata muoversi molto animatamente, e nuotare di lato, mostrandosi molto inquieti. Riuscivo a vedere ancora chiaramente vibrare nella goccia i piccoli organismi dell’infusione di pepe come vivaci puntini neri, mentre gli organismi della patata diventavano di tanto in tanto più calmi, la loro forma mobile si contraeva in una forma più arrotondata, finché non giacquero immobili come morti (tav. II, fig. 9 c); ne ho poi osservati altri due allacciati tra loro (fig. 9 e), al modo che avevo già notato la volta precedente (fig. 9 f), quando avevo versato una goccia dell’infusione di funghi in quella di patata. Una goccia d’acqua fresca ha portato gli organismi ancora vivi a muoversi di nuovo energicamente, anche se non saprei dire se tra gli organismi che sembravano morti se ne sia ridestato qualcuno. 18 aprile. No. 1. Puzzo insopportabile. Membrana gelatinosa, sono presenti anche dei puntini chiari, bianchi e rotondi, ma non c’è traccia di vita. No. 2. Odore volatile putrido. Innumerevoli piccoli organismi puntiformi brulicanti; pochi infusori ‘a peduncolo’, anche se piuttosto grandi, oltre ad una quantità di creature piccole e allungate, di cui però non sono riuscito ad osservare con precisione la forma. No. 3. Odore di putrido. Organismi molto piccoli, puntiformi e ovali, in grandissima quantità, pullulavano soprattutto nel muco. No. 4. L’infusione era ancora chiara e dal colore acceso, e manteneva l’odore noto. I piccoli organismi descritti in precedenza si mostravano di nuovo molto vivaci, e mi sembrava che ve ne fossero anche altri, leggermente più grandi. Si vedeva anche una gelatina composta di sferule molto piccole e trasparenti. No. 5. Odore acido e putrido. Frequenti punti gelatinosi trasparenti, molti dei quali avevano una bella forma tondeggiante e una trasparenza chiarissima; non si trova però alcuna traccia di vita. No. 6. Privo di odore. Nell’infusione ho trovato dei bellissimi filamenti di una Conferva articolata, e pochi punti vitali,

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chiari e mobili. È possibile che questa Conferva si sia generata nel recipiente di vetro come una sorta di muffa, e tuttavia vale la pena chiedersi se qualcosa di simile si possa produrre nelle fasi successive di questa infusione o se debba essere prodotta per mezzo di un’altra infusione di muffa. No. 7. Infusori ‘a peduncolo’ molto vivaci, con il peduncolo in prevalenza piegato verso il lato destro, che spesso, nuotando così animatamente, si disponevano di lato, e si vedevano dunque come allungati e irregolari. L’infusione aveva un leggerissimo odore di muffa. No. 8. Puzzo insopportabile; un organismo suddiviso in modo straordinariamente sottile, poco consistente e gelatinoso; non c’è traccia di vita. Poiché la goccia era rimasta ferma per un certo tempo, sono tornato a osservarla e nell’infusione ho notato alcuni organismi piccoli di forma ovale che si muovevano, anche se con difficoltà. No. 9. Mi è sembrato ancora una volta che si fossero un po’ allungati, e ho trovato ancora un organismo doppio, come riprodotto in 9 b: quello anteriore era piuttosto appuntito, mentre quello posteriore era tondeggiante. Si muovevano con una certa concitazione, ma allo stesso tempo quello anteriore precedeva sempre quello posteriore, come se tentasse realmente di staccarsene. Infine sono riuscito a vedere chiaramente che non c’era quasi nient’altro a tenerli insieme; giravano liberamente, finendo poi sotto un pezzo di gelatina trasparente, dove li ho potuti osservare ancora con attenzione, finché non è avvenuta la separazione sotto il mio sguardo: quello anteriore è rimasto appuntito, quello posteriore rotondo e, fin quando ho avuto modo di osservarli, si sono trattenuti presso il tratto di gelatina. Di un’altra coppia di organismi, che si tenevano uniti da lungo tempo, e che con la punta anteriore in parte si cercavano l’un l’altro e in parte si muovevano, ho sperato invano di riuscire a osservare l’unione. 23 aprile. No. 10. In acqua distillata si era prodotta una sorta di fiocchi di muffa, che in parte si posavano lateralmente sul fondo, in parte continuavano anche liberamente a fluttuare nell’ac-

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qua. Al microscopio si mostravano simili a radici filamentose, estremamente fragili, ma ce n’erano anche di più forti, che non si mostravano articolate, ma presentavano parecchie irregolarità, nonché alcuni bottoncini e piccole protuberanze di diversa forma; ho potuto osservare molto chiaramente che le più grandi erano ramificate, e lo stesso si poteva percepire anche nel caso di molte tra le più piccole. Questi filamenti sembravano dipartirsi da un punto centrale comune, e per il resto non vi era traccia di vita, per quanto io abbia notato un movimento elastico in una sfera e in alcune altre parti delle ramificazioni più grandi. Tuttavia queste ultime si sono immediatamente di nuovo fermate e non si sono più mosse. No. 11. Poche gelatine e una gran quantità di piccolissimi animaletti che appaiono allungati, e che si muovono non in linea retta davanti a sé, bensì disegnando moti semicircolari. No. 12. Nessuna traccia di vita, ma una sostanza gelatinosa. 13. Una sostanza gelatinosa sottile e consistente, sotto la quale si vedono dei punti sottilissimi e trasparenti. 1o maggio. a) Questa infusione era stata rinfrescata nel frattempo con dell’altra acqua, e vi si trovano innumerevoli animaletti in forma di fagiolo e di rene, pieni di vita e molto mobili, come in tav. II a 2, nessuno dei quali arriva alla lunghezza descritta in a 1, e uno solo diventa come a 3. a* Nessuna traccia di vita, a à Animaletti ovali che presentano una punta anteriore piegata verso sinistra T. II, a 4. Pochi animaletti a forma di fagiolo, uno solo allungato. b) Organismi puntiformi e ovali, per la maggior parte di piccole dimensioni, vorticelle, un singolarissimo organismo tubolare, che, provvisto di un piccolo filamento nella parte anteriore, attirava evidentemente con forza gli animaletti puntiformi grazie ad un movimento rotatorio straordinariamente accentuato, inghiottendoli, come a me sembrava, e, stando con le parti posteriori, più forti, ben salde, si muoveva su entrambi i lati, verso l’alto e verso il basso. In quest’ultimo caso si poteva osservare molto distintamente in particolare la piccola corolla posta sulla sua parte anteriore: ho notato come in

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un primo tempo si trovasse in quiete, mentre successivamente l’ho trovata in movimento. Si muoveva poco alla volta, come un geometride, e aveva anche in generale un aspetto vermiforme, come alle figure b 7, 8 e 9. Nell’infusione si trovavano poi anche alcuni bastoncini e filamenti molto chiari, alcune vorticelle e nessun organismo di quelli descritti alla tav. I, no. 2, pur così frequenti in questo tipo di infusione. c) Innumerevoli piccoli punti trasparenti senza vita, pochi animaletti ovali molto vivaci, che attraversavano la massa. Nel recipiente di vetro si era depositata una pellicola verde, anch’essa costituita solo da bollicine e punti chiari e contigui. Non si notava alcuna traccia di fibre o di un’organizzazione coesa. 1. Odore di urina. Molte gelatine sottili, nessuna traccia di vita. 2. Odore putrido acuto. Gelatine sottili, animali ‘a peduncolo’, che per lo più avanzavano con un moto di rivoluzione attorno al proprio asse più lungo. 3. Simile odore di urina. Gelatine sottili, una membrana composta di sottili punti gelatinosi. 4. L’odore noto. Piccoli animali puntiformi, animali ‘a peduncolo’ di modesta grandezza, con le parti anteriori ripiegate. Sottili gelatine brune. 5. Odore vagamente putrido. Sottili gelatine sparse. 6. Numerosissimi bastoncini trasparenti, articolati in modi molteplici e graziosi; alcuni di essi erano internamente pieni di bollicine, evidentemente originatesi nell’infusione, dal momento che erano molto numerose, e durante le mie precedenti osservazioni non le avevo notate. Ho trovato anche la Conferva, già indicata a pag. 1, graziosa e tuttavia non interamente articolata. Questo mi ha incoraggiato ad osservare con tanto maggiore attenzione l’infusione di muffa che segue. 7. Piccolissimi e vivaci animali puntiformi, ma poco numerosi. Un unico animale ‘a peduncolo’, piatto, piegato in avanti, ruota attorno al suo asse maggiore. 8. Nella gelatina in sospensione [si trovano] moltissimi animali ‘a peduncolo’, piatti e piegati all’estremità appuntita. L’odore putrido si era molto attenuato. 9. Innumerevoli animali oblunghi di discreta grandezza, di cui riuscivo a distinguere ad occhio nudo il movi-

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mento nella goccia. La loro forma un po’ più lunga nella parte posteriore mi ha tolto quasi ogni dubbio che si trattasse delle stesse creature che avevo osservato in precedenza. 9.a. Essi nuotavano numerosi nel muco, alla superficie dell’infusione e, quando li si andava a disturbare, cercavano di nascondersi immediatamente di nuovo all’interno di esso. Una goccia d’acqua fresca ha provocato un loro movimento molto brusco. Le forme perlacee descritte in precedenza erano scese sul fondo, e io le ho riportate in superficie con un legnetto. Una goccia di urina le ha uccise tutte in un attimo. Erano diventate più appuntite nella parte anteriore, e in generale più lunghe e sottili. Sembrava che si attaccassero al recipiente di vetro, aspirando con il peduncolo. 11. Minuscoli animaletti puntiformi in discreta quantità. 12. Sottilissimi punti gelatinosi, nessuna forma di vita visibile. 13. Sottili gelatine, nessuna traccia di vita. Poiché le foglie erano rimaste troppo a lungo a macerare, e l’infusione era troppo densa, ho tolto le foglie e aggiunto dell’acqua. 14. Moltissimi organismi allungati e vivaci di discreta grandezza si muovevano molto rapidamente, e avevano la parte anteriore, più appuntita, rivolta verso un lato. Devo inoltre osservare che questa infusione, che per giunta era rimasta per tutto il tempo al sole, emanava un vago odore putrido, mentre l’acqua con la Conferva che si trovava al fresco, come nei primi giorni, produceva un puzzo insopportabile. In questa infusione ho osservato anche degli animaletti puntiformi, infinitamente piccoli ma molto belli, che si fermavano in gruppi e sembrava giocassero gli uni con gli altri. 15. Bollicine gelatinose, splendidamente trasparenti, grandi e nitide, e anche bastoncini simili, nonché altre particelle e filamenti gelatinosi. Nessuna forma di vita. 16. Pochi punti gelatinosi, ma ogni sorta di corpuscoli e filamenti trasparenti. Nessuna forma di vita. 18. Fragili bollicine, nulla di gelatinoso, nulla di vivo.

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Oggi ho osservato anche l’aceto che avevo chiuso in un recipiente di vetro il 24 aprile, e ho trovato delle bollicine gelatinose e dei punti, ma nessuna forma di vita. Ho osservato anche dell’acqua in cui erano macerate delle uova di rana, e vi ho visto degli organismi piuttosto grandi, che sembravano del tipo di quelli riprodotti alla tav. I No. 2, anche se, a causa della loro velocità, non sono riuscito ad osservarli con sufficiente chiarezza, e non ho avuto abbastanza tempo per seguirne i movimenti, i quali tuttavia si accordavano in buona misura con quelli degli organismi che ho nominato e descritto in precedenza: anch’essi, infatti, guizzavano rapidamente all’indietro, si posavano su un fianco e si mostravano completamente piatti. Ho inoltre notato nell’infusione una gran quantità di filamenti, simili a quelli della finissima Conferva priva di articolazioni. 10 maggio. a.) In una grande goccia solo un organismo, simile a quello di tav. II, a I, più numerosi gli animaletti simili ad a 2 e ad a 4, che si muovevano caoticamente e con grande animazione. Il movimento convulso che gli animali mostrano quando si pone una goccia sotto il vetro credo sia dovuto principalmente al fatto che l’immersione del legnetto li strappa dalla condizione confortevole in cui si trovavano in precedenza, poiché la membrana gelatinosa sotto la quale essi si nascondono solitamente finisce per strapparsi all’atto dell’immersione, disturbando così la quiete degli organismi. a* Nessuna traccia di vita, poche parti gelatinose. a à Infiniti punti trasparenti immobili. Alcuni sono allungati, altri si avvicinano a quegli animaletti a forma di fagiolo; mi sono sembrati particolarmente degni di nota alcuni animaletti riprodotti alla tav. II aà: erano lenti, e mi sembrava che si fossero prodotti dagli organismi più allungati; da allora questa infusione deve fare a meno della polpa di banana, loro originario alimento. Nel caso 2 si tratta dello stesso organismo ingrandito grazie al No. 1: rimasto per lo più nello stesso luogo, esso ha attirato con veemenza a sé i puntini gelatinosi, fino ad esserne completamente saturo; solo la sua parte anteriore era

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limpida ed è rimasta tale, e tuttavia non sono riuscito a capire in che modo le sferule ne venissero inglobate. b. In una grande goccia un’unica vorticella, e pochissimi organismi simili a b 2. Con il legnetto ho portato su la foglia di cactus che giaceva nell’acqua e ho fatto salire in superficie ancora un’unica vorticella, mentre nell’infusione si trovavano moltissimi punti inanimati. Ho portato in superficie dal fondo un organismo simile a b 4: la forma vermicolare di uno di essi, che si muoveva dal suo posto, era molto più grande e distinta di quanto non avessi notato la volta precedente, e tuttavia il suo moto era troppo rapido perché potessi osservarlo con precisione, e in seguito si è fermato completamente. Ho inoltre notato alcuni bastoncini costituiti da serie di punti, di grande bellezza. Non appena ho avuto occasione di osservare più attentamente l’organismo vermiforme 6 c, mi è sembrato di notare che era composto di sezioni sovrapposte una sull’altra. Addirittura sembrava che la sua grande ampiezza potesse risultare soltanto da una sorta di stratificazione, attraverso la quale era possibile vedere l’uniforme animale traslucido; tuttavia era tutto così trasparente e compatto che era molto difficile distinguere. Grazie alla lente No. 1 i punti gelatinosi mi sono apparsi di diverse grandezze, per la maggior parte allungati in forme ovali non del tutto regolari. Sono tali punti a comporre i bastoncini, nonché una parte della mucosa verde molto compatta che ho portato in superficie dal fondo. Nella mucosa si trovavano con grandissima frequenza gli animali vermiformi e allungati, che vorticando causavano il movimento dei corpi immoti a una distanza superiore all’intera loro lunghezza. 11 maggio. 16. Animaletti ovali infinitamente piccoli in una gelatina. 15. Animaletti tondi e apparentemente piatti, di media grandezza, dei quali non sono riuscito ad osservare l’esatta forma, a causa dell’incredibile velocità con cui si muovevano. Piccoli animaletti puntiformi molto chiari. 17. Innumerevoli grandi animali ‘a peduncolo’, molto simili a quelli dell’infusione di patata, sia per l’ovale appuntito, sia per le parti anteriori allungate. Mi è sembrato anche che,

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come nel caso delle patate, alcuni di essi fossero doppi e sul punto di scindersi. 18. Molti puntini trasparenti di diversa grandezza, la maggior parte dei quali erano immobili, mentre una parte si muoveva. 13. Il consueto odore di tè; l’infusione era diventata molto densa e viscida, e in essa si muovevano innumerevoli animaletti puntiformi e ovali molto piccoli. 12. Odore acidulo. Numerosissimi punti gelatinosi, nessuna traccia di vita. 11. Punti gelatinosi sparsi e già trasparenti, tra i quali si muovevano pochi animaletti puntiformi. 9. Puzzo di putrido. Innumerevoli organismi in una goccia, che si muovevano disordinatamente con indicibile agilità, e in breve tempo si erano raccolti tutti insieme in una massa brulicante. Una goccia d’acqua fresca aggiunta ha causato un loro movimento indescrivibile: hanno afferrato con grande energia alcuni bastoncini della gelatina che galleggiava loro intorno e si sono presto riuniti di nuovo in più gruppi. Ne ho visti anche diversi rivoltarsi in continuazione gli uni con gli altri: sembrava che mancasse loro solo un pezzettino di gelatina per trovare finalmente pace e porre le basi per un nuovo aggregato; attraverso [la lente] No. 1 si notava con grande precisione che avevano un lato anteriore piatto e presentavano così una sorta di gobba. 8. Animali ‘a peduncolo’ che oscillano lentamente e con moto singolare avanti e indietro e si capovolgono, con le parti anteriori piegate in parte verso il lato destro, in parte verso il sinistro. Non si muovevano con molta concitazione, ma la loro velocità è aumentata quando ho aggiunto dell’acqua fresca. Odore di urina. 19. Una sorta di vorticella con un peduncolo molto corto, che si muoveva con estrema lentezza e si fermava anche sul fondo (tav. III, fig. 19. 1), e radunava organismi allungati e smussati, simili a quelli descritti nel caso dell’infusione di cactus opuntia (fig. 19.2, tav. III), che si muovevano a grande velocità. Innumerevoli piccoli animaletti puntiformi, altri animaletti ovali e anche punti in quiete, ma tutto molto animato. 14. Odore putrido. Animali puntiformi allungati e piuttosto grandi, piegati davanti su un lato, erano ancora visibilmente

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bruni anche alla luce più tagliente. Grazie al[la lente] No. 1 si vedeva come fossero ricoperti di sferule marroncine, fino ad un margine che in alcuni movimenti appariva davvero molto fine, per quanto io sia portato a ritenere che si trattasse di un effetto illusorio del vetro.

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I cotiledoni31 inferiori possono essere interi, tali che in essi non siano riconoscibili singole parti; e questi a loro volta possono essere o completamente interi o apparentemente divisi. [Oppure] divisi. Dai cotiledoni interi a quelli divisi vi è un passaggio lieve. I cotiledoni inferiori si gonfiano a causa dell’umidità del terreno, e forniscono il primo nutrimento al germoglio che si nasconde tra di essi, in modo tale che la piccola radice possa uscir fuori e cercare alimento a sua volta nella terra. Prima di procedere oltre, richiamiamo intanto la nota suddivisione32 del germoglio vegetale, che si distingue in cuoricino (corculum), beccuccio (rostellum) e piumetta (plumula), anche se tale suddivisione non ci sarà sufficiente nelle pagine che seguono. Nelle piante che possiedono dei cotiledoni inferiori, questi sono collegati con il cuoricino e con il beccuccio in modo tale che i vasi33 che portano la linfa dai primi alla pianta si inseriscono nella pellicola tenera della piantina, e per mezzo di tale pellicola si uniscono sia con la radice sia con il cuoricino e, poiché la piumetta o ciuffetto è strettamente legata a quest’ultimo, essa è un altro dei tramiti di quell’unione. I vasi che congiungono i cotiledoni inferiori al germoglio della pianta sono, per quanto finora si è osservato, o semplici, come nel caso della maggior parte dei cotiledoni interi non separabili, oppure doppi, come nel caso dei cotiledoni divisi;

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tuttavia si presenta anche il caso in cui si trova un unico cotiledone indiviso e due vasi che entrano nella pianta, come si è notato nel nasturzio34, e come verosimilmente dovrà valere per molte altre specie simili, che non sfuggiranno all’osservazione. Se il cotiledone inferiore è semplice, resta solitamente sotto terra; la sua funzione, come si è detto sopra, è di procurare il primo nutrimento alla pianta grazie al latte preparato nei suoi vasi. Le parti che lo costituiscono sono farinose e amigdaloidi e, a contatto con l’acqua, che nei loro vasi genera un liquido, producono questo tipo di latte. Questi cotiledoni inferiori restano dunque anche per lo più sotto terra, e lì svolgono la loro funzione. A causa della loro natura e forma non sono in grado di appropriarsi di aria e di luce, con cui dare alla pianta nuovo alimento e sviluppo. Solo in alcune piante provviste di cotiledoni doppi, e che per questo diventano presto simili a foglie, essi crescono verso l’alto e assumono un colore verde, simile a quello dello stelo che sporge dalla terra. Tuttavia poi si abbassano non appena giungono all’aria aperta, e anziché ampliarsi formando nuove foglie, appassiscono, cadono e mostrano così di aver concluso la loro funzione, poiché non portano in sé organi fatti per vivere in superficie, nel regno della luce e dell’aria. Se ne parlerà più diffusamente in seguito. Tali piante permettono di constatare la novità delle osservazioni che presento in questa sede, poiché sono state oggetto di un confronto che, se le mie osservazioni sono fondate, si dovrà ritenere fallace. Cotiledoni superiori Secondo le mie osservazioni, questi possiedono già la forma delle foglie, o piuttosto sono già vere e proprie foglie, in tutto simili alle foglie successive. Non possono restare a lungo nascosti sotto terra, ma devono al più presto levarsi in superficie. In alcune piante essi costituiscono la parte che, in base alla suddivisione del germoglio richiamata in precedenza, è denominata piumetta, o plumula.

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Possono avere: una foglia due foglie più foglie Secondo le osservazioni che ho condotto finora, esistono piante che hanno 1) cotiledoni superiori e inferiori insieme 2) solo cotiledoni superiori 3) solo cotiledoni inferiori Per rendere ancor più chiara l’idea dei cotiledoni superiori e inferiori, si manterrà per quelli inferiori il nome finora impiegato, chiamandoli cotiledoni inferiori, o nuclei inferiori. I cotiledoni superiori invece si potranno denominare anche foglie seminali (folia seminalia), foglie radicali (folia radicalia), cotiledoni o nuclei superiori: come vedremo in seguito, questi tre nomi saranno attribuiti di volta in volta a seconda delle diverse proprietà e disposizioni che essi assumono nelle diverse piante. Non ci si stupirà poi se dirò che ad alcune piante mancano i cotiledoni inferiori e ad altre quelli superiori, considerando che in diverse piante mancano o sembrano mancare anche parti fondamentali ed essenziali, che si sottraggono alla vista o si presentano in forme talmente irregolari che difficilmente si è in grado di riconoscerle, oppure, quand’anche riusciamo a riconoscerle, non oseremmo quasi dichiarare che abbiamo davanti agli occhi, nell’intero regno vegetale, la connessione più precisa, e il più meraviglioso trapassare di una parte nell’altra. Mi sia concesso, per maggior chiarezza, volgermi ad esaminare alcuni disegni35, per spiegare attraverso degli esempi ciò che finora ho affermato, e poter poi proseguire. A tale proposito devo rinnovare la mia preghiera di non soffermarsi sulla mia terminologia inconsueta, ma di voler guardare al complesso con imparzialità. Il granturco36 Secondo la mia suddivisione, il granturco ha un cotiledone inferiore indiviso, dal quale deriva la radice, che si fa strada

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nel terreno, mentre un altro impulso che spinge verso l’alto contiene, in un involucro con una sola foglia, la futura pianta. In questa sede chiamerò tale involucro monofogliare ‘foglia seminale’, in modo tale che non suoni strana la mia affermazione secondo cui esso prende il posto del cotiledone supe­ riore. Tuttavia, chi ricorda ciò che ho scritto in precedenza a proposito delle proprietà e funzioni dei cotiledoni superiori, non resterà perplesso. Questo involucro monofogliare, alquanto simile nella forma alle successive foglie, scaturisce dalla terra, si colora di verde e trasmette aria e luce alla pianta. E sebbene esso sia unito al cotiledone dall’alto in basso, si collega tuttavia nel tratto intermedio con un nodo attraverso la sua diploe37. Occorre adesso osservare più da vicino questo nodo. Nulla è più desiderabile che mantenere per quanto possibile l’antica terminologia anche proseguendo le osservazioni, correggerla quando serve, applicarla diversamente, oppure infine abolirla nel caso in cui non si adatti più in nessun modo ai casi esaminati; intendo dunque in questa sede tornare alle denominazioni che ho impiegato in precedenza. Si vede chiaramente che la radice costituisce la parte fibrosa e protesa verso il basso, nettamente distinta dal nodo, che si spinge invece verso l’alto, e che possiede a sua volta la facoltà di produrre radici. Si osserva in questo caso che la radice scaturisce proprio dal cotiledone inferiore e cerca la profondità del terreno, mentre le altre parti della pianta tendono verso l’alto, anche se non si riesce a ottenere un’idea precisa dei diversi punti che costituiscono la nuova vita della pianta che nasce. Non è però questo il luogo per entrare nei dettagli, poiché quest’oggetto non permette di osservare chiaramente tutti i punti in questione. Vorrei soltanto accennare al fatto che tendo a definire il nodo ‘cuoricino’, come sarà spiegato ancora tra le pagine che seguono. La pianta riprodotta alla tavola 2 ha avuto uno sviluppo migliore, il nodo si è spostato più verso l’alto, e dunque non si vede alcuna radichetta o punto radicale, poiché il nodo è spuntato fuori dalla terra e ha dovuto così fare a meno dell’umidità necessaria a questo ulteriore germoglio.

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Mi volgo adesso a esaminare un’altra pianta, notevolissima e utilissima al nostro scopo: si tratta infatti della pianta che ha causato finora confusione nella terminologia e nella suddivisione da me proposte, e dunque potrà consentirci di fornire in questa sede una spiegazione più concisa. Si tratta del fagiolo38 Io lo annovero tra le piante che possiedono sia cotiledoni inferiori che superiori; entrambe le specie sono riprodotte chiaramente nella terza tavola. a è qui, come nel caso precedente, il punto radicale, che si trova tuttavia molto lontano dal punto b, in cui dimorano i cotiledoni inferiori. Quelli contrassegnati con la lettera b sono qui divisi in due, e si trovano uno di fronte all’altro ai due lati dello stelo. Le due foglie g, disposte presso il punto c, coincidono, a mio avviso, con le foglie seminali, i cotiledoni superiori. Si tratta dei primi vasi simili a foglie che si appropriano della luce e dell’aria, e risalgono fino al punto e della pianta, che solo da lì in avanti si protende effettivamente verso l’alto, e provvedono così il primo nutrimento dalla zona al di sopra della terra. Si noti che entrambe queste foglie si trovano congiunte ciascuna all’altra, mentre le successive sono connesse a tre a tre ad un peduncolo. Nel caso di questa pianta, dunque, risulterà evidente ciò che desideravo stabilire, vale a dire i diversi punti del germoglio vegetale. a è il punto radicale b il punto del cotiledone inferiore, o punto ombelicale39. Mi permetto di usare questa espressione correntemente, visto che già da diverso tempo è stato istituito il confronto tra i cotiledoni e la placenta40. c è il cuore. In tal modo dunque ciò che si trova segnato sotto il punto a sarà il beccuccio o rostellum, ciò che si trova al punto c, vale a dire i due folia seminalia gg e il piccolo germoglio d, che si trova avvolto e proteso tra di loro,

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si chiamerà plumula, mentre al gambo che si trova tra c ed a probabilmente converrà il nome di collo. Linné si serve di queste denominazioni, ma solo nei casi in cui tali parti si trovano innestate ancora nella pianta e sono ben visibili; si tratta però di casi molto rari, ed è sempre necessario far trascorrere un certo periodo di sviluppo prima che si riesca ad osservare quelle parti. Perciò ho ritenuto indispensabile discutere in che misura quella terminologia si possa connettere a quella che io propongo. Da questi due esempi, che mostrano entrambi cotiledoni inferiori e superiori, i primi indivisi, i secondi separati, mi volgo adesso alla seconda specie di piante, che possiedono cotiledoni superiori ma non inferiori, e introduco in primo luogo l’esempio eccellente della zucca41, che può rendere più chiaro il passaggio. Anche in questo caso a è incontestabilmente il punto radicale; ritengo poi che il piccolo vaso sporgente b si trovi al posto del cotiledone inferiore, che qui in certo senso si ritrae, anche se, prima di scomparire del tutto, ci lascia ancora una traccia da osservare. Il punto c, qui appena visibile, che non mostra alcun nodo dovrebbe coincidere anche in questo caso con il cuore. A partire da lì si sviluppa in altezza un lungo involucro, che si divide alla sommità in due labbra o foglie; qui i 3 punti, che nella tavola precedente si trovano così lontani, si avvicinano tanto che non si riesce quasi a distinguerli, e nella prosecuzione della pianta si fondono completamente. NB. Da notare come le foglie successive della pianta del cetriolo si distinguano dalle prime due e diano adito a ulteriori osservazioni e disegni rispetto alle prime specie di piante. Terza specie di piante Si tratta di quelle piante che possiedono dei cotiledoni inferiori ben visibili, ma non mostrano cotiledoni superiori: è il caso, ad esempio, della veccia42 qui riprodotta, in cui evidentemente a è il punto in cui inizia la radice, e b il punto ombelicale. Tuttavia, in base alle definizioni che ho stabilito in precedenza, sarei in difficoltà se dovessi indicare esattamente in che punto si trova il cuore. Tentiamo dunque di addurre un’osservazione particolare. In effetti qui non si trovano cotiledoni

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superiori, vale a dire, secondo la mia spiegazione, mai ripetuta a sufficienza, quelle prime foglie, molto simili alle successive, che aspirano aria e luce per trasmetterle alla pianta; e tuttavia ci colpisce la presenza di altri organi. Non appena il germoglio si sviluppa, appaiono delle piccole sottili foglioline ausiliarie che esplicano la stessa funzione, per la gemma che si nasconde lì dietro e per i futuri rametti, che svolgono i cotiledoni superiori o folia seminalia nei confronti dell’intero gambo che sale in alto, secondo la mia ipotesi. Tali foglioline ausiliarie si ripetono ad ogni gemma e rinnovano la loro funzione. È notevole che i rametti inferiori zz crescano più tardi rispetto a quelli superiori, anche se le loro foglioline ausiliarie gg sono già completamente formate; ne deduco che esse, per quanto sembrino separate dal loro rispettivo rametto, esercitano tuttavia un influsso sull’insieme, e sostituiscono in effetti inizialmente i folia seminalia, fino a quando i boccioli superiori non siano interamente germogliati. Mi pare che il nasturzio appartenga a questa specie, anche se lo menziono in modo dubitativo. a. il punto radicale b. l’ombelico, intimamente unito al punto radicale. Se lo si spoglia del suo involucro, questo seme è costituito da un unico nucleo, anche se, come si può vedere in bb, sono due i vasi che entrano nel gambo. Si potrebbe dunque cercare il cuore nel punto x, identificando le due foglie gg con i folia seminalia, ma io sono più propenso a credere che il cuore sia strettamente unito alle due punte inferiori 1) perché una pianta così succosa, che cresce così leggera in altezza, deve necessariamente assorbire luce e aria dal gambo, poiché le prime foglie non differiscono quasi dalle altre e 2) perché ho notato quattro piccoli vasi ausiliari sottili e bruni, che certamente non possono non avere un influsso. In ogni caso sarà necessario osservarlo più da vicino. Palma da datteri43 Lo sviluppo di questa pianta dal suo nucleo duro ci fornirà, se lo osserviamo attentamente, alcuni chiarimenti. In fig. a e b è riprodotto il seme da entrambi i lati. Con la

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parte che si vede qui in alto, esso si congiunge al pericarpio44 e al gambo. Come si vede, presenta un lato liscio (a) e uno grinzoso (b), diviso in due. Al centro del seme a si vede un puntino bianco, dietro il quale si trova, nel seme, il germoglio, come si può notare dalla fig. 3; esso appare con la massima evidenza, ed è possibile provare, in base alla congiunzione di una membrana del pericarpio, che il germoglio penetra all’interno dal lato 2 o, se si preferisce, il seme viene fecondato da questo lato. Dopo questa fecondazione il seme si chiude energicamente, in modo tale da produrre i due rigonfiamenti del lato 2, nonché le altre grinze del medesimo lato. Se si divide in due il seme, si trova che esso consiste di una sostanza compatta e simile alla mandorla o piuttosto al grano, di colore blu-grigio, in cui si trova il germoglio, tenero e bianco come il latte, nella direzione e nella forma che ho descritto in precedenza. Esso mantiene a lungo la sua forza vitale, e varrebbe la pena tentare osservazioni nell’arco di diversi anni. Se poi questo seme viene piantato nel terreno, ed esposto al calore e all’umidità in grande misura, si sviluppa presto e in un modo meraviglioso, che non ho ancora mai notato in nessun altro tipo di pianta. La parte anteriore, più arrotondata, si sporge verso l’esterno all’apertura del seme, formando, come vedremo in seguito, la radice e il germoglio. La parte posteriore, più piatta, si dilata invece in modo stupefacente e, traendo il nutrimento dal seme, vi forma una cavità in cui si stabilisce, come un piccolo fungo, in forma del tutto simile ad una placenta, assorbe il nutrimento e consuma poco a poco il seme. La sua collocazione e connessione con il seme è riprodotta nella terza figura, la No. 5 mostra il seme in sezione, e al No. 4 si vede la sua forma; la sferula spugnosa è tratta dal seme della pianta già cresciuta No. 6 e 7, anche se nel disegno appare un po’ troppo grande. NB. Lo sviluppo successivo del germoglio deve essere ora osservato più da vicino, al pari della crescita della piccola placenta, fino alla completa consumazione del seme. Passiamo dunque a considerare lo sviluppo esterno della radice e del germoglio che affiora in superficie, e ci accorgeremo di alcuni elementi singolari. Nella quinta figura vediamo sputare un vaso allungato, piuttosto semplice. a è anche in questo caso il vero e proprio punto radicale,

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e il punto b, in cui viene alla luce una piccola radichetta, è il punto ombelicale, a partire dal quale un vaso, in tutto paragonabile al cordone ombelicale, giunge al punto vv. Tale vaso mostra una fessura al centro e fa strada alla punta della prima foglia che, in base alla mia ipotesi, assume il nome di cotiledone superiore. Alla figura 6 vediamo il suo successivo sviluppo. Il punto radicale vero e proprio, a, si secca in questo caso, poiché giunge troppo in profondità nel terreno del vaso riscaldato, anche se alla pianta è giovata la presenza delle radici laterali, sbucate tra i punti a e b. Dal punto b sono spuntate a loro volta delle radici, e da ciò, ma anche dal nodo che è fissato nello stesso punto, come si vede ancor più chiaramente se si taglia la pianta, risulta che il punto che abbiamo chiamato cuore si trova anch’esso in questa zona, ed è intimamente unito al punto ombelicale. Attraverso la fessura v del cordone ombelicale fuoriesce la prima foglia seminale, in forma di una cannula, per dividersi poi all’estremità superiore pressappoco in due foglie, grazie a due incisioni di ineguale profondità. L’incisione più grande si vede al punto t, la più piccola alla lettera s. Se si confronta lo sviluppo di questa pianta con quello del granturco, si troverà una sorprendente somiglianza. Dalla suddetta guaina, doppiamente incisa in alto, esce fuori la prima foglia vera e propria, che assume ormai, al pari delle successive, una forma del tutto diversa, distinguendosi così notevolmente dalla prima.

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[Appunti dall’Italia]45

[su singoli fogli di appunti]

Fiori ricolmi46 non sopprimere solo quelli maschili bensì aumento dei rametti aumento delle foglie aumento dei filamenti aumento dei pistilli, con le foglie attaccate. solo che non è fecondo, poiché eccede la proporzione dei fiori, e simili sviluppi si annullano reciprocamente. La radice deve essere confrontata con l’ombelico47.

Melograno ricolmo. Si sviluppano, nel perianthio in luogo della fruttificazione, melograno

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dopo una gran quantità di petali, nuovi perianthia monophylla, campanulata etc. E in questi ultimi, oltre ad una gran quantità di petali, ancora perianthia e petala, e così via, finché non si esaurisce la forza del germoglio, come accade nel caso dei garofani. I fiori interni si interrompono completamente e formano dei fiori di tipo particolare.

Il cactus48 è realmente dicotiledone, come si vede dal disegno qui sopra. Immediatamente dopo i cotiledoni si sviluppa un corpo ovale, che mostra già la forma futura delle parti della pianta: No. 1. Da tale corpo ovale spuntano delle piccole puntine a distanze regolari, e dal medesimo punto escono delle delicate spine. Questo corpo ovale non è altro che uno stelo molto esteso che interrompe le foglie (i.e. sottrae loro la forza di svilupparsi). Ho lasciato le piante nel soggiorno ed esse, non trovandosi più sotto i raggi del sole caldo, si sono allungate mostrandosi simili a steli. In tal modo si spiega quella specie di cactus in cui si mostra uno stelo regolare e uno sviluppo delle foglie. Il frutto del cactus è una cosiddetta grande foglia gonfiata. Sarebbe molto interessante esaminarne con precisione l’anatomia e confrontarla con la foglia verde. NB. Nell’osmunda49 le radici sporgono vistosamente dalla foglia – e da qui anche gli stimoli bruni che si vedono sulla foglia.

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Attraverso una sequenza di dilatazioni e contrazioni50 la pianta finisce per diventare [fecondabile]. Inizia dapprima una lieve successione graduale, finché non si risolve definitivamente a raggiungere il suo termine attraverso azioni contrapposte. Tale risoluzione è tanto più forte e vistosa quanto maggiore è il tempo che la pianta ha a disposizione per prepararsi in profondità nel terreno senza attraversare la sequenza di gradi. Ad esempio la pianta della cipolla allien. Allium etc. NB. Allium. luxurians.

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Gli astri: in che modo diventino più poligamici. I petali scompaiono, tranne una fila; tutto il resto sono calici seminali femminili. Altri si riempiono, i.e., aumentano i petali e i semi sono soppressi. Astri Duyten. L’abnorme garofano di Angelica51 era un garofano mensile. Garofano mensile 52 La prima fila dei petali cresciuta dentro il calice; ve ne sono anche alcuni isolati più teneri e colorati, ai margini 1. Calyx 2. Petalum. 3. Petala. 4. Una parte della capsula del seme con due steli; uno stelo era ancora fissato all'altra metà. Tali steli non avevano alcuna connessione con i semi, che erano fissati ad altre foglioline, situate all’interno della capsula.

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5. Un simile receptaculum a grandezza naturale. 6. lo stesso ingrandito. 7. la parte in cui erano cresciuti. Asteri Spostamento delle diverse corollae propriae dell’astero verso il centro del comune talamo. Punti neri sui bractea del melampyrum53. All’esterno fiori del circondario, corimbi infecondi o femminili.

[dai quaderni di appunti] In tutti i corpi che definiamo viventi54, notiamo la forza con cui si riproducono. Se consideriamo che tale forza è composta, la definiamo con il nome dei due generi. È questa l’unica forza che hanno in comune tutti i corpi viventi, altrimenti molto diversi nel loro modo di essere. Chiamiamo ‘generazione’ l’esercizio di tale forza. Se riusciamo a distinguere i due momenti di tale esercizio, definiamo il primo ‘procreare’, il secondo ‘partorire’. Il partorire è l’atto della separazione di un corpo dal suo simile. Il corpo che si è separato lo chiamiamo, nel momento, in cui ci accorgiamo del suo essere separato, la ‘nascita’. Ciò che è stato generato e che è nato cresce inarrestabil-

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mente fino a generare e partorire a sua volta, e muta di momento in momento. Limitandoci qui alla sola osservazione generale delle piante, ci fermiamo a queste considerazioni, mentre quelle che seguono saranno dedicate alle piante più in particolare. Da atti di procreazione e di nascita ad altri atti di procreazione e di nascita la natura completa il circolo della vita di una pianta. Non dobbiamo farci indurre in errore quando osserviamo che alcune piante si conservano anche dopo aver dato alla luce organismi vegetali simili. Noi osserviamo infatti la pianta solo in un ciclo che, una volta concluso, si ripete continuamente. Non mancherò di definire con maggior precisione tale relazione tra le pagine che seguono. Quando consideriamo la pianta in primo luogo come organismo nato, la chiamiamo ‘frutto’. Buccia che si stacca con il seme. Seme. Punto radicale Cotiledoni. Stelo Foglie. Il frutto si sviluppa entro vari involucri e bucce, che ora stacchiamo interamente, per analizzare il nocciolo che essi avvolgono; in alcuni casi l’osservazione si rivela più semplice, in altri è più difficile. Togliamo anche le ultime pellicine che troviamo avvolte attorno al nocciolo, e ne rimandiamo l’osservazione finché non le incontriamo di nuovo al termine del ciclo. Il nocciolo nudo ci mostra una sostanza compatta in cui non si nota in particolare alcun vaso. Il nocciolo nudo ci mostra una sostanza midollosa ovvero molto uniforme, che, non collegata da vasi, sembra piuttosto un aggregato. Ogni nocciolo nudo ci mostra una forma e, ad una osservazione attenta, si trovano così tante suddivisioni che siamo in grado di riconoscerlo come un corpo dalla forma ben definita. Per alleggerire l’esposizione, intendiamo ora considerare un seme noto, allo scopo di rendere più facilmente visibile la suddivisione. Scegliamo il fagiolo. Tolto dal baccello e spogliato della sua pellicola, operazione che riesce nel modo migliore se lo si mette in ammollo, il fagiolo si divide in due metà, unite

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da un puntino. Separandole troviamo, in una zona molto vicina al punto che congiunge le due metà, una piccola punta, sopra la quale si trova un corpuscolo piatto, che riconosciamo, anche senza sforzare troppo i nostri occhi, come una doppia fogliolina già formata. Ne disegno qui una figura.

La nascita della pianta: il seme, con il suo involucro più prossimo, cade a terra dopo la costituzione del vaso che contiene la pianta. A seconda che la pianta sia rimasta per un certo tempo in superficie o sotto terra, notiamo i seguenti mutamenti. Torniamo al nostro esempio del fagiolo. La punta a si dilata e si allunga fino a raggiungere il suolo. Anche il piccolo spazio tra a e b si amplia considerevolmente, e va a costituire un piccolo stelo che, secondo la sua natura, si protende irresistibilmente verso l’alto, sicché, allo stesso modo in cui i due poli di una linea si contrappongono come lo zenit e il nadir, così lungo la pianta possiamo pensare una linea in cui una estremità tende verso il centro della terra, l’altra verso l’atmosfera. È in tal modo che il seme si solleva dalla terra, se giace ad una profondità tale che lo stelo si allunga dal punto fissato fino a raggiungere i due corpi c. F. 2

Quando lo stelo si solleva al punto da ergersi perpendicolare rispetto al punto radicale, e dunque i due corpi vengono alla luce, essi si separano e la foglia doppia si mostra già sviluppata.

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Ora lo spazio tra b e c aumenta e le foglioline si dividono, sicché la pianta ottiene presto la sua forma.

Nel frattempo sono apparsi anche, in un punto che si trova al di sopra dell’estremità, alcuni filamenti che saldano ancor più la pianta alla terra. In una pianta così sviluppata siamo ora in grado di percepire chiaramente i seguenti punti:

Occorre ora esporre tutti i modi in cui le ‘nascite’ o semi delle piante si formano e si sviluppano.

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Garofano prolifero55 5 file di petali radunate, prima che si formi il calice. Il calice quinque dentatus. In che misura esiste una vera Monandria monogynia56. La più autentica potrebbe trovarsi tra le monoecie e le dioe­ cie. Osservare l’Hippuris. Ingl. Najas. NB. Kämpferia. Una pianta acquatica è un aggregato di più unità vegetali, che possono sussistere tutte le une accanto alle altre, se non si annullano a vicenda. Se alcune ne annullano altre, l’aggregato diventa un corpo; se si annullano a vicenda in modo ancor più esclusivo, i corpi diventano sempre più pregiati, e infine si producono gli individui (in precedenza genera); le creature più nobili si presentano nei casi in cui le parti si annullano nel modo più esclusivo. La sciocchezza di Nathanael57. Ogni vita vive grazie a qualcosa fuori di essa.

Botanica 58 Nella cipolla e nel bulbo le foglie si dilatano a causa dell’umidità e sostituiscono gli spazi intermedi. NB. Indagare più da vicino le cause per cui in seguito lo stelo spunta d’un tratto dalla cipolla. NB. Esaminare la radice del giunco, poiché il gambo è come nel fiore di cipolla. Forse si tratta di un passaggio verso le piante tubolari ed erbacee.

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Nell’aloe le foglie si dilatano con l’aria e riducono gli spazi intermedi; sotto terra le foglie sono piccole e gli spazi intermedi più grandi. La pianta deve possedere una certa quantità di umidità, di modo che olii e sale possano legarsi al suo interno. Le foglie devono togliere l’umidità acquosa, e forse modificarla. Ciò che per la radice è il regno della terra diventa in seguito la pianta per i sottili vasi che si sviluppano in altezza e aspirano dalla pianta la linfa più sottile. NB. Tutte le icosandrie tranne la Garcinia perianthium monophyllum. La grande dilatazione delle capsule seminali dopo la fecondazione, e il seme Rhamnus paliurus. Passiflora. L’Allium luxurians, a confronto con gli altri allia, in ragione della forma allungata dello stelo e della gran quantità di fiori. Pianta della cipolla, in cui i semi sono già cipolle. Il gambo dei fiori è la dilatazione maggiore delle parti che annullano le foglie etc. L’Allium luxurians come una quantità. Il pino, nel momento in cui cresce, ha undici foglie aghiformi. NB. Portare anche i semi del fico d’India: il suo sviluppo dal seme sarà illuminante. Esaminare l’aglio inglese, che porta cipolle invece del seme, sicché si chiarisce l’intero mistero. Portare dei fagioli.

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NB. Le parti aumentano e di nuovo diminuiscono fino a scomparire del tutto. A causa delle foglie superiori la finochis. Indagine sull’annullamento delle parti subordinate, ad esempio esaminare in che misura ciò avvenga a causa dell’acqua o della luce.

Ipotesi Tutto è foglia, e grazie a questa semplicità si rende possibile la più grande complessità.

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La foglia ha dei vasi che si intrecciano e producono a loro volta una foglia: è possibile farsene un quadro approssimativo intrecciando due linee:

Il punto in cui si incontrano i vasi e iniziano a formare una nuova foglia è il nodo. Tale nodo genera non soltanto la foglia che segue, ma molte altre. Una foglia che aspira soltanto l’umidità sotto terra la chiamiamo radice. Una foglia che si dilata a causa dell’umidità etc. diventa cipolla. Bulbo. Una foglia che si dilata immediatamente è uno stelo. Gambo. Il motivo principale su cui si basa quest’ipotesi è l’osservazione per cui il seme, o ciò che deve ancora svilupparsi, consiste di molte parti tra loro affini, che tuttavia si annullano a vicenda durante lo sviluppo. Ad es. Il corpo a b consterebbe di 6 caselle,

che per natura sarebbero tutte uguali tra loro, della stessa misura e con le stesse proprietà; ciascuna di queste parti presenta due lati rivolti all’esterno, eccetto c e h, che inoltre hanno ancora un lato oltre ad a e b.

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Poniamo la parte c del corpo nella terra e nell’acqua, in modo che possa assorbire l’acqua, e tutti i suoi vasi 1 2 3 si riempiano d’acqua, o piuttosto il vaso 1 si dilaterà al punto da soppiantare gli altri due. Occorre adesso addurre con maggior precisione questo esempio, e indicarlo in questa forma:

Qui sopraggiunge la teoria delle diverse membrane. L’arum ha una forma importante per la mia ipotesi. NB. Fiori doppi abnormi o frammisti. L’arum fa proseguire la foglia, e si può anzi vedere chiaramente che la foglia è come l’involucro

maschile femminile

È simile ad una sorta di monoecia contratta.

Rileggere la discussione tra gli studiosi. Osservare con la maggior precisione possibile le piante in cui i semi si sviluppano dalla foglia, filix. NB. Tigli più sviluppati etc. A causa dell’annullamento di una parte determinato dallo sviluppo dell’altra. In particolare le monoecie e le dioecie. NB. Linn. Gen. Pl. Ficus. Masc. flos Pist. Rudimentum caducum intortum.

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[quaderno di appunti del viaggio di ritorno]59 Insetti che si posano sui teneri e fragili rami di abete rosso, e ne traggono la linfa succhiando. Le foglie verdi che germogliano tranne poche, spariscono, e si produce una sorta di pigna.

Phthiriasis!!? Quanto più la forza riproduttiva di un organismo è subordinata, tanto più difficile è comprenderne e spiegarne l’esi­ stenza. Dove la forza riproduttiva e l’esistenza coincidono, diventa più facile spiegare l’organismo. Piante.

Lo stelo può essere annullato dalla foglia e viceversa. Spiegazione dell’anormalità da questo principio

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Non appena una creatura giunge a compiuto sviluppo si sviluppano in essa organismi simili. Gli elementi maschili sono sempre esterni rispetto a quelli femminili.

NB. Ampliamento o restringimento dei Prolungamento o riduzione degli spazi intermedi, quando si volgono dalla terra verso l’aria. Aloe? Erbacee?

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Il seme o nucleo germinativo Un’unità vegetale isolata, il più possibile semplice, i cui vasi sono completamente pieni di midollo. Nettario quando tra le foglie del fiore e gli steli riproduttivi devono aver luogo ancora altri cambiamenti delle foglie. La riproduzione è una determinazione dell’unità vegetale già completamente formata e isolata, che è in grado di procurarsi il nutrimento midolloso dalla pianta (tale determinazione ha luogo lungo la via della radice) La radice è la parte della pianta avida di nutrimento. In un primo stadio essa è avida dell’umidità del seme. Concetto di midollo. Vale a dire del seme. Farinoso. Lattiginoso.

Esempio esplicativo di un ramo tagliato

Non si può comprendere correttamente il concetto dei due sessi se non li si immagina incarnati in un individuo. Questa affermazione può sembrare paradossale, poiché i nostri concetti prendono le mosse dall’essere umano o dall’animale sviluppato, ed è proprio percependoli su due individui che distinguiamo nel modo migliore i due sessi.

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A tale scopo le piante ci offrono un’ottima occasione. Una volta compreso correttamente questo concetto, siamo in grado anche di effettuare il successivo passaggio, con cui spieghiamo come la natura separi i sessi, come li generi poi dapprima su un unico stelo, per dividerli di nuovo in due (procedere ancora oltre) Generare senza crescere, i.e. crescere e generare sono una cosa sola, crescere e poi generare

Della vita, riproduzione, concetto comune Infatti non è il pezzo di carne che io mangio ciò che vive, nel senso più alto, come sensazione, concetto chiaro Potrebbe del resto connettersi con [il concetto di] vita. Fissare Preformazione Preesistenza perché no Predeterminazione di un modo di crescere. Poiché un essere è determinato in modo tale da dover procreare, crescendo, i suoi simili tramite un ritorno in se stesso, esso non ha bisogno di preformazione o di preesistenza. 136 certo, la gallina è contenuta nell’uovo fecondato. Ma non la quercia nella ghianda, né la gallina che in futuro sarà di nuovo gravida nell’uovo. Preformazione è una parola che non dice nulla. Come potrebbe qualcosa essere formato prima di essere?

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Ritorno nel proprio io Principalmente progresso Ritorno nodi Progresso sesso

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Teoria della forma, della trasformazione e della comparazione (1788-1794)

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[La botanica come scienza]60

introduzione I dati conosciuti sono posti alla base. La botanica come scienza. Come conoscenza degli effetti naturali Procedere oltre in questo tentativo. Ordinamento del sistema di Linné61. Grande sforzo di tutti gli studiosi di botanica per fornire una descrizione e una conoscenza esatta delle piante. Un tentativo di ricondurre ad un unico concetto tutte le piante, forse mai più agevole e possibile, ma al contempo più dannoso di adesso. Vantaggi di un simile sforzo. Per la scienza. Per il sistema. Giustificazione di un profano62 Grande difficoltà di fissare in generale il tipo63 di un’intera classe, in modo tale che si adatti ad ogni genere e specie: la natura, infatti, è in grado di produrre i suoi generi e specie proprio in quanto il tipo che le è prescritto dall’eterna necessità è un Proteo tale da sottrarsi al più acuto senso comparativo, sicché può essere afferrato solo in parte e sempre in modi alquanto contraddittori. Concetto di generazione.

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Presa d’atto dei due sessi etc. in base al libricino64. Osservazione del frutto del seme vero e proprio. Quest’ultimo racchiude in sé l’intero sistema delle piante. Osservazione dei cotiledoni, in cui si mostra come il cotiledone sia solo una foglia vegetale piena di midollo e in grado, proprio al pari della radice, di assorbire l’umidità in tutte le sue parti fin dall’inizio. Del punto radicale, del punto del primo nodo, che coincide con quello in cui si stabiliscono i cotiledoni. Quaeritur se non si debba considerare il punto radicale come un altro autentico nodo, dal quale in seguito scaturiscono ulteriori sviluppi. Della crescita delle piante e della produzione dei successivi nodi, lateralmente e verso l’alto. Dimostrazione del fatto che di nodo in nodo si compie essenzialmente l’intero ciclo della pianta. I restanti mutamenti saranno chiamati mutamenti apparenti. In questa sede, tuttavia, ci si occuperà chiaramente della doppia vita della pianta, si mostrerà come essa gradualmente e di nodo in nodo generi un organismo simile, compiendo così ad ogni passo e ricominciando sempre di nuovo il suo ciclo; e si vedrà, d’altra parte, come essa compia il più ampio ciclo dal seme alla fioritura attraverso molteplici mutamenti e trasformazioni della sua unità, gradualmente generata, procreando quindi, per via di riproduzione e in una volta sola, una quantità di suoi simili. Continuando dunque a seguire la crescita o lo sviluppo di nodo in nodo, si presterà attenzione ai necessari compagni dei nodi sulle foglie. In questa sede, tuttavia, se ne tratterà solo in un senso, che è il più prossimo all’idea comune. Potrebbe essere il momento ora di indagare le opinioni relative alle varie cortecce, al legno e al midollo65, in particolare escludendo del tutto quest’ultimo dal novero delle parti della pianta, mostrando piuttosto come esso sia affatto inessenziale, poiché solo una sostanza midollare in determinate condizioni è in grado di riempire completamente certi tessuti di cellulosa. Sarà qui necessario accarezzare l’ipotesi dell’inscatolamento, poiché in realtà l’intelletto umano difficilmente è in grado di comprendere certi fenomeni in altro modo, sebbene anche questo inscatolamento resti incomprensibile. Si tratta di fornire un esempio in particolare del germoglio tubolare, e di ren-

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dere giustizia di nuovo in ogni modo all’epigenesi, allo scopo di mostrare come infine il concetto non possa che inserirsi tra le due ipotesi. In fondo, però, le due ipotesi non hanno alcun influsso sulla nostra esposizione, poiché noi consideriamo solo le parti per come le scorgiamo e per come si trovano volta a volta sviluppate o formate. Si esamineranno adesso, con diversi esempi, i mutamenti delle foglie e delle distanze tra i punti nodali. (Le escrescenze delle cipolle e dei bulbi in ragione del loro germoglio forte e del gambo del fiore, i cereali in ragione delle spighe e così via) Si adducono qui gli esempi delle piante più semplici, che rendono particolarmente chiari i passaggi. È possibile giungere con grande facilità fino al calice, e si può anche superare questa difficoltà66, poiché il passaggio dal calice ai petali e dai petali ai filamenti si riesce ad osservare a occhio nudo e a toccare con mano. In particolare, la suddivisione dei fiori e delle foglie risulta notevole nella malva, in cui si forma anche internamente uno stame, anche se incompleto; e ancor più notevoli sono i molti arbusti monadelfici maschili della malva folta, che non annullano la fecondazione dell’elemento femminile centrale. Per spiegare come si sviluppa la parte femminile è necessario percorrere una via del tutto nuova, ma molto ardua e rischiosa, tanto che si sarebbe indotti a disperare di riuscire a trasmetterne un concetto ben definito. A tale scopo non c’è altro mezzo che riprendere il concetto principale di foglia67: essendo ormai abituati a vederla in una molteplicità di forme, ne abbiamo quasi dimenticato il concetto comune e siamo pervenuti ad un concetto trascendentale, dunque non ci stupiremo di vederla in un’altra forma ancora. Il concetto mostra tuttavia ancora infinite difficoltà, e se non ci venissero in aiuto le felci non potremmo che disperare di riuscire a rendere verosimile la nostra ipotesi. Ciononostante sussisteranno pur sempre grandi difficoltà, poiché le felci stesse ci indurranno ancora in certo senso in errore, e in generale questa opinione comporta un regresso all’infinito, per cui sarebbe necessario un certo tempo per abituarsi ad essa: ciò che in essa vi è di più tangibile si può cogliere difficilmente con i sensi comuni, e dunque si dovranno presentare due ipotesi68 per così dire indipendentemente l’una dall’altra, anche se entrambe sono ugualmente

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difficili da comprendere, e sembrano vicendevolmente contrarie pur non annullandosi a vicenda. Se l’animo in primo luogo si abituerà a considerare in modo problematico queste due ipotesi, soppesandole l’una con l’altra, connettendole oppure elidendole reciprocamente, allora anche lo spirito si abituerà a comprenderle entrambe definitivamente; solo allora si potrà procedere più oltre di quanto io non sia adesso in grado di immaginare. 1. La prima ipotesi suggerisce che, dopo lo sviluppo dei filamenti del pistillo, abbia luogo un ulteriore sviluppo del germoglio vegetale, in modo tale che una serie di nodi, e in particolare le loro parti più interne e profonde, si stabiliscano e si dispongano in base alla stessa legge secondo cui si sono ordinati calice e corolla, che raccolgano con le estremità delle loro pellicole gli influssi degli stami, ponendosi così in condizione di ricevere ulteriore alimento. Anche se con qualche difficoltà tutto ciò si potrebbe dimostrare sperimentalmente, ma intendiamo adesso 2. esporre la seconda ipotesi, trattando della foglia nel suo significato più trascendentale: essa non nasconde in seno soltanto un germoglio, ma ne custodisce innumerevoli in tutte le sue parti, ed essi, a seconda delle proprietà della struttura, possono mostrarsi internamente in file o in sezioni, ed esternamente in cerchi o in ciuffi. A questo proposito le felci, e in particolare l’osmunda, ci offriranno un valido aiuto all’osservazione, e anche l’arum darà occasione a particolari considerazioni; tuttavia vagheremo sempre nel campo dell’incomprensibile e dell’inesprimibile, anche se sono convinto che in entrambe le ipotesi e tra di esse risieda l’intero mistero della generazione, che non è possibile indagare più da vicino per nessun’altra via.

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La teoria dei fiori, sia pieni che proliferi69, si può spiegare facilmente e in modo piacevole già prima della prima ipotesi, e in ogni modo grazie ad essa. Non ho timore di nulla se non della seconda ipotesi, che dovrebbe essere l’effettivo coronamento del lavoro, e che tuttavia potrebbe diventare facilmente una corona di spine. La difficoltà maggiore nell’esposizione di questo sistema risiede nel fatto che si è costretti a trattare come fisso e muto ciò che in natura si trova invece in costante movimento, e a ridurre ad una legge semplice, visibile e in certo senso afferrabile, ciò che in natura è in perpetuo mutamento e si nasconde alle nostre osservazioni, assumendo forme di volta in volta diverse. Se non fossimo in grado di convincerci per così dire a priori dell’esistenza necessaria di simili leggi, sarebbe temerario volerle cercare e scoprire; tuttavia ciò non deve distoglierci dal proseguire. Anche il senso più inesperto è in grado di distinguere una pianta da un altro oggetto naturale. Se è vero che anche chi è meno esperto sa riconoscere come fiori infinite forme tra loro diversissime e contraddittorie, a maggior ragione lo studioso non dovrà desistere dall’indagare in cosa realmente consista l’intima affinità tra tali organismi, lo stretto vincolo che li rende necessariamente simili tra loro fin nel dettaglio, pur in una molteplicità così vasta. Tale argomento è stato oggetto di moltissimi tentativi di spiegazione, e la scienza è stata condotta ad un grado di raffinatezza nell’ordinamento tale che forse attualmente risulta merito del tempo piuttosto che dell’osservatore qualunque acquisizione più profonda e cogente. [leggi della formazione delle piante]70 Poiché la nostra rappresentazione degli effetti naturali è destinata a rimanere sempre incompleta, occorre far ricorso ad una serie di mezzi per ampliarla, affinché riusciamo ad esprimerci almeno in una certa misura quando vediamo, osserviamo o scopriamo qualcosa. E il fatto che solitamente ciascuno di noi osserva le cose solo da una prospettiva, è la ragione per cui si sono sviluppate le più diverse ipotesi, più o meno adeguate ad esprimere i segreti della natura, e rimaste utilizzabili per periodi più o meno lunghi.

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Dal momento che la mia intenzione è di gettare una luce più chiara su alcune relazioni e su alcuni effetti naturali, non impiegherò una sola ipotesi, ma mi si concederà di servirmi di tutte le ipotesi come di diversi modi di rappresentazione, a seconda che ciò che io ritengo si lasci esprimere nel modo migliore dall’una o dall’altra di tali ipotesi. Questa può apparire una strada pericolosa, lungo la quale si potrà temere in parte di risultare poco chiari, in parte di attirarsi l’opposizione di ciascun partito. Malgrado ciò, vorrei far riflettere sul fatto che coloro che considerano un oggetto secondo diverse prospettive, spesso contrapposte, sono uomini onesti e amanti del vero, entrambe qualità che hanno a che fare con la conoscenza delle cose, che ciascuno crede di riuscire a conquistare dal canto suo nel modo migliore e più corretto. Ne concludo che entrambe le ipotesi che ho menzionato in precedenza costituiscono delle modalità di rappresentazione compatibili in linea di principio, malgrado sia più difficile, servendosi di entrambe come strumenti, conoscere la natura, governarne lo spirito e, scegliendo come punto di osservazione ora l’una ora l’altra, riconoscere il loro limite e la loro parzialità, ponendosi ora al posto dell’una ora a quello dell’altra. Di conseguenza, lo dico in anticipo, mi servirò della visione evoluzionista come di quella epigenetista, della teoria della procreazione libera o necessitata, come di mere parole e strumenti, a seconda che io ritenga di spiegarmi meglio tramite l’una o tramite l’altra. Ciascuna delle cose note che definiamo in senso lato viventi, possiede la facoltà71 di procreare un individuo suo simile. Allo stesso modo dunque si può dire che chiamiamo vivente ciò che ai nostri sensi mostra la facoltà di procreare un individuo suo simile. Quando scorgiamo tale facoltà divisa in due individui, denominiamo questi ultimi i due sessi. In quei corpi che chiamiamo piante notiamo la duplice facoltà di procreare un proprio simile a volte con, a volte senza un’azione visibile dei sessi. Ciò che denominiamo crescita delle piante è semplicemente una procreazione di individui simili72 senza l’azione dei sessi.

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Tale procreazione di individui simili non determina alcuna divisione, come avviene invece nel caso della generazione e della nascita. Si tratta tuttavia di un’analoga procreazione di un individuo simile.

Quando un seme ha messo la radice a e i suoi cotiledoni b hanno assolto la loro funzione, allora la pianta continua a svilupparsi, vale a dire si ripete e si riproduce ancora. Nel seme si compie l’intero sistema della pianta, che inizia sempre di nuovo dal principio. Dal nodo c si diparte un prolungamento che presto, spesso senza apprezzabile intervallo, si richiude di nuovo in un nodo, sia procedendo all’aria, verso l’alto, dopo d, sia penetrando sotto terra dopo e, oppure lungo la terra, e quindi ancora oltre dopo f e g e così via in infinitum, finché la pianta non supera la rivoluzione dell’intero anno. I nodi e e g producono a loro volta delle radici, e sviluppano dopo h ed i ulteriori prolungamenti. Se si divide lo spazio di un prolungamento sotterraneo, ad esempio eg, la radice g prosegue malgrado ciò e il nodo i prosegue in k. A sua volta poi il nodo g prosegue in l. Se dividiamo lo spazio tra g e i e interriamo i, quest’ultimo nodo produrrà radici; si svilupperanno prolungamenti sotto terra e il nodo k crescerà ancora in altezza. Non mi si obietterà certo che non tutte le piante possiedono questa proprietà. In questa sede consideriamo infatti le piante in quei loro prolungamenti e propagazioni per noi più potenti e noti attraverso esempi concreti. Nel seguito si mostrerà quanto siano numerosi i modi in cui esse possono essere modificate e delimitate. I nodi d, h, i, che abbiamo finora esaminato, si sono sviluppati verso l’alto dopo f, o e k; lungi dal restare immobili nelle direzioni laterali, si sono poi estesi oltre n, o, p, q, r ed s, e da lì hanno formato a loro

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volta dei nodi, in modo tale che ciascuno tende a procedere in infinitum dopo essersi mantenuto per diversi cicli annuali, diventando legnoso e resistente; l’ultimo prolungamento viene di nuovo sotterrato, in modo che produca dal suo nodo ancora radici per estendersi di nuovo in infinitum. È su tale prosecuzione, su tale procreazione di individui simili in infinitum senza alcun contributo visibile dei due sessi che si basa l’intero carattere delle piante. Non mi si obietti che la definizione di procreazione di un individuo simile si usa impropriamente in questo contesto, in quanto le parti sono pur sempre in certa misura dissimili. Devo augurarmi al presente che mi si vorrà seguire con attenzione, cosicché alla fine risulterà chiaro, guardando retrospettivamente la strada che avremo tracciato, se si trattava della via corretta. Ripeto ancora una volta che di nodo in nodo si compie essenzialmente l’intero ciclo della pianta 73: essa ha bisogno unicamente, come avviene nel seme, di un punto radicale o di un nodo radicale, di un nodo di cotiledoni e di un nodo ancora successivo, per essere di nuovo una pianta compiuta, in grado, secondo la sua natura, di continuare a vivere e a produrre. Andrò ancora oltre col dire che tutti gli altri mutamenti della pianta sono soltanto apparenti, e al fondo si spiegano tutti a partire da ciò che si è detto finora, dalla teoria del prolungamento dei nodi e della procreazione di individui simili senza alcun intervento visibile dei due sessi. Di più: i due sessi diventano per noi infine comprensibili proprio a partire da questa prima e semplicissima modalità riproduttiva. Ogni nodo ha una parte che lo accompagna sotto la terra, che stringe a sé e che ricopre come un involucro; in superficie invece tale parte si allontana in misura variabile dal nodo. Si tratta della foglia. Importanza di questo corpo che pende, pur essendo tuttavia intimamente connesso alla pianta. (A questo punto si deve chiarire uno dei temi più importanti: il concrescere delle foglie74 in base alla legge insita nella natura, in base cioè alla determinata quantità da cui si sviluppano i calici e le corolle. Inoltre, occorre illustrare la teoria della dilatazione e contrazione.) Nel progressivo mutamento delle parti della pianta agisce

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una forza che solo impropriamente mi permetto di chiamare ‘dilatazione’ e ‘contrazione’. Sarebbe meglio attribuirle una x o una y al modo dell’algebra, poiché le parole ‘dilatazione’ e ‘contrazione’ non esprimono la sua azione nella sua intera estensione. Infatti essa contrae e dilata, forma e trasforma, collega e divide, colora e scolora, amplia, allunga, ammorbidisce e indurisce, trasmette e sottrae, e solo quando saremo in grado di vedere in un unico sguardo tutte le sue diverse azioni potremo conoscere in modo più chiaro ciò che ho ritenuto di poter spiegare e analizzare usando tutte queste parole. Questa forza agisce in modo così graduale, lento e impercettibile che può mutare un corpo in un altro sotto i nostri occhi senza che noi ce ne accorgiamo. Senza di essa l’uomo può conoscere solo ciò che è separato, proprio in quanto è separato. Per conoscerlo deve separare ciò che non dovrebbe essere separato, e in questa sede non c’è altro mezzo che collegare di nuovo ciò che la natura ha separato e la nostra conoscenza ha presentato, rendendolo nuovamente un’unità. Tutto ciò ci riuscirà nel modo più semplice grazie ad una sequenza75 di azioni, vale a dire se baderemo al modo in cui una forma trascorre lentamente in un’altra, per essere infine completamente inglobata nella forma successiva. Questo processo è stato osservato già più volte e a lungo. Ciò che adesso importa è che trattiamo nel modo più generale, che spesso sfugge alla nostra considerazione, ciò che è facile osservare invece nel particolare. Prima legge Ogni nodo vegetale ha la facoltà di svilupparsi e prolungarsi per produrre un altro nodo vegetale. Seconda legge Una successione di simili nodi vegetali non può svilupparsi in sequenza per successive derivazioni senza mutare e modificarsi progressivamente.

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NB. Questa modificazione diventa più chiaramente visibile grazie alla foglia che accompagna ciascun nodo. Simili mutamenti e modificazioni delle foglie e del nodo stesso si basano sul fatto che il corpo, ad esempio la foglia, consiste di una molteplicità di vasi che, dopo essere stati determinati in altro modo e riempiti di altre linfe, producono forme del tutto diverse. Alle molte proposizioni che ho impiegato finora ne aggiungerò un’altra, vale a dire: L’estensione di una parte è causa dell’annullamento di un’altra parte. Alla base di questa legge sta la necessità a cui è vincolata ogni creatura, che non può eccedere la propria misura. Dunque non è possibile che una parte aumenti senza che un’altra diminuisca76, o che una parte divenga pienamente dominante senza che l’altra sia completamente annullata. Nelle piante tale principio si mostra nel modo più bello e al contempo più singolare. Poiché una pianta non costituisce un’unità sola, ma è una creatura composta di più unità, troviamo che le diverse unità, nella loro successione, mutano forma e funzione tramite modificazioni prevalenti delle loro parti. Tuttavia, come si è detto, ciò che provoca tutto questo non è semplicemente una dilatazione e contrazione, ma quella forza x. Terza legge Ciascuna pianta è per sua natura delimitata e determinata in modo tale che, quando i suoi nodi hanno percorso i diversi stadi di cui sono capaci, giungendo infine alla costituzione

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del calice, allora le diverse parti, che altrimenti si sarebbero sviluppate solo gradualmente, si sviluppano improvvisamente tutte insieme, connesse in una determinata forma, misura e quantità. Grazie a questa azione naturale ha origine il calice. Occorre una certa attenzione per riconoscerlo in modo chiaro, ma infine lo si potrà dimostrare irrefutabilmente. Si prenderanno qui in esame diversi fiori in cui il fenomeno è particolarmente evidente, allo scopo di mostrare tale processo con la massima verosimiglianza: si mostrerà dunque il calice di una rosa attraversata dallo stelo, in cui i cinque rametti dei petali appaiono chiaramente separati e sviluppati. Se osserviamo attentamente il modo in cui la natura produce il calice, notiamo che quest’ultimo è costituito spesso da foglie del tutto separate, e a noi risulterà più comprensibile pensare che le foglie che si sarebbero sviluppate l’una sull’altra, ciascuna sul suo nodo con i relativi interstizi, ora si sviluppano l’una accanto all’altra in cerchio e si collegano l’una all’altra. Questa rappresentazione diventa un po’ più difficile da immaginare nel caso in cui le foglie si uniscono alla base in modo tale che il calice diventa monophyllus e talvolta appare quasi dentato in alto. Siamo così condotti ad un’altra proprietà della natura, che del resto conosciamo già da altri suoi effetti. Est autem combinare separata et coniuncta separare. Nec mirabile nobis videbitur si intrinsecam coniunctionem harum partium antequam evolvantur spectamus. Tam vicina enim una pars alteri nascitur ut minus mirum sit easdem certis conditionibus coniungi quam aliis separari. Videtur autem mihi disiunctum illum nascendi modum ex abundantia aquae provenire quae per radicem in plantam introducta vasa illius quantum potest dilatat, ita ut diversa puncta vegetationis sive nodi cum plurimum inter se distent, folia quam plurimum extendantur atque in omnibus suis partibus explicentur. NB. Necesse hic annotare vel potius explicare modum succesivum, quo primum folia radici proxima latiora fiunt ac minus explicata, quomodo porro se explicant atque partes omnes ostendunt, sensim vero vel raptim cursus contrahuntur, ut vix structura eorum prior cognosci possit. Hanc secundam mutationem per spitirus subtiliores operari qui sensim per actionem aeris atque lucis in folia et caulem in plantarum suc-

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cum introducuntur extra dubitationem mihi positum videtur. Folia enim priora ex caule crassiori et aquosiori nutrimenta capiunt, inde caulis sensim tenuior evadit atque ut apparet fluido magis elaborato et magis spirituoso repletur, ita ut non modo folia subsequentia nutrimentum illud aquosum parce hauriant atque sic non ut inferius fiebat explicentur sed et in locum crassioris nutrimenti subtilius quoddam accipiant atque ita forma illorum plane immutetur. Ut hoc melius percipere possimus, supponendum est plura vasa diversae naturae in planta iuxta seposita esse, ita ut expleto uno alterum plane comprimatur atque ut ita dicam aboleatur. Questo è uno dei punti più difficili che, se non viene spiegato gradualmente, si espone a molte contraddizioni; tuttavia esso porta in sé la maggior parte delle conseguenze, e solo dopo averlo sciolto si sarà in grado di proseguire. È chiaro che la radice aspira per lo più sostanze umide e acquose, anche se queste ultime sono mescolate ad altre parti. Le parti della pianta più vicine alla radice sono estese in larghezza e in profondità, dunque ne consegue che i vasi che raccolgono prevalentemente sostanze umide si sviluppano propriamente in larghezza. Io presumo che le foglie aspirino l’umidità dallo stelo e, allo stesso modo in cui le radici assorbono dalla terra, così le foglie assorbono dai vasi intermedi. L’umidità poi viene modificata nelle foglie dalla luce e dall’aria: in parte evapora, e in parte forse torna indietro nello stelo, che diventa sempre più flessibile quanto più si allontana dalla terra. Sembra quasi che una certa quantità d’acqua, di olio, aria e luce debba essere introdotta nella pianta e filtrata di nodo in nodo, finché non si trova a dover compiere la funzione di riproduzione a cui tende inesorabilmente. Era necessario premettere qui tali concetti, comuni e per lo più concordemente accettati, prima di procedere con altre affermazioni, che non potranno essere accolte con altrettanta facilità. La linea principale delle nostre osservazioni sarà l’esame delle foglie di una stessa pianta, che si trasformano gradualmente dalla radice fino al calice. Non sarà difficile mostrare come, in seguito a diverse modificazioni, le foglie del cosiddetto stelo si riuniscano nel calice, come un certo numero di esse, riunite allo stesso modo, vada a formare la corolla, per produr-

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re infine i filamenti del pistillo. Molte piante mostrano questo processo nella loro condizione naturale, altre lo mostrano ancor meglio se tratte fuori dal cerchio della loro natura; inoltre si tratta di una verità molto nota, che non sfugge a nessuno studioso di botanica, e io vorrei solo aggiungere che, a quanto ne so, nessuno ha finora tratto tutte le conseguenze da questo fenomeno ben noto. Ora che siamo giunti, attraverso i vari gradi, a considerare lo sviluppo del pistillo, ci resta ancora da tentare di vedere se riusciamo a spiegare lo sviluppo delle parti femminili insieme a quello delle ovaie: potremmo così giungere al punto terminale del ciclo più ampio che una pianta possa percorrere. Se considero l’esempio di uno stelo, non si potrà negare che si tratta del caso in cui si trovano tante parti simili, che nascono le une dalle altre, si trovano le une sulle altre, nascono e si sviluppano o si generano le une dalle altre. Mi servirò qui delle parole ‘dilatazione’ e ‘contrazione’ solo in senso generale e per così dire provvisoriamente, benché io sappia e abbia già spiegato che tali termini non sono di per sé sufficienti. Vicino alla terra e in alcuni casi sotto terra le parti risultano più ammassate, più ampie, acquose e carnose. Sembra che i vasi che contengono l’acqua prendano forma nel senso della larghezza, mentre quei vasi che contengono gli olii e la sostanza volatile si estendono in lunghezza. Gli interstizi dei nodi diventano gradualmente sempre più lunghi e sottili. D’improvviso poi lo spazio intermedio si decide e diventa sproporzionatamente lungo, per poi contrarsi d’un tratto nella corolla. A ciò segue la dilatazione nei petali, quindi la contrazione nell’organo maschile, e infine la dilatazione in quello femminile.

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Chiarisco qui ancora una volta che sto presentando questo modo di considerare le piante solo in maniera condizionata, con la consapevolezza della sua incompletezza; tuttavia tale modo di considerare ci sarà di aiuto in ciò che segue. NB. Quanto maggiore è la contrazione, tanto più accentuata sarà la dilatazione: perciò le piante come le cipolle e i bulbi presentano gli interstizi più lunghi tra i due nodi (hanno lo stelo del fiore più lungo). NB. Non posso usare la parola ‘stelo’, poiché finirebbe per confondere tutti i concetti che intendo discutere.

NB. Esistono piante in cui queste semplici dilatazioni e contrazioni del calice e della corolla non sono sufficienti a mutare i vasi in filamenti del pistillo; si generano così delle corolle intermedie (a questo punto occorre illustrare la teoria dei nettari) che conferiscono al fiore un aspetto quasi pieno, come accade ad esempio nei narcisi e nell’Oleander nerium. Ma la pianta in cui appaiono più meravigliosi è senz’altro la passiflora, la cui forma singolare trae origine unicamente da questa triplice corolla, dalla quale seguono poi i filamenti del pistillo.

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Saggio di una spiegazione della metamorfosi delle piante77

Non quidem me fugit nebulis subinde hoc emersuris iter offundi, istae tamen dissipabuntur facile ubi plurimum uti licebit experimentorum luce, natura enim sibi semper est similis licet nobis saepe ob necessariarum defectum observationum a se dissentire videatur. Linnaei Prolepsis Plantarum. Diss. I.

Introduzione § 1. Chiunque osservi anche solo un poco la crescita delle piante, noterà facilmente che determinate loro parti esterne a volte mutano assumendo la forma delle parti loro adiacenti, ora completamente, ora trascorrendo con una certa approssimazione. § 2. Così, ad esempio, il fiore semplice si trasforma per lo più in un fiore doppio quando, anziché stami e antere, si sviluppano i petali i quali possono essere perfettamente simili alle altre foglie della corolla per forma e colore oppure portare in sé segni ancora visibili della loro origine. § 3. Se ora osserviamo che in tal modo è possibile per la pianta compiere un passo indietro invertendo l’ordine della sua crescita, tanto più ci accorgeremo della regolarità della via percorsa dalla natura, e impareremo a conoscere le leggi della trasformazione in base alle quali la natura genera una parte

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dall’altra, e presenta le forme più diverse grazie alla modificazione di un unico organo. § 4. La segreta affinità tra le diverse parti esterne della pianta, vale a dire le foglie, il calice, la corolla e gli stami, che si sviluppano le une dopo le altre e quasi le une dalle altre, è stata da tempo riconosciuta in generale dai ricercatori, ed elaborata anche in particolare; l’azione grazie alla quale un solo e medesimo organo ci appare sotto diverse modificazioni è stata definita metamorfosi delle piante. § 5. Questa metamorfosi ci appare in tre modi: regolare, irregolare e casuale. § 6. La metamorfosi regolare si può definire anche progressiva, poiché si può osservare la sua azione sempre graduale, che procede dalle foglie del seme fino alla formazione definitiva del frutto; attraverso la trasformazione di una forma nell’altra, essa conduce, come lungo una scala ideale, fino al vertice della natura: la riproduzione mediante i due sessi. Quest’ultima è ciò che ho indagato attentamente per molti anni, ed è per spiegarla che ho intrapreso il presente saggio. Anche per questo motivo, nella dimostrazione seguente considereremo la pianta esclusivamente nel suo ciclo annuale, nel suo procedere incessante dal seme al frutto. § 7. La metamorfosi irregolare potrebbe essere definita anche regressiva: come, infatti, nel caso precedente la natura procedeva in avanti verso uno scopo più alto, in questo caso essa retrocede di uno o più gradini. Allo stesso modo in cui prima era un impulso irresistibile e un potente impegno che la spingevano a costituire i fiori e a preparare le opere dell’amore, così ora la natura si presenta per così dire infiacchita, e lascia la sua

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creatura incompiuta, in uno stadio indeciso, debole, spesso gradevole al nostro occhio anche se intimamente impotente e inefficace. Tramite le esperienze che abbiamo occasione di fare riguardo a questo tipo di metamorfosi, saremo in grado di svelare ciò che la metamorfosi regolare ci nasconde, e potremo vedere chiaramente ciò che in quel caso dovevamo dedurre; in questo modo si può sperare di raggiungere il nostro scopo nel modo più certo. § 8. Non rivolgeremo invece la nostra attenzione al terzo tipo di metamorfosi, che avviene casualmente, dall’esterno, e in particolare per l’azione degli insetti: essa infatti potrebbe distoglierci dalla via semplice che dobbiamo seguire, spostando il nostro scopo. È probabile però che in altra sede si trovi occasione di trattare di queste escrescenze mostruose, anche se delimitate entro precisi confini. § 9. Ho osato elaborare il presente saggio senza far ricorso a incisioni chiarificatrici78, che tuttavia potranno apparire necessarie in alcuni casi. Mi riservo di presentarne alcune in seguito, e ciò può essere tanto più agevole, in quanto c’è ancora sufficiente materiale per illustrare il presente piccolo saggio, ora soltanto provvisorio, che dovrà essere ulteriormente sviluppato. Allora non sarà necessario tenere un passo misurato come in questa sede, e potrò mostrare alcuni casi affini, in modo tale da collocare al loro giusto posto diversi brani tratti da scrittori che concordano con le mie opinioni. In particolare, non mancherò di far uso di tutte le memorie di maestri contemporanei di cui questa nobile scienza può vantarsi. Ad essi dunque affido e dedico le presenti pagine. I. Dei cotiledoni § 10. Essendoci proposti di osservare la sequenza di gradi in cui si articola la crescita delle piante, dirigeremo la nostra attenzio-

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ne dapprima al momento in cui la pianta si sviluppa dal seme. In questo stadio siamo in grado di riconoscere facilmente e con precisione le parti che le appartengono immediatamente. Gli involucri79 del seme restano in misura maggiore o minore nel terreno, e al momento non ce ne occuperemo, mentre in molti casi, quando la radice si è ben fissata al suolo, la pianta porta alla luce i primi organi della sua crescita superiore, già presenti, ma celati ancora sotto il tegumento del seme. § 11. Questi primi organi sono noti con il nome di cotiledoni; sono stati chiamati anche membrane seminali, nuclei, lobi seminali, foglie seminali, nel tentativo di definire le varie forme in cui ci si presentano. § 12. Essi appaiono spesso informi, e riempiti di materia grezza, estesi in uguale misura in spessore e in larghezza; i loro vasi sono irriconoscibili, e quasi indistinguibili dalla massa dell’insieme; non hanno quasi nulla di simile ad una foglia, e potremmo essere indotti a ritenerli degli organi particolari. § 13. In molte piante, tuttavia, essi si approssimano alla forma delle foglie, diventano più piatti e assumono in alto grado il colore verde se esposti alla luce e all’aria, mentre i vasi in essi contenuti diventano più riconoscibili e più simili alle nervature delle foglie. § 14. Infine ci appaiono come vere e proprie foglie, i loro vasi sono capaci di svilupparsi nelle forme più sottili, e la loro somiglianza con le successive foglie non ci permette di considerarli organi particolari, sicché li riconosciamo piuttosto come le prime foglie dello stelo.

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§ 15. Ora, poiché non si può pensare una foglia senza nodi, né un nodo senza una gemma, dobbiamo concludere che il punto a cui sono attaccati i cotiledoni coincide con l’autentico primo nodo della pianta. Questo sarà confermato da quelle piante che producono piccole gemme immediatamente sotto le ali dei cotiledoni, e sviluppano poi da questi primi nodi dei rami completi, come ad esempio avviene solitamente nella vicia faba. § 16. I cotiledoni sono per lo più doppi, e a questo proposito dobbiamo fare una considerazione che ci apparirà ancor più importante in seguito. Infatti, le foglie di questo primo nodo sono spesso appaiate, mentre le foglie successive dello stelo si trovano alternate: si mostra dunque qui un avvicinamento e un collegamento delle parti che in seguito la natura separa e allontana le une dalle altre. Ancor più notevole è il caso in cui i cotiledoni appaiono raccolti intorno a un asse come un insieme di foglie, e lo stelo che si sviluppa gradualmente dal loro centro produce le foglie successive una ad una attorno a sé. Un simile caso si può osservare con grande precisione nella vegetazione delle specie del genere pinus80, in cui una corona di aghi costituisce una sorta di calice. Nel seguito dovremo ricordarci ancora di questo caso, in riferimento a fenomeni simili. § 17. Tralasciamo al momento i cotiledoni isolati e del tutto informi81 di quelle piante che germogliano da un’unica foglia. § 18. Di contro notiamo che perfino i cotiledoni più simili a foglie, in confronto con le successive foglie dello stelo, sono sempre indifferenziati. In particolare il loro margine è quanto mai semplice, e non mostra quasi tracce di incisioni, allo stesso modo in cui sulla loro superficie non sono quasi visibili peli o altri vasi delle foglie formate.

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II. Formazione delle foglie caulinarie di nodo in nodo § 19. Possiamo ora osservare da vicino la costituzione successiva delle foglie, poiché le azioni progressive della natura accadono tutte davanti ai nostri occhi. Alcune o parecchie delle foglie successive sono spesso già presenti nel seme, e si trovano racchiuse tra i cotiledoni; nello stadio in cui si presentano ripiegate, sono note con il nome di piumette82. La loro forma si comporta, al contrario di quella dei cotiledoni e delle foglie successive, in modo diverso nelle varie piante, e tuttavia esse differiscono per lo più dai cotiledoni già per il fatto che hanno una struttura piatta, delicata e in generale simile a quella delle foglie vere e proprie; si colorano interamente di verde, poggiano su un nodo visibile e non rinnegano la loro parentela con le successive foglie caulinarie; tuttavia sono ancora generalmente inferiori ad esse, poiché la loro periferia, il loro margine, non è compiutamente sviluppato. § 20. Tuttavia, l’ulteriore sviluppo si estende incessantemente di nodo in nodo lungo la foglia: la nervatura mediana si allunga, e le nervature laterali che nascono da essa si stendono verso i bordi in misura maggiore o minore. Questi diversi rapporti reciproci tra le nervature sono le principali cause della varietà di forme che mostrano le foglie. Esse appaiono ormai frastagliate, profondamente incise, composte di più foglioline; in quest’ultimo caso ci si presentano come dei piccoli rami compiuti. Un esempio notevole di una simile successiva ed estrema moltiplicazione della forma fogliare più semplice lo fornisce la palma da datteri83: in una sequenza di numerose foglioline la nervatura mediana si protende in avanti, la semplice foglia a ventaglio si lacera, si divide e si sviluppa una foglia altamente composita, in grado di competere con un ramo. § 21. Nella stessa misura in cui la foglia stessa aumenta la propria diversificazione, si forma anche il picciòlo fogliare, sia che resti immediatamente connesso alla sua foglia, sia che vada a costi-

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tuire un particolare peduncolo, che in seguito diventa facile da staccare. § 22. Il fatto che questo picciòlo autonomo possieda a sua volta una propensione a trasformarsi e ad assumere la forma di una foglia, possiamo osservarlo in diversi vegetali, ad esempio negli agrumi84, e la sua organizzazione ci indurrà nel seguito a sviluppare alcune considerazioni che al momento tralasciamo. § 23. Allo stesso modo, non entriamo per ora nel merito di un’osservazione ravvicinata delle stipole; osserviamo soltanto, di passaggio, che esse, in particolare quando costituiscono una parte del picciòlo, subiscono nel futuro sviluppo di quest’ultimo una trasformazione altrettanto singolare. § 24. Ora, così come le foglie devono il loro primo nutrimento principalmente alle parti acquose, più o meno modificate, che traggono dal fusto, esse devono all’aria e alla luce il loro ulteriore sviluppo e raffinamento. E mentre troviamo che quei cotiledoni generati nel chiuso involucro del seme, pieni soltanto di una linfa grezza, non sono quasi per nulla organizzati o lo sono solo in modo approssimativo, notiamo che le foglie delle piante che crescono sott’acqua si mostrano meno organizzate rispetto ad altre, esposte all’aria aperta; addirittura, la stessa specie di piante sviluppa delle foglie più lisce e meno raffinate quando cresce in luoghi bassi e umidi, mentre produce foglie ruvide, provviste di peli e più finemente elaborate se posta in zone più elevate. § 25. Allo stesso modo, l’anastomosi85 dei vasi che nascono dalle nervature, che si cercano gli uni gli altri con le loro estremità e costituiscono l’epidermide foliare, se non può dirsi unicamente causata, è almeno favorita dalle zone in cui l’aria è

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più fine. Noi tendiamo del resto ad ascrivere alla mancanza di una compiuta anastomosi il fatto che le foglie di molte piante che crescono sott’acqua siano filiformi, o assumano una forma reticolare. È ciò che ci insegna in modo molto perspicuo la crescita del Ranunculus aquaticus, le cui foglie nate sott’acqua consistono di nervature filiformi, mentre quelle cresciute al di sopra dell’acqua si sviluppano in modo pienamente anastomosato, preparando una superficie compatta. E di fatto è possibile osservare con precisione tale passaggio anche nelle foglie per metà anastomosate e per metà filiformi di questa pianta. §26. Grazie ad esperimenti si è appreso che le foglie assorbono diversi gas86 e li combinano con l’umidità contenuta al loro interno; non c’è dubbio, poi, che esse riportino di nuovo al fusto queste linfe più sottili, favorendo così massimamente la formazione delle gemme vicine. Esaminando i gas prodotti dalle foglie di varie piante, nonché dalle cavità dei giunchi, si è potuto constatare tutto ciò in modo pienamente convincente. § 27. In molte piante notiamo che un nodo nasce dall’altro. Questo è evidente nei fusti che sono chiusi di nodo in nodo, come quelli dei cereali, delle graminacee e dei giunchi, ma non lo è altrettanto in altre piante, che appaiono del tutto cave al centro, oppure piene di midollo o, piuttosto, di tessuto cellulare. Ora, però, è stato contestatoA, con buone ragioni come a noi pare, il ruolo finora attribuito a questo midollo87 rispetto alle altre parti interne della pianta e, negando che avesse un influsso sulla crescita della pianta, non si è esitato ad ascrivere ogni facoltà vitale e produttiva al lato interno della seconda corteccia, il cosiddetto libro88. Dunque attualmente sarà facile convincersi che un nodo superiore, nascendo dal precedente e ricevendo da quest’ultimo i succhi, non possa che riceverne di più puri e filtrati, godendo dell’azione esercitata nel frattempo

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Hedwig, nel terzo fascicolo del Leipziger Magazin.

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dalle foglie, e formandosi in modo più sottile, trasmettendo alle sue foglie e gemme dei succhi più fini. § 28. La pianta raggiunge così il punto prescritto dalla natura, mentre i liquidi meno elaborati vengono respinti e ne affluiscono di più puri, e mentre la pianta stessa si sviluppa gradualmente in forme sempre più raffinate. Infine osserviamo le foglie nella loro massima espansione e diversificazione, e notiamo immediatamente un altro fenomeno che si rivela istruttivo: la fase finora osservata è trascorsa e se ne avvicina un’altra, quella della fioritura. III. Passaggio alla fioritura § 29. Si osserva come il passaggio alla fioritura possa avvenire più rapidamente o più lentamente. In quest’ultimo caso notiamo solitamente che le foglie caulinarie iniziano a raccogliersi di nuovo dalla periferia al centro, e in particolare perdono le loro varie suddivisioni esterne, per estendersi invece in misura maggiore o minore nelle loro parti inferiori, attaccate allo stelo. Allo stesso tempo osserviamo che, dove gli spazi dello stelo non si allungano di nodo in nodo in modo apprezzabile, esso diviene più sottile ed esile, in confronto allo stadio precedente. § 30. È stato notato che un nutrimento frequente ostacola la fioritura della pianta, mentre un nutrimento misurato, se non addirittura scarso, la accelera. Ciò mostra in modo ancor più evidente l’azione delle foglie caulinarie, di cui si è parlato in precedenza. Finché vi sono ancora succhi grezzi da depurare, si devono costituire gli organi della pianta in grado di fungere da strumenti per soddisfare questo bisogno. Se una quantità eccessiva di nutrimento invade la pianta, quell’operazione deve essere di nuovo ripetuta, e la fioritura diventa quasi impossibile. Se invece si sottrae alla pianta il nutrimento, si alleggerisce e si abbrevia quell’azione della natura; gli organi dei

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nodi si raffinano, l’azione dei succhi depurati diventa più pura e forte, e si rende possibile la trasformazione delle parti, che avviene senza sosta. IV. Formazione del calice § 31. Spesso osserviamo come questa trasformazione si verifichi rapidamente, e in questo caso lo stelo, dal nodo dell’ultima foglia formata in avanti, allungato e assottigliato allo stesso tempo, si protende verso l’alto, e raccoglie alla sua estremità diverse foglie attorno a un asse. § 32. Ci sembra sia possibile dimostrare nel modo più chiaro che le foglie del calice coincidono con quegli stessi organi che finora potevano essere osservati in forma di foglie caulinarie, e che adesso si trovano invece raccolti intorno ad un unico punto centrale comune, anche se spesso in forme molto diverse. § 33. Abbiamo già notato in precedenza, nel caso dei cotiledoni, un’analoga azione naturale, e abbiamo osservato come parecchie foglie, e anzi anche parecchi nodi, si trovassero raccolti intorno ad un punto e vicini gli uni agli altri. I pini mostrano, quando si sviluppano dal seme, una corona raggiata costituita di aghi ben riconoscibili e già ben formati, al contrario di quanto avviene solitamente in altri cotiledoni. Nella prima infanzia di queste piante osserviamo dunque come sia in certo modo già accennata quella forza naturale destinata a determinare lo stadio della fioritura e della fruttificazione, quando tali piante diventano adulte. § 34. Inoltre notiamo in molti fiori la presenza di foglie caulinarie immutate e riunite proprio sotto la corolla, a formare una sorta di calice. Poiché esse mostrano ancora pienamente la

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loro forma, dobbiamo qui attenerci unicamente all’evidenza e alla terminologia botanica, che le ha definite foglie fiorali, folia floralia 89. § 35. Con maggiore attenzione dobbiamo ora analizzare il caso già menzionato in precedenza, in cui il passaggio alla fioritura avviene lentamente, le foglie caulinarie si raccolgono progressivamente, si trasformano, e si introducono piano piano nel calice90: è ciò che si può osservare facilmente nel caso del calice delle composite, in particolare nel girasole e nella calendula. § 36. Notiamo che questa forza naturale, che riunisce numerose foglie intorno a un asse, determina una connessione ancor più intima e rende addirittura più irriconoscibili tali foglie, modificate e radunate, in quanto le collega le une sotto le altre, talvolta interamente, più spesso parzialmente, e le presenta concresciute ai bordi. Le foglie così raggruppate e pigiate le une sulle altre si toccano nel loro stadio più delicato, si anastomosano grazie all’azione dei succhi altamente puri ormai presenti nella pianta, e vanno a costituire i calici campanulati, cosiddetti gamosepali, che, incisi o divisi in misura maggiore o minore dall’alto verso il centro, ci mostrano chiaramente la loro origine composita. Possiamo convincerci di questo grazie all’evidenza, se confrontiamo i calici profondamente incisi con quelli formati da più foglie, e in particolare se esaminiamo attentamente i calici di alcuni fiori raggiati. Così vedremo, ad esempio, che un calice di calendula, presentato nella descrizione sistematica come semplice o pluricomposto, è costituito da numerose foglie concresciute le une sulle altre, verso le quali, come si è detto in precedenza, sembrano scivolare, per così dire, i cotiledoni riuniti. § 37. In molte piante il numero e la forma dei sepali che si dispongono intorno all’asse del peduncolo, singoli oppure concresciuti, sono costanti, al pari delle altre parti successive. Su

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tale costanza si basa in gran parte il progresso, la sicurezza, l’onore della scienza botanica, che negli ultimi tempi abbiamo visto accrescersi sempre più. In altre piante il numero e la costituzione di quelle parti non sono così costanti, e tuttavia una simile variabilità non è riuscita ad ingannare l’acuto senso di osservazione dei maestri di questa scienza, che hanno cercato di comprendere per così dire entro un cerchio più stretto e attraverso precise determinazioni anche queste deviazioni della natura. § 38. È in questo modo dunque che la natura forma il calice: collegando insieme attorno ad un punto centrale, di solito con un ben determinato numero e ordine, più foglie e in seguito più nodi, che altrimenti si sarebbero sviluppati gli uni dopo gli altri e a una certa distanza tra loro. Se la fioritura fosse stata ostacolata dall’ingresso di una quantità eccessiva di nutrimento, le foglie si sarebbero allora separate, presentandosi nella loro prima forma. Dunque la natura non forma, nel calice, un nuovo organo, bensì collega e modifica soltanto gli organi che ci sono già noti, approssimandosi così di un grado alla mèta. V. Formazione della corolla § 39. Abbiamo visto come il calice si produca grazie ai succhi raffinati che si generano progressivamente nella pianta; esso dunque è destinato a sua volta a fungere da organo di un ulteriore futuro raffinamento. Questo ci apparirà certo comprensibile se spiegheremo la sua azione anche in modo puramente meccanico. Infatti, ad un filtraggio altamente delicato e raffinato devono essere destinati vasi che, come abbiamo visto in precedenza, siano in massimo grado accostati gli uni agli altri e strettamente riuniti. § 40. Possiamo notare in più di un caso il passaggio dal calice alla corolla; infatti, sebbene il colore del calice resti ancora

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solitamente verde, simile a quello delle foglie caulinarie, esso cambia spesso in una o nell’altra delle sue parti, all’apice, ai bordi, al dorso, o anche nel lato rivolto verso l’interno, mentre il lato esterno rimane ancora verde. Osserviamo anche che a questa colorazione è connesso sempre un raffinamento. In tal modo nascono dei calici ambigui, che possono essere ritenuti con uguale diritto delle corolle. § 41. Abbiamo già notato che, a partire dai cotiledoni, si verifica una grande espansione e diversificazione delle foglie, in particolare della loro periferia, mentre da lì verso il calice ha luogo una contrazione dei margini; ora osserviamo che la corolla è prodotta a sua volta da una dilatazione. I petali sono generalmente più grandi dei sepali, e si può notare che, se nel calice gli organi si contraggono, ora come petali si dilatano nuovamente, grazie all’influsso di succhi più puri, filtrati ancora una volta dal calice e raffinati in altissimo grado, e prefigurano così nuovi organi, del tutto diversi. La loro fine organizzazione, il loro colore e odore ci renderebbero del tutto irriconoscibile la loro origine, se non fossimo in grado di indagare la natura in numerosi casi eccezionali. § 42. Così, ad esempio, all’interno del calice del garofano91 si trova a volte un secondo calice, in parte perfettamente verde, che mostra l’aspetto di un calice monosepalo frastagliato; in parte lacerato, esso è trasformato, alle estremità e ai margini, in delicati accenni di autentici petali, dilatati e colorati, e in base a questo possiamo riconoscere di nuovo chiaramente l’affinità tra la corolla e il calice. § 43. L’affinità tra la corolla e le foglie caulinarie si mostra in più di una specie: infatti, in numerose piante le foglie caulinarie appaiono già più o meno colorate, molto prima che si avvicini il momento della fioritura; altre si colorano invece completamente in prossimità della fioritura.

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§ 44. Talvolta poi la natura giunge immediatamente alla corolla, saltando per così dire l’organo del calice, e abbiamo anche in questo caso l’opportunità di osservare come le foglie caulinarie si mutino in petali. Così ad esempio talvolta sul fusto del tulipano si presenta un petalo, quasi completamente colorato e formato92. Tale caso è ancora più notevole quando una simile foglia, per metà verde, rimane aderente al fusto con una delle sue metà, appartenente a quest’ultimo, mentre l’altra sua parte colorata è innalzata con la corolla, finché la foglia si divide in due parti. § 45. È opinione molto verosimile che il colore e il profumo dei petali sia da ascrivere alla presenza in essi del seme maschile93. Probabilmente esso vi si trova ancora non sufficientemente isolato, ma piuttosto diluito e mescolato con altri liquidi; inoltre, le belle apparenze dei colori ci inducono a pensare che la materia di cui sono ricolmi i petali sia giunta ad un alto grado di purezza, ma non ancora al massimo, in cui ci appare bianca e incolore. VI. Formazione degli stami § 46. Tutto ciò diventerà ancora più evidente se consideriamo la stretta affinità che esiste tra i petali e gli stami. Se l’affinità di tutte le altre parti tra loro fosse altrettanto evidente, generalmente osservata e posta fuor di dubbio, si potrebbe certo ritenere superflua la presente esposizione. § 47. La natura ci mostra come in alcuni casi questo passaggio avvenga in modo regolare: è il caso della canna94 e di varie piante della stessa famiglia. Un autentico petalo, poco mutato, si contrae al margine superiore, e appare un’antera, in cui il residuo fogliare prende il posto dello stame.

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§ 48. Nei fiori che appaiono più spesso doppi95 possiamo osservare questo passaggio in tutte le sue fasi. In diverse specie di rose, all’interno dei petali compiutamente formati e colorati, se ne trovano altri che sono contratti, in parte al centro e in parte verso i bordi; tale contrazione è causata da una piccola tumescenza che si può considerare più o meno alla stregua di una perfetta antera: nella stessa misura, il petalo si approssima alla forma più semplice di uno stame. In alcuni papaveri doppi, antere completamente formate poggiano sui petali quasi immutati della corolla doppia, mentre in altri i petali sono contratti in misura maggiore o minore da tumescenze simili alle antere. § 49. Ora, se tutti gli stami si trasformano in petali, i fiori diventano sterili; se invece in un fiore che si raddoppia si sviluppano ancora stami, allora avviene la fruttificazione. § 50. In tal modo dunque nasce uno stame, quando gli organi che finora abbiamo visto dilatarsi come petali giungono ad uno stato altamente contratto e allo stesso tempo altamente raffinato. Questo conferma ancora una volta l’osservazione presentata in precedenza, e ci induce a dedicare sempre maggiore attenzione all’alterna azione di contrazione e dilatazione attraverso la quale la natura perviene infine alla sua mèta. VII. Nettàri 96 § 51. Per quanto in alcune piante il passaggio dalla corolla agli stami sia molto rapido, dobbiamo tuttavia osservare che la natura non è sempre in grado di percorrere in un solo passo questa strada, e tende piuttosto a produrre degli organi intermedi, che per forma e funzione somigliano ora all’una ora all’altra delle parti restanti. Sebbene la loro costituzione sia estremamente varia, essi si possono riunire per lo più sotto un unico concetto: sono lente transizioni dai petali agli stami.

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§ 52. La maggior parte di quegli organi variamente costituiti che Linné definisce nettàri si possono dunque riunire sotto questo concetto; abbiamo così occasione, anche a tale riguardo, di ammirare il grande acume di quest’uomo straordinario il quale, pur non riuscendo a chiarire del tutto la funzione di queste parti, si è affidato all’intuizione e ha osato definire con un unico nome organi all’apparenza molto diversi. § 53. Vari petali ci mostrano la loro affinità con gli stami già per il fatto che, senza modificare in modo apprezzabile la loro forma, portano con sé delle cavità o ghiandole, che secernono un succo simile al miele. Possiamo in certa misura congetturare, in relazione alle nostre precedenti osservazioni, che si tratta di un umore fecondativo ancora non elaborato e non pienamente determinato, e questa congettura giungerà ad un alto grado di probabilità grazie alle ragioni che esporremo nel seguito. § 54. Anche i cosiddetti nettàri si presentano come parti autonome97, e la loro struttura somiglia ora a quella dei petali ora a quella degli stami. Cosi, ad esempio, i tredici filamenti, con le relative sferule rosse dei nettàri della parnassia, sono estremamente simili agli stami. Altri si presentano come filamenti staminali privi di antere, come nella vallisneria e nella fevillea; nel pentapetes li troviamo disposti in cerchio, in regolare alternanza con gli stami e già in forma di petali. Nelle descrizioni sistematiche sono designati con il nome di filamenta castrata petaliformia. Analoghe strutture oscillanti si possono osservare nella kiggellaria e nella passiflora. § 55. Allo stesso modo, ci sembra che le vere e proprie corolle interne meritino il nome di nettàri nel senso appena indicato. Infatti, se la formazione dei petali avviene per dilatazione, le corolle interne si formano al contrario per contrazione, proprio come gli stami. Vediamo così, all’interno di corolle compiutamente

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sviluppate, delle corolle interne più piccole e contratte, come nel narcisus, nel nerium e nell’agrostemma. § 56. In diverse specie osserviamo ancora altre modificazioni delle foglie, ancor più evidenti e rilevanti. In diversi fiori notiamo che i petali hanno una piccola cavità nella parte interna e inferiore, riempita di un succo simile al miele. Questa cavità, che si approfondisce ulteriormente in altre specie e generi di fiori, produce, sul dorso dei petali, un prolungamento a forma di sperone o di corno, modificando in tal modo in misura maggiore o minore anche la forma del resto del petalo. Possiamo osservarlo con precisione in diverse specie e varietà di aquilegia. § 57. Quest’organo si trova nel più alto grado di trasformazione, ad esempio nell’aconitum e nella nigella, in cui con un po’ di attenzione è possibile notare una somiglianza con una foglia; in particolare nella nigella esso crescendo torna facilmente allo stato fogliare, e il fiore si raddoppia grazie alla trasformazione dei nettàri. Nell’aconito si riconoscerà, ad un’osservazione attenta, la somiglianza dei nettàri con la foglia arcuata che li riveste. § 58. Abbiamo dunque detto che i nettàri costituiscono delle approssimazioni dei petali agli stami; ora possiamo, a tale riguardo, svolgere alcune considerazioni sui fiori irregolari. Quindi, ad esempio, le cinque foglie esterne del melianthus potrebbero essere presentate come veri e propri petali, e le cinque foglie interne come una corolla secondaria costituita da sei nettàri, la cui parte superiore si avvicina di più alla forma di una foglia, mentre quella inferiore, che sin d’ora si chiama nettàrio, se ne allontana nel modo più netto. Nel medesimo senso si potrebbe chiamare nettàrio la carena delle papilionacee, poiché essa, tra i petali di questo fiore, è quella che assume la forma più vicina agli stami, allontanandosi molto invece

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dalla forma fogliare del cosiddetto vessillo. In tal modo potremo spiegare facilmente le appendici a forma di pennello che si trovano fissate all’estremità della carena di alcune specie di polygala, e formarci un’idea chiara della funzione di tali parti. § 59. Sarebbe superfluo a questo punto ribadire che lo scopo delle nostre considerazioni non è sovvertire le divisioni e classificazioni frutto delle fatiche di osservatori e sistematori; piuttosto, con le nostre osservazioni, desideriamo soltanto rendere più facilmente comprensibili le formazioni vegetali anomale. VIII. Ancora sugli stami § 60. Grazie ad osservazioni al microscopio si può dire senza dubbio che gli organi sessuali delle piante sono prodotti da vasi a spirale98, al pari delle altre parti. Ne deduciamo un argomento in favore dell’intrinseca identità delle varie parti vegetali, che ci sono apparse finora in forme tanto diverse. § 61. Se dunque i vasi a spirale si trovano al centro del fascio dei vasi linfatici che li avvolgono, possiamo figurarci in modo un po’ più chiaro quella forte contrazione immaginando nella loro massima potenza i vasi a spirale, che ci appaiono come vere e proprie molle elastiche, e che sovrastano e subordinano la dilatazione dei vasi linfatici. § 62. Il fascio di vasi, così accorciato, non può più espandersi, i vasi non possono più cercarsi gli uni gli altri, né formare reticoli mediante l’anastomosi; i vasi otricolari, che solitamente riempiono gli interstizi del reticolo, non possono più svilupparsi. Vengono così a mancare tutte le cause della dilatazione

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delle foglie dello stelo, di quelle caulinarie e dei petali, e si genera un filamento debole ed estremamente semplice. § 63. Le sottili membrane dell’antera, tra le quali terminano i vasi più delicati, possono a mala pena continuare a formarsi. Se assumiamo che in questo caso proprio quei vasi che si allungavano, dilatavano e cercavano a vicenda si trovano ora in uno stadio estremamente contratto; se osserviamo come da essi sgorghi ormai il polline, compiutamente elaborato, in grado di sostituire con la sua azione ciò che è stato sottratto in estensione ai vasi che lo hanno prodotto; se inoltre notiamo che il polline, ormai libero, cerca le parti femminili, cresciute grazie ad un’identica azione naturale incontro agli stami, e si salda ad esse, trasmettendo loro i suoi influssi, allora non avremo remore a chiamare anastomosi spirituale l’unione dei due sessi. Crediamo così di aver avvicinato un po’ di più tra loro, almeno per un momento, i concetti di vegetazione e riproduzione. § 64. La materia sottile che si sviluppa nelle antere ci appare come una polvere; ma questi globuli di pulviscolo non sono altro che vasi in cui è conservato un succo finissimo. Concordiamo dunque con l’opinione di chi ritiene che questo succo sia assorbito dai pistilli, a cui aderiscono i globuli di polline, causando così la fruttificazione. Ciò risulta ancora più verosimile in quanto alcune piante non secernono polvere seminale, bensì un semplice umore. § 65. Richiamiamo a questo punto il succo simile a miele dei nettàri, e la sua probabile affinità con l’umore elaborato delle vesciche seminali. Forse i nettàri sono organi preparatori, forse il loro umore simile a miele è assorbito, determinato e compiutamente elaborato dagli stami; tale opinione risulta tanto più probabile in quanto, dopo la fruttificazione, non si nota più la presenza di questo succo.

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§ 66. Non tralasceremo qui di notare, per quanto solo cursoriamente, che sia i filamenti degli stami sia le antere si trovano uniti tra loro in vari modi, offrendoci gli esempi più stupefacenti dell’anastomosi, di cui abbiamo già più volte parlato, e dell’unione di organi vegetali che in origine si trovano nettamente disgiunti. IX. Formazione dello stilo § 67. Se finora ho cercato di chiarire, per quanto possibile, l’intrinseca identità dei vari organi vegetali che si sviluppano l’uno dopo l’altro, pur nelle notevolissime differenze della loro forma esteriore, si potrà facilmente immaginare che ora è mia intenzione spiegare con la stessa procedura anche la struttura degli organi femminili. § 68. Consideriamo anzitutto lo stilo separato dal frutto, come lo troviamo spesso anche in natura. Sarà tanto più facile in quanto esso si mostra in questa forma del tutto distinto dal frutto. § 69. Notiamo infatti che lo stilo si trova allo stesso grado di sviluppo che abbiamo riscontrato negli stami. Abbiamo già osservato che gli stami sono prodotti da una contrazione; gli stili rientrano spesso nello stesso caso, li vediamo solo un poco più lunghi o più corti rispetto agli stami, e non sempre della loro stessa misura. In molti casi lo stilo somiglia a un filamento staminale senza antera, e l’affinità della loro costituzione è esteriormente più grande rispetto a quella delle altre parti. Inoltre, poiché entrambi gli organi sono prodotti da vasi a spirale, possiamo notare tanto più chiaramente che la parte femminile non è un organo particolare, al pari di quella maschile, e se la stretta affinità tra le due diventa per noi sensibile grazie a questa considerazione, troviamo anche che quell’idea secondo cui

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l’accoppiamento può essere definito un’anastomosi risulta più adeguata e illuminante. § 70. Troviamo che spesso lo stilo99 è composto di molti singoli stili cresciuti insieme, e non si riesce quasi a riconoscere le sue componenti all’estremità, dove non restano sempre separate. Un simile concrescere, la cui azione abbiamo già sovente notato, si rende qui possibile al massimo grado; anzi, è necessario che ciò avvenga, poiché le parti sottili si trovano riunite insieme, prima di giungere a completo sviluppo, nel centro dell’infiorazione, e possono così connettersi intimamente le une con le altre. § 71. In diversi casi regolari la natura ci mostra, con maggiore o minore evidenza, la stretta affinità con le parti che precedono l’infiorazione. Così, ad esempio, il pistillo dell’iris con il suo stigma ci appare nella forma compiuta di un petalo. Lo stigma a forma di ombrello della sarracenia non si mostra, è vero, con altrettanta evidenza composto di più foglie, e mantiene addirittura il colore verde. Se ci aiutiamo con il microscopio, poi, troviamo numerosi stigmi, ad esempio quelli del crocus e della zannichellia, costituiti come calici completi ad uno o più petali. § 72. Invertendo il processo, la natura ci mostra spesso il caso in cui trasforma gli stili e gli stigmi di nuovo in petali: il Ranunculus asiaticus, ad esempio, si raddoppia grazie alla trasformazione degli stigmi e dei pistilli del ricettacolo in veri e propri petali, mentre gli stami, disposti immediatamente dietro la corolla, spesso si trovano immutati. In seguito si presenteranno alcuni altri casi significativi. § 73. Ripetiamo qui quell’osservazione già accennata secondo cui stili e stami si trovano allo stesso stadio della crescita, e

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chiariscono ancora una volta la ragione dell’alternanza di contrazione e dilatazione. Dal seme fino al più alto sviluppo della foglia caulinaria abbiamo notato dapprima una dilatazione, quindi una contrazione, che determina la costituzione del calice, poi una dilatazione, che dà luogo ai petali, e infine ancora una contrazione, che produce gli organi sessuali. Noteremo ora come la massima dilatazione avvenga nel frutto, e la massima concentrazione nel seme. In questi sei passi la natura compie ininterrottamente l’opera eterna della riproduzione dei vegetali per mezzo dei due sessi. X. Dei frutti § 74. Dovremo ora osservare i frutti, e ci convinceremo presto che hanno la stessa origine e soggiacciono alle medesime leggi. Nella fattispecie parleremo qui di quei ricettacoli che la natura forma per racchiudervi i cosiddetti semi vestiti, o piuttosto per sviluppare dalla parte più interna di questi ricettacoli, tramite accoppiamento, una quantità più o meno grande di semi. Sarà facile mostrare come tali contenitori si spieghino a loro volta a partire dalla natura e dall’organizzazione delle parti che abbiamo finora considerato. § 75. La metamorfosi regressiva ci induce qui ancora una volta a prestare attenzione a questa legge naturale. Così, ad esempio, si può notare spesso nel garofano, un fiore tanto noto e apprezzato proprio per le sue irregolarità, che le capsule seminifere si mutano di nuovo in foglie simili a calici, e la lunghezza dei relativi stili diminuisce in misura corrispondente. Certo, si trovano anche garofani in cui il ricettacolo del frutto (la siliqua) si trasforma in un vero e proprio calice completo, mentre le sue frastagliature recano ancora, alla loro estremità, deboli tracce residue dello stilo e dello stigma; dall’interno di questo secondo calice si sviluppa poi, in luogo dei semi, una corolla più o meno completa.

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§ 76. Inoltre, la natura stessa ci ha rivelato, attraverso formazioni regolari e costanti e in modi molteplici, la fertilità che si trova nascosta nella foglia. Così la foglia del tiglio100, già mutata ma ancora pienamente riconoscibile, produce dalla sua nervatura centrale un peduncolo, sul quale si formano un fiore e un frutto completi. Nel ruscus101 poi è ancora più notevole il modo in cui i fiori e i frutti poggiano sulle foglie. § 77. Ancora più potente e in certo senso prodigiosa ci si presenta la fertilità immediata delle foglie caulinarie nelle felci, che sviluppano e spargono intorno, per un impulso interno e forse senza alcuna azione determinata dei due sessi, innumerevoli semi, o piuttosto germi, capaci di vegetazione; dunque in questo caso una foglia può competere, quanto a fertilità, con una pianta sviluppata, e con un albero grande e frondoso. § 78. Se teniamo presenti queste osservazioni, non mancheremo di riconoscere la forma fogliare102 nei ricettacoli seminiferi, malgrado la varietà della loro costituzione e la specificità della loro funzione e della loro relazione reciproca. Così ad esempio il follicolo verrebbe a coincidere con una semplice foglia ripiegata e modificata ai margini; le silique risulterebbero composte di più foglie cresciute le une sulle altre; i ricettacoli composti si spiegherebbero come una quantità di foglie riunite attorno a un punto centrale, disgiunte all’interno e aderenti ai margini. Possiamo persuaderci di questo con i nostri occhi, osservando il momento in cui simili capsule composte nascono le une dalle altre dopo essere giunte a maturazione: allora infatti ciascuna loro parte si presenta come un follicolo aperto o come una siliqua. Allo stesso modo, vediamo compiersi regolarmente un’azione analoga in varie specie di uno stesso genere: ad esempio, le capsule della Nigella orientalis103 sono raccolte attorno a un asse, in forma di follicoli per metà aderenti fra loro, mentre nella Nigella damascena esse appaiono cresciute come completamente aderenti tra loro.

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§ 79. La natura sembra però di solito celare ai nostri occhi questa somiglianza con le foglie, quando forma pericarpi seminiferi delicati e succosi, oppure saldi e legnosi; essa tuttavia non potrà sfuggire alla nostra attenta considerazione, se sapremo seguirla accuratamente in ogni passaggio. In questa sede sarà sufficiente aver indicato il concetto generale, nonché la concordanza della natura grazie ad alcuni esempi. La grande varietà dei ricettacoli seminiferi ci offrirà in futuro materia per ulteriori considerazioni. § 80. L’affinità tra le capsule seminali e le parti che le precedono si manifesta anche nello stigma, che in molti casi poggia immediatamente sulla capsula, inscindibilmente unito ad essa. Abbiamo già mostrato l’affinità tra lo stigma e la forma fogliare, e possiamo esibirla anche in questo caso: infatti, nei papaveri doppi si può osservare che gli stigmi delle capsule seminali si trasformano in petali colorati, delicati e in tutto simili a piccole foglie. § 81. L’ultima e massima espansione raggiunta dalla pianta nella sua crescita si mostra nel frutto, ed è spesso grandissima, e addirittura prodigiosa, sia per forza interna, sia per forma esteriore. Poiché essa avviene solitamente dopo la fruttificazione, sembra che il seme, ormai ben determinato, assorbendo i succhi per la sua crescita dall’intera pianta, li indirizzi verso la capsula seminale, e in tal modo nutre i suoi vasi, li espande, li riempie e li tende in massimo grado. Da quanto precede si può dedurre che in questo processo i gas più puri104 hanno un ruolo rilevante, e ciò è confermato dall’esperienza dei baccelli gonfi della colutea, che contengono aria pura. XI. Gli immediati involucri del seme § 82. Rispetto a quanto si è detto, troviamo che il seme presenti il massimo grado di contrazione ed elaborazione al suo inter-

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no. In diversi semi si può notare che essi trasformano le foglie nei loro primi involucri, vi si adattano in misura maggiore o minore, e se ne appropriano principalmente con la potenza della loro azione, mutandone completamente la forma. Avendo noi osservato in precedenza come molti semi si sviluppino a partire da un’unica foglia, non ci meraviglieremo di notare come un germe isolato di un seme si rivesta di un involucro fogliare. § 83. Le tracce di simili forme fogliari non completamente adattate al seme si vedono in molti semi alati, come ad esempio quelli dell’acero, dell’olmo, del frassino e della betulla. Un esempio notevole del modo in cui il germe progressivamente contrae involucri più ampi e vi si adatta, ci è offerto dai tre distinti cerchi dei semi, variamente strutturati, della calendula. Il cerchio più esterno mantiene ancora una forma affine a quella delle foglie caulinarie, salvo che la disposizione del seme dilata la nervatura e piega la foglia, mentre internamente questa curvatura viene divisa in due parti nel senso della lunghezza da una pellicola. Il cerchio successivo si trasforma già in misura maggiore, al punto che si perde interamente lo spessore della fogliolina e della pellicola, mentre la sua forma si mostra un po’ allungata; l’ovulo che si trova nella parte posteriore si mostra più distintamente e i piccoli rigonfiamenti sulla sua superficie sono più pronunciati. Entrambe queste serie di semi non sembrano affatto fecondate, o lo sembrano solo in modo incompleto. Segue poi la terza serie di semi, nella sua forma autentica, fortemente incurvata, provvista di un involucro pienamente adattato, e completamente formato in tutte le sue scanalature e in tutti i suoi rigonfiamenti. Vediamo qui ancora una volta una potente contrazione di parti più estese e più simili a foglie, che avviene proprio in virtù della forza interna del seme, allo stesso modo in cui in precedenza abbiamo visto una contrazione dei petali operata dalla forza delle antere.

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XII. Sguardo retrospettivo e transizione § 84. Abbiamo dunque seguito con la massima accuratezza possibile la natura sui suoi passi: abbiamo accompagnato lo sviluppo della forma esteriore della pianta in tutte le sue trasformazioni, dalla sua nascita a partire dal seme fino alla nuova produzione del seme stesso. Senza pretendere di voler scoprire i motivi primi delle azioni naturali, abbiamo rivolto la nostra attenzione alle manifestazioni delle forze tramite cui la pianta trasforma gradualmente uno stesso organo. Per non lasciare il filo così afferrato, abbiamo esaminato in generale la pianta solo nel suo ciclo annuale, osservando la trasformazione delle foglie che accompagnano i nodi e deducendo da esse tutte le altre forme. A questo punto, per dare la necessaria completezza a questo nostro saggio, occorre parlare delle gemme che, trovandosi nascoste sotto ogni foglia, si sviluppano in determinate circostanze, mentre sembrano scomparire completamente in altre. XIII. Delle gemme e del loro sviluppo § 85. Ciascun nodo possiede per natura la capacità di produrre una o più gemme; nella fattispecie, ciò avviene in prossimità delle foglie che lo rivestono105, che sembrano preparare e contribuire a determinare la formazione e la crescita delle gemme. § 86. Sullo sviluppo successivo di un nodo dall’altro, sulla formazione di una foglia da ciascun nodo e di una gemma nelle sue vicinanze, si basa la prima riproduzione dei vegetali, semplice, lenta e progressiva. § 87. È noto che una simile gemma possiede una grande somiglianza, nei suoi effetti, con il seme maturo, e che spesso l’intera forma della pianta futura si può riconoscere meglio nella gemma che nel seme.

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§ 88. Anche se nella gemma non è facile notare il punto radicale, esso è tuttavia presente in essa come nel seme, e si sviluppa facilmente e rapidamente in particolare grazie all’influsso dell’umidità. § 89. La gemma non ha bisogno di cotiledoni, poiché è connessa con la pianta madre, già completamente organizzata, e riceve il nutrimento sufficiente da essa finché sussiste tale unione; dopo la separazione, lo riceve dalla nuova pianta su cui è innestata, oppure ancora si procura l’alimento tramite le radici che si formano quando si pianta un ramo nel terreno. § 90. La gemma è costituita di nodi e foglie, più o meno sviluppati, destinati a propagare ulteriormente la vegetazione futura. I rami laterali che nascono dai nodi della pianta, dunque, possono essere considerati come altrettante pianticelle, fissate al corpo della pianta madre così come quest’ultima è fissata al terreno. § 91. Un loro confronto e una classificazione delle loro differenze sono già stati spesso esposti, e in particolare di recente con tanta acutezza e precisione che in questa sede ci richiameremo semplicemente a tali contributi106 con un’approvazione incondizionataB. § 92. A tale riguardo citeremo solo ciò che segue. Nelle piante formate, la natura distingue nettamente gemme e semi. Se però ci volgiamo alle piante non compiutamente formate, sembra che quella differenza si perda, anche agli occhi del più

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Gaertner de fructibus et seminibus plantarum. Cap. I.

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attento osservatore. Esistono semi che sono indubitabilmente tali e gemme che sono indubitabilmente tali; e tuttavia il punto in cui i semi, fecondati e isolati dalla pianta madre tramite l’azione dei due sessi, si incontrano realmente con le gemme, che invece spuntano semplicemente dalla pianta e se ne distaccano senza alcuna causa apparente, non si può riconoscere mediante i sensi, ma è necessario dedurlo con l’intelletto. § 93. Dopo aver ben considerato tutto ciò, possiamo concludere che i semi, che si distinguono dai boccioli in virtù del loro stato racchiuso, e che si differenziano dalle gemme per la causa visibile della loro formazione e separazione, sono tuttavia strettamente affini a entrambi. XIV. Formazione dei fiori e dei frutti composti § 94. Abbiamo cercato finora di spiegare la produzione dei fiori semplici, così come dei semi racchiusi in capsule, mediante la trasformazione delle foglie caulinarie. Ad un’indagine più accurata si troverà che in questo caso non si sviluppano gemme, e anzi si elimina totalmente anche la possibilità di un simile sviluppo. Tuttavia, per spiegare ulteriormente i fiori composti, così come i frutti aggregati intorno ad una sfera, ad un asse, ad un piano e così via, sarà necessario far ricorso al processo di sviluppo delle gemme. § 95. Con molta frequenza notiamo che il fusto, senza prepararsi a lungo e senza risparmiare le sue forze in vista di una singola fioritura, produce fiori già dai nodi, e così procede, spesso ininterrottamente, fino alla cima. I fenomeni che si presentano in questo caso si possono comprendere grazie alla teoria esposta in precedenza. Tutti i fiori che si sviluppano dalle gemme devono essere considerati come piante intere, fissate alla pianta madre allo stesso modo in cui quest’ultima è fissata al terreno. Ora, poiché essi ricevono dei succhi più puri dai nodi,

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anche le prime foglie dei nuovi rametti appaiono molto più elaborate rispetto a quelle della pianta madre, che seguono ai cotiledoni; addirittura, spesso diviene immediatamente possibile la costituzione del calice e del fiore. § 96. Questi stessi fiori, che nascono dalle gemme, con un nutrimento107 più ricco, sarebbero diventati rami, e avrebbero obbedito così allo stesso destino a cui soggiace, in simili circostanze, la pianta madre. § 97. Dunque, allo stesso modo in cui di nodo in nodo si sviluppano simili fiori, notiamo come un medesimo cambiamento avvenga per le foglie caulinarie, che abbiamo osservato in precedenza nel loro lento passaggio al calice. Esse si contraggono sempre più, per giungere a scomparire infine quasi del tutto. Si chiamano allora brattee108, poiché si distanziano in misura variabile dalla forma fogliare. Il picciòlo si assottiglia proprio nella stessa misura, i nodi si avvicinano di più e hanno luogo tutti i fenomeni osservati in precedenza, salvo che, all’apice del fusto, non ne segue alcuna fioritura decisa, poiché la natura ha esercitato il suo diritto già procedendo di gemma in gemma. § 98. Se abbiamo ben esaminato un simile fusto provvisto di un fiore per ogni suo nodo, saremo ora in grado di spiegare molto agevolmente l’infiorescenza comune, ricorrendo a ciò che abbiamo detto sopra a proposito della formazione del calice. § 99. La natura forma un calice comune da molte foglie, radunandole e raccogliendole attorno ad un asse; proprio con questo forte impulso di crescita essa sviluppa poi un fusto per così dire infinito, con tutte le sue gemme in forma di fiore, tutte insieme, ammassate l’una all’altra quanto più possibile, e ogni fiorellino feconda l’ovaio già pronto sotto di esso. In questa enorme con-

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trazione non sempre le foglie nodali si perdono: nel cardo la fogliolina accompagna fedelmente il fiorellino, che si sviluppa dalle gemme vicine. Si confrontino le affermazioni di questo paragrafo con la forma del Dipsacus laciniatus. In molte erbe ciascun singolo fiore viene accompagnato da una fogliolina simile, che in questo caso è denominata gluma. § 100. In tal modo risulterà evidente come i semi sviluppati intorno ad una infiorescenza comune siano autentiche gemme, formate e sviluppate grazie all’azione dei due sessi. Se teniamo ferma quest’idea, ed esaminiamo in tal senso varie piante, la loro crescita e i loro frutti, allora l’evidenza di alcuni confronti ci convincerà nel modo migliore. § 101. Non sarà difficile allora spiegare le infruttescenze dei semi, nudi o vestiti, che si trovano al centro di un singolo fiore, spesso raccolti intorno ad un gambo. Infatti, è del tutto indifferente che un singolo fiore circondi un’infruttescenza composta, che i pistilli concresciuti assorbano i succhi fecondanti dalle antere del fiore per infonderli nei semi, oppure ancora che ciascun seme abbia il proprio pistillo, le proprie antere e i propri petali intorno a sé. § 102. Siamo convinti che non sia difficile, con un po’ di esercizio, spiegare per questa via la molteplicità di forme assunte dai fiori e dai frutti109; soltanto sarà necessario riuscire ad operare senza fatica con quei concetti di dilatazione e contrazione, di compenetrazione e anastomosi che abbiamo fissato in precedenza, come fossero formule algebriche, e riuscire ad applicarli dove conviene. Poiché ora molto dipende dall’osservazione precisa e dal confronto tra i diversi gradi che la natura percorre, sia nella formazione dei generi, delle specie, delle varietà, sia nello sviluppo di ogni singola pianta, in questa prospettiva si rivelerebbe molto gradita e non senza utilità una raccolta di illustrazioni, accostate le une alle altre a questo scopo, nonché l’impiego della

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terminologia botanica110 applicata alle diverse parti delle piante. Se avessimo sotto gli occhi due casi di fiori proliferi a sostegno della teoria sopra enunciata, li troveremmo certamente decisivi. XV. Rosa prolifera 111 § 103. Tutto ciò che finora abbiamo cercato di comprendere unicamente con l’immaginazione e con l’intelletto, ci è mostrato nel modo più evidente dall’esempio di una rosa prolifera. Calice e corolla sono ordinati e sviluppati attorno all’asse ma, invece di avere al centro il ricettacolo seminifero contratto, sul quale e attorno al quale dovrebbero essere ordinati gli organi sessuali maschili e femminili, il fusto si protende di nuovo verso l’alto, per metà rossiccio e per metà verdastro; su di esso si sviluppano in successione petali più piccoli, rosso cupo, ripiegati su se stessi, alcuni dei quali portano in sé traccia delle antere. Il fusto cresce ancora e su di esso si possono di nuovo vedere delle spine, mentre le foglie successive, isolate e colorate, diventano più piccole, mutandosi da ultimo sotto i nostri occhi in foglie caulinarie colorate per metà di rosso e per metà di verde; si forma poi una serie di nodi regolari, dalle cui gemme nascono a loro volta dei boccioli di rosa, ancorché imperfetti. § 104. Questo esemplare ci offre ancora una prova manifesta di quanto si è enunciato in precedenza: vale a dire che tutti i calici non sono altro che folia floralia connesse unicamente alla loro periferia. In questo caso, infatti, il calice regolare, raccolto intorno all’asse, consiste di cinque foglie compiutamente sviluppate e composte a loro volta di tre o cinque elementi, simili a quelle che producono solitamente i rami di rosa ai nodi. XVI. Garofano prolifero § 105. Se abbiamo osservato correttamente questo fenomeno, saremo ancor più colpiti da quello che si mostra in un garofano

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prolifero. Vediamo qui un fiore compiutamente formato, provvisto di un calice e di una corolla doppia, che possiede inoltre al centro un ovaio, anche se non completamente formato. Dai lati della corolla si sviluppano quattro nuovi fiori completi, distanziati dal fiore d’origine mediante steli dotati di tre o più nodi; a loro volta essi possiedono dei calici e sono anch’essi doppi, tuttavia non tanto in virtù di singole foglie, quanto di corolle con unghie concresciute, e per lo più mediante petali che crescono insieme come ramoscelli e si sviluppano intorno a un peduncolo. Nonostante questo sviluppo abnorme, in alcuni sono presenti i filamenti staminali e le antere. Sono visibili gli involucri del frutto con gli stili, e i ricettacoli dei semi si dispiegano di nuovo in foglie; addirittura in uno di questi fiori gli arilli erano riuniti in un calice completo, e avevano in sé a loro volta la predisposizione per formare un fiore doppio completo. § 106. Se nella rosa abbiamo visto un fiore determinato, per così dire, solo per metà, dal cui centro emergeva a sua volta uno stelo, da cui si sviluppavano nuove foglie caulinarie, in questo garofano con calici ben formati e corolle complete, con ricettacoli disposti effettivamente nel centro, troviamo che si sviluppano delle gemme dal cerchio dei petali, che rappresentano autentici rami e fiori. Dunque, entrambi i casi ci mostrano che solitamente la natura conclude con i fiori la sua crescita, e in certo modo tira le somme; essa pone un freno alla possibilità di procedere all’infinito con singoli passi, per raggiungere più rapidamente la mèta grazie alla costituzione dei semi. XVII. La teoria dell’anticipazione di Linneo 112 § 107. Sebbene io abbia incespicato qua e là per questa strada, che anche uno dei miei precursori113 aveva tentato, sulla scorta del suo grande maestro, descrivendola come infida e rischiosaC; sebbene io non sia riuscito ad appianarla a sufficienza elimi-

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Ferber, in Praefatione Dissertationis secundae de Prolepsi Plantarum.

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nando tutti gli ostacoli per i miei successori, tuttavia spero di non aver intrapreso invano questa fatica. § 108. È giunto ora il momento di riflettere sulla teoria che Linneo ha enunciato per chiarire questi stessi fenomeni. Al suo sguardo acuto non potevano sfuggire le osservazioni che hanno dato occasione anche alla nostra esposizione. Se ormai siamo in grado di procedere oltre il punto in cui egli si era fermato, ciò avviene perché siamo debitori alle comuni fatiche di così tanti ricercatori e pensatori, che hanno sgombrato la strada di alcuni ostacoli ed eliminato alcuni pregiudizi. Una comparazione accurata tra la sua teoria e quella che abbiamo esposto in precedenza richiederebbe troppo tempo; gli esperti potranno svolgerla facilmente da sé, mentre essa non potrebbe che rivelarsi troppo prolissa per risultare chiara a chi non abbia ancora riflettuto su questo argomento. Notiamo solo brevemente ciò che ha ostacolato Linneo e gli ha impedito di giungere alla mèta. § 109. Egli svolse in un primo tempo le sue osservazioni sugli alberi, piante complesse e di lunga durata, e notò che un albero nutrito in misura eccessiva in un vaso ampio produce per parecchi anni rami su rami, mentre lo stesso albero, se collocato in un vaso più piccolo, porta rapidamente fiori e frutti. Vide dunque che quello sviluppo successivo si produce in quest’ultimo caso condensato in una sola volta, per cui definì questa azione naturale prolepsis, anticipazione, poiché la pianta sembrava essere in anticipo di sei anni, saltando le sei fasi che abbiamo osservato sopra. Così egli formulò anche la sua teoria relativa alle gemme degli alberi, senza prendere in particolare considerazione le piante annuali, in quanto aveva notato che la sua teoria non si adattava altrettanto bene a queste ultime. In effetti, in base alla sua concezione, si dovrebbe assumere che ciascuna pianta annuale sia destinata dalla natura stessa a crescere per sei anni, salvo poi anticipare questo termine prolungato con la fioritura e la fruttificazione e appassire.

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§ 110. Diversamente, noi abbiamo seguito dapprima la crescita delle piante annuali, di modo che ora è possibile applicare facilmente le nostre conclusioni ai vegetali più longevi, poiché anche una gemma che nasce dall’albero più vecchio è da considerare come una pianta annuale, per quanto si sviluppi da un tronco che esiste già da lungo tempo e può durare ancora a lungo. § 111. La seconda causa che impedì a Linneo di procedere oltre si ravvisa nel fatto che egli considerò i diversi cerchi, racchiusi l’uno nell’altro, del corpo vegetale, vale a dire la corteccia esterna, quella interna, il legno e il midollo, come parti capaci di un’identica azione, necessarie e vive nello stesso grado, e attribuì l’origine delle parti del fiore e del frutto114 a questi diversi cerchi del tronco, poiché quelle, come queste, sembrano racchiuse le une nelle altre e sembrano svilupparsi le une dalle altre. Questa era però solo un’osservazione superficiale, che ad un attento esame non trova conferma. Infatti, la corteccia esterna non è in grado di produrre a sua volta degli organi, e negli alberi longevi diventa una massa separata e indurita verso l’esterno, allo stesso modo in cui il legno diventa troppo duro all’interno. In molti alberi tale corteccia cade, in altri si può asportare senza causare loro il minimo danno; dunque essa non produce né calici, né alcun’altra parte vivente della pianta. La seconda corteccia è quella che contiene tutta la forza vitale e vegetativa: nello stesso grado in cui viene ferita, è disturbata anche la crescita, ed è questa corteccia che, ad un’attenta osservazione, produce tutte le parti esterne della pianta progressivamente nel fusto, oppure in una sola volta nel fiore e nel frutto. Linneo le ha attribuito solo la funzione subordinata di produrre i petali, mentre al legno assegnava l’importante compito di generare gli stami maschili; si può invece notare che il legno è una parte giunta in quiete per solidificazione, e morta per l’azione vitale, malgrado duri ancora. Il midollo infine avrebbe dovuto adempiere la funzione più importante, quella di produrre gli organi sessuali femminili e una numerosa discendenza. Il dubbio che sorge di fronte ad una simile rilevanza assegnata al midollo, e i motivi che sono stati addotti

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per contrastarla sembrano anche a me importanti e decisivi. È solo apparente il fatto che gli stili e il frutto si sviluppino dal midollo, poiché queste forme, se esaminate al loro primo mostrarsi, si trovano in uno stadio molle, indeterminato, simile al midollo, parenchimatoso, e si addensano proprio al centro del fusto, là dove siamo soliti vedere unicamente il midollo. XVIII. Riepilogo § 112. Mi auguro che il presente tentativo di spiegare la metamorfosi delle piante possa contribuire a risolvere questi dubbi, offrendo l’occasione per ulteriori considerazioni e deduzioni. Le osservazioni su cui si basa sono state già svolte115 singolarmente, nonché raccolte e poste in serieD; presto si potrà valutare se il passo che abbiamo ora compiuto si avvicini alla verità. Riassumiamo ora, nel modo più conciso possibile, i principali risultati di ciò che abbiamo finora enunciato. § 113. Se esaminiamo una pianta nell’esplicazione della sua forza vitale, notiamo che questa avviene in un modo duplice: dapprima mediante la vegetazione, in cui la pianta produce fusto e foglie, e in seguito mediante la riproduzione, che si compie nella costituzione dei fiori e dei frutti. Se poi osserviamo più da vicino la vegetazione, vediamo che, mentre la pianta procede di nodo in nodo, di foglia in foglia, producendo germogli, avviene allo stesso tempo una sorta di riproduzione, che differisce da quella che ha luogo in una volta sola con fiori e frutti per il fatto che ha un carattere sequenziale, e si mostra in una successione di singoli sviluppi. Questa forza germogliante, che si esprime progressivamente, è strettamente affine a quella che sviluppa in una sola volta una grande riproduzione. In circostanze diverse è possibile costringere una pianta a germogliare ininterrottamente, o ad affrettare la fioritura. Il primo caso si ottiene facendo affluire alla pianta in grande quantità i succhi

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Batsch, Anleitung zur Kenntnis und Geschichte der Pflanzen. I. Teil, 19. Kapitel.

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meno raffinati, il secondo facendo prevalere in essa le forze più spirituali. § 114. Già definendo il germogliare come una riproduzione successiva, e la fioritura e fruttificazione come una riproduzione simultanea abbiamo determinato anche il modo in cui entrambe si esplicano. Una pianta che germoglia può estendersi in misura maggiore o minore, sviluppa uno stelo o un fusto, gli interstizi tra nodo e nodo risultano piuttosto visibili e le sue foglie si espandono dal fusto in tutte le direzioni. Una pianta che fiorisce, invece, è contratta in tutte le sue parti, lunghezza e larghezza sono in certo senso annullate e tutti i suoi organi si sviluppano molto vicini gli uni agli altri, in uno stato altamente concentrato. § 115. Che la pianta germogli, fiorisca o fruttifichi, sono pur sempre gli stessi organi che adempiono le prescrizioni della natura, in molteplici determinazioni e in forme spesso modificate. Il medesimo organo che si espande dal fusto come foglia e assume forme assai diversificate, si contrae ora nel calice, per poi dilatarsi di nuovo nel petalo, contrarsi negli organi sessuali, e dilatarsi infine come frutto. § 116. Questa azione della natura è al contempo legata a un’altra: la riunione di diversi organi intorno a un centro secondo determinate quantità e proporzioni, che tuttavia in alcuni fiori, in certe circostanze, sono superate e variate considerevolmente. § 117. Allo stesso modo, nella formazione dei fiori e dei frutti si ha il concorso di un’anastomosi, che determina l’intima connessione, permanente o temporanea, delle parti raffinatissime della fruttificazione, addensate le une accanto alle altre.

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§ 118. Tali fenomeni dell’accostamento, della concentrazione e dell’anastomosi non sono propri unicamente di fiori e frutti: piuttosto, possiamo notare qualcosa di simile nei cotiledoni, altre parti vegetali ci forniranno in seguito ampio materiale per simili considerazioni. § 119. Così come abbiamo cercato di spiegare gli organi, apparentemente diversi, delle piante che germogliano e che fioriscono riconducendoli tutti ad un solo organo, la foglia, che solitamente si sviluppa in ogni nodo, così abbiamo osato far discendere dalla forma fogliare anche quei frutti che solitamente racchiudono saldamente al loro interno i semi. § 120. È certo evidente che dovremmo disporre di un termine generale con cui definire quest’organo che si trasforma assumendo aspetti tanto diversi: in tal modo riusciremmo a confrontare tutte le manifestazioni della sua forma. Al momento dobbiamo però accontentarci di prendere l’abitudine a confrontare i fenomeni in senso progressivo e regressivo. Potremmo infatti con uguale ragione affermare che uno stame sia un petalo contratto e che il petalo sia uno stame allo stadio di espansione, che un sepalo sia una foglia caulinaria contratta che si approssima ad un certo grado di raffinamento, e che una foglia caulinaria sia un sepalo dilatato dall’afflusso di succhi meno raffinati. § 121. Allo stesso modo, si può dire che il fusto sia un fiore e un frutto dilatato, così come abbiamo definito questi ultimi un fusto contratto. § 122. Oltre a ciò, in conclusione della mia esposizione ho preso in esame ancora lo sviluppo delle gemme, attraverso cui ho cercato di spiegare i fiori composti come i frutti nudi.

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§ 123. Così mi sono sforzato di esporre, nel modo più chiaro e completo possibile, un’opinione che credo molto convincente. Se essa, malgrado ciò, non è ancora giunta a piena evidenza ed è ancora esposta ad alcune obiezioni, se l’interpretazione proposta non sembra applicabile in tutti i casi, sarà mia cura assumermi il compito di prendere nota di tutte le osservazioni, per trattare in seguito questa materia in modo più preciso e circostanziato, così da rendere più evidente l’interpretazione e procurarle quella generale approvazione, che forse al momento non posso aspettarmi.

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[Altri saggi sulla metamorfosi delle piante]116

metamorfosi delle piante secondo saggio Introduzione 1. Per quanto le forme delle creature organizzate siano distanti le une dalle altre, troviamo tuttavia che esse hanno in comune determinate proprietà, e che certe parti possono essere poste a confronto117 tra loro. Se usato correttamente, è questo il filo che può aiutare a districarsi attraverso il labirinto delle forme viventi, anche se l’abuso di un simile concetto conduce su strade completamente errate e ci fa retrocedere anziché avanzare nella scienza. 2. Poiché tutte le creature che chiamiamo viventi hanno in comune il fatto di possedere la forza di generare degli organismi loro simili, con ragione andiamo in cerca degli organi della riproduzione, tanto nei sessi degli animali quanto nel regno vegetale, e li troviamo perfino nel gradino più basso di quest’ultimo regno, dove non cessano di occupare l’attenzione dei ricercatori. 3. Oltre a questa proprietà generalissima, ne troviamo anche altre che, immediatamente accostate, consentono allo stesso

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modo un confronto. Così la capsula seminale può essere confrontata, almeno in generale, con l’ovario, e il seme con l’uovo. Ma se proseguiamo e vogliamo confrontare le parti del seme di una pianta con quelle dell’uovo di un uccello o di un frutto animale, ci allontaniamo dalla verità, a me pare, tanto quanto eravamo vicini ad essa inizialmente: come una pianta è diversa da un animale, così il seme della pianta non può che differire dall’uovo o dall’embrione. 4. Di conseguenza, i paragoni tra i cotiledoni e la placenta, tra i diversi involucri dei semi e le pellicole delle nascite animali, sono soltanto apparenti, e tanto più rischiosi in quanto distolgono dalla conoscenza esatta della natura e delle proprietà di queste parti. Intanto è diventato naturale spingere troppo oltre simili paragoni, poiché in effetti è la natura a offrirci l’occasione di farlo: così si è chiamato, forse non a torto, midollo il tessuto che riempie i condotti cavi di molte piante, confrontandolo con il midollo delle ossa animali. Tuttavia se ne è tratta la conclusione errata che il midollo fosse una parte essenziale del corpo vegetale; lo si è cercato e trovato là dove non esisteva e si sono attribuiti ad esso una forza e un influsso che non possiede, in quanto ci si atteneva al concetto del midollo delle ossa umane, che si è introdotto nella scienza anche grazie all’immaginazione e alla terminologia dei poeti, ed è assurto ad una dignità superiore, che di fatto non meritava. Si veda il saggio sulla forma degli animali. 5. Si è andati poi anche oltre e, per comodità di immaginazione e per favorire certe esaltate idee religiose118, si è voluto ricondurre ogni cosa all’unità, trovando il tutto in ciascuna cosa: si sono visti così nella pianta muscoli, arterie, vasi linfatici, viscere, un esofago, delle ghiandole e molto altro. Si veda Agricola119, Agriculture parfaite. Grazie ad osservazioni più precise, in particolare ottenute al microscopio, queste errate considerazioni sono state gradual-

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mente messe da parte, anche se ne restano sempre alcune che dovrebbero essere eliminate per il bene della scienza. 6. Siamo giunti al punto in cui è opportuno riflettere su alcuni altri paragoni, poiché i regni naturali sono accostati non solo tra loro, ma anche con gli altri oggetti del mondo, di modo che si arrecherebbe un gran danno se si volesse eludere ingegnosamente la fisiologia dei tre regni. Linneo120, ad esempio, chiama i petali «tende del talamo nuziale»: una metafora galante che farebbe onore a un poeta. E tuttavia la scoperta dell’autentico rapporto fisiologico di questa parte viene così del tutto impedita, come lo è dalla considerazione degli scopi verso l’esterno, tanto agevole quanto erronea. Il concetto principale che, a me pare, deve stare a fondamento dell’indagine su ogni organismo vivente e da cui non si deve mai deviare, è che tale organismo ha una propria stabilità, che le sue parti si trovano in un rapporto necessario con se stesse, che nulla di meccanico è, per così dire, costruito o prodotto dall’esterno, anche se le parti agiscono verso l’esterno e ricevono dall’esterno determinazione. Si veda il saggio sulla forma degli animali. 7. Questo concetto si trova a fondamento del primo tentativo di spiegare la metamorfosi delle piante, e non lo perderò mai di vista nel presente saggio, come in ogni altra considerazione che mi troverò ad esporre a proposito di un essere vivente. Tuttavia, ho già spiegato in altra occasione che qui non ci si chiede se l’interpretazione, lo scopo finale121, risulti comoda o addirittura indispensabile a certi uomini, o se tale interpretazione, applicata in ambito morale, possa avere degli effetti buoni e utili; piuttosto ci si chiede: la nostra rappresentazione giova oppure ostacola i fisiologi che studiano i corpi organizzati? Io oso affermare che essa è di ostacolo, e per questo ritengo mio dovere evitarla e renderne avvertiti anche gli altri; infatti, si può dire con Epitteto122 che non si deve afferrare un oggetto dove manca la presa, ma piuttosto dove la presa ci permette di afferrarlo con più facilità. Anche in questo caso l’indagatore

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della natura può tranquillizzarsi e proseguire per la sua strada indisturbato, tanto più che la moderna scuola filosofica, secondo le indicazioni presentate dal suo maestro (si veda la Critica del Giudizio teleologico di Kant123, in particolare il § 64), si porrà il compito di rendere più comune questo tipo di interpretazione, sicché in seguito il naturalista non dovrà perdere occasione di contribuire anch’egli con le sue opinioni. 8. Nel primo saggio mi sono sforzato di mostrare come le diverse parti della pianta nascano da un organo in tutto simile che, pur rimanendo al fondo sempre lo stesso, viene modificato e mutato progressivamente. 9. Alla base di questo principio se ne trova un altro, vale a dire quello secondo cui una pianta possiede la forza di accrescersi all’infinito attraverso una mera proliferazione di parti completamente simili: infatti, io posso tagliare un tralcio di salice, piantarlo, recidere il nuovo germoglio per piantarlo ancora, e procedere così all’infinito. Analogamente, se strappo uno stolone e lo pianto, esso produrrà dei nuovi stoloni senza fiorire, e così via in infinitum. 10. Il secondo principio, ricavato dall’esperienza e fondato sul precedente, è questo: la crescita che prosegue sopra la terra e verso l’aria non può sempre avanzare con lo stesso passo, ma deve necessariamente mutare gradualmente forma e destinare diversamente le sue parti. È questa la metamorfosi delle piante che procede in avanti regolarmente, e che interessa in massimo grado l’uomo, solitamente attentissimo ai fiori e ai frutti che nascono in questo modo. 11. L’intenzione del presente secondo saggio è di proseguire quelle considerazioni, spiegandole tramite esempi e renden-

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dole più evidenti grazie a delle incisioni, nonché conferendo loro maggiore autorevolezza con l’aiuto di altri scrittori. Si intende inoltre raccogliere tutto ciò che si lega più strettamente alla scienza botanica nel suo complesso, per preparare la strada a ulteriori progressi. gemme, stoloni Anche la formazione delle gemme mostra il modo in cui la metamorfosi agisce in altri casi in base a leggi simili. Quando la stagione più fredda impedisce la salita della linfa, il ramo non prosegue il suo sviluppo in avanti e le foglie non si formano più, ma si mostrano in forma di scaglie, addensate le une vicino alle altre, spinte le une dentro le altre, e il loro aspetto esteriore è simile a quello del calice di un fiore. Tuttavia, quando si sviluppa una simile gemma (si tratta qui sempre di una gemma principale situata all’estremità di un ramo, quale si può osservare ottimamente nell’ippocastano e nel frassino. Al momento il nostro discorso verte inoltre solo su una gemma da cui si sviluppa un ramo, ma non una fioritura) scorgiamo fenomeni simili a quelli che abbiamo notato nello sviluppo che ha luogo dal seme. Infatti, le foglie che si susseguono si mostrano via via più formate. Le prime foglie, più esterne, della gemma sono contratte e piccole, più larghe che lunghe, al contrario di quanto avviene invece solitamente nelle foglie del calice. Le foglie successive si allontanano sempre più da questo stadio, diventano più verdi e più lunghe, e iniziano a dividersi in fibre all’estremità, se la foglia abituale della pianta è una foglia composta. Tali fibre assumono presto la forma di una divisione fogliare, e ciò che fino allora si presentava come una foglia a scaglie si assottiglia fino a diventare uno stelo, mentre la formazione prosegue fino al compimento, allo stesso modo in cui abbiamo visto avvenire la formazione della pianta dal seme. Riguardo a diversi alberi che crescono in un clima caldo e non perdono le foglie d’inverno, notiamo che essi non hanno gemme: per convincersene si può considerare il mirto, l’alloro e il limone nelle nostre serre. Infatti, sebbene l’inverno rallenti anche la loro crescita, tuttavia essi mutano la forma di alcune foglie, mentre non dischiudono alcuna gemma. Al ritorno del-

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la primavera, tutte le foglie di un ramo giungono alla forma compiuta, come tutte quelle che le precedono, e nessuna tra di loro si inaridisce assumendo l’aspetto di una scaglia. Anzi, spesso in questi alberi, per la stessa ragione, gli spazi intermedi tra foglia e foglia, nonché le gemme sotto le foglie, non sono eliminati, ma completamente sviluppati. Tutto ciò vale anche per le gemme che si producono su un lato, come ciascuno potrà facilmente osservare. Le gemme dei fiori si sviluppano prima di quelle delle foglie e possiedono un elemento più spirituale124, che si dilata per l’azione del calore. Nelle gemme dei fiori avviene tutto ciò che abbiamo notato nelle singole metamorfosi. Alberi che crescono finché non producono fiori e frutti. La solidificazione precede l’accoppiamento. Addirittura la solidificazione avviene prima che possa svilupparsi una gemma successiva. Aesculus hippocastanum. Ci si chiede se una simile pianta, mantenuta sempre molto calda, non debba continuare a proliferare senza che nascano ­gemme. [pellicole dei semi] Occorre anzitutto concentrare l’attenzione, in relazione al germe del seme, sulle diverse membrane che avvolgono propriamente l’ultimo germe, libero e autonomo, e i suoi cotiledoni; nelle ghiande si trova un triplice involucro, formato come segue: 1. uno strato, se si vuole, legnoso e in forma di guscio 2. un secondo in forma di libro 3. e un terzo dalla forma di foglia, in cui infine si trova il seme vero e proprio, puro, libero e autonomo. Ciò che è notevole in questo seme o germe puro, se si vuole, è il fatto che la diploe dei cotiledoni è riempita e gonfiata della sostanza cosiddetta farinosa.

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A questo punto si noterà un fenomeno curioso: la piccola superficie arrotondata mediante la quale la ghianda si collega al fusto dall’esterno è anche internamente il punto in cui le membrane interne si connettono e si formano grazie alla disposizione di parecchie foglie intorno all’asse. Se poi si assume che il germe vero e proprio coincide, al lato opposto, con l’apice della ghianda, e che lo stesso vale dunque per l’estremità della foglia, si vedrà allora ciò che ho già notato, vale a dire che la fruttificazione si anticipa all’estremità di un organo fogliare: questo fatto dovrà essere ancora osservato e reso evidente.

[proprietà delle monocotiledoni] Una proprietà125 delle monocotiledoni è che esse si avviano alla fruttificazione non in base al tempo, ma secondo la forma. Esse saltano le fasi intermedie della formazione, attraversate invece dalla forma delle piante compiute. Si dovrebbe dire che saltano solo alcune fasi intermedie della formazione, poiché è delle acotiledoni che si può affermare che esse saltano tutte le fasi intermedie. In casi straordinari, però, può accadere perfino questo. Così, in una serapia si è trovato qualcosa di simile alle antere sviluppato nelle foglie dello stelo. Quella formula guiderà nel modo migliore le nostre osservazioni, in quanto l’eliminazione delle fasi intermedie di formazione può avvenire in vari modi. Per contro, se affermo, come Jussieu12, che a tali piante manca la corona, non posso sperare in un consenso generale, poiché in singoli casi non possiamo certo negare la presenza della corona. Si tende spesso ad ammettere che manchi la corona; ma questo è soltanto uno dei modi in cui può avvenire il salto di fasi intermedie, e nessuno di tali modi è costante.

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La velocità del processo vegetale può anche manifestarsi gradualmente, ma la nostra formula resta sempre valida. Le monocotiledoni pervengono rapidamente alla fruttificazione, non in base al tempo, poiché vi sono dicotiledoni che giungono al fiore e al frutto molto più velocemente rispetto alla maggior parte delle monocotiledoni. (Da controllare quale tra le monocotiledoni sia annuale, oltre alle erbe.) Piuttosto, in molte di esse si trova un’anticipazione nel terreno, in forma di cipolle e simili, prima che siano in grado di produrre fiori e frutti. Con ragione la cipolla è stata definita una gemma sotto terra, e proprio una simile tendenza a formare gemme sotto terra, prossime al primo punto di sviluppo, si presenta spesso nelle monocotiledoni. Le erbe sviluppano spesso molti nodi proprio in prossimità del primo punto di sviluppo: tale fenomeno è stato definito accestimento. Questa stessa preparazione che avviene sotto o sopra la terra fa sì che lo sviluppo successivo possa procedere rapidamente. La sua principale proprietà consiste nel fatto che essa sviluppa raramente le gemme per il ramo: piuttosto, ogni gemma si avvia velocemente alla fioritura non appena spuntata. Se delle gemme si sviluppano da una specie di rami, avviene immediatamente un fenomeno singolare, come nel Hyacinthus monstruosus127, che rappresenta un fiore che germoglia. Nel caso degli asparagi, in cui le gemme producono dei veri e propri rami, si sarà indotti ad ulteriori considerazioni. Perfino nelle palme, che si sviluppano fino alla loro considerevole altezza così lentamente, si dà il caso in cui esse producono unicamente foglie a stelo; la prima gemma che germoglia è già fiore e frutto. In un certo senso, dunque, si potrebbe negare alla palma la proprietà dell’albero, e definirla semplicemente un enorme arbusto, allo stesso modo in cui le monocotiledoni, in particolare al loro interno, presentano una natura generalmente più morbida, e non si può loro ascrivere alcuna qualità del legno in senso proprio. Dunque ora si dovrebbero esaminare più in particolare i vari modi in cui esse giungono alla fruttificazione. Lo stelo privo di foglie, in particolare quello delle cipolle,

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mostra un passaggio immediato dalle vicinanze della radice al fiore. La colorazione del suo calice prende il posto della corona. Immediata disposizione in cerchio delle foglie a stelo in un quasi-calice: Paris quadrifolia Trillium. Avvicinamento delle foglie della corona ai pistilli e alle antere. Forma regolare e passaggi chiari si trovano nella canna, nel croco, nell’iris. Forma irregolare e passaggi non del tutto chiari nell’orchidea, nel satirio, nella serapia e nell’ofride. Quasi l’intero ginandromorfismo128 di Linneo. Spadice e spata129. Le spighe. Le glume solo nelle foglie a stelo atrofizzate. I frutti si trovano immediatamente attaccati al picciolo130 senza stelo, si addensano intorno allo stelo e questa posizione agisce su di esso con forza, tanto che diventa il comune appoggio per il frutto. Mutamento della sua forma e delle sue componenti. Zea Mays. Bromelia. Ananas. Questo caso si presenta ancora nelle conifere, con l’unica differenza che in queste ultime la pigna è chiusa e prolifera solo raramente, mentre nel caso precedente, in condizioni normali, lo stelo attraversa il frutto, mostrandosi al di sopra di esso più o meno nel suo stadio naturale.

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Premessa Sebbene il titolo di questo piccolo scritto prometta un saggio sulla forma degli animali in generale, esso si occuperà principalmente dei più perfetti, vale a dire dei mammiferi, e con particolare riguardo alla prospettiva osteologica132; alle altre classi di animali e alle parti più molli della struttura si farà riferimento solo quando ciò si riveli necessario per chiarire determinate esperienze e conclusioni. L’autore si riserva di trattare del resto in futuro. 1. Sforzi dell’anatomia comparata e ostacoli che si oppongono a questa scienza La somiglianza degli animali quadrupedi tra loro non è mai sfuggita nemmeno all’indagine più superficiale. Alla somiglianza tra gli animali e l’uomo si è posta attenzione probabilmente dapprima osservando le scimmie. Soltanto ad una più attenta indagine scientifica, poi, è stato possibile stabilire che gli altri animali quadrupedi concordano con l’uomo in tutte le loro parti principali; gli sforzi scientifici hanno infine attirato in questa affinità anche molte altre forme provenienti dall’ocea­no133, in apparenza ancor più distanti dall’uomo. Si possono certamente ritenere universalmente note tutte le conquiste raggiunte nell’ultima metà del secolo scorso

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dalla scienza naturale, tramite la descrizione, la suddivisione e la classificazione. E certo chi studia questa scienza con accuratezza e precisione giungerà presto a constatare quanto ci sia ancora da fare, e quanti ostacoli si oppongano ancora ad un’indagine esatta. Era naturale che gli anatomisti che si erano occupati per un certo tempo esclusivamente della struttura dell’uomo denominassero e descrivessero le parti del corpo umano così come risultavano loro visibili, considerandole in sé e per sé, senza ulteriori rapporti con l’esterno. Altrettanto naturale era il fatto che coloro che si occupavano degli animali, cavalieri, cacciatori, macellai, assegnassero alle diverse parti anatomiche, singolarmente, dei nomi che non tenevano in alcun conto il rapporto reciproco tra gli animali, e ancor meno quello degli animali con l’uomo, ma davano piuttosto occasione di incorrere in errori a causa di comparazioni fallaci. Così ad esempio il cavaliere chiama ginocchio quella parte della zampa anteriore del cavallo in cui il carpus forma l’articolazione tra l’ulna e il metacarpo, e chiama stinco l’osso del metacarpo stesso. È proprio grazie agli sforzi di tanti zelanti osservatori, che hanno trattato principalmente dell’anatomia animale o ne hanno trattato occasionalmente accanto a quella umana, che la terminologia relativa alle parti animali è stata ricondotta a quella delle parti umane, e si è potuta così fissare una volta per sempre la base dell’anatomia comparata. Tuttavia, ci sia concesso di svolgere qualche considerazione a proposito degli ostacoli, che sembrano essere ancora residui dell’antico modo di indagare empiricamente, e che si rivelano tanto più gravosi per la scienza adesso che si avvicina sempre più al suo completo sviluppo. Come si è già ricordato, in passato si sono confrontati ora gli animali tra loro, ora gli animali con l’uomo, ora questo con quelli, e dunque si è sempre scambiato il tertium comparationis, perdendo in tal modo spesso il filo dell’osservazione. Inoltre, poiché il metodo degli anatomisti di animali non può coincidere totalmente con quello degli anatomisti del corpo umano, ne è risultata inevitabilmente una sorta di oscillazione

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nel metodo dell’anatomia comparata, che a mio giudizio non si è ancora riusciti a riequilibrare. 2. Proposte per rimuovere gli ostacoli dalla strada Poiché attualmente, avendo a disposizione così tanti ed eccellenti lavori preparatori, con gli sforzi quotidianamente proseguiti da tanti singoli, e addirittura da intere scuole, la scienza è giunta velocemente a risultati consistenti, un filo conduttore generale per orientarsi attraverso il labirinto delle forme potrebbe essere fornito da un trattato in cui ogni singola osservazione si potesse annotare per uso generale; si dovrebbe costruire ed elaborare (questa mi pare la via migliore) un tipo generale, uno schema generale a cui subordinare sia l’uomo che gli animali, e con cui confrontare e valutare le classi, i generi e le specie. Con l’elaborazione di un simile tipo ci si potrebbe proteggere da tutte le innovazioni superflue, e si cercherebbe di traslare le denominazioni tratte dalla forma del corpo umano a quella degli animali; in tal modo forse ci si distanzierebbe un poco dal metodo e dall’ordinamento in base a cui finora è stata esposta l’anatomia del corpo umano, abbandonando così il modo empirico di considerare e di giudicare, secondo la struttura particolare di una creatura, quella di un’altra; si formulerebbe al contrario un metodo in base al quale considerare razionalmente dapprima gli animali più perfetti, e forse in seguito più da vicino le altre classi. Se ciò che si è detto fin qui non dovesse convincere tutti della necessità di una simile disposizione, la considerazione che segue renderà forse le cose più chiare. Poiché la comparazione di forme così diverse come quelle dei mammiferi non può avvenire se non in modo parziale, è naturale che nelle diverse specie animali si siano indagate le varie parti ponendole a confronto con quelle di altre specie. Il maggior numero delle inesattezze sorte a causa della grande varietà di forma e orientamento delle parti è stato progressivamente rettificato, anche se non è stato possibile liberarsi del tutto dall’errore, che sembra risiedere più nell’espressione che non nell’ogget-

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to, secondo cui ad alcuni animali si negava la presenza di certe parti, malgrado si fosse ben disposti ad accettare la forma prodotta da quelle parti medesime. Così ci si è ostinati a non voler riconoscere all’uomo l’os intermaxillare; si riteneva che l’elefante non dovesse avere l’osso lacrimale né quello nasale, mentre, quand’anche tutte le suture si fossero rimarginate, si sarebbe dovuto concludere l’esatto contrario, derivando dalla forma corrispondente una conseguenza nella struttura. Se da un lato affermiamo che tutte le parti principali di cui è composta la forma di un animale completo si devono trovare allo stesso modo in un altro animale, d’altro lato non si può negare che certe parti in tutto simili variano numericamente, in particolare verso le estremità: così varia il numero delle vertebre della spina dorsale e delle costole, delle vertebre caudali, quello del carpo, del metacarpo e delle dita, del tarso, del metatarso e delle dita dei piedi. Altre sezioni, come quelle dell’ulna e del radio, della tibia e della fibula, concrescono senza lasciare quasi traccia della loro originaria separazione. Tutto questo sarebbe già sufficiente a determinare e fissare un tipo compiutamente elaborato: in che misura ciascuna parte sia necessaria e sempre presente, se si celi talvolta solo mediante una forma meravigliosa o se si nasconda casualmente a seguito del rimarginarsi delle suture, se appaia in quantità ridotta fino a non lasciare quasi più alcuna traccia riconoscibile, se debba essere considerata come prevalente, subordinata e addirittura superata. Prima di procedere oltre, sarà consigliabile stabilire il tipo stesso, in primo luogo sotto il profilo puramente osteologico. 3. Proposta per un tipo osteologico Prima di esporre ulteriormente le ragioni che mi hanno indotto a ordinare in questo modo il precedente schema, e i vantaggi che spero di trarne, è necessario premettere ancora alcune considerazioni. Poiché la natura sembra modificare facilmente le forme degli animali proprio grazie al fatto che la forma è composta di tante parti; e poiché la natura formatrice non ha bisogno, per così dire, di rifondere masse molto gran-

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di, ma produce quella grande molteplicità agendo ora in questo ora in quel modo su molte parti reciprocamente ordinate (fatto questo che, come vedremo in seguito, è della massima importanza), allora coloro che compilano in particolare il tipo osteologico dedicheranno la massima attenzione all’indagine più acuta e precisa possibile delle sezioni ossee, sia nel caso in cui queste ultime si possano vedere chiaramente negli esemplari adulti di alcune specie animali, sia nel caso in cui, in altre specie, siano riconoscibili solo negli animali più giovani, forse addirittura solo negli embrioni134. In questa sede posso già affermare, allora, ciò di cui, con questo mio saggio, vorrei convincere pienamente chiunque si interessi davvero a questa scienza, vale a dire che solo per questa via si può sperare che il progresso dell’intera scienza avanzi rapidamente. Non è forse vero che l’arte dell’anatomia si è sviluppata in altre parti nelle osservazioni più fini? Non ha forse già inseguito la divisibilità dei nervi135 all’infinito? Non dovremmo dunque dedicare un’attenzione simile alle sezioni ossee, che forse esercitano un influsso anche maggiore sulla formazione? Il metodo con cui finora è stata esposta la teoria della struttura ossea umana è meramente empirico e non razionale, né nella considerazione della forma dell’essere umano, né tanto meno nell’indagine della forma degli altri animali. Le ossa sono state assunte e descritte non in base al modo in cui la natura le separa, le forma e le determina, bensì in base alla loro recproca connessione, mi verrebbe quasi da dire, casualmente, in una certa età dell’uomo: si tratta di una via sulla quale anche gli sforzi migliori e più precisi difficilmente potevano condurre oltre la fissazione di una nomenclatura empirica. Anche i disagi che ne sono nati sono già stati individuati e alcuni di essi sono stati eliminati. Così, ad esempio, la rocca petrosa è stata separata dall’osso temporale, e con ottime ragioni; per contro, si sono mantenute connessioni di ossa del tutto eterogenee come ad esempio quella dell’osso sacro e del coccige con il bacino - e tali connessioni rimarranno in futuro, all’interno della teoria che tratta solo dell’essere umano, anche in funzione di dimostrazioni fisiologiche e patologiche. Tuttavia noi, che

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ricerchiamo un punto di vista superiore della conoscenza, non dobbiamo farci ostacolare da questo stato di cose. Ora, poiché spero di avere mostrato, per ogni singola parte del tipo proposto, le cause che mi hanno indotto a considerare la struttura ossea del corpo animale in base ad un metodo diverso da quello finora impiegato, e ad auspicare l’isolamento delle diverse parti l’una dall’altra; dal momento che spero di essermi sottratto in tal modo al sospetto di mania innovatrice e all’apparenza di amare i dettagli minuti, desidero giustificare ancor più quel metodo grazie alle seguenti considerazioni più generali, per rendere ancor più universalmente convincente la sua necessità. È già stato detto cursoriamente in precedenza che la natura può facilmente, anzi si può dire unicamente, produrre forme tanto numerose per il fatto che la formazione consiste di così tante piccole parti, sulle quali la natura agisce, modificandone la grandezza, disposizione, direzione e relazione; in tal modo essa è messa in condizione di produrre in parte formazioni enormemente varie, e in parte di separare per così dire di nuovo formazioni molto affini tramite un’immensa frattura. Se prestiamo bene attenzione a questa molteplicità, saremo in grado di confrontare non solo gli animali fra loro, bensì persino l’animale con se stesso. Su questa variabilità delle parti, che ad un’osservazione più precisa suscita la massima ammirazione, si basa l’intera potenza della natura formatrice. Per contro, la connessione immutabile delle parti fra loro è la causa di quella somiglianza fra le forme più diverse che salta agli occhi ad ogni osservatore. Allo scopo non solo di presentare entrambi questi concetti in generale, ma anche di renderli applicabili ed evidenti in particolare, consideriamo in primo luogo il cranio degli animali. Non si affermerà mai in modo sufficientemente rigoroso e non si ripeterà mai abbastanza spesso che la natura non solo forma questa parte principale della struttura animale in base ad un solo modello, ma consegue anche il suo scopo in tutti i casi attraverso un unico mezzo, e che i molteplici processi ossei e le sezioni ossee che ne derivano sono perfettamente identici nei cranî di tutti gli animali, e fondamental-

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mente sono presenti ovunque in un unico modo, anche se nelle modificazioni più varie. Un osservatore diligente e onesto può convincersene nel modo più agevole e rapido. D’ora in avanti si presterà la massima attenzione ai cranî non ancora cresciuti, a quelli di animali ancora giovani e immaturi; in tal modo il principio che abbiamo spesso ripetuto non dovrà più temere alcuna contraddizione. Le affermazioni errate od oscillanti, secondo cui l’uomo non avrebbe l’os intermaxillare, l’elefante non avrebbe l’osso lacrimale, così come non l’avrebbe la scimmia, non otterranno più spazio alcuno. Tali parti saranno indagate accuratamente e, poiché si è certi che le si deve trovare, non ci si fermerà fino a quando non siano state rintracciate, definendo con esattezza la loro forma e la loro relazione rispetto alle altre parti. Perfino se si considera la conseguenza della forma soltanto in generale, si dovrà concludere, anche senza un’esperienza più precisa, che le creature viventi più simili tra loro dovrebbero essere generate da un unico principio formativo. Se si potesse pensare solo un momento che l’osso lacrimale mancasse in un animale, ciò vorrebbe dire né più né meno che l’osso frontale si potrebbe congiungere con l’osso zigomatico, quest’ultimo con l’osso nasale, ed essi verrebbero realmente a confinare immediatamente, di modo che tutti i concetti di formazione concorde verrebbero meno. Se poi, come si è accennato in precedenza, la grande molteplicità delle formazioni deriva dal fatto che un osso può assumere le forme più strane e bizzarre, inducendo in tal modo i suoi vicini ad assumere forme insolite, per lo stesso motivo la formazione diviene estremamente coerente, poiché nessun osso può modificare i suoi vicini, e perciò deviazioni realmente spropositate non possono mai diventare irregolari. Certo, si trovano casi che sembrano contraddire tale principio generale, ma che appunto per questo suscitano tutta la nostra attenzione e ci offrono lo stimolo per ulteriori ricerche. Vorrei qui indicare e cercare di spiegare due casi che mi sono noti. Tramite la congiunzione dell’osso frontale con la mascella superiore, nella regione della radice del naso, l’osso

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lacrimale viene totalmente separato da quello nasale; dunque, se il principio stabilito in precedenza dovesse rimanere irrevocabile, in nessun animale l’osso lacrimale dovrebbe potersi mai congiungere con l’osso nasale. Ora, si dà il caso che nel cranio sia di un comune bue sia di un uro l’osso lacrimale è realmente congiunto all’osso nasale. Elimino questa contraddizione tramite la seguente esperienza: è noto che gli animali privi di denti nella mascella superiore – come i buoi, i cervi, le pecore, le capre – hanno una fontanella, delimitata dall’osso frontale, dall’osso nasale, dalla mascella superiore e dall’osso lacrimale; possiamo dire che questa fontanella deriva dall’incapacità della mascella superiore di proseguire fino all’osso frontale. Nel bue la fontanella viene riempita da un os wormianum, che in seguito concresce più frequentemente con l’osso lacrimale che non con le altre ossa vicine, per cui ad un primo sguardo potrebbe sembrare che l’osso lacrimale per così dire si inserisca come un cuneo fra l’osso frontale e la mascella superiore, toccando l’osso nasale. Mi volgo ora al secondo caso. La mascella superiore e l’osso nasale si toccano fra loro; si può notare, in particolare negli animali feroci, che l’osso frontale prolunga il suo processus nasalis in modo molto appuntito e allungato in avanti, mentre l’os intermaxillare prolunga il suo processus superiore allo stesso modo all’indietro. In tutti gli animali si incontrano questi due cunei appuntiti, che in certo senso tendono l’uno verso l’altro, attraverso il piano che connette la mascella superiore all’osso nasale, isolati o ad una distanza più o meno grande. Nel cranio di un orso ho potuto notare invece che entrambe le appendici prolungavano soltanto, per così dire, i punti di contatto tra le ossa confinanti, e si congiungevano l’una all’altra con una sutura, anche se un po’ confusa. Anche in questo caso non credo di sbagliarmi negando che queste ossa si toccassero realmente l’una con l’altra, e ritenendo che esse abbiano invece solo esteso il più possibile l’una verso l’altra la forza propulsiva insita in loro, e siano state infine congiunte insieme da un terzo punto osseo, una sorta di os wormianum. Si tratta di un punto su cui le osservazioni che faremo in seguito non saranno mai sufficienti, e mai abbastanza acute. Somiglianza delle forme animali fra loro. Somiglianza tra la forma animale e quella umana.

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L’anatomia comparata si occupa di esaminare in modo sempre più approfondito tale somiglianza, e allo stesso tempo di determinare con precisione la differenza per cui le forme si allontanano tutte, in misura maggiore o minore, una dall’altra. Recentemente si sono verificati grandi progressi in questa scienza. Nell’elaborazione diligente e precisa di tali progressi si trova una difficoltà che, mi pare, ha frenato finora la scienza. Poiché in questa sede il discorso verte sulla comparazione, è lecito chiedersi: si devono comparare gli animali fra loro, gli animali con l’uomo o l’uomo con gli animali? Tutto questo si è verificato finora a seconda che il naturalista avesse un preciso intento nelle sue ricerche, e che prendesse le mosse dall’uno o dall’altro punto. All’occasione si è anche assunta un’unità di misura136, in base alla quale si è cercato di determinare le lunghezze e le larghezze delle diverse parti. Tutti questi differenti metodi hanno le loro difficoltà, e ciascuno di essi, sotto certe condizioni, non può che risultare inadeguato. Rispetto al punto in cui attualmente si trova la scienza, si potrebbe forse compiere un passo in avanti, che consentirebbe un progresso notevole e improvviso. Ciò potrebbe accadere se si elaborasse un tipo che esprimesse la natura animale in generale, ma in primo luogo, per non perdersi nell’infinito, solo la natura dei mammiferi; in base ad un simile tipo, quindi, si potrebbero descrivere e comparare tra loro tutti i generi animali. Non possiamo considerare l’uomo come archetipo degli animali, né gli animali come archetipo dell’uomo; la scienza è avanzata a sufficienza da consentire di trovare la forma alla quale si possano riferire tutte le altre. È evidente che, elaborando questa immagine, non facciamo una fatica inutile, ma ci serviamo di tutto ciò che al presente c’è già ed è già ordinato, approssimandoci il più possibile al metodo finora impiegato, per sfuggire alle accuse di innovazioni superflue, e per poter sperare da ogni parte una collaborazione piuttosto che temere un’opposizione. L’anatomia del corpo umano è stata esaminata in modo così scrupoloso che a ragione la si è posta alla base delle comparazioni più recenti; questo accadrà in misura tanto maggiore, quanto

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più ci si convincerà che in tutti gli altri mammiferi si trova ciascuna delle parti che costituiscono il corpo umano. Dunque, si è felicemente iniziato ad applicare la terminologia che viene impiegata per le parti dell’uomo alle forme animali, e si farà bene a proseguire in questa direzione. Poiché l’anatomia che ci descrive il corpo umano nella sua composizione, specialmente in epoca recente, si limitava a considerare l’uomo così come le si presentava, trattandolo per se stesso e non in rapporto ad altre creature viventi a lui simili, si può facilmente concludere che nel metodo di questa ricerca e di questa descrizione saranno state esaminate certe proprietà peculiari all’uomo che ci ostacolano piuttosto che favorirci, se vogliamo elaborare un’immagine più generale, a cui l’uomo sia a sua volta subordinato. Così, ad esempio, il metodo in base al quale si descrivono le ossa della testa umana è meramente casuale, nel momento in cui si assume e si descrive come osso particolare ciò che si può separare solo in determinati anni; invece, seguendo un metodo più puro, si dovrebbe descrivere come osso particolare quello che la natura ha realmente isolato dagli altri, perché in questo modo siamo condotti sulla giusta via dell’osservazione della formazione dell’essere vivente da una prospettiva superiore. Questo isolamento delle ossa, parte del quale si può già notare nei cranî dei bambini, si può vedere e anzi comprendere meglio negli animali, in ragione della loro forma meno concentrata. Ora, poiché, come abbiamo già detto sopra, ci possiamo approssimare ad un concetto superiore di formazione solo se separiamo con precisione l’una dall’altra le parti che la compongono, nell’elaborazione del nostro tipo non disdegneremo allora di chiedere consigli alla forma animale. Impareremo a conoscere esattamente tutte le parti; non ci resteranno nascoste né la loro forma nei particolari, né il loro concorso alla formazione dell’insieme, e non ci lasceremo fuorviare se questa o quella parte, in una certa classe o genere, in una certa età e a certe condizioni, si sottrae ai nostri sensi e resta visibile solo all’intelletto. In generale tutto ciò è evidente e accettato. Solo nei particolari è mancata la volontà di giungere ad un pieno accordo al riguardo. Così, ad esempio, l’os intermaxillare, quale parte anteriore della mascella superiore che contiene gli incisivi, qualora l’animale non ne sia privo, in quanto osso isolato non sfuggirà mai

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alla nostra attenzione, anche se troveremo che ad una certa età, per lo più negli uomini, ma spesso anche nelle scimmie, leoni, orsi e altri animali di natura concentrata, si rimargina una parte delle suture che lo connettono alle ossa vicine. Così separeremo accuratamente l’os temporum e la cosiddetta pars petrosa137, allo stesso modo in cui essa appare separata in parecchi animali e, in una certa misura, nei bambini; non potremo più pensare il piatto osso temporale e il corpo dell’osso che contiene gli organi uditivi come un unico osso, non appena la loro diversità, forma e destinazione ci saranno risultate una buona volta veramente chiare. Non descriveremo più l’osso occipitale, che è composto da un osso piatto e da tre ossa che si avvicinano alla forma delle vertebre, e l’os ethmoideum, anch’esso suddiviso in più parti, come ossa singole e intere, bensì come ossa composte, e daremo piuttosto a ciascuna parte un nome e una designazione particolari. So che a questo proposito si può sollevare l’obiezione per cui una ripartizione simile e così precisa non sarebbe necessaria, visto che anche senza di essa, con il metodo finora impiegato, sono state già incidentalmente rilevate simili composizioni di un osso assunto come unico, e dunque una tale innovazione produrrebbe solo una confusione nociva. A una tale obiezione al momento posso solo rispondere che, per quanto questo metodo possa mostrarsi sufficiente allo scopo ultimo finora perseguito, esso ostacola tuttavia il progresso della scienza. Così non si negherà almeno che, tramite il metodo impiegato finora, l’attenzione degli studiosi sia stata sviata piuttosto che richiamata su tali sezioni ossee. Se dunque in ciò che segue si mostrerà che il vero e proprio tipo generale può essere elaborato solo a partire dalla conoscenza più esatta di queste sezioni ossee, e solo in tal modo può infine emergere il momento spirituale della comparazione, si spera che la causa […] secondo capitolo Idea generale di un tipo Tronco, spina dorsale, sterno. Lunghezza e forma della prima, brevità e debolezza del secondo.

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Capo parte superiore. NB. Vera e propria base per l’esistenza della vita, coerente in se stessa. Ausilio per la vita. Mascella inferiore, braccia, piedi. terzo capitolo Il fatto che l’attenzione con cui abbiamo esaminato le singole parti della struttura ossea non sia un vano cavillo, si mostrerà ora con evidenza se presenteremo delle riflessioni più precise. Possiamo affermare non solo che la struttura ossea di tutti i mammiferi, per limitarci dapprima a questi, è formata nel complesso in base ad un unico modello e concetto, ma anche che le singole parti si trovano in ciascuna creatura; spesso tuttavia, quanto alla loro forma, misura, orientamento, nonché per la loro più precisa congiunzione con altre parti, si sottraggono al nostro sguardo e restano visibili soltanto al nostro intelletto. Tutte le parti, lo ripeto, sono presenti in ciascun animale; solo, il nostro sforzo e il nostro acume devono indagarle e scoprirle, ma quel concetto rappresenta il filo di Arianna. Dare e togliere. Legge generale della formazione.

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[Sulla teoria della comparazione]138

prima sezione. saggio di osteologia generale Anche se si è sempre ritenuto naturale iniziare la considerazione del cranio umano con l’osso frontale, in quanto la sua forma caratterizza in massimo grado la natura umana, noi troviamo, diversamente, che sia necessario volgerci ad un altro metodo se vogliamo descrivere il cranio animale, ed è l’osservazione che ci fornisce a questo scopo una guida. Infatti, possiamo considerare l’animale per il modo in cui tiene la testa, in una condizione libera, oppure porci di fronte il suo cranio per osservarlo; in ogni caso troviamo particolarmente evidenti gli organi tramite cui l’animale si procura il nutrimento139. 1. L’osso incisivo 140 Nello scheletro preparato della testa dell’animale notiamo in primo luogo quell’osso grazie al quale esso afferra il suo nutrimento. A questo punto mi permetto di inserirlo tranquillamente nel tipo generale, poiché ora è riconosciuto anche all’uomo, mentre per lungo tempo era sembrato nascondersi ostinatamente anche agli osservatori più acuti. Quest’osso è notevolissimo per chiunque analizzi la forma degli animali, poiché in base ad esso evidentemente è possibile in certo senso accostare e classificare gli animali. Il rapporto che l’animale ha con il suo nutrimento diventa immediata-

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mente evidente grazie alla forma e alla funzione di quest’osso141, che determina se l’animale debba e possa strappare e brucare tranquillamente l’erba, oppure rodere corpi più duri, oppure catturare e far proprie con la forza creature viventi. Ora, poiché quest’osso è supportato, in tutte le sue funzioni, dalla mascella superiore che gli è contigua, e poiché è necessario che ci sia una generale armonia in tutte le parti di un essere vivente, si può concludere, già quasi unicamente in base a quest’osso, quale sia il modo di vita che conduce un certo animale, dal momento che in generale la suddivisione per cui si classificano gli animali in base alla loro dentatura è per lo più naturale, e questo può almeno facilitare non poco l’analisi. Si tratta di un osso duplice, che consiste di due metà del tutto identiche, che si riuniscono all’estremità anteriore dell’intera struttura animale, costituendo così in certo senso la chiave di volta dell’intero edificio. Ma per descrivere ora le forme altamente diversificate di questa struttura in modo adeguato, si potrà dividere l’intero in tre elementi: il corpo, l’apofisi mascellare e l’apofisi palatina, che costituiscono delle parti sempre presenti, per quanto la loro forma sia così variabile che nella stessa zona, capita di trovare in un animale un margine proprio nel punto in cui in un altro animale ci si trova a descrivere una superficie. Il corpo è costantemente la parte anteriore, e contiene i denti incisivi, qualora l’animale ne sia provvisto; in caso contrario, il corpo è piatto, e in basso è in forma di spatola, come nel bue, oppure si annulla quasi del tutto, come nel capriolo, se gli incisivi ci sono, e in tal caso il corpo si conforma per lo più ad essi; nei roditori esso si presenta come una leggera lamina appuntita, a cui sono fissati i lunghi denti aguzzi; nei carnivori, che possiedono più incisivi, esso inizia a meritare il nome di corpo, diventa forte, saldo, e sorregge la possente fila di denti. Si presentano poi dei casi in cui tale corpo è più robusto degli incisivi che vi crescono, e la sua forma non muta dunque per la loro azione. Così accade all’osso incisivo del Trichecus rosmarus, nella cui forma pesante e goffa sono fissati dei denti piuttosto piccoli, senza mutarla minimamente. L’apofisi palatina di quest’osso è rivolta all’indietro, ed è salda sia nelle sue parti sia nella sua connessione. Essa si unisce dapprima con l’osso che le si trova appaiato, e forma una scanalatura più o meno marcata, atta ad accogliere il setto nasa-

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le, che si collega, nella parte posteriore, con l’apofisi palatina della mascella superiore. I canali sono sinuosi. Questo prolungamento talvolta si presenta come una semplice spina, come nel capriolo, talvolta come un corpo più robusto, altre volte ancora come una superficie vera e propria; allo stesso modo, la scanalatura formata da quest’apofisi tende a volte ad annullarsi, a volte si mostra come una scanalatura marcata, altre volte ancora produce addirittura, all’estremità del canale, un vaso profondo. Altrettanto consistente è la presenza del processo nasale, anche se quest’ultimo tende a modificare ciò che si trova in sua prossimità con la sua estremità posteriore e superiore. Tale processo connette l’osso con la mascella superiore e con l’osso nasale, in quanto il suo vertice superiore e posteriore si inoltra tra l’una e l’altro. Nella struttura della lepre si può notare un caso singolare: questo processo si prolunga in una punta molto aguzza, separa del tutto la mascella superiore dall’osso nasale e, dopo essere passato davanti all’osso lacrimale, si collega alla spina nasalis dell’os frontis. Ho visto un caso altrettanto notevole nel cranio di un orso polare: la spina nasalis dell’os frontis si spinge con una punta acuminata all’indietro e in avanti, il processus maxillaris dell’os incisivum si spinge verso l’alto e all’indietro con altrettanta nettezza, finché entrambi non si incontrano al centro in un vertice molto delicato. In tal modo l’osso nasale è separato parimenti dalla mascella, e ci offre il primo esempio di quegli alterni collegamenti e intrecci di cui abbiamo parlato in precedenza. In questa sede non è possibile analizzare ciò che nella struttura animale si trova connesso a quest’osso nella parte superiore, poiché carni e cartilagini esulano dalla trattazione osteologica. 2. Maxilla superior. Mascella superiore Per descrivere in termini generali e adeguatamente la forma di quest’osso è necessario allontanarsi dalla sua suddivisione consueta; lo si esaminerà e confronterà nel modo migliore se si definirà corpo quella parte degli alveoli in cui si trovano sia i molari sia il canino, assumendo l’esistenza di due pareti, una delle quali costituisce la faccia, l’altra il palato: esse si incontrano in basso in un angolo retto, formano gli alveoli e, nel

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punto in cui si incontrano, sorge ciò che desideravo chiamare corpo. I lati interni di tali pareti possono costituire immediatamente le pareti interne del naso, oppure possono estendersi verso l’esterno nella zona degli incisivi mediani, dove si unisce una terza piccola parete, a partire dalla zona del canino, e concorre a formare la parte anteriore dell’antrum Highmori, che del resto in questo caso è racchiuso dai padiglioni auricolari inferiori. 3. Os zygomaticum Quest’osso si colloca sempre al margine superiore della superficie facciale della mascella superiore, ed è rivolto all’indietro; la sua superficie esterna forma una parte della guancia, più o meno sporgente, mentre un’altra superficie, che forma con questa un angolo, costituisce una parte della cavità oculare. Il margine in cui le due superfici si incontrano costituisce sempre una parte del margine oculare, al di sotto dell’angolo esterno dell’occhio. Altrettanto costante è l’apofisi dell’osso che si prolunga verso l’osso temporale; tramite tale apofisi l’osso zigomatico si congiunge sempre con quello temporale, e questo è uno dei collegamenti costanti nella struttura del cranio animale. In riferimento a ciò occorre notare che le apofisi delle due ossa menzionate sembrano, in alcuni animali, connesse tramite un osso intermedio, estremamente evidente nello scoiattolo e nella donnola, in cui l’osso zigomatico non è collegato a quello frontale. La connessione tra l’osso zigomatico e quello frontale si espone a molte variazioni: il collegamento può avvenire nel modo sopra esposto oppure può non presentarsi affatto. Solo che, a questo proposito, si danno diversi casi: può darsi cioè che non vi sia traccia di un processus frontalis nell’os zygomaticum, oppure che non vi sia traccia di un’apofisi zigomatica nell’osso frontale; talvolta invece sono presenti entrambe le apofisi, che tuttavia non si toccano e sono collegate tra loro solo tramite dei legamenti, come nelle specie del gatto e del cane. Talvolta esse si connettono effettivamente tramite una vera sutura, ma hanno un’ampiezza limitata e mostrano la cavità oculare aperta nella parte posteriore, come negli ovini.

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Infine, queste apofisi si ampliano in una forma tale da giungere fino allo sfenoide collegandosi ad esso, e chiudendo le orbite, grazie a tale connessione. Ancora in virtù di questa connessione sorgono casi anomali o ambigui, che possono presentarsi solo nei cranî delle scimmie: il processus sphenofrontalis dell’osso zigomatico si collega o sembra collegarsi alla parte squamosa dell’osso temporale, oppure all’angolo inferiore delle ossa parietali. Al contempo, occorre notare ancora un caso: nei cranî equini l’apofisi zigomatica dell’osso frontale sembra congiungersi con quella dell’osso temporale e non con l’apofisi frontale dell’osso zigomatico. Ciò si può spiegare tuttavia con l’osservazione che abbiamo appena svolto, vale a dire notando che tra le apofisi dell’osso zigomatico e di quello temporale si trova un altro osso intermedio, che dà luogo probabilmente all’apofisi frontale dell’osso zigomatico. Ora, se questa apofisi si salda all’osso temporale senza unirsi all’osso zigomatico, allora l’apofisi zigomatica dell’osso frontale sembra collegarsi a quella dell’osso temporale. L’osso zigomatico non è connesso in alcun modo a ciò che nel cranio umano si definisce osso lacrimale, e ciò accade a maggior ragione negli animali, come apprenderemo tra poco. 4. L’osso lacrimale Dobbiamo fare completamente astrazione dal concetto che ci fornisce l’osso lacrimale umano, se vogliamo conseguire un’idea chiara dell’osso lacrimale degli animali. Se già nella nostra descrizione abbiamo posto alla base la mascella superiore, fissando ad essa l’osso zigomatico, ora dobbiamo, per presentare l’edificio secondo l’ordine naturale, innalzare e descrivere l’edificio animale, e solo allora, grazie a tale descrizione, vedremo compiutamente costruita la struttura principale della mascella superiore. Il procedimento migliore sarà quello di suddividerla nella parte facciale e in quella orbitale, e immediatamente noteremo il margine in cui queste parti si incontrano. La parte facciale si incontra in alto sempre con l’osso frontale, e in basso con la mascella superiore, mentre lateralmente e posteriormente si congiunge all’osso zigomatico. Nei casi in cui l’apofisi frontale della mascella superiore

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non si unisce alla fronte, questa parte dell’osso lacrimale prosegue fino all’osso nasale, come nei cavalli, nei buoi e nei maiali, oppure resta al suo posto una fontanella142, come nelle pecore e nei cervi. Questa parte dell’osso è piatta e presenta uno spessore sottile o nullo. Allo stesso modo in cui il suo lato esterno forma una parte della faccia, così il suo interno concorre a coprire l’antrum Highmori. Il margine di quest’osso forma il margine inferiore dell’orbita, insieme al margine dell’osso zigomatico, al quale è immediatamente contiguo. In alcuni animali la mascella superiore giunge fino a tale margine, ma non si spinge mai fino alla cavità oculare, e a maggior ragione non costituisce mai, come avviene invece nell’uomo, un planum orbitale. Nelle scimmie essa spinge indietro, in certo senso, l’osso lacrimale nell’orbita, e tuttavia non sembra separarlo dall’os zygomaticum. In questo margine si situano una o più aperture, che sembrano penetrare fino all’antrum Highmori e fino alla cavità nasale, e oltre ad esse, nella parte orbitale di quest’osso, si trova ancora un’apertura cava o cieca, che sembra definire il vero e proprio percorso delle lacrime. La seconda parte di quest’osso, quella orbitale, si presenta in particolare in quegli animali in cui l’intero osso appare grande e visibile, nel luogo che nell’uomo è occupato dal planum orbitale della mascella superiore. Questa seconda parte è generalmente più debole o più piccola di quella facciale, nei casi in cui sono presenti entrambe. In base alla sua natura, è fragile come carta e in alcuni animali mostra una piccola sacca nella parte posteriore, simile al cornetto mediano di animali affini. Talvolta quest’osso arretra a tal punto nella cavità oculare da rubare alla mascella superiore tutta la parte che essa assume nella costituzione dell’orbita tramite l’appendice dentaria. [5.] L’osso palatino Anche nella descrizione di quest’osso cerchiamo di approssimarci quanto più possibile a quella dell’osso palatino umano, benché, per giungere al grado della generalità, dovremo discostarcene anche in questo caso in diversi punti. Nella parte orizzontale notiamo due superfici: una è rivol-

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ta verso il palato, l’altra concorre a formare la base del naso. Il loro lato anteriore è ruvido e si collega all’apofisi palatina della mascella superiore, quello posteriore è per lo più liscio, anche se curvato e dentellato in diversi modi. Quello interno è il margine più robusto, è anch’esso ruvido e permette l’unione delle due ossa palatine. Il margine esterno si perde invece nel processus alveolaris, di cui verremo presto a parlare. Rispetto alla parte perpendicolare osserviamo: [1.] La superficies nasalis, che concorre a costituire la parte interna della cavità nasale, e a cui giungono più o meno vicine la concha inferior e media. 2. la superficies maxillaris, che è rivolta verso la mascella superiore, e può saldarsi completamente ad essa oppure distanziarsene in misura maggiore o minore. Non è possibile descrivere i margini della parte perpendicolare, poiché sono tutti celati dalle apofisi, al di sotto delle quali si nota in particolare un processus communis, che devo senz’altro descrivere e definire con particolare attenzione. Esso sorge nel punto in cui le due parti si incontrano orizzontalmente e perpendicolarmente, e si collega sempre alla superficie laterale degli alveoli della mascella superiore, ragion per cui gli attribuisco il nome di processus alveolaris. Quest’ultimo possiede la caratteristica di essere attraversato dal cosiddetto canalis pterygopalatinus, qualora sia presente, e per il resto l’osso può assumere la forma che vuole; più propriamente però credo di poter dire che questo canale si dirige verso il lato posteriore procedendo tra l’apofisi già menzionata e la superficies maxillaris della pars horizontalis, e attraversa dall’alto in basso la pars horizontalis. Tale apofisi è talvolta cava e contribuisce allo stesso tempo a chiudere il sinus maxillaris. Si nota che quella parte che altrimenti è chiamata processus nasalis è sul punto di fondersi insieme a questo processus alveolaris. Seguono ancora tre apofisi, proprie della pars perpendicularis. Il processus orbitalis, che sale verso l’alto a partire dal processus alveolaris, si prolunga fino all’orbita, giungendo più o meno a toccarla. Più indietro si trova il processus sphenoidalis, che forma sempre un canale, un’estremità del quale si connette ai cornus sphenoidales, mentre l’altra si collega al vomere. Queste due apofisi danno luogo al foramen sphenopalatinum.

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Il processus pterygoideus è rivolto interamente all’indietro ed è spesso solo un semplice margine; in seguito si tratterà del suo collegamento con i processus pterygoidei dell’osso sfenoide. In generale, quest’osso resta molto costante nelle sue parti, malgrado la loro forma e la loro relazione reciproca siano molto variabili; esso resta inoltre fedele ai suoi vicini, per quanto posso osservare. Il cranio in cui le parti appena descritte di quest’osso sono visibili è quello di un caprone. Riepilogo delle cinque ossa finora descritte Vogliamo adesso presentare le ossa finora descritte in un quadro complessivo, in parte per evidenziare le ragioni per cui le abbiamo presentate in quest’ordine, in parte per compararle tra loro, per quanto possibile, e in parte anche per osservare con un unico sguardo l’edificio fin qui costruito. Tra le cinque ossa che abbiamo progressivamente accostato, se ne trovano tre che possiedono un genere e una forma simili. L’os incisivum, la mascella superiore e l’osso palatino presentano tutt’e tre una parte orizzontale, e le tre rispettive parti orizzontali insieme costituiscono sia il palato sia la superficie della base del naso; tutt’e tre hanno una parte verticale, la cui superficie interna contribuisce a formare la cavità interna del naso; tutt’e tre presentano delle singolarità al margine in cui si collegano le due parti menzionate, in quanto su questo margine si trovano i denti, se l’animale ne è provvisto, che raramente mancano alla mascella superiore, più spesso invece all’osso incisivo, e sempre all’osso palatino. Insieme, queste tre ossa costituiscono propriamente la mascella superiore. La superficie che esse formano è chiamata palato, e sono, in base alla loro forma interna, tre ossa simili, costituite in modo diverso solo a causa della loro diversa determinazione. Al momento tralascio di trattare del loro rapporto con la mandibola, al di sopra della quale tali ossa si situano a mo’ di una copertura a volta. Verso l’alto formano di nuovo una base, e in seguito esamineremo quelle parti situate al di sopra di esse. Verso l’esterno le superfici esterne delle prime due parti

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formano la parte superiore della bocca e della guancia; ma per salire ulteriormente e formare il margine oculare inferiore dobbiamo far ricorso ad altre due ossa, che concordano nell’inserirsi nel margine superiore della mascella superiore, e nel costituire il margine inferiore e la superficie inferiore delle orbitae; esse inoltre escludono spesso totalmente la mascella superiore dal concorso alla costituzione del margine delle orbitae, accordandole soltanto una limitata partecipazione. Grazie al processus temporalis dell’os zygomaticum quest’osso accenna ad un collegamento con un altro osso, di cui potremo analizzare solo nel seguito le caratteristiche. Se ci poniamo ora di fronte agli occhi questo edificio, così come lo abbiamo presentato finora, un elemento accanto e sopra all’altro, notiamo immediatamente che a questo insieme manca sia un contenuto che una copertura. Passaggio all’osso da descrivere per primo 143 Si è già osservato in precedenza che la parte situata al di sopra dell’osso incisivo coincide propriamente con la cartilagine nasale, e dunque non rientra nella trattazione osteologica, in quanto non contiene in sé alcun’altra parte ossea. Per contro, le squame inferiori sono saldate alla mascella superiore, e coperte dall’osso nasale. Il tessuto lamellare e cellulare che si estende o si contrae in misura maggiore o minore nello spazio degli occhi, e che si dilata in avanti sotto la parte posteriore del naso, sotto le guance, scaturisce propriamente da una sezione anteriore dell’osso frontale, che lo copre anche in modo eccellente. Allo stesso tempo, l’osso frontale forma il margine superiore e la superficie superiore della cavità orbitale, mentre la sua camera interna ospita i lobi anteriori del cervello, che si dispongono sulle ali anteriori dello sfenoide. Prenderemo dunque in considerazione in primo luogo le seguenti ossa, nell’ordine sottoelencato: I cornetti inferiori Le ossa del naso I cornetti mediani L’osso etmoide Lo pterion

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Il setto Il vomere Il labirinto I cornetti superiori Le ossa della fronte Lo sfenoide anteriore. È noto che anche le ossa più piatte constano di due lamelle, tra le quali si trova uno spazio più o meno ampio, solitamente riempito da un tessuto osseo che appare ora simile ad una spugna (talvolta presenta una forma cellulare, talvolta è composto di lamelle piatte o contorte), ora invece ad una rete, oppure ancora ad un altro tessuto intrecciato, e che anzi in ossa molto cave giunge quasi a somigliare a dei fili isolati tesi da un lato all’altro. Vediamo che questo tessuto cellulare non cresce nella stessa misura in cui cresce l’osso, poiché le ossa che durante la giovinezza ne sono riempite diventano cave con l’avanzare degli anni, e di conseguenza sembra che i fili di un simile tessuto cellulare abbiano solo una certa misura, oltrepassata la quale si lacerano e vengono in certo senso inglobati dall’ulteriore crescita dell’osso. Ora, così come verso l’interno l’osso può avere struttura cellulare o essere cavo, così vediamo che verso l’esterno, e in ogni direzione, esso diventa tanto più solido e liscio quanto più la creatura avanza negli anni. Certo, si creano qua e là delle aperture, per consentire il passaggio di nervi e arterie, e solo in un lato sembra che la natura si preservi, in presenza di tali aperture, grazie a delle superfici lisce e solide; inoltre tali fori sono isolati e irregolari quanto a forma e dislocazione. Tanto più interessante dovrà risultare per noi quell’osso che è l’unico della sua specie in tutto il corpo: l’etmoide, in cui si assommano delle qualità singolari. Esso si può esaminare come un corpo osseo il cui interno è suddiviso in cellule in modo altamente regolare e netto, è formato da lamelle, che spesso negli animali si dilatano così enormemente da farne perdere quasi completamente il concetto. Al momento possiamo solo accennare tale concetto; in seguito, quando saremo in grado di confrontare il labirinto

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dell’etmoide con il corpo dello sfenoide, [si mostrerà] quale sia il fondamento di una simile opinione. Abbiamo detto, dunque, che nell’etmoide si trova una dilatazione del tessuto cellulare regolare e particolarmente determinata, ancorché molto grande; possiamo ora notare anche che una delle sue superfici presenta dei fori regolari, attraverso cui passano i nervi e i vasi sanguigni. La parte inferiore di questo corpo si salda immediatamente al corpo dello sfenoide. Il setto che lo separa al centro si prolunga e forma il vomere, mentre, in particolare nel cranio umano, lo chiudono le sue pareti laterali, molto sottili, e in tal modo si genera ancor più la forma di un corpo estremamente spugnoso, proprietà, quest’ultima, che si estende fino al suo rivestimento esterno. Negli animali quest’osso raggiunge un’estensione enorme, e possiamo notare che la proprietà di dividersi in lamelle e cellule regolari è stata conferita dalla natura solo ad alcune ossa: ciò rende pensabili e comprensibili i cornetti inferiori e mediani, i primi dei quali sembrano evidentemente svilupparsi sulla mascella superiore. Tuttavia, al momento di tutto ciò possiamo dare solo un accenno, mentre tra le pagine che seguono, quando avremo costruito l’intero edificio delle ossa, questi concetti potranno finalmente essere sviluppati e confermati in virtù della comparazione. [6.] L’osso frontale Esaminando le ossa frontali di vari animali, analizzandole e cercando di stabilire il loro carattere generale, notiamo ancora una volta la necessità di allontanarci completamente dal concetto che in noi ha impresso l’osso frontale umano. Anzitutto occorre notare che quest’osso è in realtà un osso appaiato, e ciascuna parte, ciascuna metà, può essere considerata singolarmente. Esaminiamo dunque un simile osso frontale singolarmente, e analizziamolo in sezione dall’interno: vediamo che esso forma internamente due camere, una delle quali, quella poste-

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riore, ospita i lobi cerebri anteriores, mentre quella anteriore ospita il labirinto dell’etmoide. La cresta e la superficie dell’etmoide conferiscono a queste due camere una forma notevolissima. Infatti è possibile notare con grande chiarezza, nell’osso frontale, la lamina ossea interna ed esterna, nonché, tra le due, la diploe. La cresta o dorso dell’etmoide, che in basso è collegata all’os sphenoideum, si congiunge alla lamina interna dell’osso frontale saldandola fermamente, e assume, in direzione del naso, la forma di una volta, che separa la camera posteriore da quella anteriore. Tuttavia, con l’ulteriore crescita della lamina ossea esterna in linea retta, si creano dei sinus frontales più o meno grandi. Davanti e al di sotto della cresta dell’etmoide la lamina inferiore si innalza ancora verso l’alto congiungendosi di nuovo con la lamina superiore all’estremità esterna della fronte in direzione del naso. In tal modo dunque si formano i sinus frontales anteriores, mentre la lamina inferiore, connessa sia all’indietro che in avanti con quella superiore, è bloccata dalla cresta dell’etmoide e separata dalla lamina superiore. Questa connessione tra l’os ethmoideum e la lamina inferiore ha luogo talvolta dietro, talvolta invece davanti alla metà dell’intera volta dell’osso frontale. Nel primo caso, naturalmente la camera posteriore assume dimensioni più ridotte, nel secondo le assume la camera anteriore; nel primo caso è in particolare il labirinto ad occupare uno spazio molto grande. Dunque, in riferimento a ciascun osso frontale che prenderemo in considerazione, osserveremo e descriveremo dapprima le proporzioni di queste due camere, della cresta dell’etmoide e dei sinus frontales anteriores che ne scaturiscono. Il secondo effetto notevole che si osserva sull’osso frontale è causato dalla sua connessione con l’osso zigomatico: quanto più tale connessione è effettiva, e quanto meno numerosi sono i legamenti che si trovano tra i due, tanto maggiore è la quantità di materia ossea che l’osso frontale deve produrre per formare il processus zygomaticus, tanto maggiore è la violenza che ha subìto, e tanto maggiore la resistenza che ha dovuto esercitare. Ora, qui ricorre proprio il caso opposto, e la lamina esterna dell’osso è assorbita, mentre quella interna aderisce al cervello, anche in virtù della sua particolare crescita. Sorgono così i sinus frontales laterales, che formano uno spazio cavo al

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di sopra degli occhi, estendendosi fino al processus zygomaticus ossis frontis. La terza osservazione che dobbiamo svolgere esaminando un osso frontale è la seguente: occorre chiedersi se la prossimità degli occhi eserciti o meno un influsso sulla sua superficie interna. In caso affermativo, ciò avviene sempre là dove l’osso frontale è connesso con l’ala dello sfenoide. L’intera superficie dell’osso frontale subisce una pressione più o meno forte verso l’interno, e risulta più o meno ostacolata la libera crescita dell’ala dello sfenoide. Allo stesso tempo, anche questa pressione agisce su entrambe le superfici laterali dell’etmoide, che vengono compresse, finché si produce una forma simile a un imbuto, costituita dai lati opposti e convessi delle cavità oculari, alla cui base si trova l’etmoide, molto ristretto. In parecchi animali la prossimità degli occhi non ha alcun effetto sulla cavità frontale interna, i lobi anteriori del cervello si estendono liberamente, le ali posteriori dello sfenoide anteriore crescono liberamente, e l’etmoide si trova non in profondità, ma sulla superficie libera della camera posteriore dell’osso frontale. Questo caso si può osservare nel cranio del cavallo, in cui gli occhi sporgono molto in avanti e sono molto distanti fra loro. Il caso opposto a quello appena menzionato, invece, in cui l’etmoide è molto ristretto e compresso sulla base di un infundibulo, si mostra nella scimmia. In futuro poi l’esercizio della comparazione fornirà altri esempi e determinazioni intermedie. Ancora una connessione degna di nota è quella tra l’osso frontale e l’ala posteriore dello sfenoide, della quale però si potrà parlare solo in seguito. Le ossa parietali incontrano l’osso frontale in un modo analogo, e anche riguardo ad esse potremo esporre le dovute considerazioni solo in seguito. È possibile ora, in base a ciò che si è detto, descrivere agevolmente la forma generale di quest’osso. L’osso frontale è una sorta di guscio a conchiglia, le cui due valve sono separate l’una dall’altra in un modo singolare, mentre la loro costituzione viene modificata nei modi più vari ad opera delle parti molli che si trovano ad esse contigue. Le facce dell’osso frontale, in ragione di queste due determinazioni, si differenziano molto dalle ossa parietali, che non contengono mai delle cavità e, per quanto siano determinate dalle ossa

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adiacenti, non ne risultano modificate in così tanti modi. Il dorso dell’etmoide e il processus falciformis ad esso collegato formano una camera interna e posteriore, su cui agisce in misura più o meno grande la prossimità degli occhi. La camera anteriore, che è riempita dal labirinto dell’etmoide, così come i sinus frontales, si forma in tal modo da sé. La camera anteriore può mantenere la sua intera estensione, come avviene nella maggior parte degli animali, oppure essere compressa più o meno dalla vicinanza degli occhi. La sproporzione maggiore tra le due camere si trova nell’uomo, in cui la camera interna è del tutto preponderante, mentre quella esterna è interamente rimossa dal suo luogo e totalmente annullata, di modo che anche le cavità frontali non possono essere comprese, nell’uomo, senza premettere quella considerazione e osservazione. [7.] L’osso sfenoide È universalmente nota la singolarità della forma di quest’osso, la difficoltà che si presenta nel descriverlo, e nel comprendere il suo collegamento con le altre ossa. Nell’analisi della forma degli animali incorreremmo poi in confusioni ancora maggiori se non fosse la natura stessa a chiarirci l’enigma. Quest’osso, infatti, si divide già nell’uomo in numerose parti; quelle laterali, che conosciamo con il nome di grandi ali e di apofisi pterigoidee, si distinguono dal corpo, e dunque quest’osso sembra consistere di cinque parti. Solo che ci resta ancora celata la sua caratteristica peculiare, poiché non possiamo osservare che il corpo consiste a sua volta propriamente di due parti. Possiamo essere portati a supporre che le cose stiano così se sezioniamo il corpo in due parti nel senso della lunghezza: troviamo allora un setto che separa la parte posteriore dell’osso da quella anteriore. Tale setto è però così sottile, e il corpo è unito ad una parte in modo così preciso, che non riusciamo quasi a sospettarne l’esistenza. Fortunatamente la natura ci offre un chiarimento, nel caso degli animali. In esemplari giovani, infatti, non solo troviamo che il corpo di quest’osso è diviso in due parti, collegate tra loro mediante una cartilagine, ma possiamo notare anche l’ulteriore dispiegamento delle al-

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tre sue parti. Anzi, perfino in animali più adulti il corpo dello sfenoide posteriore aderisce spesso alla pars basilaris dell’osso occipitale, se il corpo di quest’ultimo si può ancora separare facilmente da quello dello sfenoide anteriore. In questa sede però manterrò il nome di sfenoide, per non introdurre inutilmente una nuova terminologia; sono costretto soltanto ad assumere due di queste ossa, che tengono separata la base del ventricolo cerebrale, come due cunei spinti l’uno contro l’altro. In base al metodo che ho elaborato e che deve essere giustificato, descrivo qui soltanto lo sfenoide anteriore, poiché possiede effettivamente un rapporto più importante con la fronte. Tale sfenoide consiste di un corpo che in generale potrà essere confrontato con quello della vertebra. Se lo si seziona trasversalmente, si presenta di forma triangolare, diversamente dal corpo dello sfenoide posteriore, che appare piuttosto quadrangolare; entrambi presentano in alto, dove poggia il cervello, le loro superfici più estese, soltanto che il corpo dello sfenoide anteriore si mostra in basso più appuntito che piatto, e si approssima alla forma del vomere, la cui parte posteriore già si salda ad esso. Sulla sua superficie superiore questo corpo possiede sempre i foramina optica, più o meno accostati: da ciò si vede come esso si avvicini alla parte dell’os sphenoideum umano, a cui sono fissati i processus clinoidei. In avanti la superficie del corpo si lega in vari modi con l’os ethmoideum. Al di sopra dei foramina optica si estende un paio di ali su entrambi i lati, verso l’alto e lateralmente, che, nel loro dispiegamento, si alternano in avanti e all’indietro; ma su questo si dovranno fornire ulteriori informazioni più dettagliate nel seguito. Si tratta delle grandi ali, solitamente presenti in entrambi gli sfenoidi. Tali ali si collegano preferibilmente con l’osso frontale, con i loro margini anteriori e laterali, e si congiungono sul lato posteriore, con un accostamento più o meno marcato, alle ali dello sfenoide posteriore, e contribuiscono a formare il margine su cui si situa anteriormente l’etmoide; allo stesso modo poi formano, con le ali posteriori, la fissura orbitalis anterior. Esse fungono inoltre più o meno da letto per i lobi cerebrali anteriori, dunque si può vedere che prendono interamente il posto delle piccole ali o delle cosiddette appendici ensiformi. Dal corpo, e al contempo dall’estremità anteriore bassa di

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queste ali, si dipartono un paio di appendici che, per quanto assumano le forme più varie nei diversi animali, pure contribuiscono per lo più a formare una sorta di cavità in direzione dell’etmoide. Io le chiamerei processus anteriores o ethmoidei ossis primi cuneiformis. Sul corpo di quest’osso si situano, verso il basso e all’indietro, un paio di appendici che assumono forme molto diverse, pur concordando sempre nel fatto di possedere una forma piatta e nel mostrare un appoggio ridotto sul corpo dell’osso: esse si spingono piuttosto sempre al di sopra del corpo dello sfenoide posteriore, collegandosi con l’osso palatino per formare l’hamulus pterygoidei; da ciò si evince dunque che esse rappresentano le appendici interne dello sfenoide umano. Nel seguito occorrerà riprendere diversi dettagli al riguardo. Questo sfenoide anteriore, dunque, concorre a chiudere la fronte sul lato inferiore e posteriore; i suoi collegamenti sono facilmente visibili, la sua forma è semplice e, anche ad un confronto con la struttura umana, tale suddivisione che la natura ci mostra costituisce pur sempre un chiarimento piuttosto che una complicazione. Se osserviamo nel suo complesso l’edificio che abbiamo finora costruito, possiamo procedere a confrontare tra loro le sue parti, rendendo anche più vive, grazie alla forza viva del giudizio, le cose che finora abbiamo semplicemente giustapposto. Nella nostra prima ricostruzione avevamo individuato tre ossa che sembravano della stessa specie e che si potevano disporre uno sotto l’altro. Allo stesso modo troviamo anche oggi che parti piuttosto distanti si possono comparare tra loro. Infatti, l’osso frontale e quello nasale hanno in comune la caratteristica di essere delle ossa piatte, coperture delle parti sottostanti, malgrado non sembrino quasi comparabili in base alle loro dimensioni. Il labirinto e i cornetti sono affini nella struttura, nel tessuto e nella destinazione. Lo sfenoide anteriore si può in certo senso confrontare con l’etmoide, come è già accaduto e come si continuerà a fare più nel dettaglio. Qui introduciamo una sezione, che si può giustificare sia in base all’involucro, sia in base a ciò che esso contiene. Sulla parte anteriore dello sfenoide, sull’etmoide, sotto la

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copertura della volta interna dell’osso frontale, poggiano i lobi anteriori del cervello. Da questa stessa zona hanno origine i nervi principali dei sensi anteriori, e ormai possiamo volgerci alla seconda sezione del cranio, semplice e più facile da concepire e da connettere in avanti e all’indietro. [8.] Lo sfenoide posteriore Quest’osso concorda in tutte le sue parti con lo sfenoide anteriore: possiede un corpo, un paio di ali, che si estendono verso l’alto e lateralmente e, nel punto in cui sono fissate al corpo, si trova un paio di aperture, che nell’uomo sono chiamate foramina rotunda, mentre in avanti e verso il basso si mostra un paio di processus. Soltanto, sembra che gli manchino quelle appendici che abbiamo osservato nello sfenoide anteriore. Lateralmente le ali si possono confrontare con le grandi ali dello sfenoide umano, e sono ora più grandi ora più piccole delle appendici alari dello sfenoide anteriore. In avanti si connettono spessissimo alle ali dello sfenoide anteriore, chiudendo in tal modo la fissura anterior. In avanti e in alto si collegano con un angolo dell’osso frontale e, nella stessa zona, con l’osso zigomatico, nell’uomo e nella scimmia. All’indietro si connettono con l’osso parietale, con quello temporale e con la rocca petrosa. Le appendici anteriori e inferiori si legano alle appendici posteriori dello sfenoide anteriore, che in alcuni animali sembrano pertinenti sia all’uno che all’altro corpo. I foramina rotunda si possono pienamente confrontare, in base alla loro posizione e relazione, con i foramina optica, salvo che non sono mai tanto accostati quanto quelli, e anche là dove presentano le dimensioni maggiori si tengono più distanti l’uno dall’altro. Inoltre, non sembrano altrettanto consistenti, e quanto meno non si trovano nel cranio del maiale. Il lato superiore del corpo presenta sempre una forma simile alla sella turcica, la superficie posteriore si collega alla pars basilaris ossis occipitis, e spesso aderisce ad essa con tale precisione che è impossibile separarle, mentre lo sfenoide an-

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teriore si può ancora separare da quello posteriore con grande facilità. [9.] L’osso temporale Considereremo qui, sotto questo nome, solo la cosiddetta parte squamosa dell’osso temporale umano, dal momento che, secondo il metodo che seguiamo, appartiene alla regione mediana, poggia sullo sfenoide posteriore e sostiene la volta delle ossa parietali, come parete laterale. Nell’osso temporale notiamo in primo luogo la squama. La bella forma piatta che essa mostra nell’uomo non compare in alcun animale; piuttosto, assume forme molto diverse. Il suo margine superiore si collega all’osso parietale, quello inferiore allo sfenoide posteriore; delle altre sue connessioni tratteremo più avanti. Nella parte inferiore della squama, in avanti, si trova il processus zygomaticus, dalla cui parte inferiore e posteriore scaturisce il processus articularis. Questa parte, che nell’uomo coincide con una semplice e modesta protuberanza, e che si approfondisce ad opera della fossa mandibolare situata immediatamente davanti, merita una particolare considerazione. Appena dietro il processus articolaris si trova un arco, sotto il quale il condotto auditivo esterno penetra in quello interno. L’altra estremità dell’arco è costituita da quello che io chiamo processus mammillaris. Più avanti si mostrerà come la parte che negli animali deve essere sempre indicata con questo nome non debba essere confusa con quella che nell’uomo appare all’incirca nella stessa zona. Solitamente in quest’osso si trovano diversi fori. L’apertura mediana è situata sempre al di sotto dell’arco, talvolta conduce ad una piccola cavità propria e si connette con le altre aperture. Un altro foro si apre all’indietro e attraversa il processus mammillaris, mentre un altro paio attraversano il processus zygomaticus. Tali forami sono tutti casuali, e possono essere tutti assenti oppure semplicemente accennati. Nell’uomo e nelle scimmie essi sono considerati emissaria santorini, mentre negli altri animali si mostrano più grandi; i vasi che vi passano attraverso dovranno essere esaminati più da vicino.

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[10.] L’osso mammillare Anche quest’osso non deve essere paragonato all’appendice mammillare umana; generalmente gli animali non possiedono un processo mammillare, e non si deve in nessun modo confondere la cavità in cui si trova la cassa timpanica con il processo mammillare dell’uomo. Anche se al primo sguardo, in particolare nel maiale, si può essere fuorviati, un’osservazione più ravvicinata ci condurrà immediatamente sulla strada giusta. Già in ragione del fatto che nell’uomo il processo mammillare è prodotto solo dai muscoli mentre negli animali più giovani si trova già l’osso mammillare, si può congetturare che questa parte sia molto importante e fondamentale negli animali. Se inoltre notiamo che a così tanti animali mancano le clavicole, nonché il processo sterno-cleido-mastoideo, che conduce verso l’osso temporale, non si vede come una simile parte potrebbe mai essere prodotta dai muscoli. Ora, se osserviamo questa parte più da vicino, troviamo che spesso essa si presenta come una cavità che si estende in forma arrotondata; talvolta appare in forma di borsa, talvolta in forma di mammella; in tal caso è riempita all’estremità di un tessuto cellulare, qualora la cassa timpanica sia molto piccola. È il caso del maiale, che ha indotto a confondere questa parte con il processo mammil­ lare. In parecchi animali è possibile separare completamente quest’osso da quello temporale e dalla rocca petrosa. È quasi impossibile descrivere il singolare intreccio con cui queste tre ossa sono tenute insieme. Il carattere vero e proprio di quest’osso è il seguente. Il condotto uditivo esterno con i suoi canali più allungati conduce all’interno dell’osso, in cui si trova la protuberanza, generalmente ad anello, a cui è fissata la membrana del timpano. All’interno quest’osso è più o meno cavo e contiene delle sezioni che assumono all’incirca la forma di una conchiglia o di una chiocciola. Si può notare che questo corpo assume una forma variamente modificata a seconda della forza dell’azione che il processus styloideus esercita su di esso. Infatti, il lato esterno di quest’osso forma il setto osseo, attraverso cui penetra il processus styloideus, per stringersi poi

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attorno ad esso in misura maggiore o minore. Dunque dalla sua forza e direzione dipende la trasformazione di una forma a vescica e a conchiglia in una a chiocciola: il processus styloideus è infatti ciò che costituisce l’asse della chiocciola e produce la sua torsione. All’estremità inferiore di questa cavità si vedono spesso alcuni processus spinosi, prodotti dall’azione di alcuni muscoli teneri. All’indietro poi tale cavità è sempre aperta, così da potersi connettere con l’osso successivo, come vedremo descrivendolo. [11.] La rocca petrosa Anche quest’osso è difficile da descrivere senza riferirsi al precedente. Lo dividiamo in due parti: una interna, verso l’osso temporale, e una esterna, in direzione dell’osso occipitale. Nella prima distinguiamo due lati, anteriore e posteriore. Quello anteriore si salda all’apertura della cassa timpanica, e contiene le diverse cavità del labirinto. Il lato posteriore si trova accostato al cervello, e nella sua cavità penetra il nervo uditivo. Varie altre cavità si presentano su questo lato, e dovranno essere osservate più attentamente. Questa parte deve essere denominata propriamente la parte più solida, in quanto consiste di un osso fisso, non riempito da alcuna struttura cellulare. L’altra parte dell’osso, rivolta verso l’occipite, si presenta più spugnosa, ed è disposta come un cuneo tra l’osso temporale, quello mammillare e l’occipitale; in tal modo la rocca petrosa è mantenuta al suo posto. Nella maggior parte degli animali essa compare di fianco all’osso occipitale, e giace al di sotto della linea elevata che si estende attraverso l’osso occipitale e parietale verso quello temporale. Si vede dunque che essa costituisce la parte piatta della pars mastoidea dell’osso temporale del cranio umano. Da essa si diparte il processus styiloideus, che costituisce propriamente un’appendice ossea smussata, in cui si pone un tendo, sul quale infine è posto il processus styloideus. Tale caso si presenta anche nell’uomo, per quanto qui generalmente lo spazio intermedio dei tendini sia solito ossificarsi. Come la

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rocca petrosa si connetta con l’osso mammillare tramite questa appendice, e come entrambe poi siano collegate all’osso temporale grazie all’appendice mammillare di quest’ultimo, di modo che il condotto uditivo esterno venga a trovarsi immediatamente al di sotto dell’arco, si può osservare nel modo migliore nel cranio di una capra, in cui le ossa non siano ancora saldate, poiché la struttura permette in tal caso di scomporre accuratamente queste tre ossa e di ricomporle di nuovo. Se ci si è esercitati nell’osservazione di questi ed altri animali, si sarà in grado di scoprire anche nel cranio umano queste tre fondamentali sezioni ossee, determinando i loro confini anche quando siano tenacemente saldate tra loro. [ulteriori descrizioni, a completamento della teoria osteologica] Prima vertebra cervicale. Atlante Prop. gen. formae. La sua forma diverge da quella delle altre vertebre, a causa della sua particolare destinazione: essa deve infatti articolarsi con la testa e connettersi poi con l’epistropheus, a sua volta configurato in modo peculiare. Corpus s. Arcus ant. È piuttosto robusto in alcuni animali, per quanto sia pur sempre più debole rispetto alle altre ossa vertebrali. Ad esempio nel cavallo, nella pecora, nel bue. Sulla superficie esterna presenta un tuberculum volto all’indietro. Nei carnivori è molto sottile e delicato, così come nell’uomo. Da rilevare un incavo semicircolare nel lato interno dell’arcus, la testa dell’epistropheus, nel maiale. All’interno impronta della testina144 dell’epistropheus in corrispondenza dei foramina che lo percorrono. All’interno fovea (for. coecum) pro ligamento transversali. Arcus poster. s. super. Piatto e largo, sia negli erbivori che nei carnivori. All’esterno una protuberanza gibbosa. Foramina che lo attraversano. Apophyses obliquae. Molto profonde. Arcus anter. e posterior producono entrambi, come si vede chiaramente nel ca-

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vallo, due processus, per formare queste cavitates glenoidales, rivolte in avanti. L’articolazione con l’epistropheus avviene attraverso le eminentiae condyloideae, che talvolta sono collegate da un piccolo rigonfiamento liscio. Le superfici articolari inferiori giungono fino all’interno, e per lo più non si vede alcuna impronta della testina dell’epistropheus. Le appendici laterali hanno forma di ali e sono rivolte verso il basso, procedendo all’indietro. Foramina che le attraversano. Dimensioni sproporzionate dell’atlante e dell’epistropheus rispetto alle altre cinque vertebre cervicali. Concrescenza. Epistropheus È più lungo di tutte le altre vertebre. Il corpo è lungo e robusto, e sul lato esterno ha una spina, in alto si articola con l’atlante in modo triplice: a) tramite due superfici articolari situate sul corpo. b) tramite l’appendice in forma dentata, che negli animali è a forma di canale, e che si mostra in certo modo incavata verso l’interno e all’indietro. NB. Queste tre superfici articolari si incontrano negli animali, mentre nell’uomo sono separate. L’articolazione inferiore con l’osso articolare successivo è semplice e cava. Il proc. spinos. presenta una crista, su cui si trovano le due superfici articolari (proc. obl. inferiores), destinate all’osso vertebrale successivo. Quaer.? In quali animali la crista raggiunge e supera la vertebra successiva? Quantum scio a proposito di carnivori e affini. Negli erbivori si spinge solo fino ai proc. obliq. inf. I processus transversales sono brevi e sottili, rivolti all’indietro (in basso), e corrono parallelamente al canale midollare dell’osso. Dietro di essi (tra questi e il corpo) penetra il canale per l’arteria vertebrale. NB. Collegamento della parte superiore della crista con il corpus sotto la superficie articolare anteriore tramite un’ap-

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pendice che somiglia ad un legamento ossificato. (Nel cavallo e nella pecora). In tal modo si genera un’apertura: cosa la attraversa? Terza vertebra cervicale. Vertebra colli tertia In un primo tempo assume la forma vera e propria di una vertebra cervicale, che le altre cinque mantengono, anche se con delle differenze molto caratteristiche. La terza vertebra cervicale è più corta della precedente, e più lunga rispetto alle altre vertebre cervicali, che scendendo lungo la colonna si accorciano sempre più, mentre le loro componenti diventano più larghe e robuste. È possibile constatarlo in maniera quanto mai perspicua negli animali dal collo lungo, mentre in altri dal collo corto questo rapporto non è così vistoso. Il corpo di questa vertebra è robusto e presenta una spina verso l’esterno (in avanti, in basso). Si articola con l’epistropheus tramite una superficie articolare rilevata, mentre si congiunge alla quarta vertebra tramite una superficie articolare incavata. I processus obliqui superiores e inferiores si trovano contigui ai cosiddetti sulculi del processus spinosus, i primi verso l’alto, i secondi verso il basso. I processus superiores e la loro superficie articolare sono più piccoli degli inferiores e delle relative superfici articolari. I processus transversales hanno forma di ali, e sono lunghi all’incirca quanto il corpo stesso. Ciascun’ala possiede a sua volta un’appendice: una più delicata, in alto e in avanti, che si incurva in prossimità del corpo, e una più robusta, all’indietro e verso il basso, che si allontana dal corpo, formando insieme ad esso le incisiones. Il processus perpendicularis talvolta è assente. Quando è presente, si mostra sempre più piccolo rispetto a quello delle successive vertebre cervicali, e si trova talvolta al di sotto della crista dell’epistropheus; nel castoro l’ho visto concresciuto con quest’ultima. Quarta vertebra cervicale. Vertebra colli quarta In generale è simile alla precedente, e tuttavia si nota la seguente differenza: è più corta, più larga e più robuste sono

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le sue componenti, nonché più coese rispetto a quelle della vertebra precedente. In particolare i processus transversales mostrano una modificazione: diventano più corti del corpo, quello anteriore si allarga e quello posteriore diventa particolarmente robusto. Il canale che scaturisce dietro questa vertebra diventa del pari più corto. Il processus spinosus diventa più alto, oppure il tuberculum che si trova al suo posto si irrobustisce. Quinta vertebra cervicale. Vertebra colli quinta La riduzione complessiva è ancora più marcata, in particolare quella dei processus transversi, le cui estremità anteriori si allargano progressivamente e in alcuni animali mostrano già una traccia di una nuova appendice, che si sviluppa chiaramente soltanto nelle vertebre successive. Sesta vertebra cervicale. Vertebra colli sexta In essa le appendici laterali mostrano una marcata forma ad ala: questa conformazione deriva dal fatto che in tal modo si libera dal corpo, e nella fattispecie dalle sue parti posteriori e inferiori, un’appendice, che poi si riunisce alle parti anteriori del processus transversus, che ci sono già note, per formare con queste ultime un intero e una sorta di piccola volta, al di sotto della quale corre la faringe, mentre la parte posteriore dell’appendice laterale, molto accorciata, si trova al di sopra del nuovo processo, unico nel suo genere. Il canale, nel frattempo, si è molto ridotto. Il processus spinosus, o il tuberculum che si trova al suo posto, continua invece a crescere. Settima vertebra cervicale. Vertebra colli septima La differenza rispetto alla precedente è molto grande. Il suo corpo è breve e contratto. Tra i processus transversi, quello alare, cui si è accennato in

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precedenza, è del tutto scomparso, mentre la sezione che finora ci è nota solo come parte posteriore e superiore è rimasta. Di fianco all’incavo articolare inferiore si osservano le impronte di due superfici articolari, che traggono origine dalla testa della prima costa. I processus obliqui superiores e le loro superfici articolari sono molto più grandi rispetto a quelli inferiori e alle relative superfici articolari. Il processus spinosus o il tuberculum che si trova al suo posto è qui il più grande, più robusto e il più alto di tutte le vertebre cervicali. Sternum Questa parte, che possiamo chiamare cresta toracica, in contrapposizione alla cresta dorsale, consta di parecchie ossa, il cui numero varia molto, da 10 a 5, e la cui forma si può dedurre senz’altro da quella delle vertebre toraciche, non appena osserviamo che queste ultime si trasformano progressivamente in vertebre caudali, e assumono una forma a falange. Tale forma si conserva in alcuni casi, per tutte le ossa dello sternum, in altri invece varia. Occorre proseguire le osservazioni effettuate, per poter definire un tipo tramite la gradazione. Mascella inferiore Nei mammiferi consta di due parti, che presto o tardi crescono saldamente insieme, anche se a volte ciò può non accadere affatto. La si annovera dunque tra le ossa appaiate e, una volta descritta una delle due, sarà stata descritta anche l’altra. Si divide ogni metà in corpo e rami, o ali. Il corpo contiene gli alveoli, mentre ciò che è notevole nell’ala è l’angolo inferiore a cui si attacca il muscolo massetere, il processus coronoideus e il pr. condyloideus. Con questa terminologia usciamo completamente dall’ambito dell’anatomia comparata dei mammiferi, e possiamo determinare con precisione soltanto lunghezze, larghezze, e soprattutto il bilanciamento delle parti.

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ti.

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Numero, forma dei denti. NB. Nel capitolo dedicato ai den-

Per contro, dobbiamo inoltrarci nel regno dei pesci e degli anfibi145 se vogliamo rendere evidente la costruzione del complesso composto da numerose parti. Ci si presenta sempre come un intero conformato in modo singolare e inspiegabile. La mascella inferiore del coccodrillo è anch’essa un osso appaiato, in cui ciascun lato consta di 5 ossa, dunque l’intera mascella ne contiene 10, che si trovano molto ben separate negli individui giovani. Tale suddivisione delle ossa, per quanto non abbia mai luogo nei mammiferi, ci renderà molto più semplice concepire la forma di quest’osso anche nei mammiferi, poiché questo è l’unico modo in cui ci si può chiarire il tipo di questa parte. 1. Il primo osso, che intendo chiamare os alveolare, è il più grande di tutti, costituisce il lato esterno e più robusto del corpo e contiene tutti gli alveoli, oltre a formare la symphysis con l’osso appaiato, sul davanti e al mento. NB. Muscoli, Foramen del nervo che si diparte da qui. 2. Il secondo osso, che chiamo os vaginale, non perché costituisca da solo il confine, ma perché lo racchiude, è un osso piatto, e fragile, che si estende dalla symphysis di entrambi gli ossa alveolaria fino all’inizio del nervo, e dimezza l’apertura posterior. 3. Il terzo osso os angulare 4. os coronoideum 5. os condyloideum Denti Nessuna parte consuma più massa ossea dei denti, che in certa misura consumano perfino se stessi. Gli incisivi principalmente, e il canino, in quanto gode in altissimo grado di libera crescita. Tra i molari, i tribolati esigono il maggior nutrimento osseo, i più larghi ne richiedono meno, e meno di tutti quelli delle capre.

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Forse perché i tribolati attirano a sé più smalto rispetto alla mera massa ossea. Parti organiche che chiamiamo denti nelle nature organiche molto spesso la possibilità In tutti gli animali in cui le ossa non sono molto nutrite si trova un gran numero di denti, e noi dobbiamo conoscere la loro forma originaria e le loro proprietà Delfino Squalo Tubolari, uguali, aguzzi, larghi in alto e appuntiti verso il basso Viceversa. Radice semplice e punta aguzza. Avvicinamento, concrescita; quante sono le radici, altrettanti sono i denti, sequenza delle forme.

Diploe, sinus, corna, zoccoli 1. Diploe, i due lati si trovano ad uguale distanza l’uno dall’altro, collegati da un tessuto osseo lamellare e spugnoso, fissato ad entrambi. 2. Sinus. Uno dei lati dell’osso è fissato in modo tale da non poter arretrare, dovendo mantenere la sua estensione, come avviene in tutte le ossa in cui all’interno si trova la sostanza compatta. L’altro lato prosegue la sua crescita e si stacca. Trascina con sé le lamelle se cresce lentamente e se c’è sufficiente sostanza ossea; altrimenti si danno casi in cui un osso diventa completamente cavo. Solitamente un simile sinus è chiuso dall’estremità dell’osso: ad esempio l’osso frontale del gatto, della lince, e probabilmente di molti altri animali dello stesso genere, appare alquanto sinuoso, ma tale sinuosità si chiude con la sutura, in modo che, negli ossa bregmatis, non si trova

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alcuna traccia di un sinus. Al contrario la fronte, l’osso parietale e l’occipitale del maiale sono generalmente sinuosi e i loro seni tutti collegati. Quanto più piccolo è il cervello dell’animale in confronto al resto della sua struttura ossea, tanto più numerosi e grandi sono i seni delle ossa della testa. Questa proporzione del cervello non deve essere calcolata unicamente in rapporto alla grandezza dell’animale, ma anche, e prevalentemente, in base a quel primo principio della comparazione per cui la natura non può dare nulla da un lato senza prendere dall’altro, e viceversa. Dunque, se un animale avesse tutti i denti, con un cervello in proporzione piccolo, starebbe in un rapporto più equilibrato rispetto ad un animale con un cervello in proporzione piccolo che non avesse affatto denti. Nel primo caso la natura dovrebbe impiegare in altre parti meno sostanza ossea rispetto al secondo caso. Applicazione ai sinus. Animali dal cervello in proporzione grande hanno meno sinus. L’uomo ha sinus frontales, anteriores, maxillae superiores. Questi due appartengono necessariamente alla struttura dell’animale. Il cervello più grande che io conosca, in proporzione alla struttura ossea della testa, è quello dell’armadillo. Anch’esso possiede solo i sinus frontales, anteriores e una traccia del sinus maxillae sup. Il maiale ha un cervello molto piccolo e, malgrado abbia tutti i denti, tuttavia i sinus della testa sono i più vari. Vita acquatica dell’animale, Estensione della periferia. Le specie feline hanno l’intero os frontis provvisto di sinus, così come gli ossa sphenoidea. Il sinus max. sup. cade del tutto. Per contro essi hanno denti che esigono in altissimo grado

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sostanza ossea. Negli animali forniti di corna la presenza di seni sembra limitarsi all’os frontis, il che spiega le corna. L’osso frontale presenta un punto debole, una sorta di fontanella nell’osso. Se la diploe restasse unita, la fontanella sparirebbe da sola. Se invece un lato dell’osso resta dritto e l’altro continua a crescere, è evidente che i punti del lato superiore si indeboliscono e l’afflusso genera necessariamente un’eminenza cava, che si chiude presto o tardi e, dopo essersi chiusa, secerne, in modo lento e costante oppure periodicamente e d’improvviso, una sostanza ossea, allungando le corna o producendole annualmente. Eminenza cava. Nucleo osseo del corno. si chiude presto tardi camoscio bue capra secerne sostanza ossea in successione costante periodicamente corna permanenti palchi Dobbiamo ora distinguere questo nucleo osseo più o meno cavo e fornito di seni dal suo guscio, che lo riveste esternamente e per lo più può esserne separato senza causare ferite. Tale guscio cavo è ciò che vediamo e che chiamiamo corno; sappiamo che non ha natura ossea, ma possiede le proprietà degli zoccoli e degli artigli. Occorre tentare di scoprire l’origine simile di queste parti. In un animale giovane in cui la protuberanza ossea non si spinge ancora verso l’alto, la pelle tesa copre la parte, e anzi si espande quando il nucleo osseo cresce fino a un certo grado e copre le prime sporgenze. Se il nucleo osseo è più grande, la pelle può risultare inadeguata, ma sorge a quel punto uno stato membranoso a cui contribuiscono la pelle, l’essudato dell’osso e l’aria esterna, ciascuno per la sua parte, e in tal modo si genera la guaina del corno. Q[uaeritur]: In che modo, allo stato naturale, quest’ultima si connette al nucleo osseo? I palchi spuntano rivestiti di una pelle che tuttavia non si conserva. I nuclei ossei aperti dei buoi, delle capre e dei camosci sono coperti dalla natura.

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I palchi sono nuclei di ossificazione privi di copertura, e sono sostanza ossea salda, non meramente appoggiata. I palchi hanno in comune con i denti la proprietà di resistere all’aria e sono ossa in uno stadio compiuto. seconda sezione. saggio di una teoria generale della comparazione Quando una scienza sembra arrestarsi e non muovere più un passo, malgrado gli sforzi di molti uomini attivamente impegnati, si può notare che la colpa di tale situazione spesso risiede in un certo modo di rappresentare, secondo cui gli oggetti sono considerati in senso convenzionale, ed è da attribuire anche alla terminologia146 impiegata, a cui la grande massa si subordina seguendola incondizionatamente, e a cui perfino uomini con una certa consapevolezza teorica si sottraggono timidamente, solo individualmente e solo in singoli casi. Da questa considerazione generale passo subito all’oggetto di cui trattiamo in questa sede, per essere subito più chiaro possibile, senza allontanarmi dal mio scopo. Il modo di rappresentazione: il fatto che un essere vivente sia stato creato per determinati scopi147, che la sua forma sia determinata da una forza originaria con quest’intenzione, ci ha trattenuto già per molti secoli nella considerazione filosofica degli oggetti naturali, e ancora ci trattiene, malgrado singoli uomini148 abbiano contestato energicamente un simile modo di concepire, mostrando gli ostacoli che esso interpone lungo la strada. Tale modo di concepire può apparire buono in sé, piacevole per alcune indoli, e indispensabile per alcune altre concezioni; io trovo che non sia consigliabile, ma che al contempo non sia possibile contestarlo in toto. Si tratta, se è lecito esprimersi così, di un modo di concepire comune, che proprio per questo, al pari di tutte le cose comuni, è tale perché nel complesso è comodo e sufficiente alla natura umana. L’uomo è abituato a valutare gli oggetti solo nella misura in cui essi gli sono utili, e poiché, in base alla sua natura e alla sua disposizione, deve ritenere se stesso il gradino ultimo della creazione, perché mai non dovrebbe pensare di esserne anche lo scopo finale? Perché la sua vanità non dovrebbe consentir-

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gli questa piccola falsa conclusione? Poiché egli usa le cose e può usarle, ne segue che esse sono prodotte perché l’uomo se ne serva. Perché l’uomo non dovrebbe scartare in modo avventuroso le contraddizioni che trova, piuttosto che desistere dalle pretese che già possiede? Perché non dovrebbe definire ‘erbacce’ quelle erbe che non può usare? Esse in effetti non dovrebbero esistere per lui in questo posto. Egli ascriverà l’origine del cardo, che rende faticoso il lavoro nei campi, alla maledizione di una entità positiva adirata e all’astuzia di un essere malvagio e perfido, piuttosto che ritenere che proprio questo cardo sia figlio della grande natura universale, che le sta a cuore al pari del frumento, coltivato accuratamente e così tanto valutato. Si può anzi notare che gli uomini più comuni, che solitamente credono di elevarsi, ci riescono soltanto quando ogni cosa si trova a dover rifluire sull’uomo, almeno mediatamente, quando non sia stata ancora scoperta una forza in questo o quell’essere naturale, che glielo renda utile come medicamento o in un qualche altro modo. Inoltre, poiché a ragione l’uomo apprezza più di tutto, riguardo a sé e riguardo ad altri, quelle azioni e quegli effetti che sono intenzionali e conformi ad uno scopo, ne segue che ascrive intenzioni e scopi anche alla natura, poiché il concetto che ne ha non può mai essere più grande di quello che ha di se stesso. Se poi egli crede che tutto ciò che esiste esista in funzione sua e solo come strumento e ausilio per la sua esistenza, allora, come è naturale, sarà indotto a credere che anche la natura, per procurare all’uomo degli strumenti, abbia proceduto in modo intenzionale e conforme allo scopo, esattamente allo stesso modo in cui l’uomo stesso ha proceduto per procurare tali strumenti a se stesso. Così il cacciatore, che si procura un fucile per abbattere la selvaggina, non apprezzerà mai abbastanza la premura materna della natura, che fin dall’inizio ha formato il cane a questo scopo, perché grazie ad esso il cacciatore possa raccogliere la selvaggina. Vi sono anche altre cause che spiegano il motivo per cui è impossibile che l’uomo abbandoni questo modo di concepire. Ma possiamo vedere con il semplice esempio della botanica in che misura l’indagatore della natura, colui che vuole approfondire i temi più generali, avrebbe invece ragioni per

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allontanarsi da un simile modo di concepire. Per la botanica in quanto scienza i fiori più colorati e pieni, i frutti più belli e commestibili non hanno maggior valore, anzi in certo senso ne hanno meno, rispetto ad un’erbaccia negletta allo stato naturale, e rispetto ad una capsula seminale arida e inutilizzabile. Dunque uno scienziato della natura dovrà elevarsi al di sopra di un simile concetto comune, e anzi, se egli come uomo non sapesse liberarsi di quel modo di concepire, almeno fin quando resta un indagatore della natura, dovrà allontanarsene quanto più possibile. Questa considerazione, che riguarda in generale lo scienziato della natura, tocca anche noi solo in generale; ma ve n'è un’altra, che scaturisce direttamente dalla precedente, e che ci riguarda più da vicino. Riferendo ogni cosa a se stesso, l’uomo è costretto a dare ad ogni cosa un’intima destinazione verso l’esterno: ciò risulterà tanto più facile in quanto ogni cosa che viva non può essere pensata priva di una compiuta organizzazione149; ora, se tale organizzazione compiuta è determinata e condizionata verso l’interno in modo elevato e puro, allora dovrà trovare anche all’esterno delle relazioni altrettanto pure, poiché essa può esistere soltanto sotto determinate condizioni e in determinate relazioni con l’esterno. Vediamo così le più varie forme animali muoversi sulla terra, nell’acqua e nell’aria; secondo i concetti più comuni, a tali creature gli organi sono stati assegnati affinché fossero in grado di produrre i diversi movimenti e di conservare le rispettive esistenze. Tuttavia, la forza originaria della natura e la saggezza dell’essere pensante che siamo soliti metterle alla base, non ci appariranno ancor più degne di rispetto, se assumiamo che perfino quella forza sia condizionata, e se iniziamo ad ammettere che essa opera sia dall’esterno che verso l’esterno, sia dall’interno che verso l’interno? Dire che il pesce esiste per l’acqua a me sembra meno che dire che esso esiste nell’acqua e grazie all’acqua; infatti quest’ultima affermazione esprime in modo molto più chiaro ciò che nella prima si trova celato in modo oscuro, vale a dire: l’esistenza di una creatura che chiamiamo pesce sarebbe possibile soltanto a condizione che sia presente un elemento che chiamiamo acqua, non solo affinché la sua esistenza sia in tale elemento, ma anche perché in esso si sviluppi. Altrettanto vale per tutte le altre creature. Questa dunque sarebbe la prima e più generale considerazione, dall’interno verso l’esterno e

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dall’esterno verso l’interno: la forma decisiva è per così dire il nucleo intimo, che si costituisce in modi diversi in forza della determinazione dell’elemento esterno. Allo stesso modo un animale riceve la sua finalità rivolta verso l’esterno, poiché esso è stato formato dall’esterno non meno che dall’interno. Ancor più ciò è naturale perché l’elemento esterno è in grado di trasformare in funzione sua la forma esterna piuttosto che quella interna. Possiamo osservare questo nel modo migliore nella specie della foca, il cui aspetto esterno assume così tante caratteristiche della forma dei pesci, mentre il suo scheletro rappresenta ancora un perfetto animale quadrupede. Dunque non offendiamo né la forza originaria della natura, né la saggezza e la potenza del creatore se assumiamo che quest’ultima opera mediatamente, mentre la prima ha operato mediatamente al principio del mondo. Non è forse corretto che questa enorme forza produca con semplicità ciò che è semplice e ciò che è composto in modo complesso? Offenderemmo la sua potenza se affermassimo che non avrebbe potuto produrre alcun pesce senza l’acqua, alcun volatile senza l’aria, nessuno degli altri animali senza la terra, allo stesso modo in cui non è possibile pensare l’esistenza delle creature senza la condizione della presenza di questi elementi. Non si dà forse uno sguardo più bello nel misterioso edificio della formazione? Quest’ultima, come ormai è sempre più universalmente riconosciuto, è costituita in base ad un unico modello; possiamo infatti, dopo aver riconosciuto e indagato in modo sempre più preciso l’unico modello, cercare e chiederci: qual è l’effetto, sotto le sue varie determinazioni, di un elemento universale su questa stessa forma universale? Qual è la reazione della forma determinante e determinata a questo elemento? Che tipo di forma nasce, a seguito di questa azione nelle parti più salde e nelle più deboli, nelle più interne e nelle più esterne? Cosa producono gli elementi, come abbiamo detto, in tutte le loro modificazioni ad opera dell’altezza e della profondità, delle zone e delle regioni del mondo? Molto è stato già elaborato a tale proposito, molto deve essere ancora còlto e applicato, ma unicamente per questa via. È certo degno della natura, inoltre, il fatto che essa debba servirsi sempre degli stessi mezzi per far nascere e per nutrire una creatura; proseguendo dunque per questa medesima via, allo stesso modo in cui ora si possono considerare gli elementi

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non organizzati e indeterminati come veicoli degli esseri non organizzati, si procederà nell’osservazione, considerando il mondo organizzato a sua volta come un insieme di molti elementi. Ad esempio, l’intero mondo vegetale ci apparirà come un enorme mare, necessario per l’esistenza condizionata degli insetti, nella stessa misura in cui l’oceano e i fiumi lo sono per quella dei pesci; vedremo che un enorme numero di creature viventi nasce ed è nutrito in questo oceano vegetale, e anzi vedremo infine l’intero mondo animale a sua volta come un grande elemento in cui, se non nasce, tuttavia si conserva una specie dopo l’altra e in virtù dell’altra. Ci abitueremo a considerare le relazioni e i rapporti non come determinazioni e scopi, e in tal modo soltanto progrediremo nella conoscenza del modo in cui la natura formatrice si esprime da ogni direzione e verso ogni direzione. Ci si convincerà poi, con l’esperienza, come ha dimostrato finora il progresso della scienza, del fatto che il vantaggio più reale e diffuso per l’uomo costituisce soltanto il risultato di sforzi nobili e disinteressati, che possono anche non esigere una ricompensa salariale alla fine della settimana, ma che tuttavia non sono tenuti a mostrare un risultato utile per l’umanità, né alla fine di un anno, né di un decennio, e neppure di un secolo.

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Muscoli di una testa caprina150

Dalle impronte dell’osso occipitale scaturiscono i seguenti muscoli: 1. Immediatamente sotto la pelle si trova l’attaccatura di un legamento tendinoso, anche se all’interno cellulare e riempito di grasso, che gira dietro alla schiena, per poi allargarsi sopra l’epistropheus e diventare carnoso sul lato; esso copre una parte del collo e allo stesso modo, anteriormente, la parte posteriore del muso. La prossima volta dovremo osservarlo con attenzione; sembra essere un subcutaneus. 2. Al di sotto di tale legamento sbuca un tendine molto forte, che per la larghezza di due dita non è accompagnato da fibre muscolari; da esso poi, tuttavia, scaturiscono le fibre muscolari, che si piegano di nuovo in avanti e si fanno tendinee al di sopra dell’angolo superiore dell’atlante. Queste parti tendinee si riuniscono a metà dell’osso occipitale e allo stesso modo all’intera linea semicircularis, alla pars externa ossis petrosi, e sembrano spingersi addirittura intorno all’orecchio e al di sopra del [processus zygomaticus] dell’os temporum. Verso il basso, da inizi tendinei nascono due muscoli tondi le cui estremità erano recise, e altrettanto si nota del tendo e del suo muscolo verso il lato posteriore. 3. 151Accanto al tendine nr. 2, di cui si è detto, è fissata una pelle tendinosa in corrispondenza di entrambi gli angoli. Tale tendine possiede delle fibre muscolari sul lato esterno,

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quasi a partire dalla sua origine; la sua estremità diventa carnosa soltanto sopra l’epistropheus. Anch’esso era reciso. NB. La parte tendinea superiore si spinge interamente verso l’alto! 4. Immediatamente sotto questo, nella cavità dell’osso occipitale, si trova un muscolo dalle fibre carnose molto forti, che si fissa all’apice dorsale dell’atlante e da lì giunge fin sopra l’epistropheus, sul cui dorso si incontrano le fibre di entrambi i muscoli. Accanto ad esso nascono, in parte dall’osso occipitale e in parte dall’osso temporale: 5. Alcuni muscoli che all’inizio sono parzialmente carnosi e parzialmente tendinosi, fissati con le estremità tendinee al margine dell’os atlantis. Sembra anche che, tutt’attorno al margine, si pieghino verso l’interno. 6. Sotto il primo muscolo menzionato in precedenza, lo spazio che si trova tra il dorso dell’epistropheus e l’atlante è riempito da un cuscino carnoso, che presenta un’impronta piatta e tendinea al centro, e in tal modo forma una sorta di mezza capsula per il sottostante collegamento tra l’atlante e l’epistropheus.

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Sul bello in natura

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In che misura l’idea secondo cui la bellezza è perfezione unita a libertà sia applicabile alle nature organiche152

Un essere organico possiede un aspetto esterno così poliedrico, e il suo interno è così vario e inesauribile che non è possibile scegliere un numero sufficiente di prospettive da cui osservarlo, né si possono sviluppare abbastanza organi in se stessi per smembrarlo senza farlo morire. Io tento di applicare alle nature organiche l’idea secondo cui la bellezza è perfezione unita a libertà. Le membra di tutte le creature sono formate in modo tale da essere in grado di godere della loro esistenza, di conservarla e di riprodurla, e in tal senso ogni vivente può essere definito perfetto. Stavolta mi rivolgo immediatamente ai cosiddetti animali più perfetti. Quando le misure delle membra di un animale sono costituite in modo tale che la creatura in esame può esprimere la sua natura soltanto in un modo molto limitato, troviamo brutto un simile animale, poiché la limitazione della natura organica ad un unico scopo causa la prevalenza di un membro a scapito dell’altro, di modo che non può che risultare ostacolato il libero uso delle altre membra. Osservando un tale animale, la mia attenzione si rivolge a quelle parti che prevalgono sulle altre, e la creatura, che non ha alcuna armonia, non può darmi un’impressione armonica. Così la talpa sarebbe perfetta ma brutta, poiché la sua forma le permette soltanto poche azioni limitate, e la prevalenza di certe parti la rende del tutto goffa.

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Dunque, perché un animale possa soddisfare senza ostacoli solo limitati bisogni primari, deve essere già perfettamente organizzato; ma se, accanto all’appagamento dei bisogni, gli resta ancora sufficiente forza e capacità per intraprendere delle azioni arbitrarie e in certo senso prive di scopo, allora ci offrirà anche esteriormente il concetto di bellezza. Quando dico allora che questo animale è bello, mi sforzerei invano di dimostrare tale affermazione servendomi di una qualche proporzione numerica o quantitativa153. Piuttosto, dico che tutte le membra di questo animale si trovano in un rapporto tale che nessuna ostacola l’azione dell’altra, e che piuttosto, grazie ad un perfetto equilibrio, la stessa necessità e le esigenze si trovano dissimulate e interamente nascoste ai miei occhi, di modo che l’animale sembra agire unicamente in base al suo libero arbitrio. Si pensi ad un cavallo che si può osservare mentre si serve delle proprie membra in libertà. Se ora risaliamo all’uomo, lo troviamo infine quasi slegato dai vincoli dell’animalità, le sue membra si trovano in un delicato rapporto di subordinazione e coordinazione, sottomesse alla volontà più ancora che le membra di qualunque altro animale, e capaci non solo di sbrigare ogni sorta di azioni materiali, ma anche di dar corpo all’espressione spirituale. Lancio a questo punto solo un breve sguardo al linguaggio gestuale, che l’uomo educato reprime, ma che a mio avviso innalza l’uomo al di sopra degli animali al pari del linguaggio verbale. Per formarsi, su questa via, il concetto di uomo bello, occorre considerare innumerevoli rapporti, e percorrere certo una strada lunga perché infine l’elevato concetto di libertà possa porre la corona alla perfezione umana, anche nell’ambito del mondo sensibile. A questo proposito devo notare ancora una cosa. Chiamiamo bello un animale quando ci trasmette l’idea di poter usare le sue membra liberamente, mentre non appena le usa effettivamente secondo il suo arbitrio, l’idea del bello è immediatamente inglobata dalla sensazione che tale animale sia grazioso, gradevole, agile, splendido, e così via. Dunque si vede come nella bellezza la quiete si unisca alla forza, l’inattività alla facoltà di agire. Se in un corpo o in un suo membro l’idea dell’estrinsecazione della forza si trova troppo strettamente unita all’esistenza, allora il genio del bello sembra immediatamente sfuggirci:

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perciò gli antichi stessi raffiguravano i leoni nel più alto grado di quiete e indifferenza, per attirare anche qui il sentimento con cui comprendiamo la bellezza. Vorrei dunque dire: definiamo bello un essere perfettamente organizzato se, guardandolo, possiamo pensare che esso è in grado, quando vuole, di usare liberamente e in molti modi tutte le sue membra: il più elevato sentimento della bellezza è dunque unito al sentimento di fiducia e di speranza. Mi sembrerebbe che un saggio sulla forma umana e animale non possa che garantire per questa via delle buone prospettive e rappresentare dei rapporti interessanti. In particolare, come si è detto sopra, il concetto di proporzione, che crediamo di poter esprimere sempre soltanto tramite numeri e misure, sarebbe enunciato in formule più spirituali154, sperando che queste ultime, in ultima analisi, giungano a coincidere con il metodo dei maggiori artisti di cui ci sono conservate le opere, e che allo stesso tempo possano comprendere i bei prodotti naturali che possiamo vedere vivere davanti ai nostri occhi di tempo in tempo. Sarà allora quanto mai interessante osservare come si possano produrre caratteri senza uscire dal cerchio della bellezza, e come si possano far trasparire limitazioni e determinazioni nel particolare, senza nuocere alla libertà. Per distinguersi da altre ed essere realmente vantaggiosa come lavoro preparatorio per i futuri amici della natura e dell’arte, una simile trattazione dovrebbe basarsi su un fondamento anatomico e fisiologico; tuttavia, per rappresentare un insieme così vario e meraviglioso, è difficile pensare la forma di un’esposizione adeguata.

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[Recensione delle lezioni di Petrus Camper]155

[abbozzi] Nel recensire gli scritti di Camper, si dovrebbero considerare: Le lezioni156 sull’affinità strutturale tra l’uomo, gli animali quadrupedi, gli uccelli e i pesci. Quelle riguardo alle differenze dei lineamenti dei volti umani. Anche se queste fossero già state recensite, dovrebbero comunque essere ricordate. Le lezioni sull’espressione delle diverse passioni nei tratti del volto. Le lezioni sulla bellezza delle forme. In via preliminare occorrerebbe spedire un breve riassunto della sua biografia, in riferimento a ciò che ha contribuito alla sua formazione, considerando in particolare e in primo luogo la sua attività di disegnatore, quindi quella di studioso di anatomia, e in terzo luogo di filosofo. Per valutare dalla giusta prospettiva queste lezioni, occorre tenere presente che esse erano destinate più ad accennare e diffondere determinate idee, e avrebbero dovuto porsi soltanto come brevi spiegazioni delle figure caratteristiche, che l’autore ha saputo disegnare con ammirevole facilità, sviluppandole l’una dall’altra; si tratta inoltre di lezioni che erano state pronunciate già negli anni ’74, ’78 e ’82 di fronte all’Accademia del Disegno di Amsterdam. In esse non si trova dunque alcun saggio dettagliato, e ciò che contengono può non essere più una novità per noi, dopo che le idee diffuse da quest’uomo

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valente sono state elaborate, in certo senso impiegate e ulteriormente sviluppate da menti capaci. La terza lezione concerne l’affinità strutturale tra l’uomo, gli animali quadrupedi, gli uccelli e i pesci. Camper espone, con un certo timore di essere giudicato paradossale, questa verità da lungo tempo riconosciuta da singoli ricercatori e tuttavia mai sufficientemente sostenuta. Egli del resto non conduce l’argomento realmente in profondità, ma lo tratteggia solo frettolosamente.

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Abbozzi per un tipo osteologico (1795-1796)

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Primo abbozzo di un’introduzione generale all’anatomia comparata, fondata sull’osteologia157

Jena, gennaio 1795

i. vantaggi dell’anatomia comparata e ostacoli che le si oppongono La storia naturale si basa principalmente sulla comparazione. I tratti esteriori sono rilevanti, ma non sufficienti a distinguere adeguatamente, per poi raggruppare di nuovo, i corpi organici. L’anatomia158 agisce sugli esseri organizzati, come la chimica su quelli non organizzati. L’anatomia comparata occupa in molti modi la mente, e ci offre l’opportunità di considerare le nature organiche secondo molte prospettive. Accanto alla scomposizione del corpo umano procede sempre lentamente quella del corpo degli animali. La comprensione della struttura fisica e della fisiologia umana è stata molto ampliata grazie alle scoperte fatte riguardo agli animali. La natura ha distribuito diverse proprietà e determinazioni tra gli animali, ciascuno dei quali mostra caratteristiche proprie: la sua struttura è semplice, sommaria, spesso estesa in dimensioni vaste e stratificate. La struttura dell’uomo è variata e complicata in ramificazioni più delicate, dotata in misura ricca e densa; punti rilevanti si trovano accostati strettamente, e parti isolate sono riunite mediante l’anastomosi159. Nel caso degli animali, la caratteristica dell’animalità, insie-

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me a tutte le esigenze e necessità immediate, si trova sotto gli occhi dell’osservatore. Nel caso dell’uomo invece, l’animalità è assurta a scopi più elevati, ed è relegata in ombra, sia per l’occhio che per la mente. Molteplici sono gli ostacoli che finora si sono frapposti sulla via dell’anatomia comparata, che non ha confini, tanto che ogni trattazione meramente empirica si estenua nell’enorme ampiezza del suo campo di applicazione. Le osservazioni restano isolate, così come in modo isolato erano state realizzate, e non si riusciva ad accordarsi sulla terminologia, sicché dotti, stallieri, cacciatori, macellai e così via avevano provveduto differenti denominazioni. Nessuno riteneva possibile un punto di unificazione, in cui si potessero raccogliere gli oggetti, oppure una prospettiva comune in base alla quale considerarli. Qui come in altre scienze non si applicavano dei modi di rappresentare sufficientemente affinati. Si considerava la materia in modo troppo comune, restando aderenti al mero fenomeno, oppure si cercava soccorso nell’assunzione di cause ultime, ma in tal modo ci si allontanava sempre più dall’idea di essere vivente. In misura altrettanto grande e analogamente costituiva ostacolo il modo di pensare religioso, con cui si intendeva utilizzare immediatamente ciascun dettaglio per onorare Dio. Ci si perdeva in vacue speculazioni, ad esempio sull’anima degli animali e così via. Seguire l’anatomia umana fino alle parti più sottili esigeva un lavoro infinito, e dunque perfino questa materia, subordinata alla medicina, poteva essere praticata solo da pochi come disciplina autonoma. Ancor meno erano coloro che avevano inclinazione, tempo, capacità e occasione di produrre qualcosa di significativo e coerente nel campo dell’anatomia comparata. ii. sulla necessità di stabilire un tipo per agevolare il compito dell’anatomia comparata L’affinità degli animali tra loro e con l’uomo è evidente e in generale riconosciuta, anche se è più difficile notarla nel particolare, e non sempre immediatamente dimostrabile nel

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caso singolo, sicché risulta spesso disconosciuta, quando non addirittura negata. Per questo è difficile unificare le opinioni divergenti dei vari osservatori: manca infatti una norma160 in base alla quale si possano valutare le diverse parti, e manca una sequenza di princìpî cui sia necessario attenersi. Quando in passato, si confrontavano gli animali tra loro e con l’uomo, anche a prezzo di molto lavoro si giungeva sempre soltanto a singoli avanzamenti, che moltiplicandosi rendevano comunque impossibile qualsiasi visione sintetica. Esempi tratti da Buffon161 potrebbero illustrare bene questa situazione, e in questo stesso senso si dovrebbero valutare le opere di Josephi162 e di altri. Ora, poiché in tal modo si era costretti a confrontare ciascun animale con la totalità degli altri e viceversa, si vede bene come fosse impossibile trovare per questa via una prospettiva unitaria. Per tale motivo si avanza in questa sede la proposta di un tipo anatomico, un’immagine generale che contenga, per quanto possibile, le forme di tutti gli animali, e in base alla quale si possa descrivere ciascun animale in un determinato ordine. Un simile tipo dovrebbe, il più possibile, essere presentato in una prospettiva fisiologica. Già dall’idea generale di tipo segue che nessun singolo animale può rappresentare un simile canone di comparazione, nessun singolo animale può essere modello dell’insieme. L’uomo, con la sua elevata perfezione organica, non può rappresentare la misura degli animali imperfetti, proprio in ragione della sua perfezione. Si procederà dunque piuttosto nel modo seguente. L’esperienza deve insegnarci in primo luogo quali siano le parti comuni a tutti gli animali, e in cosa tali parti differiscano. L’idea deve dominare sull’insieme e dedurre in modo genetico163 l’immagine generale. Anche se un simile tipo viene formulato dapprima solo in forma sperimentale, possiamo comunque usare le modalità di comparazione finora impiegate come prova della sua validità. Finora si confrontavano: gli animali tra loro, gli animali con l’uomo, le razze umane tra loro, i due sessi tra loro, le parti principali del corpo, ad esempio le estremità superiori e inferiori, le parti subordinate, ad esempio una vertebra con le altre. Tutti questi confronti possono avere luogo anche dopo che

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si sia formulato un tipo, ma saranno eseguiti con risultati migliori e avranno maggiore influenza sulla scienza nel suo complesso. Contribuiranno anzi a valutare ciò che finora è già stato fatto e a ordinare in serie nei luoghi più consoni le osservazioni dimostrate come vere. Dopo aver costituito il tipo, si procederà in modo duplice alla comparazione. In primo luogo si descriveranno le singole specie animali in base ad esso. Fatto questo, non sarà più necessario confrontare gli animali tra loro, ma ci si atterrà al confronto tra le rispettive descrizioni e la comparazione avrà luogo da sé. Quindi si potrà anche fornire una descrizione completa di una specifica parte attraverso tutti i generi principali, in modo da produrre una comparazione istruttiva ed esaustiva. Queste due specie di monografie dovranno però essere il più possibile complete perché possano rivelarsi feconde; in particolare, per la seconda occorrerà che cooperino diversi osservatori. Inoltre, in via preliminare, ci si dovrà accordare su uno schema generale, e la parte meccanica del lavoro dovrà essere agevolata da una tabella su cui ciascuno dovrà basarsi, per poter essere sicuro di aver lavorato per tutti e per la scienza intera, anche nel più piccolo e nel più specifico dei suoi contributi. È triste, allo stato attuale, constatare come ciascuno sia costretto a ricominciare sempre di nuovo da capo. iii. esposizione generalissima del tipo In precedenza si è parlato in senso proprio unicamente dell’anatomia comparata dei mammiferi, e degli strumenti che potrebbero agevolarne lo studio; adesso invece, accingendoci a formulare la definizione del tipo, dobbiamo volgerci anche più oltre, nel campo della natura organica, sia perché senza una tale visione sintetica non potremmo stabilire un’immagine generale dei mammiferi, sia perché, se nel costruirla consultiamo la natura intera, tale immagine potrà in futuro essere modificata retrospettivamente in modo tale da poterne dedurre anche le immagini delle creature imperfette. Tutte le creature ad un certo grado di sviluppo mostrano già nella struttura esteriore tre sezioni principali. Si considerino gli insetti completi! Il loro corpo è costituito da tre parti164, che esercitano funzioni vitali diverse, pur rappresentando l’esi-

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stenza organica ad un livello elevato, con la loro connessione reciproca e con l’azione che esercitano l’una sull’altra. Queste tre parti sono la testa, la parte mediana e quella posteriore, a cui si trovano fissati gli organi ausiliarî in vari modi. La testa occupa sempre una collocazione anteriore, è il luogo in cui si raccolgono i singoli sensi, e contiene gli organi sensoriali dominanti, collegati in uno o più gangli nervosi che siamo soliti chiamare cervello165. La parte mediana contiene gli organi dell’impulso vitale interno e di un movimento costante verso l’esterno; gli organi dell’impulso vitale interno sono meno importanti, poiché in queste creature ciascuna parte è dotata evidentemente di una vita propria. La parte posteriore contiene gli organi della nutrizione e della riproduzione, nonché della più grossolana secrezione. Ora, se le tre parti appena elencate si trovano separate e spesso connesse unicamente da tubicini filiformi, questo è indice di uno stato compiuto. Perciò il momento principale della successiva metamorfosi da bruco a insetto costituisce una separazione successiva dei sistemi che nel bruco sono ancora celati in un involucro generale, trovandosi in parte in uno stato inattivo e inespresso; una volta avvenuto lo sviluppo, invece, dal momento in cui le ultime e migliori forze agiscono autonomamente, la creatura è in grado di muoversi e di agire liberamente, e anche la riproduzione è resa possibile dalla molteplice determinazione e separazione dei sistemi organici. Negli animali perfetti la testa è separata, in modo più o meno accentuato, dalla seconda sezione, mentre la terza è connessa a quella anteriore mediante un prolungamento della spina dorsale, ed è avvolta in un involucro comune. La dissezione ci mostra che essa, tuttavia, è separata dal sistema mediano del torso tramite una membrana divisoria. La testa possiede degli organi ausiliarî se questi ultimi le sono necessari a procurarsi il cibo; può trattarsi di chele separate, oppure di mascelle più o meno connesse. La parte mediana, negli animali imperfetti, possiede molteplici organi ausiliarî: piedi, ali, elitre; negli animali perfetti, invece, alla parte mediana sono fissati anche gli organi ausiliarî mediani: braccia o zampe anteriori. La parte posteriore non presenta, negli insetti al loro stadio di sviluppo, alcun organo ausiliario, mentre negli animali perfetti, in cui i due sistemi sono strettamente accostati, gli ultimi organi ausiliarî, chiamati

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piedi, si trovano all’estremità posteriore del terzo sistema, ed è così che troviamo comunemente costituiti i mammiferi. La loro parte posteriore o ultima presenta un prolungamento più o meno accentuato, la coda, che però propriamente può essere considerata solo un’allusione all’infinità166 delle esistenze organiche. iv. applicazione dell’esposizione generale del tipo al caso particolare Le parti dell’animale, la loro rispettiva forma, il loro rapporto, le loro particolari proprietà, determinano i bisogni vitali della creatura. Da ciò derivano i modi di vita, ben definiti ma delimitati, dei generi e delle specie animali. Se consideriamo le diverse parti degli animali più perfetti, che chiamiamo mammiferi, in base al tipo definito in generale, troviamo che, pur essendo la sfera della formazione naturale certo limitata, tuttavia, a causa della grande quantità di parti e delle molteplici possibilità della loro modificazione, i mutamenti della forma possono diventare infiniti. Se conosciamo e indaghiamo con precisione le parti, troviamo che la molteplicità della forma scaturisce dal fatto che ad una o all’altra parte sia accordata la preminenza sulle altre. Così, ad esempio, nella giraffa il collo e le estremità sono privilegiati a spese del corpo, mentre nella talpa ha luogo il contrario. Con questa osservazione ci si rivela immediatamente la legge167 per cui a nessuna parte può essere aggiunto qualcosa senza che al contempo sia sottratto a un’altra parte, e viceversa. In ciò consistono i limiti della natura animale, entro cui la forza formatrice sembra muoversi nel modo più meraviglioso e quasi più arbitrario, senza peraltro essere capace di spezzare o di saltare il cerchio. L’impulso di formazione168 è posto qui come reggitore di un regno, seppur limitato, tuttavia molto ben curato. I capitoli del bilancio in cui si distribuisce la sua spesa gli sono prescritti, mentre è libero, fino a un certo grado, di decidere quanto attribuire a ciascuno. Se intende concedere di più a uno, non trova grandi ostacoli, ma è obbligato a sottrarre allo stesso tempo qualcosa ad un altro; in tal modo la natura non può mai indebitarsi, né tanto meno andare in bancarotta.

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Cercheremo di farci guidare da questo filo conduttore nel labirinto della formazione animale, e troveremo che esso giunge fino alle più informi nature organiche. Intendiamo allora metterlo alla prova della forma, per poi poterlo impiegare anche nel caso delle forze. Pensiamo dunque l’animale compiuto come un microcosmo, che esiste per sé e in forza di se medesimo. Allo stesso modo anche ciascuna creatura è scopo a se stessa, e poiché tutte le sue parti intrattengono la più immediata interazione reciproca, sono in relazione tra loro e rinnovano così costantemente il circolo della vita, anche ciascun animale deve essere considerato come fisiologicamente perfetto. Nessuna sua parte, se considerata dall’interno, è inutile, né è prodotta per così dire arbitrariamente dall’impulso di formazione, come talvolta si immagina, anche se alcune parti possono apparire inutili all’esterno, poiché l’intimo nesso della natura animale le ha formate in modo da non preoccuparsi delle relazioni esterne. Dunque in futuro, a proposito di simili membra, come ad esempio a proposito dei canini del sus babirussa, non ci si chiederà a cosa servano, bensì da dove derivino. Non si affermerà che al toro sono state date le corna perché possa colpire, ma si indagherà piuttosto il modo in cui il toro può avere le corna per colpire. Troveremo nel complesso invariabile quel tipo generale che al momento intendiamo costruire e indagare nelle sue parti, e la classe superiore degli animali, quella dei mammiferi, apparirà estremamente coerente nelle sue componenti, nelle più diverse forme. Tuttavia adesso dobbiamo, pur attenendoci a ciò che è persistente, imparare al contempo a modificare le nostre concezioni in relazione a ciò che è mutevole, apprendendo una molteplice mobilità, in modo da riuscire a seguire il tipo in tutta la sua versatilità, affinché questo Proteo non ci sfugga più. Tuttavia, se si domanda per quale motivo si presenti una capacità di determinazione così varia e molteplice, rispondiamo anzitutto che l’animale è formato da circostanze esterne in vista di altre circostanze, e da ciò deriva la sua perfezione interna e la sua conformità ad uno scopo esterno. Ora, per rendere evidente l’idea di quel bilancio di dare e prendere169 cui si accennava, introduciamo alcuni esempi. Il serpente si trova, sul piano dell’organizzazione, ad un livello molto elevato: possiede una testa ben definita, con un organo

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ausiliario perfetto, e una mascella inferiore protesa in avanti. Solo che il suo corpo è in certo senso infinito, e può esserlo perché non ha materia né forza da impiegare in organi ausiliarî. Non appena questi ultimi si presentano in un’altra conformazione, come ad esempio nella lucertola, che presenta dei brevi arti anteriori e posteriori, quella lunghezza incondizionata è subito costretta a contrarsi, e dunque si ha un corpo più breve. La lunghezza delle zampe della rana determina la forma molto ridotta del corpo di questa creatura, e il rospo informe, in base alla stessa legge, si espande più in larghezza. Qui importa decidere con quale ampiezza si voglia applicare questo principio attraverso le diverse classi, i generi e le specie della storia naturale, rendendo l’idea in generale evidente e piacevole, mediante la valutazione dell’habitus e dei caratteri esteriori, di modo da incoraggiare e stimolare il piacere di indagare i dettagli con attenzione e impegno. In primo luogo si dovrebbe però considerare il tipo in rapporto al modo in cui le diverse forze naturali elementari lo influenzano, e al modo in cui del pari il tipo si adatta, fino ad un certo grado, alle leggi esteriori generali. L’acqua gonfia decisamente i corpi che circonda o sfiora, e in cui si introduce, in misura più o meno grande. Così il tronco del pesce, e in particolare la sua carne, si dilata, in base alle leggi dell’elemento in cui vive. In base alle leggi del tipo organico, a questa dilatazione del tronco dovrà necessariamente seguire una contrazione delle estremità o organi ausiliarî, oppure delle ulteriori, conseguenti determinazioni degli altri organi, che si mostreranno in seguito. L’aria, assorbendo in sé l’acqua, ha un’azione prosciugatrice. E dunque il tipo che si sviluppa nell’aria diventa, quanto più l’aria è pura e secca, tanto più secco internamente, e si svilupperà un uccello più o meno magro, a cui resterà ancora materia sufficiente per rivestire abbondantemente la sua carne e il suo scheletro, per provvedere adeguatamente ai suoi organi ausiliarî, e per la sua forza formatrice. Ciò che nei pesci era impiegato per formare la carne, resta qui a formare le piume. Così l’aquila si forma grazie all’aria per vivere nell’aria, e in forza delle altezze montane in vista delle altezze montane. Il cigno e l’anitra, quali specie anfibie, tradiscono già con la loro forma il fatto di possedere un’inclinazione per l’acqua. E varrebbe la pena di svolgere continue osservazioni sul modo meraviglioso

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in cui la cicogna e il piovanello manifestano la loro vicinanza all’acqua e la loro inclinazione verso l’aria. In tal modo si noterà che anche per la formazione dei mammiferi si rivela potentissima l’azione del clima, dell’altitudine, del caldo e del freddo, accanto a quella dell’acqua e dell’aria, comune a tutti. Il calore unito all’umidità gonfia e produce delle mostruosità che appaiono inspiegabili, anche entro i limiti del tipo, mentre il calore secco produce le creature più perfette e ben formate, per quanto contrapposte all’uomo per natura e forma, come ad esempio il leone e la tigre. Perciò soltanto il clima caldo è in grado di conferire caratteri simili a quelli umani anche ad esseri dall’organizzazione meno perfetta, come avviene nel caso delle scimmie e dei pappagalli. È possibile osservare il tipo anche in rapporto a se stesso, istituendo paragoni al suo interno, e confrontando ad esempio tra loro parti dure e parti molli. Così, gli organi della nutrizione e della riproduzione sembrano sottrarre molta più energia rispetto agli organi motori e stimolatori. Il cuore e i polmoni sono saldamente collocati nella cassa toracica ossea, al contrario dello stomaco, dell’intestino e dell’utero, che fluttuano in un involucro più delicato. Si noterà che, a seconda dell’intenzione formatrice, può trovarsi una colonna sternale o una colonna vertebrale. Tuttavia la prima, che negli animali si trova in basso, è breve e delicata in confronto alla colonna vertebrale: le sue vertebre sono oblunghe, sottili o larghe, e se la colonna vertebrale può presentare delle costole perfette o imperfette, dallo sterno si dipartono solo cartilagini. Sembra dunque che lo sterno sacrifichi solo una parte della sua solidità alle viscere superiori, mentre a quelle inferiori sacrifica la sua intera esistenza; allo stesso modo, anche la colonna vertebrale sacrifica alla perfetta formazione delle importanti parti adiacenti quelle costole che potrebbero trovarsi accanto alle vertebre lombari. Se applichiamo adesso ai fenomeni naturali affini la legge che abbiamo enunciato, potrà trovare spiegazione qualche interessante fenomeno. Il punto principale dell’intera esistenza femminile coincide con l’utero, che assume un ruolo preminente tra le viscere, ed esprime, sia in atto che in potenza, le forze più intense, nell’attrazione, estensione, contrazione, e così via. Ora, la forza formatrice sembra dover impiegare su questa parte, in tutti gli animali più perfetti, così tanta energia, da essere costretta a ridurne la produzione in altre par-

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ti; per questo motivo vorrei spiegare la minore bellezza della femmina in questo modo: nelle ovaie si è dovuta consumare così tanta energia che l’aspetto esteriore ne ha risentito. Nello sviluppo del nostro lavoro potremo far riferimento a molti casi che al momento non possiamo in generale anticipare. Attraverso tutte queste considerazioni, giungiamo infine all’uomo, e domandiamoci se e quando lo incontriamo al grado più alto dell’organizzazione. Auspicabilmente, il nostro filo conduttore ci guiderà attraverso questo labirinto, fornendoci chiarimenti anche a proposito delle varie differenze della forma umana, e infine riguardo al più bello degli organismi. v. del tipo osteologico in particolare Ora, sarà possibile dimostrare e decidere se questo modo di rappresentare sia pienamente adeguato all’oggetto da trattare solo nel momento in cui, grazie ad un’operazione di prudente anatomia, si siano isolate le parti degli animali, e poi di nuovo confrontate tra loro. Anche il metodo in base al quale consideriamo l’ordinamento delle parti sarà legittimato in futuro solo grazie all’esperienza e ai risultati conseguiti. Lo scheletro è la struttura evidente di tutte le forme; una volta riconosciuto, agevolerà la conoscenza di tutte le altre parti. Ma in questa sede, prima di procedere oltre, sarà necessario porre qualche altra riflessione, e chiedere, ad esempio: in che modo è stata trattata l’osteologia umana? Si dovrebbe anche discutere a proposito delle partes propriae e impropriae170; tuttavia al momento ci è concesso soltanto accennare laconicamente e in modo aforistico a tali problemi. Senza temere smentite, possiamo in primo luogo affermare che la suddivisione dello scheletro umano si è sviluppata in modo meramente casuale, e di conseguenza, nelle descrizioni, si è assunto un numero maggiore o minore di ossa, descritte da ciascun autore in base alle proprie preferenze e ad un proprio modo di ordinarle. Inoltre, occorrerebbe accertare accuratamente quale sia lo stato generale della teoria osteologica dei mammiferi, dopo tanti sforzi, e a tale scopo tornerebbe utile, per qualunque verifica e utilizzazione, il giudizio che Camper 171 ha formulato a proposito dei principali scritti di osteologia comparata.

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Nel complesso, ci si convincerà del fatto che l’osteologia comparata generale ha sofferto di una grande confusione proprio a causa della mancanza di un primo modello, e di una sua suddivisione ben determinata; Volcher Coiter, Duvernay, Daubeton 172 e altri non sono sfuggiti all’errore di scambiare una parte con l’altra: un errore inevitabile allo stadio iniziale di ogni scienza, e particolarmente perdonabile in questo caso. Alcune opinioni limitative si sono consolidate: si è voluto, ad esempio, negare all’uomo l’osso intermascellare. Ciò che si credeva di ottenere in tal modo era abbastanza singolare: quell’osso avrebbe dovuto rappresentare il tratto distintivo tra noi e le scimmie. Non si osservò, al contrario, che proprio tale negazione indiretta del tipo faceva sì che si perdesse la prospettiva più affascinante. Inoltre, per lungo tempo si è affermato che il canino dell’elefante si trovasse nell’osso intermascellare, e tuttavia esso appartiene invariabilmente alla mascella superiore, e un osservatore accurato può certo notare come dalla mascella superiore una lamella scenda e si avvolga attorno all’enorme dente: la natura non permette che in questo caso avvenga alcunché contro la sua legge e il suo ordine. Abbiamo affermato che l’uomo non può rappresentare un tipo per l’animale, né quest’ultimo può esserlo per l’uomo; dobbiamo a questo punto presentare immediatamente il terzo elemento che si inserisce tra i due, e che porta progressivamente ad espressione la ragione del nostro modo di procedere. Per questo è necessario analizzare e considerare tutte le sezioni ossee che possono presentarsi, mediante l’osservazione delle più diverse specie animali, e anzi indagando anche il feto173. Consideriamo l’animale quadrupede così come ci si presenta, con la testa protesa, e analizziamolo dalla parte anteriore a quella posteriore, ricomponiamo il cranio e in seguito tutto il resto; i concetti, le idee e le esperienze che ci hanno guidato in questa operazione li esporremo in parte, in parte li lasceremo supporre, per poi comunicarli più avanti. Procediamo dunque senza indugio all’esposizione del primo e più generale schema.

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vi. il tipo osteologico ricomposto nella sua suddivisione A. La testa. a. Ossa intermaxillaria, b. Ossa maxillae superioris, c. Ossa palatina. Queste ossa si possono confrontare tra loro in più di un senso: formano la base della faccia e della parte anteriore della testa, e insieme costituiscono il palato; hanno molto in comune nella forma, e il motivo per cui le poniamo come prime è che siamo soliti descrivere l’animale a partire dalla parte anteriore verso quella posteriore, e le prime due non solo costituiscono le parti più avanzate174 del corpo dell’animale, ma esprimono pienamente anche il carattere della creatura, in quanto la loro forma determina il modo in cui essa si nutre. d. Ossa zygomatica, e. Ossa lacrymalia Le poniamo al di sopra delle precedenti; esse hanno una parte maggiore nella formazione della faccia, e costituiscono anche il margine inferiore della cavità oculare. f. Ossa nasi, g. Ossa frontis Le poniamo come copertura al di sopra di quelle; esse generano il margine superiore delle cavità oculari, gli spazi per gli organi dell’olfatto e la volta del proencefalo. h. Os sphenoideum anterius Lo aggiungiamo come base dell’intera testa, dalla parte inferiore e posteriore; funge da letto per il proencefalo e da uscita per numerosi nervi. Il corpo di quest’osso concresce sempre nell’uomo con quello dell’os posterius. i. Os ethmoideum k. Conchae, l. Vomer Così gli organi dell’olfatto giungono alla loro sede. m. Os sphenoideum posterius Si salda a quello anteriore. La base del contenitore del cervello si approssima alla sua perfezione. n. Ossa temporum Formano le pareti al di sopra dell’osso precedente, e ad esso si congiungono sul davanti.

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o. Ossa bregmatis Coprono questa sezione della volta. p. Basis ossis occipitis Si può confrontare con i due sphenoides. q. Ossa lateralia Formano le pareti, e si possono paragonare agli ossa temporum. r. Os lamboideum Conclude l’edificio, ed è paragonabile agli ossa bregmatis. s. Ossa petrosa Contengono gli organi dell’udito, e sono inseriti nello spazio cavo. Terminano qui le ossa che formano l’edificio della testa e che sono immobili le une rispetto alle altre. t. Ossicini dell’organo dell’udito. Nel corso dell’esposizione si mostrerà come tali sezioni ossee esistano realmente, e presentino a loro volta delle sottosezioni. Si descriverà la proporzione e il rapporto reciproco che intrattengono, l’azione che esercitano le une sulle altre e l’azione delle parti interne ed esterne, in modo da costruire, e spiegare così mediante esempi, il tipo. B. Il tronco. I. Spina dorsalis, a. Vertebrae colli. La prossimità della testa influisce sulle vertebre cervicali, in particolar modo sulle prime. b. dorsi, Le vertebre a cui sono fissate le costole sono più piccole rispetto alle vertebre c. lumborum, vertebre lombari, che si trovano libere, d. pelvis, queste ultime sono modificate, in misura maggiore o minore, dalla prossimità delle ossa del bacino, e. caudae, differiscono molto nel numero Costae verae, spuriae, II. Spina pectoralis,

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Sternum, Cartilagines. Il confronto tra colonna vertebrale e colonna sternale, costole e cartilagini, ci conduce a rilievi interessanti. C. Organi ausiliarî. 1. Maxilla inferior, 2. Brachia affixa sursum vel retrorsum, Scapola deorsum vel antrorsum, Clavicula. Humerus, Ulna, Radius, Carpus, Metacarpus, Digiti, Forma, proporzione, numero 3. Pedes affixi sursum vel advorsum, Ossa ilium, Ossa ischii deorsum vel antrorsum. Ossa pubis, Femur, Patella, Tibia, Fibula, Tarsus, Metatarsus. Digiti. Interni: Os hyoïdes Cartilagines, plus, minus ossificatae.

vii. ciò che occorre notare, per il momento, nella descrizione delle singole ossa È necessario rispondere a due domande: I. Troviamo le sezioni ossee indicate nel tipo in tutti gli animali?

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II. Quando riconosciamo che si tratta delle stesse sezioni ossee? Ostacoli. La formazione delle ossa non è costante: a. nell’ampiezza o restrizione; b. nel concrescere delle ossa; c. nei confini tra ossa contigue; d. nel numero; e. nella grandezza; f. nella forma. La forma può essere: semplice o composta, contratta o sviluppata; appena sufficiente o sovrabbondante; perfetta e isolata oppure concresciuta, contratta e ridotta. Vantaggi: La costituzione ossea è costante, a. perché l’osso si trova sempre nel luogo che gli compete; b. perché esso ha sempre la stessa funzione175. Alla prima domanda dunque si può rispondere affermativamente soltanto con riguardo agli ostacoli e alle condizioni indicate. Possiamo invece risolvere la seconda domanda servendoci dei vantaggi appena elencati: nella fattispecie, opereremo nel modo seguente: 1) cercheremo l’osso nel posto che gli compete; 2) ne apprenderemo la funzione in base al luogo che esso occupa nell’organismo; 3) determineremo la forma che esso può assumere, e che in generale deve necessariamente assumere, in base alla sua funzione; 4) dedurremo ed astrarremo le possibili deviazioni della forma in parte dal concetto, in parte dall’esperienza; 5) infine, esporremo simili deviazioni, in riferimento a ciascun osso, seguendo il più possibile un chiaro e determinato ordine. In tal modo possiamo sperare di trovarli anche quando si sottraggono al nostro sguardo, riconducendo le configurazioni più diverse ad un unico concetto principale, agevolando così la comparazione.

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A. Differenze nell’ampiezza e delimitazione dell’intero sistema osseo Abbiamo già esposto il tipo osteologico nel suo complesso, stabilendo l’ordine in base al quale intendiamo esaminare le sue parti. Tuttavia, prima di passare a considerare i particolari, e prima di arrischiarci ad esprimere le proprietà che pertengono a ciascun osso sotto il profilo più generale, non dobbiamo nasconderci gli ostacoli che potrebbero opporsi ai nostri sforzi. Nel presentare quel tipo, ponendolo come una norma generale in base alla quale riteniamo di poter descrivere e valutare le ossa di tutti i mammiferi, assumiamo come presupposto l’esistenza di una determinata consequenzialità nella natura, e confidiamo che essa si comporti in tutti i singoli casi in base ad una determinata regola. E in questo non possiamo andare errati. Già in precedenza abbiamo espresso la nostra convinzione, rafforzata da ogni pur fuggevole sguardo nel regno animale, secondo cui una ben determinata immagine generale si trovi a fondamento di tutte queste singole forme. La natura vivente176, però, non potrebbe moltiplicare all’infinito una simile immagine semplice se non avesse un vasto campo d’azione, in cui potersi muovere senza esulare dai limiti della sua legge. Intendiamo dunque in primo luogo cercare di indagare in quali casi la natura si mostri incostante nella costituzione delle singole ossa, e in quali casi si riveli invece costante: ci sarà possibile per questa via stabilire i concetti generali in base ai quali ciascun singolo osso si può ritrovare nel regno animale. La natura è incostante nell’ampliare e delimitare il sistema osseo. Lo scheletro, in quanto parte di un tutto organico, non può essere osservato isolatamente, poiché si trova in connessione con tutte le altre parti, con quelle semidure e quelle molli. Le altre parti sono più o meno affini al sistema osseo, e in grado di passare ad uno stadio rigido. Possiamo rendercene chiaramente conto osservando l’osteo­ genesi, prima e dopo la nascita di un animale e durante la sua crescita, nei momenti in cui si formano le membrane, le cartilagini, e progressivamente la massa ossea; lo vediamo nelle persone anziane e malate, in cui molte parti che la natura non ha destinato a formare il sistema osseo si calcificano e ne sono

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attratte, si trasformano in parti ossee, ampliandone così in un certo senso il sistema. La natura ha riservato a sé proprio un simile procedimento, applicandolo qua e là nella formazione degli animali, e collocando in alcuni la massa ossea proprio nei luoghi in cui in altri animali si trovano solo tendini e muscoli. Così ad esempio in alcuni animali (finora mi sono noti i casi del cavallo e del cane) alla cartilagine del processus styloideus ossis temporum è attaccato un osso allungato, piatto, simile ad una piccola costola, di cui occorre indagare l’ulteriore destinazione e connessione. Ed è noto che, ad esempio, l’orso e alcuni pipistrelli hanno un osso nel pene, e si troveranno ancora parecchi casi simili. Sembra però che talvolta la natura delimiti, al contrario, il suo sistema osseo, facendo mancare degli elementi qua e là: è ad esempio il caso della clavicola, che in parecchi animali manca del tutto. Si imporrebbero a tale proposito parecchie considerazioni, ma non abbiamo qui il tempo di indugiarvi: ad esempio occorrerebbe riflettere su come siano posti determinati limiti che l’ossificazione non valica, sebbene non siamo in grado di individuare cosa la trattenga. Un esempio notevole si mostra nelle ossa, cartilagini e membrane della faringe. Così in futuro ci meraviglierà, per gettare solo uno sguardo fuggevole alla vastità della natura, vedere come nei pesci e negli anfibi spesso si riversino sulla pelle grandi masse ossee, come nel caso della tartaruga, in cui le parti esterne, solitamente delicate e tenere, assumono una consistenza dura e rigida. Tuttavia dobbiamo anzitutto limitarci alla ristretta sfera che stiamo analizzando, senza tralasciare ciò che abbiamo accennato sopra, vale a dire il fatto che delle parti liquide, molli e dure, devono essere considerate come un’unità in un corpo organico, e che la natura è libera di agire ora sulle une ora sulle altre. B. Differenze nel concrescere delle ossa Se cerchiamo nei diversi animali quelle sezioni ossee che abbiamo elencato, troviamo che esse non appaiono sempre identiche, bensì si trovano talvolta concresciute, talvolta separate le une dalle altre, nei diversi generi e specie, e perfino nei

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diversi individui di una medesima specie, in particolare anche in individui di età diverse, senza che si sappia immediatamente stabilire la causa di una simile varietà. A quanto ne so, questo punto non è ancora mai stato indagato, e perciò sono sorte differenze nella descrizione del corpo umano, quando in effetti esse, pur non essendo utili, non possono in ogni caso costituire un ostacolo, vista la limitatezza dell’oggetto. Tuttavia, se vogliamo estendere le nostre conoscenze osteo­ logiche all’intero ambito dei mammiferi, e operare in modo da avvicinarci ad altre classi di animali, agli anfibi e agli uccelli, proprio grazie al nostro metodo, così da riuscire con questo filo ad orientarci lungo l’intera serie dei corpi organici, dobbiamo procedere diversamente: come dice l’antico proverbio177, per insegnare bene occorre saper distinguere. Come è noto, già nel feto umano e nel neonato si possono trovare più suddivisioni ossee che in un adolescente, e in quest’ultimo se ne trovano più che in un individuo adulto o anziano. Tuttavia, quanto sia empirico un simile modo di procedere, con cui descrivere le ossa umane, e in particolare quelle della testa, ci si rivelerebbe in modo più evidente se non avessimo reso tollerabile l’abitudine ad impiegare un metodo tanto fallace. Infatti, in base ad esso, si cerca di scomporre, con mezzi meccanici, una testa di età non ben determinata, e si considerano come sue parti quelle che in tal modo si sia riusciti a separare, per poi descriverle come un tutto, così come si trovano raggruppate. Appare molto singolare il fatto che, analizzando altri sistemi, come ad esempio quello dei muscoli, dei nervi e dei vasi, ci si sia spinti fino alle più minute suddivisioni, mentre riguardo allo scheletro ci si sia a lungo accontentati, e in parte ci si accontenti tuttora, di impiegare un concetto così superficiale. Ad esempio, cosa è più contrario all’idea, nonché alla funzione dell’os temporum e dell’os petrosum che il descriverli insieme? Tuttavia così è avvenuto per lungo tempo, per quanto l’osteologia comparata ci insegni che, per conseguire un concetto chiaro della costituzione dell’organo dell’udito, dobbiamo non solo considerare l’os petrosum come completamente separato dall’os temporum, ma anche suddividerlo in due diverse parti.

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In seguito vedremo che questo diverso concrescere delle ossa è, se non casuale – poiché nei corpi organici nulla può essere casuale – tuttavia subordinato a leggi non facilmente riconoscibili, o non facilmente applicabili, quand’anche si siano riconosciute. Così, dal momento che siamo giunti, grazie all’elaborazione del tipo, a conoscere tutte le possibili sezioni ossee, non ci resta altro che indicare nella nostra descrizione, indagando lo scheletro di ogni genere, specie e perfino di qualsivoglia individuo, quali sezioni siano concresciute e quali siano ancora separabili e distinguibili. Ricaviamo in tal modo il grande vantaggio di poter riconoscere le parti anche quando esse non mostrino più alcun segno visibile di separazione: l’intero regno animale ci apparirà così sotto un unico grande quadro, e non saremo certo portati a credere che ad una specie, o addirittura ad un individuo, manchi quell’elemento che resta celato. Impariamo a vedere con gli occhi della mente178, senza i quali, come in ogni cosa, così in particolare anche nella scienza naturale, procederemmo al buio come ciechi. Ad esempio, così come sappiamo che nel feto179 l’osso occipitale è composto di più parti, e questa conoscenza ci aiuta a comprendere e a spiegare la conformazione dell’osso occipitale completamente saldato nelle sue parti, così l’esperienza ci illustrerà anche la ripartizione delle ossa, ancora evidente in alcuni animali, nonché la forma che quest’osso presenta in altri animali e principalmente nell’uomo, spesso singolare e difficile da comprendere e perfino da descrivere. Per spiegare la costituzione, già molto complicata, dei mammiferi, dovremo allora, come si è già notato in precedenza, scendere ancora più in basso e ricorrere addirittura agli anfibi, ai pesci e più giù ancora, per procurarci gli strumenti adatti al nostro scopo. La mascella inferiore fornirà un esempio particolarmente notevole. C. Differenze 180 di confini Un altro caso, sebbene piuttosto raro, ci ostacola nell’indagine e nel riconoscimento delle singole ossa. Troviamo infatti che esse sembrano talvolta avere altri confini ed essere a contatto con ossa diverse rispetto a quanto solitamente si osserva. Così, ad esempio, l’apofisi laterale dell’osso intermascellare

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nei felini giunge in alto fino all’osso frontale, separando la mascella superiore dall’osso nasale. Al contrario, nel bue è l’osso lacrimale a separare la maxilla superior dall’osso nasale. Nella scimmia gli ossa bregmatis si congiungono all’os sphenoideum e separano tra loro l’os frontis e l’os temporum. Simili casi devono essere esaminati con maggior precisione nel loro contesto, poiché possono rivelarsi solo apparenti, e presentarsi in un modo che occorre indagare più da vicino con un’accurata descrizione delle ossa. D. Differenze di numero È noto che le articolazioni più esterne delle estremità sono diverse anche nel numero; di conseguenza, anche le ossa che si trovano alla base di tali articolazioni devono necessariamente differire nel numero; così troviamo che il numero delle ossa del carpo e del tarso, del metacarpo e del metatarso, nonché delle falangi, è variabile, in misura tale che al diminuire delle une diminuiscono anche le altre, come si mostrerà considerandole singolarmente. Allo stesso modo diminuisce il numero delle vertebre, siano esse quelle dorsali, lombari, del bacino o del coccige; così avviene per il numero delle costole, e delle parti vertebrali o piatte dello sterno; e allo stesso modo varia il numero dei denti, e quest’ultima differenza sembra determinare una grandissima diversità nella struttura dell’intero corpo. Tuttavia, l’osservazione riguardo ai denti non ci preoccupa, poiché è la più facile di tutte, e, se siamo precisi, non può più sorprenderci. E. Differenze di grandezza Poiché gli animali differiscono molto tra loro per grandezza, anche le loro parti ossee dovranno necessariamente presentare dimensioni diverse. Si tratta di rapporti misurabili, e possiamo qui impiegare le misurazioni rilevate da molti anatomisti, in particolare da Daubenton. Se anche tali parti ossee non differissero spesso anche per la forma, come vedremo nel

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seguito, difficilmente la differenza di grandezza potrebbe indurci in errore, poiché ad esempio il femore di un grande animale si può agevolmente confrontare con quello di uno più piccolo. A tale proposito occorre fare una considerazione che riguarda l’ambito generale della storia naturale. Infatti, sorge la domanda: la grandezza influisce sulla costituzione, sulla forma? E in che misura? Sappiamo che tutti gli animali molto grandi sono al contempo informi, ovvero che in alcuni casi sembra che la massa abbia la preminenza sulla forma, e in altri che non si crei una proporzione felice tra le grandezze delle varie membra. Ad un primo sguardo si sarebbe portati a ritenere che dovrebbe poter nascere un leone di venti piedi così come un elefante della medesima grandezza, e quest’ultimo dovrebbe potersi muovere agilmente al pari del leone attualmente esistente sulla terra, se tutte le sue parti fossero reciprocamente proporzionate; ma l’esperienza ci insegna che i mammiferi compiutamente sviluppati non possono superare una determinata grandezza, e che di conseguenza, all’aumentare delle dimensioni, anche la costituzione inizia a vacillare, e compaiono tratti mostruosi. Perfino nel caso dell’uomo si tende ad affermare che ad individui eccezionalmente grandi facciano difetto delle facoltà intellettive, mentre gli individui più minuti mostrerebbero una mente più vivace. Si è inoltre notato che un viso riflesso in uno specchio concavo appare molto ingrandito ma privo di spirito, proprio come se, anche nel mero riflesso, si potesse ingrandire unicamente la massa fisica, ma non la forza dello spirito che la anima. F. Differenze nella forma Ora però emerge la difficoltà maggiore, che sorge dal fatto che anche le ossa di animali diversi sono estremamente dissimili tra loro nella forma. Ne deriva spesso l’imbarazzo dell’osservatore, sia che abbia di fronte a sé lo scheletro intero, sia che ne esamini singole parti. Se trova le parti fuori del loro contesto, spesso non sa come spiegarle; tuttavia, anche quando le abbia riconosciute, non sa come poterle descrivere e soprattutto come confrontarle, poiché, nell’estrema diversità della

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struttura esteriore, sembra mancargli un tertium comparationis. Ad esempio, chi riterrebbe la zampa anteriore di una talpa e di una lepre la medesima parte di due esseri organici affini? Tuttavia, tra i modi in cui le stesse membra di diversi animali possano divergere così tanto nella forma, modi che solo nel corso dell’esposizione possono diventare completamente chiari, vorremmo notare in particolare i seguenti. In un animale l’osso può essere semplice e rappresentare soltanto, per così dire, il rudimento di quest’organo, mentre in un altro lo stesso osso può trovarsi compiutamente sviluppato, nello stadio di massima perfezione. Così ad esempio l’osso intermascellare del capriolo è talmente diverso da quello del leone, che ad un primo sguardo sembra non porsi alcun confronto. Allo stesso modo, un osso può essere in un certo senso compiutamente formato, ed essere tuttavia al contempo contratto e distorto dal resto della costituzione a tal punto che non si oserebbe quasi riconoscerlo come il medesimo osso. È questo il caso degli ossa bregmatis degli animali con le corna e con i palchi, in confronto con gli ossa bregmatis dell’uomo, nonché dell’osso intermascellare del tricheco in confronto con quello di qualunque altro predatore. Inoltre, ogni osso che compie la sua funzione con lo stretto necessario possiede anche una forma più determinata e riconoscibile rispetto allo stesso osso che sembra avere una massa ossea maggiore di quanto non gli sia necessaria per adempiere la stessa funzione; per questo la sua forma si modifica in modo singolare, e in particolare si dilata. Così nel bue e nel maiale la presenza di sinuosità mostruose rende le ossa piatte completamente irriconoscibili, laddove al contrario nei felini queste stesse ossa appaiono straordinariamente belle ed evidenti. Un altro modo in cui un osso può sottrarsi quasi completamente al nostro sguardo coincide con il suo concrescere insieme ad un osso vicino, in modo tale che, in particolari condizioni, il vicino necessiti di maggiore materia ossea di quanta gliene sarebbe destinata in una conformazione regolare. In tal modo, all’altro osso concresciuto viene sottratta tanta materia che esso si consuma quasi interamente. Così le sette vertebre cervicali della balena concrescono a tal punto che sembra di vedere soltanto l’atlante con un’appendice. Per contro, ciò che è più costante è il luogo in cui si tro-

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va sempre l’osso, e la destinazione cui si adatta in una struttura organica. Perciò nella nostra elaborazione cercheremo sempre in primo luogo l’osso nel luogo che gli compete, e lo troveremo sempre nel medesimo luogo, anche se spostato, compresso e talvolta anche dilatato. Intendiamo vedere quale sia la sua funzione in base al luogo che assume nell’organismo. Da ciò si potrà riconoscere quale sia, in base a tale funzione, la forma che dovrà avere, e dalla quale non potrà deviare, almeno in generale. Saremo allora in grado di dedurre ed astrarre in parte dal concetto e in parte dall’esperienza le possibili deviazioni da questa forma. Riguardo ad ogni osso si cercherà di esporre, in un determinato e chiaro ordine, le deviazioni in cui si presenta, in modo tale da costruire una serie che vada dal semplice al composto e strutturato o viceversa, a seconda che le circostanze particolari appaiano favorire la chiarezza descrittiva. Si capisce facilmente quanto sarebbero auspicabili delle monografie complete su singole ossa, analizzate nell’intera classe dei mammiferi, così come abbiamo auspicato in precedenza una descrizione più completa e precisa in riferimento al tipo che intendiamo costruire. Con questo nostro sforzo cercheremo di scoprire se non esista un punto di unificazione, attorno a cui possiamo riunire le esperienze fatte e ancora da fare a proposito di questo argomento in una visione panoramica. viii. secondo quale ordine si debba considerare lo scheletro e cosa si debba notare a proposito delle sue diverse parti Nella trattazione riguardo a questo argomento, le osservazioni generali devono essere già state presentate, e nel complesso deve essere già noto all’osservatore su cosa egli debba porre attenzione in generale, e come in particolare si debba dirigere la riflessione affinché, nella descrizione a cui deve servire il presente schema, non compaia nulla che sia comune a tutti gli animali, bensì soltanto ciò in cui essi differiscono gli uni dagli altri. Così ad esempio nella descrizione generale si esporrà il modo in cui le ossa della testa si trovano giustappo-

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ste le une alle altre e connesse reciprocamente. Per contro, in questa descrizione particolare, si noterà soltanto il caso in cui esse mutano, come talvolta avviene, i loro vicini. In tal modo, ad esempio, un osservatore agisce correttamente quando nota se un osso della testa o una sua parte presenti dei seni, e riporta tale osservazione alla fine, tra le annotazioni generali sull’argomento. In ciò che segue risulteranno molti momenti descrittivi simili. Caput Os intermaxillare. Pars horizontalis s. palatina, Pars lateralis s. facialis, Margo anterior. NB. In questo come nelle altre ossa della faccia e in altre ancora, la cui forma è molto variabile, si può anticipare qualcosa a proposito della forma generale, prima di procedere dedicandosi a quella delle parti, solo perché a quel punto tale forma si presenta da sé. Dentes, aguzzi, smussati, piatti, piatti e con corona. Canales incisivi. A tale proposito ci si chiede se lo spazio tra l’os intermaxillare sia grande o piccolo. Maxilla superior. Pars palatina s. horizontalis, Pars lateralis s. perpendicularis, Margo s. pars alveolaris, Dentes. Canino, in proporzione piccolo o grande; aguzzo, smussato, curvo, rivolto verso l’alto o verso il basso, Molari, semplici e aguzzi,

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composti e larghi, con corone, le cui lamine ossee interne presentano lo stesso orientamento rispetto a quelle esterne, con corone in forma di labirinto, con labirinti molto ammassati, a tre punte, piatti. Foramen infraorbitale. Solo foramen; canale più o meno lungo, la cui uscita si riscontra sulla faccia; si presenta talvolta doppio. Os palatinum. Pars horizontalis s. palatina Pars lateralis, Pars posterior, Processus hamatus, Canalis palatinus. Se si volessero effettuare delle misurazioni, per stabilire così una comparazione, si potrebbero misurare le tre ossa sopra menzionate, che insieme formano il palato, e confrontare tra loro le rispettive lunghezze, nonché la larghezza rispetto alla lunghezza generale. Os zygomaticum. La sua forma più o meno contratta. Il suo collegamento con le ossa vicine, che non è sempre lo stesso. In quali casi si presenti dotato di seni e a cosa si unisca il sinus. Os lacrymale. Pars facialis, Pars orbitalis, Canalis. Os nasi. Rapporto tra lunghezza e larghezza. In che misura tali ossa appaiano come lamelle oblunghe quadrangolari o con altre proprietà. La loro connessione e prossimità ad altre ossa, che non sempre avviene allo stesso modo. La grande fontanella, chiusa dalla membrana, tra quest’osso e quello vicino. Os frontis.

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In questo caso, data la presenza di seni, sono da vedere specialmente le lamelle interne ed esterne dell’osso. La lamella esterna prosegue in una superficie o in un arco, va a chiudere verso l’esterno la parte superiore della fronte, mentre all’interno la lamella interna, fissandosi all’os ethmoideum, abbandona quella esterna e costituisce i cosiddetti sinus frontales. I sinus di tutto il restante osso, che si collegano ai precedenti, e la sinuosità delle apofisi. Le corna, in quanto prosecuzioni dei sinus, possono essere curve o dritte. – Corna che non presentano sinus, né poggiano su sinus. Il processus zygomaticus è osseo oppure membranoso. In che modo la prossimità del globo oculare agisca sulla forma interna del cervello, comprimendo o lasciando libero l’os ethmoideum. Os ethmoideum. Compresso. Libero di estendersi. Notevole la misura in larghezza dell’intero ventricolo cerebrale. Conformazione delle lamelle del corpo dell’intero etmoide. Vomer. Conchae. Torsione semplice, torsione molto complicata. Os sphenoideum anterius. Corpus. Notevole presenza di seni in confronto alle lamelle dell’os ethmoideum. Alae. Ci si può chiedere se non si trovino in qualche luogo separate come avviene nel feto umano. Os sphenoideum posterius. Corpus. Alae. Sinuositates. Confronto tra le due ossa, in particolare tra l’ala e la sua estensione. Os temporum. La forma della pars squamosa. Processus zygomaticus più o meno lungo o corto. Notevole presenza di sinus in quest’osso.

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Os bregmatis. Le diverse forme; relazione tra la loro grandezza e l’osso frontale. Os occipitis. Base. Si confronta nella sezione delle due ossa: os sphenoideum e os ethmoideum. Partes laterales. Processus styloidei, talvolta dritto, a volte curvo. Pars lambdoidea. Bulla. Collum. Bulla sive marsupium, assume talvolta la forma di un processus mastoideus, ma non deve essere confusa con questo. Os petrosum. La pars externa è spesso spugnosa, e spesso addirittura fornita di sinus; si colloca verso l’esterno tra l’os temporum e l’os occipitis. Pars interna. In quest’ultima si inseriscono i nervi acu­ stici. La conchiglia, e così via. Si tratta di un osso molto solido, simile all’avorio. Ossicini mobili dell’apparato acustico. Truncus Vertebrae colli. In generale sono da notare la loro lunghezza, larghezza e robustezza. L’atlante è modellato particolarmente in larghezza. Indica un’affinità con le ossa del cranio181. Epistropheus. Processo odontoide alto e largo. Vertebra tertia. Notare la forma dei lati e le apofisi simili a spine. Vertebra quarta. Deviazioni di questa forma. Vertebra quinta. Ulteriore deviazione. Vertebra sexta. Da questa nascono i processi pterigoidei, di cui le deviazioni graduali della vertebra precedente costituiscono per così dire i prodromi. Vertebra septima. Piccola apofisi laterale condiloide. Superficie articolare per i condili della prima costola.

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Vertebrae dorsi. Contarle. Si deve ancora determinare con maggior precisione cosa si debba osservare in esse e in che modo si differenzino tra loro. Indicare la grandezza e l’orientamento dei processus spinosi. Vertebrae lumborum. Contarle. Indicare la forma e l’orientamento dei processus laterales e horizontales. Bisogna ancora trattare in maniera più circostanziata delle regolari deviazioni della sua forma. NB. Anche se ci atteniamo alla suddivisione consueta, e definiamo vertebrae dorsi quelle a cui si saldano le costole, e vertebrae lumborum le rimanenti; - solo nel caso degli animali notiamo ancora una suddivisione diversa; - osserviamo che il dorso presenta in effetti un certo centro, da cui si dipartono sia i processus spinosi all’indietro, sia i più ampi processus inclinati in avanti. Tale centro si trova solitamente prima della terza falsa costola. Le vertebre devono essere contate fino al centro e da lì all’indietro, e se si presenta qualcosa che sia degno di nota bisogna registrarlo. Vertebrae pelvis. Occorre notare la loro maggiore o minore concrescenza. Devono essere contate. Vertebrae caudae. Devono essere contate. Notare la loro forma. Spesso possiedono delle apofisi laterali pterigoidee, che progressivamente scompaiono, poiché infine l’osso della vertebra si trasforma in cartilagine. Costae. Verae. Devono essere contate. Osservarne la lunghezza e robustezza. La loro maggiore o minore arcuatura. Occorre notare la deviazione della loro parte superiore e ciò che vi si trova di generale.

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Il collo in effetti si accorcia progressivamente, il tuberculum si allarga avvicinandosi maggiormente al capitulum. Spuriae. Come per le precedenti. Sternum. Vertebrae sterni, Devono essere contate. Falangiformi. Appiattite. In generale occorre notare la forma dello sternum, se sia lunga o breve, se le vertebrae restino simili procedendo dal lato anteriore a quello posteriore, o se nella forma si osservino deviazioni. In che misura si presentino solide o porose e così via. Adminicula Anteriora. Maxilla inferior. Riguardo ad essa si deve in primo luogo indagare, ricorrendo agli esempi dei pesci e degli anfibi, di quali parti si componga, e registrare in tutti i casi su una mascella animale le suture e le armonie. Nei mammiferi essa consta sempre di due parti, che talvolta sono addirittura concresciute al centro. Si dovrà ancora riflettere sull’eventuale necessità di discostarsi dalla consueta suddivisione e terminologia in rapporto all’uomo. Dentes. Mancano, oppure sono presenti. Incisivi. Canini. Loro grandezza. Premolari. Si veda la mascella superiore. Media. Scapula. Si dovrà in primo luogo mantenere la suddivisione della scapola umana. Forma. Rapporto tra la sua lunghezza e larghezza. Clavicula

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se sia o meno presente Rapporto tra la sua lunghezza e larghezza Humerus. Occorre notare, in questo come in tutte le ossa lunghe, se le epiphyses siano o meno concresciute. Notare, nell’humerus, in che misura si mostri la sua tendenza a farsi distendere. Lunghezza. Brevità e quant’altro possa offrirsi all’osservazione. Ulna. La sua parte più forte è quella superiore, mentre quella inferiore è la più debole. In che misura quest’osso sia per robustezza simile al radio, oppure si saldi a quest’ultimo al modo di una fibula, concrescendo con esso in maggiore o minore misura. Radius. La sua parte più forte è quella inferiore, mentre quella superiore è la più debole; ha la preminenza sull’ulna, e diviene un fulcrum. Al contempo va perduta la supinazione e l’animale resta infine fermo in posizione di pronazione costante. Si veda l’ulna. Carpus. Notare il numero delle ossa, e se esse si riuniscano. Distinguere, dove possibile, quali ossa restino e quali si perdano. Probabilmente sono costanti quelle che si saldano all’ulna e al radio, mentre variano quelle che si collegano con le falangi. Ossa metacarpi. Numero. Rapporto tra le lunghezze. Digiti. Numero delle falangi; probabilmente se ne troveranno sempre tre. Seguirle e descriverle nei solidunguli e nei bisulchi. Ungues; Ungulae. Postica Sono connessi al tronco mediante: Os ilium, Os ischii,

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Os pubis. Loro forma. Notare il rapporto tra lunghezza e larghezza. Le parti potrebbero essere descritte per il momento in base a quelle umane. Si dovrebbe vedere se nelle synchondroses si ossifichino oppure si saldino tramite delle suture. Femur. L’osso è spesso dritto, talvolta lievemente arcuato, talvolta ruotato. A tale proposito, notare se le epiphyses siano concresciute o sciolte. In alcuni animali sembra esistere anche un terzo trocantere. Del resto anche in questo caso può essere mantenuta la ripartizione che si incontra nella descrizione del femore umano. Patella. Tibia. Raramente ha una robustezza uguale o analoga a quella della fibula. Negli animali natanti occorre notare il suo maggiore irrobustimento, e in altri animali la sua completa preminenza sulla fibula. Questione a proposito delle epiphyses. Fibula. È collocata verso l’esterno e verso l’interno, e si assottiglia in diversi animali; in alcuni infine concresce completamente con la tibia. Notare e descrivere le gradazioni, ad esempio se si mostri liscia, e se presenti anche un foro o un’apertura rotonda. Tarsus. Si devono contarne le ossa e, come è avvenuto in precedenza nel caso del carpus, osservare quali ossa manchino e quali siano invece presenti. Probabilmente anche qui le ossa contigue alla tibia e alla fibula saranno costanti, e saranno presenti il calcaneus e l’astragalus. Metatarsus. Numero delle ossa, loro lunghezza o brevità. Digiti. Numero. Da notare in particolare quale digitus eventualmente manchi e se si possa rinvenire al riguardo una legge generale. Probabilmente è l’alluce a scomparire per primo. Io presumo

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anche che talvolta manchi l’anulare o il medio. Relazione tra il numero delle dita dei piedi e delle mani. Phalanges. Probabilmente se ne troveranno sempre tre. Ungues; Ungulae. Poiché il carattere182 che in generale compete a tutte le ossa animali in tutte le specie può essere presentato soltanto come risultato della ricerca, nelle descrizioni eseguite per esercizio si rivelerà più utile che dannoso descrivere le cose così come si presentano davanti a noi. Se allora si accosteranno le varie descrizioni, si potrà trovare in ciò che si è ripetuto l’elemento comune e, in molti lavori, il carattere generale.

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Conferenze sui primi tre capitoli dell’abbozzo di un’introduzione generale all’anatomia comparata, fondata sull’osteologia183 1796

i. vantaggi dell’anatomia comparata, e ostacoli che le si oppongono 184 Grazie ad un’osservazione accurata degli aspetti esteriori degli esseri organici, la storia naturale ha progressivamente conseguito notevole ampiezza e ordinamento, ed ora ciascun singolo osservatore è in grado di acquisire, con un minimo di sforzo e di attenzione, uno sguardo sintetico sul tutto, oppure una prospettiva mirata al particolare. Un risultato così felice non sarebbe stato possibile se i naturalisti non si fossero impegnati a ordinare in serie le caratteristiche esteriori che si possono in qualche modo presentare nei corpi organici, in base alle diverse classi e ordinamenti, generi e specie cui appartengono. Linné ha elaborato ed ordinato magistralmente la terminologia botanica, che è stata resa sempre più completa dalle successive scoperte e ricerche. Analogamente, i due Forster hanno tracciato le caratteristiche degli uccelli, dei pesci e degli insetti, agevolando così la possibilità di stilare descrizioni più precise e concordi. Tuttavia, non ci si può occupare a lungo della determinazione dei rapporti e dei caratteri esteriori senza avvertire l’esigenza di giungere ad una conoscenza più profonda dei corpi organici attraverso l’anatomia. Analogamente, per quanto sia certamente lodevole riconoscere e ordinare i minerali ad un primo sguardo in base ai loro caratteri esteriori, tuttavia è la chimica che contribuisce nel modo migliore ad una loro conoscenza più profonda.

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Entrambe tali scienze però, l’anatomia185 e la chimica, mostrano un aspetto più respingente che non attraente a chi non vi sia familiare. Alla chimica si associano soltanto fuoco e carbone, violente scissioni e miscele dei corpi; all’anatomia, solo bisturi, dissezioni, putrefazione, e un disgustoso sguardo su parti organiche per sempre smembrate. Ma in questo modo si disconosce il lavoro di entrambe queste scienze, che invece esercitano in vario modo lo spirito: se infatti la prima, dopo aver separato, è realmente in grado di congiungere di nuovo, e anzi proprio in virtù di questa connessione può produrre una sorta di vita nuova, come avviene ad esempio nella fermentazione, l’anatomia invece, sebbene possa certo solo separare, fornisce tuttavia alla mente umana l’occasione di confrontare ciò che è morto e ciò che è vivo, ciò che è isolato e ciò che è congiunto, ciò che è distrutto e ciò che diviene, svelandoci le profondità della natura più di qualunque altra osservazione e ricerca. Quanto fosse necessario smembrare il corpo umano per conoscerlo più intimamente è stato compreso lentamente dai medici, e l’anatomia degli animali si è sempre sviluppata accanto a quella umana, benché ad un ritmo diverso. Sono state in parte registrate singole considerazioni, si sono confrontate determinate parti di diversi animali, e tuttavia l’obiettivo di abbracciare con lo sguardo un insieme concorde nei suoi elementi è sempre rimasto, e forse è destinato a rimanere ancora a lungo, un pio desiderioA186. Ma non dovremmo forse sentirci indotti a soddisfare simili desideri e speranze dei naturalisti, dal momento che noi stessi, se non perdiamo mai di vista la prospettiva complessiva, non possiamo che attenderci ad ogni passo grande soddisfazione e perfino dei vantaggi per la scienza? Chi non conosce il debito che alcune scoperte riguardo alla struttura fisica dell’uomo hanno contratto con la zootomia? I vasi chiliferi e linfatici, così come la circolazione sanguigna, sarebbero forse rimasti ancora a lungo ignoti se i loro scopritori187 non li avessero ravvisati in primo luogo negli animali.

Welsch: Somnium Vindiciani sive desiderata medicinae. Aug. Vind. 1676. 4.

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Quante scoperte importanti dunque potranno rivelarsi per questa via ai ricercatori futuri! L’animale, infatti, si presenta come capofila, in quanto la semplicità e limitatezza della sua costituzione ne esprime con grande chiarezza il carattere, e le singole parti si mostrano più grandi, più vistose e caratteristiche. Di contro, conoscere la costituzione umana basandosi unicamente sul suo studio è quasi impossibile: le sue parti si trovano infatti in un rapporto peculiare, alcune si mostrano compresse le une sulle altre e nascoste, mentre nell’animale sono molto chiaramente visibili; inoltre, questo o quell’organo, che nell’animale si presenta molto semplice, nell’uomo mostra invece un’infinita complicazione o suddivisione, al punto che nessuno saprebbe dire se singole scoperte e osservazioni potranno mai rivelarsi conclusive. Sarebbe però auspicabile anche, per un più rapido progresso della fisiologia nel suo complesso, che non si perdesse mai di vista l’azione reciproca188 che tutte le parti di un corpo vivo esercitano le une sulle altre: infatti, solo grazie al concetto secondo cui in un corpo organico tutte le parti agiscono su ciascuna, e ciascuna esercita a sua volta il suo influsso su tutte le altre, possiamo sperare di colmare progressivamente le lacune della fisiologia. La conoscenza delle nature organiche in generale, la conoscenza degli animali più perfetti, che chiamiamo in senso proprio animali, e in particolare mammiferi, la visione del modo in cui le leggi generali agiscono nelle diverse nature finite, e infine la comprensione del fatto che l’uomo è costituito in modo tale da riunire in sé così tante proprietà e nature, presentandosi in tal modo anche solo fisicamente come un microcosmo, e come un rappresentante di tutti gli altri generi animali: tutto ciò può essere esaminato nel modo più bello e chiaro soltanto se con le nostre osservazioni procederemo non, come purtroppo è avvenuto spesso finora, dall’alto verso il basso189, cercando l’uomo nell’animale, bensì iniziando dal basso, per scoprire infine l’animale più semplice nella complessità dell’uomo. In questa direzione è stato già svolto un lavoro incredibile; tuttavia, le osservazioni si trovano ancora sparse, e alcune considerazioni e conclusioni errate oscurano quelle autentiche e vere; quotidianamente, a questo caos si aggiungono ancora

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elementi veri ed elementi falsi, al punto tale che per distinguere e ordinare tutto questo non sarebbero sufficienti né le forze né la vita di un uomo, se non seguissimo anche nell’anatomia la via tracciata esteriormente dai naturalisti, così da rendere possibile la conoscenza del dettaglio in un ordine che si può abbracciare con lo sguardo, allo scopo di ricostruire l’intero quadro in base a leggi conformi alla nostra mente. Il nostro compito sarà agevolato se prenderemo in considerazione gli ostacoli che si sono frapposti finora al procedere dell’anatomia comparata. Poiché già nel determinare le caratteristiche esteriori degli esseri organici lo studioso della natura si trova a lavorare in un campo sterminato, e a lottare con numerose difficoltà, in quanto anche la conoscenza esteriore degli animali perfetti diffusi sulla terra richiede molte indagini impegnative, mentre l’affollarsi di fenomeni sempre nuovi ci confonde e ci angoscia, è stato indispensabile far progredire adeguatamente la classificazione esteriore delle creature affinché l’impulso di pervenire ad un’intima conoscenza di esse potesse infine conseguire un certo grado di universalità190. Nel frattempo si sono accumulate singole osservazioni, in parte in virtù di ricerche condotte intenzionalmente, in parte grazie alla capacità di fissare i fenomeni nell’ordine casuale in cui essi si presentavano; tuttavia, poiché tutto ciò avveniva senza una coerenza complessiva, e senza una visione sintetica, non poteva non introdursi qualche errore. Le osservazioni si sono rivelate ancor più intricate, in quanto erano spesso accolte unilateralmente, e la terminologia veniva stabilita senza riguardo a creature dalla struttura identica o analoga. In tal modo si è prodotta, tra stallieri, cacciatori e macellai, una discrepanza nelle definizioni delle parti esterne e interne degli animali, che siamo tuttora costretti a seguire anche nella classificazione scientifica più rigorosa. Dalle pagine che seguono risulterà evidente l’effetto della mancanza di un punto di unificazione attorno al quale si sarebbe potuta raccogliere la grande mole di osservazioni. Il filosofo scoprirà anche presto che gli osservatori solo raramente si sono sollevati ad un punto di vista dal quale avrebbero potuto abbracciare con lo sguardo la molteplicità degli oggetti, in relazione così significativa tra loro. Anche in questo caso, come accade in altre scienze, non so-

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no stati impiegati dei modi di rappresentare sufficientemente affinati. Se una corrente si è attenuta a constatazioni comuni e alla mera apparenza, senza riflettere oltre, l’altra si è affannata ad uscire dall’impasse assumendo l’esistenza di cause ultime; se nel primo caso non si riusciva mai a giungere al concetto di essere vivente, nel secondo ci si allontanava per questa via da quello stesso concetto cui si credeva di approssimarsi. Nella stessa misura e in modo analogo era di ostacolo la concezione religiosa, in base alla quale si pretendeva di interpretare e impiegare i fenomeni del mondo organico immediatamente per onorare Dio. Inoltre, anziché restare sul terreno dell’esperienza, assicurata dai nostri sensi, ci si perdeva in vacue speculazioni, come ad esempio quelle sull’anima degli animali e su altri argomenti simili. Se si considera che, a fronte della brevità della vita, l’anatomia umana esige un lavoro infinito, e la memoria non riesce quasi a comprendere e ritenere i dati noti, e che inoltre è necessario un notevole sforzo per conoscere le singole nuove scoperte in questo campo, nonché per giungere personalmente a nuove scoperte grazie a un’attenzione accurata e felice, si vede chiaramente come singoli individui dovranno necessariamente dedicare la loro intera esistenza a quest’unico scopo. ii. sulla necessità di stabilire un tipo per agevolare il compito dell’anatomia comparata Che esistano somiglianze191 tra gli animali, in particolare tra quelli più perfetti, è evidente all’osservazione, e riconosciuto tacitamente da chiunque. Di conseguenza è possibile, in base alla mera apparenza esteriore, comprendere facilmente in un’unica classe tutti i quadrupedi. Considerando la somiglianza tra la scimmia e l’uomo, o l’uso che alcuni animali particolarmente abili fanno delle proprie membra per impulso naturale o per esercizio precedentemente acquisito, si è stati condotti molto agevolmente a constatare la somiglianza tra le creature più perfette e i loro fratelli meno perfetti, tanto che da sempre naturalisti e anatomisti hanno fatto ricorso a simili paragoni. La possibilità che l’uomo si trasformi in uccello e in fiera, che si era mostrata all’immaginazione dei poeti, è stata proposta, da alcuni natu-

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ralisti molto acuti, anche all’intelletto, a seguito di interminabili osservazioni delle rispettive singole parti. Così Camper ha spinto coraggiosamente anche oltre l’analogia tra le forme, seguendola perfino nel regno dei pesci. Dunque giungeremmo in tal modo ad affermare senza timore che esiste un unico modello192 in base al quale sono formate tutte le nature organiche più perfette, tra cui consideriamo i pesci, gli anfibi, gli uccelli, i mammiferi e, all’apice di questi ultimi, l’uomo; e tale modello oscilla soltanto nelle sue parti costanti, sviluppandosi e trasformandosi continuamente in virtù della riproduzione. Molto preso dall’idea concepita, Camper193 si è arrischiato perfino a trasformare sulla lavagna, a colpi di gesso, il cane nel cavallo, il cavallo nell’uomo, la mucca nell’uccello, ed ha insistito che si debba scorgere nell’encefalo del pesce il cervello dell’uomo, raggiungendo, grazie a simili ingegnosi paragoni, azzardati e audaci, lo scopo di liberare il senso interno dell’osservatore, troppo spesso imprigionato nelle apparenze esteriori. Si è potuto così considerare ciascun singolo elemento di un corpo organico non soltanto in sé e per sé, ma abituandosi ad intuire, se non proprio a vedere, in esso l’immagine di un elemento simile presente in una natura organica affine; e si è iniziato in tal modo a nutrire la speranza di raccogliere le osservazioni di questo tipo, antiche e recenti, completandole con nuovo impegno, per poterle poi presentare in un quadro comprensivo. Tuttavia, anche quando sembrava di lavorare in vista di un unico scopo, concordando sulla prospettiva generale, è stato inevitabile che si creasse qualche confusione nei dettagli: infatti, per quanto gli animali possano essere simili gli uni agli altri nel complesso, pure determinate singole parti mostrano forme estremamente diverse nelle varie creature, sicché non poteva non accadere spesso che si scambiasse una parte per un’altra, o la si cercasse nel posto sbagliato, oppure non la si riconoscesse. L’esposizione più dettagliata fornirà diversi esempi in proposito, mostrando la confusione che ci ha avvolto in passato, e che ancora ci avvolge. Responsabile di tale confusione sembra essere in particolare il metodo di cui solitamente ci si è serviti dal momento che l’esperienza e la consuetudine non offrivano nulla di più convincente. Ad esempio, sono stati paragonati tra loro singoli

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animali senza ricavarne quasi alcun vantaggio per il quadro complessivo. Infatti, anche posto che si confrontassero correttamente il lupo e il leone, non per questo si giungeva ancora a stabilire un parallelismo tra queste due specie e l’elefante. Non sfuggirà allora il fatto che, in questo modo, si dovrebbero paragonare tutti gli animali con ciascuno, e viceversa: un lavoro che si rivelerebbe infinito, impossibile, e, quand’anche per miracolo venisse portato a compimento, si mostrerebbe sterminato e sterile. (A questo punto citare esempi da Buffon, e discutere dell’impresa di Josephi.) Tuttavia, poiché siamo in grado di riconoscere che la forza creatrice genera e sviluppa le nature organiche più perfette in base ad uno schema generale, potrà forse risultare impossibile presentare alla mente, se non ai sensi, tale modello, ed elaborare sulla sua falsariga, come seguendo una norma, le nostre descrizioni, riconducendo nuovamente ad esso, anche dopo averlo dedotto dalla forma dei vari animali, le forme più diverse? Solo una volta compresa l’idea di un simile tipo generale si constaterà come sia impossibile fissare come canone un singolo genere. Il particolare non può essere modello per l’insieme, e dunque non è lecito cercare nell’individuo singolo il modello per tutti gli altri. Le classi, i generi, le specie e gli individui si comportano come i singoli casi rispetto alla legge: vi sono contenuti, e tuttavia non la contengono, né possono fornirla da sé. Meno che mai si dovrà allora porre l’uomo, con la sua alta perfezione organica, e anzi proprio in ragione di tale perfezione, come norma per gli altri animali imperfetti, e non è lecito indagare e descrivere la totalità delle creature né in base alla specie, né in base all’ordine o alla prospettiva secondo cui occorre considerare e trattare dell’uomo, quando lo si esamini isolatamente. Tutte le osservazioni prodotte dall’anatomia comparata, occasionalmente riferite all’anatomia umana, per quanto possano rivelarsi utili e preziose se prese singolarmente, tuttavia nel complesso restano incomplete e, se considerate con attenzione, addirittura ci confondono e distolgono dal nostro scopo. È il concetto stesso del tipo194 ad indicarci come si debba rintracciarlo: l’esperienza deve insegnarci quali siano le parti comuni a tutti gli animali, e in cosa tali parti differiscano

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nei diversi animali; solo a questo punto subentra l’operazione di astrazione, che consente di ordinarle, presentandole in un quadro generale. Del fatto che in tal modo non procediamo solo per ipotesi, ci assicura la natura stessa del nostro oggetto. Infatti, andando alla ricerca delle leggi che governano la formazione delle creature viventi, indipendenti e in grado di agire autonomamente, non ci perdiamo nell’ampiezza del campo di osservazione, ma conquistiamo uno sguardo in profondità. Inoltre, che la natura debba racchiudere in assoluta unità la sua più grande molteplicità, se vuole produrre una simile creatura, risulta dal concetto stesso di essere vivente, ben determinato, distinto da tutti gli altri e in grado di agire con un certo grado di spontaneità. Ci riteniamo dunque certi dell’unità, molteplicità, conformità a scopi e leggi del nostro oggetto; se saremo abbastanza cauti e tenaci da approssimarci ad esso osservandolo e trattandolo mediante una concezione semplice ma ampiamente comprensiva, libera e pur soggetta a norme, vivace e regolata; se saremo in grado di contrapporre al genio certo e inequivocabile della natura creatrice quel complesso di forze spirituali che si è soliti chiamare genio e che tuttavia spesso produce effetti molto ambigui, e se infine molti individui lavoreranno in un unico senso su questo argomento sterminato, dovrà necessariamente nascere qualcosa di cui, come uomini, potremo con ragione rallegrarci. Ora, se abbiamo illustrato le nostre fatiche come lavori di semplice anatomia, esse dovranno comunque essere intraprese con costante riferimento alla fisiologia, perché possano dirsi feconde, anzi perché siano addirittura possibili in generale nel nostro caso. Quindi si dovrà guardare non alla mera giustapposizione delle parti, ma all’influsso vivente che esse esercitano le une sulle altre, alla loro dipendenza e alla loro azione. Infatti, allo stesso modo in cui le parti, in condizioni sane e vive, si connettono tutte in una catena incessante di azioni reciproche, e la conservazione delle parti già formate è resa possibile soltanto da altre parti già formate, così la formazione stessa non può che essere prodotta e determinata, nella sua funzione fondamentale così come nelle sue deviazioni, da un influsso reciproco, del quale può fornirci notizie e spiegazioni solo un’esposizione accurata. Nel nostro lavoro preliminare alla costituzione del tipo impareremo anzitutto a riconoscere, verificare e impiegare i di-

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versi criteri di comparazione ci cui ci si serve; analogamente, potremo utilizzare i paragoni già stabiliti, anche se con grande cautela, a causa degli errori che spesso vi si trovano, e piuttosto dopo aver costituito il tipo, e non in via preliminare alla sua costituzione. Tra i metodi di comparazione195 finora impiegati con maggiore o minore successo, si trovano i seguenti: Comparazione degli animali tra loro, considerati singolarmente o nelle loro parti. (Citazione di diversi autori e loro valutazione. Buffon, Daubenton, Duvernay, Unzer, Camper, Sömmerring, Blumenbach, Schneider.) Allo stesso modo sono paragonati anche gli animali con l’uomo, anche se mai nel loro complesso e intenzionalmente, bensì solo parzialmente e in modo casuale. (A questo proposito ancora una volta autori e osservazioni.) Inoltre, la comparazione tra le razze umane196 è stata condotta con particolare zelo e attenzione, diffondendo in tal modo una luce tersa sulla storia naturale dell’uomo. La comparazione tra i due sessi, poi, è indispensabile alla fisiologia per una più profonda comprensione del mistero della riproduzione, considerata come l’evento in assoluto più importante. Il naturale parallelismo dei due elementi agevola molto il compito, che consiste nel rendere evidente anche ai sensi il nostro concetto più alto, vale a dire l’idea per cui la natura è in grado di modificare e alterare organi identici, al punto che questi ultimi non solo appaiono totalmente diversi per forma e funzione, ma giungono perfino a rappresentare, in certo senso, un’antitesi. Inoltre, anche in passato nella descrizione del corpo umano si è tratta un’agevolazione dal raffronto tra le sue parti principali, come ad esempio le estremità superiori e inferiori. Le parti più piccole, come ad esempio le vertebre, si possono analogamente accostare le une alle altre con grande vantaggio per la scienza, poiché l’affinità tra le diverse forme emerge qui nel modo più vivido agli occhi dell’osservatore. Tutti questi criteri di comparazione ci guideranno nel nostro lavoro e potranno continuare ad essere impiegati anche dopo che si sia costituito il tipo, con l’unica differenza che a quel punto l’osservatore avrà il vantaggio di porre le sue ricerche ancor più in relazione ad un quadro complessivo.

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iii.sulle leggi dell’organizzazione in generale, che dobbiamo tener presenti nella costruzione del tipo Per agevolare la comprensione degli esseri organici, gettiamo uno sguardo ai minerali. Questi ultimi, così saldi ed incrollabili nelle loro varie parti costitutive, non mostrano apparentemente alcun ordine e alcun limite nelle loro combinazioni, che pure avvengono anch’esse in base a leggi. Le loro componenti si separano facilmente per poi stabilire nuove connessioni, le quali a loro volta possono dissolversi, sicché il corpo che appariva in un primo tempo smembrato ci si presenta nuovamente nella sua interezza. Così si uniscono e si separano le sostanze semplici, certo non arbitrariamente, ma in una grande varietà di modi, e le parti dei corpi che chiamiamo inorganici, nonostante la loro estrema coesione, si trovano sempre in una sorta di stadio di sospensione e indifferenza, mentre l’affinità più prossima o più forte le strappa dal loro precedente contesto, per costituire un nuovo corpo, le cui componenti, per quanto invariabili, sembrano attendere una nuova composizione, che, a determinate condizioni, può coincidere con la loro precedente combinazione. Notiamo certamente che i minerali, a seconda che contengano componenti simili o diverse, appaiono anche in forme molto variabili; tuttavia, la possibilità stessa che la parte fondamentale di una nuova combinazione influisca immediatamente sulla forma determinandola, mostra l’incompletezza di una tale combinazione, che può essere di nuovo scomposta con altrettanta facilità. Così vediamo sorgere e dissolversi certi minerali semplicemente a causa dell’afflusso di sostanze estranee; bei cristalli trasparenti si frantumano riducendosi in polvere se l’acqua di cristallizzazione evapora e (ci sia consentito addurre un esempio più distante) la limatura di ferro riunita in peli e setole da un magnete si divide di nuovo nelle sue singole parti, non appena viene meno quella potente azione attrattiva. Il carattere principale dei minerali, al quale dobbiamo a questo punto prestare attenzione, è l’indifferenza delle loro parti rispetto alla loro riunione, al loro rapporto di coordinazione o subordinazione. A seconda della loro funzione fondamentale, esse presentano determinati rapporti, più o meno

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stretti, che, quando si mostrano, assumono l’aspetto di una inclinazione reciproca; perciò i chimici attribuiscono anche ad esse l’onore di una scelta, nel caso in cui si diano simili affinità. Sono però spesso soltanto delle determinazioni esteriori quelle che le attraggono o le respingono producendo in tal modo i minerali, anche se con ciò non intendiamo in nessun modo negare il contributo così delicato che spetta loro nel generale soffio vitale della natura197. Per contro, quanto grande è la differenza degli esseri organici, anche imperfetti! Essi assimilano in determinati organi diversi il nutrimento, e in particolare solo una parte di esso, separandola dal resto, e le forniscono delle proprietà caratteristiche e peculiari, riunendo intimamente alcuni elementi con altri, e conferendo alle membra di cui sono costituiti una forma che testimonia della più grande varietà della vita, e che, una volta distrutta, non può più essere ricostruita dai suoi resti. Se confrontiamo ora questi organismi imperfetti con i più perfetti, troviamo che i primi, quand’anche elaborino con una certa forza ed originalità gli influssi elementari, non sono in grado tuttavia di elevare ad un livello superiore di determinazione e saldezza le parti organiche prodotte da tali influssi, come invece avviene nelle nature animali più perfette. Così, per non scendere più in basso nel regno animale, sappiamo ad esempio che le piante, sviluppandosi secondo una determinata successione, presentano un solo e medesimo organo in forme estremamente diverse. L’esatta conoscenza delle leggi che regolano tale metamorfosi farà certamente progredire la scienza botanica, sia mediante la semplice descrizione, sia cercando di penetrare nella natura intima delle piante. In questa sede occorrerà notare, in proposito, che le parti organiche delle piante percepibili dai nostri sensi, foglie e fiori, stami e pistilli, gli involucri più vari e quant’altro si offre all’osservazione, sono tutti organi identici che, attraverso una successione di operazioni vegetative, si alterano progressivamente al punto tale da diventare irriconoscibili. Uno stesso organo può svilupparsi come la foglia più composta o tornare alla più assoluta semplicità in forma di stipula. Ed è sempre uno stesso organo che, a seconda delle circostanze, può svilupparsi in un bocciolo o in un ramo sterile. Il calice, accelerando il suo processo di sviluppo, può farsi corolla,

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mentre quest’ultima può regredire tornando a somigliare ad un calice. In tal modo diventano possibili le più diverse forme delle piante, e chiunque tenga sempre presenti simili leggi nelle sue osservazioni, ne trarrà grande vantaggio. Ancor più chiaro è stato il fatto che, studiando gli insetti, si dovesse prendere attentamente in considerazione la loro metamorfosi, poiché senza tale concetto sarebbe stato impossibile giungere ad una visione d’insieme dell’economia della natura in questo regno; di tutto ciò, dunque, già in passato si è tenuto conto. Osservare accuratamente la metamorfosi degli insetti in sé per sé, e confrontarla con quella delle piante si rivelerà un compito molto piacevole; al momento però ci limitiamo ad accennare solo ciò che serve immediatamente al nostro scopo. La pianta198 appare forse solo per un attimo come un individuo, vale a dire nel momento in cui si stacca dalla pianta madre in forma di seme. Nel corso della germinazione essa si mostra già come un essere molteplice, in cui non solo una stessa parte scaturisce da parti identiche, ma anche tali parti si sviluppano in modi diversi in successione, sicché infine ciò che si presenta ai nostri occhi è un insieme molteplice, apparentemente coeso. Tuttavia questo tutto apparente si compone di elementi reciprocamente del tutto indipendenti, come risulta in parte dall’evidenza, in parte dall’esperienza: infatti, piante che vengono separate e divise in più parti sono in grado di germogliare di nuovo dal terreno in altrettanti esemplari, ciascuno dei quali si presenta come un tutto apparente. Il caso degli insetti si presenta molto diverso. L’uovo, compiutamente formato, che si stacca dalla madre, si manifesta già come un individuo; parimenti, la larva che ne esce è un’unità indipendente, le cui parti non solo sono connesse, determinate e ordinate in base ad una certa successione, ma si trovano anche in un rapporto di subordinazione tra loro, e appaiono, se non guidate da una volontà, quantomeno stimolate da un desiderio. Vi si nota chiaramente un lato superiore e uno inferiore, uno anteriore e uno posteriore, e tutti gli organi si sviluppano in una determinata sequenza, di modo che nessuno di essi può occupare il posto di un altro. Tuttavia, la larva è una creatura imperfetta, incapace di svolgere la funzione più necessaria tra tutte, quella della riproduzione, cui può giungere unicamente per via di metamorfosi.

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Nelle piante notiamo come la successione degli stadi sia connessa alla loro coesistenza: gli steli si sollevano ancora direttamente dalla radice quando già si sviluppano i fiori; la generazione ha luogo da sé, e i primi organi, preparatori, si mostrano ancora vivi e forti, mentre solo quando il seme fecondato si approssima alla maturazione l’intero organismo appassisce. Negli insetti si verifica un caso totalmente diverso. Essi si lasciano alle spalle ciascun involucro di cui si spogliano, finché dall’ultimo involucro della larva esce una creatura decisamente autonoma; ciascuno degli stadi successivi è separato dal precedente, e non è possibile tornare indietro. La farfalla può svilupparsi solo dal bruco, mentre al contrario il fiore può svilupparsi sia dalla pianta che su di essa. Consideriamo ora la forma del bruco in rapporto a quella della farfalla; registriamo le seguenti differenze fondamentali. Al pari di ogni verme composto di parti articolate, il bruco si compone di elementi piuttosto simili tra loro, anche se la testa e la coda si distinguono in certa misura; le zampe anteriori, invece, differiscono ben poco dai corrispondenti organi posteriori, e il corpo si divide in anelli piuttosto simili. Nel corso della crescita della larva, un involucro dopo l’altro viene spezzato e abbandonato; ciascuno sembra prodursi solo per spezzarsi e cadere a sua volta, nel momento in cui, giunto al massimo della sua estensione, perde la sua elasticità. La larva cresce senza mutare sensibilmente la sua forma, finché il suo sviluppo non giunge infine al punto oltre il quale non può procedere, ed è allora che la creatura subisce una singolare metamorfosi: la crisalide cerca infatti di liberarsi di un certo tessuto che era parte dei sistemi del suo corpo, mentre al contempo sembra che essa, nel suo complesso, si purifichi di tutto ciò che aveva di superfluo, e che si opponeva alla metamorfosi in organi più perfetti. In base ad un simile svuotamento, il corpo diminuisce in lunghezza senza tuttavia aumentare proporzionalmente in larghezza, e nel momento in cui, in questa condizione, si spoglia del suo involucro, sotto di esso si trova non una creatura simile alla precedente, bensì un essere totalmente diverso. Un’esposizione più dettagliata della metamorfosi degli insetti dovrebbe mostrare in modo più circostanziato i diversi caratteri dei due stadi. In questa sede però, secondo il nostro scopo, ci volgiamo direttamente ad esaminare la farfalla, e tro-

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viamo un’importantissima differenza rispetto al bruco: il corpo della farfalla infatti non è più composto di elementi simili, ma i vari anelli si sono congiunti e ordinati in un sistema, in parte scomparendo del tutto e in parte restando riconoscibili. Notiamo tre nette suddivisioni: la testa con i suoi organi ausiliari, il petto con i suoi, e l’addome, su cui analogamente si sono sviluppati gli organi adatti. Per quanto non potessimo negare al bruco la sua individualità, esso ci era apparso tuttavia così imperfetto perché le sue parti si trovavano in una relazione di indifferenza reciproca, ciascuna possedeva ed era in grado di mostrare pressappoco lo stesso valore e la stessa importanza di ciascun’altra, e di conseguenza dal loro insieme non poteva nascere nulla che non fosse unicamente e principalmente capace di provvedere alla nutrizione, alla crescita e alla secrezione comune, mentre in questo stadio era impossibile quella secrezione dei vasi e dei succhi tramite le quali soltanto può nascere un nuovo individuo. Solo nel momento in cui, grazie ad una lenta azione nascosta, gli organi capaci di metamorfosi sono giunti al loro più alto grado di perfezione, e i necessari processi di svuotamento e di essiccazione hanno avuto luogo alla temperatura richiesta, le membra sono in grado di distinguersi, uscendo dalla loro precedente relazione, e separandosi il più possibile le une dalle altre e, nonostante la loro intima affinità, possono assumere determinati caratteri anche contrapposti, e convergono in sistemi allo scopo di rendere possibili le molteplici ed energiche operazioni necessarie alla vita. Per quanto una farfalla sia, rispetto ai mammiferi, una creatura imperfetta e transitoria, tuttavia essa ci mostra, con la metamorfosi che compie davanti ai nostri occhi, il vantaggio di un animale perfetto di fronte ad uno imperfetto, che consiste nella decisa separazione delle sue parti, nella certezza che nessuna può essere scambiata per un’altra né sostituita da un’altra, poiché piuttosto ciascuna è destinata alla sua funzione, a cui resta per sempre fedele. Vogliamo ora gettare ancora un fuggevole sguardo su quelle esperienze che ci mostrano come alcuni animali siano in grado di sostituire intere membra199 dopo averle perdute. Un caso simile si può tuttavia verificare solo in creature le cui membra siano equivalenti tra loro, sicché l’una può subentrare all’altra assumendone l’azione e il ruolo, oppure in quegli animali,

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come gli anfibi, la cui natura sia mantenuta più tenue, fluida e fluttuante grazie all’elemento in cui vivono. Di conseguenza, è dalla completa differenziazione delle membra che scaturisce la dignità degli animali superiori, e in particolare dell’uomo, in cui, nell’organizzazione più regolare, ogni cosa assume una forma, una collocazione, un numero ben determinati, e per quanto la multiforme attività della vita possa produrre delle anomalie, l’insieme sarà sempre in grado di ritrovare il suo equilibrio. Tuttavia, avremmo forse avuto bisogno di condurre le nostre analisi procedendo attraverso la metamorfosi delle piante e degli insetti, se non sperassimo in tal modo di giungere a delle conclusioni anche sulla forma degli animali più perfetti? Abbiamo visto come alla base di ogni osservazione sulle piante e sugli insetti debba trovarsi il concetto di una metamorfosi successiva di parti identiche, l’una accanto o dopo l’altra; adesso invece, analizzando il corpo animale, otterremo un grande vantaggio se faremo nostro il concetto di metamorfosi simultanea, già predeterminata fin dal momento della generazione. Così ad esempio è evidente il fatto che tutte le vertebre di un animale costituiscono un solo organo200, anche se chi confrontasse la prima vertebra cervicale con una delle vertebre caudali, non troverebbe traccia di affinità formali. Poiché in questo caso abbiamo davanti agli occhi delle parti identiche e tuttavia così diverse, e non possiamo negare la loro affinità, non possiamo che attenderci interessantissime conclusioni, osservando il loro contesto organico, analizzando i loro punti di contatto e il loro reciproco influsso. Infatti, l’armonia di un insieme organico è resa possibile appunto dal fatto che esso consiste di parti identiche, che si modificano in lievissime alterazioni. Intimamente affini, esse sembrano discostarsi nel modo più ampio per forma, destinazione e funzione, e addirittura contrapporsi, ma è in tal modo che è possibile per la natura creare e fondere tra loro i sistemi più diversi e tuttavia affini, tramite la modificazione di organi simili. Negli animali più perfetti la metamorfosi si verifica in due modi: in primo luogo, come abbiamo visto a proposito delle vertebre, parti identiche si trasformano variamente ma nel modo più costante, seguendo un determinato schema, per opera

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della forza plasmatrice, così da rendere possibile il tipo in generale; in secondo luogo, le singole parti del tipo vengono modificate continuamente in tutti i generi e specie animali, senza tuttavia perdere mai il loro carattere. Come esempio della prima specie di metamorfosi, ripetiamo quanto avevamo tratto dall’osservazione delle vertebre, ciascuna delle quali possiede il proprio carattere, dalle vertebre cervicali fino a quelle caudali. Come esempio del secondo caso invece, citiamo il fatto che la prima e la seconda vertebra cervicale possono essere sempre riconosciute in tutti gli animali, pur tra straordinarie alterazioni, così come, del resto, l’osservatore attento e accurato deve sempre fare procedendo attraverso tutte le varie forme e le loro modificazioni. Ripetiamo dunque che la limitazione, determinatezza e universalità della metamorfosi simultanea, già decisa nella riproduzione, rendono possibile il tipo, e tuttavia è dalla versatilità di tale tipo, in cui la natura è in grado di muoversi con grande libertà, senza esulare dal carattere principale delle sue parti, che si devono far discendere in generale i vari generi e specie degli animali superiori a noi noti.

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Osservazioni su piante e animali (1796-1798)

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L’azione della luce sui corpi organici (estate 1796)201

saggi riguardo all’influsso della luce sulla crescita delle piante Il 16 giugno 1796 ho posto dei semi di lepidio e dei fagioli in 5 ciotole, coprendo No. 1 con un vaso No. 2 con un bicchiere bianco No. 3 con uno giallo No. 4 con uno blu No. 5 con uno viola. Non meno semi di lepidio ho seminato alcuni giorni dopo su una rascia, per metà coperta e per metà aperta. No. 7. Il seme No. 1 si è sviluppato per lo più alla superficie del terreno, penetrandovi solo con una piccola punta, mentre alla radice, in alto, si vedevano crescere peli sottilissimi, dall’aspetto in tutto simile alla muffa eppure appartenenti alla radice; questo fenomeno si poteva poi osservare ancor meglio nei semi coperti dal vaso No. 7. Le radici del No. 1 non penetravano a fondo nel terreno, e il 27 giugno erano lunghe metà o al più tre quarti di pollice francese, mentre lo stelo, dalla punta della radice fino ai cotiledoni, misurava due pollici francesi e mezzo, e anche qualcosa di più. Questo stelo era completamente bianco, i cotiledoni erano invece gialli e sviluppati a mala pena fino alla loro triplice ripartizione; quelli coperti del No. 7 si sono comportati allo stesso modo. Le piante lasciate scoperte del No. 7, che avevano spinto le loro radici attraverso la rascia nell’acqua, mostravano radici

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lunghe tre pollici, mentre la lunghezza dello stelo fino ai cotiledoni era tra le 9 e le 10 linee, il colore dello stelo verdognolo, i cotiledoni sviluppati e lunghi all’incirca quattro linee. Allo stesso tempo avevo seminato dei semi di lepidio liberamente nel terreno, e li indicherò qui con il No. 8. Le radichette erano circa di 9 linee, lo stelo non raggiungeva la lunghezza di un pollice, la metà più grande era stata sotto terra e mostrava un colore bianco, mentre l’altra metà era violacea; i cotiledoni erano compiutamente sviluppati e si preparava già il secondo germoglio. Poiché in questo modo però diventa troppo faticoso annotare gli esperimenti, li riporto sulle tabelle che seguono. Tab. I e II. Inoltre lunedì 20 giugno sono stati seminati sotto una cassetta, in aperta campagna: 1.) una piccola rapa 2.) bietola 3.) radicette 4.) Fagioli 5.) Lepidio Si trovavano anche, nella stessa aiuola, dei cetrioli a due foglie, la cui seconda foglia non era ancora completamente sviluppata. Si vedano le osservazioni riportate alla Tab. III.

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Tabella I Fagioli Radici. seminati il 16 giugno 1796. Osservati il 27 giugno 1796. Misure francesi.

Stelo fino I cotiledoni ai cotiledoni. stessi.

Com’erano Note il 27 giugno. generali.

No. 1. Vaso

Una delle piante affondava regolarmente nel terreno. Le radici laterali erano lunghe 1 pollice, forse qualcosa in più, molto regolari lungo 4 lati.

2 pollici e mezzo. Completamente bianco

Coperto di muffa, a partire dal nucleo.

Ciò che precede vale soltanto per uno, mentre gli altri non si erano ­quasi ­sviluppati.

No. 2. Bicchiere di vetro ­trasparente.

1 Pollice e 1/4. Le radici laterali erano più lunghe, ma non si mostrava molto chiara la direzione regolare secondo i 4 lati.

Fino a 2 pollici. Abbastanza verde.

I cotiledoni e le due foglie successive erano sviluppati, e si preparava il terzo germoglio.

L’umidità in questo contenitore è evaporata rapidissimamente.

No. 3. Giallo

Come al No. 2.

Mezzo ­pollice Abbastanza verde.

Il corculum Vale soltanto non era qua- per uno, si sviluppato. mentre gli altri erano ancora ­indietro.

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Non era rimasto più alcun fagiolo.

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No. 4. Blu

Quasi in tutti i casi come al No. 3

No. 5 viola

Come il pre- Piegato di cedente 3 pollici, a causa della pressione del vetro.

Un bel verde, all’asciutto. Le 2 foglie successive meglio sviluppate in confronto al No. 2.

Questo numero era cresciuto in modo forte e possente, 5 fagioli erano identici, e avevano sollevato il vetro.

Gli steli erano forti e in generale molto ben vegeti.

No. 8. All’aria aperta e in aperta campagna.

Come tutti.

Ancora un bel verde.

Nello sviluppo delle foglie successive nessuna differenza notevole rispetto al No. 5.

Mostravano un aspetto verdeggiante quasi più bello.

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2 pollici e mezzo. Completamente dritto.

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Tabella II

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Semi di lepi- Radici dio seminati il 16 giugno 1796. Osservati il 27 giugno 1796. Misure francesi.

Stelo fino ai cotiledoni

I cotiledoni stessi

Com’erano il 27 giugno

Lunghe No. 1. Coperto con al più 3/4 di pollice, un vaso. all’inizio sviluppate alla superficie del terreno, peli sottili in forma di muffa.

2 pollici e 1/2 completamente bianco.

Sviluppati quasi fino alla loro triplice ripartizione. Gialli.

Non molto freschi, ma alle radici si mostrava un po’ di muffa.

No. 2. 3/4 di polCoperto con lice un bicchiere di vetro bianco.

3/4 di pollice; biancastro

1/2 pollice.

Seccato perché non innaffiato, era per la maggior parte svaporato.

No. 3. Bicchiere di vetro giallo.

Giallo, 1 pollice

1 pollice e 1/4

3/4 di pollice

Appassito, probabilmente a causa dell’azione del sole, che lo ha seccato, e dell’umidità inclusa.

No. 4. Bicchiere di vetro blu

1 pollice, 1 linea

1 pollice

1/3 di pollice

Come il precedente.

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No. 5. 1 pollice Coperto con un bicchiere di vetro viola

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Fino a 2 pollici

10 linee NB. Lo stelo dei cotiledoni è il più lungo, fino alla ripartizione triplice.

Altrettanto freschi e belli che lunghi. Questa copertura lasciava passare dell’aria.

Come il No. 1, soltanto un po’ più verde

Freschi.

No. 6. Sulla rascia, coperto con un vaso

1 pollice Come il No. e da 2 a 3 1. linee; i sottili peli delle radici avevano afferrato con forza la flanella.

No. 7. Coperto allo stesso modo.

Spinto nell’acqua attraverso la rascia 3 pollici.

Da 9 a 10 Ben sviluplinee, verda- pato stro. 4 linee.

No. 8. All’aria aperta e in campagna.

9 linee

Nemmeno un pollice; la metà più grande, sotto terra, era bianca, mentre le altre violacee.

Completamente sviluppati, con in preparazione il secondo germoglio.

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Tabella III Seminati il 20 giugno e coperti con una scatola. Osservati il 5 luglio. NB. In ­campagna.

Radici.

Stelo fino ai cotiledoni

I cotiledoni stessi

No. 1. Piccola rapa

1/2 pollice

Da 3 pollici e 1/2 a 4

A forma di cuore, a mala pena sviluppati, uno più grande dell’altro.

1 pollice e No. 2. Bietola, pro- qualcosa di più. priamente barbabietola.

Prima ­coppia di foglie

3 pollici, co- Linguiformi, lor porpora. uno più corto dell’altro, a mala pena sviluppati.

No. 3. Radicette No. 4. Fagioli.

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Note ­generali.

Non erano affatto germogliati. Come in tutti gli altri casi

Più di 7 pollici; completamente bianco.

In buono stato, moderatamente asciutti.

Lo stelo fino alla prima coppia di foglie misurava un pollice, le foglie stesse erano già sviluppate con il loro peduncolo fino a un pollice di lunghezza, giallo verdastro

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johann wolfgang goethe Più di 1 ­pollice.

3 pollici e più.

A mala pena sviluppati. Uno più corto dell’altro. NB. Quest’ultima osservazione è probabilmente una conseguenza del fatto che i due germogli si serrano l’uno all’altro per formare i cotiledoni doppi.

NB. Sulle foglie dei fagioli si trovavano alcuni pidocchi, ma ciononostante non si notavano danni alla pianta. I cetrioli invece, in cui era già sviluppata la seconda foglia prima che la coprisse la pianta con la scatola, erano completamente divorati dagli insetti.

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[coltura delle piante al buio] Elenco delle piante tedesche e straniere che il 18 giugno 1796 sono state piantate nella loggia, sia come semi sia come piante I Sezione Semi e piante che si trovano in cassette con terreno concimato 1. Semi che sono stati seminati nel terreno, in una parte dell’aiuola Nro. 1. Lathyrus odoratus Latiro odoroso 2. Phalaris paradoxa 3. Isopyrum fumarioides 4. Portulaca patens 5. Corchorus aestuans 6. Celosia cristata 7. Hibiscus esculentus 8. Aeschynomene sesban 9. Erysimum cheiranthoides 10. Ricinus communis 11. Phlomis nepetifolia 12. Oenothera longiflora 13. Dolichos purpureus 14. Arum dracunculus 15. Papaver somniferum 16. Lactuca sativa 17. Mirabilis jalapa 18. Lactuca quercinifolia 19. Phalaris canariensis 20. Mentha perilloides 21. Linum usitatissimum 22. Scorzonera tingitana 23. Pastinaca sativa 24. Pinguicula alpina 25. Cheiranthus helveticus 26. Carthamus tinctorius 27. Saponaria vaccaria 28. Orobanche ramosa

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Vedi Fol. 9; in alto era cresciuto fino a 2 piedi, e aveva sviluppato in alto, in un piccolo spazio intermedio, un numero ancora inferiore di stipulae. NB. Per il resto non era germogliato nient’altro.

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29. Cucurbita verrucosa 30. Ipomaea coccinea 31. Holcus sorghum 32. Ononis alopecuroides 33. Tropaeolum maius 34. Impatiens balsamina

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Si veda il Fol. 10; in basso non era cresciuto nulla di più fino al 9 agosto, e iniziava ad appassire.

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NB. Le osservazioni a) sono relative al 10 luglio Quelle contrassegnate da b) sono state effettuate il 25 luglio.

1. Lathyrus odoratus.

2. Phalaris paradoxa

Radici

Stelo

Cotiledoni

a. 2 pollici

a. 2 linee

a. Vicini alla a. Gambo di radice 9 pollici. 6 stipulae sviluppate. b. cresciuto fino a mezzo piede, e fino a 12 stipulae. Sono spuntati dei rami laterali, verso l’alto lo stelo era completamente piatto e bianco, i peduncoli gialli.

Plumula e così via.

a. Non germogliata b. Non germogliata

3. a. Non gerIsopyrum fu- mogliato marioides b. Non germogliato 4. Portulaca patens 5. Corchorus aestuans

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a. 2 pollici e 1/2.

Appassita

a. 1 pollice e a. 5 pollici. mezzo Lunghezza notevole in rapporto alle piccole dimensioni del seme b. 7 pollici, ma appassito.

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6. Celosia cristata

a. 4 linee

a. da 1 a 2 pollici. b. appassito

a. coperti ancora dai cappuccetti.

7. Hibiscus esculentus

a. mezzo pollice, già divorato

a. 2 pollici e mezzo. b. stelo ancora buono.

a. in forma di foglie b. cotiledoni appassiti

8. Aeschynomene ­sesban

a. le radici lunghe circa 1 pollice alla superficie del terreno.

a. No b. non molto più di un pollice.

9. Erysimum cheiranthoides

a. Non germogliato. b. Non germogliato.

10. Ricinus commun.

a. Non germogliato b. Non germogliato.

11. Phlomis nepetifol.

a. Non germogliato (un’altra pianta era casualmente spuntata nell’aiuola concimata)

12. Oenothera longiflora

b. piantato, lungo 3 pollici

b. molto piccoli

13. Dolichos purpureus

b. lungo 1 piede.

b. restano a terra.

14. Arum ­dracunculus

b. Non germogliato.

15. Papaver somniferum

b. Era germogliato ed è marcito.

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16. Lactuca ­sativa

b. ad una lunghezza tra i 3 e i 4 pollici è appassita e marcita.

17. Mirabilis jalapa

b. 3 pollici e b. A forma 1/2. di foglie, su un proprio peduncolo, lungo 1/2 pollice

18. Lactuca quercinifol.

b. Non germogliata.

19. Phalaris canariensis

b. i cotiledo- b. la seconda ni restano in foglia, gialbasso lognola, si era innestata attraverso la prima, rossastra; le due insieme giungono a 8 pollici di lunghezza.

20. Menta perilloides

b. Appena spuntate.

21. Linum usitatiss.

b. Non germogliate.

22. Scorzonera tingitana

b. Non germogliate.

23. Pastinaca sativa

b. Non era germogliata, forse perché era esposta soltanto in alto.

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b. lunga 1 pollice e 1/2 e sviluppata con diversi nodi.

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24. Pinguicula alpina

b. Non germogliate.

25. Cheiranthus helveticus

b. La collocazione dei semi era corretta, e non era germogliata.

26. Carthamus tinctorius

b. alto qualche pollice.

27. Saponaria vaccaria

b. lungo tre pollici

28. Orobanche ramosa

b. Non germogliato

29. Cucurbita verrucosa

b. Non germogliato

30. Ipomaea coccinea

b. Non germogliato.

31. Holcus ­sorghum

b. Non germogliato

32. Ononis alpopecuroides 33. Tropaeolum majus

34. Impatiens balsamina

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b. Non spuntato, e tuttavia germoglia. b. Poche radici, e lunghe al più tre pollici.

b. Il cotiledone resta immediatamente attaccato alla radice. Lo stelo fino ai nodi della prima coppia di foglie è lungo 18 pollici. I peduncoli della prima coppia di foglie sono lunghi 3 pollici. Dal primo nodo fino alle seconde foglie 8 pollici. Le prime foglie sono doppiamente incise. b. 8 pollici.

b. sviluppata

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2. Piante estive piantate in cassette con terreno concimato sui semi seminati Nro. 1. Helianthus annuus 2. Rumex bucephalophorus 3. Datura stramonium 4. Apium graveolens 5. Chenopodium hybridum 6. Amarantus sanguineus 7. Atropa physaloides 8. Lactuca sativa 9. Raphanus sativus 10. Lapsana rhagadioloides 11. Cerinthe major 12. Silene noctiflora 13. Oxalis corniculata 14. Lavatera trimestris

NB. Ciò che il 25 luglio era ancora buono è del tutto appassito e marcito il 9 agosto.

2. Piante estive che erano state piantate nelle cassette con terreno concimato il 18 giugno Loro stato il 25 luglio No. 1. Il tronco è sano. Non era alto più di 3 piedi francesi, e col tempo era cresciuto solo di qualche pollice; le foglie, fino all’incirca a una mezza dozzina in alto, erano seccate; i rami laterali erano spuntati solo di poco, i fiori non erano sviluppati. No. 2. Già da tempo seccata e marcita. 3. Non si era spinta oltre, le foglie erano appassite ma il tronco era ancora buono. 4. Appassita e marcita. 5. Appassita e raggrinzita 6. Le foglie inferiori erano appassite, e tuttavia si erano conservate quelle superiori e i fiori rossi, anche se non sviluppati. 7. 8. 9. 10. Completamente appassite e marcite. 11. Lo stelo è buono e succoso, le foglie inferiori appassite e quelle superiori conservate ma non sviluppate.

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12. Appassita. 13. Si presentava molto fresca fino alle poche foglie inferiori appassite tutt’intorno. I peduncoli con le foglie già sviluppate si erano molto allungati, un ramo si era sviluppato con piccole foglie, i primi erano biancastri, il secondo giallognolo. Si erano sviluppati dei fiori e le capsule seminali erano già cresciute. 14. Marcita.

3. Piante poste in vasi da fiori e seppellite con i vasi nelle aiuole concimae 1. Hibiscus manihot 2. H – cannabinus 3. H – esculentus 4. Pentapetes phoenicea 5. Solandra capensis 6. Amarantus tricolor 7. Solanum melongena 8. Capsicum luteum 9. Celosia cristata. 10. Aeschynomene sesban NB. Nepeta italica e Lopezia mexicana



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Erano state anche accostate, entrambe si erano mantenute bene, gli steli tra i nodi erano spuntati con forza; la seconda pianta aveva perso molte foglie e non erano apparsi i fiori che la pianta aveva invece poco prima prodotto con grande frequenza. 25 luglio. Entrambe si erano mantenute ancora abbastanza bene il 9 agosto, e tra i nodi si osservavano ancor sempre dei germogli piuttosto allungati e pallidi.

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3. Piante in vasi da fiori e aiuole il 25 luglio 1. 2. 3. 4.

Le foglie erano tutte cadute. Per lo più seccata. Idem. Le foglie più vecchie erano seccate, ed era spuntato un nuovo ramo 5. Le foglie più vecchie erano seccate, e in basso erano germogliati dei giovani rami. 6. Era già da tempo seccata. 7. Il tronco era ancora vivo, le foglie invece erano appassite. 8. Era appassita molto presto. 9. Appassita. 10. Idem. NB. La Nepeta italica aveva prodotto, tra i nodi, lunghi germogli bianchi. Le piante 4 e 5 il 9 agosto erano anch’esse seccate. II sezione B. Piante poste in vasi da fiori e rimaste sul supporto che vi si trovava 1. Piante perenni ( ) Nro. 1. Phyllis nobla. La bella Phyllis vive nelle isole Canarie. 2. Solanum marginatum, abita nella calda America 3. Rosa centifolia 4. Dianthus caryophyllus, garofano da giardino 5. Cactus opuntia, vive in America, e anche in Spagna, Italia e Portogallo 6. Sempervivum arboreum, Portogallo e Zacinto sono la sua patria 7. S. – tectorum 8. Rumex acetosella 9. Saxifraga sarmentosa, abita in Svizzera e in Italia 10. Genista tinctoria, ginestra tintoria 11. Cornus amomum 12. Salvia sclarea, cresce in Grecia 13. S. - verticillata

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14. Antirrhinum maius 15. Lathyrus latifolius 16. Syringa persica 17. Silene fruticosa, silene arbustiva, abita in Sicilia 18. Astrantia maior 19. Lonicera italica 20. Elaeagnus angustifolia 21. Polemonium album 22. Hypericum perforatum 23. Dianthus carthusianorum 24. Ranunculus acer Osservate il 25 luglio b. Piante in vasi da fiori su scaffali I. Piante perenni No. 1. Aveva sviluppato poche foglie in cima ai rami. Dal colore pallido si vedeva quali fossero le foglie nuove. No. 2. Le foglie più vecchie erano cadute; si osservavano nuovi pallidi germogli con delicate foglie, invase da insetti. No. 3. Completamente appassita. No. 4. Le foglie erbacee si trovavano in buono stato, fresche, gli steli si erano allungati fino ai nodi, come si poteva vedere dal colore pallido, mentre non erano spuntate le gemme. No. 5. Non si osservavano mutamenti. No. 6. Idem; le foglie esterne erano appassite, e tuttavia dal cuore ne erano spuntate di nuovo delle altre. No. 7. No. 8. Appassita. No. 9. Le foglie erano già fresche e succose, i nuovi steli erano lunghi ma non vi erano attaccati stoloni. Sui vecchi stoloni invece si erano sviluppate delle foglie. No. 10. Le foglie erano seccate. No. 11. Le foglie erano per metà seccate, ed erano cresciute solo di poco. No. 12. Completamente fresca e succosa, gli steli si erano sviluppati tra i nodi in modo robusto e vegeto, le foglie

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fresche erano verde chiaro con dei bordi viola, mentre erano da poco spuntati anche alcuni rami laterali. No. 13. I verticilli in boccio erano seccati, ma dalla radice, e in parte dalle gemme laterali, spuntavano lunghissimi getti bianchi con pallide foglioline No. 14. Le punte erano seccate. No. 15. Le punte pallide e da poco sviluppate erano seccate. No. 16. Dai rami erano germogliate delle lunghe estremità bianche, che misuravano dai 4 ai 5 pollici, con delle foglie gialle. No. 17. Completamente seccata. No. 18. Dalla radice era germogliata una foglia, il cui stelo si innalzava fino all’altezza di un piede. No. 19. Pressoché secca. No. 20. Altrettanto. 21. Foglie e fiori appassiti, ma gli steli ben conservati. 22. Completamente seccata. 23. Aveva continuato a crescere. 24. Completamente seccata, e tuttavia dalla radice erano germogliate delle foglie, da poco sviluppate, con lunghi steli. Osservazione del 9 agosto No. 1. Non era cresciuta oltre, le foglie gialle erano diventate verdognole. No. 4. Appassita. 5. Nessun cambiamento. 9. Nuove foglie, fresche e vegete. L’intera pianta aveva un aspetto molto sano. Gli steli non avevano ancora fatto germogliare gli stoloni, ma degli steli laterali spuntavano dai nodi. 11. Seccata. 12. Gli steli e i rami erano freschi, ma alcune delle foglie erano seccate. 13. Per la maggior parte appassita e marcita, in basso allo stelo si vedevano ancora alcuni getti bianchi con foglioline non appariscenti. 14. Appassita. 15. Seccata, anche se aveva fatto spuntare dalla radice ancora lunghi germogli con delle stipule. 16. In buono stato, i getti giallognoli e le foglie erano cresciuti ancora. 18. La singolare foglia con il gambo verticale era ancora attaccata. 19 e 20 erano seccate. 21. Seccata. 23. Aveva continuato a

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produrre dei sottili getti pallidi. 24. I nuovi getti provenienti dalla radice erano alti fino a un piede, ma in punta le foglie non si decidevano a spuntare. 2. Piante estive o piante annuali (). Nro. 1. Anthemis arabica, Camomilla arabica. 2. Tagetes erectus, tagete eretto 3. Iberis umbellata 4. Carthamus tincorius 5. Reseda odorata 6. Phlomis nepetifolia 7. Brassica oleracea, cavolo comune 8. Cucubalus behen, è anche biennale 9. Papaver somniferum 10. Lavatera arborea, è biennale 11. Aster chinensis 12. Anethum graveolens 13. Polygonum orientale 14. Lathyrus odoratus 15. Silene muscipula 16. Antirrhinum triphyllum 17. Nicotiana paniculata 18. Campanula speculum 19. Blitum capitatum 20. Polygonum tartaricum 21. Calendula officinalis 22. C – arvensis 23. Lupinus irsutus 24. Sinapis nigra 25. Carduus syriacus 26. Hyoscyamus niger 2. Piante estive o piante annuali, il 25 luglio 1. Appassita; i fiori sviluppati prima della cessazione della pianta erano marciti, e non se ne erano sviluppati di nuovi. 2. Idem. 3. 4. 5. 6. Seccate e marcite fino alla radice. 7. Seccata, ma ancora succosa sotto il tronco. 8. 9. Seccate.

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10. Si era conservata molto bene, fresca; le foglie sviluppatesi da poco iniziavano a seccarsi ai bordi. 11. Le foglie erano per metà seccate. I fiori erano rimasti al punto in cui iniziavano a svilupparsi, ma avevano un aspetto molto fresco. 12. 13. 14. 15. Seccate e appassite. 16. Si era mantenuta bene, anche nei rami intermedi tra i nodi erano spuntati degli steli lunghi e pallidi, e tuttavia non si erano prodotti fiori; iniziava ora ad appassire. 17. Si era mantenuta bene, ma non era cresciuta oltre; una seconda pianta di questa specie aveva sviluppato dal cuore delle foglie pallide e un inizio di fioritura. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. Tutte appassite e guaste. Osservazioni effettuate il 9 agosto 10. e 11. Completamente seccate. 16. 17 lo stesso. Elenco dei semi che sono stati seminati l’11 luglio 1796 in scatole di legno Prima scatola Nro. 1. Carduus marianum 2. Coriandrum sativum 3. Trigonella Foenum graecum 4. Hyoseris minima 5. Silene cretica 6. Hyoscyamus niger 7. Aethusa cynapium 8. Linum tenuifolium 9. Lotus tetragonolobus 10. Lupinus hirsutus 1. 2. 3. 4.

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Seconda scatola

Helianthus indicus Polygonum tartaricum Lathyrus tingitanus Lupinus albus

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5. Scorzonera hispanica 6. Phaseolus vulgaris 7. Apium petroselinum 8. Anethum faeniculum 9. – graveolens 10. Cucumis sativus Terza scatola

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Zea mays Triticum compositum – Polonicum Panicum italicum Hordeum hexastachion Holcus sorghum Bromus rubens

1. 2. 3. 4. 5. 6.

Quarta scatola. Tulipa gesneriana NB. Il 9 agosto in questa Ornithogalum umbellatum scatola non era germogliato Narcissus pseudonarcissus ancora nulla. Gladiolus communis Hyacinthus orientalis Allium canadense Semi seminati l’11 luglio in scatole osservati il 25 luglio

Prima scatola. No. 1. b. Stelo alto 2 pollici 2. b. Stelo alto 4 pollici 3. b. La radice era spuntata alla superficie del terreno, e lo stelo era alto all’incirca 1 pollice. NB. Nella prima scatola si notavano pochi mutamenti. 4. Non germogliata. 5. Lo stelo era lungo 3 pollici. 6. 7. Non germogliate. 8. Stelo lungo 4 pollici. 9. Lo stelo, robusto, era lungo 3 pollici.

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Seconda scatola. No. 1. Lo stelo era lungo 6 pollici, i cotiledoni pienamente sviluppati, le radici, nel tratto rimasto alla superficie del terreno, tomentose. Osservazione del 9 agosto Seconda scatola No. 1. Lo stelo misurava tra i 4 e i 7 pollici, le radici erano penetrate poco a fondo nel terreno, e nel tratto rimasto in superficie erano piuttosto secche, e il tomento era appena visibile. I cotiledoni erano quasi appassiti, la plumula non era visibile. No. 2. Appassita e marcita. 3. Lunga tra i 15 e i 18 pollici, aveva sviluppato tra i 4 e i 5 nodi; le foglie del nodo più in alto erano divise in tre, due foglie a lato e al centro un peduncolo. 4. Non era ancora germogliata. 5. Idem 6. Lo stelo fino ai cotiledoni era lungo 8 pollici. Da quel punto fino alle prime due foglie completamente sviluppate era di 6 pollici e 1/2, da lì fino alle foglie successive misurava 8 pollici e 1/2, ma la punta era marcita. Nelle altre piante di fagioli che si trovavano nell’aiuola il gambo della radice fino ai cotiledoni misurava un piede francese. 7. Non germogliata. 8. e 9. lo stesso. 10. Solo un seme e molto debole. Terza scatola No. 1. Aveva piantato delle radici robuste, il cotiledone era affondato nel terreno, e lo spazio da quel punto fino al primo nodo misurava tra i 2 e i 3 pollici. Anche su questo tratto, al di sopra del cotiledone, si mostravano radici, così come al primo nodo si erano sviluppate 4 foglie, che assumevano già un colore giallo. 2. Non germogliata. 3. Tre foglie sviluppate, nell’insieme la lunghezza raggiungeva i 15 pollici, le foglie più in alto tendevano piuttosto al verde. 4. Una foglia sviluppata, lunga 4 pollici.

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5. Una foglia sviluppata, lunga tra gli 8 e i 12 pollici, stava appassendo. 6. Stava germogliando. 7. Una foglia sviluppata, all’incirca di 12 pollici.

Il 28 luglio una scatola con le seguenti piante già sviluppate è stata posta al buio in casa. Osservata il 9 agosto. 1.) Lactuca sativa. I rami erano cresciuti fino a 6 pollici, e gli spazi tra i nodi erano pallidi, mentre le scaglie del calice erano anche più lunghe e più pallide; i boccioli erano chiusi. 2. Aster chinensis: stava molto bene, le foglie a raggiera dei fiori si sviluppavano in forma di fili. 3. Solanum nigrum. Era fiorito e aveva messo delle bacche. 4. Oxalis corniculata. Era fiorita e aveva messo le capsule, e continuava a fiorire. 5. Amarantus blitum. Non era particolarmente cresciuto. 6. Nicotiana glutinosa. Stava bene ed era vegeta. 7. Chenopodium vulvaria. Stava appassendo, ma manteneva il suo odore forte. 8. Panicum crus galli. Aveva prodotto dei getti, tuttavia di un colore giallo pallido. azione della luce Azione della luce sui corpi organici. Può essere considerata come un mezzo stimolante che agisce sui corpi producendo al loro interno diversi effetti, liberandoli di qualcosa e disponendoli ad accogliere qualcos’altro dall’esterno; oppure, la luce può essere considerata anche come materia, che penetra nei corpi e in seguito va a costituire una parte di essi. Occorre osservare: 1.) Piante che temono la luce. 2.) Animali che temono la luce. 3.) Insetti che temono la luce. Penombra e umidità. Luce e secco. Insetti che temono la luce. Farne un elenco. In parte. A causa di un organo, ad esempio dell’occhio

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Oniscus Scolopendra. Julus Lumbricus Nell’intero. Forse perché il corpo rifugge dalla secchezza, forse perché lo stimolo è troppo grande e fa defluire troppo rapidamente certi suoi fluidi animali. NB. Diversi tra di essi emettono una luce fosforescente. Per determinati scopi e in circostanze esterne, come sembra. Le api incollano i vetri fino a farli diventare scuri. Esperienze con le formiche. Dapprima rivestono una campana di vetro con della terra tutt’intorno, poi innalzano la costruzione sempre più verso l’alto, quando il vetro si appanna ed esse comprimono il resto della loro opera. In base alla mia esperienza, esse portano le loro larve, nude o rivestite, sempre lontano dalla luce. (I fenomeni più straordinari nell’economia degli insetti si possono osservare in particolare nella costruzione dei loro nidi, e si possono forse ridurre nel modo migliore al sentimento immediato del bisogno, del materiale e del luogo). Radici. I punti radicali, sia dei semi che dei nodi, vengono sviluppati grazie all’umidità: la radice cerca l’umidità e ama l’oscurità, in quanto la prima è necessaria per il suo nutrimento, e nella seconda le sue parti si sviluppano con una certa libertà, invece di dare l’impressione di fuggire la luce. Al buio le radici non cercano il terreno con la stessa intensità con cui lo cercano alla luce; il seme del lepidio si è fissato inizialmente solo con una piccola punta, mentre la parte superiore della radice si è coperta tutt’intorno con dei filamenti molto sottili. Analogamente anche alcuni fagioli e alcune vecce hanno portato alla superficie del terreno le loro radici e i loro filamenti radicali. I semi di lepidio, seminati alla luce sulla rascia, hanno prodotto delle radici di considerevole lunghezza, su cui si sono sviluppati dei robusti filamenti laterali, nell’acqua sotto la rascia. Un seme di Sedum arborescens posto in orizzontale ha prodotto molte radici sottili di giorno, e

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mi è sembrato che tutte tendessero ad allontanarsi dalla finestra orientandosi in direzione della stanza. In un’annata umida sono spuntate delle radici tutt’intorno, dal secondo e terzo nodo alla superficie del terreno, su gambi d’avena. Steli dal punto radicale fino ai cotiledoni. Cotiledoni e piumette (plumulae). In piante che germinano al buio, il comportamento dello stelo è estremamente singolare: si allunga smisuratamente e resta bianco, e allo stesso modo si allungano gli steli dei cotiledoni, nel caso in cui questi ultimi non poggino direttamente su di esso. I cotiledoni appaiono nella loro forma determinata. La differenza tra questi e quelli che crescono all’aperto deve essere esaminata con precisione. Sono giallognoli. Nelle piante in cui la piumetta è già presente nel seme, come accade nei fagioli, si sviluppano anche le prime due foglie. Nel lathyrus odoratus sono comparse, sul lungo stelo bianco, tra le tre e le quattro stipulae. Il rapido sviluppo dei punti nodali è notevole anche nelle vecce che crescono all’aperto. Considerazioni generali sulle piante seminate, piantate e conservate al buio, in riferimento alla metamorfosi. Il concetto principale della metamorfosi è che le parti che si sviluppano le une dalle altre, e che sono identiche per intima potenzialità naturale, in base alle diverse circostanze devono necessariamente coordinarsi, subordinarsi e, se si può dire così, sovraordinarsi le une rispetto alle altre. La metamorfosi può aver luogo sia in avanti che all’indietro, e a questo proposito si osserva una circostanza importante. Per quanto non si possa negare che una pianta sia ben coesa, dalle sue radici fino ai fiori e ai frutti, e riceva dal basso l’influsso più concreto, tuttavia sembra che ciascun organo sia attivo ad ogni nodo, e debba perciò in certo senso prodursi e formarsi da solo, preparando ai successivi l’occasione di una nuova produzione e formazione. Considero l’esempio delle osservazioni precedenti. Perché lo stelo si sviluppa fino ad una tale lunghezza, tra il punto radicale e i cotiledoni? Si può rispondere: perché la

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plumula non si sviluppa come la prima coppia di foglie vera e propria, o non si sviluppa come dovrebbe. Lo spazio tra la radice e i cotiledoni si estende ora il più possibile, gli giunge dalla radice tutta la linfa, che adesso però non può modificarsi per ulteriore evaporazione o elaborazione in sé diversamente determinata, né può portare al nodo successivo i relativi succhi predisposti; viene invece adeguatamente assorbita con un processo di elaborazione e di sviluppo del nodo successivo e delle sue foglie, e mantenuta entro i suoi confini. Non si deve dunque pensare che nella pianta sia presente una qualche scorta, da cui gradualmente possono essere prodotte tutte le parti, bensì ogni organo sviluppa la sua forma e le sue proprietà al suo livello, grazie alla sua particolare determinazione e a ciò di cui si appropria, sia dall’esterno che dall’interno. È questo un punto fondamentale, che deve essere recuperato dal mio saggio sulla metamorfosi delle piante202, in quanto in quella sede, per presentare solo il concetto principale, avevo considerato soltanto un raffinamento della materia nei diversi punti nodali, mentre adesso occorre esaminare la varietà di materie che la pianta elabora e fa proprie, in particolare a fronte di una conoscenza chimica nel frattempo molto progredita.

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Studi entomologici203

[singole osservazioni] Nell’estate del 1796 dei grandi cespugli di uva spina erano stati completamente mangiati da un bruco, e in seguito si è trovata una grande quantità di larve, appese per la coda ad uno steccato nelle vicinanze, senza ulteriori tele; riguardo ad esse, sono state effettuate le seguenti osservazioni: Osservazioni a proposito dello sviluppo delle ali della farfalla Phalaena grossularia 30 luglio 1796. Nella crisalide la parte corrispondente all’involucro che contiene le ali è lunga 3 linee 204. Altrettanto misura l’ala della farfalla quando esce dal bozzolo. Le ali non sono richiuse come quelle che si trovano sotto l’elitra del coleottero, ma si vedono tutte le chiazze che le ricoprono, nell’identico ordine che presenteranno in seguito, soltanto sono tutte più piccole e più strettamente vicine. La farfalla cerca immediatamente, strisciando, un luogo in penombra e si appende con le zampe anteriori, con la testa rivolta in alto, in direzione perpendicolare. Dopo 10 minuti le farfalle sono diventate inquiete, hanno cambiato posizione ed emesso un umore opaco. Hanno cambiato ancora una volta posizione. Dopo 18 minuti hanno iniziato a crescere le ali.

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Sembra che nei vasi scorra un umore, ed esse si gonfiano, dalla radice verso l’interno; poiché poi non si ingrandiscono in misura uniforme, alcune parti restano indietro e si creano delle pieghe. La corrente principale sembra andare nella direzione cui inclinano le nervature delle ali, che sembrano essere i grandi vasi. Le zone bianche paiono riempirsi più presto rispetto a quelle gialle e nere. Nel frattempo le 4 ali, che continuano a crescere, si accostano contro il dorso. Dopo 30 minuti la crescita è completata. Le ali si trovano richiuse sul dorso. Sono ancora fiacche e non completamente lisce. Le ali superiori sono ora lunghe 9 linee, dunque sono cresciute di 1/2 pollice in 12 minuti. Il cambiamento avviene così rapidamente che è possibile osservarlo molto bene, anche se in uno spazio così piccolo non si può vedere il movimento. A questo punto, dopo 30 minuti, alcune battono le ali, che diventano sempre più lisce. Dopo un certo tempo le posano, distese, contro la parete a cui la creatura è appesa. In meno di un’ora il processo giunge a compimento. L’animale sembra indugiare per la maggior parte del tempo della sua vita nella posizione descritta. Quando cambia luogo riprende di nuovo la stessa posizione. Ama la penombra e a quanto pare la cerca anche mentre sviluppa le ali. Raramente, infatti, sono riuscito a mantenere una farfalla in una zona illuminata, in cui l’avevo portata per poterla osservare meglio. Jena, 19 agosto 1796. Allo scopo di mantenere per un certo tempo lo sguardo su questo fenomeno, che si osserva solo in pochi attimi propizi, presentandolo così agli amanti delle scienze naturali, ho cercato di fissare tra due vetri la falena di cui ho parlato, nei diversi stadi del suo sviluppo. La descrizione che ne ho tratto è la seguente:

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1.) La crisalide. La si trova appesa a dei fili per la sua parte posteriore. 2.) Una farfalla completamente formata, che però non ha distrutto la sua crisalide, che si trova invece in essa, disseccata; vi si può riconoscere il rapporto tra le ali cortissime e il corpo forte e allungato. In modo completamente analogo si comporta la farfalla che esce dal bozzolo, e per questa ragione saltano così tanto agli occhi le sue ali così brevi. 3.) Una farfalla uscita dal bozzolo fissata proprio nel momento in cui esce. Ad un primo sguardo essa appare nel complesso una farfalla più piccola, poiché anche il corpo è piccolo; tuttavia, al corpo avviene ciò che segue: subito dopo aver fissato la farfalla, le ho tagliato la testa, di modo che, con la sua tenacia vitale, non potesse muoversi qui e là, e non fosse in grado di cambiare posizione prima che la gomma diventasse solida. Immediatamente sono fuoriuscite gradualmente tra le 6 e le 8 gocce di un liquido giallo chiaro, le ali non si sono accresciute, mentre il corpo si è contratto. 4.) Un’ala superiore entrambe 5.) Un’ala inferiore immediatamente dopo che la farfalla è uscita dal bozzolo, tuttavia non sono tagliate proprio alla radice. 6.) Una farfalla infilzata immediatamente dopo che ha iniziato a volare; le ali sono cresciute di poco e mostrano le curve e le torsioni già osservate durante la crescita. 7.) Ali superiori e inferiori in questo stesso stadio, separate dal corpo. 8.) Una farfalla che porta le ali sul dorso, all’incirca in questo medesimo stadio. NB. Ai Nn. 8. e 6. è possibile vedere, pressoché allo stesso modo, l’autentico rapporto tra il corpo e le ali, anche se entrambi i corpi sono disseccati. 9.) Una farfalla nello stadio in cui le ali non sono ancora completamente rigide e piene. NB. Le ali posteriori si trovano attaccate in un rapporto sbagliato rispetto alle ali anteriori. 10.) Una farfalla compiutamente sviluppata, che ha vissuto già alcuni giorni, ma certamente non ha preso nient’altro rispetto a ciò che aveva eventualmente tratto a sé dall’aria. Viene essiccata dentro un libro.



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Ho aperto alcune larve che mi sembravano secche e vi ho trovato dentro dei grossi vermi, completamente bianchi e informi, e sono riuscito a riconoscere da questo i vermi dell’icneumonide, da cui il bruco può essere stato roso. Alcuni si sono presto trasformati, senza che potessi osservare in che modo, in una sorta di icneumonidi incompleti, che si mostravano completamente bianchi al pari dei vermi, e di cui era visibile solo un punto nero; la testa, il corpo e le zampe erano ben formati, e gradualmente queste creature assunsero in diverse parti del corpo un colore marrone e nerastro: tali parti saranno da osservare più da vicino in seguito. Le ali erano piccole e poco sviluppate, finché l’intera icneumonide non si mostrava nella sua compiutezza. Fino a poco prima gli aculei della coda erano fissati al dorso e le antenne al torace. Altri vermi, che in parte erano fuoriusciti da queste e da altre larve e in parte io stesso avevo tolto dalle larve e posto in dei bicchieri, avevano presto assunto un rivestimento duro, diventando nel frattempo più corti e in forma di ovali regolari. La pelle esterna del verme, bianca e tenera finché l’animale si trovava nella larva umida che aveva consumato, diventava ora, esposta alla luce e all’aria, marrone e rigida. Dopo un certo tempo ne sono derivati dei mosconi. Ho trovato, in un bozzolo, il resto delle larve e all’interno un altro bozzolo. Si veda Lionet205. 12. Quello del cambiamento di pelle206 è il fenomeno fondamentale su cui si basa la metamorfosi degli insetti. Tutto ciò che vive agisce in segreto, coperto, chiuso, sotto uno strato di pelle il cui aspetto non si mostra mai completamente semplice, ma consiste di più lamelle. Tale pelle, tuttavia, non è un terzo involucro, superfluo, bensì costituisce l’involucro puro e molteplice, in cui è contenuto il principio organizzativo. Un involucro scaturito dal contenuto.

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Sulla metamorfosi delle farfalle illustrata con l’esempio del bruco dell’euforbia Infine un divorare irruente Si genera dalla violenta esigenza dei sistemi che ora si avviano al loro compimento. Dimensioni del bruco. Improvvisamente smette di divorare. Rilascio degli escrementi Peso di un bruco dell’euforbia in questo momento. 1 ducato e 17 as. e 1/2. Agitazione. Fuga dall’ampiezza dello spazio Cerca un nascondiglio e un contatto molto stretto. Lo provoca sprofondando per metà nel terreno, rivoltando grumi di terra, ramoscelli e simili. Nell’atto di rivoltare la terra gli strumenti con cui farlo si consumano. L’animale secerne dei succhi con cui tesse e incolla la terra e altre parti. Probabilmente evapora anche In 28 ore ha perso 13 as. Nel frattempo le parti interne crescono moltissimo. L’animale non ha più spazio entro la sua pelle e si amplia. In tre giorni 18 as. Si contorce e si crea, rivoltando e tessendo, uno spazio più stretto delle sue stesse dimensioni. Somiglianza con il nido degli uccelli. Ho posto un bruco dell’euforbia, che aveva smesso di corrodere, in una scatola vuota per le larve, che ho coperto con un vetro per effettuare delle osservazioni. Il bruco si è agitato tutt’intorno impetuosamente nella scatola per 24 ore senza fermarsi. La scatola poteva o meno essere conservata di giorno alla luce. Di notte le sue passeggiate continuavano. Infine ha cercato di fissarsi ad un angolo della scatola, ha rinunciato più volte a questo difficile tentativo, ricominciando il suo tour, e infine si è fissato in modo piuttosto stabile nella stessa zona, ha portato dei trucioli, alcuni escrementi e quant’altro vi era di mobile, ma poi ha abbandonato ancora più volte quest’operazione insufficiente. Ne è fuoriuscita dell’acqua, e infine è

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rimasto contratto e rigido, senza aver minimamente tessuto alcunché. Il sesto giorno dal momento in cui aveva smesso di corrodere, all’incirca alla stessa ora, si è trasformato in crisalide. Sezionando quest’ultima ho trovato una traccia di organi per tessera una tela. Ad un altro bruco, dopo che aveva corso a lungo dentro la scatola, ho gettato un po’ di terra e di rami di euforbia, anche se solo in piccola quantità, di modo che non potesse costruire nulla; ho aggiunto un piccolo corno ricavato da un pezzo di carta attorcigliata, in cui il bruco si è rifugiato, ed ha tessuto insieme terra e rami prima dell’apertura. Si è trasformato in crisalide in 8 giorni. Un terzo bruco l’ho posto in una scatola di legno ovale. Dopo essersi mosso in modo analogo e vivace ha iniziato a rodere, ma ha abbandonato presto quest’azione, iniziando a tessere, con grande abilità, tanto che sembrava volesse diventare un nido adatto ad una futura crisalide; tuttavia ha poi abbandonato quest’operazione, e non per mancanza di materiale con cui tessere, poiché aveva lasciato incompiuti anche diversi altri tentativi di tessere, in giro per tutta la scatola. L’istinto di questo animale, come si vede, dipende dalle condizioni esterne, laddove invece la tela tessuta dal baco da seta appare libera da condizionamenti. Ho sezionato questo terzo bruco prima che si trasformasse in crisalide, e non ho trovato alcuna traccia di strumenti per tessere. La sensazione di un imminente sviluppo singolare potrebbe assomigliare alla sensazione del concepimento; tuttavia in questo caso l’intera esistenza rischia di diventare qualcos’altro. La bella pelle variopinta altera i suoi colori. Mutamento nei sistemi. Faringe, stomaco e ano hanno smesso di funzionare Nello stomaco resta del succo. Il sistema di tessitura si consuma con l’atto del tessere A causa di entrambi i fattori si crea, sia nelle parti inferiori che in quelle superiori del corpo, un grande vuoto. Anche nel sistema muscolare sembra prodursi un cambiamento, poiché si ha una forte contrazione che causa un ritirar-

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si delle appendici dell’addome, che in precedenza apparivano come zampe posteriori. Significativamente, la nuova destinazione dei muscoli deve servire al futuro movimento delle ali, sulla parte superiore. Il cosiddetto sistema di ghiandole, che è verosimilmente un sistema riproduttivo, risulta compresso, e probabilmente sviluppato, in uno spazio ristretto. Su questo in futuro saranno necessari dei rilievi più dettagliati; tale sistema si compone di filamenti cavi e incolori, fissati intorno alle ghiandole gialle, che si mostrano al microscopio come composte di innumerevoli piccoli corpuscoli rotondi. Presumo che il primo sia l’organo femminile, il secondo quello maschile, che si trovano in ogni bruco; tuttavia, nella farfalla l’uno o l’altro risulta infine soffocato o privilegiato, e in tal modo sorgono i due sessi. Ma su questo occorrerà in futuro effettuare osservazioni più precise. Il sistema che afferma decisamente la sua azione e ottiene molto è quello respiratorio; il grande mutamento avviene nella testa e nelle sue vicinanze, in particolare nel terzo e quarto anello, dove non ci sono macchie, e tra le zampe anteriori. Le ali sono ripiegate insieme tra le zampe anteriori e si formano, in quest’ultimo lasso di tempo, dai bronchi, che crescono all’interno di una pellicola apparentemente gelatinosa, e tuttavia robusta; è possibile osservarli molto bene al microscopio in una crisalide appena uscita dal bozzolo. L’ultimo periodo in cui l’animale è avvolto dalla pelle sembra trascorrere molto rapidamente; le parti finora ripiegate e rivestite escono dalla loro guaina, mentre la vecchia pelle del bruco cede nella parte posteriore della testa, e ne fuoriesce la nuova creatura. Grazie ad una manovra organica ammirevole le parti della proboscide, le future antenne e le ali si distendono verso il basso lungo il corpo e coprono le nuove zampe, che pendono dal torace come appendici allungate. Tramite questa operazione compiuta dagli organi menzionati, viene racchiusa tra le ali e il torso anche una parte del succo che si trova nel corpo. Tale succo sembra coincidere con quello che più tardi rimane nel resto del corpo del bruco, e ora anche della crisalide, e grazie al quale soltanto essa può procedere nella crescita.

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a. Succo che deriva dal corpo di un bruco, prossimo a trasformarsi in crisalide. b. Succo che deriva dal corpo di un bruco che ha appena smesso di rosicchiare. [Di seguito si trova attaccato un foglietto di carta bianca, con cui sono stati assorbiti i due fluidi.] Questo succo diventa nero alla luce e in acqua comune. Il succo dell’esula non è simile, ed è già modificato organicamente. Le ali sono in questo stadio molto più piccole di quanto non diverranno in futuro, ma non sono ripiegate, bensì completamente distese. Se il bruco appare come una larva che presenta le stesse parti, allora nella crisalide le parti superiore e inferiore si contrappongono molto chiaramente. La separazione della testa dal tronco, e dunque il pieno compimento dell’animale, sono riservati all’ultima muta. Sezionando la sfinge del convolvolo Eccessiva organizzazione del sistema respiratorio I bronchi, in cui tali animali fuoriescono dagli stigmi, sono, in confronto al periodo in cui sono bruchi, molto più grandi ed estesi, e terminano in pellicole o in cannule in cui si trovano a loro volta delle appendici cieche. NB. Le cannule e le appendici cieche appaiono, ad un maggiore ingrandimento, di una sostanza giallastra e ghiandolare, in cui corre il sistema bronchiale. Entro tale sistema se ne trova uno vermiforme, bianco, che non mostra alcun influsso apparente del sistema respiratorio, come un lungo intestino, che si gonfia nell’acqua e diventa facilmente fragile. All’inizio dell’osservazione è a tratti trasparente, e una materia bianca vi si muove secondo una direzione determinata, mentre in seguito appare bianco e rigido. Stato membranoso degli anelli, in cui gli infiniti muscoli del bruco si dissolvono in uno. Lo stato trasfigurato del suo stomaco appare come una bolla, completamente chiara, piena del succo più puro, con pochissime ramificazioni bronchiali, che tuttavia la ricoprivano completamente nello stadio precedente.

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L’ano sembra ridotto quasi a zero, così che l’ingestione dell’animale, tramite la lunghissima proboscide, può essere solo estremamente lieve, come una sorta di lenta nutrizione. Diaframma tra il torace e l’addome, enorme forza muscolare delle ali. Organismo coperto di piume e di peli. L’inusitata forza che un simile animale esercita nel volo e in altre funzioni deve essere attribuita alla forza vitale delle sue singole parti. Enormi muscoli e tendini corrispondenti nella parte superiore del corpo; in particolare, sembra che avvenga l’opposto rispetto a ciò che si verifica negli uccelli, poiché ciò che fa turbinare le ali della farfalla può certo essere considerato un muscolo dorsale. Effetto di lunga durata di tale muscolo dopo lo smembramento dell’animale. punti da seguire nell’osservazione della metamorfosi del bruco 1.) Uovo fecondato a) Forma. b) Superficie al microscopio. c) Colore d) Luogo. e) Collocazione. f) Ambiente circostante. In forma di filamenti vischiosi g) In trasparenza. Notare in essa il bruco. 3.) Uovo non fecondato. Avvizzisce. Ciò che occorre osservare al microscopio. 5.) Sviluppo del bruco. Ad un calore moderato. Se sia necessario talvolta il riscaldamento. Mantiene il raffreddamento. Così si pongono le uova del baco da seta in cantina, senza portarle all’aria calda prima che i gelsi abbiano iniziato a germogliare. Tempo naturale. Lo sviluppo delle generazioni prosegue forse in modo costante in condizioni favorevoli? 7.) Forma del bruco. Larva articolata composta di 13 sezioni, una testa, 11 anelli e un ano. 9.) La testa in generale. Le parti che formano l’involucro sono stratificate e molto coese, e gli altri organi si connettono con il guscio e con il primo anello tramite legami membranosi e mobili. 11.) Il guscio frontale. Ecaille frontale 13.) I gusci laterali. Deux Ecailles pariétales.

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15.) Il labbro superiore. Lèvre superieure. 17.) Le antenne. Les Antennes 19.) Le due mascelle. Les deux Machoires. 20.) La bocca nell’insieme. Potenti organi per rosicchiare. Il bruco del salice che rosicchia il legno. 21.) Il labbro inferiore. Lèvre inferieure. 23.) La base, La Base. 25.) La cannula per tessere. La filière. 27.) – Les Barbillons de la filière. 29.) L’atto del tessere. Alcuni tessono da quando sono giovani per l’intera vita. 31.) I grandi - . Les gros Barbillons. 33.) Anelli in generale. Dodici, incluso l’ano. Quando il bruco è completamente disteso, gli anelli si trovano l’uno dietro l’altro, puri e lisci. Quando il bruco si muove, gli anelli posteriori scivolano sotto quelli anteriori. Per contro, la testa si spinge sotto l’anello seguente e quest’ultimo a sua volta si spinge un po’ sotto il successivo; in seguito però sembrano piuttosto corrugarsi gli uni contro gli altri. 35.) Zampe. Mai meno di 8 e più di 16. 37.) Zampe anteriori. Sempre sei. Forma. 39.) Zampe mediane. Numero oscillante, forma. 41.) Zampe posteriori. Non sempre presenti. 43.) Anelli in generale. 45.) I primi tre anelli. Costantemente su sei zampe. Corrispondono alle zampe della farfalla. Il primo anello presenta due stigmi, il secondo e il terzo non ne hanno alcuno. 47.) Due anelli senza zampe. Queste mancano sempre. 49.) Quattro anelli con delle zampe a guisa di appendici. Numero variabile. Talvolta mancano a) quelle relative al primo anello b) quelle del quarto. Bruchi con quattordici zampe. c) ai primi due anelli. Bruchi con dodici zampe. d) ai primi tre anelli. Bruchi con dieci zampe. e) a tutti e quattro gli anelli. Bruchi a otto zampe. I bruchi c. e d. sono geometridi, quelli del punto e. sono tineae. 51.) Due anelli senza zampe. Le zampe mancano costantemente. 53.) Anello dell’ano. Con le sue zampe in forma di appendici. Talvolta mancano. 55.) Copertura dell’ano. 57.) Corno al di sopra dell’ano. È variabile.

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59.) Pelle. Vari stadi fino allo stato compiuto. 60.) La pelle. Cade del tutto in un bruco completamente cresciuto, che sia stato posto per un certo tempo in acquavite. I muscoli e gli altri organi erano avvizziti, ma restavano ancora bene uniti insieme. All’interno della pelle si trovavano piccole sferule rotonde che saranno esaminate più oltre 61.) Chiazze. 63.) Strisce. 65.) Anelli. 67.) Colori. 69.) Protuberanze. 71.) Cono. Su di esso si trovano degli anelli. 73.) Appendici. 75.) Spine. Con delle ramificazioni laterali. 77.) Peli. a) Molto piccoli, al punto che consideriamo il bruco ancora liscio. b) Molto isolati. c) Grandi, tanto che il bruco ha un aspetto irsuto. 78.) Parti mobili straordinarie. Sulla testa del bruco della carota. Sull’ano del 79.) Stigmi. Nove per ciascun lato, dunque diciotto. Mancano al secondo, terzo e ultimo anello. Lionet non ritiene che esse respirino. Pref. 12. e p. 78. Comportamento sotto la pompa pneumatica ibid. Bisogna dissipare una disputa terminologica tra le espressioni ‘prendere fiato’ e ‘inspirare aria’: il bruco non prende fiato come altre creature tramite i polmoni, anche se inspira aria tramite un gran numero di aperture; e non soffoca immediatamente per assenza di aria o nell’acqua, anche se la sua organizzazione non si svilupperebbe né giungerebbe a compimento in assenza di aria. 81.) Singolari deviazioni nella forma. Da spiegare in base alle singole parti delle forme regolari. Gobba. 83.) Movimento. a) vermiforme. b) teso. 85.) Ingestione. a) di alcune piante b) di diversi elementi. 87.) Ingestione. Piante dannose per alcuni animali. Ad esempio quelle corrosive come l’esula. Quale influsso possono avere questi succhi corrosivi. Dei cibi asciutti sembrano in media utili. In che misura tollerino l’umidità. 89.) Muta del bruco. Ha luogo d’un tratto la stratificazione di tutte le parti del corpo, che sembrano ancora molto concresciute con l’insieme. Bella descrizione in Lionet. p. 7.

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90.) Muta in generale. Su di essa si basa un fondamentale fenomeno della crescita organica. 91.) Differenza tra le diverse mute. Alcuni producono, alla prima muta, una tela comune e restano insieme. Rösel. 2. 93.) Differenza tra le diverse mute. a) Nel disegno. b) Nel colore. Ad esempio nel bruco dell’euforbia il giallo chiaro delle parti trascorre attraverso un colore arancione fino al rosso mattone. 95.) Prima connessione tra la pelle e il corpo. È solida, anastomosica, in particolare la connessione negli stigmi. 97.) Elasticità della pelle e crescita fino ad un certo grado. 99.) Sensibilità della pelle. I bruchi sussultano con maggiori o minori vibrazioni quando vengono toccati. 101.) La pelle infine non si estende più oltre. Si secca. L’interno è già ricresciuto. Stadio disagevole per la creatura. Probabilmente la crescita interna è rapida. Sono singolari le epoche organiche, dalla lunga preparazione e dal rapido compimento. 103.) La parte inferiore del bruco sembra gonfiarsi particolarmente. 105.) Le sei zampe simili ad appendici compiono ancora le loro funzioni. In particolare si fissano alle zampe dell’ultimo anello. 107.) Dimensioni a questo stadio. 109.) Ulteriori sintomi. Tensione della testa e delle prime articolazioni. Inutilizzabilità degli organi per rodere. La testa si ritira nel primo anello, e gli involucri della testa restano a lungo vuoti. Stato atrofizzato delle zampe anteriori. L’animale tiene in alto la parte anteriore con le zampe anteriori rigide e rivolte in avanti. Se viene confuso, all’occorrenza si muove, e se viene tolto dalla sua posizione la riprende di nuovo lentamente. 111.) Durata di questo stadio. 113.) Comportamento in questo stadio. 115.) Fine di questo stadio. La pelle del primo anello inizia a strapparsi, la testa è grande più del doppio rispetto al precedente involucro, e l’animale si sforza di liberarsene, ma non riesce facilmente a liberare gli organi per rodere dal primo involucro, mentre le quattro zampe simili ad appendici, in particolare quelle dell’ano, hanno nel frattempo la vecchia pelle saldamente attaccata al ramo. Il pungiglione al di sopra dell’ano è cresciuto sproporzionatamente, e la sua estremità non è ancora nera. Osservazioni sulla Sphinx Euphorbiae. 117.) Qualità della pelle mutata.

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119.) Stadio dopo la muta. Immediatamente dopo, i bruchi sono più grandi e le membra hanno variato le loro proporzioni. Lionet. pag. 8. Non sembra che rosicchino immediatamente. 121.) Dopo l’ultima muta. Infine un intenso piacere nel rosicchiare. Abilità e pulizia in quest’azione. Ad esempio il bruco dell’euforbia afferra con le 6 zampe anteriori la sottile foglia dell’esula con grande abilità, la tira giù se è troppo lunga, per iniziare dalla punta, e la tiene, quando l’ha ormai già per prima cosa staccata in basso, scivolando come uno scoiattolo, mentre la consuma, mangiandola in modo pulito e metodico. Uguale forma del boccone. Nei bachi da seta normalmente la foglia costituisce infine una quantità di cibo eccessiva. 123.) Pause tra le azioni di rosicchiare. 125.) Digestione rapida ed escrementi secchi. 127.) Forma, colore degli escrementi. La forma composta di sei parti degli escrementi del bruco dell’euforbia allude alla forma del canale intestinale. Il colore è inizialmente verde, poi marrone. 129.) Quante sono le mute? Da quattro a nove, e anche più. 131.) Diverso carattere. Vivacità. Inerzia. 132.) Grandezza e peso relativi. Il bruco del salice adulto è 72  volte più grande rispetto a quello uscito dall’uovo. Lionet. 11. 133.) Diverse lunghezze dello stadio del bruco in generale. 135.) Avvisaglie della metamorfosi. I bruchi smettono di rosicchiare, sono inquieti, si liberano di ogni spazzatura, e cercano di nascondersi. Che si tratti di fuga dalla luce? Si rifugiano sotto terra, imbozzolandosi. Allontanamento dal consueto nutrimento, ricerca di un corpo estraneo che si trovi più o meno allo stadio della muta precedente. 137.) Imbozzolarsi. Si tratta di una secrezione tramite cui i bruchi si liberano di un intero tratto di viscere. È immediatamente congiunta verso l’esterno al momento in cui si nascondono. Singolare il modo in cui stanno appesi con poco tessuto per metà del corpo. 139.) Tela. Scaturisce da un succo che si addensa solo all’aria. Qualità della tela. Più o meno finemente ordita, fitta, dall’apparenza di un uovo. 141.) Altre secrezioni. Talco. Mescolanza di peli nella tela. Sono tutti secchi?

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143.) Successiva forma nella metamorfosi. Pelle dal colore alterato. Raggrinzita. Più spessa, ma molto più breve. Il bruco si incurva. Se turbato, torna di nuovo ad assumere la sua posizione. Possiede un pungiglione, e lo abbassa. Contrazione delle zampe posteriori. 145.) Forzato imbozzolarsi. Per fame. Tela e farfalla si fanno più piccole. Probabilmente tutte le mute successive sono già trascorse. 146.) Colore in acquavite. Un bruco compiutamente cresciuto, che si approssima a diventare crisalide, in acquavite era diventato completamente nero. Probabilmente si era già pulito e la linfa (153.) già vi circolava, più concentrata. Almeno simili bruchi, gettati in acquavite durante la fase in cui rosicchiavano, mantenevano i loro variopinti colori. 147.) Ultima muta. La forma si fa più spessa e spinge all’indietro la pelle. La pelle della testa resta al suo posto. Il bruco si pone sul dorso e si muove per liberarsi della pelle. La crisalide ha inizio in questa posizione. La pelle di cui l’animale si è spogliato si contrae in uno spazio piccolissimo. 148.) Il bruco getta via anche il rivestimento dell’intestino? Donndorf 207. p. 575. 149.) Differenza dalle mute precedenti. Indagare tramite l’anatomia ciò che avviene durante lo stadio confuso. Probabilmente evaporano tutti gli umori indifferenti. La crisalide si forma dal basso verso l’alto, e solo in un secondo momento si libera degli stigmi. 151.) Primo stadio della crisalide. Tenera, le ali che mette sono trasparenti. Si possono vedere le piccole zampe muoversi in basso. Le ali si possono staccare, al pari delle altre parti, come la proboscide e così via. Loro stadio fragile. Stato grezzo degli anelli, su cui poggiano le ali. 152.) Concetto di crisalide. È necessario formarsi un concetto chiaro della crisalide, se si vuole esaminare l’intero processo della metamorfosi. La crisalide che esce dal bruco è una farfalla completa, anche se ancora imperfetta, e in questo momento è possibile staccare tutte le sue parti e riconoscerle chiaramente; ciascuna di esse è avvolta dalla propria pelle, che si indurisce verso l’esterno, e sotto la quale la farfalla giunge a compiuto sviluppo. Indurendosi, le parti si saldano l’una all’altra, al pari delle ali, in modo tale che la crisalide ci sembra allora come racchiusa entro un guscio generale.

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153.) Umore che sgorga. Sue notevoli qualità. Diventa nero all’aria, ciò che non avviene né per il succo dell’esula, né per il succo giallo del bruco. P. 146. Tale umore, che sgorga quando si sollevano in alto le ali della freschissima crisalide, è lo stesso che più tardi va a formare le ali, e probabilmente l’intera farfalla. Sgorga in quantità considerevole anche quando si feriscono le ali di una crisalide, e sembra colmare almeno l’intera parte superiore del suo corpo. Si mostra poi in base agli esperimenti che seguono. 154.) Esperimenti chimici su quest’umore. 1.) Dopo aver diluito in acqua distillata tre gocce di questo umore chiaro verde smeraldo, l’aggiunta di alcune gocce di acido cloridrico hanno dato un forte precipitato, fibroso e in fiocchi, di un colore bianco verdastro. 2.) Il precipitato ottenuto con acido nitrico non era coeso come il precedente. 3.) Con del sale alcalino corrosivo il precipitato si era ristretto ed era diventato anch’esso poco coeso. 4.) L’acqua distillata aveva assunto un colore torbido e bluastro, e si era depositato una sorta di sedimento vischioso. 5.) Il succo, seccato sulla carta e diventato di colore bruno, era stato modificato molto poco dal sale alcalino corrosivo e, nel vapore molto acido di acido cloridrico, aveva assunto gradualmente un colore giallo chiaro. 155.) Ulteriore comportamento della crisalide. L’ispessimento della pelle, che diventa più scura, è successivo. Le lineette incise si presentano di colore marroncino. Solo sotto questa nuova pelle si sviluppa compiutamente la farfalla, e soltanto sotto di essa si sviluppano le piume. 157.) Somiglianze rispetto al bruco. Si trova ancora negli anelli posteriori, che sono mobili e in cui si vedono degli stigmi perfetti. 158.) Dimensioni degli altri stadi. Sphinx Euphorbiae: grandezza complessiva del bruco [7,0 cm], grandezza dell’ultima muta [3,2 cm], grandezza della crisalide e della farfalla [3,7 cm], anche se la prima sembra un po’ più lunga. [Le misure sono rappresentate graficamente.] 159.) Differenze rispetto al bruco. La parte anteriore fa già presagire la farfalla. Le ali sono, fin sopra il settimo anello del corpo, a partire dall’alto, incrociate, e in avanti coprono i due anelli anteriori delle zampe mediane. Lasciano libere tutti gli stigmi, eccetto quelli del quarto anello dall’alto. Sph. Euph. 161.) Anelli. Rispetto ad essi è da notare: a.) La parte supe-

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riore, più esterna e più dura. b.) Quella inferiore, più tenera, che rende possibile il movimento. Etranglement. Stigmi. Caratteristiche in cui si situano le zampe in forma di appendici. 163.) Ano. Sembra chiuso. Traccia di un corno. 165.) Isolamento. È pensabile forse una qualche ingestione, una secrezione, oppure devono soltanto coobare208? Si nota una inspirazione ed una espirazione? Occorrerebbe provarlo sulla bilancia. Martinet209, De la respiration de la Chrysalide. Leide. 1773. Per un certo tempo restano vive nell’acquavite. Una crisalide immersa in acqua calda ha rilasciato d’improvviso da tutti gli stigmi delle piccole bollicine d’aria. 166.) Evaporazione. 35 crisalidi della Sphinx Euphorbiae pesavano il 13 ottobre 1796 5 Lot e 3/4 le stesse il 23 dicembre 4 Lot e 3/4

perdita di peso

1 Lot

Erano rimaste in una stanza calda e 2 di esse, sviluppatesi da bruchi incompleti e molto affamati, si erano trovate completamente seccate. 32 crisalidi pesavano il 23 dicembre 4 Lot e 1/2. 167.) Successivo sviluppo delle parti. La parte inferiore del corpo sembra farsi più piccola nella farfalla. 169.) Tempo. Alcune si sviluppano in [spazio vuoto nel testo] giorni. Altre hanno bisogno di un periodo dai due ai tre anni. 170.) Calore necessario. Ci vuole un certo grado di calore affinché entro un certo tempo evapori la giusta proporzione di umidità e si possa disporre dell’organizzazione che faccia sì che le crisalidi si approprino di ciò che è loro necessario, all’incirca come avviene nella cova delle uova. Alcune delle crisalidi della Sphinx Euphorbiae, formatesi alla fine di settembre, erano già uscite dal bozzolo come farfalle all’inizio di febbraio, ma erano rimaste in una stanza calda ed erano in larga misura svaporate. Si veda il 166. Ci si potrebbe chiedere se sarebbe stato possibile portarle alla metamorfosi in un tempo più breve esponendole ad un caldo più intenso, senza ucciderle o seccarle. Già nel calore moderato della stanza moltissime di loro si erano seccate. Tanto più sembra che questa crisalide in particolare, poiché solitamente sta sotto terra, abbia bisogno di umidità, e forse si raggiungerebbe lo scopo esponendola ad un caldo umido.

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171.) Stato delle ali. In un primo tempo sono membranose e prive di colore. 173.) Elementi delle piume. Quando si generano? A quanto pare, si sviluppano dalla pelle bianca, anch’esse bianche, per poi colorarsi in seguito. Sia lo sviluppo degli elementi che compongono le piume, sia la loro colorazione, sembrano avvenire molto rapidamente; forse, in particolare per quest’ultimo processo, sono necessari solo alcuni minuti. 175.) Crescita completa. Lacerazione della pelle. Avviene piuttosto spesso che una farfalla compiutamente formata muoia nella crisalide e resti indietro. 176.) Pelle della crisalide. Quando la farfalla esce dal bozzolo, la pelle mantiene le sue dimensioni, e non ha più la minima elasticità. Si separa facilmente dividendosi tra le diverse parti che copriva. È duplice. Delicati involucri della pelle interna. 177.) Bucare il bozzolo rodendo. Atto che viene negato da alcuni strumenti di prova. Geoffroy210. Agevolazione di quest’azione grazie all’umidità, che deve provenire dalla bocca. Una falena aveva rosicchiato il bozzolo non solo attraverso l’uovo da lei tessuto, ma anche attraverso la scatola in cui era conservata. Gli adminicula della bocca possono essere abbastanza affilati da consentire di rodere ancora di più il bozzolo. Un caso notevole si ha in una farfalla incompleta, in cui le due zampe anteriori mostrano in tutto la forma che avrebbero se fossero degli adminicula della bocca. 179.) Piccole ali al momento dell’uscita dal bozzolo. Trattate in particolare. Due lamelle da gonfiare. Ogni ostacolo in quest’operazione di dilatazione è dannoso. Il canale principale, o costa principale anteriore dell’ala si trova in diretta connessione con la parte superiore del corpo e si può quasi affermare che, poiché la farfalla è appesa per le zampe anteriori, le ali si riempiano meccanicamente. In tal modo infatti, in una farfalla morta entro la pelle della crisalide, e tuttavia tirata fuori ancora tenera, si sono riempite le 4 ali progressivamente con acquavite, come se avessimo immerso la farfalla in questo liquore. Verosimilmente è necessario solo un lasso di tempo piuttosto breve perché sia possibile tale operazione; infatti ho osservato delle farfalle la cui rapida uscita dal bozzolo era stata ostacolata da un qualche impedimento esterno o interno, e le cui ali erano rimaste piccole. 181.) Umori. Quello che la farfalla rilascia prima e dopo lo

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sviluppo delle ali. Umore torbido, giallastro fino a un colore rosso sangue. NB. Quando evapora, o la parte più pura si estende su una carta assorbente, rimane della terra, che occorrerebbe esaminare. Nel canale intestinale della crisalide si trova un umore bruno e gommoso; probabilmente una parte dell’umore più chiaro, che si trova nella parte superiore del corpo, trascorre attraverso l’intestino dopo che l’animale si è liberato della pelle della crisalide, lo risciacqua e da qui ha origine l’umore rosso. 183.) Umori. Un umore defluisce dalla farfalla se le si taglia la testa immediatamente dopo che è uscita dal bozzolo. Un bel colore giallo intenso, molto chiaro. Probabilmente la farfalla che non ingerisce nulla produce questo succo tramite un’elaborazione interna, e per una sua modificazione causata dall’aria che inspira. In generale, sembra che, nella metamorfosi della farfalla in crisalide, resti nella creatura in discreta quantità un umore puro, dotato di proprietà animali in particolare di natura chimica, che non evapora facilmente; sembra anche che tale umore si addensi per evaporazione o forse si purifichi ulteriormente da parti estranee, in modo da portare a compimento la creatura organica. NB. È importante, in tutte le nature animali, che esse tengano ferme le parti preposte alla nutrizione, una volta che le abbiano fatte proprie, fintantoché ne hanno bisogno. Se si recidono le ali a una farfalla nel momento in cui stanno crescendo, sgorga un umore chiaro, che nella Sphinx Esulae si presentava, nelle sue condizioni, esattamente come quello della crisalide di cui si è detto al nr. 153. 185.) Forma della farfalla. 187.) Testa. 189.) Occhi. a.) loro superficie. b.) loro interno. 191.) Punti. Rilevati al centro della testa, da alcuni ritenuti occhi. 193.) Antenne. a.) Simili a clave, e articolate. Farfalla diurna. b.) Simili a creste. Falena. c.) Simili a filamenti. Falene e tarme. d.) Forti e spigolose. Sfingide. Si presentano sempre sulla parte superiore della testa, tra gli occhi. 195.) Due adminicula della bocca. 197.) Proboscide. Lunga spirale. Composta di due canali. Nascosta sotto delle piccole foglie. Al microscopio ha l’aspetto dei bronchi. 199.) Ci sono altri organi?

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201.) Tronco. Contiene tre anelli, su cui si trova uno stigma. Questi tre anelli si uniscono strettamente e aumentano indicibilmente la loro forza muscolare. 203.) Ali. Forma. Numero, sempre quattro. Grandi nervature e vasi. Piccole cellule. Diploë. Stato, al momento in cui si toglie la polvere. Trasparenti, dall’apparenza di sego. Piccoli punti su cui poggiano i componenti delle piume. Sembra che in alcune femmine le ali siano assenti. 204.) Costituzione delle ali dal sistema dei bronchi, su cui si trovano due anelli privi di stigmi. 205.) Polvere. Priva di colore e colorata. Forma alla lente di ingrandimento. Grandezza al momento in cui l’animale esce dal bozzolo. Si trova in tutti gli individui, soltanto non copre l’intera ala. 207.) Zampe. Sei. Quattro. Nel primo caso talvolta la coppia anteriore è solitamente più corta. Caso deforme in cui la coppia anteriore è identica agli adminicula della bocca. 209.) Parti delle zampe. a.) Tratto superiore. b.) Tratto inferiore. c) Zampa composta di 5 articolazioni. d.) Calcagno. NB. Aculei e peli sulle articolazioni. 211.) Addome. Nove anelli. Totalmente coperti di stigmi, eccetto l’ultimo. 213.) Peli. Sul corpo. In che misura siano simili alle scaglie delle ali. 215.) Ano, parti della riproduzione. 217.) Ingestione. Succo dei fiori. Pura umidità; ad esempio la Phalaena bombyx cade molto rapidamente sulle parti umide del terreno e sembra aspirare. 219.) Secrezione. 221.) Crescita. 223.) Accoppiamento. Avviene rapidamente, negli uccelli che vivono un giorno. Rösel. Prima classe. 225.) Deposizione delle uova. Le falene le depongono anche senza accoppiarsi. 227.) Stadio della farfalla dopo la deposizione delle uova. Consunzione quasi totale del corpo. 229.) Stato delle uova. Ordinamento. Rivestimento villoso. Specie di tubo villoso, o uterus. 231.) Periodo vitale. Il bruco del salice vive alcuni anni, si imbozzola in inverno e continua a vivere come bruco; non muore per il freddo. Lionet. 8.

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233.) Morte. Disseccamento. Esaurimento. 235.) Diversità tra i sessi. a.) nella forma. b.) nella dimensione. Notamina da inserire nei luoghi corrispondenti: 1. Il corpo a forma di fagiolo, di un bel colore verde, nella farfalla. 2. I due corpi rotondi nella crisalide disseccata e spezzata, che sembra composta di fibre di seta. 3. Il lungo sistema filiforme o in forma di intestino nella farfalla. 4. Se nella farfalla gli stigmi si tengano uniti ancora tramite i rami più forti dei bronchi, come nei bruchi. 5. Indagine di questa parte nella crisalide. 6. Le crisalidi, in seguito, non appena si sono spogliate della pelle del bruco, devono essere sezionate nel loro stadio molle, poiché con i gusci induriti si rischia sempre di lacerare le parti. 7. Intestini ciechi nelle pieghe del canale intestinale. 8. Il sistema nervoso nella farfalla è sempre nella stessa posizione. 9. Attenzione su quale sia il sistema da cui ha origine l’ovaia, forse dal cosiddetto sistema ghiandolare. 10. Nella farfalla incompleta, il caso in cui le zampe anteriori hanno l’aspetto degli adminicula della bocca. 11. Uno stomaco grande, nelle larve, deriva dal cibo trattenuto. 12. La produzione dei peli e delle piume delle ali procede rapidamente, probabilmente, per analogia con la successiva crescita delle ali stesse. 13. Notevole modificazione interna dei tre anelli superiori che vanno a formare il corpo, e la cui forza muscolare si sviluppa indicibilmente. 14. La pelle di cui la crisalide si libera è doppia: quella interna è molto sottile. 15. Esatta osservazione del resto dell’organizzazione precedente in relazione alla pelle interna. I canali aerei che vengono rimossi insieme alla pelle restano attaccati agli stigmi. Lo stesso avviene nelle mute precedenti.

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16. Esatta osservazione della pelle della crisalide, che si indurisce, e del modo in cui la farfalla, già completa in tutte le sue parti, giunge a compiuto sviluppo sotto la pelle. 17. La costituzione delle ali dal sistema dei bronchi, il loro avanzare sopra vari anelli; l’anastomosi dei vasi in forma di rami in ambiente umido, e infine la completa scomparsa dell’umidità, lo stato puro e secco della farfalla nel momento in cui prende il volo. 18. Spiegare accuratamente le ali, quando si sollevano dalle zampe del bruco. 19. Nella crisalide di un’esula che è stata posta per più di due anni in aceto distillato erano distrutte tutte le viscere e quasi ogni traccia della futura farfalla; tuttavia gli strati di pelle, sia quelli esterni che quelli interni, non erano intaccati, e sullo strato interno si trovavano ancora i vasi che procedevano da uno stigma all’altro. 20. NB. La farfalla si spoglia di questi vasi insieme al duplice strato di pelle da crisalide. È da indagare il modo in cui si producono le mute precedenti e se tali vasi si trovino nella farfalla. 21. La pelle della crisalide non è un involucro generale, simile ad esempio al guscio di un uovo, ma piuttosto ciascun membro possiede la sua particolare guaina. 22. La parte inferiore del corpo si forma verso l’interno, e per questo le zampe posteriori scompaiono, in particolare gli organi sessuali; la parte superiore del corpo si forma invece verso l’esterno, mentre le zampe si sviluppano ancora, e le ali si formano ex novo; la testa poi ottiene una proboscide e delle antenne. Nei maggiolini i vasi che portano l’aria terminano verso l’interno in folliculi di pelle, molto frequenti. Lungo vaso trasparente nel bombo, che corre verso il basso per tutto il dorso e pulsa in modo molto vivace (si tratta del cosiddetto cuore degli insetti); scende in basso attraverso un tessuto membranoso trasparente, molto irrorato di vasi che portano ossigeno. Pulsa per 3 o 4 ore, finché tutta l’umidità non si secca; se vi si soffia sopra pulsa molto più rapidamente. Occorre provare quanto a lungo batte se prende umidità, e se

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al freddo si irrigidisce. In una crisalide tagliata in un secondo e mezzo pulsa una volta. A. Il canale del nutrimento ha 4 sezioni. 1. La faringe. 2. Lo stomaco. 3. Le prime viscere. 4. Il resto delle viscere. B. Vasi che portano ossigeno. a) Collegamento di questo sistema con le viscere della pelle. Parti. 1. Stigmi. 2. Primi canali contigui. 3. Canali lunghi. 4. rami che si dipartono da questi ultimi. 5. Bolla d’aria. 6. Umidità. C. Sistema nervoso. a) Singolare posizione sul lato inferiore. Collegamento. Parti. 1. Gangli. 2. Fili, teneri ma saldi. NB. Nessuno stimolo metallico. D. Muscoli. a) Forma b) Colore. c) Consistenza d) connessione con gli anelli. NB. Indagare accuratamente gli altri muscoli, che secondo Lionet dovrebbero esistere. E. Il sistema ghiandolare giallo. a) Forma e proprietà delle parti. b) Relazione reciproca. c) relazione con i vasi che portano ossigeno. d) con le viscere. e) con i nervi. F. Il sistema ghiandolare biancastro. a) Forma e proprietà delle parti. b) Relazione reciproca. c) con le viscere. d) Posizione generale e rapporto. G. I due vasi per la seta. a) Forma. b) Succo. c) Relazione con la bocca. d) Posizione nel corpo. e) Relazione con le altre parti. H. I due vasi che dissolvono. I. Il cosiddetto cuore. Pulsa sul dorso. Dall’ano verso l’alto. Non è visibile in tutti allo stesso modo. Molto ben visibile nel bruco [spazio vuoto nel testo]. Ha battuto 48 volte in un minuto. – Convulsioni del bruco contemporaneamente. J. La parte interna della testa. K. Le parti in forma di reni. Forse la bollicina nella crisalide è qualcosa di simile? Rodere. Uguaglianza dei morsi. Deglutire. Passaggio nello stomaco. Umore che assorbe. Successivo disseccare stringendo. Escrementi secchi. Inspirare aria. Generale ripartizione di questo sistema. Cosa prenda dall’esterno. Come modifichi ciò che viene accolto. Cosa distribuisca all’interno. Cosa assorba dall’interno.

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Sensibilità. In che misura dipenda dai nervi. Eccitabilità più generale e specifica delle parti. Movimento dei muscoli. Semplice. Forte contrazione. Possibilità di direzione verso ogni lato. Grasso, giallastro. Sua secrezione. Quantità. Grasso, biancastro. Secrezione. Tessere. Succo colloso. Per effetto dell’aria diventa denso e solido. Proprietà più o meno generali. Weimar, 17 maggio 1798. Ho aperto uno Sphinx Ligustri e ho trovato: 1.) Il cosiddetto sistema nervoso è simile a quello del bruco. 2.) Un sistema ghiandolare serpentino. 3.) L’intero corpo riempito di uova, che appaiono verde smeraldo e, appena sono poste anche solo un po’ all’aria, diventano di un colore giallo-verde. Erano attaccate l’una all’altra come un rosario: quelle appese per la parte inferiore del corpo, grandi come chicchi di miglio, sopportavano una forte pressione della pinzetta, mentre quelle appese per il dorso erano più piccole e incomplete, e si lasciavano schiacciare. Riguardo ad esse si poteva osservare che si costituivano in un condotto di viscere, molle e completamente trasparente; si potevano così seguire fino alla loro origine, in cui si mostravano sempre più piccole nell’ultima parte, a quanto sembrava, del lungo canale. L’intera ovaia si presentava 4.) Ricoperta di una pellicina bianco-argentea, con cui sembrava impastata; sembrava trarre origine dal sistema dei bronchi e coincidere con dei vasi per l’aria dilatati. Sul dorso, verso l’ano, si trovavano due bollicine completamente trasparenti, riempite di un umore chiaro, che apparivano collegate verso il basso con gli organi riproduttivi, verso l’alto con l’ovaia. Forse si tratta di dilatazioni del lungo condotto che costituisce l’ovaia, causato dall’afflusso del seme maschile. Lo stomaco e le viscere erano vuoti, e le viscere che pulsavano sul dorso mostravano a lungo la loro funzione. I muscoli che collegano gli anelli e muovono appaiono molto più corti che nel bruco. Tutti i vasi per l’aria si presentano molto dilatati, mentre il sistema ghiandolare lipoideo si mostra molto ridotto. Si torna sempre alla considerazione, estremamente interes-

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sante, riguardo al modo in cui la parte superiore dell’insetto si sviluppa per il movimento meccanico, mentre quella inferiore per la riproduzione. I vasi per l’aria mutati in pelle che ho già notato nei maggiolini sembrano coincidere con una delle principali modificazioni della metamorfosi organica degli insetti. Parte superiore Dal basso verso l’alto quando il corpo è diviso. In direzione del dorso si ha un tessuto simile a quello di un osso segato in due. La lamella membranosa del primo anello. L’organizzazione del movimento delle ali. Movimento delle zampe. Poiché il primo, a causa della sua enorme energia, è notevole in particolare nelle sfingi, occorre farsene anzitutto un concetto chiaro. Eod. Ho sezionato un bombo e vi ho trovato, all’esterno, 5 pidocchi in forma di ragni di discreta grandezza, e l’intera parte inferiore del corpo era piena di vermi, il canale del nutrimento era pieno di un succo marrone. Lunga vita del bruco uscito dall’uovo senza nutrimento.

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Studi di storia naturale211



viscere della rana

Del maschio

Composta di più cavità.

Trachea

Polmone Sacchetto allungato, internamente cavo, le cui pareti sono costituite di ventricoli e bolle, gonfiate dall’aria Cuore Fissato al polmone Faringe. All’inizio è molto ampia, quindi si restringe in un canale irregolare, senza un vero e proprio indizio della presenza dello stomaco.

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Della femmina.

Tutto questo è,, nella femmina . pressappoco identico

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Fegato e bile. Si trovano attaccati al punto in cui l’intestino si fa più sottile. NB. Nelle vicinanze si trova un piccolo corpo rosso in forma di muscolo. Il testicolo del maschio.

Un lungo sistema ghiandolare lipoideo, che inizia dall’alto e presenta la forma dell’intestino, mentre verso il basso poggia sull’ovaia.

In alto si presenta granuloso e ghiandolare, connesso ad un corpo lungo e marroncino, mentre verso il basso è collegato ad un corpo più piccolo e grigiastro, come un testicolo secondario.

L’ovaia Due grandi sacchi riempiti di numerose uova. Più in alto si trova un piccolo sistema di parti rotonde, piccole e in forma di uova, simili ad un’ovaia secondaria, dall’aspetto verdastro, con alcune sferule più scure di altre.

Rialzi ruvidi sul pollice del maschio. Se si osserva al microscopio la pelle della rana, si nota che l’intero corpo è disseminato di puntini neri, e che le piccole verruche sembrano escrescenze di questi piccoli punti neri.

Dalla femmina di rana sezionata il 9 marzo è stata tagliata via l’ovaia e posta per la maggior parte in acqua: il nucleo nero è rimasto piccolo e immutato, la sostanza gelatinosa è fuoriuscita abbondantemente e il 30 marzo non presentava ancora la minima traccia di odore putrido, anche se il nucleo interno non fecondato, come si dice, si era in certo modo decomposto. In alcuni esemplari ingranditi con acido cloridrico il bianco dell’uovo appariva come bollito e così anche il tuorlo del primo aumentava di poco in acqua, mentre il secondo si mostrava visibilmente più grande rispetto a quello mantenuto nell’acqua.

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In esemplari ingranditi con aceto distillato si mostrava all’incirca lo stesso fenomeno, salvo il fatto che il bianco era rimasto ancora più piccolo e il tuorlo era diventato ancora più grande. Jena, 30 marzo 1797. anatomia della lumaca Weimar, 11 maggio 97. Occorre osservare e indagare a fondo i diversi apparati. 1.) L’apparato del nutrimento, che ha inizio dalla faringe, e che viene presto avvolto e accompagnato dal fegato. Poiché questo canale deve necessariamente tornare nuovamente indietro, il fegato si pone attorno ad esso in vari modi, ed è collegato ad esso da diversi vasi, che si propagano, mentre la sua parte superiore consta di tre lobi; nel punto in cui il condotto intestinale si incurva corrono ancora delle ramificazioni dei vasi verso uno dei lobi, che gira verso l’alto fino alla punta dell’elice, assumendone la forma. Il fegato fornisce direttamente e senza la mediazione di una cistifellea i suoi succhi al canale intestinale. Avviene all’incirca lo stesso fenomeno che si verifica nel sistema bronchiale dei vermi, che si tramutano mediante delle ramificazioni che conducono il loro succo verso il canale intestinale. Sarebbe da indagare in che misura in questo caso il fegato assuma questo ruolo; nella lumaca tale organo è infatti straordinariamente sviluppato. 2.) Un sistema ghiandolare. Ha origine dalla parte anteriore, senza rapporto con alcun altro? In forma di frattaglie, e termina in un grande corpo grasso. Nelle vicinanze di tale corpo si pone un sottilissimo reticolo di interiora, che corre fino in cima alla spira, fino al punto in cui poi si perde, all’interno dei lobi, in un corpo bianco, granulare e composto. Sono questi i due apparati che il verme porta principalmente sul dorso. All’interno della mezzaluna formata dal sistema delle interiora si trova un piccolo canale che in basso termina come in un testicolo.

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4.) Al di sopra di questi due apparati si trovano il cuore e i polmoni in uno specifico involucro. 5.) Nella testa e nella parte anteriore del corpo si possono isolare i diversi apparati.

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Preparato patologico212

Una donna i cui fratelli hanno già sofferto di malattie delle ossa avvertiva, nella prima giovinezza, un forte dolore quando le veniva toccata la mascella superiore sotto l’occhio sinistro; quest’ultimo si era esteso progressivamente verso il basso fino alla metà del palato, dove si era creata un’ulcera in cui si poteva sentire qualcosa di duro; la donna visse fino a 19 anni e morì di consunzione. La parte del cranio che si è conservata, dopo essere stata anatomizzata, mostra le seguenti particolarità. La metà sinistra dell’os intermaxillare contiene due buoni incisivi, il canino manca e dal piccolo alveolo si vede che immediatamente dopo la seconda dentatura deve essere caduto; segue quindi un molare, quindi una piccola lacuna, tuttavia senza alveoli, ma con un bordo affilato, e poi un robusto molare, al di sopra del quale un cosiddetto dente del giudizio, non ancora completamente sviluppato. Ora, se si osserva la cavità nasale del preparato si trova una grande singolarità: un dente è attaccato sotto il bordo dell’occhio con la sua radice, fissato ad una piccola massa ossea tonda e rugosa, e si estende dalla sua collocazione incurvandosi verso il basso e all’indietro, tanto che ha per così dire perforato la parte palatale della maxilla superiore, proprio dietro ai canales incisivi, o piuttosto si è cariato a causa dell’innaturale contatto tra le parti, e si è in tal modo determinata un’apertura più grande della sua corona, come per erosione. La corona si trova solo poco pù avanti della superficie del palato. Il dente non è completamente sviluppato come gli altri mo-

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lari, la sua radice è semplice e lunga, e la sua corona non si è pienamente allargata. Dopodiché appare un dente sano con una forte crescita, al quale però è stata impedita la via verso la sua giusta posizione, a causa di una crescita irregolare e più rapida dei denti vicini, in modo tale che questo dente si è sviluppato all’indietro causando una simile sventura. Probabilmente si tratta del molare mancante, del cui alveolo non si vede traccia. All’inizio credevo quasi che si trattasse del canino. Se si fosse potuto sospettare un simile caso, sono convinto che si sarebbe potuta facilmente operare questa persona, estraendo il dente; tuttavia c’è quasi da dubitare che, data la sua infelice costituzione complessiva, quest’operazione avrebbe potuto prolungarle la vita. È un peccato che si sia tagliata solo la parte interessante, e non l’altra metà della maxilla, o addirittura l’intero cranio, in modo da consentire di osservare la struttura ossea anche di quelle parti che non mostravano alcuna irregolarità evidente.

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Saggi per una metodologia della scienza del vivente

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Morfologia213

Si basa sulla convinzione che tutto ciò che esiste si debba anche delineare e mostrare. A partire dai primi elementi 214 fisici e chimici, fino all’espressione spirituale dell’uomo, possiamo ritenere valido tale principio. Ci volgiamo subito a ciò che possiede una forma. L’inorganico, il vegetativo, l’animale e l’umano: tutto ciò si delinea già da sé, e appare per ciò che è al nostro senso esterno e interno215. La forma è qualcosa che si muove, che diviene, che trapassa. La teoria della forma è teoria della trasformazione. La teoria della metamorfosi è la chiave per tutti i segni della natura.

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[Ordine dell’impresa]216

I. Ordinare l’impresa è un compito vasto e difficile. Sapere con ordine esige una conoscenza più accurata dei singoli oggetti. Attenzione ai loro caratteri, dunque differenze e concordanze. A questo scopo è necessario molto più che lo sguardo sensibile217 e la memoria. Studio di ciò che deve essere definito, e giudizio su quest’oggetto. Sforzo della mente umana per costituire in un insieme ciò di cui si occupa. Impazienza dell’uomo a prepararsi a sufficienza. Fretta di giungere a delle conclusioni. Non sempre si può biasimare. Esperienze delle diverse epoche. Le più precoci sono quelle meno complete. Nessuno che pensi di far propria una conoscenza scientifica sente inizialmente la necessità di tendere sempre più in alto il suo modo di pensare e di rappresentare. Coloro che si occupano di scienze hanno avvertito tale esigenza solo poco a poco. Al giorno d’oggi, poiché sono stati discussi così tanti problemi generali, il botanico, che è diventato quasi un artigiano giardiniere, giunge gradualmente a trattare le questioni più difficili, e tuttavia, non sapendo nulla dei punti di vista adegua-

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ti a rispondere a tali questioni, egli è costretto ad accontentarsi delle parole, oppure perviene ad una sorta di meravigliata confusione. È bene dunque che ci si prepari fin dall’inizio a domande serie e a risposte altrettanto serie. Se a tale proposito ci si vuole tranquillizzare creandosi delle prospettive serene, si può dire che nessuno pone alla natura domande a cui non sia in grado di rispondere, poiché nella domanda è contenuta la risposta, e la sensazione che su un simile punto si possa pensare o intuire qualcosa. Certo, le domande saranno completamente diverse a seconda delle diverse nature degli uomini218. Per orientarci in qualche misura tra simili nature differenti, intendiamo suddividerle in: coloro che cercano l’utile coloro che aspirano a conoscere coloro che vogliono intuire e coloro che desiderano comprendere 1. Coloro che cercano ed esigono l’utile sono i primi che, per così dire, circoscrivono il campo della scienza, e ne colgono gli aspetti pratici; la consapevolezza ottenuta per esperienza dà loro sicurezza, e l’esigenza che avvertono garantisce una certa ampiezza. 2. Coloro che sono avidi di sapere hanno bisogno di uno sguardo tranquillo e disinteressato, di un’inquietudine curiosa e di un intelletto lucido, e sono sempre in rapporto con i primi; essi elaborano anche solo in senso scientifico ciò che trovano già. 3. Coloro che vogliono intuire si comportano già in modo produttivo, e il sapere, aumentando, promuove l’osservazione, senza che lo si noti, e inoltre la oltrepassa; per quanto poi coloro che aspirano al sapere si crocifiggano e si segnino di fronte all’immaginazione, tuttavia non possono non ricorrere, prima di cadere in errore, all’immaginazione produttiva. 4. Coloro che desiderano comprendere, che in un senso più orgoglioso si potrebbero chiamare i creatori, si comportano in massimo grado in modo produttivo, poiché, prendendo le mosse da delle idee, esprimono già l’unità dell’insieme, ed è poi in certo senso compito della natura inserirsi in tali idee.

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Considerare la metafora delle vie. Esempio dell’acquedotto: distinguere ciò che è fantastico da ciò che è ideale. Esempio del poeta drammatico. Immaginazione produttiva con possibile realtà. In ogni sforzo scientifico occorre aver chiaro il fatto che ci si verrà a trovare in queste quattro regioni. Occorre mantenere la coscienza di quale sia la regione in cui ci si trova. Nonché la tendenza a muoversi in una di tali regioni altrettanto liberamente e piacevolmente che nell’altra. L’elemento oggettivo e quello soggettivo dell’esposizione saranno dunque qui conosciuti e isolati in anticipo, e in tal modo si può sperare almeno di suscitare una certa fiducia. II. Trattazione genetica 219 Risulta evidente che nella nostra esposizione ci manterremo per lo più ai confini tra la seconda e la terza regione, ma ci muoveremo anche, consapevolmente, dall’una all’altra. Solitamente, coloro che aspirano al sapere ricorrono istintivamente a coloro che vogliono intuire, anche se spesso, in casi teorici, attraverso un’errata via teleologica ritornano a coloro che cercano l’utile, tra i quali annoveriamo tutti coloro che indagano la natura per onorare Dio. Un punto in relazione al quale è possibile evidenziare e utilizzare la vicinanza tra le due regioni è la trattazione genetica. Quando vedo davanti a me una cosa già costituita, mi interrogo sulla sua origine e misuro all’indietro il processo genetico, finché riesco a seguirlo, mi accorgo dell’esistenza di una serie di gradini220 che, pur non potendo vedere uno accanto all’altro, devo tuttavia aver presenti nel ricordo come un determinato insieme ideale. Tendo dapprima a pensare a determinati gradini, ma poiché la natura non fa salti, sono infine costretto a contemplare la sequenza di un’azione ininterrotta come un insieme, superando il singolo dettaglio senza però disperderne l’impressione. Suddivisione per grandi linee. Tentativo di una suddivisione più fine

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Tentativo di aggiungere un numero ancora maggiore di punti intermedi. Se si pensa ai risultati di simili tentativi, si vede che infine non può che cessare l’esperienza, e subentrare l’intuizione di un divenire, sicché infine trova espressione l’idea. Esempio di una città come opera dell’uomo. Esempio della metamorfosi degli insetti come opera della natura. Teoria della metamorfosi delle piante nel suo significato complessivo. III. Unità organica Identità delle parti nelle più diverse forme. Importanti domande da porre. Se ciò che esiste è sviluppato dal seme221 Oppure se ciò che è dato all’inizio venga proseguito e trasformato in base ad una legge. Il modo di rappresentazione atomistico ha una certa prossimità con l’opinione comune. Con un certo modo di pensare. Non deve essere scartato del tutto nell’indagine della natura. Tuttavia costituisce un ostacolo, se vi si vuole rimanere del tutto fedeli. Alcuni non riescono a liberarsene. Modo di rappresentazione dinamico. Sue iniziali difficoltà. Suoi vantaggi nel seguito, numerose opposizioni tra i due modi di rappresentazione. Per il momento occorrerà assumere il secondo modo per la nostra esposizione. Deve legittimarsi con l’uso. Nell’osservazione delle piante si assume un punto vitale, che produce sempre un suo simile. In particolare, ciò avviene nelle piante più piccole tramite una continua ripetizione dello stesso elemento. Inoltre, nelle piante più perfette, ciò avviene grazie ad una progressiva costituzione e trasformazione dell’organo principale in organi sempre più perfetti e attivi, allo scopo di giun-

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gere infine al punto supremo dell’attività organica, isolando e separando gli individui dall’insieme organico mediante la procreazione e la nascita. La concezione più elevata di unità organica. IV. Divisione organica In passato la pianta era considerata come un’unità222. Possiamo vedere con i nostri occhi l’unità empirica. Essa sorge dal collegamento di molte parti diverse, che presentano la più grande varietà, e formano un individuo apparente. Una pianta annuale completa strappata. Unità ideale. Quando queste diverse parti sorgono da un ideale corpo originario, e sono pensate come formate progressivamente attraverso diversi gradi. Possiamo concepire tale ideale corpo originario nel modo più semplice possibile, ma dobbiamo al contempo pensarlo come diviso al suo interno, visto che senza presupporre tale divisione dell’uno non è possibile pensare che nasca un terzo elemento. Lasciamo al momento nel grembo della natura questo ideale corpo originario, che porta in sé già una certa predisposizione alla dualità. Notiamo soltanto che qui il modo di rappresentazione atomistico e quello dinamico, i metodi di sviluppo e di formazione, si contrappongono subito tra loro. Breve esposizione del dualismo della natura223 in generale. Passaggio alla pianta224. Essa è di natura quasi fisica, per quanto si presenti in un corpo organico. Germoglio della radice e della foglia. Sono originariamente unite l’una all’altra, e anzi l’una non è pensabile senza l’altra. Sono anche all’origine reciprocamente contrapposte. Alla domanda sul perché i germogli della radice si sviluppino verso il basso, mentre quelli della foglia tendono verso l’alto, rispondiamo dicendo che, in base al generale dualismo della na-

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tura, in questo caso esemplificato da tali germogli, questi ultimi si oppongono l’uno all’altro. Nel frattempo possiamo dire qualcosa a proposito delle loro particolari condizioni. Una pianta, al pari di ogni essere naturale, non si può pensare isolata dalle condizioni che la circondano. Essa richiede una base dell’esistenza per il rafforzamento e per il principale nutrimento, secondo la sua massa. Richiede aria e luce per il suo molteplice sviluppo, per un più fine nutrimento e per una crescita compiuta. Troviamo che le radici hanno bisogno di umidità e di buio per svilupparsi, mentre le foglie esigono luce e clima secco. Dunque tali esigenze sono, dall’inizio alla fine, reciprocamente opposte. Ad ogni nodo, e anzi in molti altri punti del corpo della pianta, la radice può svilupparsi se sono presenti le condizioni di umidità e di buio, o anche, in un certo senso, soltanto la prima. In ogni punto della pianta si può sviluppare il germoglio di una foglia, non appena riceva l’azione della luce e del clima secco. Esempi. Principale differenza tra i germogli della radice e della foglia. Il primo resta sempre semplice. Si tratta solo di una prosecuzione della prosecuzione, senza molteplicità. Il secondo si sviluppa invece nel modo più molteplice, e si approssima gradualmente alla perfezione. È favorito dalla luce e dal clima secco. Umidità e buio lo ostacolano. Certe piante, in particolare quelle rampicanti, che sviluppano sui rami delle specie di radici malgrado la luce e l’aria, presentano, oltre ad una certa tenacia e sensibilità, molte parti acquose nella loro miscela. Ora, se si pensa originariamente e fin dall’inizio un simile organismo nel suo insieme con un opposto, allora si ritroverà una separazione analoga anche nelle sue parti. La ritroveremo sulla superficie superiore e inferiore della foglia. Nell’alburno che costituisce all’interno il legno, e all’esterno la corteccia, e così via, finché infine raggiungiamo l’apice della separazione organica: la divisione dei due sessi.

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Lavori preliminari per una fisiologia delle piante225

Concetti per una fisiologia La metamorfosi delle piante è il fondamento della loro fisiologia. Essa ci mostra le leggi in base alle quali si formano le piante. Richiama la nostra attenzione su una legge duplice226: 1. sulla legge della natura interna, in virtù della quale le piante si costituiscono. 2. sulla legge delle condizioni esterne, in base a cui le piante si modificano. La scienza botanica da un lato ci rende nota la molteplice formazione delle piante e delle loro parti, dall’altro indaga le leggi di tale formazione. Ora, se è vero che gli sforzi per ordinare in un sistema la grande quantità delle piante meritano il più alto plauso soltanto quando sono necessari e riescono a distinguere le parti più costanti da quelle più o meno casuali e mutevoli, in modo tale da porre in luce sempre più chiaramente la grande affinità tra i diversi generi, è pur vero che sono lodevoli anche quegli sforzi che mirano alla conoscenza della legge in base alla quale si producono quelle formazioni. E anche se, di primo acchito, sembra che la natura umana non sia in grado né di cogliere l’infinita molteplicità dell’organizzazione, né di comprendere chiaramente la legge che presiede alla sua azione, è tuttavia bello impiegare tutte le forze per ampliare questo campo se-

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condo entrambi i lati, sia tramite l’esperienza, sia tramite la riflessione. Abbiamo visto che le piante si riproducono in diversi modi, che sono da considerare come modificazioni di un unico modo. Ci siamo occupati principalmente nella metamorfosi della riproduzione, così come della proliferazione, che avviene grazie allo sviluppo di un organo dall’altro. Abbiamo osservato che tali organi, che possono mutare la somiglianza esteriore nella più grande difformità, possiedono tuttavia internamente una somiglianza virtuale, e per l’intelletto [il testo è interrotto] Abbiamo visto che tale proliferazione, che germoglia nelle piante compiutamente sviluppate, non può proseguire all’infinito, ma conduce gradualmente ad un apice, realizzando, per così dire, all’estremità opposta della sua forza, un’altra modalità riproduttiva, che avviene grazie ai semi. Abbiamo riscontrato la differenza principale tra la proliferazione che avviene per riproduzione e quella che avviene mediante i semi nel fatto che nella prima i germogli [il testo è interrotto]

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Schema generale per l’intero saggio sulla morfologia227

1. Introduzione, in cui si presenta l’intenzione del saggio e si determina il campo di indagine. 2. Degli organismi più semplici e del loro prodursi l’uno accanto all’altro228, senza progressione delle membra in una forma. 3. Degli organismi più semplici e del loro procedere l’uno dall’altro229, senza progressione delle membra della forma. 4. Osservazione sui due precedenti stadi inferiori delle piante e del mondo animale; passaggio alle gemme. 5. Metamorfosi delle piante: le più perfette si collocano più in alto nella loro forma rispetto agli animali imperfetti. Sviluppo fino ai due sessi. La separazione dei germogli è possibile solo grazie ai due sessi. Observations sur les Plantes et leur analogie avec les Insectes (par Bazin230) Straßb. 1741 6. Sui vermi che non subiscono metamorfosi: essi si collocano, anche riguardo alla forma, al di sotto delle piante. Vermi ermafroditi. Loro avanzamento fino alla suddivisione successiva. 7. Vermi che si trasformano. Si tratta di un livello molto significativo della natura. 8. Pesci e loro forma; loro rapporto con i vermi che non subiscono metamorfosi. 9. Anfibi e loro trasformazione: l’esempio delle rane che risul-

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tano da una forma simile a quella dei pesci. Serpenti e loro mute e quant’altro può essere indice di metamorfosi. In generale, seguire tutte queste creature231 a partire dal loro primo sviluppo nelle uova. 10. Del tipo delle creature più perfette in generale e del modo in cui si riferisce ai concetti che abbiamo presentato in precedenza.

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[Considerazioni sulla morfologia]232

Definizione e delimitazione del campo233 su cui si lavora. Fenomeno della struttura organica. Fenomeno della struttura più semplice, che appare come un mero aggregato di parti, ma che spesso sarebbe da spiegare in modo altrettanto efficace facendo ricorso all’evoluzione o all’epigenesi. Intensificazione di questo fenomeno e unificazione di tale struttura in una unità animale. Forma. Necessità di riunire tutte le modalità di rappresentazione, non per esaminare le cose e la loro natura, bensì per rendere conto dei fenomeni, anche soltanto in qualche misura, e comunicare ad altri ciò che si è osservato e conosciuto. Quei corpi che chiamiamo organici hanno la proprietà di produrre su di sé o da sé degli organismi loro simili. Ciò fa parte del concetto di natura organica, ma non siamo in grado di darne ulteriori ragioni. Ciò che è nuovo, ciò che è uguale, si presenta all’inizio sempre come una parte dello stesso organismo, e in tal senso scaturisce da esso. Ciò favorisce l’idea dell’evoluzione; il nuovo tuttavia non può svilupparsi dal vecchio, senza che quest’ultimo sia giunto ad una sorta di compiutezza in virtù di una certa assunzione di alimenti dall’esterno. Questo favorisce il concetto di epigenesi, anche se entrambe tali modalità di rappresentazione si rivelano piuttosto rudimentali a fronte della delicatezza dell’oggetto imperscrutabile.

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Di fronte ad un oggetto vivente, ciò che in prima istanza ci colpisce è la sua forma complessiva, e in seguito le parti di tale forma, la loro struttura e connessione. La storia naturale si occupa della forma in generale e del rapporto e del collegamento delle parti, nella misura in cui esse sono esteriormente visibili; quando invece esse si offrono allo sguardo soltanto quando la forma è divisa, noi chiamiamo questo sforzo l’arte della dissezione, che non si rivolge esclusivamente alla forma delle parti, ma anche alla loro struttura interna, servendosi, con ragione, dell’aiuto di una lente di ingrandimento. Quindi, quando in tal modo il corpo organico sia stato smembrato in maggiore o minor misura, al punto che la sua forma è annullata e le sue parti possono essere osservate come materia, allora subentra presto o tardi la chimica, fornendoci nuovi e affascinanti chiarimenti a proposito delle parti ultime e della loro mescolanza. Ora, se a partire da tutti questi singoli fenomeni osservati ricreiamo come palingeneticamente234 la creatura che era stata smembrata, e la consideriamo di nuovo come viva e sana, definiremo tale processo i nostri sforzi fisiologici. E poiché la fisiologia coincide con quell’operazione intellettuale con cui, da ciò che è vivo e ciò che è morto, dal noto e dall’ignoto, attraverso osservazioni e deduzioni, da ciò che è compiuto e da ciò che è incompiuto intendiamo ricostruire un intero, che è al contempo visibile e invisibile, e il cui aspetto esteriore ci appare come un insieme, mentre il suo interno si mostra come una parte, e le cui espressioni e azioni sono destinate a restare per noi sempre misteriose, è facilmente comprensibile il motivo per cui la fisiologia è stata costretta a rimanere così a lungo indietro, e probabilmente resterà eternamente indietro, poiché l’uomo avverte costantemente la sua limitatezza ma solo raramente è disposto a riconoscerla. L’anatomia è assurta ad un grado tale di esattezza e precisione che la sua conoscenza chiara costituisce già di per sé una sorta di fisiologia. I corpi sono mossi in quanto possiedono una lunghezza, una larghezza e un peso; la pressione e l’urto agiscono su di essi, che possono così essere trasferiti in un modo o nell’altro dal loro posto. Per questo motivo uomini che conoscevano e tene-

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vano presenti tali leggi naturali le hanno applicate, non senza vantaggio, allo studio dei corpi organici e dei loro movimenti. Così anche la chimica ha osservato con precisione i mutamenti delle parti più piccole, al pari della loro composizione; la sua importante attività e precisione le ha fornito più che mai il diritto di far valere le sue ambizioni al disvelamento delle nature organiche. Da tutto questo, anche se non si considerano altri aspetti che in questa sede tralascio, si vede facilmente che vi sono delle solide ragioni per impiegare tutte le forze dell’animo, se vogliamo comprendere argomenti così oscuri; e si hanno validi motivi per ricorrere a tutti gli strumenti interni ed esterni, e per valersi di tutti i vantaggi, se intendiamo affrontare questo lavoro senza fine. Perfino una certa unilateralità non potrà nuocere nel complesso: ciascuno potrà ritenere che la propria via sia la migliore, purché sappia spianarla e ordinarla, in modo tale che chi la intraprenderà in futuro sia in condizioni di percorrerla in modo più agevole e rapido. Ricapitolazione delle diverse scienze: a) Conoscenza delle nature organiche in base al loro habitus e ai diversi rapporti di forma. Storia naturale. b) Conoscenza delle nature materiali in generale in quanto forze e nei loro rapporti di luogo. Teoria della natura. c) Conoscenza delle nature organiche in base alle loro parti interne ed esterne, senza riguardo all’organismo vivente nel suo complesso. Anatomia. d) Conoscenza delle parti di un corpo organico nella misura in cui esso cessa di essere organico, o in quanto la sua organizzazione sia considerata unicamente come produttrice di materia e composta di materia. Chimica. e) Considerazione dell’intero in quanto vivente e in quanto a tale vita venga attribuita una particolare forza fisica. Zoonomia235.

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f) Considerazione dell’intero in quanto vivente e agente, e in quanto a tale vita sia attribuita una forza spirituale. Psicologia. g) Esame della forma, sia nelle sue parti che nel complesso, nonché delle sue coincidenze e deviazioni, senza altre considerazioni. Morfologia. h) Considerazione del tutto organico attraverso il richiamo a tutte le prospettive dette, e alla loro connessione, grazie alla forza dell’intelletto. [Fisiologia.] Considerazione sulla morfologia in generale La morfologia può essere considerata sia come una teoria autonoma che come una scienza ausiliaria della fisiologia. Essa si basa nel complesso sulla storia naturale, da cui trae i fenomeni per analizzarli secondo i suoi scopi. Allo stesso modo fa ricorso all’anatomia di tutti i corpi organici e in particolare alla zootomia. Poiché il suo intento è di rappresentare e non di spiegare, essa accoglie in sé il meno possibile dalle altre scienze ausiliarie della fisiologia, per quanto non trascuri certo i rapporti tra le forze e tra i luoghi che indaga il fisico, né i rapporti tra le materie e le loro miscele che sono oggetto della chimica; è proprio grazie alla sua delimitazione che essa diventa una teoria particolare, e si considera sempre come ancillare alla fisiologia, coordinata con le altre scienze ausiliarie di quest’ultima. Dal momento che nella morfologia intendiamo presentare una nuova scienza, e non in ragione del suo oggetto, che è noto, bensì in virtù della prospettiva e del metodo, che devono conferire una forma propria alla teoria stessa, e al contempo le assegnano un luogo anche in rapporto ad altre scienze, ci proponiamo anzitutto di esporre tale metodo mostrandone il rapporto con le altre scienze affini, per poi presentare il suo contenuto e il relativo modo di rappresentarlo. La morfologia deve contenere la teoria della forma, della formazione e trasformazione dei corpi organici, e dunque fa

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parte delle scienze naturali, i cui scopi specifici andiamo ora ad esaminare. La storia naturale considera come un fenomeno noto la molteplicità della forma delle nature organiche. Ad essa non può sfuggire tuttavia il fatto che tale grande molteplicità mostra una certa concordanza, talvolta in generale, talvolta nel particolare, e non soltanto presenta i corpi che le sono noti, ma li ordina in gruppi o in serie in base alla forme osservate e in base alle proprietà che vengono esaminate e riconosciute; in tal modo rende possibile abbracciare con lo sguardo una massa enorme di dati. Il suo lavoro è duplice: in parte essa scopre sempre nuovi oggetti, e in parte li ordina sempre più in base alla loro natura e alle loro proprietà, allontanando il più possibile ogni arbitrio. Ora, se la storia naturale si attiene all’apparenza esteriore delle forme, considerandole nel loro complesso, l’anatomia giunge invece fino alla conoscenza della struttura interna, alla dissezione del corpo umano in quanto quest’ultimo costituisce l’oggetto più alto, che necessita di un sostegno che non può essergli procurato senza un attento studio della sua organizzazione. Nell’anatomia delle altre creature organizzate sono accadute molte cose, e tuttavia le sue osservazioni si trovano disperse, sono per lo più incomplete e talvolta perfino erronee, tanto che per il naturalista la massa dei dati risulta pressoché inutilizzabile. Allo scopo di ampliare e di proseguire, di riassumere e di impiegare l’esperienza che ci forniscono la scienza naturale e l’anatomia, si sono utilizzate in parte delle scienze distanti, in parte si è fatto ricorso a scienze affini, e si sono stabiliti anche dei punti di vista propri, sempre per ottemperare all’esigenza di una prospettiva fisiologica generale. In tal modo, per quanto, secondo le abitudini umane, si sia proceduto e si proceda solitamente in forme troppo unilaterali, tuttavia è stato preparato il terreno in modo eccellente per i fisiologi che verranno. Dalla fisica, in senso stretto, la teoria della natura organica ha potuto prendere soltanto i rapporti generali tra le forze e le loro posizioni in uno spazio dato. L’applicazione dei princìpi della meccanica alle nature organiche ha richiamato ancor più la nostra attenzione sulla perfezione degli esseri viventi, e si potrebbe quasi dire che le nature organiche diventano tanto

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più perfette quanto meno i princìpi meccanici sono ad esse applicabili. Al chimico, che esclude la forma e la struttura dalle sue osservazioni e si concentra unicamente sulle proprietà delle materie e sui rapporti delle loro miscele, si è molto debitori anche in questo campo, e lo si sarà ancor più in futuro, poiché le più recenti scoperte consentono di effettuare separazioni e connessioni raffinatissime, e si può sperare in tal modo di approssimarsi alle attività infinitamente delicate di un corpo organico vivente. Ora, allo stesso modo in cui abbiamo ottenuto una fisiologia anatomica già attraverso l’osservazione esatta della struttura, col tempo possiamo anche riprometterci di ottenere una fisiologia fisico-chimica, ed è auspicabile che entrambe queste scienze progrediscano sempre, come se ciascuna singolarmente volesse completare l’intera impresa. Tuttavia, dal momento che entrambe procedono per divisioni, e i composti chimici si basano in senso proprio soltanto su divisioni, è naturale che un simile modo di conoscere e di rappresentare i corpi organici non possa soddisfare tutti gli uomini, poiché alcuni hanno la tendenza a partire da un’unità, per sviluppare da essa le parti, e ricomporle poi immediatamente di nuovo. È la natura dei corpi organici a fornirci la migliore occasione per constatarlo. I corpi organici più perfetti, infatti, ci appaiono come un’unità separata da tutti gli altri esseri, e noi stessi siamo consapevoli di una simile unità; e visto che ci accorgiamo di essere in uno stadio di perfetta salute unicamente grazie al fatto che percepiamo solo l’insieme e non le sue parti, e tutto ciò può esistere soltanto se le nature sono organizzate; poiché, del resto, le nature possono essere organizzate e mantenute in attività solo grazie a quella condizione che chiamiamo vita, allora non vi era nulla di più naturale che tentare di formulare una zoonomia, e indagare le leggi in base alle quali una natura organica è destinata a vivere. Con piena autorizzazione, e per amore del tema trattato, a tale vita è stata attribuita una forza, che si poteva, anzi si doveva ammettere, in quanto la vita nella sua unità si esprime come forza, che non si trova racchiusa in nessuna delle sue parti in particolare. Non possiamo considerare a lungo una natura organica come unità, né possiamo pensare noi stessi a lungo come unità, senza essere indotti necessariamente ad assumere due prospettive: da un lato ci consideriamo come esseri che cadono sotto i

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sensi, dall’altro come esseri riconoscibili unicamente dal senso interno, oppure individuabili attraverso le loro azioni. Di conseguenza la zoonomia si scinde in due parti, non facili da distinguere: quella corporea e quella spirituale. Se è vero che esse non possono essere separate, tuttavia chi studia questa materia può scegliere di partire dall’uno o dall’altro aspetto, attribuendo la preminenza all’una o all’altra. Non solo, però, le scienze che qui abbiamo enumerato esigono un loro proprio tipo di studioso, ma anche loro singole parti assorbono l’intera vita di un uomo. Una difficoltà ancora maggiore sorge dal fatto che di tutte queste scienze si occupano quasi unicamente i medici, i quali, praticandole, se da un lato ne traggono giovamento per sviluppare l’esperienza, dall’altro non sono stimolati a tentarne un ulteriore ampliamento. Si capisce dunque che è necessario effettuare ancora molto lavoro preliminare per chi, in quanto fisiologo, si troverà in futuro a dover riassumere tutte queste osservazioni, in uno sguardo di sintesi, riconoscendole come conformi al grande oggetto, nella misura in cui ciò è possibile per la mente umana. Sarà necessaria un’attività mirata allo scopo sotto ogni punto di vista, che non è mancata, né manca, e in cui ciascuno potrebbe procedere in modo rapido e sicuro, se non lavorasse in modo unilaterale, pur perseguendo un solo aspetto, e riconoscesse con gioia i meriti di tutti gli altri collaboratori, invece di porre al vertice solo il proprio modo di rappresentare, come solitamente succede. Dunque, dopo aver esposto le diverse scienze che sono di sostegno per il fisiologo, e dopo aver mostrato i loro rapporti, è giunto ora il momento per la morfologia di legittimarsi come scienza particolare. È anche così, infatti, che la si considera; ed essa può legittimarsi come scienza particolare soltanto se sceglie come suo oggetto principale ciò che altre scienze trattano in modo occasionale e casuale, e soltanto se raccoglie ciò che in altre discipline si trova sparso, stabilendo così un nuovo punto di osservazione dal quale sia possibile esaminare agevolmente e comodamente gli oggetti naturali. La morfologia possiede il grande vantaggio di essere costituita da elementi universalmente riconosciuti, e di non essere in contraddizione con nessun’altra teoria, di modo che non ha bisogno di rimuovere nulla per farsi spa-

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zio; inoltre, i fenomeni di cui si occupa sono estremamente significativi, e le operazioni intellettuali grazie alle quali essa raggruppa tali fenomeni sono adatti e piacevoli per la natura umana, tanto che perfino un tentativo fallito in tale scienza sarebbe in grado di unire utilità e grazia.

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[La morfologia come scienza]236

[modalità di rappresentazione] Speranze del morfologo nel suo lavoro Le sue idee verso l’esterno Passaggio alla trattazione Un essere organico è un essere in grado di produrre suoi simili. Generazione dei suoi simili per via di riproduzione, proliferazione, germogli. Generazione dei suoi simili tramite separazione. Il concetto di individualità ostacola la conoscenza delle nature organiche. Si tratta di un concetto banale. Esempi di concetti simili, che occorre bandire. Erba cattiva, pericarpium. Nature organiche che sono palesemente delle pluralità. Nature organiche che inclinano all’individualità. Condizioni per una individualità decisa, mancanza di forza riproduttiva nelle parti237. Definizione delle parti. Sintesi generale, dal verme solitario fino alla colonna vertebrale del mammifero238. Avversione contro una simile modalità di rappresentazione, in base alla quale l’individuo consisterebbe di pluralità, più o meno necessarie all’insieme.

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Sono elementi trascurabili, su cui non occorre insistere. Tuttavia questa modalità di rappresentazione si ripresenta non appena riemerge il concetto di riproduzione. Infatti, ci si può chiedere quando si possa pensare l’organo femminile come individuo. Semplice riguardo che la natura mostra per la riproduzione. Rapporto dell’organizzazione con la riproduzione, in vista della molteplicità e della durata. Progressi e vie traverse dell’organizzazione. [ordinamento] La fisiologia è nella mente dell’uomo come un fine che forse non potrà mai essere raggiunto; sue ancelle, che singolarmente lavorano per questa disciplina, sono: 1.) La storia naturale, che raccoglie l’intero insieme delle creature naturali più o meno sviluppate, e in particolare evidenzia i segni caratteristici della loro configurazione esteriore. 2.) L’anatomia, che insegna la coesione interna dell’edificio, si tratti di anatomia umana o animale. 3.) La chimica. Separazione delle diverse materie e riduzione a queste ultime: entrambe sono operazioni di divisione. 4.) La teoria generale della natura [è rilevante] in particolare per la teoria del movimento. 5.) La zoonomia considera la natura organica come un insieme animato, e le sue osservazioni sono in parte di tipo fisiologico, in parte di tipo psicologico. 6.) La fisiognomica considera la forma in quanto quest’ultima allude a determinate proprietà; la si potrebbe dividere in semiotica, che tratta della parte fisica, e in fisiognomica vera e propria, che si occupa invece della parte intellettuale e morale. A tutte queste discipline è nostra intenzione aggiungere anche 7.) La morfologia, che si occupa principalmente delle forme organiche, delle loro differenze, della loro costituzione e trasformazione. Risulterà poi chiaro il modo in cui la morfologia si distin-

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gue delle altre scienze affini se considereremo cosa essa trae da ciascuna di esse, e quali vantaggi a sua volta offre loro. Dalla storia naturale la morfologia trae le caratteristiche delle forme nel loro complesso, nonché la comodità con cui le è possibile avere una rapida visione d’insieme dei prodotti naturali in un determinato ordine. Di contro però, la morfologia non entra nel dettaglio, come fa invece la storia naturale, ma piuttosto si attiene alle classi e alle suddivisioni più macroscopiche, in particolare nelle sue fasi iniziali, finché elaborazioni successive non le consentiranno di scendere più in direzione del particolare. Lo storico della natura, al contrario, ricorre al morfologo quando si trova ad esitare di fronte a forme oscillanti239, e ne trarrà un certo aiuto sia in vista della conoscenza che della classificazione. Il morfologo ha molto da imparare e da prendere dall’anatomista: deve a quest’ultimo la visione d’insieme delle parti esterne e interne, la cui comparazione nelle nature più diverse diventa sempre più agevole; e quando l’anatomista avverte di essere in certo senso confuso nel suo stesso dominio, allora il morfologo gli fornisce l’occasione per ordinare e collocare i suoi tesori, in modo da consentirgli di abbracciare con lo sguardo quella grande quantità di materiale. Il morfologo è colui che è destinato a fondare l’anatomia comparata. Dall’indagatore della natura il morfologo trae le leggi generali e particolari del movimento e, mentre da un lato apprende che nella natura organica molti fenomeni si possono ricondurre a leggi meccaniche, dall’altro si convince sempre più dell’eccellenza della vita, che agisce al di là, anzi spesso contro le leggi meccaniche. Per il resto il fisico si ferma troppo su ciò che è più generale e inorganico perché il morfologo possa sperare di riuscire a rendergli una qualche utilità. Del chimico il morfologo si fida moltissimo, e spesso accoglie i suoi consigli, nella convinzione che i diversi organi elaborino in vari modi materie diverse, e che diversi succhi vadano a costituire a loro volta l’organo in cui si raccolgono. Di contro, il morfologo prepara per così dire al chimico gli esperimenti, e richiama la sua attenzione sulla direzione in cui debba realmente condurli, stimolato dalla forma. Lo zoonomo è gradito al morfologo in quanto considera la natura organica come un insieme animato; dallo zoonomo

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il morfologo trae il concetto dell’azione pura e indivisa, e per parte sua lo mette in guardia dal perdersi unicamente in considerazioni generali, quando invece occorre che indaghi sempre la forma e le proprietà delle singole parti e le loro trasformazioni. Agli studiosi di semiotica e di fisiognomica240 il morfologo è molto vicino. Infatti, la forma è percepita propriamente grazie al senso della vista, e tutt’e tre queste scienze si occupano in modo particolare della forma e del suo significato, distinguendosi soltanto per gli scopi e per l’estensione che conferiscono ai loro rispettivi lavori. La semiotica si interessa principalmente degli stati fisiologici e patologici dell’uomo, in quanto possono essere colti con il senso della vista. La fisiognomica invece dirige la sua attenzione in particolare sui tratti intellettuali e morali. Dalla semiotica il morfologo impara a porre attenzione alle più delicate alterazioni della natura organica, non solo quanto alla forma, ma anche quanto al colore, mentre dalla fisiognomica trae la cura per l’azione infinitamente determinata, che sia durevole o transitoria, che le alterazioni intellettuali causano sugli organi fisici. Non può certo mancare il fatto che, nei suoi lavori generali, il morfologo è in grado di fornire un suo apporto, che può rivelarsi utile e piacevole anche nell’ambito circoscritto del semiotico. Quanto allo studioso di fisiognomica, il morfologo è in grado di rafforzare la sua fede nell’importanza della forma, ponendo le basi su cui sviluppare degli aperçus intellettuali e geniali241, in quanto [si interrompe]

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Contributi per la Allgemeine Literatur-zeitung di jena (1805-1806)

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[La negazione della parola ‘organico’]242

Già da lungo tempo si usano correttamente i termini organico, organismo, organizzazione, organismus; tuttavia, per la negazione di questi concetti è stata introdotta una parola formata in modo scorretto, e che indica qualcosa di completamente diverso. Il contrario di organico può essere solo il termine inorganico, oppure, se si vuole mantenere greca anche la negazione, anorganico (ajnovrgano"). Il termine anorgico, in quanto calco di a[norgo"), significherebbe invece privo di collera. La sillaba an-, sebbene non sia una sillaba radicale, segna, in tedesco come in greco, la differenza tra parole con la stessa sillaba tematica org-, e non deve dunque essere eliminata. La brevità della parola non induce a questo, nei casi in cui sussiste un’ambivalenza. Inoltre, abbiamo tratto dal greco anche i termini Orgia e orgico (festa orgica). Ne segue che i termini anorgico oppure inorgico possono essere impiegati anche per negare quest’ultimo concetto.

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Berlino: idee per una fisiognomica delle piante, di Alexander von Humboldt243 Conferenza tenuta in occasione della seduta pubblica della Reale Accademia Prussiana delle Scienze il 30 gennaio 1806. 29 S. 8.

Dopo aver visto esaudito il primo ardente desiderio di sapere di nuovo tra i suoi l’eccellente e audace indagatore della natura, di ritorno dal suo faticoso viaggio244, denso di pericoli, sorge subito un secondo vivo desiderio: ciascuno di noi infatti brama intensamente ascoltare notizie sulla quantità di tesori da lui conquistati. In questa sede noi riceviamo il primo dono: dei frutti molto preziosi in un piccolo vaso. Se ci poniamo in cerca del sapere e della scienza, ciò accade soltanto perché possiamo poi tornare alla vita con più mezzi; e dunque in questa sede lo studio botanico, così faticoso e scrupoloso245, ci appare trasfigurato e su una vetta, da cui è in grado di offrirci un piacere vivo e unico. Dopo che Linné ha costituito un alfabeto per le forme vegetali, lasciandoci un elenco molto comodo da usare; dopo che i Jussieu 246 hanno presentato il vasto insieme in modo già più conforme alla natura; mentre ininterrottamente uomini brillanti, con occhi più o meno armati, determinano nel modo più preciso i caratteri distintivi delle piante, e la filosofia ci promette l’unità animata di una visione superiore, qui l’uomo che ha presenti le forme vegetali sparse sulla superficie terrestre in gruppi e masse viventi anticipa già l’ultimo passo, indicando il modo in cui ciò che è conosciuto, esaminato e osservato singolarmente può essere adattato con pieno splendore e ricchezza al sentimento, e come la legna da lungo tempo accatastata e

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fumante possa essere animata, per un soffio estetico, in una fiamma chiara. Fortunatamente in questo breve scritto i risultati principali si trovano concentrati in modo tale che possiamo allietare il lettore con un unico estratto, e anzi possiamo, è lecito dirlo, confortarlo. Infatti, tutto ciò che di migliore e di più bello si sia mai visto tra la vegetazione sotto il libero cielo, acquista di nuovo vita nell’anima, e l’immaginazione è incitata e resa capace di richiamare alla mente nel modo più potente e piacevole ciò che ci è stato trasmesso attraverso preparati artificiali, immagini e descrizioni che si rivelano sempre e in varia misura insufficienti. Sedici forme vegetali determinano essenzialmente la fisionomia della natura. Elencherò soltanto quelle che ho osservato nei miei viaggi in entrambi gli emisferi, e in uno studio durato molti anni sulla vegetazione presente sulle varie zone della terra situate tra il 55o grado di latitudine nord e il 12o grado sud. Iniziamo con le palme, le più alte e nobili tra tutte le forme vegetali. Ad esse i popoli hanno costantemente assegnato il premio della bellezza (e la prima formazione umana è avvenuta nel mondo asiatico delle palme, o nella regione che confina immediatamente con quella delle palme). Fusti alti e slanciati, ad anelli, talvolta ruvidi, con fronde affusolate e lucide, in parte disposte a ventaglio, in parte simili a piume. Le foglie sono spesso arricciate come fili d’erba. Il tronco liscio può raggiungere 180 piedi di altezza. Alle palme si accompagna in ogni parte del mondo la forma della banana (le Scitaminee dei botanici, l’Heliconia, Amomum, Strelitzia). Un tronco breve ma ricco di linfa, quasi erbaceo, alla cui sommità si innalzano delle foglie dalla trama sottile e morbida, dotata di strisce tenere, lucenti come seta. Cespugli di banane sono ornamento delle regioni umide. I loro frutti costituiscono la base dell’alimentazione di tutti gli abitanti della cintura equatoriale. Malvacee (Sterculia, Hibiscus, Lavatera, Ochroma). Tronchi brevi ma di grandezza colossale, con foglie simili a tenera lanugine, grandi e a forma di cuore, spesso incise, e fiori splendidi spesso di color rosso porpora. A questo gruppo vegetale appartiene il baobab, o Adansonia digitata, che, per un’altezza di 12 piedi, ha un diametro di 30 piedi, ed è probabilmente il monumento organico più grande e più antico presente sul nostro pianeta. In Italia la malva inizia già a conferire alla vegetazione un carattere propriamente meridionale. Di contro, alla nostra zona temperata del Vecchio Continente mancano purtroppo completamente le tenere foglie piumate che co-

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stituiscono la forma delle Mimose (Gleditsia, Porleria, Tamarindus). Negli Stati Uniti dell’America del Nord, in cui alla stessa latitudine la vegetazione si presenta molto più varia e rigogliosa che in Europa, questa bella forma non manca. Nelle mimose è comune una disposizione ampia dei rami, a ombrello, simile a quella dei pini italiani. L’azzurro profondo dei cieli tropicali, che splende attraverso queste fronde piumate, ha un effetto molto pittoresco. Un gruppo di piante che cresce per lo più in Africa è quello delle ericacee; ad esse appartengono l’andromeda, le passerine e le gnidie. Si tratta di un gruppo che presenta qualche somiglianza con le conifere, e proprio per questo motivo contrasta in modo tanto più incantevole con le conifere stesse, a causa della grande quantità di fiori in forma di campanule che produce. Le ericacee arboree, al pari di alcune altre piante africane, raggiungono le sponde settentrionali del Mediterraneo, e ornano le coste italo-francesi nonché le macchie di vegetazione del sud della Spagna. Le ho viste crescere nel modo più rigoglioso sulle isole africane, alle pendici della cima di Teyde. È propria del Nuovo Continente invece la forma del cactus, che si innalza talvolta in forme rotonde e talvolta è più articolata, talvolta invece ha l’aspetto di una colonna alta e poligonale, simile ad una canna d’organo. Tale gruppo crea un fortissimo contrasto con la forma delle piante liliacee e delle banane. Allo stesso modo in cui tali forme vegetali costituiscono delle oasi verdi nel deserto privo di piante, così le orchidee animano il fusto secco degli alberi tropicali e le più brulle fenditure rocciose. La forma della vaniglia si caratterizza per le foglie succose di colore verde chiaro, e per i fiori multicolori dalla straordinaria struttura. Tali fiori somigliano in parte a degli insetti alati, in parte ai delicati uccelli attirati dal profumo dei vasi di miele. Priva di foglie, come quasi tutte le specie di cactus, è la forma delle casuarine, forma vegetale propria unicamente dei mari del Sud e delle Indie orientali. Si tratta di alberi dai rami simili ad equiseti. Tuttavia anche in altre zone si trovano tracce di questo tipo vegetale, piuttosto singolare che bello. Come nelle banane si presenta un’estrema dilatazione, così nelle casuarine e nelle conifere si ha un’estrema contrazione dei vasi delle foglie. Abeti, tuie e cipressi costituiscono una forma nordica, che ai Tropici è molto rara, e il loro fresco verde rallegra lo spoglio paesaggio invernale. Ai Tropici, oltre alle orchidee anche le piante del genere Pothos ricoprono i tronchi già adulti degli alberi selvatici a mo’ di parassiti, come da noi fanno muschi e licheni. Si tratta di piante dallo stelo succoso e simile a un filo d’erba che presentano grandi foglie, tal-

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volta sagittate, talvolta digitate, talvolta oblunghe, ma sempre molto spesse. I fiori si trovano in involucri. A tale forma delle aracee si accompagna spesso quella delle liane, ed entrambe sono particolarmente vegete nelle zone calde del Sud­ america. (Paullinia, Banisteria, Bignonie). Il nostro luppolo rampicante e la nostra vite ricordano questa forma vegetale tropicale. Sull’Orinoco i rami privi di foglie della Bauhinia raggiungono spesso una lunghezza di 40 piedi e ricadono in parte perpendicolarmente dalla cima di alte Swietenie, in parte invece si distendono obliquamente come funi arboree, e il gatto tigrato mostra una straordinaria abilità nell’arrampicarsi su di esse. Con le liane, flessibili e rampicanti, e con il loro verde fresco e tenue, contrasta la forma autonoma delle piante di aloe azzurrine: i tronchi, quando sono presenti, sono pressoché indivisi, hanno degli anelli molto stretti e si contorcono con forme serpentine. In cima si trovano delle foglie succose e carnose, allungate e appuntite, accostate a raggiera. Le piante di aloe di alto fusto non formano cespugli, come altre piante che vivono molto vicine le une alle altre, ma crescono isolate in terreni piani e asciutti, conferendo così spesso alle zone tropicali un carattere melancolico (verrebbe da dire ‘africano’). Se la forma dell’aloe si caratterizza per una seria quiete e stabilità, la forma erbacea, in particolare la fisionomia delle erbe arboree, si distingue per un’allegra leggerezza e per una mobilità sottile e slanciata. I cespugli di bambù formano delle arcate ombrose, sia nelle Indie orientali che in quelle occidentali. Il tronco liscio e spesso inclinato e oscillante delle erbe tropicali supera in altezza i nostri ontani e le nostre querce. Nelle zone calde del globo, insieme alla forma delle piante erbacee cresce anche quella delle felci, una specie arborea, che raggiunge anche i 35 piedi di altezza, e presenta un aspetto simile a quello delle palme, anche se il suo tronco è meno slanciato, più corto, più ruvido e a scaglie rispetto a quello delle palme. Le fronde sono più tenere, mollemente intrecciate, traslucide e nettamente frastagliate ai bordi. Tali colossali felci sono spesso proprie esclusivamente delle zone tropicali, e tuttavia in queste regioni preferiscono un clima temperato a quello molto caldo. Menzionerò ancora la forma delle piante liliacee (Amaryllis, Pancratium) dotate di foglie simili a cannule e di magnifici fiori: si tratta di una forma la cui patria è principalmente l’Africa meridionale. Elenco inoltre la forma dei salici, che cresce in ogni parte del mondo: dove manca il salice, tale forma è ripetuta nelle Banksie e in alcuni organismi proteiformi; quindi le piante di mirto (Metrosideros, Eucalipto, Escallonia) e le forme dei melastomi e degli allori. Sotto i raggi infuocati del sole dei Tropici proliferano le più ma-

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gnifiche forme vegetali. Se nel freddo Nord la corteccia degli alberi si ricopre di scaglie secche e di muschi, ai Tropici invece sono il cymbidium e la vaniglia profumata ad animare il tronco degli anacardi e degli enormi alberi di fico. Il verde fresco delle foglie di Pothos e delle dracontie contrasta con la varietà di colori dei fiori delle orchidee. Bauhinie rampicanti, passiflora e banisterie dai fiori gialli avvolgono il tronco degli alberi selvatici. Teneri fiori si sviluppano dalle radici del Teobroma come dalla corteccia, spessa e ruvida, delle crescenzie e della gustavia. In una simile quantità di fiori e foglie, in questo rigoglio di vegetazione e nell’intrico delle piante rampicanti, l’indagatore della natura ha spesso difficoltà a distinguere a quale fusto appartengano fiori e foglie: un unico albero, ricoperto di paullinie, begonie e dendrobium, forma un insieme di piante che, separate le une dalle altre, coprirebbero una zona notevolmente ampia di terra.

Chiunque a questo punto vorrà senz’altro impegnarsi a leggere questo breve scritto nella sua integrità, attendendo con la più grande curiosità la prima parte di questa descrizione di viaggio, che dovrà riguardare quadri della natura tropicale.

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[Osservazioni di Cotta sulla natura]247

Nelle Osservazioni sulla natura del signor Cotta, a proposito del movimento e della funzione della linfa nei vasi, a p. 32 si prenderanno in considerazione certi nodi che sono emersi osservando un tronco di faggio privato della corteccia, e che, ad una più attenta indagine, sono apparsi derivare direttamente dalle fibre dello specchio. La figura 16 tra le tavole calcografiche, nonché il Nr. 32 tra i preparati, ne mostrano la forma e i rapporti relativi, anche se il preparato risulta molto più chiaro dell’illustrazione. Non si dovrebbero forse ritenere tali nodi delle vere e proprie gemme, in quanto rudimenti di boccioli e di germogli? E non si dovrebbe dunque sperare di ricavare da questo un significativo vantaggio per la derivazione di alcuni fenomeni riguardanti la crescita? S. S.28

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Gall 249

[Abbozzo] Amico degli animali, e in particolare degli uccelli Per questo, fin dalla gioventù è nemico dei gatti Osserva, anatomizza gli animali. È colpito da un oratore pieno di spirito, a tal punto che si decide a seguire questa direzione. Studia seguendo il consueto metodo scolastico cattolico. Ha voglia di diventare monaco. L’impulso sessuale si sviluppa Persone assennate lo dissuadono. Prosegue con lo studio A Bruchsal Strasburgo. Si è sempre dedicato all’osservazione delle cose naturali, e per questo i suoi insegnanti sospettano che abbia già ascoltato lezioni di argomento simile. Passa a medicina anche se lo si considerava orientato verso la giurisprudenza.

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Idee sulla formazione organica (1806-1807)

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Giustificazione dell’impresa250

Quando un uomo, esortato ad osservare con attenzione, inizia ad ingaggiare una lotta con la natura, avverte dapprima uno straordinario impulso a sottomettere gli oggetti. E tuttavia non molto dopo essi lo incalzeranno con forza tale che l’uomo non potrà che sentire l’urgenza delle ragioni che lo inducono a riconoscere il loro potere e ad ammirare i loro effetti. Non appena poi si convince di un simile influsso reciproco, egli si accorge anche di una duplice infinità: da un lato, riguardo agli oggetti, nota l’infinita molteplicità dell’essere e del divenire, e dei rapporti che si intrecciano animatamente; d’altro lato, riguardo a se medesimo, la possibilità di un’infinita educazione, nel momento in cui affina sia la sua ricettività che il suo giudizio in vista di sempre nuove forme di ricezione e reazione. Tali condizioni sarebbero fonte di un intenso piacere e determinerebbero la felicità della vita se non si frapponessero ostacoli interni ed esterni al compimento di un simile percorso. Gli anni che hanno condotto a questo punto iniziano ad aumentare, e ci si accontenta di ciò che si è acquisito nella propria misura; e poiché una sincera, pura e vivificante partecipazione dall’esterno si presenta solo raramente, si finisce prevalentemente per fermarsi. Sono davvero pochi coloro che si entusiasmano per cose che appaiono solo alla mente. I sensi, il sentimento, l’animo, esercitano un potere assai più grande su di noi, del resto a

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ragione: noi siamo infatti assegnati alla vita e non alla contemplazione. Purtroppo però, anche tra coloro che si dedicano alla conoscenza e al sapere251 si trova molto raramente quella auspicabile partecipazione. Per chi è in grado di comprendere, di notare i dettagli, di osservare con precisione e di operare distinzioni, risulta per così dire di peso ciò che proviene da un’idea e che riconduce poi ad essa. Egli si trova a suo modo a casa in un tale labirinto, senza preoccuparsi di trovare un filo che lo conduca più velocemente di passaggio in passaggio; ad un uomo simile, un metallo non coniato, che non può essere enumerato, appare un possesso fastidioso, mentre invece chi si trova su un punto di osservazione più elevato è incline a disprezzare con disinvoltura il dettaglio, e a disperdere in una generalità priva di vita ciò che presenta una vita solo se separato dal resto. Già da lungo tempo ci troviamo in un simile conflitto. In rapporto ad esso qualcosa è stato fatto, e qualcosa è stato distrutto, e io non cederei alla tentazione di consegnare le mie riflessioni sulla natura ad una barca debole e all’oceano delle opinioni, se non avessimo avvertito in modo così vivido, durante le ore di pericolo appena trascorse252, quale valore conservi per noi la carta, a cui eravamo indotti già in passato ad affidare una parte della nostra esistenza. Per questo, ciò che nel mio coraggio giovanile ho spesso sognato come un’opera si presenterà soltanto come abbozzo, e anzi come una raccolta frammentaria, e potrà operare e servire per quello che è. Questo è ciò che avevo da dire per raccomandare alla benevolenza dei miei contemporanei questi schizzi, frutto di diversi anni di studio, di cui tuttavia ho esposto già in varia misura alcune singole parti. Ciò che invece se ne potrebbe ancora dire sarà introdotto nel modo migliore nel prosieguo dell’impresa. Jena, 1807.

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Esposizione degli scopi

Quando ci volgiamo agli oggetti naturali, e in particolare agli organismi viventi, allo scopo di comprendere la relazione tra la loro essenza e la loro azione, crediamo di poter giungere ad una simile comprensione nel modo migliore per via di suddivisione delle parti degli oggetti indagati; e in effetti anche questa via è in grado di condurci molto lontano. Possiamo richiamare alla memoria degli amanti del sapere solo con poche parole l’entità del contributo che la chimica e l’anatomia hanno dato alla comprensione e alla visione d’insieme della natura. Tuttavia, tali sforzi di suddivisione, perseguiti in modo continuativo, hanno prodotto anche alcuni svantaggi. Gli organismi viventi sono scomposti in elementi, ma da questi ultimi non si è in grado di ricomporre di nuovo l’insieme e di conferirgli vita. Ciò vale già per molti corpi inorganici, per non parlare di quelli organici. Per questo anche tra gli uomini di scienza è sorto in tutte le epoche un impulso a riconoscere le formazioni viventi in quanto tali, registrandone le parti esterne, visibili e percepibili, nel loro contesto, considerandole come allusioni agli elementi interni e giungendo così a dominare in certa misura con l’osservazione l’insieme. Non è il caso di dilungarsi a notare quanto questa esigenza sia legata all’impulso artistico e all’impulso all’imitazione. Per tale ragione, nel corso dell’arte, del sapere e della scien-

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za si incontrano parecchi tentativi di fondare e costituire una teoria che potremmo denominare morfologia. Nella parte storica parleremo253 della varietà di forme in cui tali tentativi si sono presentati. Il tedesco indica il complesso dell’esistenza di un essere reale la parola Gestalt (forma). Con tale espressione si fa astrazione di ciò che riguarda il movimento, e si assume che un insieme coeso sia anche stabile, isolato e fisso nel suo carattere. Ma se consideriamo tutte le forme, e in particolare quelle organiche, notiamo che non si presenta mai qualcosa che semplicemente sussiste, in quiete e isolato, ma che piuttosto ogni cosa oscilla in un movimento costante. Perciò la nostra lingua è solita far uso a buon diritto della parola Bildung (formazione) sia a proposito di ciò che è stato prodotto, sia riguardo a ciò che si sta formando. Se dunque intendiamo esporre una morfologia, non possiamo parlare di forma in quanto Gestalt poiché, quando usiamo questo termine, pensiamo in tutti i casi unicamente all’idea, al concetto o a qualcosa che nell’esperienza sia fissato solo per un momento. Ciò che ha una struttura si trasforma immediatamente e, se vogliamo giungere ad una intuizione viva della natura, dobbiamo mantenerci anche noi mobili e malleabili, in base all’esempio con cui la natura ci si presenta. Quando scomponiamo un corpo nelle sue parti secondo il metodo anatomico, e poi scomponiamo ancora tali parti a loro volta negli elementi in cui si lasciano suddividere, giungiamo infine a degli elementi iniziali che sono stati chiamati parti similari. Non è di queste ultime che intendiamo parlare in questa sede; volgiamo piuttosto l’attenzione su di una superiore massima dell’organismo, che possiamo enunciare nel modo seguente. Ogni essere vivente254 costituisce non un essere singolo, ma una molteplicità; anche quando esso ci appare come un individuo, resta tuttavia una riunione di esseri viventi autonomi, simili quanto all’idea e alla disposizione, ma che possono presentarsi all’apparenza esteriore come identici o simili, diversi o dissimili. Tali esseri sono in parte riuniti insieme già all’origine, in parte invece si trovano e si riuniscono in un secondo tempo, per poi duplicarsi e cercarsi di nuovo, causando in tal

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modo una produzione infinita, che avviene secondo tutte le modalità e in ogni direzione. Quanto più la creatura è imperfetta, tanto più tali parti sono identiche o simili le une alle altre, e tanto più si identificano con l’insieme. Quanto più perfetta invece diventa la creatura, tanto più dissimili si mostrano reciprocamente le parti. Nel primo caso l’insieme è più o meno identico alle parti, nel secondo non somiglia ad esse. Quanto più le parti sono simili tra loro, tanto meno sono reciprocamente subordinate, in quanto la subordinazione indica uno stadio più imperfetto della creatura. Poiché in ogni espressione generale, per quanto ben ponderata, si trova qualcosa di incomprensibile per chi non è in grado di applicarla, e per chi non sa addurre gli esempi necessari, intendiamo anzitutto affermare solo alcuni princìpi, in quanto il nostro intero lavoro è dedicato all’esposizione e alla trattazione di queste ed altre idee e massime. Certamente non v’è dubbio che una pianta, e anzi un albero, che ci appare pur sempre come un individuo, consiste solo di singoli elementi, identici e simili tra loro e rispetto all’insieme. Quante piante si riproducono per via di trapianto! Dalla gemma dell’ultima varietà di un albero da frutto germoglia un ramo, che a sua volta produce una quantità di gemme identiche; con lo stesso procedimento si verifica la riproduzione tramite i semi, che coincide con lo sviluppo di una innumerevole quantità di individui identici dal grembo della pianta madre. Si nota subito che il mistero della riproduzione tramite i semi si trova in tal modo già espresso in una massima; e se si fa attenzione e si riflette a fondo, si scoprirà che perfino il seme, che a noi sembra sussistere come una unità individuale, è già una riunione di esseri identici e simili. Solitamente ci si riferisce ai fagioli come ad un chiaro modello della germinazione. Si prenda un fagiolo, ancor prima che germogli, nel suo stadio di pieno sviluppo e, dopo averlo aperto, si troveranno dapprima le due foglie seminali, che non si potranno mettere facilmente a confronto con la placenta, poiché si tratta di due vere e proprie foglie, rigonfie e piene di una massa farinosa, che diventano verdi per l’azione della luce e dell’aria. Inoltre si scoprirà già la piumetta, che a sua volta coincide con due foglie, più sviluppate e suscettibili di una crescita ulteriore. Si tenga presente, a tale proposito, che dietro ciascun picciòlo

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si trova una gemma, se non nella realtà effettiva, almeno in potenza; in tal modo si scorgerà già nel seme, che a noi appare semplice, una riunione di parecchi elementi singoli, che si possono definire identici tra loro quanto all’idea, e simili nell’aspetto esteriore. Ora, la vita in movimento della natura, che intendiamo tratteggiare nelle nostre pagine, consiste precisamente nel fatto che ciò che è identico quanto all’idea può apparire nell’esperienza ora identico o simile, ora addirittura completamente difforme e dissimile. Adduciamo qui, ad ulteriore illustrazione, ancora un esempio tratto dal grado inferiore del regno animale. Esistono animali infusori che si muovono in luoghi umidi in una forma piuttosto semplice davanti ai nostri occhi; non appena tuttavia l’umidità si asciuga, tali organismi scoppiano rovesciando fuori di sé una gran quantità di granelli, in cui probabilmente si sarebbero scomposti anche se immersi in ambiente umido, dando vita in tal modo ad un’infinita discendenza. In questa sede sarà sufficiente quanto si è appena detto, poiché tale idea dovrà tornare più oltre nel corso della nostra esposizione. Quando si osservano le piante e gli animali255 nel loro stadio più imperfetto, li si distingue con fatica. Un punto vitale, fisso, mobile o parzialmente mobile, è a stento percettibile dai nostri organi di senso. Non osiamo decidere se tali esseri embrionali, determinabili secondo entrambe le direzioni, siano da ricondurre alle piante mediante la luce, oppure agli animali mediante il buio, per quanto non manchino a tale proposito osservazioni e analogie. Ciò che possiamo affermare è che le creature che si presentano volta a volta come piante e animali in base ad un’affinità difficile da distinguere, si perfezionano secondo due direzioni opposte, in modo tale che le piante giungono infine ad assumere l’aspetto di alberi, duraturi e fissi, mentre l’animale giunge nell’uomo al massimo della perfezione, della mobilità e della libertà. La gemmazione e la proliferazione sono altre due importanti massime dell’organismo, che traggono origine da quel principio fondamentale della coesistenza di più esseri identici e simili, e la esprimono di fatto in modo duplice. Cercheremo di percorrere entrambe tali vie attraverso l’intero regno organico, in modo tale che alcuni elementi si disporranno in un ordine di successione in un modo estremamente intuitivo.

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Se consideriamo il tipo vegetativo, ci si presenta anzitutto un sopra e un sotto256. Il luogo inferiore è occupato dalla radice, la cui azione passa nel terreno, e appartiene all’ambito dell’umidità e del buio, laddove invece, nella direzione esattamente contraria, lo stelo, il tronco o ciò che vi è al suo posto tende verso il cielo, la luce e l’aria. Mentre dunque esaminiamo una simile meravigliosa struttura e impariamo ad analizzare più da vicino il modo in cui essa si innalza dal terreno, ci imbattiamo di nuovo in un importante principio dell’organizzazione: quello secondo cui non c’è alcuna forma di vita che possa agire su una superficie ed esprimere in superficie la sua forza produttiva, ma al contrario l’intera attività vitale esige un involucro che la protegga contro l’elemento esterno, sia esso l’acqua o l’aria o la luce, e che preservi la sua delicata natura, di modo che essa possa portare a compimento ciò che spetta specificamente al suo interno. Un simile involucro può presentarsi come corteccia, pelle o guscio, ma tutto ciò che affiora alla vita, tutto ciò che è destinato ad agire con forza vitale, deve necessariamente essere avvolto da un involucro. E dunque anche tutto ciò che è rivolto verso l’esterno appartiene progressivamente e precocemente alla sfera della morte e della decomposizione. La corteccia degli alberi, la pelle degli insetti, i peli e le piume degli animali, anche l’epidermide dell’uomo, costituiscono involucri che isolano costantemente, che mutano e sono consegnati all’assenza di vita; dietro ciascuno si formano sempre nuovi involucri, sotto i quali poi, più in superficie o più in profondità, la vita genera il suo tessuto produttivo. Jena, 1807.

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Conferenze di botanica257

1.) 8 aprile 1807. Suddivisione generale in base ai cotiledoni Considerazioni sulle piante monocotiledoni, i loro bulbi, cipolle, e così via. Loro rapido precipitare verso lo stadio della fioritura e della fruttificazione. Sistema dotato di tre foglie. Ornithogalum luteum Ornitogalo giallo. Galanthus nivalis Gocce di neve. Leucojum vernum. Campanula di primavera. Iris persica Crocus vernus. Zafferano di primavera. Sulle ranuncolacee. I loro succhi aspri. Probabilmente agevolano delle fioriture precoci in primavera Anemone hepatica Helleborus foetidus. Elleboro maleodorante. Notevole passaggio dallo stelo alle foglie del calice, con la più lenta metamorfosi.

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Helleborus hiemalis Brusco e rapido passaggio dai tuberi delle radici alle foglie e ai fiori. Helleborus niger Elleboro nero. Calice bianco in forma di corolla. Grande sviluppo delle foglie dello stelo. Helleborus viridis Belle nettarie. Acer rubrum Erica herbacea Erica. Passo tratto dalla Fisiognomica delle piante di Humboldt a proposito del suo propagarsi. Qualcosa sulle amentacee. Populus tremula Pioppo, o pioppo tremulo. Qualcosa sulle conifere, sugli alberi che producono pigne Taxus baccata Sull’armonia dei rami e sulle specie di conifere che producono pigne. Thuja orientalis.

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[Pietra fungaja]258

La cosiddetta pietra fungaja è descritta nei dizionari anche come un tufo, su cui crescono delle spugne. Quella che io ho spedito dall’Italia, la cui massa pesa 15 libbre e 1/2, è tuttavia propriamente un tartufo di enormi dimensioni, il cui sviluppo, propagandosi, ha accolto in sé alcuni corpi estranei, radici, pietre e simili; inoltre essa sembra avere la proprietà di scambiare progressivamente il suo carattere vegetale con una natura minerale. Non vi si trovano elementi calcarei. Tuttavia, si tratta in primo luogo di stabilire se questa massa dura, che si può raschiare come una palla di argilla se la si tiene in cantina, coperta di terra umida, non inizi, quanto meno alla superficie, a germogliare nuovamente, a vegetare e a crescere ancora, nonché, come è stato osservato, non diventi commestibile. Il tentativo si dovrà attuare prossimamente.

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NOTE

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1 [[Naturgeschichtlicher Beitrag zu Lavaters Physiognomischen Fragmenten] Pubblicato in: Johann Caspar Lavater, Physiognomische Fragmente, zur Beförderung der Menschenkenntniß und Menschenliebe, Leipzig und Winterthur 1775-1778, vol. 2, pp. 137-142. Cfr. anche LA, I, 10, pp. 1-5 e Fig. I. Goethe conobbe personalmente il teologo zurighese Johann Caspar Lavater (1741-1801) nell’estate del 1774, durante un viaggio sul Reno, e Lavater, cui Goethe aveva inviato il suo dramma Götz von Berlichingen, convinse il poeta a collaborare ai suoi Physiognomische Fragmente. Il postulato da cui prendeva le mosse l’indagine di Lavater, per cui i lineamenti del volto presentano caratteristiche tipiche, da cui è possibile dedurre tratti caratteriali, doveva essere esemplificato anche in riferimento ai cranî animali, e Goethe intraprese tale compito, oltre a realizzare altri contributi all’opera di Lavater (cfr. E. von der Hellen 1888), descrivendo le caratteristiche di alcuni animali sulla scorta delle illustrazioni tratte dall’opera di Georges Louis Leclerc de Buffon, Histoire naturelle, Paris 1749 ss. Il 22.I.1776 Goethe comunicava a Lavater di aver iniziato a condurre osservazioni craniologiche, ed è a questo periodo che si data il contributo di storia naturale apparso nel 1776 nel secondo volume dell’opera di Lavater. Si tratta di un contributo eterogeneo rispetto alla restante cornice dei Physiognomische Fragmente, e lo stesso Goethe ebbe modo, più tardi, di considerare in modo critico l’approccio di Lavater, radicato unicamente nel terreno morale e religioso (cfr. ciò che riferisce Eckermann dopo una conversazione con Goethe del 17.II.1829), e dunque privo di un fondamento scientifico. La critica coinvolgeva il tema dello sviluppo dell’individualismo e dell’originalità, intrecciata al culto del genio, con cui Goethe si era confrontato nella stesura dei Leiden des jungen Werthers. Nel novembre del 1792, nel suo resoconto della Campagne in Frankreich, Goethe scrive: «La fisiognomica di Lavater aveva conferito una torsione del tutto diversa all’interesse morale e sociale. Egli si sentiva in possesso dell’energia intellettuale necessaria a interpretare tutte quelle impressioni che il volto e la figura umana esercitano su ciascuno, senza essere in grado, tuttavia, di fornirne una spiegazione; ma poiché non era fatto per cercare metodicamente una qualche astrazione, egli si attenne a casi singoli, e dunque all’individuo.» (nov. 1792, Bd. 16). In ogni caso, queste riflessioni, unite agli studi di anatomia, costituirono per Goe­ the un ulteriore passo lungo la via che lo avrebbe condotto a esprimersi autono-

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mamente in tema di osteologia, dopo gli anni di studio a Lipsia e a Strasburgo. Il passo successivo furono le sue conferenze di anatomia, tenute presso la scuola di disegno di Weimar nel 1781, che rivelavano gli insegnamenti tratti dall’anatomista jenese Justus Christian Loder (1753-1832), e in cui trasparivano anche le sue convinzioni in materia di fisiognomica (cfr. la lettera a Lavater del 14.XI.1781). A tale contesto è da ricondurre anche l’inizio degli studi goethiani sull’osso intermascellare, e il suo vivo interesse per la craniologia di Franz  Joseph Gall. I suoi lavori in ambito fisiognomico, inoltre, hanno agito anche sulla creazione di alcune delle sue figure poetiche, affinando lo sguardo sulle relazioni tra intima natura e aspetto esteriore, e schiudendo la possibilità di definire i caratteri per mezzo di specifici tratti distintivi.] 2 differenza tra il genere umano e gli animali] Si avverte l’eco della grande questione, dibattuta nell’arco del diciottesimo secolo, riguardo ai tratti che distinguono l’uomo dagli animali: una questione che Goethe aveva ben presente, anche sulla scorta delle ricerche herderiane sull’origine del linguaggio. Il poeta aveva incluso la struttura ossea dell’uomo nei suoi studi di anatomia comparata ma, a differenza degli anatomisti precedenti, non poneva lo scheletro umano come un canone, bensì giungeva a considerarlo al culmine della sequenza degli animali. 3 capacità di decisione riflessa] Lavorando a Dichtung und Wahrheit, Goethe parla di qualcosa «che somiglia alla ragione» negli animali, pur sottolineando l’infinito abisso che li separa dall’uomo, relegandoli nel «regno della necessità» (parte IV, libro 16; cfr. vol. 14, p. 731). 4 Non c’è mai stato [...] fisiognomica] Goethe traduce qui un passo della Fisiognomica pseudo-aristotelica (I 805 a 11 Bekker). 5 Buffon] Cfr. Georges Louis Leclerc de Buffon, Histoire naturelle générale et particulière avec la description du cabinet du roi, Quadrupèdes, vol. 10, Paris 1763. 6 [Versuch aus der vergleichenden Knochenlehre dass der Zwischenknochen der obern Kinn­ lade dem Menschen mit den übrigen Tieren gemein sei. Il più antico manoscritto conservato di questo saggio fu redatto tra l’estate e l’autunno del 1784 dal domestico di Goethe, Philipp Seidel, e presenta correzioni dell’autore. Si tratta di una minuta che inizia in forma di lettera all’anatomista Samuel Thomas Sömmerring (1755-1830) e non reca alcun titolo. Nel 1784 Goethe fece predisporre dal suo segretario, Christian Georg Carl Vogel, una copia in bella calligrafia del testo elaborato sulla base dell’abbozzo, e tale copia fu accompagnata da una traduzione latina e da 12 illustrazioni disposte su 10 tavole, disegnate da Johann Christian Wilhelm Waitz (1766-1796). Queste tavole, realizzate su carta finissima in formato grande in folio, sono state realizzate per il celebre anatomista olandese Petrus Camper (1722-1789). È questa la cosiddetta Prachthandschrift, tramandata tra le carte del lascito di Camper, e poi giunta nel 1894 di nuovo tra le carte di Goethe nell’Archivio weimariano. A Weimar si trova inoltre l’abbozzo della traduzione latina e una relativa lista di preparati di cranî, entrambi di mano dell’anatomista Justus Christian Loder (1753-1832), il quale insegnò a Jena a partire dal 1778 e, con la sua significativa raccolta anatomica, divenne insegnante, garante e consigliere di Goethe. Non sono stati ritrovati altri esemplari manoscritti del presente saggio, così importante per l’autore, che lo spedì a diversi amici. Il contributo fu pubblicato per la prima volta nel secondo fascicolo del primo volume di studi Sulla morfologia, del 1820, con un’unica differenza essenziale rispetto al testo della Prachthandschrift (per cui si veda, più oltre, la nota 16 a p. 376), e con un titolo mutato in Dem Menschen wie den Tieren ist ein Zwischenknochen der obern Kinnlade zuzuschreiben. Jena 1786. Durante la vita dell’autore, il saggio apparve ancora una volta nei «Nova Acta» dell’Accademia Leopoldina, 15 (1831), Abt. I, pp. 1-48, con il titolo Über den Zwischenkiefer des Menschen und der Tiere. Jena 1786, corredato di tavole realizzate appositamente per questa edizione. Dal momento che tali

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tavole differiscono da quelle della Prachthandschrift, anche il testo ad esse relativo se ne discosta in certa misura. Poiché inoltre il saggio fu composto nel 1784, l’inidicazione «1786» presente nelle due successive versioni del titolo allude forse al fatto che il lavoro fu realizzato prima del viaggio in Italia. Nella Ausgabe letzter Hand il saggio è apparso sulla base della versione del 1820 nel volume che contiene il Nachlass, nr. 55, alle pp. 135-147, dopo la morte di Goethe. Si veda inoltre WA II 8, pp. 91-103, in cui il testo presenta una versione che mescola le stesure del 1820 e del 1831, e LA I 9, pp. 154-161, in cui si riproduce la stampa del 1820. Goethe si era occupato, fin dal 1781, dell’anatomia degli animali superiori, e in particolare dell’osteologia. Si veda, in proposito, la lettera che l’autore inviò a Lavater, il 14.XI.1781, comunicandogli che aveva preso a interessarsi della struttura ossea del corpo umano, e che aveva iniziato al contempo a «trattare le ossa come un testo, da cui si può derivare ogni vita e ogni aspetto dell’essere umano». In due lettere datate 27.III.1784 l’autore comunicava entusiasticamente la scoperta dell’osso intermascellare nell’uomo a Johann Gottfried Herder e a Charlotte von Stein. A Herder Goethe scriveva di aver «confrontato, insieme a Loder, dei cranî umani e animali», e di averlo infine individuato seguendone le tracce; commentava inoltre, che la notizia avrebbe rallegrato certamente l’amico, «poiché si tratta della chiave di volta dell’uomo», su cui Goethe aveva riflettuto anche in rapporto alle Ideen di Herder. Tracce ulteriori delle osservazioni in corso d’opera sono registrate in passaggi delle lettere di Goethe a Charlotte von Stein del 13.IV.1784, a Merck del 23.IV.1784, a Sömmerring del 14.V.1784, a Charlotte von Stein del 7.VI.1784, a Carl August del 28.X.1784. La descrizione comparativa dell’osso intermascellare, condotta in relazione al maggior numero possibile di cranî di mammiferi, e la realizzazione dei disegni da parte di Waitz, si datano all’estate del 1784. Alla fine di ottobre fu predisposta la versione del testo in forma di lettera a Sömmerring, mentre all’inizio di novembre Goethe presentò il suo contributo in una conferenza a Weimar, inviandone una copia all’amico Karl Ludwig von Knebel, con una lettera di accompagnamento molto circostanziata, datata 17.XI.1784, in cui si legge: «Ti invio infine il mio saggio tratto dal regno dell’osteologia, e ti prego di farmi sapere cosa ne pensi. Mi sono trattenuto dal far notare fin d’ora il risultato a cui già Herder ha accennato nelle sue Ideen, vale a dire il fatto che non vi è alcun singolo dettaglio in cui si possa rinvenire la differenza tra l’uomo e gli animali, ma occorre invece assumere che tra l’uomo e gli animali sussiste l’affinità più prossima. È la concordanza tra gli organismi nel loro complesso ciò che rende ciascuna creatura ciò che è, e l’uomo è tale sia in virtù dell’aspetto e della natura della sua mascella superiore che in virtù delle più piccole membra del suo dito mignolo. Dunque ogni creatura è soltanto una nota, una sfumatura di una grande armonia, che è necessario anche studiare nel suo complesso, se non si vuole che i dettagli restino lettera morta. Questo breve scritto è costruito da una simile prospettiva, ed è questo propriamente l’interesse che in esso si cela.» L’autore fece poi tradurre il testo da Loder (il quale l’aveva accolto con gratitudine e consenso, come si evince da una sua lettera a Goethe del 31.X.1784), e inviò già il 19.XII.1784 l’esemplare di pregio a Johann Heinrich Merck (1741-1791) perché lo inoltrasse poi a Camper. Nella lettera di accompagnamento che Goethe scrisse a Merck si legge: «Posso infine inviarti lo specimen a cui da lungo tempo ti ho preparato. Per quanto sia breve, mi ha tormentato a lungo, fin quando non sono riuscito a mettere insieme le mie osservazioni. [...] Vorrei che la mia opera, durante il viaggio alla volta di Camper, giungesse anche nelle mani di Sömmerring: inviagliela dunque al più presto, in modo che lui possa poi inoltrarla a sua volta. Gli ho già scritto che dovrà aspettarsi di ricevere un plico da parte tua. [...] Ma ti prego di restare ancora attivo e disponibile, poiché presto riceverò un contributo di craniologia, anche se si tratta solo di disegni: desidero molto, infatti, raccogliere una

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serie completa di disegni di quest’osso. Allego dunque un elenco dei cranî che sono già stati disegnati a tale scopo.» Per tramite di Sömmerring, quindi, il testo giunse a Camper solo il 15.IX.1785 ed egli inviò i suoi ringraziamenti nel giugno dell’anno successivo. Il piano di pubblicarne una versione nell’ambito di un’opera di Loder (degli anni 1785-1799) e nelle Ideen über organische Bildung, una raccolta di saggi prevista da Goethe stesso, non fu portato a termine. Solo il 14.VIII.1819 l’autore consegnò un manoscritto – attualmente non più conservato – in vista della pubblicazione del secondo fascicolo Sulla morfologia, in cui nel 1820 apparve il presente contributo, ampliato di alcune pagine, redatte per l’occasione e intitolate Auszüge aus alten und neuen Schriften. Per la genesi del saggio si rimanda anche a Bräuning-Oktavio, JbGG (NF) 16 (1954), pp. 289-311. Goethe stesso presentò in più occasioni un’esposizione dettagliata della storia dei suoi lavori in ambito anatomico: nel 1817 nel saggio dal titolo Der Inhalt bevorwortet (qui alle pp. 411-414), nel 1820 nei Supplementi ai suoi saggi di anatomia (cfr. pp. 498-520) e nel 1831 nella recensione ai Principes de Philosophie Zoologique (pp. 817-845). Goethe proveniva dalla fisiognomica ed era spinto dai suoi interessi per il disegno, in particolare per le rappresentazioni della figura umana; si orientò quindi ad un ampio studio della teoria delle proporzioni e all’anatomia comparata. Consultò a tale scopo la letteratura più antica e quella a lui contemporanea, e apprese molto da amici e conoscenti. In particolare si rivelò un potente stimolo per gli studi di scienze naturali il lavoro condotto insieme a Herder per le Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit. Le convinzioni di Herder a proposito dell’evoluzione storico-naturale, che l’autore trasponeva in modo analogo nell’ambito della storia, si basano sull’assunto per cui gli esseri viventi sono stati creati in una successione graduale, dal meno perfetto al più perfetto, e in tale successione possono dunque essere studiati. Il presupposto di una simile sequenza graduale consente di porre a confronto le creature, sia nel complesso sia nelle loro parti. Goethe riconobbe che in tal modo era possibile ordinare, dunque classificare e riconoscere piante e animali, chiarendone il relativo disegno costruttivo. Dopo che Goethe si fu dedicato intensamente in particolare al confronto tra le parti costitutive degli scheletri dei vertebrati, giungendo alla convinzione che il loro numero, forma e ordinamento seguisse determinate leggi, rivolse la sua attenzione principalmente all’osso intermascellare, una sezione della mascella superiore che consiste di due parti simmetriche, destra e sinistra, in cui si innestano eventualmente gli incisivi. Lungo le sue tre dimensioni, tale osso è delimitato, rispetto alla mascella superiore, da diverse giunture ossee o suture, che possono fondersi in varia misura le une con le altre nel corso della crescita, al punto che in determinate zone del volto, in diverse specie di animali adulti e in particolare nell’uomo, non sono quasi più riconoscibili. I più autorevoli anatomisti del tardo Settecento hanno così affermato che l’uomo, in quanto coincide con il grado più perfetto della scala dei vertebrati, si distingue dagli animali, e specialmente dalle scimmie, la specie che gli è più prossima, per il fatto di essere privo di quest’osso, ed è in virtù di tale distinzione che l’uomo possiede, unico tra gli esseri viventi, la facoltà del linguaggio. La ricerca dell’osso intermascellare e la dimostrazione della sua esistenza anche nell’uomo mirava dunque a porre quest’ultimo, sul piano anatomico, entro una serie graduale ininterrotta rispetto agli animali, rendendo la differenza essenziale tra la sua natura e quella degli altri esseri indipendente da quel singolo dettaglio. Solo alla luce di tali premesse, e in considerazione dell’assunto riguardo alla somiglianza formale nella successione degli animali, è possibile comprendere l’entusiasmo con cui Goethe saluta tale scoperta, nonché il tono così veemente

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della sua lettera a Herder, il quale era partito dagli identici presupposti già nei suoi studi sull’origine del linguaggio, e in particolre in Ideen. Il fatto che i risultati di Goethe si rivelassero conformi all’indirizzo scientifico a lui contemporaneo è dimostrato dalle pubblicazioni che in quegli stessi anni vedevano la luce, ad opera dell’anatomista francese Félix Vicq d’Azir (1748-1794) e del medico di Tubinga Johann Heinrich Ferdinand Autenrieth (1772-1835), che pervennero a identiche conclusioni osservando degli embrioni. Tuttavia, le scoperte di Goethe trovarono in un primo tempo scarsa risonanza. Egli riuscì a convincere solo in parte gli anatomisti Johann Friedrich Blumenbach (1752-1840) e Samuel Thomas Sömmerring, che pure gli erano vicini, mentre non poté affatto persuadere l’autorevole Petrus Camper. L’apparente contraddizione si spiega, col senno di poi, se si considera che dei cranî adulti, salvo in casi di malformazioni, mostrano solo qualche traccia delle linee di demarcazione tra le varie ossa, e dunque non consentono di isolare un osso realmente autonomo. Tuttavia Goethe deduceva, solo in base a tali tracce, la presenza dell’osso intermascellare, e Loder si rivelava d’accordo; e mentre anche le pubblicazioni di anatomisti più anziani confermavano tale risultato, Blumenbach e Sömmerring vi giunsero solo molto più tardi e in via provvisoria, e Camper non lo accettò mai. In ogni caso tali autori richiamarono l’attenzione, nelle loro opere, sulla dimostrazione addotta da Goethe a proposito dell’osso intermascellare presente in alcuni animali, in cui fino allora tale osso non era ancora stato individuato. Loder fu l’unico a rinviare, già nel 1788, alla scoperta di quest’osso nell’uomo, ad opera di Goethe (cfr. Loder, Anatomisches Handbuch, Bd. I, Jena 1788, p. 89). Non è questo l’unico caso in cui una scoperta scientifica sia tracciata a partire da condizioni in realtà insufficienti (nella fattispecie, la mancata indagine sugli embrioni), e si riveli confermata solo in un secondo tempo. Per Goethe, tuttavia, la scoperta dell’osso intermascellare nell’uomo non aveva il valore di un risultato isolato, bensì era rilevante in quanto segno positivo nel corso delle sue indagini riguardo al tipo degli animali superiori; si rivelava inoltre una prova della validità del suo metodo che prevedeva l’uso del disegno. Per questo motivo l’autore fu all’inizio profondamente deluso dal ritardo e dall’assenza di approvazione da parte della comunità scientifica. In seguito, dal momento della pubblicazione del saggio nel 1820, non attribuì più alcuna importanza alle opinioni contrarie, e la ristampa del suo lavoro negli «Acta» della Leopoldina confermò definitivamente le sue idee.] 7 disegni] Si tratta dei disegni realizzati da Waitz in base al metodo di Camper, considerato con grande attenzione da Goethe. 8 giunture e armonie] Separazioni tra parti ossee; presentano una struttura ondulata, più o meno visibile. Si chiamano ‘armonie’ le linee di demarcazione lisce. 9 ‘os intermaxillare’] Tale nome fu impiegato per la prima volta da Blumenbach nel 1776 e nel 1781; l’osso fu detto anche ‘os incisivum’. 10 La seconda tavola [...] in particolare in quelli giovani] L’intero passo differisce dal testo stampato negli «Acta» dell’Accademia Leopoldina, e differenti sono anche le denominazioni delle illustrazioni citate. Nella versione del 1831 sono presenti le descrizioni relative al capriolo, al cammello, all’orso bianco, al lupo e al sus babirussa, mentre manca la descrizione della volpe (cfr. più oltre, la nota 484 a p. 898). 11 Osteologia di Albin] Bernhard Siegfried Albinus, Tabulae ossium humanorum, Leiden 1753. 12 Osteographia di Cheselden] William Cheselden, Osteographia, or the Anatomy of the Bones, London 1733. 13 Natural History of the Human Teeth di John Hunter] John Hunter, Natural History of the Human Teeth, London 1771-1778. 14 metodo di Camper] Tale metodo prevedeva che si evitassero le riduzioni in scala e

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le ombreggiature, e che l’oggetto fosse disegnato come se, in riferimento al suo centro, potesse essere osservato contemporaneamente da tutte le angolazioni (cfr. LA II 9A, p. 289). 15 serie di illustrazioni] La morte prematura di Waitz e il mancato consenso suscitato dalle scoperte di Goethe hanno ostacolato a lungo un simile desiderio. In seguito Goethe consegnò una serie di disegni originali al presidente dell’Accademia tedesca dei naturalisti, Christian Gottfried Daniel Nees von Esenbeck (1776-1858), che si impegnò perché da essi fossero realizzate delle incisioni, poste alla base dell’ultima pubblicazione del saggio. 16 sequenza intermedia di esseri] Nelle versioni a stampa del 1820 e del 1831, anziché «sequenza intermedia di esseri» («Reihe Wesen»), si legge «sequenza di forme» («Reihe Formen»), ma non è possibile datare tale correzione. La formulazione presente nella Prachthandschrift qui seguita, «Reihe Wesen», ricorda immediatamente una reale successione graduale degli animali (pur non costituendo una prova del fatto che Goethe vi legasse delle idee a proposito della teoria della discendenza degli esseri viventi, di cui qui non vi è ancora alcuna risonanza). Probabilmente l’autore ha inteso, in un secondo momento, evitare una simile associazione. Tuttavia, potrebbe anche essere stato guidato dall’intenzione di designare con il termine ‘forma’ la parte anatomica in esame, vale a dire l’osso intermascellare, e il suo aspetto. Entrambe le tendenze avrebbero un riscontro con la disposizione teorica maturata dall’autore in seguito al viaggio in Italia. 17 [Beschreibung des Zwischenknochens mehrerer Tiere bezüglich auf die beliebte Einteilung und Terminologie. Il manoscritto è tramandato nel Nachlass di Goethe nell’Archivio Goethe-Schiller a Weimar. Stampato per la prima volta in WA II 8, pp. 140-164 (le relative correzioni si trovano al vol. II 13, p. 264). La presente versione segue il testo riprodotto in LA I 10, pp. 6-22. Il manoscritto, che consiste di fogli di diverso tipo e formato, è in parte di mano di Goethe, in parte del suo assistente Philipp Seidel, ed è conservato in due cartelle, una delle quali è contrassegnata dal titolo qui riportato, mentre l’altra è designata con il titolo: Versuch die Beschreibung Stylo continuo faßlicher und angenehmer darzustellen. Non si tratta di un saggio in sé compiuto, bensì di singoli abbozzi, il cui ordinamento non è stabilito univocamente. Il manoscritto presenta numerosi interventi e annotazioni a margine di mano di Goethe: «Akkurater zu beschreiben», oppure «Besser zu bestimmen», a testimonianza del tentativo dell’autore di creare un linguaggio tecnico specifico dotato della massima evidenza, che potesse porsi come normativo. Le correzioni sono riportate nell’edizione LA II 9A, pp. 493 sgg.] 18 Un amante delle scienze naturali] L’espressione Liebhaber der Naturlehre con cui Goethe qui allude a se stesso richiama l’idea di dilettantismo, che a quest’epoca non ha alcun sapore negativo o riduttivo. 19 un dotto studioso di anatomia] Justus Christian Loder. 20 un abile disegnatore] Johann Christian Wilhelm Waitz. 21 la linea indicata dal celebre Camper] Petrus Camper aveva trattato le linee facciali nelle lezioni tenute all’Accademia di pittura di Amsterdam, che Goethe conosceva tramite pubblicazioni e resoconti. La tesi di Camper è che il profilo umano sia determinato, a seconda dell’età e della razza, in particolare dalla conformazione della mascella, e che specifica importanza sia da attribuire all’angolo individuato dalle linee tracciate sulla fronte e sul naso, che congiungono l’orecchio alla mascella. 22 la natura] La natura è intesa qui come principio creatore e produttivo, come nelle Ideen di Herder (cfr. in part. Libro III, cap. 5), in cui è detta «bildende Künstlerin». Si veda anche più oltre, il passo in cui Goethe si riferisce a delle «organische Werkstätte», «laboratori organici».

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L’elefante] Goethe dedicò particolare attenzione a questo animale: poiché Blumenbach nel 1781 aveva negato la presenza dell’osso intermascellare nell’elefante, e vi erano divergenti opinioni a proposito della classificazione delle zanne, Goethe esaminò con grande precisione dei cranî di elefanti che fece giungere da Jena e Kassel (per cui si vedano le sue lettere a Sömmerring del 14.V.1784, a Charlotte von Stein del 7.VI.1784 e a Carl August del 28.X.1784), e li fece disegnare da Waitz (cfr. le tavole 18-20 del presente volume). Di particolare importanza era per l’autore stabilire se la zanna si trovasse entro l’osso intermascellare, e dunque coincidesse con un dente incisivo, oppure se possedesse «una particolare divisione» come canino, come Goethe sembra ritenere, in questo saggio e anche in anni successivi, contrariamente a quanto oggi si ritiene. 24 [Beschreibung eines grossen Faltenschwammes. Einige Bemerkungen über die sogenannte Tremella. Il manoscritto relativo a questi due testi si conserva presso l’Archivio weimariano, nel Nachlass di Goethe, ed è stato pubblicato per la prima volta in WA II 7, pp. 355 sgg. La presente versione è condotta in base a LA I 10, pp. 23 sg. Si tratta di osservazioni annotate dall’assistente di Goethe, Johann Georg Paul Götze, e corrette dall’autore, che si datano ai mesi di settembre e ottobre 1785. L’interesse per le piante inferiori è in stretto rapporto con quello per gli animali infusori, esseri imperfetti che nella semplicità delle loro forme e funzioni potevano offrire un contributo alla conoscenza delle manifestazioni della vita. Le osservazioni, condotte anche con lente e microscopio, e le descrizioni, sulla base della letteratura specialistica, sono in linea con un’attività dilettantesca molto praticata nella buona società dell’epoca. «Faltenschwamm», o fungo delle case, era il nome allora in uso per designare l’Helvella, anche se la descrizione di Goethe si addice piuttosto alla Sparassis ramosa.] 25 cellule] Con il termine «Zellen», «cellule», Goethe designa degli spazi cavi riempiti d’aria o d’acqua, presenti nella struttura a reticolato del fungo. La misura indicata corrisponde a 29 cm circa. 26 Tremella] Probabilmente si tratta del Nostoc commune, un’alga dal colore verde-azzurro della classe delle cyanophyceae. Cfr. Reukauf 1906 e Schmid 1951. L’apparente alternanza di morte e vita nello stadio gelatinoso, secco e umido della pianta interessava Goethe come indizio dell’origine della vita. 27 Nova plantarum genera] Riferimento a Petrus Antonius Micheli, Nova plantarum genera, Firenze 1729. 28 von Gleichen] Cfr. Friedrich Wilhelm von Gleichen, Über die Samen und Infusionstierchen, Nürnberg 1778 e Auserlesene mikroskopische Entdeckungen, Nürnberg 1777. 29 [Infusions-tiere. Il manoscritto di questo testo si trova nel Nachlass di Goethe presso l’Archivio di Weimar ed è stato pubblicato per la prima volta in WA II 7, pp. 289-309; la presente versione è condotta in base all’edizione LA I 10, pp. 25-40. Le osservazioni raccolte nel manoscritto, autografe o redatte da mani diverse, sono corredate da illustrazioni, qui riprodotte, che furono realizzate probabilmente dal disegnatore Johann Christian Wilhelm Waitz e completate dall’autore, che vi ha apposto anche delle didascalie. In molti luoghi il testo è corrotto, e si rimanda al lavoro di Maria Dahl (JbGG 1927), che lo ha emendato e commentato. Goethe iniziò a raccogliere con una certa continuità le sue osservazioni al microscopio a partire dai primi di gennaio del 1785; il resoconto qui presentato è datato 8.IV – 11.V.1786. Come scrive a Friedrich Heinrich Jacobi il 12.I.1785, Goethe intende ripetere e controllare le osservazioni di von Gleichen, allo scopo di spiegare ulteriormente il principio dell’armonia della natura e l’ordine della creazione anche nel microcosmo dei più piccoli esseri viventi. A tali osservazioni l’autore si dedicò in modo intensivo, insieme a Charlotte von Stein e a Karl Ludwig von Knebel, studiando 23

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il problema dell’origine della vita e dello sviluppo dell’individuo, sulla scia del dibattito sulla generazione spontanea e sull’evoluzione individuale o epigenesi. Come nel caso delle osservazioni sulla continuità graduale delle forme delle ossa nei cranî animali, sembrerebbe naturale considerare, insieme allo sviluppo dell’individuo, anche quello della sua discendenza, e dunque pensare a teorie di stampo evoluzionistico; tuttavia, in nessun luogo Goethe trae conclusioni in tal senso. Sull’origine della vita, invece, continuerà a riflettere anche negli anni del viaggio in Italia, ma con particolare riferimento all’individuo e alla forma. Con il termine di ‘infusori’ («Infusorien», «Infusionstieren» o «Aufgußtierchen») si definivano quegli esseri microscopici, per lo più unicellulari, che appaiono in un’infusione di materia organica in acqua o in altri liquidi, lasciata per alcuni giorni a temperatura moderata. Le varie denominazioni derivano dalle rispettive forme assunte da tali organismi, oppure dagli ingredienti delle infusioni. Simili infusioni fornivano condizioni favorevoli per lo sviluppo dei semi che si trovavano attaccati alle sostanze fondamentali, oppure giungevano nell’infusione dall’ambiente circostante; nelle infusioni di Goethe si trovavano dunque, oltre agli infusori veri e propri, anche microscopiche piante e animali dotati di un livello di organizzazione più elevato. Per le identificazioni dei vari organismi, sulla base delle descrizioni e delle illustrazioni, si rimanda a Reukauf 1906.] 30 [[Von den Kotyledonen] Il manoscritto si trova nel Nachlass di Goethe presso l’Archivio di Weimar ed è stato pubblicato per la prima volta in WA II 7, pp. 2033, senza titolo e con un ordinamento diverso rispetto a quello dell’originale; la presente versione si basa sull’edizione LA I 10, pp. 41-49. La grafia è probabilmente quella del giovane Friedrich Constantin (Fritz) von Stein (1772-1844), che Goethe aveva avvicinato agli studi naturalistici e in particolare botanici; le correzioni sono invece dell’autore. Verosimilmente la datazione di questo testo è precedente al viaggio in Italia, poiché l’interesse per le piante come oggetto di studio naturalistico deve aver occupato Goethe fin dall’allestimento del suo giardino privato (1776-1777), e fu stimolato anche dalle conversazioni con dei botanici, e particolarmente con August Johann Georg Karl Batsch (1761-1802). Il contenuto essenziale della scienza botanica dell’epoca coincideva con il riconoscimento, la denominazione, descrizione e classificazione sistematica delle piante e delle loro parti. Suscitato dallo studio dell’opera di Linné, l’interesse di Goethe si rivolgeva però non tanto agli stadi conclusivi quando a quelli transitori dello sviluppo delle piante, particolarmente evidenti nelle fasi di germinazione. Una guida in tal senso gli era offerta dallo scritto di Friedrich Wilhelm von Gleichen, Das Neueste aus dem Reich der Pflanzen, Nürnberg 1764, in cui si trovavano illustrati i processi fisiologici ritenuti responsabili della crescita e della formazione delle piante. Ma a differenza di Linné e di von Gleichen, Goethe tentò di valutare la variabilità degli organi e le trasformazioni delle parti vegetali le une nelle altre a partire non da singole condizioni, bensì da punti di vista generali. Anche in ambito botanico, dunque, l’autore si accostò alla questione della «Hauptform», e nel presente saggio esercita il suo linguaggio in tal senso: ciò quindi rende questi studi rilevanti per l’elaborazione della monografia sulla metamorfosi delle piante.] 31 cotiledoni] Si tratta delle foglie germinali o seminali, le prime foglie della germinazione delle piante seminali: la prima articolazione sistematica di queste ultime è definita in base al numero dei cotiledoni (monocotiledoni o dicotiledoni). Si differenziano anche per la loro collocazione (sotto terra o in superficie) e per la loro funzione (immagazzinare nutrimento o trasportarlo dal parenchima fino al punto di germinazione). Quanto agli organi che Goethe qui definisce cotiledoni superiori e inferiori, quelli superiori sono attualmente denominati foglie primarie, e si distinugono dai cotiledoni prevalentemente per la loro forma più differenziata, mentre rispetto alle foglie successive presentano una forma più

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semplice. Lo stesso Goethe ha in seguito abbandonato questa denominazione di cotiledoni superiori e inferiori, orientandosi piuttosto in base alle definizioni fornite da Joseph Gärtner nei tre volumi riccamente illustrati della sua opera De fructibus et seminibus plantarum, Stuttgart und Tübingen 1788-1805. I termini «kotyledonisch» e «kotyledonenartig» affiorano in seguito negli scritti goethiani come designazioni di ciò che è allo stadio iniziale, embrionale. 32 la nota suddivisione] Suddivisione introdotta da Linné; l’impiego del termine ‘embrione’ per designare la parte del seme in grado di svilupparsi si trova per la prima volta in Gärtner. 33 i vasi] Tali vasi erano stati descritti già nel 1675 da Marcello Malpighi. 34 nasturzio] Il nasturzio, o crescione, è una pianta delle crocifere, con due cotiledoni. Per la seguente descrizione del nutrimento delle piante, Goethe si orienta in base all’opera di von Gleichen. 35 alcuni disegni] Una serie di acquarelli realizzati su incarico di Goethe potrebbe essere riferita alle germinazioni qui descritte; tuttavia, tra gli esemplari conservati nel lascito dell’autore, è assente la didascalia, qui indicata. Cfr. in proposito le figg. 21-24 e la relativa descrizione, riportata alle pp. 59-63. 36 Il granturco] Fig. 21, esterno: mais, ovvero zea mays, cereale monocotiledone. Il «cotiledone inferiore indiviso» di cui parla Goethe coincide con il seme nel suo parenchima, mentre la «foglia seminale» coincide con il cotiledone vero e proprio. 37 diploe] «Diploe» è l’antica denominazione del parenchima. 38 fagiolo] Fig. 22. Papilionacea dicotiledone. I cotiledoni superiori sono foglie primarie, che, per le loro forme primitive, si distinguono anche dalle foglie successive. 39 cotiledone inferiore, o punto ombelicale] Punto di attacco o di separazione del seme; da Linné è denominato hilum. 40 confronto tra i cotiledoni e la placenta] Nei semi in cui le riserve di nutrimento non sono accumulate nei cotiledoni, bensì in un involucro che li avvolge, i cotiledoni provvedono all’estrazione e all’assorbimento di tale nutrimento. Per tale ragione i botanici li hanno paragonati alla placenta. 41 zucca] Fig. 21, al centro. La zucca e il cetriolo, menzionato più avanti, sono piante dicotiledoni, in cui il nutrimento è racchiuso nei cotiledoni. 42 veccia] L’illustrazione qui descritta, ma non più conservata, conteneva probabilmente maggiori dettagli rispetto all’acquarello riprodotto alla fig. 23. Le «foglie ausiliarie» cui fa riferimento Goethe sono foglie secondarie. Anche la veccia è una pianta papilionacea dicotiledone. 43 Palma da datteri] La dettagliata descrizione di Goethe e le relative illustrazioni (fig. 26) riproducono con precisione lo sviluppo dell’embrione e costituiscono le migliori raffigurazioni di questa germinazione dai tempi di Malpighi; solo alla metà del diciannovesimo secolo esse furono ulteriormente differenziate; cfr. Günther Schmid 1930, p. 210. La Phoenix dactylifera sviluppa il cotiledone come un organo per il nutrimento eterotrofo, in forma di scodella. 44 pericarpio] Il pericarpio è propriamente l’involucro del frutto, ma qui si intende il perisperma, involucro del seme. Gärtner è stato il primo a chiarire queste relazioni. 45 [[Notizen aus Italien] Il manoscritto si trova presso l’Archivio di Weimar, ed è stato pubblicato per la prima volta in WA II 7, pp. 274-288 e II 13, pp. 126, 150 sg., 156, 159 sg., 188. La presente versione si basa su LA II 9A, pp. 45-66. Questa serie di appunti e schizzi, oltre ad altre annotazioni risalenti al viaggio in Italia, è registrata su foglietti e taccuini, in cui Goethe era solito fissare ciò che gli sembrava confermare le sue idee botaniche, come si legge in una pagina di

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diario datata 27.IX.1786, e ciò che ai suoi occhi accertava la «conformità a leggi dell’organizzazione vegetale» (si veda in proposito Italienische Reise, aprile 1788). Esistono inoltre annotazioni risalenti al periodo del viaggio di ritorno, a proposito dello sviluppo animale e vegetale, scaturite dalla lettura di un’opera dello studioso francese Louis Patrin (1742-1815). Cfr. in particolare i passi della Italienische Reise datati 27.IX.1786, 13 e 25.III.1787, 17.IV.1787, a proposito della scoperta della Urpflanze, nonché le osservazioni registrate con la data fittizia del 17.V.1787. Si vedano inoltre le lettere di Goethe agli amici di Weimar del 1.XI.1786, a Charlotte von Stein del 9.VI.1787, e a Knebel del 3.X.1787. Le osservazioni sul germoglio dei semi, le conversazioni dedicate al medesimo tema e le relative letture avevano attratto l’attenzione di Goethe sul mondo vegetale al punto che egli se ne occupò non solo nel suo giardino privato e nei dintorni di Weimar e Jena, ma anche nel corso dei suoi viaggi, e in particolare in Italia, paese in cui la vegetazione mediterranea gli schiudeva nuove prospettive riguardo alla formazione delle piante. Alle annotazioni qui raccolte si potrebbe aggiungere ancora un gran numero di osservazioni su singole piante e sull’influsso delle condizioni esterne, come la disposizione e il clima, sulla loro crescita: una raccolta completa di tali osservazioni è stata pubblicata in LA II 9A, pp. 338 sgg. Esse testimoniano della sicurezza dello sguardo con cui Goethe conduceva le sue osservazioni, e della sua padronanza della terminologia di Linné, progressivamente acquisita sulla scorta degli esempi considerati. Talvolta si trovano osservazioni anche relative alla fauna: singoli uccelli e pesci, delfini, molluschi e gamberi, insetti e animali domestici. Gli studi sull’anatomia umana si mostrano strettamente collegati alle considerazioni sull’arte figurativa, nonché agli sforzi che l’autore stesso ha realizzato in quest’ultimo ambito. Anche se gli studi condotti durante il viaggio in Italia non hanno avuto come esito un’opera compiuta, tuttavia hanno aumentato le raccolte e le conoscenze di Goethe, e senza una base simile, così conquistata, non sarebbe pensabile la Metamorfosi delle piante, pubblicata nel 1790. I passaggi di argomento storico-naturale inseriti nella Italienische Reise, e formulati solo dopo il 1814, documentano a loro volta dell’azione esercitata da questi studi condotti in Italia: in tale contesto è dunque possibile affermare che essi poterono raggiungere anche un pubblico più ampio. Le annotazioni qui raccolte sottintendono la formulazione del concetto di Urpflanze, pianta originaria, archetipica. Nelle singole osservazioni e schizzi riguardo alle piante e ai loro organi, e nelle riflessioni a proposito della riproduzione e dell’alternanza di dilatazione e contrazione nello sviluppo delle piante, nonché sulla costituzione dei frutti e dei semi, resta come risultato l’ipotesi secondo cui «tutto è foglia». Si incontra così l’idea statica della Urpflanze, nonché la via verso la spiegazione dinamica del progressivo sviluppo vegetale. Le riflessioni riguardo alla vegetazione, inoltre, sono completate da ipotesi sulla possibilità e sulla forza della generazione e riproduzione, che avevano impegnato Goethe fin dall’epoca dei suoi studi sugli infusori.] 46 Fiori ricolmi] Annotazioni e disegni relativi all’osservazione dei mutamenti che si verificano negli organi floreali dei fiori ricolmi o doppi: questi ultimi, mostrando la compresenza di varie fasi di transizione, permettono di studiarle come diverse configurazioni di un medesimo organo. 47 La radice deve essere confrontata con l’ombelico] La radice, sempre considerata come caratteristica che distingue le piante dagli animali, era stata paragonata alla bocca, a causa della sua funzione nella fase di nutrimento. Qui Goethe tenta di istituire un’ulteriore analogia, che tuttavia non prosegue. 48 cactus] Lo sviluppo e la forma del cactus costituiva per Goethe un’importante pietra di paragone per le sue idee riguardo alla natura fogliare di tutti gli organi

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vegetali, dal momento che egli si sforzava di ordinare delle strutture anche molto distanti le une dalle altre nel quadro generale delle piante superiori. La costituzione del cactus corrisponde alla struttura tipica delle piante dicotiledoni, se si assume che il suo germoglio è rigonfio per immagazzinare l’acqua, e le spine che si trovano sui boccioli laterali sono organi fogliari, come mostrano anche gli schizzi realizzati da Goethe stesso. 49 osmunda] L’unica specie presente in Europa è l’Osmunda regalis; gli «stimoli bruni» («braune Stüpfgen») osservati da Goethe sono i contenitori delle spore. 50 dilatazioni e contrazioni] Si tratta della polarità di dilatazione e contrazione («Ausdehnung und Zusammenziehung») il cui significato sarà chiarito nella Metamorfosi delle piante (in part. al § 115). Nel testo il simbolo del pianeta Venere indica l’elemento femminile, o la maturazione degli organi vegetali femminili. Nei suoi schizzi Goethe rappresenta la dilatazione e contrazione dell’asse del germoglio in base all’esempio di diversi organi vegetali, oltre ad una sequenza di parti del fiore, in cui si evidenzia il mutamento degli stami in petali. 51 Angelica] Angelica Kauffmann (1741-1807), pittrice svizzera che visse a Roma a partire dal 1782. 52 Garofano mensile] Goethe ha realizzato degli schizzi relativi anche a queste annotazioni (cfr. LA II 9A, Tafel II f.), delicati acquarelli che qui non sono riprodotti. La legenda riferita a queste immagini testimonia dell’acutezza dello sguardo di Goethe, richiamando l’attenzione ancora una volta sull’importanza che l’autore attribuiva all’ordinamento di ciascun dettaglio nel quadro complessivo che egli si era formato della pianta superiore. 53 melampyrum] Pianta delle labiate. Le sue brattee, foglie che portano fiori singoli in una fioritura molto compatta, presentano strutture e colori molto peculiari nelle diverse specie della famiglia, e giungono a somigliare a petali. 54 corpi che definiamo viventi] Come tratto caratteristico del vivente si indicano qui la riproduzione e la germinazione o sviluppo individuale delle piante. Queste note richiamano alla mente il saggio Dei cotiledoni, anche se, mentre in quello scritto ci si atteneva, figurativamente e terminologicamente, ad un determinato stato della germinazione, nel presente caso l’autore esamina il decorso della germinazione. Un’ulteriore elaborazione di questi appunti e schizzi si trova nel saggio sulle Leggi della formazione delle piante (qui alle pp. 91-100). 55 Garofano prolifero] Goethe ha disegnato e descritto varie volte – in particolare nell’opera sulla metamorfosi – questo fenomeno, che costituiva per lui una conferma dell’ipotesi secondo cui «tutto è foglia». 56 Monandria monogynia] Appartengono alla prima classe e al primo ordine delle piante da fiore con uno stame e un pistillo; qui svolgono la funzione di esempio di forma semplice. Dopo la denominazione delle piante acquatiche dalla struttura semplice, viene presa in considerazione la composizione di simili unità vegetali, simboleggiate nel testo con un quadrato, nonché la differenziazione che ne consegue, quando gli organi dell’individuo sono diversi tra loro. 57 La sciocchezza di Nathanael] L’affermazione secondo cui «ogni vita vive grazie a qualcosa fuori di essa» è una citazione dallo scritto di Johann Caspar Lavater, Nathanael, apparso nel 1786. Lavater definisce ‘Nathanaelismo’ la posizione di chi considera Cristo come il principio di ogni vita immortale. Si misura così la distanza dalla concezione della natura di Goethe, vicina invece al panteismo. 58 Botanica] Singole osservazioni sulla formazione e trasformazione degli organi vegetali, a partire dalle quali Goethe sviluppa le «ipotesi» secondo cui tali mutevoli organi sono ricondotti a forme esteriori semplici («foglia», «nodo», «stelo») e ai loro rapporti. Uno scopo analogo si manifesta anche nei relativi disegni, in cui, accanto alla riproduzione di reali parti delle piante, si mostrano rappre-

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sentazioni schematiche tese a illustrare lo sviluppo vegetativo e la costituzione di individui vegetali. Nella raccolta di schizzi riprodotta a p. 77, sulla sinistra si vede il seme raffigurato come un piccolo cerchio, accanto al quale si trovano un embrione di pianta, con la relativa predisposizione per le radici e per i germogli, e, alla sua destra, una pianta in boccio, le cui sezioni sono caratterizzate rispettivamente da un cerchio, che rappresenta il nodo, e da un ovale, il germoglio. La direzione della crescita e la ramificazione procedono, sotto terra, verso destra, e da lì in poi di nuovo verso l’alto, mentre in superficie si mostrano perpendicolari, e inclinate lateralmente solo a partire dal quarto nodo. Nello schizzo riprodotto a p. 78 in basso, le sezioni della pianta in germoglio si mostrano in forma ancora più astratta, e sono indicate da lettere; le linee verticali alludono al fatto che in questo caso è possibile distinguere degli individui autonomi. Questi appunti sono stati elaborati dall’autore nei suoi studi sulla Botanica come scienza (qui alle pp. 87-100). In particolare, è utile rimandare al passo di p. 79: le «membrane», involucri e pellicole, sono ritenuti presupposti di ogni vivente e della rispettiva organizzazione; si noti anche, in riferimento al disegno a p. 79, che l’«arum», la sua infiorescenza con i fiorellini maschili e femminili separati tra loro, posti su uno stelo carnoso e avvolti da un singolare involucro fogliare, la spata, è spesso addotto da Goethe come esempio di fioritura, fortemente divergente rispetto alle altre forme, e tuttavia rivelatore di tratti molto caratteristici. 59 [[Notizbuch von der Rückreise] Questi appunti si trovano in un taccuino che Goethe ha utilizzato durante il viaggio di ritorno dall’Italia, dall’aprile al giugno del 1788, e che è stato stampato in facsimile a cura di Lieselotte Blumenthal, a Weimar nel 1965 (Schr.dGG 58). Gli appunti di carattere morfologico che vi compaiono arricchiscono il materiale presente nel saggio sulla Botanica come scienza, in particolare in riferimento alla domanda sull’origine della vita, con cui si confrontavano le teorie dell’evoluzione e dell’epigenesi. Le ultime pagine di questi appunti si riferiscono ad uno scritto, apparso anonimo, di Louis Patrin dal titolo Zweifel gegen die Entwicklungstheorie, Göttingen 1788, il cui autore afferma che la materia, che è stata già una volta organizzata, possiede un impulso a costituire nuovi organismi animali o vegetali, e che inoltre il seme coincide già con una struttura organizzata, per cui la gallina sarebbe già contenuta nell’uovo, la quercia nella ghianda.] 60 [[Botanik als Wissenschaft] I manoscritti che compongono questo testo fanno parte del Nachlass di Goethe, conservato presso l’Archivio di Weimar, e sono stati pubblicati per la prima volta in WA II 6, pp. 312-319; II 7, pp. 7-19; II 13, pp. 86 sg., in diverso ordine e con i titoli Einleitung e Vorarbeiten zur Morphologie. La presente versione segue il testo riprodotto in LA I 10, pp. 50-63 e il titolo che reca (La botanica come scienza), comune ai due scritti (Introduzione e Leggi della formazione delle piante), è ricavato dall’Introduzione stessa. La grafia dell’Introduzione è di Fritz von Stein, mentre nelle Leggi tale grafia appare accanto alla mano di Goethe, che ha realizzato anche gli schizzi relativi. Entrambi i testi si basano sugli Appunti dall’Italia, e si possono datare all’estate del 1788. L’Introduzione, che può essere considerata una traccia per delle conferenze, inizia con dei brevi appunti, sviluppati in forma di massime e di tesi in cui si intrecciano variamente le ipotesi contrastanti dell’evoluzione e dell’epigenesi. In particolare, l’autore prende le mosse dalla definizione della «botanica come scienza», vista da un lato come ordinamento delle piante in un sistema, dall’altro come riduzione delle piante entro un concetto (aspetto in cui risuona la ricerca goethiana della «Urpflanze»). Proseguendo con l’esposizione delle Leggi della formazione delle piante, l’autore fa riferimento alla costanza degli organi vegetativi e alla loro variabilità entro i limiti di tale concordanza di fondo.] 61 Ordinamento del sistema di Linné] Nell’estate del 1788 Goethe si confrontò, in-

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sieme al botanico August Johann Georg Karl Batsch, con il sistema ‘artificiale’ di Linné, e con le possibilità di costruire una sistematica naturale delle piante. 62 profano] Ulteriore richiamo al proprio dilettantismo, come già nella Descrizione dell’osso intermascellare: cfr. supra, p. 19. 63 tipo] La determinazione del tipo costituisce il problema che deve affrontare qualunque ordinamento sistematico della natura, di contro al sistema artificiale, in cui le caratteristiche in base alle quali si attua la classificazione sono scelte arbitrariamente. Dunque la caratterizzazione del tipo e della sua variabilità, cui Goethe allude con l’immagine di Proteo, si rivela un notevole sforzo sistematico. 64 libricino] L’autore potrebbe riferirsi qui al proprio taccuino di appunti dall’Italia, oppure al libretto di Louis Patrin, Zweifel gegen die Entwicklungstheorie, Göttingen 1788. 65 opinioni relative alle varie cortecce, al legno e al midollo] Si tratta di parti vegetali che Linné considerava sedi della vita, e che dovevano manifestarsi anche nelle parti del fiore: la corteccia nel calice, il legno nell’involucro floreale, il midollo negli organi riproduttivi. 66 difficoltà] Il calice costituisce una sorta di discontinuità, a causa delle sue foglie concresciute, che interrompono la successione fogliare. 67 concetto principale di foglia] Goethe si sente qui costretto a sottolineare che le molteplici forme con cui si presenta ciò che egli definisce semplicemente ‘foglia’ («tutto è foglia», cfr. supra, p. 77) non sono più congruenti dal punto di vista empirico, e dunque devono essere immaginate come «concetti trascendentali», di modo da garantire il passaggio al generale, necessario per l’esposizione scientifica. 68 due ipotesi] Si tratta delle due ipotesi dell’epigenesi e dell’evoluzione. Nello scritto sulla metamorfosi Goethe ha condotto un passaggio al piano generale e descritto i nessi tra gli stadi della crescita vegetale, trattando il tema sotto il profilo teorico senza entrare nel merito di tali ipotesi. 69 La teoria dei fiori, sia pieni che proliferi] Trasformazione degli organi fogliari vegetativi in organi generativi: anch’essa è descritta, nella Metamorfosi, senza riferimento a considerazioni di carattere teorico. 70 Leggi della formazione delle piante] Questo titolo non si trova nel manoscritto, ma è ricavato dal contenuto del testo. 71 facoltà] Definita da Patrin come facoltà vegetativa, come ciò che causa la moltiplicazione, generativa e vegetativa, degli organismi. Costituisce il presupposto della vita. 72 procreazione di individui simili] Presupposto per la disposizione sempre nuova degli organi simili delle piante è che la loro forma sia aperta, e caratterizzata da una molteplicità di punti di vegetazione (cfr. Troll, Botanik). Il disegno schematico che segue corrisponde agli schizzi di pp. 77 sg. (Appunti dall’Italia), qui spiegati con maggiori dettagli. 73 di nodo in nodo [...] della pianta] La frase, sottolineata nel manoscritto, insieme al paragrafo che segue, fornisce la definizione del modello della pianta, sostituendo così il concetto di «Urpflanze». 74 concrescere delle foglie] Riferimento ai gamosepali del calice, di cui si parla anche nei §§ 36 e 114 dello scritto sulla metamorfosi, e che introducono una difficoltà nella valutazione della sequenza delle varie forme fogliari: in essi si verifica infatti un passaggio da una crescita successiva ad una simultanea, poiché avviene che più foglie si radunino attorno ad un solo nodo. 75 sequenza] La continuità nella natura è uno dei principî fondamentali della concezione goethiana. Cfr. Herwig, Gespräche, Bd. 2, pp. 201 e 471: «Die Natur kann zu allem, was sie machen will, nur in einer Folge gelangen», e «Folge! Das einzige,

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wodurch alles gemacht wird und ohne das nichts gemacht werden kann» (a Riemer, 1807 e 1809). 76 non è possibile che una parte aumenti senza che un’altra diminuisca] Riferimento al prinicipio di compensazione, elemento costitutivo e costante nelle costruzioni teoriche goethiane riguardo alla metamorfosi e al tipo. 77 [J.W. v. Goethe Herzoglich Sachsen-Weimarischen Geheimraths Versuch die Metamorphose der Pflanzen zu erklären, Gotha, bey Carl Wilhelm Ettinger, 1790. La monografia fu pubblicata per la seconda volta da Goethe nel primo volume del primo quaderno Zur Morphologie del 1817, con il titolo abbreviato Die Metamorphose der Pflanzen. Questo testo presenta alcune differenze ortografiche, alcune variazioni nell’interpunzione e poche correzioni nel lessico. Seguì una terza stampa, invariata rispetto alla seconda, nell’edizione franco-tedesca che reca il titolo Versuch über die Metamorphose der Pflanzen, übersetzt von Friedrich Soret, Stuttgart 1831. Nella Ausgabe letzter Hand il testo apparve solo dopo la morte dell’autore, nel volume 58 del Nachlass, alle pp. 19-80. Il testo riprodotto in LA I 9, pp. 23-61 segue quello della seconda versione a stampa. La composizione del saggio si lega agli studi condotti da Goethe nel periodo immediatamente successivo al suo primo viaggio in Italia, e si trovano attestazioni già del novembre 1789 che testimoniano del fatto che Goethe intendeva elaborare le sue «idee botaniche» per la pubblicazione (cfr. la lettera a Carl August del 20.XI.1789). Nel 1806, poi, l’autore prevedeva di includere la Metamorphose der Pflanzen come scritto principale in un’opera dedicata alla morfologia. Il progetto subì dei ritardi a causa della guerra e i fogli già raccolti confluirono infine nell’edizione del 1817. Il concetto di metamorfosi, derivato dalla mitologia classica, è impiegato per indicare gli sviluppi graduali e i mutamenti formali che avvengono in natura: se in un primo tempo indicava principalmente le trasformazioni degli insetti, a partire dal diciassettesimo secolo fu applicato anche ai mutamenti delle forme vegetali. Linné ha fatto ricorso al termine ‘metamorfosi’ dapprima per indicare la somiglianza formale in senso strettamente organografico; dal 1735, tuttavia, egli ha definito ‘metamorfosi’ l’intero sviluppo della pianta, dal germoglio alla fioritura, alludendo così al mutamento che avviene nel tempo agli organi che appaiono in successione.] 78 incisioni chiarificatrici] Goethe raccolse molto materiale illustrativo: egli stesso realizzò dei disegni e fece preparare acquarelli e incisioni, anche se non presentò mai un’edizione illustrata. 79 involucri] Riferimento all’involucro esterno del seme (testa), che deriva dagli involucri protettivi dell’ovulo. 80 specie del genere pinus] riferimento alle conifere in generale, che Goethe aveva osservato in Italia. 81 cotiledoni isolati e del tutto informi] si intendono qui le piante erbacee, in cui l’organizzazione degli embrioni è difficilmente osservabile. 82 piumette] Nodo finale delle piante germinative, avvolto dalle prime due foglie più larghe. Più oltre Goethe fornisce una caratterizzazione delle prime foglie del germoglio (foglie inferiori), a cui fanno seguito, nell’ordine, le foglie primarie, le foglie successive e infine le foglie superiori nello stadio della fioritura, che si distinguono in base alla loro caratteristica costituzione. 83 palma da datteri] Phoenix dattilifera: appartiene alle palme fornite di foglie, di cui Goethe ha descritto in vari modi la sequenza fogliare, così come la germinazione (cfr. supra, pp. 63-65). 84 agrumi] Cfr. ciò che Goethe scrive a Soret il 14.VII.1828, in relazione alla traduzione francese del saggio sulla metamorfosi: «Ho tratto dall’italiano il termine ‘agrumi’, con cui si designa l’intera famiglia dei limoni, degli aranci ecc., con

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il vantaggio di mettere al servizio della scienza un’espressione tratta dalla vita quotidiana.» 85 anastomosi] confluenza di strutture vasiformi: in questo caso si allude alle nervature trasversali delle foglie. Goethe considera la ramificazione dei vasi una condizione anatomica per il raffinamento dei succhi, e dunque una precondizione della metamorfosi, che progredisce fino allo stadio della fioritura. L’autore concepisce la stessa fecondazione come una «anastomosi spirituale», in cui pistillo e stame confluiscono l’uno nell’altro. 86 diversi gas] Il significato dell’ossigeno per la respirazione, che ha luogo anche in assenza di luce, e la rilevanza dell’anidride carbonica, che costituisce i carboidrati per assimilazione mediante l’azione della luce e della clorofilla, erano stati studiati da Ingenhousz e Senebier circa un decennio prima della pubblicazione dello scritto di Goethe, ma Goethe non fa alcun riferimento ai loro lavori. Dalla letteratura coeva aveva invece appreso le componenti dell’aria presenti nei vasi linfatici (cfr. LA II 9A, pp. 126 sg.). 87 il ruolo finora attribuito a questo midollo] Linné definiva il midollo come la sostanza cerebrale della pianta, e ciò gli fu contestato dal medico e botanico Johannes Hedwig (1730-1799), nello scritto Vom wahren Ursprung der männlichen Begattungswerkzeuge der Pflanzen, in «Leipziger Magazin zur Naturkunde, Mathematik und Ökonomie», 1781, St. 3, pp. 297-319. Goethe condivise l’opinione di Hedwig, che non riteneva corretto descrivere in termini simili l’analogia tra piante e animali. 88 libro] si tratta della zona a forma di anello dell’asse del germoglio (cambium), che produce legno all’interno, e all’esterno la corteccia secondaria, il cosiddetto libro. Anche in questo caso è evidente l’analogia con il regno animale. 89 folia floralia] Si allude alle foglie superiori, raccolte nella regione del calice, e non ai petali della corolla. 90 nel calice] Si intendono qui insiemi di foglie superiori, composti in forma di calice, che precedono le infiorescenze (ma non i singoli fiori) delle composite. 91 garofano] i garofani tendono a produrre trasformazioni nello stadio della fioritura, e per tale ragione Goethe li cita spesso come esempi. 92 un petalo colorato, quasi completamente formato] Fenomeno altrettanto frequente, che si basa sulla coloritura delle foglie superiori (cfr. in proposito le tavv. 27 e sgg.). 93 presenza in essi del seme maschile] si allude al polline. Hedwig aveva già descritto la sua presunta influenza sulla colorazione e sul profumo dei fiori. 94 canna] la canna indica possiede un solo stame: una metà di esso ha la struttura di un’antera, l’altra metà quella di un petalo. 95 fiori che appaiono più spesso doppi] prevalentemente per la trasformazione degli stami e dei petali, in cui è possibile osservare tutti gli stadi di transizione (cfr. anche la fig. a p. 70 e la tav. 30). 96 Nettàri] organi e ghiandole dalla struttura varia, che secernono un succo ricco di zuccheri, il nettare. Si trovano generalmente nella regione del fiore, ma possono trovarsi anche sulle foglie caulinarie. Goethe li considera come gradi intermedi nel processo che conduce alla fecondazione, a causa della loro facoltà di secernere liquidi. 97 si presentano come parti autonome] Tra le specie qui enumerate, la «parnassia palustris» presenta dei nettàri che possiedono di volta in volta 5 stami infecondi, ciascuno dei quali si divide in 13 frange, portatrici di nettari. La «vallisneria» spiralis, una vite palustre, ha dei fiori di sessi separati: quelli femminili possiedono, oltre a tre foglie esterne sviluppate, anche tre foglie interne ripiegate, che Goethe considera nettàri. La «fevillea», pianta dioica della famiglia delle zucche, mostra degli stami ridotti, mentre la «pentapetes» presenta 5 pellicole a forma di

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petalo, infeconde, tra gli stami. Nella «kiggellaria», un albero dioico proveniente dall’Africa, i petali portano una singolare scaglia al loro interno. La passiflora è invece nota per i nettàri che si trovano nella corolla situata all’interno della particolare «corolla secondaria», costituita da filamenti simili ai petali che crescono all’interno dei petali veri e propri. Il «narcissus», il «nerium», l’oleandro e l’«agrostemma» coronaria presentano anch’essi delle corolle secondarie simili, che negli ultimi due casi hanno una struttura a scaglie. Nell’«aconito» i petali sono trasformati in nettàri, mentre nella «nigella» si mostrano tutti gli stadi di transizione tra gli organi fogliari nella regione dei fiori: per tale ragione Goethe la definisce un ‘capofila’, vale a dire un esempio paradigmatico per la metamorfosi. Nella fioritura del «melianthus» Goethe non riconosce il calice, che considera invece come semplici petali esterni, così come la corolla vera e propria coincide con ciò che Goethe ritiene corolla secondaria. Nella «polygala», infine, le «appendici a forma di pennello» costituiscono appendici del petalo inferiore, dalla forma di carena, e tuttavia non si tratta di una corolla papilionacea. 98 vasi a spirale] Hedwig sosteneva che i vasi a spirale (ispessiti e legnosi), in quanto costituiscono le parti anatomiche in cui avvengono i processi di raffinamento dei succhi durante lo sviluppo della pianta, dovessero essere al servizio dell’intero sistema vascolare. 99 stilo] L’organo di riproduzione femminile completo, il pistillo, è costituito dallo stigma, dall’ovario e dallo stilo, che unisce i primi due. 100 foglia del tiglio] Goethe intende qui l’organo fogliare ad ala, che concresce insieme all’asse della fioritura per metà della sua lunghezza. 101 ruscus] Il ruscus aculeatus, o pungitopo, mostra una gemma appiattita a forma di foglia, mentre le foglie sono strutture simili a pellicole e poco appariscenti. Ne deriva l’impressione fallace che fiori e frutti poggino sulle foglie. Nel tiglio e nel ruscus è possibile scorgere nella struttura stessa della pianta il rapporto reciproco tra le parti, così importante per Goethe, e i fiori hanno origine dalle ascelle fogliari. 102 riconoscere la forma fogliare] Goethe trae qui una conclusione corretta, pur muovendo da premesse non chiare: morfologicamente, infatti, il frutto non può che trarre origine dalla foglia. 103 nigella orientalis] i frutti della nigella hanno la forma di capsule avvolte da una buccia, e si presentano variamente concresciuti, adiacenti o rigonfi nelle singole specie. 104 i gas più puri] Nella letteratura coeva, con questo termine – nonché con l’espressione «Feuerluft» impiegata da Goethe – si alludeva all’ossigeno. L’autore trae dalla letteratura anche l’analisi dei gas contenuti nei frutti della «colutea», una specie delle papilionacee (cfr. LA II 9A, p. 126). 105 che lo rivestono] nell’edizione del 1831 il termine «bekleidenden» è corretto in «begleitenden» («che lo accompagnano»). 106 a questi contributi] Goethe aveva annotato diversi passaggi dall’importante opera di Joseph Gärtner De fructibus et seminibus plantarum, 3 Bde., Stuttgart und Tübingen 1788. Gärtner considera i frutti e i semi di 1275 generi vegetali e li rappresenta su delle tavole. Le sue limpide interpretazioni della forma di tali organi si rivelarono fondamentali per la loro spiegazione in termini morfologici e funzionali. 107 nutrimento] Le strutture delle infiorescenze dipendono dal modo in cui avviene la nutrizione, anche se in misura limitata, entro la gamma delle loro forme tipiche. 108 brattee] Foglie esterne, che si sviluppano dallo stelo dei fiori. Spesso è soltanto

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la base della foglia a prendere parte alla formazione di una fogliolina dalla struttura a scaglie. 109 molteplicità di forme assunte dai fiori e dai frutti] Goethe richiama l’attenzione sulle leggi che regolano i rapporti costanti tra gli organi di un essere vivente, rinviando ancora una volta alle condizioni su cui tali rapporti si basano, vale a dire: la «dilatazione» («Ausdehnung») e «contrazione» («Zusammenziehung») delle forme, la «concentrazione» («Zusammendrängung») o compressione dei nodi intermedi, e l’«anastomosi» o confluenza e connessione dei vasi e degli organi riproduttivi. 110 l’impiego della terminologia botanica] In tal modo Goethe va oltre la mera considerazione descrittiva delle piante. Ciascun nome designa l’organo morfologicamente equivalente, e dunque l’elemento tipico, di modo che, nel complesso, risulta il tipo della pianta superiore. Emergono così le stesse esigenze che l’autore formula in relazione allo studio comparato dell’anatomia degli animali. 111 Rosa prolifera] I fiori proliferi costituiscono le prove decisive a sostegno dell’ipotesi del carattere fogliare degli organi del fiore. Se, in luogo degli organi floreali, si presentassero dei nuovi germogli con delle foglie ampie, si dovrebbe sviluppare un’analogia tra petali e latifoglie (cfr. le tavv. 31 sg. e 17). 112 La teoria dell’anticipazione di Linneo] La teoria della prolepsis plantarum di Linné fu pubblicata nel 1763 nelle Amoenitates academicae. In base ad essa, un albero che per anni produce solo rami dà forma d’un tratto a dei fiori nel momento in cui i germogli, che generalmente giungono a maturazione nei successivi sei anni, sbocciano improvvisamente. Dalle foglie delle gemme del germoglio previsto per l’anno successivo si sviluppano le foglie esterne, da quelle del germoglio previsto per il secondo anno si forma il calice, da quelle relative al germoglio del terzo anno la corolla e così via. In riferimento alle piante annuali, invece, Linné parte dal presupposto che la pianta, insieme con il suo fiore, sia preformata nel seme, e in tal caso può fare a meno della singolare teoria ausiliaria dell’anticipazione. 113 uno dei miei precursori] Johann Jakob Ferber (1743-1790) che, nella sua Dissertatio de prolepsi plantarum (Uppsala 1763) parla di «vie tortuose e spinose», di «crepacci e caverne», e di «faticosi vagabondaggi nella nebbia». 114 l’origine delle parti del fiore e del frutto] Linné pubblicò questa definizione nella Philosophia botanica, Stockholm 1751, pp. 52 sgg. Goethe contesta con ragione tale teoria, nonché, come si è visto, le relative analogie con il regno animale. 115 sono state già svolte] cfr. August Johann Georg Karl Batsch, Versuch einer Anleitung zur Kenntnis und Geschichte der Pflanzen, 2 Bde., Halle 1787 sg. Goethe ha compulsato intensivamente l’opera di Batsch, botanico jenese suo amico, ed essa si trova tuttora nella sua biblioteca. A proposito della collaborazione tra i due, si rimanda alla lettera di Batsch a Goethe del 19.I.1790 (LA II 9A, p. 389). 116 [[Weitere Versuche zur Pflanzenmetamorphose] Il manoscritto relativo si trova nel Nachlass di Goethe nell’Archivio weimariano. La prima versione a stampa apparve in WA II 6, pp. 279-285, 329 sg., 333 sg., 309-311; II 13, pp. 69 e 75. Ci si basa qui sul testo pubblicato in LA I 10, pp. 64-73. Il titolo qui trascritto è un’aggiunta presente in quest’ultima edizione. Degli scritti raccolti sotto questo titolo, i primi due sono stati dettati da Goethe al suo assistente Johann Georg Paul Götze; si tratta di studi direttamente legati all’opera sulla metamorfosi delle piante: un dato, questo, che, unito al richiamo esplicito dell’autore al suo Versuch über die Gestalt der Tiere, induce a stabilire una datazione prossima ai lavori del 1790. Gli altri due saggi (qui alle pp. 144-147) furono dettati all’assistente Johann Ludwig Geist, entrato al servizio di Goethe nel 1795. Più vicini tematicamente al lavoro sui cotiledoni, si basano probabilmente su appunti precedenti, e sono intesi quali integrazioni allo scritto sulla metamorfosi.

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Si tratta di saggi che testimoniano della volontà dell’autore di sviluppare un punto di vista teorico in stretta connessione con le enunciazioni presenti nelle sue Leggi della formazione delle piante. Egli rifiuta qui analogie acritiche tra piante e animali, e gli organismi sono considerati in rapporto a se medesimi, le piante esaminate nella loro forma aperta, al fine di evitare il ricorso a qualunque tipo di teleologia.] 117 confronto] Goethe esprime qui una limitazione critica del metodo comparativo, cui pure egli stesso aveva dato un decisivo impulso. I confronti citati ai punti 3 e 4 erano già stati impiegati da Linné. 118 idee religiose] Allusione alle posizioni pansofistiche. Dopo la trattazione empirica condotta nello scritto sulla metamorfosi, Goethe sente di dover tornare a confrontarsi con questi tipo di tradizioni, per prenderne le distanze. 119 Agricola] Georg Andreas Agricola, L’Agriculture parfaite, Amsterdam 1720 (traduzione del testo Neu- und nie erhörter, doch in der Natur und Vernunft wohlgegründeter Versuch der Universal-Vermehrung aller Bäume, Stauden und Blumen-Gewächse, Regensburg und Leipzig 1716 sgg.). Agricola afferma di aver trovato una «mummia vegetale» per mezzo della quale era possibile far crescere degli alberi in brevissimo tempo, facendo ricorso a determinati artifici alchemici. Egli rappresenta le radici come la bocca dell’albero, che assorbe il nutrimento, i vasi come stomaco e intestino, che lo elaborano, di modo che, quando tale nutrimento sia stato «cotto» a sufficienza, si producono vene, ghiandole e nervi. 120 Linneo] cfr. la sua Akademische Streitschrift, in «Allgemeine Magazin der Natur, Kunst und Wissenschaften», 4 (1754), pp. 172-236. Le «candide nozze» delle piante sono poste a confronto con quelle degli animali. Nella descrizione degli organi sessuali e dei meccanismi riproduttivi, Linné paragona ad esempio il calice al talamo nuziale, la corolla al baldacchino, il pistillo alla vulva o alle labbra, e così via. 121 lo scopo finale] Più tardi Goethe avrebbe definito due dei principî dello studio comparativo, vale a dire l’idea della costanza delle relazioni spaziali e quella della costanza delle condizioni, come principî che rendono superfluo il «triste ripiego che consiste nell’invocare cause finali» (cfr. p. 840). 122 Epitteto] Cfr. Encheiridion, XLIII. 123 Critica del Giudizio teleologico di Kant] Al citato § 64 si legge che «una cosa esiste come fine della natura quando è causa ed effetto di se medesima». Kant adduce l’esempio di un albero che si conserva in quanto specie mediante la riproduzione, e al contempo si conserva anche come individuo, grazie alla crescita vegetativa. Nella sua copia della Critica del Giudizio kantiana, Goethe ha annotato al § 64, accanto al passo in cui si dice che una gemma, innestata sul ramo di un albero di altra specie, riproduce la propria specie di partenza, di modo che si può considerarla come un parassita: «Indifferenza della crescita vegetale». 124 un elemento più spirituale] si riferisce alla teoria del raffinamento dei succhi linfatici, nonché alla concezione dell’anastomosi e della formazione del legno (cfr. supra, pp. 119 e 134 sg.). 125 proprietà] Le particolarità delle monocotiledoni risultano dal loro caratteristico processo di crescita. L’asse su cui germogliano si dilata, mentre si producono delle gemme sempre più fitte, l’una dopo l’altra. Per tale ragione esse hanno bisogno di germogli che fungano da magazzini, «bulbi e simili». I vasi conduttori si trovano dunque sparsi nel germoglio e non si presenta alcuna struttura lignea o midollosa in forma di anello, come avviene invece nelle dicotiledoni. 126 Jussieu] Antoine Laurent de Jussieu, Genera plantarum, Paris 1789, p. 23 parla di corolla mancante e considera come calici i casi in cui essa si presenta. 127 hyacinthus monstruosus] oggi è denominato muscari comosum: si tratta di una de-

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generazione dei giacinti a grappolo, i cui fiori sterili consistono quasi soltanto di piccoli steli blu filamentosi. 128 ginandromorfismo] le piante ‘androginiche’, in cui gli organi maschili e femminili sono concresciuti, sono impiegate da Linné come tratti caratteristici per la sua classificazione sistematica. 129 Spadice e spata] Lo spadice è un’infiorescenza in forma di spiga, e la spata è la foglia che lo avvolge. 130 I frutti si trovano immediatamente attaccati al picciòlo] Forma del germoglio nell’ambito del frutto. Goethe considera lo stadio dell’infruttescenza come un frutto e ritiene dunque che il germoglio attraversi il frutto, come accade nel mais, nella bromelia e nell’ananas. 131 [Versuch über die Gestalt der Tiere. Il manoscritto fa parte del Nachlass Goethe e si conserva presso l’Archivio di Weimar. Il testo è apparso a stampa per la prima volta in WA II 8, pp. 261-276, II 13, pp. 198-202. La presente versione segue LA I 10, pp. 74-87. La stesura ci è tramandata in due sezioni, ed è di mano di Johann Georg Paul Götze. Goethe lavorò al problema della forma degli animali dopo il suo ritorno da Venezia nell’estate del 1790, portò con sé i suoi taccuini di appunti durante un viaggio in Slesia e studiò a Dresda nella locale raccolta storico-naturale. Una pubblicazione di questi appunti era prevista per la Pasqua del 1791, ma il progetto fu accantonato a causa dell’impegno che l’autore scelse nel frattempo di dedicare ai suoi studi di ottica. Il materiale raccolto fu poi impiegato nel 1794 per le conferenze sull’osteologia per i fratelli von Humboldt, e i risultati del lavoro confluirono nello scritto Entwurf einer allgemeinen Einleitung in die vergleichende Anatomie, pubblicato nel 1820. Gli studi precedenti restarono allo stadio di frammenti, ma possiedono un loro valore autonomo. Goethe si basa qui sulla tavola utilizzata per la descrizione dell’osso intermascellare (cfr. supra, pp. 13 sg.): uno schema che, ampliato alle altre parti della struttura ossea, avrebbe dovuto fornire un’architettura teorica generale secondo cui porre a confronto e valutare le strutture anatomiche dell’uomo e degli animali, e che qui l’autore definisce come «tipo», senza tuttavia stabilire una determinazione più precisa di tale concetto.] 132 prospettiva osteologica] Peyer 1950 ha dimostrato come, ponendo una simile limitazione, Goethe abbia reso più complicata la definizione del tipo, che sarebbe stata più agevole e comprensibile se si fossero presi in considerazione altri gruppi di animali e altri organi. 133 forme provenienti dall’oceano] Riferimento ai cetacei, in particolare ai delfini. 134 negli embrioni] Goethe aveva già richiamato l’attenzione sull’importanza dello studio degli embrioni nel suo saggio sull’osso intermascellare (cfr. supra, p. 16). 135 divisibilità dei nervi] Goethe conosceva i lavori neurologici di Albrecht von Haller, Samuel Thomas Sömmerring e Georg Prochaska. 136 unità di misura] Riferimento al metodo esposto da Johann Wilhelm Josephi nel suo Anatomie der Säugetiere, Göttingen 1787, da cui Goethe aveva tratto numerosi appunti (cfr. LA II 9A, M101). 137 separeremo accuratamente l’os temporum e la cosiddetta pars petrosa] All’esempio della separazione in più parti dell’osso temporale (supra, p. 159) si aggiunge ora quello della distinzione delle parti dell’osso occipitale, che l’autore considera composto di tre ossa di forma vertebrale. In tal modo egli connette l’analisi anatomica qui condotta con la teoria della struttura vertebrale del cranio. 138 [[Zur Vergleichungslehre] Il manoscritto si trova nel Nachlass di Goethe nell’Archivio weimariano; la prima stampa è apparsa in WA II 8, pp. 173-208; 335-357;

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II 7, pp. 217-224 (in una sequenza differente). La presente versione si basa sul testo di LA I 10, pp. 87-122, e anche il titolo è un’aggiunta che compare in quest’ultima edizione. I testi qui raccolti da Goethe sono di grafie diverse: il primo è di mano di Johann Georg Paul Götze, con un paragrafo di mano del figlio di Herder, August; il secondo è stato dettato all’assistente Friedrich Wilhelm Schumann, mentre il terzo è ancora di mano di Götze. In tutti i casi sono presenti correzioni e integrazioni di Goethe. Si tratta di annotazioni che proseguono gli studi sul tipo, e che si possono datare al 1794, anche se esistono lavori preliminari precedenti ad esse pertinenti, come nel caso del Versuch über die Gestalt der Tiere. Probabilmente l’autore ha condotto ulteriori studi durante il suo soggiorno a Dresda nell’agosto del 1794, nel locale museo di storia naturale. Ulteriori appunti relativi a questi saggi sono stati pubblicati in LA II 9A, M124-136. Riflettendo sul problema della costituzione di un tipo degli animali superiori, Goethe condusse una serie di ricerche empiriche: partendo da considerazioni teoriche riguardo al tipo, fondate già in origine su una base di conoscenze empiriche, l’autore condusse nuove osservazioni, e giunse a concepire ulteriori intuizioni utili per la teoria comparativa. Oltre a questa costante interazione tra idea e dati empirici, Goethe giungeva così anche ad un’ulteriore elaborazione linguistica: in luogo dell’enunciazione concettuale si sostituivano passi descrittivi ed esplicativi, e trovava una nuova applicazione ciò che l’autore aveva esercitato nelle sue descrizioni della forma e della metamorfosi delle piante. Nel primo dei saggi qui raccolti, questa modalità descrittiva conduce a istituire confronti e a formulare domande sulla relazione tra le parti osteologiche, nonché sulle cause e gli effetti delle diverse conformazioni. Ulteriori descrizioni, raccolte come integrazioni e come materiali per la pubblicazione, mostrano come lo sforzo descrittivo fosse diretto a raggiungere da un lato un piano generale in grado di comprendere tutte le proprietà specifiche, e a fissare dall’altro un profilo tipico tale da caratterizzare univocamente ciascun osso. Questa sezione empirica dei Versuche si intreccia dunque costantemente a riflessioni teoriche. Nella seconda sezione del testo, Goethe si confronta con le posizioni filosofiche fatte proprie dalla scienza settecentesca, cercando di contestarne i pregiudizi, e di tracciare delle conclusioni utili al «progresso della scienza» mediante la conoscenza di tutte le espressioni della «natura formatrice» («bildende Natur»), concepita come un «universo organizzato».] 139 gli organi tramite cui l’animale si procura il nutrimento] Già nei suoi studi per i Frammenti fisiognomici Goethe aveva definito tali organi «le parti principali» (cfr. supra, p. 6), e già Herder (Ideen, libro III, cap. 2) considerava la bocca degli animali il loro primo tratto distintivo, richiamandosi in tal modo alle classificazioni sistematiche in vigore all’epoca. 140 L’osso incisivo] Goethe definisce così («Schneide Knochen») l’osso intermascellare. 141 quasi unicamente in base a quest’osso] Si esprime qui la convinzione dell’autore secondo cui il carattere di una specie si esprime in ciascuna delle sue parti e nella loro armonizzazione. 142 fontanella] sull’importanza che Goethe attribuisce alle aperture («Fontanellen») e concrescenze, cfr. il Versuch über die Gestalt der Tiere (in part. supra, p. 156). 143 Passaggio all’osso da descrivere per primo] Goethe descrive, in questa sezione, la composizione e la struttura del volto; queste descrizioni comparative, al pari di quelle seguenti, sono state considerate in stretta connessione con la teoria della struttura vertebrale del cranio.

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testina] Attorno a tale appendice dell’epistrofeo avviene il movimento dell’atlante nella rotazione della testa. Nella letteratura coeva è denominata «Köpfchen», «Knöpfchen» o «Knötchen». L’accurata descrizione dell’atlante e dell’epistrofeo, e il rimando a questioni ancora aperte riguardo a quest’ultimo, concernono la particolare struttura di queste due vertebre, che determinano la postura della testa nel punto di transizione tra il cranio e la colonna vertebrale. 145 nel regno dei pesci e degli anfibi] Goethe riprende ripetutamente simili accenni al regno dei vertebrati inferiori, in tutti i suoi saggi di osteologia. 146 terminologia] Si riferisce al Versuch über die Gestalt der Tiere (cfr. in part. supra, p. 150). 147 determinati scopi] Allusione alle concezioni teleologiche e fisico-teologiche. 148 singoli uomini] oltre a Spinoza, che sosteneva il principio dell’immanenza divina di contro alla prospettiva teleologica, si allude anche a Francis Bacon. 149 una compiuta organizzazione] Goethe spiega la formazione e trasformazione di ogni «cosa che è chiamata a vivere», mediante processi di adattamento e di selezione (cfr. alla «forma determinata e determinante» citata a p. 193), sullo sfondo dell’idea di un reciproco adattamento di tutte le cose naturali. Alla conclusione del paragrafo risuonano ancora idee di tipo evolutivo, anche se in una formulazione moderata: «vedremo infine l’intero mondo animale a sua volta come un grande elemento in cui, se non nasce, tuttavia si conserva una specie dopo l’altra e in virtù dell’altra» (p. 194). 150 [Muskeln eines Ziegenkopfs. Il manoscritto, di mano di Johann Georg Paul Götze e privo di correzioni di mano di Goethe, si trova nell’Archivio di Weimar, nel Nachlass di Goethe. Pubblicato per la prima volta in WA II 8, pp. 357 sg., è qui tradotto in base al testo di LA I 10, pp. 123 sg. Probabilmente la descrizione qui contenuta, in cui muscoli e legamenti sono considerati insieme, risulta dagli studi anatomici compiuti dall’autore presso Justus Christian Loder nell’inverno 1794-1795.] 151 [I muscoli descritti ai punti 3-5 servono al movimento e al sostegno della testa, e sono importanti per il confronto con gli altri animali, e principalmente con l’uomo, la cui postura eretta assume, in quest’ambito, forme particolari e differenti.] 152 [Inwiefern die Idee: Schönheit sei Vollkommenheit mit Freiheit, auf organische Naturen angewendet werden könne. Il manoscritto si trova nel Nachlass Schiller a Weimar, scoperto nel 1953 da Günter Schulz; fu dettato da Goethe allo scrivano Wilhelm Schumann e presenta correzioni dell’autore, che lo inviò a Schiller il 30.VIII.1794 come contributo alla discussione su natura e arte che i due avevano affrontato poche settimane prima. Stampato per la prima volta in JbGG (NF), 14/15 (1952-1953), pp. 143-145, il testo è qui tradotto secondo l’edizione LA I 10, pp. 125-127.] 153 proporzione numerica o quantitativa] probabile allusione alla teoria delle proporzioni e degli angoli facciali sostenuta da Petrus Camper. 154 in formule più spirituali] ciò che Goethe sperava di aver trovato con la formulazione della «Urpflanze», e che gradualmente tentava di enunciare nell’idea del tipo per gli animali. 155 [[Rezension von Vorlesungen Petrus Campers] Il manoscritto, redatto da due mani distinte, una attribuita allo scrivano Wilhelm Schumann e una ignota, si trova nel Nachlass Goethe a Weimar, ed è stato stampato per la prima volta in WA II 12, p. 169, II 13, p. 254; la presente versione segue l’edizione LA II 9A, pp. 229 sg. Goethe era stato invitato da Gottlieb Hufeland (1760-1817) a recensire uno scritto di Camper per la «Allgemeine Literatur-Zeitung»; si tratta delle lezioni che lo studioso aveva tenuto negli anni 1774, 1778 e 1782, raccolte e pubblicate nel 144

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volume: P. Camper, Vorlesungen, gehalten in der Amsterdamer Zeichen-Akademie; über den Ausdruck der verschiedenen Leidenschaften durch die Gesichtszüge, über die bewunderswürdige Ähnlichkeit im Bau des Menschen, der vierfüßige Tiere, der Vögel und Fische, und über die Schönheit der Formen, hg. von A.G. Camper, aus dem Holländ. von G. Schatz, Berlin 1793. Camper, che aveva studiato la tecnica del disegno e dell’incisione prima di intraprendere la sua formazione in campo medico, applicava le sue conoscenze anatomiche e fisiognomiche anche all’arte figurativa, e nelle lezioni citate si occupava della rappresentazione e comparazione delle possibilità espressive della mimica, derivando tali possibilità dall’interazione tra il movimento dei muscoli e l’azione dei nervi. Egli tentava inoltre di definire dei sistemi geo­metrici entro cui porre a confronto le forme di vari quadrupedi con la struttura umana.] 156 lezioni] Nella «Allgemeine Literatur-Zeitung» del 1.XII.1792, nr. 314 sg. apparve la dettagliata recensione di un altro volume che raccoglieva delle lezioni di Camper, dal titolo: Über den natürlichen Unterschied der Gesichtszüge in Menschen verschiedener Gegenden und verschiedenen Alters, über das Schöne antiker Bildsäulen und geschnittener Steine; nebst Darstellung einer neuen Art, allerlei Menschenköpfe mit Sicherheit zu zeichnen, hg. von A.G. Camper, aus dem Holländ. übers. von S.Th. Sömmerring, Berlin 1792. 157 [Erster Entwurf einer allgemeinen Einleitung in die vergleichende Anatomie, ausgehend von der Osteologie. J.W. v. Goethe, Zur Morphologie, Bd. 1, Heft 2 (1820), pp. 145196. La presente versione segue il testo pubblicato in LA I 9, pp. 119-151. Goethe dettò il suo saggio al giovane medico Maximilian Jacobi (1775-1858), figlio del suo amico Friedrich Heinrich Jacobi, ma il manoscritto non è conservato. Si tratta di riflessioni scaturite da una serie di conferenze che Goethe tenne a Jena negli ultimi mesi del 1794 di fronte ad una ristretta cerchia di amici raccolti attorno ai fratelli von Humboldt, a Johann Heinrich Meyer e a Schiller. Vi confluiscono molti spunti che l’autore ricevette dai suoi contemporanei, in particolare da Herder, Loder, Sömmerring, nonché l’influsso degli scritti di Johann Fried­ rich Blumenbach e Petrus Camper. Punto di partenza, come nel Versuch über die Gestalt der Tiere, è anche in questo caso il metodo comparativo, e il ribadito rifiuto dell’approccio teleologico allo studio degli esseri viventi. Trovano più diffusa enunciazione i principî della compensazione, della correlazione tra gli organi e la costanza della loro posizione, e si chiarisce inoltre la peculiare prospettiva metodologica che Schiller aveva definito «empirismo razionale»: la regola secondo cui «l’idea deve regnare sull’insieme e dedurre in modo genetico il quadro generale» conduce dal piano dell’osservazione empirica a quello della riflessione razionale. Il «modo genetico» indicato allude alla considerazione delle conseguenze e delle alterazioni che si producono negli organismi viventi, mentre il richiamo all’idea riferisce la molteplicità delle osservazioni a un’unità. Goethe intende raccogliere «l’intero regno animale entro un singolo grande quadro», anche se sottopone i suoi principî alla prova costante dei dati empirici, fino a conseguire la sua visione d’insieme mediante quel «vedere con gli occhi dello spirito», quell’ampia e duttile «intuizione sensibile» che esercitava contemporaneamente in ambito botanico e nella teoria dei colori.] 158 anatomia] Goethe definisce qui l’anatomia come un metodo originariamente analitico. Solo in quanto scienza che procede per via di comparazione l’anatomia conduce alla visione d’insieme delle strutture fisiche dei viventi. 159 ramificazioni [...] anastomosi] il significato delle «ramificazioni» e dell’anastomosi come collegamenti trasversali tramite vasi era stato già illustrato da Goethe nel saggio sulla metamorfosi delle piante, in cui era inteso anche come concetto centrale per la spiegazione del processo di raffinamento, e ripreso infine per

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analogia anche in ambito spirituale. Anche nel presente saggio si riscontra un passaggio analogico come ascesa («Steigerung») all’ambito spirituale. 160 norma] come norma deve appunto essere intesa la formulazione del tipo tentata nel seguito, alle pp. 218-220. 161 Buffon] Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, Histoire naturelle, Paris 1749 sgg., in cui si trovano descrizioni dettagliate dell’uomo e degli animali, che riguardano sia i loro comportamenti, sia la forma, numero e misura dei loro organi. 162 Josephi] Johann Wilhelm Josephi, Anatomie der Säugetiere, Göttingen 1787. L’unico volume apparso di quest’opera contiene un’esaustiva bibliografia su ogni ambito dell’anatomia, e una riflessione sui suoi vantaggi. 163 in modo genetico] Questa espressione deve essere considerata in relazione all’idea della serie graduale e continua, al culmine della quale si trova l’uomo. Si allude dunque alla successione costante di forme da cui si può derivare il tipo quale «immagine generale» («allgemeines Bild»). 164 tre parti] Goethe nota come un’articolazione tripartita sia riconoscibile nel modo più chiaro negli «esseri non così perfetti» come i mammiferi o i vertebrati, mentre negli «animali più perfetti» non si mostra con altrettanta evidenza. 165 cervello] il cervello può dunque essere considerato come concentrazione di una rete nervosa. 166 infinità] Goethe allude alla costituzione in lunghezza del corpo animale, che consta di elementi che si ripetono, e offre così un’analogia con la metamorfosi delle piante. 167 legge] si tratta del principio della compensazione. 168 impulso di formazione] Concetto che era stato definito in questi termini da Johann Friedrich Blumenbach: «In tutte le creature viventi, dall’uomo al baco, dal cedro alla muffa, risiede un particolare impulso innato, attivo lungo l’intero arco della vita dell’organismo: un impulso ad assumere una particolare forma, a mantenerla, e, quando essa sia distrutta, a riprodurla se possibile. [...] Al fine di prevenire fraintendimenti, distinguendolo dalle altre forze naturali, chiamerò in questa sede tale impulso con il nome di impulso di formazione (Nisus formativus).»: Über den Bildungstrieb, Göttingen 1781, p. 12. 169 bilancio di dare e prendere] Questi rapporti di compensazione si possono confermare, fino a un certo grado, tramite studi storico-genetici (cfr. Hassenstein 1950, pp. 346 sg. e 352). 170 partes propriae e impropriae] le parti proprie sono quelle in cui un organo si scompone naturalmente, mentre quelle improprie sono quelle che si possono ricavare agendo artificialmente, incidendo sezioni trasversali o longitudinali. 171 Camper] riferimento a Petrus Camper, Oratio de analogia inter animalia et stirpes, Groningen 1764. 172 Volcher Coiter, Duvernay, Daubeton] Volcher Coiter, Externarum et internarum principalium humani corporis partium tabulae, Nürnberg 1573; Guichard Joseph Duverney, Oeuvres anatomiques, Paris 1761; Louis Marie Daubenton, contributi alla Histoire naturelle di Buffon. 173 indagando anche il feto] Goethe aveva richiamato l’attenzione sull’importanza degli studi sugli embrioni già nel suo saggio sull’osso intermascellare (cfr. supra, pp. 16, 153 e 225). 174 le parti più avanzate] Sono poste in rilievo già nelle ricerche di argomento fisiognomico, e forniscono caratteristiche su cui si basa la classificazione sistematica. Cfr. anche Herder, Ideen, libro III, cap. 2. 175 la stessa funzione] accanto alla costanza della posizione, Goethe considera anche

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la costanza della «funzione» («Bestimmung»), vale a dire una influenza di scopi interni ed esterni. Di funzione («Funktion») Goethe parla anche nei Vorträge: cfr. più oltre, p. 252. 176 La natura vivente] si noti il ruolo attivo qui ascritto alla natura, che rinvia alla sua azione regolativa. 177 l’antico proverbio] qui bene distinguit, bene docet. 178 vedere con gli occhi della mente] L’immagine si trova impiegata già in autori secenteschi: compare in Bodmer, von Gleichen-Rußwurm, Schelling, von Carus e Burdach, e richiama le idee del puro osservare e del chiaro vedere in cui era radicato anche l’universo immaginativo classico goethiano. Mèta di un simile modo della visione è sempre qualcosa di universale, di archetipico. 179 nel feto] il metodo qui proposto da Goethe, sulla base della ricerca a lui contemporanea, e che consiste nel prendere le mosse dalla considerazione del feto (lo sviluppo individuale, ontogenesi) e degli animali inferiori (in cui è possibile vedere dei precursori nello sviluppo filogenetico) era stato nel frattempo sostanzialmente raffinato (cfr. supra, nota 173 a p. 393). 180 Verschiedenheit] Discostandosi dalle sue prime ricerche, Goethe fa qui ricorso al principio di compensazione, che regola il cambiamento delle proporzioni, della quantità e della forma delle ossa, nonché le loro dimensioni assolute, e che fornisce la possibilità di considerare come normale la variazione all’interno di ciò che costituisce il tipo. È possibile descrivere così le forme più diverse e giungere infine a identificarle nella struttura complessiva grazie alla costanza della loro posizione, procedendo così «in parte secondo il concetto, in parte in base all’esperienza». Si mostra in tal modo ancora una volta l’alternanza tra idea e dato osservato, caratteristica del suo metodo. 181 affinità con le ossa del cranio] Riferimento alla teoria della struttura vertebrale del cranio. 182 il carattere] quest’ultimo paragrafo rimanda, oltre che al valore dell’esperienza, ad un nuovo confronto con prospettive più generali, che possano assurgere al valore di norme o di «caratteri generali». 183 [Vorträge über die drei ersten Kapitel des Entwurfs einer allgemeinen Einleitung in die vergleichende Anatomie, ausgehend von der Osteologie. J.W. v. Goethe, Zur Morphologie, Bd. I, Heft 2 (1820), pp. 257-284. La presente versione si basa su LA I 9, pp. 193209. Datate al 1796, queste conferenze si riferiscono ai coevi studi di storia naturale, sull’azione della luce e sulla metamorfosi degli insetti. Il contenuto dei primi paragrafi è parallelo a quello dello Erster Entwurf (cfr. supra, pp. 207-210), ma a partire dal III capitolo l’argomentazione spazia sull’intera storia naturale, con vari riferimenti al regno minerale, e con un’esposizione della metamorfosi delle piante posta a confronto con la metamorfosi degli insetti. Rilevanti sono le considerazioni riferite ai momenti di transizione tra i regni naturali: tra minerali e piante la «forma che attesta la vita», tra piante e animali l’individuazione. In questa sede, tuttavia, Goethe aggiunge nuove definizioni della metamorfosi, e accoglie, entro la prospettiva comparatista, le ipotesi evolutiva ed epigenetica. Sviluppa inoltre dei criteri che individuano due possibili metamorfosi: una descritta come metamorfosi successiva (epigenetica), l’altra come simultanea (evoluzionista).] 184 Vantaggi [...] frappongono] rispetto alla formulazione dello Erster Entwurf si trovano qui aggiunti dei riferimenti alle opere sistematiche e alle nomenclature di Carl von Linné, nonché ai lavori di due naturalisti ed esploratori: Johann Reinhold Forster, Enchiridion historiae naturali inserviens, Halle 1788, e suo figlio Georg Forster, che ha curato il volume Bemerkungen über Gegenstände der physischen Erdbeschreibung, Naturgeschichte und sittlichen Philosophie auf seiner Reise um die Welt, Berlin 1783.

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anatomia] In Dichtung und Wahrheit si legge, a proposito degli studi di anatomia a Strasburgo: «l’anatomia possedeva ai miei occhi un doppio valore, poiché mi insegnava a sopportare la vista di oggetti ripugnanti mentre soddisfaceva la mia avidità di sapere» (LA II 9A, p. 263). 186 un pio desiderio] Georg Hieronymus Welsch aveva raccolto i suoi Desiderata medicinae nell’omonimo scritto: vi erano compresi una storia degli animali e delle piante, un sistema di anatomia animale e una nuova anatomia vegetale. 187 i loro scopritori] Gasparo Asellio scoprì i vasi linfatici, William Harvey la circolazione sanguigna, conducendo a tale scopo, nella prima metà del diciassettesimo secolo, delle ricerche di anatomia e fisiologia comparate su circa 50 specie animali. 188 l’azione reciproca] tale azione condiziona anche la dipendenza (correlazione) nella struttura, una delle leggi della morfologia, accanto al principio della compensazione costante. 189 iniziando dal basso] Goethe sottolinea costantemente l’errore di procedere, nella spiegazione degli esseri viventi, dal più complesso per illustrare il più semplice. Ancora nel 1831, Eckermann ricorda una conversazione (23.II.1831) in cui Goethe avrebbe affermato che, se nel regno minerale gli elementi più eminenti sono i più semplici, in quello organico vale il contrario, e le nature più eccellenti sono anche le più complesse. 190 grado di universalità] cfr. Eberhard August Wilhelm Zimmermann, Geographische Geschichte des Menschen und der allgemein verbreiteten vierfüßigen Tiere, 3 Bde., Leipzig 1778-1783. 191 somiglianze] In relazione allo sviluppo delle creature del regno animale, Denis Diderot, nei suoi Pensées sur l’interpretation de la nature, Paris 1754, aveva riassunto e accertato l’opinione di anatomisti e filosofi secondo cui, dalla somiglianza tra le funzioni e le parti fisiche dei quadrupedi è possibile dedurre l’esistenza di un loro modello originario e universale. 192 un unico modello] è qui indicata, con il riferimento al progetto strutturale generale immanente a tutti gli animali, un’ulteriore legge morfologica. Per indicare tale concezione, in particolare da quando Ernst Haeckel nel 1882 ha definito Goethe un importante precursore della teoria evolutiva darwiniana, si è fatto ricorso all’affermazione goethiana secondo cui «quotidianamente per mezzo della riproduzione» si verificano formazioni e trasformazioni costanti. Tuttavia, Goethe non fa riferimento alla formazione e trasformazione delle nature organiche, bensì all’oscillazione del modello o tipo, che resta però costante nelle sue componenti fondamentali: l’affermazione dunque non può che alludere a semplici modificazioni nella storia di un nesso specifico più o meno stretto. 193 Camper] Cfr. ad es. Petrus Camper, Deux Discours sur les analogies qu’il-y-a entre la structure du corps humain et celles des quadrupèdes des oiseaux et des poissons, 1778. 194 tipo] Ancora una volta Goethe esplicita le due possibili vie di avvicinamento alla definizione del tipo: l’esperienza e l’astrazione, che, in apparenza contraddittorie, confluiscono in realtà nella stessa idea. La semplice esigenza di un’alternanza di metodi si muta in una modalità rappresentativa complessa e stratificata, già in sé caratterizzata da una relazione di complementarità, dalla polarità tra unità e molteplicità, conformità a leggi e libertà: si tratta di una modalità rappresentativa che contrappone il genio del ricercatore a quello della natura produttrice. 195 metodi di comparazione] cfr. Johann August Unzer, Erste Gründe einer Physiologie der eigentlichen tierischen Natur tierischer Körper, Leipzig 1771; Samuel Thomas Sömmerring, Vom Bau des menschlichen Körpers, 6 Bde., Frankfurt 1796; Johann Friedrich Blumenbach, Geschichte und Beschreibung der Knochen des menschlichen Körpers, Göt185

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tingen 1786; Johann Gottlob Schneider, Historia amphibiorum naturalis et literariae, 2 Bde., Jena 1798. 196 comparazione tra le razze umane] cfr. i tentativi esposti in tal senso dagli anatomisti Blumenbach e Sömmerring, dai ricercatori ed esploratori Forster padre e figlio, nonché da Kant e Herder. 197 nel generale soffio vitale della natura] Proprio alla fine del Settecento il modello di rappresentazione della natura come una macchina o un orologio veniva sostituito dalla concezione della creazione quale organismo vivente. Goethe la condivide, pur con qualche cautela, e si attiene alla distinzione fondamentale tra natura animata e inanimata (cfr. in proposito Kuhn 1982). 198 La pianta] Sono qui illustrate le differenze tra la forma aperta delle piante e quella chiusa degli animali. 199 sostituire intere membra] Della rigenerazione delle parti del corpo degli animali inferiori si era occupato René Antoine Ferchault de Réaumur, che già nel 1712 aveva pubblicato dei saggi sulla ricostituzione delle code delle lucertole e delle chele dei gamberi. Abraham Trembley, negli anni 1741-1744 aveva condotto invece degli esperimenti con i polpi di acqua dolce, che furono in seguito ripetuti da molti ricercatori e anche da profani, e confermati anche nel caso dei vermi, delle stelle marine e dei molluschi. Tali ricerche servirono soprattutto a gettar luce sulla questione dello sviluppo individuale. Nell’ambito di una concezione puramente evoluzionistica, in base alla quale l’essere vivente si trova già compiutamente formato nell’uovo, non poteva trovare alcun posto la possibiltà della rigenerazione. 200 un solo organo] Gli organi che si sviluppano simultaneamente, che presentano un’identica forma o ripetono forme simili, come ad esempio le vertebre nei vertebrati, confluiscono nel progetto «che rende possibile il tipo», e che si mostra molto versatile nelle diverse specie animali. Tutte le trasformazioni che si verificano nel processo di metamorfosi e nel tipo danno adito ad una considerazione morfologica, nell’ambito della quale è possibile derivare, grazie alla comparazione tra elementi simili, ciò che non è più riconoscibile come simile (e dunque deve essere definito dissimile) mediante il passaggio attraverso membra intermedie simili. 201 [Wirkung des Lichts auf organische Körper im Sommer 1796. I manoscritti relativi a questi testi si trovano nel Nachlass Goethe a Weimar, sono di mano dello scrivano Johann Ludwig Geist e del giardiniere Friedrich Gottlieb Dietrich, con correzioni di Goethe, e sono stati stampati per la prima volta in WA II 7, pp. 310-341, in una successione diversa da quella qui riprodotta; la presente versione si basa sul testo di LA I 10, pp. 145-167. I saggi riguardo all’azione della luce sulla crescita delle piante costituiscono registrazioni di osservazioni che Goethe aveva condotto tra i mesi di giugno e agosto del 1796 sulla germinazione e crescita delle piante al variare delle condizioni esterne, servendosi dell’aiuto del giovane giardiniere Friedrich Gottlieb Dietrich (1765-1850), che aveva già accompagnato Goethe a Karlsbad nel 1785. Analizzando il rapporto di dipendenza degli organi delle piante annuali dalla luce e dal buio, dall’ambiente secco e da quello umido, l’autore definisce le reazioni della pianta nel suo complesso e l’autonomia delle sue parti, ribadendo la propria convinzione per cui l’unità di nodi, germogli e foglie è in grado di comportarsi come un individuo, e che nel suo insieme la pianta consiste di un numero di unità vegetali autonome moltiplicabile a piacere. La concezione della luce come «stimolo» e «materia» allude da un lato agli effetti morfogenetici della luce, dall’altro al suo influsso sull’assimilazione, anche se Goethe non è in grado di dimostrarlo in modo più preciso. Riferendosi al fatto che nella pianta nulla

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costituisce una «provvista», l’autore si congeda dalla concezione di una preformazione legata alla materia. In seguito Goethe raccolse i risultati di queste ricerche nella sezione didattica dell’opera Zur Farbenlehre, al capitolo LI dedicato alle piante (cfr. in part. i §§ 618-621).] 202 dal mio saggio sulla metamorfosi delle piante] Nel saggio sulla metamorfosi Goethe non aveva integrato le concezioni qui riportate, rilevanti soprattutto in riferimento all’individuazione delle piante e alla loro ontogenesi. 203 [Entomologische Studien. I manoscritti relativi, di mano dello scrivano Johann Ludwig Geist e con integrazioni di mano dell’autore, si trovano nel Nachlass di Goethe a Weimar e sono stati pubblicati per la prima volta in WA II 6, pp. 415445, secondo una disposizione differente. La presente versione si basa sul testo di LA I 10, pp. 168-193. Le osservazioni registrate sono datate all’estate del 1796, e sono dunque coeve agli esperimenti riguardo all’azione della luce sulla crescita delle piante. Si trovano tuttavia, nei diari e nelle lettere, testimonianze di un costante interesse per simili osservazioni fino al 1802.] 204 3 linee] le unità di misura sono probabilmente francesi, come nel saggio Wirkung des Lichts: la linea misura circa 0,22 cm, il pollice 2,66 cm. 205 Lionet] cfr. Pierre Lionet, Traité anatomique de la Chenille qui ronge le bois de Saule, La Haye 1760. 206 cambiamento di pelle] Nella scienza naturale dell’epoca di Goethe tale fenomeno rivestiva un ruolo particolare, tra le manifestazioni vitali degli animali, quale indizio di attività vitale. 207 Donndorf] Johann August Donndorf, Handbuch der Tiergeschichte, Leipzig 1793. 208 coobare] riferimento al processo di condensazione dei succhi. 209 Martinet] Johann Florentius Martinet, De la respiration des Chrysalides, Leiden 1773. 210 Geof­froy] Étienne Louis Geof­froy, Histoire abrégée des Insectes, qui se trouvent aux environs de Paris, 2 Bde., Paris 1762-1764. 211 [Naturhistorische Studien. I manoscritti relativi a questo gruppo di testi si trovano nel Nachlass di Goethe a Weimar; pubblicati per la prima volta in WA II 6, pp. 402-404, sono qui tradotti in base alla versione presente in LA I 10, pp. 194-196. Molto vicine alle osservazioni contenute negli Studi entomologici, queste annotazioni sono datate alla primavera del 1797.] 212 [Pathologisches Präparat. Il manoscritto relativo si trova nel Nachlass di Goethe a Weimar. Pubblicato per la prima volta nella Ausgabe letzter Hand, Bd. 43, pp. 116118 (Reise in die Schweiz, a cura di Johann Peter Eckermann), è qui tradotto in base al testo di LA I 10, pp. 197 sg. Le osservazioni qui registrate nella grafia di Johann Ludwig Geist, che accompagnava Goethe durante il suo viaggio in Svizzera, si riferiscono all’autunno del 1797.] 213 [Morphologie. Il manoscritto, redatto su un foglietto nella grafia di Goethe, si trova nel Nachlass di Goethe a Weimar. Pubblicato per la prima volta in WA II 6, p. 446; la presente versione segue LA I 10, p. 128. Non è possibile stabilire dei criteri per una datazione certa; tracce di colla sul retro del foglio hanno indotto a ritenere che Goethe l’avesse apposto sul frontespizio di uno dei quaderni Zur Morphologie. Il termine «morfologia» è stato introdotto da Goethe nella scienza naturale; esso si trova in realtà per la prima volta nella Propedäutik zum Studium der gesamten Heilkunst, Leipzig 1800, del medico Karl Friedrich Burdach (1776-1847), anche se inteso in senso tecnico specifico. Goethe annota la parola «Morphologie» nel

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suo diario alla data del 25.IX.1796, e alcune settimane dopo, il 12.XI.1796, scrive a Schiller: «Grazie all’immediato contatto con la montagna e grazie al laboratorio minerale di Voigt, in questo periodo sono stato ricondotto a studiare il regno minerale. Sono molto contento di aver rinnovato queste osservazioni, anche se in modo del tutto casuale, poiché senza di esse la famosa Morfologia non sarebbe affatto completa. Questa volta ho tratto da queste nature alcune buone intuizioni, che avrò occasione di comunicare.» Schiller rispondeva il giorno successivo, rallegrandosi di poter presto ascoltare le «nuove scoperte riguardo alla morfologia», dunque sembra che all’epoca di questo scambio il concetto di ‘morfologia’ possedesse già un proprio particolare significato. Il fatto, poi, che la «famosa Morfologia» sarebbe stata incompleta senza gli studi di mineralogia induce a ritenere che a quest’altezza cronologica Goethe stesse elaborando una morfologia come teoria della forma che abbracciasse tutti i fenomeni storico-naturali, di tipo sia organico che inorganico, e non fosse limitata all’indagine delle singole nature organiche. È dunque verosimile che questo breve testo risalga alla metà degli anni Novanta.] 214 A partire dai primi elementi] Allusione alla successione graduale e costante delle manifestazioni naturali, in cui è inserito anche l’uomo, con le sue facoltà intellettive e immaginative, in quanto «manifestazione spirituale» entro tale successione. 215 al nostro senso esterno e interno] è possibile che il riferimento sia alle forme a priori del senso esterno e interno definite da Kant; l’autore allude qui però anche al fatto che le possibilità cognitive dell’uomo si realizzano all’interno della natura. 216 [[Ordnung des Unternehmens] Il manoscritto, di mano di Johann Ludwig Geist e con correzioni di Goethe, si trova nel Nachlass di Goethe presso l’Archivio di Weimar ed è stato pubblicato per la prima volta in WA II 6, pp. 300-308. La presente versione segue LA I 10, pp. 129-134. Il nesso che questo e i testi seguenti mostrano con i lavori preliminari per i Propyläen consentono di proporre una datazione al 1798. Probabilmente le annotazioni qui registrate erano state concepite come appunti per delle conferenze. Goethe trae dai Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft di Kant (Riga 1786; Goethe ne acquistò una copia nel 1797) i criteri della distinzione tra gli effetti naturali «atomistici», riferiti alla materia, e quelli «dinamici», caratterizzati invece dall’azione di forze. L’atomismo e il dinamismo, in relazione alla concezione dualistica della natura, concordavano anche con la prospettiva filosoficonaturale di Schelling.] 217 più che lo sguardo sensibile] allusione al «vedere con gli occhi della mente», (per cui cfr. supra, p. 225) e allo sguardo verso il tipico. 218 a seconda delle diverse nature degli uomini] Tramite la «consapevolezza» della prospettiva metodologica adottata si delimitano gli elementi oggettivo e soggettivo della ricerca e dell’esposizione. In una lettera a F.H. Jacobi del 17.X.1796 Goethe tratteggiava brevemente il percorso che lo aveva indotto a porsi non più come un «rigido realista» nell’indagine della natura e affermava che dipende dalla formazione soggettiva il fatto che «si comprenda un oggetto nel modo più puro e profondo possibile, senza restare vincolati in forme rappresentative mediocri o addirittura in luoghi comuni». 219 Trattazione genetica] Goethe si lega ancora alle riflessioni condotte a proposito del tipo, e ribadisce la necessità di osservare il divenire della natura nel suo complesso, la sua storia e il suo sviluppo. 220 serie di gradi] riferimento all’ordinamento graduale della natura e alla massima natura non facit saltus, principio della continuità naturale sostenuto da Leibniz e confermato da Linné. 221 sviluppato dal seme] in senso evoluzionista ed epigenetico, come nelle ipotesi

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enunciate in ambito botanico (cfr. supra, p. 92) e nella Betrachtung über Morphologie (p. 329). 222 la pianta era considerata come un’unità] Goethe ha in mente, qui come nella teoria della metamorfosi, i problemi dell’individuazione, dell’accrescimento per moltiplicazione (vegetativo) e per riproduzione (generativo). 223 dualismo della natura] Goethe stilò una tabella con la rappresentazione del dualismo dei fenomeni, in cui, come i poli di un magnete, avevano parte «luce e buio, corpo e anima, spirito e materia, Dio e mondo, pensiero ed estensione, ideale e reale, sensibilità e ragione, fantasia e intelletto.» (WA II 11, pp.164-165) 224 pianta] In ambito botanico sono descritti come polarità gli elementi della radice e del germoglio, le condizioni dell’oscurità e della terra di contro a quelle della luce e dell’aria, le superfici superiore e inferiore delle foglie, nonché i due sessi. 225 [Vorarbeiten zu einer Physiologie der Pflanzen. Il manoscritto relativo si trova nel Nachlass di Goethe a Weimar ed è stato pubblicato per la prima volta in WA II 6, pp. 286 sg. La presente versione si basa su LA I 10, pp. 135 sg. La grafia è di Friedrich Wilhelm Schumann, scrivano assunto da Goethe alla metà degli anni Novanta, ma non sono noti altri dettagli della genesi di questo studio, rimasto allo stadio di frammento, in cui l’autore cerca di formulare leggi sulle condizioni della formazione delle piante. Con il termine «fisiologia» si allude, al di là della sistematica e della morfologia, alla determinazione delle forze che condizionano la crescita delle piante, a livello individuale e specifico.] 226 una legge duplice] Oltre che al principo morfologico, tali «leggi» rimandano ad un principio generale della vita, che Goethe applicò anche allo sviluppo umano. Si veda in proposito Dichtung und Wahrheit (Bd. 14, S. 971 f.). 227 [Allgemeines Schema zur ganzen Abhandlung der Morphologie. Il manoscritto si trova nel Nachlass di Goethe a Weimar, è di mano di Johann Ludwig Geist con correzioni di Goethe, ed è rilegato insieme alla Betrachtung über Morphologie. È stato stampato per la prima volta in WA II 6, pp. 319 sg., e in questa sede si segue il testo di LA I 10, pp. 136 sg. Non sono noti dettagli della genesi di questo testo, che presuppone tuttavia le definizioni esposte negli scritti qui pubblicati come immediatamente precedenti.] 228 loro prodursi l’uno accanto all’altro] riferimento alla germinazione osservata negli infusori (cfr. ad es. supra, p. 53). 229 loro procedere l’uno dall’altro] riferimento ad un’apparente trasformazione (cfr. supra, p. 44: «granelli di muffa sembrano divenuti trasparenti e trasformati in infusori»). 230 Bazin] Gilles-Augustin Bazin, medico a Strasburgo; nell’opera qui citata sono poste a confronto le strutture e le funzioni di piante e animali, con particolare attenzione ai processi di nutrizione e di respirazione. 231 tutte queste creature] considerate in base alla loro rispettiva posizione all’interno del sistema; al punto 10. il riferimeno è ai vertebrati. 232 [[Betrachtung über Morphologie] Il manoscritto si trova nel Nachlass di Goethe a Weimar, i fogli sono di mano di Johann Ludwig Geist e presentano correzioni di Goethe e di Riemer; sono legati insieme ai fogli del testo precedente. Stampato per la prima volta in WA II 6, pp, 288-299; la presente versione segue LA I 10, pp. 137-144.] 233 delimitazione del campo] Verso la fine del diciottesimo secolo si stava affermando una progressiva specializzazione in ambito scientifico, che esigeva nuove suddivisioni tra le discipline fino a quel momento tramandate. Tradizionalmente la scienza della natura si articolava in teoria della natura (che comprendeva le discipline teoretiche come la matematica applicata e la fisica) e storia naturale (di cui facevano parte le discipline descrittive come la geognosia, la zoologia e la

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botanica). Accanto ad esse iniziavano a costituirsi altre discipline: entro il campo della medicina la chimica e la botanica quali fondamenta della farmacia, l’anatomia come base per la patologia e la fisiologia a fondamento della terapia. Scienze di carattere classificatorio, particolarmente importanti nel Settecento come discipline ordinatrici, tra cui la sistematica e la terminologia, vedevano gradualmente ridimensionato il loro ruolo e subordinato a quello di scienze ausiliarie. La fisiologia, originariamente identificata (in quanto physiologia) con la disciplina-guida dell’intera scienza naturale, iniziava ad impegnarsi nell’indagine delle forze che nella natura organica presiedono alle funzioni e allo sviluppo degli esseri viventi, e tuttavia non era ancora giunta ad una precisa definizione. 234 palingeneticamente] il concetto di palingenesi era in uso durante il Settecento, in particolare in riferimento alla questione dell’immortalità dell’anima. Bonnet e Herder lo applicarono anche in relazione alle scienze naturali, e in questa sfera rimase rilevante anche durante il Romanticismo (cfr. in proposito Unger 1924). 235 Zoonomia] Definita da Erasmus Darwin nell’opera Zoonomie oder Gesetze des organischen Lebens, übers. von J.D. Brandis, 3 Bde., Hannover 1795-1799. Egli pensava la «particolare forza fisica» degli organismi viventi come una forza interna che nel corso della storia della terra fornisce l’impulso ad un superiore sviluppo individuale ed ereditario. Goethe amplia poi questa definizione (cfr. pp. 335 sg.). 236 [[Morphologie als Wissenschaft] Il manoscritto relativo, di mano di Johann Lud­ wig Geist, si trova nel Nachlass di Goethe a Weimar ed è stato pubblicato per la prima volta in WA II 12, pp. 241-244. La presente versione si basa su LA II 9B, pp. 45 e 47-49. I fogli del manoscritto si trovano entro un fascicolo su cui Goethe ha posto la titolatura «Propyläen / Saggi preliminari e altro. / 1800». Si tratta prevalentemente di lavori preliminari e progetti privi di revisione da parte dell’autore, probabilmente impiegati come schemi preliminari per la Betrachtung über Morphologie, oppure come sintesi di questo scritto, destinata alla pubblicazione nei Propyläen. Indicando una classificazione relativa delle varie scienze, Goethe considera l’«anatomia comparata» fondata sulla morfologia, e anche la «semiotica» e la «fisiognomica» sono inserite nell’ambito delle scienze considerate. La «fisiologia» assume un ruolo preminente, discostandosi così dalle altre discipline al punto da non presentare alcuna relazione con esse.] 237 forza riproduttiva nelle parti] facoltà di sostituire o restituire interi organi, propria sia delle piante che degli animali inferiori. 238 dal verme solitario fino alla colonna vertebrale del mammifero] allusione al fenomeno per cui sezioni simli si susseguono ripetendosi nello sviluppo longitudinale dell’organismo vivente. 239 forme oscillanti] nel testo «schwankende Gestalten», come nella celebre Dedica («Zueignung») del Faust: «Ihr naht euch wieder, schwankende Gestalten [...]». In ambito scientifico-naturale l’autore allude così a quelle specie che non si lasciano ordinare in una rigida classificazione sistematica. 240 Agli studiosi di semiotica e di fisiognomica] La semiotica e la fisiognomica sono considerate qui come scienze che tematizzano le caratteristiche esteriori in base alle quali è possibile riconoscere lo stato di salute, fisiologico e sano, e quello patologico. 241 aperçus intellettuali e geniali] Il saggio si interrompe proprio al punto in cui era previsto il passaggio dalla natura all’arte. Nella Einleitung ai Propyläen si legge: «Un enorme abisso separa la natura dall’arte; un abisso che neppure il genio, se privo di ausilii esterni, è in grado di colmare.» 242 [[Die Negation des Wortes organisch]. Il testo è apparso sulla «Jenaische Allgemeine Literatur-Zeitung (JALZ), Intelligenzblatt Nr. 51, 13.V.1805, p. 334. Si segue qui il testo pubblicato in LA I 10, p. 199.

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Nel 1803 la redazione della «Allgemeine Literatur-Zeitung», composta di un buon numero di autorevoli professori, si era trasferita da Jena ad Halle, causando una considerevole perdita intellettuale per la cittadina universitaria sassone. Per riparare al più presto una simile lacuna, Goethe promosse la fondazione di una nuova rivista con sede a Jena, e a partire dal 1804, sotto la redazione del filologo Heinrich Karl Abraham Eichstädt (1772-1848), si iniziò a pubblicare la «Jenaische Allgemeine Literatur-Zeitung», a cui occasionalmente lo stesso Goethe contribuì con articoli sulla morfologia. Il presente breve scritto è tramandato anche in un manoscritto frammentario di mano di Riemer nel Nachlass di Goethe. L’autore riflette sull’uso del termine «anorgico», che compare in un contributo di Schelling e Henrik Steffen nella JALZ del 1.V e 10.VI.1805. Probabilmente Goethe si è valso dell’aiuto del filologo Friedrich Wilhelm Riemer (1774-1845), che dal 1803 era precettore di suo figlio. Si tratta di una testimonianza dell’attenzione con cui Goethe guardava alla letteratura scientifica, nonché del costante scrupolo critico con cui ne considerava gli usi linguistici.] 243 [Berlin: Ideen zu einer Physiognomik der Gewächse von Alexander von Humboldt. JALZ Nr. 62, 14.III.1806, coll. 489-492; la presente versione si basa sul testo di LA I 10, pp. 199-204. Non si conservano versioni manoscritte, ma un’ulteriore stampa è apparsa nella Ausgabe letzter Hand, Bd. 33, pp. 138-145. Il 6.II.1806 Alexander von Humboldt aveva inviato a Goethe il suo «piccolo saggio» con una dedica manoscritta; dopo aver ricevuto il plico il 22 febbraio, il 26 dello stesso mese Goethe lo spediva ad Eichstädt perché fosse pubblicato sulla JALZ, trovandosi concorde con le opinioni e i metodi dell’autore di quel breve scritto, che trattava della geografia delle piante, secondo quanto anche Herder aveva auspicato nella sua opera Ideen («Wunsch einer allgemeinen botanischen Geographie», Bd. 2, Kap. 2).] 244 viaggio] Nel settembre 1804 Alexander von Humboldt era tornato da una spedizione in Sudamerica; l’imponente resoconto di viaggio, che comprende l’esposizione dei risultati delle ricerche condotte in quell’occasione, fu pubblicato in 30 volumi a Parigi, Tübingen e Stuttgart fino al 1834. 245 lo studio botanico, così faticoso e scrupoloso] Allusione alla determinazione sistematica e all’ordinamento classificatorio delle singole piante in base a «leggi esatte e pertinenti, anche se spesso arbitrarie» (cfr. p. 418), che Goethe non smise mai di criticare. 246 Linné [...] Jussieu] Goethe caratterizza con tali riferimenti il passaggio dalla considerazione sistematica artificiale a quella naturale in ambito botanico, nonché l’ulteriore via, tracciata da Humboldt, verso una tipologia o una fisiognomica delle piante. 247 [[Cottas Naturbeobachtungen] JALZ, Intelligenzblatt Nr. 97, 22.XII.1806, coll. 796 sg. Si segue qui il testo di LA I 10, p. 204. Esiste una versione manoscritta, redatta da Riemer, in un taccuino di appunti di Goethe conservato nell’Archivio di Weimar. Le osservazioni di Goethe si riferiscono a: Heinrich Cotta, Naturbeobachtungen über die Bewegung und Funktion des Saftes in den Gewächsen, mit vorzüglicher Hinsicht auf Holzpflanzen, Weimar 1806. In base ai diari, Goethe ricevette questo scritto il 20.VI.1806 e il 9.X. consegnò la «nota» qui riprodotta. Il guardaboschi Heinrich von Cotta (1763-1844) è ritenuto il fondatore della scienza forestale, e, in quanto ufficiale di Weimar, conosceva personalmente Goethe. I suoi accurati lavori sull’anatomia degli alberi contribuirono alla conoscenza delle formazioni istologiche.] 248 S.S.] non è chiaro il significato di questa sigla. 249 [Gall. Il manoscritto relativo, autografo, si trova nel Nachlass di Goethe a Wei-

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mar, ed è stato stampato per la prima volta in WA II 12, p. 170. Si segue qui il testo di LA II 9B, pp. 56 sg. Non vi sono indizi per una datazione sicura, ma l’interesse di Goethe per i lavori del celebre studioso del cervello e del cranio Franz Joseph Gall (1758-1828) è stato particolarmente vivo durante il periodo in cui quest’ultimo realizzò dei giri di conferenze nell’Europa occidentale, che negli anni 1805-1807 destarono molto scalpore. Il presente breve schizzo, dunque, può porsi in rapporto con i contributi di Goethe alla JALZ. La teoria di Gall, indicata con il nome di frenologia, si basa sull’assunto per cui il carattere di un uomo si potrebbe derivare dalla conformazione delle ossa del cranio. Probabilmente l’interesse di Goethe è stato suscitato dalla prossimità che una simile teoria, nota fin dal 1798, mostrava rispetto alla fisiognomica di Lavater. Goethe ascoltò delle lezioni di Gall a Halle nell’estate del 1805, ed era divenuto tanto familiare con la controversa dottrina di Gall che una sua recensione sfavorevole, apparsa nel marzo del 1806 sulla JALZ, lo offese gravemente. È probabile che le notizie biografiche accennate nel presente scritto risultino da conversazioni che l’autore ebbe con Gall, poiché non è possibile rintracciare alcuna fonte a stampa. Negli Annalen del 1805 Goethe ha annotato le sue impressioni a proposito delle lezioni ascoltate a Halle.] 250 [Das Unternehmen wird entschuldigt. Die Absicht eingeleitet. J.W. v. Goethe, Zur Morphologie, Bd. I, Heft I (1817), pp. v-xiv. Si segue qui la versione presente in LA I 9, pp. 5-10. Il manoscritto che deve essere servito come modello per la stampa non è conservato. Secondo una testimonianza di Riemer datata 6.XI.1806, in questa stessa data Goethe avrebbe iniziato a stendere uno «schema e una introduzione alla morfologia». Lo schema redatto da Riemer si trova invece nel Nachlass di Goethe. Secondo il diario dell’autore, il 6.XII.1806 egli stava «proseguendo l’introduzione alla Morfologia», dunque la data «Jena, 1807» si riferisce alla prevista pubblicazione del lavoro, che avvenne tuttavia soltanto dieci anni dopo, nel 1817. I due brevi scritti espongono le prospettive metodologiche di Goethe, la sua definizione e classificazione della morfologia come scienza. Vi si trova anche una velata critica alla filosofia della natura dei romantici. Nella seconda sezione, poi, la morfologia è caratterizzata come teoria della formazione e trasformazione.] 251 coloro che si dedicano alla conoscenza e al sapere] segue una caratterizzazione delle posizioni empirista e idealista, ascritte ai tipi caratteriali (cfr. Principes de Philosophie Zoologique, pp. 817-845). 252 le ore di pericolo appena trascorse] si riferisce al saccheggio subìto dalla città di Weimar il 14.X.1806, dopo la battaglia di Jena. 253 Nella parte storica] Parallelamente alla Geschichte der Farbenlehre, Goethe intendeva comporre anche una storia della morfologia, che l’autore fece confluire soltanto nelle sezioni autobiografiche dei testi intitolati: Der Verfasser teilt die Geschichte seiner botanischen Studien mit, Geschichte meines botanischen Studiums e nei Principes de Philosophie Zoologique. 254 Ogni essere vivente] Si trovano qui esposti i princìpi, già trattati in scritti precedenti, della individuazione, dello sviluppo, della riproduzione, del tipo e della relazione con l’ambiente naturale. 255 le piante e gli animali] Goethe riteneva che la determinazione che conduce alla formazione delle piante tramite la luce e a quella degli animali mediante il buio fosse fondata sulla peculiarità delle piante, che hanno bisogno della luce del sole per assimilare il nutrimento. Il processo della nutrizione e della respirazione distinguono al fondo piante e animali, al pari della loro costituzione, come aveva notato Schelling (Von der Weltseele). 256 un sopra e un sotto] Parallelo della polarità nell’ambito dei fenomeni fisici e chimici. 257 [Botanische Vorträge. Il manoscritto relativo, di mano di Riemer, si trova nel Nach-

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lass di Goethe a Weimar ed è stato pubblicato per la prima volta in WA II 12, pp. 165-167. La presente versione segue il testo di LA II 9B, p. 69. Dal diario di Goethe risulta che l’autore tenne a Weimar, dal 1.IV alla fine di maggio del 1807, delle conferenze di argomento botanico per un piccolo gruppo di amatori non specialisti.] 258 [[Pietra fungaja] Il manoscritto si trova nel Nachlass di Goethe a Weimar, redatto da Riemer. Lo stesso contenuto del breve scritto si trova in una lettera dell’autore a Knebel datata 20.X.1810. Pubblicato per la prima volta in WA II 7, pp. 371 sg., la presente versione si basa su LA I 10, p. 205.]

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Morfologia volume II a cura di Giovanna Targia

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© 2013 Nino Aragno Editore sede legale via San Francesco d’Assisi, 22/bis - 10121 Torino sede operativa strada Santa Rosalia, 9 - 12038 Savigliano ufficio stampa tel. 02.34592395 - fax 02.34591756 e-mail: [email protected] sito internet. www.ninoaragnoeditore.it

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Indice

VOLUME II Quaderni sulla morfologia. Primo volume (1817-1822)

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Giustificazione dell’impresa. Esposizione degli scopi Premessa al contenuto La metamorfosi delle piante [Sulla metamorfosi delle piante] Storia dei miei studi botanici; Genesi del saggio sulla metamorfosi delle piante; Vicende del manoscritto; Vicende del testo a stampa Scoperta di un eccellente precursore Caspar Friedrich Wolff sulla formazione delle piante Alcune osservazioni Lieto evento Parole originarie, orfiche

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Intermezzo Influenza della filosofia recente Giudizio della intuizione Esitazione e rassegnazione Impulso alla formazione [A proposito dello scritto sulla metamorfosi] Tre recensioni favorevoli; Altre attestazioni amichevoli; Rielaborazioni e raccolte

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Primo abbozzo di un’introduzione generale all’anatomia comparata, fondata sull’osteologia Ἀϑροισμός All’uomo, come agli animali, è da ascrivere un osso intermedio della mascella superiore [Sull’anatomia comparata] [Estratti da scritti vecchi e nuovi] [Supplementi] Conferenze sui primi tre capitoli dell’abbozzo di un’introduzione generale all’anatomia comparata, fondata sull’osteologia Polverizzazione, evaporazione, gocciolamento Appello amichevole [Esclamazione risentita] Introduzione [Aforismi] Botanica [Appello per l’unità di intenti] [Difficoltà nell’insegnamento della botanica] Singolare guarigione di un albero gravemente ferito; Schema di un saggio sulla coltura delle piante nel Granducato di Weimar Zoologia Nota alla pagina 292, a proposito della polverizzazione; Analogon della polverizzazione I bradipi e i pachidermi, illustrati, descritti e comparati dal dr. E. d’Alton Dr. Carus: Delle parti originarie della struttura del guscio e delle ossa Toro fossile Tavola che raffigura la natura organica nella sua distribuzione sulla Terra, dipinta da Wilbrand e Ritgen, litografata da Päringer Storia della vita e delle forme del mondo vegetale di Schelver Prosecuzione delle osservazioni a pagina 315

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Quaderni sulla morfologia. Secondo volume (1823-1824) Sul secondo quaderno di morfologia di Wilhelm von Schütz Considerazioni riguardo ad una raccolta di avorio patologico Problema e replica Problemi; Replica Importante incoraggiamento, ricevuto grazie a un unico giudizio acuto Sull’esigenza di illustrazioni di argomento storico-naturale in generale e osteologico in particolare [Predatori e ruminanti illustrati, descritti e comparati dal dr. E. d’Alton] [Riflessione generale] Tavola che raffigura la natura organica nella sua distribuzione sulla Terra, dipinta da Wilbrand e Ritgen, in Giessen Friedrich Siegmund Voigt, consigliere aulico e professore a Jena: Sistema e storia della natura, Jena 1823 Sul luppolo e la sua malattia, detta fuliggine I lepadi Ernst Stiedenroth, Psicologia volta alla spiegazione dei fenomeni psichici. Prima parte, Berlino 1824 Specimen anatomico-pathologicum inaugurale de labii leporini congeniti natura et origine, auctore Constant. Nicati, 1822 La struttura del cranio costituita da sei vertebre Secondo toro preistorico Osteologia comparata A) Ossa pertinenti all’apparato uditivo; [B] Ulna e radio [C] Tibia e fibula Gli scheletri dei roditori, illustrati e comparati da d’Alton Genera et species palmarum, del dr. C. F. von Martius. Fasc. I e II, München 1823

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indice

Frammenti sulla morfologia (1817-1826) Dilatazione [Un ginepro nel giardino di Goe­the] Craniologia Bryophyllum calycinum [I] Sulla polverizzazione [Inserzione per Mursinna] Una pretesa ingiusta A proposito dell’opera di Martius sulle palme [Variabilità delle razze] Foglia e radice A proposito di due radici emetiche Bryophyllum calycinum [II]

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Studi sulla morfologia a partire dal 1828 [Note per un saggio sulla viticoltura] [Introduzione] [La vite] Schema per un saggio sulla viticoltura Sulle leggi della formazione delle piante Visione estetica delle piante Metamorfosi poetiche Monografie fondate sulla morfologia [Bignonia radicans] Gesneria flacourtifolia; Rhus cotinus; Cissus [Anthericum comosum] Rapa ranuncola mostruosa [Aggiunte alla metamorfosi delle piante] [Decorso della metamorfosi] Annotazioni al 15o paragrafo della mia Metamorfosi delle piante, su sollecitazione del signor Ernst Meyer di Königsberg; Sul § 15 della Metamorfosi; Singoli aspetti destinati alle annotazioni Vita e meriti del dottor Joachim Jungius, rettore ad Amburgo [Ulteriori studi su Jungius]

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Edizione franco-tedesca del saggio sulla metamorfosi delle piante (1831) La metamorfosi delle piante I. L’autore comunica la storia dei suoi studi di botanica II. Influenza di questo scritto e ulteriori sviluppi dell’idea esposta III. Sulla tendenza a spirale Appendice

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Ultimi saggi sulla morfologia fino al 1832 [Sulla tendenza a spirale] A proposito dell’osso intermascellare dell’uomo e degli animali Principes de Philosophie Zoologique discutés en Mars 1830 au sein de l’Académie Royale des Sciences par Mr. Geof­froy de Saint-Hilaire [Prima sezione] [Seconda sezione] Anatomia plastica

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Quaderni sulla morfologia Primo volume (1817-1822) esperienza, analisi, deduzioni, legate da avvenimenti della vita Formazione e trasformazione delle nature organiche



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Vedi, trascorre davanti a me prima che io me ne accorga, e si muta prima che io l’osservi. Giobbe1.

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Giustificazione dell’impresa Esposizione degli scopi

[Essendo stati composti già nel 1807, i due saggi con cui Goethe aveva iniziato i quaderni Sulla Morfologia si trovano alle pp. 357-363 del presente volume, ordinati nella successione cronologica dei lavori di Goethe.]

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Premessa al contenuto2

Della presente raccolta è stato stampato solo il saggio sulla metamorfosi delle piante, che, apparso singolarmente nel 1790, ha ottenuto un’accoglienza fredda e quasi ostile. Tuttavia una simile avversione3 era del tutto naturale: la teoria dell’inscatolamento4, il concetto di preformazione, di sviluppo successivo di ciò che è presente fin dai tempi di Adamo, si erano impadroniti in generale perfino delle menti migliori; inoltre Linné 5, con la forza del suo ingegno, determinante e decisiva, aveva dato l’avvio ad un modo di vedere più conforme allo spirito dell’epoca, con particolare riferimento alla formazione delle piante. I miei onesti sforzi sono rimasti dunque senza effetto, e, appagato per aver trovato un filo conduttore lungo il mio personale, tranquillo percorso, ho osservato semplicemente con maggiore attenzione il rapporto, l’azione reciproca dei fenomeni normali e anormali, ho registrato con precisione ciò che l’esperienza generosamente mi offriva volta a volta, e ho trascorso un’intera estate ad attuare una serie di esperimenti6 che dovevano insegnarmi come l’eccesso di nutrimento renda impossibile la fruttificazione, e come una diminuzione di alimento tenda invece ad accelerarla. Avendo a disposizione una serra che potevo illuminare od oscurare a mio piacere, me ne sono servito per apprendere l’azione della luce sulle piante; mi sono occupato principalmente dei fenomeni dell’impallidimento e dello sbiancamen-

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to, e ho allo stesso tempo attuato esperimenti con dei dischi di vetro colorato. Dopo aver così raggiunto un’abilità sufficiente per giudicare nella maggior parte dei casi le variazioni e trasformazioni del mondo vegetale, e per riconoscere e derivare la successione delle forme, ho avvertito l’esigenza di studiare più da vicino anche la metamorfosi degli insetti7. Questo non era negato a nessuno: il ciclo vitale di tali creature coincide con una trasformazione ininterrotta, che è possibile osservare e toccare da vicino. Le conoscenze che avevo acquisito in precedenza, frutto di molti anni di allevamento dei bachi da seta, mi erano rimaste, e le ho ampliate osservando vari generi e specie, dall’uovo alla crisalide, e facendoli raffigurare in illustrazioni di cui mi sono rimasti i fogli più preziosi. In questo campo nulla contraddiceva ciò che ci è stato trasmesso dagli scritti precedenti, e ho dovuto unicamente sviluppare uno schema in forma di tabella, in cui ordinare in sequenza le singole esperienze, per poi poter giungere ad una chiara visione d’insieme del meraviglioso ciclo vitale di tali creature. Anche di questi sforzi cercherò di rendere conto, in modo del tutto imparziale, dal momento che la mia prospettiva non si oppone ad alcun’altra. Contemporaneamente a questi studi, la mia attenzione si volgeva all’anatomia comparata degli animali8, e in particolare dei mammiferi, una disciplina che suscitava già grande interesse all’epoca. Buffon e Daubenton 9 avevano lasciato importanti contributi, Camper era apparso come una meteora di spirito, scienza, talento e attività; Sömmerring si è dimostrato degno di ammirazione, Merck 10 ha rivolto a questi stessi oggetti i suoi sforzi, sempre vivaci; con tutti e tre ho intrattenuto ottimi rapporti, epistolari con Camper, con gli altri due personali, e continui anche a distanza. Nel corso degli studi di fisiognomica11 ciò che doveva occupare volta a volta la nostra attenzione era l’importanza e la mobilità delle forme; anche in quest’ambito grazie a Lavater alcune cose erano state già dette ed elaborate. Più tardi, nei miei frequenti e prolungati soggiorni a Jena, ho avuto modo di approfondire, grazie alle instancabili doti didattiche di Loder 12, alcune questioni relative alla formazione animale e umana.

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È stato quel metodo già adottato nello studio delle piante e degli insetti a guidarmi anche per questa via: infatti, la formazione e trasformazione non potevano che giungere ad espressione volta a volta anche in questo caso grazie all’isolamento e alla comparazione delle forme. L’epoca in cui ciò avveniva, tuttavia, era più buia di quanto oggi non si possa immaginare. Si affermava, ad esempio, che dipendesse solo dall’uomo il fatto di camminare comodamente a quattro zampe, e che dunque gli orsi, se si mantenessero in posizione eretta per un certo tempo, potrebbero diventare uomini. L’audace Diderot13 si spinse addirittura a proporre un modo di produrre fauni dal piede caprino, per poi metterli in livrea come particolare ornamento e segno distintivo delle carrozze dei potenti e dei ricchi. Per lungo tempo non si è riusciti a scoprire la differenza tra gli animali e l’uomo14, e infine si è creduto di poter distinguere la scimmia da noi in modo decisivo tramite il fatto che essa porta i suoi quattro incisivi in un osso che è possibile realmente separare empiricamente; così la scienza oscillava, tra il serio e il faceto, tra i tentativi di confermare mezze verità e quelli di conferire agli errori una qualche apparenza, mantenendosi occupata in un’attività arbitraria e capricciosa. La maggior confusione però fu suscitata dalla disputa riguardo alla bellezza: se essa sia qualcosa di reale e inerente agli oggetti, oppure se debba ascriversi invece a chi la osserva e la riconosce, e sia dunque relativa, convenzionale, se non addirittura individuale. Nel frattempo io mi ero interamente dedicato all’osteologia; nello scheletro, infatti, ci è conservato, in modo certo e per l’eternità, il carattere decisivo di ogni forma. Ho raccolto dei fossili più e meno antichi, e durante i miei viaggi ho esaminato con attenzione in musei e gabinetti quelle creature la cui formazione poteva risultare istruttiva per me, nell’insieme o nel dettaglio. In tal modo ho avvertito presto la necessità di stabilire un tipo15 che costituisse il paragone di tutti i mammiferi, in base al quale analizzare concordanze e differenze; allo stesso modo in cui in passato ero andato in cerca della Urpflanze, la pianta originaria, mi ero così proposto di trovare l’Urtier, l’animale originario, vale a dire, in ultima analisi: il concetto, l’idea di animale.

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Le mie ricerche, così faticose e tormentose, furono alleviate e anzi addolcite nel momento in cui Herder 16 intraprese la stesura delle sue Idee per la storia dell’umanità. Le nostre conversazioni quotidiane vertevano attorno ai primi inizi dell’acqua-terra, e alle creature organiche che da tempo immemorabile ne sono scaturite. Discutevamo sempre delle origini prime e del loro evolversi incessante, e il nostro patrimonio di conoscenze scientifiche risultava di giorno in giorno affinato ed arricchito grazie al nostro vicendevole scambio e alla discussione. Allo stesso modo mi sono intrattenuto animatamente su tali argomenti anche con altri amici17, e tali conversazioni non sono certo rimaste senza effetto e vantaggio reciproco. Non è forse presunzione immaginare che molte delle idee che ne sono derivate, trapiantate grazie alla tradizione nel mondo scientifico, rechino adesso dei frutti di cui ci rallegriamo, anche se non sempre si cita esplicitamente il giardino che ha prodotto le barbatelle. Attualmente, dopo esperienze sempre più ampie e riflessioni filosofiche sempre più approfondite, è entrato nell’uso molto di ciò che all’epoca in cui sono stati scritti i presenti saggi era inaccessibile per me e per altri. Si consideri dunque storicamente il contenuto di queste pagine, anche quando lo si dovesse ritenere oggi superfluo, poiché esse valgono come testimonianza di un’attività silenziosa, costante e conseguente.

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La metamorfosi delle piante

[Il saggio, composto nel 1790 e già pubblicato in questo stesso anno, che Goethe ha fatto riprodurre per la seconda volta nei quaderni Sulla Morfologia, si trova nel presente volume indicato con il titolo originario Saggio di una spiegazione della metamorfosi delle piante, alle pp. 101-138, ordinato nella successione cronologica degli scritti di Goethe. Seguono qui i relativi saggi tratti dai quaderni Sulla Morfologia.]

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[Sulla metamorfosi delle piante]18

storia dei miei studi botanici Fin dal mio primo ingresso19 nel nobile circolo di vita weimariano, ho goduto dell’inestimabile privilegio di scambiare l’aria di casa e di città con un’atmosfera di campagna, di boschi e di giardini. Già il primo inverno mi recava le rapide gioie della caccia, per riposarsi dalle quali si trascorrevano lunghe serate non solo con i racconti di ogni sorta di meravigliose avventure della vita all’aria aperta, ma anche intrattenendosi sulle nozioni necessarie della silvicoltura. I circoli venatori weimariani, infatti, erano composti di eccellenti sovrintendenti forestali, tra i quali si ricorda ancora con ammirazione il nome di Sckell 20; giovani nobili, tra cui menziono il compianto Wedel 21, prematuramente scomparso, seguivano le stesse tracce. Era già stata completata una revisione di tutti i distretti forestali, fondata sulla misurazione, e da tempo si prevedeva una suddivisione dei tagli annuali. Anche la terra iniziava a ridestarsi sotto il profilo economico, e si tendeva a sviluppare la coltura dei foraggi, mentre i pascoli erano minacciati da alcune limitazioni; tra i proprietari terrieri, gli amministratori e i fittavoli si trovavano uomini riflessivi e di grande esperienza; la volontà e le aspirazioni si presentavano ovunque con grande freschezza, erano nuove e ricche di speranza. La città di Weimar possedeva inoltre un uomo degno della massima stima, sotto più di un rispetto: il dottor Buchholz 22, proprietario dell’unica farmacia, benestante e amante della

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vita, che rivolgeva la sua attività, con lodevole brama di sapere, alle scienze naturali, e si era scelto gli aiuti più validi, come ad esempio l’eccellente Göttling 23, raffinato chimico uscito da questa officina. Ogni nuova curiosità chimico-fisica, scoperta in patria o all’estero, era riprodotta sotto gli occhi del principale, e comunicata nel modo più liberale agli amici delle scienze. La stessa cosa accadde relativamente alla botanica, poiché Buchholz cercava di spaziare nell’intero dominio della scienza, pur partendo dall’ambito limitato delle piante officinali, e iniziò a coltivare anche nel suo giardino delle piante pregiate e all’epoca molto rare. L’attività di quest’uomo fu diretta ad un impiego più generale e didattico dal giovane principe 24, che si dedicava già precocemente alle scienze: egli adibì degli ampi e soleggiati giardini, situati nelle vicinanze di luoghi ombrosi e umidi, a istituti botanici, a cui offrirono con fervore i loro servigi anziani ed esperti giardinieri di corte. I cataloghi di tali istituti, tuttora conservati, testimoniano dello zelo con cui tali inizi erano perseguiti. In tali condizioni, anch’io fui indotto a cercare sempre maggiori delucidazioni riguardo alle mie conoscenze botaniche. La Terminologia di Linné25, i Fondamenta su cui doveva elevarsi l’edificio artistico, le dissertazioni di Johann Geßner a spiegazione degli Elementi di Linné: tutti questi testi, riuniti in un sottile quaderno, mi hanno accompagnato per strade e sentieri, e ancora oggi lo stesso quaderno mi ricorda i giorni freschi e felici in cui quei fogli ricchi di contenuti mi avevano per la prima volta dischiuso un nuovo mondo. La Filosofia botanica di Linné costituiva l’oggetto del mio studio quotidiano, e in tal modo procedeva sempre più la mia conoscenza e visione complessiva della natura, mentre cercavo di appropriarmi il più possibile di ciò che era stato trasmesso dalla tradizione. Ciò che mi accadde e il modo in cui una lezione così insolita agì su di me potrà risultare chiaro forse nel corso di queste comunicazioni; al momento però riconoscerò che su di me l’influenza maggiore, dopo Shakespeare e Spinoza, è stata esercitata da Linné, e proprio in ragione della posizione polemica a cui tale autore mi spingeva. Infatti, mentre tentavo di accogliere le sue acute e ingegnose distinzioni, le sue leggi esatte e pertinenti, anche se spesso arbitrarie, nel mio intimo si produceva un conflitto: ciò che Linné cercava di tenere distinto

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forzatamente doveva, secondo le più profonde esigenze della mia natura, tendere a riunirsi. Particolarmente vantaggiosa mi fu, tuttavia, la vicinanza dell’Accademia di Jena, in cui da lungo tempo si praticava la coltura di piante officinali con serietà e diligenza. I professori Prätorius, Schlegel e Rolfink 26 hanno conquistato grandi meriti verso la scienza con la fondazione di istituti botanici; la Flora Jenensis di Rupp27 apparve nel 1718, e lo studio appassionato della natura si diffuse non solo in quel luogo, ma nell’intera regione. A Ziegenhain si era particolarmente distinta una famiglia Dietrich 28: il suo capostipite, già noto allo stesso Linné, era in possesso di un autografo di quest’uomo venerabile, e grazie ad un simile diploma si sentiva con una certa ragione elevato al rango della nobiltà botanica. Dopo la sua morte, il figlio ne proseguì l’opera, che consisteva principalmente nel fornire a docenti e studiosi di ogni luogo le cosiddette Lektionen, vale a dire mazzi di piante che fiorivano di settimana in settimana. La simpatica attività di quest’uomo si diffuse fino a Weimar, e in tal modo venni lentamente a conoscenza della ricca flora di Jena. Un influsso ancora maggiore sulla mia istruzione fu esercitato dal nipote, Friedrich Gottlieb Dietrich 29. Giovane di bella costituzione, dal volto gradevole e dai lineamenti regolari, si dedicò, con fresca energia e passione giovanile, a studiare il mondo delle piante; la sua felice memoria fissava tutte le denominazioni più strane, per offrirgliele in qualunque momento, pronte all’uso; la sua presenza era per me piacevole, poiché dai suoi modi e dalle sue azioni traspariva un carattere aperto e libero, tanto che fui indotto a portarlo con me in un viaggio a Karlsbad. Lungo la strada egli raccoglieva, con zelo e intuito, tutte le erbe e i fiori che poi volta a volta, in carrozza, illustrava e denominava, e in tal modo mi si rivelava una nuova vita in questo bel mondo. Qui si imponeva con forza alla contemplazione diretta il modo in cui ciascuna pianta cerca le sue condizioni, e richiede una collocazione in cui possa mostrarsi in tutta pienezza e libertà. Altitudine dei monti, profondità delle valli, luce, ombra, secco, umido, o come altrimenti si chiamino le condizioni esterne30, i generi e le specie ne hanno bisogno per germogliare con

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piena forza e rigoglio. Essi contrattano, è vero, con la natura, e infine si lasciano trasportare in una grande varietà, senza tuttavia rinunciare completamente al diritto originario della forma acquisita. Tutto ciò mi colpiva nel libero mondo, e una nuova chiarezza sembrava prodursi sui giardini e sui libri. Ricordo ancora con grande piacere con quale lieta meraviglia, dopo aver scalato una cima, osservavamo l’arnica montana31 che dominava, e addirittura infuriava sui dolci e assolati pendii di prati umidi ma non paludosi, e allo stesso tempo ci imbattevamo piacevolmente in una grande quantità di gen­ziane. Anche a Karlsbad il robusto giovane si incamminava sui monti fin dallo spuntare del sole, e mi portava alla fonte dei folti fasci d’erba raccolti, prima che avessi vuotato il mio numero di bicchieri; tutti i compagni di soggiorno partecipavano, e in particolare coloro che si interessavano di questa bella scienza, e che vedevano stimolate nel modo più piacevole le loro conoscenze, quando un bel ragazzo in costume campagnolo giungeva correndo e offrendo grandi fasci di erbe e fiori, indicandoli tutti con nomi di origine latina e greca e di sapore eretico e barbarico: era un fenomeno che suscitava la partecipazione sia degli uomini che delle donne. Il corso successivo della sua vita fu conforme a tali inizi: egli rimase instancabile su questa strada, al punto che, divenuto uno scrittore affermato e onorato del titolo accademico, dirige ancor oggi con onore e impegno il giardino granducale di Eisenach. Mentre ampliavo rapidamente, grazie a questo giovane, le mie esperienze e vedevo crescere la mia conoscenza della forma vegetale, della sua varietà e specificità, e anche la mia memoria vivace riteneva agevolmente le varie denominazioni, il destino mi riservò di ricevere ulteriori e auspicabili insegnamenti da un secondo giovane. Batsch32, il figlio di un uomo amato e stimato ovunque a Weimar, aveva molto profittato dei suoi anni di studio a Jena, si era dedicato con impegno alle scienze naturali, distinguendosi al punto che fu chiamato a Köstritz per ordinare la notevole raccolta di storia naturale dei conti Reuß e per dirigerla, sia pure temporaneamente. Tornò poi a Weimar, dove ebbi il piacere di conoscerlo al campo di pattinaggio, luogo d’incontro della buona società; ben presto seppi apprezzare la sua delicata fermezza, la calma e l’impegno, e in un libero, schietto e co-

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stante scambio di idee potei conversare con lui sui concetti più generali e sulle nozioni di botanica, nonché sui diversi metodi seguiti per trattare questa scienza. Il suo modo di pensare corrispondeva in sommo grado ai miei desideri e alle mie esigenze: la sua attenzione era concentrata sull’ordinamento progressivo delle piante in famiglie e in successioni evolutive. Un simile metodo, conforme alla natura, al quale Linné accennava con devoti desideri, sicché i botanici francesi vi si erano dedicati incessantemente, doveva adesso occupare per tutta la vita un giovane intraprendente, ed io fui felicissimo di potervi attingere di prima mano. Ma non soltanto da due giovani, bensì anche da un eccellente uomo anziano dovevo trarre indescrivibile incoraggiamento. Il consigliere aulico Büttner 33 aveva portato a Jena la sua biblioteca ed io, grazie alla fiducia concessami dal mio principe, che aveva assicurato a sé e a noi un simile patrimonio, ricevetti l’incarico di presiedere all’ordinamento e alla disposizione di tale biblioteca, secondo i criteri del collezionista, che ne restava usufruttuario; mi trovai in tal modo in contatto costante con lui ed egli, come una biblioteca vivente, pronto a dare ad ogni domanda una risposta esauriente e dettagliata, si intratteneva con piacere su argomenti di botanica. A tale riguardo egli non negava, anzi piuttosto riconosceva con una certa passione, che, in quanto contemporaneo di Linné, era sempre stato in competizione con quest’uomo eccellente, che riempiva il mondo intero con il suo nome; Büttner non aveva mai accettato il sistema linneiano, ma si era anzi sforzato di elaborare l’ordinamento delle piante per famiglie, procedendo dai primi, quasi invisibili inizi, per giungere fino agli organismi più complessi e straordinari. Di tale classificazione egli mostrava con piacere uno schema, scritto elegantemente di suo pugno, in cui le specie apparivano ordinate in base a questo criterio, con mia grande edificazione e conforto. genesi del saggio sulla metamorfosi delle piante Nonostante tutto ciò che ho detto più sopra, non ho mai smesso di procedere sulla strada indicata da Linné34, sulla quale tuttavia alcune cose, se non mi fuorviavano, pure mi tratte-

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nevano dal progredire. Applicare agli oggetti la terminologia botanica era lo scopo del mio sforzo coscienzioso, che purtroppo mi causava spesso grandi difficoltà. Quando ad esempio osservavo, su uno stesso stelo, dapprima una foglia ben decisa, che progressivamente si trasformava in stipula35, quando sulla stessa pianta scoprivo delle foglie dapprima rotonde, quindi frastagliate, e infine quasi piumate, finivo per scoraggiarmi e disperavo di riuscire a piantare un paletto o tracciare addirittura una linea di confine. Il compito più arduo mi apparve però quello di determinare con sicurezza i generi e di subordinare ad essi le specie. Certo, sapevo bene come fosse prescritto, e tuttavia: potevo forse sperare di applicare con certezza tale prescrizione, se fin dai tempi di Linné molti generi erano stati separati e frazionati, tanto che sembrava risultarne che perfino l’uomo più esperto e più acuto non può giungere all’accordo con la natura? Il contrasto in cui le varianti e le specie secondarie si trovano rispetto alle specie principali mi faceva di nuovo riflettere. Nessuno negava che un ricco afflusso di nutrimento sia in grado di cancellare completamente il carattere che spetta, in certe condizioni, ad una pianta. Ma cosa si sarebbe dovuto pensare di così tante irregolarità e malformazioni? Proprio perciò credetti di poter riconoscere chiaramente che Linné e i suoi successori si erano comportati come dei legislatori i quali, preoccupati più di ciò che dovrebbe essere che di ciò che è, non considerano la natura e le esigenze dei cittadini, impegnandosi piuttosto a risolvere il seguente difficile compito: come è possibile che così tanti esseri turbolenti e per natura insofferenti dei confini possano in certo modo convivere? Se ora consideravo, sotto questo aspetto, l’opera di Linné, così come mi si presentava nel tanto lodato e amato quaderno, sentivo un sempre maggior timore reverenziale nei confronti di quest’uomo unico, e sempre maggior rispetto per i suoi successori, che non si sono fatti sfuggire di mano le redini da lui afferrate, ma hanno saputo mantenersi in sella in base al suo insegnamento. Quindi uno sguardo più calmo e umile mi fece comprendere che sarebbe necessaria un’intera vita36 per giungere ad una visione complessiva dell’attività vitale infinitamente libera di un solo regno naturale, e per riuscire ad ordinarla, posto che un talento innato ci legittimi e ci appassioni ad una simile impresa. Al contempo sentivo tuttavia che per me ci sarebbe po-

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tuta essere anche un’altra strada, analoga al restante corso della mia vita. I fenomeni della formazione e trasformazione delle creature organiche mi avevano potentemente affascinato: la forza immaginativa e la natura sembravano qui competere su chi sapesse procedere in modo più audace e conseguente. Come dunque divenni sempre più attento a simili movimenti, con quale solerzia li approfondissi, in particolare durante i viaggi, in mutate latitudini geografiche, altitudini barometriche e altre condizioni, su tutto questo forniscono un primo resoconto introduttivo gli appunti relativi al mio viaggio in Italia, che ho iniziato a pubblicare. Il prossimo volume chiarirà come io abbia concepito, in un modo embrionale, l’idea della metamorfosi delle piante, e come l’abbia seguita appassionatamente a Napoli e in Sicilia, con gioia e anzi con entusiasmo, applicandola in ogni caso, e offrendo a Herder un resoconto entusiastico dell’accaduto, quasi avessi scoperto la moneta evangelica37. Tutto ciò vi si leggerà per esteso. In modo non meno circostanziato esporrò anche il modo in cui, durante il mio secondo soggiorno a Roma, ho osservato una vegetazione rigogliosa, che si riproduceva facilmente in ogni forma, superando se stessa; ho trascorso molte ore a studiare e a disegnare numerose piante complesse e intrecciate, che difficilmente crescono nel nostro clima, e in tal modo ho concepito nelle grandi linee la teoria che ho in seguito formulato. Di tutto ciò posso rendere conto a sufficienza ricorrendo ai miei diari, senza curarmi del fatto che qualcuno possa, basandosi unicamente su tali confessioni, argomentare sfacciatamente contro di me, come purtroppo è già accaduto in altri casi, quasi si trattasse di testimonianze di un mio errore, con l’intenzione di offuscare, a me e ad altri, un sereno e libero percorso verso la verità della natura, con inutili e triti sofismi. Spinto infine a tornare in Germania, espulso irreparabilmente dal magnifico elemento artistico, abbandonato alla disperazione, avvertii in modo tanto più intenso il valore e la dignità dell’elemento naturale. In esso cercai salvezza e conforto, e ripresi con passione tutti i fili che dovevano collegarmi alla ricerca sulla natura e ai suoi cultori, e uno dei miei primi lavori fu il saggio che, ora di nuovo ristampato, può essere accolto come già noto infine, dopo quasi trent’anni, nell’ambito della scienza, raccomandandosi di nuovo al favore e alla benevolenza di amici e osservatori degli effetti naturali viventi.

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vicende del manoscritto Dall’Italia, il regno della forma, fui ricacciato in Germania, scambiando così un cielo sereno per un cielo cupo; gli amici, anziché consolarmi attirandomi di nuovo a sé, mi gettavano nella disperazione: il mio entusiasmo per oggetti lontani e rari, il mio dolore e il mio rimpianto per ciò che avevo perduto sembrava offenderli, e mi mancava una loro partecipazione, mentre nessuno comprendeva la mia lingua. Non riuscivo ad adattarmi ad un simile stato penoso, la privazione era troppo grande perché il senso esterno potesse abituarvisi, ma infine lo spirito si risvegliò e cercò di mantenersi illeso. Nel corso dei due anni precedenti avevo osservato, raccolto, studiato ininterrottamente, cercando di sviluppare le mie capacità. Avevo imparato e compreso fino a un certo grado in che modo la privilegiata nazione greca avesse operato al fine di sviluppare l’arte più eccelsa entro i propri confini, e dunque potevo sperare di giungere progressivamente ad una visione complessiva, e di procurarmi un godimento estetico puro e libero da pregiudizi. Inoltre credevo di aver appreso dalla natura il modo in cui essa opera in base a leggi, per produrre delle strutture viventi, modelli di ogni forma artistica. Il terzo argomento che mi occupava erano i costumi dei popoli, da cui imparavo come, dall’incontro di necessità e arbitrio, di impulso e volontà, di movimento e resistenza, scaturisca un terzo elemento, che non coincide né con l’arte né con la natura, ma è al contempo entrambe le cose, necessario e casuale, intenzionale e cieco. Intendo la società umana. Mentre dunque mi muovevo in queste regioni, impegnato a sviluppare le mie conoscenze, mi misi a sistemare per iscritto ciò che si presentava ai miei sensi nel modo più chiaro, e così regolavo le mie riflessioni, ordinavo le esperienze, fissavo i momenti. Al contempo scrissi un saggio sull’arte, la maniera e lo stile, ancora per spiegare la metamorfosi delle piante, e il Carnevale romano; tutti questi scritti mostrano ciò che allora accadeva nel mio intimo, e quale posizione io avessi assunto in rapporto a quelle tre grandi regioni del mondo. Il tentativo di spiegare la metamorfosi delle piante, vale a dire ricondurre ad un unico principio semplice e generale i molteplici fenomeni particolari del magnifico giardino terrestre, fu licenziato per primo.

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Ma è un’antica verità letteraria: ciò che scriviamo ci piace, altrimenti non l’avremmo scritto. Soddisfatto, dunque, del mio nuovo quaderno, mi lusingavo di aprirmi una felice carriera anche nel campo scientifico, salvo che anche qui doveva accadermi ciò che avevo sperimentato già in occasione dei miei primi lavori poetici: proprio nelle fasi iniziali, mi trovavo respinto di nuovo su me stesso; tuttavia, in questo caso i primi ostacoli preannunciavano purtroppo già i successivi, e ancora oggi vivo in un mondo dal quale sono in grado di comunicare ben poco. Al manoscritto però accadde ciò che segue. Avevo tutte le ragioni per essere soddisfatto del signor Göschen, l’editore della raccolta dei miei scritti, ma purtroppo la loro stampa cadde in un’epoca in cui la Germania non sapeva, né voleva sapere più nulla di me, e mi parve di notare che il mio saggio non corrispondesse ai desideri del mio editore. Nel frattempo, avevo promesso che avrei offerto a lui prima che ad altri i miei lavori futuri, condizione che ho sempre ritenuto ragionevole; per questo gli annunciai che avevo pronto un breve scritto di contenuto scientifico, che desideravo fosse stampato. Non voglio indagare se Göschen non si fosse in generale ripromesso più nulla di particolare dai miei lavori, o se in questo caso, come posso supporre, abbia chiesto a persone competenti un parere su cosa si debba pensare di un simile salto in un ambito distante dal proprio; basterà notare che non riuscii a capire perché si sia rifiutato di stampare il mio opuscolo, dal momento che, nel peggiore dei casi, con il piccolo sacrificio di sei fogli di cartaccia avrebbe potuto mantenere con sé un autore che tornava fresco alla ribalta, era affidabile e di poche pretese. Mi trovai poi di nuovo nella stessa situazione di quando avevo offerto all’editore Fleischer i miei Complici; tuttavia stavolta non mi lasciai scoraggiare. Ettinger di Gotha, avendo intenzione di stabilire un rapporto con me, si offrì di rilevare il manoscritto, e così questi pochi fogli, elegantemente stampati in caratteri latini, andarono alla ventura nel mondo. Il pubblico rimase stupito: secondo il suo desiderio di vedersi servito bene e in modo uniforme, esso richiedeva infatti che ciascuno restasse entro i confini della propria disciplina, e tale richiesta non è priva di fondamento, poiché chi intende produrre qualcosa di eccellente, di infinito sotto ogni profilo, non dovrebbe tentare mille vie, come invece è lecito a Dio e

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alla natura. Perciò si vuole che un talento manifestatosi in un certo campo, i cui caratteri sono universalmente riconosciuti e stimati, non si allontani dal suo ambito, né che salti ad una sfera molto distante. Se qualcuno osa farlo non gli si è grati, e anzi non gli si garantisce alcun plauso particolare, anche nel caso in cui egli ottenga buoni risultati. Ora, l’uomo vivo sente di esistere per se stesso, non per il pubblico, e non intende consumarsi ed esaurirsi in un singolo oggetto, cercando piuttosto riposo in altre direzioni. Ogni talento energico ha carattere universale, volge lo sguardo in ogni direzione ed esercita la sua attività a piacimento ora in uno ora in un altro ambito. Abbiamo dei medici che costruiscono con passione, e istituiscono giardini e fabbriche, e dei chirurghi numismatici che sono in possesso di raccolte preziosissime. Astruc 38, chirurgo personale di Luigi XIV, fu il primo ad applicare bisturi e sonda al Pentateuco, e quanto grande è in generale il debito che le scienze contraggono nei confronti di dilettanti appassionati e di ospiti privi di pregiudizi! Conosciamo inoltre uomini d’affari che sono lettori appassionati di romanzi e giocatori di carte, e austeri padri di famiglia che preferiscono ad ogni altro intrattenimento le farse teatrali. Da molti anni ci viene ripetuta fino alla sazietà la verità eterna secondo cui la vita umana si compone di serietà e gioco insieme, e chi merita il nome di uomo più saggio e più felice è soltanto colui che sa muoversi in equilibrio tra i due: infatti, anche se non costituisce una regola, ciascuno desidera il proprio opposto per possedere l’intero. In migliaia di modi quest’esigenza sembra imporsi all’uomo attivo. Chi potrebbe mai rimproverare il nostro Chladni 39, vanto della nostra nazione? Il mondo deve essergli grato poiché egli ha saputo trarre in ogni modo un suono da tutti i corpi rendendolo infine visibile. E cosa c’è di più distante da un simile sforzo che lo studio dei meteoriti? Conoscere ed esaminare le condizioni in cui si verificano gli eventi che ai nostri giorni spesso si rinnovano, sviluppare le componenti di questi prodotti celesti e terrestri, indagare la storia del meraviglioso fenomeno che si riproduce ininterrottamente lungo i secoli, tutto ciò costituisce un compito certamente bello e degno. Ma cosa collega quest’impresa a quella? Forse il colpo di tuono con cui gli aeroliti precipitano sulla Terra? Certamente no; si tratta invece del fatto che un uomo ingegnoso e attento sente

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imporsi alla sua osservazione due tra le più lontane manifestazioni naturali, e segue sia l’una che l’altra con costanza e senza sosta. Traiamo dunque riconoscenti il profitto che egli in tal modo ci concede. vicende del testo a stampa Chi si occupa in silenzio di un oggetto degno, impegnandosi in tutta serietà a comprenderlo da ogni lato, non ha alcuna idea del fatto che i suoi contemporanei sono abituati a pensare in un modo del tutto diverso dal suo, e questa è la sua fortuna: egli infatti perderebbe fiducia in se stesso se non gli fosse dato di credere alla simpatia altrui. Ma quando porta alla luce la sua teoria, si accorge ben presto del fatto che nel mondo si combattono diversi punti di vista, che disorientano sia gli uomini colti che gli incolti. Il giorno è sempre diviso in partiti che non conoscono né se stessi né i loro antipodi. Ciascuno opera con passione in base alle sue facoltà, e giunge fin dove vuole arrivare. Così anch’io, ancor prima che mi giungesse un giudizio ufficiale, fui stranamente colpito da una notizia giuntami privatamente. In una nobile città tedesca si era costituita una società di scienziati che insieme producevano ottime cose, sia sul piano teorico che su quello pratico. In tale cerchia fu letto con ardore anche il mio piccolo opuscolo, come una singolare novità; e tuttavia tutti ne furono insoddisfatti, e assicuravano che non si riusciva a capire cosa significasse. Uno dei miei amici romani amanti dell’arte40, essendomi affezionato e avendo fiducia in me, fu urtato dal fatto di sentire che il mio lavoro fosse così criticato e addirittura rifiutato, poiché, nel nostro lungo e ininterrotto rapporto, mi aveva sentito parlare in modo del tutto ragionevole e conseguente sui più diversi argomenti. Egli lesse dunque con attenzione il mio opuscolo, e malgrado anche a lui riuscisse difficile capire quale fosse il mio intento, tuttavia ne afferrò il contenuto con simpatia e senso artistico, e diede un’interpretazione certo stravagante, e tuttavia ingegnosa, di ciò che avevo esposto. L’autore, disse, ha delle proprie intenzioni nascoste, che però io vedo molto chiaramente: egli intende insegnare agli artisti come ideare ornamenti floreali che germogliano e si av-

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viticchiano in uno sviluppo crescente, seguendo il modo degli antichi. La pianta deve nascere dalle foglie più semplici, che gradualmente si moltiplicano, si dividono e si riproducono e, spingendosi in avanti, diventano sempre più complesse, slanciate e leggere, finché si raccolgono nella maggiore ricchezza del fiore, per poi spandere semi, oppure ricominciare un nuovo ciclo vitale. A Villa Medici è possibile osservare pilastri in marmo così decorati, e soltanto adesso sono in grado di capire cosa intendessero significare. Da ultimo, l’infinita ricchezza delle foglie è superata dal fiore, tanto che infine, anziché semi, spesso spuntano figure di animali e genietti, senza che questo appaia minimamente inverosimile, dopo la magnifica successione osservata in precedenza; sono lieto dunque di scoprire, in base a queste indicazioni, una tale quantità di ornamentazioni, dato che finora mi ero limitato inconsapevolmente ad imitare gli antichi. In questo caso, tuttavia, non si predicò correttamente ai dotti, i quali si accontentarono di tale spiegazione in mancanza d’altro, ma rimasero dell’opinione che, se non si riusciva a vedere altro che l’arte, e ci si poneva come scopo solo l’invenzione di fregi, allora non era lecito procedere come se si lavorasse per la scienza, dove simili fantasie non hanno diritto di cittadinanza. Più tardi l’artista mi assicurò che, seguendo le leggi naturali così come io le avevo esposte, aveva avuto la fortuna di riuscire a collegare il naturale e l’impossibile, producendo qualcosa di piacevolmente verosimile. Di contro, però, non gli era stato più concesso di fornire spiegazioni a quei signori. Anche da altre parti mi giungevano motivi simili, e nessuno voleva ammettere che scienza e poesia potessero unirsi. Si dimenticava che la scienza si era sviluppata dalla poesia e non si pensava che, con il mutare dei tempi, esse potessero di nuovo incontrarsi amichevolmente, con reciproco vantaggio e su un piano superiore. Amiche che già in passato mi avrebbero volentieri strappato alla solitudine delle montagne, e alla contemplazione delle rocce immobili, non erano soddisfatte neppure del mio astratto giardinaggio. Piante e fiori dovrebbero distinguersi in base alla forma, al colore e all’odore, mentre ora scomparivano in schemi fantasmagorici. Perciò cercai di attirare la simpatia di queste anime benevole con un’elegia, a cui si accorderà un

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posto qui, dove, collegata alla trattazione scientifica, potrà riuscire più comprensibile che non inserita in una successione di poesie più delicate e passionali. Ti turba, o amata, la mescolanza Di queste migliaia di fiori sparsi per il giardino; Ascolti molti nomi, e sempre al tuo orecchio Con suoni barbarici, un nome soppianta l’altro. Tutte le forme sono simili, e nessuna è identica all’altra; E così il coro allude ad una misteriosa legge, ad un sacro enigma. Oh, se potessi, dolce amica, trasmetterti subito felicemente la parola che lo sveli! Guarda ora la pianta nel suo divenire, come lentamente, condotta grado a grado, si formi in fiori e frutti. Essa si sviluppa dal seme, non appena il grembo della terra, Silenziosamente fecondatrice, lo libera graziosamente alla [vita, e affida subito all’incanto della luce, sacra e in perpetuo [movimento, la delicatissima struttura delle foglie nascenti. La forza dormiva, semplice, nel seme; un modello incipiente Giaceva, chiuso in sé, ripiegato sotto il suo guscio, foglia e radice e germe, solo in parte formati e incolori; così, secco, il seme tiene in serbo una vita tranquilla, erompe tendendo verso l’alto, affidandosi all’umidità dolce, e al contempo si innalza dalla notte che lo avvolgeva. Ma resta semplice la forma di questa prima manifestazione; e allo stesso modo si designa, anche tra le piante, il piccolo. Subito si sovrappone un ulteriore germoglio, si innalza, e [rinnova, ammonticchiando nodi su nodi, ancora la prima forma. Certo, non sempre la stessa: si produce, infatti, con grande [varietà, una volta compiuta, lo vedi, la foglia successiva, sempre più ampia, frastagliata, separata in punte e lobi, che, dapprima riuniti, riposavano nell’organo inferiore. Così consegue per la prima volta la perfezione cui è [destinata, che, in molte specie, ti muove a meraviglia. Dentellata, con molte nervature sulla superficie turgida e [gonfia, 41

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la ricchezza dei suoi germogli sembra infinita e libera. E tuttavia qui la natura, con mani possenti, arresta Lo sviluppo, e lo guida delicatamente verso una perfezione [più completa. Conduce con più moderazione la linfa, restringe i vasi, e subito la forma annuncia effetti più lievi. Lentamente si ritraggono i germogli dei margini che si [protendono, e la nervatura dello stelo si sviluppa più compiutamente. Ma il gambo più sottile si innalza rapidamente privo di foglie, e una forma prodigiosa attrae l’osservatore. Tutt’intorno si mostra ora, contata e senza Numero, la foglia più piccola accanto ad una simile. Raccolto attorno all’asse si dispone il calice protettivo, e schiude corolle variopinte ad una forma elevatissima. Dunque la natura brilla in una sublime e piena [manifestazione, e mostra, in sequenza, membra su membra sovrapposte. Tu ti stupisci sempre di nuovo, ogni volta che sullo stelo il [fiore Si muove sull’esile struttura di foglie che si alternano. Ma lo splendore è annuncio di una nuova creazione. Sì, la foglia colorata sente la mano divina E si contrae rapidamente; le forme più delicate Si protendono duplici, destinate a riunirsi. Ora le graziose coppie sono riunite insieme, confidenti, si dispongono in gran numero attorno al sacro altare. Imeneo scende in volo e meravigliosi profumi, potenti, spandono una fragranza dolce tutt’intorno, animando ogni [cosa. Ora, isolati, crescono rapidi innumerevoli germogli, graziosamente avvolti nel grembo materno dei frutti rigonfi. Qui la natura chiude l’anello delle forze eterne; ma un elemento nuovo si salda al precedente, di modo che la catena si prolunghi attraverso tutti i tempi, e il tutto sia animato, al pari del singolo. Volgi ora lo sguardo, mia amata, al brulichio variopinto, che non si muove più confuso di fronte al tuo spirito. Ogni pianta ti annuncia ora le leggi eterne, ogni fiore ti parla in modo sempre più chiaro. Ma se saprai decifrare le sacre lettere della dea,

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potrai poi ravvisarle ovunque, anche se il loro tratto sarà mutato. Strisciando esiti il bruco, la crisalide si affretti, operosa, l’uomo cambi, malleabile, anche la forma che gli è destinata! Oh! Pensa anche come dal germe della prima conoscenza Lentamente è germogliata in noi una dolce familiarità, e l’amicizia si è svelata, potentemente, nel nostro intimo, e come l’amore infine ha prodotto fiori e frutti. Pensa con quale varietà la natura abbia prestato ai nostri [sentimenti Ora questa ora quella forma, dispiegandole silenziosa! Rallegrati anche dell’oggi! Il sacro amore Si protende verso il frutto più elevato dei modi di sentire [concordi, dei modi di vedere concordi, onde la coppia possa legarsi in una contemplazione armoniosa, e trovare il mondo [superiore.

Questa poesia fu graditissima alla mia amata, che aveva tutto il diritto di riferire a sé quelle graziose immagini; e anch’io mi sentii molto felice quando il paragone vivente intensificò e portò a compimento la nostra bella e perfetta inclinazione reciproca; tuttavia, dal resto della buona società dovetti subire ancora molto: si parodiava la mia metamorfosi con immagini fiabesche e allusioni canzonatorie e sarcastiche. Tuttavia, amarezze più serie mi attendevano da amici stranieri, tra i quali, nell’esultanza del mio cuore, avevo distribuito delle copie omaggio del mio opuscolo. Essi risposero tutti, più o meno, con le parole di Bonnet42: la sua Contemplation de la nature, infatti, aveva conquistato le loro menti, con la sua apparente accessibilità, e aveva diffuso un linguaggio con cui si credeva di poter dire qualcosa e di capirsi a vicenda. Al mio modo di esprimermi nessuno intendeva adattarsi. Non essere compresi è il tormento più grande, quando, dopo grande impegno e fatica, si ritiene infine di capire se stessi e l’argomento indagato; fa impazzire sentir ripetere sempre lo stesso errore da cui ci si era liberati con difficoltà, e non c’è nulla che possa capitarci di più doloroso che vedere come proprio ciò che dovrebbe unirci a uomini colti e ragionevoli dia invece adito ad una separazione inconciliabile. Inoltre, le dichiarazioni dei miei amici non erano affatto

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delicate, e per l’autore ormai attempato si ripeteva l’esperienza per cui proprio dalle copie offerte in dono doveva ricevere avversione e irritazione. Se a qualcuno capita in mano un libro per caso, o per suggerimento, egli lo legge, e magari lo compra; ma se è un amico che, con tranquilla fiducia, invia la sua opera, allora quest’atto sembra una sorta di imposizione della sua superiorità intellettuale. Allora si mostra una malvagità radicale43 nella sua forma più odiosa, come invidia e astio verso persone liete di confidare una faccenda di cuore. Anche a molti scrittori che ho interrogato non risultava ignoto questo fenomeno del mondo non regolato dalla morale. E tuttavia, a questo punto devo elogiare un amico e protettore, il quale ha agito con lealtà, sia durante il mio lavoro che dopo la sua conclusione: si tratta di Karl von Dalberg 44, un uomo che avrebbe certo meritato di raggiungere, in tempi più tranquilli, quella felicità per cui era nato e predisposto, di ornare le cariche più elevate con un’attività instancabile, e di goderne serenamente i vantaggi con i suoi cari. Lo si incontrava sempre in attività, partecipe e incoraggiante e, anche se non si poteva condividere del tutto il suo modo di vedere, lo si trovava tuttavia, nei particolari, sempre ingegnoso e si poteva trarne sempre giovamento. In ogni mio lavoro scientifico gli sono stato ampiamente debitore, poiché egli sapeva movimentare e animare quella fissità che mi era propria nell’osservazione della natura. Egli aveva infatti il coraggio di trasmettere e avvicinare all’intelletto ciò che osservava, servendosi di certe formule molto flessibili. Di una recensione favorevole nelle «Göttinger Anzeigen» del febbraio 179145 fui solo parzialmente soddisfatto. Mi si concedeva di trattare il mio argomento con straordinaria chiarezza; il recensore esponeva brevemente e con cura l’andamento del mio saggio, ma non chiariva in che direzione intendesse andare, e dunque non ne fui incoraggiato. Poiché mi si riconosceva, però, di essermi fatto strada sulla via della conoscenza scientifica, mi augurai ardentemente che da lì mi si venisse incontro, poiché nulla mi importava di mettere radici in un qualche luogo, ma piuttosto desideravo, dopo essere stato istruito e illuminato, procedere il più rapidamente possibile attraverso queste regioni. Tuttavia, poiché non avvenne secondo le mie speranze e i miei desideri, rimasi fedele agli strumenti che avevo fino a quel momento predisposto. A tal fine furono raccolti

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degli erbari, conservai sotto spirito perfino alcune curiosità, feci realizzare dei disegni e delle incisioni, e tutto ciò che potesse risultare utile per la prosecuzione del mio lavoro. Lo scopo era di rendere visibili i fenomeni principali e sostenere l’applicabilità del mio saggio. Fui però, in modo del tutto inatteso, trascinato in una vita molto movimentata. Seguii il mio principe, e dunque l’esercito prussiano, in Slesia, nella Champagne e fino all’assedio di Magonza46. Questi tre anni consecutivi furono molto vantaggiosi anche per il mio impegno scientifico. Vidi i fenomeni naturali a cielo aperto, e non ebbi bisogno di lasciar entrare un raggio di luce filiforme nella camera più buia per apprendere che esso genera colori chiari e scuri. Immerso in tali osservazioni, quasi non mi accorsi dell’infinito tedio della campagna militare, che è quanto mai irritante, quando invece il pericolo che si affronta ci anima e ci esalta. Le mie osservazioni furono ininterrotte, continuamente disegnavo ciò che osservavo e di nuovo il buon genio della bella scrittura47 mi fu a fianco, proprio a me che non avevo una scrittura felice, propizio come nei giorni di Karlsbad e in quelli ancora precedenti. Poiché mi era preclusa ogni opportunità di cercare nei libri, mi servivo occasionalmente del mio opuscolo a stampa per chiedere ad amici colti, interessati all’argomento, di prestare cortesemente attenzione, per amor mio, a ciò che, nella vasta cerchia delle loro letture, era stato già scritto e tramandato su questa materia; ero infatti da tempo convinto che non ci sia nulla di nuovo sotto il sole, e che in ciò che ci è stato trasmesso si possa trovare già accennato ciò che noi stessi intuiamo e pensiamo, o addirittura produciamo. Siamo originali soltanto perché non sappiamo nulla. Tuttavia, quel desiderio fortunatamente fu esaudito, quando il mio venerato amico, Friedrich August Wolf, mi indicò un suo omonimo48, che da tempo era sulle tracce che anch’io stavo seguendo. Si vedrà presto quale vantaggio me ne sia derivato.

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Scoperta di un eccellente precursore49

Caspar Friedrich Wolff, nato a Berlino nell’anno 173350, aveva studiato ad Halle e si era diplomato nel 1759; la sua dissertazione, Theoria generationis 51, presuppone molte osservazioni al microscopio, e una seria e costante riflessione, che non ci si aspetterebbe da un giovane di ventisei anni. Egli esercita la sua professione a Breslavia, tiene corsi di fisiologia e di altre discipline presso l’ospedale della medesima città. Chiamato a Berlino, prosegue le sue lezioni e, poiché desidera fornire ai suoi ascoltatori un’idea esauriente della generazione, fa stampare nel 1764 un volume in ottavo in lingua tedesca, composto di una prima sezione di carattere storico e polemico, e di una seconda dogmatica e didattica. In seguito si trasferisce a San Pietroburgo come accademico, e figura nei commentari e negli atti di quella città, dal 1767 al 1792, come un solerte collaboratore. Tutti i suoi saggi dimostrano come egli sia rimasto sempre fedele sia al suo corso di studi che alle sue convinzioni, fino alla morte, avvenuta nel 1794. I suoi colleghi52 si esprimono così su di lui: Egli portò a San Pietroburgo la fama, già ben consolidata, di accurato anatomista e di profondo fisiologo, una fama che in seguito seppe mantenere e accrescere grazie ad un gran numero di eccellenti saggi, che sono diffusi nelle raccolte dell’Accademia. Era già divenuto celebre in precedenza grazie ad uno scritto dimostrativo, profondo e accurato, sulla genera-

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zione, che aveva originato un dibattito con l’immortale Haller il quale, malgrado la divergenza di opinioni, lo trattò sempre con molto rispetto e cordialità. Amato e stimato dai suoi colleghi, sia per il suo sapere che per la sua rettitudine e mitezza, è scomparso all’età di sessantun anni, rimpianto dall’intera Accademia, in cui si era distinto come membro attivo per ventisette anni. Né la famiglia, né le carte del suo lascito hanno potuto fornire ulteriori notizie per ricostruire una biografia più dettagliata; tuttavia l’uniformità della sua vita solitaria e schiva di dotto, che ha trascorso i suoi anni unicamente nel suo studio, offre così pochi dati per una biografia che probabilmente in questo caso non possiamo considerare questa lacuna una privazione. La parte più propriamente rilevante e utile della vita di un uomo simile è conservata nei suoi scritti, che trasmettono il suo nome ai posteri; se dunque ci manca una descrizione biografica, possiamo offrire l’elenco dei suoi lavori accademici, che può certamente valere come un panegirico (elogio), poiché, molto più che delle belle frasi, può far sentire quanto grande sia la perdita che abbiamo subìto con la sua morte. Dunque una nazione straniera stimava e onorava pubblicamente già vent’anni fa il nostro eccellente connazionale, che era stato spinto molto presto ad uscire dalla sua madrepatria, a causa della presenza di una scuola dominante con cui egli non riusciva a trovarsi d’accordo. Io sono lieto di poter riconoscere di aver appreso qualcosa di lui e da lui da più di venticinque anni. Tuttavia, quanto poco sia conosciuto al giorno d’oggi in Germania lo mostra il nostro benemerito e onesto Meckel 53, in occasione della traduzione del saggio Sulla formazione del canale intestinale dei pollastrelli durante la cova, Halle 1812. Mi concedano le Parche di esporre nel dettaglio come da così tanti anni io abbia camminato insieme e accanto a quest’uomo straordinario, cercando di penetrarne il carattere, le convinzioni e la dottrina, in che misura io mi sia trovato d’accordo con lui, in che modo mi sia sentito stimolato a compiere ulteriori progressi, guardando però sempre a lui con riconoscenza. Al momento si parlerà soltanto delle sue idee riguardo alla metamorfosi delle piante, che egli aveva esposto già nel suo scritto dimostrativo e nella successiva versione in tedesco, e che si trovano riassunte ed esplicitate nel modo più

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chiaro nel saggio accademico menzionato per primo. Traggo dunque con riconoscenza questi passi dalla traduzione di Meckel54, e aggiungo soltanto alcune annotazioni, per accennare ai temi che vorrei svolgere più dettagliatamente nel seguito.

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Caspar Friedrich Wolff sulla formazione delle piante

«Ho cercato di illustrare in base alla loro genesi la maggior parte delle componenti delle piante che presentano forti somiglianze tra loro, e che per questa ragione possono essere facilmente confrontate: intendo le foglie, il calice, i petali, il pericarpio, il seme, lo stelo e le radici. In tal modo si è infatti confermato che le diverse parti di cui si compongono le piante sono straordinariamente simili le une alle altre, e dunque possono essere facilmente individuate in base al loro carattere e al loro modo di svilupparsi. In effetti non occorre una particolare perspicacia per notare, in particolare in certe piante, che il calice si differenzia ben poco dalle foglie e, per dirla in breve, non è altro che un insieme di numerose foglie, più piccole e meno perfette. Ciò è molto evidente in parecchie piante annuali a fiori composti, in cui le foglie si fanno gradualmente tanto più piccole, imperfette e numerose, e si accostano tanto più le une alle altre quanto più in alto si trovano lungo lo stelo, finché le ultime, che si trovano immediatamente sotto il fiore, piccolissime e fittamente accostate, rappresentano le foglie del calice e, riunite insieme, formano il calice medesimo. Non meno evidente è il fatto che anche il pericarpio si compone di diverse foglie, con l’unica differenza che queste ultime, che nel calice si trovano semplicemente accostate, qui si fondono le une con le altre. La correttezza di questa affermazione è dimostrata non solo dallo schiudersi di numerose capsule seminali e dal loro spontaneo dividersi a formare le

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relative foglie, vale a dire le parti di cui sono composte, ma anche dalla semplice osservazione e dall’aspetto esterno del pericarpio. Infine, perfino i semi, malgrado non mostrino, ad un primo sguardo, la minima somiglianza con le foglie, pure di fatto non sono altro che foglie fuse insieme: infatti, le membrane in cui si dividono sono foglie, anche se, tra tutte le foglie dell’intera pianta, sono quelle meno compiutamente sviluppate, informi, piccole, spesse, rigide, prive di succo e bianche. Si cancellerà ogni dubbio sulla correttezza di questa osservazione se si considera come tali membrane, non appena il seme si consegna alla terra perché prosegua la sua vegetazione, ininterrotta nella pianta madre, si mutino nelle foglie più perfette, verdi e ricche di linfa, le cosiddette foglie seminali (cotiledoni). Il fatto, poi, che anche la corolla e gli stami non siano a loro volta altro che foglie modificate, risulterà da singole osservazioni altamente probabile. Non di rado, infatti, si vede come le foglie del calice si trasformino in petali e viceversa. Ora, se le foglie caulinarie sono vere e proprie foglie, e i petali non sono altro che foglie caulinarie, non può esserci alcun dubbio che anche i petali coincidano con vere e proprie foglie modificate. Similmente si vede anche nella Polyandra di Linné che spesso gli stami si trasformano in petali, costituendo così dei fiori ricolmi mentre, viceversa, dei petali si trasformano in stami, da cui risulta che anche gli stami, in ragione della loro natura, sono vere e proprie foglie. In una parola, ad un esame accurato, nell’intera pianta, le cui componenti di primo acchito sembrano differenziarsi così tanto le une dalle altre, in realtà non si osserva altro che foglie e stelo, e di quest’ultimo fa parte la radice. Queste sono le sue parti più prossime, immediate e composte; le più lontane e semplici, a partire dalle quali le prime possono tornare di nuovo a formarsi, sono i vasi e le vescichette. Se dunque tutte le parti della pianta, escluso lo stelo, possono essere ricondotte alla forma della foglia, e non sono altro che sue modificazioni, allora ne risulta facilmente che la teoria della generazione delle piante non è difficile da sviluppare. Al contempo è così segnata la via che occorre seguire se si vuole svolgere una simile teoria. In primo luogo bisogna accertare tramite osservazioni in che modo si formino le foglie comuni, oppure, in via equivalente, in che modo si sviluppi la vegetazione comune, su quali princìpi si fondi e quali siano le forze

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che la realizzano. Una volta che sia chiaro questo, è possibile indagare le cause, le circostanze e condizioni che nella parte superiore della pianta (dove, a quanto pare, si mostrano manifestazioni nuove e si sviluppano quelle parti apparentemente diverse) modificano a tal punto le modalità vegetative generali, che in luogo delle foglie comuni emergono quelle foglie formate in modo così peculiare. Io ho seguito questo piano e ho trovato che tutte queste modificazioni si fondano sulla riduzione graduale della forza vegetativa, che diminuisce in misura proporzionale a quella in cui la vegetazione si prolunga nel tempo, fino a scomparire del tutto. Ho notato poi in seguito che la natura di tutti questi mutamenti delle foglie coincide con un loro sviluppo imperfetto. Mi è stato facile dimostrare, grazie ad una certa quantità di tentativi, questa graduale riduzione delle vegetazione e delle sue cause, di cui sarebbe troppo lungo fornire qui indicazioni precise; ho così potuto presentare, basandomi su quest’unico fondamento, tutti i nuovi fenomeni offerti dalle parti del fiore e del frutto, che appaiono così diverse dalle altre foglie, e in tal modo ho potuto spiegare anche molti particolari che vi si collegano. Così appare la materia, a chi intende indagare la storia della formazione delle piante; del tutto diverse appaiono le cose invece se ci si volge al regno animale.»

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Alcune osservazioni

Proponendomi di svolgere alcune osservazioni a proposito di quanto precede, devo guardarmi dall’inoltrarmi troppo in profondità nella presentazione del modo di pensare e della teoria di quest’uomo eccellente, cosa che potrà avvenire certamente in futuro. Ciò basti a suscitare ulteriori riflessioni. L’autore riconosce espressamente l’identità delle parti della pianta, pur in tutta la loro varietà; tuttavia, il suo modo di raccogliere esperienze, una volta assunto, gli impedisce di compiere un ultimo passo, quello principale. Infatti, poiché la teoria della preformazione e dell’inscatolamento, che Wolff combatte, si basa sulla mera immaginazione extrasensibile, su un’assunzione che crediamo di pensare ma che non si può mai rappresentare nel mondo sensibile, allora l’autore si pone come massima fondamentale di tutta la sua ricerca di non assumere, concedere né affermare alcunché che non si possa vedere con gli occhi e che non si sia in grado di mostrare poi ad altri in qualunque momento. Perciò Wolff si sforza costantemente di spingersi fino alle origini della formazione della vita grazie alle indagini al microscopio, seguendo gli embrioni organici dalla loro prima apparizione fino alla loro completa formazione. Per quanto questo metodo, grazie al quale l’autore ha raggiunto molti risultati, sia certamente ottimo, tuttavia Wolff non ha pensato che esiste una differenza tra vedere e vedere, e che gli occhi della mente devono operare in costante e vitale connessione con gli occhi del corpo55, poiché altrimen-

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ti si corre il rischio di vedere e di lasciarsi sfuggire, allo stesso tempo, ciò che si vede. Nella trasformazione delle piante egli osservò che il medesimo organo si contrae e si riduce continuamente; tuttavia egli non vide che questa contrazione si alternava con una dilatazione. Egli vide che si dava una diminuzione di volume, e non notò che allo stesso tempo quel volume si affinava, per cui attribuì, contraddittoriamente, ad un deperimento e ad un’atrofia la via verso il perfezionamento organico. In tal modo si precluse la via per la quale sarebbe potuto giungere direttamente alla metamorfosi degli animali, e affermò esplicitamente e con decisione che, quanto allo sviluppo degli animali, le cose stavano in modo del tutto diverso. Tuttavia, poiché il suo modo di procedere è corretto e il suo spirito di osservazione è precisissimo, poiché egli insiste sul fatto che lo sviluppo organico deve essere osservato con esattezza e la sua storia deve essere premessa ad ogni descrizione della parte compiuta, giunge sempre a conclusioni corrette, per quanto in contraddizione con se stesso. Dunque, se da un lato nega in un passo l’analogia formale tra diverse parti organiche interne dell’animale, in un altro passo la ammette di buon grado. Alla negazione di tale analogia è indotto dal confronto tra certi singoli organi che effettivamente non presentano alcun elemento in comune: ad esempio il canale intestinale e il fegato, il cuore e il cervello; è portato invece ad ammetterla quando considera un sistema di fronte all’altro, poiché allora l’analogia salta agli occhi immediatamente, ed egli si eleva al pensiero audace secondo cui in questo caso potrebbe darsi una riunione di più animali. In ogni caso, posso concludere tranquillamente qui, perché grazie ai meriti del nostro stimato Meckel una delle opere più eccellenti di Wolff è giunta a conoscenza di ogni tedesco.

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Lieto evento56

Se è vero che ho goduto dei momenti più belli della mia vita nello stesso periodo in cui studiavo la metamorfosi delle piante, e in cui mi si chiariva la loro scala gerarchica, se è vero che queste idee hanno allietato moltissimo il mio soggiorno a Napoli e in Sicilia, ed io mi sono sempre più affezionato a questo modo di osservare il regno vegetale, tanto da esercitarmi ininterrottamente percorrendo ogni sentiero, allora queste piacevoli fatiche non potranno che diventare inestimabili per me, dal momento che hanno offerto l’occasione perché si stabilisse uno dei rapporti più elevati che la sorte mi abbia regalato negli anni della maturità. Devo a questi piacevoli fenomeni la creazione di un legame più stretto con Schiller, poiché essi hanno messo da parte le divergenze che per molto tempo mi avevano tenuto lontano da lui. Dopo il mio ritorno dall’Italia, dove avevo cercato di perfezionare la mia formazione in tutte le discipline artistiche, cercando di giungere ad un più alto grado di sicurezza e di purezza, incurante di ciò che nel frattempo accadeva in Germania, trovai che godevano di grande considerazione, ed esercitavano un larghissimo influsso, alcune opere poetiche57, più o meno recenti, che purtroppo io non apprezzavo affatto: menzionerò soltanto l’Ardinghello di Heinse e i Masnadieri di Schiller. Trovavo odiosa la prima, perché pretendeva di nobilitare e sostenere la sensualità e un astruso modo di pensare servendosi dell’arte figurativa, e la seconda perché in essa un talento potente, an-

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che se ancora immaturo, aveva riversato sulla madrepatria, come un torrente in piena, proprio quei paradossi etici e teatrali da cui io mi ero sforzato di liberarmi. A entrambi gli autori non rimproveravo ciò che avevano intrapreso e realizzato, poiché l’uomo non può negare la sua volontà di agire alla sua maniera: egli tenta di farlo dapprima inconsapevolmente e senza alcuna cultura, quindi con sempre maggiore consapevolezza quanto più procede la sua formazione, e per questo si diffondono nel mondo così tante opere eccellenti e sciocche, mentre da una confusione se ne genera un’altra. Tuttavia, il rumoreggiare così prodotto in patria, il plauso che a quelle creazioni era tributato universalmente, sia da parte di studenti scalmanati che da parte di colte dame di corte, mi spaventava, poiché credevo di vedere completamente vanificati tutti i miei sforzi, e mi apparivano accantonati e paralizzati quegli oggetti e quei modi che avevano guidato la mia formazione. E ciò che mi addolorava di più era il fatto che tutti i miei amici più stretti58, Heinrich Meyer e Moritz, così come gli artisti dominanti nello stesso senso, Tischbein e Bury, mi sembravano parimenti in pericolo, e ne ero molto turbato. Se fosse stato possibile, avrei volentieri rinunciato completamente alla contemplazione dell’arte figurativa e all’esercizio della poesia: infatti, dove c’era una possibilità di superare quelle produzioni dal valore così geniale e dalla forma così incolta, si può immaginare la mia condizione! Io avevo cercato di approssimarmi alle intuizioni più pure per poi poterle comunicare, e ora mi trovavo schiacciato tra Ardinghello e Franz Moor. Moritz, che era anch’egli di ritorno dall’Italia e aveva soggiornato per un buon periodo presso di me, si rafforzava insieme a me con passione in queste convinzioni; io evitavo Schiller59 il quale, trattenendosi a Weimar, aveva abitato vicino a me. La pubblicazione del Don Carlos non fu certo di incentivo ad avvicinarmi a lui, e rifiutai tutti i tentativi delle persone vicine sia a me che a lui, sicché abbiamo continuato a lungo a vivere semplicemente uno accanto all’altro. Neppure il suo saggio su Dignità e grazia si dimostrò uno strumento di riconciliazione: Schiller aveva fatto propria con entusiasmo la filosofia kantiana, che innalza così tanto il soggetto mentre al contempo sembra limitarlo; Kant sviluppava l’idea di ciò che nell’essenza della natura si trova di straordina-

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rio, e Schiller, nel più alto sentimento di libertà e autodeterminazione, si mostrava ingrato nei confronti della grande madre, che certamente non lo aveva trattato da matrigna. Anziché osservarla in tutta autonomia e vivacità, facendola nascere, in base a leggi, dall’elemento più profondo fino al più elevato, egli la considerava dalla prospettiva di alcuni singoli elementi naturali empirici e umani. Potevo perfino riferire a me stesso certi passaggi più duri, che mostravano le mie dichiarazioni e convinzioni in una luce del tutto falsata; sentivo inoltre che il peggio era che tutto ciò fosse detto senza alcun riferimento esplicito a me. In tal modo dunque l’enorme abisso tra i nostri rispettivi modi di pensare si spalancava sempre più netta­ mente. Non era pensabile una riunificazione. Perfino i miti consigli di un Dalberg60, che sapeva apprezzare molto Schiller, rimasero senza frutto, poiché le ragioni che opponevo ad ogni possibile riconciliazione erano difficili da confutare. Nessuno poteva negare che la separazione tra due spiriti antipodi misurava ben più che un diametro terrestre, poiché essi potrebbero valere come due poli, ma proprio per questo è impossibile che giungano a coincidere. Tuttavia, che si trovasse una relazione tra i due risulterà chiaro da ciò che segue. Schiller si trasferì a Jena, ma nemmeno lì lo vidi. Nel frattempo Batsch, con incredibile prontezza, aveva dato vita all’attività di una società di naturalisti61, basata su delle belle collezioni e su un notevole apparato. Io partecipavo abitualmente alle sue sedute periodiche, e una volta vi incontrai anche Schiller; per caso ci trovammo ad uscire insieme dalla riunione e iniziò una conversazione. Schiller sembrava molto interessato agli argomenti ascoltati, ma osservò, in modo molto assennato, ragionevole e a me molto gradito, che un simile modo di trattare la natura, così frammentato, non poteva in alcun modo affascinare un profano, pur disposto a lasciarsi coinvolgere. Io replicai che probabilmente quel modo restava oscuro perfino agli iniziati, e che tuttavia poteva darsi un altro modo di esaminare la natura, senza dividerla e isolarla, ma tendendo invece a rappresentarla nella sua azione viva, considerando le componenti a partire dall’insieme. Schiller espresse il desiderio di ricevere maggiori chiarimenti in proposito, senza fare mistero dei suoi dubbi, e del fatto che non riusciva ad ammet-

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tere che qualcosa di simile potesse derivare già dall’esperienza, come invece io affermavo. Giungemmo a casa sua, la conversazione mi teneva avvinto; allora gli esposi animatamente la metamorfosi delle piante e, con pochi caratteristici tratti di penna, feci nascere davanti ai suoi occhi una pianta simbolica. Egli apprendeva e guardava tutto questo con grande partecipazione, e con intelligenza acutissima; ma quando ebbi finito, Schiller scosse la testa e disse: questa non è un’esperienza, questa è un’idea. Rimasi stupefatto, e in certa misura irritato: aveva indicato così nel modo più rigoroso il punto che ci separava. Mi tornò in mente l’affermazione a proposito di dignità e grazia, e l’antico rancore stava per risvegliarsi, ma mi dominai e replicai: non può che essermi gradito il fatto di avere delle idee senza saperlo, riuscendo perfino a vederle con gli occhi. Schiller, che più di me aveva esperienza della vita e buone maniere, e pensava che con le Ore, che stava per pubblicare, sarebbe riuscito ad attrarmi piuttosto che a respingermi, replicò come un kantiano colto, e ciò fu causa di un vivace dibattito, dato il mio ostinato realismo; si combatté a lungo e poi ci fu una tregua, ma nessuno dei due poteva ritenersi vincitore, mentre entrambi ci ritenevamo invincibili. Frasi come la seguente mi rendevano profondamente infelice: «Come può mai darsi un’esperienza che sia adeguata ad un’idea? Il carattere proprio dell’idea, infatti, consiste nel fatto che nessuna esperienza può mai rivelarsi congruente ad essa». Se Schiller riteneva un’idea ciò che io dichiaravo essere esperienza, allora doveva pur esserci tra i due punti di vista un elemento mediatore, una relazione! In ogni caso, il primo passo era compiuto, la forza attrattiva di Schiller era grandissima, egli tratteneva tutto ciò che gli si avvicinava; io partecipavo ai suoi propositi e promisi di mettere a disposizione per le Ore qualcosa che giaceva ancora in me nascosto; sua moglie, che ero solito amare e stimare fin dalla sua infanzia, diede il suo contributo ad un’intesa duratura, e tutti gli amici, da entrambe le parti, furono lieti; e così, grazie alla più grande lotta, forse inconciliabile, tra soggetto e oggetto, suggellammo un legame che è durato ininterrottamente, e ha prodotto molte ottime cose per noi e per altri. Dopo un simile lieto inizio si sono sviluppate lentamente, nel corso di un rapporto decennale, quelle costruzioni filoso-

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fiche che la mia natura era in grado di contenere, e di cui ritengo di poter dare più ragguagli possibili, anche se già le difficoltà esistenti non mancheranno di saltare immediatamente agli occhi degli esperti. Infatti coloro che abbracciano con lo sguardo, da un osservatorio più elevato, la tranquilla sicurezza dell’intelletto umano, quell’intelletto innato in ogni uomo sano, che non dubita né degli oggetti e della loro relazione, né della propria facoltà di conoscerli, comprenderli, giudicarli, valutarli e usarli, costoro ammetteranno certo di buon grado che è un’impresa quasi impossibile quella di chi intende descrivere i passaggi, che devono essere migliaia e migliaia, ad uno stato affinato, più libero e consapevole di sé. Non si potrà parlare dei gradi della formazione, ma certamente si analizzeranno le vie errate e tortuose, per poi giungere a parlare del salto non intenzionale e del raggiungimento di una cultura più elevata. E chi può dire, in ultima analisi, di aggirarsi sempre, in ambito scientifico, nelle più alte regioni della coscienza, in cui l’aspetto esteriore è esaminato con la più grande accuratezza, con attenzione viva e pacata, e in cui al contempo si fa in modo che domini il proprio intimo, con assennata prudenza, modestia e cautela, nella speranza paziente di giungere ad una contemplazione realmente pura e armonica? Non ci inganna forse il mondo, non inganniamo forse noi stessi in tali momenti? Tuttavia dobbiamo senz’altro nutrire dei pii desideri, poiché non è proibito tentare di avvicinarsi con cura all’irraggiungibile. Ciò che con le nostre esposizioni siamo riusciti ad ottenere, lo raccomandiamo da tempo ai nostri stimati amici, nonché alla gioventù tedesca, che aspira al bene e alla giustizia. Possa tutto questo attrarre e conquistare nuovi appassionati e futuri promotori della scienza.

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Parole originarie, orfiche62

DAIMWN Come nel giorno che ti ha donato al mondo Il sole salutava i pianeti, e tu sei presto cresciuta sempre più secondo la legge che ha presieduto alla tua nascita. Così devi essere, non puoi sfuggire a te stessa, né sibille né profeti possono mutarlo; né tempo né forze possono smembrarti Forma coniata, che vivendo si sviluppa. TUCH Ma un elemento mutevole, gradito, elude I rigidi confini, mutando insieme e intorno a noi; Tu non resti solo, ti formi come un essere socievole, e agisci allo stesso modo in cui agisce un altro. La vita alterna direzioni favorevoli e contrarie, è vana e si trascorre trastullandosi. E già in silenzio il cerchio degli anni si è chiuso, La lucerna attende la fiamma che arda. ERWS Ella non manca certo! – Egli cade dal cielo, cui si era sollevato dal tedio antico, giunge librandosi sulle ali leggere, sembra ora volare attorno a lambire la fronte e il petto,

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durante i giorni di primavera, poi fugge e torna di nuovo, e la salute diventa struggimento, così dolce e trepido. Molti cuori si smarriscono fluttuanti nel tutto, ma il più nobile si dedica ad uno solo. ANAGKH Ed è di nuovo come vollero le stelle: Condizione e legge e ogni volontà È soltanto un volere, poiché avvertimmo il dovere E di fronte alla volontà l’arbitrio tace; Ciò che più si ama è strappato via dal cuore, Al severo dovere si adattano volontà e grilli. Così siamo liberi in apparenza, poiché, dopo vari anni, ci troviamo solo più costretti di quanto non fossimo all’inizio. ELPIS Ma di simili confini, di simili bronzee mura alla porta tanto avversa è tolta la catena, stesse pur lì tenace, come antica roccia! Una creatura si ridesta, leggera, senza freni. Dal manto di nubi, dalla nebbia, dalla pioggia Ci innalza, prestandoci le ali, La conoscete certo, essa migra in ogni regione; un colpo d’ala! E dietro di noi, eoni. Dovete, osservando la natura63, prestare sempre attenzione al singolo e al tutto. Nulla è interno, nulla è esterno: poiché ciò che è dentro è fuori. Afferrate dunque, senza indugio, il sacro, aperto mistero64. Gioite del vero aspetto, del gioco più serio. Nessun essere vivente è un’entità unica, ma sempre è molteplice65.

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Intermezzo66

I saggi che seguono, al pari di quelli che precedono, non devono essere considerati parti di un’opera letteraria compiuta. Redatti secondo prospettive mutevoli e sotto l’influsso di opposti stati d’animo, in tempi diversi, essi non potevano certo giungere a costituire un insieme unitario. Non è possibile datarli con precisione, in parte perché non sempre ho annotato l’anno di composizione, in parte perché, assumendo le funzioni di un redattore di fronte alle mie stesse carte, ero autorizzato a eliminare il superfluo e in parte l’inopportuno. Nonostante questo, è rimasto ancora qualcosa di cui non garantisco: contraddizioni e ripetizioni sono inevitabili se si deve badare a non distruggere del tutto ciò che è ad esse inseparabilmente connesso. Tuttavia questi quaderni, in quanto parti di una vita umana, possono comunque valere da testimonianze della varietà e molteplicità di condizioni attraverso le quali deve districarsi chi sia spinto a perfezionare la propria formazione in più direzioni, più di quanto non sarebbe necessario per meri scopi pratici, secondo la massima:

Se vuoi avanzare all’infinito, percorri il finito in tutte le direzioni.

Oppure, detto altrimenti:

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Natura infinita est, sed qui symbola animadverterit omnia intelliget licet non omnino.

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Influenza della filosofia recente67

Per la filosofia in senso proprio non avevo alcuna disposizione, e soltanto l’incessante azione e reazione con cui ero costretto a resistere al mondo che irrompeva in me e ad appropriarmene, ha finito per condurmi ad adottare un metodo grazie al quale ho cercato di comprendere le opinioni dei filosofi come fossero degli oggetti, che hanno contribuito alla mia formazione. Da giovane amavo leggere con attenzione la storia della filosofia di Brucker68, anche se mi accadeva come a chi per tutta la vita veda girare sulla sua testa il cielo stellato, e sia in grado di distinguere alcune costellazioni appariscenti, pur senza sapere nulla di astronomia, e riconosca l’orsa maggiore ma non la stella polare. Dell’arte e delle sue esigenze teoriche avevo molto discusso a Roma con Moritz 69, e un breve testo a stampa testimonia ancora oggi della feconda oscurità in cui eravamo immersi in quell’epoca. In seguito, con l’esposizione del saggio sulla metamorfosi delle piante, fu necessario sviluppare un metodo conforme alla natura: infatti, quando la vegetazione prefigurava davanti ai miei occhi, un passo dopo l’altro, il suo modo di procedere, io non potevo sbagliare, e anzi, lasciandola fare, non potevo che riconoscere le vie e i mezzi grazie ai quali essa è in grado di portare progressivamente a compiutezza anche lo stadio più embrionale. Nel corso dei miei studi di fisica70 mi si impose poi la convinzione che, in ogni osservazione degli oggetti, il dovere supremo è quello di indagare con precisione

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ciascuna delle condizioni in cui si manifesta un fenomeno, e mirare alla maggior compiutezza possibile; i fenomeni infatti finiscono necessariamente per disporsi in successione, o piuttosto per intrecciarsi gli uni agli altri, e vanno così a costituire, sotto gli occhi dello studioso, una sorta di organizzazione, che manifesta il complesso della loro vita interna. Tuttavia tale stato restava costantemente crepuscolare, e io non trovavo mai nulla che fosse illuminante e corrispondesse al mio modo di sentire; in ultima analisi, infatti, ciascuno tende ad essere illuminato da qualcosa che corrisponde al suo proprio modo di sentire. La Critica della ragion pura di Kant71 era già apparsa da tempo, e tuttavia restava completamente estranea alla mia sfera. Tuttavia avevo assistito ad alcune discussioni al riguardo, e avevo avuto modo di notare, con una certa attenzione, che si rinnovava l’antica questione fondamentale: in che misura il nostro io e il mondo esterno contribuiscano alla nostra esistenza spirituale. Io non avevo mai separato questi due termini, e quando filosofavo a mio modo sugli oggetti lo facevo con inconsapevole ingenuità, credendo realmente di avere i miei pensieri davanti agli occhi. Ma appena il discorso cadeva su quella disputa, preferivo schierarmi dalla parte di chi rendeva il maggiore onore all’uomo, e approvavo pienamente tutti gli amici che affermavano con Kant che, se è vero che ogni nostra conoscenza inizia con l’esperienza, non per questo essa deriva invariabilmente dall’esperienza. Ero propenso ad accettare le conoscenze a priori, così come i giudizi sintetici a priori, poiché anch’io, per tutto il corso della mia vita, poetando e osservando, avevo esercitato alternativamente un procedimento sintetico e poi uno analitico, e per me la sistole e diastole dello spirito umano, come un secondo respiro, non erano mai state distinte, ma erano sempre pulsanti. Tuttavia, per tutto questo non avevo termini e tantomeno frasi, mentre adesso per la prima volta sembrava arridermi una teoria. Ciò che mi attraeva era l’ingresso, ma non osavo addentrarmi nel labirinto: in parte mi tratteneva la mia vena poetica, in parte l’intelletto, e non sentivo nulla che mi facesse progredire. Sfortunatamente Herder72 era bensì un allievo, ma avversario di Kant, e io mi trovavo in una situazione ancora più difficile, non riuscendo a concordare con Herder, né a seguire Kant. Nel frattempo continuavo a indagare con zelo la forma-

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zione e trasformazione delle nature organiche, servendomi del metodo con cui avevo investigato le piante come di un affidabile indicatore. Non mi sfuggiva il fatto che la natura osserva costantemente un procedimento analitico, facendo scaturire ogni sviluppo da un unico insieme vivente e misterioso, ma sembra poi agire di nuovo in modo sintetico, nel momento in cui dei rapporti che appaiono totalmente distanti si trovano riavvicinati e connessi in unità. Tornai dunque nuovamente alla teoria kantiana, credendo di comprendere singoli capitoli meglio di altri, e traendone molte cose utili al mio scopo. In quel momento mi capitò tra le mani la Critica del Giudizio 73, e ad essa devo un’epoca davvero felice della mia esistenza. In quest’opera vedevo poste una accanto all’altra le mie occupazioni così disparate: i prodotti dell’arte e della natura erano trattati allo stesso modo, il giudizio estetico e quello teleologico si illuminavano reciprocamente. Anche se non era sempre possibile accordare il mio modo di vedere con quello dell’autore, e anche se a tratti sembrava che qualcosa mi sfuggisse, tuttavia le principali idee sottese a quel libro erano in tutto analoghe a ciò che avevo fino allora creato, prodotto e pensato; vi si trovavano discusse apertamente l’intima vita dell’arte e della natura, e il loro reciproco agire dall’interno. I prodotti di questi due mondi infiniti dovevano esistere per sé, e ciò che coesisteva sussisteva certo per il suo vicino, ma non intenzionalmente a causa di esso. La mia avversione per le cause finali74 era così regolata e legittimata, riuscivo a distinguere chiaramente scopo ed effetto, e compresi anche perché l’intelletto umano li confonda così spesso. Mi rallegravo che poesia e scienza comparata della natura fossero così vicine, in quanto soggette alla medesima facoltà del Giudizio. Così stimolato e con grande passione proseguii tanto più rapidamente sulla mia strada in quanto io stesso non sapevo dove mi avrebbe condotto e non trovavo risonanza presso i kantiani, né sull’oggetto che avevo fatto mio né sul modo in cui me n’ero appropriato. Io esprimevo infatti unicamente ciò che tale filosofia aveva suscitato in me, non ciò che avevo letto. Risospinto su me stesso, continuai a studiare incessantemente quel libro. Tuttora trovo piacere a rileggere i luoghi che allora avevo sottolineato sulla mia vecchia copia, così come quelli della Critica della ragion pura, in cui mi sembrava di penetrare ancora più a fondo, poiché due opere scaturite

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da un’unica mente si richiamano sempre a vicenda. Non mi riuscì però di avvicinarmi allo stesso modo ai kantiani, i quali mi ascoltavano ma non sapevano controbattermi, né fornirmi altri spunti. Più di una volta mi accadde di sentire ammettere da uno o dall’altro, con sorridente stupore, che si trattava proprio di un analogo del modo di pensare di Kant, anche se piuttosto strano. La singolarità di queste reazioni venne alla luce per la prima volta non appena si ravvivarono i miei rapporti con Schiller75. Le nostre conversazioni vertevano in genere su argomenti produttivi o teoretici, solitamente su entrambi al contempo: Schiller predicava il vangelo della libertà, io non volevo che si limitassero i diritti della natura. Per amicizia nei miei confronti forse più che per propria convinzione, nelle lettere estetiche egli non trattò la buona madre natura con quelle espressioni dure che mi avevano reso odioso il suo saggio su Grazia e dignità. Tuttavia, poiché per parte mia sono ostinato e testardo, e non soltanto avevo sottolineato i meriti dell’immaginazione poetica greca e della poesia che su di essa si fonda e ne deriva, ma sostenevo addirittura che tale poesia fosse l’unica giusta e auspicabile, egli fu spinto a riflettere in modo più accurato, e proprio ad un simile conflitto si devono i saggi sulla poesia ingenua e sentimentale. I due modi di fare poesia devono adattarsi, uno di fianco all’altro, a riconoscersi reciprocamente il medesimo rango. In tal modo Schiller poneva il primo fondamento per un’estetica interamente nuova, poiché i termini ellenico e romantico, e qualunque altro aggettivo si voglia trovare come sinonimo, si possono ricondurre al punto in cui, per la prima volta, si discusse della priorità di una trattazione reale o ideale. Così mi abituai sempre più ad un linguaggio che mi era completamente estraneo, e in cui riuscivo a ritrovarmi con tanta maggior facilità in quanto, grazie alla superiore rappresentazione dell’arte e della scienza che esso favoriva, ero indotto a considerare me stesso più rispettabile e ricco, quando invece in precedenza ci siamo lasciati trattare in modo indegno dai filosofi popolari e da un’altra specie di filosofi, a cui non saprei nemmeno dare un nome. Di ulteriori progressi sono debitore in particolare a Niethammer 76, che con la più amichevole costanza si è adoperato per dissigillarmi gli enigmi più grandi, e per sviluppare e chiarire

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singoli concetti ed espressioni. Ciò che, contemporaneamente e in seguito, dovetti a Fichte, Schelling, Hegel, ai fratelli Humboldt e Schlegel, vorrei poterlo esporre con gratitudine in futuro, se mi sarà concesso, se non di descrivere, almeno di accennare e tratteggiare dal mio punto di vista quell’epoca per me così importante77, l’ultimo decennio del secolo passato.

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Giudizio della intuizione

All’epoca in cui cercavo, se non di penetrare a fondo, almeno di utilizzare il più possibile la teoria kantiana, a volte ero indotto a pensare che quell’uomo valente procedesse in modo furbesco e ironico, dal momento che sembrava a tratti impegnato a limitare al minimo la facoltà conoscitiva, e a tratti invece indicava con un cenno oltre i confini da lui stesso tracciati. Certo egli deve aver notato la presunzione e la saccenteria che usa l’uomo quando, con molta disinvoltura, pur se dotato di poche esperienze, non esita a esprimere giudizi avventati e a stabilire precipitosamente qualcosa, mirando ad attaccare agli oggetti un qualche grillo che gli salti per la testa. Per questo motivo il nostro maestro limita l’uomo che pensa ad una facoltà di giudizio discorsiva e riflettente, negandogli del tutto il giudizio determinante. Ma poi, dopo averci messo alle strette e addirittura spinti alla disperazione, si decide infine a concedere dichiarazioni più liberali e lascia che facciamo l’uso che vogliamo della libertà che in certa misura ci accorda. In questo senso per me fu molto significativo il passo che segue: Possiamo concepire anche un intelletto che, non essendo discorsivo come il nostro, ma intuitivo, vada dal generale sintetico (dalla percezione di un tutto come tale) al particolare, vale a dire dal tutto alle parti. […] Qui non è necessario dimostrare la possibilità di un tale intellectus archetypus, ma basta provare che dal confronto del nostro intelletto discorsivo, che ha bisogno di immagini (intellectus ectypus), con la contingenza di questa sua natura, siamo condotti per via di

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paragone a quell’idea di un intellectus archetypus, e che questa non contiene alcuna contraddizione78.

In effetti sembra che qui l’autore alluda a un intelletto divino; ma se in ambito morale dobbiamo elevarci a una regione più alta e approssimarci all’essenza prima attraverso la fede in Dio, la virtù e l’immortalità, allora dovrà certo valere altrettanto anche in ambito intellettuale, e l’intuizione di una natura sempre creatrice dovrà renderci degni di partecipare spiritualmente delle sue produzioni. Se dunque, dapprima inconsapevolmente e sulla spinta incessante di un impulso interiore verso quell’idea di un modello originario e di un tipo, ero riuscito a costruire una rappresentazione conforme alla natura, ormai più nulla poteva impedirmi di affrontare coraggiosamente l’avventura della ragione 79, come la chiama lo stesso vegliardo di Königsberg.

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Esitazione e rassegnazione80

Osservando l’edificio dell’universo nella sua più vasta estensione e nella sua estrema divisibilità, non possiamo reprimere l’impressione che alla base del tutto risieda un’idea secondo cui, di eternità in eternità, Dio può creare e agire nella natura, e la natura in Dio. L’intuizione, l’osservazione e la riflessione ci conducono sempre più vicino a questi misteri. Allora ci azzardiamo a formulare idee, torniamo modesti e ci costruiamo dei concetti che possano risultare analoghi a quei princìpi primi. Ed è qui che incontriamo la difficoltà peculiare, che non sempre affiora alla coscienza, per cui tra idea ed esperienza sembra essersi consolidata una frattura, e invano impieghiamo tutte le nostre forze per oltrepassarla. Malgrado ciò, resta nostra eterna aspirazione quella di superare questo iato con la ragione, l’intelletto, l’immaginazione, la fede, il sentimento, l’illusione e, se nient’altro ci soccorre, la follia. Infine scopriamo, proseguendo onestamente i nostri sforzi, che potrebbe aver ragione il filosofo che afferma che nessuna idea è mai completamente congruente all’esperienza, pur ammettendo che idea ed esperienza possono, e anzi devono essere analoghe. La difficoltà di unire l’una all’altra idea ed esperienza81 appare un grave ostacolo in ogni indagine sulla natura. L’idea è indipendente dallo spazio e dal tempo, mentre l’indagine naturale è limitata nello spazio e nel tempo; ne segue che, se nell’idea l’elemento simultaneo e quello successivo sono inti-

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mamente collegati, dal punto di vista dell’esperienza essi sono invece sempre separati, e dunque un effetto naturale che, conformemente all’idea, dovremmo pensare come simultaneo e successivo allo stesso tempo, sembra trasportarci in una sorta di follia. L’intelletto non può pensare come unito ciò che la sensibilità gli ha trasmesso come diviso, e dunque il contrasto tra ciò che è percepito e ciò che è ideato resta costantemente irrisolto. Allora fuggiamo nella sfera della poesia per trovare un qualche sollievo, e ripetiamo un’antica canzone82 con qualche variante: Guardate dunque con sguardo modesto il capolavoro dell’eterna tessitrice: come un passo muova migliaia di fili, la spola passi rapidamente da un capo all’altro, incessante, i fili scorrano incontrandosi, e un colpo solo li avvolga in migliaia di intrecci. Tutto ciò essa l’ha riunito non mendicando, ma l’ordisce dall’eternità, affinché l’eterno artefice possa gettare con fiducia la trama.

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Impulso alla formazione83

Su ciò che è stato realizzato riguardo a tale importante questione, Kant si esprime, nella sua Critica del Giudizio, nel modo seguente: «Nessuno più di J.F. Blumenbach si è adoperato per questa teoria dell’epigenesi, sia per dimostrarla, sia per stabilire i veri princìpi della sua applicazione ed anche moderarne l’abuso»84. Una simile attestazione del coscienzioso Kant mi ha spinto a riprendere l’opera di Blumenbach, che avevo letto in effetti già tempo prima, senza tuttavia penetrarla a fondo. Qui ho trovato così che il mio Caspar Friedrich Wolff85 si poneva come anello intermedio tra Haller e Bonnet da un lato, e Blumenbach dall’altro. A sostegno della sua epigenesi, Wolff doveva presupporre un elemento organico, dal quale poi si alimentassero gli esseri destinati alla vita organica. Egli attribuì a questa materia una vis essentialis, che si adatta a tutto ciò che vuole autoprodursi e che in tal modo innalza se stesso al rango di produttore. Espressioni del genere lasciavano ancora a desiderare, poiché ad una materia organica, anche se la si pensa ancora come vivente, resta pur sempre attaccato qualcosa di materiale. Il termine ‘forza’ designa in primo luogo un’entità di natura esclusivamente fisica, e addirittura meccanica; dunque ciò che dovrebbe organizzarsi a partire da quella materia resta per noi un punto oscuro e incomprensibile. Ora, Blumenbach consegue il punto più alto ed estremo dell’espressione, dando un

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significato antropomorfico alla parola dell’enigma, e definendo ciò di cui si parla un nisus formativus, un impulso, un’attività impetuosa che dovrebbe causare la formazione. Considerando tutto ciò più da vicino, procederemmo più rapidamente, comodamente e forse anche con maggiore profondità se riconoscessimo che, per osservare ciò che è dato, occorre ammettere un’attività precedente e, se vogliamo pensare un’attività, dobbiamo porre alla sua base un elemento adeguato su cui possa agire, concependo infine tale attività con una base simile come costantemente unite ed eternamente coesistenti. Un tale prodigio personificato ci si presenta come un Dio, creatore e conservatore, che siamo esortati a pregare, venerare e lodare in ogni modo. Se torniamo nel campo della filosofia e consideriamo ancora una volta l’evoluzione e l’epigenesi, queste ci sembrano parole che non possono che lasciarci a mani vuote. La teoria dell’inscatolamento non potrà che risultare presto ripugnante ad un uomo di cultura, ma nella teoria dell’assimilazione e dell’aggregazione si presuppone pur sempre qualcosa che assimila e qualcosa che è assimilato e, se non vogliamo pensare ad una preformazione, giungiamo tuttavia alla predelineazione, alla predeterminazione e a qualcosa di prestabilito, o comunque si voglia chiamare ciò che necessariamente deve precedere la nostra percezione sensibile. Oso dunque sostenere questo: che quando si manifesta un essere organico non è possibile concepire unità e libertà dell’impulso di formazione senza il concetto di metamorfosi. In conclusione propongo uno schema, che possa stimolare ulteriori riflessioni: Materia. Facoltà. Forza. Energia. Tensione. Impulso. Forma.

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Vita.

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[A proposito dello scritto sulla metamorfosi]86

tre recensioni favorevoli 87 Quella della paternità di un’opera è questione molto personale. Preoccuparsi troppo o troppo poco di ciò che si è realizzato può essere in entrambi i casi un errore. Certo, un uomo vivo vuole senz’altro agire sulla vita e dunque desidera che il suo tempo non resti muto di fronte a lui. Nei miei lavori in ambito estetico non mi sono lamentato del mio tempo, e tuttavia mi sono accontentato di me stesso, provando poco piacere nel ricevere plausi e poco dispiacere di fronte alla disapprovazione. La leggerezza giovanile, l’orgoglio e l’esuberanza mi hanno aiutato ad allontanare tutto ciò che mi sarebbe potuto risultare piuttosto spiacevole. Inoltre è presente, nel senso più alto, la sensazione per cui si produce, e non si può che produrre, tutto da soli, poiché nessuno può aiutarci, e lo spirito possiede una forza tale da sentirsi innalzato al di sopra di qualunque ostacolo. Un altro gradevole dono della natura consiste nel fatto che lo stesso atto del produrre sia un piacere, e sia compenso a se stesso, sicché si crede di poter fare a meno di ulteriori richieste. In ambito scientifico, però, ritengo che non valga lo stesso: in questo caso infatti, per giungere ad una certa profondità e padronanza, si richiede assiduità, fatica, impegno, e, ciò che ancor più conta, avvertiamo che qui il singolo individuo non è sufficiente. Se soltanto guardiamo la storia, troviamo che lungo i secoli c’è stato bisogno di una serie di uomini dotati

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affinché si riuscisse a scorgere qualcosa della natura e della vita umana. Di anno in anno vediamo prodursi nuove scoperte e ci convinciamo di essere in un campo sconfinato. E poiché in quest’ambito noi lavoriamo seriamente non per noi stessi, ma per una causa degna, chiediamo anche di essere riconosciuti, nel momento in cui riconosciamo gli sforzi altrui, e desideriamo aiuto, partecipazione e sostegno. E neppure questo mi sarebbe mancato se fossi stato più attento a ciò che accadeva nel mondo dei dotti; ma l’incessante aspirazione a completare da ogni lato la mia formazione, che mi occupava proprio nel momento in cui straordinari avvenimenti mondiali ci agitavano intimamente e ci tormentavano esteriormente, è stata la causa che mi ha impedito di chiedermi cosa si pensasse dei miei lavori scientifici. Dunque mi accadde il caso singolarissimo di leggere solo con molto ritardo due recensioni88 molto favorevoli alla Metamorfosi delle piante: una era apparsa sulla «Gothaische Gelehrte Zeitung» del 23 aprile 1791, l’altra nella «Allgemeine Deutsche Bibliothek», vol. 116, p. 477. Come se una sorte favorevole avesse voluto preservare per me qualcosa di piacevole, questo avveniva proprio nel periodo in cui, in un altro campo, ci si permetteva da ogni parte di comportarsi nel modo più vile nei miei confronti89. altre attestazioni amichevoli Oltre a questi incoraggiamenti, mi ha ricompensato il fatto che il mio breve scritto fosse accolto in una enciclopedia di Gotha90, dal che mi sembrò risultare quantomeno che si attribuiva al mio lavoro una qualche utilità in generale. Jussieu 91, nella sua Introduzione alla teoria botanica, aveva pensato alla metamorfosi, ma solo limitatamente ai fiori doppi e mostruosi, mentre non era chiaro se in questo caso si trovasse anche la legge della formazione regolare. Usteri 92, nell’edizione zurighese dell’opera di Jussieu, pubblicata nel 1791, promette di chiarire questo argomento, nella sua appendice a quell’introduzione, quando scrive: De Metamorphosi Plantarum egregie nuper Goethe V. Cl. egit, ejus libri analysin uberiorem dabo. Purtroppo il periodo tempestoso che è seguito ci ha privato, e ha privato me in particolare, delle osservazioni di quest’uomo straordinario.

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Willdenow 93, nei Lineamenti della scienza delle erbe, apparsi nel 1792, non prende in considerazione il mio lavoro, che tuttavia non gli è ignoto, poiché a pagina 343 egli scrive: «La vita delle piante dunque, come scrive il signor Goethe con molto garbo, si compone di dilatazione e contrazione, e quelle variazioni costituiscono i diversi periodi della vita». Posso certo lasciar correre sul garbo, in particolare per il posto onorevole in cui ricorre la citazione; ma l’avverbio ‘egregie’ usato dal signor Usteri è certo molto più garbato e suscita la mia riconoscenza. Anche altri studiosi della natura mi hanno manifestato una certa attenzione. Batsch, come prova della sua simpatia e gratitudine, istituisce una Goethia94, ed è così cortese da porla tra i semper vivum, anche se essa non si è poi mantenuta nel sistema e non saprei indicare sotto quale nome si trovi attualmente. Uomini benevoli del Westerwald hanno scoperto un bel minerale e l’hanno chiamato, in mio onore e per affetto nei miei confronti, ‘Goethite’95; per questo sono ancora molto obbligato verso i signori Cramer e Achenbach, sebbene questa denominazione sia scomparsa rapidamente dalla mineralogia. Il minerale era denominato anche mica rubina, e attualmente è noto con il nome di pirosiderite. Per me è stato sufficiente, però, che di fronte ad un prodotto naturale così bello si sia pensato a me, anche se solo per un momento. Un terzo tentativo di erigere un monumento al mio nome in ambito scientifico è stato avanzato di recente dal professor Fischer 96, in ricordo dei buoni rapporti intercorsi tra noi: nel 1811 egli ha pubblicato a Mosca un Prodromum craniologiae comparatae, in cui elenca Observata quaedam de osse epactali, sive Goethiano palmigradorum, accordandomi l’onore di chiamare col mio nome una sezione dell’osso occipitale posteriore, a cui avevo dedicato una certa attenzione durante le mie ricerche. Anche questa buona volontà, tuttavia, difficilmente raggiungerà il suo scopo, e come nei casi precedenti dovrò sopportare di veder scomparire dal corpus delle denominazioni scientifiche anche una testimonianza così cortese. In ogni caso, se la mia vanità dovesse sentirsi ferita per il fatto che il mio nome non sarà ricordato né tra i fiori, né tra i minerali, né tra gli ossicini, potrò comunque risollevarmi grazie al benevolo interessamento di un amico molto stimato. La traduzione tedesca delle sue Idee per una geografia delle piante, accompagnate da una tavola fisica delle regioni tropicali mi

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è stata inviata da Alexander von Humboldt 97 insieme ad un’immagine lusinghiera con cui egli allude al fatto che anche alla poesia può riuscire di sollevare il velo della natura; e se è lui a concederlo, chi potrà negarlo? Mi ritengo obbligato ad esprimere per questo pubblicamente la mia riconoscenza. Sarebbe forse conveniente, in questa sede, riconoscere con pari gratitudine che diverse accademie delle scienze, e varie società attive nella promozione della ricerca naturale mi hanno voluto gentilmente accogliere tra i loro membri. E se mi si dovesse rimproverare di dire tutto questo di me stesso senza remore, se si dovessero considerare affermazioni simili come disdicevoli autoelogi, si coglierà presto l’opportunità di raccontare in modo altrettanto libero e franco con quale ostilità e avversione siano stati trattati i miei sforzi scientifici in un ambito affine98 da ventisei anni a questa parte. Ma volgiamoci al momento verso ulteriori e piacevoli fatiche, nel sereno regno botanico! Infatti, non appena invio per la stampa questo scritto, ricevo ancora una volta una piacevolissima ricompensa per il mio lavoro e la mia perseveranza. Trovo infatti che il mio lavoro è preso in gran considerazione nella Storia della botanica del degnissimo Kurt Sprengel 99, che consulto per avere una visione d’insieme dello sviluppo di una scienza tanto apprezzata. E dove mai si potrebbe cercare una ricompensa più alta che essere approvati da simili uomini, che abbiamo sempre avuto davanti agli occhi, durante la nostra impresa, come dei costanti protagonisti? È una grande fortuna quella di non doversi lamentare, con il trascorrere degli anni, del cambiamento nella disposizione della propria epoca. La giovinezza desidera trovare simpatia e partecipazione, nell’età adulta si chiede il plauso, mentre in età avanzata ci si aspetta approvazione; e se la prima riceve per lo più la parte che le è destinata, in età anziana ci si vede molto spesso ridotto il proprio compenso, poiché, se anche un anziano non sopravvive a se stesso, è pur vero che altri sopravvivono dopo di lui, e lo precedono, sviluppando e ampliando modi di pensare e di agire che egli non aveva nemmeno immaginato. A me, invece, è accaduta la sorte che desideravo. Alcuni giovani sono giunti sulla via che io percorro con gioia, in parte spinti dai miei esercizi preparatori, in parte perché erano già sulla strada loro dischiusa dallo spirito dell’epoca. Ormai sono

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quasi impensabili arresti e ostacoli: si possono prevedere degli atteggiamenti precipitosi ed eccessivi piuttosto che dei momenti regressivi e stagnanti. In tempi così propizi, di cui godo con gratitudine, non ci si ricorda quasi più di quell’epoca così limitata in cui nessuno giungeva in soccorso di chi si prodigava nel modo più serio e sincero. Posso elencare qui alcuni casi, che possono fungere da esempio e da testimonianza a futura memoria. Il mio primo breve scritto dedicato alla natura aveva appena suscitato qualche reazione, in realtà non favorevole, quando, durante un viaggio, mi imbattei in un uomo molto distinto e avanti negli anni100, che dovetti venerare sotto ogni rispetto, e anche amare, poiché mi favorì costantemente. Dopo una prima accoglienza serena, mi considerò, alquanto pensoso: aveva sentito dire che avevo iniziato a studiare botanica, e aveva qualche ragione per cercare seriamente di dissuadermi, poiché egli stesso aveva tentato senza successo di avvicinarsi a questo ramo della scienza. Invece di una natura serena, vi aveva trovato solo nomenclature e terminologie, e una scrupolosa insistenza nel dettaglio, in grado di uccidere lo spirito, impedendo e paralizzando qualunque suo più libero movimento. Egli mi consigliava perciò amichevolmente di non scambiare il campo eternamente in fiore della poesia con flore provinciali, giardini botanici e serre, se non erbari essiccati. Ora, per quanto io prevedessi che sarebbe stato molto difficile informare e convincere il benevolo amico del valore dei miei scopi e dei miei sforzi, iniziai tuttavia confessandogli di aver scritto un opuscolo sulla metamorfosi delle piante. Egli non mi lasciò finire il discorso, ma mi interruppe con gioia, dicendosi soddisfatto, consolato e liberato dal suo errore, poiché riconosceva che io avevo affrontato l’argomento al modo di Ovidio, e si rallegrava fin da subito nell’apprendere con quale grazia io avessi ornato i giacinti, le cinzie e i narcisi. La conversazione virò quindi verso altri temi, che godevano della sua piena approvazione. A quell’epoca non si riusciva a valutare con chiarezza ciò che si voleva e che si auspicava, poiché questo si trovava del tutto al di fuori dell’orizzonte del tempo. Ci si dedicava a tutte le attività in modo isolato: la scienza e le arti, il commercio, l’artigianato, e tutto ciò che si può immaginare, tutto si muo-

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veva entro circoli chiusi. Ciascuno agiva in tutta serietà, ma per tale ragione ciascuno lavorava soltanto per sé e a suo modo, mentre il vicino gli restava completamente estraneo, di modo che entrambe le parti si estraniavano reciprocamente. L’arte e la poesia non si toccavano quasi, e non c’era affatto da immaginare alcuna loro viva interazione, mentre la poesia e la scienza sembravano diametralmente opposte. Mentre ciascun singolo campo di azione si separava dagli altri, al contempo si isolava e frammentava anche il modo di procedere di ogni sfera. Era sufficiente anche solo un alito di teoria per suscitare timore: infatti, da più di un secolo si era fuggita la teoria come un fantasma, per gettarsi però in ultimo, seguendo la frammentazione dell’esperienza, tra le braccia delle opinioni più comuni. Nessuno voleva ammettere che alla base dell’osservazione potesse trovarsi un’idea, un concetto, che agevolava l’esperienza, e anzi favoriva nuove scoperte. Ora non poteva che accadere che, in scritti o in conversazioni, si formulassero delle osservazioni che risultavano gradite a simili brave persone, che le accoglievano e accettavano singolarmente di buon grado; in tali casi essi lodavano e definivano tali idee dei colpi fortunati, attribuendo con piacere un certo ingegno a chi le aveva comunicate, poiché certamente anch’essi, singolarmente, avevano a disposizione un certo ingegno. In tal modo essi salvavano la loro inconseguenza, concedendo qualche buona idea anche a qualcuno che non facesse parte della loro cerchia. rielaborazioni e raccolte Poiché la teoria della metamorfosi non può in generale essere esposta in un’opera autonoma e conclusa, ma può essere presentata propriamente soltanto come un modello, o un criterio cui si attengono le nature organiche e in base al quale esse devono essere misurate, ciò che mi risultò più naturale e immediato fu che, per penetrare più a fondo nel regno vegetale, cercassi di costruirmi nel dettaglio un concetto delle diverse forme e della loro genesi. Tuttavia, pensando di proseguire per iscritto il lavoro che avevo iniziato, e di condurre più nel particolare ciò che avevo accennato in generale, raccolsi esem-

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pi di formazioni, trasformazioni e deformazioni, di cui la natura abbonda. Feci realizzare dei disegni, delle tavole a colori e delle incisioni di ciò che mi sembrava istruttivo, e in tal modo predisposi la prosecuzione del mio primo lavoro, mentre al contempo aggiungevo con cura i fenomeni più significativi nei vari paragrafi del mio saggio. Grazie alla stimolante frequentazione con Batsch, appresi poco a poco l’importanza dei rapporti tra le famiglie vegetali, e mi tornò molto utile l’edizione realizzata da Usteri dell’opera di Jussieu. Tralasciai gli acotiledoni, prendendoli in considerazione soltanto nei casi in cui si approssimavano ad assumere delle forme decise. Tuttavia, non poteva sfuggirmi il fatto che l’osservazione dei monocotiledoni garantisce la visione più rapida, poiché, in ragione della semplicità dei loro organi, essi portano alla luce apertamente i segreti della natura, alludendovi sia in prospettiva, in direzione delle fanerogame più sviluppate, sia retrospettivamente, verso le misteriose crittogame. Nella vita movimentata, spinto qui e là da occupazioni, distrazioni e passioni disparate, mi accontentai di elaborare da me ciò che avevo acquisito, mettendolo a frutto per me stesso. Con piacere seguivo il gioco capriccioso della natura, senza esprimermi oltre al riguardo. I grandi lavori di Humboldt, le ampie opere di tutte le nazioni fornivano materia sufficiente per una quieta contemplazione. Infine essa mi volle educare nuovamente all’attività, ma, nel momento in cui credevo di avvicinare i miei sogni alla realtà, le lastre di rame andarono perdute, e non trovai la volontà e l’animo per realizzarle da capo. Nel frattempo, questo modo di rappresentare aveva conquistato menti giovani, e si era sviluppato in modo più vivido e fecondo di quanto io avessi pensato, sicché ora trovavo valida qualunque scusa che giungesse in soccorso della mia indo­lenza. Ma se guardo adesso, dopo così tanti anni, ciò che mi è rimasto di quelle fatiche, se considero ciò che mi trovo davanti, piante e parti di piante essiccate o conservate in altro modo, disegni e incisioni, note a margine apposte ai miei saggi, appunti, estratti da libri e recensioni, e le successive varie pubblicazioni a stampa, vedo molto chiaramente che lo scopo che avevo davanti agli occhi non poteva che restare irraggiungibile per me, per la condizione in cui mi trovavo, con il mio modo

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di pensare e di agire. Infatti l’impresa che tentavo non era nulla di meno che quella di rappresentare singolarmente e figurativamente, seguendo un ordine graduale, ciò che avevo formulato in generale e consegnato in parole al concetto e all’intuizione interiore, così da mostrare anche al senso esterno come dal seme di tale idea possa svilupparsi, in modo semplice e lieto, l’intero albero della teoria botanica, in grado di estendere la sua ombra sul mondo. Il fatto che un’opera simile non mi volesse riuscire non mi rattrista affatto in questo momento, poiché a partire da quell’epoca la scienza si è formata fino a giungere ad un grado più elevato, e uomini capaci hanno a disposizione ogni mezzo, e in misura molto maggiore, per promuoverla. Disegnatori, pittori, incisori, quanto sono informati e colti per farsi apprezzare anche come botanici! In effetti, chi vuole imitare e riprodurre deve saper comprendere l’oggetto su cui lavora, ed esaminarlo a fondo, altrimenti l’immagine mostrerà solo una parvenza, e non il prodotto naturale. Uomini simili sono necessari quando il pennello, la puntasecca o il bulino sono chiamati a dar conto dei passaggi delicati mediante i quali una forma si muta in un’altra: essi devono, in primo luogo e principalmente, scorgere con l’occhio della mente nell’organo che si prepara ciò che è atteso e ciò che segue necessariamente, nonché la regola nell’eccezione. Qui dunque vedo la speranza prossima che, nel momento in cui un uomo ragionevole, energico e intraprendente si ponesse al centro e ordinasse, determinasse e costruisse con sicurezza tutto ciò che potrebbe risultare utile al suo proposito, allora non potrebbe che venire alla luce in forma soddisfacente proprio quell’opera che in precedenza era apparsa impossibile. Certo in tal caso, per non rovinare il buon argomento, come è avvenuto finora, occorrerebbe prendere le mosse dalla metamorfosi autentica, sana e fisiologicamente pura, e solo in un secondo momento esporre gli avanzamenti e le regressioni di ordine patologico e incerto che presenta la natura, nonché le deformazioni vere e proprie delle piante, in modo tale da porre fine a quel procedimento controproducente in base al quale si chiamava in causa la metamorfosi solo nei casi in cui si discuteva di forme irregolari e di deformazioni. Riguardo a quest’ultimo caso si apprezzerà il libro del nostro eccellente Jä-

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ger 101 come un incoraggiante lavoro di preparazione e collaborazione: in effetti questo osservatore fedele e accurato avrebbe potuto prevenire tutti i nostri desideri e sarebbe stato in grado di elaborare l’opera a cui alludiamo se avesse scelto di considerare anche la condizione sana delle piante, oltre a quella malata. Mi sia concesso di collocare qui alcune riflessioni che ho messo per iscritto quando sono venuto a conoscenza dell’opera che ho appena menzionato, sommamente stimolante per il mio studio. Nel regno vegetale si definisce propriamente ‘normale’ nella sua compiutezza ciò che è sano e fisiologicamente puro; tuttavia, l’abnorme non è da considerare immediatamente come malato o patologico. Eventualmente è solo il mostruoso che potrebbe ascriversi a questa categoria. Perciò in molti casi non è corretto parlare di errori ma, come indica anche la parola mancanza, si tratta qui di qualcosa che si allontana: può darsi infatti anche un eccesso, o uno sviluppo che avviene senza – o contro – il punto di equilibrio. Occorrerebbe usare con cautela anche le parole come ‘sviluppo sbagliato’, ‘deformazione’, ‘mutilazione’, ‘atrofia’, poiché in questo regno la natura, pur agendo con assoluta libertà, non può mai allontanarsi dalle sue leggi fondamentali. La natura forma in modo normale quando conferisce la regola a innumerevoli dettagli, determinandoli e condizionandoli; abnormi si rivelano invece i fenomeni nel momento in cui prevalgono i particolari distinguendosi in modo arbitrario e apparentemente casuale. Tuttavia, poiché i due procedimenti sono vicini e affini tra loro, e sia ciò che è regolato sia ciò che è privo di regola sono animati da un unico spirito, si determina un’oscillazione tra ciò che è normale e ciò che è abnorme, poiché formazione e trasformazione si avvicendano continuamente, in modo tale che ciò che è abnorme sembra diventare normale e viceversa. La forma della parte di una pianta può essere eliminata o estinta senza che si possa chiamare tale fenomeno una deformazione. La centofoglie non è detta deforme, anche se potremmo certo chiamarla abnorme, mentre deforme è la rosa prolifera, poiché in essa la bella forma della rosa è cancellata

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e la sua delimitazione regolare è abbandonata in favore di una opposta ampiezza. Tutti i fiori doppi li elenchiamo tra gli abnormi, ed è certo degno di una certa attenzione il fatto che in simili fiori aumenti sia la bellezza dell’aspetto che la forza e la soavità del profumo. La natura oltrepassa i confini che essa stessa si è posta, e in tal modo raggiunge una diversa compiutezza; per questa ragione sarà bene che ci serviamo il meno possibile di espressioni negative. Gli antichi indicavano con il termine tevra", prodigium, monstrum102, un segno prodigioso, denso di significato, e degno di ogni attenzione; è in questo senso che Linné ha definito, molto felicemente, la sua Peloria 103. Vorrei che ci si lasciasse davvero pervadere dalla verità: non si può mai giungere ad un’intuizione completa, se non si considera ciò che è normale e ciò che è abnorme nella loro costante e reciproca oscillazione e azione. Quando Jäger (pag. 7) parla di deformazione della radice104, noi richiamiamo alla mente la sua metamorfosi sana. Prima di tutto, infatti, ciò che risulta evidente è la sua identità con il tronco e il ramo. Vedemmo una volta tracciare una strada panoramica su un antico monte coperto di faggi: per ottenere una superficie, fu necessario intervenire in misura massiccia per dargli l’andamento di un pendio. Quelle radici vecchissime avevano appena visto la luce del sole e goduto dell’aria vivificante del cielo, che in un momento apparivano tutte verdeggianti come un giovanissimo cespuglio. Era impressionante da vedere, anche se è possibile osservare quotidianamente fenomeni simili: ogni giardiniere, infatti, a causa delle radici che corrono sotto il terreno e si espandono producendo rami senza sosta, è costretto a continuare ininterrottamente il suo lavoro di ripulitura, anche se al contempo gli si mostra così l’importante processo della moltiplicazione. Se ora osserviamo il mutamento di forma della radice, notiamo che la sua consueta costituzione in forma di fibra può cambiare in vari modi, in particolare ad opera di rigonfiamenti. La forma delle rape è nota a tutti, al pari di quella dei tuberi. Questi ultimi sono radici rigonfie, concluse in se stesse, ripartite sulla superficie germoglio accanto a germoglio: a questo genere appartengono le nostre patate commestibili, che presentano una molteplicità di modalità vegetative, basata

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sull’identità di tutte le loro parti. Lo stelo e il ramo producono radici, non appena sono posti sotto terra, e così via all’infinito. A noi si è presentato un caso molto piacevole: in una zona cimiteriale si era sviluppato, tra le piante erbacee, anche un ceppo di patate, che era rimasto inosservato; i suoi rami si stendevano sul terreno e restavano così, all’ombra delle altre erbe, in un’atmosfera umida. In autunno gli steli apparvero gonfiati in piccole patate affusolate, su cui spuntava un’ulteriore coroncina di foglie. Conosciamo un fenomeno analogo nel caso dello stelo che si gonfia alla superficie del terreno in funzione di organo preparatorio dal quale scaturiscono immediatamente le infiorescenze, come nel cavolo rapa; del pari esso si presenta come un organo compiuto e fecondato nell’ananas. Una pianta priva dello stelo può acquistare, grazie ad un migliore nutrimento, uno stelo significativo. Tra pietre aride, su rocce calcaree scarne e assolate, la carlina si presenta completamente acaulis, ma, su un terreno anche solo un poco più morbido, si innalza immediatamente; nella terra buona dei giardini non la si riconosce più, poiché acquisisce uno stelo alto ed è chiamata, di conseguenza, carlina acaulis, caulescens. Dunque la natura ci costringe a cambiare le nostre definizioni, riconoscendo arrendevoli il suo libero agire e mutare. Occorre dunque ammettere, anche in onore della botanica, che essa avanza sempre più, con la sua terminologia, nella comprensione dei movimenti più sottili; proprio in questo momento veniamo a conoscere casualmente degli esempi notevoli di tutto ciò, negli ultimi fascicoli della rivista botanica di Curtis105. Quando il tronco si divide, quando il numero delle sezioni dello stelo cambia e quando si verifica un ampliamento (Jäger, pp. 9-20), questi tre fenomeni indicano ancora una volta il fatto che nelle forme organiche possono e devono svilupparsi vari elementi formati allo stesso modo, l’uno nell’altro, l’uno insieme, accanto e dopo l’altro. Tali fenomeni, vale a dire, alludono alla molteplicità nell’unità. Ogni foglia, ogni gemma ha in sé il diritto di diventare un albero, e il fatto che non giunga a quel grado di sviluppo consente di contenere la salute vigente dello stelo, del tronco. Non si ripete mai abbastanza spesso che ciascuna organizzazione riunisce vari elementi viventi. Nel caso in questione, osserviamo

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lo stelo: è solitamente arrotondato, oppure è da considerare rotondo dall’interno verso l’esterno. Ora, è proprio questa rotondità ciò che mantiene come singole unità le particolarità delle foglie e delle gemme, separandole le une dalle altre, e facendole crescere, in successione ordinata, fino allo sviluppo regolare della fioritura e dei frutti. Se una simile entelechia della pianta viene bloccata, se non eliminata, allora il centro perde la sua forza regolativa, la periferia si contrae e ciascuna singola tendenza rivendica il suo particolare diritto. Nella fritillaria imperiale un tale caso è frequente: uno stelo appiattito e molto allargato sembra consistere di sottili cannule ammassate simili a scanalature; lo stesso caso si presenta anche negli alberi. Il frassino, in particolare, è soggetto ad una tale anomalia, con la differenza che in esso la periferia non si comprime appiattendosi, un elemento contro l’altro. Il ramo appare cuneiforme, e all’estremità appuntita perde la regolarità della sua vegetazione, mentre in alto, nelle parti più larghe, continua ancora a ramificarsi. La parte inferiore e più stretta dapprima si assottiglia, si ritrae e resta indietro, mentre la parte superiore continua a crescere robusta, producendo ancora dei rami compiuti, anche se, malgrado ciò, si incurva, rendendosi flessibile sotto quel peso. In questo modo però risulta la struttura meravigliosamente regolare di un bastone episcopale, fecondo modello per gli artisti. Una simile propagazione è notevole anche per il fatto che possiamo definirla in modo pienamente appropriato come una prolessi 106: vi scorgiamo infatti un’urgenza precipitosa di far spuntare e di formare germogli, fiori e frutti. Sullo stelo appiattito della fritillaria imperiale, come su quello dell’aconito, si mostrano molti più fiori completi di quanti lo stelo sano sarebbe stato in grado di produrre. Il bastone ricurvo, prodotto dal ramo di frassino appiattito, termina in un’innumerevole quantità di gemme, che tuttavia non si sviluppano ulteriormente, ma restano ferme e seccano, come morta conclusione di una vegetazione atrofizzata. Un simile appiattimento è conforme alla natura nella celosia cristata: sulla sua cresta si sviluppano innumerevoli fiorellini che non producono frutti, alcuni dei quali tuttavia recano, in prossimità dello stelo, dei semi cui sono in certa misura innate le proprietà della pianta madre. In generale notiamo che la deformazione inclina sempre di nuovo verso la forma

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strutturata, che la natura non ha alcuna regola a cui non possa fare eccezione, né alcuna eccezione che non possa ricondurre nuovamente alla regola. Se si volesse considerare la suddivisione delle foglie (Jäger, p. 30) sempre come uno sviluppo errato, si falserebbe l’autentico valore dell’osservazione. Quando le foglie si dividono, o piuttosto quando si sviluppano da se stesse in una molteplicità, ciò coincide con una tendenza verso una maggiore compiutezza, vale a dire che ciascuna foglia tende a diventare un ramo, e ciascun ramo a diventare un albero; tutte le classi, gli ordini e le famiglie hanno il diritto di impegnare le loro energie in tal senso. Tra le erbe da foraggio vi sono delle foglie piumate magnifiche. Si pensi all’imponenza con cui la palma è in grado di sciogliersi dal consueto stato composto da una sola foglia, tipico dei monocotiledoni. E quale appassionato di botanica non conosce lo sviluppo della palma da datteri, che si può coltivare benissimo anche da noi, a partire dal suo primo germoglio: la sua prima foglia è semplicissima, al pari di quella del grano saraceno, ma in seguito si divide in due; che in tal caso non si tratti di una mera lacerazione lo mostra il fatto che in basso, all’altezza dell’incisione, si trova una piccola sutura vegetale, a congiungere la dualità e l’unità. Quindi avviene un’ulteriore divisione, all’avanzare della nervatura, in modo tale che si forma infine un ramo con varie incisioni. Nel giardino botanico di Padova ho potuto impadronirmi dell’intero sviluppo della palma flabelliforme, fino alla fioritura, da cui emerge senz’altro che in questo caso ha operato una metamorfosi sana, organica, richiesta e preparata, senza soste, disturbi o false direzioni. In particolare è notevole quella sutura che connette le foglie raggiate-lanceolate, che divergono variamente le une dalle altre, ad un picciòlo comune, facendo così sorgere una forma a ventaglio vera e propria e compiuta. Simili fenomeni sarebbero da raccomandare con urgenza per una futura presentazione illustrata. Soprattutto sono notevoli, poi, le foglie ramificate delle leguminose, la cui formazione e sensibilità, così prodigiose e molteplici, sono indici delle proprietà superiori che si manifestano nella radice, nella corteccia, nel tronco, nei fiori, nei ricettacoli dei frutti e nei frutti stessi, nel modo più vigoroso e salutare.

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Ora, tale ripartizione delle foglie è soggetta ad una certa legge, facile da presentare davanti agli occhi mediante esempi, ma difficile da esprimere a parole. La foglia semplice si divide in basso, in prossimità dello stelo, da entrambi i lati, così da diventare tripla; di queste tre foglie, quella superiore si divide a sua volta all’altezza dello stelo, cosicché ha origine ancora una foglia triplice, e si deve ormai considerare l’intera foglia come costituita da cinque parti. Allo stesso tempo si nota, già dalle due foglie inferiori, che esse hanno la tendenza a dividersi su uno dei lati, in particolare sul margine rivolto verso il basso: anche questa divisione ha luogo, sicché si presenta infine una foglia composta da sette elementi. Tale divisione prosegue ancora, di modo che anche il margine delle foglie inferiori rivolto verso l’alto si incide e si divide, e dunque ha origine una foglia composta di nove parti e così via. Questo fenomeno è particolarmente evidente nel caso dell’Aegopodium podagraria, di cui chi è appassionato può procurarsi immediatamente l’intera raccolta; tuttavia occorre notare che la divisione plurima è molto più frequente nei luoghi ombrosi e umidi che non in quelli soleggiati e asciutti. È possibile che si presenti anche la fase regressiva di una simile divisione: la sua manifestazione più singolare può certo essere quella di un’acacia originaria della Nuova Olanda, che germoglia da un seme dalle foglie pennate, per poi trasformarsi progressivamente in una pianta a singole foglie lanceolate. Ciò accade mediante un’ampia dilatazione della parte inferiore del picciòlo fogliare, che gradualmente ingloba le parti pennate, rimaste inizialmente ancora rivolte verso l’alto. Da tutto questo riconosciamo che la natura è in grado di procedere allo stesso modo in avanti e all’indietro, a suo piacimento. Abbiamo già osservato, a proposito del Bryophyllum calycinum, singolarissimo in generale, che tale pianta, all’incirca semestrale, dopo aver moltiplicato in tre parti le sue foglie, in inverno produce di nuovo delle foglie semplici, e prosegue tale semplicità fino alla decima coppia di foglie, finché poi in piena estate, proprio nel momento in cui la pianta compie un anno, si ripresenta ancora la ripartizione triplice. C’è ora da aspettarsi il modo in cui procederà in seguito questa pianta, che spinge le proprie foglie fino alla ripartizione in cinque elementi.

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Tra la vegetazione abnorme annoveriamo anche le piante deperite, intenzionalmente o casualmente. Nel momento in cui, private della luce contro la loro natura, si trovano a germogliare al buio, esse si comportano in parte come radici che corrono sotto terra, in parte come stoloni che strisciano lungo il suolo. Nel primo caso restano sempre bianche e tendono sempre ad allungarsi, mentre nel secondo, sebbene compaiano delle gemme, queste non si affinano in seguito, e non ha luogo alcuna metamorfosi. La vegetazione più grande si arresta. Dei casi singoli si darà qualche notizia più avanti. Lo sbiancamento coincide per lo più con un deperimento delle foglie provocato deliberatamente, quando si siano legate insieme intenzionalmente certe piante in modo tale che la parte interna, privata della luce e dell’aria, assume delle proprietà contrarie alla natura. Riguardo alla forma, la nervatura centrale si gonfia, e altrettanto in proporzione avviene alla sua ramificazione; la foglia resta piccola, poiché non si formano gli interstizi della ramificazione. Quanto al colore, la foglia resta bianca, poiché privata dell’azione della luce, mentre quanto al gusto, resta dolce, dal momento che l’operazione stessa che fa dilatare la foglia e la colora di verde sembra privilegiare il sapore amaro. Analogamente, la fibra resta tenera, e ogni cosa serve a rendere gradevole l’insieme. Un simile caso si presenta più spesso nelle piante che crescono nelle cantine: quando avviene, ad esempio, nel cavolo rapa, i germogli che spuntano sono teneri steli bianchi, accompagnati da poche cime fogliari, gustose come asparagi. Nella Spagna meridionale si sbianca la sommità delle palme in questo modo: la si lega in un fascio, di modo che, visto che i germogli più interni non si possono trattenere, i rami crescono ma restano bianchi. Sono questi i rami portati, nella domenica delle palme, dalla suprema autorità spirituale. Nella Cappella Sistina si vedono il papa e i cardinali ornati in questo modo. Frutto nel frutto. (Jäger, p. 218, in realtà p. 221.) Nell’autunno del 1817, dopo la sfioritura, si trovarono dei papaveri doppi con dei piccoli treti, che contenevano in sé dei treti ancora più piccoli e completi. Lo stimma di quello interno

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giungeva in parte a quello del treto esterno, in parte gli restava lontano, e più vicino alla base. Sono stati conservati i semi di parecchi papaveri simili, ma non è stato possibile osservare se tale proprietà si riproducesse. Nell’anno 1817, nel podere di Adam Lorenz, un agricoltore di Niederhausen an der Nahe, presso Kreuznach, si trovò una singolare spiga di grano, da cui spuntavano da ogni lato dieci spighe più piccole. Ce ne fu inviato un disegno. Potrei qui addurre ancora altri particolari che ho annotato dall’opera di Jäger come ulteriori esempi ma, anziché procedere su questo argomento senza illustrazioni, in modo frammentario e insufficiente, mi limito a nominare un uomo che si è già dimostrato come colui che è in grado finalmente di risolvere tale enigma, e di cui noi tutti abbiamo cordialmente bisogno per intraprendere consapevolmente la via giusta verso la mèta, lungo la quale tutti gli osservatori fedeli e acuti vacillano talvolta nell’errore. Che quest’uomo sia il nostro caro amico, l’egregio presidente Nees von Esenbeck 107, saranno lieti di riconoscerlo tutti gli studiosi tedeschi della natura, appena lo nomino. Egli si è cimentato in un primo tempo nella sfera di ciò che è quasi invisibile e che solo il senso più acuto può notare, per poi volgersi ad una vita duplice, sviluppata nella separazione; inoltre ha mostrato, in relazione ai sessi completamente separati, come la divisione delle specie operi in modo tale che l’una si sviluppa dall’altra in successione. Ingegno, conoscenze, talento e ruolo: tutto lo invita e lo legittima a porsi qui come un mediatore. Che celebri con noi il trionfo della metamorfosi fisiologica, la mostri là dove l’insieme si divide, si distingue e si trasforma in famiglie, le famiglie in sessi, i sessi in stirpi e queste ultime in altre molteplicità, fino a giungere agli individui. Questa operazione naturale procede all’infinito, non può sospendersi né persistere in un solo stadio, ma non può neppure conservare e mantenere ciò che ha prodotto. Tuttavia, possediamo i resti più chiari delle creature organiche che non hanno potuto perpetuarsi tramite la riproduzione viva. Di contro, dai semi si sviluppano delle piante sempre differenti, che determinano in vario modo i rapporti reciproci tra le loro stesse parti, e su questo osservatori fedeli e accurati ci hanno già fornito varie

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informazioni, e non mancheranno certamente di aumentarne sempre più la conoscenza. In conclusione, torniamo sempre a convincerci dell’importanza di tutte queste considerazioni, volgendoci ancora una volta indietro a guardare il punto in cui le famiglie si distinguono le une dalle altre: già in quel punto formazione e deformazione si toccano. Chi potrebbe mai biasimarci se volessimo definire le orchidee come delle liliacee mostruose?

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Primo abbozzo di un’introduzione generale all’anatomia comparata, fondata sull’osteologia Jena, gennaio 1795

[L’abbozzo che segue nel quaderno Sulla morfologia, composto all’inizio del 1795, si trova, nel presente volume, alle pp. 207-238, ordinato in base alla successione cronologica dei lavori di Goethe.]

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Se osate, così preparati, ascendere all’ultimo gradino di questa vetta, datemi la mano e schiudete liberamente lo sguardo nell’ampia distesa della natura. Sparge tutt’intorno i ricchi doni della vita, la dea; ma non avverte alcuna preoccupazione, come fanno le donne mortali, che si curano del nutrimento sicuro per i loro nati; questo non le si addice, poiché ha determinato in modo duplice la suprema legge, limitò ogni vita, dandole bisogni misurati e diffuse doni smisurati, facili da trovare, favorendo quieta lo sforzo vivace dei figli, bisognosi di molte cose; essi non sono allevati, e vagano senza sosta secondo il loro destino. Fine a se stesso109 è ciascun animale, perfetto scaturisce dal grembo della natura e genera figli perfetti. Tutte le membra si formano in base alle leggi eterne E la forma più rara serba in segreto il suo modello. Così ogni bocca è adatta ad afferrare il cibo Che spetta al corpo, che sia debole o priva di denti O abbia la mascella potente e affilata, in ciascun caso Un organo adatto offre alle altre membra il nutrimento. E ogni piede, poi, che sia lungo o corto, si muove

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In piena armonia con i sensi dell’animale e con i suoi bisogni. Così a ciascuno dei figli la madre conferisce La piena e pura salute, poiché le membra viventi non si contraddicono mai, ma tutte cooperano per la vita. Dunque la forma determina il modo di vivere dell’animale, e il modo di vivere agisce a sua volta su tutte le forme con forza. Così si mostra ben determinata la formazione ordinata che inclina al cambiamento tramite esseri che agiscono dall’esterno. Tuttavia, è all’interno che risiede la forza delle creature più nobili Racchiusa nel cerchio sacro della formazione viva. Questi confini110 non possono essere ampliati da nessun Dio, e la natura li onora: Infatti, solo così delimitata la perfezione poteva rivelarsi possibile. Tuttavia, nell’intimo uno spirito sembra lottare energicamente, come per rompere il cerchio, creare uno spazio di arbitrio per le forme e per il volere; ma ciò che egli intraprende è vano. Infatti, non appena spinge queste o quelle membra, fornendogli grande forza, di contro già altre membra si indeboliscono, il peso eccessivo annulla ogni bellezza della forma, e ogni purezza di movimenti. Se dunque vedi che ad una creatura è accordato Un qualche privilegio, domandati immediatamente di quale mancanza Essa soffra in altra parte, e se cerchi con spirito indagatore Subito troverai la chiave di ogni formazione. Infatti, nessun animale con la mascella superiore coronata Da una piena fila di denti porta un corno sulla fronte, e per questo all’eterna madre è assolutamente impossibile formare un leone con le corna, anche se vi impegna ogni energia: essa infatti non ha massa sufficiente per innestare completamente, oltre alla fila dei denti, anche palchi e corna.

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Questo bel concetto di potenza e limite, di arbitrio E legge, di libertà e misura, di ordine mutevole, pregi e difetti, deve rallegrarti; la sacra musa te lo offre in armonia, istruendoti con dolce costrizione. Chi riflette sulla morale non potrebbe giungere ad un concetto più alto, Né lo potrebbe l’uomo attivo, o l’artista che scrive liriche; il sovrano Degno del suo ruolo, si adorna della corona solo grazie ad esso. Rallegrati, suprema creatura naturale111, ti senti capace Di riflettere sul supremo pensiero cui ella, creando, si era innalzata. Fermati qui, e volgi lo sguardo indietro, esamina, confronta, e ricevi dalla bocca della Musa l’amabile, piena certezza che tu stai vedendo, e non fantasticando.

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All’uomo, come agli animali, è da ascrivere un osso intermedio della mascella superiore Jena, 1786

[Il saggio, composto già nel 1784 e pubblicato in un manoscritto di pregio con il titolo Saggio di teoria osteologica comparata, in cui si dimostra come l’osso intermedio della mascella superiore sia comune all’uomo e agli altri animali, e che Goethe fece uscire come testo a stampa per la prima volta nei quaderni Sulla morfologia, è ordinato, nel presente volume, alle pp. 11-18, nella successione cronologica dei lavori dell’autore. Seguono qui le relative integrazioni tratte dai quaderni Sulla morfologia.]

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[Sull’anatomia comparata]112

[estratti da scritti vecchi e nuovi] Il piccolo libro di Galeno113 sulle ossa, quand’anche vogliamo affrontarlo seriamente, si rivela per noi difficile da leggere e da utilizzare; certo, non si potrà negare che consente di farsi un’idea immediata, lo scheletro è mostrato ad un esame molto diretto, tuttavia manca un’esposizione ponderata e metodica. L’autore inserisce qua e là tra le singole trattazioni ciò che dovrebbe essere parte di una introduzione: ad esempio in che misura si debba distinguere tra sutura e armonia, e se debbano essere considerate come una sola cosa. Dalle strutture regolari egli si volge rapidamente a discutere di quelle anomale; così, ad esempio, subito dopo aver parlato dell’osso frontale e di quello occipitale, tratta in modo circostanziato della deformità delle teste alla Tersite o a cono. Inoltre si ripete incrociando i temi, in un modo che, in un’esposizione orale e in presenza del corpo da mostrare, potrebbe certo risultare comprensibile, ma che confonde l’immaginazione del lettore. Si riscontra poi un eccessivo indugiare sulle controversie con predecessori e contemporanei: in effetti, poiché a quel tempo si consideravano le ossa a blocchi riuniti in un insieme, distinguendo le parti di esso mediante numeri, non si riusciva a trovare un accordo su cosa si dovesse considerare come riunito, né su quante parti si dovessero contare. Analogamente, inoltre, ci si divideva anche riguardo alle proprietà, relazioni, affinità. Tutto ciò non deve però in nessun modo diminuire il profondo rispetto che nutriamo per quell’uomo straordinario,

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ma soltanto giustificarci se riassumiamo nel modo più breve possibile ciò che in questa sede ci interessa, vale a dire il fatto che Galeno, descrivendo il cranio, ed evidentemente il cranio umano, menzioni il nostro osso intermedio. Nel terzo capitolo, egli dice che l’osso zigomatico (per noi la mascella superiore) contiene gli alveoli di tutti i denti eccetto gli incisivi, e lo ripete nel quarto capitolo, in questi termini: le due grandi ossa zigomatiche contengono quasi tutti i denti, come già accennato. Nel quinto capitolo, enumerando i denti, definisce incisivi i quattro denti anteriori, ma non fa menzione dell’osso particolare in cui essi sono inseriti. Nel terzo capitolo parla di una sutura che ha origine alla radice del naso, prosegue verso il basso lungo il naso, per poi terminare tra il canino e gli incisivi. Ne risulta in tutta evidenza che Galeno conosce e si riferisce all’osso intermedio; se però l’abbia visto anche nell’uomo114 è questione che resterà probabilmente sempre dubbia. Su tale argomento sono sorte in seguito diverse controversie, che non si sono del tutto risolte negli ultimi tempi; in questa sede riporterò alcuni dati tratti dalla bibliografia che riguarda tali divergenze, traendole da antichi volumi collettanei. Vesalio, nel De humani corporis fabrica (Basileae 1555), Lib. I, cap. IX, fig. II, pag. 48, prende in esame un disegno della basis cranii vista dal basso, e su di essa segna con molta chiarezza la sutura che connette l’os intermaxillare con l’os maxillare superius all’altezza dell’apophysis palatina di quest’ultimo osso, e che noi chiamiamo Ac, o superficies lateralis exterior corporis, qua os intermaxillare iungitur ossi maxillari superiori. Per chiarire il passo da lui citato noto ancora che in Vesalio l’os zygomaticum prende il nome di os primum maxillae superioris, l’os unguis è chiamato os secundum maxillae superioris, l’os ethmoideum os tertium maxillae superioris, e l’os maxillare superius os quartum maxillae superioris. Il passo che l’autore riporta suona dunque così: z privatim indicatur foramen in anteriori palati sede posteriorique dentium incisoriorum regione apparens (si tratta dello sbocco dei canales naso-palatini, vale a dire del punto in cui essi costituiscono una sorta di orificium commune): ad cuius latus interdum obscura occurrit sutura, transversim aliquousque in quarto superioris maxillae osse prorepens, et a insignita. Tale sutura, designata con a dall’autore e riprodotta in mo-

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do molto chiaro, è la sutura quaest. Cap. XII, fig. II, pag. 60. Allo stesso modo egli ha riprodotto in un disegno simile la basis cranii, in riferimento alla quale ha descritto i foramina baseos cranii. Anche in quest’ultimo caso compare la sutura, anche se non con altrettanta evidenza. Leveling 115, nella sua Spiegazione anatomica delle figure originali di Andrea Vesalio (Ingolstadt 1783), riproduce la prima figura presentata da Vesalio, al libro I, pag. 13, fig. II, e spiega a p. 14 i passi z e a in questo modo: z l’altro forame palatino o forame degli incisivi. a una sutura che si trova spesso in questo forame, e che procede sul palato trasversalmente, appena dietro gli incisivi. La seconda figura di Vesalio si presenta in Leveling a pag. 16. Egli descrive la sutura che Vesalio ha designato con a nel libro I, cap. IX, p. 52 in questi termini: ad huius foraminis (vale a dire del canalis naso-palatinus) latera interdum sutura apparet, aut potius linea, in pueris cartilagine oppleta, quae quasi ad caninorum dentium anterius latus pertingit, nusquam tamen adeo penetrans, ut huius suturae beneficio, quartum maxillae os in plura divisum censeri queat (a margine cita la fig. I: canina calvaria lit. n. pag. 46, in cui è riprodotta chiaramente, nel caso di un cranio canino, la sutura che si trova tra l’os intermaxillare e gli ossa maxillae superioris, a cui non abbiamo dato alcun nome particolare, ma che potrebbe chiamarsi margo exterior superficiei anterioris corporis) quod, ut paulo post dicam, canibus et simiis porcisque accidit, in quibus sutura quartum os in duo dividens, non solum in palato, verum exterius in anteriori maxillae sede, etiam conspicue cernitur, nullam appendicum cum suis ossibus coalitus speciem referens. A ciò pertiene anche un altro passo: pag. 53, in cui Vesalio parla di alcuni miglioramenti che ha pensato necessario apportare alla descrizione di queste ossa presentata da Galeno: Secundam (sottinteso: suturam) vero numerat (si intende: Galeno) huius suturae partem in anteriori maxillae sede occurrentem, quae ab illa malae asperitate sursum ad medium inferioris ambitus sedis oculi pertingit. Hanc postmodum tripartito ait discindi, ac primam huius secundae suturae partem prope magnum seu internum oculi sedis angulum exteriori in parte ad medium superciliorum, et communem frontis et maxillae suturam inquit procedere. Hac suturae parte homines

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destituuntur, verum in canibus caudatisque simiis est manifestissima, quamvis interim non exacte ad superciliorum feratur medium, sed ad eam tantum sedem, in qua quartum maxillae os a secondo dirimitur. Ut itaque Galenum assequaris, hanc partem ex canis petes calvaria. Winslow 116, Exposition anatomique de la structure du corps humain, Tome I, nr. 282, p. 73. Je ne parle pas ici de la séparation de cet os (de l’os maxillaire supérieur) par une petite suture transversale, derrière le trou incisif, parce-qu’elle ne se trouve pour l’ordinaire que dans la jeunesse et avant l’ossification achevée. Eustachius 117, nelle sue Tabulae anatomicae edite da Albinus, alla tab. 46 fig. 2 ha disegnato un cranio di scimmia, visto da davanti, accanto a un cranio umano, mostrando molto chiaramente nel primo l’os intermaxillare. Albinus, nel commento alla seconda figura con l’os intermaxillare della scimmia che egli stesso ha indicato, dice semplicemente: os quod dentes incisores continet. Sue 118, nel Traité d’Ostéologie de M. Monro, non indica né descrive la sutura dell’os intermaxillare nell’apophysis palatina ossis maxillaris superioris. Il labbro leporino, in particolare quello doppio, si riferisce allo stesso modo all’os incisivum: infatti, in quello semplice la sutura centrale, che riunisce i due lati, si divide, mentre in quello doppio l’osso intermedio si separa dalla mascella superiore e, poiché tutte le parti sono in relazione tra loro, si divide allo stesso modo il labbro. Ora, se si considera l’os intermaxillare come un osso isolato, si comprende come, perché la cura abbia effetto, possa essere stretto senza che la mascella superiore risulti danneggiata, frammentata o affetta da una qualche patologia. Una conoscenza autentica della natura giova in ogni intervento pratico. Anche nei crani degli embrioni o dei bambini piccoli si trova una traccia, quasi un rudimentum, dell’os intermaxillare; quanto meno maturi sono gli embrioni tanto più tale traccia risulta chiara. In un idrocefalo ho osservato due piccoli nuclei ossei completamente indipendenti, e nelle teste di giovani adulti si nota spesso una sutura spuria sulla parte anteriore del

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palato, che in certo modo separa i quattro incisores dal resto del limbus dentium. Jac. Sylvius 119 dice addirittura: Cranium domi habeo, in quo affabre est expressa sutura in gena superna ab osse frontis secundum nasum, per dentium caninorum alveolos, in palatum tendentem, quam praeterea aliquoties absolutissimam conspexi et spectandam auditoribus circiter 400 exhibui; e, per salvare il suo povero Galeno da Vesalio, egli ritiene che da sempre gli uomini abbiano avuto un os intermaxillare separato, andato poi perduto per le dissolutezze e il lusso crescente dei posteri. Questo è certamente grave, ma ancor più grave è il fatto che Ren. Hener120, nell’Apologia, si metta a dimostrare, con gran dispendio di dettagli e di fatica, a partire dalla storia più antica, che gli antichi Romani avrebbero condotto una vita altrettanto sregolata rispetto a quella del giorno d’oggi, e adduce a riprova tutte le leges sumtuariae romane. A proposito di quella certa traccia di un rudimentum ossi intermaxillaris nei feti non mi sono espresso in modo sufficientemente chiaro. Sul lato esterno (sul volto) non è facile individuarla, ma in basso, sul palato e in singoli ossa maxillae, nonché sulla superficie del naso, è riconoscibile con maggiore o minore evidenza. Talvolta se ne conservano delle vestigia sul palato ancora negli adolescenti, e in un bell’esemplare di idrocefalo si trova del tutto separato da un lato (anche se certamente praeter naturam), come un ossicino autonomo. Fallopius121 lo descrive, in Obs. anat., p. 35b: Dissentio ab iis qui publice testantur reperiri suturam sub palato per transversum ad utrumque caninum pertinentem, quae in pueris patet, in adultis vero ita obliteretur, ut nullum ipsius relinquatur vestigium. Nam reperio hanc divisionem vel rimam potius esse quam suturam, cum os ab osse non separatur, neque in exterioribus appareat. Lo contraddice il burbero Eustachio, che in Ossium exam., pp. 194 sgg. sostiene che la sutura è presente anche negli adulti: et palatum supra infraque dirimit. Tuttavia, sembra che quest’autore non capisca o non voglia capire Fallopio, e parli egli stesso dell’armonia tra la parte palatina ossis maxillaris e gli ossa palati. Albinus122, in Icon. oss. foetus p. 36: os maxillare superius in parvulis saepe inveni constans ex aliquot frustulis, quae tamen

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cito confluunt in os unum. Tab. V, f. 33 m: fissura quae palatum ex transverso secat, pone dentes incisores; abiens deinde in suturae speciem. E perfino nel caso degli adulti, alla Tab. ossium t. 1.2, f. I k: Sutura ossis maxillaris propria. Tuttavia, come accennato, differisce ancora enormemente dall’os maxillare vero e proprio, all’incirca come la membrana semilunaris oculi humani differisce dalla membrana123 nictitans della pavoncella, sorprendentemente grande. Gli estratti da scritti vecchi e nuovi che ho riportato qui, nonché le comunicazioni epistolari124 di naturalisti viventi, ci offrono un chiaro esempio del modo in cui lo stesso argomento può essere osservato da più di un lato, e di come ciò che presenta tratti dubbi possa essere benissimo affermato come negato. Per ciò che ci riguarda, ci sentiamo pienamente tranquilli nel ripetere ancora una volta, in conclusione, una convinzione feconda che nutriamo da molti anni: all’uomo come agli animali si deve attribuire un osso intermedio della mascella superiore. Jena, 1819. [supplementi]125 I due saggi che ho reso pubblici dopo vari anni di esitazione, al pari degli appunti bibliografici che li seguono, sono stati stampati nella forma in cui erano stati ritrovati tra le carte manoscritte; per una migliore comprensione però resta ancora qualcosa da dire, e lo farò articolando le mie riflessioni in diverse sezioni. I. Primo impulso a questi studi, avvenuto con il trasferimento del Kunst- und Naturalienkabinett da Weimar a Jena. Istituti di scienze naturali a Jena; impegno scientifico e pratico, trattazione coerente e consequenziale. II. Giustificazione per la mancanza di disegni nel secondo saggio; come ciò sia accaduto, e dei mezzi per supplire tale mancanza. III. A proposito delle descrizioni dettagliate per iscritto e di ciò che ne deriva.

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IV. Tardiva eco negativa verso la fine del secolo. V. Come si debba procedere nell’elaborazione dello schema fondamentale. VI. Come porre in parallelo nella realtà singole parti diverse. VII. Bozza di una tabella che si proponga al contempo di registrare metodicamente e raccogliere opportunamente le esperienze osteologiche. VIII. In che misura sia possibile derivare le ossa del cranio dalle vertebre e se si possa spiegare, in base a queste ultime, la loro forma e funzione. I. La Kunstkammer 126 di Weimar, istituita nell’anno 1700 dal duca Wilhelm Ernst127, contiene, tra altre cose notevoli, anche alcune importanti rarità naturali. Poiché lo stupore fornisce sempre il primo impulso alla scienza, a quell’epoca l’interesse per la storia degli animali era suscitato dagli oggetti singolari e mostruosi. È a tale inclinazione che dobbiamo la fondazione del nostro museo osteologico, e i corpi straordinari che raccoglie. Fu così che simili oggetti penetrarono ben presto nei paesi dell’interno, mentre quasi cinquant’anni prima, nei paesi costieri, dopo che ci si era saziati di oro, spezie e avorio, si era iniziato anche a coltivare interessi di storia naturale, per quanto ancora in modo molto confuso e incompleto, raccogliendo e conservando prodotti naturali esotici. Possediamo un cranio di elefante completamente sviluppato e ben conservato, con la mascella inferiore e alcuni singoli canini. Le vertebre cervicali di una balena, concresciute in forma di colonna mozza, e anche le scapole dell’enorme animale, dipinte con figure di navi, ad accrescere l’impressione straordinaria che produce una così ampia superficie ossea. Si possono vedere, inoltre, sue costole e una mandibola della testa gigantesca, della lunghezza di ventidue piedi, da cui si possono misurare le dimensioni dell’animale. Non si è mancato di procurarsi anche dei grandi carapaci di tartaruga; in seguito l’attenzione si è rivolta verso altre parti animali, notevoli per la divergenza che mostrano rispetto alle forme che solitamente ci circondano: corna di antilopi di ogni

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sorta e affinità, e inoltre le lunghe corna aguzze incurvate in avanti del bufalo indiano, che abbiamo potuto ammirare solo grazie ai trofei di caccia indiani del capitano Thomas Williamson128. Tutto questo, oltre a diverse altre cose, come un coccodrillo, un serpente gigantesco e così via, fu portato a Jena come base significativa per una più grande collezione. L’ampliamento avvenne gradualmente, tramite l’acquisizione di scheletri di animali domestici, della campagna e del bosco dei dintorni. L’abilità del custode Dürrbaum129, che si occupò volentieri di faccende simili, promosse in breve tempo l’istituzione. Poiché, dopo il trasferimento del Loderisches Kabinett130, divenuto immediatamente un’istituzione, si rendeva necessario allestire nel medesimo locale una futura collezione permanente, ciò avvenne grazie alla cura dei signori Ackermann e Fuchs, che seppero avvalersi a tal fine della competenza del dissettore Homburg, facendo elaborare delle tecniche significative, oltre che per l’anatomia umana, anche per la dissezione degli animali. Fino a quel momento, tutti i preparati osteologici, tedeschi e stranieri, avevano trovato posto nel gabinetto di zoologia, accanto agli esemplari impagliati e a quelli conservati sotto spirito; ma con l’aumentare del numero degli oggetti si colse l’occasione per allestire una grande sala, che adesso appare di nuovo quasi troppo piccola: infatti, grazie alla sollecitudine costante di Sua Altezza Reale il Granduca di Sassonia, Weimar e Eisenach, quei cavalli ottimamente allevati per le scuderie reali, o quei rari e notevoli animali domestici che andavano perduti e non potevano più servire alle aziende, erano impiegati a vantaggio della scienza, e i loro scheletri collocati nell’istituto di cui si è detto. Non diversamente accadeva per gli animali che accompagnavano stranieri in viaggio per le nostre terre che subissero degli incidenti, in un raggio di distanza più o meno esteso: così una volta avvenne che, in un periodo di grande freddo, una tigre morì a Norimberga, e giunse congelata con il postale, e ancora adesso è esposta, come scheletro e come animale imbalsamato, come straordinario ornamento dei nostri musei. In tempi recentissimi, il soggiorno di Sua Altezza Reale a Vienna ha recato i più significativi vantaggi a varie istituzioni tra cui anche la nostra. Il direttore von Schreibers131 è stato

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molto ben disposto verso i nostri propositi, e questo amico, così competente e al contempo attivo e cortese, ci ha sempre fornito i reperti più desiderabili. A lui dobbiamo gli scheletri del camoscio, del castoro e del canguro; lo struzzo e l’airone, l’apparato uditivo di molti uccelli, elaborati in modo eccellente a Vienna, nonché gli scheletri della lucertola, interi e sezionati in piccole parti, così come quelli della tartaruga; e innumerevoli altre particolarità, tutte significative e istruttive. L’uso di tali collezioni, non appena furono istituite, fu spiegato in alcune conferenze sull’anatomia umana, poiché era necessario tener conto della zootomia, che si andava sempre più sviluppando. Anch’io, per parte mia, non ho mancato di raccogliere attorno a me degli esemplari e preparati istruttivi: crani sfracellati e sezionati in vari modi, nonché altre ossa, per conseguire una conoscenza, tanto deliberata quanto casuale, della struttura interna dell’importante edificio osseo. Tuttavia, la vera destinazione degli oggetti collezionati, sia per i miei scopi particolari sia per quelli generali e pubblici, fu raggiunta soltanto nel momento in cui, venendo incontro a desideri generali e ad un bisogno da lungo tempo avvertito, si volle istituire una scuola di veterinaria. Fu chiamato il professor Renner132, che entrò in servizio ancor prima che si potessero ultimare i necessari allestimenti, e io vidi con piacere rivivere e tornare utili i miei preparati, fino allora messi da parte e lasciati nella polvere, sicché i miei inizi andavano a beneficio dei primi passi di un’istituzione così altamente significativa. Un’attività che, malgrado le interruzioni, non avevo mai cessato, aveva trovato la sua più adeguata ricompensa: infatti, in ogni agire sincero e serio, per quanto all’inizio non possano che apparire dubbi il suo scopo e la sua destinazione, alla fine l’uno e l’altra si ritrovano limpidamente esauditi. Ogni impegno sincero è anche vivo, fine in sé, in grado di incoraggiare senza altri fini, e utile al di là delle capacità di previsione. Di tali istituzioni, dalle attività varie e interconnesse, dirò ancora soltanto questo: per la scuola di veterinaria, per un’impresa di così ampia portata, fu acquistato un locale adeguato, il cosiddetto Heinrichsberg, furono provvisti gli edifici necessari e, poiché fortunatamente sotto la guida del consigliere aulico Fuchs si era formato un giovane di nome Schröter133, che si trovava in possesso dei requisiti necessari a un dissettore, ancora oggi sull’Heinrichsberg, grazie alla guida instancabile del suo

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direttore, sta sorgendo e si sta ampliando anche un gabinetto di zootomia, dedicato ai sistemi del corpo animale in relazione a quello osteologico; e vi si trovano anche i principali preparati necessari a scopi didattici, accuratamente realizzati. A Jena dunque si trovano tre distinti musei, il cui contenuto non è rigidamente suddiviso, a causa delle circostanze che vi sono state all’origine, per via di successive, e in certa misura casuali, acquisizioni: gli oggetti si richiamano reciprocamente in modo tale che sia i direttori che i custodi agiscono in collaborazione, in relazione alle esigenze scientifiche che si presentano, e si comunicano scambievolmente le informazioni necessarie. Uno dei gabinetti, tuttavia, contiene prevalentemente oggetti che riguardano l’anatomia umana, un secondo comprende l’osteologia animale, ma entrambi sono ospitati entro gli spazi del castello del principe; il terzo, situato presso la scuola di veterinaria, conserva reperti pertinenti all’osteologia in particolare degli animali domestici, nonché i rimanenti sistemi del corpo animale: muscoli, arterie, vene, sistema linfatico, nervi e così via. II. Quando, all’inizio degli anni Ottanta, mi occupavo molto di anatomia sotto la guida e l’insegnamento del consigliere aulico Loder, l’idea della metamorfosi delle piante non mi si era ancora presentata; avevo iniziato a lavorare con zelo ad un tipo osteologico generale, e per questo dovevo assumere che tutte le parti di un essere vivente, nel dettaglio come nell’insieme, si potessero ritrovare in tutti gli animali, poiché in effetti è su un tale presupposto che si basa l’anatomia comparata, scienza introdotta già da tempo. Qui si verificava, tuttavia, il caso singolare per cui si voleva individuare la differenza tra la scimmia e l’uomo nell’os intermaxillare, che era attribuito a quella e negato invece all’uomo; ma poiché un simile osso è notevole principalmente per il fatto che vi sono impiantati gli incisivi superiori, risultava incomprensibile come all’uomo, che possiede gli incisivi, mancasse però l’osso in cui essi si trovano inseriti. Perciò mi misi a cercare tracce di tale osso e le trovai facilmente, visto che i canales incisivi definiscono i confini anteriori dell’osso, e le suture, che corrono lungo i lati a partire da quel punto, indicano senza dubbio una separazione della maxilla superior. Loder tiene conto di tale osservazione134 nel

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suo manuale di anatomia del 1787 a pag. 89, e su questa scoperta si è molto riflettuto. Furono realizzati degli schizzi che dovevano porre chiaramente davanti agli occhi il dato osservato, e fu redatto quel breve saggio, tradotto in latino e inviato a Camper; e in effetti il formato e il merito di quel lavoro si rivelarono molto decorosi, al punto che quell’uomo eccellente lo accolse con ammirazione, lodando il lavoro e l’impegno, e mostrandosi molto cordiale, anche se, conformemente alla sua precedente opinione, continuò a sostenere che l’uomo non presenta alcun os intermaxillare. È certo indice di una particolare ignoranza del mondo, nonché di arroganza giovanile, il fatto che un allievo, da profano, osi contraddire i maestri della corporazione, ed è ancor più folle se cerca di convincerli. Tentativi proseguiti per molti anni mi hanno insegnato un’altra cosa ancora, vale a dire che le frasi ripetute ininterrottamente si calcificano infine fino a diventare convinzioni, e gli organi dell’intuizione si ottundono completamente. In tutto ciò, è salutare che questo non si apprenda troppo precocemente, poiché altrimenti il giovanile senso della libertà e della verità risulta paralizzato dallo scoramento. Tuttavia, mi parve singolare il fatto che non solo i maestri indugiassero in un simile luogo comune, ma che perfino i loro collaboratori si adattassero a un tale credo. Nel frattempo, non mancheremo di rinnovare il ricordo di un giovane e abile disegnatore, di nome Waitz, il quale, versato in simili lavori, eseguiva costantemente sia semplici schizzi sia riproduzioni compiute, mentre noi eravamo decisi a far stampare dei brevi saggi di questo genere, provvisti di incisioni accurate, che avrebbero dovuto riguardare e suscitare qualcosa di molto importante in ambito anatomico. In quella sede, l’osso in questione avrebbe dovuto mostrarsi in una serie molto chiara di riproduzioni, che andasse dalla sua massima semplicità e debolezza fino alla sua compattezza e forza, illustrando come, da ultimo, esso si nascondesse pudicamente nella creatura più nobile, l’uomo, per timore di rivelare la sua voracità animalesca. Registreremo dunque in primo luogo ciò che è rimasto dei disegni di quell’epoca135. Poiché l’intenzione era di procedere dal caso più semplice al più complesso, dal più debole al più forte, si scelse dapprima il capriolo, in cui l’osso in questione appare debole, in forma di staffa e privo di denti; si passò poi

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al bue, in cui invece si irrobustisce, si appiattisce e si allarga. Il cammello si presentava degno di nota in ragione della sua ambiguità, mentre il cavallo mostrava degli incisivi più decisi, e dei canini più piccoli. Nei maiali i canini sono invece grandi e forti, e addirittura mostruosi nel sus babirussa, ma in tutti i casi l’osso intermascellare afferma il suo pieno diritto. Nel leone si presenta compresso e molto corposo e possente con i suoi sei denti; nell’orso è invece più smussato, più allungato e proteso nel lupo; il tricheco, a causa della linea perpendicolare del muso, è simile all’uomo, mentre la scimmia si mostra ancora più eretta, proprio quando, secondo la specie, retrocede allo stadio di bestia; e infine si presenta l’uomo, in cui non si può negare la presenza di questa sezione ossea, dopo tutto ciò che precede. Per consentire un migliore esame e una migliore visione d’insieme, tutte queste varie forme ossee sono state riprodotte per lo più nella visuale dall’alto, dal basso e laterale, sono state ombreggiate con chiarezza e con cura, e quindi collocate sotto un vetro e incorniciate, cosicché si trovano a disposizione di ciascun visitatore nel Museo di Jena. Di ciò che mancava alla collezione furono in parte realizzati degli schizzi, e furono acquistati degli altri corpi; ma la morte del giovane artista, che aveva saputo inserirsi così bene nel lavoro, oltre ad altre vicende intercorse, ostacolarono il completamento dell’impresa e, analogamente, la costante opposizione incontrata fece perdere la voglia di continuare a predicare a orecchi sordi un argomento tanto chiaro ed evidente. Tuttavia, tra le illustrazioni jenesi, ci permettiamo senz’altro di raccomandare agli amici della scienza quattro disegni che riproducono il cranio di elefante di Kassel, che ho avuto modo di utilizzare grazie al favore e alla gentilezza di Sömmerring. Questo esemplare giovane, che non sarebbe potuto vivere più a lungo in Germania, ci mostra nei suoi resti la maggior parte delle suture, quantomeno quelle di uno dei lati, non saldate. I disegni, in particolare quelli che raffigurano l’intero cranio, sono nella stessa scala e presi da quattro lati, in modo tale che è possibile riconoscere chiaramente da essi la coesione dell’insieme e, quanto a ciò che in questa sede ci riguarda principalmente, un ruolo importante è svolto soprattutto dall’os intermaxillare: esso si avvolge effettivamente intorno al canino, ed è per questo dunque che, ad un’osservazione superficiale, può essere sorto l’errore per cui si riteneva che l’enorme canino

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fosse contenuto nell’os intermaxillare. Solo che la natura, che non abbandona mai le sue grandi massime, meno che mai nei casi importanti, ha fatto sì che una sottile lamella, dipartendosi dalla mascella superiore, avvolgesse la radice del canino, per poter garantire questi primi rudimenti organici rispetto alle pretese avanzate dall’osso intermascellare. Per un’ulteriore comparazione si fece realizzare anche il disegno del grande cranio di elefante adulto ospitato dal museo, poiché un aspetto si rivela in particolare straordinario: se nell’esemplare giovane la mascella superiore e l’os intermaxillare sono protesi in avanti al modo di una sciabola e l’intera testa appare molto allungata, in quello adulto si potrebbe inscrivere l’insieme della testa in un quadrato pressoché regolare. La serietà con cui in generale erano condotti simili lavori risulta chiaramente anche dal fatto che, dai disegni menzionati, furono tratte due lastre di rame, in folio piccolo, incise da Lips nel modo più nitido, in vista dei saggi più dettagliati che si aveva intenzione di comporre. Di tali riproduzioni sono state anche realizzate delle stampe, per gli amici della scienza. Alla luce di tutto ciò, ci si perdonerà se i primi abbozzi dei nostri lavori sono stati presentati senza le tavole che vi si trovavano descritte, in particolare se si considera che, rispetto a quell’epoca, questa nobile scienza si è molto ampliata e ravvivata. Difficilmente si troverà un appassionato che non possieda, nei musei pubblici o nella sua collezione privata, tutti quei corpi e preparati che qui abbiamo descritto; ma se ci si trovasse ad esserne privi, ci si potrà informare nel modo migliore grazie all’importante opera di craniologia del signor Spix136, in cui riproduzioni e descrizioni dissolvono completamente ogni dubbio. A pagina 19 troviamo espresso per la prima volta in modo chiaro e netto che anche nel cranio umano non si può negare la presenza dell’os intermaxillare. Esso inoltre si trova disegnato al tratto al numero 13, relativamente sia al caso dell’uomo sia a quello degli animali. In tal modo la questione sarebbe liquidata una volta per sempre, se non fosse che lo spirito di contraddizione, innato alla nostra specie, sa trovare occasioni per negare anche le verità più ampiamente riconosciute, se non nel merito delle cose, almeno nelle opinioni e nel modo di esprimerle. La causa della controversia risiede già nel metodo di esposizione: dove uno inizia l’altro cessa, dove uno

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divide l’altro congiunge, di modo che alla fine in chi ascolta sorge un’esitazione: che non abbiano ragione entrambi? In ultima analisi non si può non notare anche che nel corso della discussione attorno a tale tema, anche uomini stimati hanno sollevato infine la domanda se realmente valga la pena tornare ancora su questi argomenti. Se dobbiamo parlare sinceramente anche riguardo a questo, un simile rifiuto è più spiacevole dell’aperta contraddizione, poiché contiene una negazione dell’interesse, che annulla completamente ogni aspirazione scientifica. Malgrado ciò non mancarono certo gli incoraggiamenti. L’amico Sömmerring137 scrive a pag. 160 della sua Teoria osteologica del 1791: «L’ingegnoso saggio di osteologia comparata di Goethe, in cui si sostiene che l’osso intermedio della mascella superiore è comune all’uomo e agli altri animali, apparso nel 1785 con delle illustrazioni molto precise, ha meritato senz’altro la pubblica notorietà». III. Non solo con delle illustrazioni figurate si intendeva però corredare il lavoro, bensì anche con delle descrizioni verbali: immagine e parola infatti gareggiano incessantemente nel determinare con maggior precisione e diffondere con maggiore ampiezza la storia naturale. Lo schema presentato in precedenza servì da base, e si descrisse l’osso intermedio in tutte le sue parti ed esattamente in quell’ordine, qualunque cranio animale si volesse presentare. In tal modo tuttavia si accumulò moltissima carta che, ad una considerazione più attenta, non si rivelò utile per una comunicazione libera e perspicua. Proseguendo però tenacemente nell’intenzione formulata, si considerò questo come un lavoro preliminare, e si iniziò ad elaborare, in base ad esso, delle descrizioni pur sempre accurate, ma più scorrevoli e stilisticamente più gradevoli. Ma tutta questa ostinazione non condusse alla mèta, poiché i lavori, più volte interrotti, non offrivano un concetto chiaro del modo in cui si dovesse portare a compimento ciò della cui veridicità e importanza si era così vividamente convinti. Erano trascorsi dieci anni e più, quando il mio legame con Schiller mi chiamò, fuori da quell’ossario scientifico, nel libero giardino della vita. La mia partecipazione alle sue imprese, alle Ore, all’Almanacco delle Muse e ai progetti teatrali, nonché i miei

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stessi lavori, lo Hermann e Dorothea, l’Achilleide, il Cellini, una nuova prospettiva di partire per l’Italia e infine un viaggio in Svizzera mi allontanarono decisamente da quei lavori e studi preparatori, al punto che il tempo accumulò polvere e muffa sui preparati e sulle carte, a cui non tralasciai di augurare una lieta resurrezione ad opera di qualche amico più giovane. E avrei forse visto soddisfatta una simile speranza, se i miei contemporanei, spesso a causa delle circostanze o del loro carattere, non fossero stati indotti a lavorare in contrasto reciproco, anziché in cooperazione. IV. Gotthelf Fischer138, un giovane che conoscevo di fama in quest’ambito, pubblicò nel 1800 uno scritto dal titolo ‘Sulle diverse forme che l’osso intermascellare assume nei diversi animali’. A pagina 17 egli cita i miei lavori scrivendo: «L’ingegnoso saggio di osteologia di Goethe, in cui si afferma che l’osso intermedio della mascella superiore è comune all’uomo e agli altri animali, mi è tuttora ignoto, e mi dispiace particolarmente di non essere riuscito a vedere i suoi bei disegni su questo soggetto. Sarebbe in generale molto auspicabile che questo sottile osservatore volesse comunicare presto alla comunità scientifica le sue ingegnose idee sull’economia animale, intessute di spunti filosofici». Se quest’uomo attivo e competente, avendo appreso una notizia così generale, fosse riuscito a mettersi in contatto con me e a farsi permeare dalle mie convinzioni, gli avrei volentieri ceduto manoscritti, disegni e incisioni, di modo che la cosa si sarebbe appianata già allora; ancora diversi anni sarebbero invece trascorsi prima che si riuscisse a riconoscere una verità così utile. V. Quando, a seguito di una fedele e accurata trattazione della metamorfosi delle piante, l’anno 1790 mi diede la gioia di fornirmi nuove e liete prospettive anche riguardo all’organizzazione animale, tutti i miei sforzi si volsero in tale direzione, e continuai instancabilmente ad osservare, riflettere e ordinare, e in tal modo gli oggetti mi si chiarivano sempre più. Per un conoscitore dell’animo umano risulterà chiaro senza ulteriore documentazione storica il fatto che io fossi spinto ad un simile

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compito, il più arduo di tutti, da una passione creativa. Lo spirito si misurava sull’argomento più degno, cercando di conoscere e analizzare il vivente nel suo valore più intimo; ma come avrebbe mai potuto ottenere successo una simile aspirazione, se non le si fosse dedicata tutta la propria attività? Poiché ero giunto in questo campo di studi per mia volontà e seguendo degli scopi miei, era necessario che guardassi con i miei stessi occhi vergini: ebbi dunque presto modo di notare che gli uomini più eccellenti in un’arte possono sì deviare dalla via da cui provengono, a seguito di altre convinzioni sopraggiunte, ma non abbandonano mai la strada principale che avevano intrapreso, e non si lasciano tentare a battere un nuovo percorso; essi infatti ritengono che la strada aperta e il terreno reso così accessibile siano i più agevoli da percorrere, a vantaggio sia loro che di altri. Né potevano sfuggirmi altre meravigliose scoperte, come ad esempio il fatto che si accettano di buon grado anche imprese singolari e ardue, pur di portare alla luce anche solo in piccola misura qualcosa di notevole. Tuttavia, io mi attenni saldamente al mio proposito e al mio cammino, e cercai di utilizzare senza remore tutti i vantaggi che si offrivano spesso e volentieri per isolare e differenziare, e che forniscono un incoraggiamento straordinario, se solo non ci allontaniamo troppo e sappiamo collegarci di nuovo a tempo debito. Non è stato possibile, in questa sede, prendere in considerazione l’indagine dei nostri predecessori, di cui troviamo testimonianza in Galeno e in Vesalio; infatti, se si trattano arbitrariamente le parti ossee come un insieme, analizzando in che modo esse eventualmente si separano o si combinano le une con le altre, e si distinguono mediante numeri le parti di simili masse, chi può sentirsi incentivato anche solo in certa misura, nel senso e nello spirito? Quale prudenza potrebbe risultarne? Da un simile modo di procedere, certo non ancora maturo, ci si è gradualmente allontanati, anche se ciò non è avvenuto intenzionalmente, in ottemperanza ad una massima; perciò si trovava ancora spesso riunito insieme ciò che, pur essendo concresciuto con gli elementi vicini, non era tuttavia parte di quella parte, e d’altro lato si collegava di nuovo con singolare ostinazione ciò che il tempo, che pure concede spazio alla ragionevolezza, aveva separato. Ora, avendo dovuto porre in parallelo delle parti organiche per natura intimamente simili, e tuttavia completamente

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diverse nell’aspetto esteriore, mi attenni al principio secondo cui si doveva mirare a esaminare la destinazione di ciascuna parte per sé e per il suo rapporto con l’insieme, riconoscendo a ciascun singolo elemento il suo proprio diritto e tenendo al contempo bene davanti agli occhi l’effetto che ciascuno ha sugli altri: in tal modo, in ultimo, non poteva che venire alla luce tutto ciò che un essere vivente possiede di necessario, di utile e conforme ad uno scopo. Ancora si ricordano le molte difficoltà che si opposero alla dimostrazione dello sfenoide139 umano, poiché non si era rivelato semplice cogliere con esattezza la sua forma, né fissarne la terminologia nella memoria; ma non appena si capì che esso constava di due ossa uguali, che differivano solo di poco nella forma, tutto si semplificò e al contempo si rianimò tutto l’insieme. Analogamente, le più intricate di tutte le esposizioni che miravano a dimostrare gli organi dell’udito140 insieme alle loro adiacenze avevano indotto a pensare ad una separazione, che negli animali si poté senz’altro realizzare, e si videro le tre parti che erano ritenute comunque consolidate e fuse in un unico corpo, come parti distinte e autonome, e spesso addirittura separabili. Io ritenevo che la mascella inferiore141 fosse completamente separata dal cranio e facesse parte degli organi ausiliari, ragion per cui era spesso equiparata alle braccia e alle gambe. Ora, anche se già nei mammiferi essa sembrava composta di due parti, nondimeno la sua forma, la sua notevole inclinazione, la connessione con la parte superiore della testa, e i denti che da essa si sviluppavano portavano a ipotizzare che anche in questo caso si trovasse un complesso di ossa indipendenti che, concresciute insieme, generano quella singolare formazione in grado di attuare un meccanismo così straordinario. Tale ipotesi fu confermata dalla dissezione di un giovane coccodrillo, da cui risultò che ciascun lato era composto da cinque parti ossee intrecciate e sovrapposte, e dunque l’insieme consisteva di dieci parti. Fu istruttivo e piacevole indagare alla ricerca di tracce di tali sezioni anche nei mammiferi: quando si credeva di scoprirle con gli occhi della mente, se ne registravano tutti i dettagli su alcune mascelle, offrendo ai sensi con questa esattezza ciò che in precedenza l’immaginazione difficilmente era stata in grado di definire e fissare.

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In tal modo mi predisponevo ad un’ampia e libera visione d’insieme sulla natura, divenendo sempre più in grado di partecipare con gioia e franchezza a tutte le fatiche di questa disciplina. Progressivamente innalzavo il mio punto di osservazione dal quale valutavo le trattazioni scientifiche ed etiche anche in questo territorio dell’attività umana. Trascorsi così molto tempo, finché nel 1795 i fratelli von Humboldt, che già spesso mi avevano illuminato come dei dioscuri lungo il mio cammino, scelsero di soggiornare per un certo periodo a Jena. Anche in questa occasione dalla mia bocca straripò ciò di cui era colmo il cuore, e io esposi la questione del mio tipo142 con tale frequenza e insistenza che mi si chiese infine, quasi con impazienza, di consegnare ad uno scritto ciò che mi si agitava in mente, nei sensi e nella memoria con tale vividezza. Fortunatamente, nello stesso periodo si trovava a Jena anche un giovane amico, incline a questi studi, Maximilian Jacobi, al quale potei dettare a braccio quel saggio, all’incirca nella forma in cui si presenta ancora adesso, e mantenni quel metodo, con poche deviazioni, come fondamento dei miei studi, anche se avrei certo potuto modificarlo gradualmente in vari modi. I primi tre capitoli, che attualmente si trovano in forma di abbozzi, li scrissi in modo piuttosto dettagliato. Forse anche questa elaborazione avrebbe meritato di essere comunicata in seguito: se infatti la maggior parte del suo contenuto attualmente può risultare superflua per chi è della materia, occorre tuttavia pensare che ci sono sempre nuovi principianti, per i quali anche rudimenti piuttosto datati possono suonare sempre abbastanza nuovi. VI. In un campo così ampio e sterminato, per moltiplicare la visione diretta e renderla più agevole e anzi più penetrante, si è scelto di giustapporre diverse parti di vari animali, ma cambiando ogni volta disposizione. Ad esempio la clavicola è stata rappresentata in ordine decrescente, passando dai suoi esemplari più lunghi ai più corti, di modo che allo stesso tempo si mostrasse con maggiore evidenza la legge in base alla quale differiscono l’uno dall’altro: dalla giraffa fino alla balena fu tracciata una via rilevante, ma non ci si perse nella molteplicità, cercando piuttosto i pochi capisaldi ritenuti fondamentali a tale scopo. Dove mancavano i corpi naturali si suppliva alle

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lacune con dei disegni. Merck ha fornito una lodevole riproduzione della giraffa che si trovava, e si trova tuttora, all’Aja. Allo stesso modo, braccia e mani143 furono collocate in ordine a partire dal punto in cui esse sono paragonabili ad una semplice colonna, ad un puntello, e in grado di compiere unicamente i movimenti indispensabili, fino alla pronazione e supinazione, meccanismo organico proprio degli animali superiori e mai ammirato a sufficienza. Altrettanto è avvenuto anche riguardo alle gambe e alle braccia, che sono state ordinate a partire dal punto in cui possono ritenersi delle colonne portanti e immobili, fino a quello in cui appaiono invece mutate nelle piume più lievi, così da consentire addirittura una comparazione, quanto a forma e funzione, con le braccia. Inoltre recava soddisfazione all’occhio e alla mente al contempo l’allungarsi del braccio e della gamba e il loro più contratto accorciarsi, dalla scimmia alla foca. Molto è stato realizzato a questo proposito, altro materiale è allo stadio preparatorio, qualcos’altro invece è andato distrutto e disperso. Nell’attuale costellazione scorgiamo forse la soddisfazione e l’adempimento di questo lodevole desiderio, poiché simili raccolte sinottiche sono rese possibili grazie al fatto che ciascun museo possiede degli scheletri incompleti, che possono essere utilizzati felicemente e con profitto per questo scopo. Analogamente, si è offerta l’occasione di svolgere importanti osservazioni e comparazioni a proposito dell’os ethmoideum144, a partire dal punto in cui esso si presenta nella sua maggiore ampiezza e libertà, come nel dasipo, fino a quello in cui risulta contratto dalle cavità orbitali più ravvicinate e sviluppate in dimensioni notevoli, come nel caso delle scimmie, in cui lo spazio alla radice del naso è pressoché cancellato. A tale riguardo, con l’intento di registrare secondo un certo ordine le osservazioni già effettuate e quelle ancora da svolgere, di modo che simili raccolte possano essere più a portata di mano, più facili da trovare e da ordinare secondo le esigenze, si è scelto di disegnare una tabella in base allo schema predetto, portandola con sé in viaggio e acquisendo dati che concordavano con osservazioni successive o che dovevano essere rettificati grazie ad esse; in tal modo si rese più semplice una visione d’insieme più generale e fu predisposta una futura tabella generale.

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Se dunque si volevano comparare le parti di uno stesso animale, si poteva leggere la tabella seguendo le colonne in senso verticale, mentre se si intendeva istituire una comparazione tra diversi animali, si leggeva la tabella in direzione orizzontale, e le forme mutavano senza difficoltà di fronte alla nostra immaginazione. Un tale modo di procedere può essere mostrato dall’esempio che segue, anche se non è da assumere immediatamente senza ulteriori revisioni, dunque non bisogna scambiarlo con il contenuto vero e proprio delle nostre affermazioni. In quest’occasione devo riconoscere la mia gratitudine nei confronti dei direttori del gabinetto di scienze naturali di Dresda145, che si sono dimostrati molto gentili, offrendomi la possibilità di completare in tutta tranquillità la mia tabella. In precedenza mi erano stati utili i fossili di Merck146, attualmente conservati nel ricco museo arciducale di Darmstadt; la bella collezione del signor von Sömmerring147 mi aveva fornito molti chiarimenti, e con l’aiuto della mia tabella ho avuto modo di impiegare sempre delle singole particolarità, in parte per completare, in parte per rivedere i miei dati. La preziosissima collezione del signor von Froriep148 approdò a Weimar purtroppo solo in un momento in cui mi ero già allontanato da questi studi, e si trova ancora in questa città, adesso che sono costretto a prendere per sempre congedo da simili occupazioni, che un tempo mi hanno così appassionato. VII.149

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Vertebrae

Leone

Castoro

Dromedario

Carattere generale, e quanto c’è da notare specialmente.

Forme molto ben determinate. Le varie sezioni sono molto nette e separate. Le gradazioni leggere e tuttavia esplicite.

Forme poco determinate e poco proporzionate, come può dirsi di questo animale nel suo complesso.

Le vertebre dorsali sono compresse e corte, quelle cervicali lunghe al pari delle altre estremità di questo animale.

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Colli. I. Atlas.

2. Epistropheus.

3.

4.

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Ampie apofisi laterali, profonde cavitates glenoidales.

Alto processo dorsale, proc. lat. post. appuntito e sottile, volto all’indietro. Si mostra una tendenza ad apofisi pterigoidee, che hanno origine a partire dalla terza vertebra, mentre il proc. lat. acquista in basso gradualmente un’appendice piatta e volta in avanti.

Questa appendice

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Complessivamente deboli.

Entrambe relativamente grandi.

Relativamente piccole, apofisi laterali anch’esse sottili, ma ben proporzionate. Smisuratamente lunghe.

Il processus spinosus è concresciuto con l’apofisi dorsale dell’epistropheus.

Le quattro restanti vertebre sono deboli,

La 3, la 4 e la 5 sono di lunghezza decrescente, ma guadagnano robustezza, non ci sono processi spinosi ma aspre protuberanze formate da inserzioni tendinee, che nella quinta sono di forma condiloide; proc. lat. anteriores lunghi e volti verso il basso, inizialmente appuntiti. Si allargano verso il basso

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5. etc.

Dorsi. Fino alla metà.

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è molto pronunciata nella sesta vertebra, ma si perde nella settima, il cui proc. lat. è situato lateralmente. Tutti i processus spinosi delle ultime quattro vertebre cervicali sono collocati lateralmente.

il processus spinosus è spugnoso.

e all’indietro per terminare poi sotto il proc. lat. post. a formare in misura notevole l’apofisi pterigoidea della sesta vertebra. Quest’ osso è corto e robusto, possiede un’ampia apofisi a forma di pettine, mentre la settima vertebra, più piccola, mostra un’apofisi lamellare.

Undici, i primi quattro processus spinosi sono perpendicolari, i successivi sei sono volti all’indietro e l’undicesimo è perpendicolare. Il secondo è il più alto, mentre l’undicesimo è molto piccolo, in modo da rendere sicura e graziosa la parte terminale del dorso.

Undici, i primi quattro proc. spin. sono piccoli e piegati in avanti, mentre i nove successivi hanno all’incirca la stessa altezza; l’undicesimo è invece già piatto come quelli delle vertebre lombari.

Il centro non è determinabile, dopo la decima o l’undicesima i corpi delle vertebre si fanno molto piccoli, e i processus spinosi molto grandi. Il quarto è il più alto, ed è questa la ragione della gobba; i proc. spin. presentano delle epifesi osseo-spugnose separate.

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Nove, di cui due sono attaccate a delle costole; i proc. spin. laminosi sono tutti rivolti in avanti, al pari di quelli laterali, ed entrambi si accrescono in bella proporzione all’indietro, come le vertebre nel loro complesso.

Otto, di cui tre connesse a delle costole; i proc. laminosi, al pari dei proc. later., non crescono per gradi belli e percettibili.

Nove o otto, non è chiaro se si rapportino con le costole. I proc. lam. sono bassi, i proc. later. molto grandi, i corpi piccoli.

Pelvis.

Tre, forse solo due sono concresciute, molto sottili e piccole; l’ultima presenta delle appendici laterali che proseguono all’indietro.

Quattro, con apofisi perpendicolari che probabilmente sono concresciute tutte in alto, anche se in questo esemplare le prime due erano spezzate.

Quattro, concresciute.

Caudae.

Da quattro a cinque, con apofisi laterali, volte all’indietro senza apofisi perpendicolare, da tredici a quattordici, trapassano nella forma a falangi, per

Undici in questo esemplare incompleto, tutte con apofisi laterali molto grandi, le cui dimensioni diminuiscono verso la parte posteriore; le

Quindici, che trapassano in modo molto naturale e grazioso, con ogni sorta di forma e di epifisi, dall’osso pelvico alla forma a falange. Nel

Lumborum.

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Sternum. Vertebrae.

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terminare poi senz’altro come falangi, l’ultima delle quali, piccolissima, è concresciuta con la penultima.

prime cinque o sei presentano delle apofisi perpendicolari, le altre ne mostrano tracce.

cammello si verifica in generale la stessa cosa, salvo che nel dromedario la caratteristica della specie è molto più determinata in base a ciò che possiede e alla sua funzione.

Otto, lunghe, sottili, sembrano ossa porose, quantomeno non salde. Hanno delle epifisi cartilaginee verso il basso, Lunghezza e snellezza diminuiscono procedendo dall’alto verso il basso.

Cinque, ciascuna di forma diversa; la prima in foggia di manubrio, la seconda e la terza presentano la forma di falangi, mentre la quarta ha in basso delle apofisi molto ampie, e la quinta è conformata come la punta di una spada, ed è come se si potesse scorgere da lontano l’elemento umano.

Da cinque a sei, la più alta è appuntita e più larga verso il basso; hanno apofisi laterali tutte ossee, che si protendono verso coste e cartilagini.

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VIII. Volgiamoci ora ad una questione che, se fosse in qualche modo decidibile, non mancherebbe di esercitare un grande influsso su tutto ciò che si è detto in precedenza. In particolare, dopo aver parlato così tanto di formazione e trasformazione, sorge la domanda se realmente si debbano e si possano dedurre le ossa craniche dalle vertebre150, e se sia ancora riconoscibile la loro forma iniziale, malgrado così grandi e decisi mutamenti. Confesso qui di buon grado che da trent’anni sono convinto di tale misteriosa affinità, ed ho sempre continuato a riflettere su questo tema. Tuttavia un simile aperçu151, una simile visione, concezione, rappresentazione, concetto, idea, comunque la si voglia chiamare, mantiene pur sempre, qualunque atteggiamento si voglia assumere, un aspetto esoterico; nel complesso la si può enunciare, ma non dimostrare, mentre nel dettaglio è possibile mostrarla, ma non se ne viene completamente a capo. Anche due persone che fossero ben compenetrate di questo principio, difficilmente si troverebbero concordi nella sua applicazione nei singoli casi, e anzi, si può dire inoltre che il singolo e solitario, quieto osservatore e naturalista non sempre resta d’accordo con se stesso, comportandosi di giorno in giorno in modo più o meno chiaro verso il suo problematico oggetto, a seconda che la sua energia mentale si dimostri al riguardo più o meno lucida e completa. Per spiegarmi con una metafora, da un certo tempo avevo iniziato a interessarmi ai manoscritti del quindicesimo secolo, redatti interamente mediante abbreviazioni. Anche se una simile decifrazione non è mai stata il mio mestiere, mi misi tuttavia al lavoro con eccitazione e passione, e con mia grande meraviglia iniziai a leggere abilmente grafie ignote, che altrimenti sarebbero rimaste per me a lungo enigmatiche. Tuttavia questa soddisfazione non durò a lungo: infatti, quando, dopo un certo tempo, ripresi in mano l’attività che avevo interrotto, mi accorsi che stavo tentando erroneamente di completare, seguendo il consueto percorso dell’attenzione, un lavoro che avevo iniziato profondendovi tutto l’amore e le energie intellettuali, nella luce e nella libertà, e dunque non restava che sperare segretamente che una simile felice ispirazione del momento potesse rinnovarsi. Se troviamo simili differenze nello studio di antiche pergamene, i cui tratti si trovano pur sempre fissati e definitivi da-

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vanti a noi, quanto maggiori dovranno essere le difficoltà che incontriamo se aspiriamo a strappare qualcosa alla natura che, eternamente in movimento, non vuole far conoscere la vita che lei stessa dispensa, e ora contrae in abbreviazioni ciò che sarebbe senz’altro comprensibile se sviluppato chiaramente, ora invece si diffonde in enumerazioni successive di dettagliata scrittura corsiva, generando pause insopportabili. In tal modo essa manifesta ciò che nascondeva e cela ciò che aveva appena rivelato. Chi dunque può vantarsi di possedere una perspicacia così accurata, e un’intelligenza così semplice da poter dire che la natura gli si concede di buon grado in ogni luogo e in ogni momento? Ora però, se un simile problema, che si sottrae così completamente ad ogni trattazione essoterica, raggiunge il mondo, in movimento e interessato sempre solo a se stesso, sia che ciò avvenga in virtù di un metodo semplice o di un’ingegnosità particolarmente acuta, gli argomenti comunicati ricevono molto spesso un’accoglienza fredda, forse addirittura ostile, e un essere spirituale così sensibile viene considerato come del tutto fuori luogo. E anche se un’idea nuova, forse solo rinnovata, semplice e nobile, suscita una qualche impressione, in nessun caso viene proseguita e sviluppata con lucidità, come invece sarebbe auspicabile. Scopritori e collaboratori, insegnanti e allievi, allievi tra di loro, per tacere degli avversari, si scontrano, portando confusione e allontanandosi sempre più con trattazioni divergenti, e tutto ciò accade perché ciascuno vuole ricreare l’insieme di testa propria, ritenendo più lusinghiero essere originali sbagliando che non subordinarsi ad un modo di procedere più alto, riconoscendo la verità. Ora, chi abbia osservato, nell’arco di una vita intera, un simile andamento del mondo e del sapere, leggendolo sia nella storia sia intorno a sé, conosce perfettamente quegli ostacoli, e sa come e perché sia così arduo sviluppare e diffondere una verità profonda; gli si può dunque benissimo perdonare se egli non sente più desiderio di inoltrarsi in uno sgradevole ginepraio. Per tale motivo ripeto allora brevemente la convinzione che ho maturato nell’arco di molti anni: che cioè la sommità del cranio dei mammiferi deve essere derivata da sei vertebre. Tre di esse valgono per l’occipite, che racchiude il tesoro del cervello, nonché le delicate terminazioni vitali, finemente ra-

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mificate, che inviano segnali in e attraverso l’intero corpo, e contemporaneamente verso l’esterno; le altre tre invece costituiscono la parte anteriore della testa, che si apre al mondo esterno, lo accoglie, lo afferra e lo comprende. Le prime tre sono riconosciute come: l’osso occipitale, l’osso sfenoide posteriore e l’osso sfenoide anteriore, le ultime tre invece devono ancora essere riconosciute, vale a dire: l’osso palatino, la mascella superiore e l’osso intermascellare. Se uno degli uomini eccellenti che finora si sono interessati intensamente di tale argomento traesse piacere, anche solo in via problematica, dalla prospettiva che qui si presenta, e vi dedicasse un paio di illustrazioni, per rendere ben visibile con poche cifre e pochi segni ciascuna relazione reciproca e ciascun rapporto misterioso che occorrerebbe portare alla luce, in tal modo il pubblico, che ormai non è più possibile allontanare, riceverebbe subito una direzione decisa, e probabilmente ci arrischieremmo ad enunciare ancora alcune cose a proposito del modo di osservare e trattare simili misteri della natura, in modo da renderli infine forse universalmente comprensibili, indirizzandoli verso risultati pratici: soltanto così, in ultima analisi, possono essere in generale valutati e riconosciuti il valore e la dignità di un’idea; possiamo dunque consegnare ai quaderni che seguono alcune comunicazione di tal genere.

Anche se il mondo lo allontanasse152, Nobili allievi lo apprezzerebbero, infiammati per le tue idee, quando i più non vogliono riconoscerle.

Era lieto, molti anni fa, così appassionato lo spirito, nella sua aspirazione a indagare e apprendere il modo in cui la natura vive creando. È ciò che è eternamente uno Che si rivela in una molteplicità di modi: piccolo ciò che è grande, grande ciò che è piccolo,

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tutto secondo il modo suo proprio. Sempre mutevole, si tiene fermo, vicino e lontano, e lontano e vicino; Così dando forma, trasformando. – Io esisto per destare meraviglia.

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Conferenze sui primi tre capitoli dell’abbozzo di un’introduzione generale all’anatomia comparata, fondata sull’osteologia 1796

[Le conferenze che si trovano qui di seguito, nel quaderno Sulla morfologia, composte nel 1796, si trovano nel presente volume alle pp. 239-254, inserite nella successione cronologica dei lavori di Goethe.]

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Polverizzazione, evaporazione, gocciolamento153

Non sarebbe certo lontano dalla mèta chi considerasse questi tre fenomeni154, così affini e spesso concomitanti, che si presentano collegati tra loro, quali sintomi di un’organizzazione che procede ininterrottamente precipitando di vita in vita, e perfino dalla distruzione alla vita. In questa sede raccoglierò brevemente le mie osservazioni e riflessioni sul tema. Sono trascorsi circa sedici anni da quando il professor Schelver155, che frequentava l’istituto botanico granducale che io dirigevo, mi confidò, proprio in questo giardino e su questa medesima via che sto percorrendo, che aveva a lungo nutrito dei dubbi sulla teoria che attribuisce alle piante, al pari che agli animali, due sessi, e affermava di essersi pienamente convinto che fosse insostenibile. Nei miei studi sulla natura avevo assunto fideisticamente il dogma della sessualità, ed ero perciò molto colpito nell’apprendere una tesi addirittura contraria alla mia; tuttavia, non riuscivo a ritenere del tutto eretica la nuova teoria, poiché quell’uomo ingegnoso si produceva nella dimostrazione del fatto che la teoria della polverizzazione è una naturale conseguenza della metamorfosi, che assume per me un così grande valore. Adesso, dunque, si presentavano immediatamente al mio animo i dubbi suscitati di quando in quando contro il sistema riproduttivo sessuale, e acquistava nuova vita ciò che io stesso avevo pensato su tale argomento; alcune concezioni riguardo agli accadimenti naturali, che ora mi tornavano alla mente più

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limpide e feconde, erano confortate dalla nuova prospettiva, ed essendo io in ogni caso abituato ad applicare sempre in modo elastico l’idea della metamorfosi in ogni ambito, trovai che anche un tale nuovo modo di pensare si rivelava agevole e adatto, per quanto non riuscissi ad abbandonare immediatamente la mia precedente visione. Chi conosce la situazione in cui allora si trovava la nostra botanica, non mi rimprovererà di aver pregato con insistenza Schelver di non lasciarsi sfuggire con nessuno questa sua idea: era prevedibile che avrebbe incontrato le reazioni più ostili, così che la teoria della metamorfosi, che non aveva ancora trovato accoglienza, sarebbe stata bandita a lungo dai confini della scienza. La nostra personale posizione accademica consigliava di usare altrettanta discrezione, e io sono grato a quest’uomo ancora oggi per aver unito le sue convinzioni alle mie, senza lasciar trapelare nulla di tutto ciò per tutto il tempo in cui dimorò presso di noi. Nel frattempo anche nella scienza si verificarono dei mutamenti: si susseguivano nuove prospettive, che derivavano l’una dall’altra, ed erano già state espresse posizioni piuttosto audaci quando infine Schelver espose pubblicamente la sua azzardata nuova teoria, ma era possibile prevedere che tale teoria sarebbe rimasta per un certo tempo ignorata, come un segreto manifesto sotto gli occhi di tutti. Gli oppositori si misero d’accordo ed egli fu respinto polemicamente dalla soglia del tempio della scienza. Analoga sorte toccò alla difesa dagli attacchi, cui Schelver non poté astenersi. Schelver e le sue velleità erano stati marginalizzati e messi a tacere; tuttavia, l’epoca in cui viviamo ha la caratteristica per cui ogni seme sparso da qualche parte trova immediatamente un terreno fertile: la ricettività è molto grande, il vero e il falso germogliano e fioriscono vivacemente confondendosi tra loro. Ora, grazie all’importante lavoro di Henschel156, la teoria astratta ha acquisito un corpo, ed esige seriamente che le sia accordato un posto nella scienza, benché non si possa ancora prevedere in che modo riservarglielo. Nel frattempo si è già rianimato il favore nei suoi confronti: i recensori, anziché opporsi polemicamente arroccandosi sui loro precedenti punti di vista, si dichiarano convertiti, e ora non resta che attendere le ulteriori conseguenze.

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Allo stesso modo in cui si può dire che attualmente il nostro tempo abbondi di ‘ultra’ da ogni lato, dalla parte dei liberali come da quella dei monarchici, così Schelver fu un ‘ultra’ nella teoria della metamorfosi, e ruppe l’ultimo argine che la teneva prigioniera entro il cerchio in cui in passato era stata inscritta. Quantomeno, il suo saggio e la sua difesa non potranno essere esclusi dalla storia della botanica, e le sue concezioni meritano attenzione e partecipazione in quanto rappresentazioni ingegnose, considerate anche soltanto in forma di ipotesi. Soprattutto occorrerebbe che nelle scienze ci si abituasse a pensare in base a diversi parametri; ciò non riusciva difficile a me, in quanto poeta drammatico, ma per chiunque pensi dogmaticamente si rivelerà certo un compito arduo. Schelver prende le mosse dal concetto più puro della metamorfosi sana e regolata, che contiene l’idea secondo cui le forme di vita vegetali, radicate nel terreno e tendenti verso l’aria e la luce, crescono sempre innalzandosi su se stesse, e, dopo uno sviluppo graduale, spargono attorno l’ultimo seme prodotto, in virtù della propria forza; il sistema di riproduzione sessuale invece richiede, perché avvenga un esito simile, un elemento esterno che sia percepito e pensato come operante insieme e accanto alla fioritura, o anche separato da essa e contrapposto al nucleo più intimo. Schelver segue il cammino quieto della metamorfosi, che procede raffinandosi al punto che tutto ciò che è materiale, inferiore e comune viene progressivamente lasciato indietro, per far venire alla luce con maggiore libertà ciò che è superiore, spirituale, migliore. Perché, dunque, quest’ultima polverizzazione non dovrebbe coincidere con una liberazione da una materia importuna, di modo che la ricchezza di ciò che è più propriamente intimo possa distinguersi infine in virtù di una forza fondamentale vivente, in un’infinita riproduzione? Si pensi alla palma di sago, che, non appena l’albero avanza verso il momento della fioritura, produce in tutto il suo fusto una polvere dalla quale, recisa la pianta, si produce della farina

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con cui si preparano cibi altamente nutrienti; al termine della fioritura scompare allo stesso tempo anche questa polvere. Sappiamo che il crespino in fiore diffonde un profumo peculiare, che può rendere sterili i campi di grano situati nelle vicinanze di tale arbusto. In questa pianta, come possiamo notare anche dall’estrema sensibilità delle antere, si cela una proprietà meravigliosa: essa produce una polvere anche durante la fioritura, ma non a sufficienza, e anche in seguito, dalle foglie dei rami spuntano dei punti di polvere che si costituiscono talvolta addirittura in forma di calice e di corolla, raffigurando una magnifica crittogama. Questo si verifica solitamente sulle foglie dei rami dell’annata precedente, legittimati a produrre fiori e frutti. Le foglie e i getti più freschi, dell’anno in corso, invece, raramente mostrano una produttività così abnorme. In autunno le foglie dei rami della centifoglia157 mostrano il loro lato inferiore interamente ricoperto di una polvere che si può scuotere via facilmente, mentre il lato superiore è maculato di chiazze color giallo scuro, per cui si può percepire chiaramente quanto sia consumato il lato inferiore. Ora può darsi il caso che nelle rose comuni, pur in grado di produrre compiutamente la stessa operazione di polverizzazione, non si verifichi lo stesso fenomeno, che invece si troverà del tutto naturalmente nella centifoglia, i cui organi di polverizzazione sono annullati, in maggiore o minor misura, e trasformati in petali. La cancrena nei cereali158 ci indica poi un ultimo tipo di polverizzazione, che finisce nel nulla. Per quale irregolarità di crescita può mai la pianta giungere ad una condizione per cui, anziché svilupparsi felicemente e con energia vitale, generando una discendenza numerosa, essa si arresta su un grado inferiore, per poi perdersi in ultimo nell’atto della polverizzazione? Colpisce moltissimo il caso del mais còlto da un simile male: i grani si gonfiano fino a costituire una grande e informe pannocchia, e contengono una quantità smisurata di polvere nera; tale infinita quantità è segno delle energie nutritive che si trovano compresse e racchiuse all’interno del grano sano, e

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che, nella deviazione patologica, si dissolvono riducendosi in infinite particelle. Da ciò possiamo comprendere come il polline, cui non si negherà una certa organizzazione, sia stato senz’altro ascritto al regno dei funghi. In quel caso si era già preso atto di una polverizzazione abnorme; si potrà ora concedere un identico diritto di cittadinanza anche a quella regolare. Non si pone in dubbio, però, che in tutti i casi la polverizzazione organica159 avvenga in base ad una certa regola e secondo un ordine. Si ponga un fungo champignon non ancora aperto, con il gambo reciso, su un foglio di carta bianca, ed esso si schiuderà in breve tempo, cospargendo di polvere la superficie pulita con una regolarità tale che si mostrerà con la massima evidenza l’intera struttura del suo interno e delle sue pieghe inferiori. Tale fenomeno getta luce sul fatto che la polverizzazione non avviene in modo casuale, ma ciascuna piega contribuisce secondo un innato ordine. Anche negli insetti ha luogo un tipo di polverizzazione simile, che in ultima analisi si rivela distruttivo. In autunno si può notare come le mosche160, che all’interno delle stanze si attaccano alle finestre, rimangano ferme nello stesso punto, irrigidite, e progressivamente emettano una polvere bianca. L’origine di questo fenomeno naturale sembra risiedere nel punto in cui la parte centrale del corpo si salda a quella posteriore; la polverizzazione è successiva, e prosegue ancora per un certo tempo dopo la morte dell’animale. L’energia con cui tale materia viene emessa si può dedurre dal fatto che essa viene spinta in ogni direzione dal centro del corpo per un raggio di mezzo pollice, in modo tale che il lembo che si mostra da entrambi i lati della creatura supera la misura di un pollice renano. Per quanto tale polverizzazione sia più consueta ed evidente verso i lati, ho notato tuttavia che essa proviene talvolta anche dalle parti anteriori, di modo che la creatura è avvolta da una simile cortina di polvere, se non tutt’intorno, almeno per la maggior parte.

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Se sappiamo abituarci a diversi modi di pensare, questo non ci conduce, nelle osservazioni della natura, a risultati incerti; per quanto infatti noi riflettiamo sulle cose come vogliamo, esse restano sempre fisse per noi e per altri che verranno. Questa nuova teoria della polverizzazione sarebbe inoltre estremamente gradita e opportuna da esporre ai giovani e alle donne, poiché chi insegna personalmente si è finora sempre trovato in grande imbarazzo. Se dunque anche tali anime innocenti, per progredire con il loro studio, prendevano in mano dei libri di teoria botanica, non potevano nascondere di sentirsi offesi nel loro sentimento morale: gli accoppiamenti perpetui, di cui non si viene mai a capo, per cui la monogamia, su cui si fondano i costumi, la legge e la religione, si risolve interamente in una vaga lascivia, restano infatti per i sensi umani puri totalmente intollerabili. Spesso, e non del tutto a torto, si è rimproverato a studiosi di lingue classiche che essi, per ricompensarsi in certo modo della spiacevole aridità delle loro fatiche, hanno indugiato più del necessario su passi frivoli e sconvenienti di autori antichi. Lo stesso si potrebbe talvolta obiettare anche a quei naturalisti che, osservando alcuni punti scoperti della buona madre, vi trovavano un piacere molto ambiguo, come se si trattasse della vecchia Baubo. Noi ricordiamo infatti di aver visto degli arabeschi in cui i rapporti sessuali, all’interno dei calici dei fiori, erano presentati al modo antico, con estrema chiarezza. Nel sistema finora adottato il botanico non provava alcuna malizia: vi si guardava come ad un altro dogma, vale a dire che lo si accettava senza chiedersene la ragione o l’origine; ci si sapeva districare nell’uso linguistico e dunque non vi era alcun bisogno di mutare la terminologia anche dopo aver intrapreso la nuova strada. Antera e pistillo restavano come prima, salvo che si lasciava in sospeso quanto riguardava l’autentico rapporto sessuale. Se ci volgiamo ora al gocciolamento, troviamo che anch’esso può presentarsi in modo normale o abnorme. I nettari propriamente detti e le gocce che ne stillano si annunciano come altamente significativi, e affini agli organi della polverizzazio-

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ne; essi compiono in certi casi la medesima funzione, qualunque essa sia. Riguardo ad una melata161 che quest’anno si è rivelata inconsueta, un attento appassionato della natura ha notato ciò che segue. Negli ultimi giorni del mese di giugno si è manifestata una melata così abbondante quale raramente si ricordava. Il clima era stato freddo per quattro settimane, e addirittura sensibilmente rigido per alcuni giorni, con piogge intermittenti, per lo più a carattere locale, mentre più rare erano state le piogge che investivano più ampiamente la regione. Ne seguì un tempo più mite con un sole molto caldo. Poco dopo ci si avvide che su diverse piante ed alberi era apparsa la melata. Benché di tale fenomeno io ed altri fossimo a conoscenza già da alcuni giorni, mi sorprese tuttavia un particolare: sotto gli antichissimi tigli, che avanzavano ormai verso la fioritura, e che correvano lungo un fossato a formare un viale, mi accorsi che i detriti della Saal, composti per lo più di schegge di argilla e ciottoli, che poco prima ricoprivano la strada, mostravano un’umidità in apparenza derivata dagli schizzi di pioggia; quando però tornai dopo un’ora e vidi che, malgrado il forte sole, le macchie non erano scomparse, notai osservando alcune pietre più da vicino che i punti di umidità erano appiccicosi. Inoltre apparvero anche dei detriti interamente coperti dell’identico siero, sotto cui le selci si presentavano prevalentemente nere, come verniciate. Mi accorsi allora che esse si trovavano in una zona che corrispondeva all’ampiezza del raggio dei rami dell’albero, sicché mi fu chiaro da cosa derivasse il fenomeno. Ad un’osservazione più attenta risultò infatti anche che tutte le foglie brillavano, e dunque divenni certo della fonte del gocciolamento. Visitando un giardino, trovai un albero di susina claudia, su cui quell’umidità si mostrava in misura così grande che quasi sempre dalla punta delle foglie pendeva una goccia, già della consistenza del miele sciolto, che non riusciva a cadere. Vi erano tuttavia anche singoli punti in cui la goccia cadeva da una foglia più alta su una più bassa, e si presentava sempre di un colore giallo chiaro, poiché le gocce che indugiavano sulla foglia parevano mischiate con della sporcizia di colore grigionero.

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Intanto migliaia di afidi erano comparsi sulla pagina inferiore delle foglie, mentre erano per lo più attaccati alla superficie superiore, sicché si trovava anche una gran quantità di spoglie morte e vuote. Sia che essi si siano trasformati o siano morti lì, è lecito comunque dare per certo che la melata non è stata generata da tali insetti. Io ho visto dei tigli in cui le foglie apparivano come laccate, ma su cui non si mostravano né afidi né spoglie. Tale umidità proviene dalla pianta stessa: infatti, immediatamente accanto ad un simile tiglio se ne trovava un altro del tutto privo di umidità, presumibilmente più tardivo; allo stesso modo, anche tigli già in fiore possono non mostrare alcuna melata o solo una molto ridotta. Il cinque luglio, dopo una pioggia leggera e non persistente, mentre delle api ronzavano attorno ai tigli non ancora fioriti, risultò che esse avevano già iniziato a svolgere la loro attività sulle foglie, succhiando il miele. Probabilmente le piogge avevano lavato via le sostanze non commestibili e questi animaletti trovavano di loro gradimento ciò che era rimasto. Tale supposizione merita attenzione, poiché le api non si trovavano su tutti i tigli coperti di melata. C’è ancora da notare che il ribes bianco era rivestito di un simile succo, che non era invece presente sulla specie rossa, ad esso adiacente. Dopo così tante osservazioni si poteva dunque anche arrischiare qualche spiegazione. Maggio aveva fatto sviluppare rami e foglie in discreta misura, mentre giugno era stato freddo e piovoso, dunque la crescita ne sarebbe dovuta risultare turbata, poiché tutti i succhi in moto nelle radici, nel fusto e nei rami si erano raccolti il più possibile nei rami e nelle foglie, anche se con l’aria esterna fredda e umida l’evaporazione delle foglie non poteva procedere in misura adeguata, e il lungo persistere di un simile stato arrestò ogni cosa. D’improvviso poi seguirono dei giorni caldi, con una temperatura che oscillava tra i venti e i ventisei gradi, e un’aria secca. In quel momento alberi e piante che contenevano già diverse sostanze destinate a produrre fiori e frutti, proruppero in un’evaporazione tanto più cospicua in quanto in essi era presente una quantità eccessiva di liquidi, e quelle sostanze, che si possono certo chiamare nettari, pur se sommariamente e in prima approssimazione, non potevano che essere molto dilui-

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te, di modo che la pianta trasudava tutta insieme. L’aria secca faceva evaporare rapidamente le parti più acquose, lasciando sulle foglie quelle più nutrienti. Dopodiché apparvero gli afidi e altri insetti, che tuttavia non sono la causa del fenomeno. Mi sembra più difficile dire in che modo la melata giunga a terra e si mostri diffusa in modo regolare su certe pietre e ne ricopra completamente altre; volevo solo notare che, mentre questo succo sgorga dalle foglie, nelle incavature, nervature e altro, in esso viene inclusa dell’aria, e a ciò può contribuire molto la posizione verticale delle foglie. Il sole e il calore possono poi dilatare l’aria in delle bolle che infine scoppiano, spargendo all’esterno l’umidità. Con ciò che si è detto in precedenza concorda il fatto che nei tigli in fiore non sia presente alcuna melata: in essi infatti i succhi preparatori, che vanno perduti nella melata, sono già pervenuti alla loro destinazione, e quell’umidità che appare contraria alla regola è giunta alla sua mèta più nobile. Tigli più tardivi non raccolgono forse altrettanto succo, lo elaborano in misura minore e il gocciolamento non ha luogo. La susina claudia invece è un albero in cui notiamo un cospicuo accumulo di succhi nei frutti che forma regolarmente. Ma se il frutto si sviluppa in modo incompleto, mentre fusto e rami sono colmi di nutrimento, diventa naturale un eccesso di gocciolamento, che non ha luogo nel pruno comune. Sfruttai tale occasione per raccogliere una parte di quell’umidità vischiosa: presi circa quattrocento foglie, le immersi, riunite in mazzetti, con le punte in poca acqua, estraendone ciascuno dopo dieci minuti, e così fino alla fine. Lo scioglimento della sostanza si verificò come quando si tiene una zolletta di zucchero in un bicchiere d’acqua e lo si guarda controluce, sì da vedere un filamento chiaro che si avvolge verso il fondo. La soluzione ottenuta era di colore giallo-verde sporco, fu consegnata al consigliere aulico Döbereiner, che analizzandola registrò quanto segue: 1) zucchero non cristallizzabile e fermentabile, 2) mucus (muco animale) 3) una traccia di albume e 4) una traccia di un acido singolare.

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Solo il risultato finale della fermentazione cui è stata sottoposta una parte della melata potrà dimostrare se vi sia contenuta anche della manna. Quest’ultima infatti non è fermentabile. Jena, 30 giugno 1820. Döbereiner162. In alcune piante, in particolare quelle che sono classificate come grasse, si manifesta un gocciolamento simile, perfino sugli organi più giovani; la Cacalia articulata rilascia delle gocce molto grandi dai primi rami e dalle prime foglie che genera, il cui stelo deve dapprima formare a sua volta un organo rigonfio. Il Bryophyllum calycinum163 mostra, tra le tante altre proprietà, anche la seguente: se si innaffiano abbondantemente delle piante, giovani o adulte, e la luce e il calore non sono abbastanza potenti da attuare un’evaporazione in misura proporzionale, allora sgorgano delle gocce delicate e chiare dal margine delle foglie caulinarie, non però dalle frastagliature da cui in futuro si svilupperanno delle gemme giovani, bensì dai rialzi che si trovano tra di esse. Nelle piante giovani il fenomeno scompare al sopraggiungere del caldo e del sole, mentre nelle più adulte le gocce coagulano fino a formare una sostanza gommosa. Per aggiungere ancora qualcosa a proposito dell’evaporazione, notiamo che il polline, incaricato del gran compito della fecondazione, può presentarsi addirittura in forma di vapore. Infatti, quando la temperatura estiva è particolarmente alta, le bollicine di polline di alcune conifere salgono nell’aria come palloncini infinitamente piccoli, e in misura tale che poi, ricadendo con l’arrivo della pioggia, sembrano lasciare sul terreno una polvere di zolfo. Il seme del licopodio, facilmente infiammabile, si dissolve in vapore combusto. Altri tipi di evaporazione si manifestano su foglie, rami, steli e tronchi di forma zuccherina, e anche oleosa, gommosa e resinosa. Il dittamo, se lo si prende al momento opportuno, si incendia, e una fiamma viva divampa verso l’alto lungo lo stelo e i rami. Su certe foglie vengono a nutrirsi zanzare, mosche, e insetti di ogni specie, e senza questo segno non noteremmo la loro tenue evaporazione.

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Le gocce di pioggia restano su certe foglie in forma sferica e chiara, senza dissolversi: possiamo certo ascrivere tale fenomeno ad una qualche sostanza evaporata che, indugiando su tali foglie, avvolge e trattiene le gocce di pioggia. Il velo sottile che circonda la pelle della prugna matura è opaco e gommoso, e a causa del fondo scuro su cui si trova appare blu al nostro occhio. È già stato riconosciuto il fatto che una certa interazione, non evidente per noi, tra pianta e pianta, può rivelarsi salutare o dannosa. Chissà se in abitazioni calde o fredde certe piante non possano crescere proprio perché sono affiancate ad un vicino ostile: probabilmente alcune si impadroniscono a proprio vantaggio degli elementi atmosferici salutari, il cui influsso è accordato di principio a tutte. Gli appassionati di floricoltura affermano che le violaciocche non fecondate devono essere collocate tra quelle fecondate per ottenere dei semi completi, quasi che il delicato profumo sia in grado, se non di fecondarle, almeno di favorire la fecondazione. Perfino sotto terra si assume che si verifichino simili effetti. Si ritiene infatti che qualità scadenti di patate, se poste in mezzo ad altre migliori, esercitino un’azione dannosa. Si potrebbero addurre anche altri esempi, che spingono, se non addirittura costringono l’attento e competente appassionato indagatore della natura ad ammettere che tutti i fenomeni sono immancabilmente e costantemente interconnessi. Nello sviluppo degli insetti164 l’evaporazione si rivela importantissima. La farfalla che si libera dell’ultima pelle di bruco, giunta ad un ultimo stadio di sviluppo anche se ancora incompiuta, custodisce in sé un succo prezioso, sotto un nuovo involucro che già prefigura la sua forma. Distillandolo organicamente al proprio interno, essa fa propria la parte più nutriente, mentre quella meno importante evapora in misura proporzionale alla temperatura esterna. Ad una osservazione più attenta di simili effetti naturali abbiamo notato una significativa diminuzione di peso, e accade che tali crisalidi, se conservate in luoghi freddi, ritardino per anni il loro sviluppo,

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mentre altre mantenute in luoghi caldi e asciutti vengano alla luce assai rapidamente. Queste ultime, tuttavia, sono più piccole e modeste rispetto alle altre, a cui era stato accordato il tempo necessario. Con tutto ciò che abbiamo detto finora non abbiamo inteso enunciare qualcosa di nuovo e significativo, ma ci siamo semplicemente limitati ad accennare al modo in cui nel vasto mondo naturale ogni cosa coopera in azione reciproca, e gli stadi iniziali, al pari di quelli più compiuti di tutte le conformazioni si rivelino sempre identici e diversi allo stesso tempo.

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Appello amichevole165

Non posso celare, in conclusione, una gioia che in questi giorni mi pervade a più riprese: mi sento felicemente in accordo con ricercatori166 vicini e lontani, seri e attivi, che convengono nell’affermare che occorre presupporre e ammettere l’esistenza di una realtà non indagata167, senza tracciare del resto alcuna linea di confine a chi fa ricerca. Non devo forse ammettere e presupporre perfino me stesso, senza poter mai sapere cosa io sia realmente? Non è forse vero che io continuo a studiare me stesso senza mai giungere a comprendere né me né gli altri, e tuttavia proseguo sempre con animo lieto? Lo stesso può dirsi del mondo! Si trova di fronte a noi, senza inizio né fine, illimitato nella distanza, imperscrutabile nella prossimità; è così, e non si giungerà mai a determinare né a fissare in quale misura e con quale profondità lo spirito umano sia in grado di penetrare i misteri propri e del mondo. Possano i versi sereni che seguono essere accolti e interpretati in questo senso.

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[Esclamazione risentita]168

All’interno della natura Oh! Filisteo! Non penetra alcuno spirito creatore. Me e i miei simili Potete, con tali parole, soltanto ricordare. Pensiamo: di luogo in luogo Siamo al suo interno. Felice colui al quale essa Rivela anche soltanto il suo guscio esterno! Lo sento ripetere da sessant’anni, e lo maledico, anche se in segreto; mi dico mille e mille volte: essa dà ogni cosa volentieri e in abbondanza; la natura non possiede nucleo né guscio, essa è tutto in una volta; mettiti alla prova adesso: tu sei nucleo o guscio? Pulchra sunt quae videmus169, Quae scimus pulchriora, Longe pulcherrima quae ignoramus.

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Introduzione170

Proprio nel momento in cui, con il presente quaderno, mi accingevo a portare a termine due volumi, uno dei quali dedicato alle scienze naturali in generale, l’altro alla morfologia in particolare, ho ricevuto da una persona autorevole uno scritto le cui aspirazioni si rivelano per me troppo utili perché non debba ricordarlo con piacere; si tratta dell’opera di Wilhelm von Schütz Sulla morfologia, primo fascicolo, 1821. L’autore ha preso certamente in esame i lavori che finora ho condotto sui fenomeni naturali, e ha ritenuto giusto comunicare a suo modo la mia impresa, risolvendosi infine a trasmettere allo stesso tempo ciò che gli si era rivelato riguardo al mondo interno ed esterno, in riferimento alle esperienze che confortano e illuminano simili risultati. Mi sia concesso in questa sede di citare in parte alcuni passi171 scritti in mio favore. Innegabile è l’influsso che i contributi di Goethe alla morfologia e alla scienza naturale hanno esercitato sulla successiva serie di comunicazioni, tanto che ci si potrebbe chiedere se queste ultime sarebbero mai venute alla luce senza tali contributi. Tre caratteristiche dell’impresa goethiana mi hanno vivamente attratto lasciandomi un’impressione persistente; vorrei in primo luogo elencarle, per poi parlare singolarmente di ciascuna. Ciò che Goethe ha osservato nella natura ha assunto per lui allo stesso tempo il carattere di esperienza vissuta.

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L’elaborazione e l’ordinamento dei fenomeni osservati rende le percezioni degli strumenti, ovvero da un lato dei bei frammenti di un insieme infinito, uguale a se stesso e al contempo diversificato, dall’altro delle singole totalità concluse. Le peculiarità che essi mostrano li distinguono da tutto ciò che finora ci ha fornito la filosofia speculativa e l’osservazione empirica della natura. Il legame con le esperienze vissute introduce lo spirito storico nell’impresa: la direzione storica, infatti, gradito fenomeno proprio della nostra epoca, è intesa da Goethe, come ogni altra cosa, in un modo particolarissimo e soltanto suo. Se dunque per lui tale spirito è, più intimamente che per altri, in relazione con il mondo interno ed esterno, allora egli sembra in grado di definire come autenticamente storico solo ciò di cui si dia esperienza diretta. Chi considera, tra le caratteristiche momentanee di un certo oggetto, anche gli influssi dello spazio che lo delimita, nonché lo sviluppo che esso ha conosciuto a partire da uno stadio precedente, non potrà che intendere come inseparabili storia e natura di quell’oggetto. Perciò, dal momento che ogni dato storico è fondato nel tempo, in base a quella concezione egli deve far sì che ogni storia diventi la sua propria storia affinché essa sia realmente tale. Avendo Goethe assunto tale concezione, non è certo impossibile che sia stata questa prospettiva a stimolarlo a iniziare un’opera che ponesse in relazione le sue scoperte in ambito naturale e scientifico con gli eventi della sua stessa vita. Un simile procedimento presenta dei vantaggi peculiari. Spesso non è tanto l’oggetto dello studio ciò che provoca divergenze di opinioni, quanto le condizioni in cui si trova. “Mi auguro di essere compreso completamente, quanto a ciò che io sono stato per la natura e quanto a ciò che la natura è stata per me, dice Goethe. Se vuoi capirmi anche solo in parte, devi sapere in che modo la natura mi ha trovato e in che modo ho trovato la natura, nel momento in cui ci siamo incontrati. Allora ti saranno chiare la storia e la rappresentazione delle mie osservazioni. C’è da credere poi che questo ci unirà nell’esame dei fenomeni cui ci dedichiamo.” Quanto si rivelò proficuo, allora, anche per me scoprire la storia e la genesi di molte conoscenze! Se è vero che Goethe mi aveva guidato a simili acquisizioni, è vero anche che esse non sono sufficienti a soddisfare l’intento che attualmente io nutro. Devo dunque cercare tra le mie esperienze dirette. Da questa fonte scaturisce qualcosa che in sé può risultare insignificante, ma che reca tuttavia un tono di verità che supplisce a lacune di altro genere.

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Quindi l’autore parla di sé e delle particolari condizioni della sua biografia che lo hanno condotto ad occuparsi di scienza, nei termini seguenti: Non è stata l’inclinazione, ma un evento obbligato della mia esistenza ciò che mi ha condotto alla prima e originaria attività umana, la coltivazione della terra. In precedenza questa attività mi era completamente oscura: la suddivisione dei campi in tre zone, con ciò che ne derivava, mi restava incomprensibile, anche se riconosco che ciò era disdicevole per la mia età e per le condizioni in cui mi trovavo. Tuttavia fui allora costretto ad intraprendere un’attività contraria alla mia inclinazione, ed iniziai sotto la guida dei più recenti manuali sull’argomento di cui venni a conoscenza; alcune felici percezioni e appropriati collegamenti con le relazioni naturali e temporali fecero sì che mi arridesse un primo successo, che risultò frutto di valutazioni corrette sui dati offerti dalle circostanze piuttosto che di intima sicurezza di metodo. Tale scoperta mi indirizzò all’osservazione quasi esclusiva della natura, a cui si legava un’attività pratica di altro genere, acquisita in altre circostanze.

Quanto a ciò che segue, ascolteremo volentieri le parole dell’autore; non ci si lasci allontanare da uno stile che di primo acchito non è sempre nitido. Le singole percezioni registrate da Goethe a proposito dei fenomeni naturali appaiono, in virtù del loro ordinamento ed elaborazione, come strumenti, frammenti di un insieme infinito, uguale a se stesso e tuttavia diversificato, e al contempo delle singole totalità concluse. Questa è la seconda delle caratteristiche che ho elencato all’inizio; si intende con ciò che Goethe distingue la sua materia in modo così netto, come se elaborasse degli oggetti privi di qualunque nesso; li sceglie apparentemente con il massimo arbitrio, per poi porli in un’incontestabile e intima relazione reciproca, impiegando criteri scientifico-naturali, storici, poetici e filosofici. Quella distinzione dei singoli fenomeni reca enormi vantaggi, poiché esclude tutto ciò che è estraneo, e che, pur introducendo le sue più sottili fibre nella materia in esame, sembra tuttavia possedere il proprio centro altrove. Quanto più ciò che un autore espone si discosta dalle concezioni consuete, tanto più quel mezzo gli servirà a rendere la sua presentazione chiara, lucida, ordinata e piacevole: egli infatti intuisce in tal modo molti dettagli, di modo che gli si impone quel tipo di comprensione che avrebbe anche il lettore, se fosse in grado di percepire allo stesso modo ciò che, in ciascun singolo particolare, affluisce dalla fonte di un altro particolare. Indotti a confluire

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l’uno nell’altro, questi due specchi d’acqua non devono contaminarsi in un insieme torbido, ma nemmeno devono restare costantemente confinati ciascuno entro il proprio bacino.

A questo punto l’autore si volge indietro a ripercorrere la storia, e ricorda Socrate, Aristotele, Platone, Winckelmann; quindi, dopo essersi pronunciato su di loro, prosegue: Se Winckelmann rinnova il sentimento con cui Platone ci cattura, vale a dire quello per cui egli afferma di non essersi ancora espresso a sufficienza, e di non poter mai riuscire ad esprimersi compiutamente, Goethe rappresenta invece il terzo spirito, caratterizzato dalla medesima inclinazione, in quanto poeta, osservatore del mondo e indagatore della natura. Si consideri quanta poca mistica sia presente nella sua poesia, come egli non inserisca mai nella sua trama il mistero, ma essa colpisca piuttosto il lettore come una necessità naturale calma e nitida, del tutto comprensibile e trasparente; ma si pensi allo stesso tempo come noi, una volta terminata la lettura della poesia, ci sentiamo come su una soglia, al di là della quale giace nascosto il grande mistero universale, da cui scaturisce la sua opera. Tutto ciò si è costretti senz’altro a riconoscerlo, ma solo pochi sono disposti ad ammettere che la stessa sensazione si ripete quando Goethe ci conduce nell’ambito della natura; e tuttavia è proprio in quest’ambito che essa si rivela quanto mai notevole. Un paragone figurato cercherà di conferire credibilità a quest’affermazione, non ancora compresa. Se Aristotele ci dà luce e Platone anima, Goethe ci dà luce e anima allo stesso tempo, non appena ci introduce alla natura. Questo mi è stato rivelato per la prima volta dalla sua rivista di scienze naturali, e in particolare dal suo ordinamento interno: i singoli argomenti, in virtù del modo in cui sono trattati nei vari saggi, si presentano come dei particolari posti in piena luce. Grazie alla loro disposizione, al legame con le esperienze vissute, alle conseguenze e all’afflusso di aspetti poetici, essi sono poi nuovamente immersi nell’elemento di un’anima che appartiene a tutte le cose, e le singole totalità sono poste sullo sfondo di un tutto comune.

L’amico prosegue ora a parlare del terzo e ultimo punto, esprimendosi nel modo seguente: Il contenuto essenziale dei contributi scientifico-naturali di Goe­ the, vale a dire il terzo aspetto che ci ha particolarmente colpito, come abbiamo annunciato, è strettamente legato all’ordinamento e alla forma che una tale mente ha dato ai suoi lavori, e che serve

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esattamente a saldare il contenuto della singola ricerca alla totalità misteriosa. Ma cos’è una simile totalità misteriosa? Quale occhio è in grado di scorgerla, quale tradizione ce ne parla, quale orizzonte di pensiero ci ha rivelato la sua legge? Certo, possiamo vedere dei fenomeni singoli, singoli eventi ci sono stati riportati con verosimiglianza, e singole verità ci hanno convinto come delle leggi innegabili; in breve, i dati singoli si presentano, in ultima analisi, come indipendenti da noi. Fateci dunque osservare la materia: osserviamo com’è, come diviene davanti ai nostri occhi, e come è divenuta! Allora forse, mentre tutto si divide, troveremo proprietà, leggi e storia riunite in uno e concordi. Probabilmente riconosceremo la legge e la storia nella proprietà; la legge ci mostrerà forse perché la storia abbia preso il corso seguito in base alla condizione precedente; la storia inoltre ci fornirà chiarimenti sul modo in cui sorgono le leggi. Ora, per non confonderci, e perché non finiamo per compiere qualcosa di completamente diverso rispetto a ciò che intendiamo realizzare, cerchiamo di restare fedeli alla singola materia che di volta in volta è oggetto di indagine, portando seriamente a compimento il nostro studio, di modo da non scambiare il nostro oggetto con un altro, per quanto possa spesso essere ad esso concomitante. Infatti, proprio perché ciascuna cosa può rivelarsi anche diversa da quella che si presenta nel fenomeno osservato, dobbiamo mantenerci saldi e determinati, focalizzandoci su quest’ultimo. Tuttavia, per la stessa ragione è necessario ricordare che lo stesso oggetto che è per noi materia di indagine può essere allo stesso tempo materiale anche per altre discipline ed esigenze intellettuali, per quanto si mostri in questi casi come un materiale di altra specie. Noi intendiamo allora tentare di rendere feconde le nostre osservazioni riguardo a questo argomento, facendo in modo da non tralasciare i risultati destinati a rivelarsi preziosi per chi indaga anche in altri ambiti: in caso contrario, infatti, resterebbe per noi sullo sfondo un grande mistero. Siamo comunque convinti che le nostre osservazioni, dedicate a singoli dettagli, non potranno che avvicinarci anche a quel segreto. È questo l’aspetto più essenziale e importante che emerge in ciascuno dei recenti contributi scientifico-naturali di Goethe. In primo piano si trovano le osservazioni su dettagli singoli e presenti, mentre i fenomeni originari, pur trovandosi sullo sfondo, non sono né tralasciati né ridotti, così come non subisce alcuna riduzione nemmeno ciò che può essere raggiunto per via di deduzione e di divinazione. Anzi, ciò che più conta è che è proprio l’elemento sensibile a richiedere quello realmente soprasensibile. L’opera di Goethe dunque presenta il vantaggio, che si trasmette a tutto ciò che interessa la conoscenza, per cui, pur limitando le sue

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ipotesi all’ambito delle scienze naturali, pone loro dei confini anche in altri territori intellettuali, così da procurarci delle basi solide in modo pienamente soddisfacente. Infatti, in tal modo non accade che l’uno o l’altro fenomeno richiami la nostra attenzione su questa o quell’altra base realmente presente; occorre invece che sorga una fede in grado di appagare tutte le nostre esigenze. Certo, si potrebbe facilmente far seguire qui una caratterizzazione più ravvicinata del modo in cui Goethe elabora esperimenti e ipotesi nei suoi contributi di fisica e di morfologia, nonché delle conseguenze che ne risultano per la scienza naturale, come per tutte le altre esigenze e direzioni intellettuali; ma ciò sarà oggetto di un successivo saggio particolare, poiché quello che abbiamo detto finora deve mantenersi entro i confini di una presentazione generale, senza dilatarsi in eccessive sfaccettature.

Ciò che ho riportato qui non poteva altro che risultarmi estremamente gradito: infatti, allo stesso modo in cui non è certo auspicabile che altri imitino il nostro modo di fare e di scegliere, così si rivela piacevole, e addirittura edificante, il caso in cui altri scoprono in sé quegli stessi princìpi che guidano il nostro agire, e che sono puramente umani, salvo poi tendere a sistemare in base ad essi il loro modo di vivere e di comunicare. Questa considerazione mi induce ad aggiungere ancora qualche osservazione in forma di aforismi.

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[Aforismi]

Il bene supremo che abbiamo ricevuto da Dio e dalla natura è la vita, il movimento circolare della monade172 attorno a se stessa, che non conosce arresto né quiete; l’impulso a proteggere e curare la vita è innato e indistruttibile in ciascuno, ma la sua natura più propria resta per noi e per gli altri un mistero. Il secondo favore elargito dall’essenza che agisce dall’alto è l’esperienza vissuta, l’appercezione, l’intervento della monade vivente e in moto nell’ambiente circostante, nel mondo esterno, grazie al quale soltanto essa si accorge di essere priva di confini interiormente e delimitata invece all’esterno. Su tale vissuto possiamo vedere chiaro in noi stessi, anche se per questo si richiede predisposizione, attenzione e fortuna; per altri infatti anche questo resta sempre un mistero. Come terzo si sviluppa poi ciò che dirigiamo verso il mondo esterno in forma di elaborazione e azione, parola e scrittura, e che vi appartiene più di quanto non appartenga a noi stessi: è il mondo, infatti, che è in grado di accordarsi su questo più di quanto non possiamo farlo noi. Malgrado ciò, esso avverte che, per raggiungere un’autentica chiarezza al riguardo, deve apprendere il più possibile anche dalla nostra esperienza vissuta. Per questo si è sempre molto curiosi di informarsi sulla giovinezza, sui gradi di istruzione, sui dettagli biografici, sugli aneddoti e così via.

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A tale azione verso l’esterno fa seguito immediatamente una reazione, sia che l’amore cerchi di favorirci, sia che invece l’odio sappia ostacolarci. Tale conflitto resta piuttosto costante nella vita, mentre l’uomo in effetti resta identico a se stesso e dunque non può che sentire a suo modo tutto ciò che gli suscita simpatia o avversione. Anche ciò che gli amici fanno con noi e per noi costituisce esperienza vissuta, e rafforza e sostiene la nostra personalità. Al contrario, ciò che i nemici intraprendono contro di noi non è parte del nostro vissuto, poiché lo apprendiamo soltanto, rifiutandolo e proteggendoci, come contro il gelo, la tempesta, la pioggia e la grandine, o con altri mali che possiamo aspettarci dall’esterno.

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Botanica173

[appello per l’unità di intenti] Passando ora dal generale al particolare, non posso tacere la mia riconoscenza per un passo174 che ho letto negli Ergänzungs-Blätter zur Jenaischen Literatur-Zeitung, n. 47, 1821: Il manuale di botanica di Nees von Esenbeck si ricollega ai lavori botanici di Goethe, Steffen, Schelver, Oken, Kieser e Wilbrand: questi uomini infatti mostrano, ciascuno a suo modo, uno stesso spirito. Ma chi mai potrebbe cercare con puntiglio di distinguere cosa appartiene all’uno o all’altro, o chi mai, trattando la conoscenza raggiunta come un possesso esteriore privo di vita, vorrebbe egoisticamente stabilire una sua priorità? Ciascuno è piuttosto debitore verso quella guida universale, che nella nostra epoca ha condotto molti a seguire la medesima scuola, e che ha elargito al nostro tempo il dono inestimabile della tacita cooperazione di animi diversi in vista di un unico fine.

Un simile appello all’unità di intenti nella trattazione di ciò che è vero e autentico, così accorato e pressante, esaudisce il desiderio che avevo espresso nel mio volume sulla scienza naturale con il titolo Meteore des literarischen Himmels 175, a p. 88, lo prepara e, col favore del buon genio, ne approssima il compimento. Allo stesso modo in cui non possono darsi dei compagni di fede che non rinuncino a delle caratteristiche ben delimitate, malgrado ciascuno mantenga la propria individualità, così nella scienza più nobile non è possibile collaborare attivamente,

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riconoscendo l’autentica costituzione della città-natura di Dio, nonché formulare delle regole, nella misura in cui siamo in grado di intervenirvi, se non rinunciamo patriotticamente in quanto cittadini alle nostre particolarità, e non ci immergiamo nel tutto, in modo tale che il nostro singolo e più attivo contributo scompaia completamente per il bene universale, riemergendo solo in futuro nella memoria dei posteri, insieme a quello di migliaia di altri, come trasfigurato. [difficoltà nell’insegnamento della botanica] Inoltre, non posso tacere l’importanza che per me ha rivestito il Lehrbuch der Botanik 176 di Wenderoth, pubblicato nei Göttinger Anzeiger, n. 22, 1822. Il relatore, dopo aver notato la difficoltà di consegnare ad un manuale di botanica nozioni teoriche e pratiche relative alle piante, si affretta a giungere al punto principale che, secondo la sua opinione, rappresenta la fonte dell’oscillazione biasimevole propria di quasi tutte le opere recenti di botanica generale. Ciò che conta è se intendiamo seguire la pianta nella sua viva metamorfosi come qualcosa che sussiste solo in un mutamento regolato, oppure se vogliamo concepire e attenerci all’idea della pianta come di un elemento che resta costante, e di conseguenza privo di vita, in una certa condizione o in condizioni molto distanti tra loro. La scelta è decisiva. Chi si pronuncia, con Linné, in favore di quest’ultima concezione, sceglie la via più sicura; chi invece si inoltra nel ciclo della metamorfosi non può più fermarsi o retrocedere, e si trova a dover seguire l’intero corso dello sviluppo, dalla prima vescichetta seminale da cui scaturiscono funghi ed alghe, fino al chicco della pianta più evoluta. Deve inoltre derivare gli organi superiori delle piante non dalla radice e dallo stelo, bensì unicamente dal nodo dal quale inizialmente sono derivati anche la radice e lo stelo. Non deve considerare la pianta nel suo complesso come un oggetto di esame alla stregua di un individuo, ma indagare in che modo essa sia giunta alla sua forma complessiva attraverso una successione graduale di nodi, ciascuno dei quali ha la facoltà di vegetare anche autonomamente. Ne risulta poi, quasi spontaneamente, un determinato concetto genetico di specie nel regno vegetale, che molti hanno quasi abbandonato, poiché invano lo cercano per altra via; così guadagna di nuovo

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terreno la critica all’idea di metamorfosi da una pianta all’altra, così spesso affermata e contestata ai nostri giorni, e che il naturalista non può accogliere senza rinunciare ad ogni tipo di certezza.

Vorrei ora aggiungere ancora, a mio modo, le considerazioni seguenti: l’idea non può essere rappresentata né dimostrata nell’ambito dell’esperienza, e chi non la possiede non la scorgerà in nessun caso nel fenomeno; chi la possiede, invece, si abitua facilmente a guardare molto oltre il fenomeno, tornando poi comunque alla realtà dopo una simile diastole, per non perdersi, e procedendo alternativamente in questo modo per tutta la vita. Non sfugge certo alle persone ragionevoli la difficoltà di curare, lungo tale via, l’elemento didattico, o addirittura quello dogmatico. La botanica, come sapere specialistico, si basa su un sicuro fondamento metodico-astratto, e in quanto arte su uno empirico-pratico; da entrambi i versanti non vi è da temere per lei. Ora, poiché anche l’idea interviene senza sosta, l’insegnamento della botanica non può che diventare sempre più difficile, e a tale riguardo concordiamo pienamente con le affermazioni dell’ignoto amico e collaboratore citate più sopra, e nondimeno nutriamo e coltiviamo la speranza da lui espressa in conclusione. singolare guarigione di un albero gravemente ferito 177 Nel cortile dell’appartamento del capo-guardaboschi a Ilmenau si trovavano, fin da tempi antichi, dei sorbi selvatici molto alti e robusti, che all’inizio del secolo iniziarono a morire; si diede dunque l’ordine di abbatterli. Sfortunatamente i boscaioli cominciarono a segare anche un albero completamente sano; era stato già per due terzi tagliato quando furono fermati, la ferita fu rivestita, coperta e protetta dall’aria. L’albero resistette in vita altri vent’anni, finché lo scorso autunno, dopo che già i rami terminali avevano iniziato ad ammalarsi, fu abbattuto alle radici da una tempesta. Il segmento conservato grazie alla cura del capo-guardaboschi von Fritsch178, lungo dodici pollici, mostra al centro il punto in cui era stato tagliato: pur essendosi rappreso in una

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cicatrice, era completamente guarito, e la tempesta non è riuscita ad intaccarlo. Quest’albero sarebbe dunque da ritenere come innestato su se stesso, poiché, visto che dopo aver estratto la sega si usò subito la precauzione di proteggere la ferita dall’aria, la vita della corteccia sottilissima e dell’alburno nascosto sotto di essa si riprese immediatamente, mantenendo una crescita ininterrotta. Non altrettanto avvenne al legno che, una volta tagliato, non riuscì più ad attecchire; le secrezioni interne si decomposero e il centro del tronco, inizialmente molto saldo, andò in una sorta di putrefazione. Resta tuttavia notevole il fatto che l’alburno guarito non si poté fissare ad alcun legno nuovo, sicché la marcescenza del centro avanzò fino ai due terzi dell’intero tronco. Diversamente accadde però alla terza parte sana, che sembra aver continuato la crescita, donando così al tronco una forma ovale. Il diametro più piccolo, misurato sopra la metà degli anelli annuali, raggiunge i 15 pollici, quello più grande è di 18 pollici, di cui 5 appaiono di legno completamente sano. schema 179 di un saggio sulla coltura delle piante nel granducato di weimar Anche questo effetto evidente e altamente significativo è scaturito da un’autentica esperienza vissuta, e da una cooperazione lieta e serena, proseguita per molti anni. Iniziamo dunque dal Belvedere, che verdeggia e fiorisce per la gioia dei residenti e l’ammirazione degli stranieri. La realizzazione del castello e del giardino è stata portata a termine dal Duca Ernst August180 nel 1730, che ha poi adibito questi luoghi a residenze estive per la corte principesca. I boschi sulle colline che si trovano alle spalle del castello furono resi ameni e piacevoli grazie all’aggiunta di sentieri, luoghi di ristoro e alcune costruzione romantiche. Fu costruita una grande aranciera e tutto ciò che a quel tempo si addiceva a un giardino simile, oltre ad una piccola voliera con uccelli per la maggior parte esotici. Il giardinaggio e la cura del verde furono guidati e promossi in tal senso, senza dimenticare alcune coltivazioni necessarie alla cucina.

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Tuttavia, non potremmo immaginare in che modo fu inizialmente favorita, e poi progressivamente sempre più sviluppata, la coltura di piante ricercate sia dai botanici sia dagli appassionati della bellezza del paesaggio, non potremmo immaginarne il corso e lo sviluppo naturale senza riferirci all’incendio del castello181. I membri della più alta nobiltà, privati di una residenza comoda e adatta alla loro condizione, non trovandosi a proprio agio in una dimora temporanea, si volsero alla campagna, in cui varie residenze estive ben arredate, e in particolare la serena valle dell’Ilm presso Weimar, ornata da antichi giardini, offrivano le migliori opportunità. Il parco di Dessau, uno dei primi, particolarmente famoso e visitato, destò un desiderio di emulazione che poté distinguersi in modo tanto più originale in quanto le due località non si somigliavano minimamente: una regione piana, ricca di liberi corsi d’acqua, non aveva nulla in comune con un alternarsi continuo di colline. Si seppe così trovare il fascino proprio di tali luoghi, e l’amicizia tra i due principi, che si scambiavano frequenti visite, diede l’occasione per confrontare i due territori, studiando cosa si addicesse rispettivamente a ciascuno, e, in particolare grazie a Hirschfeld182, si intensificò moltissimo l’attenzione per l’assetto estetico dei parchi. L’assunzione del giardiniere di corte Reichert183 al Belvedere procurò ben presto l’occasione per esaudire ogni desiderio del genere: Reichert si intendeva molto di moltiplicazione delle piante e la praticò non solo al Belvedere, dando vita in breve ad un proprio vivaio nelle vicinanze di Weimar. Alberi e arbusti si moltiplicarono così ogni primavera e autunno. Con l’abbellimento di una regione cresce anche la propensione a godere della vita all’aria aperta; furono così edificate e curate delle piccole abitazioni che, se non abbellivano quantomeno non disturbavano il paesaggio ed erano adatte ai soggiorni in campagna. Esse offrivano l’opportunità di alloggiare comodamente compagnie più o meno grandi di persone, e fornivano anche immediata occasione per feste campestri, in cui il terreno così vario offriva diverse possibilità e sorprese, sicché la forza serena dell’immaginazione e dell’ingegno di diversi talenti riuniti poté distinguersi in molti modi. Così, le installazioni di parchi si ampliarono a partire dalla zona adiacente al castello, che lentamente poté risorgere dal-

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le sue rovine e tornare abitabile, e si estendono lungo l’amena valle dell’Ilm, in prossimità del Belvedere. È il principe in persona ad assumersi la supervisione, la guida e la direzione dell’impresa, mentre la sua illustre sposa contribuisce al suo ampliamento con partecipazione costante, curando in prima persona le piante. Il soggiorno della duchessa Amalia a Ettersburg e Tiefurt contribuisce non poco a creare un bisogno, si potrebbe dire quasi appassionato, di vita in campagna. In quest’ultima località avevano lavorato già molti anni il principe Costantino e il maggiore von Knebel, inaugurando feste e divertimenti conviviali nella gradevolissima valle dell’Ilm. Nel complesso, ci si impegna ovunque per rendere a quel luogo i suoi diritti, sfruttandolo il più possibile senza operare in nulla contro il suo carattere. La coltura boschiva regolare è perseguita nel modo più serio, e si collega alla piantagione di alberi stranieri. Esperte guardie forestali curano grandi piantagioni ed altri ampliamenti della vegetazione, ed in tal modo si acquisisce esperienza sul tipo di piante che possono adattarsi al nostro clima. Si dovrebbe a questo punto dire qualcosa della posizione poco favorevole di Weimar e del Belvedere: la sua altitudine è già notevole, e la prossimità della foresta turingia, situata immediatamente a sud, non è certo priva di influenza; i venti da nord-est e da nord-ovest, poi, minacciano molto spesso la vegetazione. Alla morte del giardiniere di corte Reichert184 la coltura delle piante del parco si era già molto incrementata al Belvedere. Una gran parte di quel patrimonio spetta al principe, mentre si giunge all’accordo per cui il figlio di Reichert trasporta a Weimar la parte rimanente per proprio conto. Si segnalano poi gli impegni assunti da altri privati, in particolare dal consigliere di legazione Bertuch185, il quale, oltre a coltivare il suo incantevole giardino e a redigere varie monografie, ha amministrato per sedici anni i particolari dei parchi sotto Serenissima direzione. Al Belvedere viene assunto l’ispettore botanico Sckell186 che, insieme a suo fratello, si prende cura della struttura con la massima attenzione e lealtà; suo figlio viene inviato in viaggio, analogamente a quanto accade a molti giovani che dimostrano

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talento e impegno, e che tornano poi portando con sé importanti piante nuove. Il giardino botanico vero e proprio è diretto, come sempre, da Sua Eccellenza il Granduca, mentre il castello e le altre residenze estive sono a disposizione della famiglia del principe. Prosegue sempre, poi, l’acquisto di preziose opere di botanica per la biblioteca pubblica, che si amplia e aumenta considerevolmente. Analogamente, lo zelante aumento del numero di importanti piante, accanto al continuo arrivo di esemplari stranieri, rende necessario un ampliamento nel Belvedere, sia sul versante del monte che nella zona a valle orientata verso mezzogiorno. In quest’ultima regione vengono collocati dei terrari, su invenzione del Serenissimo, e recentemente è stata costruita una serra tropicale, di spettacolare effetto. Da tempo sono state edificate, e ora ampliate, delle costruzioni, i cosiddetti conservatori, in cui sono custodite le piante straniere, poste in inverno sotto copertura. Il giardino botanico del Belvedere è destinato esclusivamente a scopi scientifici, cosicché l’orto, la coltivazione dell’ananas e di specie simili viene trasferita in una sezione del parco presso Weimar. I viaggi del Serenissimo in Francia, Inghilterra, Paesi Bassi e Lombardia, nonché le visite ai giardini botanici e i suoi resoconti sulle diverse strutture e invenzioni che vi si trovano, si rivelano istruttivi e di grande interesse, al pari della conoscenza personale di compagni dediti alla scienza e all’arte, che appare quanto mai utile. Lo stesso sommo Granduca è stato accolto come primo membro ordinario nella Società di architettura paesaggistica di Londra. Non si deve tralasciare poi ciò che è accaduto a Jena. Già da molti anni l’ottimo Batsch aveva piantato una parte del giardino principesco, ordinata secondo il sistema delle famiglie, e questa disposizione fu proseguita fedelmente dai professori Schelver e Voigt187. Quest’ultimo ha curato sia il catalogo188 del Belvedere sia quello di Jena in base al sistema citato; ma di quando in quando si torna indietro al modo di procedere più consueto e pratico, in conseguenza delle vendite dirette e degli scambi. Nel frattempo prosegue ininterrottamente l’ampliamento della struttura del Belvedere, e al contempo si nota come nel

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campo della nomenclatura e della definizione delle piante, delle loro specie e varietà, si manifestino vari contrasti, rinnovati di quando in quando dalle visite di conoscitori ed esperti. E intanto si rende sempre più necessaria la redazione di un catalogo puramente scientifico189, che possa fornire indicazioni cui richiamarsi con sicurezza sia per proprio conforto sia per lo scambio e la vendita dei prodotti. Per realizzare con scrupolo un’impresa simile, di così ampie dimensioni, è necessario assumere un uomo di scienza, e a tale scopo viene incaricato il professor Dennstedt, che intraprende il lavoro; nel 1820 appare il primo fascicolo del catalogo, nel 1821 il secondo. In tal modo, dunque, non soltanto si provvede allo scopo sopra enunciato, ma si fornisce anche un manuale per far sì che giardinieri ancora incerti e inesperti possano acquisire una più esatta conoscenza delle piante. Questo catalogo avrebbe potuto acquistare inoltre un merito straordinario per la scienza se vi fosse stata indicata sopra i nomi la quantità delle sillabe, nonché qualche accento qua e là: si ascolta oggi infatti una babilonica confusione, prosodica più che linguistica, sia da parte dei residenti che dei visitatori, che risulta particolarmente irritante a chi conosca l’etimologia greca, tra tanti meravigliosi prodotti della natura. Per l’innata indole liberale del Serenissimo, e per l’entusiasmo davvero principesco con cui egli faceva partecipare anche altri ad ogni bene e vantaggio, anche Jena godette di privilegi analoghi a quelli dell’espansione del Belvedere. Fu edificata una nuova serra, lunga settantaquattro piedi e provvista di varie sezioni, concepita secondo le più recenti esperienze e relative cognizioni, e impaziente di accogliere le piante e i semi che giungevano così spesso in dono. Ora, poiché questo edificio isolava in sé una gran parte delle precedenti installazioni di Batsch, e inoltre era necessario trasferire anche le serre calde, si rese necessario un trapianto completo dell’intero giardino, e in tale occasione fu possibile l’auspicata revisione e migliore collocazione delle famiglie naturali delle piante. Possiamo dunque invitare tutti gli appassionati di botanica sia al Belvedere sia a Jena, augurandoci di poter fornire loro una guida ancor più precisa. Occorrerebbe menzionare ancora qualche altro aspetto, prima di concludere: pensiamo anche solo alla grande scuola botanica per alberi da frutto che già da molti anni si trova sotto

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la direzione del consigliere di legazione Bertuch. Sfortunatamente abbiamo perso quest’uomo, instancabilmente attivo sia in ambito botanico sia in molti altri campi, proprio nel momento in cui ci accingevamo a concludere questo nostro schema, alla cui redazione egli avrebbe potuto prestare la migliore assistenza, sia nel particolare che nel generale, grazie al felice dono della sua memoria; ci meriteremmo certo delle accuse di imperdonabili omissioni dopo una così lunga e felice cooperazione, se la vita di ciascuno non fosse così pregnante da consentire alla sua attività del momento di eclissare non soltanto il passato, ma anche il presente. Ci resti tuttavia come consolazione il fatto che proprio quel poco che, pur con molte lacune, abbiamo riferito, inciti tanto più i contemporanei a dare il loro contributo per realizzare un’esposizione esauriente e compiuta.

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Zoologia190

nota alla pagina 292191, a proposito della polverizzazione Una più attenta osservazione dell’atto della polverizzazione che avviene dopo la morte delle mosche mi induce a ipotizzare che la polvere venga espulsa prevalentemente e propriamente dalla parte posteriore dell’insetto, da tutti i suoi pori laterali, con un’elasticità sempre maggiore. La polverizzazione ha inizio all’incirca un giorno dopo la morte dell’animale: la mosca resta attaccata saldamente al vetro della finestra, trascorrono tra i quattro e i cinque giorni in cui la sottile polvere lascia le sue tracce in un raggio sempre più ampio, finché la nuvola così prodotta mantiene un diametro di un pollice. L’insetto non cade giù dal vetro se non per effetto di vibrazioni o contatti esterni.

analogon della polverizzazione Nell’autunno del 1821 è stato trovato, in un luogo buio, un grosso bruco, probabilmente della foglia di quercia192, proprio in procinto di imbozzolarsi su un ramo di rosa selvatica. Lo si è trasferito in un bicchiere, aggiungendovi un batuffolo di seta: da quest’ultimo il bruco ha tratto solo pochi fili, di cui si è servito per fissarsi più saldamente al vetro, sicché ci si aspettava che ne uscisse una farfalla. Ma questa non venne alla luce, mentre dopo alcuni mesi si registrò il seguente sorprendente fenomeno: la crisalide si era spezzata sul lato inferiore, spar-

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gendo le sue uova all’esterno; ma ciò che si rivelava ancor più strano era il fatto che queste ultime erano state scagliate singolarmente di lato, e addirittura contro il vetro opposto, dunque si erano sparse a una distanza di tre pollici, mostrando dunque un’azione simile alla polverizzazione. Le uova si presentavano piene e rotonde, con un abbozzo del verme che vi era contenuto. All’inizio di aprile erano poi cadute e seccate tutte insieme. Agli appassionati di insetti casi simili sono certamente noti.

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I bradipi e i pachidermi, illustrati, descritti e comparati dal dr. E. d’Alton193 Il primo quaderno è accompagnato da sette incisioni su rame, il secondo da dodici. Bonn 1821

Vedendo davanti a noi questo eccellente lavoro, ricordiamo con particolare piacere quell’epoca in cui il suo autore era ancora tra noi194 e sapeva intrattenere un’illustre società con conversazioni colte e ricche di spirito, stimolandola nondimeno con comunicazioni riguardanti la scienza e l’arte. È così che anche la sua vita e i suoi sforzi successivi sono rimasti intrecciati e uniti ai nostri, e non l’abbiamo mai perso di vista, lungo tutto il suo cammino. La sua importante opera sull’anatomia dei cavalli195 era stata in quel periodo già elaborata; e come ad un uomo che pensa il generale si impone sempre nel particolare, l’idea genera pensieri e il pensiero facilita l’esecuzione, così noi siamo divenuti da quel momento debitori ai suoi importanti lavori, che hanno incentivato quanto mai l’intero insieme delle ricerche. Così, nella storia dell’evoluzione del pulcino dall’uovo196, cui egli ha contribuito così fedelmente, non si trova un solo pensiero ripreso da altri, né alcuna osservazione isolata; ciò che egli espone sgorga piuttosto dall’idea e ci fornisce prove sperimentali su ciò che non osiamo quasi concepire con il più alto concetto. Analogamente, i due quaderni sull’osteologia che qui presentiamo sono da interpretare come frutto della più profonda riflessione, che non si lascia distrarre neppure per un attimo dalla mutevolezza proteiforme delle configurazioni, di cui si compiace eternamente la divinità Camarupa197, ma procede costantemente a interpretare, anzi perfino a sfidare, i fenomeni più vari.

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Per quanto riguarda le introduzioni, concordiamo pienamente con l’autore e gli siamo al contempo sommamente obbligati poiché egli non solo rinsalda i nostri princìpi, covati a lungo e da tempo riconosciuti, ma ci dischiude allo stesso tempo delle strade che non saremmo stati in grado di intraprendere da soli, e indica sentieri su cui c’è da sperare ancora ogni bene. Parimenti, abbiamo ragioni di concordare con la presentazione e deduzione del dato singolo, e cogliamo adesso l’occasione per addurre brevemente alcune osservazioni che ci sono state in particolare suscitate. Condividiamo con l’autore la convinzione riguardo all’esistenza di un tipo generale, nonché quella sui vantaggi apportati da un’opportuna giustapposizione delle varie conformazioni; crediamo inoltre alla perpetua mobilità di tutte le forme nel mondo fenomenico. Qui si discute tuttavia del fatto che certe configurazioni, una volta che siano generalizzate, specificate e individualizzate, si conservano tenacemente a lungo per molte generazioni, restando sempre identiche nel complesso, anche tra molte deviazioni. Riferiamo questa osservazione per giungere a parlare del bradipo, di cui l’autore ci presenta tre specie, le quali non mostrano alcuna somiglianza quanto alla proporzione delle membra, e dunque, si dovrebbe concludere, non mostrano alcuna somiglianza nella forma complessiva. Esse mostrano però una somiglianza delle parti secondo il senso, e vorremmo qui ripetere le parole di Troxler198: «Lo scheletro costituisce in generale il segno fisiognomico più importante e valido della reciproca compenetrazione, nella vita terrena, tra uno spirito creatore e un mondo creato». Ora, come si è scelto di definire lo spirito che si rivela nel genere bradipo? Vorremmo maledirlo chiamandolo spirito distruttivo, se fosse lecito usare un termine così blasfemo nei confronti della vita; ad ogni modo, si tratta di uno spirito che non può manifestarsi nel suo fenomeno principale, vale a dire in un rapporto più o meno puro nei confronti del mondo esterno. Ci sia consentito di impiegare qualche espressione poetica, poiché la prosa non è affatto sufficiente. Uno spirito immenso, che poteva manifestarsi nell’oceano come una balena, preci-

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pita su una riva paludosa e ghiaiosa, in una zona calda; perde i vantaggi del pesce, ed è privo di un elemento portante in grado di conferire al corpo più pesante la più leggera mobilità con gli organi più ridotti. Si formano così delle membra ausiliarie di dimensioni spropositate, per sostenere un corpo enorme. Un tale bizzarro essere si sente di appartenere per metà alla terra e per metà all’acqua, privo di tutte le comodità concesse a chi abita senza indecisioni l’uno o l’altro elemento. È alquanto strano, poi, che tale schiavitù, «l’intima incapacità di adeguarsi ai rapporti esterni», si trasmetta anche ai suoi discendenti, che, anche se in senso opposto, non smentiscono la loro origine. Se si pongono una accanto all’altra le riproduzioni del megaterio e del bradipo, convincendosi così della loro reciproca affinità, si potrà affermare quanto segue: Quell’immenso colosso, che non fu in grado di dominare né la palude né la ghiaia facendosene padrone, trasmette alla propria discendenza, che si stabilisce sulla terraferma anche dopo alcune generazioni, una identica incapacità: quest’ultima infatti si manifesta con evidenza solo nel momento in cui la creatura giunge ad abitare un elemento puro, che non si oppone ad una legge interna di sviluppo. Se mai si è mostrata una forma di vita debole e priva di spirito, certo ciò è avvenuto in questo caso: le membra sono presenti, ma non si formano in buona proporzione reciproca, si stirano in lunghezza, alle estremità, come se, impazienti a causa di una precedente, ottusa costrizione, volessero ora riposarsi in libertà, distendendosi senza confini, sicché perfino la loro conclusione nelle unghie sembra non avere confini. Le vertebre cervicali si moltiplicano e, generandosi l’una dall’altra, alludono alla totale mancanza di un freno interno; allo stesso modo, il capo si mostra piccolo e privo di cervello. Perciò si può senz’altro dire che, in rapporto all’autentico tipo interno superiore, il megaterio è molto meno mostruoso del bradipo. Per contro, è notevole come nel bradipo lo spirito animale si sia già più contratto, e rivolto più strettamente alla terra adattandosi ad essa, formandosi sul modello del genere variabile delle scimmie; e in effetti è possibile trovare tra le scimmie alcuni esemplari che possono ricordarlo. Se si considera in generale valido ed esplicativo ciò che si è detto qui sopra, potrà trovare posto in questa sede anche

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un’ulteriore considerazione particolare. Già sulla copertina del nostro secondo quaderno si trova la seguente nota: Nella tabella a pag. 244199, con il termine ‘vertebrae dorsi’ si intende un centro, su cui occorrerebbe fornire alcuni ragguagli. Riguardo alla spina dorsale dei mammiferi decisamente formati, infatti, si doveva notare che i processus spinosi si piegano all’indietro, dalla parte anteriore verso quella posteriore, e quindi nel tratto posteriore si piegano in avanti, verso quello anteriore, vale a dire in direzione opposta rispetto ai primi. Il punto in cui i due processus si incontrano è assunto come centro, a partire dal quale si contano in avanti le vertebre dorsali, e all’indietro quelle lombari. Tuttavia, non si è in seguito raggiunta piena chiarezza sul significato di tale centro. Nel frattempo ho ripetuto queste considerazioni quando ho avuto davanti un numero significativo di scheletri l’uno accanto all’altro, e aggiungo qui di seguito le mie ulteriori riflessioni. Le apofisi spinose del megaterio non meritano questo nome, poiché sono interamente appiattite e al contempo rivolte tutte all’indietro; in questo caso dunque non si può parlare certo di un centro della spina dorsale. Le medesime apofisi nel rinoceronte sono più sottili, ma anch’esse si piegano tutte all’indietro. Nell’elefante dell’Ohio è notevole il fatto che le apofisi anteriori appaiono sproporzionatamente grandi, si riducono verso la parte posteriore e si piegano tutte all’indietro: tale direzione è mantenuta nelle ultime tre, anche se queste si mostrano in certa misura allargate e appiattite. L’elefante africano si rivela molto simile, ma in proporzioni maggiori; in esso poi le ultime quattro apofisi si appiattiscono. Nell’ippopotamo si nota una differenza ancora maggiore: le apofisi anteriori, in parte lunghe e in forma di aste, in parte corte e appiattite, sono tutte orientate all’indietro, salvo sei di esse, contando dalla parte posteriore, che si mostrano molto più appiattite e orientate in avanti. Il tapiro mostra delle belle proporzioni, sia in generale sia nelle sue singole parti: le apofisi spinose anteriori e allungate sono orientate all’indietro, e al contempo si riducono e appiattiscono; tuttavia, contando a partire dalla parte posteriore, si trovano otto o nove apofisi molto appiattite che piegano, se non proprio in avanti, quantomeno verso l’alto.

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Nel maiale le apofisi anteriori, più lunghe, si piegano verso l’alto e all’indietro, anche se dalla parte posteriore se ne contano ancora nove che si appiattiscono e si orientano in avanti. Tale appiattimento e avanzamento delle apofisi dorsali posteriori sembra portare con sé una riduzione delle false costole, come è evidente in particolare dal confronto dell’elefante dell’Ohio e del maiale, e probabilmente un’osservazione più dettagliata farà emergere altri rapporti e riferimenti significativi. D’altronde, ho espresso queste note solo in modo cursorio poiché in effetti abbiamo davanti agli occhi delle efficaci tavole caratteristiche e in generale si possono ora istituire comparazioni anche tra altre membra. Riguardo ai meriti artistici messi in luce dalle tavole, gli amanti dell’arte di Weimar si esprimono nel modo seguente. Il megaterio, VII incisioni su rame, in tre specie. Così, riguardo alla forma delle ossa, come riguardo alla loro presentazione, ogni aspetto testimonia di una cura non comune, e di un’estrema precisione, nonché di uno sforzo molto serio di chiarezza. Difficilmente abbiamo visto delle illustrazioni di ossa in cui il carattere di queste ultime fosse raffigurato con tale efficacia, e fosse riservata così tanta attenzione ai dettagli della loro forma. Protuberanze e rientranze, angoli e curve sono ovunque rappresentati fedelmente, con grande abilità e impegno magistrale, e nel complesso la trattazione è delicatissima. Sono in particolare le tavole n. III, IV e V, che contengono alcune parti ossee del megaterio, a meritare soprattutto tali lodi. I pachidermi, quaderno più recente. XII tavole, in sei specie. Si può ripetere al riguardo tutto ciò che di buono si è detto del precedente, e anzi in parte la presentazione si mostra ancor meglio riuscita, altrettanto delicata e pulita, e di estrema chiarezza. La tavola VII, in particolare, si mostra potente e nitida, come si potrebbe soltanto desiderare, e altrettanto può dirsi di singoli frammenti ossei riprodotti alle tavole IV e IX. Inoltre bisogna elogiare moltissimo l’idea, sommamente ingegnosa, di presentare, dietro lo scheletro del pachiderma, un’ombra dell’animale vivo. Solo così infatti diventa evidente il motivo per cui tali creature sono chiamate pachidermi, poiché

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in essi la pelle e il grasso, anche nel puro stadio naturale, coprono e celano la costituzione interna. Tuttavia è chiaro, allo stesso tempo, che all’interno di tale massa dall’aspetto così tozzo si nasconde un’intelaiatura ossea pienamente articolata, mobile e talvolta addirittura fine, che rende possibile in alcuni animali un movimento agile, cauto e aggraziato. Così anche l’ultimo sguardo a queste tavole ci ricorda, grazie ad alcuni appunti, gli importanti viaggi che quell’artista colto aveva intrapreso per realizzare un lavoro che nel dettaglio racchiude in sé un così alto valore, e nel complesso promette di esercitare un notevole influsso. Con ciò salutiamo allora l’antico amico da lontano, come se fosse presente, e lo ringraziamo moltissimo per aver superato addirittura i nostri desideri e le nostre speranze, sia con il suo testo che con le immagini. Terremo sempre davanti agli occhi questo importante lavoro durante i nostri studi, stimandolo e celebrandolo al contempo in quanto fondamento e struttura di queste ricerche. Ci sia concesso di tornare ripetutamente a consultarlo, a testimonianza dell’entità dello stimolo che, nel limite delle nostre possibilità, ne abbiamo tratto. Proprio mentre siamo in procinto di concludere in questo modo, ci si presenta ancora una volta davanti agli occhi la magnifica opera del nostro autore sull’anatomia e struttura dei cavalli; divertendoci di nuovo a sfogliarla, crediamo di notare come il leggero piegarsi all’indietro delle apofisi spinose anteriori, simili ad aste, e la tendenza, ad esse contrapposta, delle apofisi inferiori e piatte, vadano a costituire propriamente la bella sella naturale, e con essa l’intera forma compiuta del cavallo, nonché la sua estrema utilità.

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Dr. Carus: delle parti originarie della struttura del guscio e delle ossa200

[Da un articolo di Carus] Quest’opera si pone il compito di sviluppare, a partire dalla forma più semplice del corpo animale e in successione puramente regolare, le diverse conformazioni della struttura fissa, vale a dire dello scheletro, si mostri esso come un guscio o come ossa. – Si prenderanno le mosse dalla delimitazione dell’intero corpo animale rispetto al mondo esterno; la delimitazione del sistema nervoso rispetto al resto della struttura, tuttavia, sarà considerata come una ripetizione di quella delimitazione originaria. – Ora, nella misura in cui la prima delimitazione avviene in virtù di gusci o di sezioni a sfera cava, vale a dire mediante anelli, che sono i modelli di quegli anelli vertebrali che in seguito si sviluppano attorno alle masse nervose centrali, si formula allora il concetto di una vertebra originaria: con questo nome saranno designati quegli anelli, originariamente esterni, che sono ad esempio gli anelli del corpo degli insetti e così via, nonché gli anelli costali degli animali superiori.

Poiché l’opera annunciata potrà essere portata a termine e pubblicata solo per la Pasqua del 1823, l’impazienza di tutti gli appassionati della natura, ne siamo convinti, gareggerà con la nostra, e ognuno si preparerà ad accoglierla nel modo più amichevole.

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Toro fossile201

Il signor dottor Jäger202 comunica, negli annali del Württemberg del 1820, a p. 147, alcune notizie riguardo al rinvenimento, presso Stoccarda, di alcune ossa fossili, avvenuto negli anni 1819 e 1820. Durante lo scavo di una cantina è stato rinvenuto il frammento di una zanna di mammut, che giaceva sotto uno strato di argilla rossa alto nove piedi e uno di terriccio di circa due piedi. Ciò rimanda ad un’epoca preistorica in cui il Neckar non era ancora abbastanza alto, non solo per sommergere simili resti inondandoli, ma anche per coprirli fino a quel punto. In un altro luogo, alla stessa profondità, fu trovato ancora un grande molare di mammut e non pochi molari di un rinoceronte. Vennero poi alla luce anche, oltre ai fossili menzionati, dei frammenti di una specie di grande bue, che è lecito dunque ritenere contemporanei ai precedenti. Essi furono misurati dal dottor Jäger e confrontati con gli scheletri di animali dell’epoca presente, e ne risultò che, per citare un solo elemento, il colletto di una scapola fossile misurava centodue linee parigine, mentre quello di un toro svizzero raggiunge solo le ottantanove linee. Inoltre, nella stessa sede, Jäger ci informa a proposito di ossa di toro ritrovate in precedenza e conservate in gabinetti: confrontandole tra loro e con scheletri di creature tuttora viventi della stessa specie egli si spinge a dedurre che il toro antico deve aver raggiunto un’altezza variabile dai sei ai sette piedi,

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e dunque deve essere stato notevolmente più grande rispetto alle specie che noi conosciamo. Quali tra queste si avvicinino di più al toro antico per forma lo si potrà verificare senz’altro da sé in base a ciò che sarà riferito. In ogni caso, l’antica creatura si può considerare come una razza di stirpe estinta che a quel tempo era ampiamente diffusa, e di cui il toro comune e quello indiano potrebbero ritenersi dei discendenti. Riesaminando queste comunicazioni, ci tornarono utili tre enormi nuclei di corno, rinvenuti già diversi anni fa nel greto dell’Ilm, presso Mellingen, e che ora si possono vedere nel museo osteologico di Jena. Il più grande misura 2 piedi e 6 pollici di lunghezza, e la sua circonferenza, nel punto in cui poggia sul cranio, è di un piede e 3 pollici di Lipsia. Mentre conducevamo tali osservazioni, giunse la notizia che nel maggio del 1820, presso la torbiera di Frose nell’Halberstädtisch, ad una profondità di circa 10 o 12 piedi, fu trovato uno scheletro simile, di cui però era conservata soltanto la testa. Di esso il dottor Körte203 (nel Ballenstedts Archiv für die Urwelt, Bd. 3, Heft 2) ci fornisce un disegno molto caratteristico, confrontato con la testa dello scheletro di un toro del Voigtland, che lo stesso Körte ha saputo preparare con particolare impegno e accuratezza. Diamo la parola a questo ragionevole osservatore: Entrambi si trovano davanti a me, come due documenti: quello del toro preistorico testimonia di ciò che la natura ha voluto fin dall’eternità; quello del bue testimonia invece della distanza che la natura ha finora percorso con tale formazione. – Considero le possenti masse del toro originario, il colossale nucleo delle sue corna, la fronte profondamente incavata, le cavità oculari spostate molto lateralmente, i ventricoli uditivi piatti e stretti, e le profonde scanalature incise dai tendini frontali. Si pongano ora a confronto le cavità oculari del cranio moderno, più ampie e rivolte molto più frontalmente, l’osso frontale e quello nasale molto più inarcato, i ventricoli uditivi più ampi, incurvati in modo più chiaro e netto, le scanalature più piatte della fronte e in generale il carattere più elaborato delle sue singole parti. L’espressione che mostra il cranio moderno è molto più assennata, disponibile, bonaria, e addirittura più intelligente; la forma è nel complesso più nobile; di contro, quella del toro preistorico appare più rozza, caparbia, testarda, ottusa. Il profilo del toro preistorico,

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in particolare all’altezza della fronte, è manifestamente più simile al maiale, mentre quello del toro moderno è più vicino al cavallo. – Tra il toro preistorico e il bue204 intercorrono migliaia di anni, e posso immaginarmi il modo in cui l’esigenza dell’animale, sempre più intensa di generazione in generazione e nel corso dei millenni, di vedere comodamente anche anteriormente, abbia mutato gradualmente la posizione e la forma delle cavità oculari nel cranio del toro preistorico; e ancora, il modo in cui lo sforzo di udire in modo più sottile, chiaro e a maggiore distanza, abbia dilatato i ventricoli uditivi di questa specie animale, inarcandoli sempre più verso l’interno; infine, il modo in cui il potente istinto animale di afferrare un numero sempre maggiore di impressioni dal mondo esterno, in vista del suo benessere e del suo nutrimento, abbia alzato gradualmente la sua fronte. – Mi immagino come il toro preistorico avesse a disposizione spazi sconfinati, e il groviglio selvatico della vegetazione primitiva dovesse cedere alla sua impetuosa violenza, mentre, per contro, il toro attuale gode di pascoli abbondanti e ordinati e di una vegetazione addomesticata. Riesco a capire come la progressiva evoluzione animale abbia reso il toro attuale adatto al giogo e al foraggiamento, come il suo orecchio abbia obbedito alla meravigliosa voce umana, seguendola spontaneamente, e come il suo occhio si sia abituato e chinato di fronte alla figura umana eretta. – Prima che apparisse l’uomo esisteva già il toro preistorico, o almeno quest’ultimo esisteva prima che l’uomo esistesse per lui. La compagnia e la cura dell’uomo hanno incontestabilmente migliorato l’organizzazione del toro preistorico. La civiltà lo ha nobilitato da animale non libero, vale a dire privo di ragione e bisognoso di aiuto, ad animale abituato a mangiare alla catena e nella stalla, a pascolare sotto la guida del cane, del bastone e della frusta, fino a trasformarlo in bue: lo ha cioè addomesticato.

Si è verificato poi un evento che ci ha destato un interesse immediato per considerazioni così profonde: si tratta del caso fortunato per cui, nella primavera del 1821, nella torbiera presso Haßleben, nel distretto di Großrudestedt, è stato estratto l’intero scheletro205 di un animale simile, portato immediatamente a Weimar e ricomposto su un pavimento nel suo ordine naturale; si vide così che mancava ancora un certo numero di parti, che per lo più furono rinvenute nel medesimo sito a seguito di nuove ricerche, subito intraprese; l’istituzione ha deciso ora di esporre l’intero corpo a Jena, e così è accaduto, con molta cura e molto impegno. Poiché la speranza di raggiungere le poche parti ancora mancanti svanì presto a

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causa delle piogge persistenti, tali parti furono sostituite nel frattempo con segmenti artificiali, e così ora lo scheletro si offre alla contemplazione e alla valutazione degli studiosi attuali e futuri. Parleremo in seguito della testa, mentre al momento forniamo le misure dell’insieme secondo il sistema metrico di Lipsia. Lunghezza dal centro della testa fino all’estremità del bacino: 8 piedi e 6 pollici e mezzo; altezza del lato anteriore: 6 piedi e 5 pollici e mezzo; altezza del lato posteriore: 5 piedi e 6 pollici e mezzo206. Il dottor Jäger, non avendo a disposizione uno scheletro completo, aveva tentato di supplire a tale lacuna ponendo a confronto singole ossa del toro fossile con quelle di un toro attuale, e per questo motivo ha dedotto che l’intera struttura avesse una dimensione un po’ maggiore rispetto a quella indicata da noi. Per quanto riguarda la testa del nostro esemplare, possiamo assumere anche noi come fedele il disegno caratteristico realizzato dal signor Körte, con la differenza che, nel nostro caso, manca, oltre all’os intermaxillare, anche una parte della mascella superiore e le ossa lacrimali, che sono presenti invece nel disegno. Analogamente possiamo richiamarci al confronto che il signor Körte istituisce con un toro del Voigtland, riferendolo all’esemplare ungherese che abbiamo davanti. Grazie alla particolare gentilezza del direttore von Schreibers207 di Vienna abbiamo ottenuto, infatti, il teschio di un bue ungherese, che, quanto a dimensioni, è leggermente più grande rispetto a quello del Voigtland, mentre, per contro, la nostra testa fossile si presenta lievemente più piccola rispetto a quella dell’esemplare di Frose. Si potrà verificare tutto ciò con una trattazione, una misurazione e un confronto più accurati. Torniamo però adesso alle considerazioni di Körte: ritenendole del tutto conformi alle nostre convinzioni, aggiungiamo qualche dato, rallegrandoci ancora una volta in questa occasione delle pagine di d’Alton208 che abbiamo sotto gli occhi. Tutte le singole membra degli animali più selvaggi e rozzi, per nulla addomesticati, possiedono una potente vita propria, e questo può dirsi in particolare riguardo agli organi di senso, che dipendono in minor misura dal cervello, in quanto portano con sé per così dire un cervello proprio, e sono autosufficienti. Alla tavola 12 di d’Alton, fig. b, si vede il profilo

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del maiale etiopico; si consideri la posizione dell’occhio che sembra connettersi direttamente all’osso occipitale, come se le ossa craniche fossero escluse. In questo caso il cervello manca quasi del tutto, come si nota anche alla fig. a, e l’occhio ha in sé tanta vita quanta può essergli necessaria per svolgere la sua funzione. Se ora si osserva un tapiro, un babirussa, un pecari, il maiale domestico, si nota come l’occhio pieghi già verso il basso, sicché si dovrebbe supporre l’esistenza di un modesto cervello situato tra l’occhio e l’osso occipitale. Torniamo ora al toro fossile e prendiamo le tavole di Körte: notiamo che la capsula del globo oculare, se è lecito definirla così, si è spostata molto lateralmente, al punto che il globo oculare appare come un membro distinto di un eventuale apparato nervoso. Nel nostro esemplare si presenta l’identico caso, anche se vi è conservata interamente soltanto una delle capsule; di contro, le cavità oculari del toro del Voigtland, come di quello ungherese, con le loro aperture leggermente più ampie, si avvicinano alla testa e non appaiono molto significative nel contorno. Ma la differenza maggiore e più rilevante si può trovare nelle corna, la cui direzione non si può riprodurre completamente nel disegno. Nel toro preistorico esse sono orientate di lato e lievemente all’indietro, anche se si nota fin dalla loro origine nei nuclei un’inclinazione in avanti, che si mostra con decisione soltanto a una distanza di 2 piedi e 3 pollici; in quel punto le corna si incurvano verso l’interno e si concludono in una posizione tale che, se ci si immagina sui nuclei delle corna il rivestimento corneo, che si deve ipotizzare più lungo di 6 pollici, esse si troverebbero a raggiungere di nuovo la radice dei nuclei cornei, seguendo tale direzione: in tale posizione dunque queste cosiddette armi non potrebbero che diventare altrettanto inutili per questa creatura, come lo sono le zanne per il sus babirussa. Se si tenta ora un confronto con il bue ungherese che abbiamo davanti a noi, si nota che le scanalature dei nuclei assumono immediatamente una direzione che piega leggermente verso l’alto e all’indietro, per terminare poi a punta e con una curvatura molto graziosa. In generale, si registreranno le annotazioni seguenti: quando il vivente giunge alla sua fine209, al punto in cui, se non è

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morto, appare tuttavia giunto a compimento, tende a incurvarsi, come siamo soliti osservare nel caso delle corna, degli zoccoli e dei denti; se si piega e al contempo si avvolge in forme serpentine, allora si origina il grazioso, il bello. Un tale movimento, fissato anche se in apparenza ancora sempre mobile, è piacevolissimo per l’occhio; Hogarth210 vi fu condotto nella sua ricerca della più semplice linea della bellezza, e il vantaggio che gli antichi hanno tratto da questa figura nella trattazione delle cornucopie nelle loro opere d’arte è certo noto a tutti: esse si rivelano gradevoli già soltanto su bassorilievi, gemme e monete, quanto mai gradevoli e significative, composte tra loro e con altri oggetti; incantevole, poi, si mostra un simile corno avvolto attorno al braccio di una dea benigna. Se Hogarth aveva inseguito la bellezza fino a questo grado di astrazione, allora non vi è nulla di più naturale del fatto che tale astrazione, quando appare all’occhio in forma concreta, non possa che creare un’impressione di gradevole sorpresa. Ricordo di aver visto in Sicilia, nella grande pianura di Catania, una piccola specie di bovino, graziosa e bruna, al pascolo: quando l’animale sollevava la testa leggiadra guardandosi liberamente attorno, le sue corna destavano un’impressione estremamente piacevole, e davvero indelebile. Ne consegue allora che il contadino che si serve di una creatura così magnifica non può che essere lietissimo di osservare il movimento vivace e irregolare di teste ornate in interi greggi, di cui percepisce inconsciamente la bellezza. Non è forse vero, infatti, che desideriamo sempre trovare il bello unito all’utile e viceversa, vedere che anche ciò di cui siamo costretti necessariamente ad occuparci appare anche ornato? Abbiamo visto, con le osservazioni precedenti, che la natura, partendo da una certa concentrazione seria e selvaggia, rivolge le corna del toro preistorico contro il toro stesso, privandolo così in certa misura dell’arma che gli sarebbe così necessaria nel suo stato di natura, e abbiamo notato al contempo che, in condizione addomesticata, queste stesse corna ricevono un orientamento del tutto diverso, e si muovono con grande eleganza sia verso l’alto che verso l’esterno. A tale disposizione, già propria dei nuclei, si unisce poi il guscio corneo in modo grazioso, arrendevole e leggiadro: coprendo dapprima il nucleo ancora piccolo, esso deve dilatarsi insieme al nucleo in fase di crescita, visto che in seguito è possibile scorgere una

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struttura ad anello e a scaglie, che scompare non appena il nucleo inizia di nuovo ad appuntirsi; il guscio corneo si concentra sempre più finché da ultimo giunge a conclusione come un essere organico consolidato, nel punto in cui si erge autonomamente al di sopra del nucleo. Ora, se la civiltà è giunta così lontano, non vi è nulla di più naturale del fatto che il contadino, oltre ad altre belle forme dei suoi animali, richieda anche una formazione regolare delle corna. Ma poiché spesso una crescita così bella e tradizionale degenera, e le corna si piegano in modo irregolare in avanti, all’indietro o anche verso il basso, occorre prevenire il più possibile una formazione simile, che si rivela tanto spiacevole ai conoscitori e agli appassionati. Ho potuto osservare in che modo sia possibile agire in tal senso durante il mio ultimo soggiorno nella zona di Eger: l’allevamento degli animali provvisti di corna, che costituiscono il tipo di bestiame più importante per l’agricoltura di quelle zone, era di solito molto significativo, e sarà certo tuttora sempre praticato, in particolare in alcune località. Se tali creature incorrono in una crescita patologica o irregolare delle corna, minacciando il proprietario con la direzione scorretta delle corna, allora, per donare di nuovo vanto a questo ornamento del capo, ci si serve di una macchina211 con cui le corna vengono imbrigliate: questa è l’espressione in uso per definire tale operazione. Di questa macchina basterà dire questo: è di ferro, ma può essere anche di legno; quella di ferro consta di due anelli che, connessi tramite diverse maglie di una catena e una giuntura rigida, possono essere avvicinati o allontanati usando una vite; tali anelli, ricoperti di un materiale morbido, vengono posti sulle corna di modo che, stringendo e allentando la vite, si è in grado di dare alla loro crescita la direzione voluta. Nel museo di Jena è possibile vedere uno strumento simile. in via provvisoria, dall’antichità 212: e{like" bove". Camuri boum sunt, qui conversa introrsum cornua habent; laevi, quorum cornua terram spectant; his contrarii Licini, qui sursum versum cornua habent. Jun. Philargyrius, ad Verg., Georg. III, 55.

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Tavola che raffigura la natura organica nella sua distribuzione sulla Terra, dipinta da Wilbrand e Ritgen, litografata da Päringer213

Si è spesso e ripetutamente tentato, e sempre si rinnoverà il tentativo, di portare davanti agli occhi, tramite rappresentazioni simboliche, degli oggetti sensibili che difficilmente lo sguardo riesce a cogliere, così da rimettere il resto all’immaginazione, alla memoria e all’intelletto; questa volta tale impresa è riuscita al massimo grado. Su una tavola che misura, in base al sistema metrico di Lipsia, 4 piedi e 4 pollici in lunghezza e un piede e 10 pollici in altezza, vediamo in primo luogo un mare dell’altezza di 8 pollici. La linea dell’orizzonte si estende dal 90o grado di latitudine nord al 90o sud. Al centro si mostra la regione equatoriale, la più ricca di forme di vita molteplici, che si irradiano poi da ogni lato a partire da questo punto, sicché la linea dei ghiacci digrada a partire dal centro in una curva che scende dal suo apice e termina infine sul mare a destra e a sinistra, giungendovi prima al sud che al nord. Al di sopra di essa, le cime innevate e i ghiacciai destano un’impressione imponente, in particolare per il fatto che vi si trovano raffigurati anche i monti dell’Himalaya. Ora, tramite linee che si dipartono dal centro dell’insieme, assunto come immediatamente sopra la superficie del mare, sono indicati nella parte inferiore i pesci, a destra gli animali, a sinistra le piante, con il rispettivo habitat. Sono così stimolate al contempo l’immaginazione e la memoria, e tutte le esperienze che ci sono state trasmesse da naturalisti viaggiatori rivivono immediatamente nella posizione

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simbolica indicata, e la terra e il mare si mostrano popolati in ogni senso. Se si appende alla parete una simile tavola, non si potrà certo più farne a meno, così come non si rinuncerà al relativo libretto esplicativo. A entrambi gli autori vanno le nostre congratulazioni per essersi trovati, riconosciuti e uniti in un lavoro comune, in cui è stato per loro estremamente utile il fatto che un abile tecnico si sia dimostrato altrettanto impeccabile nell’esecuzione dell’opera. Occorre anche elogiare la buona riuscita dei colori, che rendono più agevole la comprensione del concetto indicato; c’è da augurarsi dunque che tutti gli esemplari siano miniati con la stessa nitidezza di quello che abbiamo davanti a noi.

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Storia della vita e delle forme del mondo vegetale di Schelver214

Il nostro vecchio amico e compagno di studi esaudisce nel modo più pieno in quest’opera i desideri e le speranze che abbiamo chiaramente espresso nel presente quaderno riguardo alla botanica, alla sua fondazione, presentazione e trasmissione. Può darsi che la nostra formazione e influenza reciproca, iniziata vent’anni fa e proseguita da allora in modo tacito e costante, renda questo libro per me più comprensibile, ben accetto ed efficace di quanto probabilmente non appaia ad altri; sarà sufficiente tuttavia dire che un tale dono mi ha rallegrato enormemente, rinsaldando ancora una volta la mia fiducia nelle relazioni che si mantengono vive a lungo, al progredire dello sviluppo di entrambe le parti. Chi prenda in mano il libretto, legga per prima cosa la terza sezione, riguardante lo studio della botanica, a p. 78. Gli si presenterà un bel concetto, secondo cui ogni sapere che si manifesta nel genere umano, ogni impulso verso la conoscenza e l’attività deve essere considerato come un essere vivente, che racchiude in sé già tutto quello che farà proprio e svilupperà da sé nel corso della storia universale. Qui dunque annotazioni e accurate registrazioni, osservazioni e analisi, esperienze e considerazioni, raccolte e classificazioni, ordinamenti e sintesi, comprensioni ed elevazioni dello spirito, completezza e metodo si trovano in costante e viva relazione. L’elemento iniziale prefigura quello finale, quello inferiore il superiore, il più rudimentale quello più raffinato;

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e se per una simile evoluzione si rendono necessari dei secoli o addirittura millenni, la loro considerazione si rivelerà tanto più degna e valida, e tuttavia deve essere anch’essa mantenuta lontana dal pregiudizio. Tutto ciò che è stato intrapreso e realizzato, per quanto in misura così esigua, conserva il suo valore, e tutto ciò che è stato percepito e pensato si presenta in tutta la sua dignità; tutto ciò che si è dato nella vita continua a sussistere, ben vivo, nella storia, inscrivendosi nella successione degli eventi. In tal modo possiamo superare i nostri predecessori senza oscurarli, e competere con i contemporanei senza ferirli; forse addirittura non sarebbe un sogno sperare che tutti possano lavorare mano nella mano, se riescono a comprendere correttamente questo punto di vista. Perché mai infatti un’impresa idealmente così ambiziosa, paragonabile all’intenzione di spiccare il volo al di sopra dell’atmosfera, con sguardo e ali d’aquila, non dovrebbe essere in grado di stimare anche quegli sforzi che restano confinati nelle umide regioni terrestri, addestrando lo sguardo a trovare l’infinito nel piccolo? Un saggio del nostro autore, che va in questa stessa direzione e reca il titolo Die Aufgabe der höheren Botanik, si trova nella seconda parte del decimo volume dei nuovi atti dell’Accademia Leopoldino-Carolina, pubblicato a Bonn nel 1821, un volume di grandissimo pregio dal quale abbiamo tratto molto vantaggio in breve tempo.

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Prosecuzione delle osservazioni a pagina 315215

Come non si desidera vivere con chiunque, così non si può vivere per chiunque; chi intende correttamente questa massima, saprà stimare in sommo grado i suoi amici, senza odiare né perseguitare i nemici: piuttosto, l’uomo non ottiene un vantaggio maggiore se non riconoscendo i pregi dei suoi avversari, e questo gli conferisce una decisiva superiorità su di loro. Se ripercorriamo all’indietro la storia, troviamo in ogni epoca personaggi con cui saremmo potuti andare d’accordo e altri con cui invece certamente ci saremmo trovati in contrasto. Ciò che più importa, tuttavia, resta l’epoca a noi contemporanea, poiché essa si rispecchia in noi nel modo più netto, e noi in lei. Catone216, in età avanzata, fu accusato e citato in giudizio, e nella sua arringa difensiva mise in luce soprattutto il fatto che non ci si può difendere di fronte a nessuno se non di fronte a coloro con i quali siamo vissuti. Egli ha pienamente ragione: infatti, come può una giuria giudicare a partire da premesse che le sfuggono completamente? Come può deliberare su motivi che si trovano ormai da tempo alle sue spalle? Ciascuno è in grado di apprezzare l’esperienza vissuta, e in particolare sanno farlo gli uomini di pensiero che riflettono

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in età avanzata; costoro avvertono, con fiducia e serenità, che dell’esperienza nessuno può derubarli. Così i miei studi naturali poggiano sulla base della pura esperienza vissuta; chi mai potrebbe, infatti, privarmi del fatto di essere nato nel 1749, nonché del fatto che (saltando molti anni) ho studiato fedelmente la prima edizione della Naturlehre di Erxleben217, e, non appena sfogliavo le successive edizioni a stampa, che si affollavano senza fine grazie all’attenzione di Lichtenberg, apprendevo e verificavo immediatamente ogni nuova scoperta in corso d’opera, di modo che, seguendole passo dopo passo, vedevo scorrere davanti a me le grandi scoperte susseguitesi dalla seconda metà del diciottesimo secolo fino ai nostri giorni, come astri prodigiosi che trascorrevano uno dopo l’altro? Nessuno potrà sottrarmi la gioia segreta che ho nutrito quando ho acquisito la coscienza di essere arrivato, grazie ad un impegno costante e attento, così vicino ad alcune grandi e sorprendenti scoperte, al punto che mi sembrava scaturissero dal mio stesso intimo, e riuscivo a vedere chiaramente quei pochi passi che non avevo osato compiere, nel buio delle mie ricerche. Chi ha vissuto i momenti della scoperta del pallone aerostatico218 potrà fornire certo una testimonianza dell’emozione universale che essa aveva destato, nonché della trepidazione che accompagnava i piloti, del desiderio, che pervadeva migliaia di animi, di partecipare a quelle rischiose imprese, previste e annunciate con grande anticipo, sempre attese con fiducia e al contempo incredibili. Ogni singolo tentativo riuscito riempiva i giornali con notizie fresche e dettagliate, dando l’occasione di realizzare edizioni straordinarie e incisioni. E quale commossa partecipazione si destava per le sfortunate vittime di simili tentativi! È impossibile riprodurre tutto questo perfino nel ricordo, allo stesso modo in cui è difficile far rivivere l’interesse suscitato da una guerra importantissima, scoppiata trent’anni prima219. La più bella metempsicosi è quella in cui vediamo noi stessi rivivere nell’altro. La Deutsche Poetik aus Goethe del professor Zauper220, come pure la postfazione a questa stessa opera, apparsa a Vienna

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nel 1822, non può mancare di produrre una gradevole impressione nel poeta, che si sente come se camminasse in una galleria di specchi, in cui si vede rappresentato sotto una luce favorevole. E potrebbe essere diversamente? Ciò che il giovane amico ha conosciuto di noi è proprio il nostro agire e operare, la parola e i testi che abbiamo prodotto in momenti felici, e in cui ci riconosciamo sempre volentieri. È rarissimo che noi diamo soddisfazione a noi stessi, e dunque è una consolazione tanto più grande quella di aver dato soddisfazione ad altri. Guardando indietro alla nostra vita, vediamo soltanto qualcosa di frammentario, perché ciò che sempre risalta in primo piano ai nostri occhi sono le mancanze e i fallimenti, che sovrastano, nell’immaginazione, ciò che abbiamo realizzato e conseguito. Di tutto ciò, al giovane che mostra tutta la sua partecipazione non si mostra nulla; egli vede, gode, utilizza la giovinezza di un suo predecessore per costruire se stesso a partire dal suo intimo, come se fosse stato già un tempo ciò che è al presente. In modo simile, e anzi identico, mi rallegrano le molteplici e varie risonanze che mi giungono dai paesi stranieri. Tali regioni sono giunte solo tardivamente a conoscenza dei nostri lavori giovanili, e i loro giovani, gli uomini attivi, con ambizioni conoscitive, scorgono la loro immagine nel nostro specchio, apprendendo che anche noi abbiamo mirato a ciò cui loro stessi aspirano, e ci accolgono nella loro cerchia, illudendosi con l’apparenza di un ritorno della gioventù221. La scienza è molto frenata dal fatto che ci si dedica a cose che non sono degne di essere conosciute, o a cose che non sono affatto conoscibili. La più alta empiria sta alla natura come l’intelletto umano sta alla vita pratica.

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Di fronte ai fenomeni originari222, quando appaiono svelati ai nostri sensi, avvertiamo una sorta di timore, quasi di angoscia. Le persone guidate dal senso comune si salvano nello stupore, ma immediatamente sopraggiunge l’intelletto, operoso ruffiano, che a suo modo pretende di mediare le cose più nobili con le più comuni. L’autentica mediatrice è l’arte. Parlare di arte significa volersi rendere mediatori di tale mediatrice, e in ogni caso da ciò sono sempre derivati molti frutti preziosi. Avviene con le ragioni deduttive lo stesso che con quelle classificatorie: occorre che esse siano penetranti, o altrimenti bisogna farne a meno. Anche nelle scienze non è possibile, in senso proprio, sapere alcunché, e occorre sempre agire. Ogni vero aperçu deriva da una sequenza di altri e ne genera una sequenza. Si tratta di un anello intermedio di una grande catena, che ascende in modo produttivo. La scienza ci aiuta soprattutto in quanto alleggerisce in certa misura quello stupore cui siamo chiamati per natura, e in seguito risveglia nuove abilità nella nostra vita sempre più progredita, adatte a stornare ciò che è dannoso e avvicinare ciò che reca vantaggio. Si rimprovera alle accademie scientifiche che esse non intervengono con sufficiente freschezza nella vita; questo però non dipende da loro, bensì dal modo che si ha di trattare le scienze in generale.

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Quaderni sulla morfologia Secondo volume (1823-1824)223 esperienza, analisi, deduzioni, legate da avvenimenti della vita Formazione e trasformazione delle nature organiche

Tu sine voce nuncias aspectui, te esse rerum causam, instar chirographi, quod absolutum est et audibile unicuique videnti. Gesenii de Samarit. theol. commentat. p. 16224.

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Nulla res ne in sermone quidem quotidiano recte potest administrari, si unusquisque velit verba spectare, et non ad voluntatem eius qui verba habuerit accedere. Nimium altercando veritas amittitur. Neque enim soli iudicant qui maligne legunt. Primum enim aliter utimur propriis, aliter commodatis, longeque interesse manifestum est possideat quis quae profert, an mutuetur. Nihil est einm quod aut natura extremum invenerit aut doctrina primum: sed rerum principia ab ingenio profecta sunt, at exitus disciplina comparantur. Vita, si scias uti, longa est. AiJ tw'n Daimovnwn fwnai; a[narqroi eijsivn. Nou'" oJra'/, nou'" ajkouvei. Pa'" ga;r nou'" h} eJauto;n noei', h} to; uJpe;r eJauto;n, h} to; meq∆ eJautovn. Kai; oJ nou'" periodikw'" ejnergei'. ∆Arch; me;n ou\n oujdemiva tou' swvmato", ajlla; pavnta oJmoivw" ajrch; kai; pavnta teleuthv, kuvklou ga;r grafevnto" ajrch; oujc euJrevqh. ∆Ex eJtevrh" eJtevrhn se, kai; a[llhn a[llote leuvssw. Fainomevnhn pollh'/si mivan morfh'/si gunai'ka.

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Sul secondo quaderno di morfologia di Wilhelm von Schütz225. 1) Luce e anima. 2) Giustificazione. 3) Il dogma della religione primordiale. 4) Una nuova concezione della mitologia. 5) Sulla mistica.

Il modo in cui il vero universale si manifesta in particolare a ciascuno non si può che apprendere dalla sua stessa voce. I seguenti passi potranno però certamente stimolare ogni pensatore a leggerli in tale contesto. Una dimostrazione deve provare l’oggetto in questione deducendolo rigidamente da sé oppure deve avvalersi del soccorso di un altro oggetto? È una questione molto rilevante! Se si decide per il primo caso, allora ogni demonstrandum deve essere dedotto unicamente entro i propri confini, e la dimostrazione si rivelerà tanto più convincente quanto più saranno tracciati in modo circoscritto e netto i confini del problema. Inoltre, il demonstrandum sarà tanto più provato quanto più il problema sarà formulato nella sua individualità ed enunciato in modo univoco, e quanto più univocamente la dimostrazione si adatterà a tale univoca enunciazione. Effettivamente, le cose stanno esattamente così. E così come la dimostrazione geometrica è costituita da linee, quella aritmetica da numeri, quella logica da deduzioni, così quella storica sarà costituita da documenti e quella scientifico-naturale da osservazioni e – da esperimenti! Non si dimentichi però che in tal modo vengono alla luce soltanto la verità e correttezza rispettivamente delle linee, dei numeri, delle deduzioni e così via. Ma non si trovano forse oggetti in cui numeri, linee, e rapporti genetici e qualitativi si mostrano piuttosto come riuniti insieme, e completamente compenetrati gli uni negli altri? Si potrà dire allora che essi saranno dimostrati interamente operando soltanto tramite deduzioni, numeri, linee e così via? Ed è lecito porre una di tali dimostrazioni, qualora non si possa accordare immediatamente

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con le altre, al di sopra delle altre per natura, metodo e risultato, attribuendole una forza decisiva e persuasiva tale da far dipendere unicamente da sé la verità dell’intero oggetto, rifiutando e annullando tutto ciò che si oppone alla natura della sua dimostrazione, e sottomettendosi unicamente alle proprie leggi? – Può ad esempio la dimostrazione logica tramite deduzioni e concetti, quella matematica tramite deduzioni e linee, quella aritmetica tramite deduzioni e numeri, rifiutare quella del fisico mediante deduzioni ed esperienze o esperimenti? E il fisico agirebbe in modo corretto e fecondo se si allontanasse dall’esperimento? Certamente no. Egli agirebbe piuttosto in modo addirittura non filosofico. Infatti, allo stesso modo in cui la filosofia è quella scienza che resta principalmente nel proprio ambito e sulla propria base definendo così ogni procedimento del genere come filosofico, così anche al fisico essa impone come legge di mantenersi entro il proprio territorio e i propri confini, operando con gli elementi che gli sono peculiari, e gli vieta al contempo di chiamare in aiuto elementi estranei. È trascorsa ormai da tempo l’epoca in cui nelle favole della preistoria greca non si scorgeva nient’altro che un intreccio di superstizione, irragionevolezza, stoltezza e immoralità. Le rappresentazioni, che inizialmente erano concepite come mere figure fantastiche, iniziarono a presentarsi ai sensi con tutto il fascino della loro grazia non comune, e la grande perfezione formale parlò alla mente delle persone colte in un modo tale che, tra tutti i piaceri che si offrivano loro, nessuno poteva eguagliare quello di immergersi nello studio di quelle immagini. E non appena l’occhio indugiava di nuovo liberamente su simili oggetti, subito anche la mente ne era stimolata. Singoli aspetti iniziarono a presentarsi come se, sotto una forma così gradita, potessero celare un senso più profondo, e le liriche dei poeti istituirono tra le leggende antiche delle relazioni così singolari che si era indotti ad ammettere che non potessero essere state ideate da menti del tutto sciocche, né potevano essere sorte ad opera di individui totalmente incolti in circostanze fatue. Si destava sempre più spesso la riflessione per cui non era possibile che una certa serietà intervenisse in molte opere poetiche e figurative senza che in pari tempo ne fosse interessata anche la loro più intima natura. Sorse così il desiderio di comprendere i miti greci, insieme allo sforzo di interpretarli. Difficilmente si possono valutare chiaramente, al momento attuale, i motivi che rendevano così ardua tale impresa. Occorrerebbe essere già molto progrediti nell’interpretazione stessa per poterne rendere conto, e a tutt’oggi si sono appresi soltanto gli ostacoli più tenaci. Una delle difficoltà maggiori coincide con il

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fatto che i singoli miti e le rappresentazioni delle divinità implicano fin troppe relazioni reciproche, al punto che non isolano né escludono ciò che è loro estraneo, come richiederebbe un procedimento razionale basato su concetti e idee, ma lasciano sussistere diversi elementi gli uni accanto agli altri ovvero lasciano trascorrere con facilità elementi contrapposti gli uni negli altri. Il contrasto di opinioni cui conduce la giustapposizione di diversi miti, quasi ogni volta che si offre una nuova o più profonda interpretazione, si accompagna immediatamente a simili difficoltà, e a entrambe le voci soliste fa seguito la schiera degli altri avvversari che circondano l’interprete. Il carattere della mitologia è qualcosa di enigmatico come poche altre, e su questo c’è pieno e universale accordo. Somiglia dunque a quegli argomenti di cui non è possibile discutere in ogni tempo, in ogni momento e in ogni condizione. Chi non ha sperimentato il fatto che su alcuni argomenti si vede chiaro e si dispone di mezzi per comunicarli soltanto se le condizioni del tempo e dell’ambiente circostante sono adatte? È necessario a volte che ci troviamo in un preciso ambiente, circondati da certi amici, è necessario che abbiamo condotto un certo tipo di conversazioni in precedenza raggiungendo un punto ben determinato, perché riusciamo ad affrontare felicemente un tema, trovando le espressioni corrette e partecipando della certezza che esse, restituendo il più possibile anche le sfumature, si approssimeranno più che mai al senso che intendiamo trasmettere alla comprensione degli altri. Le rappresentazioni non possono dunque offrire altro che superfici, così come ogni conoscenza formale è costretta a rimanere in superficie, trasformando ogni entità in superficie, e rendendo ogni consocenza una conoscenza di superficie. Tuttavia la fantasia, che, come generalmente riconosciuto, non opera solo al livello meramente formale, la soccorre spesso con i suoi ricordi tratti dalla realtà, legando così alla rappresentazione formale una profondità figurata, senza la quale le sue difficoltà sarebbero ancora maggiori. Sotto questo aspetto essa mostra la stessa natura della geometria. Tutti sappiamo che il punto centrale in un corpo reale non può trovarsi sul piano. Ma se la geometria parla di sezioni coniche, occupandosi così del punto centrale, allora essa lo estrae dalla sua sede vera e propria, la profondità, collocandolo sulla superficie. Si può dire che la realtà e la natura, quando offre i suoi oggetti all’osservazione, all’analisi e alla verifica intellettuale dell’uomo, non glieli affida mai interamente e completamente, ma se ne riserva ogni volta una parte. E tale parte che essa riserva per sé non è mai identica. Spesso la natura svela alla mente umana il più profondo mistero, ma in seguito vi è certamente un altro aspetto che tiene nascosto pre-

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servandolo per sé. Per tale ragione esiste un mondo interno e uno esterno, ma al contempo non ne esiste alcuno. Ciò reca a sua volta gioia e conforto a chi si attiene alla vita per se stessa, ma mette in difficoltà chi invece vuole penetrarla, verificarla, ordinarla e dominarla.

Eleusis servat quod ostendat revisentibus226.

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Considerazioni riguardo ad una raccolta di avorio patologico227

Per l’osteologia patologica sono degni di nota gli effetti prodotti dalla natura nelle zanne di elefanti in cui siano penetrate pallottole di piombo o di ferro, nei casi in cui gli animali siano poi sopravvissuti per un periodo più o meno lungo. La raccolta che abbiamo di fronte ci offre l’opportunità per diverse considerazioni che comunico senza ulteriori premesse, riservando le affermazioni più generali che occorrerebbe avanzare per la conclusione. Nro. 1. In questo caso si vede sulla superficie della zanna la frattura provocata dalla pallottola di ferro, non penetrata in profondità. Probabilmente l’animale è vissuto troppo poco perché la natura potesse reintegrare il danno e richiudere completamente la ferita esterna, come invece sembra avvenire ogni volta che una pallottola penetra abbastanza a fondo. Nro. 2. Un pezzo notevole! Una pallottola di piombo è penetrata nella zanna e la natura ha quasi del tutto guarito la distruzione causata in superficie. Notiamo che tutt’intorno alla pallottola ha luogo una modificazione della massa ossea, che sembra una sorta di coagulazione e di separazione di quelle parti che, connesse interiormente, costituiscono organicamente l’avorio. Possiamo vedere più chiaramente tale fenomeno al Nro. 3., in cui una massa marroncina, più trasparente dell’avorio, si è legata avvolgendosi attorno alla pallottola. Tale coagulazione però non sembra avvenire solo immediatamente attorno al corpo estraneo: ai nn. 2 e 3 possiamo

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notare simili punti trasparenti anche ad una certa distanza dalla pallottola, apparentemente senza connessione rispetto alla sede principale della ferita; essi hanno l’aspetto di una materia coagulata, rappresa e separata. Si tratta di un fenomeno che apprendiamo con maggior precisione ancora nel Nro. 4, in cui tali punti si sono prodotti nelle fibre dell’avorio, nel senso della lunghezza. Si vede chiaramente che la materia trasparente è granulosa e non perfettamente compatta. L’avorio che vi si trova immediatamente sopra è a tratti modificato al punto da presentare un aspetto bianco, tendente al lattiginoso, ma per il resto l’intera massa eburnea circostante si mostra bella e sana. È un peccato che questo pezzo sia così piccolo, e non sia possibile conoscere il punto in cui si è insinuata la pallottola, né a quale distanza da quest’ultima si sia esteso l’effetto patologico. Il Nro. 5. ci fornisce l’occasione per avanzare considerazioni di un altro genere. Una pallottola di ferro è penetrata nella zanna ad alcune linee di profondità, la ferita è guarita all’esterno, ma all’interno la coagulazione si è estesa ulteriormente. La natura pura dell’avorio ne è risultata in gran parte distrutta, ma ci sembra di scorgere chiaramente ancora un’altra coagulazione, e sembra quasi che abbia luogo una sorta di distruzione dell’avorio puro a partire da determinati punti, i quali, ampliandosi in forma circolare, finiscono per toccarne altri che hanno subìto la stessa azione. In tal modo uno spazio più o meno grande viene a perdere la sua organizzazione in un modo patologico. Il Nro. 6 ci mostra con maggiore evidenza l’operazione qui ipotizzata. In esso è singolare il fatto che nella zona malata si trovino anche delle cavità, in parte ricoperte da una sottile pellicola. Esse si mostrano con ancora maggior chiarezza al Nro. 7, in cui le cavità sorte all’intero della parte distrutta sembrano riempirsi di nuovo di sottili verruche ossee. Se finora abbiamo considerato l’effetto patologico prodotto sulle zone ossee ferite, osserviamo adesso la reazione opposta dall’intero organo sano. Già al Nro. 5 era possibile notare in alcuni punti una separazione della parte malata da quella sana; il Nro. 6 ce la mostra con ancora maggiore evidenza mentre il Nro. 7 è inconfutabile: non solo infatti vediamo come su uno dei suoi lati si verifichi un’imminente distacco della parte malata da quella sana adiacente, ma evidentemente la superficie

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convessa, segnata con una stella, non è stata separata con un taglio di sega dalla zanna in cui si trovava, bensì è stata la natura stessa a staccarla. Il Nro. 8 conferma ancor più ciò che si è detto: in esso la parte malata si è distaccata da quella sana in modo tale da poter essere gradualmente spostata, e dunque è fuor di dubbio la sua completa devitalizzazione. Da ciò che abbiamo notato finora riteniamo dunque di poter concludere che il disordine causato dal corpo estraneo nella zanna sana produca un ristagno e una coagulazione degli umori, che progressivamente si estende, sia verso i lati sia soprattutto longitudinalmente. Sia dal ristagno principale che dai singoli punti di ristagno più distanti si forma infine uno spazio patologico continuo, che consiste di molti cerchi concentrici di ristagno, e da ultimo addirittura da cavità frammiste; l’avorio sano, invece, è costituito da una bella massa ossea, per lo più uniforme e densamente organizzata nel senso della lunghezza. La parte malata mostra inoltre i suoi effetti, in base alle esperienze che abbiamo davanti, soltanto entro un certo raggio; le sezioni trasversali dei tre preparati principali, Nn. 6, 7 e 8, hanno una larghezza piuttosto simile (non è possibile dire però quanto si estendessero in lunghezza); la parte sana afferma i suoi diritti confinando infine quella malata, che sembra ora in parte consumarsi in se stessa, in parte accumularsi di nuovo lentamente per influsso della parte sana, restando tuttavia sempre un corpo estraneo e separato; è singolare, al riguardo, che tale patologia ossea non agisca verso l’esterno, né produca alcuna escrescenza irregolare, come ci si potrebbe aspettare, sulla superficie della zanna, per quanto la pallottola si trovi molto prossima ad essa. A tale proposito noto anche che il punto al Nro.1, segnato con una stella, appare come una ferita non molto profonda della zanna, causata da una pallottola di ferro, che tuttavia non ha avuto conseguenze patologiche; è possibile ipotizzare che una zanna ferita solo in superficie non sia esposta ad alcun danno ulteriore. Ci si può convincere di questo con certezza se si considera una zanna intera, la cui estremità anteriore sia stata logorata dall’uso cui è stata sottoposta durante la vita dell’animale (se ne trova una simile nel Museo granducale). Si vedono in punta

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i gusci superiori consumati e smussati, mentre quelli inferiori si trovano in una condizione completamente sana, anzi mostrano un aspetto liscio e sano pari a quello dei gusci che erano destinati a rivestirli. Dopo tutto ciò, ci sia concesso di aggiungere ancora alcune considerazioni. La zanna di elefante è inizialmente una guaina sottile e cava che, crescendo, si riveste sia internamente che esternamente di numerose lamelle, le quali dapprima si dispongono come strati sovrapposti, per poi infine formare un avorio saldo e compatto. Questa organizzazione, orientata nel senso della lunghezza, ci mostra il motivo per cui l’azione patologica di una parte si mostri più facile e forte nel senso della lunghezza, poiché tale azione non deve far altro che prendere la direzione delle lamelle iniziali, ora rimarginate. Per quanto riguarda l’azione di una zona patologica lungo i lati, presumo che in questo caso abbiano luogo un rigonfiamento e una dilatazione, che causano una compressione delle parti più vicine dell’avorio sano, al punto che si crea perfino uno spazio vuoto, che vediamo suddiviso in cavità nei nostri preparati. Le sezioni trasversali ovali della zona malata, le cavità che abbiamo menzionato, nonché la direzione ricurva delle lamelle sane adiacenti del Nro. 7 mi inducono a giudicare probabile questa ipotesi; se si pensa alla grande elasticità dell’avorio, e alla riduzione che subisce quando si secca, si potrà ritenere non impossibile una simile contrazione o, se si vuole, una separazione tra le parti, in particolare poiché una natura che opera in modo irregolare e patologico mostra nei corpi organici degli effetti ancora più forti e intensi. Ci volgiamo ora a un caso per cui disponiamo di alcuni interessanti preparati che consentono di osservarlo più accuratamente. Può accadere infatti che una pallottola giunga nella parte posteriore, debole e cava, della zanna, e allora non solo si crea un ristagno e una coagulazione simili a quelli già descritti, ma, poiché l’impulso patologico così suscitato, e probabilmente già prodotto dalla pallottola, non trova alcun ostacolo, si forma un’escrescenza ossea verso l’interno, che presumibilmente diventa tanto più grande quanto più lungo è il tempo che la natura impiega per compiere tale operazione. Il Nro. 9 costituisce un bell’esempio di un caso in cui una pallottola di piombo è rimasta attaccata al margine di una cavi-

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tà della zanna, e progressivamente è stata rivestita e avvolta da un’escrescenza in forma di capezzolo. I Nn. 10 e 11 si rivelano al riguardo ancor più istruttivi. Si tratta di due frammenti che vanno insieme. Quanto alla struttura del lato esterno, si nota che essi sono stati staccati da una parte della zanna che si trovava fissata alla mascella superiore; verso l’esterno si nota una piccola escrescenza ossea a forma di capezzolo, che si mostra ancor più decisa verso l’interno, dove appare un grande capezzolo con molte protuberanze più piccole, che in sezione presentano quell’aspetto coagulato e marezzato che conociamo già. È notevole anche in questo caso che tale patologia ossea abbia agito in modo così potente verso la cavità interna, e mostri invece così pochi effetti sulla superficie esterna, come abbiamo già avuto modo di osservare ai Nn. 2 e 5, in cui la modificazione patologica non ha operato verso l’esterno, ma piuttosto la natura ha immediatamente richiuso e sanato la ferita superficiale della zanna. Non oso determinare subito se la pallottola si trovi ancora all’interno del capezzolo o se a questa escrescenza ossea sia accaduta un’altra specie di danno. In ogni caso si trattava della zanna di un elefante molto vecchio, e il danno risaliva anch’esso a molto tempo addietro. Ad un’osservazione più ravvicinata si possono avanzare altri istruttivi confronti tra questa escrescenza patologica e i punti malati sorti all’interno della zanna in assenza di spazio. Nro. 12. Un frammento in cui sono visibili sia la superficie esterna della zanna sia quella interna, verso la cavità. È anch’esso notevole per l’evidente corteccia che sembra avvolgere dall’esterno la zanna, a causa di diversi punti coagulati, nonché dell’organizzazione che si mostra completamente alterata. Può servire dunque, al contempo, come prova per diversi altri casi analizzati. Il Nro. 13 è un frammento il cui aspetto non si ricollega al precedente. Si presenta come una zanna che sia stata ferita nel senso della lunghezza tramite uno strumento appuntito, per cui l’organizzazione ossea sarebbe risultata alterata, e formata da lamine concentriche, molto sottili e fragili. Probabilmente si troveranno in futuro altri esemplari simili che potranno gettar luce sul caso presente. Soprattutto sarà bene ampliare ancora, ogni volta che si

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darà l’occasione, questa raccolta, per rendere possibile una più esatta valutazione dei frammenti già presenti grazie ad un numero maggiore di casi disponibili. Ho donato la raccolta annunciata in omaggio al mio gentile maestro, la cui notevolissima collezione anatomica non disdegnava certo un simile dono; spero che essa si trovi ancora nel Gabinetto di Loder a Mosca, e mi permetto ancora alcune considerazioni a proposito degli oggetti che vi sono menzionati. Pur avendo già ceduto molto volentieri ad un uomo verso cui sono così obbligato un simile dono amichevole, speravo comunque di ricostituire progressivamente per me una raccolta analoga, così come ero riuscito a metterla insieme, anche se in diversi anni, con una certa facilità. Ma non mi riuscì in nessun modo. A Norimberga i pettinai, quando si imbattevano con la loro sega in una pallottola simile, erano soliti evitarla, sacrificando così un pezzo rilevante del loro prezioso avorio, che poi mettevano da parte e cedevano a poco prezzo al naturalista. Solo che ormai non mi era più possibile trovare pezzi simili, né lì né altrove, a causa forse principalmente del fatto che la tornitura e la lavorazione dell’avorio erano divenute molto rare. Quando poi lessi, in antichi resoconti di viaggio, in che modo selvaggio e maldestro venivano radunati gli elefanti, cui veniva rovesciata addosso una pioggia di pallottole, di modo che quelli abbattuti venivano privati delle zanne, mentre altri feriti erano lasciati tuttavia in libertà, mi venne in mente che forse quelle zanne di elefante, che avevano reso una quantità così alta di avorio patologico, potevano trarre origine da una caccia così selvaggia e sfrenata, praticata in epoche in cui si lasciava che gli animali sanassero le loro membra danneggiate nel corso di lunghi anni. Forse in tempi più recenti si è praticata una caccia più saggia e cauta per abbattere queste possenti creature e farle fruttare, come ci si dovrebbe certo aspettare, dato il miglioramento costante delle armi da fuoco. Non intendo dare gran valore a questa ipotesi, trattandosi solo di una congettura occasionale; dopo ripetute indagini senza frutto, ho anche quasi del tutto smesso i tentativi di rintracciare esemplari simili, poiché ho trovato tra le mie vecchie carte l’elenco che ho citato qui sopra, e lo ritengo non indegno dell’attenzione del naturalista e del collezionista.

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Problema e replica228

Ho annotato le pagine frammentarie che seguono nel corso dei miei viaggi estivi, e in conseguenza di alcune conversazioni e riflessioni, suscitate non da ultimo dalla lettera ricca di spunti che ho ricevuto da un giovane amico. Per esporre dettagliatamente ciò che qui è solo accennato, rintracciando connessioni e appianando le contraddizioni che si presentano, mi mancava la concentrazione necessaria, che unicamente può rendere possibile un pensiero coerente; dunque ritenni opportuno inviare il manoscritto agli interessati, chiedendo loro di considerare queste affermazioni paradossali come un testo o come un qualunque altro tipo di spunto per la loro propria riflessione, che volessero poi comunicarmi affinché io, come qui accade, la inserissi a mo’ di testimonianza di una comunione di intenti e di pensieri. Weimar, 17 marzo 1823. G. problemi Sistema naturale 229, un’espressione contraddittoria. La natura non ha un sistema, essa ha, ed è, vita e derivazione da un centro ignoto, verso un confine inconoscibile. Perciò l’osservazione della natura non può aver fine, sia che si proceda per divisioni nell’indefinitamente piccolo, sia che si indaghi nel complesso l’insieme, seguendone le tracce in larghezza e in altezza.

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L’idea della metamorfosi è un dono, ricevuto dall’alto, sommamente degno di venerazione, ma al contempo estremamente pericoloso. Essa conduce infatti all’assenza di forma, distrugge il sapere e lo annulla; simile alla vis centrifuga, si perderebbe nell’infinito se non le fosse dato un contrappeso, vale a dire l’impulso di specificazione, la tenace facoltà di persistere, propria di ciò che è diventato realtà. Una vis centripeta a cui nessun elemento esterno può nuocere, nel profondo. Si pensi al genere delle eriche. Ora, poiché le due forze agiscono contemporaneamente, dovremmo rappresentarle simultaneamente anche in un’esposizione didattica, ma questo ci sembra impossibile. Forse non possiamo salvarci da una simile difficoltà se non servendoci di un procedimento artificioso. Paragone con i toni, che in natura progrediscono ininterrottamente, e il temperamento, delimitato e uniforme nelle ottave, che solo rende propriamente possibile, a dispetto della natura, una musica decisamente efficace e superiore. Dovremmo introdurre dunque un’arte dell’esposizione. Occorrerebbe istituire una simbolica! Ma chi potrebbe darle vita? E chi riconoscerebbe una simile realizzazione? Se considero quelli che in botanica si definiscono genera, ritenendo valido il modo in cui sono enunciati, allora mi pare che non si possano trattare tutti i generi allo stesso modo. Intendo dire che esistono dei generi che possiedono un carattere, e che lo infondono a loro volta in tutte le loro specie, tanto che si riesce a rinvenirlo per via razionale. Tali generi non si perdono in mille varietà, e per questo meritano di essere analizzati con attenzione: citerò ad esempio le Genziane, e il botanico accorto saprà certo indicarne parecchie. Di contro, esistono generi privi di carattere, a cui forse non è lecito attribuire delle specie, poiché essi si perdono in infinite varietà. Se le si esamina con serietà scientifica, non se ne giunge mai a capo, anzi ci si troverà piuttosto confusi, poiché esse sfuggono ad ogni determinazione e ad ogni legge. Io ho avuto talvolta l’ardire di chiamare simili generi ‘gli scapestrati’, osando rivestire di un tale epiteto la rosa, per quanto certo con ciò non può venir meno la sua grazia; in particolare la rosa canina potrebbe attirarsi un’accusa siffatta. L’uomo, dove si manifesta in modo significativo, si com-

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porta da legislatore: in primo luogo in ambito morale, con il riconoscimento del dovere, quindi nella sfera religiosa, professando una sua particolare e intima convinzione riguardo a Dio e alle cose divine, delimitando poi riguardo ad esse delle analoghe e determinate cerimonie esteriori. Nella vita militare, in pace o in guerra, accade lo stesso: ogni azione ha senso solo se è l’uomo a prescriverla a se stesso e ad altri; e analogamente accade nelle arti. Si è detto in precedenza di come lo spirito umano sottometta a sé la musica, e il modo in cui esercita il suo influsso sulle arti figurative nelle epoche migliori grazie ai maggiori talenti costituisce, per il nostro tempo, un mistero manifesto230. Nella scienza sono gli innumerevoli tentativi di sistematizzare e di schematizzare ad indicare tale influsso. Tuttavia, l’intera nostra attenzione deve essere rivolta a carpire alla natura il suo modo di procedere, di modo da non renderla ritrosa con prescrizioni costrittive, senza lasciare tuttavia che il suo arbitrio ci allontani dallo scopo. replica Le pagine precedenti rinnovano, in primo luogo in riferimento alla botanica, una questione seria e antica, in cui ci imbattiamo in ogni ricerca sotto forme diverse. Infatti, si tratta al fondo certamente della stessa questione che angoscia il matematico nel calcolo della circonferenza, il filosofo che cerca di salvare la libertà morale dalla necessità, il naturalista che tenta di fissare il mondo del vivente che gli scorre intorno, sentendosi così al contempo incalzato e impedito. Il principio di un ordine intelligibile che portiamo in noi, e che vorremmo incidere su ogni cosa che ci tocca come sigillo della nostra potenza, si oppone alla natura. E per acuire al massimo la confusione, ci sentiamo al contempo non solo necessitati a riconoscerci membri della natura, bensì anche legittimati a presupporre nel suo apparente arbitrio una regola costante. Dunque anche quella di sistema naturale è un’espressione contraddittoria; solo che l’aspirazione a risolvere tale contraddizione coincide con un impulso naturale, che neppure il riconoscimento dell’impossibilità di soddisfarlo potrebbe estinguere. Non vogliamo chiedere se debba esistere un punto di vista che, se fosse per noi raggiungibile, ci consentirebbe di vedere

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la natura e il sistema come un’immagine e il suo riflesso. Né vogliamo indagare se un simile punto di vista, ammesso che esista, sia assolutamente irraggiungibile per l’uomo. Ciò che è certo è che non è ancora stato raggiunto; ciò che hanno tentato gli scienziati della natura, e soprattutto i botanici nel loro ambito, per risolvere la contraddizione cui si è accennato, ha coinciso in parte con sistemi che delimitavano la natura, in misura maggiore o minore, in parte con immagini della natura che mistificavano la scienza. I contributi di Linné sono stati giustamente apprezzati in questi quaderni e in altri luoghi. L’epoca di Linné è già da tempo trascorsa, e da allora la botanica ha sperimentato forse la svolta più rilevante di cui era capace: entrambi tali aspetti facilitano una corretta valutazione della botanica di Linné e del suo significato per le scienze naturali in generale. Di recente ci si è presentata l’idea della metamorfosi, che domina ancora con la forza della prima impressione gli animi di cui si impadronisce; ancor più difficile, se non impossibile, risulta dunque prevedere fin d’ora dove tale idea potrà condurre la scienza. Nel frattempo non mancano segni che fanno temere che anche a tale idea, come in passato è avvenuto per il sistema sessuale, si possa tributare un omaggio di breve durata, portandola a conseguenze così estreme che soltanto una teoria esattamente opposta potrà ristabilire l’equilibrio. L’idea della metamorfosi è un dono, ricevuto dall’alto, sommamente degno di venerazione, ma al contempo estremamente pericoloso. Essa conduce infatti all’assenza di forma, distrugge il sapere e lo annulla; simile alla vis centrifuga, si perderebbe nell’infinito se non le fosse dato un contrappeso. – Così ci ammonisce lo stesso Goethe, dopo aver rianimato la scienza irrigidita grazie alla scintilla di quell’idea, dai pericoli che un simile dono reca con sé. Analogamente Linné, dopo aver ordinato il caos che regnava nella sua epoca, aveva riconosciuto in primo luogo l’autentico significato del proprio sistema, avvertendo i suoi allievi, evidentemente invano, a non farne abuso. L’indispensabile contrappeso viene poi definito con maggior precisione. Si tratta dell’impulso di specificazione, la tenace facoltà di persistere, propria di ciò che è diventato realtà. Una vis centripeta a cui nessun elemento esterno può nuocere, nel profondo. Ci imbattiamo qui in una seconda contraddizione, in tutto analoga alla prima, e tale da porsi in proporzione inversa ri-

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spetto ad essa. Nell’esigenza di un sistema naturale l’intelletto umano sembra oltrepassare i propri confini, senza tuttavia riuscire a rinunciare a quell’esigenza. Una facoltà di persistere insita nella natura sembra voler frenare il flusso della vita, ma in essa vi è qualcosa di molto resistente, come deve riconoscere l’osservatore imparziale. Vorrei citare in particolare, come esempi molto evidenti tratti dal mondo vegetale, quelle piante che, a causa della loro singolarità, non possono essere riunite in un genere, e spesso neppure in una famiglia: vi appartengono la Aphyteia hydnora, la Buxbaumia aphylla, l’Isoëtes lacustris, la Schmidtia utriculosa, l’Aphyllantes monspeliensis, la Coris monspeliensis, la Hippuris vulgaris, l’Adoxa moschatellina, la Tamarindus indica, la Schizandra coccinea, la Xanthorrhiza apiifolia, e moltissime altre. Ma se seguiamo l’analogia tra le due contraddizioni che abbiamo indicato, e che sembrano in sé inconciliabili, non può che sorprenderci la speranza che l’una possa trovare una soluzione nell’altra e viceversa. L’uomo, dove si manifesta in modo significativo, si comporta da legislatore. – Salvo che non sempre all’uomo piace comandare, e spesso preferisce abbandonarsi all’amore e lasciarsi dominare da un’inclinazione misteriosa. Quando si volge alla natura in una disposizione simile, sorge un rapporto estremamente felice: la reciproca resistenza cessa, la natura lascia che l’uomo intuisca e scopra il suo più profondo segreto, e la vita così ampliata è per l’uomo un risarcimento del sacrificio costituito dalle pretese che non può soddisfare. La natura non ha un sistema, essa ha, ed è, vita e derivazione da un centro ignoto, verso un confine inconoscibile. – Tuttavia, ciò che essa vieta in ambito generale, lo permette con tanto maggiore disponibilità nel particolare. Ciascun essere naturale particolare descrive, oltre al grande cerchio della vita generale, di cui partecipa, anche un’orbita più ristretta e a lui peculiare, e l’elemento che la caratterizza, che si esprime, malgrado tutte le deviazioni, nella successione costante delle generazioni e delle rivoluzioni, questo elemento che costantemente torna nell’alternanza dei fenomeni, è ciò che ne definisce la specie. Per intima convinzione affermo energicamente che appartiene alla stessa specie ciò che ha la stessa origine. È impossibile che una specie scaturisca da un’altra diversa, poiché nulla interrompe il nesso degli elementi che si succedono nella natura, e gli uni-

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ci esseri che sussistono separati dagli altri sono quelli che fin dall’origine si trovavano giustapposti ad altri esseri; a questo si riferisce il nostro testo quando dice che si riesce a rinvenire tale carattere per via razionale. Quanto all’opinione che bisogna formarsi delle deviazioni che si presentano in singoli o anche in molteplici rivolgimenti della vita, e che sono chiamate varietà o sottospecie, intendiamo fornire più oltre qualche chiarimento. Chi però le definisce come specie, non può ascrivere alla natura l’oscillazione propria del carattere che viene loro arbitrariamente attribuito, né tantomeno derivarne una generale incostanza delle specie. All’obiezione si può anche rispondere che talvolta, per quanto raramente, si ripetono le identiche forme nei territori più distanti e separati da mari, deserti e catene montuose. In tali casi si sarebbe in effetti costretti ad ammettere una discendenza comune, non potendo scendere, dalla prima coppia animale e dalla prima pianta madre di ciascuna specie, giù ancora fino al fondamento specifico della loro origine nel grembo della terra, generatrice di ogni cosa. Un simile passo, ora evitato per timore, ora invece compiuto senza riflettere, non soltanto legittima il concetto di specie cui si è accennato, ma lo rende anche applicabile in primo luogo non unicamente ad animali e piante, ma a tutti gli esseri naturali senza eccezione. Non è questa tuttavia la sede per trattare esaustivamente un argomento così vasto. Ma se il botanico intende farsi valere come legislatore, deve allora volgersi a buon diritto alle specie vegetali, definirle e ordinarle quanto meglio può in un qualche trattato. Egli sbaglierà solo se, con identica precisione, dividerà l’ambito della metamorfosi, frammentando con la terminologia la pianta vivente. Se intende votarsi all’amore per la natura invece, l’idea della metamorfosi può guidarlo con sicurezza, fin quando non lo tenterà a trasferire una specie nell’altra, sfumando in modo mistico ciò che in realtà è separato. Di un sistema dell’organismo e di una metamorfosi delle specie è possibile parlare soltanto in senso simbolico, ed è un errore rischioso, idolatria dell’intelletto o della natura, scambiare il simbolo con la cosa significata. Se però ci guardiamo dal compiere un simile abuso, allora probabilmente una simbolica potrà rendere possibile ciò che è impossibile, mettendoci nella condizione di poter esporre, anche sul piano didattico, l’azione simultanea delle due forze indicate dal nostro testo. Cosa si intenda con una tale simbolica

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ce lo illustra la comparazione, oltremodo felice, tra la botanica e la musica, che possiamo tuttavia estendere ulteriormente, allo scopo di far convergere ancora più luce nel fuoco della nostra indagine. I toni che si trovano in successione lungo la scala sono determinati in modo precisissimo dai loro intervalli; non si potrà mai escludere alcuna delle ventiquattro tonalità conosciute, né aggiungerne una nuova, e il basso continuo domina l’armonia con rigore matematico. La melodia, autentica vita dei toni, si muove così tanto più liberamente, e il ritmo e il tempo tentano invano di incatenarla. Riunire immediatamente i due aspetti nella scienza dei suoni (che nulla sa realmente della melodia) sarebbe altrettanto arduo, se non impossibile, che riunire immediatamente, nella botanica, il sistema con l’idea della metamorfosi. Ma l’autentica mediatrice è l’arte. L’arte dei suoni, la musica superiore, strappa alla natura la sistemazione in base a regole, e carpisce alla teoria ciò che fluisce. E quando più oltre si dice: dovremmo introdurre dunque un’arte dell’esposizione; occorrerebbe istituire una simbolica, evidentemente in questo caso la parola ‘arte’ è intesa in un senso superiore rispetto a quello che sono soliti attribuirle i botanici, quando parlano di sistemi artificiali, vale a dire logici. La scienza che non è in grado di nobilitarsi pienamente al rango di arte, dovrebbe almeno avvicinarsi ad essa il più possibile servendosi di una simbolica. Mi sia concesso di ricordare qui un passo tratto dalla teoria dei colori231, che chiarisce l’idea di fondo dei frammenti citati forse meglio di quanto non possa fare una voce estranea. Tra le considerazioni sulla teoria e la trattazione dei colori da parte degli antichi leggiamo quanto segue: Visto che né nel sapere né nella riflessione è possibile raggiungere una totalità, poiché al primo manca l’elemento dell’interiorità, al secondo l’esteriorità, dobbiamo necessariamente pensare la scienza come arte, se ci aspettiamo da essa una qualche forma di totalità. In particolare, non dobbiamo cercarla nel generale e nello smisurato, bensì, allo stesso modo in cui l’arte si rappresenta sempre interamente in ciascuna singola opera, così la scienza dovrebbe rivelarsi ogni volta completamente in ogni singolo argomento indagato. Tuttavia, per andare incontro ad una simile esigenza, non bisognerebbe escludere nessuna delle capacità umane dall’attività scien-

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tifica. Gli abissi dell’intuizione, uno sguardo sicuro sul presente, la profondità matematica, l’esattezza della fisica, l’altezza della ragione, l’acume dell’intelletto, la mobile e ardente fantasia, l’amorevole gioia per il mondo sensibile: a nulla di tutto ciò si può rinunciare per poter cogliere l’attimo in modo vivo e fecondo, ciò che solo rende possibile il sorgere di un’opera d’arte, qualunque sia il suo contenuto.

Ma come si potrebbe trattare in tal senso la botanica nei termini dell’arte se non mediante una simbolica? Solo quest’ultima è in grado di mediare gli elementi che si oppongono, senza annullare l’uno nell’altro, o immergere tutto in una generalità priva di carattere. Innanzitutto sarebbe importante riconoscere irrevocabilmente sia le specie nella loro particolarità e costanza, sia la vita nella sua singolarità e variabilità. In seguito, ma non senza aver soddisfatto tale condizione, occorrerebbe tentare di stabilire un sistema delle piante in base al tipo della metamorfosi, e una storia della vita vegetale in base al tipo del sistema. Entrambi servirebbero a designare simbolicamente ciò che l’intelletto non può portare nella natura, e ciò che la natura non può svelare all’intelletto. Inoltre, entrambi dovrebbero presentarsi nel più perfetto equilibrio e, pur separati esteriormente, tuttavia sarebbero completamente pervasi intimamente del medesimo spirito, di modo che ciascuno potrebbe trovare nell’altro il suo fondamento e la sua chiave di volta. Come schema di una simile scienza simbolica della natura riferita al mondo vegetale si potrebbe offrire l’immagine dell’ellisse, di cui la metamorfosi della vita e la costanza delle specie costituirebbero i punti focali. I raggi che si dipartono da uno dei fuochi fino al contorno della figura, pensati in quanto fissi, potrebbero alludere al sistema delle piante che, partendo dal centro costituito dalla più semplice forma vegetale infusoriale, si diparte tutt’intorno, anche se non a distanza uniforme in ogni direzione. Se pensata come traiettoria di un movimento regolare, l’ellisse potrebbe contrassegnare la vita della pianta originaria232: quel contorno che racchiude tutti i raggi, reali e possibili. Di caso in caso varierebbe il centro da identificare con il punto originariamente determinante, al quale tuttavia non dovrebbe mai mancare il centro posto rispettivamente di

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fronte, che consente simbolicamente la mediazione, affinché il cerchio possa ampliarsi in un’ellisse. Quanto è stato detto sia sufficiente ad accennare all’esigenza di una simbolica. Ma chi potrebbe darle vita? E chi riconoscerebbe una simile realizzazione? La seconda domanda potrebbe continuare a rimanere senza risposta, se sapessimo fornire una soluzione alla prima. Solo che, visto lo stato della botanica ai nostri giorni, nessuno sarà in grado di assolvere un simile compito, né domani né dopodomani, poiché manca ancora un equilibrio interno. In rapporto alla conoscenza delle specie, la metamorfosi è ancora troppo poco elaborata perché possa riuscire già adesso di enunciare un sistema corrispondente. È dunque auspicabile astenersi piuttosto dal tentativo precipitoso di realizzare in qualche modo un sistema vegetale, e convincersi che un tale sistema simbolico naturale si manifesterà gradualmente da sé, nella misura in cui la nostra conoscenza dello sviluppo e della trasformazione delle piante a sua volta seguirà la conoscenza delle forme vegetali particolari, di gran lunga più avanzata. Goethe stesso ha delineato con pochi energici tratti un quadro della vita vegetale: quanto si è in tal modo già ottenuto anche in vista del sistema? Spetta a noi adesso proseguire la realizzazione del quadro, se vogliamo giungere ad un sistema naturale simbolico compiuto. Occorre ancora evidenziare delle lacune nella ricerca: è ancora poco indagato il rapporto tra radice e stelo, nonché il rapporto di entrambi con ciò che li unisce. Non meno lo è il rapporto tra la foglia e l’internodo, e quello di entrambi con i nodi che li congiungono. Inoltre, occorre ancora studiare la struttura e l’importanza del nodo in sé, e della sua trasformazione da un lato in nodo collettivo delle gemme, dei bulbi e così via, dall’altro nei mezzi nodi delle foglie isolate delle piante dicotiledoni, in cui originariamente ad ogni nodo completo appartengono due foglie. Ancora, il rapporto tra la ramificazione dello stelo e l’infiorescenza, che la natura tiene distinti mediante il singolare contrasto tra l’anthesis basiflora e la centriflora, contrassegnando in tal modo l’autentico culmine di ogni singolo ciclo di metamorfosi. Quindi il significato del numero consueto delle parti degli organi, in sequenza ascendente. Nelle foglie occorrerebbe studiare il significato delle cosiddette stipulae, tanto importanti che spesso possono indicare l’affinità tra le piante con maggior sicurezza che non

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i frutti o i fiori. Quanto allo stelo, bisognerebbe analizzarne la posizione eretta o poggiata al suolo, e il suo orientamento verso destra o verso sinistra. Ma qui mi interrompo, perché invano cercherei una fine. Chi dovrebbe realizzare tutto ciò? Soprattutto ha senso chiederselo se ci si immagina che in tale direzione siano avvenuti già sufficienti progressi. Ma se studio gli scritti di un Jussieu o di un Robert Brown233 e scopro con ammirazione in che modo questi uomini, confidando nel loro genio, hanno lavorato, quantomeno a tratti, come se avessero già a disposizione da tempo tutto ciò che a noi invece manca, allora credo che anche nella botanica sia possibile una trattazione in termini artistici, e non rinuncio a tenere anche una singola loro osservazione, profonda e sicura, riguardo all’affinità tra le piante, in maggior conto che non tutti i sistemi che da noi proliferano. Manteniamo viva la speranza che anche tra noi, nella scienza rinnovata, possano nascere uomini pari a quelli, se non addirittura superiori. E non verremo mai persuasi a disdegnare di prenderli a modello per il solo fatto che sono stranieri. In conclusione, ancora qualche parola sulle due affermazioni tratte dai frammenti che riguardano i generi vegetali caratteristici e privi di carattere. Quanto più facilmente i primi si inseriscono nella trattazione, tanto più arduo è venire a capo dei secondi. Tuttavia, chi li osservi con serietà e zelo costante, e non sia completamente privo di un tatto innato e sviluppato con l’esercizio, lungi dal lasciarsi confondere, sarà certamente in grado di scoprire molto presto le vere specie e il loro carattere, rintracciandolo nella molteplicità delle loro forme. Chi è mai caduto nella tentazione di scambiare una rosa canina, qualunque forma, colore e rivestimento essa abbia assunto, con una rosa cinnamomea, arvensis, alpina o rubiginosa? Di contro, la rosa canina si trasforma di consueto nella cosiddetta rosa glaucescens, dumetorum, collina, aciphylla e innumerevoli altre, che troppo frettolosamente si è voluto elevare al rango di specie, e si mostrano in effetti come provenienti da un’unica e medesima radice, su tronchi giovani o vecchi, potati o non. Tuttavia, se realmente in un qualche genere ricco di forme non si trova alcun confine rispettato dalla natura stessa, cosa ci impedisce di trattarlo come un’unica specie, concependo tutte le sue forme come altrettante sottospecie? Finché mancherà la prova, quantomai difficile da addurre, che in natura non vi

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sia alcuna specie, ma che ciascuna, anche la più distante, possa essere ricondotta all’altra tramite forme intermedie, occorrerà avvalersi di quel procedimento. In tal modo però non si deve affatto rifiutare lo studio delle varietà ritenendolo superficiale, se non addirittura dannoso, ma ci si limiterà a trarre da esse né più né meno che ciò che esigono la natura e la scienza. Nulla infatti è più semplice che accordare loro il giusto posto, e al contempo nulla è più necessario, per completare l’edificio della scienza. La molteplicità delle specie ha trovato il suo contrario nell’unità della vita. Allo stesso modo in cui la vita, deviando dalla norma intermedia della salute, ma pur sempre fedele alla sua antica regola, degenera in malattia, così ciascuna specie, deviando dalla norma mediana del consueto, e tuttavia costantemente fedele al proprio carattere, trascorre in un numero più o meno grande di varietà. E come il sistema delle specie e la metamorfosi della vita si spiegano reciprocamente, così non potremo mai capire la malattia vegetativa finché non le porremo accanto le varietà, e non saremo mai in grado di ordinare le varietà finché non avremo esaminato più chiaramente il loro carattere. La scienza non può neppure in questo caso rinunciare ad una simbolica che funga da mediazione: nella natura stessa, la deformazione patologica e la deviazione sana si intrecciano tra loro in modo inestricabile, allo stesso modo in cui, nelle condizioni normali di forma e di vita, le forme si succedono in modo vivo le une dopo le altre, e la vita dà a riconoscere nelle forme i suoi impulsi superiori. Anche questa concezione si inserisce comodamente nello schema precedente. L’infinita molteplicità delle varietà sta, rispetto al numero determinato e tuttavia ignoto delle specie effettivamente presenti, come i raggi per mezzo dei quali il matematico divide in gradi il cerchio stanno rispetto all’infinità dei raggi possibili. E la condizione assolutamente sana, che dobbiamo necessariamente presupporre, sta in rapporto alle malattie di una metamorfosi, sia essa accelerata o rallentata, come una qualunque circonferenza data, a una determinata distanza dal suo centro, sta in rapporto all’infinità dei cerchi, di raggio più o meno ampio, pensabili attorno a quel punto. Sarebbe superfluo aggiungere ancora qualcosa all’ultima affermazione dei frammenti. Devo tuttavia temere di aver già detto troppo in ogni caso, e forse ho offuscato senza volere

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i pensieri limpidamente espressi nel testo con una quantità eccessiva di parole. Ma come potevo resistere ad un invito così lusinghiero? Possa ora il maestro istruire l’allievo, oppure sostituirlo, secondo l’antico costume. Ernst Meyer.

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Importante incoraggiamento, ricevuto grazie a un unico giudizio acuto234

Il dottor Heinroth 235, nella sua Antropologia, un’opera su cui torneremo più volte, parla con favore di me e dei miei lavori, e definisce addirittura singolare il mio modo di procedere: egli afferma, in particolare, che il mio modo di pensare opera oggettivamente, col che intende che il mio pensiero non si separa dagli oggetti, e che gli elementi degli oggetti, le loro intuizioni, vi penetrano, facendosi intimamente pervadere, e che dunque il mio osservare sarebbe già in sé un pensare, e il mio pensare un guardare. Ad un tale procedimento il detto amico non vuole negare la sua approvazione. A quali considerazioni mi abbia stimolato quell’unico giudizio, accompagnato da un simile apprezzamento, potranno esprimerlo le poche pagine che seguono, e che raccomando al lettore interessato, dopo che abbia appreso i dettagli riportati a pagina 387 del libro citato. Nel presente quaderno, come nei precedenti, mi sono proposto di esporre il mio modo di osservare la natura, e allo stesso tempo ho voluto rivelare in certo senso me stesso, il mio intimo, il mio modo di essere, per quanto possibile. A tale scopo ho trovato utile un mio saggio più vecchio: L’esperimento come mediatore tra soggetto e oggetto 236. Confesso, al riguardo, che da sempre il grande compito, che suona così importante, del conosci te stesso, mi è sempre parso sospetto, come un’astuzia di sacerdoti alleati in segreto

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con l’intento di confondere l’uomo con richieste irrealizzabili, fuorviandolo così dall’attività rivolta al mondo esterno e indirizzandolo ad una serenità interiore fittizia. L’uomo conosce se stesso soltanto nella misura in cui conosce il mondo, di cui ha consapevolezza solo dentro di sé, così come ha consapevolezza di sé unicamente nel mondo. Ciascun nuovo oggetto, attentamente osservato, dischiude in noi un nuovo organo. Ma l’incoraggiamento maggiore ci viene dal prossimo, che ha il vantaggio di confrontarci con il mondo dal suo punto di vista, conquistando così una conoscenza di noi più profonda rispetto a quella che potremmo raggiungere noi stessi. Per questo negli anni della maturità ho cercato di capire con grande attenzione fino a che punto gli altri potevano conoscermi, per poter fare chiarezza su me stesso e sul mio intimo in loro e grazie a loro, come grazie ad altrettanti specchi. Non prendo in considerazione i miei avversari, poiché la mia natura è loro invisa, ed essi rifiutano gli scopi cui si rivolge il mio agire, ritenendo anche i mezzi da me impiegati degli sforzi altrettanto fallaci. Perciò li respingo e li ignoro, visto che non possono stimolarmi, mentre è proprio questo ciò da cui tutto dipende nella vita. Dagli amici invece mi lascio volentieri sia condizionare che sospingere nell’infinito, e li seguo con pura fiducia, per ricavarne autentica edificazione. Ora, ciò che è stato detto del mio pensare oggettivo vorrei riferirlo analogamente anche ad un poetare oggettivo. Alcuni grandi motivi, leggende e tradizioni antichissime, hanno prodotto delle impressioni così profonde nei miei sensi che le ho trattenute per quaranta o cinquant’anni vivide ed operanti nel mio intimo; mi sembrava fosse il mio possesso più prezioso quello di vedere rinnovarsi spesso nella fantasia immagini simili, di così alto valore, che si trasformavano costantemente pur senza mutare sostanza, e maturando in forme più pure, in rappresentazioni più nitide. Vorrei qui citare solo la Sposa di Corinto, Il Dio e la Bajadera, Il conte e i nani, Il cantore e i bimbi, e infine ancora il Paria, che vedrà la luce quanto prima. Da quanto detto si spiega anche la mia inclinazione verso le poesie d’occasione, cui mi stimolava irresistibilmente ogni particolare di un fatto qualunque. Si nota infatti anche nei miei Lieder che a fondamento di ciascuno si trova un che di peculiare, vi è insito un certo nucleo di un frutto più o meno importante. Per tale motivo non sono stati cantati anche per

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diversi anni, in particolare quelli dal carattere deciso, in quanto richiedevano all’esecutore di trasferirsi dalla sua condizione generalmente indifferente in una sensibilità e in un’atmosfera particolare ed estranea, e di articolare anche in modo nitido le parole, di modo che si capisse attorno a cosa verteva il discorso. Alcune strofe dal contenuto nostalgico hanno però incontrato maggior favore, e hanno raggiunto una discreta cerchia di pubblico, insieme ad altre testimonianze alanoghe in lingua tedesca. A queste stesse considerazioni si lega direttamente l’orientamento mentale che per molti anni ho tenuto nei riguardi della Rivoluzione Francese, e si spiega così la mia incessante aspirazione a dominare con la poesia questo evento, il più terribile tra tutti, nelle sue cause e nelle sue conseguenze. Se mi volgo indietro a guardare i molti anni trascorsi, vedo chiaramente come il mio attaccamento a questo tema sterminato abbia consumato quasi inutilmente le mie facoltà poetiche per lungo tempo; e tuttavia quell’impressione si era radicata in me così a fondo che non posso negare di pensare ancora sempre alla prosecuzione della mia Figlia naturale 237, sviluppando mentalmente quest’opera straordinaria, senza avere però il coraggio di dedicarmi a realizzarla in pratica. Se mi volgo ora al pensiero oggettivo che mi si attribuisce, trovo che sono stato costretto ad osservare questo medesimo procedimento anche nella trattazione degli argomenti di storia naturale. Che lunga sequenza di intuizioni e riflessioni ho seguito prima che sorgesse in me l’idea della metamorfosi delle piante! È stato il mio Viaggio in Italia 238 a confidarla agli amici. Altrettanto è avvenuto con l’idea secondo cui il cranio è costituito da ossa vertebrali239. Avevo ben presto riconosciuto le tre vertebre posteriori, ma solo nel 1790, quando raccolsi dalla sabbia del cimitero ebraico di Venezia, che si presenta in forma di dune, una testa fracassata di montone, mi accorsi istantaneamente del fatto che anche le ossa facciali dovevano essere derivate da vertebre, poiché vidi in tutta evidenza con i miei occhi il passaggio dal primo osso sfenoide all’etmoide e alle conche nasali; avevo così davanti a me tutto l’insieme nella sua forma più generale. Sarà sufficiente quanto qui accennato per chiarire la mia attività precedente. Ma aggiungerò ancora qualche parola, al momento, a proposito del modo in cui le di-

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chiarazioni di quell’uomo benevolo e saggio mi incoraggiano ancora oggi. Già da alcuni anni cerco di rivedere i miei studi geognostici240, in particolare con l’intenzione di stabilire fino a che punto posso avvicinarmi, anche solo parzialmente, ad essi e alla convinzione che ne scaturisce riguardo alla nuova teoria del fuoco, che si sta diffondendo ovunque. Finora questo mi è riuscito impossibile. Ora però, la parola oggettivo mi ha d’un tratto illuminato, e ho visto lucidamente che tutti gli oggetti che da cinquant’anni a questa parte ho osservato e analizzato hanno finito per suscitare in me necessariamente proprio quella rappresentazione e convinzione da cui adesso non riesco ad allontanarmi. Certo, sono in grado di trasferirmi brevemente in un altro punto di vista, ma devo comunque tornare sempre al mio antico modo di pensare, per sentirmi in certa misura a mio agio. Ora, proprio sotto l’impulso di queste considerazioni ho continuato a mettermi alla prova, e ho notato che l’intero mio modo di procedere si basa sulla deduzione:241 io non mi fermo finché non trovo un punto pregnante a partire dal quale si possano derivare molte altre conseguenze, o piuttosto che faccia scaturire spontaneamente molte cose e me le trasmetta, di modo che io mi metta al lavoro con prudenza e lealtà, impegnandomi e ricevendo i frutti delle mie fatiche. Se nell’esperienza si trova qualche fenomeno che non sono in grado di derivare, lo lascio stare come problema, e nella mia lunga vita ho trovato molto vantaggioso un simile modo di procedere: infatti, ogni volta che non riuscivo a risolvere l’enigma dell’origine e della connessione di un qualche fenomeno, ed ero costretto a lasciarlo da parte, accadeva che anni dopo ogni cosa mi si chiarisse d’un tratto nel contesto più bello. Mi prenderò dunque la libertà di esporre storicamente, tra le pagine che seguono, le esperienze e le osservazioni che ho condotto finora, nonché il modo di sentire che da esse scaturisce; in tal modo mirerò almeno ad esprimere una caratteristica professione di fede, che si mostri agli avversari, incoraggi chi concorda con me, serva alla conoscenza dei posteri e, se mi riesce, giunga ad un qualche equilibrio.

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Sull’esigenza di illustrazioni di argomento storico-naturale in generale e osteologico in particolare242

[Da un saggio di d’Alton] Se è vero che, ogni volta che alla base dell’esposizione verbale si trova una determinata immagine delle forme, si riconosce l’esigenza di una riproduzione figurata, occorre notare che le illustrazioni sono particolarmente indispensabili nei casi in cui determinate forme sono poste a confronto tra loro, e dalla differenza tra la struttura esteriore si deve mostrare e dedurre un’intima identità, o viceversa, in una generale concordanza strutturale si devono evidenziare e derivare le differenze tra le singole forme. L’esposizione verbale si limita, poi, soltanto alle concezioni e al punto di vista di chi osserva, a partire dal quale esamina gli oggetti; al contrario, delle buone illustrazioni consentono anche ad un osservatore unilaterale di formulare delle proprie comparazioni, particolari e generali. L’esposizione descrittiva è sufficiente da sola finché il discorso verte attorno a forme generali in rapporto ad altre note, oppure finché occorre definire il significato e le funzioni delle parti e riconoscerli in virtù delle loro proprietà. In tal caso anche delle illustrazioni imperfette possono risultare utili. Ma se la funzione delle parti e il diverso significato che assumono si devono dedurre solo dalla forma stessa, come accade nelle comparazioni osteologiche, allora si può dimostrare la correttezza delle deduzioni unicamente grazie a un’illustrazione fedele. Tuttavia, poiché in questo caso le immagini prendono il posto della natura medesima, per potersi affermare esse devono contrassegnare la loro validità mediante la verità naturale, vale a dire mediante caratteristiche che recano in sé il segno della propria autenticità. Ma poiché qui la correttezza della comparazione presuppone la perfezione del disegno, e anzi la capacità di comparare si fonda in

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certo senso sulla capacità di disegnare, è indispensabile che ciascun naturalista disponga di una perfetta conoscenza di luci e ombre, di prospettiva lineare e aerea, visto che senza un pieno possesso di tali conoscenze non si possono effettuare delle osservazioni corrette al microscopio (dal momento che queste ultime non consentono di persuadersi toccando con mano i loro oggetti), né si è in grado di giudicare correttamente alcun tipo di immagini. La conoscenza più perfetta delle leggi del vedere, che in questo caso permettono di riconoscere la natura dei fenomeni, e che costituiscono il mezzo tramite il quale le cose parlano ai nostri sensi allo stesso modo in cui si sono sviluppate grazie ai loro sensi rivolti al mondo esterno, non può essere considerata e trascurata nello studio della natura come una mera e inessenziale esteriorità, poiché noi siamo in grado di concepire l’interno solo nella sua apparenza esterna, come, di contro, anche l’arte più elevata non può mai raggiungere il suo scopo, quello di dar vita alla sua rappresentazione, imitando semplicemente una forma morta, se non è in grado di comprendere nell’intimo il significato delle forme. Per corrispondere agevolmente a tale esigenza243, consigliamo ai naturalisti poco esperti nel disegno di impiegare, per gli oggetti di piccole dimensioni, la camera lucida, per cui si può usare con il massimo risultato la lamina d’acciaio più piccola, mentre per gli oggetti più grandi consigliamo la camera clara244. Ma per oggetti di grandi dimensioni, che si possono abbracciare con lo sguardo solo ad una certa distanza, sarebbe preferibile, tra gli altri dispositivi, una cornice ricoperta da una rete di fili e una tavola da disegno provvista di una visiera fissa, su cui i quadrati per disegnare, corrispondenti alla cornice reticolata, sono tracciati in grandezze variabili a piacere. È appena il caso di menzionare il fatto che qui si assume che l’oggetto sia collocato perfettamente dietro la cornice. Disegnare animali direttamente dal vivo è impresa che può riuscire solo ad una mano esperta. A chi sia meno esperto può servire, per un’esecuzione agevolata del disegno dal vivo, un abbozzo realizzato seguendo un’illustrazione.

[predatori e ruminanti illustrati, descritti e comparati dal dr. e. d’alton] Dunque, mentre il maestro esprime ciò che esige da se stesso e dai suoi pari, istruendo in pari tempo con indulgenza i più giovani aspiranti di questa scienza, e fornendo loro, anzi raccomandando loro, strumenti tecnici, noi consideriamo entrambi i suoi più recenti quaderni con rinnovata ammirazione,

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e se dovessimo riassumere in parole il nostro plauso, sapremmo unicamente ripetere ciò che abbiamo detto su quanto precede. Vediamo come qui i predatori e i ruminanti siano trattati alla stessa stregua del megaterio e dei pachidermi. L’artista si sostituisce alla natura e, ciò che in questo caso importa ancora di più, si sostituisce ai musei, e ci offre la conoscenza dei loro tesori, diffusi e dispersi in larga parte del globo. Possa il riconoscimento di meriti così grandi essere sempre presente a quest’uomo infaticabile nei suoi ulteriori lavori. Il fantasma della forma esteriore, già introdotto nel caso dei pachidermi, diventa significativo anche nei ruminanti, ma al massimo grado interessa gli animali carnivori, poiché la crescita di peli su tutte le parti del corpo si esprime in base al loro carattere più diverso, e al contempo funge da base e da sfondo per lo scheletro. Un simile lavoro continuerà ad influenzare profondamente l’arte e la scienza, ma noi ci limitiamo qui a toccare solo una delle sue molteplici considerazioni. Già nel primo volume della Morfologia, a pagina 348245, abbiamo preso in esame il profilo del maiale etiopico (I pachidermi di d’Alton, Tab. XII, fig. b) e considerato le cavità oculari sporgenti, nella loro collocazione mostruosa, contro l’occipite, come un segno del carattere selvaggio e rozzo della creatura. Questo avveniva nell’occasione in cui dovevamo parlare del cranio di un toro preistorico, in cui le capsule oculari apparivano molto più prominenti e innalzate rispetto al caso del grande bue ungherese addomesticato; l’arte figurativa ci ha offerto un caso affine. Sulla testa di cavallo dei marmi di Elgin, uno dei più magnifici resti del periodo artistico più alto, si nota che gli occhi sporgono liberamente e si spingono contro l’orecchio, di modo che i due sensi, la vista e l’udito, sembrano operare direttamente insieme, e con un movimento molto ridotto la sublime creatura è in grado sia di udire che di guardare dietro di sé. Essa ha un aspetto talmente possente e spirituale che sembra formata in contrasto con la natura, e tuttavia, secondo quell’osservazione, l’artista ha creato realmente un cavallo preistorico, sia che l’abbia visto con i suoi occhi, sia che l’abbia solo concepito con la mente; a noi sembra, quantomeno, che sia stato rappresentato nel senso della più alta poesia e realtà.

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Il cavallo veneziano non può che perdere in effetti il confronto con quello del Partenone, e precisamente per il fatto che il suo occhio si allontana in misura maggiore dall’orecchio e dall’occipite, benché non lo pensiamo così piccolo come invece lo immagina il pittore inglese Haydon nella sua Comparaison entre la Tête d’un des Chevaux de Venise et la Tête du Cheval d’Elgin du Parthenon, London 1818246. Ma per giudicare se sia corretta la sua affermazione secondo cui il cavallo ateniese concorderebbe, nelle sue parti principali, con gli autentici cavalli arabi di razza, auspicheremmo di essere confortati dal signor d’Alton, il giudice più competente. Se si dovesse rileggere ciò che noi stessi abbiamo scritto a proposito di queste due teste di cavallo in Kunst und Altertum, B. II, H. 2, pag. 93, lo si troverà altrettanto applicabile al caso qui in esame. Attualmente in Germania sono presenti così tanti calchi in gesso di questo inestimabile reperto che gli appassionati d’arte, di natura e di antichità potranno certamente procurarsene un esemplare da osservare. Tra le persone ragionevoli non potrà sorgere dubbio alcuno sul fatto che esso ci abbia comunicato un nuovo concetto di arte e di natura.

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[Riflessione generale]247

Un’importantissima riflessione suscitata dalla storia della scienza ci suggerisce che dai primi passi di una scoperta derivano e penetrano nel cammino del sapere alcuni elementi che ne ostacolano il progresso, e spesso addirittura lo arrestano. L’occasione della scoperta è certo estremamente importante, e gli inizi forniscono motivi per formulare denominazioni, che in sé e per sé non sono dannose. L’elettricità ha ricevuto il suo nome da Bernstein, e con piena ragione; ma poiché in tal modo a Bernstein è stata attribuita questa proprietà, è dovuto passare molto tempo perché infine gli si accostasse e contrapponesse il vetro. Dunque, ciascuna via lungo la quale giungiamo a una nuova scoperta influenza le nostre concezioni e teorie. A stento possiamo trattenerci dal pensare che ciò che ci ha guidato ad un fenomeno coincide anche con l’inizio e la causa di quest’ultimo; e ci ostiniamo a insistere su tale idea, invece di avvicinarci ad essa dal lato opposto mettendo alla prova la nostra concezione iniziale, per ottenere una comprensione complessiva. Cosa diremmo di un architetto che sia giunto ad un palazzo per una porta laterale e in seguito, descrivendo e raffigurando tale edificio, voglia riferire ogni suo elemento a quel suo primo lato subordinato? Eppure questo accade nelle scienze ogni giorno. Nella storia siamo costretti ad ammetterlo, ma per noi è difficile confessare che siamo ancora avvolti da simili tenebre.

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Tavola che raffigura la natura organica nella sua distribuzione sulla Terra, dipinta da Wilbrand e Ritgen, in Giessen248

L’abbiamo già elogiata nell’ultimo quaderno, anche se solo cursoriamente, e visto che finora l’abbiamo lasciata sempre attaccata alla parete, possiamo tornare ad esporre compiutamente, lodandola ancora, la sua proprietà di porgere un bellissimo ausilio per ogni osservazione della terra e della natura. Infatti diverse altre persone, stimolate dalla vista di una tavola così significativa, hanno espresso il desiderio di possedere un esemplare analogo. Ora tuttavia questa immagine si trova in commercio soltanto priva delle miniature, e in tale versione si rivela insufficiente per l’osservatore, in quanto solo il colore è in grado di distinguere le varie relazioni caratteristiche. Sottopongo dunque questo aspetto alla riflessione dei due valenti autori di questa importante opera, chiedendo loro se non sia possibile organizzare una sottoscrizione per realizzare esemplari miniati. In effetti, un qualunque altro genere di colorazione, pur precisa, potrebbe risultare gravoso all’editore. Speriamo che da tale suggerimento si possa riconoscere la nostra buona volontà e la nostra attenzione riconoscente. Nell’osservazione di questa grande tavola, simbolica e laconica, ci soccorre infatti propriamente un’opera nuova realizzata con gran cura, ragion per cui la teniamo sempre vicina.

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Friedrich Siegmund Voigt, consigliere aulico e professore a Jena: Sistema e storia della natura, Jena 1823

Essendo stati per così tanti anni testimoni dell’impegno instancabile che l’autore ha profuso nelle sue ricerche sul magnifico regno naturale, ci rallegra vedere pubblicato un risultato così rilevante dei suoi studi e della sua riflessione. E in ciò che segue non potremo certo tacere il vantaggio che ne abbiamo tratto, e che al momento attuale si rivela già considerevole, visto che non solo la visione complessiva ci ha suscitato una serie di riflessioni, ma anche nei singoli passaggi consultati a seconda delle nostre esigenze, quest’opera ci ha istruito in modo sintetico e conciso, sicché, là dove trovavamo necessario procedere oltre, ci sentivamo sempre incoraggiati da citazioni appropriate e precise. Ora, poiché molti appassionati della natura attingeranno, da quest’opera così ricca, informazioni, ricordi, ausilii, accenni ed ogni altro effetto positivo che si possa richiedere ed attendere da un manuale, in base alle loro esigenze, non dubitiamo che molti si troveranno nella nostra stessa condizione e tenderanno a nutrire un sentimento di riconoscenza nei confronti del benemerito autore.

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Sul luppolo e la sua malattia, detta fuliggine249

In riferimento al manuale di botanica di Schkuhr, quarta parte, pagina 263 e tavola 326. Il luppolo, Humulus lupulus, è una pianta dicotiledone; l’infiorescenza maschile, in forma di una delicata pannocchia, non contribuisce affatto all’utilità della pianta, e i tralci vengono estirpati; le infiorescenze femminili invece si trovano in forma di amento attorno ad un asse floreale. I suoi semplici sepali producono in basso, nella pagina posteriore, una quantità di granelli di polvere gialla e grassa, dall’aroma amaro e molto profumato, chiamato farina di luppolo. È questo appunto l’ingrediente amaro della birra, cui di recente è stata rivolta particolare attenzione e che è denominato luppolina. Soprattutto in Boemia, e in particolare anche a Falkenau, il luppolo è coltivato intensamente e in quegli stessi luoghi io ho appreso quanto segue: Il luppolo è esposto al rischio di una crescita anomala, causata da una sorta di fenomeno composto di gocciolamento e polverizzazione. Una tale cancrena, dannosissima per la vita vegetale, è designata con il nome di fuliggine e si manifesta in due modi, chiamati rosso (o anche fuliggine di fuoco) e nero. La malattia dei viticci si mostra all’inizio dal colore verde brillante delle foglie (dovuto a essudorazione e gocciolamento), ma in un secondo tempo, sulla pagina inferiore e anche su quella superiore si presenta una polvere nera che perde il colore. Innumerevoli afidi250 compaiono come correlati. Se la fuliggine si presenta in uno stadio precoce, allora nuoce alla crescita dell’amento, se compare più tardi invece non lo

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danneggia, e questo deriva dalla natura: in quest’ultimo caso, infatti, la foglia ha già compiuto il suo dovere di organo preparatorio e la gemma è già spuntata vigorosamente. Ma affinché una simile malattia non rechi danno alla crescita futura, si estraggono le stanghe dai viticci, senza potarli, ma lasciandoli piuttosto giacere al suolo, dopo aver raccolto gli amenti, probabilmente perché in questo modo si possa conservare un tratto vivo del viticcio intaccato e guadagnare una produzione. Le domande che seguono possono indurre delle riflessioni generali: 1) Un’essudorazione simile si presenta anche in piante maschili? 2) Si presenta nella pianta femminile del luppolo selvatico, oppure è unicamente caratteristica della pianta femminile del luppolo coltivato con cura? Io sospetterei che si tratti di quest’ultima ipotesi. La pianta in sé è una creatura molto vitale che si riproduce velocemente, come si può notare già dall’innumerevole e rapida produzione di germogli, e dall’abbondanza di fiori. La cosiddetta farina di luppolo, allo stato normale e conforme alla natura, allude già ad un’eccedenza di succhi e di energie. Ora, è possibile che una qualche condizione atmosferica intensifichi troppo questa interna ricchezza, che apparirebbe dunque in primo luogo come un rivestimento lucente, per poi infine manifestarsi come una polvere malsana, di cui i nostri amici, che hanno esplorato questo regno misterioso e pressoché invisibile, possono fornirci i migliori ragguagli. 3) Dove si tratta della luppolina251?

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I lepadi252

Le profonde e feconde comunicazioni del dr. Carus253 hanno per me grandissimo valore; mi illuminano infatti su una regione dopo l’altra dello sconfinato regno della natura, in cui nella mia vita mi sono mosso guidato più dalla fede e dall’intuizione che non dall’osservazione e dalla conoscenza, e ora scorgo nel particolare ciò che ho pensato e sperato in generale, e addirittura alcune cose trascendono anche ogni pensiero e speranza. In questo trovo la maggiore ricompensa per un agire fedele, e spesso mi rasserena vedermi ricordato qui e là a proposito di dettagli che avevo afferrato fuggevolmente e poi abbandonato, nella speranza che avrebbero trovato prima poi un vivido collegamento. Questi quaderni sono appunto la sede adatta per ripensarli a poco a poco. Espongo alcune considerazioni sui lepadi, così come le trovo tratteggiate tra le mie carte. Tendiamo ragionevolmente a ritenere individui tutti i molluschi dotati di una conchiglia bivalve, che nelle sue pareti li isola dal resto del mondo; ed è in tal modo che questi molluschi vivono, eventualmente si muovono, si nutrono e infine si estinguono. La Lepas anatifera, la cosiddetta lepade ad anatra, ricorda da vicino, con i suoi due gusci principali, una bivalve; ma ben presto ci accorgiamo che si tratta in questo caso di una pluralità di individui: notiamo altri due gusci di supporto, necessari a rivestire questa creatura con molti arti, e scorgia-

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mo, nel punto di chiusura, un quinto guscio, destinato a dare all’insieme un sostegno che funga da colonna vertebrale e da connessione. Ciò che si è detto qui risulterà chiaro a chi abbia davanti a sé l’anatomia di questa creatura come delineata da Cuvier nelle Mémoires du Muséum d’Histoire naturelle 254, tomo II, p. 100. Ma in questo caso vediamo un essere non isolato, bensì collegato ad un peduncolo o tubo, con cui è in grado di attaccarsi alle cose e la cui estremità inferiore si dilata come un utero: un tale involucro, che avvolge l’essere vivente durante la sua crescita, è adatto a proteggerla direttamente dall’esterno con delle essenziali coperture a guscio. Sulla pelle di tale peduncolo dunque si trovano, a distanza regolare e in punti che si riferiscono alla forma interna e a determinate parti dell’animale, cinque punti prestabiliti del guscio che, appena venuti alla luce, continuano ad ingrossarsi fino a un certo grado. Al riguardo un’osservazione ancora più dettagliata della Lepas anatifera non ci fornirebbe ulteriori chiarimenti; invece l’analisi di un’altra specie in cui mi sono imbattuto e che è chiamata Lepas polliceps255 può destare profonde riflessioni generali. In questo caso, infatti, anche se si mostra una medesima struttura generale, la pelle del tubo non è liscia e solo un po’ rugosa come nel caso precedente, ma si presenta scabra, e fittamente disseminata di innumerevoli piccoli punti rotondi in rilievo, che si toccano tra loro. Noi ci prendiamo la libertà di affermare che ciascuno di questi piccoli rigonfiamenti sia stato dotato dalla natura della capacità di formare un guscio e, pensando questo, crediamo effettivamente di vederlo accadere sotto i nostri occhi, con un deciso ingrandimento. Tuttavia simili punti costituiscono dei gusci soltanto in potenza, e non lo diventano in atto finché il tubo mantiene la sua iniziale dimensione sottile e allungata. Ma non appena, all’estremità inferiore, la creatura in crescita estende il raggio del suo ambiente più prossimo, allora i gusci in potenza ricevono uno stimolo a realizzarsi in atto; nella Lepas anatifera sono limitati per regola e numero. In effetti questa legge predomina ancora nella Lepas polliceps, anche se non prevede una limitazione di numero; infatti, dietro i cinque punti principali di sviluppo del guscio nascono ancora dei rapidi gusci secondari, di cui la creatura che cresce

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all’interno ha bisogno come ulteriore ausilio per coprirsi e proteggersi, data l’insufficienza e l’interruzione precoce dello sviluppo dei gusci principali. Ammiriamo qui l’operosità della natura, che riesce a supplire alla mancanza di forze sufficienti moltiplicando le attività. Infatti, dove i cinque gusci principali non giungono fino al restringimento, nascono immediatamente, in tutti gli angoli formati dal loro contatto, delle nuove serie di gusci che, riducendosi gradualmente, formano infine una sorta di minuscolo filo di perle attorno ai bordi della zona dilatata, in cui dunque è impedito del tutto qualsiasi passaggio dalla potenza all’atto. Da ciò riconosciamo che la condizione per un simile sviluppo del guscio concide con lo spazio libero che risulta dalla dilatazione della parte inferiore del tubo; sembra qui, ad una più attenta osservazione, che ciascun punto del guscio si precipiti a divorare i vicini per ingrandirsi a loro spese, e precisamente un attimo prima che si sviluppino. Un guscio già sviluppato, per quanto piccolo, non può essere divorato da uno vicino che si approssimi, poiché tutto ciò che è divenuto si pone in equilibrio rispetto agli altri elementi divenuti. Dunque si vede che la crescita che nella lepade ad anatra è regolare e vincolata da leggi è indotta nel secondo esempio ad avanzare più liberamente, e in tal caso alcuni singoli punti si appropriano del massimo spazio possibile. Occorre notare con ammirazione, anche rispetto a questo prodotto della natura, che perfino dalla regola in certo modo meno rigida non segue nel complesso alcuna confusione: al contrario, i punti principali del divenire e dell’agire, che nella Lepas anatifera si mostrano in modo così mirabilmente deciso e regolare, si possono riscontrare esattamente anche nella polliceps, con la differenza che in quest’ultimo caso si vedono anche a tratti piccole onde rivolte verso l’alto, che si dilatano l’una verso l’altra senza riuscire ad evitare che continuino a formarsene e svilupparsene altre simili dopo di loro, per quanto più limitate e in dimensioni più piccole. Chi avesse la fortuna di osservare al microscopio queste creature nel momento in cui l’estremità del tubo si dilata e inizia lo sviluppo del guscio, si troverebbe davanti uno degli spettacoli più magnifici che l’appassionato della natura possa desiderare. Dato che, in base al mio modo di ricercare, conoscere e godere, devo attenermi unicamente ai simboli256, posso

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affermare che queste creature sono parte di quei luoghi sacri che mi stanno sempre davanti come feticci, e con la loro singolare struttura richiamano alla mente sensibilmente la natura, che tende a ciò che è privo di regola, pur fornendo sempre la regola a se stessa, e somigliando così, nel più piccolo come nel più grande, a Dio e all’uomo.

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Ernst Stiedenroth, Psicologia volta alla spiegazione dei fenomeni psichici257. Prima parte, Berlino 1824

Da sempre ho annoverato tra gli eventi felici della mia vita i casi in cui mi capitava tra le mani un’opera importante che concordava con ciò cui proprio in quel momento erano dirette le mie fatiche, rinsaldando così, e dunque anche incoraggiando, il mio lavoro. Trovavo spesso opere simili traendole dalla superiore antichità; tuttavia quelle che esercitavano un’influenza più decisa erano le opere contemporanee, poiché ciò che ci è più prossimo resta pur sempre quanto c’è di più vivo. Ora, un caso così piacevole mi capita con il libro citato qui sopra. Mi giunge tempestivamente, grazie alla benevolenza dell’autore, e mi si presenta proprio nel momento in cui mi decido a dare infine alle stampe le mie annotazioni su Purkinje258, che avevo preparato già da diversi anni. I filosofi esperti della materia potranno giudicare e valutare quest’opera; io mi limito a comunicare brevemente la mia esperienza. Se si immagina un ramo che, abbandonato ad un ruscello in lieve pendenza, segua la sua via, per necessità e spontaneamente allo stesso tempo, trattenuto forse per qualche istante da una pietra, o rimanendo per un certo tempo fermo in un’ansa, ma restando pur sempre costantemente nella corrente, sospinto vivacemente dalle onde, allora ci si potrà figurare in che modo questo scritto così conseguente e fecondo abbia agito su di me. L’autore capirà benissimo cosa intendo dire con questo:

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già in precedenza, infatti, ho espresso in alcuni luoghi il malumore che mi suscitava in anni recenti la teoria delle forze psichiche superiori e inferiori 259. Nella mente umana, così come nell’universo, non vi è nulla di superiore o inferiore, ma ogni cosa esige uguali diritti rispetto ad un punto centrale comune, che manifesta la sua essenza misteriosa proprio mediante la relazione armonica tra tutte le parti. Tutte le controversie degli antichi e dei moderni fino ai giorni nostri scaturiscono dalla separazione di ciò che Dio ha creato come unità nella sua natura. Sappiamo bene che solitamente in singole nature umane si evidenzia una prevalenza di una qualche facoltà o di un qualche talento, da cui inevitabilmente derivano delle unilateralità di concezioni, poiché l’uomo conosce il mondo solo attraverso se medesimo e dunque, con l’arroganza dell’ingenuo, crede che il mondo sia stato costruito da lui e per lui. Ne discende allora che egli pone le sue capacità principali al vertice del tutto, mentre intende negare del tutto ed espellere dalla propria totalità ciò che in lui si rivela inferiore. Chi non si persuade del fatto che l’uomo deve sviluppare tutte le manifestazioni della sua natura, sensibilità e ragione, immaginazione e intelletto, in un’unità ben salda, che sia anche per lui la proprietà predominante tra tutte le altre, non potrà che tormentarsi ininterrottamente in uno stato di spiacevole limitazione, e non comprenderà mai perché abbia così tanti e tenaci avversari, né perché si trovi talvolta a urtare perfino contro se stesso quale avversario momentaneo. In tal modo un uomo nato ed educato per dedicarsi alle cosiddette scienze esatte, all’apice della sua energia intellettuale, non comprenderà facilmente che può esistere anche una fantasia sensibile esatta260, senza la quale non è propriamente pensabile nessuna forma d’arte. Attorno allo stesso punto si scontrano anche i seguaci di una religione del sentimento e della ragione: se i secondi non vogliono ammettere che la religione prende le mosse dal sentimento, i primi non intendono concedere che essa debba svilupparsi fino a raggiungere un certo stadio di razionalità. Queste ed altre riflessioni simili mi sono state suscitate dall’opera che ho menzionato qui sopra. Chiunque la legga ne riceverà a suo modo dei vantaggi, e posso aspettarmi che, ad un’analisi più attenta, mi fornirà ancora spesso l’occasione di stendere alcune felici annotazioni.

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Trascrivo qui un passo in cui l’ambito del pensiero è collegato direttamente al campo della poesia e della creazione artistica, in cui abbiamo gettato qualche sguardo già in precedenza: Da quanto precede risulta che il pensiero presuppone la riproduzione. Quest’ultima si regola in base alla rappresentazione, secondo la forma determinata che essa assume ogni volta. Dunque un pensiero corretto presuppone da un lato una determinatezza abbastanza netta della rappresentazione presente, dall’altro ricchezza e adeguata connessione dell’oggetto da riprodurre. Una simile connessione dell’oggetto da riprodurre, che sia adatta al pensiero, è a sua volta in gran parte istituita anzitutto nel pensiero stesso, nella misura in cui, tra una pluralità di elementi, quello corrispondente stipula un legame particolare grazie alla relazione più stretta del suo contenuto. La correttezza del pensiero, ad ogni modo, dipenderà quindi interamente dalla capacità di rendere la riproduzione conforme allo scopo. Chi, a tale riguardo, non ha accumulato nulla di buono non produrrà nulla di buono. Chi realizza delle riproduzioni misere mostrerà povertà di spirito, chi ne realizzerà di unilaterali penserà in modo unilaterale, chi realizzerà delle riproduzioni disordinate e confuse farà sentire la mancanza di lucidità, e così via. Dunque il pensiero non si crea dal nulla, ma presuppone una preparazione sufficiente, una connessione preliminare e, nei casi in cui si tratta di pensiero in senso più stretto, una connessione corrispondente all’oggetto e un certo ordine delle rappresentazioni; si comprende quindi in tutta evidenza quanto sia indispensabile la completezza. Stiedenroth, Psychologie, pag. 140.

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Specimen anatomico-pathologicum inaugurale de labii leporini congeniti natura et origine, auctore Constant. Nicati261, 1822

Sebbene attualmente la maggior parte degli anatomisti non ponga più in dubbio il fatto che negli embrioni si trovino ossa intermaxillaria (come Goethe si era impegnato a dimostrare già nel 1786), tuttavia ci sono ancora alcuni scrittori che non riescono ad esserne persuasi; a costoro sono destinate allora le spiegazioni, tratte dalla più fedele osservazione della natura e impiegate a dimostrazione della giustezza di quella supposizione, che l’autore adduce con chiarezza e piena competenza della materia, aggiungendo anche una precisa descrizione dell’osso intermedio, illustrata da un disegno molto istruttivo. (Si veda la Jenaische allgem. Literat. Zeitung, 1823, No. 175262.)

Nella prima parte della Morfologia, alle pp. 199 sgg.263, ho trattato in modo circostanziato il tema dell’osso intermascellare, e in conclusione spero si accolga con favore il fatto che inserisco qui un passo che potrà dirimere infine la questione. È notevole che anche in questo caso ci siano voluti quasi quarant’anni per vedere riconosciuto con schiettezza e favore un enunciato semplice, per nulla appariscente e tuttavia ricco di conseguenze. Non ho nient’altro da dire su questo punto, ed esprimo con piacere la speranza di vedere impiegati di buon grado alcuni dei molti disegni preparati per questo scopo264, grazie alla gradita attività della stimata società per lo studio delle scienze naturali, che attualmente ha sede a Bonn. Molto spesso, nel corso della mia vita, sono stato costretto

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a sentirmi rimproverare non solo dalla cerchia consueta dei miei conoscenti, ma anche da uomini molto autorevoli, per il fatto che sono incline a dare troppo valore e importanza a questo o quell’evento quotidiano, o ad un qualunque accadimento naturale. Malgrado ciò, non mi sono mai lasciato fuorviare, poiché sentivo chiaramente di trovarmi ad un punto cardine, da cui ci si poteva aspettare molto e molto si poteva anche realizzare, e il successo ottenuto non mi ha ingannato. Così è avvenuto per la storia della collana265, per l’osso intermascellare e in diverse altre occasioni, fino a tempi molto recenti.

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La struttura del cranio costituita da sei vertebre266

Il riconoscimento della presenza dell’osso intermascellare anche nell’uomo è stato di così grande importanza in quanto al contempo si è ammessa anche la conseguenza del permanere del tipo osteologico attraverso tutte le forme. Analogamente, una volta che è stata accettata l’ipotesi secondo cui la struttura del cranio è costituita di vertebre, ciò ha implicato importanti conseguenze, poiché in tal modo risultava assicurata anche l’identità di tutte le particolarità del tipo, per quanto conformate in modo ben definito. In ciò risiedevano i due punti principali dalla cui comprensione e applicazione dipendeva tutta la considerazione delle nature organiche. Nella seconda parte della Morfologia, a pag. 50267, si trova una confessione: vi si racconta cioè del modo in cui sono stato indotto ad osservare e a riconoscere nel cranio dapprima tre, quindi sei vertebre. In ciò ho trovato la speranza e la possibilità di giungere alla massima tranquillità, ho ponderato il più possibile lo sviluppo di quest’idea nel dettaglio, ma non sono tuttavia riuscito a procurare nulla di efficace. Infine ne parlai in confidenza a degli amici, che hanno concordato prudentemente, seguendo a loro modo le mie considerazioni. Nel 1807268 questa teoria è giunta al pubblico in modo tumultuoso e incompleto, e non le sono certo mancate molte opposizioni e qualche approvazione. Quanto l’abbia danneggiata la forma prematura con cui è stata esposta potrà chiarirlo in futuro la storia; ma l’effetto di gran lunga peggiore si è esercitato su un’opera molto pregiata e valida269, e questa sventura

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si manifesterà purtroppo con sempre maggiore evidenza negli anni che seguiranno. Al momento però mi resta solo il piacere di essere testimone dell’impegno progressivo e puro con cui il Dr. Carus 270 persegue l’indagine dell’intero edificio della natura organica, e avrà la fortuna e la gioia di iniziarci ai suoi misteri. Ho davanti a me delle stampe di prova delle lastre destinate all’opera che egli ha intrapreso, e inoltre una grande tabella dell’intera struttura organica degli animali più evoluti, che mostra poi in particolare lo sviluppo genetico del cranio come esito di una formazione complicata e problematica. Qui mi sento adesso per la prima volta pienamente tranquillo, attendo con fiducia gli ulteriori sviluppi, e vedo assicurata per sempre l’idea principale così densa di implicazioni, poiché qui l’esposizione condotta isolando i singoli oggetti rinvia comunque sempre all’insieme e non può suddividere senza riunire poi di nuovo i vari elementi, rivelando, nell’accordo generale, gli aspetti più diversi. Avvengono qui le più elevate operazioni mentali, al cui esercizio e potenziamento siamo sempre chiamati.

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Secondo toro preistorico271

Nel primo volume della Morfologia, a pag. 342272, ci siamo occupati di un toro fossile che nella primavera del 1821 era stato rinvenuto durante gli scavi nella torbiera nei pressi di Haßleben, in Turingia. A metà dell’estate del 1823 si scoprirono nuovamente dei resti di una creatura simile. Inseriamo qui il resoconto con cui questi resti, non particolarmente significativi, sono stati inviati dallo scrupoloso funzionario: Lo scheletro giaceva a 6 piedi di profondità, sparso nell’argilla o galestro, e non in un punto ben circoscritto, per cui posso indicare un’estensione di 8 piedi quadrati; nel luogo in cui giacevano i frammenti della testa era sorto a quanto parte un fusto di quercia. Alcuni cocci di argilla cotta giacevano alla stessa profondità e a una distanza di 4 o 5 piedi; le corna erano state forate, dato che si erano già trasformate in torba. Le relative tracce di ceneri e carboni sono state rinvenute ad una profondità di 5 piedi, su argilla e sabbia bianca.

Si dovrebbe dunque dedurre che ci troviamo di fronte alle testimonianze del periodo preistorico di una qualche civiltà che usava offrire in sacrificio simili enormi creature, come del resto potrebbe indicare anche la presunta quercia, contrassegno di uno spazio sacro. Il fatto che la torba sia cresciuta così tanto in un avvallamento può essere assunto come un fenomeno pienamente conforme alla natura; tuttavia noi ci tratteniamo dal delineare ulteriori deduzioni, anche se probabilmente questo evento concorda felicemente con altre esperienze, riu-

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scendo a rischiarare le regioni oscure della storia con un pur debole bagliore. Per il resto, chi intendesse chiarirsi completamente le idee su questo argomento, potrebbe consultare le Recherches sur les Ossements fossiles di Cuvier, Nouvelle Edition, Tome IV, p. 150, in cui si trova il secondo degli articoli dedicati ai crani rinvenuti durante gli scavi, che sembrano appartenere al genere bovino, ma superano di gran lunga le dimensioni del nostro bue domestico, le cui corna hanno anche una direzione totalmente diversa. Se poi si vorrà analizzare la tavola 11, in cui le figure 1, 2, 3 e 4 rappresentano un cranio in tutto simile al nostro e a quello illustrato da Körte, non ci sarà molto da aggiungere al riguardo, almeno fin quando, come ci auguriamo, non avremo la fortuna, visitando il dottor d’Alton, di fornire una esatta descrizione dell’intero scheletro di un simile toro originario, esposto a Jena. Ne risulterà allora qualche conclusione definitiva anche riguardo alle ossa fossili che si trovano in primo luogo nella città di Weimar, e in non minor misura nei dintorni, in particolare nelle zone tufacee.

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Osteologia comparata273

a) ossa pertinenti all’apparato uditivo 274 Antica suddivisione, in cui era descritta come una parte (pars petrosa) dell’os temporum. Svantaggi di questo metodo. Suddivisione successiva, in cui si separava la pars petrosa dall’os temporum, descrivendola come os petrosum. Non sufficientemente precisa. La natura ci mostra un terzo tipo di suddivisione, grazie alla quale soltanto siamo in grado di giungere ad un concetto chiaro, vista la grande complessità delle parti. In base ad essa, l’os petrosum consiste di due ossa dal carattere diversissimo, e da considerare con particolare attenzione: la bulla e l’os petrosum proprie sic dicendum. Abbiamo già separato del tutto da esse l’osso temporale, e abbiamo già descritto anche l’osso occipitale; inseriamo ora le ossa che contengono gli organi dell’apparato uditivo nell’apertura che si trova tra l’osso temporale e quello occipitale. Distinguiamo qui: I) Bulla e II) Os petrosum. Essi sono collegati tra loro: a) per concrescenza, b) per l’estensione del processus styloideus, c) oppure per entrambe le cause. Sono collegati all’os temporum e all’os occipitis. Numerose figure.

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I) Bulla. In essa occorre notare: a) meatus auditorius externus, collum, orificium bullae. I) Collum, condotto, Molto lungo nel maiale, si riduce nel bue, si riduce nel cavallo, si riduce nella capra e nella pecora. Può essere definito orificium se l’apertura assomiglia solo ad un anello. Nel gatto, nel cane. Concresciuto con la bulla, mostra tuttavia una traccia di separazione. ? giovani gatti, cani. Nell’embrione umano, in cui l’anello è ben visibile e separato. Nell’essere umano adulto diventa un canale ricoperto dall’osso temporale. Si può dunque pensare il meatus audit. externus come un canale rivolto verso l’alto o all’indietro, e in altri casi come un anello rivolto verso l’alto o all’indietro. Il canale si chiude negli animali sopra menzionati, e tuttavia è notevole il fatto che il margine rivolto in avanti sia sempre il più forte. L’anello si chiude anch’esso verso l’alto, e si nota che l’estremità che si collega anteriormente è parimenti la più forte. Tale meatus audit. externus si collega all’esterno con le parti tendinee e cartilaginee dell’orecchio esterno, e all’interno con la bulla, e qui presenta sempre un margine, un limbum, più o meno ripiegato all’indietro, a cui si accosta la membrana del timpano che chiude l’orecchio interno. b) la bulla stessa. Merita pienamente tale nome: Nei gatti, nella lince. Possiede la minima quantità possibile di materia ossea (fa eccezione il Lapis manati), è rotonda e come fosse gonfiata, senza impedimenti causati dalla pressione esterna. Da essa si diparte solo un processus, delicato e appuntito, che si connette ai più vicini tendines. Cane. Nelle pecore e negli ovini

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Presenta già una forma a sacco, e tuttavia possiede ancora poca materia ossea, è sottile come un foglio di carta, e liscia internamente. Il processus styloideus preme su di essa dall’esterno. Da questo sacco si dipartono a raggiera dei processus, che sono collegati ai tendines. Nei cavalli La bulla è ancora abbastanza sottile, ma è influenzata dal processus styloideus. Alla sua base passano dei setti (dissepimenta) a forma di mezzaluna, formando dall’alto delle piccole celle aperte. Forse deve essere separata dall’os petrosum nei puledri. Nei buoi. II) Os petrosum. a) pars externa è posta tra l’os temporum e l’os occipitis. Fissata ad incasso. (Talvolta è molto ridotta, ad esempio nei maiali.) Da essa si stacca il processus styloideus. Presenta una massa ossea non molto salda, ma piuttosto cellulosa in certi casi. b) pars interna. I) facies cerebrum spectans Accoglie i nervi che provengono dal cervello. Il margine è collegato al tentorius cerebelli ossificato. Foramina a) inferius, constans, necessarium, pervium. b) superius, accidentale, coecum. 2) facies bullam spectans. Foramina. Rialzi e incavi. Non appena tali parti siano state analizzate singolarmente, descritte e confrontate, occorre determinare cosa risulti dalla loro composizine e connessione. Lo spazio tra la bulla e l’os petrosum. Atrio. Il processus mastoideus dell’os temporum e della pars externa ossis petrosi non può essere paragonato alla bulla cellulosa e in forma di capezzolo propria di animali come i maiali. Negli animali non si presenta. Sua collocazione, suo carattere. Il capezzolo degli animali si trova al di sotto del meatus auditorius externus.

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Sotto il processus styloideus, quando è presente, si trova la continuatio inferiore della bulla. Il proc. mast. si collega solo anteriormente e lateralmente con l’os interno. Occorre studiarlo con precisione. [b] ulna e radio 275 Se si considera in generale la formazione di queste due lunghe ossa, si nota che la forza maggiore dell’ulna è rivolta verso l’alto, nel punto in cui si collega, tramite l’olecrano, all’omero; la forza maggiore del radio è invece rivolta verso il basso, nel punto in cui si connette al carpo. Se nell’uomo le due ossa sono giustapposte mediante supinazione, e dunque l’ulna giace all’interno rivolta verso il corpo, mentre il radio si trova all’esterno, negli animali invece, in cui tali ossa rimangono ferme nella pronazione, l’ulna si trova rivolta verso il basso e all’indietro, il radio in avanti e verso l’alto; entrambe le ossa sono separate, formate secondo un certo equilibrio e molto agili. Nelle scimmie sono lunghe e flessibili e, al pari di tutte le altre ossa di questi animali, possono essere ritenute in generale sproporzionatamente lunghe e sottili. Nei carnivori sono fini, proporzionate e mobili, e possono essere agevolemente ordinate in una sequenza graduale in cui il genere felino può senz’altro affermare la propria preminenza. Nel leone e nella tigre mostrano una struttura molto bella e slanciata, nell’orso sono già più larghe e pesanti. Cane e lontra si possono caratterizzare in modo particolare; tutti presentano però una pronazione e una supinazione più o meno mobili e fini. Ulna e radio sono inoltre separati anche in altri animali: nel maiale, nel castoro e nella martora, salvo che mostrano comunque una vicinanza molto stretta e sembra siano inseriti l’uno nell’altro tramite dei legamenti o talvolta addirittura tramite una concatenazione, al punto che li si potrebbe considerare quasi immobili. Negli animali fatti per stare in piedi, camminare o correre è il radio a prevalere, divenendo il fulcro, mentre l’ulna si limita a fungere da articolazione rispetto all’omero. Il suo fusto si indebolisce e si appoggia al radio solo nel lato posteriore e verso

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l’esterno; si potrebbe chiamare con ragione anche fibula. La si trova così nel camoscio, nell’antilope e nel bue. Talvolta le due ossa possono anche concrescere, e ne ho visto un esempio in un vacchio caprone. In tali animali il radio mostra già un doppio collegamento con l’omero, tramite due superfici articolari simili a quelle della tibia. Nel cavallo le due ossa sono concresciute insieme, e tuttavia si può notare ancora, al di sotto dell’olecrano, una piccola separazione e un interstizio tra le due ossa. Infine, nei casi di animali dalla massa corporea molto pesante, che devono sostenere grandi carichi, essendo destinati a stare in piedi, camminare e al massimo correre, le due ossa concrescono senza quasi lasciare traccia, come nel cammello. Si vede come il radio acquisti una preponderanza sempre maggiore, mentre l’ulna diventa un mero processus anconaeus del radio, mentre il suo fragile fusto concresce secondo la legge nota. Ricapitoliamo quanto si è detto in ordine inverso: le due ossa sono concresciute insieme e semplici, forti e pesanti, quando l’animale deve sostenere un peso considerevole e può principalmente stare in piedi o camminare. Se la creatura è invece leggera, corre e salta, allora le due ossa si mostrano sì separate, ma l’ulna ha dimensioni ridotte, ed entrambe sono fissate reciprocamente e immobili l’una rispetto all’altra. Se l’animale afferra e manipola, sono separate, più o meno distanti tra loro e mobili, fino al grado in cui, nell’uomo, la completa pronazione e supinazione consentono i movimenti più fini e agili. [c] tibia e fibula Mostrano una relazione reciproca simile a quella che sussiste tra ulna e radio; tuttavia, occorre notare quanto segue. Negli animali che si servono in vari modi delle zampe posteriori, come ad esempio la foca, queste due ossa non hanno dimensioni molto diverse rispetto a quelle che assumono in altre specie. Certo, anche in questo caso la tibia resta sempre l’osso più forte, ma la fibula le si avvicina, ed entrambe si articolano con un’epifisi, e quest’ultima a sua volta con il femore. Nel castoro, che rappresenta una creatura del tutto peculia-

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re, tibia e fibula si allontanano al centro formando un’apertura ovale, mentre nella parte inferiore concrescono. Negli animali a cinque dita, carnivori e capaci di saltare con impeto, la fibula si mostra molto sottile, ed è estremamente fine nel leone. Negli animali che saltano con maggiore leggerezza e in tutti quelli che camminano soltanto, la fibula scompare del tutto. Nel cavallo le estremità di quest’osso, le rotondità superiore e inferiore, sono ancora ossee, mentre il resto è tendinoso. Nella scimmia queste due ossa sono, al pari dell’intero suo scheletro, prive di catattere, flessibili e deboli. Per una più attenta comprensione di ciò che si è detto aggiungerò ancora le considerazioni seguenti. Quando nel 1795 portai a compimento il tipo osteologico generale276 secondo la mia impostazione, si destò anche, seguendo tale orientamento, la tendenza a descrivere singolarmente le ossa dei mammiferi. A tale riguardo mi è tornato utile il fatto di aver separato l’osso intermascellare dalla mascella superiore, e analogamente si è rivelato vantaggioso aver riconosciuto l’inestricabile osso dell’ala come un osso doppio, composto di una parte anteriore ed una posteriore. Per questa via allora dovevo certo giungere a separare in diverse parti e in conformità alla natura l’osso temporale, che fino a quel momento non aveva consentito di realizzare alcuna immagine e alcun concetto. Tuttavia, già da molti anni mi ero tormentato invano seguendo la via consueta, e mi chiedevo se non mi si stesse aprendo davanti un’altra strada, forse quella giusta. Ero bensì disposto a concedere che, con tutta la varietà e molteplicità delle opinioni, fosse necessaria, per la teoria osteologica umana, una infinita precisione nella descrizione di tutte le parti di ciascun singolo osso. Il chirurgo deve essere in grado di trovare il punto ferito all’interno del corpo con l’occhio della mente, cui spesso non viene in aiuto neppure il tatto, per cui si vede costretto ad acquisire una sorta di penetrante onniscienza grazie ad una conoscenza rigorosa di ogni singolo dettaglio. Tuttavia, dopo alcuni sforzi vani, mi accorsi che nell’anatomia comparata non è ammesso un simile modo di procedere. Il tentativo di realizzare una simile descrizione (Morfologia, pag. 204277), ci fa apparire subito impossibile la sua applicazione all’intero regno animale, visto che è evidente a chiunque che né la memoria né la scrittura potrebbero rivelarsi capaci di

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cogliere nulla di simile, né l’immaginazione saprebbe richiamare alla mente una descrizione siffatta. Anche un’altra modalità di caratterizzazione e definizione, che si pensava di poter realizzare servendosi di numeri e misure, si è rivelata altrettanto poco utile ai fini di un’esposizione vivace. Numero e misura278, nella loro nudità, annullano la forma e bandiscono lo spirito della viva osservazione. Ho dunque tentato un altro modo di descrivere le singole ossa, considerandole pur sempre in una connessione costruttiva, e in una reciproca integrazione: il primo tentativo di separare la bulla e la rocca petrosa tra loro e rispetto all’osso temporale può valere come esempio. Il modo in cui poi sono stato indotto a istituire la comparazione, può essere testimoniato, per quanto solo cursoriamente, dal secondo breve saggio, che descrive ulna e radio, tibia e fibula. In questo caso lo scheletro era pensato come vivo, e come condizione fondamentale di tutte le forme viventi superiori; per tale ragione ho tenuto saldamente davanti agli occhi la relazione e la destinazione di ciascuna singola parte. Ho proceduto in modo molto rapido279, per potermi anzitutto orientare in qualche misura, e un tale lavoro ha dovuto fornire dapprima quasi un catalogo, visto che al fondo giaceva l’intenzione di raccogliere effettivamente in un museo, con un’occasione favorevole, le membra da comparare; non poteva che risultarne che ciascuna serie di arti avrebbe richiesto un altro momento di confronto. Lo schizzo che si trova qui sopra indica come si debba procedere trattando degli organi ausiliari, come braccia e piedi. Si parte da ciò che è fisso e quasi immobile, utilizzabile per un’unica funzione, fino a giungere agli elementi che mostrano la più varia e agile capacità di movimento, e seguendo un simile procedimento per un gran numero di creature, si dovrebbe ottenere la visione desiderata. Se trattassimo del collo, procederemmo dal più lungo al più breve, dalla giraffa alla balena. L’analisi dell’etmoide dovrebbe andare dal più ampio e libero fino al più contratto e compresso, dagli squamati fino alla scimmia, e forse fino all’uccello, dato inoltre che il pensiero si spinge immediatamente ancora oltre se si osserva come i globi oculari ingranditi comprimano sempre più quell’osso. Ci interrompiamo a malincuore, ma chiunque sarà in gra-

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do di riconoscere l’infinita molteplicità delle prospettive che in tal modo risultano, vedendo come noi siamo indotti, e anzi addirittura forzati, a pensare tutti gli altri sistemi simultaneamente. Se riportiamo ancora per un attimo la nostra fantasia a quelle estremità che abbiamo esaminato più da vicino in precedenza, richiamando alla mente il modo in cui la talpa si forma per penetrare nella terra soffice, la foca nell’acqua, il pipistrello nell’aria280, nonché il modo in cui la struttura ossea, al pari dell’animale vivo che muta la pelle, è in grado di dischiuderci la conoscenza di simili conformazioni, allora desidereremo senz’altro cogliere di nuovo il mondo organico con superiore sensibilità e passione. Se ciò che si è detto sembrerà agli appassionati della natura dei nostri giorni forse meno importante di quanto non sia sembrato a me trent’anni fa (infatti, non è stato forse il signor d’Alton281 ad elevare ogni nostro desiderio?) allora voglio solo dichiarare che dedico queste riflessioni propriamente allo psicologo. Un uomo come il signor Ernst Stiedenroth 282 dovrebbe impiegare fedelmente la sua profonda competenza raggiunta riguardo alle funzioni del corpo spirituale e dello spirito corporale umano per scrivere la storia di una qualche scienza, che possa poi valere simbolicamente per tutte. La storia della scienza assume sempre un aspetto nobile se vista dal punto in cui ci si trova: si stimano senz’altro i predecessori e si è loro grati in certo modo per i meriti che hanno acquisito a nostro vantaggio. Malgrado ciò, è sempre come se con un’alzata di spalle lamentassimo i limiti entro cui costoro si sono tormentati spesso inutilmente, se non addirittura regredendo. Difficilmente li si considera dei martiri, condotti da un impulso irresistibile in situazioni pericolose e a stento dominabili, e tuttavia spesso, anzi quasi sempre, si trova maggiore serietà tra i nostri antenati, fondatori della nostra esistenza, che non tra i discendenti, gaudenti e per lo più scialacquatori. Ma da simili considerazioni, in certo senso ipocondriache, volgiamoci piuttosto ad attività molto più piacevoli, in cui l’arte e la scienza, la conoscenza e la forma si porgono fiduciose la mano, cooperando al più alto livello.

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Gli scheletri dei roditori, illustrati e comparati da d’Alton283 Prima sezione: dieci tavole Seconda: otto tavole. Bonn, 1823 e 1824

La prima intenzione dei miei quaderni sulla morfologia era di conservare qualcosa dalle mie antiche carte, se non perché risultassero utili nel presente e nel futuro, almeno in ricordo di un’onesta aspirazione nell’osservazione della natura. Seguendo tale disposizione, ho ripreso tra le mani recentemente certi frammenti di osteologia e ho sentito nel modo più vivido, in particolare durante la revisione della stampa, in cui solitamente tutto ci appare con contorni più chiari, come si trattasse unicamente di presentimenti e non di lavori preliminari. In quello stesso momento mi è giunta l’opera sopra citata, che mi ha trasferito dalle serie regioni dello stupore e della fede in quelle più piacevoli dell’osservazione e della comprensione. Se ora riconsidero il genere dei roditori, la cui struttura ossea, insieme all’involucro esterno cui si accennava, si trova illustrata magistralmente e nel modo più dettagliato nell’opera che ho davanti, riesco a distinguere il fatto che, se essa è determinata e fissata genericamente dall’interno, verso l’esterno invece, propagandosi senza freni e specificandosi tramite continue trasformazioni, subisce i mutamenti più vari. Ciò a cui è legata propriamente la natura di ogni creatura è la dentatura; ciò che essa può e deve afferrare, deve soprattutto triturarlo. La condizione di impaccio in cui si trovano i ruminanti deriva dall’incompletezza della loro masticazione,

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che rende necessario maciullare ripetutamente ciò che si è già in parte digerito. I roditori, al contrario, sono formati, sotto questo rispetto, in modo singolarissimo. Hanno una presa affilata, ma ridotta, si saziano rapidamente, e anche in seguito continuano a raspare gli oggetti, sgranocchiano ininterrottamente, con un accanimento che sfiora lo spasmo, involontariamente distruttivo, e questo rosicchiare interviene poi nuovamente quando si tratta di costruire e allestire giacigli e tane, dimostrando così ancora che nella vita organica perfino ciò che è inutile o addirittura dannoso, una volta accolto nel cerchio necessario dell’esistenza, è spinto ad agire all’interno del tutto, in quanto essenziale mezzo di connessione tra singoli elementi disparati. Nel complesso il genere dei roditori presenta una prima struttura ben proporzionata; la dimensione entro cui si muove non è troppo grande, e l’intera organizzazione è aperta ad impressioni di ogni tipo, preparata e adeguata a mostrare una versatilità284 tale da potersi muovere in ogni direzione. Tenderemmo a dedurre tale oscillazione variabile da una insufficienza della dentatura, relativamente debole anche se in sé robusta, tramite la quale questo genere animale può abbandonarsi facilmente ad un certo arbitrio nella formazione, che può giungere fino alla deformità, laddove invece nei predatori, favoriti dalla presenza di sei incisivi fissi e di un canino, è impossibile che si diano delle mostruosità. Tuttavia chiunque si sia occupato seriamente di simili ricerche si è certamente reso conto del fatto che questa stessa oscillazione da forma a deformità e da deformità a forma causa all’onesto osservatore una sorta di folle confusione. Per noi creature limitate, infatti, sarebbe quasi preferibile fissare l’errore piuttosto che oscillare nell’ambito del vero. Ma cerchiamo di piantare un paletto dopo l’altro in questo campo così vasto! Un paio di specie animali di grandi dimensioni, il leone e l’elefante, raggiungono, grazie alla prevalenza delle estremità anteriori, un carattere davvero bestiale e molto marcato; per il resto infatti si nota in generale, negli animali a quattro zampe, una tendenza a far prevalere le estremità posteriori su quelle anteriori, e crediamo di scorgere in questo il fondamento della pura posizione eretta dell’uomo. Tuttavia, come risulta visivamente evidente nel genere dei roditori, una

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simile tendenza può crescere progressivamente fino a raggiungere una sproporzione. Ma se vogliamo valutare approfonditamente questi mutamenti di forma285 riconoscendo in primo luogo la loro vera e propria causa, dobbiamo attribuire ai quattro elementi, secondo la buona maniera antica, il loro particolare influsso. Se cerchiamo allora una creatura nella regione dell’acqua, essa si mostra in forma di maiale lungo le rive paludose, oppure come castoro che costruisce la sua casa lungo freschi corsi d’acqua; quindi, avendo bisogno di una maggior quantità di umidità, scava nella terra e preferisce i luoghi protetti, nascondendosi timorosa dalla presenza dell’uomo e di altre creature. Infine giunge in superficie, e si diverte a saltare in qua e in là, al punto da tendere a stare in posizione eretta e addirittura su due piedi, muovendosi con sorprendente rapidità. Se condotta in un ambiente completamente secco, notiamo infine che sulla creatura si rivela decisivo l’influsso dell’altitudine e della luce, che anima ogni cosa. In tali condizioni questi animali acquisiscono una mobilità leggerissima e agiscono con grandissima agilità, tanto che perfino un salto simile al volo di un uccello può trasformarsi in un volo apparente. Perché l’osservazione del nostro scoiattolo comune ci dà così tanto piacere? Perché questo animale ci pone davanti agli occhi un’abilità del tutto particolare, come il più elevato sviluppo del suo genere. Esso tratta con grande cura e in modo commovente i piccoli oggetti appetitosi con cui sembra giocare intenzionalmente, mentre in realtà non fa che preparare e facilitare in tal modo il suo godimento. Questa piccola creatura, nell’atto di aprire una noce, ma in particolare nell’azione di assaporare una pigna d’abete matura, è molto graziosa e piacevole da osservare. Non è però soltanto la forma fondamentale che si modifica fino a divenire irriconoscibile: anche la pelle esterna può avvolgere la creatura nei modi più diversi. Sulla coda si presentano degli anelli composti di squame o di cartilagini, sul corpo aculei e spine che giungono infine a livellarsi fino a trasformarsi, dopo dei notevoli passaggi, nel mantello più soffice e fine. Ora, se ci si impegna a scoprire le cause ulteriori di simili fenomeni, ci si dice: non sono soltanto gli influssi degli elementi a esercitare qui una forza dirompente, poiché presto ci verranno indicate altre importanti cause.

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Queste creature possiedono un vivace impulso per il nutrimento. L’organo con cui afferrano, vale a dire i due incisivi della mascella superiore e inferiore, ha già attirato la nostra attenzione in precedenza: si tratta di denti capaci di stringere saldamente qualunque cosa, e infatti anche questa creatura cura il proprio sostentamento nei modi più diversi. La sua alimentazione è molto varia: alcuni sono avidi di cibo animale, la maggior parte si nutre di cibo vegetale, ma il loro rodere deve essere considerato per molti riguardi un pregustare fiutando, al di là dell’esigenza di raggiungere la sazietà. Occorre un’assunzione di cibo in eccesso per riempire materialmente lo stomaco, e questo può anche essere ritenuto un esercizio prolungato, un impulso inquieto a tenersi in attività costante, che infine degenera in un crampo distruttore. Anche dopo aver soddisfatto i loro bisogni immediati, tali animali continuano a mostrare un’intensa avidità di cibo, e tuttavia vogliono vivere con la sicurezza di disporre di una quantità abbondante di nutrimento: da ciò deriva il loro istinto di accumulazione e diverse altre azioni che potrebbero essere considerate in tutto simili ad un’abilità premeditata. Per quanto la struttura dei roditori oscilli molto, tanto che sembra non avere confini definiti, tuttavia si trova, in ultima analisi, racchiusa nel carattere generale dell’animalità, e non può che approssimarsi a uno dei generi animali: e infatti si può assimilare sia ai predatori che ai ruminanti, alle scimmie come ai pipistrelli, nonché a molti altri generi intermedi. Non saremmo però in grado di formulare agevolmente simili considerazioni di ampio raggio se non ci si fossero mostrate le pagine del signor d’Alton, esaminando le quali l’ammirazione non cessa mai di porgere la mano all’utilità pratica. Difficilmente potremo esprimere a sufficienza elogi e gratitudine per questa esposizione condotta esaminando generi tanto significativi, e mantenendo sempre lo stesso grado di limpidezza e correttezza, mentre crescono costantemente la sua forza e la sua esaustività, al punto che i suoi meriti risultano così rilevanti. Essa ci solleva una volta per sempre da quella condizione confusa in cui molto spesso finivano i nostri precedenti sforzi, quando tentavamo di comparare gli scheletri, nella struttura generale o nei dettagli. Sia che li esaminassimo durante i nostri viaggi in modo più o meno rapido, sia che li considerassimo con più calma dopo averli raccolti progressivamente attor-

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no a noi, ci trovavamo pur sempre costretti a lamentare come insufficienti o insoddisfacenti le nostre fatiche in rapporto con l’oggetto nel suo complesso. Adesso dipende da noi il metterci di fronte delle serie grandi a nostro piacimento, esaminando l’uno accanto all’altro sia l’elemento comune che quello contraddittorio e divergente, così da mettere alla prova in tutta calma e tranquillità la nostra capacità di osservazione e l’abilità delle nostre combinazioni e dei nostri giudizi, nella misura in cui è dato all’uomo di accordarsi sempre più con la natura e con se stesso. Del resto, quelle rappresentazioni figurate non soltanto consentono una riflessione solitaria, ma vi è allo stesso tempo un testo molto sobrio che svolge la funzione di una brillante conversazione; e in effetti, senza una simile collaborazione, non avremmo raggiunto i risultati sopra esposti con una certa facilità e rapidità. Sarebbe dunque superfluo raccomandare particolarmente agli amanti della natura le importanti stampe qui accluse: esse contengono una comparazione generale degli scheletri dei roditori e inoltre delle osservazioni generali a proposito degli influssi esterni esercitati sullo sviluppo organico degli animali. Le abbiamo seguite fedelmente in precedenza nella nostra rapida esposizione, ma non ne abbiamo certo esaurito il contenuto; aggiungeremo ancora soltanto i risultati seguenti. Alla base si trova un originario e intimo carattere comune di ogni organizzazione; la diversità delle forme scaturisce invece dalle relazioni che necessariamente esse intrattengono con il mondo esterno: è lecito e ragionevole, dunque, assumere una diversità originaria e simultanea, nonché una trasformazione progressiva e incessante, per poter comprendere sia i fenomeni costanti che quelli divergenti. Un sottotitolo aggiunto ci fa presumere che con ciò si intendeva esporre solo una sezione del tutto, e una prefazione esprime chiaramente il fatto che non si deve assumere nulla di superfluo, e l’opera non deve essere estesa al di là delle possibilità e capacità degli appassionati della natura; una promessa che è stata pienamente soddisfatta da ciò che è stato realizzato finora. Ora però troviamo allegati all’opera che ci è stata inviata anche alcuni fogli a stampa, che in realtà dovrebbero essere

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anteposti anche se noi li menzioniamo per ultimi, e contengono la dedica a Sua Maestà il re di Prussia286. Vi si riconosce con la più viva gratitudine che questa impresa ha goduto del significativo sostegno del Trono, senza il quale non sarebbe stata neppure pensabile. Perciò anche tutti gli amanti della natura si uniscono in questa espressione di riconoscenza e gratitudine. E se riteniamo già degno di lode e utile il fatto che i grandi della terra facciano in modo che non si disperda ciò che un privato ha raccolto con cura e dedizione, ma lo conservino con saggezza per offrirlo poi al pubblico; se è con altissima gratitudine che dobbiamo riconoscere il fatto di vedere fondate istituzioni in cui si possano esaminare i talenti, incoraggiare i più capaci guidandoli verso lo scopo, allora forse l’evento più encomiabile si verifica quando si riesce a sfruttare un’occasione quanto mai rara: quando le realizzazioni di un singolo individuo, che ha trascorso tutta la sua vita faticando, e spesso forse anche penando, per sviluppare un suo talento innato e per creare da solo qualcosa che a molti non riuscirebbe possibile, quando tali realizzazioni incontrano un riconoscimento nel momento esatto in cui si compie l’azione più incisiva; quando i più alti superiori e i funzionari loro sottoposti assolvono il dovere invidiabile di favorire il momento decisivo in casi di urgenza, facendo in modo da portare a piena maturazione un frutto già molto cresciuto, benché in condizioni limitate.

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Genera et species palmarum, del dr. C.F. von Martius Fasc. I e II, München 1823287

I due fascicoli contengono, su quarantanove tavole litografiche, delle illustrazioni di diverse specie di palme che crescono in Brasile, e che l’autore ha osservato nel corso della spedizione scientifica288 da lui intrapresa alcuni anni fa. Le tavole289 che raffigurano dettagli di rami, foglie, infiorescenze e frutti, sono tutte realizzate con grande finitezza, e somigliano a fini incisioni su rame lavorate accuratamente e magnificamente al bulino. Se considerate sotto questo punto di vista, possono essere accostate senza esitazione alle belle incisioni di soggetto osteologico presenti nell’opera di Albinus290, e appaiono probabilmente ancora più limpide. La maggior parte è stata eseguita da A. Falger, ma meritano una menzione elogiativa anche i nomi di J. Päringer e L. Emmert. Dieci fogli, realizzati alla maniera consueta come disegni in gessetto nero con tratti nitidi e vigorosi, rappresentano alberi di palme di diverse specie a figura intera, con fusto e rami, opportunamente accompagnati da vedute delle regioni brasiliane in cui prevalentemente crescono quelle specie di palme. Primi piani molto ricchi di dettagli rendono inoltre note all’osservatore anche le altre piante e la vegetazione quanto mai rigogliosa del paese. Un accenno molto generale a ciò che è raffigurato in ciascuno di questi fogli sarà sufficiente a rendere più comprensibile quanto si è detto. Tab. 22. Immagine principale; Oenocarpus distichus, in primo piano foglie e cespugli. A media inquadratura e a distanza

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si vedono delle pianure erbose lungo un fiume, immerse tra colline boschive. Tab. 24. Astrocaryum acaule e Oenocarpus batava appaiono in primo piano come immagini principali; il paesaggio che fa da sfondo rappresenta le sponde basse di un fiume che scorre lentamente, entro cui, su entrambe le rive, si protendono dei promontori ricoperti da alberi molto folti. Tab. 28. Euterpe oleracea, anch’essa sulla riva di un fiume che sfocia nel mare, da cui affluisce la marea. Tab. 33. Gli oggetti che in questo foglio saltano agli occhi per primi sono l’Elaeis melanococca e l’Iriartea exorrhiza. Quindi si nota un piano intermedio che raffigura un bosco e le sponde basse di un fiume o di un lago; un coccodrillo che emerge dall’acqua è ulteriore ornamento del paesaggio. Tab. 35. Iriartea ventricosa, accanto alla veduta di una stretta gola, tra montagne rivestite di boschi e di diversa altezza, da cui scende un fiume che in primo piano crea una piccola cascata. Tab. 38. In primo luogo si nota la Mauritia vinifera, sullo sfondo colline brulle; la pianura è fittamente occupata da questa specie di palme. Tab. 41. Attalea compta e Mauritia armata, dietro alle quali una regione semidesertica, in cui si vedono solo in primissimo piano e in lontananza ancora alcuni alberi di questa specie. Tab. 44. In primo piano la Mauritia aculeata, e sullo sfondo un groviglio inestricabile di alberi, tra cui anche piante con fusto e a foglia larga. Tab. 45. Lepidocaryum gracile e Sagus taedigera in una regione boschiva buia che non lascia intravedere null’altro. Tab. 49. Corypha cerifera. Il paesaggio che funge da sfondo rappresenta una pianura fittamente ricoperta di alberi, in particolare di palme, e in lontananza si stagliano cime montuose. Appariranno senza dubbio chiare a chiunque l’efficacia e l’utilità del contenuto di tali fogli, dopo la descrizione, per quanto breve, che ne ho fornito; occorre però ancora aggiungere che anche il senso pittorico e il gusto con cui il signor von Martius ha disposto gli oggetti in rapporto allo sfondo paesaggistico meritano la lode di tutti coloro che sono in grado di considerare e valutare l’opera dal punto di vista artistico. Gli esperti si riveleranno non meno soddisfatti anche del lavoro del signor Hohe, che ha disegnato con la consueta tecnica del

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gessetto su pietra i fogli citati per ultimi, seguendo il modello di quelli realizzati di propria mano dal signor von Martius. Nelle pagine precedenti abbiamo analizzato solo da un punto di vista, quello artistico-estetico, quest’opera meritevole sotto molti rispetti; tuttavia possiamo dire che proprio questo elemento deve essere ritenuto un ottimo complemento dei risultati della spedizione compiuta da quell’uomo eccellente. Il Resoconto di viaggio 291, noto già da tempo, dei due valenti ricercatori von Spix e von Martius, apparso a Monaco nel 1823, ci ha fornito delle vedute di luoghi gradevoli per molti aspetti, testimonianze di una regione del mondo vasta, grandiosa, libera e lontana, che ci hanno offerto conoscenze molteplici di singoli fenomeni, tanto da stimolare vivacemente l’immaginazione e la memoria. Ma ciò che promana un fascino particolare su quella viva rappresentazione è un puro e caldo sentimento di partecipazione alla sublimità della natura in tutti i suoi scenari: un sentimento devoto e malinconico, avvertito con chiarezza ed espresso con altrettanta decisione e limpida gioia. Inoltre, la Physiognomik der Pflanzen 292, pubblicata a Monaco nel 1824, guida il nostro sguardo, da un punto di vista superiore, nel regno vegetale presente su una superficie terrestre sterminata, ne indica gli elementi particolari, le condizioni climatiche e locali in cui crescono le innumerevoli forme vegetali radunandosi in gruppi, e al contempo ci immerge in un’abbondanza tale di specie che solo un botanico specialista è in grado di richiamare le forme indicate da una terminologia per lui così eloquente. Nell’ultima opera che abbiamo esaminato più nel dettaglio, il genere delle palme si offre abbondantemente agli esperti nelle sue specie più rare, grazie all’aiuto di un’elaborata terminologia specialistica; ma le tavole elencate più sopra si rivelano utili per tutti gli appassionati della natura, poiché presentano i rapporti e le forme fondamentali della condizione naturale più generale, mostrando gli insediamenti, singoli o collettivi, su terreni umidi o secchi, montani o pianeggianti, aperti o bui, in tutte le possibili variazioni; ne risultano stimolati e gratificati al contempo la conoscenza, l’immaginazione e il sentimento, cosicché, percorrendo il cerchio degli scritti citati, ci sentiamo perfettamente immersi in quei luoghi così distanti come fossero familiari.

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Frammenti sulla morfologia (1817-1826)

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Dilatazione293

Dovendo esprimere un’ipotesi sull’origine vera e propria di questo fenomeno, potrei solo dire, dopo attente osservazioni e ricerche, che credo sia causato, su tronchi e rami, da un eccessivo impulso dei succhi preparati ed elaborati, ma non impiegati in una formazione regolare. Nei frassini ho osservato la dilatazione soltanto sui rami che spuntavano da fusti potati, e mai in alberi alti cresciuti liberamente. Un altro caso si è rivelato per me degno di nota: dal fusto di un robusto tiglio, che era stato abbattuto in prossimità della radice, erano spuntati tre o quattro steli, forti e in generale ovali. A tale riguardo è possibile riscontrare una somiglianza con i casi in cui si forza la fioritura recidendo le radici, anche se un simile caso si rivelerebbe l’inverso del precedente. Perciò sarebbe da rifiutare fermamente in futuro la concezione, a cui già a Jäger (pp. 18 e 20) non vuole aderire, per cui questa dilatazione avrebbe origine dal concrescere di steli e tronchi inizialmente separati, o addirittura da un danneggiamento. Bisogna davvero bandire simili concezioni.

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[Un ginepro nel giardino di Goethe]294

L’albero di ginepro disegnato in precedenza si trovava in quello che un tempo era chiamato giardino di Duks, e che ora appartiene al consigliere aulico von Goethe. L’altezza da terra, fino al punto in cui si divideva in due rami, era di 42 piedi locali, mentre l’altezza complessiva era di 43 piedi. Al livello del suolo occupava un diametro di 17 pollici, mentre nel punto in cui si dividevano le due ramificazioni misurava 15 pollici; ciascun ramo aveva un diametro di 11 pollici, che progressivamente diminuiva, finché le punte si suddividevano ancora in forma sottilissima. Della sua età molto avanzata non ci arrischiamo a dire ­nulla. Il fusto era seccato all’interno, e il suo legno tagliato da fessure orizzontali, simili a quelle che si vedono comunemente nei cavoli, di colore giallastro e totalmente roso dai vermi. La grande tempesta che ha infuriato nella notte tra il 30 e il 31 gennaio 1809 lo ha abbattuto, ma se non si fosse verificato un evento così straordinario avrebbe potuto resistere ancora a lungo. La cima dei rami, nonché le loro estremità, erano ancora completamente verdi e vive.

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Craniologia295

Nel momento in cui apprendiamo con piacere dell’imminente ritorno del signor Spix, certamente ricco di risultati, siamo purtroppo costretti a comunicargli, proprio al suo debutto, che la sua craniologia necessita di una profonda rielaborazione. Trattando questo importante argomento egli ha sì riconosciuto le tre vertebre che si trovano nella parte posteriore del cranio, ma invece di procedere oltre su tale via, conforme alla natura, ha preferito scegliere, per la parte anteriore del volto, una terminologia del tutto insufficiente e inammissibile, per quanto si vedesse costretto a suddividere in tre parti anche questa regione. Ora, se si vuole che la teoria osteologica del cranio giunga, dall’insufficienza e imperfezione finora mostrata, ad un’autentica chiarezza e consequenzialità, il signor Spix deve riconoscere anche le tre vertebre anteriori, armonizzando la sua terminologia con quella impiegata per le vertebre posteriori, e definire in modo concorde tutte le singole parti concordi. In tal modo potrà liberarsi allora di moltissime lettere e cifre. Perché questo si verifichi, però, bisognerebbe in realtà che, modificando la terminologia e la numerazione, si rielaborassero anche le tavole schematiche con le loro lettere, cifre e disegni. Le pagine principali potrebbero a buon diritto restare intatte, per quanto anch’esse si sarebbero potute rivelare più significative se il disegnatore avesse avuto chiara l’idea fondamentale.

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Ci dispiace salutare in modo così poco accogliente un uomo tanto degno; tuttavia è pur sempre più vantaggioso che egli comprenda da sé il concetto e compia da solo ciò che in breve tempo non potrà che accadere necessariamente: sarà infatti sufficiente che qualcuno cui la natura abbia infuso spirito e talento ponga mente alla questione, e si realizzerà. A chi abbia ammesso una volta l’esistenza delle tre vertebre posteriori, risulteranno anche visivamente evidenti le tre anteriori, nel modo più limpido e piacevole che si possa desiderare. In questo caso infatti si manifesta la grande consequenzialità, costanza e mobilità della natura organica, in forma tale che, per quanto essa resti per noi pur sempre un mistero, tuttavia siamo attratti in un punto molto vicino alla sua soglia, da cui possiamo gettare uno sguardo nello splendore divino senza esserne accecati. Mentre mi accingo a concludere queste riflessioni, vorrei scommettere che già dei brillanti appassionati siano stati spinti dal mio primo suggerimento a esporre ciò che io accennavo; a loro non sfuggirà il fatto che nei miei quaderni sulla morfologia si trovano già espresse le massime sulla natura in base alle quali essa agisce anche in questo caso e secondo cui occorre procedere per seguire con sicurezza le sue orme.

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Bryophyllum calycinum [I]296

Foglia semplice staccata297. Descritta. Sua intaccatura Posta tra fogli di carta La foglia si secca Dall’intaccatura germogliano delle gemme Radici aeree. Foglie semplici in forma di cotiledoni Giungono progressivamente ad uno sviluppo compiuto. Piantate nel terreno Mantenute al buio o poco esposte alla luce. Più intensa crescita dei germogli Infine spunta una radice nel terreno. Appena le radici affondano nel terreno distribuiscono il nutrimento alla foglia madre, che ora appare come il vero e proprio cotiledone comune. Foglie più grandi. Si intaccano sempre di più. Osservate più da vicino producono dei getti ogni mese Nelle piante più grandi sono particolarmente evidenti. In tal caso avviene che, se non già a partire da giugno, almeno da luglio e agosto i getti si tripartiscono. Nelle piante più adulte, o anche in quelle che si trovano particolarmente favorite, tale suddivisione cresce fino a diventare una suddivisione in cinque parti.

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Caso singolare in cui, se da foglie composte si prende una foglia subordinata e la si sottopone al trattamento descritto in precedenza, già la quarta coppia di foglie appare incisa regolarmente dal basso in cinque parti: ciò è segno del fatto che la foglia madre, di ordine superiore, reca già con sé una perfezione superiore. Le foglie successive regrediscono di nuovo e sono incise come le altre. Pianta mirabilmente sensibile alla luce. È possibile raddrizzarla completamente se ci si cura di voltarla appena si piega verso la luce, ripetendo sempre questa operazione. Lo stelo, legato a un bastone, si deforma se non si usa alcuna precauzione. Sensibilità al luogo. Per quanto io abbia distribuito anche tra gli amici moltissime piante, la crescita di ciascuna ha mostrato un habitus diverso, di cui sarebbe difficile dar conto. Allo stesso modo in cui essa si sviluppa sempre da sé in tutte le sue parti, presenta anche un elemento proteiforme in tutte le sue parti, e le foglie sono ora coriacee e piatte, ora mostrano grande elasticità se arrotolate. Anzi, i piccioli, dopo la caduta delle foglie, si incurvano e si avvolgono su se stessi. Mostrano anche un notevole gocciolamento298; Se la radice è molto umida e in proporzione il calore non è sufficiente a causare un’evaporazione e uno sviluppo regolari, allora, in piante giovani e adulte, si presentano regolarmente sui rilievi tra le incisioni delle sottili gocce, che nelle piante giovani scompaiono nuovamente, mentre in quelle adulte si rapprendono in una sorta di gomma. Ciascuna sopporta una temperatura che arriva al di sopra del punto di congelamento; in un’abitazione calda sbiadiscono e arrestano la crescita. La condizione più vantaggiosa si potrebbe ottenere se si riuscisse a mantenerle ad una temperatura costante di venti gradi. Sarebbe importante vedere se per questa via si può riuscire a impedire la regressione in settembre, spingendo invece sempre più avanti la crescita fino a ottenere la suddivisione delle foglie in cinque parti. Sembrano gradire l’umidità. Poiché questa pianta è giunta a noi dalle isole Molucche

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passando per Calcutta, mi sembra che diversi argomenti provino che si tratta di una pianta di montagna, che cresce in condizioni ottimali se si trova ad una certa altitudine, in clima umido e moderatamente caldo, senza mai trovarsi esposta al gelo. Anche la polverizzazione si può notare in questa pianta: infatti, se si pongono in un libro le foglie caulinarie inferiori di una pianta giovane, esse non germogliano, ma appassiscono completamente e seccano poco a poco. Se si spezza una foglia così seccata, da essa vola via una polvere, e questa operazione si può ripetere molto spesso sulla medesima foglia. Anche questo è indice dell’affinità con piante di un grado inferiore. Jena, 11 settembre 1820.

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Sulla polverizzazione299

Morfologia, I, p. 293 In tarda estate, quando compaiono gli champignons commestibili, se ne prenda uno non ancora aperto, si spezzi il gambo all’altezza del cappello e lo disponga in una stanza asciutta su un foglio di carta bianca. Al suo schiudersi, si presenterà una polverizzazione del tutto regolare, tanto che si possono vedere, sulla superficie bianca sottostante, tutti gli interstizi tra le lamelle concentriche del cappello disegnati a linee marroni, e senza la minima divergenza, sicché la direzione della polverizzazione deve essere esattamente verticale. Ciò si può verificare anche notando che il tentativo non riesce se si pone il cappello sul dorso poggiandovi sopra il foglio. Chi non ha ancora osservato tale fenomeno non manchi di sincerarsene. Sul foglio si vede riprodotta, per un effetto illusorio, l’iride di un occhio gigantesco.

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[Inserzione per Mursinna]300

I Berliner Anzeiger di Haude e Spener, 1823, No. 62, ci danno notizia della scomparsa del valente Mursinna. Visse gli ultimi anni in miseria, come accadde al suo grande maestro, Caspar Friedrich Wolff, al quale egli ha dedicato un monumento sincero e commovente, nella sua Morfologia a pagina 252. Possano giovani ambiziosi analogamente trarre incoraggiamento da un esempio tanto nobile, mostrando pari serietà e un’attività limpida ed energica. Weimar, 8 giugno 1823.

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Una pretesa ingiusta301

Mi si è voluto rimproverare che, trattando della metamorfosi delle piante, non avrei preso in considerazione la radice. Quando l’ho appreso, mi è sembrato strano che si esigesse da un mio lavoro di quarant’anni fa ciò che a tutt’oggi non è stato compiuto. Per la radice nutro lo stesso rispetto che per le fondamenta del duomo di Strasburgo e di Colonia, che non mi sono certo completamente ignote: ho infatti ceduto volentieri all’amico Boisserée, anch’egli interessato al tema, un disegno delle fondamenta della cattedrale, che sono state parzialmente scavate in epoca recente. Tuttavia, esaminando propriamente simili edifici, iniziamo dal livello del terreno, che chiamiamo pianta, ed è ciò che la costruzione disegna sul suolo per poi ergersi verso l’alto nei modi più vari. Ciò che si trova in profondità e su cui poggia l’elemento superiore che tende al cielo è rimesso all’intelletto, alle convinzioni e alla coscienza del maestro che ha progettato l’edificio; ma noi deduciamo facilmente, dalla perfezione e coerenza della costruzione, la validità della sostruzione. Analogo ragionamento si può applicare alla radice: in realtà essa non doveva riguardarmi, poiché il mio saggio non aveva nulla a che fare con una struttura che si presenta in filamenti, fasci, bulbi e tuberi e, così delimitata, è in grado di mostrarsi comunque soltanto in una successione spiacevole di infinite varietà, senza mai rivelare una crescita, laddove quest’ultimo aspetto è l’unico che, sul mio percorso e in conformità alla

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mia vocazione, poteva attrarmi, trattenermi e trascinarmi con sé. Ciascuno dunque segua il proprio percorso e poi si volga indietro con modestia a guardare ciò che ha realizzato in quarant’anni, come un buon genio ha concesso a noi di fare. Weimar, 27 giugno 1824.

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A proposito dell’opera di Martius sulle palme302

In quanto precede abbiamo considerato quest’opera così ricca di meriti da un solo punto di vista, quello artistico, che tuttavia riveste la massima importanza, come emergerà in modo ancor più evidente dalle osservazioni che seguono. Se richiamiamo alla memoria le epoche più remote, in cui la scienza della natura prendeva avvio dalle immagini, era comunicata e diffusa insieme alle credenze religiose tramite immagini senza testi scritti, e in seguito anche tramite testi scritti, come è il caso ad esempio dei geroglifici egizi nei loro elementi principali, allora inevitabilmente ci colpisce, in confronto con tempi più recenti, il fatto che la scienza sia costretta a tornare di nuovo a impiegare le immagini per perfezionarsi. In effetti l’uomo ha tentato di risolvere tutto con le parole! Per comprendere il mondo in tutta la sua ricchezza e giungere a possedere intellettualmente i singoli fenomeni che gli si presentano, egli si arrischia in primo luogo a denominarli, in modo superficiale e approssimativo: e di questo si è accontentato anche a lungo. Infine, al crescere delle conoscenze, ha cercato denominazioni più precise. Ora però, poiché nelle attività intellettuali non sono posti confini, nel susseguirsi delle epoche si è passati a rapidi tentativi di descrizione che, con una terminologia più esatta e particolareggiata, si ramificavano sempre più e in modo sempre più circostanziato. Ai giorni nostri si è poi giunti al punto che ci si è imposti di fare a meno di qualunque rappresentazione figurativa.

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Tuttavia, quand’anche si conceda la possibilità e legittimità di un simile procedimento, bisogna d’altro lato anche ammettere che esso presuppone un’immaginazione estremamente elaborata e flessibile, che abbia intimamente fatto proprio un particolare uso linguistico, e che sia in grado di evocare immediatamente, a partire dalle parole e dai segni che le indicano, ciascuna forma fin nelle sue componenti più particolari, oltre a richiamare alla mente ciò che è già noto, e a creare facilmente le conoscenze più nuove e remote. Ma non tutti gli amanti e appassionati delle scienze naturali sono in grado di dedicarsi ad un simile esercizio, senza il quale si vedrebbero a poco a poco allontanati dal piacevole ambito del loro oggetto di studio, poiché all’ampliarsi dell’esperienza il sapere cresce e la scienza diventa via via più perfetta, dunque anche più viva, e occorre non solo definire verbalmente le sfumature più sottili e variabili, ma anche comunicarle con perfetta lucidità anche al di là della cerchia dei maestri e degli eletti. Per questo motivo si deve tornare a impiegare l’immagine, che non sia quella meramente simbolica di cui inizialmente ci si accontentava, bensì un’immagine viva, che possa valere come complemento nella comprensione sintetica di una descrizione condotta a regola d’arte. Certo, a tale fine le esigenze si spingono sempre più oltre, al punto che il colore appare infine come un’ultima componente irrinunciabile. In precedenza abbiamo espresso sinceri elogi per l’efficacia con cui il disegnatore e il litografo erano riusciti a cogliere anzitutto il particolare: con tratti caratteristici hanno riprodotto le proprietà peculiari delle superfici di foglie, fiori e frutti, e anche, nei casi in cui si rivelava necessario, hanno saputo dar corpo a quei soggetti tramite le ombreggiature. Inoltre abbiamo espresso riconoscenza per il modo in cui, su così tante riproduzioni dipinte, le più diverse specie di palme, disseminate su una così vasta superficie del globo in base al loro specifico habitat, si trovano raffigurate a gruppi, che ci mostrano allo stesso tempo interi paesaggi, sia che si tratti di ampi fiumi su cui agisce ancora intensamente la marea, sia che si tratti di zone più interne prossime ad acque più calme, spesso laghi, con radici amanti dell’umidità, sia che si tratti invece di regioni ancora più interne, con alte pendici di colline: tali palme si

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rivelano sempre riconoscibili, si sentono nel loro ambiente e si riproducono con facilità e rigoglio. Grazie ad una simile trattazione, questa esposizione di argomento storico-naturale amplia moltissimo le cognizioni geo­ grafiche e topografiche, e in brevissimo tempo veniamo ad apprendere la fisionomia di un paese di cui le mappe fino ad oggi disponibili possedevano gli strumenti per restituire unicamente i tratti più generali e incerti. Ma l’autore non si è accontentato di questo, e oltre alle palme elenca anche altre piante ad esse affini e congruenti in rapporto al loro ambiente, e in particolare in modo tale che, a dire il vero, dal dettaglio più realistico si dispiega l’intera bellissima immagine artistica, che ci stimola a goderne l’effetto estetico, avvicinandoci dunque alla dimensione morale. Se il nobile viaggiatore non avesse posseduto in prima persona un talento molto sviluppato per recepire in modo così caratteristico le impressioni naturali, restituendo e comunicando nel modo migliore ciò che una superiore sensibilità e il sentimento della bellezza e dell’unità richiede, non sarebbe stato possibile realizzare una simile esposizione, così pienamente soddisfacente. E proprio le lastre più significative ci informano, tramite gli stimati nomi apposti come firme, che viaggiatore, disegnatore, autore ed editore sono la stessa persona. Chi mai è riuscito, con così tanto talento, a mantenere in cuore una così libera ricettività e una tenacia così incrollabile anche in luoghi naturali spesso ardui, inospitali e rischiosi, da essere anche in grado di fornire simili descrizioni e comunicazioni? E i suoi meriti non si fermano qui, poiché dobbiamo riconoscere che, grazie al favore di quest’uomo valente ci è giunto davanti agli occhi un saggio in cui egli torna a esprimersi con parole e che pone una corona su tutto ciò che ha realizzato in precedenza: vi si trova esposta con grande efficacia la natura delle palme nelle loro proprietà costanti e nella loro plasmabilità, ricca di varianti, come un genere estremamente gradevole, che attrae tutta la nostra attenzione. A fianco dell’autore, immersi tra quelle piante, ci sentiamo nella compagnia più piacevole: tra le sottili colonne che si slanciano verso il cielo, coronate da volte costituite da ariosi ombrelli di fronde, avvertiamo una peculiare e delicata affinità con questi organismi,

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e anzi per loro tramite sentiamo una superiore prossimità e intuizione dell’intero regno vegetale. Non dobbiamo però procedere oltre, per non anticipare con toni più deboli un’esposizione così preziosa; ci sia permesso dire soltanto che in questo caso non accade, come altrimenti abbiamo sperimentato, che l’intuizione della natura mostri tratti genericamente sentimentali o vagamente religiosi, che la allontanano dalla natura stessa piuttosto che avvicinarla. Qui possiamo percepire, al contrario, una partecipazione propriamente umana, pervasa di un amore sincero, e se le rappresentazioni figurative ci hanno innalzato ad un alto sentire artistico, le parole ci conducono ancora una volta ad una perfezione della mente e dell’anima, confortandoci infine della nostra appartenenza all’insieme dell’umanità.

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[Variabilità delle razze]303

Il dottor Sturm, nei Beiträge der Deutschen Landwirtschaft, esprime con convinzione la seguente legge naturale: una razza può venire mutata da un’altra pur mantenendosi costante, secondo la legge con cui cambiano i denti. Riteniamo si tratti di un enunciato della massima importanza, che richiama l’attenzione su molti aspetti dell’organismo; certamente la trasformazione dovrà avere un limite, che solo la perfezione della creatura può determinare. Ad ogni conoscitore della natura verranno certo subito in mente alcuni esempi in cui queste rilevanti affermazioni trovano applicazione. Weimar, 4 ottobre 1824.

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Foglia e radice304

Foglia e radice, in quanto parti dell’organizzazione superiore delle piante, mostrano un rapporto che non balza agli occhi con evidenza nelle piante già formate, poiché la foglia si sviluppa al di sopra del terreno, mentre la radice cresce sottoterra, di modo che appaiono originariamente separate tra loro; ma possiamo vedere come, già dal fenomeno delle radici aeree, anche il tronco e lo stelo siano simili e in grado di produrre a loro volta radici. Ancora poche osservazioni per chiarire ulteriormente questo punto. 1) Attenti indagatori della natura hanno già considerato come radici le fibre longitudinali tramite cui le foglie si connettono in basso al tronco e allo stelo e, partecipando della vita dell’alburno, si sviluppano e si nutrono; ad un esame più ravvicinato, non è soltanto l’immaginazione che qui tende a trovare somiglianze, bensì l’intelletto che scopre effettive analogie. 2) Tuttavia, poiché foglie e gemme sono concettualmente inseparabili, visto che ogni foglia ha dietro di sé una gemma, e ogni gemma è costituita di foglie sovrapposte come scaglie, e poiché in ciascuna foglia, nella prima come nelle successive, si deve sempre pensare l’intera pianta, ne segue che bisogna immaginare ovunque un punto di radicazione, ovvero la possibilità che compaia una radice. 3) Molti anni fa ho appreso che, se si staccano con attenzione le foglie del bulbo della piccola Fritillaria305, coltivata

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nei giardini, e si dispongono tra fogli di carta assorbente, come a seccarle per un erbario, dopo un certo tempo si sviluppano all’estremità inferiore di ogni foglia dei piccoli bulbi, che possono essere di nuovo ripiantati. Ricordo di aver fatto io stesso l’esperimento, anche se il risultato mi sfugge ora dalla memoria; si potrebbe comunque facilmente ripetere attendendosi un esito positivo. 4) Il capo-guardaboschi von Fritsch ha disposto recentemente la conservazione di un notevole esemplare di radice306. Durante le operazioni necessarie ad abbattere un vecchio tiglio dal midollo marcito si è notato che uno dei rami superiori aveva gettato profonde radici proprio nella parte marcita, continuando a vegetare come se fosse piantato al suolo. Io cerco di spiegarmi la cosa nel modo seguente. Nella precedente cimatura del tiglio, che causa sempre la morte dei rami tagliati, dal germoglio di uno dei rami giovani si è sviluppato un punto radicale, che ha trovato subito nutrimento nella superficie umida e prossima alla marcescenza del vecchio albero, ed è quindi cresciuto nutrendosi del midollo in decomposizione e contribuendo ad accrescerlo. La ricchezza di germogli prodotta da un vecchio tiglio è dimostrata dagli innumerevoli rami che continuano a svilupparsi sul tronco a partire dalla radice, tanto che sorgerebbe la domanda se non si possa, usando una procedura adatta, forzare proprio tali giovani rametti a mettere radici. 5) L’onnipresenza delle radici si mostra del resto nella moltiplicazione per talee, che in tempi recenti è generalmente praticata. Weimar, 20 marzo 1825. J.W. v. Goethe

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A proposito di due radici emetiche307

Riguardo alla radice brasiliana, nuovamente decantata dai giornali e raccomandata dal signor von Langsdorff308 in particolare contro l’idropisia, le cose potrebbero stare nel modo seguente: Nel Diario del Brasile di Eschwege309, in particolare a pagina 228 del primo fascicolo, si trova una pianta denominata Raiz, che viene apprezzata a causa delle qualità delle sue radici. Il fatto che in quel passo sia accostata all’Ipecacuanha medicinalis, e anzi dichiarata ad essa identica, indica la stretta affinità tra le due piante. Ora, il cavaliere von Martius, nel primo fascicolo del suo Specimen materiae medicae Brasiliensis310, a pagina 4, presenta la pianta dalla radice emetica officinale tra quelle del genere Cephaëlis, sotto la speciale denominazione di Ipecacuanha311, il nome volgare finora in uso. L’incisione della Tab. I ne offre una raffigurazione, e la radice, già da tempo celebre, è in particolare rappresentata nel suo tipico colore marrone alla Tab. VIII, fig. 1, 2 e 3. Per trovare un’immagine della Raiz preta dobbiamo però cercare in Eschwege, alla Tab. III della parte del testo che abbiamo menzionato. Si può certo decidere di annoverare questa pianta nel genere Cephaëlis (detto altrimenti Callicocca). Anch’essa appartiene alla quinta classe del sistema di Linné, ed è pentandrico-monoginica. L’infiorescenza, la fruttificazione, come anche l’intero suo habitus si possono comparare in modo molto soddisfacente. Ma in particolare entrambe le radi-

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ci presentano una tendenza serpentina, anche se quella della Cephaëlis Ipecacuanha (emetica Persoon) si separa a rosario, mentre nella Raiz preta si trovano solo degli accenni di possibili incisioni. Non vi è però alcun dubbio che anche quest’ultima faccia parte delle piante emetiche. Ed è possibile ipotizzare anche che essa si riveli affine alla prima, più universalmente nota, sia per caratteristiche esteriori che per proprietà curative. Ma quanto all’effetto specifico che produce, e quanto alla preminenza da assegnare all’una o all’altra radice, sarà la medicina sperimentale a fornire poco a poco delle risposte.

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Bryophyllum calycinum [II]312

a) Una foglia fresca dal ramo b) Una foglia posta in un libro e in gran parte seccata, che aveva prodotto dei piccoli germogli eziolati. a) La foglia fresca, piegata e piantata nel terreno con entrambe le estremità, ha subito generato delle piante cresciute rapidamente. Sei di esse sono germogliate subito con grande impeto, tre sono venute dopo. La foglia era stata piantata nel mese di marzo, e la pianta più forte ha prodotto in meno di un mese una coppia di foglie sovrapposte e accostate, sicché alla fine di marzo si vedevano undici coppie di foglie compiutamente formate. Anche la dodicesima si era già sviluppata e appariva inizialmente tripartita. Le altre piante erano più basse e mostravano meno coppie di foglie. Le foglie, al loro primo sviluppo, raggiungono una dimensione notevole, tese e dritte, quindi iniziano subito a incurvarsi alle estremità, il picciòlo si piega verso il basso, al punto che le foglie inferiori, come se fossero attirate dal vaso, si poggiano ad esso incurvandosi: sembrano piegarsi soprattutto verso l’oggetto più vicino, manifestando così in modo molto sottile, la proprietà delle piante rampicanti. Alla fine di marzo sette coppie di foglie si erano già incurvate, in misura maggiore o minore, e anche l’ottava iniziava a capovolgersi su se stessa. Alla fine di marzo le foglie su cui si era già manifestato il colore rossiccio del fiore passato, produssero delle radici

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aeree nelle loro frastagliature; tali foglie erano rimaste lontane dalla luce. La pianta è molto sensibile alla luce, si piega in direzione della luce e per tale ragione, girando completamente il vaso, è possibile tenerla completamente dritta. Il gambo, ai primi gradi di sviluppo, si piega dall’alto verso l’interno nel giro di pochi giorni.

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Studi sulla morfologia a partire dal 1828

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[Note per un saggio sulla viticoltura]313

[introduzione] Non c’è alcun dubbio che singoli studiosi di botanica si limiteranno sempre più alle trattazioni monografiche; solo c’è da temere che in tal modo questa disciplina tenda a diventare ancora più sterminata, ed è auspicabile che anche le monografie siano realizzate secondo il criterio morfologico, visto che il sapere e la scienza interagiscono immediatamente, promuovendosi e agevolandosi a vicenda. Il signor Presidente Nees von Esenbeck mi ha sottoposto una volta una monografia simile a proposito delle genziane314, che mi ha fornito ampi chiarimenti, dato il mio particolare interesse per questo genere di piante. Si trarranno certo grandi vantaggi anche se si ricondurranno alla morfologia nuovi progetti e invenzioni pratiche: i fenomeni fisiologici a cui essa fa sempre riferimento si rivelano di grande aiuto per le operazioni materiali. Molti anni fa feci visita al vecchio giardiniere di corte Seidel315 a Dresda, e alle mie richieste di informazioni su diverse questioni egli si dimostrò molto gentile e disponibile, affrontando gli argomenti con la competenza di un esperto. Per propria esperienza pratica era giunto gradualmente a dominare quelle nozioni con tutte le loro implicazioni, e vi si districava meglio di chiunque altro. Ciò che più importa infatti è tenere sempre davanti agli occhi l’onnipresenza della vita e la sua totale plasmabilità; il resto ne consegue. Solo lentamente si è giunti a contemplare la pos-

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sibilità di utilizzare le talee per la propagazione anche nel caso delle piante apparentemente più refrattarie; che ogni gemma sia già a sua volta una pianta compiuta si sapeva già da tempo; la pratica dell’innesto è antichissima, ed è noto già da molto tempo che ciascuna gemma prodotta da una patata tagliata genera delle radici, che sviluppano ancora una nuova pianta e così via. Tuttavia non è un’acquisizione così antica quella per cui è possibile, grazie ad un adeguato trattamento e un’esposizione ad un ambiente caldo umido, forzare una gemma tolta da un tralcio di vite a mettere analogamente radici, di modo che ne possa risultare una pianta di vite completamente formata. Prendo ora in considerazione il testo sulla viticoltura pratica redatto da Kecht 316, in edizione ampliata, e registro le seguenti annotazioni: Non è la prima volta che un profano scopre l’errore in cui sono incorsi gli esperti senza mai dubitarne. Resta però pur sempre notevole il caso di questo verniciatore di Berlino che richiama l’attenzione di tutti i viticoltori su degli errori imperdonabili e quanto mai dannosi. Egli è giunto a scoprirli con una semplice osservazione della natura, che si è rivelata nella sua attività pratica, per quanto gli mancasse un’approfondita preparazione in campo fisiologico. Chi volesse convincersene ne trarrà un deciso vantaggio. Un caso simile mi porge opportunamente l’occasione per approfondire sotto il profilo teorico il modo di intendere la vite, riconducendolo alla legge naturale: si dimostrerà come la piccola differenza tra la nostra concezione e quella sostenuta nel testo citato si possa eliminare semplicemente cambiando terminologia, in modo tale che l’alto valore pratico del suo insegnamento risulterà ancor più evidente. Il mio procedimento sarà chiarito dall’esposizione che segue. L’opera che consulto è la Viticoltura pratica negli orti e principalmente nei vigneti di Kecht, 4a edizione ampliata, Berlino 1827. Dornburg, 5 agosto 1828. [la vite]317 Il nodo di una pianta racchiude già in sé lo sviluppo futuro della sua vegetazione, e trovo che in particolare nel caso della

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vite l’osservazione del nodo si riveli estremamente importante, in quanto ciò che scaturisce da esso può essere considerato un fenomeno molto singolare. Sul nodo del tralcio si mostra dapprima una foglia semplice, che costituisce in certo senso il termine dello stadio anteriore, e della ripartizione scelta in precedenza dalla natura. Al di sopra di essa, già parte della nuova generazione, compare un organo straordinario, insolito in altre piante: un rametto compiutamente formato e dotato di numerose foglie, più piccole ma di forma concordante con la prima foglia. Solo al di sopra di questo rametto, quasi dietro di esso, vicina allo stelo e al gambo, si mostra poi la gemma, solitamente disposta subito sopra e dietro la foglia iniziale. Gemma e rametto, come si può facilmente notare sezionandoli, sono intimamente legati; il rametto continua a crescere nel corso dei mesi, mentre la gemma resta nel suo stadio in quiete, annunciando la vegetazione dell’anno successivo. Sul lato opposto, tuttavia, si nota un’escrescenza singolarissima: senza alcuna foglia preparatoria, direttamente dalla corteccia rigonfia, spuntano in più punti dei sottili prolungamenti simili a corde, che crescendo si suddividono a forcella e hanno la proprietà di aderire a tutto ciò che riescono a raggiungere, tentano di avvolgere l’oggetto avviticchiandosi attorno ad esso, o formano delle spirali arrotolandosi su se stessi. Con tali robusti fili o funi vegetali il tralcio può attaccarsi ovunque, svolgendo così la sua importante funzione naturale di mantenere salde e sospese qui e là le appendici che spuntano senza limiti. Questa forcella (che i Latini chiamavano capreolus e i Francesi vrille) presenta però, oltre all’effetto ora descritto, anche l’importantissima proprietà di apparire talvolta in forma di grappolo: in tal caso si manifesta come un ramo vero e proprio, uno stelo ricco di fiori che produce quegli acini che fanno sì che la vite sia ritenuta così preziosa. Ora, poiché un simile nodo, se piantato nel terreno, mette delle radici che ne consentono l’ulteriore crescita, è notevole che nel suo ambito così ristretto siano presenti così tante e varie possibilità, che caratterizzano così peculiarmente questa pianta. Il libriccino di Kecht ci fornisce l’occasione di conoscerle con precisione e di esaminarle attentamente. Vogliamo ora elencare ancora una volta le parti della vite che abbiamo citato più sopra, che si raccolgono attorno al

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nodo, racchiudendo in sé l’intera vita della pianta; successivamente le esamineremo singolarmente più in dettaglio. La foglia preparatoria Il rametto ausiliario La gemma Il viticcio in quanto tale e in quanto grappolo d’uva. La foglia preparatoria sarà qui considerata, come in tutte le piante, come uno sviluppo che scaturisce dai vasi del sistema precedente, all’estremità superiore di quest’ultimo; convogliando i succhi verso il nodo, ha evidentemente la funzione di contribuire al sostentamento della gemma che si trova dietro di lei, formando la riserva da cui la gemma trae il nutrimento necessario. Con ciò diciamo cose universalmente note, dunque non ci dilunghiamo oltre. È stato stabilito con sufficienti prove che la defogliazione di una pianta nuoce alle gemme poste dietro alle foglie, e può addirittura causare la morte dell’intera pianta. Ma se questa foglia preparatoria riesce a portare alla sua gemma e al bocciolo il necessario nutrimento, la singolarità del presente caso consiste nel fatto che tale foglia si trova a dover provvedere a due organi, vale a dire in primo luogo il rametto ausiliario che è l’elemento di cui parla principalmente il Kecht, il quale è convinto che questo rametto eserciti una particolare influenza sul bocciolo, anche se non intendiamo discutere con lui chiedendoci di che genere sia tale influenza. Anche noi siamo convinti, come Kecht, che si tratti di un organo necessario all’ulteriore crescita della pianta e al superiore sviluppo della gemma, e ciò è dimostrato anche dal fatto che i boccioli che si sviluppano dopo che siano stati tolti i rametti ausiliari non producono tralci che portano frutti, ma unicamente sistemi di nodi del tipo sopra descritto, per poi lignificare completamente. Ma i viticoltori, non avendo idea della sua efficacia fisiologica, e dal momento che non porta frutti, riterranno superfluo e dannoso un simile organo, da noi definito rametto ausiliario; ma non c’è da biasimarli, visto il loro livello culturale. I bisogni degli uomini sono talmente vari e al contempo talmente limi-

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tati che non ci si deve certo stupire se si dirigono costantemente verso l’utile, ritenendo dannoso ciò che non reca un immediato giovamento. In effetti, noi estirpiamo come erbaccia qualunque erba che non sia stata seminata, che si propaga da sé, contro la nostra volontà e a nostro danno, e deve dunque cedere alle nostre intenzioni e ai nostri scopi, senza per questo veder ridotta la sua importanza agli occhi del botanico. Tuttavia qui si presenta il caso singolare per cui un organo che noi abbiamo ritenuto sia utile che necessario, viene considerato e respinto dalla massa in quanto inutile e dannoso. Kecht afferma, di contro, che occorre conservare questo rametto per le ragioni citate in precedenza, per poi rimuoverlo in autunno, una volta che abbia assolto il suo dovere di portare ad una consistenza compiuta il bocciolo retrostante. Ma poiché in autunno tale rametto laterale, a differenza della foglia preparatoria, non cade, ma resta attaccato alla pianta, se ne deve dedurre che la natura ha voluto che anch’esso continuasse a crescere. Ci si chiede allora cosa accadrebbe se questo rametto non fosse rimosso. Io rispondo che continuerebbe a crescere, e impedirebbe talvolta la crescita della gemma che si sviluppa dietro di lui, talvolta invece ne risulterebbe a sua volta ostacolato: si danno infatti dei casi in cui da un simile rametto si formano dei tralci realmente completi e portatori di frutti (si veda Kecht, pagina 50.). È senza dubbio indispensabile che si realizzino nuove proposte analoghe. In primo luogo è necessaria la convinzione, vale a dire piena conoscenza delle massime in base alle quali agire, e che confermano il riconoscimento della dignità e del valore di simili nuove acquisizioni. Da ciò deriva poi l’entusiasmo, l’impulso ad operare in conformità a tali princìpi, e a incoraggiare anche altri ad agire in base ad essi. In ambito pratico però si richiede una versatilità della mente, che consenta di rendere applicabile a tutti i casi ciò che è stato semplicemente riconosciuto. È inoltre necessaria una vita lunga, per poter attuare tale applicazione, e perché essa si riveli realmente pratica, conforme all’intelletto e comprensibile a molti. In tal modo infine ciò che è effettivamente giusto, ragione-

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vole e utile potrà diventare una routine, in cui si potrà far uso anche di ciò che è irragionevole piegandolo ai giusti scopi. Dornburg, 7 agosto 1828. Mi pare importante osservare che al terzo nodo manca la forcella; ci si può chiedere se l’anno seguente, quando il tralcio sarà diventato vite e farà spuntare i suoi boccioli, potrà venire alla luce e svilupparsi un grappolo, nel punto in cui si produce sempre un piccolo rigonfiamento; se anche qui si formasse solo una forcella, si darebbe un caso certamente singolare. Denominazioni318 differenti 1. Ramo antecedente. Gli attribuiamo questo nome, in analogia alla foglia antecedente, poiché consideriamo tale rametto un elemento preparatorio che agisce in cooperazione, ragion per cui riteniamo utile la sua esistenza. 2. Deviatore. Così Kecht sceglie di definire questo rametto, poiché esso impedisce l’impulso troppo forte alla trasformazione in legno e dunque consente lo sviluppo di tralci che portano più frutti. 3. Adduttore. Noi scegliamo invece tale nome perché, fin quando tale rametto persiste, crescono le energie della gemma, che dunque non soltanto produce dei tralci sani che in seguito si trasformano in legno, ma prepara tralci già pienamente capaci di produrre frutti, prefigurando così la loro maturazione. 4. Avarizia. È ciò a cui si riferisce l’osservazione secondo cui l’uomo considera dannoso e da rifiutare ciò che non trova immediatamente utile, e dunque strappa via in modo maldestro anche questo rametto antecedente. Secondo noi, tutte le parti osservabili del nodo mantengono pari dignità. Foglia preparatoria Ramo preparatorio Gemma o bocciolo Viticcio e, in caso fortunato, Grappolo.

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Questo rametto preparatorio diventerebbe anch’esso un tralcio se si rimuovesse la gemma collocata al di sopra e dietro di lui; vi si sviluppano, pur nella sua debole condizione, dei viticci, e in seguito potrebbero certo prodursi anche dei grappoli. Ci si chiede se, in caso di getti molto forti, si sia mai sviluppato in quel punto un grappolo. NB. Ho osservato su un nodo un doppio sviluppo dell’intero sistema della gemma, con un ramo e una foglia antecedenti; la forcella tra i due, però, era soltanto semplice, e dunque, se osservata con attenzione, restava sempre nello stesso punto. schema per un saggio sulla viticoltura Imparare il modo migliore per curare le viti, e distinguere il giusto trattamento da quello sbagliato. È necessaria una conoscenza della natura di questa importante pianta. Nella mia esposizione prenderò le mosse dal nodo. Significato del nodo in generale Rallentare e sollecitare Concludere e iniziare Ciascun nodo racchiude l’intero sistema della crescita vegetale. Si mostra il nodo di un tralcio di vite. L’attenzione è destata da: foglia antecedente rametto gemma. La foglia antecedente fa parte del sistema precedente Costituisce la sua conclusione Si rimanda la trattazione dell’ulteriore crescita al seguito. Il rametto è proprio della vite Vi è forse qualcosa di simile in altre piante? Sua importanza. Intimamente affine alla gemma collocata al di sopra e in certa misura dietro il rametto Lo precede solo nello sviluppo

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È propriamente identica ad esso La gemma ha l’identica importanza che mostrano le gemme e i boccioli di altre piante. Nella gemma si nasconde il futuro tralcio di vite. Sul lato opposto del nodo, nel punto in cui solitamente in altre piante si sviluppa una coppia di foglie, appare la forcella Si tratta di un elemento estremamente delicato, in forma di filamento o di corda, che si divide per lo più in due, ma anche in più prolungamenti, non così robusti come i denti della forchetta, da cui tuttavia ha preso il nome. I latini la chiamano capreolus I francesi vrille Quest’ultima denominazione è molto aggraziata Uso alterno di tali denominazioni Grande sensibilità di quest’organo I suoi fili si incurvano all’estremità, come piccoli corni Da tale sensibilità deriva la facoltà di attorcigliarsi per poi attaccarsi. Spiegazione più dettagliata di come ciò avvenga Contatto con un oggetto Stimolo a contrarsi accanto ad esso È possibile che avvolga l’oggetto avvolgendosi ad esso, oppure che si attorcigli e si intrecci liberamente Quest’organo spunta dalla corteccia, dal lato opposto della gemma, senza alcuna preparazione Non è una foglia antecedente, poiché non si nota alcun accenno ad un seguito Tuttavia, nel punto in cui si separano i denti della forcella si trova una scaglia secca, piccolissima e appena visibile Ne deduciamo un lievissimo accenno al fatto che anche qui si produce un organo simile a un ramo Questo si mostra spesso, come da noi auspicato Infatti, dalle forcelle si sviluppano immediatamente un rametto e un piccolo stelo, nudi e privi di foglie, quasi privi di scaglie al pari di quelle. Tuttavia presentano una fioritura molteplice, producono delle bacche succose in cui si trovano i semi destinati alla riproduzione delle piante con la semina. Dopodiché, notiamo che come per miracolo nascono i grappoli, per noi così importanti.

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A questo proposito si rendono nuovamente necessarie alcune considerazioni generali Esiste un duplice modo di moltiplicazione delle piante: mediante le gemme e mediante i semi Quest’ultimo modo si sviluppa solitamente in una certa successione, che è possibile osservare Per la gemma si presenta uno sviluppo graduale, dalla foglia al calice, quindi alla corolla, fino alle antere e ai pistilli. Nel nostro caso però avviene a salti L’infiorescenza appare come all’improvviso Il risultato di tutta questa vegetazione coincide, in ultima analisi, con le bacche succose che contengono il seme Non prendiamo affatto in considerazione lo scopo della pianta, vale a dire la produzione del seme. Ciò che ci interessa è il succo, l’unico che appare importante, e al quale abbiamo dedicato così tante fatiche; per la natura costituisce invece una mera circostanza secondaria Abbiamo avuto modo di enunciare tutte queste considerazioni senza allontanarci dal nodo. Torneremo di nuovo al nodo, anche dopo aver compiuto ulteriori osservazioni. Dornburg, 8 agosto 1828. Se consideriamo la vite come un insieme che ci appare composto di radice, stelo, viticcio e tralci, riconosciamo che si tratta di una pianta estremamente carica di succhi. Essa assorbe in sé l’umidità in vari modi Tramite la radice, come dimostrano le gocce che in primavera stillano dagli steli feriti Probabilmente anche tramite le foglie preparatorie. La sua delicata corteccia, durante il primo anno, potrebbe anch’essa assorbire umidità Ciò basti; infine essa dimostra di elaborare in misura notevole i propri succhi, offrendo come una benefattrice il succo più gradito. Una simile viva disposizione e funzione vegetativa ricca di succhi è stimolata da una temperatura moderata. Il viticcio diventa verde e fiorisce con un calore discreto e costante Solo per la maturazione del frutto la pianta richiede maggior calore,

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Se il calore aumentasse ancora o durasse più a lungo, la pianta finirebbe per seccare molto presto. La sua coltura è dunque limitata a zone dal clima temperato Ciò conferma l’esperienza per cui solo nelle zone intermedie si produce vino con profitto. A tale proposito alcuni sviluppi secondo Schouw319. A questo punto bisognerebbe esporre brevemente la geografia delle piante secondo Schouw. Ritorno al nodo, Breve ricapitolazione di ciò che si è osservato. Qui si prende in considerazione la radice, di cui non abbiamo ancora parlato finora. Suo sviluppo a partire dal nodo, e in particolare dal lato delle gemme, Procedimento consueto impiegato per le propaggini320 e la loro coltura. Le gemme poste sotto terra mettono radici. Quelle superiori producono tralci Loro trattamento. Intoccabilità durante il primo anno Vegetazione del secondo anno. Potatura autunnale Terzo anno e così via.

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Sulle leggi della formazione delle piante321

[Traduzione dall’Organografia di De Candolle] Quando si è iniziato a studiare il regno minerale, si percepivano soltanto le sue irregolarità, dalle quali però talvolta scaturivano dei sintomi più o meno significativi di un ordine conforme a leggi. Riguardo all’astronomia, i segni di un ordine effettivamente sussistente erano evidenti, ma delle anomalie apparentemente inspiegabili, come ad esempio il movimento retrogrado delle costellazioni, facevano temere che sarebbe stato impossibile scoprire le leggi nascoste; e tuttavia tali leggi sono state scoperte, cosicché queste apparenti deviazioni si sono trasformate nella più gradita conferma della regola. Trattandosi di grezzi corpi terrestri, le irregolarità erano così numerose, e le forme regolari si presentavano in natura così raramente che appariva quasi impossibile rintracciare una qualche legge generale. Ma progressivamente si è riconosciuto che quasi tutti, se non probabilmente tutti i corpi privi di forma, si trovavano anche sotto l’aspetto di cristalli, e dunque la regolarità si rivelava propria della loro più intima natura. Tra i cristalli poi si è notato che una gran quantità di forme molto diverse dipendeva dalle condizioni semplici di forme originarie poco distanti le une dalle altre, che dunque sono state ricondotte a un numero molto ridotto di tipi, suddividendo in classi le circostanze principali che determinavano le forme derivate. Qui, come in molti fenomeni dinamici, si notava che le irregolarità dovevano essere dedotte senz’altro dall’intera-

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zione di diverse cause regolari, che si compenetrano e si intrecciano nei risultati. Se poi analizziamo più da vicino il percorso seguito dalla cristallografia, apprendiamo che Romé-de-l’Isle322 considerava i cristalli come dei corpi dati, e spiegava le loro differenze tramite recisioni; per contro Hauy323, risalendo sul piano teorico alle particelle elementari, che in realtà non cadono sotto i sensi, riusciva comunque a spiegare nel modo più efficace le forme più aggrovigliate, prendendo in esame i diversi modi in cui tali particelle si combinavano reciprocamente. Il primo dei due studiosi seguiva un modo di procedere analogo a quello dei botanici che considerano una foglia o una corolla come un tutto in sé conchiuso, che per una causa ignota sia stato inciso ai bordi; il secondo invece è stato per me una guida, quando miravo a dimostrare che i diversi intagli degli organismi vegetali sono da ricondurre essenzialmente alle diverse specie e ai diversi gradi della loro interazione. Si possono dunque rinvenire delle corrispondenze nel percorso seguito da queste due scienze; ora cercheremo di capire se se ne possono scoprire di simili anche nella loro natura. Questa regolarità, che attualmente chiunque riconosce come la forma che determina i corpi inorganici, non si dovrebbe forse ritrovare anche nei corpi organici? E non dovrebbero forse le deviazioni, così frequenti nei corpi organici, potersi spiegare, come nel caso delle nature inorganiche, tramite un intreccio di cause, ciascuna delle quali, considerata singolarmente, potrebbe produrre un effetto regolare? A tale riguardo, però, coloro che si ritengono pienamente convinti della normale regolarità dei corpi organici devono ammettere e riconoscere che in quest’ambito non vigono le stesse leggi operanti nelle nature inorganiche, e che, piuttosto, agli esseri organici resta del tutto estranea ogni regolarità di tipo geometrico. E in effetti è probabilmente impossibile trovare un qualche fiore che mostri tutte le sue foglie geometricamente uguali, o una foglia i cui due lati si corrispondano in senso matematico. Malgrado ciò, non si può negare tuttavia che, perfino ad un’osservazione solo superficiale, si resta colpiti da una certa regolarità dei corpi organici, cui si è dato il nome di simmetria. È evidente che proprio le piante offrono molteplici esempi di simmetria, e simili organismi sono stati definiti regolari per

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indicare un dato di fatto, un evento, senza per questo accostare una simile simmetria regolare alla proporzione geometrica presente nella struttura dei corpi inorganici. Del resto non si può negare che in moltissimi casi tratti dal mondo organico questa stessa regola si trovi violata, e allora ci si chiederà se in un simile manifestarsi di un’irregolarità la legge vada perduta, o se invece quest’apparente deviazione non sia forse causata a sua volta da cause regolari. Fino all’età moderna si è solitamente optato per la prima delle due ipotesi, descrivendo tutte le irregolarità delle piante e degli animali come se non potessero celare in sé un ordine normativo. Ogni forma insolita di un organo riceveva un nuovo nome ed era impossibile riconoscere una concordanza tra simili organi; ciascuna forma deviante di un organismo era considerata come una deformità se si presentava in casi rari, e ci si accontentava di questo termine insignificante per esimersi da un esame più attento; se il fenomeno si ripeteva più di frequente, allora se ne faceva una specie particolare, perdendo in tal modo ogni strumento determinante adatto a distinguere con precisione i vari esseri; non si era in grado di ordinarli almeno in certa misura in base a un principio metodico, poiché già la più piccola anomalia riscontrata in due organismi o gruppi impediva immediatamente di riconoscere con sicurezza ogni altra concordanza. Quanto più cresceva il numero degli oggetti scoperti, che venivano studiati con attenzione, tanto più ci si convinceva del principio che io ho esposto come il primo o uno dei primi per il suo carattere universale: vale a dire l’idea per cui è assolutamente certo che gli esseri organici sono simmetrici, ovvero regolari, non appena li si considera in riferimento al loro tipo. Ciò può valere dunque a persuaderci del fatto che le irregolarità apparenti delle piante derivano da fenomeni che agiscono costantemente all’interno di determinati confini, in grado di manifestarsi singolarmente o in concomitanza, come le deformazioni o degenerazioni di certi organi, la loro fusione reciproca o con altri organi, e la loro moltiplicazione in base a regole e leggi. L’intera prima parte della mia teoria elementare è dedicata a questo scopo, vale a dire a enunciare una legge simile tramite esempi e deduzioni; vi rimando il lettore, limitandomi in questa sede ad alcune considerazioni che dovrebbero mettere

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in luce proprio l’importanza e l’utilità di un simile metodo, sia che si intenda studiare le piante nella loro organizzazione o nella loro classificazione. Il numero degli organi realmente distintivi324 si limitava, al di là delle supposizioni, non appena ci si accingeva ad osservare più da vicino la loro natura; si vide che alcuni di quelli a cui si era attribuito un ruolo significativo non erano altro che modificazioni di altri organi. Si apprese dunque a riconoscere uno stesso organo sotto le più diverse apparenze esteriori, e di conseguenza a perseguire una organografia realmente comparata. Certo, occorre comunque usare prudenza nel confrontare esseri troppo distanti, e bisogna alludervi con cautela e ponderazione; ma anche se si trovassero degli esempi dubbi e oppugnabili, grazie ad un tale metodo si potrebbero rinvenire incontestabilmente degli accostamenti tra organi apparentemente molto distanti. In particolare rientrerebbe in tale ambito quella massa numerosa di eventi che sono definiti con il nome di mostruosità325, e che il metodo che si seguiva in passato non riusciva a comprendere né a spiegare, lasciandoli così da parte con arrogante disprezzo, di modo da evitare l’onere di studiarli. Tutta questa massa di fenomeni, dico, ha conquistato una nuova chiarezza e un rinnovato interesse da quando è stata osservata dal giusto punto di vista, vale a dire come indice di una normale conformità a leggi originarie rivelata da simili esseri. Le mostruosità possono essere viste come esperimenti effettuati dalla natura a vantaggio dell’osservatore. Talvolta, infatti, possiamo notare le peculiarità degli organi quando non si presentano fusi tra loro, talvolta invece scorgiamo come sono realmente quando nessuna causa occasionale ne ostacola la crescita. Se dunque prendiamo le mosse dalla convinzione che la struttura naturale sia regolare e che ciò che non soggiace alle regole tragga origine da diversi fattori perturbativi, notiamo che le mostruosità, se sappiamo analizzare i motivi che le hanno prodotte, ci conducono ad una comprensione più profonda delle regolarità, proprio in quanto siamo in grado di cogliere le cause che le deviano rendendole irriconoscibili. Ogni teoria della classificazione naturale poggia evidentemente sull’intima conoscenza degli organi e delle loro modificazioni; la disposizione delle piante in base a un ordine naturale presuppone, io credo, che in futuro si possano fondare

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i caratteri di tale ordinamento su ciò che costituisce la base della loro regolarità, e che si possano riferire le diverse forme di generi e specie all’effetto di quelle cause che tendono a modificare la regolarità iniziale. In tal modo, infatti, ogni famiglia di piante, al pari di ogni famiglia di cristalli, si esprimerà in una condizione regolare, che noi possiamo ora vedere con i nostri occhi, ora comprendere con l’intelletto. Questo è ciò che io qui chiamo il tipo 326 originario, che tuttavia è condizionato da fattori di fusione, di fallimento, di diminuzione o aumento, agiscano essi in modo separato o concomitante. In tal modo infatti scaturiscono i caratteri convenzionali di quegli esseri che sono tra loro affini. Tuttavia, simili modificazioni sono costanti entro certi confini, come avviene per le forme secondarie dei cristalli; e ciascuna famiglia, ciascun genere è soggetto in misura maggiore o minore a tali cause determinanti, in ragione della sua particolare natura: infatti, le piante formate in base ad un medesimo tipo non possono essere ritenute identiche al modo di cristalli che mostrino uguali componenti fondamentali. Ma se la botanica a questo riguardo è rimasta indietro rispetto alla mineralogia, la colpa deve essere attribuita per un verso al fatto che nel suo ambito si trova una molteplicità di forme molto più grande, e una maggiore varietà di cause agenti, per l’altro invece al fatto che tutti questi fenomeni soggiacciono ad una forza particolare, ad un impulso di formazione derivante da leggi molto più oscure e difficili da studiare di quanto non siano le leggi dell’affinità e dell’attrazione. La semplice descrizione delle forme vegetali e degli eventi relativi è migliorata notevolmente, da quando la conoscenza di alcune leggi generali ha invitato i botanici impegnati in tali descrizioni a riflettere più a fondo su ciò che vedevano. Coloro che non ritengono ancora valide queste leggi possono, senza accorgersene, descrivere delle deviazioni come fossero le condizioni naturali degli esseri osservati, poiché non sono spinti a chiedersi se ciò che vedono sia anche contrario all’ordine; analogamente, possono trascurare facilmente gli organi più piccoli, poiché non vi è nulla che ne suggerisca loro l’esistenza. Inoltre, se simili studiosi sono dotati di una mente incline più alla precisione che all’ampiezza della prospettiva, fanno molta fatica a descrivere con esattezza certe particolarità, che si potrebbero definire con molta maggior chiarezza e sintesi rifacendosi a delle analogie. Infine, nel caso in cui due

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botanici descrivano in modo del tutto divergente il medesimo organismo, un caso purtroppo non raro, non esiste evidentemente altro mezzo per riconoscere la verità se non esaminare in quale misura le descrizioni concordino con le leggi fondamentali. Ma se vogliamo disporre le piante in un ordine razionale, dobbiamo costantemente scegliere delle descrizioni più o meno precise, visto che non siamo più nell’epoca in cui un solo uomo era in grado di osservare con i propri occhi tutte le piante note. A seguito di tali considerazioni, si avverte sempre più, con il progredire della scienza, l’esigenza di conoscere le leggi fondamentali della formazione organica. E tale esigenza, sentita da tutti coloro che aspirano alle verità universali, ha causato, nella scienza, il sorgere di due scuole. Alcuni cercavano di formulare le leggi della formazione organica in base a considerazioni generali, come si dice a priori, mentre altri esaminavano attentamente i casi in cui una creatura si allontanava dalla regolarità, scoprendo così che anche le deviazioni accadono quasi sempre in base a identici princìpi, di modo che, raggruppando le apparenti irregolarità, potevano ricondurle progressivamente a leggi e regole. Dunque, risalendo dalle manifestazioni singole alle più generali, anch’essi mirano a riconoscere quelle leggi, ma con un procedimento a posteriori. I membri della prima scuola, pretendendo di dedurre tutto da leggi generali, erano costretti evidentemente a sforzarsi di rendere concordi le loro conclusioni con i risultati allora noti; ma poiché tali dati erano stati osservati e raccolti senza alcuna teoria ponderata, accadeva spesso che questi filosofi dovevano impiegare molta fatica per riuscire ad accordare le loro teorie in casi osservati con poca precisione. Quando si attenevano invece ad osservazioni più esatte, è difficile capire se il loro lavoro intellettuale vero e proprio discendesse dalle leggi generali per giungere alle manifestazioni particolari o se viceversa non risalisse dal particolare al generale. Si consideri ad esempio il modo davvero ammirevole con cui Goethe, impegnato solitamente in tutt’altre riflessioni, ha intuito l’organizzazione delle piante327; si è tentati di credere che egli, piuttosto che scoprirla, l’abbia piuttosto dedotta riconducendo acutamente al piano generale alcuni singoli casi felicemente scelti. Si ammetterà, comunque, che le leggi indicate a priori sono da

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ritenere delle ipotesi più o meno geniali, fino al momento in cui non siano confortate dalle osservazioni. Coloro che si attengono invece al secondo metodo citato, si impegnano in due modi nell’attività scientifica generale: da un lato raccolgono con cura tutte le singole manifestazioni, per reperire le leggi parziali che gradualmente, confrontate tra loro, possono condurre a leggi più generali; d’altro lato poi trattano le opinioni formulate a priori solo come ipotesi e cercano di confermarle o respingerle mediante un’attenta verifica, tentando in particolare di determinare in che misura le leggi particolari già riconosciute si approssimano o divergono da quelle affermazioni generali. A me pare che questo sia il percorso intrapreso in tutte le scienze fisiche, nonché l’unico che possa condurre a delle verità universali. Se si trovano ancora dei botanici che credono che non vi siano affatto delle leggi generali nella struttura degli esseri organici, oppure che non valga la pena cercarle, dipende a mio avviso esclusivamente dal fatto che essi si sono lasciati spaventare dalla quantità di casi particolari, ovvero dal fatto che hanno scelto senza metodo solo alcuni fenomeni a portata di mano. Ma di giorno in giorno si correggerà l’errore in cui incorrono simili conclusioni fallaci: da un lato grazie alla grande quantità di singoli oggetti, che ci costringe ad ordinarli e a ricondurli a determinati princìpi generali dell’organografia; d’altro lato, invece, in virtù della felice inclinazione di tutti i giovani botanici ad esercitarsi a comporre monografie che li inducono a studiare il fondamento di ogni regolarità, invece di occuparsi della molteplicità di piante che si riscontra a livello locale, in modo tale che, distolti totalmente dal superiore modo di osservare, finiscono per abituarsi a cercare più le differenze che non le concordanze tra gli esseri. Concluso a Dornburg, il 2 settembre 1828.

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Visione estetica delle piante328

Fin dall’infanzia ho avuto rapporti con pittori di paesaggio329 In particolare con un pittore dedito ai soggetti floreali. Del mio rapporto con lui ho parlato più diffusamente in Poesia e verità. Storia della pittura di soggetto floreale L’apice è stato raggiunto nei Paesi Bassi Huysum Rachel Ruysch330. L’immergersi nella bellezza L’entusiasmo che suscita. Giardinieri che curano i fiori. Il valore più alto è attribuito alla bellezza delle corolle, alla regolarità del loro disegno, splendore, abbondanza. Lavoro preliminare a quello dell’artista A cui viene procurato un oggetto degno. Questo ramo dell’arte non si è estinto Serie di artisti di cui ho visto i disegni a colori a Francoforte sul Meno, presso il Dr. Grambs331 Probabilmente si trovano attualmente presso la Fondazione Senckenberg332. Progressi della botanica descrittiva, che cerca di rendere superflue le illustrazioni, Ad esse tuttavia, in ultimo, non si deve rinunciare Nell’impulso inarrestabile di chi possiede un talento per la riproduzione

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È inoltre estremamente comodo per una più rapida trasmissione sia del complesso sia dei dettagli di un corpo organico. Nonché del concetto vivo, che in ultima analisi si compone di parola e di immagine. Gli appassionati d’arte sono al contempo amanti della botanica L’artista deve rivolgersi a loro. Gli Olandesi volevano la bellezza, la magnificenza Attualmente si esige il vero, ciò che suscita curiosità Quelli si limitavano entro una ristretta cerchia Questi devono impegnarsi per raggiungere la massima molteplicità. Ne deriva che allora l’arte era maggiormente favorita, ed era più facile raggiungere la composizione di luce e ombra, forma e colore. Esempi da epoche antiche e moderne. Dornb., 8 settembre 1828.

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Metamorfosi poetiche333

La fantasia è molto più vicina alla natura di quanto non lo sia la sensibilità: quest’ultima è inclusa nella natura, mentre quella si libra al di sopra. La fantasia è all’altezza della natura, mentre la sensibilità ne è dominata. Notiamo che la sensibilità primitiva, vivace e abile, si innalza sempre verso la fantasia. E subito diventa produttiva e antropomorfica. Rocce e torrenti sono animati da semidivinità, e divinità inferiori finiscono per assumere, allo stadio più basso, l’aspetto di animali: Pan, i fauni, i tritoni. Gli dèi assumono forma animale per soddisfare i loro scopi, e simili favole sono le più antiche di tale genere. In Ovidio l’analogia tra le membra umane e quelle animali è espressa con grande efficacia nella metamorfosi. Dante334 presenta un passo singolarissimo di questo genere. Piante Per quanto la forma delle piante si discosti da quella umana, il poeta sa conferire comunque verosimiglianza e interesse a simili metamorfosi. Dafne, Mirra, Giacinto, Narciso, Cinzia: ciascuna di esse è una creazione straordinaria che, se realizzata nel suo senso proprio, susciterebbe stupore anche in un pensatore.

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Quando questo concetto fa il suo ingresso nella scienza335? Dove si trovano le sue prime tracce? Probabilmente oscilla tra l’ipotesi della preformazione e il miracolo, in quanto il concetto di una versatilità libera e necessaria dell’essere organico è apparso solo in tempi successivi. Come e dove Linné ha rinvenuto un tale modo di pensare? Egli abbandona poi questa modalità di rappresentazione. È possibile verificare se sia accaduto per sua propria convinzione oppure per condiscendenza verso i suo i contemporanei atomistico-realisti. Egli formula la prolessi336, che non è altro che una teoria dell’inscatolamento, artificiosa e complicata. Una preformazione strutturata in modo vario. Il suo senso autentico risiede nell’anticipare teorie di molti anni a venire. Richiamarsi a Wolff337, accademico di Pietroburgo, esporre la perfetta armonia da lui raggiunta, e considerare l’anno in cui ciò accadde. Necker338, simile per molti versi.

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Monografie fondate sulla morfologia339

[bignonia radicans 340] Quando, nel settembre del 1786341, vidi nel giardino botanico di Padova un muro alto e largo interamente ricoperto da una Bignonia radicans, con fasci di fiori dalle corolle a calice, di un colore giallo intenso, che pendevano con indicibile ricchezza, ciò mi fece un’impressione tale che rimasi particolarmente affezionato a questa pianta e, tutte le volte che la incontravo nei giardini botanici, nell’orto botanico di Weimar, in cui era coltivata con gran cura, e anche nel mio giardino privato, la osservavo sempre con particolare attenzione. Si tratta di una pianta rampicante che sembra avere la tendenza a propagarsi all’infinito, salvo che da essa si staccano proprio quegli organi per mezzo dei quali potrebbe aderire, aggrapparsi e fissarsi. Perciò la forziamo a crescere in altezza tramite una struttura di sostegno a cui possiamo legarla, mantenerla eretta e disporla a salire molto in alto. Anch’io ho continuato a coltivarla in questo modo, che avevo sempre visto impiegare, e ho notato con un certo disappunto che i nuovi rametti si protendevano dietro le assi della struttura, premendo contro il muro, di modo che, in certo senso maldestramente, finivano per schiacciare i bei fasci di fiori, sottraendo a chi osservava il piacere di ammirare la cascata di fiori. Dopo vari studi e osservazioni ho infine scoperto quanto segue. Analizzando un ramo di Bignonia ho notato che le foglie imparipennate spuntano a coppie, e al di sotto di esse, poste-

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riormente, si mostrano delle escrescenze ghiandolari342 che, ad un moderato ingrandimento, mostrano una forma simile a un grappolo. Le tre file centrali e discendenti possiedono circa quindici piccole bacche o acini, le successive ne hanno un numero inferiore, di modo che infine si produce proprio una forma a grappolo. Due di tali organi si trovano uno accanto all’altro, come detto, sotto la coppia di foglie, all’altezza di ciascun nodo e sul lato posteriore. Gli acini di tali apparenti piccoli grappoli mostrano inizialmente un bell’aspetto chiaro, come ho potuto osservare, anche se una sola volta, alla fine di agosto del 1828. Perciò nella prossima primavera dovrò fare maggiore attenzione a questo fenomeno. Nel frattempo li ho immersi sotto spirito, dove hanno mantenuto la loro forma, assumendo però al contempo un colore marrone. Del resto, quest’organo si presenta spesso con l’aspetto del sughero, marroncino, secco, alto circa una linea, setoso e cresposo, e si tenderebbe a considerarlo come un’escrescenza inutile e forse dannosa. La sua forma non si mantiene nel complesso sempre identica, si allunga in basso verso lo stelo, si raccoglie come una piccola ciocca, perdendosi negli incavi, mentre al suo posto si mostrano piccole fossette che scendono fino al legno. Un’unica volta l’ho trovato sotto l’aspetto di una robusta ciocca, lunga nove linee, che si ramificava come un’autentica radice, i cui delicati filamenti si rivelavano al microscopio ricoperti da peli sottili. Ci si potrebbe chiedere se questi punti, in condizioni adatte, non facciano spuntare realmente delle radici; quantomeno non ci si può trattenere dal considerare tali organi come conduttori di umidità, necessaria, a quanto pare, ai viticci adulti, che si allontanano dalla radice e dal terreno. Su moltissimi giovani rami di una Bignonia che cresceva in alto lungo le pareti di un edificio, non si trova alcuna traccia di quest’organo, mentre una pianta che si trovava in una posizione sfavorevole, in un luogo umido e poco soleggiato, e che era cresciuta come un arbusto alto poco più di un cubito, mostrava i rami carichi, su molti nodi, di simili organi, e ciò spiega l’interazione: la crescita dell’organo è stimolata dall’umidità della pianta, che l’organo deve poi trasmettere di nuovo alla pianta medesima. Mi dico dunque che si tratta di una pianta rampicante, che però non cresce verso l’alto, bensì pende verso il basso, e sba-

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gliamo se la costringiamo a svilupparsi in altezza, dove è priva del suo vero e proprio nutrimento. La si ponga quindi in un luogo alto, e da lì la si lasci pendere a cascata su terrazze e rocce: è così che si potrà vederla al massimo della sua bellezza. I rami più giovani si accosteranno sul retro alla pietra umida, e assorbiranno umidità sufficiente per sviluppare le foglie e i loro fasci di migliaia di fiori. I ramoscelli assumeranno anche, in tal modo, una posizione naturale. Si osservi, infatti, che adesso, se un ramo si appoggia al muro e produce alla sua estremità, come di consueto, un carico di fiori, finisce per piegarsi, volgendo verso la luce e il sole il suo lato posteriore, che sviluppa su di sé proprio gli organi del nutrimento. In tal modo, dunque, proprio nel momento in cui il completamento della pianta richiederebbe l’azione di questi elogiati organi, essi si seccano e muoiono. Allo stesso modo, poi, cadono anche le foglie del ramo e i fasci di fiori pendono da uno stelo spoglio, anziché rivestito di foglie fino all’infiorescenza. La vite, che con i suoi viticci è in grado di fissarsi ovunque, può essere lasciata rampicante nel modo che appare migliore e più utile, ma una pianta dalla bellezza così appariscente come la Bignonia radicans deve essere piantata in un luogo alto da cui possa pendere; se ciò avviene in un punto soleggiato si vedrà una cascata di campanule dorate, mentre finora questa vistosa pianta ornamentale è stata coltivata sì con particolare cura, ma i suoi risultati si sono mostrati soddisfacenti solo fino ad un certo grado. In aggiunta devo accennare ancora al fatto che chi volesse dedicare una monografia a questa pianta, noterebbe con piacere che su singoli piccioli delle citate foglie pennate, proprio nel punto dell’attaccatura, si trovano da sei a otto ghiandole simili; nondimeno sui rami, nel punto in cui ad un nodo se ne sostituisce un altro, appena sotto o accanto alla gemma, spunta una peluria delicatissima, e infine il ramo, in tutti gli interstizi tra nodo e nodo, è ricoperto di innumerevoli puntini bianchi, di modo che non vi è alcuna parte della pianta che sia privata dei mezzi per attrarre dall’atmosfera o dall’ambiente circostanze l’umidità necessaria al suo nutrimento.

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gesneria flacourtifolia 343 Un esemplare di questa pianta, proveniente dal Belvedere, mostra quanto sia arbitraria la sua disposizione delle foglie sullo stelo. Tale esemplare aveva tre rami, il primo dei quali mostrava tre foglie verticillate e saldate insieme ad ogni nodo; il secondo aveva due foglie poste una di fronte all’altra, che si alternavano ad angolo retto di nodo in nodo. Sul terzo ramo si notavano delle foglie che spuntavano singolarmente e mutavano la loro disposizione relativa sullo stelo; su ciascun ramo i fiori mostravano la stessa posizione delle foglie, dal che possiamo dedurre che ogni foglia reca sul dorso la propria gemma, e può svilupparsi indipendentemente o meno rispetto alla sua vicina, di modo che ne risulta la massima varietà di formazioni. rhus cotinus 344 De Candolle, Théorie élémentaire de la Botanique. Paris 1819, pag. 102. Tutti conoscono la graziosa testa lanosa che orna questi cespugli nel periodo della fioritura. Se la si esamina più da vicino, si vedrà, in accordo con il signor Deleuze, che tutti i piccioli che portano frutti non presentano peli, mentre nei casi in cui non si producono frutti, il nutrimento destinato a questi ultimi torna a vantaggio del picciòlo, che sviluppa una fitta peluria a cui, senza questo fattore casuale, non avremmo dato alcun valore, e che da sola ci stimola a prendere in esame questo arbusto.

Le cime lanose dei rami, che conferiscono a quest’albero un aspetto bizzarro, da cui è derivata anche la denominazione tedesca di albero-parrucca, non sono altro che foglie modificate, poste su delicati e affusolati prolungamenti dei rami, che si sono liberate dell’anastomosi, e dunque anche del parenchima, e ora appaiono come fili ricoperti di lievissimi peli, ciascuno dei quali presenta, al suo apice, un puntino nero. Ad un congruo ingrandimento, ho potuto osservarne uno aperto a formare un calice da cinque petali che sembravano di color

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marroncino e membranosi, mentre al centro si scorgeva qualcosa di simile al seme. Dornburg, 31 agosto 1828. cissus 345 L’osservazione di questa specie offre ottimi risultati: è l’unica pianta imparentata con la vite, ed esprime in modo molto peculiare tale affinità; anche in questo caso si vede all’altezza del nodo, oltre alla foglia e alla gemma, un rametto che proprio in questo punto produce il grappolo; il viticcio si trova, al pari del grappolo, sul lato opposto, e manca allo stesso modo in corrispondenza di ogni terzo nodo; presenta tuttavia degli organi di appiglio piatti, che gli consentono di attaccarsi. Le foglie sono composte di cinque o anche di tre elementi, o se si vuole: la suddivisione in cinque lobi che mostra la vite è rispettata e attuata nel comune picciòlo. Si potrebbe dire che la pianta sia lussureggiante come la vite a lei affine, ma essa procede senza regola e in forma selvatica. Infatti, proprio il rametto preparatorio cui si accennava è in grado di suddividersi a sua volta in due rametti, uno dei quali porta solo foglie, l’altro produce invece fiori e bacche. [anthericum comosum 346] Da quando ho ricevuto la riproduzione e la descrizione scientifica347 dell’Anthericum comosum ho dedicato ancora maggiore attenzione a questa pianta. Si è abituati a vedere questa specie solo con dei fiori liliacei disposti verso l’alto sullo stelo slanciato. In questo caso invece la vediamo con una costituzione filiforme che, invece delle eventuali corolle di petali, presenta queste meravigliose propaggini aeree che si sviluppano anche sulle piante più giovani. Ho consultato tutti i testi di botanica che abbiamo a disposizione e ho notato diverse somiglianze, in particolare una prossimità con l’Anthericum divaricatum (Jacquin348, Plantarum rariorum, vol. IV, tab. 414). Anche quest’ultimo produce dalle gemme dei rametti filiformi sul lato, salvo che mancano i piccoli ciuffi, dettaglio che lo distingue dalla nostra pianta.

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Mi è apparso singolarissimo, però, ciò che ho osservato tre o quattro mesi fa: in uno dei filamenti della mia pianta, appena sotto il ciuffo terminale, si era prodotto un frutto, costituito da tre piccole capsule a forma di lenticchie, concresciute alla base, che si erano formate per effetto della corolla, appassita, seccata e avvolta su se stessa, ed erano rimaste di un colore verde smeraldo per molte settimane, finché infine a metà gennaio si erano aperte spargendo i semi; io ho raccolto uno dei semi, dalla forma di una minuscola lenticchia, nero e schiacciato su un lato, come se non fosse giunto a piena maturazione. L’ho affidato alla terra, vediamo cosa ne verrà. Noto al riguardo che né al Belvedere, dove queste piante vegetano con molto rigoglio, né presso un appassionato349 del luogo, che le coltiva del pari, si è mai mostrato alcun frutto; non appena ne ho visto uno, dunque, ne ho fatto realizzare un disegno350, come si vede, in parte in dimensioni reali, in parte ingrandito. Probabilmente l’illustrazione sarà accolta nella tavola già presente, e a tale proposito noto che, tra le molte riproduzioni dell’Anthericum, è molto raro trovare raffigurata la sua fruttificazione. Per rendere questa comunicazione il più completa possibile, allego qui le capsule del frutto aperte e ancora unite, in cui si può osservare molto bene la grazia con cui hanno attraversato la corolla del fiore seccata, ferita e chiusa. Allo stesso tempo si può concludere che ciascuna capsula consta di due foglie, completamente anastomosate da un lato, mentre dall’altro sono accostate soltanto fino alla maturazione, al momento in cui si aprono rilasciando il seme. Tra le proprietà di questa pianta se ne possono menzionare ancora molte altre. Sopporta tutto tranne il gelo, mentre sembra trovarsi perfettamente a suo agio con l’umidità, un caldo temperato e una luce moderata, e addirittura in penombra. Le sue radici aeree, che possono in certa misura disseccare per effetto della luce e in particolare del sole, raggiungono la lunghezza di un dito, e somigliano più a una rapa che a una radice, assumendone anche la forma in terreni umidi. Le gemme e i germogli radicali di tali propaggini aeree sono molto resistenti. Io ho piantato in un terreno umido e ombroso un ciuffo simile, quasi marcito, che mostrava solo una traccia di verde, e in breve sono spuntate tre o quattro piante. Il luogo migliore per queste piante è una posizione alta, su

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una roccia, da cui potrebbero pendere e mettere radici ora nel muschio ora su tronchi marciti, propagando sempre più la loro grande capacità riproduttiva. Tralascio altre osservazioni. Weimar, 21 gennaio 1829. rapa ranuncola mostruosa 351 Il gambo che spuntava dalla rapa manteneva il suo colletto fino a un’altezza di due piedi sul livello del terreno, poi si appiattiva raggiungendo quasi un pollice di larghezza, per iniziare poi ad attorcigliarsi e a produrre molti rami con accenni di fiori. Tutto ciò entro la misura di circa un cubito. Da quel punto si trovavano, immediatamente sulla superficie nitida, a righe verdi e rosse, le singole gemme dei fiori, che occupavano una lunghezza di circa un piede; poi verso la sommità e sulla punta si sviluppavano ancora singoli rami, che avevano l’aspetto di creste di galli, ricoperti di gemme e pendenti come ciuffi di setole. Weimar, 20 settembre 1830.

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[Aggiunte alla metamorfosi delle piante]352

[decorso della metamorfosi] Nello sviluppo del seme notiamo un punto di separazione molto deciso: ciò che affonda nel terreno siamo soliti definirlo radice, mentre ciò che tende verso l’alto si può provvisoriamente chiamare stelo. Le prime foglie seminali, i cotiledoni, appaiono di nuovo immediatamente sul punto di separazione353, oppure se ne allontanano tramite un piccolo peduncolo354. In ogni caso si mostra subito una grande forza produttiva in quel punto: vi si addensano molte foglie e gemme, sviluppandosi probabilmente lungo una spirale a determinate distanze. Nei monocotiledoni questo si mostra chiaramente, e la sterminata moltiplicazione, raggiungibile ad arte, al pari della cosiddetta lignificazione, si basa su una simile compressa capacità di sviluppo. Anche nei dicotiledoni si mostra lo stesso fenomeno, che si può osservare nel modo migliore nel punto in cui la radice si dilata subito a fittone, congiungendosi direttamente all’organo destinato a formare lo stelo. Anche la proprietà così singolare e rara di certe gemme che si sviluppano in modo molteplice in questo punto, nonché la loro peculiare modalità di sviluppo, si riferiscono a questo fenomeno, e l’elemento mostruoso torna alla natura. Ci sono noti gli esempi costituiti dal Lathyrus amphicarpus355, la Vica amphicarpa, il Milium amphicarpum. Anche al di sopra dei cotiledoni che si allontanano in certa misura salendo, si registra una fertilità precipitosa: le gemme

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che si trovano naturalmente dietro i cotiledoni della Vicia faba si sviluppano con freschezza e vigore, e anche le gemme successive sullo stelo che tende verso l’alto si sviluppano allo stesso modo; invece le foglie sono trattenute, quasi come stipulae, finché infine, con il progredire della crescita, prevale la formazione foliare, e la pianta prosegue nel decorso regolare della metamorfosi. Anche qui è evidente un arbitrio illimitato entro la sfera di ciò che soggiace a leggi, e le eccezioni si fanno regole. annotazioni al 15° paragrafo della mia metamorfosi delle piante, su sollecitazione del signor ernst meyer 356 di königsberg Dove c’è una foglia c’è anche una gemma, dice Linné. Bisogna tenere sempre in mente tale enunciazione generale, anche se non è possibile dimostrarla in tutti i casi con l’esperienza. Infatti, la grande libertà di agire della natura consiste proprio nel fatto che essa può nascondere certi organi portandone altri in massima evidenza e viceversa, o può procedere allo stesso modo riguardo ad entrambi. Appena si riconosce che i cotiledoni sono foglie, essi acquisiscono il diritto di sviluppare delle gemme accanto a sé, e se anche queste ultime non venissero mai alla luce si dovrebbe comunque formulare in quel senso l’affermazione. Ora però l’esempio della Vicia faba chiarisce la questione. Altri esempi saranno certo più noti a giardinieri e botanici esperti. Si faccia germogliare nel terreno un chicco del genere, lasciandolo spuntare in alto con qualche foglia; si apprenderà allora quanto segue. Estraendo la pianta dal terreno si troveranno i cotiledoni rimasti chiusi, e avvolti entro il loro involucro; aprendoli con cura si noterà che immediatamente alla base, nel punto in cui si uniscono alla radice, mostrano un colore bianco e un contenuto farinoso, ma preludono già ad una decisa forma foliare. La foglia dello stelo che spunta per prima alla superficie del terreno è piccola e lanceolata, ma mostra una gemma evidente dietro di sé, al pari della seconda foglia, già più grande; solo la terza foglia prende pieno sopravvento, inglobando quasi la gemma, e formando ora lo stelo, con le

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foglie che si succedono verso l’alto, finché infine, una volta compiuto il decorso della metamorfosi, le gemme si manifestano come fiori. sul § 15 della metamorfosi Gli organi grazie ai quali si determina l’importante suddivisione delle parti della pianta, tra cui alcune esprimono una decisa direzione e una tensione verso la terra, l’umido e l’oscurità, altre verso l’alto, verso la luce e l’aria, risiedono già nel seme e si possono in alcuni casi riconoscere chiaramente. Possiamo assumere che questo punto in cui tali parti vengono alla luce si manifesti al di sopra oppure lievemente al di sotto della superficie del terreno. Ora però, la natura si è lasciata la piena libertà di produrre foglie o coppie di foglie a distanza variabile da tale punto. Nei monocotiledoni il germoglio foliare nasce proprio da questo punto, e non si mostra alcun interstizio tra la radice e il cotiledone. Se ci fossero casi in cui ciò avviene, allora in generale non vi sarebbe nulla da rilevare. Anche nei dicotiledoni accade che le foglie seminali si sviluppino già in stretta prossimità del punto radicale, tuttavia solitamente da esso si allontana la prima coppia di foglie, che vediamo presentarsi con le forme più varie e tendere all’aria. In tal modo sorge una sorta di peduncolo, chiuso in se stesso come le foglie seminali: lo si è definito cauliculus. Questo piccolo stelo può allontanarsi molto dal punto di separazione e dalla radice, e spuntare verso l’alto. Abbiamo davanti a noi un esempio di un Ricinus communis (a), in cui il cauliculus misura otto pollici di Lipsia357.

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A mio modo di vedere, il punto in cui lo stelo si distingue dalla radice è un punto ideale, e non può essere considerato il primo nodo. Io credo che la comparsa delle due foglie presso i cotiledoni costituisca il primo nodo, mentre i due organi che sporgono sopra di esse sono, mi pare, le vere e proprie foglie, per quanto possano diventare irriconoscibili a causa di un rigonfiamento. In tale qualità di foglie hanno il diritto, anzi l’obbligo, di produrre gemme, mentre al contempo sviluppano verso l’alto il nodo successivo con la sua punta fogliare. Se qualcuno volesse assumere, come certo accade, il punto divisorio tra radice e stelo come primo nodo, pur non trovandoci d’accordo non avremmo nulla da obiettare se lo si volesse definire nodo preliminare o iniziale. Tuttavia vorremmo sempre attenerci al fatto che lo sviluppo delle foglie seminali designa il primo nodo, poiché in questo caso, in virtù di uno sguardo solo intellettuale, anche le configurazioni più meravigliose e informi potrebbero essere ritenute sempre analoghe alle foglie sviluppate in seguito. Fino a che punto io sia stato indotto a citare come modello e prova la fava maggiore, la Vicia faba, lo dirà un breve saggio di prossima pubblicazione, in cui non mancherò di notare il fatto che la natura, che mantiene lo spazio per ogni arbitrio entro i confini delle sue leggi, è in grado di produrre ancora molti altri fenomeni meravigliosi, di cui gli attenti conoscitori di questa materia potranno all’occasione renderci edotti. Nell’allontanamento reciproco dei nodi la natura si permette il massimo arbitrio avvicinando e distanziando, separando e connettendo; chi si dà la pena di studiare gli spazi tra di essi, i cosiddetti internodi, non potrà che incorrere in grandi difficoltà. Esempi Nel Bryophyllum calycinum che spunta in due cotiledoni dall’angolo tra le foglie, una foglia del nodo successivo si aggiunge subito alla coppia che spunta, di modo che non si sa di cosa in realtà faccia parte; ma appena la tendenza allo sviluppo dei due cotiledoni diventa più potente, i nodi si allontanano ancor più tra loro e non si presenta più un simile accostamento di tre elementi.

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Nei tralci della vite ci è apparso notevole il fatto che due nodi si presentino dotati di biforcazioni, a differenza del terzo, che ne è sempre privo. Quest’ultimo nodo sembra proprio adiaforetico, in quanto talvolta giunge in alto fino al nodo successivo, oppure, se si vuole, il nodo successivo si trascina in giù con la biforcazione fino a raggiungerlo, di modo che si vede chiaramente un doppio nodo con un viticcio. Per maggiori dettagli si veda il capitolo 9 delle opere botaniche. Poiché dal seme con due foglie, o almeno con organi simili a foglie, si sviluppa un’enorme quantità di piante, dobbiamo tener presente a tale riguardo un’importante intenzione della natura; il primo nodo infatti consiste già di una dualità, in quanto mostra due foglie, dietro ciascuna delle quali si trova una gemma, dunque la preparazione e i rudimenti di due piante. Da questo nodo, unico ma già doppio, scaturiscono tutte le foglie e i nodi successivi, e ciò avviene nel caso più regolare, in cui non accade che ciascuno dei due punti vitali inferiori sviluppi per così dire il successivo dal proprio centro, bensì che il nuovo punto vitale si sviluppa là dove essi si congiungono; ne discende dunque che, agendo dai due lati, nel corso della crescita le due foglie e gemme seguenti si alternano regolarmente. Ma dato che la natura non possiede alcuna regola a cui non faccia deroghe, per produrre una molteplicità infinita, essa si riserva di far spuntare un’unica foglia con la sua gemma, facendo poi seguire l’altra, di modo che si mostrano così i fenomeni più meravigliosi. In particolare nel primo avanzamento, immediatamente dopo gli inizi dei dicotiledoni, accade che a due foglie che spuntano se ne aggiunga una terza: un fenomeno che nel Bryophyllum calycinum si ripete ben tre volte, fin quando, infine, la tendenza dicotiledonica prende di nuovo il sopravvento, e le foglie successive, con le loro gemme dietro di sé, si alternano di nuovo regolarmente. singoli aspetti destinati alle annotazioni Occorre notare che i sistemi del calice, della corolla e degli stami corrispondono358 al sistema delle foglie caulinarie, mentre il pistillo, il pericarpio e il frutto sono parte del sistema del-

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le gemme. Chi sia in grado di chiarirsi tale ripartizione, conquisterà uno sguardo più profondo sui misteri della natura. Per mera comodità consideriamo la foglia e il caule inizialmente come due organi diversi359. Il picciòlo, che avvolge il caule nelle liliacee in forma di spadice, smette ad un certo punto di esercitare la sua funzione, e non a caso: appare infatti, proprio in quel punto, una sorta di ostacolo, qualcosa di simile a un rigonfiamento che allude a un nodo, e l’apparato fogliaceo successivo prosegue più o meno come se ricominciasse da capo, oppure non viene affatto alla luce, se il picciòlo è costretto infine ad un’espansione eccessiva. I monocotiledoni hanno la proprietà di procedere molto rapidamente alla fruttificazione; la relativa preparazione avviene nei bulbi e in altri tipi di radici. I dicotiledoni hanno bisogno invece di una preparazione più lunga, anche se mostrano un’infiorescenza simile ai primi: il fiore compare raramente intagliato o pennato, ma si accosta, per la sua semplicità, ai fiori semplici dei monocotiledoni. L’erboristeria sperimentale prende le mosse, come tutte le attività umane, dall’utile, cerca proprietà nutritive nei frutti e facoltà medicinali nelle erbe e nelle radici, e noi non riteniamo affatto volgare un simile comportamento; vi scopriamo invece l’idea volta all’utile, che costituisce forse la tendenza più originaria di ogni attività, che è al contempo già di un livello alto, in quanto definisce la relazione più diretta tra gli oggetti e l’uomo, presumendo con orgoglio e arroganza che l’uomo debba dominare il mondo. Viviamo in un’epoca in cui ci sentiamo di giorno in giorno sempre più sollecitati a considerare come connessi i due mondi cui apparteniamo360, quello superiore e l’inferiore, riconoscendo l’ideale nel reale e calmando ogni nostro disagio della finitezza con l’elevazione all’infinito. E siamo in grado di valutare, nelle circostanze più varie, i grandi vantaggi che in tal modo si possono ottenere, volgendoli in particolare, con attività intelligente, anche verso le scienze e le arti. Ora, dopo esserci innalzati a questa concezione, non ci troviamo più, trattando le scienze naturali, nella condizione di

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contrapporre l’esperienza all’idea, ma ci abituiamo piuttosto a cercare l’idea nell’esperienza, convinti che la natura proceda in base a idee, allo stesso modo in cui l’uomo, in tutto ciò che intraprende, persegue un’idea. Certo, al riguardo occorre tener presente che l’idea appare in vari modi al suo manifestarsi e nelle direzioni che prende, e in questo senso può esserle attribuito un diverso valore. Ma qui riconosceremo e affermeremo anzitutto che ci troviamo consapevolmente nella regione in cui la metafisica e la storia naturale si incrociano, vale a dire nel luogo in cui il serio e fedele ricercatore ama soffermarsi. In effetti in tale regione egli non è più angosciato dall’affollarsi di un’infinità di dettagli, poiché impara ad apprezzare l’importante influsso anche dell’idea più semplice, in grado di conferire al molteplice chiarezza e ordine nei modi più diversi. Rafforzandosi in tale concezione e considerando gli oggetti da una prospettiva superiore, lo studioso di scienze naturali acquista fiducia e viene incontro al ricercatore che conduce esperimenti, il quale solo con una certa modestia acconsente a riconoscere un elemento generale. Lo studioso fa bene a chiamare ipotesi ciò che risulta già stabilito, e con una convinzione tanto più lieta egli nota anche che qui ha luogo un autentico superamento. Egli lo sente allo stesso modo in cui noi a suo tempo l’abbiamo avvertito. In ciò che segue non emergerà alcuna traccia di divergenze; soltanto un bilanciamento di piccole differenze si rivelerà qua e là necessario, ed entrambe le parti potranno rallegrarsi di un comune successo. Il ricercatore costante deve osservare se stesso e curare che, allo stesso modo in cui vede gli organi con flessibilità, ottenga la stessa plasmabilità nel modo di osservare, affinché non resti sempre rigido attenendosi ad un’unica modalità di spiegazione, ma sappia invece scegliere in ciascun caso la prospettiva più adeguata, la più analoga all’aspetto dell’oggetto osservato. Così è più comodo pensare ad esempio le foglioline di alcuni calici come elementi singolarmente e intenzionalmente preparati dalla natura e poi riuniti in misura maggiore o minore tramite anastomosi. Di contro, si dovranno pensare le foglie di palma nel procedere della loro crescita, come unità prodotte dalla natura, che in seguito si dividono e si staccano in molte

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parti. Tutto dipende quindi da una tendenza dell’intelletto, dal suo essere incline a procedere dal dettaglio all’insieme o viceversa. Tramite un simile riconoscimento reciproco si eliminerà qualunque divergenza di concezioni e si fonderanno così condizioni solide per la scienza. Nella spiegazione di certi fenomeni accade lo stesso procedimento, si trovano modi di spiegazione più elementari che tuttavia sono pur sempre adeguati alla natura umana, e da essa traggono origine. Ci si chiede ad esempio se spiegare una certa unità, in cui sia visibile una molteplicità, come una composizione di molteplicità già presenti, o se assumerla e considerarla come se si fosse sviluppata da un’unità produttiva. Si possono ammettere entrambi i metodi, se vogliamo e dobbiamo considerare validi i diversi modi di concepire che il pensiero umano manifesta, vale a dire quello atomistico e quello dinamico, che si distinguono unicamente per il fatto che il primo pospone, nella sua spiegazione, il legame misterioso, mentre il secondo lo presuppone. Il primo può richiamarsi all’anastomosi per ottenere favore, il secondo all’ipotizzata molteplicità e unità; ad un esame attento però si nota sempre che l’uomo presuppone ciò che ha già scoperto, e scopre ciò che ha presupposto. Il naturalista, in quanto filosofo, non deve vergognarsi di muoversi in avanti e all’indietro entro questo sistema altalenante, trovando una spiegazione là dove il mondo scientifico non ne trova alcuna. D’altro lato però egli concede, al botanico che descrive e definisce, «di ricorrere a decisioni positive se non vuole ritrovarsi ad oscillare in perpetuo entro un circolo vizioso». V.B. p. 136361. Se consideriamo, conformemente al nostro scopo più prossimo, anzitutto il vantaggio ricavato dallo studio delle nature organiche, tutto il nostro lavoro consiste nel pensare il fenomeno più semplice e al contempo il più complesso, l’unità e la molteplicità362. Già in precedenza abbiamo enunciato con fiducia l’affermazione secondo cui ogni essere vivente in quanto tale è già un essere molteplice, e con queste parole abbiamo ritenuto di soddisfare l’esigenza fondamentale che il pensiero avverte in relazione a tali oggetti. Un simile pensare la pluralità nell’unità in termini di suc-

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cessione e di inscatolamento, costituisce una rappresentazione incompleta, non conforme all’immaginazione né all’intelletto, tuttavia dobbiamo ammettere uno sviluppo in senso più elevato, che preveda la presenza del molteplice nel singolo come singolo, cosicché non siamo più in difficoltà quando ci esprimiamo nel modo seguente: il vivente di grado inferiore si divide dal vivente, quello di grado superiore si articola nel vivente, e ciascun nuovo membro diventa una nuova entità vivente. Altri ordinamenti, tuttavia, basati su determinate parti e caratteristiche, precedevano anche quel modo di considerare la questione, anche se non potevano mantenersi, al punto che infine si cercò di risalire sempre più indietro agli organi primi e originari, iniziando a concepire la pianta, se non nello stadio precedente al suo sviluppo, quantomeno nel momento del suo sviluppo, e si scoprì che i suoi primi organi o non erano osservabili, oppure apparivano in forma duplice, triplice o ancora molteplice. Si era dunque sulla strada giusta, nella grande consequenzialità della natura; infatti, allo stesso modo in cui un essere viene alla luce, così progredisce e termina. Tanto più dunque doveva riuscire agevole porre un fondamento certo, poiché in effetti gli elementi più importanti ed evidenti offrivano ragioni per la suddivisione e l’ordinamento, mentre le membra originarie possiedono il particolare vantaggio di causare, per la loro osservazione, una divisione della creatura in grandi categorie, di modo che anche le sue proprietà e relazioni interne possono essere conosciute più in profondità, come del resto è avvenuto ininterrottamente in epoca recente a vantaggio della scienza. Memori di quel fanciullo che aveva l’ardire di vuotare il mare con una conchiglia, lasciateci attingere per i nostri scopi ciò che è utile e necessario da una materia inesauribile. Iniziamo subito dall’articolazione delle forme, poiché qui ci troviamo immediatamente nel regno vegetale. L’articolazione delle piante più nobili non coincide con una continua ripetizione all’infinito dell’identico e immutato elemento; non ci interessa un’articolazione senza crescita, approdiamo piuttosto là dove ci sembra più promettente: l’articolazione intensificata, l’intensificazione successiva e articolata, che rende possibile

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una formazione definitiva, in cui a sua volta il molteplice si separa dal molteplice, e dall’unità scaturisce la pluralità. Con queste poche affermazioni abbiamo enunciato l’intera vita vegetale, e non vi è più molto da dire in proposito; ora il breve saggio a cui qui forniamo una premessa si sforzerà di rendere tangibile proprio ciò che al momento poteva risultare ancora astruso e incomprensibile. Dopo aver letto e riflettuto su quel saggio, si riprendano queste affermazioni e si cerchi di ottenere il risultato che ha soddisfatto noi. Vi è grande differenza se si aspira a giungere dalla luce all’oscurità o dall’oscurità alla luce; se si tenta di avvolgersi di un velo crepuscolare quando la chiarezza non sembra più promettente o se, nella convinzione che ciò che è chiaro si basi su un fondamento profondo e difficile da indagare, si pensi di trarre tutto il possibile anche da un simile fondamento difficilmente esprimibile. Perciò ritengo che sia sempre più vantaggioso che il naturalista riconosca subito di trovarsi sempre al confine con la metafisica, anziché ammetterlo solo nei singoli casi in cui l’elemento nascosto si mostra con troppa evidenza. Le oscillazioni del pendolo governano il tempo, il movimento alterno dall’idea all’esperienza guida invece il mondo morale e scientifico. Non dobbiamo esaminare con cura unicamente i fenomeni che si possono definire propriamente tali, sempre soggetti ai sensi, in misura maggiore o minore, e tuttavia in ultima analisi interpretabili solo a partire da un concetto superiore; dobbiamo bensì tener conto anche dei sintomi di una qualsiasi manifestazione di forze, nonché di indizi di qualsiasi specie. In questa sede ho richiamato l’attenzione sulla dilatazione e contrazione nel corso della vita delle piante, e intenderei ricordarla di nuovo con l’osservazione seguente. Riguardo ad una terminologia così elaborata, dobbiamo pur sempre pensare che si tratta solo di una terminologia, e che una parola, adeguata a definire un qualche fenomeno, non è altro che un contrassegno di sillabe ad esso attaccato, dunque non può affatto esprimere esaustivamente la natura;

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per questa ragione deve essere considerata unicamente un ausilio per nostra comodità. Il botanico di professione intraprende un lavoro estremamente difficile, quando si pone il compito di determinare e definire ciò che spesso si rivela indistinguibile. Dal concetto di metamorfosi si deduce che l’intera vita delle piante è una sequenza continua di variazioni di forme, percettibili e impercettibili; le prime possono essere determinate e denominate, mentre le seconde, in quanto meri stadi in progressione, possono difficilmente essere distinte, per non dire contrassegnate da un nome. Per questo solitamente ci si è accordati a proposito delle prime, di modo che la terminologia botanica si è ampliata ai limiti dell’intelligibilità, mentre le seconde restano ancora sempre refrattarie e causano talvolta, se non proprio incomprensioni, delle divergenze tra i cultori della scienza. Dunque solo se il botanico si imprimerà bene in mente la nostra esposizione, potrà infine apprendere la dignità del suo ruolo, non sprecherà energie in ciò che è impossibile, bensì, proprio perché è cosciente di tendere ad uno scopo irraggiungibile, sentirà di approssimarsi sempre più alla mèta suprema anche se i suoi passi non sono misurabili. La botanica che procede per nette distinzioni e precise descrizioni è estremamente encomiabile in più di un senso, poiché nella sua pratica più nobile mira a mettere in opera il dono proprio dell’intelletto umano di distinguere, separare e confrontare. Essa inoltre fornisce un esempio della facoltà, propria di quel talento dell’osservazione che penetra nel dettaglio, di denominare e definire con il linguaggio ciò che è quasi indistinguibile quando viene scoperto. Un’altra attività umana, certo inferiore ma già di rango idea­le, è quella del contare, che consente di compiere così tante operazioni nella vita comune; questa grande comodità, la sua universale comprensibilità e accessibilità, fa sì che l’ordinamento in base al numero riceva accoglienza e approvazione anche nelle scienze. Il sistema di Linné ha raggiunto la sua universalità proprio grazie a tale caratteristica elementare, an-

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che se esso si oppone ad una prospettiva superiore, piuttosto che favorirla. Può tuttavia darsi il caso per cui quell’organo proteiforme si celi al punto che non si riesca più a trovarlo, e si modifichi talmente da risultare irriconoscibile; ma visto che il sapere botanico vero e proprio si basa sulla prassi di descrivere come un oggetto stabile e formato tutto ciò che viene scoperto e individuato, e ogni struttura formale in tutte le modificazioni che attraversa, è facile notare come quella prima idea a cui avevamo attribuito così tanto valore, pur essendo da considerare senz’altro come una guida per successive scoperte, tuttavia non può essere d’aiuto per la determinazione dei singoli casi, rivelandosi piuttosto di ostacolo. La difficoltà che si incontra nella terminologia botanica consiste nel fatto che essa è destinata in parte a distinguere le parti delle piante, anche con molta facilità, e tuttavia deve al contempo separare, determinare e denominare ciò che è indistinguibile nel passaggio da uno stadio all’altro. Se si considera il percorso delle scienze naturali, è possibile osservare che, nelle prime ingenue fasi iniziali, in cui i fenomeni sono esaminati ancora soltanto superficialmente, tutti sono soddisfatti, si insegna con agio rendendo noto ciò che si apprende, senza usare troppa precisione in certe espressioni. Quanto più si procede, tuttavia, tanto più sorgono difficoltà, poiché la possibilità di plasmare all’infinito fa emergere ovunque differenze, senza allontanarsi propriamente dalla sua intenzione fondamentale. Un esempio evidente è offerto dalla questione di cosa costituisca in certi fiori il calice o la corolla. I monocotiledoni, che raggiungono più rapidamente la fioritura, mostrano subito il calice in forma di corolla, anche se tale corolla mantiene ancora sempre qualcosa di simile ad un calice, come mostrano le tre foglie esterne del tulipano; io credo almeno che, anziché impegnarsi nella polemica su come denominare una qualche parte della pianta, ci si debba volgere ad un concetto superiore, chiedendosi da dove provenga quell’organo, e dove tenda. Le brattee crescono verso l’alto, per poi raccogliersi infine di nuovo come sepali intorno allo stelo; il calice del tulipano si arroga subito il diritto di una corolla, e così procedendo all’indietro e in avanti si scoprirà

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che non è possibile imbrigliare in una parola la natura quando accelera, né sollecitarla quando indugia. Se dunque si chiedesse: come connettere nel modo migliore idea ed esperienza? Io risponderei: con la pratica! Il naturalista di mestiere ha il dovere di rendere conto della propria attività, da lui si esige che sappia denominare sia le piante che le loro singole parti, e se in tale operazione giunge a contraddire se stesso o altri, allora sarà la legge universale ciò che dovrà non solo decidere ma anche conciliare il contrasto. Esistono casi in cui l’identità degli organi è facilmente osservabile e ammessa di buon grado, come ad esempio nei tirsi, corimbi (pag. 417), grappoli e spighe, in cui è possibile seguire a occhio nudo le somiglianze di fondo. Per contro, è più difficile indicare certe differenze, come ad esempio il modo in cui le brattee crescono singolarmente e autonomamente sullo stelo, per formare infine un calice ed essere individuate come sepali. (p. 349.) La cosa più difficile è trattare del torus (483.)363.

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Vita e meriti del dottor Joachim Jungius, rettore ad Amburgo364

Il motivo che mi ha spinto a indagare la vita e l’opera di quest’uomo straordinario mi è stato fornito dal signor De Candolle365, che nella prefazione alla sua Organographie, a pagina VII, si esprime così: «Plusieurs naturalistes allemands, en tête desquels il faut citer dans les temps anciens le botaniste Jungius, et, parmi les modernes - - Goethe, ont appelé l’attention sur la symétrie de la composition des plantes». Non sapevo come altro interpretare queste ultime parole sottolineate se non come un’allusione alla Metamorfosi delle piante, dunque non potei fare a meno di provare il desiderio di conoscere questo nobile predecessore. Del resto Will­ denow366, nel capitolo del suo manuale di botanica in cui tratta brevemente della storia di questa disciplina, ha dedicato a Jungius poche ma significative parole: «Se gli studiosi avessero seguito quest’uomo, egli scrive, si sarebbe potuti giungere già cent’anni fa al punto in cui ci troviamo attualmente». Mi risolsi dunque ad affrontare lo studio delle sue opere, per formarmene un concetto più preciso e diretto. Che sia riuscito o meno nel mio intento, stenderò intanto in questa sede le mie annotazioni come un promemoria. Joachim Jungius367, nato a Lubecca nel 1587, deve essere cresciuto nello studio delle lingue antiche e della robusta lingua tedesca, in una regione che a quell’epoca possedeva un sistema scolastico già ben organizzato. Che non gli sia mancato neppure un senso estetico-morale si evince dalla notizia secon-

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do cui egli nella prima gioventù avrebbe addirittura iniziato a comporre delle tragedie. In particolare non potevano mancargli gli elementi più generali di metafisica e di dialettica, dato che i primi anni della sua vita caddero in un’epoca che già a partire dalla Riforma era stata frenata da varie sciagure, e nel suo stesso corso si mostrava molto burrascosa. L’intelletto umano, la cui formazione si basa essenzialmente sulla conoscenza del mondo esterno, si spingeva ad osservare l’ambiente vivente circostante ed esigeva di cogliere, accanto alle parole, di cui fino allora si era stati molto prodighi, anche qualcosa di reale. L’autentico genio lottava per la sua libertà contro una dialettica vuota, che aveva innalzato ad arte e mestiere lo spirito di contraddizione, universalmente noto e innato nell’uomo, in modo da nutrire e favorire tecnicamente errori di ogni specie. Lo vediamo però principalmente dedito alla matematica: lo troviamo infatti nel 1609, all’età di ventidue anni, come professore di matematica a Gießen. L’idea più chiara del modo in cui all’epoca si procedeva nell’insegnamento di questa scienza ci è fornita da una Geometria empirica 368, una delle sue opere conservate, che Jungius pubblicò nel 1627, quando era professore a Rostock. In quel periodo estremamente inquieto e al contempo denso di conseguenze, si riteneva di non riuscire a condurre mai abbastanza rapidamente gli allievi all’attività pratica, e per questo si poneva alla base anche delle lezioni di matematica un elemento sensibile e visibile, e si procedeva, in queste fasi iniziali, nel modo che appariva necessario a destare in chi apprendeva il senso della geometria applicata, per poi lasciare che ciascuno, secondo le sue forze, utilizzasse per i propri scopi quanto aveva imparato. Nel 1614 Jungius lasciò la cattedra di Gießen, e lo vediamo per tutti i dieci anni successivi, secondo la consuetudine dello studio e dell’insegnamento di allora, proseguire gli studi girovagando, fermandosi e lavorando in diversi luoghi; egli si cimenta perfino nella teologia, anche se si risolve infine a dedicarsi alla medicina, e compare nel 1624 di nuovo a Padova, dove consegue il titolo di dottore in arti officinali. Le fatiche decennali di quest’uomo di talento ci forniscono l’occasione per alcune considerazioni. Le menti migliori di quel periodo si trovavano a un bivio in

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cui occorreva chiedersi se, nella confusione che aveva dominato fino allora, in cui prevalevano le parole e i modi di dire, e in cui lo spirito umano si avvolgeva in se stesso e nelle sue relazioni interne, si dovesse diventare a propria volta dei maestri, oppure se si intendesse rivolgere quegli esercizi intellettuali e quelle abilità verso la natura e l’esperienza. Jungius aveva scelto la medicina come professione, e si vedeva spinto immediatamente nella natura; una volta entrato in questo spazio libero la sua mente di ampie vedute sentì l’impulso a espandersi in tutte le direzioni. Una testimonianza di quanto profondi fossero la sua conoscenza e il suo studio di quegli esercizi dialettici ce la fornisce la Logica Hamburgensis 369, un’opera venuta alla luce solo nel 1638, ma che si potrebbe facilmente pensare sia stata preparata dall’autore lungo l’intera sua vita. Infatti, se voleva conseguire il titolo di dottore in medicina a Padova, bisogna presupporre che avesse acquisito una certa padronanza della dialettica, così tanto praticata nelle accademie italiane, mentre, d’altro lato, la sua indole più propriamente orientata al reale e la professione intrapresa di medico, indicano essenzialmente un orientamento verso la natura e le sue forme. Se ora consideriamo ciò che Jungius ha realizzato nel campo degli studi sulla natura, si può senz’altro pensare e comprendere che egli non poteva pretendere di dominare l’intero ambito di questa disciplina; né gli riuscì di pubblicare un’opera di tal genere, ma dovette lasciare un simile compito ai suoi allievi, che avevano lavorato con lui e al suo fianco durante l’intera vita del maestro con la più sentita devozione, e che dopo la sua morte dimostrarono una fedeltà che ancora stupisce e commuove in modo esemplare. Così nel 1662, vale a dire cinque anni dopo la sua morte, fu pubblicata ad Amburgo la sua opera Doxoscopiae Physicae minores; l’accurato editore si firma M. F. H.370, e resta ancora aperto il problema di riuscire a scoprire il suo nome. In una nota preliminare egli rende conto del modo di procedere adottato per il compito di edizione, dimostrando la massima comprensione e deferenza nei riguardi dell’autore. Nel testo stesso si ammira sia l’impegno che la prudenza di un uomo che ha in effetti trascorso cinquant’anni della sua vita cercando di far progredire il pensiero e la conoscenza propri e altrui. In quest’opera egli, partendo dal regno

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della metafisica, discende avvicinandosi progressivamente a quello della fisica sperimentale, per giungere infine fino alla chimica e all’armonia dei suoni. Le tracce più apprezzabili del modo in cui Jungius ha osservato il regno naturale le troviamo però nella vita degli insetti. Il suo libro, apparso nel 1691 con il titolo Historia Vermium 371, consiste di singole importanti annotazioni, che recano l’indicazione del giorno, dell’ora e spesso anche dell’anno in cui sono state registrate, pienamente nello spirito di un tranquillo osservatore e amante della natura che, avvertendo l’impossibilità di ordinare una simile massa sconfinata di fenomeni, si occupa ininterrottamente per tutta la vita dell’argomento senza l’intenzione di esaurirlo. A Padova lo troviamo già attratto dai bachi da seta, facili da osservare in quelle zone, e dal loro sviluppo. Non minore si dimostra, al suo ritorno, il suo interesse per l’apicoltura; probabilmente non vi si dedicava personalmente, ma intrattenne stretti rapporti con gli apicoltori, come si evince dal fatto che riporta due diverse opinioni relative a particolari modalità di trattamento. Si può inoltre notare che all’epoca non si era sfavorevoli all’idea di uno sviluppo duplice degli insetti, derivato da materie organiche e inorganiche. Simili tentativi, per quanto si presentino lungo l’intero arco della sua vita, appaiono in certi anni più frequenti e intensi, come ad esempio nel 1642. L’attenzione particolare agli insetti generati sulle foglie perdura fino alla fine della sua vita, quando egli elogia ancora alcuni suoi fedeli e operosi allievi che gli hanno portato, di ritorno da una passeggiata, delle foglie di quercia bacate da questi parassiti. Del resto, sembra che egli abbia considerato la metamorfosi degli insetti unicamente come un evento naturale, senza notare quale immenso mistero essa porgesse al nostro sguardo. Sembra anche che non sia riuscito pienamente a spiegare il fenomeno dei bruchi che strisciano lungo i muri, si gonfiano e scoppiano, rilasciando dei vermi che in seguito si imbozzolano. E tuttavia si nota sempre una gioia serena, spesso molto vivace, di fronte a simili fenomeni della natura organica. Pare che non si sia realmente avvicinato alla mineralogia, né fu particolarmente favorito in questo dai luoghi in cui ha soggiornato. Si attenne comunque agli scrittori più autorevoli in materia. Gli sono noti gli antichi, che tratta in modo critico

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e conforme alla natura, mentre tra i moderni lo stimolano Agricola e Matthesius372, proprio quegli uomini che, al pari di lui, sapevano interrogare la natura. Le classificazioni insufficienti gli sono di ostacolo, e cerca di fare chiarezza senza riu­scirci; tuttavia, resta notevole la direzione verso cui si volge la sua attenzione nel dettaglio: si tratta sempre di oggetti che stimolano l’immaginazione e suscitano curiosità per la loro singolarità e rarità. Già il modo in cui è trattato il regno vegetale nelle Doxoscopiae desta molta attenzione: la cura con cui l’autore registra le esperienze su singoli fogli emerge subito chiaramente, e presto riconosciamo il vantaggio che ne è risultato. Si tratta di singoli foglietti ordinati alfabeticamente, tutti destinati a creare distinzioni e raggruppamenti tra le piante, e a stabilire l’uso corretto delle denominazioni: in questo scorgiamo l’identico sforzo che si continua a perseguire tuttora, vale a dire quello di distinguere ciò che è pressoché indistinguibile, e di essere precisi nelle suddivisioni, di modo da poter usare altrettanta precisione anche nelle connessioni, e da rendere lecita la speranza di raccogliere gli oggetti in gruppi più grandi o più piccoli. Se è vero che le fatiche di quest’uomo straordinario ci sono state trasmesse dapprima unicamente in forma di raccolte, è realmente una grande fortuna che sia stato pubblicato il suo quaderno sui fondamenti della botanica, l’Isagoge phytoscopica 373, che egli soleva insegnare ai suoi allievi, in base ad esemplari rivisti e ampliati con cura dallo stesso autore ancora negli ultimi anni, e giunti fino a noi, editi nel 1678, dunque molto tempo dopo la sua morte, avvenuta nel 1657, per cura del suo fedele allievo e continuatore Johann Vagetius374. Questo quaderno di 47 pagine in quarto, in base al quale Jungius soleva tenere le sue lezioni di botanica, deve essere considerato come un repertorio di terminologia botanica375 da impiegare per descrivere le piante nelle loro parti osservabili a occhio nudo. Vi si riconosce un uomo che sa vedere chiaramente e osservare con precisione gli oggetti, e che è in grado di trattare la natura organica secondo una determinata successione e completezza. Ma non si trova neppure la minima traccia di ciò che noi abbiamo definito la metamorfosi delle piante, nessun cenno al fatto che un organo può svilupparsi

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dall’altro, celando e negando, mediante la trasformazione, la sua affinità e identità con il precedente, e muti la sua funzione e conformazione al punto che risulta impossibile ogni comparazione con il precedente in base a contrassegni esteriori. Tutto ciò che si mostra palesemente agli occhi di quest’uomo valente egli lo osserva, lo riconosce e lo descrive immediatamente; ma quando si presenta qualcosa che diverge o contraddice la regola, egli non sa come affrontarlo e piuttosto lo considera così come si mostra, aggiungendo le sue riflessioni e descrizioni. Così egli dice a pagina 6 No. 31: Planta difformiter foliata est, cuius folia in imo caule, aut circa radicem sita ab iis, quae reliquo cauli adhaerent, notabiliter discrepant, ita, ut non paulatim mutetur figura. Ita in Smyrnio circa radicem foliatura (crescita della foglia) est triangulata e foliis particularibus fissi marginis, instar Apii; in caule folia simplicia margine integro caulem absque petiolo amplectentia. In Campanula minima folia circa imum caulem lata; reliqua oblunga et angusta. In Ranunculo fluviatili folia sub aquis capillacea, extra aquam rotunda. Dal primo paragrafo emerge che l’autore non riusciva a spiegarsi la forma incompiuta dei cotiledoni, né quella delle foglie successive, e che non aveva alcuna idea della sequenza generale e conforme a leggi cui obbedisce il processo di formazione della pianta. Avviene fin troppo spesso che i cotiledoni racchiusi entro gli involucri dei semi presentino una struttura assai più semplice anche rispetto alle foglie immediatamente successive, e questo non stupisce certo gli esperti di piante, poiché dopo i cotiledoni si trova immediatamente un’intensa moltiplicazione e diversificazione delle foglie successive. Gli esempi da lui addotti nei due paragrafi seguenti potrebbero essere moltiplicati all’infinito, e quando nel quarto paragrafo l’autore cita il ranuncolo fluviale egli si riferisce a un caso che deriva da tutt’altre condizioni; si deduce comunque da tutto ciò che egli, in quanto osservatore acuto, ha riconosciuto chiaramente ciò che si definisce come irregolare, e dunque non bisogna rimproverargli di accontentarsi solo di questi esempi.

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Alla domanda sul perché io ritenga rilevante stabilire se Jungius abbia concepito la metamorfosi nei termini in cui noi la conosciamo, rispondo osservando che nella storia della scienza è estremamente importante sapere quando una massima penetrante e innovatrice sia stata formulata per la prima volta. Ora però non solo è rilevante notare che Jungius non ha formulato quella massima, ma è piuttosto della massima importanza sapere che egli non avrebbe potuto enunciarla, cosa che affermiamo con molta audacia. La mente umana non compie simili salti. Si pensi all’inizio del diciassettesimo secolo, quando la tendenza alla pura osservazione della natura si espresse con tanta forza in Bacone376, contrapponendosi in modo esclusivo ad ogni generalizzazione. Si noti il modo in cui lo stesso Bacone si è posto, trattando delle piante, con un atteggiamento solo esteriore e addirittura povero. Egli riteneva conforme all’oggetto e al senso attenersi a ciò che si poteva osservare e che si mostrava apertamente, mentre non era lecito sfiorare la sfera interna, intendendo con ciò non un elemento astratto ma l’aspetto originario di ogni vivente, poiché altrimenti si sarebbe ricaduti subito nel mentalismo, nella formazione pensata come creata dall’interno, nell’avversata ipotesi antropomorfica, rigidamente da evitare. [ulteriori studi su jungius] Schema per l’esposizione dell’intero materiale Spunto Nascita Primi studi, probabilmente è professore di matematica a Gießen Periodo intermedio Padova Dialettica; condizione degli studi in quell’epoca Logica, pubblicata più tardi Dottore in medicina Si volge all’indagine della natura Pura esperienza Uno sguardo sano dell’intelletto umano colto Minerali

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Insetti Botanica Lavori preliminari alle Doxoscopiae Esposizione metodologica, Isagoge Questo dovrò ora esporlo in modo più completo. Citazione elogiativa in Willdenow Tramite la diocesi377 Entrambe le testimonianze lo dipingono come un puro osservatore Annotazioni Distinzioni Classificazioni in base a tratti esteriori Il suo tempo La prima metà del diciassettesimo secolo La teoria di Bacone Inclinazione verso il reale Distinzioni e contrapposizioni Metodo applicativo Rapporti tra i tratti esteriori Alla simmetria nel senso consueto non erano diretti né l’osservazione né il metodo, ancor meno nel senso della metamorfosi Il modo in cui l’attenzione del signor De Candolle è stata condotta a quest’uomo risulterà forse nel seguito. Gli scritti di quest’uomo sono rari Ne possiede la raccolta completa quella parte della biblioteca universitaria di Jena che un tempo era la biblioteca di Büttner, divenuta poi Biblioteca del Castello ducale. Si riporterà il catalogo, e all’occasione si prenderà in considerazione la teoria musicale378, che nell’esposizione precedente non è trattata adeguatamente. Della fedele e accurata edizione postuma dei suoi scritti, della sua istituzione, dedicata a tale scopo, e della fedeltà dei suoi allievi e dell’accurato controllo del magistrato. Weimar, 3 marzo 1831. [Frammenti ordinati in base allo schema] Posso dire ora di aver studiato a fondo le opere dell’eccellente Joachim Jungius, morto nel 1657 come rettore del Gin-

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nasio amburghese; sono stato stimolato dallo spunto tratto dal passo citato e mi sono messo nella condizione di fornire ragguagli precisi su di lui e sui suoi preziosi lavori. Si dà appunto il caso che Jungius, lodevole ricercatore, in grado di distinguere i singoli dettagli, ha saputo fondare una botanica ben ordinata, e di questo la migliore testimonianza ci è offerta dal nostro valente Willdenow, che riguardo a questo nobile predecessore si esprime nel modo seguente. Il riconoscimento tributato da Willdenow allude al fatto che la botanica teorica vera e propria sarebbe stata accelerata e avrebbe raggiunto ben prima i suoi scopi se avesse proseguito lungo la strada aperta da Jungius. Possiamo concluderne che egli ha considerato le piante e le loro conformazioni con il suo sguardo di puro osservatore, anche se da questo non consegue che gli fosse chiara l’importanza della superiore idea. Se si affermasse una cosa simile, si rovescerebbe l’intera storia degli studi sulla natura, attribuendo a tutto il genere dei ricercatori e degli osservatori un’incredibile ottusità, se già allora fosse stato possibile percepire anche solo un alito, un cenno di un tale modo di pensare, che anzi perfino ai nostri giorni non viene ancora colto con lucidità. Jungius, nato solo un anno dopo Descartes, visse all’alba di un’epoca straordinaria, in cui Bacone richiamava l’attenzione sulla natura e Descartes stabiliva che il pensiero è fondamento di ogni coscienza; e allo stesso modo in cui egli procedeva, perfino nella geometria, a partire dall’elemento empirico e comprensibile, così anche in natura osservava i fenomeni in sé nel modo più preciso, anche se non si può stabilire se avesse avvertito una qualche predisposizione a concepire visioni più ampie. L’ordinamento che egli cerca fa sì che la trattazione del regno degli insetti si approssimi ad una certa chiarezza, di cui egli si serve infatti e che aggiunge ai contributi dei suoi predecessori, in questo come in tutti gli argomenti cui si applica. Tuttavia si lamenta del fatto che chi lo ha preceduto gli ha trasmesso più parole che fatti reali. Anche nella scelta degli oggetti da osservare Jungius si volge alle creature che appaiono evidentemente utili: ai bachi da seta, alle api e alle vespe, loro affini, ai bombi, ai calabroni e ad altre specie simili.

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Segue l’analisi dei bruchi, e le piante su cui tali insetti vengono trovati sono ogni volta indicate per nome, e in particolare la sua attenzione è diretta alle crisalidi e alle farfalle; le sue esperienze sono registrate con l’annotazione di tutte le condizioni e circostanze concomitanti in cui sono effettuate, come in un diario. Anche a Padova la sua attenzione si rivolse ai bachi da seta, e tuttavia l’insieme delle sue osservazioni ha l’aspetto sempre solo di una raccolta; le annotazioni erano registrate su fogli singoli e numerate (ci si può chiedere se la numerazione sia autografa o se non sia invece dei suoi edi­ tori.) Purtroppo la seconda metà di quest’opera è andata distrutta in un incendio ad Amburgo. Nei suoi lavori botanici non riesco a rintracciare analogo impegno e passione. Occorre indagare se la classificazione delle piante secondo l’ordine alfabetico sia opera dell’autore stesso o dei suoi editori. Studiare la sua prefazione, a proposito del modo in cui bisogna ordinare le piante. Inoltre, notare ciò che dice dei nomi delle piante, e vedere come si comporta praticamente in base all’alfabeto. Finora almeno non riesco a scorgere neppure qui alcuna sintesi superiore. Attenzione per il particolare, dono del discernimento, da cui deriva anche una corretta composizione; in ciò gli torna molto utile la sua formazione dialettico-filosofica, in quanto, per ogni passo compiuto, è in grado di indicare le rispettive cause. Non toglie nulla ai meriti del nostro valente autore il fatto che egli sia nato nel 1587 e abbia avuto effetto, nel senso migliore del suo tempo, sulla prima metà del diciassettesimo secolo. Si pensi ancora che Jungius visse e operò da contemporaneo di Bacone, e la massima di quest’uomo straordinario altro non era che: si deve conoscere l’esistente in tutte le condizioni del suo manifestarsi. L’autentica teoria della natura coinciderebbe con la distinzione e la rappresentazione precisa di ciò che è stato distinto; e non è forse vero che egli ha esercitato un’enorme influenza proprio grazie a questa teoria, vigorosamente formulata? Di più, egli influisce ancora enormemente, se comprendiamo l’unilateralità della sua teoria e al contempo

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lasciamo agire il suo spirito, durante le nostre esperienze e ricerche. La convinzione secondo cui ogni cosa dev’essere presente nel suo stadio più compiuto quando le tributiamo la nostra attenzione, aveva del tutto obnubilato il secolo, e occorreva addirittura assumere che i colori si trovassero completamente definiti nella luce, se si voleva ascrivere loro qualche realtà; tale modo di pensare si è tramandato come il più naturale e comodo dal diciassettesimo al diciottesimo secolo, e da quest’ultimo al diciannovesimo, e rivelerà ancora a suo modo l’utilità della sua azione, mostrandoci l’esistente in tutta chiarezza ed evidenza, mentre il modo di pensare idealistico suggerisce di scorgere l’eterno nel transeunte; in tal modo ci vediamo progressivamente innalzati al giusto punto di osservazione, in cui l’intelletto umano e la filosofia si uniscono. Dopo tutto ciò si può affermare soltanto che non è corretto, in senso superiore, porre l’espressione simmetria all’apice di una teoria delle piante ancora da formulare; se esaminata con attenzione, infatti, la storia della scienza ha corso il rischio di invischiarsi in ambiguità e dubbi irrisolvibili. Di una grave difficoltà che incontriamo quando ci intratteniamo a discutere di argomenti scientifici non si tiene conto a sufficienza, per quanto percepiamo molto vividamente le sue conseguenze. Essa consiste nel fatto che è molto arduo far capire dove risiede la differenza tra due vedute, nel caso in cui, pur concordando con un uomo o con una scuola di pensiero quanto al risultato esposto, non si riesca invece a convenire su un unico punto, che riguarda la strada da seguire per giungere a quel risultato. Il signor De Candolle si dichiara a favore di una teoria che ammette l’identità di tutti gli organi vegetali, e chiarisce anche la loro trasformazione in innumerevoli forme; tuttavia, egli prende le mosse dal riconoscimento di una simmetria originaria, assumendo la regolarità come necessaria e pur vedendo che le irregolarità prevalgono su quella legge. Weimar, 22 febbraio 1831.

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Nelle Doxoscopiae la teoria dei suoni, dunque l’armonia, occupa solo poche pagine alla fine della trattazione della fisica; del fatto che anche in relazione a questo tema Jungius si sia impegnato seriamente ci fornisce una testimonianza un quaderno o piccolo libro, fortunatamente giunto fino a noi, in cui egli si interroga sul metodo da seguire a tale riguardo. Il quaderno consiste di tre fogli in quarto ed è intitolato: Joachimi Jungii Lubecensis Harmonica. Al termine si trova l’annotazione dell’editore, probabilmente lo stesso valente Vagetius: Questa pubblicazione è stata data alle stampe ed emendata in base ad un quaderno di appunti, che l’autore stesso ha rivisto e corretto di suo pugno nell’anno 1655. Edizione dei suoi scritti Jungius, nel suo testamento, aveva fatto una donazione, affidandone l’amministrazione a persone fidate; anche le tracce di questa importante questione, con una introduzione, dovrebbero lentamente essere pubblicate, al pari delle moltissime carte del suo lascito, disposte secondo un ordine di massima. Sul modo in cui si è proceduto al riguardo, e su quanto è accaduto in proposito, abbiamo intenzione di fornire maggiori ragguagli.

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Edizione franco-tedesca del saggio sulla metamorfosi delle piante379 (1831)

Taravssei tou;" ajnqrwvpou" ouj ta; pravgmata, ajlla; ta; peri; tw'n pragmavtwn dovgmata.380

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La metamorfosi delle piante

Vedi, trascorre davanti a me prima che io me ne accorga, e si muta prima che io l’osservi. Giobbe.

[Il primo contributo contenuto nell’edizione franco-tedesca è di nuovo il Saggio di una spiegazione della metamorfosi delle piante, che nel presente volume si trova alle pagine 101-138, ordinato secondo la sequenza cronologica dei lavori di Goethe, e nominato ancora a p. 415. Seguono]

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Voir venir les choses est le meilleur moyen de les expliquer. Turpin381.

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I. L’autore comunica la storia dei suoi studi di botanica382

Per chiarire la storia delle scienze, e conoscere con precisione il loro percorso, solitamente ci si informa con cura sui loro inizi; ci si sforza di indagare chi per primo abbia rivolto l’attenzione su un certo argomento e come abbia proceduto; dove e quando si siano presi in esame determinati fenomeni, di modo che, con il procedere delle riflessioni, si siano palesate nuove prospettive che, confermate generalmente dall’uso, sono divenute il contrassegno dell’epoca in cui è indubitabilmente venuta alla luce quella che definiamo una scoperta o un’invenzione. Un esame simile fornisce moltissimi spunti per conoscere e valutare le energie intellettuali umane. Al precedente breve scritto è stato riconosciuto il merito di dare notizia della sua genesi; si desiderava sapere, infatti, come un uomo di mezza età, poeta di un certo valore e inoltre dotato, a quanto pareva, di molteplici interessi e oneri, avesse potuto inoltrarsi nel regno sterminato della natura, studiandolo al punto da essere in grado di formulare una massima che, applicabile comodamente alle forme più varie, esprimeva quella legge cui migliaia di eventi singoli obbediscono necessariamente. L’autore di questa piccola opera ne ha già dato notizia nei suoi quaderni sulla morfologia, ma volendo in questa sede addurre altri elementi necessari e adatti, chiede il permesso di iniziare in prima persona una modesta esposizione. Nato ed educato in una bella città, ricevetti la mia prima

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formazione nello studio delle lingue antiche e moderne, a cui si legava presto la pratica della retorica e della poesia. A ciò si accompagnava del resto tutto ciò che richiama l’attenzione sull’uomo, sotto il profilo morale e religioso. Devo ad altre grandi città una mia ulteriore formazione, da cui risulta che la mia attività intellettuale non poteva che riferirsi all’elemento morale e sociale, e di conseguenza al piacevole, ciò che allora si chiamava buona letteratura. Al contrario, di ciò che si definisce propriamente natura esteriore, non avevo alcuna idea, né possedevo la minima conoscenza dei suoi cosiddetti tre regni. Fin dall’infanzia ero abituato a guardare ammirato, in giardini ornamentali ben curati, la fioritura di tulipani, ranuncoli e garofani; e quando, oltre alla consueta frutta locale, si trovavano anche albicocche, pesche e uva, si rivelavano una festa per grandi e piccoli. Non si coltivavano invece le piante esotiche, né tantomeno si insegnava la storia naturale nelle scuole. I primi tentativi poetici da me pubblicati sono stati accolti con approvazione, ma essi rispecchiano propriamente solo l’interiorità umana, presupponendo una certa conoscenza dei moti dell’animo. Qua e là si poteva trovare una reminiscenza di un’appassionata gioia di fronte agli oggetti di natura agreste, così come di un serio impulso a conoscere l’immenso mistero che viene alla luce nella successione costante di creazione e distruzione, anche se questo impulso sembra perdersi in un indeterminato e insoddisfatto rimuginare. Nella vita attiva, nonché nella sfera della scienza, entrai propriamente solo quando il nobile circolo weimariano mi accolse con favore, concedendomi, oltre ad altri inestimabili vantaggi, anche la fortuna di scambiare l’aria delle città e dei salotti con l’atmosfera della campagna, dei boschi e dei giardini. Già il primo inverno offrì le gioie rapide della caccia, godute in compagnia, dalle quali ci si riposava trascorrendo lunghe sere non solo a raccontare ogni sorta di mirabili avventure dei boschi, ma anche e principalmente a discutere delle necessità della forestazione. Infatti, tra i cacciatori di Weimar figuravano eccellenti guardaboschi, tra i quali sarà sempre celebrato il nome di Sckell. Era già stata compiuta una revisione di tutte le riserve boschive, fondata sui rilevamenti, ed era stata prevista una programmazione a lungo termine della suddivisione delle battute annuali.

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Anche i giovani nobili seguirono amichevolmente queste tracce così ragionevoli, e tra di loro cito solo il barone von Wedel, che purtroppo ci è stato sottratto proprio nei suoi anni migliori. Egli si dedicava al proprio lavoro con rettitudine e con grande equità, e già a quell’epoca aveva insistito sulla necessità di ridurre la selvaggina, convinto che proteggerla fosse dannoso non solo per l’agricoltura, ma anche per la silvicoltura. La Selva Turingia si apriva in tutta la sua estensione davanti a noi: non solo, infatti, ci erano accessibili le belle proprietà principesche ma, grazie ai buoni rapporti di vicinato, anche tutte le riserve confinanti; tanto più che anche la nascente geologia si impegnava, con tutto l’entusiasmo di una giovane scienza, a rendere conto del terreno e del suolo su cui si erano insediati simili boschi antichissimi. Conifere di ogni specie, dal verde cupo e dal profumo balsamico, faggeti dall’aspetto lieto, esili betulle e cespugli più bassi e selvatici, ciascuno aveva cercato e ottenuto il suo posto. Noi potevamo però guardare e riconoscere tutte queste specie in grandi foreste, sterminate e più o meno ben conservate. Anche quando si discuteva dell’impiego di questo patrimonio, occorreva informarsi delle proprietà delle varie specie arboree. Il raschietto per la resina, di cui si cercò progressivamente di limitare l’abuso, permetteva di esaminare i fini succhi balsamici che accompagnavano e nutrivano un albero simile dalla radice fino alla cima, mantenendolo sempre verde, fresco e vivo per oltre un secolo. Qui si mostrava anche l’intera famiglia dei muschi in tutta la sua varietà, e la nostra attenzione si rivolgeva perfino alle radici nascoste sotto terra. Infatti, fin dai tempi più remoti in quelle regioni boschive si erano insediati dei lavoranti che agivano seguendo misteriose ricette ed elaborando diverse specie di estratti ed essenze che tramandavano di padre in figlio, e la cui fama generale di possedere eccellenti proprietà curative era rinnovata, ampliata e sfruttata grazie all’efficacia di cosiddetti additivi balsamici. La genziana vi aveva un ruolo notevole, ed era un’occupazione molto gradevole quella di osservare una specie così ricca nelle sue varie forme, come pianta e come germoglio, nonché studiarne più da vicino le radici dalle qualità curative. È stata questa la prima specie vegetale che mi ha attratto in senso proprio, e anche in seguito mi sono impegnato a distinguere le sue varie specie.

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A questo proposito si dovrebbe notare che il percorso della mia formazione botanica somiglia in certa misura a quello della storia della stessa botanica: sono giunto, infatti, dall’elemento più generale ed evidente a quello più applicativo e utile, e poi dall’utile alla conoscenza, e chi tra gli esperti non ricorderà con un sorriso l’epoca dei raccoglitori di radici? Tuttavia, visto che in questa sede la mia intenzione resta quella di raccontare come mi sono avvicinato alla botanica come scienza, devo anzitutto richiamare il nome di un uomo che sotto ogni profilo ha meritato la stima dei suoi concittadini di Weimar: il dottor Buchholz, proprietario di quella che all’epoca era l’unica farmacia, benestante e amante della vita, che aveva dedicato la sua attività, con ammirevole desiderio di conoscenza, alle scienze naturali. Per le sue immediate esigenze legate alla farmacia egli andò a cercare i più valenti aiutanti esperti di chimica, come l’ottimo Göttling, che uscì da questa officina come chimico qualificato. Ogni novità degna di nota in campo chimico-fisico, scoperta in Germania o all’estero, era sottoposta a verifica sotto la direzione del principale, e riferita poi disinteressatamente ad una società desiderosa di conoscere. Anche in seguito, lo anticipo in suo onore, quando la comunità scientifica dei naturalisti si impegnava con zelo a riconoscere le diverse specie di gas, egli non mancò mai di condurre esperimenti sulle ultime novità. Così fece salire anche una delle prime mongolfiere383 dalle nostre terrazze, per la gioia di chi ne ebbe notizia: la folla riusciva a stento a riprendersi dallo stupore, mentre le colombe intimidite fuggivano in ogni direzione. Forse però a questo punto devo aspettarmi il rimprovero di introdurre nella mia esposizione i rapporti tenuti con altri. Mi sia concesso di replicare che non potrei parlare con ordine della mia formazione se non ricordassi con gratitudine i primi vantaggi che ho tratto dalla cerchia weimariana, estremamente colta per quei tempi, in cui il gusto e la conoscenza, il sapere e la poesia aspiravano ad agire insieme, mentre i più seri e profondi studi venivano a competere incessantemente con una gioiosa e dinamica attività. Tuttavia, se esaminato più da vicino, ciò che qui intendo dire è legato strettamente a ciò che ho preannunciato. La chimica e la botanica in quel periodo scaturivano entrambe dalle esigenze mediche, e il lodato dottor Buchholz si arrischiava

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a passare dalla farmacopea alla chimica superiore, allo stesso modo in cui saltava dal ristretto ambito delle erbe aromatiche al più ampio mondo vegetale. Nel suo giardino non soltanto coltivava le piante officinali, ma iniziava a curare anche piante più rare, da poco note alla scienza. Il giovane Reggente384, precocemente dedicatosi alla scienza, guidava l’attività di quest’uomo in direzione dell’impiego e dell’istruzione più generali, e a tale scopo adibiva a istituti botanici ampi spazi di giardini soleggiati, prossimi a luoghi ombrosi e umidi, a cui offrirono immediatamente con zelo i loro servigi i più anziani ed esperti giardinieri di corte. I cataloghi di tali istituti, ancora conservati, testimoniano dell’impegno profuso negli stadi iniziali di quest’impresa. In simili circostanze, anch’io fui costretto a cercare sempre più chiarimenti in merito ad argomenti botanici. La terminologia di Linné, i fondamenti su cui dovrebbe poggiare l’intero edificio, le dissertazioni di Johann Geßner a illustrazione degli elementi di Linné, tutto ciò raccolto in un sottile quaderno, mi accompagnarono per ogni dove, e ancora oggi quello stesso quaderno mi ricorda la freschezza dei giorni felici in cui quelle pagine dense di contenuti mi dischiudevano per la prima volta un nuovo mondo. Studiavo tutti i giorni la Filosofia della botanica di Linné, e in tal modo avanzavo sempre più in una conoscenza ordinata, cercando il più possibile di appropriarmi di ciò che poteva fornirmi una visione più ampia e sintetica di questo vasto regno385. Ma un vantaggio particolare fu per me, sotto ogni profilo scientifico, la vicinanza dell’Accademia di Jena, in cui la coltura delle piante officinali si praticava con serietà e impegno da lungo tempo. Già in passato i professori Prätorius, Schlegel e Rolfink avevano acquisito grandi meriti per la botanica generale, in relazione all’epoca in cui operarono. Fece epoca, in particolare, la Flora Jenensis di Ruppe, apparsa nel 1718: in base ad essa l’osservazione delle piante, fino allora limitata ai piccoli orti dei conventi e praticata unicamente a scopo medico, fu ampliata all’intera ricca regione, e accompagnata da un libero e lieto studio della natura. Ad esso si affrettarono a prendere parte, dal canto loro, le vivaci popolazioni di campagna dei dintorni, che si erano dimostrate già attive fino a quel momento a sostegno di farmacisti ed erboristi, e appresero gradualmente la nuova termi-

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nologia che si veniva affermando. A Ziegenhain si era distinta in particolare una famiglia Dietrich, il cui capostipite, notato perfino da Linné, poteva vantare un diploma scritto personalmente da questo eccellente studioso, sentendosi, grazie a tale diploma, innalzato al rango della nobiltà negli studi botanici. Dopo la sua scomparsa fu suo figlio a proseguire l’attività, che consisteva principalmente nel procurare a docenti e allievi le cosiddette lezioni, vale a dire mazzi di arbusti delle piante che fiorivano di settimana in settimana. La sua gioviale attività si estese fino a Weimar, e così venni lentamente a conoscenza della ricca flora di Jena. Un influsso ancora maggiore ebbe sulla mia istruzione il nipote, Friedrich Gottlieb Dietrich: giovane ben fatto, dai lineamenti regolari e piacevoli, procedeva con vigore e freschezza giovanile, nonché con passione, nella conoscenza del mondo vegetale; la sua felice memoria riteneva tutte le denominazioni più strane, offrendogliele poi pronte all’uso in ogni momento. Mi piaceva molto la sua presenza, poiché dal suo aspetto e dalle sue azioni traspariva un carattere libero e aperto, e così fui indotto a portarlo con me in un viaggio a Karlsbad. In regioni montuose, che attraversava sempre a piedi, raccoglieva tutto ciò che era in fiore, con straordinario intuito, e mi porgeva subito il raccolto, direttamente nel mio calesse, declamando come un araldo le denominazioni di Linné, il genere e la specie, con lieta convinzione, talvolta anche sbagliando l’accento. In tal modo instaurai un nuovo rapporto con la natura, libera e magnifica, mentre i miei occhi ne godevano le meraviglie, e agli orecchi giungevano al contempo le definizioni scientifiche di ogni singolo elemento, come se provenissero da un lontano laboratorio. Anche a Karlsbad quel robusto giovane si recava all’alba in montagna e mi portava lezioni in abbondanza alla fonte, prima ancora che avessi vuotato il mio bicchiere. Tutti i compagni di soggiorno partecipavano, e in particolar modo quelli tra loro che si impegnavano in questa splendida scienza: costoro vedevano stimolate nel modo più piacevole le loro cognizioni, quando quel ragazzo rustico e di bell’aspetto in abiti campagnoli giungeva correndo e porgendo grossi fasci di erbe e di fiori, e chiamandoli con nomi di origine greca, latina e barbarica: un fenomeno che suscitava molto interesse negli uomini, e anche nelle donne.

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Se tutto ciò dovesse mostrare un sapore troppo empirico per l’uomo di scienza, riferisco subito il fatto che proprio un simile vivace comportamento riuscì a conquistarci il favore e l’interessamento di un uomo già più esperto in materia, vale a dire un eccellente medico386 che, accompagnando un ricco membro della nobiltà, aveva intenzione di impiegare il suo soggiorno termale per scopi botanici. Egli si unì molto presto a noi, che fummo lieti di essergli d’aiuto. Preparava con cura la maggior parte delle piante che Dietrich portava al mattino presto, e vi aggiungeva l’indicazione del nome e altre annotazioni. In tal modo non avevo che da imparare acquisendo altre nozioni, e con le molte ripetizioni i nomi si impressero nella mia memoria; ma anche nell’analisi acquisii un’abilità maggiore, per quanto senza successi di rilievo, poiché le operazioni di dividere e contare non erano consone alla mia natura. Tuttavia quell’impegno così accurato e quell’attività trovarono alcuni avversari in società. Eravamo spesso costretti a sentir dire che l’intera botanica, al cui studio ci dedicavamo con così tanta solerzia, non era niente più che una nomenclatura, un sistema basato su numeri, anche se non completo, che non poteva soddisfare né l’intelletto né l’immaginazione, e nessuno sarebbe mai stato in grado di trarne una qualche conseguenza adeguata. Senza curarci di tale obiezione, proseguimmo fiduciosi per la nostra strada, che prometteva di introdurci sempre più in profondità nella conoscenza delle piante. Vorrei però notare brevemente, a questo punto, che il percorso successivo della vita del giovane Dietrich rimase identico a quello seguito agli inizi: egli proseguì instancabilmente su questa via, tanto che, raggiunto il successo e la notorietà come scrittore, insignito del titolo di dottore, dirige ancora oggi con impegno e distinzione il giardini granducali di Eisenach. August Karl Batsch, il figlio di un uomo universalmente amato e stimato a Weimar, aveva impiegato in modo molto proficuo i suoi studi a Jena, dedicandosi con zelo alle scienze naturali e facendo così tanta strada che fu chiamato a Köstritz per ordinare la notevole collezione ducale russa di storia naturale, dirigendola per un periodo. Dopodiché tornò a Weimar, dove ebbi il piacere di conoscerlo, durante un rigido inverno sfavorevole alle piante, sulla pista di pattinaggio, che allora era il punto di riunione della buona società. Seppi immediatamente apprezzare la sua delicatezza e determinazione, e il suo tran-

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quillo zelo, e mi intrattenni a conversare con lui senza sosta, liberamente e con franchezza a proposito delle più alte opinioni formulate in materia di botanica, nonché dei diversi metodi per trattare questa scienza. Il suo modo di pensare era quanto mai consono ai miei desideri e alle mie esigenze: la sua attenzione era rivolta all’ordinamento delle piante in famiglie, in successione progressiva ascendente e graduale. Un simile metodo conforme alla natura, a cui Linné allude con pii desideri387, e su cui hanno insistito i botanici francesi, sia nella teoria che nella pratica, avrebbe ora occupato l’intera vita di un giovane intraprendente, ed io ero lietissimo di attingervi di prima mano. Ma non soltanto da due giovani, bensì anche da un uomo più attempato e distinto dovevo ricevere un indescrivibile incoraggiamento. Il consigliere aulico Büttner aveva trasportato la sua biblioteca da Göttingen a Jena ed io, grazie alla fiducia concessami dal mio principe, che aveva assicurato a sé e a noi un simile tesoro, ricevetti l’incarico di provvedere all’ordinamento e alla disposizione dei libri secondo i criteri del collezionista, che ne manteneva il possesso, e con il quale dunque intrattenni un rapporto durevole. Egli, una biblioteca vivente, pronto a dare ad ogni domanda una risposta circostanziata ed esauriente, si intratteneva preferibilmente su argomenti di botanica. Qui non negava, bensì ammetteva piuttosto, e addirittura con passione, che, contemporaneo di Linné e in tacita competizione con quest’uomo straordinario, che aveva diffuso il suo nome in tutto il mondo, non aveva mai adottato il suo sistema, sforzandosi invece di elaborare una classificazione basata sulle famiglie, che procedesse dai più semplici inizi, al limite del visibile, fino ai più complessi ed enormi fenomeni. Egli era lieto di mostrare uno schema, scritto elegantemente di suo pugno, in cui i generi apparivano disposti in sequenze secondo questo criterio, con mia grande edificazione e conforto. Riflettendo su ciò che ho appena riferito, non si mancherà certo di riconoscere i vantaggi che la mia situazione recava a simili studi; grandi giardini, sia in città che in residenze estive di campagna, nei dintorni ampie zone popolate di alberi e arbusti non senza un criterio botanico, e inoltre la presenza di una flora locale nei pressi di Weimar, da tempo studiata scientificamente, nonché l’influsso di un’accademia in costante progres-

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so: tutto questo forniva ad una mente desta sufficiente impulso a indagare il mondo vegetale. Mentre in tal modo le mie cognizioni e competenze in ambito botanico si ampliavano, a contatto con piacevoli compagnie, mi accorsi di un isolato appassionato di piante, che si era dedicato con serietà e impegno a questa materia. Non vi era nessuno che non volesse seguire l’ammiratissimo Johann Jakob Rousseau 388 nelle sue passeggiate solitarie, in cui egli, avverso al genere umano, rivolgeva la sua attenzione al mondo delle piante e dei fiori, e familiarizzava con i taciti e affascinanti figli della natura, nel pieno delle sue energie intellettuali. Non mi è noto se nei suoi anni giovanili abbia avuto altre ambizioni riguardo a piante e fiori, oltre a quelle che rimandano propriamente all’indole, all’inclinazione e ai delicati ricordi; ma stando alle sue nette dichiarazioni, avrebbe preso consapevolezza di questo regno naturale in tutta la sua pienezza soltanto dopo una vita da scrittore molto burrascosa, trascorsa sull’isola di St. Peter del Bielersee. In Inghilterra, poi, si nota, egli si è guardato più ampiamente intorno in modo già più libero, e il suo rapporto con gli appassionati e conoscitori di botanica, in particolare con la duchessa di Portland, potrebbero aver ampliato il suo sguardo acuto, al punto che una mente come la sua, che si sente chiamata a prescrivere alle nazioni leggi e ordinamenti, giungeva a concepire l’ipotesi che, nello smisurato regno vegetale, non potesse darsi una molteplicità tanto grande di forme, senza che una legge fondamentale, per quanto nascosta, non la richiamasse ancora una volta all’unità. Egli si immerse in questo regno, appropriandosene con serietà, e avvertendo la possibilità di un determinato percorso metodico con cui affrontarlo nel suo insieme, ma non osava manifestarlo in pubblico. Sarà sempre utile apprendere in che modo egli si esprimesse in proposito: Per quanto mi riguarda, in questi studi sono soltanto un allievo, e non molto esperto; quando mi occupo di erboristeria, penso più a distrarmi e a divertirmi che ad apprendere, e con le mie esitanti osservazioni non posso avere la presunzione di insegnare ad altri ciò che io stesso non so. Tuttavia ammetto che le difficoltà che ho incontrato studiando le piante mi hanno indotto a immaginare come trovare strumenti per agevolare tale studio e renderlo utile ad altri, in particolare seguen-

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do il filo di un sistema delle piante strutturato secondo un metodo più rigoroso e meno lontano dai sensi di quanto non fosse quello di Tournefort389 e di tutti i suoi successori, incluso lo stesso Linné. Probabilmente la mia idea non è realizzabile, ma ne parleremo quando avrò l’onore di incontrarvi ancora390.

Così scriveva all’inizio del 1770, ma nel frattempo non trovava pace, e già nell’agosto del 1771, in un’occasione amichevole, si assunse l’onere di istruire altri, esponendo a un pubblico femminile ciò che sapeva e capiva, non per mero intrattenimento, ma per introdurre delle signore in modo approfondito nella scienza. In quest’occasione gli riuscì di ricondurre il suo sapere ai primi elementi percepibili mediante i sensi: presentava singolarmente le parti delle piante, e insegnava a distinguerle e a definirle. Ma se in tal modo ricostruiva il fiore intero dalle sue componenti e lo denominava, in parte usando le definizioni volgari, in parte introducendo correttamente la terminologia di Linné, a cui riconosceva tutto il suo valore, dall’altro egli offriva immediatamente una visione più ampia di interi gruppi391. Progressivamente presentava le liliacee, le crocifere, le labiate, i fiori personati, le umbellifere e infine le composite, e mentre per questa via chiariva le differenze secondo una varietà e complessità crescente, mostrava al contempo impercettibilmente una piacevole visione completa. Infatti, poiché si trovava a parlare a un pubblico femminile, sapeva indicare, con moderazione e attenzione, l’uso, i vantaggi e gli svantaggi legati alle varie specie, con tanto maggiore abilità e facilità in quanto, traendo tutti gli esempi funzionali alla sua teoria dall’ambiente circostante, parlava unicamente di piante locali, senza ricorrere a esempi esotici, per quanto noti e coltivati. Nel 1822 furono pubblicati scrupolosamente in formato in-folio piccolo, con il titolo La Botanique de Rousseau 392, tutti i suoi scritti sull’argomento, accompagnati da illustrazioni a colori, realizzate dall’ottimo Redouté 393, che raffiguravano tutte le piante di cui egli aveva parlato. Sfogliandole si nota con piacere come nei suoi studi avesse proceduto su base locale e rurale, dal momento che sono rappresentate solo piante che egli poteva osservare direttamente nelle sue passeggiate. Il suo metodo, che consisteva nel restringere l’estensione del regno vegetale, tendeva evidentemente, come abbiamo vi-

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sto poco sopra, alla suddivisione per famiglie, e poiché in quel periodo anch’io ero già propenso a condurre osservazioni di questo tipo, la sua esposizione produsse su di me un’impressione tanto più grande. Allo stesso modo in cui i giovani studenti si intrattengono di preferenza con gli insegnanti giovani, così il dilettante impara più volentieri da un dilettante. Certo, questo potrebbe dare da pensare ai fini di una conoscenza accurata ed esaustiva, se l’esperienza non mostrasse quanto i dilettanti abbiano contribuito al progresso della scienza. Questo è molto naturale: gli specialisti devono impegnarsi per giungere alla completezza, e per tale motivo indagano il loro vasto ambito in tutta la sua estensione; per gli appassionati invece è importante passare in rassegna i singoli casi e raggiungere un vertice dal quale poter conquistare una visione d’insieme, se non dell’intero regno, almeno della sua maggior parte. A proposito dei lavori di Rousseau, aggiungo soltanto il fatto che egli mostrava una gran cura per l’essiccazione delle piante e per l’allestimento di erbari, dispiacendosi sinceramente per la perdita di ciò che andava in rovina, sebbene anche in questo caso, contraddicendo se stesso, non avesse né l’abilità né la costanza necessarie a badare attentamente alla conservazione delle piante, in particolare durante le sue varie escursioni; per tale motivo voleva si considerasse ciò che aveva raccolto sempre soltanto come paglia. Tuttavia, per volere di un amico, ha trattato con cura e precisione il muschio, e da tale trattazione riconosciamo nel modo più vivido quanto il mondo vegetale avesse catturato la sua attenzione e partecipazione, come confermano pienamente in particolare i Fragments pour un Dictionnaire des termes d’usage en Botanique 394. Basterà dire questo per indicare in qualche misura l’entità del debito che a quell’epoca abbiamo contratto con lui durante i nostri studi. E allo stesso modo in cui egli, libero da qualunque ostinazione nazionalistica, si attenne ai risultati in ogni caso fecondi di Linné, così anche noi dobbiamo notare, dal canto nostro, che è un grande vantaggio, entrando in un ambito scientifico per noi nuovo, trovarlo in una fase di crisi e vedere un uomo straordinario impegnato a compiere qualcosa di vantaggioso per risollevarlo. Eravamo giovani, così come giovane era il me-

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todo, e il nostro esordio avvenne in un’epoca nuova, sicché fummo accolti nella folla degli studiosi impegnati, come entro un elemento che ci trascinava e incoraggiava. Così, insieme agli altri miei contemporanei, conobbi Linné, notai la sua cautela e l’efficacia entusiasmante del suo metodo. Mi ero abbandonato con piena fiducia a lui e alla sua teoria, e tuttavia, malgrado ciò, fui costretto a percepire gradualmente che qualcosa, lungo la via così indicata e intrapresa, se non fuorviava, aveva pur sempre l’effetto di frenare. Se ora dovessi chiarire in coscienza quelle circostanze, si pensi che nascevo come poeta, che aspirava a plasmare le sue parole e le sue espressioni direttamente sugli oggetti volta a volta incontrati, per darne in qualche modo ragione. Un poeta simile doveva memorizzare una terminologia interamente coniata e avere a disposizione un certo numero di parole e attributi, per essere in grado di applicarli come definizioni caratteristiche, ordinando così le forme che gli si presentavano, operando un’abile selezione. Una tale procedura mi appariva sempre come una sorta di mosaico, in cui si dispone un tassello già pronto accanto a un altro, per produrre infine, da migliaia di dettagli, la parvenza di un quadro; in questo senso, quindi, una simile sfida mi risultava piuttosto respingente. Tuttavia, anche se ammettevo la necessità di questo procedimento, mirante a indicare determinati elementi esteriori delle piante mediante parole convenzionalmente stabilite, che consentissero di rinunciare a tutte le illustrazioni difficilmente realizzabili e spesso incerte, trovavo che la difficoltà principale, nel tentativo di un impiego preciso della terminologia, consisteva proprio nella versatilità degli organi395. Quando, su uno stesso stelo, scoprivo delle foglie dapprima rotonde, poi intagliate, e infine quasi pennate, che poi si contraevano di nuovo e si semplificavano, fino a diventare piccole scaglie e da ultimo a scomparire del tutto, perdevo il coraggio di stabilire un qualche punto di riferimento e di tracciare una qualche linea di confine. Mi appariva insolubile il compito di definire con sicurezza i generi e subordinare ad essi le specie. Certo, leggevo le prescrizioni dettate dai testi in merito, eppure non speravo di giungere ad una determinazione appropriata, poiché già ai tempi di Linné alcuni generi erano stati separati e divisi, eliminando addirittura delle classi. Da ciò sembrava derivare

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il fatto che perfino l’uomo più geniale e più acuto era riuscito a rendere accessibile e dominare la natura soltanto per grandi linee. Anche se la mia venerazione nei suoi confronti non ne risultava minimamente scalfita, proprio perciò non poteva che sorgere un conflitto molto singolare: si pensi alle difficoltà entro cui un Tirone autodidatta doveva dibattersi e farsi largo. Malgrado ciò, dovevo continuare a seguire anche il resto della mia vita, in cui doveri e riposo fortunatamente si svolgevano all’aria aperta. Qui si impose potentemente alla mia osservazione il modo in cui ciascuna pianta cerca le sue condizioni, e una disposizione in cui mostrarsi in tutta la sua pienezza e libertà: l’altitudine delle montagne, la profondità delle valli, la luce, l’ombra, secchezza, umidità, calura, tepore, freddo, gelo e qualunque altro nome abbiano le varie condizioni! Generi e specie le richiedono per poter germogliare in pieno rigoglio e vigore. Certo, cedono alla natura in determinati luoghi e in alcune situazioni, si lasciano tramutare in molte varietà, senza tuttavia rinunciare completamente al diritto acquisito alla forma e alle proprietà specifiche. Mi sfiorava qualche presentimento di tutto ciò nel vasto mondo naturale, e sembrava schiudersi una nuova chiarezza ai miei occhi, frequentando giardini e libri. L’esperto che fosse propenso a ritornare col pensiero all’anno 1786 potrebbe formarsi agevolmente un’idea della condizione in cui mi sentivo imprigionato già da dieci anni, anche se perfino a uno psicologo ciò si rivelerebbe un compito difficile, in quanto in tale rappresentazione dovrebbe comprendere anche tutti i miei obblighi, le mie inclinazioni, gli oneri e le distrazioni. Mi si conceda a questo punto una nota di carattere generale: tutto ciò che ci ha circondato a partire dalla giovinezza, per quanto ci fosse solo superficialmente noto e dovesse rimanere tale, mantiene per noi sempre un che di comune e banale, lo consideriamo indifferente, tanto che diveniamo in certo senso incapaci di rifletterci sopra. Di contro riteniamo che gli oggetti nuovi, in tutta la loro varietà, stimolando la nostra mente ci dimostrino la nostra capacità di entusiasmarci, e alludano a qualcosa di superiore, che deve esserci concesso di raggiungere. È questa l’autentica utilità dei viaggi, e ciascuno ne ricava, a proprio modo, sufficienti vantaggi. Il già noto diventa novità

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grazie a inattese relazioni e, unito a nuovi oggetti, suscita attenzione, riflessione e giudizio. In tal senso la mia inclinazione verso la natura, in particolare verso il mondo vegetale, fu stimolata vivacemente da un rapido passaggio attraverso le Alpi: il larice, più diffuso che altrove, e il cembro, che scorgevo per la prima volta, richiamarono immediatamente con forza la mia attenzione sull’influenza del clima. Altre piante, mutate in varia misura, non restarono inosservate durante il mio frettoloso passaggio. Tuttavia più di ogni altra cosa riconobbi l’abbondanza di una vegetazione per me nuova, quando visitai il giardino botanico di Padova396, dove fui incantato e abbagliato dalle campanule color rosso fuoco di una Bignonia radicans397 che cresceva lungo un muro molto alto e ampio. Qui vidi inoltre alcuni alberi rari che crescevano all’aperto, e che durante l’inverno avevo notato da noi solo nelle serre. Anche altre piante, protette solo da un’esile copertura contro le occasionali gelate che si verificano nella stagione rigida, si trovavano all’aperto e godevano dell’aria benefica. Una palma a foglie attrasse tutta la mia attenzione: fortunatamente le prime foglie, semplici e lanceolate, si trovavano ancora in prossimità del suolo, mentre la loro successiva separazione cresceva finché infine si vedevano nel loro pieno sviluppo, in forma di ventaglio. Da una fessura a spadice infine spuntava un rametto con dei germogli, che appariva come un prodotto singolare, privo di rapporti con la vegetazione precedente, insolito e sorprendente. Su mia richiesta, il giardiniere tagliò per me l’intera sequenza di tali modificazioni, e mi procurai alcuni grandi cartoni per portare con me i reperti. Si trovano tutt’ora in buono stato, così come li ho presi, e li venero come dei feticci che, pienamente adatti a suscitare e incatenare la mia attenzione, sembravano allora promettere un seguito proficuo delle mie fatiche. La variabilità delle forme vegetali, che da tempo seguivo nel suo specifico corso, mi destò sempre più l’idea secondo cui le forme vegetali che ci circondano non sarebbero determinate e fissate fin dall’origine, ma piuttosto, pur con tutta la tenacia loro propria, a livello generale e particolare, sarebbe assegnata loro una felice mobilità e flessibilità, per potersi adattare alle molteplici condizioni che agiscono su di loro nel globo terrestre, e così formarsi e trasformarsi. A questo punto occorre considerare le differenze del suolo:

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nutrito in abbondanza dall’umidità delle valli, o inaridito dalla siccità delle alture, protetto dal gelo e dalla calura o esposto inevitabilmente a entrambi, il genere può mutarsi in specie, quest’ultima in varietà, e così via all’infinito sotto altre condizioni; e nondimeno la pianta si mantiene chiusa nel proprio regno, anche quando, vicina alla dura pietra, si appoggia da ambo le parti a forme di vita più mobili. Perfino le forme più distanti hanno una esplicita parentela, e possono essere paragonate tra loro senza forzature. Poiché dunque era possibile raccoglierle sotto un unico concetto, mi divenne progressivamente sempre più chiaro che la mia concezione poteva essere rianimata e condotta ad un livello superiore: un’esigenza che allora mi balenò in mente sotto la forma sensibile di una pianta originaria398 soprasensibile. Analizzai tutte le forme così come mi si presentavano, in tutte le loro variazioni, e così durante l’ultima tappa del mio viaggio, in Sicilia, mi si chiarì l’identità originaria di tutte le parti della pianta, e cercai dunque di seguirla ovunque, continuando a scorgerla in tutti i casi. Da qui scaturì un’inclinazione, una passione, che mi pervase, pur in tutte le occupazioni necessarie e occasionali del viaggio di ritorno. Chi abbia fatto esperienza di quanto ci possa comunicare un pensiero fertile, sia che nasca in noi sia che ci venga trasmesso e instillato da altri, dovrà ammettere che un intenso moto di passione si produce nel nostro spirito, e ci sentiamo entusiasti, mentre presentiamo l’insieme di tutto ciò che in seguito si svilupperà sempre più, e a cui non potrà che condurre ciò che già si è sviluppato. E dunque mi si concederà il fatto che, preso e trascinato da una simile acquisizione, come da una passione, non potevo che occuparmene, anche se non esclusivamente, per tutto il resto della mia vita. Ma per quanto questa inclinazione mi avesse catturato intimamente, non potevo tuttavia pensare di dedicarmi ad uno studio sistematico dopo il mio ritorno a Roma; la poesia, l’arte e l’antichità richiedevano una dedizione completa, e nella mia vita non avevo mai trascorso dei giorni più operosi, faticosi e impegnati. Agli specialisti suonerà forse troppo ingenuo quando sentiranno raccontare di come, di giorno in giorno, mi impadronissi delle piante che notavo accanto a me in ogni giardino, durante le mie passeggiate e gite di piacere. In particolare all’approssimarsi del periodo della maturazione dei

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semi era per me importante osservare il modo in cui alcuni di essi, affidati alla terra, spuntavano di nuovo alla luce del giorno. Così la mia attenzione si rivolse alla germinazione del Cactus opuntia399, che resta informe durante la crescita, e vidi con piacere che si rivelava candidamente in due tenere foglioline dicotiledoni, per poi sviluppare, con l’ulteriore crescita, il futuro aspetto informe. Anche a proposito delle capsule seminali mi imbattei in qualcosa di notevole. Ne avevo portate a casa diverse appartenenti alla Acanthus mollis400, ponendole in una cassetta aperta; avvenne una notte che udii uno scricchiolìo, seguito immediatamente dopo da un rumore di corpuscoli che saltavano in giro contro soffitto e pareti. Non riuscii a spiegarmelo sul momento, ma in seguito trovai che i miei baccelli si erano dischiusi, spargendo intorno i loro semi. L’aria secca della stanza aveva portato a compimento in pochi giorni la loro maturazione portandoli ad una estrema elasticità. Tra i tanti semi che in tal modo potei osservare, devo menzionarne ancora alcuni che in mia memoria hanno continuato a crescere, per un periodo più o meno lungo, nella vecchia Roma401. I pinoli germogliavano in modo singolare: si sollevavano come racchiusi in un uovo, ma presto si liberavano di tale involucro mostrando già in una corona di aghi verdi gli inizi della loro futura destinazione. Prima di partire piantai un giovane pino, già piuttosto cresciuto, nel giardino di madame Angelica, dove giunse ad un’altezza considerevole dopo alcuni anni. Viaggiatori partecipi me ne inviavano racconti, con reciproco piacere. Purtroppo il proprietario che subentrò alla morte di lei trovò strano far crescere un pino fuori luogo, sulle sue aiuole fiorite, e lo sradicò subito. Più fortunate furono alcune piante da datteri che avevo ricavato piantando i noccioli, in modo da poter osservare lo sviluppo di diversi esemplari. Le affidai ad un amico romano, che le piantò in un giardino dove tuttora crescono, come mi ha gentilmente assicurato un eccellente viaggiatore402, e hanno raggiunto l’altezza di un uomo. Spero non si rivelino scomode per il proprietario, e possano continuare a crescere rigogliose. Se ciò che ho detto finora vale per la riproduzione mediante i semi, aggiungo che non ero meno attento a quella per talea, in particolare grazie al consigliere Reiffenstein 403, che in tutte le sue passeggiate, strappando qua e là un ramo, dichiarava fino

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alla pedanteria che ciascun ramo piantato nel terreno doveva necessariamente e immediatamente attecchire. Come prova decisiva egli adduceva alcune talee che avevano messo radici nel suo giardino. Gli avrei certo augurato di vedere quanto si sarebbe rivelata importante in seguito una simile moltiplicazione, universalmente sperimentata, per il giardinaggio a scopi commerciali. Più di tutto però mi colpì una pianta di garofani404 cresciuta in alto in forma di cespuglio. È nota la potente forza vitale e riproduttiva di tale pianta, in cui le gemme si affollano sui rami, i nodi si addensano uno dentro l’altro; in questo caso il fenomeno era intensificato dalla durata e le gemme erano giunte al massimo sviluppo possibile in uno spazio molto ristretto, tanto che perfino i fiori già formati producevano dal loro seno altri quattro fiori completamente sviluppati. Non avendo a disposizione alcun mezzo per conservare una simile meraviglia mi misi a disegnarla con precisione, giungendo a comprendere sempre meglio il concetto fondamentale della metamorfosi. Tuttavia, la dispersione che mi causavano le molte incombenze si rivelava tanto più d’ostacolo, e il mio soggiorno a Roma, di cui prevedevo la fine, si mostrava sempre più faticoso e gravoso. Durante il viaggio di ritorno inseguii incessantemente queste idee, e tacitamente delineavo un’esposizione adeguata di queste mie concezioni, che scrissi subito dopo il mio ritorno e feci stampare. Fu pubblicata nel 1790, e avevo intenzione di far seguire presto un’ulteriore esposizione illustrativa, corredata delle necessarie riproduzioni. Tuttavia la frenesia costante della vita interruppe e ostacolò le mie buone intenzioni, e dunque devo rallegrarmi tanto più per l’occasione che mi si offre di ristampare quel saggio, in quanto mi esorta a ripensare all’impegno che da quarant’anni a questa parte ho profuso in questi piacevoli studi. Dopo aver cercato, con ciò che ho scritto in precedenza, di rendere chiaro, per quanto possibile, il modo di procedere che ho seguito nei miei studi botanici, ai quali ho dedicato una parte considerevole della mia vita, venendo ad essi guidato, incitato, costretto, ma a cui sono rimasto fedele per indole, potrebbe darsi il caso che qualche lettore, per il resto benevolo, possa a questo punto rimproverarmi di essermi soffermato troppo a lungo su dettagli e singoli eventi personali. Perciò de-

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sidero spiegare qui che ciò è avvenuto intenzionalmente e non senza premeditazione, perché mi sia concesso, dopo così tanto indugio sul particolare, introdurre anche qualche elemento generale. Da più di mezzo secolo sono conosciuto, in patria e anche all’estero, come poeta, e valutato tutt’al più come tale; non è invece noto, e ancor meno considerato con attenzione, il fatto che mi sono impegnato con serietà e solerzia, e con grande scrupolo, di tutti i fenomeni naturali organici e più in generale fisici, seguendo silenziosamente, con costanza e passione, le opinioni che venivano esposte seriamente al riguardo. Quando dunque il mio saggio, pubblicato quarant’anni fa in lingua tedesca, riguardo al modo in cui rappresentarsi ingegnosamente le Leggi della formazione delle piante, è divenuto noto in particolare in Svizzera e Francia405, non poteva destare maggiore meraviglia il fatto che un poeta, che si interessava solitamente soltanto di fenomeni morali, rimessi al sentimento e all’immaginazione, avesse deviato per un momento il proprio cammino, e fosse riuscito, nel suo fuggevole passaggio, a giungere ad una scoperta così importante. È proprio per confutare un simile pregiudizio che ho redatto il presente saggio, che dovrà chiarire come io abbia trovato l’occasione per dedicare una gran parte della mia vita, con fervore e passione, allo studio della natura. Non è dunque a causa di un dono straordinario dello spirito, né grazie ad un’ispirazione estemporanea, imprevista e improvvisa, che sono giunto infine ad un risultato così felice, ma grazie ad un impegno coerente. Certo, avrei potuto anche godere in tutta tranquillità dell’alto onore che si voleva tributare alla mia sagacia, eventualmente vantandomene; ma poiché perseguendo l’attività scientifica è altrettanto dannoso obbedire esclusivamente all’esperienza o incondizionatamente all’idea, ho ritenuto mio dovere esporre a seri ricercatori gli eventi per come si sono presentati, con fedeltà storica, anche se non in tutta la loro ampiezza di dettaglio.

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II. Influenza di questo scritto e ulteriori sviluppi dell’idea esposta406 1830

La seria intenzione, espressa alla fine del saggio sulla metamorfosi delle piante, di proseguire questa piacevole attività non da solo, ma di fornire una conoscenza dettagliata delle mie ininterrotte fatiche anche agli appassionati della scienza, fu ostacolata durante un periodo molto movimentato, e infine vanificata del tutto. Anche attualmente mi sarebbe difficile dare notizie esaurienti sull’influenza suscitata dall’idea allora esposta e sul modo in cui si è sempre tornati a discuterne fino ad oggi. Perciò fui costretto a ricorrere ad amici scienziati407 chiedendo loro di comunicarmi cortesemente ciò che avevano appreso nel corso dei loro studi al riguardo. E poiché in tal modo mi trovavo in debito con diverse persone, di cui avevo modo di raccogliere le annotazioni relative a singoli punti, trovando opportuno anche servirmi delle loro stesse espressioni, il presente saggio ha finito per assumere una forma aforistica, che non può certo tornare a suo danno, poiché in questo modo si giunge ad una conoscenza tanto più precisa di ciò che eventualmente si è discusso in questo campo, in modo indipendente e senza un contesto determinato. Intendo distinguere con diversi segni gli interventi degli amici, in particolare servendomi dell’asterisco * e delle parentesi ( ). Il primo a cui comunicai parte delle mie idee e delle mie fatiche fu il dottor Batsch 408, che vi si interessò a suo modo e non

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fu sfavorevole alla mia relazione. Tuttavia sembra che l’idea non abbia esercitato alcun influsso sul percorso dei suoi studi, malgrado egli si occupasse principalmente di distinguere e ordinare il regno vegetale in famiglie. Recensioni favorevoli409 si trovano in: Göttinger Anzeigen, febbraio 1791. Gothaische Gelehrten-Zeitung, aprile 1791. Allgemeine deutsche Bibliothek, Bd. 116. Durante le mie visite a Jena, piuttosto frequenti all’epoca, e anche in occasione di un più lungo soggiorno in quella città, mi intrattenni più volte con eccellenti uomini del luogo su argomenti scientifici che erano per me rilevanti. Tra loro, in particolare si dimostrò decisamente favorevole il consigliere aulico dottor Johann Christian Stark 410, che aveva guadagnato grandissima stima come medico praticante, ed era anche in generale un uomo di brillanti doti intellettuali. Discendente da una famiglia di accademici, gli fu assegnata la cattedra di botanica, anche se solo nominaliter, in quanto appartenente al secondo impiego della facoltà di medicina, senza che egli avesse mai acquisito competenze particolari in questo campo. Al suo acume tuttavia non rimase affatto nascosto l’aspetto vantaggioso delle mie idee, ed egli seppe ordinare e impiegare in base ad esse le cognizioni relative a questo regno naturale che aveva acquisito in precedenza, al punto che, un po’ per scherzo un po’ seriamente, cedette alla tentazione di onorare in qualche modo il suo incarico nominale tenendo un seminario di botanica. Già nel semestre invernale del 1791 egli annunciava il suo proposito, nel programma delle lezioni, nel modo seguente: publice introductionem in Physiologiam botanicam ex principiis Perill. de Goethe tradet. A tale scopo gli consegnai tutti i disegni, le incisioni, le piante essiccate che possedevo, ordinati metodicamente, di modo che egli fu nelle condizioni di animare le sue lezioni e condurle felicemente a buon fine. Non ho mai saputo quanto abbia attecchito il seme da lui sparso in quel periodo, ma costituì per me la prova incoraggiante del fatto che simili considerazioni sarebbero potute giungere in futuro a esercitare un influsso concreto.

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Mentre il concetto di metamorfosi veniva sviluppato lentamente nella scienza e nella letteratura, già nel 1794 ebbi il piacere di trovare casualmente un uomo di grande esperienza, pienamente iniziato in questi misteri manifesti della natura. L’anziano giardiniere della corte di Dresda, J.H. Seidel 411, mi mostrò su mia richiesta diverse piante che mi erano parse singolari a causa di chiare manifestazioni di metamorfosi che si mostravano dalle riproduzioni. Tuttavia non gli rivelai lo scopo per cui gli chiedevo quel favore. Non appena mi presentò alcune delle piante che desideravo osservare, però, mi disse con un sorriso: capisco bene le vostre intenzioni, e posso mostrarvi molti altri esempi simili, se non addirittura più evidenti. E in effetti così avvenne, e fummo divertiti e indotti ad una lieta ammirazione: io percepivo che lui, in virtù di una lunga esperienza pratica e attenta, si era abituato ad osservare ovunque questa importante massima, nella molteplicità dei fenomeni naturali, e a sua volta lui vide che io, da profano in questo campo, dopo molte intense osservazioni, avevo acquisito il suo stesso dono. Nel corso di familiari conversazioni si svilupparono anche ulteriori aspetti, ed egli ammise di essere divenuto in grado, grazie a quelle cognizioni, di valutare diverse difficoltà, e di aver scoperto al contempo una felice applicazione all’ambito pratico. * Il modo in cui il presente scritto ha influito finora sul corso della scienza in Germania resta però questione estremamente intricata, cui non è possibile fornire una risposta adeguata finché non si calmerà il conflitto di opinioni, e i contendenti non giungeranno ad averne una chiara consapevolezza. In effetti a me sembra che l’idea della metamorfosi abbia conquistato molti, anche senza che ne abbiano acquisito coscienza, mentre altri, pur proclamando la nuova teoria, non sanno di cosa parlano. Nulla sembra più difficile da comprendere del fatto che un’idea che si fa strada nella scienza si mostri influente al punto da intrecciarsi con la didattica, mostrando solo in tal modo, per così dire, la sua vitalità. Intendiamo ora portare a una conoscenza più diretta la successione dei passi che hanno portato a tale risultato.

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(Il dottor Friedrich Siegmund Voigt 412 nel 1803 ha posto queste considerazioni alla base delle sue conferenze di botanica, e le ha citate anche nella prima edizione del suo dizionario di botanica, apparso nello stesso anno. Nel Sistema della botanica del 1808 egli ha premesso liberamente, in un capitolo autonomo, una dettagliata esposizione di quell’opera.) * Allo stesso tempo, si trova un deciso riconoscimento e una felice applicazione dell’idea di metamorfosi negli Aforismi tratti dalla fisiologia delle piante di Kieser 413, del 1808, che contribuirono all’ulteriore sviluppo e trasformazione della scienza. Vi si legge espressamente, a pagina 61, dopo un passo che riguarda la Prolepsis di Linné: «Goethe ne ha tratto, con singolare ingegno, un’idea generale sulla metamorfosi, che da molto tempo si è rivelata la più comprensiva tra quelle formulate a proposito della specifica fisiologia delle piante». Non dobbiamo giudicare questo scritto, così strettamente legato alla filosofia schellinghiana, in base alla forma in cui ci appare oggi: a suo tempo infatti fece sensazione, e con ragione, essendo ricco di singolari e profonde idee, tratte dalla natura. * (Nel 1811 Friedrich Siegmund Voigt pubblicò un breve scritto: Analisi dei frutti e dei semi 414 etc., in cui rivelava già il suo disappunto per il fatto che fino a quel momento non vi fosse alcun botanico disposto a concordare con questa teoria. Le sue parole, a pagina 145, suonano così: «Mi riferisco immediatamente all’inconfutabile teoria della Metamorfosi delle piante di Goethe (- citazione dell’opera sotto il testo), ancora trascurata da alcuni per pura ostinazione, in cui si mostra, mediante esempi di ogni tipo, come la pianta consegua, in vista del suo scopo vitale, i suoi organi superiori tramite un’iniziale dilatazione e una successiva e graduale contrazione; tali organi, come si è detto, non sono altro che i medesimi organi prodotti, e sempre più raffinati in seguito alla ripetizione dello stesso atto formativo, e anche modificati nel colore. – ecc. – L’osservazione della metamorfosi si limita, nel sistema dei fiori, principalmente al modo in cui si trasformano i petali. Tuttavia, già a partire dalla prima fase di sviluppo della pianta, il celebre creatore di questa concezione ha richiamato l’attenzione su un’altra formazione – i nodi» - ecc.)

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(Nel 1812 incontriamo un caso in cui è tributato un ulteriore riconoscimento, in un libro la cui esistenza e il cui fondamento sono in realtà dovuti unicamente proprio a questa teoria: si tratta del volume di G. Fr. Jäger sulle malformazioni delle piante 415. Vi si legge a pagina 6: «in entrambi i tipi di propagazione lo sviluppo successivo del nuovo individuo assume pressoché lo stesso andamento, che consiste in generale in una formazione continua e progressiva di nuovi organi fino al fiore che, pur essendo un insieme a sé, permette di riconoscere, nella struttura dei suoi organi, ancora l’affinità con gli altri organi, al punto che tutti appaiono in certo modo sorti l’uno dall’altro per via di metamorfosi: su questo siamo debitori al signor von Goethe, che ne ha fornito un’esposizione più dettagliata (citazione del testo), in cui al contempo ha tenuto conto delle singole malformazioni».) * Senza dubbio è ancora attuale il modo in cui, nel frattempo, Schelver 416 ha basato la sua Critica della teoria dei generi delle piante (1812) interamente sulla metamorfosi, e come la disputa che ne scaturì prese il sopravvento, degenerando in oltraggi. Se il degno autore non fosse stato esasperato, dapprima da un trattamento sconveniente, quindi da un’affrettata sopravvalutazione del saggio di un suo allievo, presto ritrattata; e se ci si fosse accordati invece sul concetto di individualità della pianta, da cui tutto dipendeva, poiché Schelver prendeva le mosse dall’impossibilità dell’ermafroditismo nell’individuo, sono convinto che la teoria della sessualità delle piante sarebbe stata conservata, migliorata e consolidata; si sarebbe abbandonata ogni speculazione sul vento e sugli insetti, ampiamente ricompensati dalla metamorfosi. E tuttavia, proprio per il modo in cui fu condotta quella disputa, la metamorfosi non poteva che essere citata con molta frequenza, e non c’era affatto bisogno di conquistarsi dei sostenitori neppure tra gli avversari di Schelver. Il giovane Autenrieth 417 è uno di loro*. Fu senza dubbio forte l’influenza da un lato della più recente filosofia tedesca, dall’altro della graduale introduzione del sistema naturale delle piante, che contribuirono a diffondere tra noi la metamorfosi. Quest’ultima poi si legò allo studio della geografia delle piante, occupazione preferita dopo il ritorno di Humboldt418, e talmente inseparabile dal sistema *

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naturale delle piante che perfino il più tenace sostenitore di Linné, perfino Wahlenberg419, fu costretto ad adattarsi e chiamare in aiuto almeno gli antichi ordines naturales linneiani. * * Un influsso durevole fu esercitato dalla Mémoire sur l’organisation des plantes di Kieser 420, del 1814, voluminosa opera di cui fu pubblicato un estratto in lingua tedesca nel 1815. Anche in riferimento a simili scritti si può notare che la metamorfosi non si innestava semplicemente su un tronco già formato, bensì costituiva il fondamento e l’anima dell’insieme. Poiché tale opera si atteneva scrupolosamente all’osservazione, le peculiarità dell’indirizzo di pensiero cui aderiva l’autore potevano manifestarsi in modo da non risultare importune per chi la pensava diversamente. In Francia, in particolare, si è solo da poco tempo rivolta l’attenzione a Kieser, da quando Dutrochet e altri hanno spezzato la dittatura di Brisseau-Mirbel, suo risoluto avversario. In Germania invece egli ottenne presto un riconoscimento tale che Treviranus e pochi altri, che si mantenevano ancora molto autonomi e disinvolti, sono riusciti solo lentamente a farsi strada, con i loro princìpi, perfino contro gli errori più palesi di Kieser. Ancora nel manuale di botanica di Nees von Esenbeck del 1820 sembra che le ricerche anatomiche di Moldenhawer421, Treviranus ed altri siano piuttosto trascurate rispetto a quelle di Kieser. * * In seguito, Nees von Esenbeck si impegnò ad ampliare il campo della teoria della metamorfosi entro la botanica in un’altra direzione. Perfino nelle più semplici piante, prive di foglie (Le alghe d’acqua dolce, 1814 – Sistema dei funghi, 1815422) egli cercò di documentare l’effetto della metamorfosi, ordinando tali organismi secondo i gradi della metamorfosi stessa. Il suo manuale di botanica, apparso qualche anno più tardi, si fonda sulle medesime concezioni, che, se non sono perfettamente congruenti rispetto a quelle formulate per la prima volta da Goethe, tuttavia mostrano una certa coincidenza, e l’autore stesso le deduce, con riconoscenza, da questa fonte. Nees ha inoltre esercitato un influsso straordinario grazie alla sua scrupolosa redazione delle sessioni dell’Accademia Leopoldino-Carolina, grazie ad una vivace collaborazione con la rivista botanica di Regensburg e con altri giornali, tramite l’edizione e traduzione dei testi di Brown423, tramite scam-

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bi epistolari e l’insegnamento orale, al punto che proprio a quest’uomo eccellente spetta una parte decisiva nella diffusione di quella concezione della formazione vegetale, più viva e conforme alla natura. * (Friedrich Siegmund Voigt si mostra molto schietto nei suoi Lineamenti fondamentali di storia naturale del 1817424, con le successive edizioni, e a pagina 433 fornisce una ripetuta esposizione di quello scritto, dispiegata per lo spazio di diverse pagine, e illustrata da una calcografia che raffigura un Helleborus foetidus.) (Kurt Sprengel, nella sua Storia della botanica 425 del 1818, II volume, pagina 302, si esprime nel modo seguente: «von Goe­ the espone lo sviluppo delle parti vegetali l’una dall’altra in un modo singolarmente chiaro e affascinante. (- citazione del testo). Il dispiegamento è preparato dalla contrazione delle forme: Goethe spiega questa legge fondamentale della vegetazione in modo convincente e istruttivo. – Il fatto che i nettàri costituiscano per lo più una forma di passaggio dai sepali ai filamenti e che perfino il pistillo e lo stigma, restringendosi, diventino simili ai sepali, da cui hanno avuto origine solo mediante un atto di contrazione, diviene chiaro nel momento in cui i filamenti, nei casi in cui i sepali manchino (vale a dire in alcune specie di Thalictrum), si fanno simili ad essi. Il suo ottimo ingegno avvertiva certo che le malformazioni e il riempimento dei fiori si rivelavano utili alla sua teoria, e perciò è tornato spesso a parlarne. La metamorfosi di Goethe ha avuto un significato così tanto profondo, un effetto così grande grazie alla sua semplicità, ed è stata così feconda di conseguenze utilissime che non ci si può meravigliare del fatto che abbia fornito l’occasione per ulteriori studi, anche se alcuni hanno assunto una posizione contraria, scegliendo di non tenerne conto. Uno dei primi ad accogliere in un manuale le idee di Goethe è stato Friedrich Siegmund Voigt, professore a Jena (Sistema della botanica, Jena 1808, 8.). Idee sull’affinità tra i filamenti e i sepali, così come quelle sul rapporto numerico predominante, sono state esposte da Joh. L. G. Meinecke 426 (Abhandlungen der Naturforschenden Gesellschaft in Halle, H. I, 1809). Anche L. Oken 427 spiegò dettagliatamente la metamorfosi nella sua filosofia della natura».)

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(Nel medesimo anno (1818) è comparso, nella rivista Isis, un articolo428, a pagina 991, di cui probabilmente è autore C.G. Nees v. Esenbeck, intitolato Sulla metamorfosi della botanica, che esordisce, introducendo storicamente l’argomento, con queste parole: «Teofrasto fu il creatore della moderna botanica, Goe­ the ne è divenuto un padre dolce e gentile, verso cui la figlia, dotata di sensibilità e affetto umani, con il suo aspetto ben formato, leverà lo sguardo in modo sempre più amorevole, quanto più, lasciandosi alle spalle gli anni dell’infanzia, imparerà a riconoscere il valore della sua bella esistenza e delle cure paterne». Il volume di J.W. v. Goethe, Saggio di una spiegazione della metamorfosi delle piante, Gotha, Ettinger, 1790, 86 pp., 8., ci viene ora raccomandato ancor più vivamente grazie al primo fascicolo di una nuova serie periodica di saggi scientifici, che reca il titolo generale Sulle scienze naturali in generale ecc.) (Il dottor H.F. Autenrieth, nella Disquisitio quaestionis academicae de discrimine sexuali jam in seminibus plantarum dioeciarum apparente, praemio regis ornata, Tubingae 1821, 4., mostra di conoscere la teoria della metamorfosi e la cita a pagina 29, dicendo: «Il modo in cui nella pianta di canapa si formano gli organi riproduttivi di entrambi i sessi concorda pienamente con ciò che Goethe aveva già espresso in passato, e dunque ho ritenuto di dover menzionare il fatto che ho osservato sorgere sia le antere che i semi con i loro pistilli dai sepali».) Il dottor Ernst Meyer, attualmente professore ordinario all’Università di Königsberg e direttore del giardino botanico locale, un amico di vecchia data che ha condiviso queste mie occupazioni, avrebbe dovuto essere citato già in precedenza; lo ricordo a questo punto, cogliendo l’opportunità dell’ordine cronologico. Non ho mai avuto la fortuna di intrattenere rapporti personali con lui, ma fin dai primi anni mi incoraggiò il suo interesse e la sua adesione alle mie idee. Di una simile fiducia reciproca potrà fornire sufficiente testimonianza il seguente documento, vale a dire il testo di Goe­ the sulla scienza naturale, e in particolare sulla morfologia, primo fascicolo del secondo volume, 1822. In quella sede, a pagina 28, si troveranno menzionati dei

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problemi429 che si riferiscono all’organizzazione in generale e a quella vegetale in particolare, che l’editore ha sottoposto con fiducia, in forma di interrogativo, al suo attento amico. Segue poi a pagina 31 una replica ragionata, redatta da quell’uomo stimato. Entrambe le dichiarazioni possono certo essere considerate anche in futuro stimolanti e interessanti sotto vari profili. L’amico di cui si diceva, il dottor Meyer, del resto, senza citare espressamente e dettagliatamente la metamorfosi nei suoi scritti, l’ha molto sostenuta da diversi anni, tramite il semplice insegnamento e un’attiva opera di diffusione. Lo dimostra l’opera seguente, redatta da un suo uditore e molto significativa, che abbiamo il piacere di menzionare. * L’opera di Röper, Enumeratio Euphorbiarum 430, è uno dei rari scritti che, pur parlando poco di metamorfosi, trattano il loro argomento in modo interamente conforme a quest’idea, e per tale ragione trovano un accesso tanto più facile presso gli studiosi che appartengono a indirizzi di pensiero diversi. Anche la materia cui è dedicata questa trattazione si mostra più di altre accessibile a quell’approccio. Già Richard, il vero autore della Flora boreali-americana di Michaux431, aveva mostrato in quest’opera che ciò che Linné aveva considerato come singoli fiori di euforbia si poteva ritenere anche un’infiorescenza o un flos compositus, in cui il presunto pistillo rappresenta il fiore femminile centrale, mentre gli stami, ipoteticamente articolati, costituiscono un verticillo con lo stelo di un fiore maschile, la corolla costituisce l’involucro, e così via. Grazie alla comparazione con la struttura e la modalità di sviluppo di generi affini, più tardi Robert Brown cercò, al pari di Röper, di confermare quell’idea, facendo ricorso principalmente a numerose e singolarissime malformazioni. * (Nel 1823 abbiamo ricevuto un’opera eccellente di Lud. H. Friedlaender, De Institutione ad medicinam libri duo, tironum atque scholarum causa editi 432. Tra le acute istruzioni per uno studio approfondito della medicina, l’autore dedicava diversi paragrafi anche alla botanica, e a pagina 102, al paragrafo 62, scrive: «La crescita della pianta non mostra nulla che sia pienamente libero o arbitrario; la sua esistenza, singolarmente determinata, è diretta unicamente allo scopo del suo sviluppo,

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causato in parte dalla dilatazione e in parte dalla contrazione, in modo tale che dal germoglio sviluppato scaturisce la radice verso il basso e il fusto verso l’alto, e quest’ultimo diventa capace di produrre infine, da una successione di foglie, il calice, la corolla, gli organi del polline e del frutto, nonché il frutto stesso. Goethe, Metamorfosi».) * È ora di moda in tutti i manuali di botanica, che ormai sono diventati legione, dedicare un breve capitolo alla metamorfosi. Ma non è possibile costringere in questo modo lo spirito che dovrebbe pervadere e vivificare l’intero ambito di cui si discute. Scritti di questo tipo saranno dunque completamente ignorati, poiché solo i principianti li consultano, quando manca loro un termine tecnico che possono sperare di trovare lì. * H.F. Link 433, Elementa philosophiae botanicae, Berolin. 1824. L’autore scrive a pagina 244: La metamorfosi delle piante è stata esposta in modo eccellente da Goethe, che presenta la pianta come composta alternativamente tramite meccanismi di dilatazione e contrazione; il fiore può essere considerato come il momento della contrazione, ma mentre questa predomina nel calice, la corolla si dilata nuovamente. Gli stami, le antere e il polline sono di nuovo per la maggior parte contratti, mentre il perianzio si dilata ancora, fino a giungere alla massima contrazione dell’embrione. Questa oscillazione della natura non si riscontra solo in movimenti meccanici, simili a quelli del pendolo, delle onde e così via, ma anche in corpi viventi e nelle fasi della vita.

Questo apparente elogio dei nostri sforzi, però, non può che suonarci sospetto, poiché, là dove si sarebbe dovuto parlare propriamente di formazione e trasformazione, si introduce solo l’ultima astrazione, informe e sublimata, mentre la vita precipuamente organica è unita ai più generali fenomeni naturali, completamente privi di forma e di corpo. Ma il nostro sentimento si è trasformato addirittura in afflizione quando, ad un esame più attento, abbiamo visto che le parole citate sembrano incastrate in quest’opera come estranee e intruse, condannate così alla più assoluta inefficacia. Infatti, l’autore impiega il termine metamorfosi, fin dalle prime pagine della sua esposizione e anche altrove (si veda l’indice),

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in un senso completamente diverso da quello adottato da noi e da altri, e addirittura in un’accezione che non dovrebbe mai essere scelta, e che non andrebbe bene neppure all’autore stesso: non è chiaro infatti come debba intendersi la frase posta a pagina 152, alla fine del paragrafo 97: Hoc modo nulla fit metamorphosis. Non solo: l’autore aggiunge ogni volta una cosiddetta anamorfosi, che rende ancora più incerto il senso proprio del nostro termine. Ciò che è più spiacevole però è il fatto che egli mira a ricondurre la formazione principale e conclusiva in fiore e frutto all’indifendibile Prolepsis di Linné: a tal fine avrebbe invece bisogno non di una, ma di una dozzina di prolessi, ed è costretto, per spiegare l’impiego precoce di future gemme annuali, ad attenersi agli alberi perenni, e aggiunge in tutta ingenuità: Ut prolepsis oriatur ligno robusto opus est. Pag. 246, par. 150. Ma cosa succede allora alle piante annuali, che non possono anticipare nulla? In questo caso, diremo noi, grazie ad una metamorfosi che si intensifica rapidamente, l’organismo transitorio, una pianta già rovinata e prossima alla fine, è posta nella condizione di anticipare centinaia e migliaia di elementi che, al pari della pianta stessa, avranno vita breve, ma che, proprio allo stesso modo, sono destinati ad essere e a diventare smisuratamente fecondi. Dunque si dovrebbe definirla non una prolessi della futura pianta, bensì una prodosis della natura generosa, e in tal modo si trarrebbe insegnamento e piacere da un termine appropriato e corretto. Basta! È anche troppo! Non si dovrebbe discutere con l’errore, dovrebbe essere sufficiente indicarlo. * In questa sequenza possiamo fregiarci anche di un nome importante, quello di Robert Brown 434. È consuetudine di questo grand’uomo quella di esporre raramente le verità fondamentali della sua scienza, mentre ciascuno dei suoi lavori mostra quanto in profondità egli vi sia penetrato. Da ciò derivano le critiche sull’oscurità del suo modo di scrivere. Anche riguardo alla metamorfosi egli non si è mai spiegato completamente. Una sola volta, in una nota al suo saggio sulla Rafflesia, scrive esplicitamente che ritiene tutte le parti del bocciolo delle foglie modificate, e cerca di spiegare la normale formazione delle antere basandosi su quest’idea.

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Queste parole redatte rapidamente da un autore riconosciuto come il più grande botanico dei nostri tempi, non sono cadute su un terreno sterile, e hanno esercitato un’azione profonda, almeno in Francia. In particolare Aubert du PetitThouars435, da lui elogiato come uno dei difensori di tale concezione, sembra debba la sua fama principalmente a questa e a un’altra valutazione favorevole espressa altrove da Brown; la stima di cui attualmente inizia a godere in Francia non gli è stata procurata dalle sue pur eccellenti opere, che non sono state immediatamente accolte dai suoi prevenuti connazionali. * A.P. De Candolle, Organographie végétale. II Tomes, 1827. Paris. Per parlare dell’intervento di quest’uomo eccellente, preferiamo ricorrere ad alcuni passi tratti da altri autori; il nostro traduttore de Gingins-Lassaraz436, nella sua prefazione di carattere storico alla nostra Metamorfosi, si esprime nel modo seguente: Nel frattempo un celebre botanico, senza conoscere l’opera di Goethe, affrontò a suo modo la questione e, guidato da un talento straordinario, di cui non oso stimare tutto il valore, e appoggiandosi ad uno studio approfondito del regno vegetale e ad una massa considerevole di esperienze e osservazioni, nel 1813, nella sua Teoria elementare espose i princìpi della simmetria degli organi e la storia delle loro metamorfosi, che lui definisce degenerescenze. Questa teoria, basata su un fondamento tanto solido, non doveva temere di incorrere nel destino dell’opera goethiana, e infatti fece numerosi e rapidi progressi nella trattazione naturale e filosofica degli organismi vegetali, completata infine dall’Organografia dei vegetali, che riassume tutte le nostre conoscenze sull’argomento.

P.J.F. Turpin. Da quest’uomo eccellente, stimato e noto al contempo come valente botanico e accurato disegnatore, sia di piante completamente formate che dei loro primi microscopici elementi, abbiamo già preso a prestito un motto, che abbiamo trovato alla tavola I del volume XIX delle Memorie del Museo di Storia naturale, apparso nel 1830, e qui ripetiamo con piacere per il suo significato. «Osservare le cose nel loro prodursi è il mezzo migliore per spiegarle»437. Altrove egli dice anche438: «L’organizzazione ge-

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nerale di un essere vivente, e quella dei suoi organi in particolare, si possono spiegare soltanto seguendo passo dopo passo la sequenza del suo sviluppo, dal primo momento in cui inizia la sua formazione fino alla sua morte». Anche questo rimane un articolo fondamentale, professato da quei Tedeschi che lavorano seriamente e si occupano fedelmente dell’osservazione della natura. Un artista figurativo incaricato di riprodurre con sguardo acuto le differenze tra gli oggetti che gli si pongono di fronte, precisamente come essi si presentano, noterà presto, nel momento in cui si accinge a trasferire tali soggetti su tavola con la sua abile mano, che gli organi di una stessa pianta non sono rigidamente separati gli uni dagli altri. Egli scorgerà come un organo derivi gradualmente dall’altro, e come il suo sviluppo si intensifichi progressivamente, e gli sarà facile mostrare abilmente la sequenza continua degli organismi tra loro affini, sempre identici e sempre modificati. La lingua francese possiede, tra le altre parole che le invidiamo, il verbo s’acheminer: anche se originariamente il suo significato è solo quello di “incamminarsi”, tuttavia l’ingegnosa nazione francese intuì che ogni passo che un viandante muove in avanti ha un altro contenuto e un altro significato rispetto al precedente, poiché, una volta intrapresa la via corretta, in ciascun passo è già interamente prefigurata e contenuta la mèta da raggiungere. Per questo motivo il termine acheminement comprende in sé un valore moralmente vivificante, poiché fa pensare ad un avvicinamento e ad un avanzamento, inteso in un senso più elevato. Allo stesso modo, l’intera strategia si basa propriamente sull’acheminement più corretto e deciso. Il contributo più alto tra quelli che si possono applicare alla botanica, l’ottimo Turpin ce lo ha fornito non soltanto tramite l’osservazione scientifica, ma anche con le sue riproduzioni artistiche, che ha avuto molte occasioni per rielaborare; egli potrebbe dunque prestare un grandissimo servizio in questo campo se volesse dirigere seriamente la sua attività ai fini di una rappresentazione figurativa della metamorfosi delle p ­ iante. In effetti, già le tavole che accompagnano l’Organografia dell’acuto De Candolle mostrano degli esempi molto istruttivi; noi però desidereremmo fossero più complete, adatte agli scopi specifici di cui si è detto, il più possibile precise, e in particolare chiarite in modo caratteristico anche con l’uso del

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colore, e disposte metodicamente secondo l’ordine naturale; quest’ultima cosa, viste le competenze sicure dell’ottimo artista, nonché i suoi lavori preparatori estremamente stimolanti, non sarà certo impresa difficile. Se avessimo la fortuna di abitare nelle vicinanze dell’artista, gli staremmo accanto quotidianamente e con insistenza lo pregheremmo e inviteremmo a intraprendere un’opera simile, che avrebbe bisogno di un testo brevissimo, affiancandosi alla terminologia botanica e al suo ricco lessico, e tuttavia mantenendo la sua autonomia, mentre il linguaggio originario della natura non potrebbe che apparirci pienamente leggibile nei suoi elementi e nelle sue diffuse rielaborazioni e applicazioni. (Nel 1827 vide la luce la seconda edizione del Manuale di botanica di Friedrich Siegmund Voigt 439. Alle pagine 31 e successive è ristampata l’esposizione della metamorfosi così come si presentava nella prima edizione, anche se adesso era collegata in modo più preciso alle teorie introduttive alla botanica, e corredata di molti esempi, raccolti da testi rari e da osservazioni condotte in prima persona dall’autore.) Botanica per signore ecc., che contiene una rappresentazione del regno vegetale nella sua metamorfosi, redatta da Ludwig Reichenbach 440 e apparsa a Lipsia nel 1828. L’autore, dopo aver esposto la concezione e il modo di procedere seguiti da Linné e Jussieu, si volge a parlare dei miei lavori, esprimendosi nel modo seguente: Goethe getta uno sguardo in profondità nell’intima vita della natura, e la sua semplice comprensione di ciò che ha osservato, la sua felice interpretazione dei singoli fenomeni che concorrono a costituire il tutto con le loro relazioni, e soprattutto la sua originale visione complessiva della natura, ci consentono di riconoscere vividamente nella sua tendenza la terza direzione che la ricerca naturalistica è in grado di prendere. In particolare, egli ha dedicato così tanta attenzione all’osservazione del mondo vegetale e all’indagine del suo sviluppo e del suo dispiegamento, che possiamo dire di lui con piena ragione: da giovane aveva già indagato il mistero delle Driadi, ma doveva diventare vecchio prima che il mondo lo comprendesse! – Il suo geniale testo sulla metamorfosi delle piante (Gotha 1790) giunse solo con ritardo alla piena maturazione della somma e meritata fama: un saggio guidato da un dono dell’osservazione eccellente, al pari

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della felice capacità interpretativa che lo anima. Tale metamorfosi, tale idea di sviluppo delle piante, trasportato sull’intero regno vegetale, fornisce le leggi per un ideale ordinamento, per la rappresentazione del vivo contesto naturale, che siamo chiamati ad indagare, pur sapendo che non riusciremo mai ad esaurirlo. Solo una spiegazione intuitiva anima gli scritti del maestro, mentre la dimostrazione dettagliata è rimandata a ciascun lettore, in base alle competenze, all’impegno e alle energie di ognuno.

Esprimiamo i nostri elogi per gli sforzi di quest’uomo eccellente e, per manifestarli, aggiungiamo ancora poche righe. Un’idea, appena viene formulata, diventa un meraviglioso bene comune, e chi è in grado di impadronirsene conquista un nuovo possesso senza derubare nessuno; di conseguenza, se ne serve a proprio modo, anche senza rifletterci costantemente. In tal modo però si dimostra proprio il valore intrinseco, potentemente vitale, del bene acquisito. L’autore dedica la sua opera alle donne, agli artisti e agli intelligenti appassionati della natura; egli spera che l’osservazione delle supreme massime della natura e la loro applicazione nella vita pratica siano favorite dai suoi sforzi. Possa egli ricevere li più bel compenso grazie ad una felice realizzazione di tale auspicio! Botanische Literatur-Blätter, secondo volume, terzo fascicolo. Nürnberg 1829, pp. 427. Regia istituzione di Gran Bretagna, Londra 1829. Il 30 gennaio il signor Gilbert T. Burnett 441 lesse tra gli altri un lungo saggio sulla metamorfosi delle piante. In questo volume se ne trovano degli estratti tradotti, e sarebbe auspicabile avere sotto gli occhi l’intero lavoro. In realtà esso non concorda pienamente con le nostre idee, a quanto pare, anche se tratta l’argomento con serietà e prudenza. * Certamente una traduzione francese del Saggio di una spiegazione della metamorfosi delle piante eserciterà un influsso benefico. L’idea dominante di questo saggio si è destata anche al di là del Reno: Aubert du Petit-Thouars e Turpin (nella sua appendice alle Leçons de flore di Poiret442) ne forniscono le testimonianze più evidenti. Tuttavia entrambi, a me pare, vagano già molto oltre i giusti confini, e trovano poca benevolenza tra

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i loro connazionali. Questa rappresentazione più semplice e conforme alla natura, c’è da sperarlo, potrà forse conciliare alcuni, richiamando, d’altro lato, altri sul giusto binario. * Essai sur la Métamorphose des Plantes, par J.W. de Goethe. Traduit de l’allemand sur l’Edition originale de Gotha (1790), par M. Frédéric de Gingins-Lassaraz. Genève 1829. In una prefazione di carattere storico, il traduttore si esprime nel modo seguente: Ci sono due modi molto diversi di considerare le piante: uno, il più consueto, confronta fra loro tutte le singole piante di cui si compone l’intero regno vegetale, l’altro pone a confronto tra loro i diversi organi che costituiscono dapprima la pianta, per poi cercarvi un sintomo caratteristico della vita vegetale. Il primo di tali modi di studiare le piante ci conduce alla conoscenza di tutte le specie vegetali diffuse sulla superficie terrestre, le loro relazioni naturali, il modo in cui vivono e il loro impiego. Il secondo ci fa conoscere gli organi delle piante, le loro funzioni fisiologiche e il ruolo che devono rivestire nella loro economia vitale. Esso studia l’andamento dello sviluppo, e le metamorfosi a cui devono adattarsi le singole parti; ci mostra inoltre, nella pianta, un essere che nasce, cresce, si riproduce e muore. In una parola: il primo metodo può dirsi una storia delle piante, il secondo una storia della pianta. Quest’ultimo modo di considerare gli organismi vegetali è stato definito filosofico, dal momento che si collega più strettamente alla filosofia della natura, anche se, in senso proprio, i due modi di studiare gli esseri viventi sono assolutamente inseparabili. Non si potrebbero in alcun modo riconoscere i rapporti naturali tra i vegetali che si pongono a confronto tra loro se non si fosse in grado di valutare i diversi fenomeni con cui gli organi si travestono sotto i nostri occhi e, d’altro lato, la vera natura degli organi può esserci svelata soltanto se siamo in grado di distinguere le parti analoghe in un gran numero di organismi vegetali di diversi generi. Simili osservazioni gioveranno certo a questa traduzione, con cui cerchiamo di rendere più accessibile al vasto pubblico il geniale saggio di Goethe sulla metamorfosi delle piante, mentre il passare del tempo e l’osservazione attenta degli oggetti si sono pronunciati, in varia misura, in favore della verità delle sue concezioni. A questo poeta, noto per il modo libero e naturale che traspare dalle sue produzioni letterarie, era riservato di volgere il suo sguardo acuto anche al regno vegetale, e di mostrarci la pianta in tutta la semplicità della sua natura, senza alcun pregiudizio di carattere

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sistematico, esponendo in che modo essa, tacitamente e misteriosamente, esercita l’eterna capacità di crescere, fiorire e riprodursi nuovamente. ‘Il poeta’, frenando lo slancio naturale della sua immaginazione, e facendo affidamento su un piccolo numero di esempi, generalmente accessibili ma ben scelti, si è impegnato a condurre il lettore passo dopo passo attraverso un sentiero semplice e chiaro, fino a persuaderlo delle verità da cui si sente pervaso. Inoltre, la sua teoria è elementare nel senso più alto, e molto adatta a istruire e convincere anche coloro che non hanno seguito veri e propri studi sugli organismi vegetali. A tale riguardo essa potrebbe servire da modello per coloro che si impegnano a diffondere più ampiamente la conoscenza degli esseri che ci circondano, rendendola, come si suol dire, popolare.

La traduzione citata in precedenza potrà ora, visto che l’originale è qui ristampato, essere giudicata da esperti scienziati di entrambe le lingue, e si scoprirà che, per risultare comprensibili, ci si è serviti per lo più di quelle espressioni che appartengono al punto di vista scientifico attualmente condiviso. Il traduttore si concede di affermare, riguardo ai suoi sforzi, quanto segue: poiché egli ha avuto la fortuna di frequentare, alcuni anni fa, le lezioni del celebre De Candolle, e anche in seguito non ha tralasciato di occuparsi della storia naturale, non gli sono totalmente estranei i princìpi fondamentali della fisiologia delle piante, e della terminologia che vi si riferisce. Tuttavia, egli ha considerato tali conoscenze come dannose piuttosto che vantaggiose, poiché la prima esposizione della metamorfosi è molto precedente rispetto alla creazione dell’attuale sistema di fisiologia, e dunque egli ha evitato accuratamente quelle espressioni oggi assunte universalmente, restituendo così in modo tanto più fedele il significato dell’originale in una traduzione precisa ed elaborata sotto lo sguardo dell’autore stesso443. L’opera di Reichenbach444 è annunciata nel Bulletin des sciences naturelles, sous la direction de M. le Baron de Ferrusac. No. 5 – Maggio 1830, pag. 268. Botanica per signore – Botanique pour les dames, les artistes et les amateurs de plantes, contenant une exposition du règne végétal dans ses métaphores (sic!) et une instruction pour étudier la science et pour former des herbiers.

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A questa traduzione del titolo non è aggiunto altro, e non si trova il minimo accenno a ciò che può eventualmente contenere il libro. In un annuncio, apparso poco più tardi, che anticipa uno scritto tedesco di filosofia della natura, i relatori dichiarano che tale annuncio ha unicamente la funzione di non tralasciare nulla di ciò che viene stampato su argomenti di carattere scientifico. Ora però, noi pensiamo, l’influsso che da molti anni ha esercitato in Germania la teoria della trasformazione, già da tempo introdotta in Francia da un maestro universalmente riconosciuto di questa disciplina, e perfino di recente rinfrescata grazie ad una traduzione del nostro primo saggio, avrebbe potuto dare l’occasione per la redazione di alcune osservazioni sul libro citato. Ma per quanto riguarda il singolare errore di stampa che altera il titolo sopra riportato, ponendo il termine ‘metafora’ in luogo di ‘metamorfosi’, riteniamo che il nostro tempo sia troppo colto perché si possa sospettare che vi si nasconda un’allusione derisoria al modo in cui i Tedeschi trattano argomenti di scienza naturale. La teoria della metamorfosi non può essere estranea ai curatori, che rimpiangeranno il fatto di non aver rivisto con più attenzione la stampa, o piuttosto di aver affidato sia la redazione che la revisione di questo capitolo a persone completamente ignare dello stato della scienza. J.P. Vaucher 445, Histoire physiologique des plantes d’Europe, ou exposition des phénomènes qu’elles présentent dans les divers périodes de leur dévelopment. I fort Vol 8vo. Genève 1830. Quest’importante opera, dalla quale, a partire dalla sua pubblicazione, abbiamo già tratto qualche vantaggio, non avremmo in realtà dovuto ricordarla. L’autore, un coscienzioso botanico, spiega i fenomeni fisiologici in base a una visione teologica, che non è né può essere da noi condivisa, anche se non intendiamo polemizzare con nessuno di coloro che vi fanno ricorso. Tuttavia, concludendo la sua introduzione, l’autore si dichiara poco propenso verso quella teoria in base alla quale il signor De Candolle ha intrapreso, nei suoi scritti didattici, lo svolgimento dell’organizzazione botanica, e dunque respinge allo stesso modo anche la nostra concezione, che concorda

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molto con quella; cogliamo dunque l’occasione per parlare esplicitamente di queste relazioni, certo molto delicate. Occorre notare con molta riconoscenza che un uomo così illustre come il signor De Candolle446 riconosce l’identità di tutte le parti della pianta, e mostra con gli esempi più vari anche la mobilità viva della pianta stessa, che le consente di svilupparsi in avanti o all’indietro, presentandosi in tal modo allo sguardo sotto infinite forme diverse. Tuttavia non possiamo approvare la via che egli prende, per condurre gli appassionati del regno vegetale all’idea fondamentale, dalla cui corretta comprensione tutto dipende. Secondo la nostra opinione, egli sbaglia a prendere le mosse dalla simmetria, definendo addirittura l’intera teoria con questo termine. Il degno autore presuppone una certa regolarità intenzionata dalla natura, e chiama deformazione e deviazione tutto ciò che non vi si conforma, e che maschera e nasconde quella regola fondamentale mediante aborti, sviluppi abnormi, deperimenti o fusioni. Proprio un simile modo di esprimersi ha intimorito il signor Vaucher, e non possiamo certo biasimarlo. Infatti, in base a quei concetti, sembra che nel mondo vegetale l’autentica intenzione della natura sia realizzata solo molto raramente: siamo rimandati da un’eccezione all’altra, senza trovare mai un punto fermo. La metamorfosi è invece un concetto superiore, che domina sia la regolarità che l’irregolarità, e in base al quale si formano sia la rosa semplice che quella multipetala, e si producono sia il tulipano regolare che la più meravigliosa delle orchidee. Per questa via all’adepto si chiariscono tutte le formazioni ben fatte, al pari delle malformazioni dei prodotti naturali, e gli si rivela la vita eternamente fluida, da cui scaturisce per le piante la possibilità di svilupparsi in condizioni sia favorevoli che sfavorevoli, e permette alle specie e varietà di diffondersi in tutte le zone. Quando una pianta, per leggi interne o per l’azione di cause esterne, modifica la sua forma e il rapporto tra le sue parti, occorre ritenere tutto ciò come assolutamente conforme alla regola, senza considerare alcuna di queste deviazioni come una malformazione o una regressione. Che un organo possa allungarsi o accorciarsi, dilatarsi o contrarsi, fondersi o scindersi, rallentare o accelerare la cresci-

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ta, svilupparsi o celarsi: tutto ciò avviene secondo la semplice legge della metamorfosi, che manifesta, con la sua azione, sia i fenomeni simmetrici che quelli bizzarri, sia la fecondità che la sterilità, ciò che è comprensibile e ciò che non lo è. Un’esposizione di questo tipo piacerebbe di più al signor Vaucher, se potessimo intrattenerci con lui su tali argomenti in modo metodico e adducendo esempi dimostrativi, poiché in questo modo la prospettiva teologica non sarebbe eliminata, ma riceverebbe piuttosto un aiuto. Il ricercatore può persuadersi sempre più di come un elemento semplice, posto in moto dalle eterne essenze originarie, sia in grado di produrre l’elemento più complesso e molte­ plice. Un osservatore attento può scorgere ciò che sembra impossibile con i suoi stessi sensi: un risultato che, si chiami scopo previsto o conseguenza necessaria, esige risolutamente che ci inginocchiamo in adorazione di fronte al misterioso fondamento originario di tutte le cose. Se in questa sede mi rivolgessi soltanto a dei Tedeschi, proseguirei ancora indugiando liberamente e con piacere in un linguaggio a loro comprensibile, come tra spiriti concordi. Ma poiché, al contrario, devo attendermi una traduzione in francese, preferisco interrompermi per non incorrere nel sospetto di perdermi in fantasticherie mistiche agli occhi di quella nazione che ovunque esige piena chiarezza di pensiero e di espressione.

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III. Sulla tendenza a spirale447

Nei convegni di ricercatori tedeschi448 di scienza naturale a Monaco e Berlino, il nostro colto e brillante cavaliere von Martius è riuscito a stabilire, in alcune conferenze di argomento scientifico, tutti i risultati finora raggiunti per la morfologia del mondo vegetale, richiamando l’attenzione sulla tendenza delle piante che forma e determina in senso proprio fioritura e infruttescenza, e che noi vorremmo chiamare tendenza a spirale. Su tale argomento, come ci informano le annate 1827 e 1828 della rivista Isis, egli si esprime nel modo seguente449: Questo progresso nella conoscenza del mondo vegetale è il risultato di quella concezione morfologica denominata metamorfosi delle piante. Tutti gli organi del fiore: calice, corolla, filamenti e ovario, sono foglie trasformate. Dunque sono in sostanza foglie identiche, solo diversificate dalla potenza della loro metamorfosi. La costituzione di un fiore si basa, dunque, sulla disposizione e sull’ordinamento, specifici e propri di ogni genere, di un certo numero di foglie metamorfosate. Queste ultime, internamente identiche ed esteriormente dotate di forme molteplici, si dispongono verso l’estremità di un ramo, o anche di uno stelo, attorno ad un asse comune, finché non trovano stabilità riunendosi e legandosi reciprocamente.

Fin qui citiamo testualmente solo le affermazioni essenziali, sperando di averle presentate anche secondo lo spirito di questo nobile autore. Aggiungiamo solo qualche riga:

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Questo studioso magistrale elabora in seguito il tema al punto da definire questi movimenti organici, ordinati in base al numero e alla misura, di ciò che è internamente identico ed esternamente conformato nei modi più vari, con il termine di rotazioni organiche; egli giunge così vicino ai fenomeni, sia regolari che irregolari, tramite determinazioni di ogni specie, che può permettersi di intraprendere una definizione simbolica per i singoli aspetti, fondando su di essa un nuovo sistema naturale. Lo studio dei saggi citati, una conversazione familiare con quell’uomo eccellente, e un modello ideato per visualizzare concretamente questa problematica azione naturale, ci resero in grado di seguire tali importanti concezioni, giungendo ad una convinzione che non esitiamo qui a comunicare, ora che abbiamo inserito quanto segue, per una migliore compren­ sione. Ai botanici, e in particolare a coloro che praticano l’anatomia, sono piuttosto noti i vasi a spirale450, che sono osservati nella loro molteplicità, distinti e denominati, anche se la loro destinazione vera e propria è ritenuta problematica. In questa sede noi li consideriamo come le parti più piccole, perfettamente identiche all’insieme cui appartengono, e a cui, in quanto omeomerie451, comunicano le loro caratteristiche, per riceverne a loro volta proprietà e determinazioni. È loro attribuita una vita autonoma, la forza di muoversi da sé e per sé, assumendo una determinata direzione; l’ottimo Dutrochet la definisce incurvatura vitale 452. Tralasciando ora l’osservazione di simili parti costitutive, seguiamo ora il percorso della nostra esposizione. Abbiamo ammesso che nella vegetazione domina una tendenza a spirale in virtù della quale, insieme alla tendenza verticale, giunge a compimento ogni struttura e ogni formazione vegetale secondo la legge della metamorfosi. Dunque le due tendenze principali o, se si vuole, i due sistemi viventi che consentono la crescita e il compimento della vita della pianta, sono il sistema verticale e quello a spirale; nessuno dei due può essere pensato indipendentemente dall’altro, poiché l’uno agisce in modo vitale solo mediante l’altro. Tuttavia è necessario, per una comprensione più precisa, e in particolare ai fini dell’esposizione, osservarli ed esaminarli separatamente, notando come domini l’uno o l’altro, e alter-

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nativamente uno degli opposti prende il sopravvento sull’altro o ne è a sua volta sopraffatto, oppure è in grado di giungere a un equilibrio. In tal modo potranno risultare più evidenti le proprietà di questa coppia inseparabile. La tendenza verticale si manifesta fin dai primi inizi della germinazione, è grazie ad essa che la pianta mette radici nel terreno e si innalza al contempo verso l’alto; tale tendenza persiste dall’inizio alla fine e si manifesta al contempo come una solidificazione, sia nelle fibre e nei filamenti allungati, sia nella formazione del legno, dritta e rigida. È la medesima forza naturale che si spinge incessantemente di nodo in nodo verso l’alto o in altre direzioni, trascinando con sé perfino i singoli vasi a spirale, di modo che, favorendo e intensificando un elemento vitale dopo l’altro, conferisce di conseguenza una continuità all’insieme, perfino nelle piante rampicanti o striscianti. Nell’infiorescenza essa si mostra poi nel modo più netto, costituendo l’asse di ciascuna formazione floreale. Ma soprattutto salta agli occhi quando, nella pannocchia, nella spata, si rivela chiaramente come supporto e sostegno della realizzazione finale; per tale motivo, anche nelle più moderne concezioni occorre tenere sempre presente davanti agli occhi la tendenza verticale, considerandola il principio maschile di sostegno. Per contro, intendiamo considerare la tendenza a spirale come il vero e proprio principio vitale produttivo; intimamente affine alla precedente, è assegnata di preferenza alla periferia. Può manifestarsi già durante la prima germinazione, come possiamo notare nell’esempio di alcuni convolvoli. Tuttavia essa si rivela nel modo più evidente nelle estremità e nelle parti terminali: si pensi al modo in cui le cosiddette foglie composte spesso finiscono in cirri e viticci, e anche interi rametti, in cui aumentano eccessivamente i vasi linfatici senza che abbia luogo una solidificazione, appaiono in forma di forcelle, piccoli corni e simili, che si incurvano con maggiore o minore rapidità. Nei monocotiledoni tale tendenza si mostra più raramente nel corso della crescita. Sembra prevalere la tendenza verticale o longitudinale: foglie e stelo sono spinti ad allungarsi da fibre diritte, e in quest’ampia sezione del mondo vegetale non mi sono imbattuto né in cirri né in viticci. Tuttavia, sia che nel progredire della crescita della pianta la tendenza a spirale si nasconda, sia che invece si manifesti po-

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tentemente, essa domina comunque in ogni disposizione dei fiori e dei frutti in cui, avvolgendosi migliaia di volte attorno al suo punto centrale, causa quel miracolo per cui una singola pianta diventa infine in grado di produrre da sé una riproduzione infinita. Con ciò torniamo ancora al punto da cui siamo partiti, richiamando alla memoria le parole che in origine ci hanno condotto a sviluppare idee così varie. Se ciò che abbiamo esposto ci offre il chiarimento desiderato a proposito della formazione regolare delle piante, le stesse massime ci permetteranno di valutare allo stesso modo le più varie malformazioni, che scaturiscono dalla legge delle forme determinate, come si rivelerà certo a chi intende proseguire queste riflessioni e ricerche. Su indagini più precise si baserà una conoscenza al contempo più profonda e precisa, che speriamo vivamente di raggiungere, dal momento che lo stesso cavaliere von Martius non può rinunciare a proseguire le sue ricerche su questi importanti temi, e vi sono giovani impegnati453 a elaborare, con incisività e attenzione, le determinazioni osservabili e calcolabili delle rotazioni. Non possiamo dunque non citare con ammirazione, anche se al momento solo in termini generali, un saggio apparso nella prima parte del quindicesimo volume degli Atti della Società Leopoldino-Carolina. Tale lavoro reca il titolo: «Analisi comparativa sulla disposizione delle scaglie sulle pigne di abete, come introduzione all’analisi generale della disposizione delle foglie, del dottor Alexander Braun». Non ci resta che aggiungere l’auspicio che il sapere, sospinto ancora una volta per questa via in infiniti dettagli, non manchi di concentrazione interiore, di modo che la visione generale di un’esperienza così ricca agisca e si conservi entro l’ambito di una scienza trasmessa in modo comprensibile.

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Appendice454

Annales des sciences naturelles, février 1831

Proprio mentre ci accingiamo a licenziare il nostro lavoro, e ci resta ancora soltanto una pagina, apprendiamo che nella rivista citata il signor Geof­froy de St. Hilaire ha avuto la gentilezza di riassumere in poche pagine gli sforzi che egli si è cortesemente dato la pena di compiere, indagando e seguendo il nostro percorso nel campo delle scienze naturali. Ci rallegriamo fin d’ora nel vedere che egli ha gradito e accolto l’esposizione dettagliata e le dichiarazioni che abbiamo consegnato alle nostre prime aggiunte al testo. Per tale motivo intendiamo qui affidargli con gratitudine l’articolo che abbiamo citato, nonché l’intero fascicolo.

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[Sulla tendenza a spirale]455

Introduzione storica Tornando a esaminare il mondo vegetale, molti anni dopo la formulazione delle mie prime concezioni, e limitandomi a collegare alcuni elementi particolari al generale, sono stato di nuovo fortemente stimolato da una certa tendenza a spirale delle piante, recentemente osservata, su cui il nostro Martius ha tenuto delle conferenze [nel 1827] a Monaco e l’anno successivo a Berlino, presentando in quest’ultima occasione un modello che servisse da ulteriore chiarificazione. Quando, nel suo viaggio di ritorno, quest’uomo valente venne a visitarmi, il discorso cadde sull’argomento, ed egli ebbe la gentilezza di introdurmi in questi misteri da poco rivelati, fornendomi una concisa esposizione e mostrandomi alcuni sommari disegni. Non trascurai di analizzare più attentamente anche i risultati comunicati nelle annate di «Iris» del 1828 e 1829 ma, poiché mi mancavano pur sempre delle cognizioni più precise, dovetti pregarlo urgentemente di fornirmi una riproduzione di quel modello. Il generoso amico me ne fece dono per il mio compleanno [nel 1829], e lo trovai molto utile per un’illustrazione concreta del modo in cui sorgono il calice, la corolla e gli organi di riproduzione. In tal modo l’argomento era stato seguito in certo senso esaustivamente, e per procedere oltre a mio modo mi vidi costretto a risalire indietro ai suoi primi inizi; intento in tale occupazione, scoprii casualmente che un inglese e un francese456 si erano dal canto loro accostati con attenzione a queste considerazioni. Mi misi dunque a svolgere il concetto

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dal particolare al generale, feci attenzione agli esempi che mi rafforzavano nelle mie idee e che dovevano costituire, con la loro quantità e congruenza, il fondamento per le deduzioni che ne traevo, e ora mi accingo ad esporle nel presente saggio. Generale tendenza a spirale della vegetazione, in virtù della quale, insieme all’impulso verticale, giungono a compimento la struttura e la formazione delle piante, in base alla legge della metamorfosi Quando nell’osservazione della natura si presenta un caso che ci sorprende, in cui troviamo che i nostri consueti modi di pensare e rappresentare si rivelano inadeguati a comprenderlo, allora è bene indagare se nella storia del pensiero e della conoscenza non sia stato già affrontato qualcosa di simile. In questo caso potremmo richiamare alla memoria le omeomerie di Anassagora, sebbene ai suoi tempi anche un uomo come lui fosse costretto ad accontentarsi di spiegare il simile con il simile. Noi invece, supportati dall’esperienza, possiamo già azzardarci a riflettere su qualcosa di analogo. Tralasciamo il fatto che proprio tali omeomerie si possono impiegare di preferenza in relazione a fenomeni semplici, originari ed elementari; nel nostro caso abbiamo realmente scoperto che, ad uno stadio superiore, gli organi a spirale attraversano interamente la pianta in modo capillare, e siamo certi che esista al contempo una tendenza a spirale in virtù della quale la pianta completa il suo ciclo vitale e infine giunge a compimento e perfezione. Non dobbiamo dunque rifiutare del tutto quell’idea ritenendola inadeguata, ma teniamo conto piuttosto del fatto che ciò che un uomo eccellente ha potuto pensare una volta ha sempre qualcosa dietro di sé, anche se non sappiamo appropriarci completamente delle sue formulazioni, e non siamo in grado di applicarle. In base a tale concezione, di recente acquisizione, osiamo allora pronunciarci nel modo seguente: una volta compreso pienamente il concetto di metamorfosi, si dovrà porre l’attenzione in primo luogo sulla tendenza verticale, se si vuole conoscere più da vicino la formazione delle piante. Tale tendenza

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deve essere considerata come un sostegno mentale, a fondamento dell’esistenza della pianta, e in grado di mantenerla a lungo. Questo principio vitale si manifesta nelle fibre longitudinali che impieghiamo come filamenti elastici nei modi più vari; è inoltre ciò che rende possibile la produzione del legno negli alberi, mantiene erette le piante annuali e biennali e causa l’estensione di nodo in nodo perfino nelle piante rampicanti e striscianti. Ma dobbiamo ora osservare la direzione a spirale che si avvolge attorno a quella verticale. Nella formazione vegetale, il sistema che sale verticalmente è causa della sussistenza della pianta, della sua solidificazione progressiva e della sua durata. Produce i filamenti nelle piante di breve durata, mentre in quelle più longeve contribuisce in massima parte alla formazione del legno. Il sistema a spirale è invece ciò che causa la crescita e la proliferazione, è in quanto tale transitorio e tende in certo modo a isolarsi dal precedente. Se continua in eccesso la sua azione, decade rapidamente, ed è abbandonato alla rovina, mentre se è unito al primo, entrambi i sistemi concrescono in una durevole unità, sia essa il legno o un altro elemento solido. Nessuno dei due sistemi può essere pensato indipendentemente dall’altro, ma entrambi sono costantemente ed eternamente compresenti, anche se, nel perfetto equilibrio, producono il grado più perfetto e compiuto della vegetazione. Poiché il sistema a spirale è propriamente preposto alla nutrizione, e in esso si sviluppa la successione di gemma in gemma, se ne deduce che, se vi affluisce un eccesso di nutrimento, esso assume il sopravvento sul sistema verticale, di modo che la pianta nel suo complesso, privata del suo sostegno come della sua ossatura, si precipita a produrre gemme in eccesso e si perde. Così, ad esempio, non ho mai trovato rami appiattiti e ricurvi, che si possono chiamare ‘pastorali’ per la loro estrema anomalia, in alberi di frassino alti e antichi; ne ho scorti invece in frassini cimati, in cui un eccesso di nutrimento affluisce ai nuovi rami dal vecchio fusto. Anche altre mostruosità, che esporremo ora più dettagliatamente, hanno avuto origine dal fatto che quell’impulso vitale

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che tende verso l’alto rompe l’equilibrio con quello a spirale, ne è sopravanzato, e la costituzione verticale ne risulta indebolita, contratta sul corpo della pianta, si tratti di un sistema filamentoso o di uno che produce legno, e finisce per andare quasi distrutta. Invece il sistema a spirale, da cui dipendono gemme e nodi, risulta accelerato, il ramo appiattito in mancanza di legno, lo stelo gonfiato e distrutto al suo interno: in simili casi si manifesta sempre la tendenza a spirale, con incurvature, intrecci e riccioli. Se si osservano degli esempi, si avrà davanti agli occhi un testo fondamentale da interpretare. I vasi a spirale457, noti da tempo e la cui esistenza è stata pienamente riconosciuta, devono dunque essere considerati propriamente solo come singoli organi subordinati all’intera tendenza a spirale; sono stati cercati ovunque, e trovati quasi sempre, in particolare nell’alburno458, in cui addirittura danno un certo segno della loro presenza; nulla è più conforme alla natura che rendere efficace grazie al singolo ciò che è predisposto per l’insieme. Tale tendenza a spirale, in quanto legge fondamentale della vita, deve dunque segnalarsi in primo luogo nello sviluppo a partire dal seme. Intendiamo osservare dapprima il modo in cui si manifesta nei dicotiledoni, in cui le prime foglie seminali appaiono decisamente accoppiate. Benché in tali piante, dopo la coppia dei dicotiledoni, si produca di nuovo un’altra piccola coppia di foglie già più sviluppate, disposta a croce sulla precedente, e un simile ordine prosegua per un certo periodo, è tuttavia evidente che in molti casi la fogliolina picciolata successiva e la gemma che risiede dietro di essa, in potenza o in atto, non vanno molto d’accordo in una simile convivenza; l’una cerca sempre di incalzare l’altra, e ne scaturiscono le disposizioni più strane, finché da ultimo, per un affrettato avvicinamento di tutte le componenti di tale sequenza, risulta un riavvicinamento per la fruttificazione nel fiore e infine lo sviluppo del frutto. Nella calla459 si sviluppano molto presto le coste delle foglie, che diventano piccioli, arrotondandosi progressivamente finché infine non si mostrano, completamente rotonde, in forma di gambo. Il fiore è evidentemente l’estremità di una foglia che ha perduto il colore verde, e i suoi vasi corrono dalla base

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alla periferia senza ramificarsi, si intrecciano dall’esterno verso l’interno attorno alla pannocchia, che ora assume la posizione verticale come infiorescenza e infruttescenza. La tendenza verticale si manifesta fin dai primi inizi della germinazione, ed è ciò che permette alla pianta di mettere radici nel terreno, e al contempo di innalzarsi verso l’alto. Occorrerà esaminare in che misura essa affermi i suoi diritti nel corso della crescita, mentre le attribuiremo senz’altro la disposizione alternata e ad angolo retto delle coppie di foglie dicotiledoni, che tuttavia potrebbe apparire problematica, in quanto non si potrà negare una certa azione della tendenza a spirale nelle fasi successive della crescita. In tutti i casi, per quanto possa ritrarsi, tale tendenza si manifesta nell’infiorescenza, andando a costituire l’asse di ogni formazione floreale, come si vede nei casi più evidenti della pannocchia e della spata. I vasi a spirale che percorrono in generale l’organismo vegetale sono stati spiegati progressivamente grazie alla ricerca anatomica, al pari delle deviazioni assunte dalla loro forma. Al momento non li prenderemo in considerazione in quanto tali, poiché anche chi abbia appena iniziato a interessarsi di botanica può trovare informazioni al riguardo nei compendi, mentre gli specialisti più esperti possono trarre insegnamento dagli studi fondamentali così come dalla stessa osservazione della natura. Da tempo si ipotizzava che simili vasi vivificassero l’organismo vegetale, sebbene non si fosse in grado di spiegare a sufficienza la loro azione vera e propria. In tempi recenti, poi, si è insistito seriamente perché fossero riconosciuti e presentati come organi autonomi, e al riguardo il saggio seguente fornirà una testimonianza. Edinbourgh new philosophical Journal October-December 1828. (pag. 21.) Sulla presenza generale dei vasi a spirale nella struttura delle piante di David Don460. Si è universalmente ritenuto che i vasi a spirale si trovassero solo di rado, nelle parti relative alla fruttificazione, ma osservazioni ripetute mi hanno convinto che se ne incontrano quasi in ogni parte

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della struttura vegetale. Li ho trovati nel calice, nella corolla, nei filamenti, nello stilo della Scabiosa atro-purpurea e della Phlox, nel calice e nei petali del Geranium sanguineum, nel perianzio del Sisyrinchium striatum, nelle capsule e nello stelo della Nigella hispanica, e sono presenti anche nel pericarpium delle onagracee, delle composite e delle malvacee. Sono stato condotto a queste osservazioni dalla lettura delle considerazioni che il signor Lindley comunica nell’ultimo numero del Botanical Register: «sulla struttura dei semi della Collomia», che egli ci rappresenta come avvolta da un intreccio di vasi a spirale. Tali vasi, nelle polemoniacee, sembrano analoghi ai peli o al pappus di cui sono provvisti i semi di certe bignoniacee, apocinacee e malvacee. Ma sarebbero necessarie ulteriori osservazioni prima di concludere che si tratta di autentici vasi a spirale. Questi ultimi sono molto frequenti nei gambi della Urtica nivea, della Centaurea atro-purpurea, della Heliopsis laevis, dell’Helianthus altissimus, dell’Aster Novi Belgii e salicifolius: in tutte sono visibili a occhio nudo, e dunque tali piante sarebbero da raccomandare agli appassionati di botanica come esempi perspicui della presenza di vasi a spirale. I gambi, divisi delicatamente nel senso della lunghezza, e tenuti separati all’estremità superiore da un piccolo cuneo, mostrano tali vasi in modo molto più chiaro rispetto a una sezione. Talvolta essi si trovano inseriti nell’incavo (pith) sia nella Malope trifida che nella Heliopsis laevis, ma è certo possibile seguire la loro origine tra i filamenti del legno. Nella corteccia esterna non se ne rinviene alcuna traccia, ma se ne trovano nell’alburno della corteccia interna del pino, così come nell’albume. Tuttavia, non sono ancora mai riuscito a scorgerli nelle foglie di questa specie, né in quelle del Podocarpus, e sembra siano comunque più rari nelle foglie degli alberi sempreverdi. I gambi e le foglie delle polemoniacee, delle iridee e delle malvacee sono anch’essi provvisti di molti vasi a spirale, anche se questi ultimi non si presentano in nessuna specie così frequenti come nelle compositae. Sono invece rari nelle cruciferae, nelle leguminosae e nelle gentianae. Ho spesso notato che, quando separavo i vasi a spirale dai giovani e vigorosi germogli delle piante erbacee, essi si muovevano molto animatamente. Tale movimento durava alcuni secondi, e mi appariva come un’azione del principio vitale, simile a quella che ha luogo anche nella sfera animale, non puramente meccanica. Tenendo tra le dita un pezzo di corteccia di Urtica nivea, appena staccato dal tronco vivo, la mia attenzione fu attratta all’istante da un particolare movimento a spirale. Ho ripetuto spesso il tentativo con altre parti della corteccia, e il movimento si rivelava in ogni caso identico al primo. Si trattava evidentemente dell’azione di una forza di contrazione delle fibre vive, poiché cessava dopo che avevo tenuto

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il pezzo di corteccia in mano per alcuni minuti. Possa questa breve notizia guidare l’attenzione dei naturalisti su questo singolare fenomeno.

Bulletin des sciences naturelles Nr. 2. Février 1829, p. 242. Lupinus polyphyllus. Una nuova specie, che il signor Douglas461 ha scoperto nell’America nord-occidentale. È erbacea, potentemente vitale, e somiglia al Lupinus perennis et Nootkatensis, anche se è di dimensioni maggiori e le sue foglie, in numero da undici a quindici, sono lanceolate; alcune altre differenze tra le due si mostrano nella formazione del calice e della corolla. Osservando questa pianta, il signor Lindley462 richiama l’attenzione sul fatto che la sua infiorescenza costituisce un esempio significativo in favore della seguente teoria: tutti gli organi di una pianta sono realmente disposti in alternanza, e in particolare secondo una direzione a spirale attorno allo stelo, che forma l’asse comune; ciò vale anche nei casi in cui non vi sia ovunque una coincidenza esatta. Weimar, 14 gennaio 1831.

Recherches anatomiques et physiologiques sur la structure intime des animaux et des végétaux, et sur leur motilité: par M. H. Dutrochet 1824. L’autore ha condotto i suoi esperimenti in modo particolare sulla sensitiva463, che rappresenta in sommo grado i fenomeni dell’eccitabilità e della mobilità delle piante. L’autentico principio del movimento di questa pianta risiede nel rigonfiamento che si trova alla base del picciòlo e nel punto in cui le foglie vi si inseriscono tramite le pinnules. Tale piccolo rigonfiamento è formato dallo sviluppo del parenchima della corteccia e contiene una grande quantità di cellule sferiche, le cui pareti sono ricoperte da corpuscoli nervosi; simili corpuscoli sono molto numerosi anche nelle foglie caulinarie, e si trovano spesso ancora nel succo che fuoriesce quando si taglia un giovane ramo della sensitiva. Ma lo sviluppo del parenchima della corteccia, che svolge il ruolo principale nel rigonfiamento della sensitiva, avviene attorno ad un centro formato da un fascio di canali. È stato importante apprendere quale delle due parti fosse il vero e proprio organo del movimento: tolto il parenchima, la foglia continuò a vivere, ma aveva perso la capacità di muoversi. Tale esperimento mostra dunque che nella parte

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corticale rigonfia vi è una mobilità che si può paragonare al sistema muscolare degli animali, almeno in ragione delle sue funzioni. Il signor Dutrochet ha riconosciuto, al riguardo, che delle piccole parti di parenchima, recise e immerse in acqua, si muovono in questo modo, descrivendo una linea curva il cui lato inferiore si dirige ogni volta verso il punto centrale del piccolo rigonfiamento. Egli definisce tale movimento con il nome generale di incurvazione, e lo considera come elemento di base di tutti i movimenti che hanno luogo negli organismi vegetali e anche in quelli animali. Questa incurvazione si mostra, del resto, in due diversi modi: l’autore chiama il primo incurvazione oscillante, poiché vi si nota un’alternanza di flessione e attrazione, mentre il secondo modo è detto incurvazione fissa, che non mostra alcuna alternanza del genere. Il primo è quello che si osserva nella sensitiva, il secondo nei viticci e nei gambi serpentini dei convolvoli, delle clematidi, dei fagioli, e così via. Da tali osservazioni il signor Dutrochet deduce che l’eccitabilità della sensitiva trae origine da un’incurvazione vitale. Weimar, 14 gennaio 1831.

Delle osservazioni precedenti, che chiariscono sempre più questo argomento, sono venuto a conoscenza piuttosto tardi, solo dopo essermi interessato attivamente delle concezioni, molto più lungimiranti, del nostro caro cavaliere von Martius. In due conferenze, succedutesi a distanza di un anno, a Monaco e a Berlino, egli ha fornito delle spiegazioni chiare e dettagliate al riguardo. In una sua cortese visita, durante il suo viaggio di ritorno da Berlino, egli si offrì di fornirmi una dimostrazione orale, illustrata ancor più chiaramente da alcuni disegni caratteristici, anche se solo sommari. I saggi stampati nelle annate del 1828 e 1829 di «Isis» mi divennero in tal modo più accessibili, e la riproduzione di un modello presentato in quella sede si rivelò estremamente utile grazie alla benevolenza di quel ricercatore, giacché mostrava sensibilmente il modo in cui hanno origine il calice, la corolla e gli organi della riproduzione. Così questo importante argomento era condotto sulla via di un’elaborazione e di un’applicazione pratica e didattica, e se questo autore che progredisce costantemente si è volto a indagare gli inizi di una simile tendenza generale, come egli stesso ha voluto confidarmi, risalendo fino ai primi elementi della scienza, gli acotiledoni464, allora dovremo aspettarci gra-

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dualmente da lui un’elaborazione dell’intera estensione della teoria. Nel frattempo mi sono permesso di indugiare e saggiare a mio modo una regione intermedia, cercando di collegare, tramite considerazioni generali, l’inizio e la fine, il primo elemento e l’ultimo, ciò che è già noto da tempo e ciò che è nuovo, le nozioni stabilite e quelle incerte. Per un simile tentativo, che non ha intenzione di giungere a delle conclusioni, ma unicamente di fungere da incentivo alla ricerca, dovrò chiedere la partecipazione dei naturalisti illustri. Siamo stati indotti ad ammettere che nella vegetazione domina una tendenza generale a spirale, grazie alla quale, in connessione con l’impulso verticale, giunge a compimento ogni struttura e formazione delle piante, in base alla legge della metamorfosi. Le due tendenze principali o, se si vuole, i due sistemi viventi in virtù dei quali la vita della pianta cresce e si perfeziona, sono dunque il sistema verticale e quello a spirale; nessuno dei due può essere pensato indipendentemente dall’altro, poiché l’uno agisce in modo vitale solo mediante l’altro. Tuttavia è necessario, per una comprensione più precisa, e in particolare ai fini di una più chiara esposizione, osservarli ed esaminarli separatamente, notando in quali casi domini l’uno o l’altro, e dove uno degli opposti, senza prendere il sopravvento sull’altro, ne risulti sopraffatto, oppure sia in grado di giungere a un equilibrio. In tal modo potranno risultare più evidenti le proprietà di questa coppia inseparabile. Il sistema verticale, potente anche se semplice, è quello grazie al quale la pianta, spuntata in superficie, si distanzia dalla radice innalzandosi in linea retta verso il cielo; è il sistema prevalente nei monocotiledoni, le cui foglie si formano già da fibre diritte, che a certe condizioni possono facilmente separarsi e conservarsi come fibre robuste per svariati usi. Sarà sufficiente pensare anche soltanto al Phormium tenax465; allo stesso modo, le foglie della palma sono costituite generalmente da fibre diritte, unite solo nella prima giovinezza della pianta, mentre in seguito, in conformità alle leggi della metamorfosi, appaiono suddivise e moltiplicate con il procedere della crescita.

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Dalle foglie dei monocotiledoni si sviluppano spesso direttamente i gambi, con il gonfiarsi della foglia, che diventa un tubo cavo; in seguito, al suo apice si presenta la posizione in asse di tre punte fogliari, vale a dire la tendenza a spirale, da cui poi si innalza l’infiorescenza e l’infruttescenza, come nel caso delle liliacee. Tuttavia, la tendenza verticale si nota anche oltre il fiore, e si impadronisce dell’infiorescenza e dell’infruttescenza. Lo stelo diritto della Calla aethiopica mostra in alto la sua natura fogliare insieme alla tendenza a spirale: il fiore si avvolge, con un solo petalo, attorno al suo apice, mediante il quale però la colonna portatrice del fiore e del frutto continua a crescere verticalmente. Ora, se attorno a tale colonna, non meno che attorno a quella dell’arum, del mais e di altre piante, i frutti si accostino gli uni agli altri in un movimento a spirale, come è probabile, dovrà essere verificato da ulteriori ricerche. In ogni caso tale tendenza a colonna deve senz’altro essere considerata come la conclusione della crescita. Infatti, esaminando i dicotiledoni, riscontriamo che tale tendenza verticale, che favorisce il successivo sviluppo in sequenza delle foglie caulinarie e delle gemme, confligge con il sistema a spirale, preposto alla conclusione della fruttificazione; la rosa prolifera ne fornisce la testimonianza più bella. Per contro, proprio in questa classe troviamo gli esempi più marcati della prevalenza della tendenza verticale, che giunge quasi a eliminare l’azione opposta. Intendiamo qui citare solo il comunissimo lino, che dimostra la sua utilità generale grazie ad una formazione verticale molto definita: l’involucro esterno e il filamento interno si innalzano dritti e intimamente uniti; si pensi quanta fatica costa separare la pula dal filamento, e quanto quest’ultimo giunga difficilmente a deperire e lacerarsi, quando l’involucro esterno deve abbandonare, pur con grandissima resistenza, il legame determinato dalla natura. Casualmente la macerazione di una di queste piante è proseguita per un intero inverno sotto la neve, ma il filamento è divenuto in tal modo solo più bello e solido. Ma certamente non c’è bisogno di ulteriori testimonianze, poiché durante tutta la nostra vita siamo circondati da una tela di lino che, tramite ripetuti lavaggi e candeggi non fa che acquistare infine sempre l’aspetto elementare di una pura materia terrena, di un bianco abbagliante466.

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Ora, giunto al punto in cui mi accingo a lasciare le considerazioni sulla tendenza verticale per volgermi a quella a spirale, mi sorge una domanda: a quale dei due sistemi appartiene la disposizione alternata delle foglie che osserviamo sullo stelo dei dicotiledoni, che cresce verso l’alto? Confesso che a me pare sia da ascrivere al sistema verticale, e che proprio un tale modo di crescere causi l’impulso verso l’alto in direzione verticale. Ora, tale disposizione può essere assunta dalla tendenza a spirale, in una certa sequenza, in determinate condizioni e sotto certe influenze, ma in questo modo appare instabile, finché infine non diventa del tutto impercettibile e finisce addirittura per scomparire. Ma giungiamo ora al punto in cui possiamo scorgere in modo ben chiaro la tendenza a spirale. Dato che la tendenza verticale della pianta, che la spinge a crescere verso il cielo, è universalmente riconosciuta, non abbiamo bisogno di ulteriori argomentazioni al riguardo. Dovremo invece dedicarci con maggiore attenzione al sistema a spirale, in quanto costituisce una teoria aggiunta di recente. Anche se in precedenza abbiamo rinunciato a prendere in esame i vasi a spirale, così spesso osservati, e anche se siamo stati in grado di considerarli come omeomerie, o parti che costituiscono e prefigurano l’insieme, non intendiamo tuttavia tralasciare di menzionare le piante elementari e microscopiche note come oscillatorie467, che ci si presentano, grazie ad un forte ingrandimento, di forma senz’altro elicoidale: la loro esistenza e crescita rivelano un movimento talmente singolare che si è in dubbio se non debbano essere piuttosto annoverate tra gli animali. E poiché, del resto, con l’ampliamento della conoscenza e l’approfondimento dell’indagine della natura, saremo finalmente in grado di giungere ad una visione pienamente definita della vita sterminata e indistruttibile concessa a tutti gli esseri, siamo molto propensi a credere all’osservatore che abbiamo citato in precedenza, che sosteneva che la corteccia fresca di un’ortica gli aveva mostrato un particolare movimento a spirale. Ma volgendoci ora alla tendenza a spirale vera e propria, rimandiamo a quanto detto sopra, e all’esposizione del nostro amico von Martius, che presenta la tendenza a spirale in tutta la sua pienezza e potenza, come conclusione dell’infiorescen-

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za. Noi ci limiteremo ad aggiungere solo qualche osservazione al riguardo, riferita in parte all’aspetto generale, in parte a quello intermedio, la cui trattazione metodica sarà rimessa all’attività dei futuri ricercatori e studiosi. La prevalenza della tendenza a spirale è particolarmente vistosa nei convolvoli che, a partire dalla loro prima origine, non sono in grado di proseguire la loro crescita né in altezza né strisciando, ma si trovano costretti a cercare un qualche sostegno che consenta loro di salire verso l’alto, arrampicandosi in continui avvolgimenti. È precisamente questa proprietà che offre un aiuto alle nostre osservazioni, mostrando un esempio sensibile e simbolico. Si esamini, in estate, un bastone interrato in un giardino, a cui un convolvolo si appoggia avvolgendosi a partire dalla sua base, per poi salire verso l’alto e, saldamente attaccato ad esso, segue il corso della sua crescita. Si immaginino ora il convolvolo e il bastone, entrambi viventi, che sorgono da un’unica radice, e continuano alternativamente a prodursi, procedendo così ininterrottamente. Chi sia in grado di trasformare questa scena in un’intima contemplazione, potrà facilitarsi molto la comprensione del concetto. La pianta rampicante cerca fuori di sé ciò che dovrebbe dare a se stessa ma non è in grado di farlo. Il sistema a spirale, a prima vista, è più evidente nei dicotiledoni, anche se non è da escludere la sua presenza anche nei monocotiledoni e in altri organismi più semplici. Abbiamo scelto di esaminare i convolvoli rampicanti, ma si troveranno senz’altro diverse piante analoghe. Osserviamo ora la tendenza a spirale nei cirri e nei viticci468. Questi ultimi appaiono anche alle estremità delle foglie composte, dove manifestano chiaramente la loro tendenza ad arricciarsi. I viticci veri e propri, completamente privi di foglie, sono da ritenere dei rami a cui manchi la solidificazione e che, ricchi di succhi e flessibili, mostrano una particolare irritabilità. Il viticcio della passiflora si arriccia avvolgendosi su se ­stesso. Altri devono essere stimolati e spinti da un impulso esterno. Per me l’esempio più paradigmatico è quello della vite469. Si osservi il modo in cui i cirri si distendono cercando un

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contatto qualunque e, una volta appoggiati in qualche punto, si aggrappano e si fissano ad esso. Si tratta degli stessi rami che portano i grappoli. Singoli acini si trovano anche sui cirri. È singolare che il terzo nodo del tralcio non produca viticci; non ci è ancora chiaro a cosa sia dovuto. Consideriamo i vasi a spirale come le parti più piccole e completamente identiche all’insieme cui appartengono, e al quale, in quanto omeomerie, comunicano le loro caratteristiche, ricevendone a loro volta proprietà e finalità. È loro assegnata una vita autonoma, la forza di muoversi singolarmente da sé e di assumere una certa direzione. L’ottimo Dutrochet la definisce incurvazione vitale. Non ci sentiamo però spinti, in questa sede, ad indagare ancora oltre tali misteri. Torniamo alle considerazioni generali: il sistema a spirale è un fenomeno conclusivo, che favorisce la conclusione della crescita; in particolare, ciò avviene in un modo regolare, come tendenza ad un compimento. Tuttavia si può verificare anche in modo irregolare, precipitoso e distruttivo. Il nostro elogiatissimo von Martius ha esposto in maniera circostanziata il modo in cui il sistema regolare agisce nella formazione dei fiori, dei boccioli e dei germogli. Tale legge si sviluppa direttamente dalla metamorfosi, anche se è stato necessario l’acume di un ottimo osservatore per provarlo. Infatti, se pensiamo al fiore come a un ramo contratto, che si avvolge attorno a un asse, e le cui gemme sono portate ad unità in uno spazio ristretto, ne consegue che tali gemme si presentano in un cerchio, l’una dietro l’altra e adiacenti, e giungono dunque necessariamente a disporsi l’una intorno all’altra, in modo semplice o molteplice. L’azione irregolare a spirale deve essere pensata come una conclusione affrettata e infeconda: un gambo o un ramo è posto nella condizione per cui l’alburno, in cui propriamente agisce la tendenza viva a spirale, aumenta fino a diventare dominante, tanto da impedire la formazione del legno e delle parti più durevoli. Prendiamo un ramo di frassino che si trovi in tale condizio-

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ne: l’alburno, che non è tenuto separato dal legno, si rapprende e produce una forma vegetale piatta. Allo stesso tempo, l’intera crescita si contrae e le gemme, che dovrebbero svilupparsi in sequenza, appaiono ora addensate e finiscono per formare addirittura una serie ininterrotta. Nel frattempo l’intera pianta si piega, la parte lignea rimasta si ingobbisce e la struttura rivolta verso l’interno e simile a un pastorale presenta un’abnorme e singolarissima mostruosità. Ma allo stesso modo in cui questa tendenza a spirale si impadronisce delle parti vegetative, così non manca di manifestarsi in quelle più durevoli. Da quanto si è detto finora, dunque, possiamo convincerci che la tendenza a spirale favorisce in modo particolare la vita vegetale, e al contempo è possibile dimostrare che una traccia di tale tendenza resta anche nelle parti compiute e durevoli. I rami filiformi e freschi del Lycium europaeum470, che pendono in piena libertà, mostrano una crescita filiforme e diritta. Quando la pianta invecchia e diventa più secca, si nota chiaramente che tende ad assumere una marcata sinuosità, di nodo in nodo. In vecchiaia, perfino gli alberi più robusti prendono tale direzione; lungo la strada del Belvedere si incontrano dei castagni secolari fortemente incurvati, in cui la rigidità della tendenza ad ergersi verso l’alto si mostra sconfitta, nel modo più singolare. Nel parco dietro al Belvedere si trovano tre sottili e alti fusti di Crataegus torminalis471, sorbi così evidentemente incurvati a spirale dal basso verso l’alto da mostrare incontrovertibilmente tale tendenza. Li raccomandiamo specialmente all’osservatore. I baccelli secchi del Lathyrus furens472, dopo la completa maturazione del frutto, si schiudono e si arrotolano ciascuno verso l’esterno. Analogamente, se si apre un baccello non completamente maturo, si trova tale direzione a spirale, anche se non altrettanto marcata e completa. La direzione diritta assunta da parti vegetali simili è, analogamente, deviata in vari modi. I baccelli delle fave francesi, che crescono nell’estate umida, iniziano a contorcersi, alcuni a chiocciola, altri come una perfetta spirale. Le foglie dei pioppi italiani possiedono dei piccioli molto

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delicati e rigidi che, punti dagli insetti, perdono la loro direzione diritta assumendo immediatamente la curvatura a spirale, avvolgendosi in due o più torsioni. Se poi, in conseguenza di ciò, il guscio dell’insetto rinchiuso si gonfia, i lati del picciòlo dilatato si comprimono al punto da giungere ad una sorta di unificazione. Tuttavia, in questi punti è possibile rompere facilmente l’involucro, e osservare molto chiaramente la forma precedente del picciòlo attorcigliato. Il Pappus del seme dell’Erodium gruinum473, fino al momento della piena maturazione ed essiccazione, si tiene diritto, appoggiato verticalmente al sostegno attorno al quale si raccolgono i semi, dopodiché si attorciglia rapidamente in modo elastico e in tal modo si cosparge da sé. Anche se abbiamo rinunciato a trattare specificamente dei vasi a spirale in quanto tali, ci troviamo tuttavia costretti a tornare alla botanica elementare e microscopica, richiamando alla memoria le piante oscillarie, la cui intera esistenza si svolge a spirale. Forse ancora più singolari sono le piante presentate sotto il nome di Salmacis474, in cui la spirale consiste soltanto di piccole sfere tra loro adiacenti. Si tratta di leggerissimi accenni, che ci ricordano l’eterna congruenza di questo fenomeno. Se si tagliano a una estremità i gambi del dente di leone, e si separano delicatamente i due lati del tubo cavo, ciascuno di essi si arrotolerà verso l’esterno e, in conseguenza di ciò, penderà in forma di spirale come un ricciolo ritorto terminando a punta, per cui i bambini ne trarranno grande diletto e noi ci addentreremo ancor più nello studio del più profondo mistero della natura. Poiché questi gambi sono cavi e succosi, possono essere considerati come interamente costituiti di alburno, e la tendenza a spirale appartiene all’alburno come all’elemento vitale che progredisce nella crescita: in questo caso, dunque, ci si presenta davanti agli occhi, insieme alla più precisa direzione verticale, anche la più nascosta tendenza a spirale. Probabilmente, con uno studio più accurato e anche microscopico, si potrebbe giungere a conoscere più nel dettaglio l’intreccio tra la struttura verticale e quella a spirale.

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Un esempio particolarmente felice del modo in cui i due sistemi di cui ci stiamo occupando si sviluppano uno accanto all’altro in modo tanto significativo ce lo offre la Vallisneria475, che conosciamo grazie alle più recenti ricerche del custode dell’Orto Botanico Reale di Mantova, Paolo Barbieri476. Citiamo qui in traduzione alcuni estratti del suo saggio, inserendo le nostre annotazioni e aggiunte, sperando così di approssimarci allo scopo che ci siamo proposti. La Vallisneria getta radici sul fondo di specchi d’acqua non particolarmente profondi, fiorisce nei mesi di giugno, luglio e agosto, e i due sessi sono separati. L’elemento maschile si mostra su un gambo che si erge diritto e che, non appena raggiunge la superficie dell’acqua, forma ad una estremità una guaina dotata di quattro foglie (o forse tre), in cui gli organi della fecondazione si trovano fissati a una pannocchia conica. Se gli stami non sono ancora sufficientemente sviluppati, una metà della guaina si mostra ancora vuota: osservandola al microscopio, si nota il ridestarsi di un’umidità interna, che favorisce la crescita della guaina, e al contempo tende verso l’alto, muovendosi nello stelo con moto circolare, verso la pannocchia che porta gli stami; in tal modo si raggiunge contemporaneamente la crescita e la dilatazione della pannocchia e insieme la crescita degli organi di fecondazione. A causa di questo accrescimento della pannocchia, tuttavia, la guaina finisce per rivelarsi insufficiente ad avvolgere gli stami, e si divide perciò in quattro parti, mentre gli organi di fecondazione, staccandosi a migliaia dalla pannocchia, si diffondono nuotando nell’acqua, con l’aspetto di fiocchi bianco-argentati che si sforzano e cercano di raggiungere l’individuo femminile. Quest’ultimo però si innalza dal fondo dell’acqua, abbandonando l’elasticità del suo gambo a spirale, per schiudersi poi in superficie in una corolla tripartita in cui si notano tre stigmi. I fiocchi che galleggiano nell’acqua spargono il loro polline verso gli stigmi e li fecondano; una volta che ciò sia avvenuto, il gambo a spirale del fiore femminile si ritrae sott’acqua, dove i semi, contenuti in una capsula cilindrica, giungono infine a maturazione. Tutti gli autori che hanno parlato della Vallisneria hanno descritto in modi diversi il modo in cui avviene la fecondazione. È stato detto che l’intero complesso del fiore maschile si stacca dal breve gambo che resta nell’acqua, separandosi e liberandosi con movimenti bruschi. Il nostro osservatore ha

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tentato di staccare dal loro gambo dei boccioli di fiori maschili, e ha notato che nessuno di loro riusciva a galleggiare a pelo d’acqua, ma tutti sprofondavano. Tuttavia, ancora più importante è la struttura che collega il gambo al fiore: non vi si nota alcuna articolazione, presente invece in tutti gli organi vegetali che possono essere separati. Il medesimo osservatore ha studiato i fiocchi bianco-argentati, e li ha identificati con vere e proprie antere; notando che la pannocchia era vuota e priva di simili vasi, ha riscontrato sulla pannocchia stessa dei delicati filamenti, a cui erano ancora fissate delle antere, che poggiavano su un piccolo disco tripartito: si trattava certamente delle corolle tripartite, che racchiudono le antere. Raccomandiamo ora all’osservazione degli studiosi e naturalisti questo singolarissimo fenomeno, che può ripetersi forse nel caso di altre piante, e non possiamo fare a meno di discuterne ancora, anche se dovremo ripetere alcune cose. La tendenza verticale in questo caso è propria dell’elemento maschile: il gambo sale senz’altro verso l’alto e, appena raggiunge la superficie dell’acqua, immediatamente sviluppa dallo stelo stesso la guaina, ad esso ben connessa, che poi avvolge la pannocchia in modo analogo a quanto avviene nella Callia. Possiamo così sfatare la leggenda che sosteneva l’esistenza di un’articolazione applicata in modo del tutto innaturale tra il gambo e il fiore, che avrebbe dovuto rendere possibile a quest’ultimo di separarsi, per andare a cercare avidamente una compagna. Esposto all’aria e alla luce e ai loro influssi si sviluppa anzitutto il bocciolo maschile, ma esso è saldamente connesso al suo stelo; le antere si staccano poi dai loro gambi e si spargono galleggiando allegramente nell’acqua. Nel frattempo, il gambo a spirale del fiore femminile riduce la sua elasticità, il fiore raggiunge la superficie dell’acqua, si schiude e accoglie l’influsso fecondatore. L’importante cambiamento che avviene in tutte le piante dopo la fecondazione, e che indica sempre una forma di solidificazione, opera anche in questo caso. La spirale del gambo è molto tesa, e quest’ultimo si ritrae di nuovo, così come in precedenza si era disteso, per cui il seme giunge infine a maturazione. Se pensiamo al paragone che abbiamo avanzato in precedenza tra bastone e convolvolo, possiamo fare un ulteriore passo avanti e richiamare alla mente l’immagine della vite che si avvolge attorno all’olmo: vediamo così l’elemento femminile

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e quello maschile, l’uno che riceve e l’altro che offre, l’uno accanto all’altro e in direzione verticale e a spirale, offerti dalla natura alla nostra osservazione. Torniamo ora alle considerazioni più generali, e rammentiamo ciò che avevamo enunciato inizialmente: il sistema che tende in direzione verticale e quello che tende a spirale sono intimamente connessi in una pianta vivente; vediamo ora che il primo mostra un carattere decisamente maschile, il secondo decisamente femminile, e possiamo immaginare l’intera vegetazione, a partire dalla radice, segretamente connessa androginicamente. Nel susseguirsi delle trasformazioni che avvengono durante la crescita, poi, i due sistemi si separano, in palese contrasto tra loro, contrapponendosi decisamente l’uno all’altro, per poi riunirsi di nuovo in un senso più elevato. Weimar, 4 febbraio 1831. Alcuni fiori, prima di sbocciare, si presentano piegati e si sviluppano a spirale; altri mostrano una torsione nel momento in cui appassiscono. Il Pandanus odoratissimus477 si torce a spirale a partire dalla radice. L’Orphys spiralis478 si torce in modo tale che tutti i boccioli spuntano su un unico lato. La Flora subterranea479 ci offre l’occasione di osservare le sue gemme allineate en échiquier, come scaturite da una tendenza a spirale molto regolare. In una patata cresciuta fino alla lunghezza di un piede, che a stento si poteva circondare con la mano nella sua parte più spessa, si notava nel modo più evidente, a partire dal punto di germinazione, una successione di gemme disposte a spirale, che procedevano verso l’alto da sinistra a destra, fino alla cima. Nelle felci480, fino all’ultimo stadio della loro crescita, tutto il processo che dà luogo ai germogli a partire dal fusto orizzontale è orientato lateralmente e verso l’alto, foglia e ramo insieme, e per questo porta anche le parti fruttifere sviluppandole

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da sé. Tutte le piante che definiamo felci presentano un proprio sviluppo peculiare a spirale. II rami di quel fusto orizzontale appaiono arricciati in cerchi sempre più piccoli, e si arrotolano secondo due direzioni: dapprima a partire dalla spirale della nervatura, quindi dalle fronde curvate lateralmente della nervatura, portando le coste più piccole verso l’esterno. Si veda Reichenbach481, Botanica per signore, p. 288. La betulla cresce, fin dalla base del fusto, in forma di spirale verso l’alto, senza eccezioni; aprendo il suo tronco lungo la direzione della sua crescita naturale, si mostra il movimento da sinistra verso destra fino alla cima, e una betulla alta dai 60 agli 80 piedi si avvolge su se stessa in senso longitudinale una o anche due volte. La curvatura più o meno accentuata della spirale, sostiene il bottaio, risulterebbe dunque dalla maggiore o minore esposizione del tronco alle intemperie: un tronco esposto ad esempio oltre i limiti del bosco e orientato in particolare a occidente, manifesterebbe il movimento a spirale in modo molto più evidente e chiaro rispetto ad un altro cresciuto nel folto del bosco. Soprattutto, però, tale movimento a spirale si può percepire nel caso della cosiddetta betulla da cerchio: una giovane betulla destinata a produrre cerchi viene tagliata in due e, se il coltello segue il legno, il cerchio risulterà inutilizzabile, poiché si avvita una o due volte su se stesso, come si è già osservato nel caso di tronchi più vecchi. Per tale ragione il bottaio ha bisogno di strumenti particolari, adatti a separare in modo adeguato e fruibile le parti necessarie, e ciò vale anche per i ceppi di legno più vecchio, impiegato per produrre doghe o altro: per separarli, infatti, è necessario impiegare dei cunei di ferro, che tagliano il legno piuttosto che spaccarlo, poiché in quest’ultimo caso diventerebbe inutilizzabile. Che i fattori atmosferici, il vento, la pioggia e la neve, possano avere grande influenza sullo sviluppo del movimento a spirale emerge dal fatto che proprio queste betulle da cerchio, abbattute nel folto del bosco, sono soggette al movimento a spirale in misura molto minore rispetto a quelle che crescono isolate, non protette da cespugli o da alberi più grandi. Gli appunti qui sopra riportati sono stati annotati a seguito di una comunicazione orale del bottaio Hänsgen di Weimar, con la promessa di mostrare degli esempi di simili torsioni del legno. Weimar, 5 giugno 1831. John.

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Il sovrintendente forestale von Fritsch481, alla fine di agosto, parlando della tendenza a spirale, ha affermato che a Ilmenau si presentavano tra i pini dei casi in cui il tronco assumeva un aspetto tortuoso e attorcigliato, dalla base alla cima; si è creduto che, poiché simili alberi si trovavano ai limiti del bosco, la causa fosse un’azione esterna di violenti temporali. Tuttavia, si sono riscontrati casi simili anche nelle foreste più fitte, e il fenomeno si ripete in una certa proporzione, tanto che si può calcolare che si presenti complessivamente in una percentuale dell’uno o uno e mezzo per cento delle piante. Tronchi simili sono stati analizzati sotto vari profili, visto che la legna di quelle piante non poteva essere tagliata in ceppi, né accatastata, né impiegata come legname da costruzione, poiché la tendenza, sempre persistente, aveva la forza di scardinare un’intera travatura, in virtù di una nascosta torsione. Da quanto precede si chiarisce il fatto che l’incurvatura prosegue anche durante l’essiccazione del legno, e si intensifica ad un grado elevato: riconosceremo infatti negli esempi citati alcuni movimenti a spirale che si originano dapprima durante l’essiccazione, e diventano in seguito più chiaramente visibili. Weimar, 17 settembre 1831. Weimar, 7 ottobre 1831. Il direttore dell’ufficio edile Coudray483 ha suggerito che la pendenza della torre di Gelnhausen può essere spiegata a partire da questa proprietà del legno. In effetti, se assumiamo che la torre sia composta di lunghi tronchi, che presentano un’estremità più robusta alla base e delle punte più sottili verso l’alto, connesse da un’intravatura che le tenga ben salde le une alle altre, si può dedurre che la torsione dei tronchi principali abbia conferito nel complesso alla torre un orientamento a spirale. Sarebbe più ragionevole assumere tale ipotesi piuttosto che credere che un qualche artificio dei carpentieri abbia dato alla torre un orientamento errato fin dall’inizio. Inoltre, il direttore dell’ufficio edile ha osservato che in tutti i manuali si sconsiglia l’impiego di un legno simile, con la massima insistenza.

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A proposito dell’osso intermascellare dell’uomo e degli animali484 Jena, 1786

[Il saggio di Goethe sull’osso intermascellare appare con questo titolo nel 1831 nelle Verhandlungen Leopoldinisch-Carolinischen Akademie der Naturforscher (Nova Acta Leopoldino-Carolinae) in una versione leggermente modificata e per la prima volta corredata di tavole a stampa. Nel presente volume la prima versione si trova alle pp. 11-18, ordinata secondo la successione cronologica dei lavori di Goethe, mentre la sua prima edizione è citata a p. 491. Nella stampa del 1831, al saggio del 1784 furono aggiunti gli estratti riguardanti l’anatomia comparata tratti dai quaderni Sulla morfologia del 1820 (qui alle pp. 493-520).]

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Principes de Philosophie Zoologique485 discutés en mars 1830 au sein de l’Academie Royale des Sciences par Mr. Geof­froy de Saint-Hilaire Paris 1830

[prima sezione] Durante una seduta dell’Accademia francese, tenutasi il 22 febbraio di quest’anno, si è verificato un importante caso, che non può restare senza rilevanti conseguenze. In questo santuario delle scienze, in cui solitamente tutto avviene, nel modo più corretto, al cospetto di un numeroso pubblico, e in cui si incontra sempre la moderazione, anzi l’affettazione propria delle persone ben educate, dove nella divergenza di opinioni si replica solo con misura, e gli argomenti dubbi sono tralasciati piuttosto che confutati, proprio qui accade, a proposito di un tema di interesse scientifico, una disputa che minaccia di diventare personalistica, ma che, se esaminata più da vicino, intende significare molto di più. Si manifesta qui il conflitto ininterrotto tra i due modi di pensare in cui il mondo scientifico già da tempo si divide, e che si è insinuato continuamente anche tra i naturalisti francesi, anche se stavolta scoppia in un modo singolarmente violento. Due uomini eccellenti, il segretario perpetuo dell’Accademia, barone Cuvier, e un suo degno membro, Geof­froy de Saint-Hilaire486, si contrappongono; il primo è noto in tutto il mondo, il secondo è conosciuto per fama dai naturalisti. Colleghi da trent’anni nella stessa istituzione, insegnano storia naturale presso il Jardin des Plantes, ed entrambi si sono occupati con grande impegno di questo ambito sterminato, dapprima lavorando insieme, poi progressivamente separandosi per divergenza di vedute, fino a giungere preferibilmente ad evitarsi.

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Cuvier lavora infaticabilmente come analista che descrive con precisione i dati che gli si presentano, raggiungendo così pieno dominio su un territorio smisurato. Geof­froy de Saint-Hilaire, invece, si impegna silenziosamente a scoprire le analogie tra le creature e le loro misteriose affinità. Il primo muove dal dettaglio per giungere a un tutto che, pur presupposto, è tuttavia considerato inconoscibile; il secondo preserva l’idea del tutto, in senso interno, e vive nella convinzione che il dettaglio possa essere progressivamente sviluppato a partire dall’insieme. È importante però notare che alcune cose che quest’ultimo riesce a provare limpidamente con l’esperienza vengono accolte con riconoscenza da Cuvier; e allo stesso modo Geof­froy de Saint-Hilaire non disdegna affatto singoli elementi decisivi che gli giungono da Cuvier. Così i due studiosi si incontrano su molti punti, senza per questo ammettere un’influenza reciproca. Infatti, colui che analizza e distingue, fondandosi sull’esperienza e prendendo le mosse da essa, non intende certo concedere la validità di un’intuizione preliminare, di un presentimento del singolo elemento nel tutto: egli dichiara con grande nettezza che è segno di arroganza pretendere di riconoscere e di comprendere ciò che non si può vedere con i propri occhi, e non si è in grado di rappresentarsi concretamente487. Saint-Hilaire, invece, attenendosi a determinati princìpi, e rimettendosi ad una guida superiore, non intende considerare valida l’autorità di quel modo di procedere488. A seguito di una simile introduzione, nessuno ormai ci rimprovererà se ripeteremo ciò che abbiamo detto in precedenza: sono qui in gioco due diversi modi di pensare, che nel genere umano si trovano solitamente separati e distribuiti in modo tale che in ogni ambito, dunque anche in quello scientifico, difficilmente si trovano uniti, ed essendo separati, non sono disposti a riunificarsi. Si giunge addirittura al punto che, anche quando una parte può trarre profitto dall’altra, lo accetta tuttavia in certo modo con riluttanza. Avendo davanti agli occhi la storia della scienza, nonché la nostra lunga esperienza, si sarebbe portati a temere che la natura umana non possa mai salvarsi da una simile scissione489. Spiegheremo ora ulteriormente quanto abbiamo detto in precedenza. L’analista impiega una perspicacia non comune, un’attenzione ininterrotta e un’abilità di penetrazione fin nel minimo dettaglio per osservare le deviazioni delle forme, e infine ricor-

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re al dono intellettuale decisivo e necessario a definire queste differenze: certo non si può rimproverargli di esserne orgoglioso, e di voler ritenere un simile modo di procedere come l’unico accurato e corretto. Ora, quando egli nota che la fama che gli veniva per questo attribuita si fonda su quello stesso metodo, non è disposto a dividere i meriti che gli sono stati riconosciuti con un altro che, a quanto a lui pare, ha semplificato il raggiungimento di uno scopo, che dovrebbe invece essere conquistato soltanto a prezzo di costanza, fatica e attenzione. Certo, chi prende le mosse dall’idea che sia lecito anche far uso dell’immaginazione, chi è in grado di comprendere un concetto centrale a cui progressivamente l’esperienza si subordina, chi vive con sicura fiducia, incontrerà certamente in singoli casi ciò che ha riscontrato qua e là, e che nel complesso ha già formulato. Ad un uomo dotato di una simile disposizione, dobbiamo senz’altro perdonare anche una sorta di orgoglio, un senso intimo e ben determinato dei propri meriti, quando, dal canto suo, egli non cede e meno che mai tollera quella certa disistima che spesso mostrano verso di lui gli avversari, anche se in una forma lieve e moderata. Tuttavia, ciò che rende la scissione insanabile potrebbe essere rappresentato da quanto segue. Poiché l’analista si occupa di ciò che è comprensibile, è in grado di dimostrare i risultati raggiunti, non esige opinioni insolite, né formula affermazioni che potrebbero apparire paradossali, non può che conquistare un pubblico molto ampio, e addirittura universale; per contro, l’altro tipo di studioso si considera, in misura maggiore o minore, come un eremita, non sempre in grado di concordare neppure con coloro che lo approvano. Già molto spesso un simile antagonismo si è manifestato nel campo scientifico, e tale fenomeno è destinato a riprodursi sempre di nuovo poiché, come abbiamo visto, gli elementi che lo causano continuano a formarsi sempre separatamente gli uni accanto agli altri e, nei casi in cui giungono a toccarsi, provocano sempre un’esplosione. Questo accade per lo più quando interagiscono individui di diverse nazioni, di diverse età, o che si trovano in condizioni diverse per altre ragioni. Nel caso presente si mostra però la circostanza singolare per cui due uomini, entrambi avanti negli anni, che da trentotto anni sono colleghi nella stessa istituzione e frequentano per un periodo così lungo lo stesso ambi-

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to, sia pure in direzioni diverse, distanziandosi l’uno dall’altro, tollerandosi ma continuando ad operare ciascuno per sé, e conducendo uno stile di vita raffinatissimo, si abbandonano infine ad uno sfogo e ad uno scontro definitivo e aperto. Ora, dopo aver indugiato in considerazioni di ordine generale, conviene occuparsi più da vicino dell’opera di cui abbiamo in precedenza indicato il titolo. Fin dall’inizio di marzo i quotidiani parigini490 ci intrattengono su un simile caso, accordando il proprio favore a una parte o all’altra. Il contrasto è continuato per alcune sessioni successive, finché infine Geoffroy de Saint-Hilaire non ha ritenuto adeguato alle circostanze portare tali discussioni lontano da quella cerchia, e sottoporle al grande pubblico con una propria pubblicazione a stampa491. Abbiamo letto con attenzione e studiato questo opuscolo, che ci ha però causato alcune difficoltà, ragion per cui ci siamo risolti a stendere il presente saggio, affinché chi prenda in mano lo scritto citato possa ringraziarci amichevolmente per avergli offerto delle considerazioni introduttive. Riporteremo dunque di seguito, come contenuto dell’opera in questione, la cronaca di queste recenti controversie manifestatesi nell’Accademia francese. Il 15 febbraio 1830 (p. 35) Geof­froy de Saint-Hilaire espone un rapporto su un saggio in cui alcuni giovani492 avanzano delle considerazioni riguardo all’organizzazione dei molluschi; senza dubbio egli mostra un particolare favore per il modo in cui tale saggio è condotto, che si definisce solitamente ‘a priori’, e secondo cui l’unité de composition organique è elogiata come l’autentica chiave per le osservazioni della natura. Il 22 febbraio 1830 (p. 53) il barone Cuvier presenta la sua replica, contestando il presunto principio unico, che definisce invece subordinato, e formulandone un altro, che egli ritiene superiore e più fecondo. Nella stessa seduta (p. 73) Geof­froy de Saint-Hilaire improvvisa una risposta in cui esprime ancora più esplicitamente la sua professione di fede.

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Nella seduta del primo marzo (p. 81) Geof­froy de Saint-Hilaire legge un saggio che si spinge nella stessa direzione, in cui cerca di presentare la teoria delle analogie493 come nuova e utilizzabile nel modo più efficace. Nella seduta del 22 marzo (p. 109) lo stesso studioso si accinge ad applicare con profitto la teoria delle analogie all’organizzazione dei pesci494. Nella stessa sessione (p. 139) il barone Cuvier cerca di confutare gli argomenti del suo avversario riallacciando le proprie osservazioni al caso dell’os hyoïdes, di cui si era giunti a discutere. Seduta del 29 marzo (p. 163). Geof­froy de Saint-Hilaire difende le proprie concezioni riguardo all’os hyoïdes, e aggiunge alcune osservazioni conclusive. La rivista Le Temps, nel numero del 5 marzo, stampa un resumé favorevole a Geof­froy de Saint-Hilaire, nella rubrica «Riguardo alla teoria della concordanza filosofica tra gli esseri». Il National fa lo stesso nel numero del 22 marzo. Geoffroy de Saint-Hilaire decide di portare la questione fuori dalla cerchia accademica, fa raccogliere e stampare quanto detto fino a quel momento aggiungendovi una premessa dal titolo «Sulla teoria delle analogie», datata 15 aprile. In tal modo egli chiarisce a sufficienza le sue convinzioni, venendo felicemente incontro così al nostro desiderio di esporre il più possibile la questione in modo comprensibile a tutti; allo stesso modo, in un’appendice (p. 27) egli afferma la necessità di trattare l’argomento mediante pubblicazioni a stampa, poiché nelle discussioni orali solitamente la ragione e il torto rischiano di sfumare. Ben disposto verso gli stranieri, poi, egli cita con soddisfazione e approvazione i risultati ottenuti dai Tedeschi e dagli Edimburghesi in questa disciplina, e si dichiara loro alleato, cosa da cui il mondo scientifico deve aspettarsi significativi vantaggi. A questo punto però faremo seguire, alla nostra maniera, in primo luogo alcune considerazioni che procedono dal gene-

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rale al particolare, affinché possa risultarne per noi il massimo vantaggio. Nella storia politica, come in quella degli studi, incontriamo vari esempi in cui si presenta un qualche evento particolare, spesso casuale e poco rilevante, che contrappone apertamente delle fazioni fino a quel momento rimaste celate; ora ci imbattiamo nel medesimo caso, che sfortunatamente mostra qui la particolarità per cui perfino l’occasione che ha suscitato la contesa è di tipo molto peculiare, e conduce la questione su una strada in cui è minacciata da una sconfinata confusione: i temi scientifici discussi, infatti, non stimolano, in sé e per sé, un interesse significativo, né possono risultare chiari alla gran parte del pubblico. Dovrebbe perciò essere meritorio ricondurre il conflitto ai suoi primi elementi. Tuttavia, dal momento che tutto ciò che avviene tra gli esseri umani su un piano elevato, deve essere considerato, analizzato e valutato da un punto di vista etico, prendendo in esame in primo luogo le personalità, le individualità delle persone in questione, intendiamo qui rendere note anzitutto le biografie dei due uomini citati, anche se solo per linee generali. Geof­froy de Saint-Hilaire, nato nel 1772, viene nominato professore di zoologia nel 1793, nell’anno in cui il Jardin du Roi è destinato a scuola di pubblico insegnamento. Poco dopo anche Cuvier viene chiamato in questa istituzione, e i due lavorano insieme con fiducia reciproca, come avviene tra giovani ben disposti e inconsapevoli delle loro intime divergenze. Geof­froy de Saint-Hilaire si unisce nel 1798 alla spedizione in Egitto495, enormemente problematica, estraniandosi così in certa misura dalla sua attività di insegnamento; tuttavia, la sua innata inclinazione a procedere dal generale al particolare si rinsalda sempre più e al suo rientro, partecipando alla grande opera egiziana, trova l’auspicata occasione di applicare e mettere a profitto il suo metodo. La fiducia che le sue concezioni, al pari del suo carattere, gli hanno conquistato, si dimostra in seguito ancora una volta quando nel 1810 il Gouvernement lo invia in Portogallo496, per organizzare gli studi, come si usa esprimersi, in quella nazione. Egli torna dopo aver compiuto tale impresa effimera, e arricchisce il Museo di Parigi di alcuni pezzi di una certa rilevanza. Mentre continua a lavorare infaticabilmente nella sua disciplina, viene riconosciuto anche dalla nazione come galan-

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tuomo, ed eletto deputato nel 1815. Tuttavia non era questo il palcoscenico su cui era destinato a risplendere, ed egli non salì mai la tribuna. Saint-Hilaire ha espresso infine con grande chiarezza i princìpi che guidano la sua osservazione della natura in un’opera pubblicata nel 1818497, e spiega così la sua idea principale: «L’organizzazione degli animali è soggetta ad un piano generale, solo qua e là modificato, dal quale si devono dedurre le loro differernze». Volgiamoci ora al suo avversario. Georg Leopold Cuvier, nato nel 1769 a Mömpelgard, allora ancora nel territorio del Württemberg, vi acquisisce una conoscenza accurata della lingua e della letteratura tedesca; la sua decisa inclinazione per la storia naturale gli procura l’occasione per stabilire un rapporto con l’eccellente Kielmeyer498, che proseguirà in seguito anche a distanza. Ricordiamo di aver visto, nel 1797, alcune delle prime lettere di Cuvier al naturalista citato, notevoli per le analisi anatomiche di organismi inferiori delineate nel testo in modo caratteristico e magistrale. In occasione del suo soggiorno in Normandia, egli lavora alla classe linneiana dei vermi, e non resta ignoto ai naturalisti parigini, tanto che Geof­froy de Saint-Hilaire lo invita nella capitale. I due si uniscono nel lavoro per l’edizione di varie opere destinate a scopi didattici, e in particolare cercano di giungere a stabilire un ordinamento dei mammiferi. I meriti di un uomo simile non restano molto a lungo inosservati e nel 1795 egli viene chiamato alla Scuola Centrale di Parigi, e accolto come membro della prima classe dell’Istituto. Per le esigenze di questa scuola l’autore pubblica nel 1798 i Tableaux élémentaires de l’histoire naturelle des animaux, 8. Ottiene poi il posto di professore di anatomia comparata, con la sua perspicacia conquista una visione d’insieme ampia e chiara, e il suo modo di esporre i risultati, brillante e lucido, gli procura un plauso universale e deciso. Dopo la scomparsa di Daubenton499 gli viene offerto di prenderne il posto al Collège de France e, con il riconoscimento di Napoleone, accede al Dipartimento della Pubblica Istruzione. In qualità di membro di tale dipartimento, viaggia attraverso l’Olanda e parte della Germania, e attraverso le province annesse all’impero in quel periodo come dipartimenti, per esaminare le istituzioni scolastiche e di insegnamento. Bisognerebbe procurarsi il rapporto

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da lui steso, ma al momento mi è noto soltanto che in quel testo egli non tralascia di evidenziare i vantaggi delle scuole tedesche rispetto a quelle francesi. Dal 1813 viene chiamato a ricoprire i più alti incarichi di stato, in cui viene confermato anche dopo il rientro dei Borboni, e fino ad oggi prosegue la sua attività, sia pubblica che scientifica. I suoi lavori sono sterminati, e abbracciano l’intero regno naturale; le sue spiegazioni sono utili anche a noi per la conoscenza degli oggetti e come modelli di trattazione. Egli si è impegnato a indagare e ordinare non soltanto il regno sconfinato degli organismi viventi, ma anche quello delle specie da lungo tempo estinte500, che devono a lui la loro resurrezione scientifica. La precisione della sua conoscenza dell’intero universo umano, nonché la sua capacità di penetrare nel carattere dei suoi più valenti collaboratori, si può scorgere negli elogi funebri501 che egli sa tributare ai defunti membri dell’Istituto, e in cui, allo stesso tempo, è riconoscibile la sua ampia visione d’insieme in tutte le regioni della scienza. Ci si perdoni il carattere sommario di questi lineamenti biografici: in questa sede non si è inteso informare tutti i partecipanti sottoponendo loro notizie nuove, bensì semplicemente ricordare ciò che dovrebbe essere loro noto già da tempo riguardo ai due illustri studiosi. A questo punto però si potrebbe chiedere: quale motivo, quale potere autorizza un Tedesco a venire a conoscenza più precisamente di questa disputa, e addirittura forse a schierarsi dalla parte di uno dei due contendenti? Se è lecito affermare che ogni questione scientifica, dovunque se ne discuta, interessa ogni nazione colta, allo stesso modo in cui è certo lecito considerare il mondo scientifico come un unico corpo, allora si potrà dimostrare in questa sede che questa volta siamo chiamati in causa in modo particolare. Geof­froy de Saint-Hilaire indica molti uomini tedeschi tra coloro che condividono le sue convinzioni; il barone Cuvier, invece, sembra essersi formato un concetto molto sfavorevole delle fatiche intraprese dai Tedeschi in questo campo, e in una richiesta datata 5 aprile (pag. 24 in nota) si esprime nel modo seguente: «So bene che per un determinato tipo di studiosi dietro questa teoria delle analogie, almeno in modo

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confuso, se ne può celare un’altra, molto antica, che, confutata già da tempo, è stata abbracciata nuovamente da alcuni Tedeschi, allo scopo di favorire il sistema panteistico che essi chiamano filosofia della natura». Per commentare parola per parola una simile dichiarazione, chiarendo il suo significato e mostrando in tutta evidenza il pio candore dei pensatori tedeschi che si sono dedicati alla filosofia della natura, occorrerebbe un intero volumetto in ottavo. Nelle righe che seguono intendiamo però cercare di raggiungere il nostro scopo nel modo più breve. La posizione di un naturalista come Geof­froy de Saint-Hilaire è certo tale che non può che fargli piacere essere informato in certa misura degli sforzi compiuti dai ricercatori tedeschi, e convincersi che essi nutrono modi di pensare simili ai suoi, si impegnano lungo la stessa via, così che egli non può che attendersi la loro ragionevole approvazione nonché, se lo richiede, un aiuto sufficiente. Allo stesso modo, del resto, in tempi recenti ai nostri vicini occidentali non è mai risultato alcun danno quando hanno preso conoscenza delle ricerche e degli sforzi che si compivano in Germania. I naturalisti tedeschi502 citati in questa occasione sono: Kielmeyer, Meckel, Oken, Spix, Tiedemann, e al contempo viene riconosciuta la nostra trentennale partecipazione a questi studi. Posso però affermare che sono già più di cinquant’anni che siamo incatenati a simili ricerche con un’autentica propensione. Quasi nessuno oltre me ricorda ancora quegli inizi, e mi sia qui concesso di citare quelle fiduciose ricerche giovanili, grazie alle quali sarebbe possibile gettare un po’ di luce perfino sulle controversie odierne. «Io non insegno, io racconto». (Montaigne503.) [seconda sezione] «Io non insegno, io racconto»: così concludevo la prima sezione delle mie considerazioni a proposito dell’opera citata; ora però, per definire ancora più precisamente il punto di vista da cui vorrei essere giudicato, trovo opportuno presentare qui le parole di un Francese, che meglio di ogni altra cosa possono esprimere sinteticamente il modo in cui cerco di rendermi comprensibile.

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Esistono uomini ricchi d’ingegno che hanno un modo peculiare di esporre le loro considerazioni: iniziano a loro modo, parlando in primo luogo di se stessi, per poi liberarsi solo malvolentieri della loro personalità. Prima di presentarvi i risultati delle loro riflessioni, avvertono il bisogno di enumerare i luoghi e le condizioni in cui sono giunti a simili considerazioni.

Mi sia concesso, dunque, in tal senso, di trattare, certo soltanto nelle linee più generali, il corso della storia di quelle scienze a cui ho dedicato i miei anni, senza ulteriori presunzioni, e in parallelo alla cronologia della mia vita. Occorrerebbe quindi accennare alla precocità con cui una reminiscenza di storia naturale, indeterminata ma insistente, ha agito su di me. Proprio nell’anno in cui sono nato, il 1749, il conte Buffon504 pubblicò la prima parte della sua Histoire Naturelle, e destò grande interesse tra i Tedeschi, che all’epoca erano molto permeabili agli influssi francesi. I volumi si susseguirono annualmente, e così l’interesse di una società colta accompagnò la mia crescita, senza che io sapessi di quest’uomo illustre, nient’altro che il nome, al pari dei nomi dei suoi eminenti contemporanei. Il conte Buffon, nato nel 1707, uomo eccellente, possedeva una visione d’insieme lieta e libera, una gran gioia di vivere, e si rallegrava per la vivacità dell’esistenza; si interessava lietamente di tutto ciò che esiste. Uomo di mondo e viveur, desiderava senz’altro risultare piacevole durante la sua attività di insegnamento, accattivandosi la simpatia dell’uditorio durante le sue lezioni. Le sue esposizioni sono delle illustrazioni piuttosto che descrizioni; egli presenta la creatura nel suo complesso, e in particolare in relazione all’uomo, ragion per cui a quest’ultimo fa seguire immediatamente gli animali domestici. Si impadronisce, inoltre, di tutto ciò che è noto; non soltanto sa utilizzare i naturalisti, ma sa anche servirsi dei risultati di tutti i viaggiatori. Lo si trova a Parigi, il grande centro delle scienze, in qualità di intendente del Gabinetto Reale, un’istituzione che ha già acquisito una certa importanza; privilegiato nelle cose esteriori, benestante, elevato al rango di conte, si comporta, nei confronti dei suoi lettori, in modo distinto ed elegante. Da un simile punto di vista è in grado di formare un quadro completo a partire da un singolo dettaglio; e anche se, cosa

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questa che qui ci interessa particolarmente, nel secondo volume a pag. 544, egli scrive che «le braccia dell’uomo non sono affatto simili alle zampe anteriori degli animali, così come sono distanti dalle ali degli uccelli», egli parla in questo caso nel senso della massa, che guarda con candore naturale, e coglie gli oggetti così come sono. Nel suo intimo, però, il problema è sviluppato con maggiore attenzione, poiché nel quarto volume, a pag. 379, si legge: «esiste un abbozzo preliminare, originario e generale, che si può seguire molto lontano»; in tal modo è stabilita una volta per sempre la massima fondamentale della teoria comparata della natura. Si perdoneranno queste parole fuggevoli, quasi sacrileghe nel loro essere così affrettate, con cui citiamo cursoriamente un uomo tanto meritevole; saranno tuttavia sufficienti a persuaderci che, malgrado gli innumerevoli dettagli in cui indugia, egli non ha mancato di riconoscere l’esistenza di una visione d’insieme. È certo che, se sfogliamo adesso le sue opere, troviamo che l’autore era consapevole di tutti i problemi principali di cui si occupa la teoria della natura, e si impegnava seriamente a risolverli, sebbene non sempre con successo. Tuttavia il profondo rispetto che proviamo nei suoi confronti non ne è minimamente intaccato, se si considera il fatto che noi posteri trionfiamo sempre troppo presto, come se avessimo già completamente risolto alcune delle questioni sollevate in quelle opere. Malgrado tutto ciò, dobbiamo ammettere che, se Buffon ha cercato di conquistare una visione più elevata, non ha però disdegnato il soccorso dell’immaginazione, che certo gli ha procurato un’ammirazione crescente nel mondo, ma lo ha allontanato in certa misura dal vero e proprio elemento che dovrebbe costituire la scienza, tanto che la questione sembrava condotta nel campo della retorica e della dialettica. Cerchiamo dunque di chiarire maggiormente una questione così rilevante: Il conte Buffon è assunto come supervisore del Jardin du Roi, con l’incarico di realizzare una nuova elaborazione della storia naturale. La sua tendenza inclina verso la totalità, in quanto vivente, interagisce e si riferisce particolarmente all’essere umano. Per i dettagli gli occorre un aiuto, e chiama Daubenton, un connazionale. Quest’ultimo affronta il problema dal lato opposto, essendo

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un anatomista preciso e acuto. Questa disciplina gli deve molto: è l’unico ad attenersi al dettaglio al punto che non intende congiungere tra loro nemmeno gli elementi più prossimi. Purtroppo una simile differenza di modi di procedere causa tra i due studiosi una separazione insanabile. In qualunque modo si sia infine decisa tale scissione, sarà sufficiente accennare al fatto che Daubenton, a partire dal 1786, non prende più parte alla storia naturale di Buffon, anche se continua a lavorare alacremente per suo conto. Dopo il ritiro di Buffon, in età avanzata, Daubenton, anch’egli ormai anziano, resta al suo posto, e si adopera a formare un collaboratore più giovane, Geof­froy de Saint-Hilaire. Quest’ultimo, poi, desidera un compagno di lavoro, e lo trova in Cuvier. È certo bizzarro che tra questi due uomini, sommamente meritevoli allo stesso modo, si sviluppi tacitamente la medesima divergenza, anche se ad un grado più elevato. Cuvier si attiene fermamente al particolare, in base al senso dell’ordinamento sistematico, poiché una più ampia visione d’insieme conduce già necessariamente verso un metodo che guida la disposizione dei dati. Geof­froy invece, in base al suo modo di pensare, cerca di giungere a comprendere l’intero, ma non seguendo, come Buffon, ciò che è presente, sussistente e già formato, bensì ciò che opera, che diviene e che si sviluppa. In tal modo si nutre segretamente il ripetuto contrasto, che resta celato più a lungo del precedente, poiché un’educazione socialmente elevata, determinate ragioni di convenienza, nonché taciti riguardi trattengono anno dopo anno lo scoppio, finché infine un’occasione di scarsa importanza, come l’elettricità della bottiglia di Leida, separata artificialmente verso l’esterno e verso l’interno, fa sì che si manifesti apertamente una violenta esplosione del recondito contrasto. Proseguiamo tuttavia le nostre riflessioni riguardo ai quattro uomini così spesso citati, e destinati ad essere sempre di nuovo nominati nell’ambito della scienza naturale, anche se saremo costretti a ripeterci in qualche misura. Sono loro, infatti, che, malgrado tutto, risplendono come fondatori e promotori della storia naturale francese, costituendo il nucleo dal quale scaturiscono fortunatamente così tanti aspetti desiderabili. Da quasi un secolo preposti all’importante istituzione, essi l’hanno ampliata e utilizzata per promuovere in tutti i modi la storia naturale, rappresentando il modo di procedere analitico e sintetico della scienza. Buffon considera il mondo esterno, così come

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si presenta, nella sua molteplicità e come una totalità coesa e sussistente, che si incontra in rapporti reciproci. Daubenton, in quanto anatomista, è invece continuamente impegnato in distinzioni e separazioni, e si guarda bene dal connettere con qualcos’altro ciò che ha trovato in forma separata, ma dispone accuratamente ogni cosa accanto all’altra, misurando e descrivendo ciascun elemento per sé. Nello stesso senso, solo con maggiore libertà e prudenza, lavora Cuvier, che ha ricevuto il dono di saper notare e distinguere infinite particolarità, comparandole tra loro, disponendole secondo un ordine, e acquisendo in tal modo un grande merito. Tuttavia, anche lui avverte una certa apprensione di fronte a un metodo superiore, del quale lui stesso non può fare a meno e che, pur se inconsapevolmente, si trova ad applicare. Così egli riproduce ancora una volta le caratteristiche di Daubenton, anche se in un senso più elevato. Analogamente potremmo dire che Geoffroy de Saint-Hilaire rimanda in certa misura a Buffon. Infatti, se quest’ultimo riconosce e accoglie in sé la grande sintesi del mondo empirico, conoscendo però al contempo, e utilizzando tutte le caratteristiche che gli si offrono allo scopo di operare distinzioni, Geof­froy giunge già più vicino alla grande unità astratta, solo intuita da Buffon, non si intimorisce al suo cospetto e, interpretandola, sa valersi a proprio vantaggio delle sue deviazioni. Probabilmente non si presenterà più nella storia del sapere e della scienza il caso in cui in uno stesso luogo, nella stessa posizione, in rapporto ai medesimi oggetti, in conformità all’incarico ricoperto e al dovere, degli uomini così straordinari si trovino a promuovere una scienza, per un periodo così lungo, in costante contrasto tra loro e, invece di lasciarsi invitare, in ragione dell’unità del compito loro assegnato, ad una trattazione comune, per quanto condotta da punti di vista diversi, si scontrino frontalmente, abbandonandosi ad un’acerrima controversia, a causa non dell’argomento discusso, bensì del modo di considerarlo. Tuttavia, un caso tanto singolare non può che tornare a nostro vantaggio, nonché a vantaggio della scienza stessa! Ciascuno di noi dovrà poter dire, in questa occasione, che dividere e connettere sono due atti vitali inseparabili. O forse è meglio dire che è indispensabile, lo si voglia o no, procedere dalla totalità al particolare e viceversa: quanto più

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vivamente tali funzioni intellettuali saranno tenute insieme, come inspirazione ed espirazione, tanto meglio si provvederà alle scienze e ai loro cultori. Lasciamo ora questo punto, per poi tornare a tematizzarlo più avanti, quando avremo parlato di quegli uomini che negli anni settanta e ottanta del secolo scorso ci hanno incoraggiato a procedere sulla via che avevamo indipendentemente intrapreso. Petrus Camper505, un uomo dal peculiare spirito di osservazione e dalla particolare capacità di stabilire connessioni, univa all’osservazione accurata la felice dote della riproduzione, e dunque, grazie alla riproduzione di ciò di cui aveva fatto esperienza, era in grado di riviverlo in sé, affinando le sue riflessioni attraverso un’attività autonoma. I suoi grandi meriti sono universalmente riconosciuti; citerò qui soltanto la sua linea facciale, grazie alla quale la sporgenza della fronte, in quanto contenitore dell’organo della funzione intellettuale, si è resa più evidente a fronte della struttura inferiore e più animalesca, e più adatta alla riflessione. Geof­froy gli tributa un altissimo riconoscimento a pag. 149 in nota: «Uno spirito in grado di abbracciare un ambito molto vasto, di raffinata cultura e costantemente impegnato nella riflessione; aveva un senso così vivo e profondo della concordanza dei sistemi organici che andava in cerca preferibilmente di tutti i casi straordinari in cui potesse trovare l’occasione di occuparsi di determinati problemi, un’opportunità per esercitare il suo acume, allo scopo di ricondurre le cosiddette anomalie alla regola». Molto si potrebbe ancora aggiungere, se in questa sede si dovesse offrire più che un accenno. Potrà tuttavia essere questo il luogo per notare che il naturalista, seguendo tale via, impara a riconoscere nel modo più rapido e agevole il valore e la dignità della legge e della regola. Se scorgiamo sempre ciò che soggiace ad una regola, pensiamo che tutto debba avvenire in questo modo, destinato dunque a ciò da sempre, e di conseguenza stazionario. Ma se osserviamo le deviazioni, le malformazioni, le deformità mostruose, riconosciamo che la regola, per quanto fissa ed eterna, è al contempo viva, e gli esseri possono trasformarsi in elementi privi di forma, se non in conseguenza della regola, pur tuttavia all’interno di essa; in qualsiasi momento, del resto, come

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trattenuti da briglie, devono riconoscere il dominio inevitabile della legge. Samuel Thomas Sömmerring506 fu stimolato da Camper. Fu uno spirito desto e vivace, abilissimo nel guardare, osservare, riflettere. Molto denso di conseguenze si è rivelato il suo lavoro sul cervello e la sua osservazione, intelligentissima, secondo cui l’uomo si distingue dagli animali principalmente per il fatto che la sua massa cerebrale prevale in massimo grado sul complesso di tutti gli altri nervi, ciò che non si verifica negli altri animali. Quale interesse, inoltre, suscitò, in quell’epoca così ricettiva, l’individuazione della macchia gialla al centro della retina! E quanto furono debitori, in seguito, gli organi di senso, l’occhio e l’orecchio, al suo sguardo e alla sua mano così abile nella riproduzione! La sua frequentazione e il rapporto epistolare con lui si rivelavano estremamente stimolanti e incoraggianti. Con la comunicazione di un fatto nuovo, di un’idea recente e di una riflessione più approfondita, ogni attività veniva eccitata. Tutto ciò che germogliava si sviluppava rapidamente e fresche forze giovani non presagivano minimamente gli ostacoli che avrebbero incontrato lungo la strada. Johann Heinrich Merck507, assunto in qualità di ufficiale tesoriere del granducato di Assia-Darmstadt, merita senza dubbio di essere nominato qui. Era un uomo che esercitava instancabilmente l’attività intellettuale, e non si distinse per particolari risultati solo perché, dilettante di talento, si trovava sempre spinto e trascinato in ogni direzione. Anch’egli si dedicò intensamente all’anatomia comparata, e in quest’ambito gli venne felicemente in soccorso un talento disegnativo che sapeva esprimersi con facilità e nettezza. Tuttavia, la vera e propria occasione per manifestarlo fu offerta dai singolarissimi fossili, verso i quali all’epoca iniziava a volgersi l’attenzione del mondo scientifico, che furono dissotterrati ripetutamente e in gran numero nella regione fluviale del Reno. Con l’avidità della passione egli si appropriò di alcuni notevoli esemplari, la cui collezione, dopo la sua morte, è stata acquistata e classificata nel Museo Granducale di Assia, nonché accuratamente conservata e ampliata dal saggio custode von Schleiermacher508. I miei stretti rapporti con i due uomini intensificarono la

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mia inclinazione per questi studi, dapprima grazie alla conoscenza personale, quindi con la prosecuzione della corrispondenza; per tale ragione, in conformità con la mia attitudine innata, sono andato in cerca, in primo luogo, di un filo conduttore o, se si preferisce definirlo altrimenti, di un punto dal quale partire, una massima a cui attenersi, un cerchio dal quale non fosse possibile allontanarsi. Se al giorno d’oggi emergono nel nostro campo vistose differenze, non vi è nulla di più naturale che immaginare che a quell’epoca esse dovessero segnalarsi in misura ancora maggiore e con maggiore frequenza, poiché ciascuno, dal suo punto di vista, si impegnava a utilizzare e a far fruttare ogni cosa per i propri scopi. Nell’anatomia comparata in senso lato, in quanto destinata a fondare una morfologia, ci si occupava costantemente delle differenze e delle concordanze. Tuttavia, notai ben presto che fino a quel momento ci si era impegnati senza metodo, solo ad ampliare il raggio delle osservazioni: si confrontava, così come si presentava, un animale con l’altro o con molti altri o con l’uomo, e ne derivava una sterminata quantità di osservazioni che finivano per confondere e stordire, e che in parte si adattavano a tutti i casi, in parte invece non volevano affatto adeguarsi allo scopo perseguito. A quel punto misi da parte i libri e mi volsi direttamente alla natura, ad analizzare uno scheletro animale che si potesse abbracciare interamente con lo sguardo: la posizione su quattro zampe era ciò che si mostrava con maggiore chiarezza, quindi iniziai a esaminarlo, nell’ordine, dal lato anteriore verso quello posteriore. Il primo elemento che saltò agli occhi prima di ogni altro fu l’osso intermascellare, che dunque mi misi a studiare nelle diverse specie animali. Ma proprio in quel momento si destarono considerazioni di tutt’altro genere: la stretta affinità tra la scimmia e l’uomo costringeva il naturalista a minuziose indagini, e l’ottimo Camper credette di aver individuato la differenza tra la scimmia e l’uomo nel fatto che la prima possedeva un osso intermascellare della mascella superiore, che invece mancava all’uomo. Non so esprimere la sensazione dolorosa che provai dovendomi scontrare fermamente con quell’uomo al quale dovevo

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così tanto, a cui speravo di avvicinarmi, professandomi suo allievo e da cui mi aspettavo di imparare ogni cosa. Chi intendesse richiamare alla mente le mie fatiche di allora, potrebbe trovare ciò che ho steso per iscritto nel primo volume del lavoro dedicato alla morfologia; quale pena inoltre mi sia dato nell’elencare le diverse forme devianti di quell’osso anche figurativamente, aspetto da cui tutto dipende, si può ora apprendere dagli Atti dell’Imperiale Accademia LeopoldinoCarolina dei Naturalisti, in cui è stato ristampato il testo e sono state gentilmente accolte anche le relative tavole, rimaste lunghi anni celate. Entrambe le componenti si trovano nella prima sezione del quindicesimo volume. Ma prima di sfogliare quel volume, avrei ancora da raccontare, da notare e da dichiarare qualcosa che, se anche non dovesse risultare di particolare importanza, tuttavia potrà tornare a vantaggio degli sforzi dei nostri continuatori. Non solo i giovani in tutta la loro freschezza, ma anche gli uomini già formati, non appena si presenta loro un’idea chiara, pregnante e coerente, provano il desiderio di comunicarla e di suscitare anche in altri lo stesso modo di pensare. Dunque non mi accorsi dell’errore quando ebbi la sconsiderata bonarietà di spedire a Peter Camper il saggio di cui si parlerà tra poco, tradotto in latino e corredato di disegni in parte solo abbozzati e in parte completi. Ricevetti una risposta molto dettagliata e benevola, in cui egli lodava molto l’attenzione che io avevo dedicato a questi argomenti; non disapprovava, in effetti, i disegni, ma mi suggeriva dei buoni consigli e alcuni accorgimenti sul modo di copiare dalla natura con maggiore precisione simili oggetti. Sembrava addirittura sorpreso da tali sforzi, e mi chiedeva se avessi intenzione di stampare quell’opuscolo, indicando in modo circostanziato le difficoltà che si sarebbero incontrate a causa delle incisioni, nonché i mezzi adatti a superarle. Insomma, manifestò un interessamento ragionevole alla cosa, come padre e come mecenate. Tuttavia non dava la minima sensazione di aver notato il mio scopo di contrappormi alla sua opinione, proponendomi qualcosa di ben diverso da un programma. Io risposi modestamente e ricevetti delle altre lettere ampie e benevole, il cui contenuto, esaminato da vicino, era meramente materiale, e non si riferiva affatto al mio scopo, al punto che infine, poiché un simile rapporto, così avviato, non poteva fornirmi alcuno

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stimolo, lo lasciai cadere tranquillamente, senza tuttavia trarne, come certo avrei dovuto, l’importante esperienza per cui non è possibile persuadere un maestro del suo errore, poiché egli lo ha già accolto nel suo magistero e in tal modo legittimato. Purtroppo quelle lettere sono andate perdute, insieme a molti altri documenti; esse avrebbero saputo rammentare in modo molto vivido sia l’abilità grandissima di quell’uomo eccellente, sia la mia deferenza giovanile e fiduciosa. Mi occorse però anche un’altra disavventura: un uomo molto distinto, Johann Friedrich Blumenbach509, che si era dedicato con successo alla scienza della natura, aveva iniziato a studiare a fondo anche l’anatomia comparata, e nel suo compendio si schierò a fianco di Camper, negando la presenza dell’osso intermascellare nell’uomo. Il mio imbarazzo crebbe in tal modo al massimo grado, dal momento che un valido manuale e un insegnante degno di fiducia si mostravano destinati ad eliminare del tutto le mie convinzioni e le mie intenzioni. Tuttavia, un uomo così brillante, instancabile ricercatore e pensatore, non poteva restare sempre fermo su un’opinione precostituita, sicché, avendo stabilito un rapporto di fiducia con lui, sono diventato suo debitore, su questo punto come su molti altri, per il suo partecipe insegnamento, poiché egli mi informò che l’osso intermascellare si trova separato dalla mascella superiore nei bambini idrocefali, e si manifesta patologicamente isolato anche nei casi di doppia palatoschisi. Ora posso però richiamare quei lavori, che al tempo erano stati respinti con qualche protesta e che sono rimasti a giacere in silenzio per così tanti anni, chiedendo che sia loro tributata una qualche attenzione. Devo anzitutto richiamarmi alle illustrazioni cui accennavo, per una maggiore e completa chiarezza, ma ancor più dovrò far cenno alla grande opera osteologica di d’Alton510, da cui si può ottenere una visione più ampia e libera, che abbraccia l’intero quadro della questione. Al contempo, ho motivo di invitare il lettore a considerare tutto ciò che finora si è detto e che resta ancora da dire come riferito, direttamente o indirettamente, alla disputa tra i due ottimi naturalisti francesi, su cui verte tuttora il nostro di­scorso. Posso dunque presupporre che si sarà disposti a porsi di

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fronte le tavole511 appena indicate, per analizzarle nel dettaglio insieme a noi. Quando si parla di illustrazioni, si intende che si tratta propriamente della forma; nel nostro caso, però, l’attenzione è immediatamente richiamata sulla funzione delle parti, poiché la forma è in relazione con l’intera organizzazione a cui appartengono le varie componenti, e dunque anche al mondo esterno, di cui l’essere compiutamente organizzato deve essere considerato parte. In tal senso dunque ci accingiamo senz’altro al lavoro. Nella prima tavola vediamo che quest’osso che riconosciamo come il più prominente nel complesso della struttura dell’animale, è conformato in modi diversi; ad un esame più ravvicinato notiamo che grazie ad esso l’animale si appropria del nutrimento che gli è necessario: dunque, ai vari tipi di nutrimento corrisponderanno anche varie conformazioni di quest’organo. Nel capriolo troviamo un leggero archetto osseo privo di denti, per strappare con moderazione fili d’erba e ramoscelli con le loro foglie. Nel bue scorgiamo pressoché la stessa forma, solo più larga, tozza e robusta, conformemente alle esigenze della creatura. Nella terza figura è riprodotto il cammello, che, al pari della pecora, presenta una certa indecisione, quasi mostruosa, nella struttura, al punto che l’osso intermascellare è pressoché indistinguibile dalla mascella superiore, e l’incisivo dal canino. La seconda tavola mostra il cavallo, provvisto di un notevole osso intermascellare, che contiene sei incisivi smussati; il canino, che in questo caso, in un soggetto giovane, non è ancora sviluppato, è pienamente assimilato alla mascella superiore. È notevole anche, nella seconda figura della medesima tavola, la mascella superiore del sus babirussa, osservata lateralmente: si vede lo straordinario canino interamente contenuto nella mascella superiore, mentre il suo alveolo giunge appena a sfiorare l’osso intermascellare provvisto di denti, simile a quello del maiale, e non lascia scorgere la minima influenza su tale osso. Nella terza tavola, prestiamo la nostra attenzione alla terza figura, la dentatura del lupo. L’osso intermascellare, proteso in avanti e provvisto di sei incisivi aguzzi e forti, si differenzia, nella figura b, molto chiaramente dalla mascella superiore tramite una sutura, e per quanto sia molto prominente, lascia

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intravedere un’esatta prossimità rispetto al canino. La dentatura del leone, più contratta, vigorosa e potente, mostra quella differenza e quella prossimità in modo ancor più preciso. La dentatura anteriore dell’orso polare è identica, possente ma maldestra e tozza, una formazione priva di carattere, e in ogni caso in grado di triturare più che di afferrare; i canales nasopalatini sono ampi e aperti, mentre non vi è traccia alcuna di quella sutura che si disegnerà però idealmente, assegnandole il percorso. Nella quarta tavola il trichecus rosmarus dà adito ad alcune considerazioni. La grande preponderanza dei canini esige che l’osso intermascellare retroceda, e la ripugnante creatura riceve in tal modo un aspetto quasi umano. La figura 1, disegno in dimensioni ridotte di un animale già adulto, fa vedere chiaramente l’osso intermascellare separato, e si può osservare anche in che modo la possente radice, inserita nella mascella superiore, spingendosi progressivamente verso l’alto, abbia prodotto una sorta di tumore sulla superficie della guancia. Le figure 2 e 3 raffigurano un animale giovane della stessa grandezza. In questo esemplare è stato possibile separare completamente l’osso intermascellare dalla mascella superiore, poiché il canino può restare indisturbato nel suo alveolo, appartenente unicamente alla mascella superiore. Dopo tutto ciò, possiamo affermare audacemente che anche la grande zanna dell’elefante512 si radica allo stesso modo nella mascella superiore, e dunque dobbiamo pensare che, data l’enorme sollecitazione a cui qui è soggetta la mascella superiore, l’osso intermascellare adiacente si trova a dover fornire una lamina, se non per formare gli enormi alveoli, almeno per rinsaldarli. Questo è quanto abbiamo creduto di scoprire esaminando accuratamente numerosi esemplari, benché le illustrazioni dei crani presentate nel dodicesimo volume non apportino prove decisive al riguardo. Infatti è qui che il genio dell’analogia può porsi al nostro fianco come un angelo custode, affinché non siamo indotti, da un unico caso dubbio, a disconoscere una verità comprovata da molti esempi, ma tributiamo il dovuto rispetto alla legge anche in quei fenomeni in cui sembra sottrarsi alla nostra osservazione. Nella quinta tavola sono contrapposti la scimmia e l’uomo.

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Quanto a quest’ultimo, dopo una particolare preparazione sono indicate con sufficiente chiarezza la separazione e la fusione dell’osso in questione. Forse le due forme, fine dell’intera trattazione, avrebbero dovuto essere raffigurate in modo più dettagliato e chiaro, per essere poi poste a confronto. Tuttavia, proprio in ultimo, nel momento più pregnante, l’inclinazione e l’attività dedicate a quella materia si sono arrestate, al punto che dobbiamo essere già riconoscenti se una società di naturalisti sommamente stimabile vuole onorare della sua attenzione questi frammenti, e custodire nel corpo indistruttibile dei suoi atti la memoria delle nostre oneste fatiche. Ma dobbiamo pregare i nostri lettori di concederci ulteriore attenzione poiché, spinti dal medesimo signor Geof­froy, dobbiamo considerare anche un altro organo in questo stesso senso. La natura resta eternamente degna di rispetto, è conoscibile sempre solo fino a un certo grado, eternamente al servizio di chi sa comprenderla. Essa volge verso di noi molteplici aspetti, e fa quantomeno allusione a ciò che nasconde; offre inoltre varie occasioni all’osservatore come al pensatore, e non abbiamo motivo di disdegnare alcun mezzo con cui sia possibile notare con maggiore chiarezza il suo aspetto esteriore, e indagare a fondo il suo interno. Prendiamo dunque, per i nostri scopi, senz’altro sotto tutela la funzione. Quest’ultima, se correttamente intesa, è l’esistenza pensata in attività; noi quindi ci occupiamo, su incitamento dello stesso Geof­froy, delle braccia dell’essere umano, e delle zampe anteriori degli animali. Senza volerci mostrare eruditi, prendiamo le mosse da Aristotele, Ippocrate e Galeno513, seguendo il resoconto di quest’ultimo. Nella loro serenità, i Greci attribuivano alla natura un’intelligenza amorevole, che avrebbe predisposto ogni cosa in modo così conveniente che l’intero esistente sarebbe dovuto apparire sempre perfetto: avrebbe provvisto gli animali più forti di artigli e corna, e quelli più deboli di zampe molto agili. L’uomo, tuttavia, sarebbe stato dotato in modo particolare, grazie alla sua mano, capace di diverse attività, che gli avrebbe consentito di procurarsi spade e lance, invece di corna e artigli. Per questo è molto divertente apprendere per quale motivo il dito medio è più lungo delle altre dita. Tuttavia, se intendiamo procedere oltre alla nostra manie-

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ra, dobbiamo porre di fronte a noi la grande opera di d’Alton, traendo dalla sua ricchezza gli argomenti che dimostrano le nostre osservazioni. Assumiamo come universalmente noti l’avambraccio 514 dell’essere umano, la sua connessione con la mano e i prodigi che in tal modo si rendono possibili. Non vi è nulla di intellettuale che non ricada in quest’ambito. Si prendano poi in considerazione gli animali feroci, l’abilità e la prontezza con cui i loro artigli e le loro unghie si impadroniscono del nutrimento, e il modo in cui essi, con l’eccezione di qualche impulso più ludico, sono subordinati all’osso intermascellare, restando al servizio dell’apparato boccale. Le cinque dita, nel cavallo, sono racchiuse in uno zoccolo, come possiamo vedere idealmente, se anche talvolta non vi fosse una qualche mostruosità in cui la divisibilità dello zoccolo in dita giungesse a convincerci di questo fenomeno. Questa nobile creatura non ha bisogno di strappare con violenza il proprio nutrimento; un pascolo arioso e non troppo umido favorisce la sua libera esistenza, che sembra in effetti adatta solo a un movimento sconfinato di piacevole ed errabonda spavalderia: una destinazione naturale che l’uomo sa poi sfruttare senz’altro per scopi utili e per propria passione. Ora, se esaminiamo con attenzione questa parte nelle più varie specie animali, notiamo che la perfezione sua e delle sue funzioni aumenta e diminuisce a seconda che la pronazione e la supinazione debbano essere esercitate in misura più o meno facile e completa. Moltissimi animali possiedono tali vantaggi in misura variabile, ma poiché utilizzano l’arto anteriore necessariamente per sostenersi e per muoversi, vivono per la maggior parte del tempo in posizione prona; dato che, inoltre, in questo modo il radio si volge verso l’interno insieme al pollice, a cui è connesso organicamente, tale osso, che segna il vero e proprio baricentro, diventa sempre più rilevante a seconda delle caratteristiche dei vari casi, fino a trovarsi infine quasi completamente solo nella sua sede. Tra gli arti anteriori più mobili e le zampe più abili possiamo certo annoverare quelle dello scoiattolo e dei roditori ad esso affini. Il loro corpo leggero, che raggiunge in varia misura la posizione eretta, e i loro movimenti a balzi, fanno in modo che le zampe anteriori non diventino tozze. Non vi è nulla di più aggraziato da guardare di uno scoiattolo che sbuccia una

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pigna di abete, togliendo del tutto la colonna centrale; varrebbe certo la pena di osservare se queste creature non stacchino i semi appropriandosene secondo la successione a spirale in cui essi si sviluppano. A questo punto possiamo prendere in adeguata considerazione i due denti incisivi sporgenti di questa famiglia di animali, che, contenuti nell’osso intermascellare, non sono stati raffigurati nelle nostre tavole, ma che nei fascicoli di d’Alton si presentano in tutte le loro varie forme. Appare quanto mai degno di nota il fatto che, per una misteriosa concordanza, con il perfezionarsi dell’attività della zampa anteriore, anche gli incisivi ottengono al contempo una cultura superiore. Infatti, mentre in altri animali essi hanno la funzione di afferrare il nutrimento, in questo caso sono le zampe anteriori che portano abilmente alla bocca il cibo, per cui ormai i denti sono destinati unicamente a rodere, operazione che diventa così in certa misura tecnica. Tuttavia siamo tentati a questo punto non solo di ripetere il detto greco515 che abbiamo enunciato in precedenza, ma a modificarlo procedendo oltre: potremmo dire che «gli animali sono tiranneggiati dalle loro membra», poiché essi se ne servono certo per prolungare e riprodurre la propria esistenza; ma dal momento che l’attività necessaria per ciascuna funzione simile prosegue sempre, anche senza che ve ne sia l’esigenza, per tale motivo i roditori, una volta sazi, iniziano a distruggere, finché infine questa tendenza non produce, nel castoro, delle realizzazioni analoghe all’architettura razionale. Non possiamo però procedere in questo modo, altrimenti finiremmo per perderci in un campo sterminato; riassumiamo dunque brevemente quanto detto. Quanto più l’animale si sente destinato a stare in piedi e a camminare, tanto più aumenterà la robustezza del radio, che sottrarrà massa al corpo dell’ulna, al punto che quest’ultima giungerà infine quasi a scomparire, e resterà solo l’olecrano, in quanto necessaria articolazione con l’omero. Esaminando le illustrazioni di d’Alton, si potranno avanzare in proposito delle considerazioni approfondite, e si finirà sempre per ravvisare, in questa e in altre parti, l’esistenza che emerge dalla forma nella sua relativa funzione vivente. Tuttavia a questo punto dobbiamo prendere in esame il caso in cui rimane ancora una sufficiente traccia dell’organo

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anche là dove cessa completamente ogni funzione: saremo in grado, così, di penetrare da una prospettiva inedita i segreti della natura. Si prenda il fascicolo di d’Alton Junior516, che illustra gli uccelli simili allo struzzo, e si osservino le prime quattro tavole, dallo scheletro dello struzzo a quello del casuario neoolandese: si noterà come gli arti anteriori si contraggano e si semplifichino gradualmente. Benché ora quest’organo, che rende propriamente tali l’uomo e l’uccello, appaia da ultimo curiosamente abbreviato, al punto che si potrebbe definirlo una malformazione accidentale, tuttavia vi si possono distinguere benissimo tutti i singoli arti; non si può non riconoscere l’elemento analogo nella loro forma, al pari della loro estensione e del punto in cui sono inseriti. Sebbene, poi, gli arti più prominenti diminuiscano di numero, i restanti non abbandonano il loro determinato rapporto di prossimità. Questo rilevante aspetto, che occorre sempre tenere presente esaminando l’osteologia degli animali superiori, è stato compreso in modo pienamente corretto ed espresso con chiarezza da Geof­froy: è possibile scoprire nel modo più certo, entro i confini del suo vicinato, qualsiasi osso particolare che sembri celarsi al nostro sguardo. Egli è persuaso inoltre di un’ulteriore verità fondamentale517, che si collega immediatamente a quanto detto, vale a dire del fatto che la natura, attenta al bilancio, si è prescritta un determinato preventivo, un budget, in cui, in singoli capitoli, si riserva un completo arbitrio, mentre resta pienamente fedele a se stessa nella somma totale, poiché, se da un lato si è speso troppo, dall’altro essa sottrae per giungere al pareggio nel modo più netto. Questi due punti di riferimento certi, a cui da vari anni noi Tedeschi dobbiamo così tanto, sono riconosciuti dal signor Geof­froy in modo tale da risultargli sempre della massima utilità nel corso della sua carriera scientifica; soprattutto, poi, essi potranno eliminare completamente il triste ripiego che consiste nell’invocare cause finali. Ciò sarà sufficiente per accennare al fatto che non dobbiamo trascurare nessuna manifestazione del labirintico organismo, se vogliamo giungere, attraverso l’osservazione dell’aspetto esterno, alla comprensione dell’interno. Da quanto detto finora risulta chiaro che Geof­froy è giunto

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a un modo di pensare elevato e conforme all’idea. Purtroppo su molti punti la sua lingua518 non gli offre l’espressione corretta, e poiché il suo avversario si trova nella stessa difficoltà, la disputa ne risulta confusa e oscura. Noi vogliamo cercare di chiarire con modestia tale circostanza. Non possiamo infatti perdere l’occasione di sottolineare come un uso linguistico impreciso nelle trattazioni francesi, e in particolare nelle dispute tra uomini illustri, dia adito a significativi errori. Si crede di esprimersi con una prosa pura e invece si parla già per tropi, che ciascuno impiega in modi diversi, svolgendoli in forma volta a volta affine, di modo che la disputa diventa infinita e l’enigma insolubile. Matériaux: di questo termine ci si serve per designare le parti di un essere organico che, riunite, costituiscono un intero insieme oppure una parte subordinata dell’insieme. In tal senso si definirebbero materiali l’osso intermascellare, la mascella superiore e l’osso palatino, di cui è composta la volta della gola; analogamente, sarebbero da considerare come materiali l’osso dell’omero, i due dell’avambraccio e le molteplici ossa della mano, di cui si compone il braccio dell’essere umano e l’arto anteriore dell’animale. Nel senso più generale, definiamo però con il termine ‘materiali’ dei corpi privi di coerenza autonoma e anche non affini, che sono però in rapporto tra loro in ragione di determinazioni arbitrarie. Travi, assi e traverse sono materiali di un unico tipo, con cui è possibile costruire edifici diversi, nonché, ad esempio, anche un tetto. Mattoni, rame, piombo e zinco non hanno nulla in comune con quei materiali, e tuttavia sono necessari, a seconda delle circostanze, per completare il tetto. Dobbiamo quindi attribuire alla parola francese ‘materiaux’ un significato molto più elevato di quello che le spetta, per quanto malvolentieri, poiché prevediamo già le conseguenze di tale operazione. Composition: un termine altrettanto infelice, apparentato meccanicamente al precedente, parimenti meccanico. I Francesi lo hanno introdotto nei loro trattati di estetica nel momento in cui hanno iniziato a riflettere e a scrivere d’arte; infatti, si dice che il pittore compone i suoi dipinti, i musicisti sono addirittura definiti una volta per tutte compositori, e tuttavia, se vogliono meritare l’autentico nome di artisti, essi non compongono semplicemente le loro opere, bensì sviluppano una

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certa immagine interiore, una superiore armonia, conforme alla natura e all’arte. Ma proprio come avviene nell’arte, anche quando si parla della natura questa espressione si svaluta: gli organi non si compongono come se fossero già pronti, ma si sviluppano gli uni dagli altri e accanto agli altri, fino a costituire un’esistenza necessaria, che tende a formare un tutto. Dunque si può parlare di funzione, forma, colore, misura, volume, peso o di ogni altra determinazione: tutto è ammesso quando si conducono osservazioni e indagini. Il vivente prosegue indisturbato nel suo percorso, si riproduce, è sospeso, oscilla e giunge infine alla propria perfezione. Embranchement è anch’esso un termine tecnico tratto dalla carpenteria e indica l’atto del congiungere travi e puntelli incastrandoli e accostandoli tra loro. Un caso in cui tale termine appare ammissibile e caratterizzante è quello in cui è impiegato per designare la biforcazione di una strada in più vie. Crediamo di scorgere qui, nel particolare e nel complesso, le ripercussioni di quell’epoca in cui la nazione si abbandonava al sensualismo, e si abituava a servirsi di espressioni materiali, meccaniche e atomistiche. In effetti, l’uso linguistico tramandato può certo essere sufficiente nel dialogo corrente, ma non appena la conversazione si eleva su un piano più intellettuale, si oppone manifestamente alle concezioni superiori formulate da uomini illustri. Citiamo ancora un termine: la parola plan. Dal momento che, per comporre bene i materiali, si rende necessario un certo ordinamento, ideato in precedenza, per indicarlo i Francesi si servono della parola plan, che li conduce però immediatamente al concetto di casa, di città, le quali, per quanto siano costruite con criteri razionali, non potranno mai offrire alcuna analogia con un essere organico. Malgrado ciò, senza riflettere si impiegano le immagini degli edifici e delle strade come metafore; allo stesso tempo, poi, l’espressione unité du plan dà adito a fraintendimenti e a continui dibattiti, tanto da perdere completamente di vista la questione da cui tutto dipende. L’espressione unité du type avrebbe condotto la questione già più vicino alla via corretta, tanto più che si trovava a portata di mano, visto che la parola type era già impiegata nel contesto del discorso, dunque i Francesi avrebbero potuto porla in primo piano, contribuendo così alla composizione del dibattito.

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Ripetiamo qui soltanto ciò che il conte Buffon fa stampare già nel 1753, dichiarandosi favorevole a un dessin primitif et général – qu’on peut suivre très loin – sur lequel tout semble avoir été conçu. Tome IV, p. 379. «C’è forse bisogno di ulteriori testimonianze?»519 A questo punto però potrebbe essere utile tornare alla controversia da cui siamo partiti, esponendo le conseguenze che ha avuto, in ordine cronologico, per quanto ci è possibile. Si ricorderà che l’opuscolo che ci ha fornito l’occasione per esporre quanto detto in precedenza è datato 15 aprile 1830. Tutti i quotidiani vengono immediatamente a conoscenza della questione e si pronunciano in senso favorevole o contrario. Nel mese di giugno gli editori della Revue encyclopédique520 pongono a tema la questione, non senza mostrare il loro favore verso Geoffroy, dichiarandola di portata europea, vale a dire rilevante sia all’interno che all’esterno della cerchia scientifica. Inseriscono così in extenso un saggio dell’eccellente studioso, che merita di essere universalmente conosciuto, in quanto si esprime in modo breve e conciso, secondo le intenzioni più proprie dell’autore. Con quanta passione sia condotto il dibattito si può evincere dal fatto che tale questione scientifico-teoretica tanto distante impegnava e agitava delle menti simili proprio il 19 luglio, in un momento in cui il fermento politico aveva già raggiunto un grado molto elevato. Sia come sia, questa controversia richiamerà la nostra attenzione sui particolari rapporti interni all’Accademia Francese delle Scienze: in effetti, quanto segue può ben essere stato causa del fatto che un tale dissenso interno non fosse venuto alla luce prima di allora. Nei primi tempi le sedute dell’Accademia si svolgevano a porte chiuse: erano presenti solo i membri, che discutevano di esperienze e opinioni. Gradualmente furono ammessi gentilmente come uditori anche i cultori delle scienze, e in seguito non si poterono più tener lontani altri importuni, tanto che si giunse infine a riunirsi in presenza di un ampio pubblico. Se consideriamo con attenzione come va il mondo, apprendiamo che tutte le discussioni pubbliche, siano esse di natura religiosa, politica o scientifica, diventano presto o tardi puramente formali. Gli Accademici francesi si astennero dunque, come si con-

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viene nella buona società, da qualsiasi controversia di fondo che potesse al contempo rivelarsi violenta: non si discuteva delle relazioni presentate, che erano invece sottoposte alla valutazione di alcune commissioni, da cui dipendeva il fatto che all’uno o all’altro saggio capitasse l’onore di essere accolto nelle Memorie dell’Accademia. Questo è quanto ci è noto in generale. Ora però, nel nostro caso, ci viene comunicato che la controversia, una volta scoppiata, avrà un’influenza rilevante anche su una simile consuetudine. Nella seduta dell’Accademia del 19 luglio, cogliamo una risonanza di quelle differenze, e ora entrano in conflitto perfino i due segretari permanenti, Cuvier e Arago521. Finora, come abbiamo appreso, vi era l’abitudine di riferire in ciascuna sessione successiva, soltanto le rubriche delle relazioni esposte in quelle precedenti, tralasciando in tal modo tutto il resto. Il secondo segretario permanente, Arago, aggiunge tuttavia, proprio questa volta, un’eccezione inattesa, esponendo in modo circostanziato l’obiezione avanzata da Cuvier il quale protesta contro simili novità, che comporterebbero inevitabilmente grandi dispendi di tempo, lamentando al contempo l’insufficienza del resumé appena presentato. Geof­froy de Saint-Hilaire ribatte adducendo l’esempio di altre istituzioni in cui la stessa procedura si rivela utile. Questi viene poi a sua volta contestato e infine si ritiene necessario rimettere tale questione a ulteriori riflessioni. In una seduta dell’11 ottobre Geof­froy presenta un saggio sulle forme particolari dell’occipite del coccodrillo e del teleosauro, e contesta a Cuvier alcune omissioni nell’osservazione di tali parti anatomiche; quest’ultimo si alza in piedi, anche se contro la propria volontà, come assicura all’assemblea, e tuttavia costretto da queste accuse, che non può tollerare in silenzio. Si tratta di un esempio notevole, che mostra quanto grandi siano i danni che si producono quando un dibattito riguardante concezioni superiori viene esplicitato in riferimento a dei dettagli. Poco dopo ha luogo una sessione che qui vogliamo ricordare richiamando le parole dello stesso signor Geof­froy, consegnate alla Gazette Médicale522 del 23 ottobre:

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La presente rivista e altri fogli pubblici hanno diffuso la notizia che la diatriba sorta tra me e il signor Cuvier sarà ripresa nella prossima seduta dell’Accademia. Si accorreva per apprendere gli sviluppi annunciati dal mio avversario a proposito della rocca petrosa del coccodrillo. La sala era più affollata del solito e si credeva di vedere tra gli uditori non soltanto persone animate da puro interesse per la questione, provenienti dai giardini della scienza; si notavano invece molti curiosi e si potevano ascoltare i discorsi di una platea universitaria dalle opinioni più divergenti. Questa circostanza, comunicata al signor Cuvier, lo indusse a rinviare la presentazione del suo saggio ad un’altra seduta. Messo a conoscenza della sua intenzione iniziale, mi tenevo pronto a replicare, anche se ero molto soddisfatto nel vedere che la questione si dissolveva in questo modo. Preferisco infatti, piuttosto che abbandonarmi ad una diatriba scientifica, lasciare le mie deduzioni e conclusioni all’Accademia. Avevo messo per iscritto il mio saggio con l’intenzione, nel caso in cui avessi dovuto parlare a braccio sulla questione, di affidarlo in custodia all’archivio dell’Accademia, alla condizione: ne varietur.

È già trascorso un anno da quegli eventi e da quanto detto ci si può convincere che abbiamo mantenuto la nostra attenzione sulle conseguenze di un’esplosione scientifica così rilevante, anche dopo la grande esplosione politica. Tuttavia adesso, perché ciò che si è detto non finisca per risultare del tutto sorpassato, vogliamo spiegare soltanto ciò che crediamo di aver rilevato: presso i nostri vicini francesi le ricerche scientifiche in questo campo vengono trattate, da allora, con maggiore libertà e in modo più ingegnoso. Tra i partecipanti tedeschi523 alla disputa abbiamo trovato citati i seguenti nomi: Bojanus, Carus, Kielmeyer, Mekkel, Oken, Spix e Tiedemann. Se è lecito ora presupporre che i meriti di tali uomini siano riconosciuti e utilizzati, e che il modo di pensare genetico524, a cui i Tedeschi non possono mai sottrarsi, ottenga maggior credito, potremo allora certo rallegrarci attendendoci di proseguire una collaborazione partecipe con il versante francese.

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[A Beuth, Berlino, 4 febbraio 1832]

Propenso quanto mai a ricordare. Gli appassionati d’arte di Weimar si rallegrano insieme a me526 dei magnifici effetti prodotti da cospicui mezzi bene impiegati; tuttavia io, riconoscendo con gratitudine quell’importante missione, vorrei far ricorso a forze simili per uno scopo che già da lungo tempo si mostra al mio animo come altamente degno e auspicabile. Non vi sembri bizzarro il fatto che io citi anzitutto i miei scritti pubblicati: in essi ho celato o esposto in modo problematico, tra paradossi e favole, alcuni argomenti la cui realizzazione mi stava a cuore da tempo. In questo senso oso dunque pregarvi di leggere quanto ho scritto527 nel ventitreesimo volume dell’edizione minore, nel terzo capitolo, da pagina 22 a 40; se questo è già accaduto, non dovrò allora ripetermi, ma solo spiegare in modo del tutto aperto che da tempo mi sento spinto a sperare e ad attendermi seriamente dalla Vostra Illustrissima collaborazione l’attuazione di quella mezza finzione, la realizzazione di quel proposito. Tuttavia adesso, proprio osservando un risultato così magnifico, mi vedo spinto a esprimere infine tale desiderio come una richiesta. Si tratta dell’Anatomia plastica, che a Firenze viene esercitata ad altissimo livello da vari anni, ma che non può essere intrapresa né diffusa in nessun luogo in cui le scienze, le arti, il gusto e la tecnica non siano ben radicati e in viva attività. Non si dovrebbe forse pensare immediatamente a Berlino, dichiarando l’esigenza di un luogo simile? Lì tutto questo si trova riunito, e dunque è possibile realizzare subito un’impresa im-

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portantissima, per quanto complicata, con le parole e con la volontà. Comprensione ed energie dei superiori sono presenti e in grado di realizzarla, quindi si offrono certamente senza esitazione. In una simile questione davvero nazionale, ma vorrei dire cosmopolita, la mia modesta proposta è la seguente: Si mandino a Firenze un anatomista, uno scultore e un colatore di gesso, perché possano informarsi della particolare arte di cui si è detto. L’anatomista imparerà a elaborare i preparati destinati a questo scopo. Lo scultore procederà sempre più in profondità, dalla superficie del corpo umano fino al suo interno, e impiegherà lo stile elevato della sua arte per rendere significativi oggetti che senza un simile aiuto sarebbero ripugnanti e spiacevoli. Il colatore di gesso, già abituato ad adeguare la sua abilità a casi intricati, troverà meno difficoltà ad eseguire il suo incarico: non è estraneo, infatti, a trattare con cere di diversi colori e di tutte le misure, e sarà dunque subito in grado di realizzare ciò che si desidera. Tre persone già formate nel sapere, nell’arte e nella tecnica, ciascuna a suo modo, si informeranno in breve tempo portando a Berlino una nuova prassi esecutiva, i cui effetti saranno incalcolabili. Della riuscita di lavori simili la scienza può servirsi per l’insegnamento e per rinfrescare sempre di nuovo oggetti che possono difficilmente essere fissati. Il medico generico, così come il chirurgo, potranno richiamare alla mente in qualunque momento, in modo agevole e rapido, le immagini necessarie; l’artista figurativo giungerà sempre più vicino ai segreti della figura umana, se essi avranno già attraversato una volta la sua sensibilità d’artista. Considerando dunque tutto ciò che è accaduto e accade in questa materia, abbiamo nel nostro istituto un degno surrogato, che sostituisce idealmente la realtà offrendole, allo stesso tempo, un aiuto. I lavori fiorentini sono costosi e difficili da trasportare a causa della loro fragilità. Alcuni uomini tedeschi ci hanno fornito a Braunschweig un cervello, a Dresda un orecchio. Si nota in questo una silenziosa volontà, una convinzione privata, che mi auguro possa presto essere annoverata tra le grandi questioni di stato. I superiori preposti a tale istituzione generale sono uomini in grado di immaginare, meglio di quanto

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potrei fare io, l’influsso di un’azione simile, che si afferma in vari modi. Vorrei però parlare ancora dell’obbligo a favorire una simile impresa. Nel passaggio citato sopra e tratto dalle mie opere, si fa riferimento alla rarità sempre crescente di cadaveri che si potrebbero offrire al coltello dell’anatomista; tale rarità non potrà che crescere ancora, e in pochi anni sarà dunque molto opportuna un’istituzione formata in modo simile a quella che si auspicava in precedenza. L’umanità si è conquistata gli spazi liberi che la legge lasciava all’arbitrio, e ormai la legge si circoscrive. La pena capitale viene progressivamente eliminata, e le pene più rigide mitigate. Si pensa al miglioramento delle condizioni dei criminali rilasciati, si educano al bene i bambini abbandonati, e si ritiene disumano punire errori e sbagli, nel modo più crudele, con la morte. I traditori della patria possono essere squartati, ma sarà ormai disdicevole dilaniare anatomicamente in mille pezzi le ragazze traviate. Conseguenza di ciò è che le antiche e severe leggi sono state in parte abolite, e tutti offrono il proprio aiuto per eludere anche le leggi più recenti e miti. I terribili uomini della resurrezione in Inghilterra, gli assassinî in Scozia, compiuti per non arrestare il commercio dei cadaveri, sono certamente letti e discussi con stupore e meraviglia, tuttavia, al pari di altre notizie di giornale, sono trattati anche come qualcosa di totalmente distante, che non ci riguarda. Gli insegnanti universitari si lamentano di non poter soddisfare l’intensa avidità di sapere dei loro anatomisti, e invano si impegnano a ricondurre sul vecchio binario questo tipo di insegnamento. Dunque anche gli uomini del mestiere tratteranno con indifferenza le nostre proposte, ma non ci lasceremo fuorviare: si realizzerà l’impresa, e col tempo si perfezionerà l’organizzazione. Occorreranno solo alcuni giovani brillanti e di talento, e l’operazione si metterà facilmente in moto. Avevo scritto fino a questo punto quando, nel primo fascicolo delle miscellanee di Bran, mi capitò tra le mani un documento notevole, di cui non mancherò di fornire un estratto.

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I soffocatori di Londra (si vedano le Miscellanee di Bran528, Primo fascicolo, 1832.) La notizia dell’avvicinarsi del colera a Londra non produsse uno spavento maggiore del terrore di vivere, in seno alla capitale, il rinnovarsi di quegli omicidi che poco tempo prima erano stati commessi a Edimburgo e nel circondario, per i più loschi interessi, da una banda guidata da un certo Burke. La ricomparsa di questo flagello tanto temuto si annunciò con il seguente avvenimento: un piccolo italiano, che apparteneva ad una compagnia di cantanti girovaghi ben nota a Londra, era scomparso da alcuni giorni. Le ricerche dei suoi parenti furono vane, finché improvvisamente in un ospedale fu riconosciuto il suo cadavere, con l’aiuto di alcuni allievi a cui i resurrezionisti (uomini della resurrezione, ladri di cadaveri) volevano venderlo come cadavere appena dissotterrato dalla tomba. Poiché sul cadavere dello sventurato bambino non era possibile scoprire quasi alcuna traccia di morte violenta, non vi era dubbio che fosse caduto ancora vivo nelle mani dei soffocatori, divenendo così oggetto della più terribile speculazione. Si assicurarono immediatamente alla giustizia i presunti colpevoli, e tra gli altri anche un certo Bishop, un vecchio marinaio che abitava sulle rive del Tamigi. Durante una perquisizione domiciliare effettuata in sua assenza, la moglie fu spinta a confessare che l’abitazione era residenza di una banda di resurrezionisti, e che quotidianamente vi si portavano dei cadaveri da vendere agli ospedali. Si trovò una lettera, scritta da Bishop ad un allievo dell’ospedale al quale erano soliti vendere i loro cadaveri, in cui si legge: “Mi fareste la cortesia, mio signore, di farci pervenire degli aiuti, insieme ai Vostri signori colleghi? Non dimenticate che, per una modestissima ricompensa, ed esponendoci ai più gravi pericoli, Vi abbiamo fornito gli strumenti per perfezionare i Vostri studi.” Da indagini più accurate risultò che il giovane italiano non era stato l’unico essere umano a scomparire improvvisamente: bambini abbandonati dai loro genitori, che vivevano di elemosina o di espedienti, non tornarono più nei luoghi che frequentavano abitualmente. Non si dubitò che anch’essi fossero caduti vittime dell’avidità di quei mostri, i quali vogliono rendersi a qualunque prezzo fornitori delle sale di dissezione. Il presidente del consiglio ecclesiastico della parrocchia di Saint-Paul promise, davanti all’ufficio di polizia di Bow Street, una ricompensa di 200 sterline a chi avesse condotto la giustizia sulle tracce di questi criminali. La signora King, che abita esattamente di fronte alla casa di Bishop, nel quartiere noto con il nome di ‘I giardini della Nuova Scozia’, afferma di aver visto il piccolo italiano il 4 novembre al mattino

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presto nei pressi dell’abitazione di Bishop. Aveva una grande scatola con una tartaruga viva, sulla quale portava una gabbia con dei topolini bianchi. I figli della signora King dichiarano di averle chiesto due soldi per farsi mostrare dal piccolo Savoiardo quegli strani animaletti, ma la madre non avrebbe acconsentito. La madre e i bambini descrissero con la massima precisione l’abito del piccolo Savoiardo, che portava un gilet, o una giacca, blu, dei pantaloni scadenti, tutti bucherellati e lisi, grandi scarpe e un cappello di lana in testa. La signora Augustine Brun, una Savoiarda che serviva da interprete dell’italiano Perragalli, dichiarò quanto segue: “Circa due anni fa, al momento in cui lasciai il Piemonte, i genitori del piccolo italiano mi affidarono questo bambino, di nome Joseph Ferrari. Lo portai con me in Inghilterra, e lo sorvegliai per nove o dieci mesi. Lo misi poi a fare l’apprendista presso uno spazzacamino per due anni e mezzo, ma scappò e diventò un cantante di strada. Joseph Ferrari era un bambino molto intelligente, e con i profitti del suo lavoro acquistò una grande scatola, una gabbia, una tartaruga e dei topolini bianchi, e così si guadagnava piuttosto bene il pane per le strade di Londra.” Il modo in cui questi assassini praticavano i loro crimini non somigliava affatto al metodo di Burke. Si servivano di narcotici mescolati nel vino per impadronirsi dell’individuo al cui cadavere miravano, quindi lo portavano in una fontana del giardino, dove lo appendevano per i piedi al di sopra dell’acqua, fin quando il sangue, affluendo alla testa, non lo soffocava. In questo modo uccisero un giovane del Lincolnshire, la signora Frances Pigburn e questo piccolo cantante italiano, Ferrari. Dal momento in cui fu pronunciata la sentenza capitale, si produsse un grande mutamento nell’aspetto esteriore dei prigionieri. Estremamente abbattuti, essi non potevano che rabbrividire pensando che il loro corpo sarebbe stato consegnato alla dissezione: un sentimento molto insolito per uomini che avevano tanta dimestichezza con i delitti, in quanto costanti fornitori delle sale anatomiche. È indescrivibile la scena che avvenne alla comparsa dei criminali sul patibolo. La folla si precipitò sulle barriere, ma queste resistettero al furibondo assalto, e i poliziotti riuscirono a porre un freno a quei sommovimenti. Urla furibonde, accompagnate da fischi e grida di urrah, si innalzarono all’improvviso da questa enorme massa umana, e durarono fin quando il boia non ebbe concluso la sua preparazione. Un minuto più tardi la fune fu sollevata in alto, i condannati esalarono l’ultimo respiro, e il popolo acclamò con grida di giubilo quello spettacolo terribile. Si stima che il numero delle persone radunate presso l’Old-Bayley raggiungesse le 100.000 unità.

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Questa sventura accadde negli ultimi mesi dell’anno passato, e dobbiamo temere ancora altri eventi simili, come fa presagire l’alta ricompensa offerta per questo motivo dall’onesto presidente del consiglio ecclesiastico. Chiunque si affretterebbe a procedere in questa direzione, se avesse anche soltanto la minima speranza di allontanare simili atrocità. A Parigi non si sono ancora verificati casi simili; la Morgue ne sente forse l’esigenza, anche se si dice che gli anatomisti francesi sprechino molte salme. Mentre meditavo di concludere qui, ho pensato che questa faccenda darà occasione a diverse reazioni e polemiche, e dunque sarà opportuno ricordare quanto è già avvenuto nelle scienze seguendo la via raccomandata. Fin dai tempi di Romé de Lisle si è ritenuto necessario mostrare concretamente, servendosi di modelli, la varietà dei cristalli, con le infinite variazioni e deviazioni delle loro forme. Simili oggetti sono stati offerti e riprodotti in tutte le grandezze, in vari modi e facendo uso dei materiali più diversi. A Pietroburgo la grande pepita d’oro rinvenuta negli Urali è stata colata in gesso, e si trova davanti a noi, dorata, come se si trattasse dell’originale medesimo. A Parigi si realizzano allo stesso modo copie, colate in gesso e colorate dal vero, dei rari fossili di corpi organici di età preistorica, che sono stati discussi per la prima volta con grande chiarezza dal barone Cuvier. Ma di questo si trovano certamente nei Musei di Berlino diversi esempi mineralogici, zoologici e anatomici, che legittimano pienamente il mio desiderio di offrire in un quadro completo e ampio ciò che finora è stato intrapreso solo in singoli casi. Già vent’anni fa e più viveva a Jena un giovane e attivo docente, grazie al quale speravamo di realizzare quel desiderio, dal momento che egli lavorava, di propria iniziativa e senza ricevere decisi incoraggiamenti, a delle curiosità particolarmente patologiche, tra cui in special modo dei casi di sifilide, impegnandosi a realizzarne delle rappresentazioni in cera colorata, con la massima precisione. Alla sua morte prematura, tali esemplari sono giunti al Museo anatomico di Jena, dove sono conservati in forma riservata, non essendo ben presentabili pubblicamente, in sua memoria, e come modelli da offrire per un’auspicabile emulazione futura.

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[Giobbe, 9, 11. Con questo motto Goe­the allude alla necessità di considerare la «formazione e trasformazione delle nature organiche» nel più vasto contesto della creazione, soggetto alle leggi della metamorfosi. Un’ulteriore testimonianza, dunque, della tendenza goethiana a veder trascorrere le forme viventi nel loro insieme, senza scomporle in parti inanimate, per rendere possibile l’esame del loro agire.] 2 [Der Inhalt bevorwortet. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. I, Heft I (1817), pp. xv-xix. La presente versione segue il testo di LA I 9, pp. 11-14. Il manoscritto non è conservato. Nei diari di Goe­the si trovano riferimenti al lavoro per questa prefazione alle date 19.VI.1816 e 23.III.1817. Il 3.IV.1817 l’autore annota di aver spedito la «premessa al contenuto della Morfologia» alla tipografia jenese di Frommann. Rilevante è, in questo breve scritto, il procedimento di carattere storico seguito da Goe­the, che vede intrecciate la storia della scienza con la storia dei propri studi.] 3 una simile avversione] probabilmente Goe­the scriveva qui sotto l’effetto della delusione prodotta in lui dai pareri negativi che avevano accolto la Farbenlehre, dal momento che lo scritto sulla metamorfosi era stato invece recensito con interesse dai contemporanei, come l’autore stesso ricorda (cfr. pp. 467 sg. e 767-786). 4 teoria dell’inscatolamento] il termine «Einschachtelungslehre» indicava, al volgere del Settecento, la concezione evoluzionistica, dominante e contrapposta a quella epigenetica della metamorfosi. 5 Linné] si allude qui alla teoria dell’anticipazione (per cui cfr. le pp. 132 sg. e la nota a p. 387). 6 una serie di esperimenti] nell’estate del 1796: cfr. i testi alle pp. 257-283. 7 metamorfosi degli insetti] si riferisce alle osservazioni condotte nel biennio 17961798: cfr. pp. 285-308. 8 anatomia comparata degli animali] si riferisce agli abbozzi per un tipo osteologico, relativi agli anni 1795-1796: cfr. pp. 207-254. 9 Buffon e Daubenton] si riferisce alla Histoire naturelle, pubblicata a Parigi a partire dal 1749, che costituì un riferimento fondamentale per gli studi di Goe­the. 10 Camper [...] Sömmerring [...] Merck] Goe­the aveva concepito il suo saggio sull’osso intermascellare dapprima in forma di lettera a Samuel Thomas Sömmerring, che 1

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pregava di spedire poi un esemplare di pregio del lavoro all’anatomista olandese Petrus Camper; Johann Heinrich Merck faceva parte anch’egli della cerchia dei collaboratori alla realizzazione di quest’opera. 11 studi di fisiognomica] cfr. il contributo di Goe­the ai Frammenti fisiognomici di Lavater, qui alle pp. 5-9. 12 Loder] Justus Christian Loder era stato per Goe­the, fin dal 1781, insegnante e consulente di anatomia a Jena, aveva contribuito alla realizzazione di una traduzione latina del saggio sull’osso intermascellare e aveva mantenuto un legame di amicizia con Goe­the anche dopo aver lasciato Jena nel 1803. 13 Diderot] Goe­the allude qui alle conversazioni tra Diderot e d’Alembert, che furono pubblicate soltanto nel 1830 (Entretien entre d’Alembert et Diderot. Suite de l’entretien). Nell’ultima di queste ironiche conversazioni, tra il medico Bordeu e Mlle de Lespinasse si tratta, tra gli altri temi, della questione della mescolanza tra le specie in relazione alla loro physis. 14 la differenza tra gli animali e l’uomo] differenza che si sospettava dipendesse dalla presenza o assenza dell’osso intermascellare. 15 la necessità di stabilire un tipo] cfr. le conferenze che Goe­the tenne negli anni 1795-1796, i cui testi sono qui tradotti alle pp. 207-254. 16 Herder] Nelle Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit Johann Gottfried Herder aveva posto la storia della cultura sulla base della storia naturale, e descriveva in tale contesto lo sviluppo della natura. 17 con altri amici] Goe­the allude qui alla cerchia che si era costituita a Jena a partire dal 1795, che comprendeva Schiller, i fratelli von Humboldt, Batsch, Loder e più tardi Schelling, oltre a nuovi collaboratori come Riemer, Schelver, F.S. Voigt e Nees von Esenbeck, che accompagnarono i suoi lavori con interesse, fornendo vari consigli. 18 [[Zur Metamorphose der Pflanzen] J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. I, Heft I (1817), pp. XX-XXXII e 63-79. La presente versione segue il testo di LA I 9, pp. 15-22 e 62-72. L’unico manoscritto conservato è quello dell’elegia sulla metamorfosi delle piante, nel contesto delle liriche di Goe­the. Secondo i diari l’autore iniziò il lavoro a questi saggi nell’ottobre 1816 e proseguì fino al maggio successivo. L’elegia era stata composta già il 17/18.VI.1798, nel contesto di un poema didascalico di proporzioni maggiori, concepito a seguito delle conversazioni con Schiller e Knebel. Gli altri contributi furono rimaneggiati e ampliati in anni successivi, in vista dell’edizione franco-tedesca del saggio sulla metamorfosi, pubblicata nel 1831.] 19 ingresso] Goe­the giunse a Weimar il 7.XI.1775 con il giovane duca Carl August, venne immediatamente introdotto nella buona società locale e partecipò attivamente alle manifestazioni organizzate dal duca. 20 Sckell] Si intende qui Johann Georg Christian Sckell (1721-1778) di Eisenach, membro di una famiglia di giardinieri, ricordata anche in altri passi, e che prendeva parte, in qualità di ispettore forestale, alle manifestazioni del ducato di Sassonia-Weimar. 21 Wedel] Otto Joachim Moritz von Wedel (1751-1794) era dal 1776 ciambellano e ispettore forestale al servizio del duca di Weimar. 22 Buchholz] Wilhelm Heinrich Sebastian Buchholz (1734-1798), farmacista, medico e chimico a Weimar. 23 Göttling] Johann Fried­rich August Göttling (1753-1809), aiutante nella farmacia di Buchholz, studiò medicina a Göttingen e ottenne la prima cattedra di chimica, farmacia e tecnologia a Jena, alla cui istituzione si interessò lo stesso Goe­the. 24 giovane principe] L’interesse del duca Carl August per le scienze naturali era notevole, ed egli possedeva in particolare ampie conoscenze in ambito botanico.

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Goe­the descrive, in un saggio, le istituzioni botaniche che si devono al giovane sovrano (cfr. pp. 550-555). 25 Linné] Carl von Linné, Termini botanici explicati, Leipzig 1767, e Id., Fundamenta botanica, hg. von Johannes Geßner, Halle 1747. Il nome di Shakespeare allude qui all’immagine dell’artista in quanto genio creatore, Spinoza è evocato come filosofo della creazione naturale, e Linné, in questo contesto, rappresenta il ricercatore che tenta di comprendere l’ordine creato nella natura entro il proprio sistema. Il 7.XI.1816 Goe­the scriveva a Zelter: «In questi giorni ho riletto Linné, e sono intimorito di fronte a quest’uomo straordinario. Ho imparato infinite cose da lui, non solo di botanica. Oltre a Shakespeare e Spinoza, non immaginavo che un altro uomo del passato mi avrebbe influenzato così tanto.» 26 Prätorius, Schlegel e Rolfink] Hieronymus Prätorius (1595-1651), teologo; Paul Marquard Schlegel (1605-1652), medico e botanico; Werner Rolfink (15991673), medico, anatomista e botanico. 27 Flora Jenensis di Rupp] Heinrich Bernhard Ruppe (1688-1719), Flora Jenensis, Frankfurt 1718. 28 famiglia Dietrich] Adam Dietrich (1711-1782), agricoltore esperto di piante erbacee, capostipite della famiglia. Suo figlio si chiamava Johann Adam Dietrich (1739-1794). Si veda, in proposito, Schmid 1935. 29 Fried­rich Gottlieb Dietrich] Nipote del capostipite (1765-1850), accompagnò Goe­ the nel 1785 a Karlsbad; nel 1792 divenne giardiniere del duca di Weimar, e nel 1801 direttore del giardino botanico di Eisenach, consigliere del granduca e professore. Collaborò con Goe­the nelle sue osservazioni sull’azione della luce (cfr. supra, pp. 396 sg.). 30 condizioni esterne] Queste rilevanti osservazioni sulla variabilità e costanza delle specie si imposero a Goe­the in particolare durante il viaggio in Italia. 31 l’arnica montana […] genziane] l’arnica, pianta officinale del gruppo delle composite, e in particolare la genziana, insieme a molte altre specie della famiglia delle genzianacee, frequenti in ambiente montano, hanno costantemente attirato l’attenzione di Goe­the. 32 Batsch] August Johann Georg Karl Batsch (1761-1802) studiò scienze naturali a Jena, e dal 1788 fu professore di storia naturale in quella stessa università; con il sostegno di Goe­the vi istituì un giardino botanico, si impegnò a realizzare un sistema naturale delle piante sulla falsariga di quello di Jussieu, e fu consigliere di Goe­the su questioni di botanica, oltre a fondare una società per la ricerca scientifico-naturale. 33 Büttner] Christian Wilhelm Büttner (1716-1801), farmacista e naturalista, professore a Göttingen, nel 1783 si trasferì a Jena con la sua vasta biblioteca, che alla sua morte donò alla locale università. 34 sulla strada indicata da Linné] Goe­the definiva «artificiale» il sistema di classificazione delle piante formulato da Linné, basato sulla disposizione, sul numero e sulla modalità di crescita degli stami e dei carpelli. Tale sistema appariva allo stesso Linné un semplice strumento di ripiego, e tuttavia era così semplice da applicare che si mantenne a lungo, anche accanto ai sistemi «naturali», che raccolgono le specie in famiglie in base alle caratteristiche dei fiori, dei frutti e degli organi vegetativi. 35 stipula] organo fogliaceo, posto all’intersezione con il caule, che può assumere le funzioni delle foglie vere e proprie. 36 sarebbe necessaria un’intera vita] il sistema di Linné, in cui sono esaminate circa 2000 specie, è stato pubblicato per la prima volta da Antoine Laurent de Jussieu (1748-1836) con il titolo Genera plantarum secundum ordines naturales disposita, Paris 1789.

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la moneta evangelica] cfr. Luca, 15, 8. Astruc] Jean Astruc (1684-1766), anatomista, dal 1730 medico di Luigi XV (non XIV, come si legge nel testo); scrisse anche un’opera critica di interpretazione del Pentateuco. 39 Chladni] Ernst Florens Fried­rich Chladni (1756-1827) si era occupato di acustica, e aveva indagato anche la provenienza e la natura dei meteoriti. 40 Uno dei miei amici romani amanti dell’arte] Secondo le Mitteilungen di Riemer, il riferimento è a Johann Heinrich Wilhelm Tischbein (1751-1829), che negli anni 1801-1808 aveva abitato ad Amburgo. Non sono conservate sue comunicazioni indirizzate a Goe­the, ma esiste una lettera alla duchessa madre Anna Amalia, in cui Tischbein descrive tali metamorfosi come qualcosa che gli richiama alla mente gli arabeschi contemporanei, in particolare quelli realizzati dall’amburghese Philipp Otto Runge (cfr. LA II 9A, p. 356). 41 [La lirica, 80 versi in distici elegiaci, è stata composta nel 1798 e dedicata a Christiane Vulpius; Goe­the la pubblicò anche due anni dopo, nel 1800, insieme ad altre elegie. Con l’espressione «abstrakte Gärtnerei» l’autore allude al passaggio dall’indagine botanica empirica alla metamorfosi delle piante. «Ansicht der Dinge» e «höhere Welt» si riferiscono all’esistenza naturale e alla visione più elevata, con gli occhi della mente. Il contenuto dell’elegia, e in particolare i vv. 9 sgg., può essere letto in parallelo ai paragrafi del saggio sulla metamorfosi delle piante (vv. 11-20: §§ 10-18; vv. 21-32: §§ 19-28; vv. 33-44: §§ 29-38; vv. 45-48: §§ 39-45; vv. 46-56: §§ 46-73; vv. 57 sg.: §§ 74-83; vv. 59-62: §§ 112-123).] 42 con le parole di Bonnet] Nel 1797 Goe­the distrusse le lettere che aveva ricevuto fino al 1792, dunque non è possibile verificare reazioni precedenti. Il naturalista svizzero Charles Bonnet (1720-1793), nella sua Contemplation de la nature, Amsterdam 1764, si schierava in favore della teoria della preformazione, rifiutata invece da Goe­the. 43 malvagità radicale] si riferisce al concetto del male per il male, definito da Kant in Die Religion innerhalb der bloßen Grenzen der Vernunft, Königsberg 1793. 44 Karl von Dalberg] Karl Theodor Anton Maria von Dalberg (1744-1817), dignitario ecclesiastico e civile, negli anni 1772-1787 fu governatore a Erfurt e intrattenne contatti con Goe­the, Schiller, Wieland e Herder. 45 recensione favorevole nelle «Göttinger Anzeigen» del febbraio 1791] cfr. Johann Fried­ rich Gmelin, in «Göttingische Anzeigen von gelehrten Sachen», 27. St. (1791), p. 269. 46 in Slesia, nella Champagne e fino all’assedio di Magonza] rispettivamente negli anni 1790, 1792 e 1793. 47 il buon genio della bella grafia] si riferisce allo scrivano Christian Georg Carl Vogel (1760-1819). 48 un suo omonimo] cfr. lo scritto che segue: Entdeckung eines trefflichen Vorarbeiters, pp. 435-437. 49 [Entdeckung eines trefflichen Vorarbeiters. Caspar Fried­rich Wolff über Pflanzenbildung. Wenige Bemerkungen. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. I Heft I (1817), pp. 80-87; si seguono qui i testi in LA I 9, pp. 73-78. Non sono conservati i relativi manoscritti. In base ai diari di Goe­the si può datare il lavoro a questi saggi tra l’ottobre del 1816 e il maggio 1817. I lavori dell’anatomista Caspar Fried­rich Wolff (1734-1794) erano stati segnalati a Goe­the per la prima volta da Herder negli anni 1784-1785. In quanto rappresentante dell’allora minoritaria teoria epigenetica, contrapposta alla posizione preformista, Wolff aveva condotto delle indagini al microscopio studiando in particolare i punti di vegetazione delle piante, e stabilendo che tutti gli organi vegetali appaiono originariamente come «gocce» di uguale forma. Egli ne de37 38

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duceva poi che anche gli organi dei fiori devono essere considerati delle foglie trasformate, esponendo un’opinione che anticipava la teoria della metamorfosi goethiana. Tuttavia, se l’intento di Wolff era di contrastare la teoria preformazionista, Goe­the mirava a dimostrare la relazione che lega i differenti organi ad un organo generale, la «foglia trascendentale», alla sua contrazione e dilatazione. I due autori spiegavano in modi diversi anche la sequenza di sviluppo degli organi fogliari: Wolff assume che le forze vegetative diminuiscano nel progresso verso la fioritura, mentre Goe­the ritiene che abbia luogo una intensificazione («Steigerung») tramite raffinamento dei succhi della pianta.] 50 1733] L’anno di nascita corretto è il 1734, come documentato da Uschmann 1955. 51 Theoria generationis] Apparsa nel 1759 ad Halle, vide una seconda edizione nel 1774. Una traduzione tedesca, col titolo Theorie von der Generation, apparve a Berlino nel 1764 (ristampata, a cura di Robert Herrlinger, a Hildesheim nel 1966). 52 I suoi colleghi] Citazione dall’elogio funebre pronunciato dai membri dell’Accademia di Petersburg, e pubblicato nei «Nova Acta», 12 (1794). 53 Meckel] Johann Fried­rich Meckel (1781-1833), anatomista di Halle, tradusse il saggio di Wolff, De formatione intestinorum, in «Commentarii Acad. Petropol.» 1213 (1768-1769). 54 dalla traduzione di Meckel] nella traduzione di Meckel citata alla nota precedente, il passo si trova alle pp. 57 sgg. 55 occhi della mente [...] occhi del corpo] allusione al metodo con cui Goe­the attuava il passaggio alla considerazione del tipico, a differenza del puro empirismo di Wolff. 56 [Glückliches Ereignis. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. I Heft I (1817), pp. 9096; si segue qui il testo di LA I 9, pp. 79-83. Esiste solo una trascrizione manoscritta postuma, realizzata in vista della Ausgabe letzter Hand, in cui il saggio compare nel vol. 60, alle pp. 252-258. Nel 1817, in concomitanza con la prima stampa dei quaderni di morfologia, fu pubblicato senza modifiche nel «Morgenblatt für gebildete Stände» del 9.IX. e in ottobre sul «Journal des Luxus und der Moden». Se ne trovano varianti negli Annalen e negli scritti minori autobiografici di Goe­the, con il titolo Erste Bekanntschaft mit Schiller. Si trovano testimonianze del lavoro a questo scritto risalenti al maggio 1817 (nel diario e in una lettera al filologo jenese Heinrich Karl Abraham Eichstädt), mentre in una lettera del 16.IX.1817 Charlotte von Schiller ringrazia Goe­the per averle inviato il testo. Il «lieto evento» qui narrato ebbe luogo il 20.VII.1794 e forse anche nei giorni immediatamente successivi. Goe­the e Schiller si conoscevano personalmente già dal 1788, e il 13.VI.1794 Schiller aveva chiesto a Goe­the di collaborare alle Horen; la risposta positiva di Goe­the giunse il 23.VII., in un periodo segnato da conversazioni di estetica e di scienza naturale definite da Goe­the caratteristiche di un’epoca storico-spirituale. Il resoconto che Goe­the qui presenta, parte dell’autobiografia scientifica inserita nei suoi scritti morfologici, chiude il primo dei quaderni Zur Morphologie. Cfr. in proposito anche Müller-Seidel 1973.] 57 alcune opere poetiche] il romanzo Ardinghello und die glückseligen Inseln di Johann Jakob Wilhelm Heinse (1746-1803) era apparso nel 1787, mentre il dramma di Schiller, Die Räuber, era stato pubblicato nel 1781. 58 i miei amici più stretti] Il pittore svizzero Johann Heinrich Meyer (1760-1832) aveva stretto amicizia con Goe­the durante il viaggio in Italia di quest’ultimo, dal 1791 abitò con lui a Weimar e dal 1807 fu direttore della locale accademia di disegno. Anche lo scrittore Karl Philipp Moritz (1757-1793) era stato con Goe­ the a Roma, e visse in seguito a Berlino. Su Johann Heinrich Wilhelm Tischbein

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cfr. supra, nota 40 a p. 858. Anche Fried­rich Bury (1763-1823) faceva parte della colonia di pittori tedeschi a Roma. 59 evitavo Schiller] Il Don Carlos apparve nel 1787, il saggio Über Anmut und Würde nel 1793. Goe­the disapprovava il fatto che Schiller non volesse riconoscere alla «semplice natura» dignità e grazia, senza l’«azione di uno spirito sensibile» e della libertà umana. 60 Dalberg] cfr. supra, nota 44 a p. 858; a Dalberg Schiller aveva dedicato il saggio Über Anmut und Würde. 61 una società di naturalisti] Istituita da August Johann Georg Karl Batsch nel 1793. Goe­the fu eletto suo presidente nel 1804. 62 [Urworte orphisch. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. I, Heft 2 (1820), pp. 97-99. Si segue qui il testo di LA I 9, pp. 87 sg. La lirica si trova manoscritta in una lettera di Goe­the a Sulpiz Boisserée, del 21.V.1818, nella grafia del bibliotecario jenese Christian Ernst Fried­rich Weller, conservata nel Nachlass Boisserée (UB Köln), nonché in altre trascrizioni manoscritte predisposte per la stampa. Alla pubblicazione nei quaderni di morfologia seguì, nello stesso anno, un’edizione commentata in Über Kunst und Altertum, mentre nella Ausgabe letzter Hand queste strofe si trovano ordinate nel gruppo di poesie intitolato Gott und Welt. Alla data 7.X.1817 l’autore annota nei suoi diari: «Orphische Begriffe», l’8.X. «Fünf Stanzen ins Reine geschrieben», nello stesso periodo dunque in cui aveva iniziato a lavorare al secondo quaderno Zur Morphologie. La sequenza delle stanze, i cui titoli greci sono tradotti, in uno dei manoscritti, con i termini: «Individualität, Charakter / Zufälliges / Liebe, Leidenschaft / Beschränkung, Pflicht / Hoffnung», fu stimolata dalla lettura dei filologi classici Gottfried Hermann, Fried­rich Creuzer e Georg Zoëga. Le parole sacre orfiche, originarie, indicano una metamorfosi delle costellazioni vitali che si condizionano reciprocamente nella loro successione, cominciando dall’individualità che è data, e tuttavia è in grado di svilupparsi, che sembra liberarsi dai suoi confini ma resta trattenuta, per poi dilatarsi di nuovo, in un’alternanza di sistole e diastole.] 63 [Müsset im Naturbetrachten [...] Freuet euch des wahren Scheins [...]. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. I, Heft 2 (1820), p. 100. Si segue qui il testo di LA I 9, p. 88. La prima delle due liriche, in forma di motto, era stata scritta da Goe­the per il libro di famiglia di Julie von Egloffstein; entrambe sono trasmesse dal manoscritto predisposto per la Ausgabe letzter Hand (Bd. 3, p. 96), nel gruppo di poesie Gott und Welt, sotto il titolo Epirrhema.] 64 il sacro, aperto mistero] Allusione al concetto polare di «öffentliches Geheimnis», che si trova sotto gli occhi dell’uomo e deve tuttavia essere decifrato, quando lo sguardo dell’osservatore resta diretto all’intero. 65 Nessun essere vivente è un’entità unica / ma è sempre molteplice] Cfr. supra, p. 360 (Die Absicht eingeleitet): «Jedes Lebendige ist kein Einzelnes, sondern eine Mehrheit» e p. 250 (Vorträge über die drei ersten Kapitel): «viele Teile [...] werden wieder als ebenso viele Ganze [...] hervorsprossen». 66 [Zwischenrede. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. I, Heft 2 (1820), pp. 101 sg.; si segue qui il testo di LA I 9, p. 89. Il manoscritto non è conservato. Il passaggio dall’introduzione poetica ai successivi contributi è segnato da questi brevi cenni autobiografici, che si chiudono con i versi latini tratti da Tommaso Campanella, De sensu rerum et magia, Frankfurt 1620, Liber quartus, 20, p. 369.] 67 [Einwirkung der neueren Philosophie. Anschauende Urteilskraft. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. I, Heft 2 (1820), pp. 103-111; la presente versione si basa sul testo di LA I 9, pp. 90-96. Il manoscritto non è conservato. Secondo i diari Goe­the intraprese uno studio intensivo della filosofia kantiana nella primavera del 1817, ma già il 3 gennaio dello stesso anno aveva inviato alla duchessa Maria Paulowna una sintesi del pensiero di Kant redatta da Franz Volk-

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mar Reinhard, annotando la sua impressione secondo cui, accanto a sensibilità, intelletto e ragione, non si deve dimenticare la fantasia, quale forza propria della facoltà immaginativa, che egli reputava fondamentale anche per le altre facoltà dello spirito. Cfr. anche la conversazione con Eckermann dell’11.IV.1827.] 68 la storia della filosofia di Brucker] Jakob Brucker, Historia critica philosophiae a mundi incunabulis, 1742-1744; un compendio di quest’opera, dal titolo Institutiones historiae philosophicae, Leipzig 1756, si trova nella biblioteca di Goe­the. 69 Moritz] Karl Philipp Moritz, Über die bildende Nachahmung des Schönen, Braunschweig 1788. 70 Nel corso dei miei studi di fisica] cfr. in particolare il saggio Der Versuch als Vermittler von Objekt und Subjekt. 71 La Critica della ragion pura di Kant] nella biblioteca di Goe­the si trova una copia della terza edizione dell’opera, Riga 1790, con annotazioni e sottolineature (cfr. WA II 11, p. 377 e II 13, p. 463). 72 Herder] La critica di Herder a Kant si trova espressa in particolare nell’opera Eine Metakritik zur Kritik der reinen Vernunft, Leipzig 1799 e nella Kalligone, Leipzig 1800. 73 Critica del Giudizio] nella biblioteca di Goe­the si trova una copia tratta dalla prima edizione, Berlin, Libau 1790, con annotazioni a margine. 74 cause finali] cfr. in part. i §§ 80 sgg. della Kritik der Urteilskraft. 75 i miei rapporti con Schiller] Goe­the racconta qui come proseguirono i suoi rapporti con Schiller a seguito del «lieto evento» descritto nell’omonimo breve scritto (supra, pp. 445-449). Il saggio Über naive und sentimentalische Dichtung apparve nel 1795. 76 Niethammer] Fried­rich Immanuel Niethammer (1766-1848), filosofo e teologo, fu professore a Jena negli anni 1793-1803, e intrattenne contatti con Goe­the in particolare attorno al 1800. 77 quell’epoca per me così importante] al periodo dei rapporti personali e scientifici con il circolo di Jena Goe­the ha sempre attribuito grande importanza, e ricordi relativi a questi anni ricorrono spesso nei suoi scritti. 78 «Possiamo concepire [...] contraddizione»] citazione dal § 77 della Kritik der Urteils­ kraft, trad. it. di A. Gargiulo, Laterza 1994, pp. 226-227. 79 avventura della ragione] nel § 80 della Kritik der Urteilskraft (nota 1) Kant chiama «ardita avventura della ragione» l’ipotesi di chi ritiene che «certi animali acquatici si trasformino a poco a poco in animali palustri, e questi, dopo alcune generazioni, in animali terrestri.» (trad. it. cit., p. 238). 80 [Bedenken und Ergebung. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. I, Heft 2 (1820), pp. 112 sg.; si segue qui il testo di LA I 9, pp. 97 sg. Si conserva soltanto il manoscritto relativo ai versi con cui si chiude il testo, e che era stato trascritto come modello per la stampa della Ausgabe letzter Hand (Bd. 3, p. 100), in cui la lirica compare nel gruppo Gott und Welt con il titolo Antepirrhema.] 81 idea ed esperienza] cfr. le annotazioni del diario datate 5.IV.1817 e 1.VII.1799, nonché la prefazione alla parte didattica della Farbenlehre del 1807, in cui si illustra in che modo le esperienze si mutano in teorie, per mezzo di osservazioni e connessioni. 82 un’antica canzone] cfr. Faust, V, vv. 1922-1927. 83 [Bildungstrieb. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. I, Heft 2 (1820), pp. 114-116; si segue qui il testo di LA I 9, pp. 99 sg. Il manoscritto relativo non è conservato. Anche questo saggio documenta la lettura e il costante confronto con il pensiero di Kant, come risulta anche da alcune annotazioni dei diari dell’autore (ad es. 27.VI.1817: «Bildungstrieb bei Veranlassung einer Stelle aus Kant»). In partico-

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lare, il riferimento è al § 81 della Kritik der Urteilskraft, in cui Kant si richiama allo scritto di Johann Fried­rich Blumenbach Über den Bildungstrieb und das Zeugungsgeschäfte, Göttingen 1781, a proposito del problema della generazione e dello sviluppo degli organismi viventi. Blumenbach rifiutava la concezione preformazionista e riteneva che «in tutte le creature viventi risiedesse un particolare impulso innato, attivo durante l’intero arco della loro esistenza, che le induce ad assumere inizialmente una determinata forma, a conservarla e riprodurla, se possibile, prima della dissoluzione». L’impulso alla formazione si fonda dunque su specifiche forze di natura organica e su quei princìpi che presiedono al conferimento di forma che lo stesso Goe­the aveva indagato nel suo saggio sulla metamorfosi.] 84 «Nessuno [...] l’abuso»] Kritik der Urteilskraft, § 81 (trad. it. cit., p. 242). 85 Caspar Fried­rich Wolff] cfr. Entdeckung eines trefflichen Vorarbeiters, supra, pp. 435441; Albrecht von Haller (1708-1778), medico, botanico e matematico svizzero, rappresentante delle posizioni preformazioniste, aveva definito forze meccanicofisiologiche come la sensibilità, l’irritabilità e così via. Charles Bonnet (17201793) aveva invece accennato ad una meccanica dello sviluppo degli esseri viventi. Entrambe le posizioni si basavano sul concetto di evoluzione, mentre l’ipotesi di Wolff considerava la vis essentialis come una forza che preserva le specie vegetali e animali grazie all’immagazzinamento di materia, senza far ricorso ad alcuna forma predeterminata. 86 [[Zur Metamorphosenschrift]. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. I, Heft 2 (1820), pp. 117-144; la presente versione si basa sul testo di LA I 9, pp. 101-118. I manoscritti relativi non sono conservati. Una prima traccia del lavoro a tali testi si trova in uno dei diari, datata alla fine di aprile del 1817.] 87 Tre recensioni favorevoli] Goe­the cita dapprima solo due delle recensioni, mentre la terza è discussa nel testo seguente, pp. 468 sgg., nonché nel successivo Wirkung dieser Schrift, qui alle pp. 768 sg. 88 due recensioni] l’ignoto autore della recensione apparsa sulle «Gothaische gelehrte Zeitungen» 31 (1791), pp. 313-317, riconosce in particolare la profondità delle ricerche del poeta e filosofo Goe­the, loda la pertinenza degli esempi da lui scelti ed esprime alte aspettative per i futuri lavori dell’autore in campo scientifico. Autore della recensione apparsa nella «Allgemeine Deutsche Bibliothek» Bd. 116, 2. Teil, p. 477, Kiel 1794, era Joachim Dietrich Brandis (1762-1845), che apprezza lo sguardo che Goe­the getta nella «azione effettiva delle forze naturali», auspicando una prosecuzione del lavoro sulla metamorfosi. 89 comportarsi nel modo più vile nei miei confronti] allude all’accoglienza negativa ottenuta dalla Farbenlehre, per cui cfr. ad esempio la sua lettera a Woltmann del 31.III.1815. 90 in una enciclopedia di Gotha] si riferisce a Georg Christoph Heim, Der Botaniker, oder compendiöse Bibliothek alles Wissenswürdigen aus dem Gebiete der Botanik, Gotha e Halle 1793, in cui alle pp. 15-28 si trova un estratto dal saggio di Goe­the. 91 Jussieu] Antoine Laurent de Jussieu, Genera plantarum, Paris 1789; a p. xvi dell’introduzione di quest’opera si accenna alla «conversio» di parti del fiore, ma non si fa uso del termine ‘metamorfosi’. 92 Usteri] Paulus Usteri, nella sua edizione dei Genera plantarum di Jussieu, apparsa a Zurigo nel 1791, fa riferimento al passo citato alla nota precedente. 93 Willdenow] Karl Ludwig Willdenow, Grundriß der Kräuterkunde, Berlin 1792. 94 Batsch [...] Goethia] Nel 1793, August Johann Georg Karl Batsch aveva denominato così una specie della famiglia delle scrophulariacee, oggi nota con il nome di Bacopa Aubl. 95 ‘Goethite’] nel 1806 gli studiosi Heinrich Adolph Achenbach e Johann Daniel Engels chiamarono Goethite un minerale ferroso proveniente dalle miniere di

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ferro situate nei pressi di Eiserfeld; chi comunicò a Goe­the la notizia fu l’ufficiale preposto alle miniere, Ludwig Wilhelm Cramer (1755-1832), e il nome di questo minerale si è mantenuto fino a oggi. 96 Fischer] L’anatomista Johann Gotthelf Fischer (1771-1853) nel 1811 diede questo nome ad un osso scoperto da Goe­the e Nikolaus Meyer nel cranio del topo, ma tale denominazione non si è conservata. 97 Alexander von Humboldt] Scrisse insieme ad Aimé Bonpland le Ideen zu einer Geographie der Pflanzen nebst einem Naturgemälde der Tropenländer, Tübingen 1807, volume che contiene un’immagine realizzata da Bertel Thorwaldsen e dedicata a Goe­the, che raffigura un Apollo che solleva il velo di Iside: una «dedica che non sarebbe potuta essere più gradita e che mi onora», come scrive Goe­the il 3.IV.1807 a Humboldt. 98 in un ambito affine] allude alla Farbenlehre. 99 Kurt Sprengel] il riferimento è alla sua Geschichte der Botanik, 2. Bd., Altenburg und Leipzig 1818, pp. 302-304, in cui Sprengel nota che Goe­the espone «lo sviluppo delle parti vegetali l’una dall’altra in un modo straordinariamente chiaro e attraente». 100 un uomo molto distinto e avanti negli anni] non sono state tramandate notizie sulla sua identità. 101 Jäger] Georg Fried­rich Jäger (1785-1867), Über die Mißbildungen der Gewächse, ein Beitrag zur Geschichte und Theorie der Mißentwicklungen organischer Körper, Stuttgart 1814. Goe­the intrattenne un’intensa corrispondenza con questo autore. 102 monstrum] per la teoria delle malformazioni naturali fu introdotta in seguito la denominazione di ‘teratologia’. 103 Peloria] dal greco pelov", sinonimo del precedente; con questo termine veniva indicata una fioritura finale abnorme, radiale e simmetrica. Linné la considera una specie autonoma, riconosciuta nell’Antirrhinum, mentre Blumenbach la interpreta come malformazione. 104 radice] discutendo le varie possibilità con cui le piante producono nuovi individui a partire da organi che crecsono sotto terra, Goe­the deduce qui una «identità tra radici, tronco e rami», che, in riferimento alla struttura e funzione della radice, può dirsi solo in parte legittima. Egli considera in primo luogo i germogli radicali delle piante arboree che formano un «giovane cespuglio» quando i nodi radicali vanno a formare dei getti alla superficie del terreno. Quindi l’autore passa a esaminare la «forma delle rape», che presuppone il rigonfiamento delle radici e del germoglio inferiore loro adiacente (Hypocotylis). Le patate sono invece parti del sistema germogliativo e vegetativo, che hanno la funzione di accumulare nutrimento per la pianta; anche il cavolo rapa presenta un analogo ingrossamento, mentre l’infruttescenza dell’ananas consiste in un rigonfiamento carnoso degli organi floreali. 105 rivista botanica di Curtis] «Botanical Magazine», pubblicata cura di William Curtis a Londra a partire dal 1787. 106 prolessi] in questo contesto indica un precoce sviluppo degli organi in generale. 107 Nees von Esenbeck] Christian Gottfried Daniel Nees von Esenbeck (1776-1858); da privato studioso a Sickershausen, negli anni 1801-1816 si era occupato in particolare delle crittogame; in seguito insegnò a Erlangen e Bonn, e dal 1830 a Breslavia. Nel 1818 fu nominato presidente dell’Accademia Leopoldino-Carolina dei naturalisti. Nel 1814 Goe­the ebbe modo di conoscere e apprezzare la sua opera Die Algen des süßen Wassers, pubblicata proprio in quell’anno a Würzburg. Il 12.V.1816 Nees inviò a Goe­the il suo sistema dei funghi e ne risultò una vivace corrispondenza tra i due. Nees contribuì inoltre con vari saggi ai quaderni Zur

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Naturwissenschaft e Zur Morphologie, recensendo poi nel 1823 l’intera serie di pubblicazioni. 108 [AqroismoS. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. I, Heft 2 (1820), pp. 196198; si segue qui il testo di LA I 9, pp. 152 sg. Nel Nachlass di Goe­the si trova un abbozzo manoscritto, che differisce molto dalla versione pubblicata; esiste poi un ulteriore manoscritto, trascrizione del testo stampato nel quaderno Zur Morphologie, e servito come base per la Ausgabe letzter Hand, in cui la lirica si trova nel vol. 3, alle pp. 97-99, inclusa nel gruppo Gott und Welt, con il titolo Metamorphose der Tiere. Composta probabilmente negli anni 1798-1799, la poesia deve essere considerata un frammento di un insieme più vasto, un poema didascalico sulla natura, il cui tono si rivela infatti molto distante da quello suggerito dal metro, in distici elegiaci. Il contenuto della lirica è riferito alla successione degli organi presenti negli animali, e si connette da vicino agli studi goethiani sull’archetipo animale, il tipo. Accanto al concetto di metamorfosi, traspaiono i riferimenti al principio di compensazione, e all’idea secondo cui il fine della creatura risiede nella creatura stessa. Analogamente all’elegia Die Metamorphose der Pflanzen, anche in questo caso il riferimento ai princìpi morfologici trascende l’ambito storico-naturale per alludere al piano etico. Il termine greco ∆Aqroismov"(accumulo, collezione) è impiegato da Epicuro per designare l’accumularsi degli atomi. Goe­the lo usa nel senso di ‘summa’, ‘inveramento’, dunque sintesi degli argomenti presentati nelle pagine precedenti.] 109 Fine a se stesso] l’autore ribadisce il suo rifiuto delle posizioni teleologiche, e rimanda all’idea di organismo vivente come microcosmo. 110 Questi confini] la delimitazione spiegata dalle leggi morfologiche. 111 suprema creatura naturale] come nell’elegia sulla metamorfosi delle piante (cfr. supra, pp. 429-431), anche in questo caso Goe­the conclude volgendo lo sguardo all’uomo e alle sue facoltà. 112 [Zur vergleichenden Anatomie. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. I, Heft 2 (1820), pp. 212-251; si segue qui il testo di LA I 9, pp. 154-186. Non si conservano manoscritti preparatori, eccetto quello relativo alla tabella comparativa del paragrafo VII (pp. 512-516). Goe­the lavorò a questo saggio dalla fine di novembre alla fine di dicembre del 1819, richiamandosi ai suoi studi precedenti. Gli Auszüge si riferiscono in particolare ai lavori sull’osso intermascellare, mentre i Nachträge trattano anche dell’osteologia in generale.] 113 Il piccolo libro di Galeno] Claudius Galenus (130 ca.- 200 d.C.), De ossibus ad tyrones liber; la biblioteca di Weimar possiede un esemplare dell’edizione curata da Johann Sigfrid, Helmstedt 1599. 114 anche nell’uomo] Alcune ambiguità presenti nello scritto di Galeno indussero vari studiosi, tra cui Vesalio, a ritenere che l’autore avesse esaminato soltanto le scimmie; altri invece, come Fallopius e Sylvius, lo difesero. 115 Leveling] Heinrich Palmatius Leveling (1742-1798), Anatomische Erklärung der Original-Figuren von Andreas Vesal, Ingolstadt 1783. 116 Winslow] Jakob Benignus Winslow (1669-1760), Exposition anatomique de la structure du corps humain, Paris 1732. 117 Eustachius] Bartolomeo Eustachi (1520-1574), Tabulae anatomicae, 1714, poi pubblicate a cura di Albinus con il titolo Explicatio tabularum anatomicarum, Leiden 1744. 118 Sue] Jean Joseph Sue, Le Jeune (1710-1792), Traité d’Ostéologie de M. (Alexandre) Monro, Paris 1759, tradotto da Mme Thiroux d’Arronville, con annotazioni e tavole a cura dello stesso Sue.

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119 Jac. Sylvius] Jacobus Sylvius (Jacques Dubois, 1478-1555), Vesali cujusdam calumniae in Hippocratis et Galenii rem anatomicam repulsio, Paris 1551. 120 Ren. Hener] Renatus Hener, Apologia adversus Jacobi Sylvii depulsionem anatomicarum calumnias pro Andrea Vesalio, Venezia 1555. 121 Fallopius] Gabriel Fallopio (1523-1562) collaborò con Vesalio all’opera Observationes anatomicae, Venezia 1561. 122 Albinus] Bernhard Siegfried Albinus (1697-1770), Icones ossium foetus humani, Leiden 1737. 123 membrana] si tratta della membrana oculare, molto sviluppata negli uccelli (membrana nicitans), meno negli uomini, e in forma di mezza luna (membrana semilunaris). 124 comunicazioni epistolari] i due paragrafi che precedono sono tratti da lettere di Blumenbach a Sömmerring, relative all’anno 1781. 125 Supplementi] Così intitolati nell’indice del volume Zur Morphologie. I «due saggi» cui si fa riferimento sono il lavoro sull’osso intermascellare (cfr. supra, pp. 491 e 11-18) e lo Erster Entwurf (supra, pp. 485 e 207-238). 126 Kunstkammer] si tratta di un gabinetto di rarità in cui all’epoca si trovavano, accanto a pietre e metalli preziosi, anche opere d’arte e di artigianato artistico, nonché raccolte naturalistiche, all’interno delle quali gli oggetti che presentavano delle malformazioni erano ritenuti di particolare significato in quanto giochi di natura. Tali collezioni furono in seguito trasferite da Weimar a Jena, e accolte nelle collezioni dell’Università. 127 duca Wilhelm Ernst] Duca di Sassonia-Weimar (1662-1728). 128 Thomas Williamson] ufficiale inglese, vissuto nel Bengala, descrisse le sue battute di caccia in Oriente. 129 Dürrbaum] Johann Martin Dürrbaum svolse la sua attività di custode presso le collezioni di storia naturale a Jena. 130 Loderisches Kabinett] nel 1803 Justus Christian Loder si trasferì da Jena ad Halle e portò con sé la sua collezione anatomica, che fino allora aveva lasciato a disposizione dell’Università. Suoi successori e soprintendenti del Museo Anatomico furono gli anatomisti Jakob Fidelis Ackermann (1765-1815), trasferitosi poi ad Heidelberg già nel 1805, e Johann Fried­rich Fuchs (1774-1828); Karl Fried­rich Homburg fu invece dissettore a Jena negli anni 1803-1819. 131 von Schreibers] Karl Franz Anton von Schreibers (1775-1852) fu dal 1806 direttore del Museo di storia naturale a Vienna. Fu in contatto con Goe­the dalla fine del 1815, e gli procurò libri e oggetti provenienti da ogni parte del mondo. 132 scuola di veterinaria [...] professor Renner] Tale istituzione fu fondata nel 1816 a Jena, e il suo primo direttore fu Theobald Renner (1779-1850), al quale Goe­the prestò particolare aiuto per l’allestimento dell’istituto e della relativa raccolta anatomica. 133 Schröter] Christian Fried­rich Schröter fu custode del Museo anatomico di Jena a partire dal 1816. 134 Loder tiene conto di tale osservazione] Nel primo volume del suo manuale di anatomia, apparso a Jena nel 1787, Loder cita il manoscritto di Goe­the del 1784 sull’osso intermascellare: «ho avuto il piacere di essere stato testimone delle acute indagini condotte da questo autore, e auspico che questo magistrale prodotto degli studi secondari di un simile dilettante di anatomia possa essere presto presentato all’attenzione del pubblico.» 135 disegni di quell’epoca] i disegni cui si fa riferimento qui, realizzati dallo stesso Goe­the, da Waitz e da altri, nonché le incisioni di Lips, si trovano attualmente nel Nachlass di Goe­the e nelle sue collezioni, conservate presso le Nationale For-

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schungs- und Gedenkstätten der Klassischen deutschen Literatur di Weimar. Per i disegni di Goe­the si rimanda a Femmel, per le collezioni cfr. Bräuning-Oktavio 1954 e Schuster 1928. Cfr. qui tavv. 2-11 e 18-20. 136 Spix] Johann Baptist Spix (1781-1826), Cephalogenesis, sive capitis ossei structura, formatio et significatio, München 1815, criticato risolutamente da Goe­the (cfr. lo scritto Kraniologie, qui alle pp. 663 sg.). 137 Sömmerring] Samuel Thomas Sömmerring, Vom Baue des menschlichen Körpers, Bd. I, Knochenlehre, Frankfurt 1751. 138 Gotthelf Fischer] Johann Gotthelf Fischer, Über die verschiedene Form des Intermaxillarknochens in verschiedenen Tieren, Leipzig 1800. Fischer conosceva personalmente Goe­the fin dal 1796; nel 1804 si trasferì a Mosca, ma ancora nel 1811, nella sua Craniologie, fa riferimento a i lavori di Goe­the. 139 sfenoide] os sphenoideum, analizzato da Goe­the al paragrafo intitolato Tibia und Fibula nel testo Vergleichende Knochenlehre, qui alle pp. 643 sgg. 140 gli organi dell’udito] descritti diffusamente da Goe­the nel testo qui alle pp. 639642. 141 mascella inferiore] Goe­the vi aveva fatto riferimento già nello Erster Entwurf, qui alle pp. 207 sgg., e in analogo contesto aveva richiamato la necessità di ricorrere agli «occhi della mente». 142 la questione del mio tipo] ancora un riferimento allo Erster Entwurf: cfr. pp. 207 sgg. 143 braccia e mani] Descritte alle sezioni Ulna und Radius, Tibia und Fibula, qui alle pp. 642-646. 144 os ethmoideum] trattato nel testo qui alle pp. 645 sgg. 145 gabinetto di scienze naturali di Dresda] dei soggiorni di studio a Dresda degli anni 1790 e 1794 si conservano annotazioni e disegni anatomici, pubblicati in LA II 9A, M 97, 98, 100 e 129. 146 fossili di Merck] Johann Heinrich Merck (1741-1791) aveva messo a disposizione di Goe­the le sue collezioni e ricerche, a partire dal 1781. 147 collezione del signor von Sömmerring] Goe­the, che aveva conosciuto personalmente Sömmerring nel 1783, si servì della sua collezione a Kassel, Mainz e Frankfurt. 148 Froriep] Goe­the aveva conosciuto le collezioni del medico Ludwig Fried­rich Froriep (1779-1847) nel 1805 ad Halle; solo nel 1816 Froriep si trasferì a Weimar. 149 VII.] Il manoscritto e i lavori preliminari relativi alla tabella presentata in questo paragrafo testimoniano di varie fasi di osservazione e di elaborazione. Goe­the si sforza qui di impiegare un linguaggio descrittivo semplice, chiaro e univoco, al servizio dell’indagine comparativa e in grado di preparare la collaborazione di più ricercatori. Pur mantenendo a volte una terminologia tecnica specifica, l’autore fa uso di espressioni già impiegate ed elaborate nelle singole descrizioni esposte in precedenza. 150 dedurre le ossa craniche dalle vertebre] a proposito di questo aperçu, esposto nel 1790, si veda supra, p. 159 e nota a p. 389 e nota relativa. Lorenz Oken aveva preceduto Goe­the con la sua pubblicazione del 1807, e in seguito la posizione fu rafforzata dall’opinione di Carl Gustav Carus, sicché Goe­the inserì un ulteriore contributo nei quaderni sulla morfologia (qui alle pp. 635 sg.). Sulla storia di questa teoria cfr. Zaunick 1930; Kiesselbach 1982. 151 aperçu] circoscrivendo il significato di tale concetto, Goe­the rimanda alla distinzione tra esoterico ed essoterico; un aperçu, estratto da una sequenza di impressioni e cognizioni, indica un punto pregnante, che allude al contempo alla pienezza dell’impressione e alla pregnanza dell’attimo. 152 [Mag’s die Welt zur Seite weisen [...]. Freudig war, vor vielen Jahren [...]. J.W. v. Goe­

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the, Zur Morphologie, Bd. I, Heft 2 (1820), p. 256 e Heft 3 (1820), p. 258; si segue qui il testo di LA I 9, pp. 189 e 192. È conservato solo il manoscritto predisposto per la Ausgabe letzter Hand, in cui i versi compaiono rispettivamente nel vol. 4, p. 362 e nel vol. 3, p. 91. Con i primi quattro versi si chiude il secondo quaderno Zur Morphologie. Il loro contenuto si riferisce ad un breve saggio di Christian Ludwig Mursinna (1744-1823), Caspar Fried­rich Wolffs erneuertes Andenken, in cui si richiama il divario tra l’importanza degli studi scientifici di Wolff e la miseria delle sue condizioni di vita. Il secondo gruppo di versi si trova dietro il frontespizio del terzo quaderno degli scritti sulla morfologia, e nella Ausgabe letzter Hand si trova ordinato nella sezione Gott und Welt, con il titolo Parabase.] 153 [Verstäubung, Verdunstung, Vertropfung. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. I, Heft 3 (1820), pp. 285-303; si segue qui il testo di LA I 9, pp. 210-221. Il manoscritto relativo non è conservato. I diari documentano il lavoro a questo saggio nel periodo 26.VI.-2.VII.1820. Le riflessioni sul tema della sessualità delle piante risalgono alle conversazioni intrattenute già anni prima con Franz Joseph Schelver (1778-1832), che fu professore di botanica a Jena negli anni 1803-1806. La questione era già stata discussa nella letteratura botanica fin dai tempi di Camerarius, nel 1694; si discuteva ora della possibile analogia con la sessualità degli animali.] 154 questi tre fenomeni] La disgregazione della sostanza organica per via solida (nella polverizzazione), gassosa (nell’evaporazione) e liquida (nel gocciolamento) era stata osservata da Goe­the già nei decenni precedenti, in connessione con le indagini sulla fruttificazione, sui nettàri, sulla generazione di esseri viventi da materia inanimata, organica o inorganica. 155 Schelver] La pubblicazione del suo contributo sulla sessualità delle piante non avvenne durante gli anni di Jena, a cui risalgono le sue conversazioni con Goe­ the, bensì solo al periodo del suo insegnamento ad Heidelberg: cfr. F.J. Schelver, Kritik der Lehre von den Geschlechtern der Pflanze, 3 Bde., Heidelberg 1812, Karlsruhe und Heidelberg 1814, Karlsruhe 1823. Schelver rifiutava il trasferimento meccanico al regno vegetale dei processi descritti nella riproduzione sessuale degli animali, un trasferimento che era stato legittimato anche da Linné, il quale aveva impiegato denominazioni basate sulla corrispondenza tra le antere e gli organi sessuali maschili da un lato, gli ovari e gli organi sessuali femminili dall’altro. Schelver attribuiva invece il processo di fruttificazione al concrescere degli organi, condividendo il rilievo che Goe­the assegnava all’anastomosi nell’ambito della metamorfosi. Tuttavia, a differenza di Goe­the, che riteneva la fioritura la fase più alta della vita della pianta, Schelver considerava il polline dei fiori come una disgregazione, con cui finiva per spegnersi la vita vegetale. Cfr. Hansen 1907. Dopo aver ricevuto una copia del primo volume della Kritik di Schelver, che non mancò di sollevare un vivace dibattito, Goe­the gli scrisse il 5.X.1812 lodando la chiarezza della sua esposizione, ma trattenendosi dall’esprimere un parere. 156 Henschel] August Henschel (1790-1856), allievo e genero di Schelver, pubblicò nel 1820 a Breslavia il saggio Von der Sexualität der Pflanzen, che inviò a Goe­the il 21.VI.1820. 157 centifoglia] rosa centifolia, riempita dalla trasformazione della maggior parte degli stami in petali. Si descrive qui la sua infestazione ad opera della peronospora. 158 cancrena nei cereali] causata dall’ustilagine, le cui innumerevoli spore appaiono con l’aspetto del polline. 159 polverizzazione organica] in questo caso il polline è costituito di spore, che vengono sparse dalla pressione nei vasi dei funghi. 160 mosche] la loro «polverizzazione» avviene a causa dell’azione del fungo empusa muscae. Cfr. la tav. 35. L’osservazione del fenomeno diede adito ad un’annosa

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discussione cui partecipò, in particolare, Nees von Esenbeck, che nel saggio Mitteilungen aus der Pflanzenwelt, in «Nova Acta Leopoldina», 15, 2. Abt. (1831), pp. 363 sgg., affrontò la questione posta da Goe­the (cfr. LA I 10, pp. 229-240). 161 melata] termine che indica diverse secrezioni vischiose che compaiono sulle foglie come rivestimento o in forma di gocce, prodotte da piccoli insetti. 162 Döbereiner] Johann Wolfgang Döbereiner (1780-1849), dal 1810 fu professore di chimica a Jena; Goe­the si rivolse spesso a lui per risolvere questioni di carattere chimico-analitico. 163 bryophyllum calycinum] cfr. il saggio qui alle pp. 665 sgg. 164 Nello sviluppo degli insetti] Goe­the aveva esaminato questi fenomeni in particolare intorno al 1796: cfr. supra, pp. 300-302. 165 [Freundlicher Zuruf. [Unwilliger Ausruf] J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. I, Heft 3 (1820), pp. 303 sg.; si segue qui il testo di LA I 9, pp. 222 sg. Si conserva il manoscritto unicamente della poesia, confluita nella Ausgabe letzter Hand, nel vol. 3, p. 105, entro il gruppo Gott und Welt e con il titolo Allerdings. Dem Physiker. Per i quaderni di morfologia questi testi furono dati alle stampe il 2.X.1820.] 166 ricercatori] in quest’epoca Goe­the era in contatto principalmente con Nees von Esenbeck, d’Alton, Burdach, Jäger, Carus, Schelver, Henschel, F.S. Voigt, oltre a molti altri. 167 una realtà non indagata] Goe­the sottolinea costantemente la discrepanza tra accessibilità e inaccessibilità della natura. Si veda ad es. la massima: «La felicità più grande per l’uomo che riflette consiste nell’indagare ciò che è suscettibile di essere indagato e nel venerare serenamente ciò che non è possibile indagare.» (Hecker, Maximen Nr. 1207). Cfr. anche la lettera a Wackenroder del 21.I.1832. 168 Esclamazione risentita] il titolo è tratto dall’indice dei quaderni Zur Morphologie. I versi in corsivo sono tratti dal poema didascalico Die Falschheit der menschlichen Tugenden, composto nel 1730 da Albrecht von Haller, che Goe­the qui commenta. La lirica, intitolata più tardi Dem Physiker, e dedicata ai critici della Farbenlehre, è intesa, nel contesto degli scritti di morfologia, come critica alle posizioni evoluzioniste e preformazioniste dei seguaci di Haller. 169 Pulchra sunt quae videmus] sono versi tratti da Nikolaus Steno, Opera philosophica, Bd. 2, Kopenhagen 1910, p. 254. 170 [Als Einleitung. [Aphoristisch]. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. I, Heft 4 (1822), pp. 303-315; si segue qui il testo di LA I 9, pp. 227-234. Il manoscritto relativo non è conservato. I diari di Goe­the documentano il suo studio dei lavori di Schütz nel mese di agosto del 1821; la stesura del saggio risale invece all’aprile del 1822. L’autore si basa sul primo fascicolo dell’opera di Wilhelm von Schütz (1776-1847), Zur intellektuellen und substantiellen Morphologie, mit Rücksicht auf die Schöpfung und das Entstehen der Erde, 3 Hefte, Leipzig 1821-1823. Goe­the aveva conosciuto personalmente Schütz nel 1808 a Karlsbad, i due si erano poi incontrati più volte negli anni 1817-1818 e nel 1821 ancora a Marienbad; Goe­the fa spesso riferimento alle «molteplici conversazioni» avute con l’amico Schütz, e quest’ultimo recensì sempre favorevolmente i lavori di Goe­the. Le ricerche di Schütz presentano dei forti legami con le indagini che Goe­the conduceva non solo nei quaderni di morfologia, ma anche nella Farbenlehre, nei quaderni Zur Naturwissenschaft, nonché nel testo Winckelmann und sein Jahrhundert.] 171 alcuni passi] Si tratta dei brani tratti dall’opera citata di Schütz, Heft 1, pp. 1317, 24, 36-38 e 47-49. 172 monade] con il termine leibniziano ‘monade’, cui spesso Goe­the sostituisce il sinonimo ‘entelechia’, l’autore indica un’unità in sé conclusa, nonché una forza dell’anima individuale, paragonabile all’istinto. 173 [Botanik. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. I, Heft 4 (1822), pp. 315-328; si

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segue qui il testo di LA I 9, pp. 235-244. I manoscritti relativi non sono conservati. Secondo i diari dell’autore, la data di composizione dei contributi che costituiscono questo saggio coincide con il periodo gennaio-aprile 1822.] 174 un passo] la citazione è tratta da una recensione al volume di Christian Gottfried Daniel Nees von Esenbeck, Handbuch der Botanik, 2 Bde., Nürnberg 1820-1821, redatta da August Henschel, in «Ergänzungsblätter zur Jenaischen Literatur-Zeitung», 47 (1821), col. 372. 175 Meteore des literarischen Himmels] il saggio era apparso nei quaderni Zur Naturwissenschaft, Bd. I, Heft 2 (cfr. WA II 11, pp. 246-254). 176 recensione] la recensione al volume di Georg Wilhelm Franz Wenderoth, Lehrbuch der Botanik, Marburg 1821, apparsa anonima, era stata redatta da Ernst Meyer (cfr., su di lui, il testo Problem und Erwiderung, qui alle pp. 597-608). 177 un albero gravemente ferito] si ricordi l’interesse di Goe­the per la struttura del legno (che si evince dal testo intitolato Cottas Naturbeobachtungen, qui a p. 351), nonché quello per i casi di fenomeni patologici. 178 von Fritsch] Fried­rich August von Fritsch (1768-1845), fu sovrintendente alle foreste di Weimar a partire dal 1794. 179 Schema] composto nell’aprile del 1822. 180 Ernst August] Ernst August I, duca di Sassonia-Weimar (1688-1748), nonno di Carl August. 181 incendio del castello] l’incendio avvenne il 5.V.1774, dunque un anno e mezzo prima dell’arrivo di Goe­the a Weimar, e causò la quasi totale distruzione del castello. 182 Hirschfeld] Christian Cajus Lorenz Hirschfeld (1742-1792) aveva pubblicato nel 1767 un’opera dal titolo Das Landleben, mentre il suo lavoro più influente fu la Theorie der Gartenkunst, Leipzig 1779-1785. 183 Reichert] Johann Reichert (1738-1797), fu dal 1777 giardiniere di corte a Weimar, ed ebbe una parte rilevante nell’opera di sistemazione del parco ducale. 184 il figlio di Reichert] Johann Fried­rich Reichert (1767 ca.-1831) negli anni 17951820 svolse l’attività di giardiniere di corte al Belvedere. 185 Bertuch] Fried­rich Johann Justin Bertuch (1747-1822) fu editore e imprenditore a Weimar, e negli anni 1784-1800 fu incaricato da Carl August dell’amministrazione del parco ducale. 186 Sckell] Johann Christian Sckell (1773-1857), il cui fratello Johann Conrad (1768-1834) e il figlio di quest’ultimo, Louis (1796-1844), svolsero anch’essi l’attività di ispettori al Belvedere. 187 Batsch [...] Schelver e Voigt] spesso menzionati da Goe­the, furono professori di botanica a Jena e direttori del giardino botanico, istituito da Batsch, su suggerimento e con la supervisione di Goe­the. 188 catalogo] Fried­rich Siegmund Voigt, Johann Conrad e Johann Christian Sckell, Verzeichnis von in- und ausländischen Pflanzen, welche sich in dem Großherzoglichen Orangen-Garten zu Belvedere bei Weimar befinden, Jena 1816-1817, e F.S. Voigt, Flora des Herzoglichen Gartens zu Jena, Jena 1809. Batsch aveva pubblicato dei cataloghi del giardino di Jena già negli anni 1795 e 1797. 189 un catalogo puramente scientifico] August Wilhelm Dennstedt, Hortus Belvedereanus, Weimar 1820. Goe­the collaborò alla redazione di tale catalogo, e aveva anche programmato di scrivere un’introduzione, che tuttavia non stese mai; i contributi raccolti nel presente saggio ne costituiscono probabilmente i lavori preparatori. 190 [Zoologie. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. I, Heft 4 (1822), p. 329; si segue qui il testo di LA I 9, p. 245. Non sono conservati manoscritti di questi appunti,

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che integrano le osservazioni del testo Verstäubung, Verdunstung, Vertropfung (qui alle pp. 523-534), e risalgono al 1822.] 191 Si riferisce alla pagina dell’edizione del 1822, che corrisponde alla p. 527 del presente volume. 192 un grosso bruco, probabilmente della foglia di quercia] Gastropacha quercifolia. 193 [Die Faultiere und die Dickhäutigen abgebildet, beschrieben und verglichen, von Dr. E. d’Alton. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. I, Heft 4 (1822), pp. 330-338; la presente versione si basa su LA I 9, pp. 246-251. Il manoscritto relativo non è conservato. Goe­the conosceva personalmente Eduard Joseph d’Alton (1772-1840) fin dagli anni del soggiorno di quest’ultimo a Tiefurt (1808-1810); dopo aver ricevuto un’educazione militare, d’Alton si era dedicato all’arte figurativa e alla zoologia, e si era occupato di allevamento di cavalli a Tiefurt. Dopo anni di viaggi, dal 1818 insegnò all’Università di Bonn, e riprese i rapporti con Goe­the verso la fine del 1820. Goe­the ricevette da d’Alton i primi due fascicoli della sua opera Über Skelette alla fine del 1821, e lo ringraziò con una lettera del 7.I.1822; il 18.IV.1822 ricevette, poi, un contributo di Johann Heinrich Meyer con un giudizio sul valore artistico delle tavole relative. La composizione del saggio goethiano è datata ai giorni tra il 22 e il 25.IV.1822, ed è possibile documentare che nel giugno l’autore portò con sé in un viaggio in Boemia questo materiale, dopo la conclusione del quarto quaderno di morfologia. Egli mantenne un costante apprezzamento per i lavori di d’Alton, che sentiva vicini alle proprie ricerche. Oltre alle accurate tavole di d’Alton, è importante anche il testo che funge da introduzione al volume, composto dall’embriologo e paleontologo Christian Pander (1794-1865), che si riferisce ai temi dello sviluppo delle specie, dell’evoluzione individuale nel regno animale, tentando di rappresentare tale regno «come un tutto interconnesso».] 194 quell’epoca in cui il suo autore era ancora tra noi] si riferisce agli anni 1808-1810, in cui ebbe modo di conoscere personalmente d’Alton. 195 sull’anatomia dei cavalli] Naturgeschichte des Pferdes, 2 Bde., Weimar 1811-1816. 196 storia dell’evoluzione del pulcino dall’uovo] Christian Pander e Eduard d’Alton, Beiträge zur Entwicklungsgeschichte des Hünchens im Eie, Würzburg 1817. Anche in questo volume d’Alton ha realizzato le tavole, mentre Pander è autore del testo 197 Camarupa] divinità indiana del mutamento delle forme, che Goe­the cita in particolare in riferimento alla teoria delle nuvole. 198 Troxler] citazione da Ignaz Vitalis Troxler, Blicke in das Wesen des Menschen, Aarau 1812, p. 190, che Goe­the aveva fatto stampare anche sulla copertina del secondo quaderno Zur Morphologie. 199 tabella a pag. 244] si tratta della tabella del paragrafo VII dei Nachträge, qui alle pp. 512 sgg. 200 [Dr. Carus: Von den Ur-Teilen des Schalen- und Knochen-Gerüstes. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. I, Heft 4 (1822), pp. 338-342; la presente versione si basa sul testo di LA I 9, pp. 252 sg. Il manoscritto del breve articolo di Carus si trova nel Nachlass di Goe­the, tra le lettere ricevute dall’autore. Carl Gustav Carus (1789-1869), medico, anatomista e pittore, intrattenne a partire dal 1818 una corrispondenza con Goe­the, e il 21.VII.1821 si recò a Weimar per incontrarlo personalmente. Il 28.XII.1821 in una lettera a Goe­the Carus accenna ad un suo lavoro sulla struttura del cranio e delle ossa, e il 13.I.1822 Goe­the gli scrive chiedendogli una recensione anticipatoria di quest’opera. Negli Annalen del 1822 Goe­the annota di aver stimolato Carus a riflettere sulla morfologia delle vertebre, con particolare riferimento alla concezione della «Urwirbel», la «vertebra originaria», sostenuta dallo stesso Carus. L’opera di quest’ultimo sulla struttura del guscio e delle ossa apparve anni dopo, nel 1828, a Lipsia, e il 21.III.1828

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Carus ne inviò una copia a Goe­the. Il rapporto tra i due autori, che avevano concezioni della natura molto simili, si mantenne anche negli anni successivi, come lo stesso Carus ricorda nella biografia Goe­the, zu dessen näherem Verständnis, Leipzig 1843.] 201 [Fossiler Stier. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. I, Heft 4 (1822), pp. 342-352; si segue qui il testo di LA I 9, pp. 254-260. Si conserva solo un manoscritto dell’aggiunta di Riemer, qui a p. 573. In una lettera del 31.V.1821 Georg Jäger ringraziava Goe­the dell’interessamento per il suo lavoro sulle malformazioni delle piante, e gli inviava un articolo tratto dal «Württembergisches Jahrbuch» che trattava del ritrovamento di alcune ossa fossili nei pressi di Stoccarda. Nello stesso periodo Goe­the riceveva notizia di alcuni scavi effettuati nelle torbiere presso Haßleben, in Turingia, che avevano dato alla luce le ossa di un toro fossile. Si rendevano così possibili delle osservazioni comparative, che Goe­the chiese di estendere anche al cranio rinvenuto e descritto da Fried­rich Heinrich Wilhelm Körte a Frose. Di questi argomenti l’autore si occupò fino al mese di marzo del 1822, e già al 6.IV.1822 si data il lavoro per il saggio che fu ultimato per la stampa l’11.V. e inviato a Körte il 4.VI.1822.] 202 Jäger] cfr. supra, la nota 101 a p. 863 La terza e quarta annata del «Württembergisches Jahrbuch» apparvero insieme nel 1821, e includevano il saggio dal titolo Über einige fossile Knochen, welche im Jahr 1819 und 1820 zu Stuttgart und im Jahr 1820 zu Cannstatt gefunden worden sind. 203 Körte] Fried­rich Heinrich Wilhelm Körte (1776-1846), naturalista e cultore di storia naturale, aveva conosciuto personalmente Goe­the già nel 1805 ad Halberstadt; la sua pubblicazione, qui citata da Goe­the, apparve nel 1821. 204 Tra il toro preistorico e il bue] Nel riferimento alle mutazioni organiche causate dall’adattamento nel corso dell’evoluzione storica, il termine «Verlangen» («esigenza») allude alle idee sulla teoria della discendenza espresse da Jean Baptiste Pierre Antoine de Monet, cavaliere di Lamarck, il quale sosteneva che l’ereditarietà dei caratteri acquisiti a causa dell’adattamento presuppone un atto volontario. Appare singolare che Goe­the citi occasionalmente tali concezioni, anche in riferimento ai lavori di d’Alton e Pander, e più tardi a quelli di Ernst Meyer, senza tuttavia indagarle ulteriormente. In ogni caso, qui viene assunta, entro certi limiti, una mutazione della specie mediante l’addomesticamento, dunque una reale mutazione nella discendenza, e la medesima assunzione si trova anche nella prosecuzione di questo saggio (Zweiter Urstier, qui alle pp. 637 sg.) in cui l’autore si astiene tuttavia dal tracciare ulteriori deduzioni (cfr. in proposito Wenzel 1982). 205 l’intero scheletro] Il toro fossile di Haßleben si trova riprodotto tra le pagine del contributo di Ludwig Heinrich Bojanus, De uro nostrate, in «Nova Acta Leopoldina» 13, Abt. 2 (1827), pp. 411-478. 206 8 piedi [...] 6 pollici e mezzo] 1 piede misura circa 30 cm, un pollice circa 3 cm. 207 von Schreibers] cfr. supra, nota 131 a p. 865. 208 pagine di d’Alton] Si riferisce agli scritti Die Faultiere […] (per cui cfr. supra, pp. 559-564) e Die Skelette der Nagetiere […] (per cui cfr. pp. 647-652). 209 quando il vivente giunge alla sua fine] sull’inclinazione di Goe­the a individuare determinati tratti caratteristici in base ai quali riconoscere la bellezza e grazia nella natura, si veda anche supra, pp. 199 sgg. In questo caso si fa riferimento alle linee sinuose, e alle forme serpentine, cui si volgeva anche l’attenzione degli artisti dell’epoca. 210 Hogarth] Il pittore inglese William Hogarth (1697-1764) si era espresso in proposito nel suo scritto Analysis of Beauty, London 1753, tradotto in tedesco da Mylius con una prefazione di Lessing nel 1754.

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una macchina] nell’autunno del 1821 Goe­the fece giungere una macchina simile dalla Boemia, come risulta da una sua lettera a Grüner del 17.IX.1821. 212 dall’Antichità] aggiunta redatta da Fried­rich Wilhelm Riemer, che Goe­the pregò di completare il manoscritto per la stampa. L’espressione e{like" bove" («buoi dalle corna ricurve») è omerica, mentre le altre indicazioni sono tratte dal commento a Virgilio di Junius Philargyrius, Heidelberg 1589. 213 [Gemälde der organischen Natur in ihrer Verbreitung auf der Erde von Wilbrand und Ritgen; lithographiert von Päringer. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. I, Heft 4 (1822), pp. 353 sg.; si segue qui il testo di LA I 9, pp. 261 sg. Il manoscritto relativo non è conservato. Goe­the ricevette il 22.IV.1822 la tavola con il commento, e ringraziò Wilbrand in una lettera del 28.IV.1822. Come testimoniano i diari di Goe­the, la redazione di questo testo si può datare al 9.V.1822. Lo scritto qui esaminato, con la relativa tavola, realizzata in quattro parti, apparve nel 1821 a Gießen; gli autori del testo erano Johann Bernhard Wilbrand (17791846) e Ferdinand August Ritgen (1787-1867). Quest’ultimo fu autore anche del disegno della tavola, litografata poi da Joseph Päringer. Il 3.X.1823 Wilbrand e Ritgen si recarono personalmente a visitare Goe­the, che rimase in contatto in particolare con Wilbrand, allora stimato per le sue competenze di fisiologia e filosofia naturale.] 214 [Lebens- und Formgeschichte der Pflanzenwelt von Schelver. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. I, Heft 4 (1822), pp. 355 sg.; si segue qui il testo di LA I 9, pp. 262 sg. Il manoscritto relativo non è conservato. Schelver inviò a Goe­the la sua opera il 24.IV.1822, e in base ai diari è possibile datare la redazione del presente testo al 9.V.1822. Si tratta del volume di Franz Joseph Schelver, Lebens- und Formgeschichte der Pflanzenwelt. Handbuch seiner Vorlesungen über die physiologische Botanik, Heidelberg 1822, dedicato allo stesso Goe­the. Per le notizie su Schelver si veda supra, nota 153 a p. 867. Goe­the richiama l’attenzione, in questo saggio, sui «Nova Acta» dell’Accademia Leopoldina, in particolare sul volume X (1821), che Nees von Esenbeck gli aveva inviato il 2.IV.1822, raccomandandogli la lettura dei contributi di Schelver, Goldfuß, Chamisso ed altri.] 215 [Betrachtungen fortgesetzt. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. I, Heft 4 (1822), pp. 360-365; si segue qui il testo di LA I 9, pp. 266-269. Esiste un manoscritto, di mano dello scrivano Johann John con correzioni di Goe­the, datato Weimar, 27.III.1822, e che differisce in alcuni luoghi dalla versione definitiva affidata alla stampa, come sarà documentato nel seguito di queste note. Gli aforismi apparvero il 21.VIII.1822 sul «Morgenblatt für gebildete Stände». Le due recensioni precedenti e questi aforismi, tra cui si trova anche un rimando alla teoria delle nuvole di Luke Howard con il titolo Luke Howard to Goe­the a biographical sketch, costituiscono contributi redatti piuttosto frettolosamente da Goe­the, per concludere questo quaderno di morfologia prima di partire per la Boemia nell’estate del 1822. Gli aforismi sono suddivisi in due sezioni: il primo gruppo si lega agli aforismi qui tradotti alle pp. 545 sgg. e riguarda considerazioni sulla storia e sulla società, mentre il secondo gruppo tratta più strettamente temi di carattere scientifico. La pagina 315 cui rimanda Goe­the, dal relativo quaderno Zur Morphologie, corrisponde alla p. 545 della presente traduzione.] 216 Catone] la fonte è Plutarco, Marcus Cato, che Goe­the aveva letto nell’edizione Des Plutarchus von Chäroneia vergleichende Lebensbeschreibungen, übers. v. Johann Fried­rich Salomon Kaltwasser, 3. Teil, Magdeburg 1801, p. 397. Tra gli estratti manoscritti presenti nell’esemplare di Goe­the si trova la seguente variante al testo degli aforismi: «Quando, in età avanzata, Catone fu citato in giudizio, disse: ‘ci si può difendere soltanto di fronte a coloro con i quali si è vissuto’. Ma avrebbe potuto anche dire: ‘Ci si può intendere soltanto con coloro con i quali si è vissuto’.» 217 Erxleben] Johann Christoph Polycarp Erxleben, Anfangsgründe der Naturlehre, 211

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Göttingen 1772, 2a ed. 1777, cui ne seguirono altre 4, negli anni 1785-1794, a cura di Georg Christoph Lichtenberg. 218 scoperta del pallone aerostatico] in uno schema autobiografico datato 11.IV.1821 Goe­the annotava: «Scoperta del pallone aerostatico. / Quanto sono andato vicino a questa scoperta. / Sento una certa irritazione per non averlo scoperto io stesso. / Ma trovo presto conforto» (WA II 11, p. 301). 219 trent’anni prima] nel manoscritto si trova a questo punto il passaggio seguente: «È in voga attualmente la cattiva abitudine, nelle scienze, di essere astrusi, allontanandosi dal senso comune, senza dischiudere alcun senso superiore, per cui si trascende, si fantastica, si teme ogni viva osservazione e, quando infine si intende (o si deve) tornare sul terreno pratico, le considerazioni diventano d’improvviso atomistiche e meccaniche». Questo attacco contro le asserzioni della filosofia naturale è cancellato nel manoscritto. 220 Zauper] Joseph Stanislaus Zauper (1784-1850), Grundzüge einer deutschen theoretisch-praktischen Poetik, aus Goethes Werken entwickelt, Wien 1821; Goe­the ricevette una copia di quest’opera il 5.IV.1821, e del relativo «Nachtrag» il 23.VIII.1821, in forma manoscritta (fu stampato infatti solo il 20.III.1822). Goe­the incontrò personalmente a Marienbad Zauper, filologo e professore al ginnasio di Pilsen. 221 ritorno della gioventù] nel manoscritto si trova a questo punto il seguente passaggio: «Il fatto che i naturalisti non si trovino completamente d’accordo con me è del tutto naturale, in considerazione della diversità dei rispettivi punti di vista; io cercherò in ogni caso di affermare il mio anche in futuro. Tuttavia, anche in ambito estetico e morale va di moda polemizzare contro di me. So benissimo da dove nasce e a cosa mira simile tendenza, da cosa è causata e a quali fini è diretta; tuttavia non me la spiego. Gli amici con cui ho vissuto, e per i quali ho vissuto, sapranno però conservarsi e mantenere la mia memoria». Questa rassegnata riflessione, che chiude il primo gruppo di aforismi, riferito alla collaborazione intellettuale, si trova cancellata nel manoscritto. 222 fenomeni originari] Goe­the si riferisce qui agli estratti dal volume di Wilhelm von Schütz, Zur Morphologie, riportati con il titolo Als Einleitung all’inizio del presente quarto quaderno di morfologia (cfr. supra, p. 543). Goe­the definisce «Ur­ phänomen» («fenomeno originario») ciò che si trova dietro i fenomeni concretamente esperibili, e a cui è possibile approssimarsi con la sequenza delle osservazioni e degli esperimenti. Il «fenomeno originario» corrisponde, nell’ambito dei fenomeni fisici, a ciò che, nell’ambito delle «nature organiche», è il tipo. 223 [Hefte zur Morphologie. Zweiter Band. 1823-1824. Rispetto ai quaderni del primo volume degli scritti morfologici, quelli che costituiscono il secondo volume si presentano meno omogenei, ampliati dei contributi di altri autori, composti in modo meno meditato, sotto l’urgenza della stampa. Goe­the iniziò a lavorare ad essi immediatamente dopo il suo ritorno dalla Boemia, nell’autunno del 1822, interruppe durante la primavera dell’anno successivo a causa di una seria malattia, per poi riprendere e concludere nell’autunno 1824. All’inizio di novembre del 1824 Goe­the annota di avere intenzione di lavorare ad una prosecuzione di questi quaderni, che tuttavia non realizzò mai. A quest’epoca risale infatti anche un’accelerazione del lavoro alla Ausgabe letzter Hand, l’edizione dell’intera sua opera letteraria, che vide la luce negli anni 1827-1830. In una lettera del 16.X.1824 indirizzata a Langermann risuona una certa rassegnazione, in riferimento all’impresa della sua opera morfologica.] 224 Gesenii [...] p. 16] Il motto per il secondo volume dei quaderni sulla morfologia è tratto dall’opera di Heinrich Fried­rich Wilhelm Gesenius (1786-1842), De Samaritanorum Theologia ex fontibus ineditis commentatio, Halle 1822, p. 16, § I, De Deo. 225 [Wilhelm von Schütz zur Morphologie 2tes Heft. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. 2, Heft I (1823), pp. 1-6; si segue qui il testo di LA I 9, pp. 277-280. Il manoscritto

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relativo non è conservato. Il primo quaderno della Morphologie di Schütz era stato recensito da Goe­the con il titolo Als Einleitung nel quarto dei propri quaderni di morfologia (cfr. supra, pp. 539-544). Schütz inviò a Goe­the il secondo dei suoi quaderni, pubblicato nel 1822, il 21.VI.1822, e ne discusse personalmente con lui, incontrandolo quando quest’ultimo era di ritorno dalla Boemia il 19.VIII dello stesso anno. Alla scelta degli estratti dall’opera di Schütz (rispettivamente pp. 60-62; 89 sg.; 93; 135 sg. e 146) collaborò anche Riemer.] 226 Eleusis [...] revisentibus] citazione da Seneca, Quaestiones naturales, VII 31, 6. 227 [Betrachtungen über eine Sammlung krankhaften Elfenbeins. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. 2, Heft I (1823), pp. 7-16; la presente versione si basa sul testo di LA I 9, pp. 281-287. Esiste un manoscritto, incompleto, di mano dello scrivano Johann John, al servizio di Goe­the dal 1814, con correzioni dell’autore, che probabilmente lo dettò o lo fece copiare in base a documenti precedenti. Il 6.III.1798 Knebel aveva donato a Goe­the una raccolta di pezzi d’avorio, che a causa dei danni subìti dai proiettili non erano più adatti per la fabbricazione dei pettini ed erano stati dunque scartati. Goe­the ringraziava Knebel in una lettera del 9.III.1798 e il 26 e 27 marzo dettava un saggio descrittivo in forma di catalogo relativo ai pezzi ricevuti. Il 30 marzo inviava poi questo catalogo, insieme con la collezione di avori, all’amico Justus Christian Loder, come dono per il suo gabinetto anatomico. Goe­the ne dà notizia negli Annalen relativi al 1798. Nel 1816 Goe­the cercò di nuovo di procurarsi simili pezzi d’avorio da Norimberga tramite l’amico Seebeck, e ne ottenne alcuni un paio d’anno dopo, come testimoniano i diari (cfr. le annotazioni del 20.VI.1818). Loder inserì poi una descrizione di questi esemplari nel catalogo della sua raccolta: Index praeparatorum, Moskau 1823, 2. Aufl. Moskau 1826 (nella biblioteca di Goe­the sono presenti entrambe le edizioni). La redazione del testo per i quaderni di morfologia risale invece al novembre del 1822. L’interesse di Goe­the concerne in questo caso la dinamica del ferimento e risanamento delle masse dentarie, che mostra caratteristiche simili nei vari casi osservati, e fornisce utili chiarimenti sulle strutture fondamentali del processo di crescita dei denti.] 228 [Problem und Erwiderung. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. 2, Heft I (1823), pp. 46-51; si segue qui il testo di LA I 9, pp. 307-310. Si conservano i manoscritti della prima parte, relativa al Problem sollevato da Goe­the, di mano dello scrivano Johann John, e della seconda, la Erwiderung, di mano di Meyer (presso il Freies Deutsches Hochstift di Francoforte). Nel quarto dei suoi quaderni di morfologia, Goe­the aveva citato il medico e botanico Ernst Heinrich Fried­rich Meyer (1791-1858) come un importante recensore, senza tuttavia essere in grado di menzionare il nome «dell’ignoto amico e collaboratore» (cfr. supra, p. 549). Meyer inviò così a Goe­the una lettera, datata 25.VIII.1822, con cui si presentava e notava come «in ambito botanico vi fosse ancora molta strada da percorrere; vostra Eccellenza ha indicato il cammino, ora sta a noi seguirlo». Goe­the rispose il 10.IX.1822, con una lettera in cui si legge, tra l’altro: «Lasciatemi dire l’unica cosa in cui concordiamo del tutto: la scienza, anziché frapporsi tra la natura e il soggetto, mira a sostituirsi alla natura stessa, e finisce così per diventare gradualmente incomprensibile, proprio come la natura. Ora, se l’uomo ignaro vuole esprimersi qui in parole, ne risulta quel triste misticismo che non fa che confondere il labirinto.» Negli Annalen relativi allo stesso anno 1822, si legge la breve nota: «Il rapporto con Ernst Meyer mi ha dato nuova vitalità e stimolo.» Su tali basi si instaurò una vivace corrispondenza tra i due autori, e fu anche grazie all’intervento di Goe­the che Meyer ottenne nel 1826 il ruolo di direttore del Giardino botanico di Königsberg. Il dialogo registrato dal presente testo fu inaugurato da una lettera di Goe­the datata 2.II.1823 contenente la formulazione di quei «problemi» che l’autore definisce anche «affermazioni paradossali», e che

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costituiscono delle tesi riguardo all’ordinamento sistematico della natura in base a criteri ad essa immanenti, e riguardo alla metamorfosi. La risposta di Meyer si mostra puntuale e dettagliata, con riferimenti agli studi morfologici di Goe­the, nonché ai propri contributi scientifici, particolarmente in ambito botanico. Una testimonianza del 28.III.1823 documenta della collaborazione di Riemer alla versione definitiva del saggio, che fu concluso nel giugno dello stesso anno.] 229 Sistema naturale] riferimento al tentativo attuato da Jussieu di fondare un «sistema naturale» di classificazione delle piante, contrapposto a quello «artificiale» proposto da Linné. 230 mistero manifesto] l’espressione «offenbares Geheimnis» costituisce una sorta di formula goethiana che allude alla contemplazione e allo studio della natura e dell’arte. Nel campo dell’indagine naturale, è soprattutto l’idea del bello in natura a dispiegare il «mistero manifesto», ma anche la teoria della metamorfosi delle piante, e quella della derivazione del cranio dalle vertebre, offrono l’occasione di tornare a tale formula, che allude contemporaneamente all’atto di velare e di svelare con cui Goe­the si accosta ai fenomeni naturali, rendendo loro onore in quanto creazioni. 231 un passo tratto dalla teoria dei colori] Farbenlehre, Historischer Teil, WA II 3. 232 pianta originaria] il termine «Urpflanze» designa qui da un lato la forma vegetale più semplice, dall’altro anche la pianta simbolica, che Goe­the situa ad un livello intermedio tra esperienza e idea, nel resoconto del suo primo incontro con Schiller (per cui cfr. supra, p. 448). A proposito del valore del concetto di simbolo si rimanda anche, ad esempio, ad una delle Maximen (MR 1113), nonché al breve e frammentario testo intitolato Symbolik (WA II 11, pp. 167-169). 233 Jussieu [...] Robert Brown] l’opera di Antoine Laurent Jussieu, Genera plantarum, Paris 1789, era stata integrata e ampliata dal medico e naturalista scozzese Robert Brown (1773-1858), i cui lavori furono tradotti da Nees von Esenbeck. 234 [Bedeutende Fördernis durch ein einziges geistreiches Wort. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. 2, Heft I (1823), pp. 46-51; si segue qui il testo di LA I 9, pp. 307-310. Sono conservate solo poche parole manoscritte, di mano di Goe­the, e un traccia, poi abbandonata, del paragrafo conclusivo. Il libro che ha stimolato Goe­the a stendere queste riflessioni gli fu inviato il 29.X.1822 dall’autore stesso, accompagnato dalla seguente nota: «Se nel presente saggio, che tenta di comprendere l’uomo nella sua pienezza, vi troverete rappresentato, alle pp. 387 sg., come creatore dell’autentico procedimento scientifico, vi prego di considerare questo riconoscimento come un atto di gratitudine isolato dalla sfera più ampia dei vincoli di gratitudine che la vostra vita intellettuale e il vostro operare hanno imposto anche a me.» Il lavoro di Goe­the al presente testo iniziò nel marzo del 1823, e tra i mesi di maggio e giugno di quello stesso anno il saggio era pronto per la pubblicazione. Negli Annalen del 1822 si legge l’annotazione: «L’antropologia di Heinroth mi ha fornito chiarimenti sul mio stesso modo di procedere nelle indagini sulla natura, proprio in un periodo in cui ero impegnato a realizzare i miei quaderni di scienza naturale.» Un ulteriore contributo a proposito dell’opera di Heinroth fu pubblicato da Goe­the nel 1825 in «Über Kunst und Altertum», Bd. 5, Heft 2, pp. 175 sg.] 235 Heinroth] Johann Christian Fried­rich August Heinroth (1773-1843), Lehrbuch der Anthropologie, Leipzig 1822. Heinroth era professore di psichiatria a Lipsia. 236 L’esperimento come mediatore tra soggetto e oggetto] Der Versuch als Vermittler zwischen Subjekt und Objekt, in J.W. Goethe, Sämtliche Werke, Bd. 25, pp. 26-36. 237 Figlia naturale] negli Annalen del 1799 si legge: «Nei miei progetti preparo un contenitore in cui spero di mettere per iscritto, con la dovuta serietà, tutto ciò che per tanti anni ho scritto e pensato sulla Rivoluzione Francese e le sue con-

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seguenze.» Della progettata trilogia sulla Rivoluzione Francese, tuttavia, Goe­the realizzò soltanto il dramma in cinque atti Die Natürliche Tochter (1792). 238 Viaggio in Italia] cfr. in particolare la sezione intitolata Störende Naturbetrachtung, inserita nei mesi di luglio e agosto 1787. Cfr. anche le Notizen aus Italien, supra, pp. 67-83. 239 l’idea secondo cui il cranio è costituito da ossa vertebrali] cfr. supra, pp. 635 sg. 240 studi geognostici] Goe­the argomenta la sua avversione per la teoria del vulcanismo nella traccia, poi abbandonata, delle conclusioni del presente saggio, in cui l’autore affermava di aver sempre trovato regolarità e consequenzialità nella struttura delle montagne. Cfr. anche i suoi studi di geologia. 241 deduzione] La costruzione di una sequenza deduttiva a partire da un «punto pregnante» o da un aperçu è il principio guida di Goe­the nell’indagine naturale (cfr. la massima qui a p. 582). 242 [Über die Anforderungen an naturhistorische Abbildungen im Allgemeinen und an osteologische insbesondere. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. 2, Heft I (1823), pp. 52-61; si segue qui il testo di LA I 9, pp. 311-316. Il manoscritto relativo non è tramandato. Il 3.IX.1822 e il 19.III.1823 Eduard d’Alton inviò a Goe­the il terzo e quarto fascicolo della sua opera Über Skelette (cfr. supra, pp. 559-564), intitolati rispettivamente Die Skelette der Raubtiere [...] e Die Skelette der Nagetiere [...], e apparsi nel 1822 e 1823 a Bonn. Goe­the stava cercando dei contributori per i propri quaderni di morfologia, e aveva chiesto un saggio a d’Alton. Negli Annali del 1822 Goe­the annota di essersi sentito «allietato e istruito» dai due contributi inviatigli da d’Alton, e il 26.V.1823, secondo i diari, lavorò alla comparazione tra teste di cavalli antiche (per cui si vedano le righe conclusive del presente saggio).] 243 tale esigenza] nel diciottesimo secolo era consueto che i naturalisti non solo sapessero disegnare, ma che fossero anche abili nelle varie tecniche grafiche, o almeno ne possedessero nozioni teoriche. D’Alton si riferisce qui ai presupposti tecnici fondamentali. 244 camera lucida [...] camera clara] apparecchiature che riproducono l’oggetto da disegnare su un prisma di quattro lati, o su una lastra di vetro, al fine di riprodurlo sulle due dimensioni. 245 a pagina 348] nel presente volume corrisponde alla p. 571. 246 Haydon [...] London 1818] quest’opera di Benjamin Robert Haydon (17861846) aveva immediatamente destato l’attenzione di Goe­the, che il 2.X.1818 scriveva in proposito al veterinario Theobald Renner, e si impegnò a procurarsi dei calchi in gesso delle due teste di cavallo, quella del Partenone e quella della quadriga di San Marco a Venezia. Sulla quadriga veneziana, cfr. Italienische Reise, 8.X.1796. Nella rivista «Kunst und Altertum», Bd. 2, Heft 2 (1820), pp. 88-98, sotto la rubrica Mannigfaltige Kunstanzeigen und Urteile, è pubblicato un saggio di Johann Heinrich Meyer in cui lo stile sublime della testa di cavallo ateniese è posto a confronto con quello più morbido, dalla grazia flessuosa, della testa veneziana. In una lettera del 9.II.1824 d’Alton prometteva di intervenire esprimendo un giudizio sulla questione, come auspicato qui da Goe­the, ma non inviò infine il proprio parere. 247 [[Allgemeine Betrachtung]. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. 2, Heft 1 (1823), p. 62; si segue qui il testo di LA I 9, p. 317. Il manoscritto relativo non è conservato. Nella Ausgabe letzter Hand il testo compare con il titolo Einfluß des Ursprungs wissenschaftlicher Entdeckungen, Bd. 50, pp. 111 sg. Il titolo qui adottato è tratto dall’indice del rispettivo quaderno Zur Morpologie.] 248 [Gemälde der organischen Natur in ihrer Verbreitung auf der Erde, von Wilbrand und Ritgen in Giessen. Fried­rich Siegmund Voigt, Hofrat und Professor in Jena: System der Natur und ihrer Geschichte. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. 2, Heft I (1823), pp.

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63 sg.; si segue qui il testo in LA I 9, pp. 318 sg. I manoscritti relativi non sono conservati. Le annotazioni sull’opera di Wilbrand e Ritgen, già recensita da Goe­ the nel quarto quaderno del primo volume degli scritti morfologici (cfr. supra, pp. 575 sg.), fungono da introduzione per la discussione del manuale di Voigt, con cui si conclude il presente quaderno sulla morfologia. Fried­rich Siegmund Voigt (1781-1850), nato a Gotha dal fisico Johann Heinrich Voigt, e nipote di Johann Fried­rich Blumenbach, studiò storia naturale e medicina a Jena; nel 1805 divenne docente, nel 1807 professore di botanica a Jena e, come successore di Schelver, direttore del giardino botanico. Godette della protezione e dell’amicizia di Goe­the, di cui condivise i principî scientifici della morfologia, e con cui discusse costantemente di questioni di anatomia e botanica. Il suo System der Botanik, apparso a Jena nel 1808, si fonda interamente sulla teoria goethiana della metamorfosi, e nel suo manuale del 1823 è citata la teoria dell’origine vertebrale del sistema osseo da uno dei volumi Zur Morphologie.] 249 [Von dem Hopfen und dessen Krankheit, Ruß genannt. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. 2, Heft 2 (1824), pp. 74-76; la presente versione si basa su LA I 9, pp. 328 sg. Esiste un manoscritto di mano dello scrivano Johann John e con correzioni di Goe­the, un abbozzo della seconda parte del testo e un altro manoscritto, predisposto in vista della stampa. Il 24.IX.1823 Goe­the aveva preso in prestito dalla biblioteca di Weimar due dei volumi dell’opera di Christian Schkuhr, Botanisches Handbuch, 3 Bde. und ein Tafelbd., Wittenberg 1787-1803, 4. Bd. (2. Aufl.), ebenda 1808. Il 29.IX. Goe­the inviò a Nees von Esenbeck una foglia di luppolo affetta dalla malattia in esame, con una nota descrittiva e delle domande, a cui Esenbeck rispose il 17.X. con un testo che Goe­the inserirà nel presente quaderno sulla morfologia, accanto ad un altro contributo di Esenbeck dal titolo Irrwege eines morphologisierenden Botaniker. Tra le pagine dello stesso quaderno fu pubblicata inoltre anche la risposta inviata a Goe­the il 14.III.1824 dal borgomastro Ignaz Lößl (1782-1849) di Falkenau, in Boemia. Il presente saggio si pone come una prosecuzione del testo sulla Verstäubung, Verdunstung, Vertropfung, qui alle pp. 523534. La malattia detta ‘fuliggine’ di cui qui si tratta è il risultato dell’azione di un fungo detto fumago salicinia.] 250 afidi] questi afidi si nutrono dei succhi della pianta e sono in grado a loro volta di secernere dei fluidi melliformi. Quello che si presenta sul luppolo è chiamato phorodon humuli. Riguardo all’osservazione degli afidi, in connessione con la fuliggine e la melata del luppolo, sorse una discussione sull’origine vegetale di organismi animali, nel corso della quale Goe­the scrisse a Carl August il 17.I.1825 di poter assumere l’ipotesi di una simile origine di forme animali a partire da parti vegetali e acqua. 251 luppolina] a questa domanda Nees von Esenbeck rispose indicando della letteratura specializzata, e inviando anche un’analisi chimica. 252 [Die Lepaden. J.W. v. Goe­the, Zur Morphoologie, Bd. 2, Heft 2 (1824), pp. 95-99; si segue qui il testo di LA I 9, pp. 339-341. Si conserva un manoscritto di mano dello scrivano Johann John e con correzioni di Goe­the, servito per la stampa e datato Weimar, 20.XII.1823. Già nell’aprile del 1823 Goe­the aveva tracciato uno schema per questo saggio, elaborandolo sulla scorta di osservazioni condotte su materiali provenienti da Jena; iniziò a dettarlo il 14.XII, e consegnò il manoscritto per la stampa una settimana dopo, correggendo le bozze di propria mano il 27 e 28 dicembre. Effettuò infine un’ultima revisione il 25.VI.1824, dopo una lunga pausa. La famiglia dei lepadi appartiene al gruppo dei gamberi, nell’ordine dei cirripedi; il loro guscio consta di cinque valve mobili, tenute insieme e unite a un supporto da un sottile stelo membranaceo. In passato erano classificati tra i molluschi, poiché esteriormente presentano un aspetto ad essi simile.] 253 comunicazioni del dr. Carus] Carl Gustav Carus, Grundzüge allgemeiner Naturbe-

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trachtung, in: J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. 2, Heft 2 (1824), pp. 84-95 (cfr. in proposito supra, nota 200 a p. 870). 254 Cuvier nelle Mémoires du Muséum d’Histoire naturelle] apparse a Parigi nel 1815. Una delle tavole mostra uno spaccato interno ed esterno, nonché singole componenti della lepas anatifera. 255 Lepas polliceps] oggi è chiamata polliceps cornucopia, della famiglia delle pollicedidae; presenta un maggior numero di gusci, che si dispongono anche attorno allo stelo. 256 attenermi unicamente ai simboli] Cfr. in proposito Wenzel 1982, pp. 132 sg. Goe­ the prende posizione nel dibattito tra approccio teorico ed empirico; in più luoghi l’autore afferma che il rapporto tra idea ed esperienza deve intendersi mediato attraverso la conoscenza simbolica: cfr. ad esempio MR 314, 1113, nonché le considerazioni sul rapporto tra conoscenza simbolica e adozione di un linguaggio adeguato, espresse nel già citato saggio intitolato Symbolik, nella raccolta di scritti Zur Naturwissenschaft, in WA II 11, pp. 167-169 (cfr. anche supra, nota 232, p. 875, al testo Problem und Erwiderung). Da sottolineare, in particolare, gli spunti relativi ai diversi modi di designazione veicolati dal linguaggio. 257 [Ernst Stiedenroth Psychologie zur Erklärung der Seelenerscheinungen. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. 2, Heft 2 (1824), pp. 117-120; si segue qui il testo di LA I 9, pp. 353-355. Si conserva una versione manoscritta, di mano del segretario Fried­ rich Kräuter con correzioni di Goe­the, datata Weimar, 15.VI.1824. Secondo i diari, Goe­the lesse il saggio qui in esame, che gli era stato inviato dal suo autore, nei giorni 11-14 giugno 1824. Cfr. anche la lettera a Christoph Ludwig Fried­rich Schultz del 27.VI.1824, con attestazioni entusiastiche sulla lettura dell’opera di Stiedenroth. Un ulteriore contributo a proposito della medesima Psychologie di Stiedenroth fu pubblicato da Goe­the in «Über Kunst und Altertum», Bd. 5, Heft 2, pp. 169 sg. Ernst Anton Stiedenroth (1794-1858) fu professore di filosofia a Greifswald e a Berlino.] 258 le mie annotazioni su Purkinje] il saggio di Goe­the Das Sehen in subjektiver Hinsicht von Purkinje apparve nel quaderno sulla morfologia alle pp. 102-117. Si rimanda, in proposito, ai volumi sulla Farbenlehre, cui il tema di quel contributo è pertinente. 259 teoria delle forze psichiche superiori e inferiori] riferimento alla questione della valutazione della fantasia entro i sistemi filosofici e filosofico-psicologici. In rapporto alla posizione kantiana, che distingue una fantasia di specie inferiore, legata alla sensibilità e attiva mediante la facoltà immaginativa, Einbildungskraft, e una di specie superiore, legata alla ragione, che opera mediante la facoltà di Giudizio, Urteilskraft, Goe­the si era espresso criticamente nel saggio intitolato Einwirkung der neueren Philosophie, qui alle pp. 455-459, riprendendo i suoi argomenti anche in una lettera a Maria Paulowna del 3.I.1817. 260 una fantasia sensibile esatta] Con tale concetto Goe­the stabilisce la possibilità di istituire una mediazione tra le facoltà dell’anima, conferendo così pari rango alla natura e all’arte. 261 [Specimen anatomico-pathologicum inaugurale de labii leporini congeniti natura et origine, auctore Constant. Nicati. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. 2, Heft 2 (1824), pp. 120-122; la presente versione si basa su LA I 9, p. 356. Si conserva il manoscritto su cui si basa la versione a stampa, di mano dello scrivano Johann John con correzioni di Goe­the. Già nel giugno 1822 Nicati aveva inviato a Goe­the una copia del suo lavoro con una dedica manoscritta; tuttavia, la percezione della reale importanza che tale saggio poteva rivestire fu suggerita a Goe­the solo più tardi, grazie ad una recensione apparsa sulla «Jenaische Allgemeine Literatur-Zeitung» nel settembre del 1823.

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La dissertazione di Constantin Nicati, pubblicata ad Utrecht e Amsterdam nel 1822, confermava la presenza dell’osso intermascellare nell’uomo, deducendola da osservazioni condotte sul labbro leporino in embrioni.] 262 Jenaische allgem. Literat. Zeitung, 1823, No. 175] l’autore della recensione è Burk­ hard Wilhelm Seiler (1779-1843), medico e anatomista a Dresda, che si occupò anche di malformazioni organiche. 263 alle pp. 199 sgg.] corrispondono alle pp. 485 sgg. della presente traduzione. 264 disegni preparati per questo scopo] Christian Gottfried Daniel Nees von Esenbeck, in qualità di presidente dell’Accademia imperiale Leopoldina delle scienze naturali, aveva ricevuto da Goe­the dei disegni anatomici perché fossero pubblicati sui «Nova Acta» della Leopoldina. Nel dodicesimo volume, I sezione (1824) di questa rivista apparvero tre tavole che illustravano dei crani di elefanti, disegnate da Wilhelm Waitz su indicazioni di Goe­the (cfr. qui le tavv. 18-20), con aggiunte e osservazioni di d’Alton. Nel quindicesimo volume, I sezione (1831) fu pubblicato invece il saggio sull’osso intermascellare, composto nel 1784, corredato di cinque tavole, anch’esse realizzate da Waitz (cfr. supra, p. 815 e tavv. 2-11). 265 la storia della collana] Goe­the aveva rappresentato lo scandalo della collana del cardinale Rohan per Maria Antonietta, considerato evento scatenante della Rivoluzione Francese, nella commedia intitolata Der Groß-Cophta. 266 [Das Schädelgerüst aus sechs Wirbelknochen auferbaut. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. 2, Heft 2 (1824), pp. 122-124; si segue qui il testo di LA I 9, pp. 357 sg. Si conserva un manoscritto, predisposto per la stampa, di mano dello scrivano Johann John con correzioni di Goe­the, che reca la data: Weimar, 23.VI.1824. All’autore era sembrato che il suo contributo a proposito della natura vertebrale delle parti del cranio, apparso nei quaderni Zur Morphologie tra i Nachträge (cfr. supra, pp. 517-519) e citato anche nel testo dal titolo Bedeutende Fördernis [...] (tradotto qui alle pp. 609-612), fosse rimasto privo della dovuta risonanza. Decise dunque di insistere sull’argomento, e scrisse a Karl Fried­rich Burdach già il 21.VII.1821 di questa sua intenzione. Al gennaio 1824 risale anche uno scambio di opinioni in proposito con Carl Gustav Carus.] 267 pag. 50] corrisponde, nella presente traduzione, a p. 611. 268 1807] Si tratta dell’anno in cui il fisiologo Lorenz Oken presentò la sua lezione inaugurale, stampata con il titolo Über die Bedeutung der Schädelknochen, Bamberg und Würzburg 1807. Si rimanda, in proposito, alla nota 150 a p. 866. 269 un’opera molto pregiata e valida] si tratta del volume di Johann Baptist Spix, Cephalogenesis, München 1815. Cfr. il contributo goethiano intitolato Kraniologie, qui tradotto alle pp. 663 sg. 270 Dr. Carus] si riferisce all’opera Von den Ur-Teilen des Schalen- und Knochengerüstes, per cui cfr. supra, p. 565. Il 7.III.1822 Carus aveva inviato a Goe­the la tabella in questione, annotando: «Non so dire quanto la corrispondenza tra natura e idea, che emerge ovunque, mi ripaghi dei miei lunghi e faticosi studi». 271 [Zweiter Urstier. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. 2, Heft 2 (1824), pp. 124126; si segue qui il testo di LA I 9, pp. 359 sg. Si conserva un manoscritto, predisposto per la stampa e datato: Weimar, 24.VI.1824, di mano dello scrivano Johann John e con correzioni di Goe­the. Come testimoniano i diari, il 10.XII.1823 l’autore aveva studiato «un cranio di toro fossile, secondo Cuvier», e il 21.II.1824 scriveva a Nees von Esenbeck, con qualche disappunto: «I resti di un altro toro preistorico sono stati rinvenuti nella stessa torbiera, e non sono stati ancora studiati i resti del primo, che erano ben conservati. I nostri scienziati, che ne sono a conoscenza, forse sono impegnati in più urgenti faccende quotidiane per dedicarsi alle costole della preistoria».] 272 pag. 342] si riferisce al saggio Fossiler Stier, qui alle pp. 567-573.

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[Vergleichende Knochenlehre. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. 2, Heft 2 (1824), pp. 126-138; la presente versione si basa su LA I 9, pp. 361-368. Il manoscritto relativo, che è servito da modello per la stampa, consiste di due parti, una delle quali, di mano di Goe­the e databile agli anni Novanta del Settecento, ha l’aspetto dei primi schemi osteologici realizzati dall’autore; la seconda parte invece, di mano dello scrivano Johann John e con correzioni di Goe­the e Riemer, è più discorsiva ed è datata al 9.VII.1824. Questa seconda sezione, che sembra rifarsi a lavori precedenti, è stata redatta durante le fasi conclusive del lavoro ai quaderni di morfologia e mostra un atteggiamento più sicuro da parte dell’autore, più consapevole della validità dei suoi studi e confortato dall’interesse mostrato dai suoi contemporanei più giovani. Non si tratta dunque di una mera ripetizione di risultati già esposti, bensì dell’indicazione di nuove prospettive, che troveranno tuttavia ulteriore elaborazione soltanto nel saggio Principes de Philosophie zoologique, del 1830 (qui tradotto alle pp. 817-845).] 274 Ossa pertinenti all’apparato uditivo] Goe­the aveva richiamato l’attenzione su queste ossa già nel saggio intitolato Erster Entwurf [...] (qui alle pp. 219, 224 e 233), nonché nei Nachträge all’anatomia comparata (supra, pp. 509 sg.). Come nel caso dell’osso intermascellare, anche qui si rivela fondamentale esaminare singolarmente le varie parti attraverso la serie dei differenti animali, per introdurre il procedimento comparativo. 275 Ulna e radio] si introduce a questo punto una descrizione che all’analisi della forma delle ossa qui in esame accosta quella della loro funzione. In particolare, Goe­the considera la forma e la mobilità di queste parti anatomiche proprio a partire dalla funzione che esse svolgono. 276 tipo osteologico generale] si veda il saggio Erster Entwurf [...], qui tradotto alle pp. 207-238. 277 Morfologia, pag. 204] corrisponde alla p. 13 della presente traduzione. 278 servendosi di numeri e misure] Nelle riflessioni dedicate al tema del bello in natura (cfr. supra, pp. 200 sg.) Goe­the aveva tentato di liberare il concetto del rapporto proporzionale reciproco tra le parti di un animale dai concetti di «numero e misura». 279 dapprima in modo molto rapido] si riferisce all’impiego di tabelle entro cui ordinare le sue osservazioni, e in particolare alla tabella qui riprodotta alle pp. 512-516. 280 terra [...] acqua [...] aria] Goe­the aveva studiato in particolare queste condizioni dell’ambiente esterno nel saggio Zur Vergleichungslehre, qui tradotto alle pp. 161194. 281 d’Alton] riferimento all’opera di d’Alton Über Skelette, più volte menzionata e recensita da Goe­the (cfr. supra, pp. 559-564, 613-616, 647-652). 282 Ernst Stiedenroth] allusione alla Psychologie di Stiedenroth, a proposito della quale Goe­the si era espresso nel saggio qui alle pp. 629-631. 283 [Die Skelette der Nagetiere, abgebildet und verglichen von d’Alton. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. 2, Heft 2 (1824), pp. 148-156; si segue qui il testo di LA I 9, pp. 374-379. Si conserva un manoscritto, di mano dello scrivano Johann John, con correzioni di Goe­the e di Riemer, predisposto per la stampa e datato Weimar, 15.VIII.1824. Eduard d’Alton aveva inviato a Goe­the le prime sezioni del suo lavoro il 16.VIII.1823, e una seconda parte il 3.III.1824. Nell’agosto del 1824 Goe­ the si era occupato intensivamente dei roditori, aveva trascritto degli excerpta dal lavoro di d’Alton e infine aveva redatto questa recensione. Il 20.VIII. inviò una lettera di ringraziamento a d’Alton, dal quale aveva ricevuto un contributo sulle Abbildungen der vorzüglichsten Pferde [...] per uno dei quaderni sulla morfologia. Goe­the inserì dunque tale contributo, insieme alla presente recensione, nel secondo quaderno del secondo volume, mentre nella citata lettera a d’Alton scri273

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veva che il suo contributo gli era stato d’aiuto «nel modo più piacevole e persuasivo». Inoltre, «quanto ai fascicoli sui roditori, mi riportano indietro ai primi anni in cui impegnavo in questo studio, da autodidatta, un tempo che dovrei ritenere perduto se non sapessi che ciò che ho appreso allora mi aiuta a comprendere il valore dei vostri risultati, nonché a far mia una parte di essi. Questo soddisfa pienamente le mie antiche speranze e i miei desideri.» La recensione di Goe­the ha il carattere di uno studio fisiognomico sui roditori e, analogamente a quanto mostra il procedimento impiegato nel testo Vergleichende Knochenlehre (supra, pp. 639-646), anche in questo caso l’analisi della funzione è inserita in quella della forma degli organismi considerati.] 284 versatilità] la mobilità dell’essere vivente, qui caratterizzata da Goe­the, corrisponde ad un analogo concetto da lui fissato a proposito delle specie vegetali delle rose (cfr. supra, p. 598), che ostacola in ultima analisi una classificazione sistematica. 285 mutamenti di forma] riferimento alla teoria dell’adattamento alle condizioni esterne, cui Goe­the aveva alluso già nel saggio Vergleichende Knochenlehre (qui tradotto alle pp. 639-646). 286 Sua Maestà il re di Prussia] Fried­rich Wilhelm III (1770-1840), re di Prussia dal 1797. 287 [Genera et species palmarum, von Dr. C.F. von Martius. Fasz. I. und II. München 1823. J.W. v. Goe­the, Zur Morphologie, Bd. 2, Heft 2 (1824), pp. 156-160; si segue qui il testo di LA I 9, pp. 380-382. Si conserva un manoscritto, predisposto per la stampa, di mano dello scrivano Johann John e con correzioni di Goe­the e di Riemer. Goe­the ricevette il primo fascicolo dei Genera et species palmarum da von Martius il 1.XI.1823, e completò la recensione alla metà di ottobre dell’anno successivo, concludendo l’ultimo dei suoi quaderni di morfologia. Già il 5.XI.1823, dopo aver redatto uno schema dello scritto ricevuto, Goe­the ne parlava entusiasticamente in una lettera a Schultz, e inviava il 3.XII. un messaggio di ringraziamento a von Martius, affermando di aver letto e riletto il suo lavoro, ricavandone preziosi chiarimenti sul genere delle palme. Il 9.III.1824 von Martius inviava poi a Goe­the il testo di un suo discorso sulla Physiognomie des Pflanzenreichs in Brasilien, che Goe­the ricevette e iniziò a studiare il 13.III. Il 16.VIII.1824 riprese lo studio su questi temi e concepì, tra il 5 e il 12.IX. un saggio iniseme a Johann Heinrich Meyer. Martius si recò in visita da Goe­the il 13 e 14 settembre, e discusse con lui dell’argomento. Il 14.IX. Goe­the fece giungere, dalla biblioteca di Weimar, il testo di Martius e Spix Reise in Brasilien, e ne inserì una recensione, che trattava in particolare della tecnica utilizzata per la realizzazione delle tavole e del «linguaggio artistico» impiegato, nel presente quaderno di morfologia. Un secondo saggio, più dettagliato, intitolato Über Martius Palmenwerk (qui alle pp. 675-678) non fu inserito invece nel quaderno citato. Fu grazie alla mediazione di Nees von Esenbeck che Goe­the conobbe personalmente Karl Fried­rich Philipp Martius (1794-1868), botanico monacense, e il rapporto tra i due si mantenne vivo anche negli anni successivi. Nel suo complesso, l’opera di Martius fu pubblicata tra il 1823 e il 1850, e si compone di 3 volumi con 245 tavole, litografate e a colori.] 288 spedizione scientifica] Martius intraprese la spedizione in Brasile negli anni 18171820, insieme allo zoologo Johann Baptist Spix, su sollecitazione e per incarico del re di Baviera Max Joseph I. I due scienziati tornarono con un nutrito carico di pezzi raccolti sul luogo, e la descrizione dei risultati conseguiti in ambito botanico, zoologico ed etnologico costituì il lavoro che occupò l’intera vita di Martius. 289 tavole] La descrizione tecnica delle tavole è opera di Johann Heinrich Meyer. 290 nell’opera di Albinus] Bernhard Siegfried Albinus, Tabulae ossium humanorum, Leiden 1753.

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291 Resoconto di viaggio] Spix e Martius, Reise in Brasilien auf Befehl Sr. Maj. Max Joseph I. in d. J. 1817-1820, 3 Bde. und Tafelbd., München 1823-1831. 292 Physiognomik der Pflanzen] Die Physiognomie des Pflanzenreiches in Brasilien, eine Rede, München 1824. 293 [Verbreiterung. Manoscritto, conservato nel Nachlass di Goe­the a Weimar e stampato per la prima volta in WA II 6, pp. 330 sg. Si segue qui il testo di LA I 10, p. 206. Questo frammento, probabilmente pensato come supplemento al lavoro sulla metamorfosi delle piante, è stato dettato in due fasi al bibliotecario jenese Christian Ernst Fried­rich Weller, il cui nome compare tra gli scrivani al servizio di Goe­the a partire dal 1818. Attualmente si ritiene che la causa di malformazioni come la dilatazione, o la comparsa di strisce o fasce attorno all’asse del germoglio di una pianta sia da attribuire ad alterazioni dell’equilibrio delle cellule, che possono essere provocate da radiazioni o da avvelenamento.] 294 [[Wacholder in Goethes Garten.] Si conservano due manoscritti, rispettivamente nel Nachlass di Goe­the e nelle raccolte del Goe­the-Nationalmuseum di Weimar, di mano dello scrivano della biblioteca Fried­rich Theodor David Kräuter, un abbozzo e una bella copia, quest’ultima legata al disegno relativo. Si segue qui il testo di LA I 10, p. 207. Nei diari, alla data 29.III.1819, Goe­the annota: «la spiegazione è posta in calce all’illustrazione del grande ginepro che si trova nel giardino». Il testo presente era stato inizialmente composto per gli Annalen, in cui, all’anno 1809, si legge: «Tra gli eventi naturali, ricordo la violenta tempesta che ha infuriato nella notte tra il 30 e il 31 gennaio, e che ha procurato anche a me un danno sensibile, poiché ha abbattuto un vecchio e venerabile albero di ginepro nel mio giardino, sradicando così un fedele testimone dei miei giorni più lieti. Quest’albero, l’unico ginepro dell’intera regione, in cui questa specie si presenta quasi unicamente in forma di cespugli, si era conservato probabilmente fin dal tempo in cui non vi era ancora coltura dei giardini. Intorno ad esso si narrava ogni sorta di leggende: uno dei precedenti proprietari del giardino, un tale Schulmann, dovette essere seppellito sotto quel ginepro, tra l’albero e l’antica casa presso la quale si trovava, poiché sosteneva di aver visto degli spettri di fanciulle che pulivano quel luogo. In ogni caso, il ginepro faceva parte di quel fantastico complesso in cui sorgeva la dimora che ha visto scorrere così tanti anni della mia vita, e che è divenuta così cara, per me e per altri, grazie alla predilezione e all’abitudine, alla poesia e alle illusioni. Ho fatto dunque realizzare un disegno dell’albero abbattuto, che si trova ora presso la biblioteca granducale; nella didascalia si legge quanto segue:» e a questo punto si trova il testo qui presentato. L’interesse scientifico di Goe­the si concentrava sulla struttura del legno, per cui cfr. anche il testo Merkwürdige Heilung [...], qui tradotto alle pp. 549 sg. Uno dei disegni è qui riprodotto alla tav. 36.] 295 [Kraniologie. Il manoscritto relativo si trova nel Nachlass di Goe­the a Weimar, ed è stato stampato per la prima volta in WA II 8, pp. 333 sg. Si segue qui il testo di LA I 9, p. 208. Il saggio fu dettato allo scrivano jenese Johann David Gottlob Compter, il cui nome compare nei diari di Goe­the a partire dal 1820; altro terminus post quem per la datazione del presente contributo è fornito dalla data del ritorno del naturalista Johann Baptist Spix dalla sua spedizione in Brasile, anch’essa coincidente con l’anno 1820. Goe­the si era già occupato dei lavori di Spix, citando con molte riserve, già nel 1817, l’opera intitolata Cephalogenesis sive capitis ossei structura, formatio et significatio, München 1815. Negli Annalen del 1817 si legge: «Appare la Cephalogenesis di Spix, ma, mettendola alla prova, ci si scontra con spiacevoli ostacoli. Né il metodo di esposizione generale, né la terminologia con cui sono nominate le singole parti si mostrano maturi; e inoltre dal testo sembra che vi siano espresse più opinioni altrui che non teorie meditate.» Analoghi giudizi si trovano in una lettera a Carus del 13.I.1822 e in una a Burdach

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del 21.VII.1821, mentre più cauta è l’opinione espressa e pubblicata nei quaderni sulla morfologia (cfr. supra, p. 505). Goe­the rimprovera a questo autore, come già a Oken, un impiego eccessivo del metodo analogico nella comparazione delle vertebre e di altre parti anatomiche, ma l’opera di Spix suscitava anche da altre parti reazioni contrastanti. Probabilmente anche per questo motivo Goe­the assume verso Spix lo stesso atteggiamento ambivalente che dimostra in generale nei confronti della filosofia della natura a lui contemporanea, che Spix rappresenta: da un lato si sente obbligato dinanzi ad essa, dall’altro tuttavia ne rifiuta gli estremismi.] 296 [Bryophyllum calycinum [I]. Il manoscritto, di mano dello scrivano Johann John e datato Jena, 11.IX.1820, si trova nel Nachlass di Goe­the nell’Archivio weimariano, ed è stato pubblicato per la prima volta in WA II 6, pp. 337-340; si segue qui la versione di LA II 10, pp. 211-213. Il primo accenno alla pianta qui esaminata si trova in una lettera a Carl August del 29.XII.1818, in cui Goe­the augurava un proficuo inizio del nuovo anno, suggerendo l’immagine della generosità con cui questa pianta germogliava. In seguito l’autore ne coltivò e studiò degli esemplari, citandola nei supplementi allo scritto sulla metamorfosi (cfr. supra, p. 481) e nel testo sul gocciolamento (supra, p. 532). Il presente schema doveva servire alla redazione di un articolo destinato ai «Nova Acta» della Leopoldina, che tuttavia Goe­the non realizzò, anche se alcuni anni dopo, nel 1826, aggiunse una prosecuzione delle osservazioni qui raccolte (per cui si veda più oltre, pp. 685 sg.). Il Bryophyllum calycinum appartiene alla famiglia delle crassulacee, originarie delle regioni tropicali. La specie coltivata da Goe­the è detta attualmente Kalanchoë pinnata, e giunse solo nel 1800 da Calcutta nei giardini botanici londinesi; si trova descritta e riprodotta in un articolo di William Curtis sul «Botanical Magazine», vol. 33, London 1811, tavola 1409. Si rimanda qui ai contributi di Balzer 1949 e Steiger 1979.] 297 Staccata una semplice foglia] La coltura inizia da una singola foglia. Segue l’osservazione della sequenza delle foglie successive. 298 gocciolamento] Il fenomeno della fuoriuscita di liquido in forma di gocce da fessure nell’epidermide della pianta (guttazione) si verifica a causa di un eccessiva presenza di liquido. In queste gocce è possibile riscontrare componenti minerali e organiche e in particolare varie specie di zuccheri. 299 [Zur Verstäubung. Il manoscritto, di mano dello scrivano Johann John, si trova nel Nachlass di Goe­the a Weimar, ed è stato pubblicato per la prima volta in WA II 6, pp. 205 sg.; si segue qui il testo di LA I 10, p. 210. La descrizione qui contenuta dei funghi champignons si riferisce a quanto esposto nel saggio Verstäubung, Verdunstung, Vertropfung, nei quaderni di morfologia: cfr. pp. 526 sg.] 300 [[Anzeige für Mursinna]. Il manoscritto, di mano dello scrivano Johann John e datato 8.VI.1823, si trova nel Nachlass di Goe­the a Weimar, ed è stato pubblicato per la prima volta in WA II 13, p. 448; si segue qui il testo di LA I 10, p. 214. L’inserzione si riferisce ad una nota biografica redatta dal medico Christian Ludwig Mursinna (1744-1823) su Caspar Fried­rich Wolff, e riportata nei quaderni di morfologia (cfr. supra, nota 49, pp. 858 sg.).] 301 [Unbillige Forderung. Il manoscritto relativo, di mano dello scrivano Johann John e datato Weimar, 27.VI.1824, si trova nel Nachlass di Goe­the a Weimar ed è stato pubblicato per la prima volta in WA II 6, pp. 331 sg.; si segue qui il testo di LA I 10, p. 215. In assenza di testimonianze esplicite, è possibile ipotizzare che l’occasione del presente saggio sia derivata da una conversazione avuta dall’autore. Il riferimento alle fondamenta del duomo di Colonia è stato suggerito probabilmente da un colloquio con l’amico Sulpiz Boisserée (1783-1854), collezionista d’arte che si era molto impegnato per la ricostruzione del citato duomo.] 302 [Über Martius Palmenwerk. Il manoscritto relativo, conservato nel Nachlass di

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Goe­the a Weimar, è di mano dello scrivano Johann John, presenta molte correzioni dell’autore, ma non sembra elaborato in forma definitiva. La sua prima pubblicazione è contenuta in WA II 7, pp. 346-349. Si segue qui il testo di LA I 10, pp. 216-218. Si tratta di considerazioni strettamente legate a quelle esposte da Goe­the nello scritto Genera et specie [...], qui alle pp. 653-655, di cui è da ritenere la prosecuzione incompiuta. L’autore elogia l’esposizione mediante immagini dei risultati di Martius, enfatizzando il rapporto tra indagine della natura e indagine artistica. Il saggio cui Goe­the si riferisce, in particolare, coincide con il manoscritto che Martius gli aveva inviato il 23.X.1823 e che reca il titolo Einiges von den Palmen, naturgeschichtlich und morphologisch, e contiene l’esposizione della crescita, dell’infiorescenza e dell’infruttescenza delle palme.] 303 [[Veränderlichkeit der Racen] Il manoscritto relativo, datato Weimar, 4.X.1824 e di mano dello scrivano Johann John, si trova nel Nachlass di Goe­the a Weimar ed è stato stampato per la prima volta in WA II 12, p. 168. Si segue qui il testo di LA I 10, p. 219. Karl Christian Gottlob Sturm (1781-1826), che qui Goe­the cita, fu direttore di un’azienda agricola di Tiefurt, e visse a Bonn a partire dal 1819, restando in contatto con Goe­the e con il duca Carl August. La rivista da lui curata, dal titolo «Beiträge zur teutschen Landwirtschaft und deren Hülfswissenschaften» apparve a Bonn negli anni 1821-1826. Goe­the ricevette da lui il quarto volume (1824) di tale rivista, accompagnato da una lettera datata 17.IX.1824; si tratta del volume che contiene, alle pp. 38-46, il saggio di Sturm dal titolo Beiträge zur Schafzucht und Wollkunde, in cui si esaminano incroci e tipi di lana, e ci si chiede dopo quante generazioni di incroci tra pecore merino e pecore di campagna la razza merino diventi stabile. A ciò si riferisce la citazione qui riportata da Goe­the. Sturm riteneva di aver scoperto una legge, per cui il numero di anni necessario alla crescita completa dei denti della specie coincide con il numero di generazioni richiesto affinché una razza si muti nell’altra.] 304 [Blatt und Wurzel. Il manoscritto, di mano dello scrivano Johann John con correzioni dell’autore, si trova nel Nachlass di Goe­the a Weimar ed è stato pubblicato per la prima volta in WA IV 39, pp. 143-145. Questo breve saggio fu inviato a Carl August con una lettera di accompagnamento datata 20.III.1825, in cui si legge che l’intenzione di Goe­the era di «mostrare alcuni esempi della vita delle radici in generale. Non si raccomandano mai a sufficienza tentativi simili, che portano alla luce gli intimi e segreti scopi della natura.»] 305 Fritillaria] pianta delle liliacee. Alcuni appunti riguardo alla sua struttura si trovano tra i materiali botanici raccolti da Goe­the negli anni Novanta (per cui cfr. LA II 9B, M8). 306 un notevole esemplare di radice] dai diari risulta che Goe­the ricevette tale esemplare da Fried­rich August von Fritsch (1768-1845) l’11.III.1825. 307 [Über zwei emetische Wurzeln. Si conservano quattro manoscritti sotto questo titolo, nel Nachlass di Goe­the a Weimar. Il testo fu pubblicato per la prima volta in WA II 13, pp. 163 sg.; la presente versione si basa sul testo di LA I 10, p. 225. Dei quattro manoscritti, di mano del segretario di Goe­the, Johann Christian ­Schuchardt, uno si trova allegato ad una lettera a Nees von Esenbeck del 16.XI.1825. L’occasione del presente saggio è dovuta ad una richiesta del granduca Carl August, che domandava informazioni sulle proprietà curative della «Raiz preta». I ragguagli raccolti da Goe­the tramite Nees von Esenbeck, tramite i naturalisti reduci da un viaggio in Brasile, Martius e Johann Baptist Emanuel Pohl (1782-1834) e tramite il medico Rehbein, dimostrarono infine che la pianta in questione era stata erroneamente considerata una pianta officinale e un utile antidoto all’idropisia, come si legge esplicitamente, tra l’altro, in una lettera di Goe­the a Sternberg del 21.IX.1826. Ma già il 9.XII.1825, scrivendo a Nees von Esenbeck, l’autore riconosceva: «il vostro saggio dedicato alla Raiz preta mi ha

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fatto gettare ancora uno sguardo tra le onde dell’oceano botanico. Un simile sguardo ci ammonisce a restare a riva, lasciando che siano i naviganti, i nuotatori e i sommozzatori, di nascita o di professione, a intraprendere un viaggio tanto nobile e tanto rischioso.» (cfr. WA IV 40, pp. 412 sg.)] 308 Langsdorff] Georg Heinrich Frhr. von Langsdorff (1774-1852), naturalista ed esploratore. 309 Diario del Brasile di Eschwege] Wilhelm Ludwig von Eschwege (1777-1855), Journal von Brasilien, 2 Hefte, Weimar 1818-1819. 310 von Martius [...] Brasiliensis] apparso a Monaco nel 1824. 311 Cephaëlis [...] Ipecacuanha] pianta emetica della famiglia delle rubiacee, originaria del Brasile, fu introdotta in Europa già nel diciassettesimo secolo. 312 [Bryophyllum calycinum [II]. Il manoscritto relativo, di mano dello scrivano Johann John, si trova nel Nachlass di Goe­the a Weimar ed è stato stampato per la prima volta in WA II 6, pp. 336 sg. Si segue qui il testo di LA I 10, p. 228. Il testo si connette allo schema della prima parte del saggio (cfr. supra, pp. 665-667) e questa seconda stesura può datarsi verosimilmente al 24.III.1826, giorno in cui Goe­the scrive a Nees von Esenbeck partecipandogli il proprio piacere nella contemplazione di questa pianta, ed esprimendo l’intenzione di realizzare una monografia su di essa. Un proposito, quest’ultimo, che non fu però realizzato, anche se l’immagine del Bryophyllum calycinum continuò a rivestire per Goe­the sempre un significato particolare, legato ai concetti dell’eterna giovinezza, dell’amicizia e dell’amore.] 313 [[Entwürfe zu einem Aufsatz über den Weinbau] Il testo è redatto su una serire di manoscritti, reciprocamente indipendenti, di mano dello scrivano Johann John e con correzioni di Goe­the, è datato Dornburg, 5-8.VIII.1828, e si trova nel Nachlass di Goe­the a Weimar. È stato pubblicato per la prima volta in WA II 6, pp. 345 sg., II 7, pp. 133-149 e II 13, p. 76. La presente versione si basa sul testo di LA I 10, pp. 261-271, in cui i fogli sono ordinati diversamente rispetto alla precedente edizione. Il 3.VIII.1828 Goe­the annotava di essere venuto a conoscenza di un testo di Kecht sulla viticoltura; si recò dunque, accompagnato dal giardiniere di corte Franz Baumann, attraverso i vigneti nei dintorni di Dornburg, realizzando disegni, riportando le sue osservazioni a vari corrispondenti e dettando immediatamente primi abbozzi di un saggio sull’argomento. I suoi studi proseguirono, valendosi anche di ulteriori letture, fino al termine del suo soggiorno a Dornburg, all’inizio di settembre. Nel secondo indice progettato per il Versuch über die Metamorphose (cfr. la lettera a Soret del 19.II.1829) Goe­the inseriva, tra i capitoli conclusivi, questo saggio sulla viticoltura, che rimase però allo stato di frammento.] 314 Nees von Esenbeck [...] genziane] il 12.V.1818 Christian Gottfried Daniel Nees von Esenbeck aveva inviato a Goe­the la sua dissertazione intitolata Über die bartmündigen Enzianarten, e apparsa in «Nova Acta Leopoldina» 8 (1818), pp. 141-179. 315 Seidel] Johann Heinrich Seidel (1744-1815), giardiniere di corte a Dresda, a cui Goe­the fece visita negli anni 1794, 1810 e 1813. Cfr. anche supra, p. 769. 316 il testo sulla viticoltura pratica redatto da Kecht] Johann Sigismund Kecht (17511825), Versuch einer durch Erfahrung erprobten Methode, den Weinbau in Gärten und vorzüglich auf Weinbergen zu verbessern, Berlin 1814; Goe­the si servì della seconda edizione, del 1827. Kecht sosteneva, in questo testo, la potatura autunnale, per impedire che le viti producessero infiorescenze. 317 La vite] La complessa struttura della Vitis vinifera si può chiarire se si considera che ad ogni sezione che contiene foglia e viticcio appartiene il germoglio sottostante, vale a dire che esiste uno schema di bipartizione secondo cui il punto principale della vegetazione svolge la sua funzione dopo la divisione in due, e foglia e viticcio si dipartono da due lati opposti rispetto al nodo.

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Denominazioni] La «foglia preparatoria» («Vorblatt») coincide con la foglia caulinaria del germoglio; il «viticcio» («Ranke») o «ramo» («Zweig») costituisce invece il germoglio; il viticcio è indicato anche con i termini di «forcella» («Gäbelchen»), «capreolus», «vrille»; il «ramo preparatorio» («Vorzweig»), designato anche con i termini di «rametto ausiliario» o «laterale», è un piccolo getto con gemma basale, che porta la vegetazione per l’anno successivo. 319 secondo Schouw] Johann Frederik Schouw, Grundzüge einer allgemeinen Pflanzengeographie, Berlin 1823; Goe­the prese più volte in prestito quest’opera, che contiene anche studi sulla viticoltura, dalla biblioteca di Jena, a partire dal 23.VII.1828; l’atlante relativo si trova nella biblioteca privata di Goe­the. 320 propaggini] Il termine «Fechsern» allude qui ai pezzi di radice o di getti di una pianta, estirpati e ripiantati per dar vita a nuove piante: un procedimento impiegato in particolare nella coltura della vite e del luppolo. 321 [Von dem Gesetzlichen der Pflanzenbildung. I manoscritti relativi si conservano nel Nachlass di Goe­the a Weimar, e sono stati stampati per la prima volta in WA II 7, pp. 152-164. Si segue qui il testo di LA I 10, pp. 241-248. Il manoscritto in cui è trascritto il testo francese è di mano di Johann Christian Schuchardt, quello della traduzione tedesca, redatto in varie sezioni, è dello scrivano Johann John con correzioni di Goe­the e datato Dornburg, 1. e 25.VIII., 1-3.IX.1828. Il testo francese è tratto dal volume di Augustin Pyrame de Candolle (1778-1841), Organographie végétale, ou description raisonné des organes des plantes, 2 Bde., Paris 1827; il capitolo tradotto, intitolato «De la symétrie végétale», è tratto dal secondo volume, pp. 236-244. Lo Handexemplar di Goe­the mostra numerose sottolineature in entrambi i volumi. Inizialmente Goe­the progettava di integrare questo capitolo nel suo Versuch über die Metamorphose (cfr. la lettera a Soret del 19.II.1829), ma poiché nel 1828 era apparsa una traduzione dell’opera di De Candolle, con il titolo Organographie der Gewächse, a cura di Karl Fried­rich Meisner presso l’editore Cotta di Stuttgart e Tübingen, non parve più necessario riproporre un’altra traduzione. Goe­the fu personalmente in contatto con il botanico ginevrino De Candolle, grazie alla mediazione di Frédéric Soret, allievo di quest’ultimo e collaboratore di Goe­the all’edizione franco-tedesca del saggio sulla metamorfosi delle piante. La Théorie élémentaire de Botanique di De Candolle, apparsa a Zurigo nel 1813, era già nota a Goe­the, ma fu soprattutto la lettura della Organographie a rappresentare un decisivo contributo agli studi botanica che Goe­the riprese durante il suo soggiorno a Dornburg.] 322 Romé-de-l’Isle] si riferisce all’opera di Jean Baptiste Louis Romé de l’Isle (17631790), Cristallographie, Paris 1783, che contiene precise descrizioni e misurazioni dei cristalli. 323 Hauy] René Just Hauy (1743-1822), Tableau comparatif des résultats de la cristallographie, Paris 1809. 324 organi realmente distintivi] L’omogeneità di tali organi, stabilita da De Candolle, corrisponde alla teoria goethiana della metamorfosi. 325 mostruosità] Le leggi che governano tali fenomeni erano state affermate da Goe­the, di contro a quanto sostenuto da Georg Jäger (per cui cfr. supra, pp. 474 sgg.). 326 tipo] mentre De Candolle giunge a definire il tipo a partire dalla pluralità dei fenomeni, per Goe­the il tipo può essere considerato come un’unità, un concetto più elevato e più comprensivo. 327 il modo [...] con cui Goe­the [...] ha intuito l’organizzazione delle piante] Goe­the non gradiva, tuttavia, essere annoverato tra i rappresentanti di questa posizione. Il metodo della deduzione a priori era per lui troppo lontano dall’esperienza dei fenomeni osservati, mentre il suo scopo era di istituire una mediazione tra procedimento empirico e ragionamento a priori. 318

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328 [Ästhetische Pflanzen Ansicht. Il manoscritto, di mano di Johann John e datato Dornburg, 8.IX.1828, si trova nel Nachlass di Goe­the a Weimar ed è stato pubblicato per la prima volta in WA II 6, pp. 362 sg. Si segue qui il testo di LA I 10, pp. 249 sg. L’intenzione iniziale dell’autore era di inserire questo contributo nel Versuch über die Metamorphose (cfr. la lettera a Soret del 19.II.1829); alla data dell’8. IX.1828 si legge nei diari di Goe­the: «Considerazioni estetiche riguardo ai fiori, in contrapposizione a quelle scientifiche».] 329 rapporti con pittori di paesaggio] l’autore ne parla anche nel primo libro della prima parte di Dichtung und Wahrheit. 330 Rachel Ruysch] Rachel Ruysch (1664-1750) fu pittrice di corte del principe Johann Wilhelm von der Pfalz. 331 presso il Dr. Grambs] Johann Georg Grambs (1756-1817), collezionista d’arte e giurista a Francoforte. 332 Fondazione Senckenberg] il medico Johann Christian Senckenberg (1707-1772) istituì nel 1763 una fondazione a Francoforte con le sue collezioni e donazioni. 333 [Poetische Metamorphosen. Il manoscritto, di mano di Fried­rich Theodor David Kräuter con correzioni di Goe­the, si trova nel Nachlass dell’autore a Weimar ed è stato pubblicato per la prima volta in WA II 6, pp. 322 e 361; si segue qui il testo di LA I 10, pp. 251 sg. Si tratta di osservazioni legate a quelle del saggio precedente, con riferimenti ai lavori sulla storia della teoria della metamorfosi (cfr. supra, pp. 427 sgg. e 472), probabilmente intesi come ampliamenti per il Versuch über die Metamorphose.] 334 Ovidio [...] Dante] cfr. l’incipit delle Metamorfosi ovidiane, e i passi danteschi di Inf. XXV, vv. 49 sgg. e Purg. XXV, vv. 79 sgg. 335 ingresso nella scienza] nella letteratura scientifica si fa ricorso al concetto di metamorfosi in un primo tempo in relazione a insetti e anfibi; quindi, in rapporto alle piante, tale concetto si affaccia per la prima volta in Cisalpino nel 1583, e in Sinibaldi nel 1676. Linné formulò l’ipotesi di analogie tra la metamorfosi degli insetti e la formazione dei fiori. Voltaire introduce il termine «metamorfosi» nel Dictionnaire philosophique del 1764, ad indicare le trasformazioni che si verificano in natura. 336 prolessi] cfr. supra, p. 133 (§ 109 del saggio sulla metamorfosi delle piante) e nota relativa. 337 Wolff] riguardo a Caspar Fried­rich Wolff cfr. supra, p. 435. 338 Necker] Natalis Joseph Necker (1729-1793), medico e botanico a Mannheim. In un’annotazione databile agli anni Novanta Goe­the lo menziona come rappresentante di una dottrina della trasformazione delle parti vegetali una nell’altra (cfr. LA II 9A, M 138). In un saggio dal titolo Mémoire sur la gradation des formes dans le parties des végétaux, München 1787, egli mostrava come, in base ad un procedimento teorico schematico, sia possibile trasformare determinate forme vegetali in altre con diverse caratteristiche per mezzo di azioni di contrazione, curvatura, fenditura e così via. 339 [Monographien auf Morphologie gestützt. I manoscritti raccolti sotto questo titolo, tutti di mano dello scrivano Johann John, si conservano nel Nachlass di Goe­the a Weimar e sono stati pubblicati per la prima volta in WA II 6, pp. 334-336, 340-345; II 7, pp. 351-354 e 372. Si segue qui il testo di LA I 10, pp. 253-260, che mostra un diverso ordinamento rispetto alla prima edizione. Si tratta di testi elaborati in vista dell’edizione franco-tedesca del Versuch über die Metamorphose, come testimonia il piano che Goe­the formulò nella lettera del 19.II.1829 a Soret, in base al quale queste monografie erano raccolte sotto il titolo «Prospettive e influssi di queste teorie, allo scopo di ampliare le conoscenze nell’ambito degli studi botanici».] 340 Bignonia radicans] Di questo saggio si conserva una minuta di mano di Johann

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John, datata Dornburg, 26.VIII.1828 e corretta da Goe­the il 3.IX successivo, e una bella copia, anch’essa di mano di John. L’occasione per questo studio risale probabilmente a una lettera che Goe­the ricevette da Carl August il 10.III.1820, in cui il duca menzionava la pianta qui esaminata. La Bignonia radicans, chiamata anche Campis radicans o Campis grandiflora, appartiene alla famiglia delle bignoniacee, è originaria del Nordamerica e presenta una fioritura di colore giallorosso, radici adesive e foglie lanceolate. 341 settembre del 1786] Nella Italienische Reise, alla data del 27.IX.1786, Goe­the parla del giardino botanico di Padova, in cui gli si manifestò l’idea «che tutte le forme vegetali possano forse dedursi da una sola». Alla Bignonia radicans non si fa cenno in questo contesto, ma cfr. la successiva versione della Geschichte der botanischen Studien: cfr. in particolare p. 762. 342 escrescenze ghiandolari] si tratta delle attaccature delle radici rampicanti, che possono essere considerate delle radici dalla struttura semplificata le quali, se non condizionate dal contatto con il terreno, si producono in gran numero. 343 Gesneria flacourtifolia] Di questa nota si conserva solo un manoscritto di mano di John. La pianta in esame appartiene alla famiglia delle gesneriacee ed è originaria delle regioni tropicali del Sudamerica. Goe­the ne osserva in particolare la disposizione irregolare delle foglie. Il 23.VII.1831 Soret aveva richiamato l’attenzione dell’autore su questa pianta, scoperta nel Belvedere. 344 Rhus cotinus] questa pianta, chiamata anche Cotinus coggygria, appartiene alla famiglia delle anacardiacee, mostra una ricca e ramificata fioritura composita, ma per la maggior parte dei casi resta senza frutti. Il suo aspetto ‘a parrucca’ dipende dalla folta peluria presente sugli steli, che continuano ad allungarsi anche dopo la caduta dei fiori. 345 Cissus] Si tratta di una pianta vitacea, che Goe­the cita nei suoi diari alla data del 30.VIII.1828, e di cui il 15.X. ottiene dei rami dal giardiniere Baumann. Le osservazioni di Goe­the sono rivolte alla particolare struttura delle vitacee e in particolare alla configurazione mutevole delle foglie del cissus, che trascorrono dalla forma lanceolata a quella compatta o palmata. 346 Anthericum comosum] pianta delle liliacee, chiamata anche Chlorophytum comosum, che si caratterizza per il fatto di sviluppare degli stoloni pendenti, dai cui nodi si costituiscono dei fasci di foglie e radici aeree che possono anche portare fiori. 347 la riproduzione e la descrizione scientifica] Goe­the studiò questa pianta per diversi anni: ne aveva ricevuto un esemplare dal Belvedere nel 1827 mediante Carl August e l’anno successivo ne aveva inviato una descrizione, nonché un intero esemplare, al conte Caspar von Sternberg, a Nees von Esenbeck, Georg Jäger ed Ernst Meyer. Sternberg rispose alcuni mesi più tardi descrivendo la pianta come Anthericum comosum e ne pubblicò la descrizione, corredata di un’illustrazione, sulla «Monatsschrift der Gesellschaft des vaterländischen Museums in Böhmen», Bd. 2, Ottobre 1828. Le annotazioni raccolte qui da Goe­the furono inviate a Sternberg il 30.I.1829. Nees von Esenbeck pubblicava la descrizione di Goe­the sui «Nova Acta Leopoldina», 15, Abt. 2 (1831), pp. 366-374. Cfr. in proposito Balzer 1950. 348 Jacquin] Nikolaus Joseph Frhr. von Jacquin (1727-1817), Plantarum rariorum horti Caes. Schönbrunnensis descriptiones et icones, Wien 1797-1804. 349 un appassionato] Balzer ipotizza che si tratti del consigliere Karl Emil Helbig. 350 ne ho fatto realizzare un disegno] come risulta da una nota dei diari datata 5.XII.1828, esso fu eseguito dal disegnatore Karl Wilhelm Lieber e fu inviato a Sternberg. 351 Rapa ranuncola mostruosa] Le osservazioni relative a questa pianta, detta anche

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Beta vulgaris, rientrano tra gli studi goethiani sulle malformazioni organiche, per cui cfr. supra, pp. 476 sg. 352 [[Nachträge zur Metamorphose der Pflanzen.] I manoscritti che costituiscono questo testo, di mano dello scrivano Johann John e del segretario Johann Christian Schuchardt, presentano correzioni di mano dell’autore e sono conservati nel Nachlass di Goe­the a Weimar. La prima pubblicazione si trova in WA II 6, pp. 3232-328 e 334-335; la presente versione si basa su LA I 10, pp. 256 e 272-284. Questa raccolta di aggiunte a varie sezioni del saggio sulla metamorfosi era stata inizialmente organizzata, al pari delle precedenti monografie su singole piante, tra i lavori preparatori all’edizione franco-tedesca del Versuch über die Metamorphose, ma rimase priva di una redazione definitiva.] 353 punto di separazione] tale punto si trova in prossimità della radice, al livello del terreno. 354 un piccolo peduncolo] oggi denominato ipocotile. 355 amphicarpus] questo termine definisce la proprietà di certi frutti, che si ipotizzava si potessero sviluppare sia sotto terra che in superficie, come Goe­the leggeva in Jussieu 1789 e in Pursh 1814. Si riteneva che lo sviluppo sotterraneo del fiore causasse direttamente la formazione del tubero. Goe­the pose in questione questo procedimento, che escludeva la metamosfosi (cfr. la sua lettera a Voigt del 4.IX.1830) 356 su sollecitazione del signor Ernst Meyer] Fin dalla sua prima lettera a Goe­the, datata 25.VIII.1822, Ernst Meyer aveva espresso con competenza delle considerazioni a proposito della successione delle foglie e dei nodi; l’11.V.1829 egli scriveva, più in particolare, a proposito degli internodi situati tra la radice, il nodo dei cotiledoni e quello delle foglie primarie. 357 otto pollici di Lipsia] circa 20 cm. 358 i sistemi [...] corrispondono] nell’ipotesi iniziale secondo cui «tutto è foglia», da intendersi in senso trascendentale, Goe­the aveva evitato di formulare l’analogia qui presentata, che si basa sulla distinzione tra organi vegetativi e generativi. 359 organi diversi] anche a questo proposito ci si allontana dalla questione relativa alla «formazione e trasformazione» se non si introducono le adeguate distinzioni. 360 i due mondi cui apparteniamo] Le considerazioni di metodo qui presentate, riferite al rapporto tra idea ed esperienza, dovevano essere ordinate, nel progetto per l’edizione franco-tedesca del saggio sulla metamorfosi, sotto la dicitura «Ausgleichung [...] der Denkweisen» (cfr. la lettera a Soret del 19.II.1829). Mettendo alla prova le proprie concezioni, Goe­the rivelava ancora una tendenza mediatrice. 361 «di ricorrere a decisioni positive [...] p. 136] la citazione è tratta da Fried­rich Siegmund Voigt, Lehrbuch der Botanik, 2. Aufl., Jena 1827, p. 136. 362 ogni essere vivente in quanto tale è già un essere molteplice] cfr. ad es. supra, p. 360: «Jedes Lebendige ist [...] eine Mehrheit», oppure p. 452: «Kein Lebendiges ist Eins, / Immer ist’s ein Vieles». In questo contesto, tuttavia, l’autore cerca un’articolazione rinviando al concetto di individuazione, che è possibile per via di suddivisione o di riproduzione. Queste considerazioni oscillano tra la sistematica delle piante e uno sguardo superiore, sui presupposti teorici dell’intera indagine, per poi tornare agli esempi pratici, tratti dalla Organographie végétale di De Candolle. 363 tirsi, corimbi [...] torus (483.)] si tratta di esempi tratti dall’Organographie di De Candolle, cui si riferiscono anche i numeri di pagina in parentesi, e in cui i tirsi sono considerati come infiorescenze che si estendono indefinitamente, a differenza dei corimbi, mentre grappoli e spighe sono ritenuti altre forme di infiorescenze. La metamorfosi della foglia nella zona del calice dà luogo alle forme delle brattee, foglie di rivestimento del fiore, o dei sepali, in calici a foglie sepa-

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rate. Il torus, infine, designa la sede su cui poggia il fiore, parte dell’asse floreale tra calice e pistillo che segna dunque la posizione degli organi del fiore, che in questa zona possono concrescere nei modi più vari. 364 [Leben und Verdienste des Doktor Joachim Jungius, Rektors zu Hamburg. Il manoscritto relativo consta di varie sezioni frammentarie e non omogenee, di mano dello scrivano Johann John e con correzioni di Goe­the e Riemer, si conserva nell’Archivio weimariano, tra le carte del Nachlass di Goe­the, ed è stato pubblicato per la prima volta in: Guhrauer, Joachim Jungius und sein Zeitalter, Stuttgart und Tübingen 1851. Si segue qui il testo di LA I 10, pp. 285-291. Goe­the giunse a studiare l’opera di Jungius occupandosi dell’Organographie végétale di De Candolle, nel 1828, come attestano varie annotazioni di diario e lettere riferite al periodo 30.VI.-28.VII.1828, a cui risale probabilmente una prima parte del presente testo. Un secondo paragrafo, contenente lo schema qui alle pp. 739-744, reca sui manoscritti le date del 22.II. e 3.III.1831.] 365 De Candolle] Nell’Organographie végétale il passo qui citato da Goe­the è preceduto da alcune considerazioni sui due diversi metodi di indagine scientifica, basati rispettivamente su presupposti a priori o sull’induzione dai singoli casi. De Candolle ritiene che il modo di procedere corretto debba situarsi tra i due estremi, e indica tra i rappresentanti del metodo a priori soprattutto ricercatori tedeschi, tra cui Jungius e Goe­the, che si sono occupati della conformazione di singoli organi o individui paradigmatici, tralasciando la totalità degli altri esseri. Goe­the si sforza di correggere tale impostazione, mostrando come lui stesso, al pari probabilmente di Jungius, abbia cercato, con la propria idea di metamorfosi, di fornire uno strumento teorico per indagare non una singola pianta, bensì l’intero regno vegetale, integrando nel proprio metodo una prospettiva che De Candolle attribuisce invece soltanto a scienziati come i francesi Jussieu e Adanson, i quali avevano fondato una classificazione sistematica di tutte le famiglie vegetali. 366 Willdenow] Karl Ludwig Willdenow, Grundriß der Kräuterkunde, Berlin 1792, nel capitolo «Geschichte der Wissenschaft», p. 542. 367 Joachim Jungius] (1587-1657), medico, naturalista e linguista, insegnante e logico, nato a Lubecca, studiò a Gießen e Rostock, viaggiò in Italia e conseguì la Promotion a Padova nel 1618. Fu attivo come insegnante a Rostock, Helmstedt e Amburgo. 368 Geometria empirica] Rostock 1627. 369 Logica Hamburgensis] Hamburg 1638. 370 M. F. H.] Martinus Fogelius Hamburgensis (Martin Vogel, 1634-1675), al quale si deve un necrologio del 1657 e l’edizione della Doxoscopia. 371 Historia Vermium] Hamburg 1691. 372 Agricola e Matthesius] Georgius Agricola (Georg Bauer, 1494-1555), studioso di mineralogia. Johann Matthesius (1504-1568), studioso di mineralogia e teologo. 373 Isagoge phytoscopica] Hamburg 1678. 374 Johann Vagetius] Johann Vaget (1633-1691), teologo e filosofo, editore delle opere di Jungius. 375 un repertorio di terminologia botanica] Pur non avendo dato forma ad una classificazione sistematica vera e propria, Jungius coniò una terminologia che rimase un riferimento anche per Linné, che la perfezionò ulteriormente. Importanti sono in particolare le denominazioni che Jungius ha offerto per gli organi floreali. 376 Bacone] Francis Bacon, Lord of Verulam (1561-1626). 377 Sprengel] Kurt Sprengel (1766-1833), Geschichte der Botanik, 2 Bde., Leipzig 18171818; nel secondo volume, alle pp. 27-29, si accenna all’importanza dell’opera di Jungius. 378 teoria musicale] Harmonia theoretica, Hamburg 1678-1679.

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379 [Del progetto di un’edizione franco-tedesca del saggio sulla metamorfosi delle piante si trova una prima traccia già nel 1824, nel diario del giovane teologo e naturalista ginevrino Frédéric Jacques Soret (1795-1865), che dal 1822 risiedeva a Weimar in qualità di educatore del principe ereditario Carl Alexander. Soret, che era giunto a frequentare la cerchia di Goethe sperando di godere di conversazioni di tema letterario, fu invece interpellato dall’autore su argomenti di carattere scientifico-naturale, e il 9.III.1924 annotò di un colloquio avuto a proposito del problema della metamorfosi, in cui Goe­the gli aveva chiesto di tradurre in francese il suo saggio del 1790. Soltanto alcuni anni dopo, però, nella primavera del 1828, si trova di nuovo un accenno a questo proposito, in concomitanza con il periodo del soggiorno di Goe­the a Dornburg, molto fecondo per i suoi lavori, durante il quale l’autore dedicò particolare attenzione anche alla filosofia francese a lui contemporanea, che si confrontava all’epoca con quella tedesca: lesse dunque Victor Cousin (1792-1867), che rifletteva sul problema del metodo analitico e sintetico nell’indagine scientifica, nonché l’importante opera di De Candolle dal titolo Organographie végétale, pubblicata nel 1827, che offrì a Goe­the numerosi spunti, oltre a indurlo a studiare la nomenclatura botanica francese. Il materiale raccolto e i lavori preparatori per l’edizione franco-tedesca del saggio sulla metamorfosi riflettono questo ulteriore sviluppo della ricerca goethiana, come documenta la corrispondenza dell’autore, in particolare le lettere indirizzate a Soret, tra cui si rimanda in particolare alle lettere datate 21.VI.1828, 28.VI.1828, 10.VII.1828, 3.VIII.1828 e 19.II.1829. In queste ultime due si trovano, tra l’altro, delle tracce schematiche per l’indice del progettato volume, che doveva comprendere, oltre alla ristampa e traduzione francese della Metamorphose der Pflanzen (per cui probabilmente la stampa tratta dai quaderni di morfologia del 1817 doveva servire da base), anche contributi di tipo storico, dissertazioni e saggi monografici con estratti dall’opera di De Candolle. L’accordo con l’editore Cotta è documentato dalle lettere del 27.X. e 27.XII.1829. Mentre Soret realizzava la traduzione del saggio sulla metamorfosi, Goe­the aggiungeva i contributi sulla storia dei suoi studi botanici e, con l’aiuto di Ernst Meyer e Fried­rich Siegmund Voigt, sulla storia della ricezione del saggio da parte della comunità scientifica, entrambi destinati ad essere a loro volta tradotti in francese. Altri studi progettati o intrapresi rimasero allo stadio di frammenti, con l’eccezione di un lavoro sulla tendenza a spirale della vegetazione, cui Goe­the si dedicò tra il 1829 e il 1830, e che si confronta con le direzioni della ricerca più recente, indicando anche possibili applicazioni future del metodo morfologico. Si trattava dunque non solo di esporre risultati rilevanti della scienza botanica, bensì di ragionare sui suoi fondamenti, sulla scelta del metodo di indagine e del modello di ragionamento e di presentazione degli argomenti, come mostrano i riferimenti a Linné e Rousseau, al problema del rapporto tra esperienza e idea, al confronto con le tesi di Vaucher, e alle direttrici indicate dal motto premesso all’opera e dall’appendice che la conclude. Tuttavia il lavoro all’edizione subì delle fasi di rallentamento e di arresto quando, alla fine del 1830, giunse la notizia della morte del figlio di Goe­the a Roma (10.XI.1830) e quella della morte del padre di Soret a Ginevra. L’autore decise allora di ridurre della metà le dimensioni del volume inizialmente progettato, e il lavoro si protrasse anche durante l’anno successivo, finché gli ultimi manoscritti giunsero in tipografia il 21.V.1831, e il 15.VI. apparvero i primi esemplari a stampa. Il testo non ebbe però grande successo commerciale, essendo nel frattempo in corso la pubblicazione della Ausgabe letzter Hand dell’opera completa di Goe­the, anche se vi furono alcune importanti recensioni positive, come ad esempio quella di Carl Gustav Carus, apparsa nello «Jahrbuch für wissenschaftlichen Kritik», gennaio 1832, Nr. 1 sg., coll. 1-11.] 380 [Il motto è tratto dall’Enchiridion di Epitteto, cap. V, e compare anche nell’opera di Herder, Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit del 1774,

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e nel Tristam Shandy di Lawrence Sterne. Goe­the lo parafrasa anche in una lettera a Schiller del 15.XII.1795.] 381 Voir venir [...] Turpin] la citazione è tratta dal saggio di Pierre Jean François Turpin (1775-1840), Mémoire sur l’organisation intérieure et extérieure du Solanum tuberosum et de l’Hélianthus tuberosus, in «Mémoire du Muséum», 191 (1830), pp. 1-56, che presenta cinque tavole, sulla terza delle quali, che raffigura una pianta di patate, si trova il motto qui trascritto da Goe­the. 382 [Der Verfasser teilt die Geschichte seiner botanischen Studien mit. J.W. v. Goe­the, Versuch über die Metamorphose der Pflanzen, Stuttgart 1831, pp. 107-162. Si segue qui il testo di LA I 10, pp. 319-338. Il saggio si basa in gran parte sui due testi intitolati Geschichte meines botanischen Studiums e Entstehen des Aufsatzes über Metamorphose der Pflanzen (qui tradotti alle pp. 417-423, per cui si rimanda in parte alle relative note di commento), pubblicati nel 1817 nei quaderni Zur Morphologie accanto allo scritto sulla metamorfosi. Goe­the ne fece realizzare una trascrizione, che in se-guito ampliò e modificò progressivamente e di cui si conservano alcune sezioni in manoscritti, prevalentemente di mano dello scrivano Johann John, che presentano numerose correzioni di Goe­the e di Riemer. Si tratta di apppunti, schemi e abbozzi non conclusi, inizialmente pensati come introduzione all’edizione franco-tedesca del saggio sulla metamorfosi, e in seguito progettati come aggiunte e appendici, concepite secondo un ordine che si discosta da quello del testo dato alle stampe. Lo scambio epistolare con Soret relativo agli anni 18281830 documenta, accanto alle annotazioni dei diari, queste elaborazioni successive. La versione manoscritta definitiva, predisposta per la stampa, non è conservata. Parti del saggio, elaborate nel 1829, rinviano puntualmente a passaggi della Italienische Reise, in particolare a quelli relativi al secondo soggiorno romano. Nel maggio 1830, poi, Goe­the decise di inserire anche il saggio sulle lettere botaniche di Rousseau, che si riferisce a studi risalenti al 1824.] 383 mongolfiere] nel 1783 i fratelli Montgolfier fecero salire il primo pallone aerostatico, e il 27 dicembre dello stesso anno in una lettera a Knebel Goe­the parlava di analoghi esperimenti, condotti da Buchholz con scarso successo, a differenza dei tentativi riusciti l’anno successivo, di cui Goe­the dava notizia a Sömmerring il 9.VI.1784. 384 Il giovane Reggente] Carl August aveva istituito a Weimar, in particolare nel Belvedere, varie serre, orangeries e giardini botanici (cfr. supra, p. 550-555). 385 una visione più ampia e sintetica di questo vasto regno] Nella versione pubblicata nel 1817, dopo questo paragrafo si trovava il celebre riferimento a Shakespeare, Linné e Spinoza (cfr. supra, p. 418), che fu abbandonato poi in quest’ultima redazione. 386 un eccellente medico] finora non identificato. 387 a cui Linné allude con pii desideri] Linné stesso considerava il suo sistema di classificazione delle piante in base al sesso come un ripiego necessario, e in varie opere si riferisce ad una «methodus naturalis»; formulò l’esistenza di 67 famiglie («ordines») vegetali, che furono descritte più dettagliatamente da Jussieu nel 1789 (cfr. in proposito Mägdefrau 1973, pp. 58 sg.). 388 Johann Jakob Rousseau] il passo sui lavori botanici di Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) fu aggiunto in una delle ultime fasi di elaborazione del testo, nel 1830, ma già una lettera a Carl August del 16.VI.1782 testimonia dell’interesse che in Goe­the avevano suscitato le Lettres élémentaires sur la Botanique (Paris 1782) del filosofo francese («Nelle opere di Rousseau si trovano delle gradevolissime lettere sulla botanica, con le quali l’autore espone questa scienza a una dama nel modo più comprensibile ed elegante»). 389 Tournefort] Joseph Pitton de Tournefort (1656-1708), teologo e medico, dal

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1683 fu professore di botanica al Jardin des Plantes e in seguito al Collège de France di Parigi. Il suo sistema di classificazione si basa sulla forma dei fiori. 390 «Per quanto mi riguarda [...] l’onore di incontrarvi ancora.»] lettera a M. de la Tourette, datata 26.I.1770. 391 una visione più ampia di interi gruppi] Goe­the si riferisce qui alla suddivisione delle piante per famiglie, proposta da Rousseau: una classificazione sistematica che si contrappone alla sistematica «artificiale» formulata da Linné, costruita unicamente in base ai rapporti numerici tra gli organi floreali, e considera invece l’intero habitus della pianta, con tutti i suoi tratti caratteristici relativi a foglie, fiori, frutti e così via. 392 La Botanique de Rousseau] pubblicata per la prima volta a Parigi nel 1805; Goe­ the prese in prestito più volte, tra il 1830 e il 1831, dalla biblioteca di Weimar la seconda edizione di quest’opera, apparsa nel 1822. 393 Redouté] Pierre Joseph Redouté (1759-1840), pittore e litografo, dipinse soprattutto fiori. 394 Fragments [...] en Botanique] in La Botanique, cit. alla nota 392. 395 versatilità degli organi] concetto costantemente ribadito da Goe­the, in riferimento allo sviluppo interno di una stessa pianta o tra piante che crescono in condizioni diverse. 396 giardino botanico di Padova] cfr. Italienische Reise, 27.IX.1786, in cui si legge: «Riguardo alle piante consuete […] non pensiamo più nulla; ma cosa è mai guardare senza pensare? Qui, tra questa molteplicità di specie, mi si fa sempre più viva l’idea che sia possibile forse sviluppare tutte le forme vegetali a partire da una sola. Solo in questo modo sarebbe possibile determinare realmente generi e specie, ciò che finora si è verificato soltanto in base a criteri arbitrari.» 397 Bignonia radicans] si veda il saggio omonimo, qui alle pp. 711-713. 398 pianta originaria] cfr. l’esperienza descritta nella visita del giardino botanico di Palermo in Italienische Reise, 17.IV.1787: «Alla vista di così tante conformazioni nuove o rinnovate, mi tornò in mente l’antica questione: avrei potuto scoprire, tra questa moltitudine, la pianta originaria («Urpflanze»)? Deve pur esistere qualcosa del genere! Altrimenti come potrei riconoscere che questa o quella struttura è da identificare con una pianta, se non fosse vero che tutte le piante sono conformate in base a un modello?» 399 Cactus opuntia] cfr. in proposito gli appunti dall’Italia: supra, p. 68. 400 Acanthus mollis] pianta che possiede, nel suo ovario, un meccanismo per l’espulsione dei semi maturi. 401 hanno continuato a crescere […] nella vecchia Roma] Secondo quanto riporta lui stesso nella Italienische Reise nell’aprile del 1788 Goe­the piantò diversi semi prima di lasciare Roma: nei giardini della pittrice Angelica Kauffmann un pino, in quelli di Villa Malta una palma da datteri. Angelica scrisse poi in seguito informando fedelmente Goe­the della crescita del pino. 402 un eccellente viaggiatore] si tratta del re Ludwig I di Baviera, futuro proprietario di Villa Malta, che scriveva il 17.VIII.1829 a Goe­the con resoconti sulla crescita della palma. 403, Reiffenstein] Johann Fried­rich Reiffenstein (1719-1793), consigliere russo, soggiornò in Italia dal 1762; amante dell’arte, si offriva di far da guida agli stranieri a Roma. 404 una pianta di garofani] cfr. la tav. 17. 405 è divenuto noto in particolare in Svizzera e Francia] grazie a De Candolle e Gingins-Lassaraz: cfr. più oltre, pp. 778 e 782 sg. e la lettera di Goe­the a Riemer dell’8.I.1831.

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406 [Wirkung dieser Schrift und weitere Entfaltung der darin vorgetragenen Idee. J.W. v. Goe­the, Versuch über die Metamorphose der Pflanzen, Stuttgart 1831, pp. 164-225. La presente versione segue il testo di LA I 10, pp. 297-318. Si conservano dei manoscritti di singole sezioni di questo saggio, mentre i contributi di Meyer e Voigt sono contenuti nelle rispettive lettere indirizzate a Goe­the. Complessivamente, queste testimonianze manoscritte sono raccolte in tre cartelle nel Nachlass di Goe­ the, in cui si trovano delle versioni del testo di mano dello scrivano Johann John con correzioni di Goe­the e Riemer, nonché alcuni abbozzi nella grafia dello stesso Goe­the. Già nel settembre del 1828 l’autore aveva pregato l’amico Fried­rich Siegmund Voigt, botanico jenese, di fornirgli una panoramica degli scritti che citavano o recensivano o rielaboravano ulteriormente la teoria della metamorfosi. Tuttavia alcuni mesi più tardi, avendo ricevuto pochissimo materiale da Voigt, il 30.III.1829 Goe­the chiese anche al botanico Ernst Meyer di raccogliere notizie in tal senso, e infine inserì i contributi dei due collaboratori quasi integralmente nel suo testo, senza nominare esplicitamente i due «amici» che gli avevano fornito quelle notizie. Il lavoro si protrasse fino ai mesi di febbraio/marzo del 1831.] 407 ricorrere ad amici scienziati] i contributi di Fried­rich Siegmund Voigt sono contrassegnati con delle parentesi, quelli di Ernst Meyer con asterischi. 408 Batsch] August Johann Georg Karl Batsch (cfr. nota 32 a p. 857) nel 1793 aveva pubblicato a Jena delle Botanische Unterhaltungen für Naturfreunde in due volumi. Goe­the gli scrisse il 26.II.1794, notando che Batsch non faceva alcun cenno alla teoria della metamorfosi. Per quanto esistano testimonianze di un proficuo scambio tra i due autori, Batsch non fece mai esplicitamente cenno alla teoria di Goe­the in una pubblicazione. 409 Recensioni favorevoli] cfr. supra, gli scritti intitolati Drei günstige Rezensionen e Schicksal der Druckschrift, qui tradotti rispettivamente alle pp. 467 sg. e 432. 410 Johann Christian Stark] Stark (o Starke, 1753-1811) fu professore di medicina a Jena dal 1779. 411 J.H. Seidel] cfr. supra, nota 315 a p. 885. 412 Fried­rich Siegmund Voigt] cfr. supra, nota 248 a p. 876. 413 Kieser] Dietrich Georg Kieser (1779-1862); gli Aphorismen aus der Physiologie der Pflanzen, Göttingen 1808. 414 Analisi dei frutti e dei semi] si tratta di uno scritto del naturalista Louis Claude Richard, tradotto e aumentato con contributi originali da F.S. Voigt, Leipzig 1811. 415 G. Fr. Jäger sulle malformazioni delle piante] cfr. supra, pp. 474-482; in realtà il volume apparve nel 1814, non nel 1812. 416 Schelver] cfr. supra, nota 155 a p. 867. 417 Autenrieth] Hermann Fried­rich Autenrieth (1799-1874), anatomista a Tubinga. 418 dopo il ritorno di Humboldt] cfr. supra, nota 244 a p. 401. 419 Wahlenberg] Göran Wahlenberg (1780-1851) si occupò principalmente di geografia delle piante. 420 Mémoire sur l’organisation des plantes di Kieser] apparsa ad Harlem nel 1814; l’estratto cui si accenna poco oltre coincide con il volume Elemente der Phytotomie, Jena 1815. 421 Dutrochet [...] Brisseau-Mirbel […] Treviranus […] Moldenhawer] René Joachim Henri Dutrochet (1776-1847); Charles François Brisseau de Mirbel (1776-1854); Gottfried Reinhold Treviranus (1776-1837); Johann Jakob Paul Moldenhawer (1766-1827). 422 Nees von Esenbeck [...] Sistema dei funghi, 1815] Christian Gottfried Daniel Nees von Esenbeck, Die Algen des süßen Wassers nach ihren Entwicklungsstufen dargestellt, Bamberg 1814, e Das System der Pilze und Schwämme, Würzburg 1815.

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423 l’edizione e traduzione dei testi di Brown] Robert Browns vermischte botanische Schriften, übers. von Nees von Esenbeck u.a., 5 Bde., Schmalkalden, Leipzig und Nürnberg 1825-1834. 424 Lineamenti fondamentali di storia naturale del 1817] F.S. Voigt, Grundzüge einer Naturgeschichte, Frankfurt 1817. 425 Storia della botanica] Geschichte der Botanik, 2 Bde., Leipzig 1817f. 426 Joh. L. G. Meinecke] Johann Ludwig Georg Meinecke (1781-1823), Über das Zahlenverhältnis in den Fruktifikationsorganen der Pflanzen, Halle 1809. 427 L. Oken] Lorenz Oken (1779-1851), Lehrbuch des Systems der Naturphilosophie, Jena 1809-1811. 428 nella rivista «Isis», un articolo] Von der Metamorphose der Botanik, in «Isis», Heft 6 (1818), pp. 991-1007, firmato con una F. 429 a pagina 28, si troveranno menzionati dei problemi] allude al saggio Problem und Erwiderung, qui tradotto alle pp. 597-608. 430 Röper, Enumeratio Euphorbiarum] Johannes August Christian Röper (1801-1885), Enumeratio Euphorbiarum quae in Germania et Pannonina gignuntur, Göttingen 1824. Ernst Meyer aveva regalato a Goe­the una copia di quest’opera. 431 Michaux] André Michaux (1746-1802), Flora boreali-americana, hg. von Louis Claude Richard, Paris 1803. 432 Lud. H. Friedlaender [...] editi] Ludwig Hermann Friedlaender (1790-1851), De institutione […], Halle 1823. 433 H.F. Link] Heinrich Fried­rich Link (1767-1851) accenna, nei suoi Elementa, all’idea di metamorfosi, senza tuttavia menzionare il nome di Goe­the, riconducendo invece la metamorfosi al concetto linneiano di prolessi. 434 Robert Brown] Questo autore ed esploratore (1773-1858) si era occupato della flora australiana; i suoi lavori furono diffusi in ambiente tedesco da Nees von Esenbeck (cfr. nota 423). 435 Aubert du Petit-Thouars] Louis Marie Aubert du Petit-Thouars (1758-1831), Essai sur la végétation, Paris 1809. 436 de Gingins-Lassaraz] Frédéric Charles Jean de Gingins-Lassaraz (1790-1863), su cui cfr. anche pp. 782 sg. La citazione che segue è tratta dalla p. ix dell’opera. 437 Turpin [...] per spiegarle.»] cfr. nota 381 a p. 892. 438 Altrove egli dice anche] Essai d’une iconographie élémentaire et philosophie que des végétaux, Paris 1820, p. 15. 439 Voigt] il suo Lehrbuch der Botanik era apparso a Jena nel 1827. 440 Reichenbach] Heinrich Gottlieb Ludwig Reichenbach (1793-1879), Botanik für Damen, Künstler und Freunde der Pflanzenwelt überhaupt, enthaltend eine Darstellung des Pflanzenreichs in seiner Metamorphose, eine Anleitung zum Studium der Wissenschaft und zum Anlegen von Herbarien. Ein Versuch, Leipzig 1828, pp. 94 sgg. 441 Gilbert T. Burnett] Gilbert Thomas Burnett (1800-1835), botanico londinese. 442 Poiret] Jean Louis Marie Poiret (1755-1834), Leçons de flore. Cours de Botanique, Paris 1819-1821. 443 La traduzione citata [...] sotto lo sguardo dell’autore stesso] Passo in cui Soret difende la propria versione francese, che Goe­the ha poi tradotto dal francese in tedesco. 444 L’opera di Reichenbach] Goe­the aveva espresso in forma ancora più aspra la propria irritazione per il fraintendimento del termine «metamorfosi», ma Soret lo convinse che non si trattava di malafede, ma di un semplice errore redazionale. 445 J.P. Vaucher] Jean Pierre Étienne Vaucher (1763-1841). Un’edizione completa in quattro volumi di quest’opera apparve a Parigi nel 1841. Come in precedenza nel caso della traduzione di Gingins, anche qui l’opera di Vaucher funge da pretesto per un confronto più serrato con la posizione di De Candolle.

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De Candolle] cfr. quanto riportato da Eckermann riguardo ad una conversazione sulla teoria della simmetria di De Candolle, che Goe­the considerava una mera illusione (2.VIII.1831). 447 [Über die Spiraltendenz. J.W. v. Goe­the, Versuch über die Metamorphose der Pflanzen, Stuttgart 1831, pp. 226-239. Si segue qui il testo di LA I 10, pp. 339-342. I manoscritti relativi a questo lavoro, di mano dello scrivano Johann John e di Johann Christian Schuchardt con correzioni di Goe­the e di Riemer, si presentano come un eterogeneo accumulo di materiali e osservazioni, raccolti dall’autore stesso in tre cartelle, attualmente conservate nel suo lascito nell’Archivio di Weimar. L’attenzione di Goe­the per il tema della tendenza a spirale nella vegetazione era stata suscitata da alcune conversazioni avute nel corso di una visita del botanico Karl Fried­rich Philipp von Martius a Weimar, nei giorni 4-6.X.1828. Goe­the manifesta il suo interesse in una lettera a Martius datata 28.III.1829, e questi risponde il 20.VIII.1829 inviando anche un modello di stoffa e cartone, ad illustrare le sue teorie. La corrispondenza con Martius prosegue anche nel corso dell’anno successivo, come risulta anche dalle note dei diari e dalle conversazioni ricordate da Eckermann (cfr. in particolare i colloqui datati 27.I e 18.II.1830, in cui Goe­the definisce la scoperta di Martius un «Urphänomen», che lo scienziato dovrebbe avere il coraggio di esprimere in forma di legge). Il manoscritto preparato da Goe­the per l’edizione franco-tedesca del saggio sulla metamorfosi delle piante fu concluso il 29.III.1831 e tradotto in francese tra il 15 e il 18 aprile dello stesso anno. L’autore inoltre fece realizzare una serie di acquarelli ad illustrazione di fenomeni ascritti alla tendenza a spirale, che donò il 19.XII.1830 alla granduchessa Anna Paulowna di Sassonia-Weimar (e che si trovano riprodotti a colori in Julius Schuster, Goe­the: die Metamorphose der Pflanzen, Berlin 1924).] 448 convegni di ricercatori tedeschi] Versammlungen Deutscher Naturforscher und ­Ärzte, inaugurate nel 1822 a Lipsia da Lorenz Oken, e organizzate poi annualmente in diverse città. 449 von Martius […] si esprime nel modo seguente] Über die Architektonik der Blüten, apparso nei protocolli delle relazioni tenute a Monaco («Isis», 21 (1828), pp. 522529) e a Berlino («Isis», 22 (1829), pp. 333-341). 450 vasi a spirale] già descritti da Nehemiah Grew nel 1671, si trovano citati anche nel saggio sulla metamorfosi ai §§ 61 e 69 (cfr. supra, pp. 118 e 120 sg.). 451 omeomerie] Anassagora (500-428 a.C.) aveva coniato questo concetto riferendosi alla struttura della materia, e indicando le piccolissime parti tra loro omogenee (chiamate anche ‘semi’) che determinano un oggetto. In questo contesto si accentua il principio dell’omogeneità tra la parte e il tutto. 452 Dutrochet [...] incurvatura vitale] René Joachim Henri Dutrochet (1776-1847), Recherches anatomiques et physiologiques, Paris 1824. 453 vi sono giovani impegnati] Alexander Heinrich Braun (1805-1877), Vergleichende Untersuchung über die Ordnung der Schuppen an den Tannenpflanzen als Einleitung zur Untersuchung der Blattstellung überhaupt, in «Nova Acta Leopoldina», 12, Abt. I (1831), pp. 195-312. La teoria sulla disposizione delle foglie elaborata da Braun, che poteva richiamarsi ai lavori preliminari di Karl Schimper, divenne in seguito il fondamento dei diagrammi fogliari e floreali, dando adito ad ulteriori ricerche sul problema dei punti di vegetazione (cfr. in proposito Richter e Schranner 1978). 454 [Appendice. Il manoscritto preparato per Frédéric Soret si trova nel Nachlass di quest’ultimo a Ginevra. La presente versione si basa sul testo riprodotto in WA II 13, pp. 62 sg. Goe­the inviò questo testo a Soret il 19.V.1831, e la versione francese fu pubblicata come ultima pagina dell’edizione franco-tedesca del Versuch über die Metamorphose. L’occasione che dettò l’aggiunta di queste righe fu la pubblicazione del testo di Étienne Geofffroy de Saint-Hilaire, Sur des écrits de Goe­the lui 446

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donnant des droits au titre de savant naturaliste, in «Annales des Sciences naturelles», Parigi, febbraio 1831, pp. 188-193, in cui l’autore seguiva attentamente le tracce degli interessi scientifici di Goe­the in Dichtung und Wahrheit e nella Italienische Reise, indagando le idee della «unité de l’organisation» nella Metamorphose der Pflanzen e nei quaderni Zur Morphologie, per concludere poi affermando che a Goe­the spettava a pari titolo il nome di poeta, di profondo moralista e di competente scienziato, grazie all’ampiezza delle sue vedute e alla sua profonda vis teorica. Lo scritto di Geof­froy prese le mosse, a sua volta, dalla recensione goethiana dei suoi Principes de Philosophie Zoologique (per cui cfr. più oltre, le note 485 sgg.).] 455 [Zur Spiraltendenz. I manoscritti relativi si trovano nel Nachlass di Goe­the a Weimar. Si segue qui il testo di LA I 10, pp. 343-365. Si tratta di materiali che Goe­the continuò a raccogliere anche dopo la conclusione del saggio Über die Spiraltendenz, e la cui datazione giunge fino al 7.X.1831, mentre fino al 25.XI.1831 giungono le testimonianze registrate tra le pagine dei diari. Le intenzioni dell’autore erano di raccogliere entro una cornice molto ampia osservazioni proprie e altrui sul tema della tendenza a spirale, accostandole ai propri studi precedenti e integrandole mediante un rimando a lavori di altri naturalisti contemporanei. Scopo di tale operazione era inoltre di inserire tra i princìpi della teoria della metamorfosi lo studio delle tendenze dello sviluppo vegetale che si mostravano importanti sotto il profilo dell’analogia tra struttura interna (tessuti e vasi a spirale) e configurazione esterna (sviluppo in verticale o in orizzontale e crescita secondo la tendenza a spirale).] 456 un inglese e un francese] David Don (1800-1841), botanico a Londra, e René Joachim Henri Dutrochet (su cui cfr. supra la nota 452). 457 vasi a spirale] cfr. supra la nota 450. Il contenuto vitale delle cellule di tali vasi muore una volta conclusosi il processo di sviluppo, ed è per tale motivo che ad esse è necessaria una membrana più solida. 458 alburno] lo strato più giovane del legno, situato in prossimità della corteccia. 459 calla] del genere delle aracee, i cui fiori sono molto ridotti, disposti attorno ad una pannocchia carnosa e avvolti da un’ampia brattea, chiamata «spata». 460 Edinbourgh [...] David Don] David Don, On the general presence of spiral vessels in the vegetable structure; and on the peculiar motion observable in detached pieces of the living bark of Urtica nivea, in «The Edinburgh New Philosophical Journal» (1829), pp. 21-23. 461 Douglas] David Douglas (1798-1834), giardiniere all’orto botanico di Glasgow, compì dei viaggi, su incarico della Royal Horticultural Society, attraverso l’Oregon, la Columbia Britannica e la California. 462 Lindley] John Lindley (1799-1865), botanico a Londra. 463 sensitiva] su Dutrochet cfr. supra la nota 452; con il termine «sensitiva» si intende la Mimosa pudica. 464 acotiledoni] si intendono, in senso generale, le piante inferiori. 465 Phormium tenax] lino neozelandese, un tipo di agave; le fibre delle sue foglie erano impiegate per la produzione di vele e cordame. 466 una pura materia terrena, di un bianco abbagliante] cfr. la parte didattica della Farbenlehre, §§ 494-497; nel successivo § 498 Goe­the chiama un simile bianco «uranfänglich», attribuendogli un valore simbolico. 467 oscillatorie] alghe blu, i cui singoli individui sono collegati gli uni a gli altri a catena, e mostrano movimenti pendolari. 468 viticci] Goe­the distingue i viticci delle foglie da quelli dei germogli; la passiflora e la vite offrono chiari esempi del sistema dei viticci dei germogli. 469 vite] Cfr. lo scritto Entwürfe zu einem Aufsatz über den Weinbau, qui tradotto alle pp. 689-698.

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Lycium europaeum] pianta a forma di corno, che mostra lunghi e sottili rami pendenti. 471 Crataegus torminalis] Sorbus torminalis, tipo di biancospino. 472 Lathyrus furens] nessuna specie è oggi nota con questo nome; è stato ipotizzato che si trattasser del Lathyrus vernus o anche del Lathyrus luteus; probabilmente una pianta leguminosa. 473 Erodium gruinum] erodio, erba cicutaria, pianta delle geraniacee. 474 Salmacis] Spirogyra, alga verde pluricellulare, che presenta delle capsule contenitrici di pigmenti ordinate a spirale. 475 Vallisneria] Vallisneria spiralis, della famiglia delle Hydrocharitacee. Il fiore contenente gli organi maschili si stacca e sale in una bolla d’aria, per poi rilasciare il polline che raggiunge il fiore femminile. Dopo la fecondazione lo stelo a spirale del fiore femminile si contrae, di modo che il frutto matura sott’acqua. 476 ricerche del custode dell’Orto Botanico Reale di Mantova, Paolo Barbieri] cfr. Paolo Barbieri (1789-1875), Osservazioni intorno alla Vallisneria spiralis, in «Biblioteca italiana, ossia Giornale di Letteratura, Scienze ed Arti, compilato da vari letterati», 57 (1830), pp. 419 sg. 477 Pandanus odoratissimus] Pandanus textorius. 478 Ophrys spiralis] Spiranthus spiralis o autumnalis. 479 Flora subterranea] pianta fossile, di cui si osserva la disposizione a scacchiera («en échiquier») delle gemme. 480 felci] con «parti fruttifere», a questo proposito, Goe­the intende i contenitori delle spore, che si formano in piccoli gruppi nella parte inferiore delle foglie. Le punte arrotolate di queste ultime sono determinate dal fatto che la crescita nelle felci avviene solo nella parte terminale delle foglie. 481 Reichenbach] cfr. supra, nota 440 a p. 895. 482 von Fritsch] Fried­rich August von Fritsch (1768-1845) fu sovrintendente forestale a Weimar a partire dal 1794. 483 Coudray] Clemens Wenzeslaus Coudray (1775-1845), dal 1816 fu sovrintendente all’edilizia a Weimar. 484 [Über den Zwischenkiefer des Menschen und der Tiere. A proposito dell’omonimo saggio del 1784 e dei supplementi del 1820 cfr. le note alle pp. 372 sgg. e 491. La redazione per la ristampa nei «Nova Acta physico-medica Academiae Caesareae Leopoldino-Carolinae naturae curiosorum» 15, Abt. I (1831), pp. 1-48 e tavv. I-IV, fu realizzata sulla base del testo stampato nei quaderni Zur Morphologie. La descrizione delle tavole approntata per il testo del 1831, tuttavia, differisce da quella del testo precedente, poiché le tavole incise da Casimir van de Velde per i «Nova Acta» sulla scorta dei modelli di Wilhelm Waitz non coincidono con i disegni che Goe­the aveva inserito nel testo del 1784 (riprodotti nel presente volume alle tavv. 2-11). Questa versione del saggio, che a partire dalla pubblicazione in WA II 8, pp. 98 sg. è stata accolta nella maggior parte delle edizioni goethiane, non fu elaborata direttamente dall’autore, che aveva affidato le modifiche alla redazione dei «Nova Acta», come risulta da una lettera all’anatomista e fisiologo di Bonn Johannes Müller, datata 24.XI.1829. Lo stesso Müller si incaricò delle correzioni e aggiunse un’introduzione redazionale, dando notizia della storia del testo, che dichiarava sostanzialmente invariato. Aggiunse inoltre delle note con l’integrazione dei rimandi alla letteratura più recente, e un ampliamento delle osservazioni di Goe­the a proposito della teoria dell’origine vertebrale del cranio in conclusione del saggio.] 485 [Principes de Philosophie zoologique. «Jahrbücher für wissenschaftliche Kritik», hg. von der Societät für wissenschaftliche Kritik zu Berlin, settembre 1830, Nr. 52 sg., coll. 413-422 e marzo 1832, Nr. 51-53, coll. 401-422. Si segue qui il testo di LA I 10, 470

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pp. 373-403. I manoscritti per la recensione di Goe­the si conservano nel suo Nach­ lass ordinati in tre cartelle, e sono prevalentemente di mano dello scrivano Johann John, con correzioni di Goe­the e di Riemer. Si tratta di appunti, un estratto di un libro, di mano di Goe­the, abbozzi, progetti e varianti, ma non è conservato il modello definitivo predisposto per la stampa. La contesa tra i due anatomisti parigini Geof­froy de Saint-Hilaire e Cuvier ebbe luogo di fronte all’assemblea dell’Académie des Sciences a partire dalla metà di febbraio del 1830 e Goe­the ne lesse immediatamente i resoconti dai giornali francesi. È datata al 7.V.1830 la prima annotazione relativa alla vicenda nei suoi diari, mentre il dettagliato resoconto pubblicato da Saint-Hilaire reca la data del 15.IV.1830, ed è lo scritto recensito da Goe­the, il quale lo prese in prestito alla biblioteca di Weimar il 21.VII.1830, per poi riceverne una copia direttamente da Saint-Hilaire, subito dopo la pubblicazione della prima parte della sua recensione, che aveva iniziato a dettare il 27.VII, come risulta dal diario. Il tema era di tale rilevanza per Goe­the che, come riporta Soret nel resoconto di una conversazione del 2.VIII.1830, l’autore sembrava perfino aver perso di vista la gravità degli avvenimenti politici di cui nel frattempo era teatro la stessa Francia con la rivoluzione di luglio. Goe­the lavorò fino alla fine del 1831 ad una seconda parte della recensione, che nel frattempo aveva assunto le dimensioni di un saggio, che egli stesso definiva un «Versuch», la cui forma aperta permetteva di informare senza pretese didascaliche, nonché di proporre ipotesi ulteriori e stimolare il contributo dei lettori. La contesa era nata dalla questione del modello strutturale degli animali. Étienne Geof­froy de Saint-Hilaire (1772-1844), zoologo parigino, aveva sostenuto, durante la seduta dell’Accademia del 15.II.1830, le tesi di due giovani naturalisti secondo cui i molluschi, e in particolare i cefalopodi, potrebbero essere considerati costruiti anatomicamente allo stesso modo dei vertebrati, con la differenza che il loro tronco appare piegato all’indietro, in modo tale che il bacino verrebbe a trovarsi in prossimità della nuca. Il 22 febbraio Georges Cuvier (1769-1832) rispose che, se tale tesi fosse corretta, la maggior parte degli organi interni dei cefalopodi si troverebbe ad occupare la posizione esattamente opposta rispetto a quella che occupano nei vertebrati. Geof­froy promise di addurre, nella seduta successiva, altri argomenti a sostegno della sua teoria delle analogie, mentre il nucleo della contesa si mostrava nel fatto che Geof­froy riteneva di aver scoperto l’esistenza di un tipo per tutti gli animali, mentre Cuvier assumeva quattro tipi fondamentali, irriducibili gli uni agli altri. In questa disputa, naturalmente, Goe­the si sentiva più vicino alle posizioni di Geoffroy, che lo portavano a riflettere ancora sul problema del tipo anatomico, di cui si era occupato nelle sue conferenze degli anni 1795-1796. Descrivendo, poi, la divergenza delle due prospettive scientifiche, Goe­the tracciava dei profili antropologici, che si rivelavano molto simili a delle figure immaginate dalla sua fantasia poetica, quella dell’artista e quella dell’eroe, incarnate dai caratteri di Tasso e di Antonio del suo Torquato Tasso.] 486 Cuvier [...] Geof­froy de Saint-Hilaire] nel 1793, allorché fu fondato a Parigi il Muséum National d’Histoire Naturelle, il ventunenne Geof­froy de Saint-Hilaire ottenne la cattedra di zoologia, accanto a Lamarck, e in seguito si occupò principalmente, insieme a Lacépède, dei volatili e dei mammiferi. Dal 1798 al 1802 partecipò alla spedizione napoleonica in Egitto. Leopold Christian Fried­rich Dagobert Georges Cuvier, invece, formatosi a Stoccarda alla Karlsschule, poi trasferitosi in Normandia, si occupò prevalentemente della fauna marina. Nel 1795 si trasferì a Parigi e collaborò inizialmente con Geof­froy in modo molto amichevole, finché le rispettive concezioni non si rivelarono divergenti: la posizione di Geof­froy rimase sostanzialmente invariata, mentre Cuvier, accanto alla cattedra di anatomia presso il Muséum, ottenne varie cariche sotto i diversi governi che si succedettero in quegli anni in Francia. Uno dei campi principali della sua attività fu la paleontologia.

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rappresentarsi concretamente] Cuvier aveva affermato che ciò che vi era di corretto nell’esposizione di Geof­froy non era affatto nuovo, ma era già stato sostenuto da Aristotele, mentre ciò che vi era di nuovo non conteneva alcuna verità. 488 l’autorità di quel modo di procedere] Geof­froy spiegò la sua teoria delle analogie come un principio filosofico della zoologia, rifiutando le critiche di Cuvier come affermazioni arbitrarie ed errate. 489 che la natura umana non possa mai salvarsi da una simile scissione] cfr. Tasso, V, 1705 sg.: «Die darum Feinde sind, weil die Natur / Nicht Einen Mann aus ihnen beiden formte». 490 i quotidiani parigini] Goe­the si riferisce a «Le Globe», «Le Temps» e «Le National». 491 una propria pubblicazione a stampa] si tratta dei Principes de Philosophie Zoologique [...] a cui si riferiscono i numeri di pagina indicati nel seguito. 492 alcuni giovani] si tratta di Pierre Stanislas Meyranx (1790-1832) e Laurencet. 493 teoria delle analogie] concordanza degli elementi costitutivi degli organi in un essere vivente. Cuvier contestò tale principio, intravedendovi un retaggio di un più antico panteismo, proprio della filosofia naturale tedesca. 494 organizzazione dei pesci] a Geof­froy era riuscito di derivare gli elementi cartilaginei della laringe dei pesci dalle ossa cartilaginee delle branchie. Egli doveva tuttavia anche ammettere che nel complesso dell’osso ioide dei pesci gli organi si mostravano formati da differenti elementi costitutivi. 495 spedizione in Egitto] intrapresa da Napoleone negli anni 1798-1799 contro il dominio inglese nelle Indie; malgrado il fallimento sul piano militare, tale impresa si rivelò molto produttiva su quello scientifico e culturale. Ne fu pubblicato un resoconto con il titolo Description de l’Égypte, negli anni 1809-1813, ristampato nel 1820-1830 e composto di 24 volumi di testo e 12 di tavole. 496 in Portogallo] durante gli anni della guerra della penisola iberica, condotta da Napoleone tra il 1808 e il 1814 contro Spagna e Portogallo. 497 un’opera pubblicata nel 1818] si tratta della Philosophie anatomique, Paris 1818. La citazione è tratta dall’introduzione, p. 18. 498 Kielmeyer] Karl Fried­rich Kielmeyer (1765-1844), allievo e in seguito insegnante alla Karlsschule di Stoccarda, fu un influente anatomista di Tubinga, città in cui nel 1797 conobbe Goe­the. 499 Daubenton] Louis Jean Marie Daubenton (1716-1799) fu collaboratore della Histoire naturelle di Buffon. 500 specie da lungo tempo estinte] Cuvier aveva rivolto la sua attenzione anche allo studio dei fossili, applicando le sue competenze zoologico-anatomiche, e ricostruì con successo degli esseri estinti, basandosi sulla teoria per cui, nel corso dei secoli, una serie di catastrofi naturali avrebbe annientato le forme viventi volta a volta esistenti, sostituendole con nuove forme. 501 negli elogi funebri] Gli elogi funebri si trovano nelle Memorie dell’Accademia. Il 5.VIII.1826 Goe­the scriveva in proposito a Zelter: «Se li si legge con calma, uno dopo l’altro, ci si stupisce della ricchezza di contenuto scientifico, della vividezza con cui se ne tratta, nonché della chiarezza e comprensibilità dell’esposizione; qui l’uomo di cultura, e l’uomo di mondo si manifestano in singolare unità». 502 naturalisti tedeschi] su Kielmeyer cfr. supra la nota 498; Johann Fried­rich Meckel (1781-1833) fu anatomista ad Halle; Lorenz Oken (1779-1851), filosofo della natura, nel periodo in cui scrive Goe­the si trovava a Monaco; Johann Baptist Spix (1781-1826), anatomista a Monaco; Fried­rich Tiedemann (1761-1861) fu zoologo e anatomista a Landshut e Heidelberg. 487

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«Io non insegno [...] Montaigne] Michel de Montaigne, Essais, libro III, cap. 2: «Della quiete». 504 conte Buffon] Georges Louis Leclerc conte di Buffon (1707-1788), Histoire naturelle générale et particulière, vol. 2, Quadrupèdes, Paris 1749, p. 544, in cui l’autore prosegue comparando anche le mani e le spalle dell’uomo con quelle degli animali. Vol. 4, Quadrupèdes (Les animaux domestiques), Paris 1753, p. 379: «Si, dans l’immense variété que nous présentent tous les êtres animés, [...] il existe en même temps un dessin primitif et général qu’on peut suivre très-loin, et dont les dégradations sont bien plus lente que celles des figures et des autres rapports apparans [...]». 505 Petrus Camper] (1722-1789), anatomista molto ammirato da Goe­the: cfr. pp. 372 sgg. e in particolare, in merito alla «linea facciale», la nota 21 a p. 376. 506 Samuel Thomas Sömmerring] (1755-1830), Vom Hirn und Rückenmark, Mainz 1788; 2. Aufl. Leipzig 1792. La cosiddetta «macchia gialla», da lui scoperta sulla retina, è il punto in cui è situata la più acuta facoltà visiva. Id., Abbildungen der Sinnesorgane, 4 Bde., Frankfurt 1801-1809. 507 Johann Heinrich Merck] cfr. supra, nota 6 a pp. 372 sgg. 508 Schleiermacher] Ernst Christian Fried­rich Adam Schleiermacher (1755-1844), paleontologo a Darmstadt. 509 Johann Fried­rich Blumenbach] cfr. supra, p. 375; Goe­the si rifersce qui all’opera Handbuch der vergleichenden Anatomie, 3. Aufl. Göttingen 1824, p. 24, in cui si trova infine un riconoscimento delle scoperte di Goe­the. 510 grande opera osteologica di d’Alton] cfr. supra, pp. 559-564, 613-616, 647-652. 511 tavole] si tratta delle tavole I-IV, per cui cfr. supra, nota 484 a p. 898, secondo la diversa disposizione dei disegni e delle incisioni che si riscontra tra le edizioni del 1784 e del 1831. 512 zanna dell’elefante] cfr. supra, pp. 504 sgg. e tavv. 18-20. 513 Galeno] Goe­the si riferisce qui al De usu partium (Opera omnia, ed. Kuhn, Leipzig 1822, Bd. 3), come testimonia un’annotazione del diario datata 6.IX. 1830. Nel secondo capitolo di quest’opera si legge che in tutti gli animali il corpo sarebbe conforme alla tipologia di anima che essi possiedono, e che l’uomo sarebbe caratterizzato dalla sua mano. Nel capitolo 24, inoltre, si dice che la disuguaglianza tra le dita servirebbe ad afferrare gli oggetti, in particolare quelli sferici, poiché tutte le punte delle dita in quel caso si troverebbero sulla stessa circonferenza, ottenendo così la massima forza nell’atto di trattenere saldamente e scagliare un oggetto. 514 l’avambraccio] cfr. gli studi sulle estremità registrati nei saggi qui tradotti alle pp. 642-646. 515 il detto greco] Goe­the non cita espressamente questo «detto», ma tra i suoi appunti preliminari si legge: «come disse Anassagora, gli animali sono istruiti dai loro organi», concetto ripetuto anche in una lettera a Zelter datata 9.VI.1831, in cui Goe­the aggiunge: «si pensi a quanto dell’animale resti nell’uomo, il quale possiede la facoltà di istruire i propri organi, e si tornerà sempre volentieri a questa osservazione». Cfr. anche la lettera a Wilhelm von Humboldt del 17.III.1832 e la massima MR 1190. 516 il fascicolo di d’Alton Junior] Johann Samuel Eduard d’Alton, Die straußartigen Vögel, Bonn 1827. 517 un’ulteriore verità fondamentale] Si trovano qui menzionati ancora una volta i princìpi morfologici della «vicinanza» («Nachbarschaft»), vale a dire della costanza dei rapporti di posizione entro il piano costruttivo dell’organismo; della compensazione o bilanciamento («Etat»), secondo cui una parte non può avere uno sviluppo privilegiato se non a scapito dello sviluppo di un’altra; e infine del 503

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principio per cui ciascun organismo conferisce a se stesso il proprio senso, e dunque si rifiuta l’esistenza di «cause finali» 518 la sua lingua] il 22.VIII.1830 Goe­the annota in una pagina di diario: «terminologia francese atomistico-meccanicistica». 519 «C’è forse bisogno di ulteriori testimonianze?»] Matteo 26, 65. 520 Revue encyclopédique] nel fascicolo del giugno 1830, vol. 46, pp. 709-712, Geof­ froy aveva esposto ancora una volta sinteticamente le sue idee. Tra le carte di Goe­the si conserva una copia di queste pagine. 521 Arago] Dominique François Jean Arago (1786-1853) fu uomo politico, fisico e astronomo. 522 Gazette Médicale] Résumé sur quelques conditions générales des Rochers, in «Gazette médicale» I (1830), Nr. 43. Geof­froy tratta del suo dibattito con Cuvier a proposito della rocca petrosa del coccodrillo e, citando nelle ultime pagine la recensione di Goe­the, afferma che quest’ultimo avrebbe sostenuto una posizione equidistante tra le due. 523 partecipanti tedeschi] cfr. supra, nota 502 a p. 900. Ludwig Heinrich Bojanus (1776-1827) fu anatomista a Wilna, e Carl Gustav Carus (1789-1869) medico a Dresda. 524 metodo genetico] Goe­the intende che la considerazione del divenire nelle sue metamorfosi giunge fino alla superiore esperienza dell’idea di tale metamorfosi. Un simile sguardo sul divenire della vita organica, che Carus distingue in metodo analitico e descrittivo, richiede un tipo di ragionamento dinamico, in base al quale l’oggetto osservato si modifica conformemente ad una legge, e nel divenire è possibile cogliere una superiore unità. 525 [Plastische Anatomie. Il manoscritto relativo, composto di quattro parti di mano dello scrivano Johann John con correzioni di Goe­the e di Riemer, si trova nel Nachlass di Goe­the a Weimar. Si segue qui il testo di LA I 10, pp. 366-372. I diari dell’autore attestano che la data di composizione coincide con i giorni 22 e 23 gennaio 1832, e pochi giorni più tardi, il 4.II., il saggio fu inviato con una lettera di accompagnamento al funzionario di stato prussiano Peter Christian Wilhelm Beuth, il quale rispose il 23.II. Il 20 febbraio Goe­the aveva inviato invece allo scultore Christian Daniel Rauch una lettera riguardo alla necessità di procurare dei modelli anatomici. Durante l’intero periodo in cui collaborò con l’Università di Jena, Goe­the si preoccupò del problema di reperire i cadaveri e i modelli necessari per le ricerche anatomiche, e nel 1805 era riuscito ad ottenere l’acquisto dell’importante collezione di modelli in cera di Franz Heinrich Martens (17781805).] 526 Gli appassionati d’arte di Weimar si rallegrano insieme a me] Beuth aveva regalato a Goe­the per il Natale del 1831, in nome del Verein der Kunstfreunde in Berlin, gli scritti e le opere grafiche da lui pubblicati. 527 ciò che ho scritto] allude a un passo dei Wilhelm Meisters Wanderjahre, terzo capitolo del terzo libro, in cui Wilhelm si trova, in una bottega di scultori, di fronte a modelli anatomici in cera e legno, e viene incitato dal maestro a fabbricarne di simili; commentando la gratificazione e l’edificazione che derivano da tale operazione, il maestro afferma poi che «occorre cogliere il vivente in quiete, altrimenti si viene ostacolati e si ostacolano anche gli altri. Voi avete sentito con vividezza e mostrato con gli atti che unire è più che separare, e riprodurre è più che vedere.» 528 Miscellanee di Bran] «Miszellen aus der neuesten und ausländischen Literatur», hg. von Fried­rich Alexander Bran, 70 (1832); i passi qui citati si trovano alle pp. 142-147, 150-154 e 156.

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TAVOLE

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Tav. 1: Cranî di diversi animali (pp. 6-9)

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Tav. 2: Mascella superiore del cavallo, vista dal basso (p. 14)

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Tav. 3: Mascella superiore del bue, vista dall’alto (pp. 14 sgg.)

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Tav. 4: Mascella superiore del cavallo, vista dall’alto, dal basso e lateralmente (pp. 14-17)

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Tav. 5: Frammento di una mascella superiore di cavallo, in cui è caduto l’incisivo; il dente successivo si trova nella cavità dell’osso intermascellare (pp. 14-17)

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Tav. 6: Mascella superiore della volpe, vista lateralmente, dal basso e dall’alto (p. 14)

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Tav. 7: Sezione dell’osso intermascellare del leone, vista dal basso e dall’alto (p. 14)

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Tav. 8: Frammento della mascella superiore di un giovane tricheco, con l’osso intermascellare tagliato (p. 14)

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Tav. 9: Cranio di una scimmia visto frontalmente, e relativa mascella superiore, vista dal basso (pp. 14 sg.)

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Tav. 10: Mascella superiore di un cranio umano, vista dal basso e dall’alto (pp. 15-17)

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Tav. 11: Frammento di una mascella superiore umana (pp. 15-17)

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Tav. 12: Piccoli organismi viventi (unicellulari), generati in soluzioni organiche: a sinistra in dimensioni naturali, a destra visti al microscopio (pp. 41-56)

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Tav. 13: Organismi unicellulari generati in soluzioni organiche, visti al microscopio (pp. 41-56)

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Tav. 14: Organismi viventi generati in soluzioni organiche, osservati e disegnati nei mesi di aprile e maggio 1786 (pp. 41-56)

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Tav. 15: Organismi unicellulari generati in una soluzione organica (pp. 41-56)

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Tav. 16: Shizzi tracciati a margine di un foglio contenente protocolli di osservazione di soluzioni organiche: in alto si legge la data 11 maggio [1786] (pp. 41-56)

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Tav. 17: Garofano prolifero (pp. 131 sg.)

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Tav. 18: Cranio di un giovane elefante asiatico (pp. 504 sg.)

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Tav. 19: Cranio di un giovane elefante asiatico (pp. 504 sg.)

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Tav. 20: Cranio di un giovane elefante africano (pp. 504 sg.)

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Tav. 21: Germogli di mais (pp. 59-63)

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Tav. 22: Germogli di fagioli (pp. 59-63)

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Tav. 23: Germogli di veccia (pp. 59-63)

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Tav. 24: Semi e germogli di tropeolo e germogli di piselli (pp. 59-63)

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Tav. 25: Sviluppo di un seme di Entada scandens (pp. 59-63)

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Tav. 26: Seme di palma da datteri in diversi stadi di germoglio, e taglio in sezione del seme (pp. 63-65)

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Tav. 27: Fioritura di un tulipano con foglie metamorfosate (p. 114)

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Tav. 28: Dettaglio dell’immagine precedente, che illustra il punto in cui si distaccano i petali veri e propri (pp. 113 sg.)

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Tav. 29: Fioritura della primula, a destra un esemplare con doppia corolla (pp. 113 sg.)

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Tav. 30: Metamorfosi degli stami (pp. 114 sg.)

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Tav. 31: Rosa prolifera, vista da dietro (p. 131)

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Tav. 32: Rosa prolifera, vista da davanti (p. 131)

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Tav. 33: Stelo di iris, foglia di un giglio e suo pistillo, visto dall’alto (pp. 121 sgg.)

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Tav. 34: Gemma dischiusa di un ippocastano (pp. 126 sg.)

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Tav. 35: «Polverizzazione» di una mosca (pp. 527 e 557)

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Tav. 36: Ginepro nel giardino di Goethe (p. 661)

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Achenbach, Heinrich Adolph, 500, 862 Ackermann, Jakob Fidelis, 865 Adanson, Michel, 890 Agazzi, Elena, xxv Agricola, Georg (Georgius) Andreas (Georg Bauer), 140, 388, 737, 890 Albergamo, Francesco, xxvii, xxx Albinus (Albin), Bernhard Siegfried, 375, 496, 497, 653, 864, 865, 881 Alton, Eduard Joseph d’, xxxvi, 559, 570, 613, 614, 615, 616, 638, 646, 647, 650, 834, 838, 839, 840, 867, 868, 870, 871, 875, 876, 878, 879, 880, 901 Alton, Johann Samuel Eduard d’, 901 Anassagora, 796, 896, 901 Anna Amalia, duchessa di SassoniaWeimar, madre di Carl August, 552, 858 Anna Paulowna di Sassonia-Weimar, 896 Arago, Dominique François Jean, 844, 902 Arber, Agnes, xl Argan, Giulio Carlo, xxx Aristotele, 6, 542, 837, 900 Asellio, Gasparo, 395 Astruc, Jean, 855, 858 Autenrieth, Hermann Friedrich, 375, 771, 774, 894 Autenrieth, Johann Heinrich Ferdinand, 375

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Avanzi, Giannetto, xxviii Bacon (Bacone), Francis, 391, 739, 740, 741, 742, 890 Balzer, Georg, 883, 888 Barbieri, Paolo, 810, 898 Batsch, August Johann Georg Karl, xxxiii, 135, 378, 383, 387, 420, 447, 469, 473, 553, 554, 755, 767, 856, 857, 860, 862, 869, 894 Baumann, Franz, 885 Bazin, Gilles-Augustin, 399 Benn, Gottfried, xxxii, xxxvii, xxxviii Bernauer, Reinhard, xliii Bernstein, Julius, 617 Bertuch, Friedrich Johann Justin, 552, 555, 869 Beuth, Peter Christian Wilhelm, 902 Bianchi, Lorenzo, xxx Bing, Gertrud, xliv Birus, Hendrik, xiii Bishop, 850, 851 Blumenbach, Johann Friedrich, 11, 375, 377, 392, 393, 394, 395, 396, 465, 834, 862, 863, 865, 877, 901 Blumenthal, Lieselotte, 382 Bois-Reymond, Emil du, xxiv, xxxviii Boisserée, Sulpiz, 673, 860, 883 Bojanus, Ludwig Heinrich, 845, 871, 902 Bonnet, Charles, 400, 431, 465, 858, 862

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Bonpland, Aimé, 863 Borchmayer, Dieter, xiii Bordeu, dr., 856 Bran, Friedrich Alexander, 849, 850, 902 Brandis, Joachim Dietrich, 400, 862 Braun, Alexander Heinrich, 790, 896 Bräuning-Oktavio, Hermann, 374, 866 Bredekamp, Horst, xliv Brown, Robert, 606, 772, 775, 777, 875 Brucker, Johann Jakob, 860, 861 Brun, Augustine, 851 Buchholz, Wilhelm Heinrich Sebastian, 418, 752, 854, 856, 892 Buffon, Georges Louis Leclerc conte di, 371, 372, 393, 399, 412, 826, 827, 828, 829, 843, 855, 900, 901 Burckhardt, Jacob, xliii Burdach, Karl Friedrich, 394, 397, 879, 882 Burke, William, 850, 851 Burnett, Gilbert Thomas, 781, 895 Bury, Friedrich, 446, 860 Büttner, Christian Wilhelm, 421, 740, 756, 857 Camerarius, Joachim, 867 Camoni, Barbara Eletta, xxix Campanella, Tommaso, 860 Camper, Petrus, 11, 19, 203, 204, 244, 247, 372, 373, 374, 375, 376, 391, 392, 393, 395, 412, 503, 830, 831, 832, 833, 834, 855, 856, 901 Candolle, Augustin Pyrame de, 699, 714, 733, 740, 743, 778, 779, 783, 784, 886, 889, 890, 891, 893, 895, 896 Carl Alexander, 891 Carl August, duca di Weimar, 373, 377, 393, 856, 857, 869, 877, 883, 884, 888, 892 Carus, Carl Gustav, xxxvi, 394, 565, 625, 636, 845, 866, 867, 868, 870, 871, 877, 879, 882, 891, 902 Cassirer, Ernst, xvi, xxx, xl, xli, xlv Cassirer, Toni, xl Castelli, Giovanni, xxii Catone, 579, 872 Cesa, Claudio, xxvii Chamisso, Adelbert von, 872 Cheselden, William, 15, 375 Chiusano, Italo Alighiero, xxiv

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Chladni, Ernst Florens Friedrich, 855, 858 Cisalpino, Andrea, 887 Cislaghi, Federica, xxiv Coiter, Volcher, 393 Compter, Johann David Gottlob, 882 Conrad, Johann, 869 Conrad, Louis, 869 Costantino, principe, 552 Cotta, Heinrich von, xxxvi, 351, 401 Coudray, Clemens Wenzeslaus, 814, 898 Cousin, Victor, 891 Cramer, Ludwig Wilhelm, xxxi, 863 Creuzer, Friedrich, 860 Croce, Benedetto, xxiv, xxv Curtis, William, 477, 863, 883 Cuvier, Leopold Christian Friedrich Dagobert Georges (Georg Leopold), xxvi, xxxvii, 626, 638, 817, 818, 820, 821, 822, 823, 824, 828, 829, 844, 845, 852, 878, 879, 899, 900, 902 Dahl, Maria, 377 Dalberg, Karl Theodor Anton Maria von, 432, 858, 859, 860 D’Alembert, Jean-Baptiste Le Rondm 856 D’Arcy Thompson, xxxi, xl D’Arronville, Thiroux, 864 Darwin, Erasmus, xxii, xxiii, xxiv, 400 Daubenton, Louis Jean Marie, 393, 412, 823, 827, 828, 829, 855, 900 Del Lungo, Carlo, xxviii Dennstedt, August Wilhelm, 869 Descartes, René, 741 Destro, Alberto, xxix Diderot, Denis, 395, 853, 856 Diers, Michael, xliv Dietrich, 419, 754 Adam, 857 Friedrich Gottlieb, 396, 419, 754, 857 Johann Adam, 857 Döbereiner, Johann Wolfgang, 868 Don, David, 799, 897 Donato, Maria Monica, xlvi Donndorf, Johann August, 397 Douglas, David, 801, 897 Douglas, Ronald, xxiv Dubois, Jacques, 865 Dürrbaum, Johann Martin, 500, 865

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indice dei nomi

Dutrochet, René Joachim Henri, 772, 788, 801, 802, 807, 894, 896, 897 Duverney, Guichard Joseph, 393 Eckermann, Johann Peter, xxxvi, xxxvii, 371, 395, 397, 861, 896 Egloffstein, Julie von, 860 Eichstädt, Heinrich Karl Abraham, 401, 859 Emmert, Ludwig, , 653 Engelhardt, Dietrich von, xxiv, xxx Engels, Johann Daniel, 862 Epicuro, 864 Epitteto, 891 Ernst August I, duca di SassoniaWeimar, 550, 869 Ernst, Wilhelm, 499 Erxleben, Johann Christoph Polycarp, 580, 872 Eschwege, Wilhelm Ludwig von, 683, 885 Ettinger, Carl Wilhelm, 384, 425, 774 Eustachi (Eustachio, Eustachius), Bartolomeo, 496, 497, 864 Falger, Anton, 653 Fallopio (Fallopius), Gabriel, 497, 864, 865 Fancelli, Maria, xxiv Femmel, Gerhard, 866 Ferber, Johann Jakob, 132, 387 Ferrari, Joseph, 851 Ferrario, Emilio, xxiii Ferretti, Massimo, xlvi Ferrusac, André Étienne Just Pascal Joseph François, 783 Fichte, Johann Gottlieb, 459 Fischer, Johann Gotthelf, 507, 863, 866 Fleischer, Jean Georg, 425 Forster, Georg, 239, 394, 396 Forster, Johann Reinhold, 394 Friedlaender, Ludwig Hermann, 775, 895 Friedrich Wilhelm III, 881 Frigo, Gian Franco, xxiv Fritsch, Friedrich August von, 549, 814, 869, 884, 898 Frommann, Friedrich, 855 Froriep, Ludwig Friedrich, 512, 866 Fuchs, Johann Friedrich, 500, 501, 865

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Galeno (Galenus, Claudius), 11, 493, 494, 495, 496, 497, 508, 837, 864, 901 Gall, Franz Joseph, xxxv, 372, 401, 402 Gargiulo, Alfredo, 861 Garret Moore, Michael, 11 Gärtner, Joseph, 379, 386 Geist, Johann Ludwig, 387, 396, 397, 398, 399, 400 Geoffroy, Étienne Louis, 397 Geoffroy de Saint-Hilaire, Étienne, xxvi, xxxvii, 791, 817, 818, 820, 821, 822, 823, 824, 825, 828, 830, 837, 840, 844, 896, 897, 898, 899, 900, 902 Geremicca, Alberto V., xxvii Gesenius, Heinrich Friedrich Wilhelm, 873 Geßner, Johann, 418, 753, 857 Geymonat, Ludovico, xxiv Ghelardi, Maurizio, xliii, xlv, xlvi, xlviii Giacomoni, Paola, xxix Gingins-Lassaraz, Frédéric Charles Jean de, xix, 778, 782, 893, 895 Giobbe, 407, 747, 855 Giorello, Giulio, xxix Glaser, Horst-Albert, xxiv Gleichen-Rußwurm, Friedrich Wilhelm von, 39, 377, 378, 379, 394, 397 Gmelin, Johann Friedrich, 858 Goethe, August, xxxvii Goldfuß, Georg August, 872 Göschen, Georg Joachim, 425 Göttling, Johann Friedrich Augustm 752, 854, 856 Götze, Johann Georg Paul, 377, 387, 389, 390, 391 Gräf, Hans Gerhard, xlvii Grambs, Johann Georg, 707, 887 Grew, Nehemiah, 896 Grieco, Agnese, xxix Grüner, Joseph Sebastian, 872 Guerrini Gonzaga, Anselmo, xxiii Guhrauer, Gottschalk Eduard, 890 Haeckel, Ernst Heinrich Philipp August, xxiii, xxiv, xxvi, 395 Hafez, xxxvi Haller, Albrecht von, 389, 436, 465, 862, 868 Hansen, Adolph, 867

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morfologia

Harvey, William, 395 Hassenstein, Bernhard, 393 Hauy, René Just, 886 Haydon, Benjamin Robert, 616, 876 Hecker, Max, 868 Hedwig, Johannes, 108, 385, 386 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, xxxv, 459 Heim, Georg Christoph, 862 Heinroth, Johann Christian Friedrich August, 609, 875 Heinse, Johann Jakob Wilhelm, 445, 859 Heisenberg, Werner Karl, xxxi Helbig, Karl Emil, 888 Hellen, Eduard von der, 371 Helmholtz, Hermann von, xxxi Hener, Renatus, 497, 865 Henschel, August, 524, 867, 868, 869 Herbell, Johann Friedrich Moritz, 11 Herder, August, 390 Herder, Johann Gottfried, xiv, xxxiii, 373, 374, 375, 376, 390, 392, 393, 396, 400, 401, 423, 456, 853, 856, 858, 860, 861, 891 Herrlinger, Robert, 859 Herwig, Wolfgang, 383 Hirschfeld, Christian Cajus Lorenz, 551, 869 Hogarth, William, 572, 871 Hohe, Friedrich, 654 Hölderlin, Friedrich, xxxv Homburg, Karl Friedrich, 500, 865 Howard, Luke, 872 Hufeland, Gottlieb, 391 Humboldt, Alexander von, 345, 389, 392, 393, 401, 459, 470, 510, 771, 856, 863 Wilhelm von, 389, 393, 510, 856, 901 Hunter, John, 15, 375 Ingenhousz, Jan, 385 Ippocrate, 837 Jablonski, Walter, xxviii, xxix Jacobi, Friedrich Heinrich, 377, 392, 398 Jacobi, Maximilian, 510 Jacquin, Nikolaus Joseph Frhr. von, 715, 888 Jäger, Georg, 474, 476, 477, 479, 481, 482, 567, 570, 659, 771, 862, 863, 868, 871, 886, 888, 894

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John, Johann, 872, 874, 877, 878, 879, 880, 881, 883, 884, 885, 886, 887, 889, 890, 892, 896, 899, 902 Josephi, Johann Wilhelm, 389, 393 Jungius, Joachim, 733, 734, 735, 736, 737, 739, 740, 741, 742, 744, 889, 890 Jussieu, Antoine Laurent de, 388, 401, 468, 473, 606, 780, 857, 862, 874, 875, 889, 892 Kaltwasser, Johann Friedrich Salomon, 872 Kant, Immanuel, 388, 396, 398, 446, 456, 458, 465, 858, 860, 861, 862 Karl August, duca di Sassonia-Weimar, xxxiii, xxxiv, xxxvi, 865 Kauffmann, Angelica, 381, 764, 893 Kecht, Johann Sigismund, 690, 691, 692, 693, 694, 885 Kielmeyer, Karl Friedrich, xxxv, 823, 825, 845, 900 Kieser, Dietrich Georg, 547, 770, 772, 894 Kiesewetter, Carl, xxxvii King, signora, 850, 851 Kleist, Heinrich von, xxxv Klettenberg, Susanne Katharina von, xxxiii Knebel, Karl Ludwig von, xxxiv, 373, 377, 380, 403, 552, 856, 874, 892 Köhnke, Klaus Christian, xl Körte, Friedrich Heinrich Wilhelm, 568, 570, 571, 638, 871 Kräuter, Friedrich Theodor David, 878, 882, 887 Krois, John Michael, xl Kuhn, Dorothea, xiii, xlviii, 396 Lacépède, 899 Lamarck, Jean Baptiste Pierre Antoine de Monet, cavaliere di, 871, 899 Lang, Peter, xxx Langermann, Johann Gottfried, 873 Langsdorff, Georg Heinrich Frhr. von, 683, 885 Laurencet, 900 Lavater, Johann Caspar, xxxiii, 5, 371, 372, 373, 381, 402, 412, 856 La Vergata, Antonello, xxx Le Jeune, Claude, 864 Lespinasse, Mlle de, 856 Lessona, Michele, xxvi

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indice dei nomi

Leveling, Heinrich Palmatius, 495, 864 Levi Bianchi, Ida, xxiv Lichtenberg, Georg Christoph, 873 Lieber, Karl Wilhelm, 888 Lindley, John, 800, 801, 897 Link, Heinrich Friedrich, 776, 895 Linné (Linneo), Carl von, xiv, 19, 62, 87, 101, 116, 132, 133, 134, 146, 147, 239, 345, 378, 379, 380, 382, 383, 384, 385, 387, 388, 389, 394, 398, 401, 411, 418, 419, 421, 422, 440, 476, 548, 600, 683, 710, 720, 729, 753, 754, 756, 758, 759, 760, 770, 772, 775, 777, 780, 853, 855, 857, 863, 867, 875, 887, 890, 891, 892, 893 Lionet, Pierre, 295, 297, 303, 306, 397 Loder, Justus Christian, xxxiv, 372, 373, 374, 375, 376, 391, 392, 502, 596, 853, 856, 865, 874 Lorenz, Adam, 482 Lößl, Ignaz, 877 Ludwig I di Baviera, 893 Luigi XIV, 426 Luigi XV, 858 Maffi, Bruno, xxiii, xxvii, xxvii Mägdefrau, Karl, 892 Malpighi, Marcello, 379 Mandelkow, Karl Robert, xxi Manet, Édouard, xlvi Maria Antonietta, 879 Maria Paulowna, 860, 878 Martens, Franz Heinrich, 902 Martins, Charles François, xxvi Martinet, Johann Florentius, 397 Martius, Karl Friedrich Philipp von, 653, 654, 655, 675, 683, 787, 790, 802, 805, 807, 881, 882, 884, 885, 896 Matthesius, Johann, 737, 890 Max Joseph I, 881 Mazzucchetti, Lavinia, xxiii Meckel, Johann Friedrich, 436, 437, 444, 825, 845, 858, 859, 900 Meinecke, Johann Ludwig Georg, 773, 895 Meisner, Karl Friedrich, 886 Melville, Herman, xlii Merck, Johann Heinrich, 373, 511, 512, 853, 855, 856, 866, 901 Meyer, Ernst Heinrich Friedrich, xviii, xxxvi, 446, 608, 720, 774,

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775, 869, 871, 874, 875, 888, 889, 891, 894, 895 Meyer, Johann Heinrich, 392, 859, 870, 876, 881 Meyer, Nikolaus, 863 Meyranx, Pierre Stanislas, 900 Michaux, André, 775, 895 Micheli, Petrus Antonius, 39, 377 Mirbel, Charles François Brisseau de, 772, 894 Mittner, Ladislao, xxxiii Moiso, Francesco, xxix Moldenhawer, Johann Jakob Paul, 772, 894 Monro, Alexander, 496 Montaigne, Michel de, 825, 901 Montgolfier, fratelli, 892 Monti, Giuseppe e Giovanni, xxvi Montinari, Mazzino, xxvii Morawe, Bodo, xxi Moritz, Karl Philipp, 446, 856, 859, 860, 861 Müller, Johannes, 859, 898 Müller, Susanne, xliii Mursinna, Christian Ludwig, 671, 867, 883 Napoleone Bonaparte, xxxvi, 900 Naumann, Barbara, xl, xli Necker, Natalis Joseph, 710, 887 Nees von Esenbeck, Christian Gottfried Daniel, xxxvi, 376, 482, 547, 689, 772, 774, 856, 863, 867, 868, 869, 872, 875, 877, 879, 881, 884, 885, 888, 894, 895 Negodi, Giorgio, xxiii, xxv, xxvi, xxvii Newton, Isaac, xxx Nicati, Constant., 633 Niethammer, Friedrich Immanuel, 458, 861 Oken, Lorenz, 547, 773, 825, 845, 866, 879, 883, 894, 895, 900 Oporinum, Ioannem, 15 Ovidio, 471, 709, 887 Pander, Christian, 870, 871 Päringer, Joseph, 575, 653, 871, 872 Patrin, Louis, 380, 382, 383 Pavese, Cesare. xlii Pellis, Arturo, xxvii, xxx Perragalli, 851

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morfologia

Petit-Thouars, Louis Marie Aubert du, 778, 781, 895 Pfalz, Johann Wilhelm von der, 887 Philargyrius, Junius, 573, 872 Pigburn, Frances, 851 Plaga, Friederike, xlv Platone, 542 Plutarco, 872 Pohl, Johann Baptist Emanuel, 884 Poiret, Jean Louis Marie, 781, 895 Portmann, Adolf, xxxi, xl Prätorius, Hieronymus, 419, 753, 857 Prochaska, Georg, 389 Propp, Vladimir, xl Purkinje, Johannes, 629, 878 Pursh, Frederick Traugott, 889 Quattrocchi, Giuseppina, xxx Raimondo, Francesco M., xxx Rauch, Christian Daniel, 902 Réaumur, René Antoine Ferchault de, 396 Recki, Birgit, xvi, xxx, xl Redouté, Pierre Joseph, 758, 893 Rehbein, Wilhelm, 884 Reichenbach, Heinrich Gottlieb Ludwig, xix, 780, 783, 813, 895, 898 Reichert, Johann Friedrich, 551, 552, 869 Reiffenstein, Johann Friedrich, 764, 893 Reinhard, Franz Volkmar, 860 Renner, Theobald, 501, 865, 876 Reukauf, Edmund, 377, 378 Reuß, Graf, 420 Richard, Louis Claude Marie, 775, 894, 895 Richter, Peter H., 896 Riemer, Friedrich Wilhelm, xxxvi, 384, 399, 401, 402, 403, 858, 871, 872, 874, 875, 879, 880, 881, 890, 891, 892, 894, 896, 898, 899 Ritgen, Ferdinand August, 575, 619, 872, 877 Robiati, Pietro, xxii Rohan, cardinale, 879 Rolfink, Werner, 419, 753, 857 Romé de l’Isle, Jean Baptiste Louis, 886 Röper, Johannes August Christian, 775, 895 Rosa, Daniele, xxiii

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Rösel, August Johann, 296, 303 Rosenzweig, Claus, xlv Rougemont, Fritz, xliv Rousseau, Johann Jakob (Jean Jacques), xix, 757, 759, 891, 892, 893 Runge, Philipp Otto, 858 Rupp (Ruppe), Heinrich Bernhard, 753, 854, 857 Ruysch, Huysum Rachel, 707, 887 Schatz, Georg, 392 Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph, xxxv, 394, 401, 459, 856 Schelver, Franz Joseph, 523, 524, 525, 547, 553, 577, 771, 856, 867, 872, 868, 869, 872, 877, 894 Schiller, Friedrich, xxi, xxxv, 376, 391, 392, 398, 445, 446, 447, 448, 458, 506, 856, 858, 859, 860, 861, 874, 875, 892 Schimper, Karl, 896 Schkuhr, Christian, 623, 877 Schlegel, Paul Marquard, 419, 459, 753, 857 Schleiermacher, Ernst Christian Friedrich Adam, 831, 901 Schmid, Günther, 377, 379, 857 Schneider, Johann Gottlob, 396 Schouw, Johann Frederik, 698, 886 Schranner, Rudi, 896 Schreibers, Karl Franz Anton von, 500, 570, 865, 871 Schröter, Christian Friedrich, 501, 865 Schuchardt, Johann Christian, 884, 886, 889, 896 Schulmann, 882 Schultz, Christoph Ludwig Friedrich, 878, 881 Schulz, Günter, 391 Schumann, Friedrich Wilhelm, 390, 391, 399 Schuster, Julius, 866, 896 Schütz, Wilhelm von, 539, 587, 868, 873, 874 Schwarz, Lina, xxiv Schwemmer, Oswald, xl Sckell, Johann Georg Christian, 417, 750, 854, 856, 869 Seebeck, Thomas Johann, 874 Seidel, Johann Heinrich, 376, 689, 769, 859, 885, 894 Seidel, Philipp, 372, 376

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indice dei nomi

Seiler, Burkhard Wilhelm, 879 Senckenberg, Johann Christian, 887 Senebier, Jean, 385 Seneca, 874 Shakespeare, William, xiv, 418, 857, 892 Sichel, Giorgio, xxviii Sigfrid, Johann, 864 Simili, Raffaella, xxiv Socrate, 542 Solinas, Giorgio, xxx Sömmerring, Samuel Thomas, 372, 373, 374, 375, 377, 389, 392, 393, 395, 396, 412, 504, 506, 831, 853, 855, 865, 866, 892, 901 Soret, Frédéric (Friedrich) Jacques, xxxvi, xix, 384, 885, 886, 887, 888, 889, 891, 892, 895, 896, 899 Spinoza, Baruch, xiv, 418, 857, 892 Spix, Johann Baptist, 505, 655, 663, 825, 845, 866, 879, 881, 882, 883, 900 Sprengel, Kurt, 470, 773, 863, 890 Stark (Starke), Johann Christian, 768, 894 Steffen, Henrik, 401, 547 Steiger, Günter, 883 Stein, Charlotte von, xxxiv, 373, 377, 378, 380, 382 Stein, Friedrich Constantin (Fritz) von, 378 Steiner, Rudolf, xxiv, xxix, xxxviii Steno, Nikolaus, 868 Sternberg, Caspar von, xlvi, 884, 888 Sterne, Lawrence, 892 Stiedenroth, Ernst Anton, 629, 631, 646, 878, 880 Sturm, Karl Christian Gottlob, 679, 884 Sue, Jean Joseph, 496, 864 Sylvius, Jacobus, 497, 864, 865 Targia, Giovanna, xlv Thom, René, xxxi Thorwaldsen, Bertel, 863 Tiedemann, Friedrich, 825, 845, 900 Timpanaro, Sebastiano, xxix Tischbein, Johann Heinrich Wilhelm, 446, 858, 859 Tourette, M. de la, 893 Tournefort, Joseph Pitton de, 892 Trembley, Abraham, 396 Treviranus, Gottfried Reinhold, 772, 894

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Troll, Wilhelm, 383 Troncon, Renato, xxx Troxler, Ignaz Vitalis, 560, 870 Turpin, Pierre Jean François, 747, 778, 779, 781, 892, 895 Unger, Rudolf, 400 Ungerer, Emil, xxx Unzer, Johann August, 395 Uschmann, Georg, 859 Usteri, Paulus, 468, 469, 473, 862 Vagetius (Veget), Johann, 737, 744, 890 Vaucher, Jean Pierre Étienne, xix, 784, 785, 786, 891, 895 Velde, Casimir van de, 898 Vercellone, Federico, xxiv Verra, Valerio, xxx Vesalio (Vesalius), Andrea, 15, 494, 495, 497, 508, 864, 865 Vicq d’Azir, Félix, 375 Vidoni, Ferdinando, xxiv Virgilio, 872 Vogel, Christian Georg Carl, 372, 858 Vogel, Martin (Martinus Fogelius), 890 Voigt, Friedrich Siegmund, xviii, xxxvi, 553, 621, 770, 773, 780, 856, 867, 868, 869, 876, 877, 889, 891, 893, 894, 895 Voigt, Johann Heinrich, 877 Voltaire, xxxviii, 887 Vulpius, Christiane, xv, xxxiv, xxxvi, 858 Wackenroder, Heinrich Wilhelm Ferdinand, 868 Wahlenberg, Göran, 77, 894 Waitz, Johann Christian Wilhelm, 372, 373, 375, 376, 377, 503, 865, 879, 898 Waitz, Wilhelm, 372, 377, 879 Walther, Julius August, xxxiv Warburg, Aby, xliv, xlv, xlvi Wedel, Otto Joachim Moritz von, 751, 854, 856 Weller, Christian Ernst Friedrich, 860, 882 Wellershoff, Dieter, xxxii Welsch, Georg Hieronymus, 240, 395 Wenderoth, Georg Wilhelm Franz, 548, 869

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morfologia

Wenzel, Manfred, xxiv, 871, 878 Wieland, Christoph Martin, 858 Wilbrand, Johann Bernhard, 547, 575, 619, 872, 877 Willdenow, Karl Ludwig, 469, 733, 740, 741, 862, 890 Williamson, Thomas, 500, 865 Winckelmann, Johann Joachim 542, 868 Winslow, Jakob Benignus, 496, 864 Wolf, Friedrich August, 433 Wolff, Caspar Friedrich, 435, 439, 443,

goethe.indb 950

444, 465, 671, 710, 858, 859, 861, 862, 867, 883, 887 Woltmann, Karl Ludwig von, 862 Zagari, Luciano, xxxii Zauper, Joseph Stanislaus, 580, 873 Zecchi, Stefano, xxiii Zelter, Carl Friedrich, 857, 900-901 Zimmermann, Eberhard August Wilhelm, 395 Zoëga, Georg, 860 Zumsteg, S., xli

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