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Mattia De Poli
Monodie mimetiche e monodie diegetiche I canti a solo di Euripide e la tradizione poetica greca
Monodie mimetiche e monodie diegetiche
DRAMA
Neue Serie · Band 10
Studien zum antiken Drama und zu seiner Rezeption Herausgegeben von Bernhard Zimmermann in Zusammenarbeit mit Juan Antonio López Férez (Madrid), Giuseppe Mastromarco (Bari), Bernd Seidensticker (Berlin), N.W. Slater (Atlanta), Alan H. Sommerstein (Nottingham), Pascal Thiercy (Brest).
Mattia De Poli
Monodie mimetiche e monodie diegetiche I canti a solo di Euripide e la tradizione poetica greca
Informazione bibliografica della Deutsche Nationalbibliothek La Deutsche Nationalbibliothek registra questa pubblicazione nella Deutsche Nationalbibliografie; dettagliati dati bibliografici sono disponibili in internet in http://dnb.dnb.de.
Pubblicato con il contributo del Dipartimento di Studi linguistici e letterari, Università degli Studi di Padova – Progetto Giovani Ricercatori 2010.
© 2012 · Narr Francke Attempto Verlag GmbH + Co. KG Dischingerweg 5 · D-72070 Tübingen Das Werk einschließlich aller seiner Teile ist urheberrechtlich geschützt. Jede Verwertung außerhalb der engen Grenzen des Urheberrechtsgesetzes ist ohne Zustimmung des Verlages unzulässig und strafbar. Das gilt insbesondere für Vervielfältigungen, Übersetzungen, Mikroverfilmungen und die Einspeicherung und Verarbeitung in elektronischen Systemen. Gedruckt auf säurefreiem und alterungsbeständigem Werkdruckpapier. Internet: www.narr.de E-Mail: [email protected] Druck und Bindung: Hubert + Co., Göttingen Printed in Germany ISSN 1862-7005 ISBN 978-3-8233-6726-0
PREMESSA L’iniziale interesse per la tragedia attica e in particolare per le monodie euripidee risale agli anni degli studi universitari, ai preziosi insegnamenti del prof. Giuseppe Serra e del prof. Davide Susanetti, attento supervisore e relatore della tesi di laurea Monodie euripidee: dall’Alcesti alle Supplici (Università degli Studi di Padova, 24 marzo 2004): a loro desidero rivolgere un sincero ringraziamento per il prezioso magistero e per l’incoraggiamento. Questo volume è nato come rielaborazione e ampliamento della “Appendice” posta a conclusione della tesi di dottorato Monodie euripidee: Troiane, Elettra, Ifigenia fra i Tauri, Ione, Elena, Oreste, Fenicie, Ifigenia in Aulide (Università degli Studi di Padova, 18 aprile 2008) e rappresenta l’ideale completamento di un lavoro di indagine sulle monodie delle tragedie di Euripide, iniziato con la pubblicazione dello studio Monodie di Euripide. Note di critica testuale e analisi metrica (2011). Nelle pagine seguenti ho cercato di fare tesoro non solo dei suggerimenti forniti con indefessa pazienza dal prof. Susanetti, ma anche degli spunti raccolti dalle lezioni, dai seminari e dal confronto personale con il prof. Anton Bierl, che gentilmente mi ha seguito nei mesi del mio soggiorno di studio presso l’Università di Basilea (gennaio-maggio 2006) e che ringrazio cordialmente. Un incoraggiamento ad approfondire i temi originariamente trattati nella “Appendice” della tesi di dottorato è venuto anche dalla commissione d’esame, con cui l’ho discussa e che era composta dalla prof.ssa Roberta Strati (presidente), dalla prof.ssa Ornella Montanari e dalla prof.ssa Maria Pia Pattoni: a tutte loro un sentito ringraziamento per le utili osservazioni. Il presente lavoro è stato accolto nella collana “DRAMA. Studien zum antiken Drama und zu seiner Rezeption”, diretta dal prof. Berhard Zimmermann, al quale esprimo la mia profonda gratitudine. Per il paziente lavoro di revisione del dattiloscritto desidero ringraziare cordialmente la dott.ssa Anna Miriam Biga e la dott.ssa Luigia Businarolo. Per il fondamentale sostegno, l’incoraggiamento e i molteplici aiuti voglio manifestare la mia riconoscenza e il mio ringraziamento ai miei genitori, Francesco De Poli e Maria Stella Miante. Un grazie perticolare a Maria Grazia Biga.
Padova – Rovigo, 29 maggio 2012
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INDICE
INTRODUZIONE 1. Eschilo ed Euripide nelle Rane di Aristofane.............................................. 1.1. La percezione dei generi poetici.............................................................. 1.2. La permeabilità della tragedia................................................................. 1.3. Euripide e la monodia tragica.................................................................
11 12 13 14
2. Il threnos e i canti della tragedia.................................................................... 15 2.1. La monodia tragica e il threnos................................................................ 16 2.2. La monodia tragica oltre il threnos.......................................................... 18 3. Monodie mimetiche e monodie diegetiche.................................................. 19
MONODIE MIMETICHE PREGHIERE 1. La preghiera: caratteristiche generali............................................................ 23 2. La preghiera in Euripide.................................................................................. 24 3. Preghiere di richiesta e preghiere apotropaiche.......................................... 3.1. Elettra 135-139 (monodia di Elettra)........................................................ 3.2. Oreste 174-182 (monodia di Elettra)........................................................ 3.3. Ecuba 68-97 (monodia di Ecuba).............................................................. 3.4. Fenicie 182-192 (monodia di Antigone).................................................. 3.4.1. Antigone tra due fuochi: la preghiera di Teano nell’Iliade............... 3.4.2. Antigone tra due fuochi: le preghiere del Coro nei Sette contro Tebe................................................................................................ 3.4.3. Antigone tra due fuochi: alcune considerazioni sceniche................
26 26 28 29 31 33
4. Preghiere “di contestazione”........................................................................... 4.1. Ippolito 1363-1388 (monodia di Ippolito): dalla contestazione alla richiesta................................................................................................ 4.1.1. Considerazioni per una lettura unitaria di Ippolito 1363-1388......... 4.1.2. Dalla devozione alla contestazione: il caso dell’Ippolito...................
43
37 41
44 47 51
5. Preghiere “poetiche”......................................................................................... 55 5.1. Elena 167-178 (monodia di Elena)........................................................... 56 6. Forme affini alla preghiera: scongiuri, maledizioni, giuramenti........................................................................................................... 58 6.1. Oreste 1454-1456 (monodia del Frigio)................................................... 58 6.2. Fenicie 350-354 (monodia di Giocasta).................................................... 59 7
6.3. Elena 348-359 (monodia di Elena)........................................................... 61 7. La libagione: tradizione di una pratica cultuale.......................................... 7.1. Ifigenia fra i Tauri 157-177 (monodia di Ifigenia)................................... 7.1.1. Anomalie e originalità nella scena di libagione dell’Ifigenia fra i Tauri.................................................................................................. 7.1.2. Attore e Coro nelle scene di libagione.................................................
64 67 69 71
8. In margine alle preghiere presenti nelle monodie di Euripide............... 76 8.1. La preghiera e l’aprosdoketon scenico: Elena e Oreste............................ 76 8.2. L’aprosdoketon scenico nella monodia di Elettra: dalla preghiera alla parodo...................................................................... 78 INNI AGLI DEI 1. L’inno: caratteristiche generali....................................................................... 83 2. L’inno citarodico: la struttura del canto........................................................ 85 2.1. Ione 859-922 (monodia di Creusa): l’inno rovesciato............................ 86 2.1.1. L’anti-inno di Creusa e la tradizione poetica greca........................... 94 3. Il peana, l’upingo e il dafneforico: caratteristiche specifiche................... 96 3.1. Ione 112-143 (monodia di Ione): un peana monodico........................... 99 3.1.1. Il peana di Ione e la tradizione poetica greca..................................... 102 3.1.2. Equilibri drammaturgici: il peana di Ione e l’anti-inno di Creusa.................................................................................................. 105 3.2. Ifigenia in Aulide 1475-1496 (monodia di Ifigenia): un upingo processionale.......................................................................... 106 3.2.1. Un “peana” per Artemide?................................................................... 108 3.2.2. Le incertezze del Coro........................................................................... 110 CANTI NUZIALI 1. I canti nuziali: caratteristiche generali.......................................................... 113 2. Riti nuziali, monodie e azione drammatica................................................. 114 2.1. Troiane 308-340 (monodia di Cassandra)............................................... 116 2.2. Supplici 990-1030 (monodia di Evadne)..................................................120 2.3. Elettra 125-126 (monodia di Elettra)........................................................ 125 3. Spose eleganti e spose pezzenti..................................................................... 127 CANTI DI LAVORO 1. Canti di lavoro: caratteristiche generali……................................................ 129 2. I canti di lavoro e il teatro attico..................................................................... 129 2.1. Elettra 112-113 = 127-128 (monodia di Elettra)...................................... 130 2.2. Ione 112-183 (monodia di Ione)................................................................ 132 8
2.2.1. Ione 112-143.............................................................................................. 132 2.2.2. Ione 144-153.............................................................................................. 134 2.2.3. Ione 154-183.............................................................................................. 134
MONODIE DIEGETICHE ELEGIA NARRATIVA 1. L’elegia narrativa: caratteristiche generali................................................... 139 2. L’elegia e la tragedia attica.............................................................................. 140 2.1. Andromaca 103-116 (monodia di Andromaca)....................................... 140 2.1.1. La scelta dell’elegia e la tradizione poetica greca.............................. 142 2.1.2. La monodia di Andromaca sulla scena............................................... 144 “NUOVO DITIRAMBO” 1. Il ditirambo narrativo: caratteristiche generali............................................147 2. Le monodie ditirambiche nelle tragedie di Euripide................................. 148 2.1. La struttura delle monodie ditirambiche............................................... 150 2.2. Retorica e stile delle monodie ditirambiche…...................................... 154 2.3. Fra elegia narrativa e poesia epica: motivi (e forme) eterogenei delle monodie ditirambiche................................................. 157 2.4. La funzione drammaturgica delle monodie ditirambiche.................. 159 Appendice. Monodie ditirambiche – Testi e struttura................................... 163 testo 1: Ione 887-906.......................................................................................... 163 testo 2: Oreste 960-1012.................................................................................... 163 testo 3: Fenicie 301-354...................................................................................... 165 testo 4: Troiane 98-152....................................................................................... 166 testo 5: Ifigenia fra i Tauri 203-235................................................................... 167 testo 6: Fenicie 1567-1581.................................................................................. 168 testo 7: Elena 164-178, 191-210, 229-252, 362-385.......................................... 169 testo 8: Oreste 1369-1379, 1381-1392, 1395-1424, 1426-1451, 1454-1472, 1474-1502........................................................................... 172 testo 9: Ifigenia in Aulide 1283-1332................................................................. 177
CONCLUSIONI 1. Euripide post-classico (o pre-alessandrino)?............................................... 179 1.1. Monodie polivalenti.................................................................................. 181 1.2. Laicizzazione, decontestualizzazione, rivoluzione.............................. 182 2. Monodie sulla scena......................................................................................... 183 2.1. Personaggi e coro...................................................................................... 184 9
2.2. Canto autoreferenziale e anticipazione del rito.................................... 187 2.3. La spettacolarità delle monodie.............................................................. 188
BIBLIOGRAFIA 1. Testi, commenti, studi, strumenti.................................................................. 191 2. Traduzioni citate................................................................................................208
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INTRODUZIONE 1.
Eschilo ed Euripide nelle Rane di Aristofane
I rapporti fra le commedie di Aristofane e la tragedia attica del V sec. a.C. sono espliciti e si manifestano sotto forme diverse. A volte nelle opere comiche vengono semplicemente menzionati i nomi di alcuni poeti tragici e i titoli di alcuni loro drammi: i nipoti di Eschilo, Morsimo e Melanzio, sono ricordati, insieme o singolarmente, nei Cavalieri (Ar. Eq. 401), nella Pace (Ar. Pax 802803, 1009), negli Uccelli (Ar. Av. 151) e nelle Rane (Ar. Ra. 151), mentre sempre nella Pace (Ar. Pax 1012) si allude a una Medea attribuibile o all’uno o all’altro dei due tragediografi1. Inoltre, a distanza di pochi versi nella stessa commedia (Ar. Pax 119, 126) si possono incontrare trimetri giambici ripresi da due diverse tragedie euripidee, l’Eolo (Eur. fr. 18 Kannicht) e la Stenebea (Eur. fr. 669.4 Kannicht)2. Euripide compare addirittura come personaggio già sulla scena degli Acarnesi3, mentre nelle Tesmoforiazuse non è il solo tragediografo ad avere un ruolo attivo: nel prologo, infatti, interviene anche Agatone, il quale dà un saggio della sua arte ed espone una teoria della mimesis4. Nelle Rane, infine, lo stesso Euripide è protagonista dell’agone insieme ad Eschilo: entrambi sono chiamati a una gara poetica (Ar. Ra. 785-786 NULYVL WK WHYFQK) attraverso l’analisi delle opere dell’avversario e la dimostrazione della propria abilità. Dopo la disamina dei prologhi, Dioniso in qualità di giudice invita i due contendenti a soffermarsi sui canti. Euripide insiste sulla monotonia di Eschilo (Ar. Ra. 1249-1250), confezionando due brani scanditi da un refrain. Nel secondo, la voce onomatopeica IODWWRTUDWWRIODWWRTUDW intende riprodurre il suono delle corde della cetra, ma Dioniso chiede: «Cos’è questo phlattothrat? Da dove hai preso i canti dei cordai? Da Maratona?» (Ar. Ra. 1296-1297 WLYWRIODWWRTUDWWRX WHMVWLYQBHMN0DUDTZ QRK@SRYTHQVXQHYOH[DL-PRQLRVWURYIRXPHYOKB). L’espressione finale L-PRQLRVWURYIRXPHYOK non è interpretata in maniera univoca. Di solito vi si coglie un’allusione a canti di lavoro – di acquaioli o di cordai – caratterizzati dalla ripetitività e dalla presenza di ritornelli, ma Di Marco ha recentemente proposto in maniera persuasiva un’inter-
1 Mastromarco 1983 fornisce utili informazioni in merito a Morsimo (p. 245 n. 60), a Melanzio (p. 623 n. 84) e all’incerta attribuzione della Medea (p. 635 n. 103). Ulteriori informazioni su Morsimo e Melanzio sono riportate da Mastromarco – Totaro 2006, p. 130 n. 29 e p. 577 n. 30. 2 Indagini approfondite sul fenomeno della paratragedia in Aristofane sono proposte da Rau 1967; Pucci 1961. Per quanto riguarda l’aspetto musicale e metrico-ritmico, vd. Rocconi 2007; Pretagostini 1989. Vd. anche Di Marco 2009b. 3 Per una rassegna dei poeti tragici come personaggi comici in Aristofane, vd. Tammaro 2006. 4 Sul significato di mimesis in rapporto alla scena di Agatone nelle Tesmoforiazuse di Aristofane, vd. Tasinato 2010.
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pretazione diversa5: le parole di Dioniso alluderebbero in tono ironico al gesto che Euripide compie con le dita fingendo di suonare la cetra e non implicherebbero alcuna influenza dei canti popolari sulla poesia tragica di Eschilo, che poco prima, per voce di Euripide, era stata messa chiaramente in relazione con i più austeri nomoi citarodici (Ar. Ra. 1282 HMNWZ Q NLTDUZLGLNZ QQRYPZQ)6. Il più anziano dei due tragediografi, d’altra parte, replica affermando la buona qualità della propria arte (Ar. Ra. 1298-1299 DMOORX?QHMJZPHQHLMWR NDORQHMNWRX NDORX K>QHJNRQ)7 e rimprovera ad Euripide di non aver badato al decoro della tragedia e di aver raccolto spunti per i suoi PHYOK «da ogni dove: dai canti delle puttane, dalle canzoni conviviali (VNRYOLD) di Meleto, dalle melodie per aulo (DXMOKYPDWD), dalle nenie funebri (TUK QRL), dalle danze (FRUHL D) della Caria» (Ar. Ra. 1301-1303, trad. Mastromarco)8. La varietà delle forme poetiche a cui avrebbe attinto Euripide si accompagna alla ricca polimetria dei suoi brani cantati, paragonata all’abilità amorosa di Cirene, una nota prostituta. L’episodio delle Rane risponde innanzitutto a finalità comiche; eppure Aristofane era indubbiamente un ottimo conoscitore non solo della produzione tragica ma anche della tradizione melica e l’analisi della poesia di Eschilo e di Euripide, proposta da questo testo, rappresenta per noi un’importante fonte di informazioni sulla percezione della poesia e sulla distinzione dei vari generi nell’Atene della fine del V sec. a.C. 1.1. La percezione dei generi poetici Secondo Rossi (1971), la produzione letteraria greca di epoca arcaica conosceva già una distinzione per generi – in rapporto alla committenza, al destinatario, all’occasione e alle attese del pubblico in merito alla forma e al contenuto 9 – ma non conosceva ancora una codificazione scritta: è l’epoca delle «leggi non scritte ma rispettate». Solo tra il V e il IV sec. a.C. alcune regole vengono fissate: in questa temperie si deve probabilmente collocare, ad esempio, il 3HUL FRURX di Sofocle, qualsiasi fosse il suo preciso contenuto. Quella classica è, dunque, l’età delle «leggi scritte e rispettate», mentre più tardi quella alessandrina si profila come l’epoca delle «leggi scritte e non rispettate», cioè un’epoca che viola intenzionalmente le norme codificate.
Tra le varie ipotesi interpretative, l’espressione L-PRQLRVWURYIRXPHYOK alluderebbe a canti eccessivamente lunghi. Per una sintesi della questione ermeneutica, vd. Di Marco 2011, che propone anche una lettura originale. 6 A proposito della matrice citarodica riconoscibile in alcuni passi tragici sia di Eschilo che di Euripide, vd. Gostoli 1990, pp. XXVII-XXVIII. In particolare a proposito di alcuni brani delle Troiane, vd. Cerri 1984-1985. 7 Vd. Di Marco 2009b, pp. 120-123. 8 Per l’interpretazione e la contestualizzazione di questi tipi di canto e per alcune informazioni biografiche sul poeta Meleto, vd. Mastromarco – Totaro 2006, p. 682 nn. 206-207; Del Corno 1985, pp. 234-235. 9 Sul rapporto fra poesia e pubblico, vd. anche Gentili 2006. 5
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Le considerazioni di Rossi in merito all’età classica sono supportate da alcuni passi tratti proprio dalle Rane di Aristofane: nel v. 862, ad esempio, la distinzione fra parti recitate (H>SK) e parti cantate (PHYOK) sembra implicare una schematizzazione teorica delle modalità di esecuzione proprie della tragedia. Nella stessa commedia si individuano anche i prologhi (Ar. Ra. 1119, 1177) e le monodie (Ar. Ra. 848, 944, 1330), anticipando l’analisi delle componenti quantitative della tragedia – i PHYUKWUDJZLGLYDNDWDWRSRVRQ – proposta dalla Poetica aristotelica (Arist. Poe. 1452b 14-27)10. In modo analogo i richiami ora ai nomoi citarodici, ora ai canti conviviali o skolia, ai lamenti funebri o threnoi e ad altri canti popolari, lascia supporre che il pubblico fosse capace di riconoscere le diverse forme poetiche e di associare alla sola menzione del nome le caratteristiche specifiche di ciascuna. In tal caso è plausibile ipotizzare anche il percorso inverso, ovvero l’associazione fra un canto con determinate caratteristiche e il nome del genere corrispondente. Quando Euripide propone un pastiche dei PHYOK eschilei, la loro affinità con i nomoi citarodici, apertamente dichiarata all’inizio (Ar. Ra. 1281-1282), doveva risultare maggiormente perspicua nel secondo dei due brani grazie alla voce onomatopeica, che riproduceva il suono delle corde della cetra, e alla gestualità dell’attore. Diversamente, i punti di contatto fra i corali o le monodie euripidee e le forme poetiche elencate da Eschilo prima di iniziare la sua esibizione parodica rimangono impliciti: dobbiamo supporre, quindi, che il pubblico ateniese – lo stesso che poteva assistere alle rappresentazioni sia delle commedie di Aristofane che delle tragedie di Euripide – fosse comunque capace non solo di comprendere i riferimenti ai vari generi poetici, segnalati nelle Rane, ma anche di riconoscere e distinguere le tracce dei diversi canti trazionali soltanto attraverso il loro ascolto e l’individuazione delle loro caratteristiche. 1.2. La permeabilità della tragedia Il confronto fra Eschilo ed Euripide, inscenato da Aristofane nelle Rane, si rivela utile anche per un’ulteriore considerazione relativa al rapporto fra la tragedia e gli altri generi poetici tradizionali. Le parole del più anziano tragediografo, infatti, ripetono due volte a breve distanza la frase IHYUZHMN/ DMSR (HLM ) (Ar. Ra. 1298-1299, 1301). L’azione compiuta dal poeta – il trasferimento di contenuti, espressioni, forme da un genere all’altro – è simile a quella di chi coglie i fiori in un prato (Ar. Ra. 1300 GUHYSZQ)11. In un paio di occasioni, inoltre, Eschilo rimprovera Euripide per il suo stile “raccogliticcio”: lo definisce fin dalle prime battute come un poeta che raccoglie chiacchiere (Ar. Ra. 841 VWZPXOLRVXOOHNWDYGK) e lo critica poi per la collezione (Ar. Ra. 849 VXOOHYJZQ) di monodie cretiche. Simili espressioni – indipendentemente dalla connoA proposito del celebre passo aristotelico, vd. Scattolin 2011. Negli Uccelli (Ar. Av. 748-751) Frinico è paragonato a un’ape che «si nutriva (DMSRERYVNHWR) del frutto di immortali melodie, sempre producendo (IHYUZQ) un dolce canto» (trad. Mastromarco). Vd. Mastromarco – Totaro 2006, p. 197 n. 162, dove sono segnalati paralleli testuali e rinvii bibliografici per ulteriori approfondimenti sull’immagine del poeta come ape. 10 11
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tazione che le qualifica – descrivono chiaramente la permeabilità della tragedia, sia rispetto a forme comunicative piuttosto fluide, quali potrebbero essere le preghiere, sia rispetto a forme canonizzate come i generi poetici della tradizione. Questo fenomeno, che è stato variamente indagato almeno dalla metà degli anni Ottanta12, è comune anche alle altre due forme drammatiche del teatro attico: la commedia e il dramma satiresco. L’opera di Aristofane, ad esempio, in molteplici occasioni mette in atto un gioco allusivo più o meno esplicito non solo rispetto alla tragedia ma anche rispetto ad altre forme espressive (preghiere) e a generi letterari diversi (inni, lamenti, canti di lavoro)13, e un’identica situazione è riscontrabile nelle scarse testimonianze del dramma satiresco, in particolare nel Ciclope di Euripide14. 1.3. Euripide e la monodia tragica Secondo la ricostruzione proposta dal personaggio di Euripide nelle Rane, nel ricevere idealmente da Eschilo il testimone della tragedia egli avrebbe ereditato un’arte «gonfia di uno stile ampolloso e di parole pesanti» (Ar. Ra. 939-940, trad. Mastromarco). Quindi, l’avrebbe sottoposta a una singolare “cura dimagrante”, nutrendola con un nuovo alimento: le monodie. Questa struttura, non comune a tutte le tragedie, doveva essere riconosciuta come una particolarità euripidea15 e anche Eschilo la segnala espressamente nel proporre un saggio dei canti del rivale (Ar. Ra. 1330). Il pastiche di monodie (Ar. Ra. 1331-1363), come quello dei canti in generale (Ar. Ra. 1309-1322), di solito viene analizzato dalla critica moderna attraverso il confronto con i testi delle tragedie di Euripide, conservate dalla tradizione, e questo approccio ha permesso di individuare una fitta rete di passi paralleli16. Ma si è trascurato di vagliare il loro rapporto con i canti extratragici, quelli a cui, secondo l’accusa di Eschilo, Euripide avrebbe attinto indiscriminatamente. È possibile, ad esempio, che l’invocazione ai ragni (Ar. Ra. 1313-1316) riecheggiasse il canto di chi lavorava al telaio: lo stesso motivo ritorna nel brano successivo (Ar. Ra. 1346-1351). Qui, inoltre, il testo suggeriLa bibliografia sull’argomento è molto vasta: per un inquadramento complessivo si segnalano Herington 1985, punto di riferimento comune a molti studi successivi, e Perusino – Colantonio 2007, che propongono diverse prospettive possibili. Herington presenta la tragedia come «a synthesis of live performing arts» (p. 80), ovvero come una forma d’arte mimetica che ne ingloba altre, anch’esse mimetiche, e si spinge ad ipotizzare che «one of the most important elements in the formation of Attic tragedy as we know it, in matters both of technique and of content, was the predramatic poetic tradition» (p. 81). Sugli effetti di questa permeabilità della tragedia, vd. anche Rodighiero 2008. 13 Vd. Zimmermann 1984, pp. 209-213, 219-235; Zimmermann 1985, pp. 191-205. 14 Vd. Rossi 1971b; Napolitano 2003, passim. 15 Cf. Ar. Ra. 849. Il legame fra monodia e tragedia di Euripide è segnalato anche nelle Tesmoforiazuse (Ar. Thesm. 1077). Solo nella Pace (Ar. Pax 1012) si parla di una monodia in relazione a una tragedia di un autore diverso. 16 Vd. Magnini 1997; Pretagostini 1989, pp. 111-121. 12
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sce la simulazione di un rito di purificazione (Ar. Ra. 1338-1340 DMOODYPRL D^\DWH), con espressioni che ricordano la celebrazione della libagione da parte di Ifigenia sulla scena euripidea (Eur. IT 167-169 DMOOH>QGRPRL). Diversi passaggi dello stesso canto, infine, riproducono espressioni tipiche delle preghiere (Ar. Ra. 1344-1345, 1358-1360, 1361-1363). La permeabilità è un fenomeno che interessa diverse componenti strutturali della tragedia e, come anche la parodia comica a suo modo testimonia, le monodie non fanno eccezione.
2.
Il threnos e i canti della tragedia
Tra i vari modelli a cui Euripide si sarebbe ispirato nella composizione dei suoi canti tragici, la testimonianza offerta dalle Rane segnala i threnoi: queste lamentazioni, legate al rito funebre, accompagnavano di solito il momento dell’esposizione del cadavere o prothesis, prima del corteo e della cremazione o dell’inumazione, ma gemiti e grida di dolore potevano alzarsi anche durante la processione che accompagnava il trasporto del morto 17. Altri lamenti, inoltre, potevano essere eseguiti per la commemorazione dei defunti in occasione di anniversari o di particolari ricorrenze18. All’interno della tragedia un caso esemplare di trenodia è rappresentato dal lamento di Ecuba e del Coro sul corpo del piccolo Astianatte nel finale delle Troiane (Eur. Tr. 1209-1259, 1287-1331), ma i canti funebri potevano subire taluni adattamenti in rapporto alla situazione drammaturgica. Nel finale dei Persiani di Eschilo, ad esempio, il kommos di Serse e del Coro non è intonato alla presenza di alcun cadavere – i soldati dell’esercito persiano, caduti nello scontro con i Greci, sono rimasti sulla spiaggia di Salamina (Aesch. Pers. 964-965) – e l’unico corpo straziato visibile sulla scena è quello del re, spogliato dello sfarzo consueto e privo del suo seguito (Aesch. Pers. 1015-1036). Nella parte conclusiva il compianto è centrato esclusivamente sulla sua rovina per-
Vd. Mirto 2007, p. 73. L’esecuzione di lamentazioni durante il corteo funebre è implicitamente testimoniato, oltre che dalle norme suntuarie di diverse località greche, anche da Platone che le vietava nella sua città ideale (Plat. Leg. XII 960a). A questo genere di canto si può, forse, ricondurre l’D-UPDYWLR di Olimpo (Ps. Plut. De Mus. VII 1133e) e l’D-UPDYWHLRQPHYOR (Eur. Or. 1384; Etymol. Magn. s.v. D-UPDYWHLRQPHYOR). Per una ricostruzione storica del threnos come genere poetico, vd. Cannatà Fera 1990, pp. 7-46. La distinzione rispetto al goos era legata al soggetto dell’esecuzione: questo, infatti, era intonato da parenti e amici del defunto, mentre il threnos era affidato a cantori professionisti. Tale distinzione è testimoniata già nel XXIV libro dell’Iliade (Hom. Il. XXIV 718-775), dove sono riportati i JRYRL di Andromaca, Ecuba ed Elena, ma sono menzionati anche alcuni DMRLGRLTUKYQZQH>[DUFRL: a tutti questi lamenti rispondeva il pianto corale delle donne troiane. Vd. anche Mirto 2007, p. 66. 18 In questo caso, le esclamazioni di dolore ricreavano l’atmosfera luttuosa del funerale. Sembrano aver assolto a questa funzione evocativa anche le esclamazioni inserite all’inizio o alla fine di alcune epigrafi funerarie rinvenute a Selinunte e databili al VI-V sec. a.C.: vd. Mirto 2007, p. 93. 17
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sonale (Aesch. Pers. 1046 HMPDQFDYULQ, 1056 PRL): Serse non è morto ma è lui il destinatario del lamento, che in parte lui stesso canta. In generale, il tragisches Klagen è riconoscibile sulla base di certe caratteristiche di natura linguistica e formale (sprachlich-formale Bauelemente) e di altre legate al contenuto (inhaltlich-motivische Bauelemente)19: nel primo caso sono compresi gli appelli20, le invocazioni, le esclamazioni di dolore e tutte le figure retoriche di ripetizione; nel secondo le formule d’inizio del canto, le richieste di partecipazione al lamento, le allusioni alla gestualità del dolore e tutti quei motivi, relativi al lamento o alla circostanza in cui esso si inserisce, che hanno funzione consolatoria o che enfatizzano la tragicità della vicenda 21. 2.1. La monodia tragica e il threnos Le commedie di Aristofane collegano la monodia tragica quasi esclusivamente all’opera euripidea22 e conservano le più antiche occorrenze del termine PRQZLGLYD (Ar. Ra. 848, 944, 1330), sempre nel significato etimologico di “canto a solo”, con riferimento alla modalità di esecuzione. A questo aspetto rinviano anche le definizioni fornite dai lessicografi, che insistono sull’esclusione del Coro e sulla provenienza del canto dalla scena: Esichio, Lexicon P 45 (Latte)
0 R Q Z L G LY D OHYJHWDLR^WHHL_PRYQRWKQZMLGKYQ RXMFR-PRX R-FRURYD>LGHL
Fozio, Lexicon (Naber)
s.v.
P R Q Z L G LY D K-DMSRVNKQK ZMLGKHMQWRL GUDYPDVL P R Q Z L G LY D OHYJHWDLR^WDQHL?PRYQROHYJKLWKQ ZMLGKQNDLRXMFR-PRX R-FRURY
Suda, Lexicon (Adler)
1244
0 R Q Z L G LY D : K-DMSRVNKQK ZMLGKHMQWRL GUDYPDVL 0 R Q Z L G LY D OHYJHWDLR^WDQHL?PRYQROHYJKLWKQ ZMLGKQNDLRXMFR-PRX R-FRURY
Nelle Rane di Aristofane, già quando Eschilo imita lo stile delle monodie euripidee, si ode un canto che presenta alcune caratteristiche, soprattutto formali, tipiche del lamento tragico23 ma il legame fra monodia e lamento è Vd. Schauer 2002. Un appello caratteristico del lamento funebre è quello rivolto al defunto: vd. Cannatà Fera 1990, p. 211; Mirto 2007, p. 61. 21 La trascuratezza e la sporcizia del vestito e dell’aspetto (soprattutto dei capelli) era considerata una manifestazione di lutto, perché avvicinava alla condizione del defunto. A ciò si associava, di solito, una gestualità vistosa, con graffi e percosse, mentre i capelli, sciolti, venivano strappati o tagliati, fino a radere tutta la chioma. Vd. Mirto 2007, pp. 57-72. 22 Solo in Ar. Pax 1012 l’espressione PRQZLGHL QHMN0KGHLYD deve essere riferita alla tragedia di un poeta diverso da Euripide, probabilmente Melanzio oppure Morsimo. Vd. De Poli 2011, p. 1. 23 Ad esempio, sono presenti numerose invocazioni (Ar. Ra. 1331, 1341, 1344-1345, 1356, 1361-1362) e frequenti geminationes (Ar. Ra. 1336, 1352, 1353, 1354, 1355). 19 20
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più evidente nelle occorrenze del verbo PRQZLGHYZ (Ar. Pax 1012, Thesm. 1077): nella Pace è seguito dal grido RMORYPDQRMORYPDQ (Ar. Pax 1013), mentre nelle Tesmoforiazuse il Parente-Andromeda chiede a Euripide di poter PRQZLGK VDL un canto che si apre con un’invocazione alla Notte e in cui si inserisce l’aggettivo WOKYPZQ con funzione esclamativa. E forse non è solo un caso che i lessicografi individuino un legame più stretto fra monodia e lamento proprio in rapporto al verbo: Esichio, Lexicon P 45 (Latte)
P R Q Z L G H L PRQRTUKQHL
Fozio, Lexicon (Naber)
s.v.
NDLP R Q Z L G H L WRTUKQHL QHMSLHLNZ JDUSD VDL DL-DMSRVNKQK ZMLGDLHMQWK LWUDJZLGLYDLTUK QRLYHLMVL
Suda, Lexicon 1244 (Adler)
NDLPRQZLGHL WRTUKQHL Q0 R Q Z L G LY D HMVWL TUK QRPRQRHLGKY24
La definizione di monodia fornita dallo scolio al v. 113 (Schwarz) dell’Andromaca di Euripide: PRQZLGLYDHMVWLQZMLGKH-QRSURVZYSRXTUKQRX QWR è probabilmente il punto di arrivo di un processo di semplificazione per synecdochen25: il lamento funebre – come suggeriscono le parole che Aristofane attribuisce a Eschilo – è solo una delle modalità espressive confluite nei canti tragici di Euripide, e anche nelle sue monodie, ma l’alta incidenza degli elementi trenetici nei brani eseguiti a solo deve aver favorito l’equivalenza di monodia e threnos26. Questa specializzazione semantica, inoltre, potrebbe essere stata agevolata dalle considerazioni della Poetica aristotelica in merito alle parti costitutive della tragedia, dove si afferma che «le parti quantitative […] particolari sono […] i canti dalla scena e i compianti (WDDMSRWK VNKQK NDLNRPPRLY)» (Arist. Poe. 1452b 18) e si precisa che il compianto è «un canto di lamento (TUK QR) comune del coro e della scena (DMSRVNKQK )» (Arist. Poe. 1452b 2425)27.
Vd. Di Marco 1999, pp. 225-226 n. 24. Vd. Zimmermann 1985, p. 1. 26 Tzetz. Diff. poet. 134-137 Kaibel istituisce un esplicito legame fra la PRQZLGLYD e la TUKQZLGLYD eseguita da una voce sola. 27 Vd. Scattolin 2011. Sul rapporto fra kommos e threnos, vd. Zimmermann 1984, p. 150. 24 25
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2.2. La monodia tragica oltre il threnos Di certo lo stesso termine, che nel V sec. a.C. designava genericamente un canto eseguito da una voce solista, nel II sec. d.C. a partire almeno da Elio Aristide finisce per significare il lamento funebre: «un sottogenere dell’epidittica funebre, ovvero un’orazione che trova la sua collocazione accanto all’epitafio e alla consolatio»28. Cercando di ricostruire le vie di questo slittamento semantico, Di Marco osserva che «le monodie del teatro tragico, segnatamente quelle di Euripide, si caratterizzano quasi tutte come canti di angoscia o di dolore di personaggi che versano in situazioni di pericolo o sono colpiti da sventure e da lutti». Egli distingue i «veri e propri threnoi», le monodie «fittamente intessute di elementi trenetici» e i casi in cui i personaggi cantano in anticipo il loro lamento funebre, prefigurano la loro morte o ancora si trovano ad affrontare situazioni disperate: «in sostanza, quasi tutte le monodie del teatro euripideo (ma anche di quello sofocleo) contengono elementi o almeno spunti di lamento»29. Rispetto agli stessi esempi segnalati dallo studioso, tuttavia, simili considerazioni possono risultare fortemente banalizzanti: in questo modo si trascurano, ad esempio, la componente erotica e trionfante che contraddistingue la monodia di Evadne nelle Supplici, la funzione narrativa dell’ultima monodia di Antigone nelle Fenicie, il legame con particolari cerimonie rituali, come la libagione che accompagna la prima monodia della protagonista nell’Ifigenia fra i Tauri o la propiziazione del sacrificio nella seconda monodia dell’Ifigenia in Aulide. In precedenza Barner aveva rilevato che in due monodie euripidee – quella di Ione nell’omonima tragedia e quella di Cassandra nelle Troiane – gli «Elemente der Klage», le componenti tipiche della lamentazione sono del tutto assenti. Egli considera come «Sonderfall», come circostanza singolare i threnoi cantati in anticipo da Polissena nell’Ecuba, da Elettra nell’Oreste e da Ifigenia nell’Ifigenia in Aulide, tutti eseguiti da un’eroina in vista della propria morte. Elenca cinque casi che non sono riducibili a threnoi o a canti funebri veri e propri: la monodia di Andromaca, le monodie di Ecuba nell’Ecuba e nelle Troiane, la monodia di Creusa nello Ione, e la prima monodia dell’Ifigenia in Aulide. Infine, segnala l’ulteriore categoria della «ambivalente Monodie»: quella di Giocasta, divisa fra la gioia per l’incontro con il figlio e il dolore per
28 Di Marco 1999, pp. 220-221. Per un approfondimento relativo alle monodie in ambito bizantino, vd. Taxidis 2009. 29 Di Marco 1999, pp. 221-222. A conclusione di un esame approfondito, Di Marco conclude che «la conferma di quel legame tra monodia tragica e discorso di lamentazione funebre […] ha la sua spiegazione nel carattere trenetico della gran parte delle monodie del teatro tragico» (p. 240). Di nuovo, nel capitolo dedicato alla monodia Di Marco 2009, p. 273, ribadisce che «le monodie del teatro tragico, segnatamente quelle di Euripide, si caratterizzano quasi tutte come canti di angoscia o di dolore di personaggi che versano in situazioni di pericolo o sono colpiti da sventure e da lutti».
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la situazione familiare, è il caso esemplare, a cui possono essere accostati i canti a solo di Cassandra, di Ione e del Frigio30. Barner aveva, inoltre, riconosciuto all’interno delle monodie tracce di canti rituali, che non si limitano al threnos: è il caso del canto nuziale di Cassandra, del canto di lavoro (Arbeitslied) e dei peana (Paian-Rufe) di Ione, del canto propiziatorio al sacrificio nel finale dell’Ifigenia in Aulide e della «rituelle Form des Gebets» dell’assolo di Creusa31. A questa rassegna non sfugge neppure il fatto che la monodia del Frigio è assimilabile per certi aspetti a una «Boten-Erzählung», ovvero a una rhesis angelike, e che questo brano virtuosistico offre l’esempio più eclatante dell’influenza esercitata dal “nuovo ditirambo” sulla tragedia euripidea32.
3.
Monodie mimetiche e monodie diegetiche
Se Euripide nelle Rane afferma di aver «nutrito» le sue tragedie con le monodie, queste ultime sembrano essersi alimentate attingendo non solo ai threnoi, ma anche a canti nuziali, peana, inni, preghiere, canti di lavoro. Viene così confermata la varietà di modelli assunti dal giovane tragediografo, segnalata nel rimprovero formulato da Eschilo. In tutti questi casi, il canto accompagna una situazione – rituale o di altro genere – che il teatro prende dalla vita reale e riproduce sulla scena: è in rapporto a queste circostanze che si propone la definizione di “monodia mimetica”. Ne restano escluse alcune monodie che si presentano, piuttosto, come narrazioni, come racconti di fatti, lontani o vicini nel tempo, che non si compiono sulla scena e che non sono visibili agli spettatori presenti in teatro, se non per gli effetti che hanno prodotto sui personaggi della tragedia: per questi canti si propone la definizione di “monodia diegetica”. Sulla base di tale distinzione sono organizzati i capitoli successivi. All’interno del gruppo delle monodie mimetiche si distingue la presenza di preghiere che, pur non costituendo un genere letterario vero e proprio e pur non avendo una struttura rigida costante, presentano delle caratteristiche riconoscibili abbastanza facilmente. Vengono rilevate, inoltre, le influenze di vari inni agli dei, di canti nuziali e di canti di lavoro. Nell’ambito delle monodie mimetiche non sono approfondite le affinità con il lamento funebre, o threnos, che sono già state oggetto di varie altre indagini: alcune considerazioni al riguardo saranno proposte solo nelle conclusioni. Le monodie diegetiche, invece, sono riconducibili a due diversi modelli poetici della tradizione: l’elegia e il “nuovo ditirambo”.
Barner 1971, pp. 285-287. A proposito delle «rituellen Monodien» e delle loro caratteristiche linguistiche e stilistiche, vd. Barner 1971, pp. 290, 297-302. 32 Barner 1971, pp. 318-319. 30 31
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L’indagine sulla natura “eclettica” dei canti tragici a solo si basa principalmente sugli aspetti formali che caratterizzavano le diverse forme espressive e poetiche evocate o imitate. Si è cercato, inoltre, di fare attenzione al contesto drammatico: la situazione in cui la monodia scaturisce permette in molti casi di cogliere il riferimento a precisi momenti rituali o a certe dinamiche teatrali. Nelle Fenicie e nell’Ifigenia in Aulide l’analisi è condotta sulla base del testo conservato dalla tradizione, anche se sono stati espressi dubbi in merito all’autenticità di alcune parti, soprattutto dell’esodo: nei casi specifici si dà segnalazione dei limiti entro cui l’indagine si è condotta. Questa rassegna intende fornire gli elementi e mettere in rilievo diversi aspetti, che mostrano come le monodie euripidee offrano una varietà di forme e modelli tale da non poter essere banalmente identificate solo con il threnos e come Euripide abbia saputo sfruttare in modo originale e sapiente una tecnica allusiva che sembra anticipare la tendenza alessandrina per cui le leggi codificate dei generi vengono violate in modo consapevole.
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MONODIE MIMETICHE
PREGHIERE 1.
La preghiera: caratteristiche generali
Se consideriamo preghiera ogni richiamo agli dei, o più in generale a forze sovrumane, che denunci una ricerca di contatto con loro da parte dell’uomo, questa forma di comunicazione può assumere espressioni diverse, dal gesto silenzioso e individuale al canto corale e solenne accompagnato dalla danza 1. Quanto accadeva nella quotidianità dell’uomo greco, almeno del cittadino ateniese del V sec. a.C., è riflesso dal teatro dell’epoca, seppure con i necessari adattamenti richiesti ora dalla vicenda tragica, ora dal registro comico, e comunque dalle esigenze drammaturgiche2. Molto è stato rilevato in merito alla struttura e allo stile della preghiera “verbale”, con particolare riferimento alle fonti letterarie: se è impossibile riconoscere un modello di struttura rigido, obbligatorio e universale, di solito si assume comunque come termine di riferimento la tripartizione – invocazione, argomento, richiesta – osservata in alcune preghiere contenute nei poemi omerici. Ciascuna di queste componenti può essere formulata in modi diversi a seconda della circostanza e nessuna di esse è assolutamente necessaria. Fa eccezione la richiesta che, componente caratterizzante della preghiera 3, può essere espressa mediante un verbo all’imperativo o all’ottativo oppure con frasi infinitive4. La preghiera si presenta come un discorso e come tale può essere analizzata5. Secondo Chapot e Laurot, il legame fra richiesta e argomento è riassumibile in tre distinte formule: 1) da quia dedi; 2) da ut dem; 3) da quia dedisti; ma anche questa schematizzazione appare riduttiva rispetto alla varietà testimoniata dai testi letterari e si può aggiungere almeno un’altra formula: 4) da quia
Vd. Aubriot-Sévin 1992, p. 24; Chapot – Laurot 2001, p. 7. Vd. Aubriot-Sévin 1992, p. 40; Amendola 2006, pp. 17-22. A proposito delle preghiere in Aristofane, vd. Zimmermann 1984, pp. 112-122, 125-131, 228-235; Zimmermann 1985, pp. 191-205; Pretagostini 1989. 3 Aubriot-Sévin (1992), dopo aver sostenuto che nella preghiera «aucune des parties traditionnellement répertoriées comme nécessaires à la prière (ni l’invocation nominale, ni la requête, ni a fortiori la pars epica) n’est positivement indispensable» (p. 109 n. 295), osserva che «en effet […] invocation ou requête sont moins volontiers omises que cette partie médiane explicative» (p. 254). Vd. Lang 1975, p. 309: «The prayerful addresses are here defined as those including requests»; Morrison 1991, p. 147: «I define a prayer as an address from a mortal to a god, where the words of the request are given in direct speech». Fanno eccezione le preghiere che esprimono un sentimento di indignazione e di protesta nei confronti degli dei (vd. infra, pp. 41-52): in questi casi la richiesta è sostituita da una frase interrogativa retorica. 4 La richiesta è espressa mediante frasi infinitive, ad esempio, in Eur. Alc. 167-169, El. 805807. 5 Vd. Chapot – Laurot 2001, pp. 8-9; Amendola 2006, pp. 10-17; Giordano 2010, pp. 47-53. 1 2
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dabo6. Infine, l’orante poteva rivolgersi alla divinità in modo diretto (Du-Stil) oppure con la terza persona (Er-Stil) e sono frequenti le frasi relative (Relativstil) e participiali (Partizipialstil), in particolare in dipendenza dal termine in vocativo7. Accanto al richiedente e al destinatario è presupposto anche un beneficiario della richiesta, che talvolta coincide con lo stesso orante.
2.
La preghiera in Euripide
La tradizione degli studi moderni tende a distinguere diversi tipi di preghiera8. Nell’opera di Euripide, Volpe Cacciatore distingue quattro diverse forme: quella di richiesta, quella apotropaica, quella di offerta e quella di sacrificio 9. Se la richiesta è una componente imprescindibile della preghiera, parlare di “preghiera di richiesta” potrebbe apparire pleonastico, ma questa etichetta non è applicabile alla preghiera tout court. Di solito con “preghiere di richiesta” si intende una preghiera in cui la richiesta è formulata in modo positivo e implica un’azione costruttiva della divinità o auspica una condizione di benessere per il beneficiario (Eur. Alc. 165-166, 168-169). La preghiera apotropaica, diversamente, utilizza una formulazione negativa, di solito segnalata dall’avverbio PKY o da suoi composti (Eur. Med. 633, 638, Hipp. 119, Hel. 1098)10, oppure da verbi che indicano protezione da un pericolo (ad esempio DMOHXYZ, DMPXYQZ, DMUKYJZ) o composti con il prefisso DMSR che indicano allontanamento (Eur. IA 552)11. Infine, le preghiere di sacrificio e di offerta, che fra loro si distinguono sulla base del diverso contesto rituale, presentano entrambe come tratto caratteristico la richiesta di un favorevole accoglimento dell’oggetto consacrato alla divinità o della vittima immolata. In questi ultimi casi è particolarmente frequente il verbo GHYFRPDL, spesso coniugato all’imperativo aoristo GHY[DL (Eur. Hipp. 83, Hec. 535, IA 1572; cf. anche Eur. IT 172, in occasione della libagione offerta a Oreste, ritenuto morto), ma tale formula può essere associata a espressioni tipiche delle preghiere di richiesta (Eur. Hec. 536-541, IA 6 Vd. Chapot – Laurot 2001, p. 13; Furley 2007, pp. 124-127. Lang 1975, p. 310, utilizza la formula equivalente da et dabo e ne aggiunge un’altra, variante della prima: da si dedi. Indipendentemente dalla formulazione, le richieste si fondano essenzialmente su circostanze passate o future. Talvolta l’orante si richiama a un dovere della divinità: da quia dare tuum est. Vd. Goeken 2010, p. 8. Sulla forzatura degli schemi tradizionali dell’argomentazione nelle preghiere euripidee insiste l’analisi condotta da Pace 2010. 7 Vd. Norden 2002, pp. 285-296. 8 Vd. Chapot – Laurot 2001, pp. 8-9, osservano che esistono diverse tipologie di preghiera basate su altrettanti criteri e che «aucune typologie ne semble pouvoir rendre compte totalement du phénomène». Anche gli antichi si sono confrontati con questa problematica ma non sono riusciti a proporre altro se non «typologies partielles». Considerazioni sui tipi di preghiera, distinti sulla base dell’occasione o dell’atteggiamento dell’orante, sono proposte da Furley 2007, pp. 127-129. 9 Vd. Volpe Cacciatore 2005, p. 65. 10 Vd. Chapot – Laurot 2001, pp. 125-127. 11 Cf. Hom. Il. I 451-456, XV 372-376: vd. Chapot – Laurot 2001, pp. 32-34, 45-46.
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1575-1576)12. D’altra parte, le stesse formule apotropaiche possono essere associate a richieste di soccorso o di prosperità (Eur. Med. 636, Hel. 1094, 1101, IA 554-557)13, e viceversa (Eur. Alc. 167-168). E ciò ostacola una classificazione esatta. La difficoltà di tracciare un confine netto tra i diversi tipi e la complessità del problema terminologico risultano evidenti anche da alcune osservazioni proposte da Chapot e Laurot. I due studiosi francesi riconoscono nell’imperativo H>DVRQ (Eur. Hel. 1101) una formula, almeno in parte, apotropaica, associabile a PKYPHM[HUJDYVKL (Eur. Hel. 1098): indubbiamente, Elena cerca di procrastinare il momento della sua morte e soprattutto di scongiurare che esso giunga quando lei è ancora lontana dalla patria; tuttavia, la richiesta è espressa nei termini di una concessione – piuttosto che di una liberazione – da parte della divinità che gioca un ruolo positivo. In Eur. Hipp. 525-529 gli stessi Chapot e Laurot riscontrano giustamente le caratteristiche della preghiera apotropaica (vv. 528-529 PKYPRLYSRWHPKG) ma suggeriscono allo stesso tempo un confronto improprio con Eur. Hipp. 1268-1282, ovvero con quello che essi indicano come «hymne désabusé à la toute-puissance d’Aphrodite et d’Éros»: un inno, dunque, e non una preghiera14. Con un procedimento inverso, Cerbo (1993) accosta il quarto stasimo dell’Ippolito – correttamente designato come inno a Cipride – al primo stasimo della stessa tragedia, indicato come inno ad Eros, nonostante la studiosa vi riconosca la presenza della «preghiera», o più precisamente della richiesta. Fatta salva la comune funzione apotropaica – affidata alle intenzioni più che alla forma – i vv. 525-529 si distinguono dai vv. 1268-1282 per la presenza di una richiesta esplicita, che li differenzia dall’inno e li caratterizza come preghiera. Neppure la categoria delle preghiere di richiesta è circoscrivibile con esattezza. La rassegna esaminata da Pace contempla ancora un esempio tratto dall’Elena, oltre ai già considerati vv. 1093-110615: le parole che Menelao rivolge ad Ade (Eur. Hel. 969-974) non lasciano margini di dubbio, dal momento che nella richiesta non sono presenti elementi negativi e il verbo composto DMSRGLYGZPL non implica un’idea di allontanamento ma di restituzione, di compensazione16. Diversamente, il caso di Eur. Alc. 221-225 è più complesso. Pace distingue una prima preghiera nei vv. 221-222 ed essa risponde alle caratteristiche della preghiera di richiesta. Sull’intervento del dio insiste anche la seconda preghiera nei vv. 223-225, ma solo nell’esordio: il coro, infatti, dopo averlo implorato di trovare una via d’uscita per una situazione che sembra Altri esempi di preghiera associata a riti di offerta e sacrificio presentano le stesse caratteristiche delle preghiere di richiesta: Eur. El. 805-807, Hel. 1584-1587, IA 1575-1576. 13 Cf. Aesch. Sept. 71-76. 14 Vd. Chapot – Laurot 2001, p. 127. 15 Pace 2010, p. 44, analizza in particolare il rapporto fra la richiesta e l’argomento, che implica «un sovvertimento dei contenuti tradizionali, dal quale emerge una concezione problematica (se non esplicitamente critica) dell’agire divino». 16 LSJ, s.v. DMSRY D.4, p. 192. Un’altra preghiera di richiesta è formulata ancora da Menelao in Eur. Hel. 1441-1450. 12
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non lasciare speranza, sposta chiaramente l’attenzione sulla funzione liberatoria (Eur. Alc. 224-225 OXWKYULRHMNTDQDYWRXJHQRX IRYQLRQGDMSRYSDXVRQ$LGDQ) di Apollo che, non a caso, è indicato fin dall’inizio con l’epiteto 3DLDYQ (Eur. Alc. 221). Ad analoghe conclusioni potrebbe condurre l’uso del verbo VZYL]Z nella preghiera che Ifigenia rivolge ad Artemide (Eur. IT 1082-1088), ma il successivo invito ad abbandonare la regione dei Tauri per fare ritorno ad Atene proietta il complesso della richiesta nell’orizzonte di un’azione positiva della dea: in Aulide l’intervento salvifico di Artemide aveva scongiurato la morte della giovane per mano del padre (Eur. IT 1083 GHLQK H>VZVDHMNSDWURNWRYQRXFHURY); ora si tratterebbe – per la statua della dea ma indirettamente anche per Ifigenia, Oreste e Pilade – di potersi allontanare da una terra barbara (Eur. IT 1086 HM>NEKTLEDUEDYURXFTRQRY). «L’imperativo EK TL, tradizionalmente usato nelle preghiere (come quello di altri verbi di movimento) per invocare in termini generali l’arrivo salvifico della divinità, qui è rifunzionalizzato mediante il prefisso HMN per esprimere la richiesta ben precisa che la dea, nella forma della sua statua, accetti di abbandonare il luogo in cui è oggetto di culto per trasferirsi ad Atene»17. Ifigenia sposta il fuoco dell’attenzione sull’interesse “particolare” di Artemide: le implicazioni concettuali di HMN come prefisso (Eur. IT 1086) sono diverse da quelle che esso suggerisce come preposizione (Eur. IT 1083) e ciò comporta la trasformazione di un’iniziale preghiera apotropaica in una preghiera di richiesta, del tutto simile a quelle affidate al semplice EK TL o a verbi di movimento simili.
3.
Preghiere di richiesta e preghiere apotropaiche
Gli esempi desumibili dalle monodie rivelano le stesse problematiche e caratteristiche analoghe: il confine fra la preghiera di richiesta e quella apotropaica risulta altrettanto sottile e il rapporto fra la richiesta e l’argomento esula spesso dagli schemi tradizionali, non solo sul piano formale ma anche su quello logico. Allo stesso modo l’invocazione è usata con accuratezza, sia per quanto riguarda la sua posizione all’interno del discorso, sia per quanto riguarda la sua elaborazione. 3.1. Elettra 135-139 (monodia di Elettra) Elettra nell’omonima tragedia (Eur. El. 135-139), data in sposa a un uomo di condizione sociale inferiore alla sua, relegata in uno spazio lontano dal palazzo, preoccupata per la sorte del fratello Oreste e desiderosa di vendicare l’assassinio del padre, alla fine del prologo in un passaggio della sua complessa monodia prega Zeus perché intervenga a liberarla da tante angosce: H>OTRLWZ QGHSRYQZQHMPRL WD LPHOHYDLOXWKYU 17
Pace 2010, p. 52.
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Z?=HX =HX SDWULYTDL-PDYWZQ HMFTLYVWZQHMSLYNRXUR$U JHLNHYOVDSRYGDMODYWDQ Vieni a me – che sofferenza! – vieni a liberarmi da questi tormenti, o Zeus, Zeus, vendica l’orrendo assassinio di mio padre ed arresta ad Argo il tuo vagabondare. L’organizzazione di questa breve preghiera è piuttosto insolita. L’invocazione a Zeus, con la geminatio del nome del dio, occupa la parte centrale18, mentre la netta anticipazione del verbo all’ottativo H>OTRL, in posizione di forte rilievo all’inizio del v. 135, sottolinea l’urgenza della richiesta nella condizione di profondo dolore in cui si trova Elettra19. L’intervento del dio è inteso a beneficio sia della giovane donna (Eur. El. 135 HMPRLY) che di Agamennone (Eur. El. 137 SDWULY) secondo distinte modalità, chiarite dagli aggettivi in funzione predicativa OXWKYU (Eur. El. 136) ed HMSLYNRXUR (Eur. El. 138): il duplice effetto della richiesta è scandito anche dall’interposizione dell’invocazione. Altri aggettivi, rispettivamente WD LPHOHYDL (Eur. El. 136) ed HMFTLYVWZQ (Eur. El. 138), fungono invece da implicito argomento a sostegno della richiesta: essa non si fonda sulla logica della reciprocità tra l’orante e la divinità, ma è ricondotta esclusivamente alla prospettiva – e alla logica di giustizia – di Elettra che insiste sulla propria sofferenza e sull’orrore derivante dal crimine subito dal padre. In coda alla preghiera viene aggiunta una frase participiale, riferita a Zeus: diversamente dalla funzione assolta di solito dalla Partizipialsatz, la frase costruita attorno al verbo NHYOVD, «approdando», non insiste su una caratteristica del dio ma descrive la modalità del suo intervento in risposta alla richiesta di Elettra. Indipendentemente dalla metafora nautica, sempre in questa frase il successivo ricorso all’aggettivo DMODYWDQ riferito al piede di Zeus suggerisce un’implicita identificazione del dio con Oreste, tanto desiderato dalla sorella: nei versi che precedono immediatamente la preghiera, infatti, Elettra lamenta la lontananza del fratello ritenendolo probabilmente costretto nella condizione di servo in una città e in una casa imprecisata (Eur. El. 130-134); in un suo canto successivo Oreste è espressamente presentato come ramingo (Eur. El. 201206 WRX DMODYWDR^DMODLYQZQ); nel canto intonato dal coro dopo la rivelazione di Oreste a Elettra, le schiave festeggiano il ritorno del figlio di Agamennone paragonandolo al raggio di sole di un giorno lungamente atteso (Eur. El. 586-589 SXUVRQR`IXJD LDMODLYQZQH>ED); e ancora verso la fine della tragedia, parlando con Clitennestra, Elettra allude al fratello come al
La particolare posizione dell’invocazione a Zeus trova parziale spiegazione anche nell’orizzonte della responsione strofica: all’interno della prima antistrofe della monodia di Elettra le parole Z?=HX =HX (Eur. El. 137) corrispondono all’appello Z?SDYWHU che occupa la stessa sede metrica nella strofe (Eur. El. 122). 19 Cf. Soph. El. 637-638 NOXYRLD@QK>GK)RL EHSURVWDWKYULHNHNUXPPHYQKQPRXEDY[LQ. 18
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«figlio che vaga lontano dalla patria» (Eur. El. 1112-1113 WRQGH>[ZFTRQR SDL GDMOKWHXYRQWDVRYQ)20. Nelle parole che Elettra rivolge a Zeus sono presenti tutte le componenti strutturali e funzionali della preghiera di richiesta: rispetto a un modello ideale, tuttavia, esse ora sono “dissimulate”, ora sono contestualizzate e rifunzionalizzate a tal punto da non permettere di individuare con certezza la sua natura profonda. Dopo l’uso iniziale del verbo H>OTRL (Eur. El. 135), la giovane riconosce subito all’intervento del dio una funzione liberatoria (Eur. El. 136 OXWKYU), propria delle preghiere apotropaiche (cf. Eur. Alc. 224 OXWKYULR). Ma l’azione di Zeus in rapporto ad Agamennone, secondo beneficiario della preghiera alla pari di Elettra, si caratterizza per la sua valenza positiva, costruttiva: il dio interverrà anche in suo aiuto (Eur. El. 138 HMSLYNRXUR), offrendogli la prospettiva di ottenere la vendetta sui propri assassini 21. 3.2. Oreste 174-182 (monodia di Elettra)22 Lo stesso personaggio, Elettra, eleva una preghiera anche in un’altra tragedia, l’Oreste, in una breve monodia incastonata all’interno della parodo commatica. Il fratello, in un momento di tregua dal furore che lo tormenta, sta dormendo e lei, dopo aver ordinato alle amiche del coro di non fare rumore mentre si avvicinano, rivolge una preghiera alla Notte: SRYWQLDSRYWQLD1XY[ X-SQRGRYWHLUDWZ QSROXSRYQZQEURWZ Q (UHERYTHQL>TLPRYOHPRYOHNDWDYSWHUR WRQ$JDPHPQRYQLRQHMSLGRYPRQ X-SRJDUDMOJHYZQX-SRYWHVXPIRUD GLRLFRYPHTRLMFRYPHTD Notte sovrana, Signora che dispensi il sonno ai mortali afflitti da molti affanni, sali dall’Erebo, vieni, vieni in volo sulla casa di Agamennone: siamo distrutti, annientati dalle sofferenze e dalla sventura. Al contrario della precedente preghiera di Elettra, questa non solo rispetta lo schema ternario canonico ma distingue anche in una sequenza lineare e preci20 Sul piano strettamente concettuale, la sostanziale equivalenza fra l’aiuto offerto da un dio e quello portato da un uomo è dichiarata in almeno due monodie da Fedra (Eur. Hipp. 675677 WLYD@QTHZ QK@WLYD@QEURWZ Q) e da Ifigenia (Eur. IT 894-899 WLYD@QRX?QK@THR K@EURWRK@WLYWZ QDMGRNKYWZQ): entrambe le donne, trovandosi in una situazione di aporia, cercano di scorgere le possibilità di ricevere un soccorso considerando alternativamente il contributo che può derivare da dei o mortali. 21 Questa indeterminatezza dovuta a un cambio di direzione del discorso è molto simile a quella già osservata a proposito di Eur. IT 1082-1088. Il desiderio di vendetta è motivo ispiratore anche di altre preghiere: cf. Hom. Il. I 37-42, V 115-120; Theogn. 337-350 (vd. Chapot – Laurot 2001, pp. 80-82); Soph. El. 1376-1383. 22 Per una sintesi della complessa questione relativa alla distribuzione delle battute nei vv. 140-207 dell’Oreste, vd. De Poli 2011, pp. 262-264.
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sa ciascuna delle sue componenti. In apertura l’invocazione alla Notte assume un tono solenne grazie a due fattori: la geminatio dell’epiteto SRYWQLD e l’aggiunta del sintagma attributivo X-SQRGRYWHLUDWZ QSROXSRYQZQEURWZ Q (Eur. Or. 175), caratterizzato dalla presenza di due aggettivi composti e dall’insistenza delle consonanti S, W e Q, a volte anche associate nei nessi biconsonantici SQ e WQ23. Segue immediatamente la richiesta di intervento, affidata ai due imperativi L>TL e PRYOH, quest’ultimo ripetuto due volte: Elettra prega che la Notte venga a portare tranquillità nella casa di Agamennone. Infine l’argomento addotto a giustificazione della richiesta è segnalato dall’avverbio JDYU: ancora una volta la logica della reciprocità fra l’orante e la divinità è accantonata per lasciare spazio a ragioni unilaterali come il bisogno di aiuto dei due fratelli, derivante dallo stato di annientamento in cui si trovano. *** Elettra offre nelle due tragedie di Euripide altrettanti esempi di brevi preghiere in cui la richiesta è volta ad ottenere l’intervento benefico della divinità. Ma la preghiera può essere intesa ad ottenere anche altri risultati, ad esempio a stornare da sé o da altri una minaccia incombente: è il caso delle preghiere apotropaiche. *** 3.3. Ecuba 68-97 (monodia di Ecuba) Nella monodia che funge da cerniera fra il prologo e la parodo dell’Ecuba, l’anziana regina manifesta la propria preoccupazione per un sogno funesto che lei collega alle sorti dei figli Polidoro e Polissena: Z?VWHURSD'LRYZ?VNRWLYD1XY[ WLYSRWDL>URPDLH>QQXFRRX^WZ GHLYPDVLIDYVPDVLQBZ?SRYWQLD&TZYQ PHODQRSWHUXYJZQPD WHURMQHLYUZQ DMSRSHYPSRPDLH>QQXFRQR>\LQ K`QSHULSDLGRHMPRX WRX VZL]RPHYQRXNDWD4UKYLNKQ DMPIL3ROX[HLYQKWHILYOKTXJDWURGLRMQHLYUZQ HL?GRQJDUIREHUDQR>\LQH>PDTRQHMGDYKQ Z?FTRYQLRLTHRLYVZYVDWHSDL GHMPRYQ R`PRYQRRL>NZQD>JNXUH>WHMPZ Q WKQFLRQZYGK4UKYLNKQNDWHYFHL [HLYQRXSDWULYRXIXODNDL VLQ H>VWDLWLQHYRQ HL?GRQJDUEDOLDQH>ODIRQOXYNRXDL^PRQLFDOD L VID]RPHYQDQDMSHMPZ QJRQDYWZQVSDVTHL VDQ 23 Queste consonanti rimangono frequenti nel seguito della preghiera, dove è presente anche il nesso biconsonantivo SW.
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DMQDYJNDLRLMNWUZ NDLWRYGHGHL PDYPRL K?OTX-SHUD>NUDWXYPERXNRUXID IDYQWDVP$FLOHYZK>LWHLGHJHYUD WZ QSROXPRYFTZQWLQD7UZL!DYGZQ DMSHMPD RX?QDMSHMPD WRYGHSDLGR SHYP\DWHGDLYPRQHL-NHWHXYZ O folgore di Zeus, o Notte tenebrosa, perché mai nel sonno spaventose visioni m’inquietano tanto? O Terra sovrana, madre dei sogni dalle ali nere, scaccio da me una visione notturna, che in sogno ho saputo, ho compreso a proposito di mio figlio, salvo in Tracia, e di Polissena, mia figlia: è stata una visione spaventosa. O dei degli inferi, salvate mio figlio che, unica àncora della mia casa, dimora nella nevosa Tracia sotto la custodia di un ospite di suo padre. Succederà qualcosa di singolare: […] ho visto una cerva screziata sgozzata dagli artigli insanguinati di un lupo, strappata a forza con strazio via dalle mie ginocchia. Ed anche di questo ho timore: è salito sulla sommità del suo tumulo il fantasma di Achille e chiedeva l’offerta di una delle Troiane afflitte da molte pene. Da mia figlia, via, da mia figlia scacciate questo pericolo: dei, vi supplico! Il lungo canto a solo con cui Ecuba accompagna il proprio ingresso è quasi interamente occupato da due distinte richieste, entrambe formulate con un verbo all’imperativo (Eur. Hec. 79 VZYVDWH, 97 SHYP\DWH) e intese a scongiurare un pericolo ai figli (Eur. Hec. 79 SDL GHMPRYQ, 96 DMSHMPD SDLGRY, 79 VZYVDWH; cf. Eur. Hec. 72 DMSRSHYPSRPDL), rispettivamente a Polidoro e a Polissena. Nonostante questa componente sia chiaramente individuabile, nel complesso la preghiera dell’anziana regina ha una struttura tutt’altro che lineare24. L’incipit è affidato a una duplice invocazione, alla folgore di Zeus e alla Notte (Eur. Hec. 68), ma essa, prima che la richiesta di salvezza per Polidoro venga esplicitata, è ripresa con destinatari diversi nel secondo metro anapestico del v. 70 (invocazione alla Terra) e ancora nel primo metro del v. 79 (invocazione agli dei ctoni). In tutti i tre casi il sostantivo in vocativo è preceduto dall’interiezione Z? ed è sempre abbinato a un aggettivo o a un sostantivo in genitivo: solo l’invocazione alla Terra (Eur. Hec. 70) è ampliata, arricchita da un sintagma appositivo, che riconosce all’entità divina la maternità dei sogni25. Al contrario, la seconda richiesta, volta a ottenere la salvezza di Polissena, è seguita da un’invocazione formulata in tono molto più laconico: il semplice GDLYPRQH (Eur. Hec. 97). Scorrendo le quattro invocazioni presenti in questo brano, si ricava l’impressione che Ecuba – divisa fra i timori per il figlio e le preoccupazioni per la figlia – non riesca a individuare una divinità precisa, tra quelle celesti e quelle ctonie, a cui indirizzare la propria richiesta, tanta è la Il testo della monodia di Ecuba presenta diverse difficoltà: per un quadro complessivo della situazione, vd. Battezzato 2010, pp. 134 (ad vv. 90-91), 202-205 nn. 15-18; De Poli 2011, pp. 75-83. 25 Sull’identità e la genealogia dei sogni nella tradizione greca, vd. Gregory 1999, p. 53. 24
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varietà non solo dei nomi ma anche della natura degli dei che vengono chiamati in causa. La prima richiesta, molto semplice e diretta, ha un’appendice piuttosto singolare: all’interno di una frase relativa vengono fornite indicazioni in merito alla “funzione” di Polidoro (Eur. Hec. 80 PRYQRRL>NZQD>JNXU[D]) e al luogo dove egli – subito prima richiamato come oggetto dell’imperativo VZYVDWH (Eur. Hec. 79) e inteso, quindi, come beneficiario della richiesta – dimora (Eur. Hec. 81 NDWHYFHL). La Relativsatz sposta così l’attenzione dal destinatario dell’invocazione al beneficiario della preghiera. Nella seconda richiesta lo stesso effetto è prodotto dalla ripetizione non del nome o di epiteti del dio ma di un altro elemento significativo della preghiera, connesso ancora una volta con il beneficiario: DMSHMPD DMSHMPD (Eur. Hec. 96). Le componenti esplicitamente argomentative (Eur. Hec. 77 JDYU, 90 JDYU) non sono mai collegate in modo diretto alle richieste. La linearità dello schema di base (invocazione – richiesta – argomento), indipendentemente dall’ordine in cui le tre parti compaiono, è complicata dall’aggiunta di verbi “performativi” (Eur. Hec. 72 DMSRSHYPSRPDL, 97 L-NHWHXYZ) che verosimilmente venivano accompagnati da una gestualità dell’attore coerente con le parole pronunciate da Ecuba. Altre frasi, sia affermative (Eur. Hec. 83-86, 92) che interrogative (Eur. Hec. 69), denunciano lo stato d’animo dell’anziana regina e i suoi funesti presentimenti. Altre ancora informano dell’antefatto: l’operazione onirocritica – parziale – compiuta da Ecuba (Eur. Hec. 73-78) e l’apparizione del fantasma di Achille con la sua pretesa di una vittima sacrificale (Eur. Hec. 93-95). Motore dell’azione drammatica – dall’ingresso al canto, compresa la preghiera – è una spaventosa visione notturna (Eur. Hec. 77), un sogno in cui a Ecuba – come lei stessa riferisce (Eur. Hec. 90-91) – è stata rapita dalle ginocchia una giovane cerbiatta, sgozzata dagli artigli insanguinati di un lupo: l’avverbio JDYU, sempre in associazione con il verbo HL?GRQ, è impiegato entrambe le volte in relazione a questo avvenimento e tale circostanza lascia intendere un’operazione di autointerpretazione del sogno26. 3.4. Fenicie 182-192 (monodia di Antigone) Nel prologo delle Fenicie, Antigone osserva dalle mura di Tebe il campo di battaglia e cerca con lo sguardo Capaneo, il nemico che ha rivolto alla città terribili minacce: il dialogo con il pedagogo si sviluppa in un amebeo liricoepirrematico, irregolare nell’alternanza dei trimetri giambici e delle sequenze cantate. Quando il guerriero viene avvistato, la climax emotiva culmina in una breve monodia: il canto, nel quale la giovane dà sfogo alla sua reazione mista di sorpresa e paura, assume le caratteristiche di una preghiera: LMZY 1HYPHVLNDL'LREDUXYEURPRLEURQWDL NHUDXYQLRYQWHIZ DLMTDORYHQVXYWRL 26
A proposito dell’autointerpretazione dei sogni, vd. Susanetti 1992, pp. 25-28.
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PHJDODQRULYDQX-SHUDYQRUDNRLPLY]HL R^GHMVWLQDLMFPDOZWLYGD R`GRUL4KEDLYD0XNKYQKLVL /HUQDLYDLWHGZYVHLQWULDLYQDL 3RVHLGDQLYRL$PXPZQLYRL X^GDVLGRXOHLYDQSHULEDOZYQB PKYSRWHPKYSRWHWDYQGZ?SRYWQLD FUXVHRERYVWUXFHZ?'LRH>UQR $UWHPLGRXORVXYQDQWODLYKQ Ah, Nemesi, tuoni roboanti di Zeus, vivo splendore della folgore, tu certo sai domare arroganza sovrumana! Questi è dunque colui che noi donne di Tebe con la guerra, di darci schiave a Micene e al tridente di Lerna, alle acque che Poseidone per Amimone fece sgorgare, costringendoci in catene, … ? Mai, Signora dai capelli d’oro, germoglio di Zeus, Artemide, mai io debba subire questa schiavitù! La richiesta, espressa da un verbo all’ottativo, è racchiusa nei versi finali (Eur. Ph. 190-192) e, come già osservato in Eur. El. 135-139, congloba al suo interno l’invocazione ad Artemide. In questo caso il rilievo dato all’avverbio PKYSRWH, ripetuto due volte all’inizio del v. 190, testimonia l’orrore della giovane di fronte alla prospettiva della schiavitù, condizione che lei cerca di allontanare in ogni modo: ricorrendo all’iperbato WDYQGGRXORVXYQDQ, sembra restia anche soltanto a pronunciarne il nome. Tale umiliazione è evocata nei versi precedenti dalle parole DLMFPDOZWLYGD (Eur. Ph. 185) e GRXOHLYDQ (Eur. Ph. 189) ma queste sono impiegate nel passaggio in cui vengono rievocate le minacce di Capaneo (Eur. Ph. 185-189), passaggio in cui diversi espedienti retorici – l’anastrofe dello stesso sostantivo DLMFPDOZWLYGD, l’allusione enigmatica alla fonte di Amimone, l’aposiopesi che comporta l’omissione del verbum dicendi – mostrano lo stato di profondo turbamento emotivo della giovane e preludono alla preghiera finale. Pur incastonata nella richiesta, l’invocazione ad Artemide assume toni solenni grazie all’accumulo di epiteti che esaltano la bellezza e le origini della dea. L’uso tradizionale dell’aggettivazione non offre alcun appiglio per rinvenire tracce, anche dissimulate, dell’argomento. D’altra parte, la monodia è aperta da una triplice invocazione, rivolta a Nemesi27 e a due manifestazioni tipiche del potere di Zeus, il tuono e il lampo: un simile esordio lascia intendere che Antigone voglia chiedere a queste divinità, connesse con la sfera della giustizia, una punizione per il tracotante Capaneo proporzionata con il suo atteggiamento. Tale richiesta troverebbe giustificazione nella riconosciuta capacità di queste divinità di dominare i superbi (Eur. Ph. 183 WRL)28. Tuttavia, il ricordo delle minacce proferite dal guerriero Un legame fra la personificazione di Nemesi e la sfera della giustizia è riscontrabile in Pind. Py. X 44 X-SHYUGLNRQ1HYPHVLQ (vd. Bernardini 1995, pp. 636-637) e Soph. El. 792 (vd. Kamerbeek 1974, p. 111; Finglass 2007, p. 346). 28 Il valore della particella nel passo euripideo dipende dall’intonazione che si vuole riconoscere alle parole di Antigone: essa potrebbe essere «threatening» (cf. Aesch. Eu. 727 e 729 27
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argivo – per la presentazione del nemico tanto temuto vengono sfruttate anche frasi subordinate, sia di tipo relativo che participiali, di solito connesse con l’invocazione agli dei e destinate a celebrarli – fa mutare la direzione del discorso verso una preghiera di tono molto diverso: non intesa a ottenere la punizione di Capaneo, ma a scongiurare il pericolo che incombe sulla stessa Antigone. Una preghiera di richiesta viene così convertita in itinere in una preghiera apotropaica. 3.4.1. Antigone tra due fuochi: la preghiera di Teano nell’Iliade Nel prologo delle Fenicie la preghiera di Antigone è l’espressione spontanea e angosciata di una donna che abita in una città circondata da un esercito ostile, tra le cui fila spicca il bellicoso Capaneo. La condizione e le parole di questa figura tragica mostrano alcune somiglianze con quelle del personaggio epico di Teano (Hom. Il. VI 305-310): in un’altra città cinta d’assedio, in un frangente in cui la minaccia per i Troiani giunge in particolare da Diomede, la sacerdotessa di Atena si rivolge alla dea protettrice della comunità civica, chiedendole di ostacolare l’eroe nemico e di farlo morire in battaglia. Eppure il ritratto di Antigone offerto da Euripide non è banalmente la versione drammatica di Teano, così come quest’ultima non è semplicemente una fra le nobili anziane riunitesi per pregare Atena: la moglie di Antenore, infatti, ha un ruolo ufficiale nell’ambito delle pratiche cultuali all’interno della città, un ruolo formalmente riconosciuto, dal momento che è stata scelta dai Troiani come sacerdotessa di Atena (Hom. Il. VI 300). È lei che dirige con accuratezza una vera e propria cerimonia presso il tempio della dea, guidando le altre nobili anziane: apre le porte dell’edificio sacro, depone un peplo sulle ginocchia della statua e, mentre tutte insieme tengono le braccia protese verso l’alto, Teano pronuncia la preghiera facendosi portavoce dell’intera comunità29. L’iniziativa è partita da lontano, direttamente dal campo di battaglia, dove Eleno ha incaricato Ettore di tornare all’interno delle mura della città e di esortare la madre a rivolgere ad Atena una preghiera accorata (Hom. Il. VI 86101). Nonostante sia stata lungamente preparata, nel momento in cui viene formulata in modo solenne da Teano essa risulta per qualche aspetto sorprendente: pur non tradendo l’intenzione iniziale di Eleno – la preghiera è intesa a ottenere la salvezza della città30 – le parole pronunciate dalla sacerdotessa insistono prevalentemente sulla rovina del nemico, mentre il figlio di Priamo suggeriva di chiedere solo l’allontanamento di Diomede dalle mura di
[Co.] VXYWRL [Ap.] VXYWRL) oppure «deprecatory», «persuasive», «remonstrating» (cf. Eur. Med. 344, 1015, Her. 733). Vd. Denniston 1954, pp. 540-541. 29 Aubriot-Sévin 1992, p. 51, sottolinea che la preghiera collettiva delle donne, pronunciata nell’interesse dello Stato, è richiesta da responsabili militari della comunità, quali sono Eleno ed Ettore. 30 Vd. Aubriot-Sévin 1992, p. 314 n. 56.
33
Troia31. Un’analisi schematica delle prime formulazioni indirette della preghiera e di quella proclamata in modo solenne da Teano presso il tempio di Atena evidenzia anche altre variazioni, sia nella struttura che nel contenuto: Motivi
Eleno
Ettore
Teano 286-305
0.
Descrizione della preparazione del rito (e inizio della celebrazione)
86-92
269-273
1a.
Promessa di sacrifici da offrire alla dea [proposta]
93-94
274-275
1b.
Promessa di sacrifici da offrire alla dea [argomento]
2.
Pietà per la città, le spose e i figli [condizione I]
3a.
Allontanamento di Diomede [condizione II]
308-309
94-95
275-276
96
277
309-310
Z^/ DL>NHQ7XGHYRXL-RQDMSRYVFKL,OLYRXL-UK se vorrà allontanare dalla sacra città di Ilio il figlio di Tideo (trad. Ciani) 3b.
Sconfitta (e morte)32 di Diomede [richiesta]
306-307
D?[RQGKH>JFR'LRPKYGHRKMGHNDL DXMWRQ SUKQHYDGRSHVHYHLQ6NDLZ QSURSDYURLTH SXODYZQ spezza la lancia di Diomede e fa che anche lui cada bocconi davanti alle porte Scee
Questa discrepanza è stata già rilevata da Morrison 1991, p. 145. Egli evidenzia che la scena costruita attorno alla preghiera di Teano rispecchia una struttura narrativa abbastanza frequente nell’Iliade ma viene meno in questo caso la funzione anticipatrice (pp. 145-146): «the audience gains no information about later event. They learn only what will not occur: Diomedes will not die» (p. 153). Nella preghiera formulata in modo solenne presso il tempio di Atena lo schema da ut recipias – o più propriamente da ut dem – è stato ritenuto particolarmente “insultante” nei confronti della dea e da ciò dipenderebbe il suo rifiuto a soddisfare la richiesta ricevuta (Lang 1975, pp. 310-311); tuttavia, Morrison 1991, p. 153 n. 27, obietta che lo stesso schema è utilizzato con successo da Diomede in Hom. Il. X 292-294, nel canto della Doloneia. 32 A proposito dell’espressione SUKQHYDSHVHL Q (lett. «cadere con la faccia a terra») nel significato di «morire», vd. Morrison 1991, p. 154 n. 29. 31
34
(trad. Ciani) 4.
Descrizione di Diomede [argomento?]
97-98
278
La tecnica formulare della poesia epica permette di analizzare in parallelo le tre fasi della preghiera – Eleno, Ettore, Teano – e subito risulta evidente che nell’ultima versione – nel passaggio dalla forma indiretta a quella diretta – l’ordine dei motivi subisce una riorganizzazione: la sequenza (1a) proposta > (2) condizione I > (3a) condizione II, rispettata sia da Eleno che da Ettore, viene rivista dalla moglie di Antenore secondo le componenti proprie della preghiera (3b) richiesta > (1b) argomento > (2) condizione I. Secondo Kirk, quando parla Teano, «the prayer is less formal than usual»33 e ciò dipende soprattutto dal risalto in cui viene posta una richiesta tanto appassionata, all’inizio, prima dell’argomento e della condizione: di solito, invece, almeno nell’epica, nella struttura più “controllata” la richiesta segue l’argomento o la condizione. Ma l’aspetto più rilevante è un altro: se la condizione II (3a) posta da Eleno e ribadita da Ettore fosse stata semplicemente convertita da Teano in una richiesta (3b), la preghiera rivolta ad Atena sarebbe stata riconducibile al tipo della preghiera apotropaica (cf. Hom. Il. VI 96 e 277 DMSRYVFKL). La sacerdotessa, invece, dopo aver scelto per la dea un epiteto originale (Hom. Il. VI 305 U-XVLYSWROL), che conferma l’intenzione di ottenere la salvezza della città, chiede alla divinità precisi interventi secondo i modi tipici della preghiera di richiesta: il desiderio di vedere Diomede non solo sconfitto ma anche duramente umiliato sul campo di battaglia è frutto di un’iniziativa tutta personale della stessa Teano34. Nel VI libro dell’Iliade Ettore allude alla preghiera da rivolgere ad Atena anche quando giustifica di fronte all’esercito troiano il suo ritorno all’interno delle mura della città. Le parole che egli pronuncia sono caratterizzate da calibrate omissioni e opportuni aggiustamenti, atti a rassicurare l’uditorio: aggiunge che dovrà parlare al consiglio degli anziani e alle mogli dei soldati (Hom. Il. VI 113-144) per invitarli a promettere sacrifici, omette di menzionare la madre Ecuba, unica destinataria del messaggio affidatogli da Eleno, e soprattutto evita di fare qualsiasi riferimento al principale nemico del momento35. Nella preghiera pronunciata da Teano si verificano procedimenti analoghi: viene esplicitato il nome di Diomede ma la sacerdotessa ne evita la descrizione (4), non facendo così alcun accenno al suo vigore spaventoso. Questa considerazione, richiamata sia da Eleno che da Ettore (Hom. Il. VI 98 NDYUWLKirk 1990, p. 200. Lang 1975, pp. 310-311, ha riconosciuto alla preghiera una natura ironica: quando Teano si rivolge alla dea, Atena si è già schierata con Diomede e non può che respingere la richiesta. La circostanza è ulteriormente aggravata dall’atteggiamento tracotante di Teano, evidente nella metamorfosi della preghiera, da preghiera apotropaica a preghiera di richiesta. 35 Vd. Morrison 1991, p. 154 n. 32. 33 34
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VWRQ$FDLZ Q, 278 D>JULRQDLMFPKWKYQNUDWHURQPKYVWZUDIRYERLR), avrebbe potuto essere usata come argomento – Atena poteva essere chiamata a intervenire contro un pericolo – ma la sacerdotessa preferisce sottolineare i benefici che la dea avrebbe ricevuto e la rapidità con cui sarebbe stata accontentata (Hom. Il. VI 308 DXMWLYNDQX Q). Tutto ciò tradisce, seppure in modi diversi, un’emotività molto simile a quella di Antigone nelle Fenicie, dove la centralità assegnata alla presentazione di Capaneo giustifica le particolarità retoriche della monodia. Nel corso dell’amebeo, che si inserisce nel prologo della tragedia (Eur. Ph. 88-201) e che per la sua impostazione è stato accostato alla teichoskopia del III libro dell’Iliade36, Antigone e il pedagogo passano in rassegna diversi guerrieri argivi condotti a Tebe da Polinice: di quelli espressamente menzionati vengono descritti l’aspetto e l’armatura (Eur. Ph. 119-121, 127-130 [Ippomedonte], 132-134, 138 [Tideo], 146-149 [Partenopeo], 162, 168-169 [Polinice], vv. 171-172, 175-178 [Amfiarao]) e a proposito di Tideo viene chiesta la conferma del legame di parentela con Polinice in seguito al suo matrimonio (Eur. Ph. 135-137). Dopo l’individuazione di Partenopeo, Antigone rivolge contro il nemico una maledizione, un augurio di morte, auspicando l’intervento di Artemide (Eur. Ph. 151-153): DMOODYQLQD-NDWR>UKPHWDPDWHYUR $UWHPLL-HPHYQDWRY[RLGDPDYVDVRMOHYVHLHQ R`HMSHMPDQSRYOLQH>EDSHYUVZQ La dea che abita sui monti con sua madre, Artemide, possa domarlo e annientarlo a colpi di frecce, lui che è venuto contro la mia città per distruggerla. Queste parole preparano il terreno alla preghiera37 che la stessa Antigone pronuncerà nella monodia finale, a chiusura dell’amebeo: dunque, anche nella tragedia come nel poema omerico, il discorso rivolto alla divinità viene formulato solo alla fine di un graduale crescendo emotivo. In entrambi i casi si verifica un cambiamento di segno, ovvero il passaggio da un tipo di preghiera a un altro: nell’Iliade il fenomeno si dispiega nel lungo percorso che dall’imput iniziale di Eleno porta alle parole definitive di Teano; nelle Fenicie è tutto concentrato nella breve monodia di Antigone, circostanza che ne amplifica inevitabilmente gli effetti e la carica emotiva. Tuttavia, l’anacoluto nel canto di Antigone e l’incompleta formulazione dell’iniziale preghiera di richiesta possono essere accostati a un altro aspetto delle parole di Teano, ovvero la mancata conversione di entrambe le condizioni suggerite da Eleno in altrettante richieste: solo una, quella legata alla sorte di Diomede (3a), viene riformulata in maIl rapporto fra il passo iliadico e il testo euripideo è analizzato da Medda 2006, pp. 11-18. Langholf 1971, p. 80, evidenzia un’affinità tra la maledizione di Partenopeo e l’iniziale preghiera “contro Capaneo” nel comune ricorso alla frase relativa: «[…] dessen Plan immer in einem R^-Satz dargestellt wird». A proposito dell’affinità fra preghiera e maledizione, vd. infra, p. 56. Cf. Eur. Ph. 350-354: vd. infra, pp. 57-58.
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niera coerente (3b), mentre la pietà di Atena per la città, per le mogli dei soldati tebani e per i loro figli (2) è ripetuta in una posizione di subordine 38. Le parole di Eleno ed Ettore sono state ritenute composte e adatte al loro status («plus stratégique, plus “masculine”»), mentre in quelle di Teano prevarrebbe la componente emotiva, tipica delle donne («plus affective, plus “feminine”»)39: gli studiosi che hanno rilevato questa differenza hanno focalizzato la loro attenzione sull’ultima parte della richiesta, che insiste sul motivo dell’allontanamento di Diomede nel caso di Eleno ed Ettore e sul motivo della pietà per donne e bambini nel caso di Teano. Tuttavia, appaiono di gran lunga più significativi lo scarto nella formulazione del motivo legato al guerriero acheo e la sua posizione all’interno del discorso: fattori che non modificano nella sostanza le valutazioni in merito al diverso grado di emotività che emerge nei tre casi ma che non giustificano l’uso del termine «supplication» – mancano almeno i gesti e gli atteggiamenti tipici della L-NHVLYD / L-NHWHLYD40 – in relazione alla preghiera della sacerdotessa, che rimane una solenne preghiera di richiesta. 3.4.2. Antigone tra due fuochi: le preghiere del Coro nei Sette contro Tebe Un’altra preghiera contraddistinta da una forte carica emotiva tipicamente femminile è quella che il Coro formula nella parodo dei Sette contro Tebe (Aesch. Sept. 78-181) e che, nonostante i rimproveri e gli ammonimenti di Eteocle, affiora nuovamente nel finale del primo episodio (Aesch. Sept. 251, 253, 255)41. Le donne tebane compiono gesti e assumono atteggiamenti che sono al contempo espressione di disperazione e tipici della supplica: utilizzano un «lessico del IRYER»42 e si presentano come un «esercito supplice» (Aesch. Sept. 110 L-NHYVLRQORYFRQ)43. Ma, pur ammantata dei modi della supplica, la loro preghiera rimane essenzialmente apotropaica44: in particolare, le parole che vengono rivolte agli dei poliadici, sia nel brano cantato che nei successivi trimetri giambici (Aesch. Sept. 109-111 THRLSROLDYFRLFTRQRL>GHWHSDUTHYQZQL-NHYVLRQORYFRQGRXORVXYQDX^SHU253 THRLSROL WDLPKYPH GRXOHLYDWXFHL Q) presentano siLa frase formulare coincide con la parte terminale di un esametro dattilico, successiva alla dieresi bucolica, e con l’esametro seguente. 39 Chapot – Laurot 2001, pp. 40-41. 40 Per un inquadramento della supplica, vd. Aubriot-Sévin 1992, pp. 405-494. A proposito delle scene di supplica in tragedia, vd. Kopperschmidt 1971, pp. 321-346. 41 In merito al rapporto che intercorre tra il VI libro dell’Iliade e i Sette contro Tebe di Eschilo, vd. Ieranò 2002; Zimmermann 2004. Per il particolare rapporto tra testo epico e testo tragico in relazione al lessico del suono, vd. Ieranò 1999. 42 Amendola 2006, p. 49-51. 43 Vd. Amendola 2006, pp. 52-55. 44 Chapot – Laurot 2001, p. 96: «L’ensemble est apotropaïque». In questo scenario sembrano distinguersi solamente le richieste rivolte ad Artemide (Aesch. Sept. 148-149) e a Zeus (Aesch. Sept. 255), affinché tengano pronte le loro armi o le puntino contro i nemici, ma si tratta di due passaggi marginali. Né Aubriot-Sévin 1992 né Kopperschmidt 1971 prendono in considerazione i versi della parodo dei Sette contro Tebe di Eschilo come esempio di supplica. 38
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gnificative affinità con la preghiera apotropaica di Antigone nelle Fenicie. Anche il Coro eschileo si rivolge agli dei in preda all’angoscia per l’assedio della città da parte degli eroi argivi e le sue richieste sono dettate dall’immagine delle truppe che circondano Tebe (Aesch. Sept. 112-115)45: oltre alla salvezza della città – significativa a questo proposito la richiesta rivolta alla dea Atena di essere U-XVLYSWROL (Aesch. Sept. 130), lo stesso aggettivo impiegato da Teano nel VI libro dell’Iliade come epiteto di Pallade46 – esse cercano di scongiurare per sé la condanna alla schiavitù. Dopo l’esplosione emotiva della parodo dove i ripetuti appelli agli dei si intrecciano alle dichiarazioni di paura, il Coro ricorre nuovamente alla preghiera all’interno della serrata sticomitia con Eteocle. Lo stato di forte agitazione e l’intenzione apotropaica accomunano le parole delle donne nei Sette contro Tebe e la monodia di Antigone nelle Fenicie ma non c’è nel testo eschileo la svolta da un tipo di preghiera ad un altro: lì la contrapposizione si risolve piuttosto fra l’inquietudine del Coro e la dignitosa compostezza di Eteocle, riconducibile alla tradizionale polarità fra il genere femminile e il genere maschile all’interno della comunità civica47. Anche il re di Tebe, alla fine del prologo (Aesch. Sept. 69-77), formula la sua preghiera apotropaica a favore della città48, intesa a scongiurarne la schiavitù, e l’insistita ripetizione della parola SRYOL (Aesch. Sept. 71, 74, 77) denuncia l’attenzione dell’orante per il beneficiario del suo appello 49, ma anche le donne del Coro non trascurano le sorti di Tebe (Aesch. Sept. 91, 106, 112, 120, 130, 139, 151, 156, 164, 169, 175, 176, 180). La distanza rispetto a Eteocle si misura piuttosto nel rapporto con la divinità e nell’incapacità di controllare la situazione, evidente nella differenza che separa la semplice preghiera dalla supplica. Entrambi i soggetti fanno riferimento alla pratica del sacrificio cultuale; tuttavia, mentre la supplica delle Tebane ricorre al principio del da quia dedi (Aesch. Sept. 179-181), il sovrano sembra adottare piuttosto la logica del da ut dem che, comune alla preghiera del VI libro dell’Iliade, denota un rapporto quasi tra pari con le divinità invocate50, simile a quello manifestato in più occasioni dagli eroi dell’epica. Inoltre, la chiara strutturazione del discorso, con la netta distinzione fra invocazione (Aesch. Sept. 69-70), richiesta I (Aesch. Vd. Amendola 2006, pp. 46-57. A proposito della scelta attenta degli epiteti degli dei da parte di Eschilo, vd. Citti 1962, pp. 52-55. 47 Vd. Amendola 2006, pp. 58-59. 48 Per una lettura della preghiera di Eteocle come esempio delle preghiere di sovrani nelle tragedie di Eschilo, vd. Amendola 2010, pp. 27-33. 49 Una preghiera apotropaica in Er-Stil è pronunciata da Eteocle già nei vv. 8-9 dei Sette contro Tebe e anch’essa conferma l’attenzione per la sorte della città: Z_Q=HX$OH[KWKYULR HMSZYQXPRJHYQRLWR.DGPHLYZQSRYOHL. 50 Amendola 2006, p. 54: «la formula da ut dem […] ben evidenzia lo scambio che il sovrano, da pari a pari, sembra proporre alla divinità». Vd. Citti 1962, p. 48, a proposito dell’argomento addotto da Eteocle. Questo schema logico nelle parole del re tebano è, tuttavia, desumibile implicitamente dall’affermazione che la difesa delle città è interesse comune dei cittadini e degli dei, «perché una città prospera onora gli dei» (Aesch. Sept. 77). 45 46
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Sept. 71-73 PKYPRLHMNTDPQLYVKWH ), argomento I (Aesch. Sept. 72-73 FHYRXVDQ), richiesta II (Aesch. Sept. 74-76 HMOHXTHYUDQGHPKYSRWHVFHTHL QG G), argomento II (Aesch. Sept. 77 JDYU), evidenzia la lucidità con cui il re domina gli eventi, nonostante il racconto del messaggero abbia sottolineato la minaccia che incombe su Tebe (Aesch. Sept. 39-68). Anche nel canto d’ingresso del Coro sono riconoscibili le componenti tradizionali della preghiera 51 ma le donne, nella loro condizione di impotenza di fronte al pericolo, moltiplicano il loro appello confondendo gli atteggiamenti propri della supplica con i gesti dettati dalla paura52. Come succederà all’Ecuba euripidea53, anche le Tebane presentate da Eschilo sembrano incapaci di trovare un referente sicuro, un dio o un gruppo di divinità preciso che incarni la loro speranza di salvezza, ma almeno nei Sette contro Tebe la ricerca rimane circoscritta all’interno dell’orizzonte certo del pantheon civico, probabilmente visibile sulla scena54. Il diverso stato d’animo di Eteocle e del Coro si traduce anche sul piano formale nella diversa scelta performativa (recitazione vs. canto) e metrica (trimetro giambico vs. docmi e forme miste). D’altra parte, al carattere monolitico del sovrano si contrappone il progressivo aumento dell’autocontrollo da parte delle donne, evidenziato dalla graduale diminuzione dei docmi nella parodo 55 e suggellato dalla ripresa della preghiera anche nei trimetri giambici della sticomitia alla fine del primo episodio. Nonostante alcune novità drammaturgiche, i legami fra la tragedia di Eschilo e le Fenicie sono evidenti, a partire dalla materia trattata 56. Euripide sembrerebbe aver pagato un tributo al modello eschileo anche nel riprendere il discorso che Eteocle rivolge agli dei, facendo terminare la rhesis prologica della regina con una breve preghiera, ugualmente apotropaica (Eur. Ph. 8487): DMOOZ?IDHQQDRXMUDQRX QDLYZQSWXYFD =HX VZ LVRQK-PD GRGHVXYPEDVLQWHYNQRL FUKGHLMVRIRSHYIXNDRXMNHMD QEURWZ Q Nell’analisi proposta da Citti 1962, pp. 48-56, vengono messi in evidenza di volta in volta l’invocazione, la richiesta e la «sanzione», ovvero l’argomento su cui si fonda la richiesta. 52 Amendola 2006, p. 52, osserva che «cadere ai piedi delle statue delle divinità e abbracciarne le immagini non sono solo gesti dettati dal panico, ma appartengono al comportamento rituale dei supplici». Una lettura di questo genere, indubbiamente corretta, assume maggiore pregnanza se si rovescia la prospettiva, ovvero se si considera che i gesti tradizionali della supplica vengono esasperati dal panico che pervade le donne di Tebe, dando l’impressione di uno stato di smarrimento e di una condizione tutt’altro che rassicurante. 53 Cf. Eur. Hec. 68-97: vd. supra, pp. 27-29. 54 Vd. Taplin 1977, pp. 141-142; Lupas – Petre 1981, pp. 41-42; Centanni 1995, pp. 213-217; Sevieri 2003, pp. 149-160. Sul piano linguistico la continuità della preghiera è sottolineata dalla «serie di nessi» (NDLY e WH) «che tiene unita la serie delle invocazioni»: vd. Citti 1962, p. 51. Il parallelo con Aesch. Suppl. 24-29, suggerito da Citti 1962, pp. 18-19, appare poco calzante: questo brano è molto più simile ai modi dell’invocazione pronunciata da Eteocle, mentre la parodo dei Sette contro Tebe cerca di coniugare coesione e disgregazione. 55 Vd. Lomiento 2004, in particolare p. 58. 56 Vd. Medda 2006, pp. 5-18, 53-62. 51
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WRQDXMWRQDLMHLGXVWXFK NDTHVWDYQDL57 Orsù, Zeus che abiti i recessi splendenti del cielo, salvaci e fa che i miei figli si riconcilino: non devi, se davvero sei saggio, lasciare che tra gli uomini sempre lo stesso permanga nella sventura. Tuttavia, se nei Sette contro Tebe la parodo può essere considerata come il «contrapposto» della preghiera del sovrano 58 e il legame tra i due interventi è sottolineato dal dibattito che si sviluppa tra Eteocle e il Coro nel corso del primo episodio, nelle Fenicie risulta più difficile applicare una simile lettura alle parole di Giocasta e alla preghiera di Antigone. La situazione drammaturgica è molto diversa, dal momento che nel prologo madre e figlia si avvicendano sulla scena senza incontrarsi. Se l’una auspica la riconciliazione fra i figli come unica possibilità di salvezza di fronte alla minaccia dell’esercito argivo, l’altra si limita a scongiurare il pericolo della schiavitù, ma nella preghiera interrotta lascia intendere che ciò dipende dall’annientamento di Capaneo: la preghiera pacificatrice di Giocasta59 si contrappone a una preghiera vagamente aggressiva di Antigone. Madre e figlia focalizzano la loro attenzione su figure e aspetti della situazione differenti, rispettivamente sullo scontro fratricida e sull’assedio di Tebe: solo a partire del v. 1264 la giovane sarà indotta a riconsiderare il proprio punto di vista e a preoccuparsi dell’imminente duello fra i fratelli Eteocle e Polinice. Se Eschilo mette a confronto il sovrano e le donne di Tebe, Euripide giustappone due personaggi femminili: l’una ragiona da madre, l’altra da donna. E, in modo quasi paradossale, la prima pensa alla salvezza in termini plurali (Eur. Ph. 85 K-PD ), mentre la seconda si esprime al singolare (Eur. Ph. 192 WODLYKQ). Diverse richieste sono anche argomentate in maniera differente. Giocasta fa appello alla VRILYD di Zeus e al principio della giustizia distributiva, contro l’accanimento della sventura sulle stesse persone. Antigone rivolge la sua preghiera apotropaica ad Artemide, la stessa dea a cui aveva fatto appello nel maledire Partenopeo, e non la sostiene con alcun argomento esplicito, a differenza di quanto aveva iniziato a fare nella prima parte della monodia, nell’abbozzo della preghiera di richiesta: lì aveva chiamato in causa la forza moderatrice di Nemesi, capace di contrastare i comportamenti smisurati degli uomini. Vengono invocati anche alcuni attributi di Zeus, divinità strettamente legata alla sfera della giustizia, ma la prospettiva è comunque diversa da quella espressa dalla madre: l’anziana Giocasta, che nella rhesis prologica dà prova di conoscere le dinamiche che guidano le vicende umane, sostiene in modo Per il valore della particella GHY equivalente a JDYU, vd. Mastronarde 1994, p. 166; Denniston 1954, p. 169. 58 Citti 1962, p. 56. 59 Mastronarde 1994, p. 165, pone l’attenzione sulle riprese successive di questa preghiera, osservando che «this is the first of three futile prayers for divine help in settling the dispute amicably (467-8, 586-7)». 57
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implicito che la sua famiglia e la stirpe di Cadmo hanno già sofferto abbastanza; la giovane Antigone, invece, è pronta ad additare agli dei la colpa degli altri sulla base di una giustizia assoluta. Se nella Tebe eschilea, nonostante i distinti comportamenti, la città si riconosce in un’unità di pensiero e di intenti, nella tragedia euripidea non solo la comunità civica ma la stessa famiglia risulta fin dal principio disgregata, incapace di compattarsi contro lo stesso pericolo. Tale impressione è confermata dalla maledizione che Giocasta pronuncerà in seguito60: le sue parole ancora una volta si differenziano da quelle di Antigone nell’amebeo. Se la figlia manifesta il proprio odio nei confronti di un nemico ben definito, Partenopeo (Eur. Ph. 151-153), la madre non riesce a individuare un bersaglio sicuro contro cui sfogare il proprio dolore. E mentre l’una è legata nelle sue considerazioni ai fatti contingenti, l’altra guarda continuamente alle sofferenze del passato. Infine, se le sette divinità invocate nella parodo eschilea sono «l’esercito arruolato dalle Tebane […] contro i sette duci argivi»61, Antigone si affida esclusivamente a una dea, Artemide (Eur. Ph. 152, 192): il pantheon civico si risolve in un’unica divinità, protettrice della singola persona e della sua condizione di giovane donna piuttosto che dell’intera comunità. Sul piano formale, d’altra parte, di fronte alla complessa e attenta struttura della parodo eschilea, nella composizione dell’amebeo fra il Pedagogo e Antigone Euripide dimostra una padronanza altrettanto sapiente del disegno metrico-ritmico, costruito in stretta relazione con il contenuto del testo 62. In particolare, la figlia di Edipo si esprime quasi sempre in docmi o in forme affini come l’anapesto, talvolta associati a cretici e bacchei, e solo in qualche occasione ricorre ai trimetri giambici, probabilmente eseguiti in recitativo: si segnalano solo tre eccezioni in cui vengono impiegate sequenze dattiliche. Prima della monodia finale, esse coincidono con i versi in cui Antigone distoglie in qualche modo l’attenzione dal campo di battaglia, ovvero quando chiede conferma del legame di parentela fra Tideo e Polinice (Eur. Ph. 135-137) e quando maledice Partenopeo, desiderando la sua morte (Eur. Ph. 151-153). Nella monodia questa situazione si ripropone in corrispondenza con la preghiera apotropaica conclusiva (Eur. Ph. 190-192), mentre la preghiera di richiesta, abbozzata inizialmente, è affidata ancora a sequenze docmiache che tradiscono uno stato di profonda inquietudine: il personaggio sembra perciò recuperare in extremis una parvenza di autocontrollo, conferendo maggiore solennità alle proprie parole. 3.4.3. Antigone tra due fuochi: alcune considerazioni sceniche Se Euripide riesce a rielaborare in modo originale ed ugualmente espressivo l’impasto metrico-ritmico che caratterizza la parodo della tragedia di Eschilo,
Cf. Eur. Ph. 350-354: vd. infra, pp. 57-58. Amendola 2006, pp. 56-57. 62 Per l’analisi metrica di Eur. Ph. 103-192, vd. Mastronarde 1988, pp. 144-145. 60 61
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la trasformazione di un canto corale in un “canto dalla scena”, ovvero in un amebeo, la concentrazione della preghiera nella monodia finale, doveva produrre nel pubblico un impatto molto diverso, sia nella percezione uditiva che in quella visiva. Nei Sette contro Tebe è probabile che i dodici coreuti entrassero di corsa nell’orchestra e si spostassero in modo frenetico da una statua all’altra63, stringendosi ad esse in modo coerente con le diverse invocazioni: avrebbero dato vita così a una sorta di «processione di supplica» 64. La preghiera si accompagna al movimento, che è al contempo gesto rituale ed espressione della paura, viene proferita in un luogo a stretto contatto con le divinità ed elevata in coro dalle donne tebane, che rappresentano l’intero genere femminile presente all’interno della comunità civica. Le particolari caratteristiche sceniche della preghiera di Antigone risultano ancora più evidenti se si utilizza come termine di paragone la scena descritta nel VI libro dell’Iliade a cornice della preghiera di Teano: nel poema omerico, infatti, la dinamica è più complessa e sfumata. Qui la componente rituale è ulteriormente marcata: Teano è una sacerdotessa e rivolge la preghiera ad Atena, dopo aver aperto le porte del tempio della dea all’arrivo della processione delle anziane guidate da Ecuba e dopo aver deposto sulle ginocchia del simulacro lo splendido peplo offerto dalla regina. Le sue parole sono accompagnate dalle grida di supplica delle altre donne (Hom. Il. VI 301 RMOROXJK L), che alzano le loro braccia verso la dea. In Euripide la corsa verso i simulacri divini e la processione devozionale vengono sostituite dalla teichoskopia. Manca qualsiasi elemento riconducibile a un’ambientazione anche solo vagamente cultuale: non c’è un tempio, non ci sono le statue degli dei. Antigone e il pedagogo non hanno alcun legame specifico con le pratiche religiose nella città di Tebe ed è la ragazza da sola a formulare e a elevare la preghiera, senza la partecipazione di altre persone: una scena corale viene trasformata in un’azione individuale, o quasi. Il tragediografo rinuncia a una potenziale realizzazione scenica offerta dalla tradizione (Omero, Eschilo) e ricostruisce in maniera originale un’altra scena raccontata dall’epica65. L’attenzione è focalizzata sulla figura di Antigone che occupa, insieme al pedagogo, un posto – la parte alta della skene – insolito per una figura umana ed ha la possibilità di vedere lo spazio extrascenico, altrimenti precluso. Tale collocazione non doveva permettere movimenti vistosi: una scena dinamica viene sostituita così da un’altra decisamente statica, animata sul piano performativo soltanto dall’alternanza irregolare di battute eseguite in recitato o recitativo e di altre cantate. E rispetto alla linearità con cui viene descritto il campo di battaglia si distinguono solamente le formule della preghiera, affidate ad Antigone. Tanto le esclamazioni e la maledizione inserite nel duetto Vd. Taplin 1977, pp. 141-142; Lupas – Petre 1981, pp. 41-42; Centanni 1995, pp. 213-217; Sevieri 2003, pp. 149-160. 64 Sevieri 2003, p. 153. 65 Per il rapporto tra la teichoskopia raccontata nel III libro dell’Iliade, le Supplici e i Sette contro Tebe di Eschilo e la scena del prologo delle Fenicie euripidee, vd. Medda 2006, pp. 11-18. 63
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quanto le preghiere che caratterizzano la monodia finale sono l’espressione immediata di un sentimento improvviso: l’emotività che Eschilo assegna al Coro66 si concentra così su un singolo personaggio. L’immobilità della figlia di Edipo contrasta, d’altra parte, con il desiderio di correre ad abbracciare Polinice (Eur. Ph. 163-167). Uno slancio represso, frenato dall’impossibilità di volare come una nuvola ma anche dalla sua condizione di vergine pudica che si affaccia sul tetto del palazzo solo dopo aver ottenuto il permesso della madre (Eur. Ph. 89-91). Un movimento che si avvererà sulla scena solo in seguito – in direzione contraria, dal campo di battaglia alla città – a significare la svolta tragica del personaggio entrato in contatto con il luogo dello scontro armato, «uno spazio brutalmente connotato da una valenza di morte»67. E a quel punto la stessa Antigone, alla fine della sua ultima monodia, non avrà remore a denunciare l’accanimento della divinità contro la casa di Edipo: «un dio, padre mio, ha provocato tutti i dolori della nostra casa in questo giorno, un dio ad essi dà compimento» (Eur. Ph. 15791581 SDYQWDGHMQD>PDWLWZ LGHVXQDYJDJHQZ?SDYWHUD-PHWHYURLVLGRYPRLVLQD>FK THRR`WDYGHWHOHXWD L).
4.
Preghiere “di contestazione”
Accanto alle preghiere di richiesta e a quelle apotropaiche, Labarbe ne ha individuato un altro tipo, diverso, che ha denominato «prière “contestataire”»: si tratta di quei casi in cui la preghiera viene impiegata non per esprimere una richiesta ma «à des fins irrespectueuses, injurieuses, voire franchement impies»68. Un simile atteggiamento dell’orante nei confronti della divinità non è per se discriminante, perché anche una richiesta può essere formulata con tono provocatorio o di sfida. La caratteristica distintiva, sul piano formale, è data dalla mancanza di una vera richiesta69, sostituita con frasi – non di rado esclamative o interrogative retoriche – che denunciano una condizione insostenibile e che sono talvolta accompagnate da affermazioni in cui si rivendicano i propri meriti o si sottolinea l’ingiustizia del male subito70: pur assomigliando
Chapot – Laurot 2001, p. 96, riconoscono nella parodo dei Sette contro Tebe una «prière spontanée». 67 Vd. Medda 2006, p. 17. 68 Labarbe 1980, p. 137. 69 Per questo motivo Labarbe 1980, p. 144, ritiene «exceptionnel» che i vv. 731-742 di Teognide vengano formulati in modo analogo a una «prière de demande»: HL>THJHYQRLWR. 70 Per l’uso di una frase esclamativa al posto della richiesta, cf. Hom. Il. XIII 631-639: vd. Labarbe 1980, p. 141. A proposito di Theogn. 743-752, vd. Labarbe 1980, p. 145. A proposito di Hom. VIII 236-244, per l’uso di frasi interrogative retoriche, vd. Chapot – Laurot 2001, pp. 44-45. A proposito di preghiere «descriptives» o «interrogatives» nella poesia greca e nella tragedia attica, vd. Aubriot-Sévin 1992, pp. 284-285. In modo singolare, però, la studiosa ritiene che in Hom. Il. VIII 236-244 la frase interrogativa faccia le veci dell’argomento, mentre sembra più appropriato riconoscervi una preghiera “di contestazione” (vv. 236-241), formu66
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per molti aspetti alle preghiere convenzionali, quelle “di contestazione” devono la loro particolarità alla condizione di seria difficoltà in cui si trova il personaggio e si presentano come una reazione immediata a situazioni contingenti71. Inoltre, negli autori e nei passi esaminati da Labarbe (Hom. Il. III 365-368, VIII 236-244, XII 164-17272, XIII 631-639, XIX 270-275, XXI 273-283, Od. XII 371-373, XX 201-203; Theogn. 373-380, 731-742, 743-75273; Eur. Cycl. 353355, Med. 516-519, Hipp. 1363-1369, Hec. 488-491) il destinatario dell’invocazione è sempre Zeus, il re degli dei 74. 4.1. Ippolito 1363-1388 (monodia di Ippolito): dalla contestazione alla ri chie sta Nell’esodo dell’Ippolito il protagonista, dopo essere stato bandito e maledetto dal padre, torna in scena dolorante e, ormai morente, accompagna il proprio ingresso con una monodia straziante: mentre avanza sorretto da alcuni servitori, si esprime in anapesti in recitativo (Eur. Hipp. 1347-1369) ma, in seguito all’aggravarsi delle sofferenze, ordina loro di adagiarlo e dà inizio a una parte cantata (Eur. Hipp. 1370-1388). Già a partire dal v. 1363 Ippolito inizia un discorso, che inizialmente rivolge a Zeus e che, tra varie interruzioni e con alcuni aggiustamenti, si sviluppa fino alla fine del canto a solo: =HX =HX WDYGR-UD LB R^GR-VHPQRHMJZNDLTHRVHYSWZU R^GR-VZIURVXYQKLSDYQWDX-SHUHYYFZQ SURX SWRQHM$LGKQVWHLYFZNDWD>NUD RMOHYVDELYRWRQPRYFTRXGD>OOZ WK HXMVHEHLYD HLMDMQTUZYSRXHMSRYQKVD DLMDL DLMDL NDLQX QRMGXYQDPRMGXYQDEDLYQHL PHYTHWHYPHWDYODQD NDLYPRLTDYQDWRSDLDQH>OTRL lata in modo interrogativo, seguita da una preghiera di richiesta (vv. 242-244): per un’analisi più approfondita del passo omerico, vd. infra, pp. 46-47. 71 Labarbe 1980, a proposito delle preghiere “di contestazione” presenti in Omero, osserva che «elles sont des fruits du moment. […] elles traduisent leurs reactions passionées à des situations fâcheuses» (p. 142). Di nuovo, a proposito dei casi euripidei, nota che «elles sont surtout des réactions émotionnelles à une situation douloureuse» (p. 146). 72 Per un’analisi di questi versi, al confine tra la preghiera di richiesta e la preghiera “di contestazione”, vd. Chapot – Laurot 2001, pp. 47-49. 73 Teognide è considerato «le plus vigoureux auteur de prières contestataires» (Labarbe 1980, p. 145). Secondo la lettura di Chapot – Laurot 2001, p. 84, «l’orant éprouve de la difficulté à concilier l’idée d’un dieu tout-puissant et la constatation que rien ne va plus dans le monde qu’il a sous les yeux; et sa foi se transforme en un questionnement sans réponse». La sua rivolta contro «l’injustice du monde» anticipa i poeti tragici, e in particolare Euripide. 74 In Omero il nome del dio è accompagnato regolarmente dall’epiteto SDYWHU, «padre», che ricorre anche in Theogn. 731.
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HL>THPHNRLPDYVHLHWRQ GXVGDLYPRQ$LGDPHYODL QDQXYNWHURYWDMQDYJND […] Zeus, Zeus, le vedi queste cose? Eccomi qua, io che andavo fiero e onoravo gli dei, io che ero primo fra tutti per onestà: a un passo dalla morte, la mia vita completamente distrutta! Invano mi sono sforzato di avere rispetto degli uomini. Ah! Ecco, un dolore, un dolore mi assale: lasciatemi! Che sofferenza! E venga in mio soccorso la morte! […] Ade l’ineluttabile, nero come la notte, possa concedere riposo alle mie sventure! Nella parte della monodia scandita dagli anapesti in recitativo (Eur. Hipp. 1347-1369), accanto alle esclamazioni di dolore e ai moniti rivolti ai servitori che lo accompagnano, affinché prestino la massima cura alla sua condizione, emergono con evidenza i motivi dell’autocommiserazione e della protesta indignata. Il bersaglio prescelto fra tutti gli dei è Zeus, il sovrano, il garante della giustizia, lo stesso a cui Ippolito aveva rimproverato di aver creato le donne all’inizio della celebre requisitoria contro il genere femminile (Eur. Hipp. 616 ss.). Le parole che Ippolito gli rivolge hanno le caratteristiche della preghiera “di contestazione”: dopo un’invocazione molto scarna, limitata al nome del dio ripetuto due volte, al giovane basta una domanda retorica, bastano due parole – WDYGR-UD LB (Eur. Hipp. 1363) – per denunciare l’indifferenza di Zeus di fronte a una palese ingiustizia. Al posto della richiesta, dunque, un’accusa, fondata sulle successive considerazioni in merito alla condotta integerrima tenuta da Ippolito sia nei confronti degli dei che degli uomini (Eur. Hipp. 13641369). L’esposizione di tali argomenti, che costituiscono il fulcro della contestazione, non rinuncia a una certa cura formale, evidente soprattutto nei vv. 1364-1365 scanditi dall’anafora R^GR- / R^GR- e dall’assonanza fra le paroY WZ ZU e X-SHUHHF Y ZQ che, alla fine di due dimetri anapestici consecutivi, le THRVHHS determinano quasi una rima. L’indignazione per la propria misera condizione attuale traspare, invece, dalla posizione enfatica delle parole SURX SWRQ e NDW D>NUD rispettivamente all’inizio e alla fine dello stesso dimetro anapestico acataletto (Eur. Hipp. 1366), D>OOZ alla fine del dimetro successivo (Eur. Hipp. 1367) ed HMSRYQKVD ancora alla fine del paremiaco conclusivo (Eur. Hipp. 1369), oltre che dal significativo enjambement interno al nesso PRYFTRXWK HXMVHEHLYD (Eur. Hipp. 1367-1368), spezzato anche da un lieve iperbato per l’interposizione di D>OOZ. La preghiera “di contestazione” chiude la prima parte della monodia ma altre due preghiere – di richiesta – collocate all’inizio e alla fine della sezione cantata (Eur. Hipp. 1373 e 1387-1388), incorniciano i vv. 1370-1388 conferendo loro una struttura circolare. Entrambe sono formulate in Er-Stil75 ma il loro Le parole di Ippolito nel v. 1373 sono riconosciute come una preghiera con il nome della divinità in nominativo anche da Langholf 1971, p. 10.
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grado di complessità è diverso, forse anche per effetto del diverso soggetto della frase: TDYQDWR, la morte, nel v. 1373 e Ade, o più precisamente la sua ineluttabilità, nel v. 1388a. Rispetto all’essenzialità della prima preghiera, la seconda presenta un’elaborazione retorica maggiore: la caratteristica del dio, la DMQDYJND, è messa in risalto e utilizzata come soggetto specificato dal genitivo $LGD, mentre i due attributi PHYODLQD e QXNWHURY, riferibili alla divinità piuttosto che alla sua natura ineluttabile, sono utilizzati in ipallage. L’argomento non è mai enunciato con chiarezza: nella seconda preghiera sembra implicito nel predicativo dell’oggetto, WRQGXVGDLYPRQD, in modo analogo a quanto osservato nella preghiera dell’Elettra76. Nel caso precedente, invece, se l’espressione SDLDQH>OTRL corrisponde sul piano concettuale al verbo NRLPDYVHLH del v. 1387, il riferimento alle sofferenze e alle sventure di Ippolito è affidato nel v. 1372 a WDYODQD: la congiunzione NDLY all’inizio del v. 1373 funge così da legame sintattico fra la preghiera e la frase precedente e sottolinea la continuità logica fra il motivo del dolore e la preghiera. La richiesta dell’intervento salvifico di TDYQDWR non è estranea all’orizzonte tragico: le parole di Ippolito ricordano quelle di un altro eroe sofferente, il protagonista del Filottete eschileo (Aesch. fr. 255 Radt)77: Z?TDYQDWHSDLZYQPKYPDMWLPDYVKLPROHL Q PRYQRmJDYU®HL?VXWZ QDMQKNHYVWZQNDNZ Q LMDWURYD>OJRGRXMGHQD^SWHWDLQHNURX
O morte liberatrice, non rifiutarti di venire: tu sei l’unica cura delle disgrazie insopportabili, e nessun dolore tocca un morto. (trad. Morani) Esse sono riecheggiate anche dall’Aiace sofocleo che, di fronte al disonore patito, si accinge al suicidio (Soph. Ai. 854-855)78: Z?TDYQDWHTDYQDWHQX QPHMSLYVNH\DLPROZYQ NDLYWRLVHPHQNDMNHL SURVDXGKYVZ[XQZYQ Morte, o Morte, è ora, vieni e guardami: con te tuttavia anche laggiù potrò parlare. (trad. Ciani) e ancora da Filottete nell’omonima tragedia di Sofocle, nel momento in cui il male, che tormenta al piede l’eroe, si manifesta apertamente e non è più possibile celare gli effetti del morso della vipera (Soph. Ph. 797-798):
Vd. supra, pp. 24-26. Pur non essendo possibile stabilire con esattezza l’anno della rappresentazione, il Filotette di Eschilo si colloca nell’arco compreso tra il 475 e il 459, prima dell’Ippolito euripideo portato in scena nel 428: vd. Avezzù 1988, p. 53. Per ulteriori esempi dell’accostamento tra morte e SDLDYQ, cf. Soph. Tr. 1209: vd. Serra 1999, p. 95 n. 7. 78 I vv. 854-858 dell’Aiace sofocleo sono stati espunti da Lloyd-Jones – Wilson 1990 ma, in difesa almeno dei vv. 854-855, vd. Mazzoldi 1999, pp. 193-194. 76 77
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Z?TDYQDWHTDYQDWHSZ DMHLNDORXYPHQR RX^WZNDWK?PDURXMGXYQKLPROHL QSRWHB Morte, Morte, perché, sempre tanto invocata giorno dopo giorno, non riesci a venire? (trad. Cerri) Secondo Knox, il desiderio della morte nei personaggi portati in scena da Sofocle è conseguenza della loro solitudine estrema e della loro alienazione dal consesso umano, condizione prodotta dal rifiuto di ogni compromesso 79. Osservazioni perfettamente calzanti anche per la figura dell’Ippolito euripideo: non stupisce, dunque, che il figlio di Teseo auspichi l’intervento benefico di TDYQDWR. Eppure, la formulazione della preghiera in Er-Stil evita l’invocazione diretta della morte, soluzione coerentemente adottata anche nella successiva richiesta rivolta ad Ade secondo un atteggiamento eufemistico comune nella poesia greca, dove gli appelli rivolti direttamente alle divinità degli inferi sono piuttosto rari80. 4.1.1. Considerazioni per una lettura unitaria di Ippolito 1363-1388 La distinzione tra la parte della monodia eseguita in recitativo e quella cantata si traduce anche visivamente in differenti movimenti sulla scena. In corrispondenza con i vv. 1347-1369 Ippolito avanza a fatica verso il centro della scena, dilaniato nel corpo, sorretto da alcuni servitori: così il corifeo annuncia il suo ritorno (Eur. Hipp. 1342-1346) e tali sono le dinamiche suggerite dai rimproveri e dai moniti che il giovane rivolge ai suoi aiutanti. All’inizio le grida di dolore si ripetono (Eur. Hipp. 1347 DLMDL DLMDL , 1354 H@H>, 1358 IHX IHX ), il motivo della sofferenza è centrale e dall’evidenza di questa situazione scaturisce la preghiera indignata di Ippolito, estrema forma di ribellione e protesta 81. Al riacutizzarsi del male, però, segnalato da nuovi DLMDL DLMDL (Eur. Hipp. 1370), ogni movimento fisico sulla scena si interrompe: di fronte alla persistenza del dolore subentra la rassegnazione e il figlio di Teseo inizia a desiderare la morte, dapprima come unico rimedio (Eur. Hipp. 1373 SDLDYQ) e in seguito come fine inevitabile (Eur. Hipp. 1388 DMQDYJND). E attraverso l’eufemistico ricorso alla formulazione in Er-Stil Ippolito dimostra di aver recuperato quell’atteggiamento rispettoso nei confronti delle divinità, che dichiara di aver sempre tenuto. La svolta performativa e scenica in una monodia costruita a dittico sembrerebbe, quindi, procedere in parallelo con il mutare dei toni della preghiera.
Vd. Knox 1964, pp. 33-36. Cf. Eur. Hel. 175 (preghiera a Persefone in Er-Stil): vd. infra, pp. 54-56. Proprio nell’Elena euripidea, Menelao rivolge una preghiera introdotta da un’invocazione diretta ad Ade (Eur. Hel. 969-974) ma, sulla particolarità delle parole dell’Atride, vd. Kannicht 1969, p. 251; Allan 2008, p. 251. 81 A proposito della funzione comunicativa della preghiera “di contestazione”, vd. Labarbe 1980, p. 148. 79 80
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Tuttavia, alcuni elementi testuali indicano che i confini tra la prima e la seconda parte sono più sfumati di quanto possa sembrare a prima vista. Le parole rivolte a Zeus rispecchiano alcune caratteristiche – non limitate alla sola scelta del destinatario – tipiche delle preghiere “di contestazione”, e mostrano affinità evidenti soprattutto con la lamentela di Menelao per il fallito colpo mortale contro Alessandro (Hom. Il. III 365-368)82: =HX SDYWHURX>WLVHL RTHZ QRMORZYWHURD>OOR K?WHMIDYPKQWHLYVDVTDL$OHY[DQGURQNDNRYWKWR QX QGHYPRLHMQFHLYUHVVLQD>JK[LYIRHMNGHYPRLH>JFR KML"FTKSDODYPKILQHMWZYVLRQRXMGH>EDORYQPLQ Zeus padre, nessun dio è più funesto di te: pensavo che avrei punito Alessandro del suo misfatto, ed ecco, la spada si spezza nelle mie mani, invano ho scagliato la lancia: non l’ho colpito. (trad. Ciani) Come l’Atride, anche Ippolito dichiara apertamente il carattere funesto del dio (Eur. Hipp. 1367 RMOHYVD; cf. Hom. Il. III 365 = Od. XX 201 RMORZYWHUR)83 e sottolinea la vanità degli sforzi profusi (Eur. Hipp. 1367 D>OOZ; cf. Hom. Il. III 368 HMWZYVLRQ). L’eroe omerico manifesta inoltre la frustrazione delle proprie aspettative di fronte ai risultati conseguiti nel presente (Hom. Il. III 367 QX Q GH; cf. Theogn. 741 QX QG) e il personaggio tragico esprime lo stesso pensiero (Eur. Hipp. 1371 NDLQX Q)84, ma le parole di amarezza di Ippolito si inseriscono anche nella parte cantata, introducendola. La continuità logica del discorso crea così un ponte fra la parte in recitativo e quella in versi lirici. La monodia di Ippolito, d’altra parte, non è l’unico testo che presenta una preghiera di richiesta in stretta correlazione con una preghiera “di contestazione”. Ancora nell’Iliade, di fronte all’avanzata dei Troiani guidati da Ettore, Agamennone grida contro Zeus «padre» la propria indignazione per la scarsa considerazione che il dio dimostra rispetto agli abituali sacrifici offerti in suo onore (Hom. Il. VIII 236-241): =HX SDYWHUK?U-DYWLQK>GKX-SHUPHQHYZQEDVLOKYZQ WK LGD>WKLD>DVDNDLYPLQPHYJDNX GRDMSKXYUDB RXMPHQGKYSRWHYIKPLWHRQSHULNDOOHYDEZPRQ QKLCSROXNOKYL!GLSDUHOTHYPHQHMQTDYGHH>UUZQ Il verso =HX SDYWHURX>WLVHL RTHZ QRMORZYWHURD>OOR (Hom. Il. III 365) è ripetuto in modo formulare da Hom. Od. XX 201, in una breve preghiera (vv. 201-203) che il porcaro Eumeo rivolge a Zeus “padre” in presenza di Odisseo che ancora veste i panni del mendicante. Per l’accostamento fra i versi del III libro dell’Iliade e quelli del XX libro dell’Odissea, vd. Rutherford 1992, p. 221. Chapot e Laurot 2001, p. 85, richiamano le parole di Eumeo, oltre ai passi euripidei già segnalati, come parallelo per la protesta contro Zeus presente nei vv. 373-380 e 731-752 di Teognide. 83 A proposito dell’uso ricorrente dell’aggettivo RMORRY nelle preghiere “di contestazione” omeriche, vd. Labarbe 1980, p. 141. 84 Barrett 1964, p. 406: «NDLY is rather emphasizing (‘even now’, now at this very moment) than additive (‘now too’)». 82
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DMOOHMSLSD VLERZ QGKPRQNDLPKULYH>NKD L-HYPHQR7URLYKQHXMWHLYFHRQHM[DODSDY[DL O Zeus, hai mai colpito con tale follia qualche altro potente sovrano privandolo di gloria grandissima? Eppure io dico che mai, mentre venivo qui sulle navi dai molti remi, mai ho trascurato i tuoi bellissimi altari, su tutti ho bruciato il grasso e la cosce di buoi, smanioso com’ero di distruggere Troia dalle belle mura. (trad. Ciani) e vi fa seguire immediatamente la richiesta di potersi mettere in salvo (Hom. Il. VIII 242-244): DMOODY=HX WRYGHSHYUPRLHMSLNUKYKQRQHMHYOGZU DXMWRXGKYSHUH>DVRQX-SHNIXJHYHLQNDLDMOXY[DL PKGRX^WZ7UZYHVVLQH>DGDYPQDVTDL$FDLYRX Esaudisci almeno, Zeus, questo mio desiderio: fa che possiamo fuggire e salvarci, non lasciare che gli Achei siano vinti in tal modo dai Teucri (trad. Ciani) La contestazione sembra svolgere così la funzione di argomento per la richiesta conclusiva, o almeno fornisce un motivo ulteriore su cui l’orante fa leva per ottenere soddisfazione nella circostanza contingente. La protesta contro il re degli dei è un tema presente anche in altri passi dell’opera euripidea: Eur. Cycl. 353-355, Med. 516-519, Hec. 488-498, HF 339347. A questo elenco sommario85 si può aggiungere Eur. HF 1127 Z?=HX SDU +UDD?UR-UD LTURYQZQWDYGHB («o Zeus, le vedi dal trono di Era queste cose?») che, pur nella sua brevità – un singolo trimetro giambico inserito in una sticomitia –, risulta essere un raffronto significativo rispetto alle parole di Ippolito per le modalità espressive. Le affinità lessicali con il testo della monodia sono evidenti (WDYGR-UD L ~ R-UD LWDYGH): dopo l’invocazione a Zeus, anche Anfitrione ricorre alla formula interrogativa e accusa il dio di essere indifferente alle sventure subite da Eracle e dalla sua famiglia, perché è «succube della volontà della moglie»86. L’argomento è implicito nel semplice complemento SDU+UDTURYQZQ e insiste sulle colpe della divinità piuttosto che sui meriti delle persone vittime di un’ingiusta punizione. Altrove, l’accusa espressa sotto la forma di una domanda (Eur. Med. 516-519) e il motivo del “vedere” riferito a Zeus (Eur. Cycl. 354 =HX [HYQLR^UDWDYG[H]) ricorrono alternativamente. Ma, rispetto a tutti questi passi, le parole di Taltibio nell’Ecuba
Questa selezione di passi è fornita da Chapot – Laurot 2001, p. 85, che elencano anche i vv. 1363-1369 dell’Ippolito. Nell’Eracle Langholf 1971, pp. 78-79, suggerisce di considerare anche i vv. 498-502. 86 Mirto 1997, p. 240 n. 126. L’accostamento fra il v. 1127 e i vv. 339-347 è già segnalato da Bond 1981, p. 353, in quanto in entrambi i casi «the invocation of Zeus is deliberately offensive». 85
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(Eur. Hec. 488-498) sembrano presentare maggiori punti di contatto con la monodia di Ippolito, almeno sul piano strutturale: Z?=HX WLYOHY[ZBSRYWHUDYVDMQTUZYSRXR-UD Q K@GRY[DQD>OOZWKYQGHNHNWK VTDLPDYWKQ [\HXGK GRNRX QWDGDLPRYQZQHL?QDLJHYQR] WXYFKQGHSDYQWDWDMQEURWRL HMSLVNRSHL QB RXMFK^GD>QDVVDWZ QSROXFUXYVZQ)UXJZ Q RXMFK^GH3ULDYPRXWRX PHYJRMOELYRXGDYPDUB NDLQX QSRYOLPHQSD VDMQHYVWKNHQGRULY DXMWKGHGRXYOKJUDX D>SDLHMSLFTRQL NHL WDLNRYQHLIXYURXVDGXYVWKQRQNDYUD IHX IHX JHYUZQPHYQHLMPR^PZGHYPRLTDQHL Q HL>KSULQDLMVFUD LSHULSHVHL QWXYFKLWLQLY O Zeus, cosa devo dire? Che tu vedi gli uomini? Oppure che proprio questa è una vana credenza e che la sorte sovrintende a tutte le vicende umane? Costei non era regina dei Frigi, ricchi d’oro, non era sposa di Priamo, uomo di straordinaria fortuna? Ed ora la città intera è stata sconvolta dalla guerra e lei, schiava, vecchia, senza figli, giace a terra e sprofonda nella polvere la sua povera testa. Ahimè, io sono vecchio, eppure vorrei morire prima di precipitare in una condizione ignobile. Anche il messaggero dei Greci si rivolge a Zeus con tono interrogativo e ricorre al motivo del “vedere” (v. 488 R-UD Q) ponendolo in alternativa al motivo della “vanità” dell’opinione umana (Eur. Hec. 489 PDYWKQ)87. Egli esprime sotto forma di domanda anche la prima parte dell’argomento su cui fonda la protesta, il ricordo del passato felice di Ecuba, scandito dall’anafora RXMFK^G / RXMF K^GH (Eur. Hec. 492-493; cf. Eur. Hipp. 1364-1365), mentre il rovesciamento della sorte è sottolineato ancora una volta dal nesso NDLQX Q. Esso non introduce – come nello schema tradizionale della preghiera scandita in tre sezioni – una richiesta da parte dell’orante88 ma funge da fulcro dell’accusa rivolta contro la divinità e prelude all’esclamazione di dolore IHX IHX (Eur. Hec. 497)89. Quest’ultima segna un punto di svolta nel discorso. Muta il soggetto da Ecuba a Taltibio, muta il tono delle parole, e il messaggero greco termina con un desiderio espresso da un verbo all’ottativo: egli si augura di poter morire prima di dover subire un rovescio della fortuna90, augurio che Per il diverso valore di D>OOZ in Eur. Hec. 489 come espressione colloquiale, vd. Stevens 1976. 88 Lo schema è comune a diversi esempi di preghiere, soprattutto omeriche. A proposito dell’uso euripideo di NDLQX Q all’interno di simili strutture logiche, cf. Eur. Alc. 223, IT 1084, Hel. 972: vd. Pace 2010, pp. 45, 50, 54. 89 Nell’Ippolito l’anticipazione del grido di dolore DLMDL (Eur. Hipp. 1370) rispetto alla frase introdotta da NDLQX Q dipende da una diversa dinamica scenica e corrisponde anche alla differente natura della sofferenza: fisica nel caso di Ippolito, morale nel caso di Taltibio. 90 L’araldo degli Achei pone questo desiderio in contrasto con la sua età avanzata: JHYUZQ PHYQHLMPR^PZGHYPRL (Eur. Hec. 497). Cf. Eur. Alc. 669-672. Secondo l’interpretazione del 87
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sottintende un implicito confronto con quanto è toccato alla regina troiana. Lo schema logico dei vv. 488-498 dell’Ecuba rispecchia, dunque, nelle linee essenziali quello dei vv. 1363-1373 dell’Ippolito, presi nel loro insieme. Qui il legame fra la preghiera “di contestazione” e quella successiva di richiesta supera il confine fra recitativo e cantato e dà unità alla monodia, esito a cui concorre il motivo del dolore, distribuito in modo omogeneo in tutti i vv. 1347-1388. Da esso, inoltre, scaturiscono indistintamente i due tipi di preghiera 91: la difficoltà di deambulazione ispira la protesta, mentre nel momento in cui la sofferenza fisica si acuisce Ippolito richiede il rapido e “salutare” intervento della morte. 4.1.2. Dalla devozione alla contestazione: il caso dell’Ippolito A proposito degli esempi di preghiere “di contestazione” in Omero, Labarbe osserva che esse sono pronunciate da personaggi, da eroi «que l’on voit prier ailleurs avec une piété normale»92. Questo stesso procedimento è osservabile anche nel comportamento dell’Ippolito euripideo, se si confronta l’esodo della tragedia con la situazione presentata nel prologo.
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Inno e preghiere nel prologo dell’Ippolito (Eur. Hipp. 58-87, 114-121).
Nel prologo dell’Ippolito viene celebrata una cerimonia in onore della dea Artemide (Eur. Hipp. 58-87). Il complesso rituale93 si articola in due parti, una cantata (Eur. Hipp. 58-71) e una eseguita in trimetri giambici recitati (Eur. Hipp. 73-87). A sua volta, la prima sezione è scandita in due momenti distinti: inizialmente il ruolo di exarchos è affidato al solo Ippolito (Eur. Hipp. 58-60), al quale poi si aggiunge la voce del coro di servi (Eur. Hipp. 61-71). Il verbo H>SHVTH, ripetuto due volte nell’incipit del canto di Ippolito, e forse anche il ritmo kat’ enoplion degli stessi vv. 58-60 sembrano caratterizzare la scena come un testo tradito offerta da Serra 1999, p. 100, un’altra affermazione che giustifica l’opposizione formulata da Taltibio è in Soph. OC 1220: «non c’è sazietà […] neppure se la morte giunga tardissimo» (RXMGH>SLNRYUR[]$LGRR^WHPRL U[]DMQDSHYIDQK). 91 In modo analogo Amendola 2006, pp. 51-52, a proposito della parodo dei Sette contro Tebe di Eschilo (vd. supra, pp. 35-39), riconosce come fattore unificante interno l’«alternarsi di due registri fondamentali: quello della guerra e quello della preghiera», anch’essi strettamente connessi l’uno all’altro. La tecnica di far coincidere lo scarto metrico con il passaggio da un tipo di preghiera a un altro verrà affinata dallo stesso Euripide nella monodia di Antigone (Eur. Ph. 182-192): vd. supra, p. 39. 92 Labarbe 1980, p. 142. 93 Per quanto l’inno vero e proprio sia «brief and simple», lo stesso Barrett 1967, p. 167, riconosce che la scena rituale doveva essere di impatto sul pubblico degli spettatori, non fosse altro per il coinvolgimento di un coro e per l’esecuzione canora che coincide con l’ingresso del protagonista e che segue immediatamente la rhesis prologica di Afrodite, l’antagonista dello spensierato Ippolito. Si consideri che il coro dei servi che accompagna l’ingresso di Ippolito è un coro secondario, che compare solo in questa parte della tragedia. Risulta poco persuasiva, oltre che depauperante, l’ipotesi di un’esecuzione monodica dei vv. 61-69, a cui l’assemblea risponderebbe con i vv. 70-71 (Chapot – Laurot 2001, pp. 127-130). Vd. Furley – Bremer 2001, I, p. 314.
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rito processionale, non a caso coincidente con l’ingresso del protagonista e dei coreuti di ritorno da una battuta di caccia: del resto, già la dea Afrodite, annunciando il loro imminente arrivo, aveva evocato l’immagine di un NZ PR (Eur. Hipp. 55)94. Avanzando, Ippolito esorta i servi a cantare in onore di Artemide e tutti insieme celebrano la dea che li protegge, la bella figlia di Zeus e di Latona, che abita nella dimora celeste del padre: ,S
H^SHVTD>LGRQWHH^SHVTH WDQ'LRRXMUDQLYDQ $UWHPLQD_LPHORYPHVTD
,S/&RSRYWQLDSRYWQLDVHPQRWDYWD =KQRJHYQHTORQ FDL UHFDL UHYPRLZ?NRYUD /DWRX $UWHPLNDL'LRY NDOOLYVWDSROXSDUTHYQZQ D`PHYJDQNDWRXMUDQRQ QDLYHLHXMSDWHYUHLDQDXM ODYQ=KQRSROXYFUXVRQRL?NRQ FDL UHYPRLZ?NDOOLYVWDNDO OLYVWDWZ QNDW2OXPSRQ Ip. Avanti, seguitemi cantando la celeste figlia di Zeus, Artemide, la dea che veneriamo. Ip./Co. Signora, Signora santissima, della stirpe di Zeus, accetta, accetta il mio saluto, Artemide, figlia di Latona e di Zeus, la più bella tra le vergini, tu che nel vasto cielo abiti la dimora del tuo nobile padre, la casa ricca d’oro di Zeus. Accetta il mio saluto, tu che sei la più bella, la più bella dea dell’Olimpo. Dopo il preludio monodico l’inno è scandito, secondo la tripartizione canonica, in invocazione (Eur. Hipp. 62-65), elogio (Eur. Hipp. 66-69) e congedo (Eur. Hipp. 70-71)95. Nel complesso la formulazione retorica è accurata, come evidenziano l’accumulo di epiteti in sequenza asindetica, l’uso di forme aggettivali composte oppure di grado superlativo, il ricorso frequente alla geminatio e non da ultimo l’amplificazione delle qualità e degli attributi tradizionali di Artemide tramite una frase relativa in dipendenza dal vocativo iniziale. Nel congedo ritornano le parole di saluto e, insieme, di gratitudine nei confronti della dea (Eur. Hipp. 64, 70: FDL UH)96. A conclusione di questo inno, la celebrazione di Artemide prosegue con l’offerta rituale di una corona di fiori, deposta a ornamento della sua statua. Nei trimetri giambici che seguono il canto, lo stesso Ippolito descrive i gesti Vd. Furley – Bremer 2001, I, p. 315. A proposito delle caratteristiche generali dell’inno e della sua struttura, vd. infra, pp. 81-83. 96 Vd. Furley – Bremer 2001, I, pp. 61-63. 94 95
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della cerimonia, sottolineando la purezza dell’offerta e la propria naturale «onestà». Ora tutto è pronto (Eur. Hipp. 82 DMOO[DY]) perché egli possa avanzare le sue richieste ad Artemide (Eur. Hipp. 82-87): DMOOZ?ILYOKGHYVSRLQDFUXVHYDNRYPK DMQDYGKPDGHY[DLFHLURHXMVHERX D>SR PRYQZLJDYUHMVWLWRX WHMPRLJHYUDEURWZ Q VRLNDL[XYQHLPLNDLORYJRLDMPHLYERPDL NOXYZQPHQDXMGK R>PPDGRXMFR-UZ QWRVRYQ WHYORGHNDYP\DLPZ^VSHUKMU[DYPKQELYRX Ecco, mia Signora, accetta da mani devote una corona per la tua chioma d’oro. A me solo tra i mortali, infatti, è concesso questo privilegio: con te io trascorro il tempo, con te parlo, e sento la tua voce, anche se non vedo il tuo volto. Fa ch’io possa vivere così fino alla fine dei miei giorni. La preghiera si compone delle tre parti consuete, pur con una modesta variazione. L’invocazione è molto breve, forse anche perché la celebrazione della dea è già stata ampiamente sviluppata nell’inno precedente. L’argomento è evidenziato dall’avverbio JDYU (Eur. Hipp. 84) e insiste sulla condizione di privilegio in cui si trova lo stesso orante, Ippolito, e che dovrebbe favorire l’accoglimento della sua offerta da parte della dea: tale constatazione viene approfondita nei due versi successivi (Eur. Hipp. 85-86), articolati e scanditi al loro interno dalle due correlazioni NDLNDL e PHQGHY, che sembrano fungere da secondo argomento a giustificazione della nuova richiesta finale. Nell’alternanza di richieste e argomenti la preghiera assume così una struttura a chiasmo. Se all’inizio l’imperativo di seconda persona singolare GHY[DL (Eur. Hipp. 83) focalizza l’attenzione sul favorevole accoglimento della corona di fiori, offerta dal giovane alla dea, con l’ottativo di prima persona singolare NDYP\DLPL (Eur. Hipp. 87) Ippolito esprime il desiderio di poter continuare a godere della compagnia della dea fino alla sua morte. Dopo un rapido scambio di battute fra Ippolito e il corifeo in merito all’opportunità di onorare tutti gli dei senza trascurare Afrodite, il figlio di Teseo dispone che i servi entrino in casa per preparare il pranzo e si avvia. Il coro si trattiene ancora un istante, il tempo necessario al corifeo per rivolgere proprio ad Afrodite una breve preghiera in trimetri giambici. Il servo manifesta le proprie intenzioni davanti al simulacro o all’altare della dea Cipride, prendendo le distanze dai giovani che si comportano come Ippolito; tuttavia, egli non nomina mai esplicitamente Ippolito e, anzi, le sue parole sono pronunciate a difesa del giovane: GHYVSRLQD.XYSUL HL>WLYVX-IK^EKVSODYJFQRQH>QWRQRQIHYUZQ PDYWDLDEDY]HLPKGRYNHLWRXYWRXNOXYHLQ VRIZWHYURXJDUFUKEURWZ QHL?QDLTHRXY 53
[…] Cipride, mia Signora […]. Se qualcuno ti rivolge parole sciocche con insolenza a causa della giovane età, fingi di non sentirlo: bisogna, infatti, che gli dei siano più saggi dei mortali. L’invocazione, non meno essenziale di quella con cui si apre la preghiera di Ippolito ad Artemide, è anticipata rispetto alla preghiera vera e propria e inglobata nella dichiarazione di intenti pronunciata nei trimetri giambici precedenti dal corifeo senza ulteriori riprese. A parte qualche sporadico accenno da parte del corifeo (Eur. Hipp. 99, 103), nessun personaggio ha celebrato le qualità di Afrodite; tuttavia, la dea ha già provveduto da sola all’inizio della rhesis prologica ad affermare la propria natura e la propria potenza (Eur. Hipp. 1-9). La richiesta è unica e anteposta all’argomento, segnalato dall’avverbio JDYU: l’orante fa leva sui doveri che gli dei devono osservare per distinguersi dagli uomini. Per quanto riguarda l’articolazione sintattica, i vv. 117-121 ricalcano sostanzialmente la prima parte della preghiera di Ippolito (Eur. Hipp. 8284), con una variazione nel campo della richiesta tutt’altro che insignificante: essa, infatti, è formulata in modo generico 97, subordinata a una condizione e senza alcun riferimento esatto a persone (Eur. Hipp. 119 HL>WL). La situazione evocata tanto dalla frase condizionale quanto dalla frase principale si colloca in un presente atemporale, anche se l’implicito riferimento alle parole appena pronunciate da Ippolito appare evidente.
x
Dal prologo all’esodo: preghiere sulla scena.
Il dualismo Afrodite-Artemide, su cui è imperniata tutta l’opera, si traduce nella presenza sulla scena, di fronte al palazzo di Trezene, della statua di una divinità e da un simulacro, o almeno da un altare, dell’altra98. La simmetria spaziale trova corrispondenza nell’apparizione delle due dee, l’una nel prologo e l’altra nell’esodo come deus ex machina. Un meccanismo simile è sotteso ai due ingressi di Ippolito: il lieto ritorno dalla battuta di caccia, il prosodion rituale in onore di Artemide fa il paio nel finale con il lento incedere di un corpo straziato e dolorante, punito da Afrodite. L’inno e la preghiera di richiesta del prologo si traducono nella preghiera “di contestazione” dell’esodo: vengono così fissati gli estremi della parabola tragica del protagonista. Le parole che il corifeo rivolge ad Afrodite a conclusione del prologo sono il vano tentativo di compensare lo sciatto saluto che Ippolito rivolge alla dea (Eur. Hipp. 113 WKQVKQGH.XYSULQSRYOOHMJZFDLYUHLQOHYJZ), dopo aver manifestato la sua profonda devozione nei confronti di Artemide, un tentativo che non solo non può sortire alcun risultato ma che al contrario enfatizza il
In merito alla genericità della richiesta avanzata dal coro, cf. Eur. Alc. 221-222 (vd. Pace 2010, pp. 44-45), anche se in questo caso i riferimenti vengono esplicitati nella nuova richiesta formulata nei vv. 223-225. 98 Per la ricostruzione della scena, vd. Barrett 1964, p. 154. 97
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particolare atteggiamento del giovane99. Il tono di protesta, d’altra parte, sottolinea l’irritualità della preghiera dell’esodo rispetto all’ordinata cerimonia messa in atto nel prologo. E se all’inizio egli può, almeno in parte, condividere il suo sentimento religioso con alcuni compagni, nel finale della tragedia la monodia e la presenza silenziosa di quanti lo sorreggono significano lo stato di totale solitudine di Ippolito di fronte alla sofferenza. Solitudine attenuata soltanto dall’intervento conciliatore di Artemide.
5.
Preghiere “poetiche”
La preghiera può essere legata a una situazione personale o collettiva, può dipendere da stati d’animo molteplici come la paura, la gioia, la sofferenza, può essere elevata in un’occasione pubblica o in un dialogo privato con la divinità: ci sono preghiere istituzionali e preghiere spontanee. Con una preghiera si aprivano anche i simposi100, né va dimenticato che, se le opere letterarie sono tra le fonti più consistenti per quanto riguarda questa espressione del rapporto quotidiano tra umano e divino, la stessa poesia greca fin dalle sue origini ha riconosciuto una funzione importante agli dei: i poeti usavano iniziare il proprio canto con un’invocazione a chi poteva sostenerlo, ad esempio la Musa / le Muse, Zeus, Apollo 101. L’epos omerico e la Teogonia esiodea sono buoni testimoni del ruolo assegnato alla prole di Mnemosine 102, mentre Le opere e i giorni e un consistente numero di poeti melici arcaici rivolgono la loro attenzione a Zeus103. Non mancano le invocazioni ad Apollo 104 e particolarmente significativa sembra essere quella esemplificata da Timoteo in un passo dei suoi Persiani (Tim. fr. 791.202-212)105: DMOOZ?FUXVHRNLYTDULQDMHY Per le implicazioni di questo saluto, vd. Susanetti 2005, pp. 161-162 nn. 29 e 32. Vd. Ferrari 1989, p. 71 n. 3; Fabbro 1995, pp. IX, XIX-XXIII. Ad esempio, cf. Theogn. 1-10; Carm. conv. 1-2, 4 Fabbro (vd. Fabbro 1995, pp. 83-93, 98-106; Chapot – Laurot 2001, pp. 8587). 101 Ad esempio, per un’analisi della presenza di «sezioni innodiche» con le caratteristiche di preghiere “poetiche” all’interno degli epinici pindarici, vd. Pitotto 2009. 102 Ad esempio, cf. Hom. Il. I 1-2 (vd. Kirk 1985, pp. 51-53; Avezzù 1992, pp. 1047-1049; Giordano 2010, pp. 117-118), II 484-493 (vd. Kirk 1985, pp. 166-168; Chapot – Laurot 2001, pp. 3537), Od. I 1-2 (vd. West 1981, pp. 180-181); Hes. Th. 1-21 (vd. Arrighetti 1984, pp. 129-132). In un contesto poetico diverso, cf. Solon fr. 13 West (vd. Chapot – Laurot 2001, pp. 69-71). 103 Ad esempio, cf. Hes. Op. 1-10 (vd. Chapot – Laurot 2001, pp. 64-65; Ercolani 2010, pp. 119124); Alcm. fr. 89 Calame (vd. Calame 1983, pp. 470-471); Terp. fr. 3 Gostoli (vd. Gostoli 1990, pp. 132-136). 104 Ad esempio, cf. Theogn. 1-10 (vd. Ferrari 1989, pp. 70-73; Chapot – Laurot 2001, pp. 76-77: «Il est naturel pour un poète d’invoquer Apollon, puisque ce dieux est lié aux Muses»). 105 Le espressioni tipiche delle preghiere o degli inni cletici presenti in questi versi sono evidenziati da Hordern 2002, pp. 233-235. Vd. Ercoles 2010, che ricorda «l’idea della protezione di Apollo nei confronti della nuova musica» (p. 126 n. 54), già sottolineata dalla traduzione di Paduano. 99
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[ZQ0RX VDQQHRWHXFK HMPRL H>OTHMSLYNRXURX^ PQRLV{LQ}LMKYL!H3DLDYQ R-JDYUPHXMJHQHYWD GRQHL R^WLSDODLRWHYUDQQHYRL X^PQRL0RX VDQDMWLPZ Apollo Peana, tu che proteggi la nuova Musa dalla cetra dorata, vienimi tu in aiuto106: il nobile […] mi accusa […] perché coi canti nuovi farei torto all’antica Musa. (trad. Paduano) dove è facile riscontrare la consueta distinzione fra invocazione (Tim. fr. 791.202-203), richiesta (Tim. fr. 791.204-205) e argomento (Tim. fr. 791.206212), proprio come in altre preghiere di richiesta o apotropaiche. Ovviamente, l’orizzonte all’interno del quale si sviluppa il discorso è essenzialmente poetico, tanto nella caratterizzazione della divinità invocata (Z?FUXVHRNLYTDULQDMHY[ZQ0RX VDQQHRWHXFK ) quanto nella formulazione della richiesta (HMPRL H>OT HMSLYNRXURX^PQRLV{LQ}) e ancora nell’argomentazione (X^PQRL0RX VDQDMWLPZ ). 5.1. Elena 167-178 (monodia di Elena) Dopo aver riferito nel monologo iniziale le circostanze che l’hanno condotta in Egitto contro la sua volontà e all’insaputa dei Greci, Elena apprende da Teucro l’esito della guerra di Troia, che è stata combattuta in seguito al suo (presunto) rapimento da parte di Paride. Viene informata della morte della madre Leda, della divinizzazione dei Dioscuri, suoi fratelli, e si convince che anche Menelao sia perito in mare durante il viaggio di ritorno in patria. Appena rimane di nuovo da sola sulla scena, Elena manifesta l’intenzione di intonare un canto di lamento (Eur. Hel. 164 PHYJDQRL?NWRQ) e, proprio all’inizio, invoca l’aiuto di alcune divinità attraverso una preghiera: SWHURIRYURLQHDYQLGH SDUTHYQRL&TRQRNRYUDL 6HLUK QHHL>THMPRL JRYRL PRYORLWH>FRXVDL/LYEXQ OZWRQK@VXYULJJDK@ IRYUPLJJDDLMDLQRL NDNRL WRL HMPRL VLVXYQRFDGDYNUXD SDYTHVLSDYTHDPHYOHVLPHYOHD PRXVHL DTUKQKYPDVL[XQZLGD SHYP\HLH)HUVHYIDVVD IRYQLDFDYULWDL^QHMSLGDYNUXVL SDUHMPHYTHQX-SRPHYODTUDQXYFLD SDLD QDQHYNXVLQRMORPHYQRLODYEKL
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Lett.: «vieni in aiuto ai miei canti».
Giovani alate, vergini figlie della Terra, Sirene, oh, se poteste venire ai miei lamenti col vostro flauto libico, oppure con siringhe, o con cetre, pianti adatti ai miei mali tremendi, sofferenze su sofferenze, miserie su miserie. Persefone invii cori consoni alle mie lamentazioni, per ottenere da me tra le lacrime laggiù nella dimora tenebrosa un peana per i morti, funesto omaggio. Il discorso di Elena si articola in due preghiere: nonostante l’intenzione sia sostanzialmente la stessa – ottenere il sostegno di una divinità per il canto incipiente – cambiano sia il destinatario che la formulazione107. La prima, in DuStil, è rivolta alle Sirene; nella seconda, in Er-Stil108, l’appello è indirizzato a Persefone. In entrambi i casi viene rispettata la struttura tradizionale, almeno per quanto riguarda l’invocazione e la richiesta. Particolarmente ricca di dettagli fisici, l’invocazione rivolta alle Sirene (Eur. Hel. 167-169) non trascura neppure la componente genealogica (&TRQRNRYUDL) utile a rimarcare la loro origine ctonia e il loro legame con il mondo infero 109. Nessuna informazione viene riferita al semplice nome di Persefone: l’atmosfera che circonda la sua figura è desumibile implicitamente dall’avverbio IRYQLD (Eur. Hel. 176)110. La prima richiesta, formulata con un ottativo preceduto da HL>TH, ricorre a un verbo di movimento, da cui dipende l’espansione participiale H>FRXVDL : gli strumenti musicali indicati sono attributi propri delle Sirene e potrebbero essere richiamati già nell’invocazione, ma in questo caso nell’orizzonte di attesa dell’orante essi sono strettamente connessi con la richiesta e assumono un’importanza particolare proprio in funzione ad essa. Anche nella formulazione della richiesta la seconda preghiera si mostra, invece, più essenziale della prima: per ottenere il sostegno – non l’intervento diretto – di Persefone è sufficiente una frase con il verbo all’ottativo. Al contrario, se nella prima preghiera l’argomento è implicito nel tricolon appositivo GDYNUXDSDYTHDPHYOHD, che insiste sulla consonanza tra la musica prodotta dagli strumenti delle Sirene e il lamento di Ele107 Per stabilire il carattere unitario di una preghiera Langholf 1971, p. 15, ritiene che debbano rimanere invariati almeno due aspetti fra: 1) l’orante, 2) il destinatario, 3) la motivazione. Nella monodia di Elena si potrebbe riconoscere un’unica preghiera e gli aggettivi VXYQRFD (v. 172) e [XQZLGDY (v. 174) sembrano dare continuità al discorso ma le diverse modalità nelle quali si manifesta il sostegno al canto da parte delle Sirene e di Persefone – rispettivamente partecipazione strumentale (modalità diretta) e invio di cori (modalità indiretta) – sembrano marcare uno scarto sufficientemente significativo. La distinzione fra le due preghiere è rimarcata anche sul piano metrico dall’incidenza dei palimbacchei, presenti solo nei vv. 174178. 108 Questa scelta può essere confrontata con le preghiere che Ippolito rivolge alla morte e ad Ade: anche in quelle circostanze le preghiere sono formulate dal giovane morente in Er-Stil, quasi come forma di euphemia. Vd. supra, pp. 43-45. 109 Già nel XII libro dell’Odissea le Sirene sono figure legate contemporaneamente al canto e alla morte. Inoltre, la loro immagine compare su alcune stele funerarie: per un’indagine sulle ragioni della scelta delle Sirene nella funzione di Muse, vd. Cerri 1984-1985. 110 L’avverbio IRYQLD è probabile correzione dell’aggettivo IRQLYD, concordato con il nome della dea: in merito alla questione testuale, vd. De Poli 2011, p. 205.
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na, nella seconda mediante la frase introdotta di L^QD la richiesta fa leva sul beneficio che la stessa divinità potrà ottenere in cambio: nella struttura complessiva, dunque, la preghiera a Persefone segue lo schema del tipo da ut recipias, affine al tipo da ut dem111. Ed essa non è, d’altre parte, del tutto priva d’ogni cura formale: non solo l’oggetto della richiesta è collocato in posizione di forte risalto all’inizio sia del discorso che del verso (Eur. Hel. 174 PRXVHL D), ma anche l’anastrofe della congiunzione L^QD pone un’enfasi particolare sulle parole IRYQLD e FDYULWD, che evocano da un lato l’intonazione lugubre del canto adatta ai destinatari e dall’altro il rapporto di grazia / riconoscenza, al quale è improntato normalmente il legame tra uomo e dio nelle pratiche cultuali (sacrifici, libagioni, preghiere)112.
6.
Forme affini alla preghiera: scongiuri, maledizioni, giuramenti
Rimanendo nell’ambito del sacro, l’uomo greco poteva ricorrere a forme chiaramente connotate, diverse dalla preghiera ma con alcune caratteristiche simili, per maledire o per scongiurare qualcosa di terribile o ancora per impegnarsi in una promessa solenne113. E anche di queste espressioni c’è qualche traccia nelle monodie di Euripide. 6.1. Oreste 1454-1456 (monodia del Frigio) Al culmine del resoconto dei fatti a cui ha assistito all’interno del palazzo, incalzato dalle domande del corifeo, il Frigio dà inizio a una nuova sezione della sua lunghissima monodia114, rivolgendo un appello accorato a una divinità, la «Madre dell’Ida», quasi a voler prendere le distanze da quella scena d’orrore: ,GDLYDPD WHUPD WHU RMEULYPDRMEULYPDDLMDL IRQLYZQSDTHYZQDMQRYPZQWHNDNZ Q D^SHUH>GUDNRQH>GUDNRQ HMQGRYPRLWXUDYQQZQ Madre, Madre dell’Ida, onnipotente, onnipotente, ah, che cruente sventure, quali empi misfatti ho visto, ho visto nella casa dei padroni! Rispetto alle preghiere, questo passo non presenta un’esplicita richiesta. C’è l’invocazione, rivolta a una dea di cui non viene menzionato il nome ma che 111 Cf. Hom. Il. VI 308-309 R>IUDL-HUHXYVRPHQ; Theogn. 776-779 L^QDVRLODRLSHYPSZVH-NDWRYPED. Vd. supra, pp. 21, 32 n. 31, 36. 112 Vd. Furley – Bremer 2001, I, pp. 61-63. 113 A proposito di maledizione e giuramenti nell’Iliade, vd. Giordano 2010, pp. 54-67. 114 Per una più puntuale contestualizzazione della monodia del Frigio nell’Oreste di Euripide, vd. infra, pp. 150-151.
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viene individuata attraverso la sua collocazione geografica e il suo legame con il monte Ida, nella Troade. La scelta è stata messa in relazione con la provenienza del servo e le ricerche si sono concentrate soprattutto sulla possibile identificazione della divinità115 e sul particolare uso di termini omerici116, mentre è stata dedicata scarsa attenzione alla funzione di queste parole. Lo scolio al v. 1454, oltre a ricondurre la Madre dell’Ida alla figura di Rea, osserva che: PHYOOZQGLKJHL VTDLR-)UX[D^SHUHMWHTHYDWRH>QGRQWKQ#5HYDQHMSLNDOHL WDL Z-DMOH[LYNDNRQ. (MTB) Basta un’allusione alla dea come scongiuro117. 6.2. Fenicie 350-354 (monodia di Giocasta)118 Una situazione per certi aspetti assimilabile alla preghiera di richiesta è quella esemplificata dalle ultime parole della monodia di Giocasta nel primo episodio delle Fenicie. Dopo aver accolto festante il figlio Polinice, cacciato in esilio dal fratello Eteocle, si rammarica che né lei come madre né la città di Tebe abbiano potuto prendere parte al suo rito nuziale secondo i costumi tradizionali. E lancia una maledizione: R>ORLWRWDYGHL>WHVLYGDUR HL>W(ULHL>WHSDWKUR-VRDL>WLR HL>WHWRGDLPRYQLRQNDWHNZYPDVH GZYPDVLQ2LMGLSRYGD SURHMPHJDUNDNZ QH>PROHWZ QGD>FK Maledetto chi in questa situazione ha colpa, siano le armi, la Contesa o tuo padre, o ancora l’assalto di un demone contro la casa di Edipo: su di me, infatti, si abbatterono le sofferenze di queste disgrazie. Come nelle preghiere, anche in questa maledizione c’è una richiesta che è espressa da un verbo all’ottativo ed è sostenuta da un argomento, segnalato dall’avverbio JDYU. Manca invece qualsiasi richiamo agli dei, sia diretto che
Gli scolii al v. 1453 e al v. 1454 identificano la Madre dell’Ida con Rea, denominata anche Antaia. Ma Hordern 2002, pp. 192-193, a proposito della 0DWURRXMUHLYD di Tim. fr. 791.124 – «to be identified with Cybele» – rinvia anche a Eur. Or. 1454. A proposito della confusione fra divinità diverse, oltre allo stesso Hordern, vd. West 1987, p. 281. 116 Vd. Di Benedetto 1965, p. 270; Willink 1986, pp. 320-321; West 1987, p. 281. Cf. Tim. fr. 791.127-138: vd. Hordern 2002, pp. 180-197. 117 Cf. Eur. HF 538 $SROORQ. Vd. Aubriot-Sévin 1992, p. 231. 118 Nelle monodie di Euripide altre due maledizioni, più semplici nella loro formulazione, sono individuabili in Eur. Hec. 1063-1064 WDYODLQDLNRYUDLWDYODLQDL)UXJZ QZ?NDWDYUDWRL, «miserabili, miserabili donne frigie, maledette!», e in Eur. Or. 1407 H>UURLWD K-VXYFRXSURQRLYDNDNRX UJRZ>Q, «alla malora lui e la freddezza con cui elabora i suoi piani malvagi». 115
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indiretto, e non viene identificato con esattezza il destinatario della maledizione. Il confronto con Eur. IT 535: Z?SRYWQLWLYJDUR-/DHYUWRXJRYQRB R>ORLWRQRYVWRXPKYSRWHMSDYWUDQWXFZYQ O santissima […] che ne è del figlio di Laerte? […] Muoia! Senza mai ottenere di tornare in patria. e con Eur. Hel. 162-163: THRLGHYVRL DMQWLGZUKVDLYDWR #(OHYQKLG NDNZ R>ORLWRPKGHMS(XMUZYWDU-RD H>OTRL […] gli dei ti […] ricompensino. Ad Elena […] Muoia malamente senza giungere alle acque dell’Eurota; […] evidenzia situazioni diverse sotto entrambi gli aspetti. Anche se non collegati direttamente alla formula di malaugurio, sono chiaramente individuabili nel microcontesto delle parole pronunciate dal personaggio – la battuta precedente all’interno di una sticomitia oppure la stessa battuta articolata in più di un trimetro giambico – un’invocazione ad Artemide e un rinvio al ruolo degli dei. Questa omissione nel caso di Giocasta potrebbe essere poco rilevante, se non fosse per un’altra ben più significativa mancanza, quella del beneficiario, sintomo dello smarrimento in cui si trova il personaggio sopraffatto dagli eventi: una donna di fronte alla guerra, una madre di fronte a figli adulti che si contendono il potere, all’interno della casa e della città. Per esprimere un simile stato d’animo, tuttavia, si ricorre a una struttura non estranea alla preghiera, al cosiddetto «costrutto sive-sive»119, con il quale di norma si elencano i diversi nomi o i diversi epiteti della divinità invocata a scopo celebrativo: esso, se di norma conferisce «l’allure d’une prière rituelle»120, viene qui reimpiegato nella prospettiva di una sostanziale inconoscibilità del divino 121.
Norden 2002, pp. 261-265. Des Places 1969, p. 229, a proposito di Eur. Tr. 886 =HXYHL>WDMQDYJNKIXYVHRHL>WHQRX EURWZ Q. 121 Vd. Schadewaldt 1926, p. 115. 119 120
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6.3. Elena 348-359 (monodia di Elena)122 Dopo aver riferito alle donne del coro quanto ha appreso – o crede di aver appreso – da Teucro, Elena si mostra decisa a morire: nella situazione in cui si trova, «perire è la soluzione migliore» (Eur. Hel. 298 TDQHL QNUDYWLVWRQ). Il corifeo riesce a procrastinare il gesto fatale, convincendola a entrare nel palazzo di Teoclimeno e a interrogare Teonoe in merito alla sorte di Menelao. Nonostante accetti l’invito, Elena è intimamente persuasa della morte del marito e, prima di uscire di scena, nella prima parte della sua ultima monodia pronuncia un solenne giuramento: VHJDUHMNDYOHVDVHGHNDWZYPRVD WRQX-GURYHQWDGRYQDNLFZ URQ (XMUZYWDQTDQRYQWR HLMEDY[LH>WXPRDMQGUR D^GHPRLWLYWDYGDMVXYQHWDB IRYQLRQDLMZYUKPD GLDGHYUDRMUHY[RPDL K@[LIRNWRYQRQGLYZJPD ODLPRUUXYWRXVIDJD DXMWRVLYGDURQH>VZSHODYVZGLDVDUNRD^PLOODQ TX PDWUL]XYJRLTHDL VL WZ LWHVKYUDJJDMRL GD LVHELY]RQWL3ULDPLY GDLSRWDMPILERXVWDYTPRX Sì, ti chiamo a testimone, te lo giuro, Eurota, luogo rigoglioso di canneti: se è morto, se è vera la notizia su mio marito, che mi è stata riferita – perché queste parole insensate? – cadavere sospeso, penderò per il collo oppure nello slancio della spada assassina conficcherò dentro le mie carni la lama suicida con un taglio che tronca la gola, vittima delle tre dee e del figlio di Priamo che un tempo col canto onorava la grotta presso la stalla. Tali parole traducono verbalmente l’esitazione, quasi un ripensamento in extremis, della donna: dopo una lunga rhesis di Elena e una serrata sticomitia con il Coro, il canto riprende il sopravvento per suggellare un momento di particolare tensione nel percorso cognitivo che Elena compie nella prima metà della tragedia. La Spannung emerge in particolare da alcune scelte espressive. Giuramenti simili, in cui la promessa solenne è espressa all’indicativo, si trovano anche altrove nella letteratura greca, già a partire dall’Iliade123. Secondo uno schema tradizionale, i verbi che introducono i termini dell’impegno sono coniugati all’aoristo e da essi dipende sul piano sintattico il nome della divinità chiamata a testimone. Nella sensibilità greca il fiume poteva essere consideNelle monodie di Euripide è presente almeno un altro giuramento, nello Ione (Eur. Ion 870-875). 123 Per le caratteristiche di questo tipo di giuramento, vd. Aubriot 1991, pp. 95-97, che prende a modello Hom. Il. I 85-90. 122
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rato alla stregua di un dio: così, ad esempio, dopo un naufragio, Odisseo può rivolgere ad uno di essi la sua supplica (Hom. Od. V 445-450)124. Nel V sec. a.C., nei Sette contro Tebe il re Eteocle in cambio della salvezza promette offerte e sacrifici agli dei poliadici e in particolare alla sorgente Dirce e al fiume Ismeno, entrambi strettamente connessi alla vita della città assediata (Aesch. Sept. 271-278)125: HMJZGHFZYUDWRL SROLVVRXYFRLTHRL SHGLRQRYPRLWHNDMJRUD HMSLVNRYSRL 'LYUNKWHSKJDL RXMGDMS,VPKQRYQOHYJZ HX?[XQWXFRYQWZQNDLSRYOHZVHVZPHYQK PKYORLVLQDL-PDYVVRQWDH-VWLYDTHZ Q WDXURNWRQRX QWDTHRL VLQZ_GHMSHXYFRPDL TKYVHLQWURYSDLDGDL"ZQHMVTKYPDVL VWHY\ZODYIXUDGRXULYSOKFTD-JQRL GRYPRL Io agli dei di questa città e di questa regione, che popolano i campi e sorvegliano la piazza, alla sorgente di Dirce – né tralascio l’Ismeno – se la fortuna sarà con noi e la città sarà salva, insanguinando la dimora degli dei con gli animali, sgozzando un toro, agli dei faccio così voto di innalzare trofei con i vestiti dei nemici, ai sacri templi inghirlanderò il bottino conquistato con la lancia. Considerando l’affinità fra preghiera/supplica e giuramento, non sorprende che nella tragedia euripidea Elena invochi l’Eurota, il corso d’acqua spartano: le sue parole costituiscono la definitiva conferma del profondo legame con il marito e con la patria. I giuramenti di Eteocle e di Elena sono pronunciati, però, in due situazioni differenti, e non soltanto perché l’uno si trova fra le mura di Tebe e l’altra è lontana da Sparta da oltre dieci anni: l’orizzonte pubblico del personaggio eschileo, che formula il suo voto davanti alle statue degli dei protettori della città, si contrappone alla prospettiva tutta privata dell’eroina euripidea, che in Egitto ha come unico rifugio la tomba di Proteo ma che da essa non può trarre alcun beneficio per soddisfare il suo desiderio di riabbracciare Menelao e tornare con lui a Sparta. Un confronto puntuale fra i due passi tragici mostra con maggiore evidenza come nel giuramento fatto all’Eurota la valenza personale contrasti con una formulazione solenne, se non eccessivamente enfatica. La posizione di rilievo, occupata dal pronome di prima persona singolare HMJZY nel testo eschileo, viene assegnata da Elena al pronome di seconda persona singolare VHY, quasi a supplire la mancanza di qualsiasi richiamo visibile sulla scena a entità divine e in particolare all’Eurota: la sua ripetizione in anafora nella stessa posizione 124 Cf. Hom. Il. III 276-280 =HX SDYWHU+HYOLRTNDLSRWDPRLNDLJDL DNDLRL` WLYQXVTRQX-PHL PDYUWXURLH>VWH. 125 I numerosi problemi testuali presenti in questi versi sono discussi da Novelli 2005, pp. 175-184: il testo qui proposto si basa sulle sue conclusioni, che ritengo di poter condividere nella sostanza.
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metrica è rafforzata dall’omoteleuto dei due verbi a cui si accompagna, HMNDYOHVD e NDWZYPRVD. La condizione, che nella tragedia di Eschilo è espressa mediante i due genitivi assoluti, corrisponde perfettamente nella monodia euripidea alla frase HLMEDY[LH>WXPR. Nel primo caso seguono due promesse – TKYVHLQVWHY\Z– che si integrano e si precisano reciprocamente. I due sviluppi prospettati da Elena, invece, pur focalizzati sull’unico pensiero della morte, si escludono a vicenda: l’impiccagione – modalità di suicidio tipicamente femminile – si pone in alternativa al colpo di spada – secondo i canoni maschili. Se Eschilo si limita a evocare le immagini dei sacrifici attraverso i participi DL-PDYVVRQWD e WDXURNWRQRX QWD, fra loro giustapposti, Euripide si affida ai sostantivi in PD (DLMZYUKPD, GLYZJPD, TX PD) che, ugualmente accumulati in asindeto, fungono da Satzapposition e conferiscono al dettato una veste poetica più spiccata. Nella stessa direzione deve essere considerato l’inserimento di un esametro dattilico (Eur. Hel. 356) in un contesto ritmico altro, scelta legata all’immagine eroica del suicidio per mezzo della spada, che Elena evoca proprio in questo verso126. La solennità composta del re tebano si distingue nettamente dalla carica enfatica delle parole della donna spartana ma la distanza che li separa risulta, forse, ancora più evidente in rapporto alle diverse implicazioni conseguenti al comune impiego di una frase incidentale. Ad Eteocle (Aesch. Sept. 273) essa serve per includere nell’elenco delle divinità chiamate a testimoni anche l’Ismeno: si tratta di una precisazione aggiunta in conclusione da chi ha la situazione sotto il suo controllo e non esclude neppure il fiume tebano dal novero delle divinità che beneficeranno del suo voto. La domanda che interrompe il giuramento di Elena, invece, è espressione di incertezza, è l’esitazione di chi riconsidera l’iniziativa che si accinge a compiere e la reputa inutile: la donna si comporta come chi è costretto ad agire indipendentemente dalla propria volontà, come la vittima di un destino inesorabile e tragico. Eppure lei stessa si è appena detta disponibile ad accogliere l’invito del Coro e ad interrogare Teonoe in merito alla sorte di Menelao (Eur. Hel. 330 ILYODL ORYJRXHMGH[DYPDQ). L’esagerata amplificazione patetica del discorso che accompagna l’uscita di scena di Elena contrasta con l’arrivo, immediatamente successivo, del marito, che palesa al pubblico l’inganno di cui è vittima la donna, e stride ancor più con l’esito – inaspettatamente positivo – del suo colloquio con la sacerdotessa egizia, di cui un’Elena di nuovo speranzosa dà conto al suo ritorno in scena (Eur. Hel. 528 ss.). *** Una sintesi dell’analisi finora condotta evidenzia che, indipendentemente dal maggiore o minore grado di cura formale, le preghiere (di richiesta, apotropaiche, “di contestazione”, poetiche) o le forme affini ad esse (scongiuri, maledizioni, giuramenti) riscontrabili nelle monodie euripidee non presentano 126
Cf. Eur. Ph. 1577-1578: vd. infra, p. 156.
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alcun legame particolare con luoghi sacri o pratiche rituali: diversamente dalla preghiera di Teano nel VI libro dell’Iliade e dalla devozione per Artemide rappresentata nel prologo dell’Ippolito, nei canti a solo si riscontrano esempi di preghiere private che sono, nella maggior parte dei casi, espressione di un impulso improvviso. Singolare eccezione nel panorama delle monodie euripidee, nell’Ifigenia fra i Tauri la celebrazione della libagione in onore di Oreste, ritenuto morto, conferma che nella Grecia antica la preghiera trovava spazio anche all’interno di cerimonie cultuali formalizzate. ***
7.
La libagione: tradizione di una pratica cultuale
Il III libro dell’Odissea fornisce alcune interessanti descrizioni di pratiche rituali che prevedono l’offerta di una libagione. All’inizio (Hom. Il. III 40-64) Telemaco e Mentore-Atena arrivano a Pilo durante un banchetto in onore di Poseidone: Pisistrato, figlio di Nestore, porge una coppa di vino e invita la dea, che ha assunto sembianze umane, a partecipare al convito dopo aver libato e aver pregato come prevede la regola (Hom. Il. III 45 DXMWDUHMSKQVSHLYVKLWHNDLHX>[HDLK`THYPLHMVWLY). Lo stretto legame tra libagione e preghiera è ribadito anche in seguito, quando Pisistrato si aspetta che anche Telemaco proceda nella stessa maniera e compia la libagione con l’intenzione di rivolgersi agli dei (Hom. Il. III 47-48 VSHL VDLHMSHLNDLWRX WRQRML"PDLDMTDQDYWRLVLQHX>FHVTDL). I due ospiti a turno parlano alla divinità e – probabilmente nello stesso tempo – compiono il gesto rituale (Hom. Il. III 55-64), che viene ripetuto alla fine del banchetto – senza alcuna menzione della preghiera – e descritto con maggiori dettagli nei vv. 338-344. In seguito (Hom. Il. III 380-396, 418-472), dopo che Atena ha rivelato la sua reale identità, Nestore rivolge una preghiera alla dea con la promessa di immolare in suo onore una giovenca e, rientrato nel suo palazzo, compie una libagione; il giorno seguente provvede alla celebrazione del sacrificio, preceduto da una nuova preghiera e da una nuova offerta di acqua lustrale e grani d’orzo. Anche nelle pratiche di necromanzia, esemplificate dall’XI libro dell’Odissea (Hom. Od. XI 23-37), si susseguono la libagione per i defunti, con l’offerta di una miscela di latte e miele, di vino e di acqua, la preghiera e il sacrificio di alcuni armenti: questa, del resto, era la procedura che Circe aveva indicato a Odisseo per poter evocare e interrogare i defunti già nel libro precedente (Hom. Od. X 516-537). Indipendentemente da alcune differenze, questi esempi mostrano che nelle pratiche cultuali fin dai tempi più antichi in Grecia la parola (preghiera) e l’azione (libagione e sacrificio) erano tra loro complementari ma anche distinte. «Prayer was an absolutely indispensable part of sacrifice» 127 ma negli 127
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Bremmer 2007, p. 136.
esempi finora presi in considerazione l’orante si rivolge a divinità o a defunti con richieste che vanno oltre il favorevole accoglimento dell’offerta, non direttamente legate all’atto di celebrare il rito: le parole di Mentore-Atena (Hom. Od. III 55-61), riprese da Telemaco (Hom. Od. III 64), sono intese a ottenere da Poseidone gloria per Nestore e i suoi figli, prosperità per gli abitanti di Pilo e il ritorno a Itaca per i due oranti; Nestore chiede ad Atena gloria per sé, per i figli e per la moglie (Hom. Od. III 380-384). Non è dato di conoscere le parole pronunciate da Odisseo in prossimità del regno dei morti ma è verosimile che la supplica fosse volta a evocare le ombre dei defunti (Hom. Od. XI 34-35; cf. Hom. Od. X 526), così come è probabile che l’invocazione di Ade e Persefone da parte dei suoi compagni altro non fosse che un inno celebrativo delle due divinità infere (Hom. Od. XI 46-47; cf. Hom. Od. X 533-534). Ancora più indistinta è la voce delle donne che accompagnano l’uccisione della vittima sacrificale con le loro grida (Hom. Od. III 450 DL-GRMORYOX[DQ). Le preghiere, d’altra parte, rispondono agli schemi tradizionali, del tipo da quia dedi128 ovvero quia dare tuum est (Hom. Od. III 58-59 DMPRLEKQDMJDNOHLWK H-NDWRYPEK) oppure del tipo da quia dabo ovvero ut dem (Hom. Od. III 382-384, XI 29-33; cf. Hom. Od. X 521-525). Libagione e sacrificio sancivano o rinnovavano il rapporto tra l’orante e il destinatario, fondato sulla charis. Ogni volta che venivano immolati degli animali, era necessaria la presenza di un fuoco con il quale venivano cotte le carni; su di esso, inoltre, alla fine del giorno di festa venivano gettate le lingue dei buoi (Hom. Od. III 332, 341) e il celebrante bruciava alcuni peli della testa della vittima (Hom. Od. III 446)129. Nel racconto dei riti celebrati durante la visita di Telemaco a Pilo, non si fa alcuna allusione agli altari degli dei, sui quali invece, secondo lo stesso Nestore, Egisto avrebbe bruciato molte cosce dopo aver sedotto Clitemnestra (Hom. Od. III 273; cf. inoltre Hom. Od. XIII 187, XVII 210-211, XXII 334-336)130. Nel caso della necromanzia, invece, libagione e sangue delle vittime vengono versati in una fossa, appositamente scavata nel terreno da Odisseo. Ancora in epoca classica gli altari erano il fulcro attorno al quale si celebravano libagioni e sacrifici in onore delle divinità; per i defunti, invece, questi riti di norma si compivano direttamente sulla sepoltu-
Vd. Chapot – Laurot 2001, pp. 57-58. Vd. West 1981, p. 307 (ad v. 332), a proposito del rito – poco conosciuto – del taglio della lingua dei buoi, e ancora p. 314 (ad v. 446), a proposito del taglio di alcuni peli dalla testa della vittima. 130 Da Hom. Il. I 446-474 (vd. Chapot – Laurot 2001, pp. 32-34) si apprendono alcune informazioni simili: il sacrificio offerto dagli Achei ad Apollo veniva compiuto presso l’altare del dio (Hom. Il. I 448 SHULEZPRYQ), il rito prevedeva una preghiera (Hom. Il. I 451-456; cf. Hom. Il. I 450 HX>FHWR, 457 HXMFRYPHQR, 458 HX>[DQWR), l’uccisione degli animali era preceduta dal lancio di grani d’orzo (Hom. Il. I 449, 458), il fuoco era necessario per la cottura delle carni sulle quali veniva versato anche del vino (Hom. Il. I 462-466), seguiva un banchetto di cibo e di vino che serviva anche per la libagione (Hom. Il. I 467-471) e infine si celebrava la divinità con un canto a lei dedicato (Hom. Il. I 473 SDLKYRQD). Per altri esempi di libagione accompagnata da una preghiera, senza l’uccisione di animali, cf. Hom. Il. XVI 225-249, XXIV 299-314. 128 129
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ra. Il sepolcro, infatti, non solo era oggetto di cura costante da parte dei familiari ma fungeva anche da “altare” su cui venivano deposte e versate le offerte destinate al morto131: un esempio significativo, particolare nelle proporzioni ma non nel principio su cui si basa, è legato agli onori tributati al generale spartano Brasida dopo la sua morte. Tucidide (Th. V 11) racconta che «dopo aver recintato il suo sepolcro, gli abitanti di Anfipoli sgozzano vittime come a un eroe ed hanno istituito in suo onore giochi e sacrifici annuali»: la tomba viene considerata alla stregua di un luogo sacro, l’uomo viene equiparato a un eroe132, in suo onore vengono istituite celebrazioni ricorrenti che prevedono anche sacrifici. E come i sacrifici, anche le libagioni potevano essere versate indifferentemente sugli altari, sulle tombe e sui monumenti funerari 133 (o anche direttamente a terra). Se la religione è per sua natura conservativa e tradizionale, non sorprende che dall’età arcaica all’epoca classica, da Omero a Tucidide, le pratiche cultuali non abbiano subito modifiche rilevanti. Nelle Supplici di Eschilo (Aesch. Suppl. 980-982), dopo aver ottenuto l’ospitalità da parte degli Argivi, Danao esorta le figlie a dimostrare la riconoscenza verso i loro salvatori con preghiere (HX>FHVTDL), con sacrifici (TXYHLQ) e con libagioni (OHLYEHLQ), come ringrazierebbero le divinità olimpie134. La tragedia greca conosce, dunque, questo triplice modulo cultuale135 ma esclude dalla scena l’atto del sacrificio: le azioni cruente si compiono nello spazio extrascenico o in quello retroscenico136 e l’uccisione di animali non fa eccezione. Viene comunque mantenuta la complementarietà di pratiche verbali e pratiche agite nel caso delle scene di libagione (Persiani e Coefore di Eschilo, Ifigenia fra i Tauri di Euripide): in questi casi sono previsti come destinatari sia divinità che defunti, e il rito viene compiuto di conseguenza ora presso un altare ora presso una tomba e si accompagna anche a preghiere e inni. 131 Vd. Felton 2007, pp. 87-88. Nella prassi cultuale greca il corpo del defunto, quando veniva cremato o inumato, era accompagnato da un corredo, composto di solito da cibo, vino, olio e oggetti posseduti dalla persona quando era in vita. La sua memoria veniva conservata dalla famiglia che, oltre ad avere cura della sepoltura, versava periodicamente libagioni di latte e di miele sulla tomba. 132 Vd. Ekroth 2007, pp. 107-109. Ma l’offerta di liquidi, cibo e altro materiale non era legata in maniera esclusiva alla sfera funeraria: essa era praticata anche nell’ambito del culto, sia eroico che divino, e le stesse cose potevano essere offerte tanto agli dei quanto ai defunti (uomini o eroi). 133 Una libagione veniva offerta, ad esempio, nella parte conclusiva del rito funebre. Vd. Mirto 2007, p. 77. 134 Sulla singolarità di trattare gli Argivi come divinità olimpie, vd. Friis Johansen – Whittle 1980, III, pp. 274-275. 135 Vd. Jouanna 1993, pp. 78-79. In questo studio egli offre una rassegna delle allusioni alla libagione e delle sue rappresentazioni sulla scena tragica, che trovano dei paralleli nell’epica omerica. In particolare, egli distingue la libagione e il sacrificio, che appartengono a «l’ordre de l’acte», dalla preghiera, che appartiene a «l’ordre de la parole». 136 Jouanna 1992, p. 49, osserva che i sacrifici compiuti fuori scena sono piuttosto oggetto di un recit e che diventano uno spettacolo nello spettacolo ovvero uno spettacolo di secondo grado. Vd. denuo Jouanna 1993, p. 85.
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7.1. Ifigenia fra i Tauri 157-177 (monodia di Ifigenia) Ifigenia, costretta nelle remote regioni abitate dai Tauri mentre i Greci sono convinti che sia stata immolata sull’altare di Artemide in Aulide, si è persuasa che il fratello Oreste, ultimo «pilastro» della famiglia e unica speranza per lei di tornare in patria, sia morto. In suo onore decide, dunque, di offrire una libagione: LMZGDL PRQ R`WRQPRYQRQPHNDVLYJQKWRQVXOD L $LGDLSHYP\DZ_LWDYVGHFRYD PHYOOZNUDWK UDYWHWRQITLPHYQZQ X-GUDLYQHLQJDLYDHMQQZYWRL SDJDYWRXMUHLD QHMNPRYVFZQ %DYNFRXWRLMQKUDORLED [RXTD QWHSRYQKPDPHOLVVD Q D`QHNURL THONWKYULDNHL WDL DMOOH>QGRPRLSDYJFUXVRQ WHX FRNDLORLEDQ$LGD Z?NDWDJDLYD$JDPHPQRYQLRQ TDYORZ-ITLPHYQZLWDYGHVRLSHYPSZ GHY[DLGRXMJDUSURWXYPERQVRL [DQTDQFDLYWDQRXMGDYNUXRL>VZ WKORYVHJDUGKVD DMSHQDYVTKQ SDWULYGRNDLHMPD H>QTDGRNKYPDVL NHL PDLVIDFTHL VDWODYPZQ O demone, che spingi nell’Ade e mi privi dell’unico fratello, a lui intendo offrire queste libagioni versando l’acqua del cratere dei morti sul dorso della terra, e sorgenti di giovenche montane e libami vinosi di Bacco e l’opera delle fulve api, doni graditi ai morti. Su, consegnami la coppa d’oro e la libagione funebre. Germoglio di Agamennone disceso nel sottosuolo, a te morto destino queste offerte. Tu accoglile! Non porterò presso la tua tomba ciocche della mia bionda chioma né lacrime: sono stata trasportata lontano dalla tua e dalla mia patria, dove si crede ch’io, misera, giaccia sgozzata. Le parole di Ifigenia conducono lo spettatore attraverso la scena di libagione. Inizialmente, manifestando le proprie intenzioni (Eur. IT 157-166), la figlia di Agamennone elenca le offerte – acqua, latte, vino, miele – che vuole destinare al fratello defunto. In un’opera di natura drammatica questa descrizione potrebbe essere intesa come un’indicazione di regia utile a una corretta rappresentazione e a un puntuale svolgimento dell’azione; tuttavia è opportuno notare che una simile soluzione comunicativa è testimoniata già dall’epica, laddove la persona che vuole offrire un sacrificio o una libagione impartisce precise disposizioni ad altri perché si celebri il rito (ad es. Hom. Od. III 43-50, 331334, 421-429), oppure il soggetto a sua volta anticipa le proprie intenzioni come quando Nestore promette di immolare una giovenca ad Atena (Hom. Od. III 382-384). Anche queste dichiarazioni fanno parte in qualche modo del rito, 67
in quanto servono a sottolineare l’abbondanza o la ricchezza delle offerte, scelte in funzione del destinatario e in ossequio alla tradizione137, e la formulazione retorica, molto curata, sembra avvalorare questa chiave di lettura. I vv. 157-169 sono un esempio di vocativus pendens: dall’appello iniziale al GDL PRQ dipendono, su due livelli distinti, altrettante subordinate relative. A partire dal v. 162 la solennità delle parole di Ifigenia è sottolineata ulteriormente dal rigore della struttura sintattica e dall’andamento metrico-ritmico: latte, vino e miele vengono elencati ordinatamente (Eur. IT 162-165 W WWH)138 e ciascuno di questi ingredienti corrisponde o a un dimetro anapestico acataletto o a un paremiaco, realizzati in prevalenza da sillabe lunghe. Non è meno significativa la formulazione enigmatica con cui vengono menzionati i vari componenti della libagione. In altri passi tragici che presentano o descrivono la celebrazione del rito, alcuni di essi vengono elencati ora in modo esplicito e ora in modo indiretto. Così, ad esempio, nelle tragedie sofoclee non c’è particolare riguardo nell’indicare l’acqua e il miele (Soph. OC 481) oppure il latte (Soph. El. 895)139. Atossa, invece, comincia dal latte e dal miele (Aesch. Pers. 611 JDYOD, 612 PHYOL), ma il loro nome è preceduto da una perifrasi che ne evidenzia la purezza dell’origine 140 e solo attraverso simili circonlocuzioni sono designati a seguire il vino e l’olio141. Il «linguaggio immaginifico» utilizzato da Eschilo è ripreso da Euripide in qualche misura nell’Oreste, dove la «schiuma vinosa» (Eur. Or. 115 RLMQZSRYQWD>FQKQ) è un «traslato audace» per il vino142. Le espressioni figurate del dettato eschileo, dove comunque si allude a vino e olio rispettivamente con SRWRYQ (Aesch. Pers. 615) e NDUSRY (Aesch. Pers. 617)143, nelle parole di Ifigenia diventano più criptiche, quasi enigmatiche144: una serie di enigmi fondati su diversi meccanismi metonimici145. 137 Sulle indicazioni di regia presenti nelle tragedie e sui rischi di indebite generalizzazioni, vd. Di Marco 2009, pp. 111-116. A proposito delle intenzioni di Ifigenia implicite in questi versi, vd. Kyriakou 2006, pp. 91-92. 138 Cf. Aesch. Pers. 611-618, dove tuttavia la corrispondenza tra verso e ingrediente della libagione è meno rigorosa e il polisindeto WWWHWWH è interrotto dalla variatio nel v. 613 OLEDYVLQX-GUKODL PHYWD. Non sembra inopportuno richiamare la struttura arcaica della Priamel, non estranea allo stile dell’inno e della preghiera. 139 La perifrasi QHRUUXYWRXSKJDJDYODNWR (vv. 894-895) «suggests the abundance of the offerings» (Finglass 2007, p. 381). 140 Vd. Belloni 1988, pp. 183-184. Cf. Eur. Hipp. 73-81, a proposito del quale vd. Barrett 1964, pp. 171-175; Susanetti 2005, pp. 159-160. 141 O meno probabilmente le olive: sulla questione, vd. Morani 1987, p. 155 n. 2. 142 Di Benedetto 1965, p. 29. In questo passo dell’Oreste viene fatta esplicita menzione del latte ma, come nota lo stesso Di Benedetto, JDYODNWR è qui aggiunto a PHOLYNUDWD «con enfatica sovrabbondanza». 143 Cf. Eur. IT 634-635 WK RMUHLYDDMQTHPRYUUXWRQJDYQR[RXTK PHOLYVVK (= miele). 144 Cf. Eur. Tr. 128-129 SOHNWDQ$LMJXYSWRXSDLGHLYDQ, a proposito del quale vd. De Poli 2011, p. 140. A proposito del legame fra l’enigma e la religione, con particolare riguardo per gli oracoli apollinei, vd. Colli 1978, pp. 47-48: cf. Aesch. Ag. 1112-1113, PV 609-611; Plat. Tim. 72b WK GLDLMQLJPZ QRX_WRLIKYPKNDLIDQWDYVHZX-SRNULWDLY (che testimonia l’affinità fra discorso enigmatico e immaginifico). Per il legame tra enigma e poesia, cf. Plat. Resp. 332b-c (Simonide). Per altri esempi del concetto di enigma, cf. Plat. Resp. 479b-c; Aristot. Poe. 1458a
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Conclusa questa fase preliminare, il rito entra nel vivo: la figlia di Agamennone ordina che le venga consegnato il WHX FR con i liquidi da versare (Eur. IT 167-169). Due paremiaci olospondaici esauriscono il testo che accompagna l’azione prima della preghiera. Dalla parola all’azione e di nuovo alla parola. Nei vv. 170-177 Ifigenia rivolge ad Oreste una preghiera in Du-Stil: il destinatario è individuato attraverso una perifrasi che affida a un complemento l’informazione locativa (NDWD JDLYD) e a un aggettivo il dato genealogico ($JDPHPQRYQLRQ). Dopo un’indicazione di carattere performativo (WDYGHVRLSHYPSZ), viene formulata la richiesta che si limita al solo verbo GHY[DL: Ifigenia spera in un favorevole accoglimento delle offerte da parte del defunto. Con maggiore dettaglio viene sviluppata la motivazione, anzi le motivazioni: nelle due frasi contraddistinte dall’avverbio JDYU la figlia di Agamennone dapprima argomenta la sua richiesta constatando che non potrà onorare la tomba del fratello come si usa, deponendo sulla sua tomba una ciocca di capelli e versando lacrime; quindi giustifica questa mancanza con la sua lontananza dalla patria comune, Argo. La sorta di esilio in cui vive è aggravata dalla condizione di «morte apparente»146, in cui la giovane è costretta a causa dell’opinione dei Greci, convinti che lei sia caduta per mano del padre sull’altare di Artemide in Aulide. 7.1.1. Anomalie e originalità nella scena di libagione dell’Ifigenia fra i Tauri La scena di libagione presente nell’Ifigenia fra i Tauri può contare, in rapporto alle tragedie conservate, su due precedenti eschilei molto noti: l’uno nei Persiani e l’altro nelle Coefore. Ad un’analisi superficiale nelle tre rappresentazioni il rito si colloca all’interno di una trama narrativa sostanzialmente identica, in cui la visione di un sogno spaventoso induce all’offerta di una libagione che è fondamentale per il riconoscimento/ricongiungimento con un personaggio che imprime una svolta nella dinamica della vicenda: la visione notturna delle regine (Atossa e Clitennestra) giustifica l’offerta versata sulle tombe del re defunto (Dario e Agamennone), che ha una funzione apotropaica e propizia il ritorno del figlio (Serse e Oreste), fino a quel momento lontano dalla città dove è ambientata l’azione drammatica (Susa e Argo). Indipendentemente dalla successione lineare di questi tre momenti, Jouanna rileva alcune discrepanze fra le due tragedie di Eschilo: mentre nei Persiani sogno e libagione convergono sullo stesso personaggio (Atossa), nelle Coefore Clitennestra delega alla figlia Elettra il compito di portare le offerte sulla tomba del padre, nella speran26-30, Rhet. 1394b-1395a, 1405a-b 3-5, 1412a (che insistono sul rapporto tra enigma e metafora). 145 Inoltre, il riferimento all’acqua è implicito esclusivamente nell’unica forma verbale (Eur. IT 161 X-GUDLYQHLQ) da cui dipende l’elenco degli altri ingredienti della libagione: vd. De Poli 2011, p. 162. Strohm 1949, pp. 116-117, sottolinea il carattere lirico delle espressioni con cui viene presentata la libagione. La scelta espressiva di Euripide sembra legata alle tendenze manifestate dalla poesia del “nuovo ditirambo”: vd. infra, pp. 152-153. 146 Susanetti 2007, pp. 185-219.
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za che possano risultargli gradite. Ma questa prima anomalia prelude alla differenza più significativa: nella preghiera pronunciata dalla figlia di Agamennone, infatti, le intenzioni di Clitennestra vengono stravolte 147: la regina vorrebbe impedire il ritorno di Oreste, mentre Elettra chiede che ciò avvenga. E la richiesta sarà esaudita immediatamente. Nell’Ifigenia fra i Tauri sogno e libagione tornano a vedere come protagonista lo stesso personaggio, ma il meccanismo viene riletto nell’orizzonte di una tragedia “romanzesca”, fondata sugli equivoci. La libagione perde ogni funzione propiziatoria, dal momento che Ifigenia è convinta della morte di Oreste e a lui destina le sue offerte: il rito non rilancia l’azione aprendo nuove prospettive, ma sembra porre la donna di fronte a una condizione di aporia. Lo slittamento della figura di Oreste da plausibile oggetto della richiesta a beneficiario della libagione è la conseguenza di un fraintendimento, di una errata operazione onirocritica: «La drammaturgia […], giocando contro il personaggio, sposta le coordinate temporali del sogno dal passato di un antefatto inesistente al futuro della scena. Le visioni notturne sono la velata prolessi dell’azione che sta per accadere»148. Se lo sviluppo della vicenda euripidea comporta una sorta di hysteron proteron, ad un’analisi più attenta la trama non è pienamente lineare neppure nei due precedenti eschilei e nell’Elettra di Sofocle149. Se nelle Coefore fra il sogno di Clitennestra e la libagione sulla tomba di Agamennone si sviluppa la riflessione tra Elettra e il Coro sull’opportunità di eseguire la volontà della regina e da questa discussione si produce un sovvertimento delle finalità dell’offerta al defunto. Nei Persiani fra le paure suscitate della visione notturna e la celebrazione del rito interviene il messaggero con la notizia della disfatta subita dall’esercito persiano, che induce a trasformare preghiere apotropaiche (Aesch. Pers. 217 DLMWRX WZ QGDMSRWURSKQWHOHL Q) e di richiesta (Aesch. Pers. 220-223 SUHXPHQZ GDLMWRX WDYGHVRQSRYVLQ'DUHL RQSHYPSHLQGHPDXURX VTDL) in una mera evocazione del re defunto (Aesch. Pers. 620-621 WRYQWHGDLYPRQD'DUHL RQDMQDNDOHL VTH), secondo modalità proprie delle pratiche di necromanzia. In modo non dissimile, nella tragedia sofoclea l’incontro fra Ismene e Antigone imprime un cambiamento radicale fra le disposizioni date da Clitennestra e la libagione compiuta da una delle figlie. Nell’Ifigenia fra i Tauri, invece, l’intenzione manifestata all’inizio dalla protagonista (Eur. IT 61-64) non subisce alcuna deviazione fino al suo compimento; tuttavia, anche in questo caso non tutto procede in modo lineare: nel prologo, infatti, l’assenza iniziale del coro costringe Ifigenia a uscire di scena. Questa situazione si verificava già nei Persiani e permetteva alla regina una doppia entrata, intervallata solamente da un canto corale: la prima all’insegna del lusso, la seconda improntata al lutto. Euripide adotta un espediente simile con Vd. Jouanna 1992, pp. 50-51; Jouanna 1993, pp. 86-87. Susanetti 2007, pp. 195-196. 149 In quest’ultimo caso la libagione si compie fuori scena: a proposito della diversa spettacolarizzazione del rito della libagione nei tre tragici, vd. Jouanna 1992, pp. 50-53; Jouanna 1993, pp. 86-89. 147 148
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un fine diverso: il coro arriverà solo in seguito, insieme a Ifigenia; nel frattempo (Eur. IT 67-122) avanzano sulla scena, rimasta vuota, due personaggi che si scopre subito essere Pilade (Eur. IT 69) e Oreste (Eur. IT 71). Il pubblico viene così messo di fronte all’equivoco in cui la figlia di Agamennone è radicata, svelando l’hysteron proteron di cui la donna è vittima inconsapevole, e ciò trasforma il significato della libagione: il rito risulta svuotato della valenza religiosa ma sul piano teatrale rimane vitale150 ed anzi viene ulteriormente caricato. In tutti gli esempi tragici, la libagione si compie sulla tomba di un defunto, Dario o Agamennone: Ifigenia non può celebrare il rito presso la sepoltura di Oreste e versa le sue offerte direttamente sulla terra (Eur. IT 161). Di fronte al santuario di Artemide, la stessa dea alla quale Ifigenia era stata a sua volta immolata in Aulide, secondo l’opinione di tutta la Grecia. Una falsa credenza che la donna incarna e, inconsapevolmente, moltiplica riferendola alla sorte del fratello: colei che gli Argivi considerano morta (Eur. IT 176 GRNKYPDVLNHL PDLVIDFTHL VD), offrendo la libagione, tratta il fratello come chi non è più (Eur. IT 171 Z-ITLPHYQZL). Con il compimento del rito l’azione raggiunge un vertice tra il paradossale e il tragico: con questo gesto Ifigenia di fatto seppellisce l’ultimo pilastro della stirpe degli Atridi e, soprattutto, afferma inequivocabilmente la morte di Oreste, la morte di chi è ancora vivo e che nell’immediato seguito della vicenda drammatica rischia di essere ucciso proprio dalla sorella. Anche nella tragedia euripidea, come negli altri passi sia di Eschilo che di Sofocle, la scena di libagione è seguita da una svolta: forse meno spettacolare dell’apparizione del fantasma di Dario, certamente sorprendente come il ritrovamento presso la tomba di Agamennone di tracce che inducono a ipotizzare il ritorno, tanto atteso quanto insperato, di Oreste. Un pastore esorta Ifigenia a preparare l’occorrente per immolare una coppia di stranieri alla dea Artemide secondo il rito locale. Il messaggero riferisce il nome di uno di loro, Pilade, e il pubblico può facilmente intuire l’identità dell’altro. La sacerdotessa è a un passo dalla verità, come Crisotemi e la sorella Elettra nell’omonima opera sofoclea: la soluzione del problema sembra imminente. Tuttavia, l’ostinato radicamento in una precedente convinzione – la falsa notizia della morte di Oreste come la falsa interpretazione del sogno di Ifigenia – impedisce a lungo di vedere la realtà che si palesa davanti agli occhi dei personaggi. Nel caso particolare della tragedia di Euripide, la libagione suggella tale ferma opinione che solo a fatica sarà scardinata da alcuni sviluppi imprevisti della vicenda. 7.1.2. Attore e Coro nelle scene di libagione Le libagioni compiute all’interno dello spazio scenico prevedono sempre la partecipazione di un personaggio (Atossa, Elettra, Ifigenia) e del Coro: ciaVd. Jouanna 1992, pp. 53-54; Jouanna 1993, pp. 88-89. Nel regno dell’apparenza i personaggi possono addirittura «giocare con i riti» (Susanetti 2007, pp. 214-219): proprio insegnando un rito di purificazione, nel finale della tragedia Ifigenia riuscirà a fuggire dalla regione dei Tauri insieme a Oreste e Pilade.
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scuno ha un proprio ruolo sia nel momento della preparazione che nel momento dell’azione. Se Atossa ed Elettra durante la celebrazione del rito si atteggiano come vere sacerdotesse, assumono il ruolo di guida dettando agli altri partecipanti le modalità e i tempi opportuni, come vere sacerdotesse, e acquisiscono così una posizione preminente sulla scena, la loro «centralità» non è così «assoluta» come è stato affermato151. Nei Persiani la pratica necromantica prevede da una parte l’offerta di una libagione e dall’altra l’intonazione di «inni» e l’evocazione del «demone» di Dario: nella regia di questa scena Atossa riserva a sé la “azione” e affida al Coro la “parola” (Aesch. Pers. 619-622). Questa ripartizione dei compiti è ribadita dagli stessi anziani (Aesch. Pers. 623-627), che immediatamente si rivolgono alle divinità ctonie chiedendo l’apparizione del re defunto: il lungo corale (Aesch. Pers. 628-680), che coniuga sapientemente la componente celebrativa e la richiesta, esclude la regina dalla comunicazione verbale fino all’avvenuta manifestazione di Dario, al quale rivolgerà la parola per la prima volta nel v. 709 dopo uno scambio di battute tra l’eidolon e il Coro (Aesch. Pers. 681-708). Nelle Coefore l’equilibrata distribuzione dei ruoli in rapporto ad “azione” e “parola” si rompe: Elettra prega Ermes «ctonio» e invoca anche il padre morto chiedendo il ritorno di Oreste ad Argo (Aesch. Ch. 124-148)152; quindi procede a versare personalmente la libagione (Aesch. Ch. 149 WRLDL VG HMSHXMFDL WDYVGHMSLVSHYQGZFRDY), mentre il Coro è invitato a «incoronare» (Aesch. Ch. 150 HMSDQTLY]HLQ) il rito con lamenti celebrativi del defunto. Il QRYPR, secondo Elettra, riserverebbe alla voce collettiva una funzione complementare: la scena così costruita da Eschilo nelle Coefore presenta delle somiglianze con la descrizione del sacrificio compiuto da Nestore a favore di Atena (Hom. Od. III 450) e con quella della nekyia (Hom. Od. XI 46-47), almeno per quanto riguarda le grida delle donne di Pilo e le preghiere che i marinai di Odisseo rivolgono ad Ade e Persefone. Il diverso peso riconosciuto ai Cori nelle due opere eschilee dipende verosimilmente, almeno in parte, dalla loro identità, dal loro rapporto con il defunto e dal loro coinvolgimento rispetto alla richiesta 153. Nonostante la condizione di Elettra assomigli ampiamente a quella delle schiave frigie, nella figlia di Agamennone il desiderio di vendetta per il padre e di riscatto per sé e per Oreste poggia su motivazioni personali più forti, derivanti dall’appartenenza al genos. Diverso il caso degli anziani di Persia, compagni di giovinezza di Dario: la rovina di Serse non è limitata alla sfera personale ma interessa l’intero regno. In entrambi i casi, tuttavia, il Coro ha un ruolo importante nel gettare le basi per la celebrazione del rito: ad esso si rivolgono Atossa ed Elettra chiedendo consiglio, ora in merito all’interpretazione del sogno e ora a proposito delle parole più appropriate da accompagnare alla libagione. L’incontro tra personaggio Amendola 2006, p. 23. A proposito del problema testuale connesso alla trasposizione del v. 165 prima del v. 124, vd. Untersteiner 2002, p. 209; Citti 2006, p. 65 n. 39. 153 Sulla controversa questione relativa all’identità del Coro nelle Coefore, vd. Amendola 2006, pp. 34-42. 151 152
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e Coro può essere cercato (Atossa) oppure casuale (Elettra) ma gli sviluppi successivi dipendono direttamente dal loro dialogo, interrotto nei Persiani dall’arrivo di un messaggero. Nell’Ifigenia fra i Tauri la scena risulta, se possibile, più spettacolare e al contempo più grottesca154. La centralità della protagonista è accentuata, mentre si rompe la condivisione di intenti fra i partecipanti al rito, come evidenzia la drammaturgia a partire già dalle fasi preliminari della cerimonia. Nella rhesis prologica, introducendo la vicenda della tragedia, Ifigenia presenta il sogno notturno, ne fornisce l’interpretazione e manifesta l’intenzione di provvedere alla libagione in favore di Oreste: il Coro viene così esonerato da tutti i compiti di consigliere a cui era chiamato nei Persiani. Tutto è già deciso e tutto è pronto, o quasi: la donna, mostrandosi dinanzi al tempio di Artemide dove svolge le funzioni di sacerdotessa, doveva verosimilmente presentarsi vestita in modo consono al suo ruolo e alla cerimonia a cui si appresta. Ma con lei non c’è nessuno: le sue serve, le donne greche che Toante le ha concesso, tardano ad arrivare e costringono Ifigenia a rientrare nel santuario. Passando da consigliere a figura assente, il Coro perde la prerogativa di dare un indirizzo all’azione e diviene, al contrario, un ostacolo al compimento di quanto è previsto. L’inizio del rito è rinviato ma poco dopo, quando la sacerdotessa di Artemide torna con il Coro al suo seguito, esplode il canto (Eur. IT 123-235), che ruota attorno alla libagione. L’attacco è affidato alla stessa Ifigenia 155 che ammonisce gli altri partecipanti a esprimersi con riguardo alla circostanza solenne: nelle sue parole l’imperativo HXMIDPHL W(H), oltre ad essere una formula ricorrente in contesti sacrali, fornisce un parallelo con l’espressione usata da Atossa quando cede il testimone della “parola” al coro (Aesch. Pers. 620 X^PQRXHMSHXIKPHL WH). Attenendosi alle disposizioni, il coro delle serve greche risponde rivolgendo un’invocazione ad Artemide-Ditinna e, secondo un modulo non infrequente all’inizio della parodo156, annuncia il proprio ingresso. A differenza della regina persiana, però, Ifigenia fornisce indicazioni generiche alle serve che manifestano la loro sorpresa per la situazione in cui si trovano: esse, infatti, dichiarano di non conoscere le intenzioni di colei che le sta guidando né il motivo per cui sono state condotte davanti al tempio (Eur. IT 137138). Il loro sconcerto doveva trasparire, probabilmente, anche dalla scansione prosodica di questi due dimetri anapesti acataletti dove, a differenza dei cola precedenti, le sillabe lunghe si alternano in modo più regolare a quelle brevi, determinando anapesti “puri” o sequenze dattiliche157. Si assiste così a una falsa partenza del rito. Quando Ifigenia riprende la parola, esordisce con una 154 Per una ricostruzione della scena e in particolare sul ruolo del Coro, vd. Hose 1990, pp. 117-121. 155 Per l’attribuzione dei vv. 123-125 a Ifigenia, vd. Taplin 1977, p. 194 n. 3. Cf. Eur. Hipp. 5860. 156 Ad esempio, cf. Eur. Hec. 98 ss., El. 167 ss., Ph. 202 ss., Ba. 64 ss. 157 I vv. 126-136, come già i vv. 123-125, risultano costituiti da sequenze piuttosto regolari di sillabe lunghe: fa eccezione solo il v. 130 che tuttavia si caratterizza per l’incidenza di fenomeni di protrazione (vd. De Poli 2006).
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invocazione (Eur. IT 143 LMZGPZDLY) molto simile a quella che Elettra rivolge al Coro nelle Coefore (Aesch. Ch. 84 GPZLDLJXQDL NH) e descrive il suo stato di prostrazione (Eur. IT 144-150): GXVTUKQKYWRLZ-TUKYQRL H>JNHLPDLWD RXMNHXMPRXYVRX PROSD ERD QDMOXYURLHMOHYJRLDLMDL HMQNKGHLYRLRL>NWRLVLQ DL^PRLVXPEDLYQRXVD?WDL VXYJJRQRQD-PRQNDWDNODLRPHYQD ]ZD Giaccio tra lugubri lamenti, tra voci dolenti di un canto senza melodia, gridato – ah! – tra compianti funebri, gemendo per le sventure che mi accadono, per mio fratello, per la sua vita. La figlia di Agamennone traduce così in versi cantati quello che Atossa nei Persiani espone in trimetri giambici (Aesch. Pers. 603-606): HMPRLJDUK>GKSDYQWDPHQIRYERXSOHYD HMQR>PPDVLYQWDMQWDL DIDLYQHWDLTHZ Q ERD LGHMQZMVLNHYODGRRXMSDLZYQLR WRLYDNDNZ QH>NSOK[LHMNIREHL IUHYQD Infatti tutto, ormai, è per me colmo di paura. Appaiono ai miei occhi i segni avversi degli dei, risuona all’udito un grido che non reca salvezza. A tal punto un terrore evocato da mali spaventa l’animo. (trad. Belloni) Ma il Coro dell’Ifigenia fra i Tauri non è stato ancora informato del sogno avuto dalla figlia di Agamennone. Questo deficit di conoscenza è colmato solo in parte: la donna accenna a una visione notturna, senza fornire alcun dettaglio in merito, e lamenta la fine sua e della sua stirpe, conseguenza della morte di Oreste, fatto di cui si parla apertamente solo nei vv. 156-159. A questo punto il rito può avere finalmente inizio: come Atossa, anche Ifigenia elenca le offerte; quindi Ifigenia richiede l’assistenza di una serva, un personaggio muto, che le porge un SDYJFUXVRQWHX FR (Eur. IT 167-168); infine Ifigenia – probabilmente alzando il prezioso oggetto dal valore sacrale – rivolge la preghiera al fratello, così come Elettra aveva invocato l’aiuto del padre. L’eroina euripidea assomma su di sé le differenti funzioni svolte dai due personaggi eschilei, potenziando notevolmente la propria presenza scenica a scapito del Coro. Le serve greche, prigioniere dei Tauri, rimangono del tutto escluse dalla celebrazione del rito, private anche di quell’apporto ornamentale che Eschilo aveva riconosciuto alle schiave frigie nelle Coefore. Nel complesso la situazione evidenzia una mancanza di concertazione fra i partecipanti alla libagione, rimarcando la solitudine di Ifigenia. Anche Euripide fa cantare il Coro (Eur. IT 178-202), verosimilmente negli istanti in cui la figlia di Agamennone versa la libagione sulla terra, ma le parole delle serve – frutto di un sapiente patchwork di moduli 74
ed espressioni eschilei – non individuano né cercano un destinatario, di solito coincidente con il destinatario della libagione (Dario e Agamennone) 158. Piuttosto, sulla scia dell’autocommiserazione con cui si chiude la preghiera (Eur. IT 177 D-WODYPZQ), esse raccolgono i motivi tipici del lamento già utilizzati da Ifigenia all’inizio della monodia e li riprendono secondo il tradizionale procedimento antifonale, apertamente dichiarato in apertura (Eur. IT 178-185 DMQWL\DYOPRX ZMLGDY): Ifigenia (vv. 154-156) RXMNHL>VRL?NRLSDWUZ LRL RL>PRLIURX GRJHYQQD IHX IHX WZ Q$UJHLPRYFTZQ La casa paterna è dissolta, estinta, ahimè, la stirpe. Ah, che pene per Argo! Coro (vv. 186-190)159 RL>PRLWZ Q$WUHLGD QRL>NZQ H>UUHLIZ VNKYSWUZQRL>PRL SDWUZYLZQRL>NZQ NDLWZ QHXMRYOEZQ$UJHL EDVLOHYZQDMUFDY Ah, la casata degli Atridi! Tramonta, ahimè, lo scettro luminoso della casa paterna e il potere dei felici sovrani di Argo. In seguito, però, il Coro imprime al proprio canto una svolta in senso narrativo, iniziando a evocare la catena di fatti rovinosi che hanno segnato la stirpe degli Atridi e che costituiscono la premessa alle sventure lamentate da Ifigenia. Una funzione simile è affidata già al Coro dei Persiani, quando immagina la disperazione per la sconfitta e l’avventuroso ritorno in patria di Serse: gli anziani dedicano a questo argomento l’intero primo stasimo (Aesch. Pers. 532597), colmando il vuoto scenico successivo all’uscita di Atossa e creando un’atmosfera adatta al suo ritorno in vesti luttuose. Ma anche sul terreno della narrazione le serve dell’Ifigenia fra i Tauri cedono ben presto il passo alla protagonista: basta un accenno al suo destino (Eur. IT 201-202) e subito la figlia di Agamennone coglie l’occasione per una precisazione che offre il destro a una ricostruzione più puntuale della sua personale vicenda. Nella complessa parodo strutturata ad amebeo la figura di Ifigenia occupa una posizione preminente, sia come soggetto che come oggetto del canto. Cf. Aesch. Pers. 634 LMVRGDLYPZQEDVLOHXY, Ch. 153 RMORPHYQZLGHVSRYWDL. Il testo tràdito di questi versi risulta corrotto, come segnala Diggle (1981): SDWULYZQ (Mekler : SDWUZ LZQ L) RL>NZQ†WLYQHMNWZ QHXMRYOEZQ$UJHLEDVLOHYZQDMUFDY†. Si propone qui una ricostruzione che tiene conto in parte del testo èdito da Grégoire (1925): SDWUZYLZQRL>NZQ DMNWLYNDLWZ QHXMRYOEZQ$UJHLEDVLOHYZQDMUFDY.
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Euripide mette in risalto il rito della libagione, inserendolo all’interno del canto d’ingresso del Coro e anticipandolo rispetto alla posizione che esso occupa nelle due tragedie eschilee (fine del secondo episodio e secondo stasimo nei Persiani; primo episodio nelle Coefore), ma tutto ciò concorre ad amplificare la voce e l’immagine della singola eroina tragica. Se nei modelli precedenti il rito si carica di un significato e di una spettacolarità ulteriori legati agli sviluppi della vicenda, con l’apparizione del fantasma e il ritrovamento del ricciolo di capelli di Oreste, nella tragedia di Euripide il differimento dell’incontro tra Ifigenia e Oreste e il complicato processo di riconoscimento reciproco conferisce un significato specifico alla libagione per il defunto. Il rito crea una tensione emotiva che, incrementata dal proposito di sacrificare il GrecoOreste (Eur. IT 628-638), si scaricherà solo grazie alla simulazione della procedura di purificazione della vittima e del simulacro della dea nel finale della tragedia (Eur. IT 1222-1233, 1397-1405). La libagione, come le preghiere e gli inni nell’Ippolito, giocano così un ruolo fondamentale nella drammaturgia dell’Ifigenia fra i Tauri, creando una tensione che attraversa tutta l’opera.
8.
In margine alle preghiere presenti nelle monodie di Euripide
Diversi tipi, diversi contesti: la preghiera si inserisce con facilità e duttilità nelle monodie euripidee, conferendo al canto un’intonazione ora fortemente patetica, ora più solenne. In generale, contribuisce a enfatizzare la condizione di un personaggio – di solito la protagonista – spesso caratterizzata dalla solitudine e dalla sofferenza, concentrando l’attenzione del pubblico su questo aspetto. Ma la preghiera è utilizzata da Euripide anche con altre finalità drammaturgiche, connesse al rapporto tra il personaggio e la scena e, più in generale, allo sviluppo della vicenda. Come si è visto, la preghiera “di contestazione” di Ippolito e la libagione di Ifigenia contribuiscono a creare una tensione emotiva che attraversa tutta l’opera, dal prologo fino alla conclusione dell’esodo, ugualmente caratterizzato dall’intervento del deus ex machina. Ma, più in generale, la preghiera è funzionale anche ad altre dinamiche. 8.1. La preghiera e l’aprosdoketon scenico: Elena e Oreste Sul piano formale le parole che Elena rivolge alle Sirene e a Persefone non sfuggono alle logiche tradizionali della preghiera, eppure per alcuni aspetti questa monodia doveva risultare sorprendente al pubblico ateniese, e non solo per l’ossimorico accostamento in SDLD QDQHYNXVLQRMORPHYQRL (Eur. Hel. 178)160. Come ha ben argomentato Cerri, doveva suonare quanto meno insolito l’inserimento di questo tipo di preghiera in una tragedia: nelle opere a noi note sono pochissimi i casi in cui un personaggio o il coro invocano una divinità poetico-musicale con la richiesta di ispirare il loro discorso o il loro can160
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Vd. Kannicht 1969, pp. 70-71; Allan 2008, pp. 172-173.
to161. Inoltre, la tradizione, tanto poetica quanto iconografica, che lega le Sirene al mondo dei morti non basta da sola a giustificare l’assunzione di queste figure divine al posto delle Muse: Euripide sembra richiamarsi in modo più diretto al fr. 193 Page FUXVRYSWHUH SDUTHYQH162 di Stesicoro. Nel prologo dell’Elena il passaggio dal dialogo con Teucro al canto, e in particolare a questo tipo di canto, doveva apparire decisamente singolare, né potevano bastare i vv. 164-166 – versi dattilici cantati163 – a fungere da cerniera. È verosimile che Elena, rimasta sola, assumesse un atteggiamento ieratico: le sue parole rivolte in modo solenne alle Sirene e a Persefone dovevano instillare negli ascoltatori l’aspettativa di un canto grandioso. E il successivo ingresso del Coro avrebbe potuto tradurre nella realtà scenica la presenza delle Sirene o dei PRXVHL D inviati da Persefone. Simile è la situazione che si verifica nelle Nuvole di Aristofane, quando il Coro fa il suo ingresso a seguito della evocazione-preghiera pronunciata da Socrate: le Nuvole entrano cantando, si definiscono SDUTHYQRLRMPEURIRYURL (Ar. Nu. 298) e danzano, ignorando fino al v. 358 i personaggi presenti sulla scena. Anche nell’Elena euripidea l’arrivo del Coro è conseguenza della preghiera che l’eroina rivolge inizialmente alle SWHURIRYURLSDUTHYQRL (Eur. Hel. 167-168) e la sua presenza viene ignorata a lungo – il primo contatto fra Elena e il Coro avviene solo all’inizio della successiva monodia (Eur. Hel. 191)164 – ma quelle che entrano sono semplici schiave greche, prigioniere in Egitto, che trascorrono il tempo in occupazioni modeste, come lavandaie165: secondo un meccanismo drammaturgico comune ad altre tragedie166, nell’ambiente di luce e di colori in cui il Coro si rappresenta irrompe il grido di lamento di Elena. Giocando con soluzioni teatrali tradizionali e adottando una dinamica simile a quella proposta dalle Nuvole di Aristofane167, Euripide realizza una sorta di aprosdoketon scenico168, che produce un senso di frustrazione rispetto alle attese della protagonista. La traduzione sulla scena di questa figura retorica viene utilizzata ancora da Euripide almeno in un’altra tragedia, sfruttando sempre la preghiera come 161 Cerri 1984-1985, p. 173, sottolinea che questo tipo di preghiera «ricorre in un numero limitatissimo di casi, individuabili, fra l’altro, soltanto in drammi di Euripide». Cf. Eur. Tr. 511-514. Altri passi simili – Cerri segnala ad esempio Eur. HF 673-686, 791 – «non hanno la struttura formale dell’invocazione-protasi». 162 In merito all’identificazione della vergine invocata da Stesicoro e al rapporto tra la sua Palinodia e l’Elena di Euripide, vd. Cerri 1984-1985. 163 Per un’analisi metrica di questi versi, vd. De Poli 2011, pp. 198-200. 164 Vd. Mastronarde 1979, p. 22; Allan 2008, p. 173. 165 Per una ricostruzione generale e una lettura critica della scena di ingresso del Coro, vd. Hose 1990, pp. 95-100. 166 Ad esempio, cf. Aesch. PV 133 ss. (vd. Susanetti 2010, p. 168 n. 47); Soph. El. 121 ss.; Eur. Med. 131 ss., Tr. 153 ss. 167 Di norma è stata indagata la parodia tragica, soprattutto euripidea, nelle commedie di Aristofane: vd. Zimmermann 1985, pp. 3-35, 50-61. In questo caso si potrebbe ipotizzare un procedimento allusivo inverso, se si considera che le Nuvole furono rappresentate nel 423 e l’Elena nel 412. 168 Vd. Zimmermann 1984, p. 82.
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premessa169. Quella che Elettra nell’Oreste rivolge alla Notte occupa la prima parte della breve monodia corrispondente ai vv. 174-186: essa, infatti, è completata dal rimprovero rivolto alle donne del Coro per un rumore di passi (Eur. Or. 183 NWXYSRQ), che potrebbe risvegliare Oreste, e da un rinnovato monito al silenzio. L’aprosdoketon in questo caso è racchiuso entro i confini del canto a solo: lo scarto è dettato da un suono non verbale prodotto dal Coro ed è rimarcato dall’eroina presente in scena170. Fin dall’inizio l’ingresso delle donne argive si confronta con le raccomandazioni di non fare rumore (Eur. Or. 140 VL JDVL JD) e, nonostante qualche difficoltà, le diverse parti coinvolte sembrano trovare il giusto equilibrio sulla scena: la preghiera di Elettra potrebbe suggellare il conseguimento di questo risultato e concludere così la complessa struttura ad amebeo della parodo 171, ma l’incidente ne evidenzia la fragilità e la precarietà. Euripide sembra aver recuperato un espediente proposto da Sofocle nel corale del Filottete (Soph. Ph. 827-838), che comprende la preghiera al Sonno: la tragedia sofoclea era stata rappresentata l’anno precedente dell’Oreste172. La richiesta solenne di silenzio e tranquillità a beneficio del riposo di Oreste viene prontamente disattesa, probabilmente a causa di un movimento sbagliato del Coro. La conseguenza immediata è un rilancio del canto che prosegue fino al v. 207: dopo un nuovo scambio di battute fra le donne argive ed Elettra, una monodia (Eur. Or. 195-207) in responsione con la precedente sigla la conclusione definitiva della parodo. 8.2. L’aprosdoketon scenico nella monodia di Elettra: dalla preghiera alla parodo Seppure a partire da presupposti leggermente diversi, una sorta di aprosdoketon scenico si verifica già nell’Elettra, la tragedia che Euripide portò in scena probabilmente pochi anni prima dell’Elena173. La protagonista rivolge la proQuesto parallelo fra l’Elena e l’Oreste potrebbe costituire un argomento a sostegno dell’attribuzione a Elettra della preghiera alla Notte contro quanti (ad esempio Di Benedetto 1965, p. 41; Medda 2001, pp. 166-167 n. 27) sottolineano l’affinità di questo passo euripideo con la preghiera al Sonno cantata dal Coro nel Filottete sofocleo (Soph. Ph. 827-838). In merito alla controversa attribuzione dei vv. 174-186 dell’Oreste e, più in generale, alla loro interpretazione, vd. De Poli 2011, pp. 262-264. 170 La frattura interna alla monodia è al contempo semantica e metrica: il passaggio dalla preghiera al rimprovero, infatti, corrisponde alla transizione dai docmi ai kat’ enoplion. Per un’analisi più approfondita di questo fenomeno in rapporto anche ai vv. 827-838 del Filottete di Sofocle e alla monodia di Antigone nel prologo delle Fenicie, vd. De Poli 2012. 171 Langholf 1971, pp. 69-76, osserva che nelle tragedie di Euripide le preghiere si collocano all’inizio o alla fine di una parte strutturale del dramma oppure in corrispondenza con un punto culminante dell’azione rappresentata. 172 In merito alla datazione delle due tragedie e alla loro affinità, vd. Avezzù 2003, pp. 234, 244-245. Per un’interpretazione del passo sofocleo, vd. Avezzù 2000; Susanetti 2011, pp. 133134. 173 La datazione dell’Elettra euripidea è una questione ampiamente dibattuta: vd. Avezzù 2003, pp. 178-179. Se si accetta l’ipotesi maggiormente condivisa, il 413, la rappresentazione di questa tragedia precederebbe l’Elena di un solo anno. 169
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pria preghiera a Zeus alla fine di una triade strofica (strofe 1 – mesodo 1 – antistrofe 1): le sue parole chiudono l’antistrofe e sembrerebbero siglare la conclusione della monodia al culmine di un crescendo patetico. Nell’ultima parte del prologo, infatti, la figlia di Agamennone era rientrata in scena, di ritorno dalla fonte, portando una brocca di acqua sulla testa. Il canto a solo aveva assunto essenzialmente i toni del lamento: la giovane donna dapprima aveva rimarcato la propria miserabile condizione attuale, quindi aveva ricordato l’assassinio del padre e la lontananza del fratello. Nella preghiera l’anticipazione della richiesta, tanto rispetto all’invocazione quanto rispetto all’argomento, ne sottolinea l’urgenza e queste parole potrebbero ben collocarsi al vertice di una climax. Tuttavia, un gesto imprevisto dello stesso personaggio, un cambio di direzione e di intenzione, segna una svolta e dà nuovo slancio al lamento: Elettra decide di liberarsi della brocca e insiste per un’altra triade strofica (strofe 2 – mesodo 2 – antistrofe 2) nel rievocare in modo straziante la misera fine toccata al padre. Probabilmente, il recipiente per l’acqua veniva deposto a terra per concedere all’attore una maggiore libertà nei gesti e nei movimenti rispetto alla condizione iniziale e all’incedere che doveva caratterizzare la prima triade strofica, scandito dal ritmo cadenzato del refrain (Eur. El. 112-113 = 127-128)174. Gesti e movimenti cominciavano ad essere più marcati fin dal principio della nuova strofe, quando Elettra descrive i graffi sulla gola e le percosse sul capo (Eur. El. 146-149), e dovevano risultare particolarmente accentuati in corrispondenza del mesodo, quando la giovane donna si esorta a graffiarsi la testa175: le mani e la testa dovevano essere libere per consentire di esternare queste manifestazioni tipiche del lutto. Al culmine del dolore, Elettra doveva essere prostrata a terra e, probabilmente, colpiva con i pugni il suolo per chiamare il padre (Eur. El. 153 SDYWHUDILYOWDWRQ NDOHL ) e fargli sentire il suo lamento, non diversamente da Ecuba nell’esodo delle Troiane (Eur. Tr. 1305-1306): la stessa Elettra del resto compirà nuovamente questo gesto nel seguito della tragedia (Eur. El. 678), quando insieme ad Oreste implora la protezione di Agamennone e della Terra nell’imminenza della vendetta per l’assassinio del padre. Sia nella prima parte della monodia, che culmina nella preghiera a Zeus, sia nella seconda, in cui prevale la componente trenodica, Elettra è irrimediabilmente sola sulla scena. Anche l’imperativo THY (Eur. El. 140), come gli altri presenti nella monodia, ha la funzione di autoesortazione e non ha altro destinatario che la stessa eroina. La presenza muta di una serva al fianco, o anche al seguito, di Elettra fin dalla sua prima apparizione in scena nel prolo174 Il refrain corrisponde a una coppia di dimetri anapestici acataletti ma scandita dallo iato, sia alla fine di ciascun dimetro che all’interno del secondo dimetro in corrispondenza con la geminatio dell’imperativo H>PEDH>PED: vd. De Poli 2011, pp. 116-119. In questo refrain sono riconoscibili alcune caratteristiche dei canti di lavoro: vd. infra, pp. 128-130. 175 Cf. Eur. Tr. 279-280. Il capo rasato di Elettra era stato già notato da Oreste: HMQNHNDUPHYQZLNDYUDL (Eur. El. 108).
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go176 è improbabile: l’ostinazione con cui la donna, compiendo i lavori più poveri, si autoumilia per denunciare agli dei l’oltraggio subito da Egisto (Eur. El. 57-58) ne risulterebbe ridimensionata. Per lo stesso motivo appare poco plausibile l’ingresso di un’ancella proprio in corrispondenza del v. 140177: all’inizio della tragedia, fino all’incontro e al riconoscimento di Oreste, Elettra è sola con la sua miseria e con i suoi lamenti178. Si è obiettato che nei versi successivi della tragedia, fino a quando la donna rientra finalmente in casa «nearly three hundred lines later»179, manca qualsiasi riferimento al gesto con cui verrebbe recuperata la brocca; tuttavia si può ipotizzare che ciò avvenga o in corrispondenza con l’arrivo delle donne del Coro oppure verso la fine della stessa parodo, strutturata come amebeo, quando Elettra ricorda la sua emarginazione e la sua misera condizione (Eur. El. 207-209 DXMWDGHMQFHUQK VLGRYPRLQDLYZGZPDYWZQIXJDSDWULYZQ). Oppure, ancora, dopo la fine dichiarata dei lamenti per l’imprevisto arrivo di due stranieri, la brocca potrebbe essere raccolta nel frettoloso tentativo di rientrare in casa (Eur. El. 218-219): tale situazione giustificherebbe la mancanza di ogni specifica allusione al gesto. In ogni caso, l’aprosdoketon presente all’interno della monodia di Elettra, a differenza di quello riscontrato nel successivo Oreste, ruota attorno alla sola figura della protagonista ma, come nell’Elena, anche in questa tragedia assistiamo ad un ulteriore effetto sorprendente, prodotto dalla successione della monodia e del canto d’ingresso del Coro. Proprio nel momento in cui il lamento raggiunge punte patetiche particolarmente elevate, sia per la gestualità che per il contenuto – nella seconda antistrofe, la stanza conclusiva del canto a solo, Elettra rievoca il proditorio assassinio del padre da parte di Clitennestra e di Egisto –, arriva un gruppo di giovani donne argive che, invece di unirsi al dolore e al pianto dell’eroina, le portano la lieta notizia di una festa a cui parteciperanno tutte le ragazze della città. La gioia evocata dal Coro all’inizio della parodo è in evidente contrasto con le parole del lamento180 ma segna una 176 Questo è quanto si ricava dalle note sceniche che accompagnano il testo nella traduzione di Musso 1993, pp. 535, 541. 177 Questa eventualità, sostenuta da diversi studiosi, è stata ribadita nel commento di Cropp 1988, p. 109, e nella traduzione di Kovacs 1998, p. 165, come notazione scenica. 178 Vd. Fabbri 1995, p. 223 n. 30. In particolare si osserva che «è difficile che in un momento di assoluta solitudine scenica e psicologica, al culmine del patetico sfogo dei propri dolori, Elettra possa avere attenzione per una presenza scenica estranea e superflua». Utili osservazioni, anche a proposito della presunta incoerenza fra l’imperativo di seconda persona THY e l’aggettivo possessivo di prima persona HMPD , sono già in Donzelli 1978, pp. 288-297, secondo la quale «ogni altra presenza è un’intrusione nella logica del momento drammatico» (p. 293). 179 Cropp 1988, p. 109. 180 Zeitlin 1970, p. 647, osserva che «the initial encounter between the chorus and Electra is a skillful deployment of contrasts and ironies». La studiosa rileva la distanza fra il lusso delle vesti e degli ornamenti legati alla festa (Eur. El. 191-193) e l’abbigliamento e l’aspetto di Elettra. La dimensione comunitaria in cui si collocano le celebrazioni in onore di Era si contrappone all’orizzonte privato che contraddistingue il lamento, né deve essere trascurato che questa dea è legata al matrimonio e alla vita coniugale stabile, condizioni inconciliabili con il TDQDYVLPRJDYPR (Eur. El. 247) di Elettra: insomma, «everything the festival of Hera at Argos
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svolta imprevista anche rispetto alla preghiera che la figlia di Agamennone aveva rivolto a Zeus. A lui Elettra aveva chiesto aiuto, implorandolo di giungere come suo liberatore e come vendicatore del padre «facendo approdare ad Argo il passo errabondo»; per tutta risposta, invece, fanno il loro ingresso in scena alcune coetanee della stessa Elettra, circostanza che sembra avvalorare le rimostranze della figlia di Agamennone nei confronti degli dei, indifferenti alle sue preghiere e all’assassinio di suo padre (Eur. El. 198-200). A loro volta, però, le donne del coro portano l’annuncio che «qualcuno» è arrivato: un Miceneo «che vaga per i monti». Un dettaglio, forse, non casuale per un personaggio che rimane nel vago ma da cui proviene la notizia della festa indetta in onore di Era. Come è stato notato, le parole dell’incipit della parodo (Eur. El. 169-170 H>PROHYWLH>PROHQJDODNWRSRYWDDMQKYU0XNKQDL RRMUHLEDYWD) sono riprese quasi alla lettera nel breve canto corale che suggella il ritorno di Oreste (Eur. El. 585 H>PROHH>PROHZ>FURYQLRD-PHYUD): se le celebrazioni rituali di Argo assumono un significato particolare all’interno di questa tragedia e si intrecciano con la vendetta compiuta ai danni di Egisto e Clitennestra 181, la notizia portata da un imprecisato montanaro vagabondo – qualificato in modo simile per alcuni aspetti al dio invocato da Elettra e per altri a suo fratello – ha dei risvolti quasi profetici.
represents […] seems wholly inappropriate to Electra’s sensibilities» (p. 651). A proposito degli echi di canti nuziali nella monodia di Elettra, vd. infra, pp. 123-126. 181 Vd. Zeitlin 1970, pp. 651-669.
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INNI AGLI DEI 1.
L’inno: caratteristiche generali
Le numerose indagini condotte in merito alla ricorrenza del termine X^PQR nelle opere degli autori antichi1 vi hanno riconosciuto un significato generico: esso era utilizzato per designare forme poetiche cantate con caratteristiche diverse e non necessariamente rivolte agli dei. Le sue attestazioni sono dunque di scarso aiuto e risultano talvolta fuorvianti per l’individuazione di quello che oggi viene comunemente riconosciuto come “inno”: la nostra prospettiva su questo particolare componimento è legata alla definizione proposta da Platone (Plat. Leg. 700b HXMFDLSURTHRXY)2 e alla prassi degli alessandrini che raccolsero sotto tale denominazione i canti destinati agli dei3. Se si parte da questo presupposto e si analizza l’inno come una forma di discorso4, la sua differenza rispetto alla preghiera risulta tutt’altro che evidente5: tale ambiguità, del resto, era già insita nel passo platonico delle Leggi. Per definire l’inno, gli studiosi moderni hanno insistito sulla sua particolare cura formale, sulla complessa combinazione di elementi legati alla sua esecuzione ma non sono riusciti a individuare un aspetto capace di dirimere veramente la questione. Né la distinzione fra inno e preghiera può essere liquidata semplicemente sulla base della contrapposizione fra canto e recitazione6. Si potrebbe 1 Vd. Jouanna 2007 (in particolare sulle ricorrenze del termine in Sofocle); Furley – Bremer 2001, I, pp. 8-14; La Bua 1999, pp. 7-35; Bernardini 1991, pp. 85-87 (in particolare nei poeti lirici Simonide, Pindaro e Bacchilide); Pavese 1991, pp. 156-159; Calame 1977, pp. 145-147; Smyth 1977a. 2 Cf. Plat. Leg. 801e, Resp. 607a, Symp. 177a. Da questi passi risulta chiara la distinzione fra inno ed encomio in rapporto al diverso destinatario, da una parte gli dei e dall’altra uomini valorosi o «demoni». Ma il filosofo all’interno della sua opera non è sempre rigoroso nei riferimenti a inni ed encomi: vd. Chapot – Laurot 2001, pp. 9-10, 16-18; La Bua 1999, pp. 2124. 3 Vd. Furley – Bremer 2001, I, p. 11; Bernardini 1991, p. 86. 4 Vd. Furley – Bremer 2001, I, pp. 1-4. 5 A questo proposito è interessante notare che anche Chapot – Laurot 2001 includono nel loro corpus di “preghiere” diversi testi di varia natura (epica, lirica, drammatica), che essi stessi designano come «hymne»: limitando le considerazioni all’opera euripidea, vi si trovano, ad esempio, i vv. 64-168 delle Baccanti sotto il titolo di «hymne à Dionysos et béatitude de l’initié» (p. 135), versi che non sono neppure contemplati da Furley – Bremer 2001, I, p. 312, nell’elenco dei principali passi innici presenti nelle tragedie di Euripide; diversamente, della monodia di Ione, presente nel prologo dell’omonimo dramma, Chapot – Laurot 2001 selezionano i vv. 125-143 e li designano come «prière d’Ion à Apollon» (p. 130), mentre Furley – Bremer 2001, I, pp. 320-324, considerano complessivamente i vv. 112-153 tra gli inni presenti nello Ione. 6 Furley – Bremer 2001, I, p. 3: «Simply to say that prayers are spoken and hymns are sung […] will do not». In precedenza questa distinzione era stata proposta da Aubriot-Sévin 1992, pp. 174-177. Tornando sull’argomento, anche Furley 2007, pp. 118-119, ha riconosciuto alla componente musicale un’importanza significativa ma si dice persuaso che «hymns are distinguished from prayers not only by these formal aspects […] but also by their desire to
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ipotizzare che ciò valesse nelle pratiche religiose reali e non nelle situazioni fittizie, come quelle proposte dalle rappresentazioni teatrali (tragiche, comiche o satiresche), ma le implicazioni di questa premessa risultano inaccettabili: infatti, ogni “discorso agli dei” presente nei canti, corali o monodici, eseguiti sulla scena dovrebbe essere considerato come un inno e verrebbe esclusa a priori la possibilità di riscontrarvi delle preghiere. L’evidenza è diversa. Sicuramente le scelte espressive, la metrica e l’andamento ritmico del testo, la partitura musicale, la danza, opportunamente combinati insieme, erano elementi fondamentali per un inno ma ciò si spiega solo alla luce della specifica funzione assolta di norma da questo discorso rivolto agli dei e condivisa dall’orante, se non nelle sue intenzioni ultime, almeno in apparenza: la richiesta è componente indispensabile della preghiera, mentre è assente o marginale nell’inno, canto che privilegia, piuttosto, le componenti intese a celebrare le divinità e a consolidare il proprio rapporto con loro7. Nelle testimonianze più antiche gli inni venivano designati con nomi diversi, in funzione ora della divinità a cui erano rivolti (ad esempio, peana o ditirambo), ora dell’occasione in cui venivano eseguiti (ad esempio, oscoforico o dafneforico). Per cercare di mettere ordine in una realtà tanto complessa e diversificata – ma probabilmente chiara agli antichi greci – si può adottare una prima distinzione che risale a un’epoca tarda (V sec. d.C.) ed è nota per via indiretta (ap. Phot. Bibl. 320 a 18-20), che pone come fattore discriminante lo strumento che accompagnava il canto e il contesto in cui esso veniva eseguito. Proclo nella sua Crestomazia chiamava inno «vero e proprio» (NXULYZ) quello che veniva accompagnato da una kithara in presenza di un coro non necessariamente immobile ma certamente non impegnato in movimenti processionali (H-VWZYWZQ). Il canto eseguito durante la processione e accompagnato dall’aulos veniva indicato, invece, con il nome di prosodio8.
please through artistic merit. This is a functional distinction. A prayer might be carefully formulated to convey a message as persuasively as possible to the god, but the Greeks probably did not envisage the god being particularly pleased to receive the prayer». 7 Vd. Pulleyn 1997, pp. 49-51. Sulla questione, Furley – Bremer 2001, I, p. 4, concludono che «we must content ourselves with recognizing complementary forms of religious discourse here, with a greater emphasis in the case of hymns on the attributes of song and dance, in short, performance on the part of the worshipper(s)». Questa distinzione funzionale fra preghiera e inno è implicita anche in Chapot – Laurot 2001, p. 8, che analizzano la complessità di elementi che caratterizza questi discorsi rivolti agli dei e come loro «objet» segnalano «une demande le plus souvent, ou l’éloge dans le cas d’un hymne», 8 Vd. Furley – Bremer 2001, I, pp. 11-12. Sull’inno citarodico, vd. Bernardini 1991; Gostoli 1991. Sul prosodio, vd. Grandolini 1987-1988; Grandolini 1991; Smyth 1977b. Sulla poesia citarodica con particolare riguardo alla produzione di Terpandro, vd. Gostoli 1990, pp. XVXLVIII. La distinzione che Fozio attribuisce a Proclo è proposta – identica quasi alla lettera – dall’Etymologicum Magnum 690.33, che la collega a Didimo: vd. Grandolini 1987-1988, pp. 4042.
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Sia l’inno citarodico che il prosodio, d’altra parte, erano legati a cerimonie rituali9 collettive ed erano quindi espressione del sentimento religioso di un’intera comunità o, comunque, di un gruppo definito di persone: a differenza di quanto poteva accadere con la preghiera, dunque, a questi canti non veniva affidato di norma il compito di veicolare un discorso strettamente privato tra il devoto e la divinità. Ciò non ha alcuna implicazione per quanto riguarda le modalità di esecuzione e resta per molti aspetti incerta la possibilità di stabilire se si trattava di canti corali o monodici, né si può escludere che in determinate circostanze fosse possibile l’alternanza fra un solista e un coro 10.
2.
L’inno citarodico: la struttura del canto
La tradizione riconosce a Terpandro il merito di aver strutturato il nomos citarodico in sette parti: archa, metarcha, katatropa, metakatatropa, omphalos, sphragis, epilogos. Per molti aspetti l’informazione riferita da Polluce (Pollux Onom. 4.66) è stata messa in discussione dagli studiosi moderni: in merito all’ordine delle componenti, alla data di questa sistematizzazione e alla sua paternità, in merito al loro legame con il tessuto metrico e con il contenuto del testo. Ammettendo un tale schema, è possibile che alcune sezioni fossero fra loro in responsione (ad esempio, archa e metarcha oppure katatropa e metakatatropa) ma alcune sezioni non lasciano presumere una composizione per coppie strofiche ed è probabile che il canto nel suo complesso avesse una struttura essenzialmente astrofica11. I dubbi e le incertezze che avvolgono la partizione tradizionale del nomos citarodico hanno indotto gli studiosi moderni a preferire per l’analisi degli inni – quelli accompagnati dalla cetra, ma non solo – uno schema tripartito, simile a quello della preghiera, ricavato dall’osservazione empirica dei testi e comune a molti di essi12. L’inizio del canto è occupato dall’invocazione (1) alla divinità o alle divinità: le caratteristiche di questa sezione sono molto simili a quelle dell’analoga sezione della preghiera (epiteti, attributi, genealogia, localizzazione sul piano dei contenuti; frasi relative e participiali sul piano sintattico). Strettamente collegata alla precedente, la parte centrale è dedicata all’eu-
9 Si tralascia il caso degli inni citarodici di solito indicati come “proemi”, che servivano a introdurre l’esecuzione della poesia epica citarodica: vd. Gostoli 1991, pp. 96-97, 102-105, e Gostoli 1990, pp. XXIX-XXXVII. 10 Sulla questione dell’esecuzione monodica o corale e delle diverse possibilità, vd. Furley – Bremer 2001, I, pp. 25-28. A proposito dell’inno citarodico, Bernardini 1991, pp. 87, 91-94, porta alcuni argomenti a sostegno di un’esecuzione corale. Al contrario, Gostoli 1991, p. 95, definisce la citarodia come il «canto a solo di un aedo intonato sulla cetra», pur ammettendo la presenza occasionale di «un coro muto che esegue figure di danza». Corale risulta l’esecuzione del prosodio sulla base delle informazioni raccolte da Grandolini 1987-1988, pp. 37-40, 49-50. 11 Vd. Gostoli 1990, pp. XXIII-XXV; Gostoli 1991, pp. 98-100. 12 Vd. Furley – Bremer 2001, I, pp. 50-64.
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logia (2), alla celebrazione vera e propria del dio o degli dei: il poeta poteva qui ricordare una o più imprese o iniziative che ne mettessero in evidenza i meriti. Alla fine, dopo aver richiamato l’invocazione al destinatario dell’inno, venivano pronunciate alcune formule di congedo (3), che facevano appello alla charis o al benevole sostegno da parte della divinità 13. Questa struttura poteva essere talora preceduta da una sorta di “proemio” (0), costituito da un’esortazione a cantare o da una riflessione sull’inno da intonare14. 2.1. Ione 859-922 (monodia di Creusa): l’inno rovesciato Creusa era stata violentata da Apollo prima del matrimonio, in seguito a quello stupro aveva partorito un figlio che aveva abbandonato, affidandolo al dio, e ora lo crede morto. Sulla base di un oracolo del dio di Delfi, Xuto è convinto che Ione sia suo figlio, concepito in preda all’euforia del vino e nato fuori dal matrimonio, e intende riconoscerlo pubblicamente. L’anziano servitore sostiene che Creusa è stata tradita consapevolmente dal marito e la collera della legittima erede del regno di Atene, doppiamente umiliata da Apollo e anche da Xuto, si scaglia allora contro il dio con queste parole: Z?\XFDYSZ VLJDYVZB SZ GHVNRWLYDDMQDIKYQZ HXMQDYDLMGRX GDMSROHLITZ B WLYJDUHMPSRYGLRQNZYOXPH>WLPRLB SURWLYQDMJZ QDWLTHYPHVTDMUHWK B RXMSRYVLK-PZ QSURGRYWKJHYJRQHQB VWHYURPDLGRL>NZQVWHYURPDLSDLYGZQ IURX GDLGHMOSLYGHD`GLDTHYVTDL FUKYL]RXVDNDOZ RXMNHMGXQKYTKQ VLJZ VDJDYPRX VLJZ VDWRYNRXSROXNODXYWRX DMOORXMWR'LRSROXYDVWURQH^GR NDLWKQHMSHMPRL VNRSHYORLVLTHDQ OLYPQKWHMQXYGURX7ULWZQLDYGR SRYWQLDQDMNWKYQ RXMNHYWLNUXY\ZOHYFRZ-VWHYUQZQ DMSRQKVDPHYQKU-DYLZQH>VRPDL VWDY]RXVLNRYUDLGDNUXYRLVLQHMPDLY \XFKGDMOJHL NDNRERXOHXTHL V Quest’ultima parte da sola presenta molte affinità con la preghiera, al punto che come tale è indicato da Furley – Bremer 2001, I, pp. 60-63. 14 Questa sorta di proemio non deve essere confuso con i “proemi” epici e citarodici di cui parla la tradizione e che sono testimoniati, ad esempio, dai cosiddetti Inni omerici e da alcuni frammenti di Terpandro. Una riflessione metaletteraria introduttiva è attestata anche nell’ambito dei prosodi (Pind. fr. 89a Maehler, conservato da schol. in Ar. Eq. 1264b e da Suda, Lexicon s.v. SURVRYGLD, 2757 Adler). I prosodi, del resto, dovevano condividere con gli inni diversi aspetti strutturali (il richiamo circolare tra invocazione iniziale e congedo finale e forse una parte narrativa) e contenuti (ad esempio, la preghiera e forse la presenza del mito): vd. Grandolini 1987-1988, pp. 35-36; Grandolini 1991, pp. 125-132. 13
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H>NWDMQTUZYSZQH>NWDMTDQDYWZQ RX`DMSRGHLY[Z OHYNWUZQSURGRYWDDMFDULYVWRX Z?WD HMSWDITRYJJRXPHYOSZQ NLTDYUDHMQRSDYQD^WDMJUDXYORL NHUDYVLQHMQDM\XYFRLDMFHL PRXVD QX^PQRXHXMDFKYWRX VRLPRPIDYQZ?/DWRX SDL SURWDYQGDXMJDQDXMGDYVZ K?OTHYPRLFUXVZ LFDLYWDQ PDUPDLYUZQHX?WHMNRYOSRX NURYNHDSHYWDODIDYUHVLQH>GUHSRQ DMQTLY]HLQFUXVDQWDXJK OHXNRL GHMPIXNDUSRL FHLUZ QHLMD>QWURXNRLYWD NUDXJDQ:PD WHYUPDXMGZ VDQ THRR-PHXQHYWD D?JHDMQDLGHLYDL .XYSULGLFDYULQSUDYVVZQ WLYNWZGD-GXYVWDQRYVRL NRX URQWRQIULYNDLPDWUR HLMHXMQDQEDYOOZWDQVDYQ L^QDPHOHYFHVLPHOHYDQPHOHYRL HM]HXY[ZWDQGXYVWDQRQ RL>PRLPRLNDLQX QH>UUHL SWDQRL D-USDVTHLTRLYQD SDL PRLNDLVRYWOD PZQ VXGHNLTDYUDLNODY]HL SDLD QDPHYOSZQ ZMKYWRQ/DWRX DXMGZ R`RMPIDQNOKURL SURFUXVHYRXTDYNRX NDLJDLYDPHVVKYUHLH^GUD HMRX_DXMGDQNDUXY[Z LMZNDNRHXMQDYWZU R`WZ LPHQHMPZ LQXPIHXYWDL FDYULQRXMSURODEZQ SDL GHLMRL>NRXRLMNLY]HL R-GHMPRJHQHYWDNDLVRYDMPDTKY RLMZQRL H>UUHLVXODTHLY VSDYUJDQDPDWHYURHM[DOODY[D PLVHL VD-'D ORNDLGDYIQD H>UQHDIRLYQLNDSDUD-EURNRYPDQ H>QTDORFHXYPDWDVHYPQHMORFHXYVDWR /DWZ'LYRLVLYVHNDYSRL Mio cuore, come posso tacere? Eppure, come posso svelare uno stupro nascosto, mettendo da parte ogni ritegno? Quale ostacolo ancora mi trattiene? A chi devo dar prova di virtù? Al mio sposo? Lui mi ha tradito. Non ho più famiglia, non ho più figli. Le mie speranze, svanite nel nulla: ho cercato di dare loro un esito felice, ma non ci sono 87
riuscita. Ho taciuto. Ho taciuto l’amplesso e il figlio partorito, per il quale ho pianto molto. Ma ora basta! Mi siano testimoni il seggio sacro di Zeus, contornato di astri, la dea che, vigile, domina su di me, la santa riva del lago Tritonio, ricco di acque: non terrò più segreto l’incontro amoroso. Libera dal peso che porto nel petto, sarò sollevata. Le mie pupille stillano di pianto, il mio cuore, vittima delle insidie degli uomini e degli dei, è in pena. Io lo dimostrerò: con me entrambi sono stati amanti traditori e irriconoscenti. O tu che levi la tua voce al canto sulle note della cetra eptacorde, che nelle corna agresti senza vita fa risuonare gli inni melodiosi delle Muse, o figlio di Latona, a te qui apertamente griderò la mia accusa. A me sei venuto con la tua chioma d’oro, d’oro splendente, mentre raccoglievo dei petali nel grembo per ornare la veste, fulvi e luccicanti d’oro. Mi hai afferrato per il palmo candido delle mani, con forza io gridai «Oh madre mia», mentre tu, un dio, mi spingevi nel giaciglio di una grotta e con me condividevi il tuo letto e senza alcuna vergogna facevi cosa gradita alla dea dell’amore. Io, sventurata, do alla luce tuo figlio: con materno raccapriccio lo getto nel tuo letto, là dove ti sei unito a me, infelice, in un infelice amplesso amoroso. Che sventura! Ah, ahimè! Ed ora è andato perduto, ghermito come preda dagli uccelli, quel figlio ch’io ebbi (e che era anche tuo), povero! Intanto, tu suoni la cetra e intoni lieti canti. Ehi! A te io parlo, al figlio di Latona, a te che annunci le tue profezie, e al trono d’oro mi rivolgo e al seggio che è posto al centro della terra: farò ben udire la mia voce. Ah, maledetto amante! Tu che dal mio sposo non hai ricevuto piacere alcuno, hai assegnato alla sua casa un figlio; invece il figlio mio – figlio anche tuo – senza nome, è andato perduto, sciolto dalle bende materne e rapito dagli uccelli. Delo ti odia. E odia i germogli dell’alloro che cresce presso la palma dalla molle chioma, dove Latona, in giardini divini, ha partorito te, augusto parto. Nel cuore del terzo episodio, quasi nel centro della tragedia, l’indignazione di Creusa esplode in un canto accuratamente strutturato15. All’inizio tre paremiaci melici (Eur. Ion 859-861), interamente realizzati da sillabe lunghe, fungono da solenne “proemio”: la donna si interroga sull’opportunità delle parole con le quali si accinge a rivelare per la prima volta lo stupro subito da Apollo. I fatti verranno chiariti nei dettagli solo in seguito, nel corso di una serrata sticomitia con l’anziano servitore, ma la monodia apre la strada allo svelamento dell’inconfessato segreto. Gli interrogativi di Creusa non sono estranei alla lexis tragica: poco prima espressioni molto simili avevano denunciato La Rue 1963 offre un’analisi strutturale della monodia di Creusa su base essenzialmente tematica. In particolare, con una singolare tripartizione del brano, distingue: 1) un’introduzione alla condanna del dio (Eur. Ion 859-880), scandita in un momento di iniziale incertezza (Eur. Ion 859-869), superato dalla deliberazione di vendicarsi di chi l’ha tradita (Eur. Ion 870880); 2) l’accusa nei confronti di Apollo (Eur. Ion 881-906), espressa in forma di inno, nella quale distingue il ricordo dello stupro (Eur. Ion 881-896) e la paternità del dio (Eur. Ion 897904 [probabilmente un errore per 906]); 3) una nuova invocazione e, a partire dal v. 912, una riformulazione dell’accusa, in tutto simile a una maledizione (Eur. Ion 907-922).
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l’imbarazzo delle donne del Coro nel riferire alla padrona le novità legate a Xuto e a Ione (Eur. Ion 756-758 WLYGUZ PHQBHL>SZPHQK@VLJZ PHQK@WLYGUDYVRPHQB); altrove segnalano ora la disperazione di Fedra in seguito alle parole sdegnate e sprezzanti di Ippolito (Eur. Hipp. 674 SZ GH SK PDNUXY\ZILYODLB), ora la disperazione di un’Ecuba che lamenta il baratro in cui è caduta (Eur. Tr. 110-111 WLYPHFUKVLJD QBWLYGHPKVLJD QBWLYGHTUKQK VDLB)16. Nel caso di Creusa, tuttavia, i motivi del racconto rivelatore e, insieme, del lamento non vengono affidati alle forme tradizionali del discorso (sticomitia o rhesis) o del threnos, bensì a un canto che utilizza le forme celebrative dell’inno per rinfacciare al dio le sue colpe e maledirlo. La notizia che la donna sta per svelare – la propria maternità – non può essere liquidata con poche parole di esitazione: la dignità e il pudore della figlia di Eretteo non si lasciano vincere tanto facilmente17. Perciò fra questi primi tre versi cantati e la monodia vera e propria Euripide inserisce una sequenza di anapesti eseguiti in recitativo (Eur. Ion 862-880): quella struttura che spesso viene utilizzata come preludio al canto a solo (Eur. Hipp. 13471369, Hec. 59-67, Tr. 98-121, Ion 82-111) serve qui da strumento di amplificazione, autentica cassa di risonanza per il tormento interiore di un’eroina, di una donna che si considera sedotta e abbandonata18. Secondo lo schema tradizionale, l’esordio dell’inno in Du-Stil è affidato all’invocazione (Eur. Ion 881-886). Creusa utilizza motivi e formule consuete: nei due appelli (Z?Z?) vengono richiamati prima il legame di Apollo con la kithara, attributo tipico del dio, e poi la sua genealogia, in quanto figlio di Latona. La frase participiale (PHYOSZQ) esplicita la funzione di Apollo come cantore che si accompagna al suono della kithara, mentre lo strumento viene descritto attraverso una frase relativa (D^WDMFHL ). Questa presentazione è impreziosita da alcuni aggettivi composti, che indugiano sull’abilità musicale del dio, impegnato a suonare una kithara dalle sette corde (H-SWDITRYJJRX) e capace di ricavare da corna inanimate (NHUDYVLQHMQDM\XYFRL) un canto armonioso (PRXVD QX^PQRXHXMDFKYWRX)19. Il dettato torna ad essere scandito da sequenze di sillabe quasi esclusivamente lunghe, ma nelle parole di Creusa la grazia nasconde un’altra realtà, molto più cupa. Non solo la melodia è prodotSchirripa 2001, pp. 156-157: «Il dilemma tra tacere e sfogare il dolore non è inconsueto tra i tragici […] e diviene molto spesso il motore primario della narrazione, l’avvio del racconto; vincere il silenzio significa scegliere di continuare la realtà scenica, far vivere la parola tragica». 17 In precedenza, nel corso del primo episodio, la donna aveva raccontato la sua vicenda a Ione come se fosse accaduta a un’amica. Il pubblico, però, è al corrente dei fatti fin dall’inizio grazie al resoconto presentato da Ermes nella prima parte del prologo. 18 Diversamente da Furley – Bremer 2001, I, pp. 326-328, e II, pp. 315-319, che fanno iniziare l’inno a partire dal v. 881, qui si considerano parte integrante della struttura innica anche i vv. 859-861 che sembrano avere una funzione equivalente alla «opening exhortation to sing the hymn which follows» – in particolare nella forma di un’autoesortazione – su cui richiamano l’attenzione gli stessi studiosi (vd. Furley – Bremer 2001, I, pp. 51-52). 19 In un canto celebrativo destinato ad Afrodite, lo stesso aggettivo è riferito alla distesa marina sulla quale la dea domina in volo: Eur. Hipp. 1272. 16
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ta da uno strumento fatto di materiale umile (DMJUDXYORLNHUDYVLQ)20, ma la stessa kithara viene descritta impropriamente come ricavata da corna che erano utilizzate in origine per la costruzione di un altro strumento musicale, la lyra, e il suono che essa produce è simile al grido di un lamento (HMQRSDYQ)21. Nulla è come sembra o come dovrebbe essere: la verità è diversa22. Dopo che il Coro aveva riferito la notizia della presunta paternità di Xuto, l’anziano servitore aveva insistito sulle trame ordite dal marito ai danni di Creusa, mentre Apollo era stato riscattato dall’accusa di menzogna (Eur. Ion 825). La vittima dello stupro ha un’altra versione dei fatti da raccontare e il tono è tutt’altro che dimesso e benevolo. Nell’annunciare il suo canto, la donna non usa formule di saluto (Eur. Hipp. 64 FDL UH) o di supplica (Eur. Ion 454 L-NHWHXYZ; Pind. fr. 52f.3 Maehler OLYVVRPDL), né chiede semplicemente di essere ascoltata (Aesch. Suppl. 79 NOXYHW[H], 527 SLYTRX, Eu. 323 NOX T[L]), come avviene spesso anche nelle preghiere; il verbo performativo che sottolinea il ruolo attivo di chi intona l’inno non denota l’ufficialità consueta in simili circostanze (Eur. Ba. 70-71 'LRYQXVRQX-PQKYVZ; Pind. fr. 29.7 Maehler X-PQKYVRPHQ) né il rispetto dovuto alla divinità (per SURVHQQHYSZ, cf. Aesch. Ag. 162; Soph. Ai. 856-857; Eur. Hipp. 99; oppure per NDOZ , cf. Soph. Ai. 831, 835), ma il grido, l’atteggiamento quasi sfrontato di chi soffre e non bada agli eufemismi (DXMGDYVZ: cf. Eur. Ion 893)23. Il canto non intende celebrare ma biasimare (PRPIDYQ) e il bersaglio principale è proprio Apollo, a cui Creusa si rivolge direttamente (VRL) con singolare confidenza, come in un rapporto di familiarità24. Vd. Furley – Bremer 2001, II, p. 317. Vd. Mirto 2009, p. 288. Euripide usa ancora HMQRSKY per descrivere la voce lamentosa di Elettra, ignorata dagli dei (Eur. El. 198-199 RXMGHLTHZ QHMQRSDNOXYHLWD GXVGDLYPRQD), e nella stessa tragedia Castore usa questo termine in relazione agli oracoli di Apollo (Eur. El. 1302 )RLYERXWD>VRIRLJOZYVVKHMQRSDLY). Cf. anche Eur. fr. 753c.13 Kannicht )RLYERXGHMQRSDY. Per l’associazione di questo termine con il suono delle grida, e in particolare delle grida tipiche dei culti dionisiaci, cf. Eur. Ba. 159 )UXJLYDLVLERDL HMQRSDL VLYWH. 22 Furley – Bremer 2001, I, p. 327: «Kreusa’s song takes up topoi of Apolline song in order to show them up as the dazzling façade of a brutal god». 23 In Eur. Hec. 174 D>LHPDWHYURDXMGDYQ, il sostantivo descrive il grido che la regina troiana lancia per chiamare la figlia Polissena e per farla uscire dalla tenda. Aiace nel soliloquio che pronuncia prima di suicidarsi utilizza diversi verbi performativi, anche tradizionali (Soph. Ai. 825 DLMWKYVRPDL, 831 SURVWUHYSZ, NDOZ ; cf. Soph. Ai. 71-72 RX_WRVHNDOZ , 89 Z?RX_WR$L>DGHXYWHURYQVHSURVNDOZ , dove a ruoli invertiti la dea Atena chiama l’eroe in preda al delirio ricorrendo a espressioni colloquiali: vd. Stevens 1945, p. 102; Furley – Bremer 2001, I, p. 52), mentre ricorre al verbo SURVDXGZ prima per descrivere il colloquio quasi familiare che potrà coltivare con la Morte quando sarà sceso nell’Ade (Soph. Ai. 855 VHSURVDXGKYVZ [XQZYQ) – la situazione prospettata è anticipata dall’invocazione rivolta direttamente alla morte nel verso precedente (Soph. Ai. 854), la cui particolarità è già stata segnalata (vd. supra, pp. 44-45) – e poi nel momento dell’addio finale (Soph. Ai. 863 SURVDXGZ FDLYUHW[H]). Sul carattere patetico, più che religioso, delle preghiere di Aiace nell’imminenza del suicidio, vd. Mazzoldi 1999, pp. 191-192. 24 Anche in seguito la donna, mentre racconta l’accaduto, continuerà a rivolgersi al dio utilizzando con insistenza pronomi personali e aggettivi o pronomi possessivi di seconda persona singolare. 20 21
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La sezione eulogica (Eur. Ion 887-906), così minata fin dalle premesse, ha un’impostazione narrativa25 ma, anziché ricordare qualche impresa meritoria del dio, è interamente dedicata al racconto dello stupro di Creusa e del successivo abbandono del figlio che lei ha partorito. Questa operazione di rovesciamento dei contenuti tradizionali procede sulla linea della stessa calibrata ambiguità osservata nell’invocazione. L’esposizione della vicenda, articolata in tre distinti momenti, è lineare (K?OTHYPRLWLYNWZGRL>PRLPRLNDLQX QH>UUHL) e vivacizzata dall’inserzione di una battuta di discorso diretto (Eur. Ion 893). All’inizio viene ricordata la manifestazione del dio in un’atmosfera di sfolgorante splendore: tanta luminosità promana dai capelli dorati di Apollo (FUXVZ LFDLYWDQPDUPDLYUZQ), dai riflessi dorati dei fiori del croco (NURYNHDSHYWDODFUXVDQWDXJK ) raccolti come ornamento della veste, dal candore dei polsi di Creusa (OHXNRL NDUSRL FHLUZ Q). Proprio quest’ultimo dettaglio, d’altra parte, fornisce un esempio dell’andamento antifrastico che caratterizza l’anti-inno. L’aggettivo e il sostantivo sono separati dal participio del verbo HMPIXYZ (qui nel significato di «attaccarsi», «legare») che evoca uno scenario di segno opposto: la violenza del rapimento e dello stupro. L’immagine del grembo (HMNRYOSRX) in cui Creusa raccoglieva i fiori viene sostituita da quella dell’antro (HLMD>QWURXNRLYWD) in cui la donna viene condotta con forza e senza pietà per l’amplesso divino. In quella circostanza il suo grido di aiuto non ha sortito alcun effetto ma ora nulla le può più impedire di denunciare la DMQDLGHLYD del dio. Creusa riconduce l’azione di Apollo nell’orizzonte della FDYUL ma, con una punta di acrimonia, sottolinea che tale impresa ha avuto come unico beneficiario la dea Cipride, attraverso la soddisfazione di un piacere personale26. La regolarità delle sillabe lunghe che scandiscono i paremiaci si allenta una prima volta nel v. 889, dove i fenomeni di superallungamento sottolineano la delicatezza dei fiori ma al contempo segnalano un’incrinatura nello scenario idillico. Dopo il grido disperato del v. 893 – un dimetro anapestico acataletto – il precipitare della situazione è reso manifesto dal passaggio ai docmi (Eur. Ion 894-896). La ricostruzione dei fatti è proposta con sapiente abilità retorica. Nella seconda sezione narrativa le redini dell’azione passano da Apollo (K?OTH / D?JH : PRL / P[H]) a Creusa (WLYNWZ / EDYOOZ : VRL / VDYQ): se prima alla visita del dio era seguito lo stupro, ora al parto della donna segue l’esposizione del neonato. Ma grazie a un’accorta disposizione delle parole, la responsabilità è sempre ricondotta alla divinità27: nella prima parte del racconto i due verbi di A proposito delle sezioni “ditirambiche” nelle monodie di Euripide, vd. infra, pp. 146-147. Vd. La Rue 1963, p. 133. L’idea del rapporto sessuale è legata principalmente al nome di Cipride: lo stesso desiderio che Zeus nutre nei confronti di Io è affidato alle parole VXQDLYUHVTDL.XYSULQTHYOHL (Aesch. PV 650-651). Nella monodia, tuttavia, la scelta dell’espressione .XYSULGLFDYULQSUDYVVZQ risulta particolarmente significativa: cf. Eur. Ion 880 OHYNWUZQSURGRYWDDMFDULYVWRX. 27 Mirto 2009, pp. 289-290, osserva che la scelta di Creusa di abbandonare il bambino nello stesso luogo in cui aveva subito la violenza del dio è «insieme un’accusa allo stupratore e un invito a prendersi cura del figlio» 25 26
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seconda persona singolare sono collocati all’inizio rispettivamente del v. 887 e del v. 895; nella parte successiva anche WLYNWZ è messo in forte rilievo ma risulta più regolare la collocazione sia del pronome personale che dell’aggettivo possessivo di seconda persona alla fine rispettivamente del v. 897 e del v. 899. Nella rievocazione di questi fatti il tono torna ad essere più controllato, nuovamente scandito da paremiaci costituiti interamente da sillabe lunghe: questa sequenza regolare viene interrotta solamente, prima dell’ultimo paremiaco, da un dimetro acataletto caratterizzato nuovamente da fenomeni di superallungamento (Eur. Ion 900). Nella parte conclusiva l’abbandono del neonato viene ricollegato al motivo dello stupro (L^QDPHOHYFHVLHM]HXY[Z) e proprio qui Creusa inizia a introdurre espressioni di autocommiserazione, evidenti nell’uso degli aggettivi PHYOHR, ripetuto nel poliptoto PHOHYDQ PHOHYRL, e GXYVWDQR. La conclusione di questa singolare celebrazione di Apollo è introdotta da un grido di lamento, RL>PRLPRL. Il nesso NDLQX Q – dove il NDLY non ha valore intensivo ma continuativo28 – sottolinea la manifestazione ultima dello scellerato comportamento del dio: dopo la violenza nei confronti di Creusa, si è dimostrato del tutto indifferente anche verso il figlio che gli ha generato, lasciando che il suo corpo fosse dilaniato dagli uccelli rapaci. La responsabilità del padre, maggiore rispetto a quello della madre, è evidente nell’impiego dell’aggettivo possessivo VRY al posto del pronome personale (cf. v. 904 PRL)29. L’immagine del dio intento a cantare suonando la kithara, proposta nell’invocazione, è qui ripresa in forma quasi letterale come motivo di biasimo perché evidenzia l’impassibilità di Apollo di fronte alla misera fine del proprio figlio: il carattere funesto del suo canto, già suggerito dal sostantivo HMQRSDYQ nell’invocazione, è ribadito ora dal verbo NODY]HL30. Nel congedo viene proposta una sintesi dei motivi presenti sia nella parte iniziale che nella parte centrale dell’inno, con chiare riprese lessicali. Il tono di biasimo è evidente fin dall’esclamazione iniziale (ZMKY)31, seguita dal verbo In modo analogo questo stesso nesso è utilizzato nelle preghiere “di contestazione” di Ippolito (Eur. Hipp. 1371) e di Taltibio (Eur. Hec. 494): vd. supra, pp. 46-48. 29 La lezione tradita VRY è stata inopportunamente corretta nel pronome personale VRLY (Page): sulla questione, vd. De Poli 2011, pp. 194-195. 30 Nell’Inno omerico a Pan (v. 14) questo verbo descrive il suono stridulo dello strumento a fiato fatto di canne, attributo tipico di quel dio. Per l’accostamento di particolari contrastanti, vd. Mirto 2009, pp. 288-289. 31 Vd. Pellegrino 2004, p. 278. Questa esclamazione esprime talvolta sorpresa di fronte a una visione inaspettata (Eur. HF 1106, Ph. 269), ma è difficile riconoscere nelle parole di Creusa un grido di dolore, come sostiene La Rue 1963, p. 134. Pur non essendo estraneo alla tragedia, l’ZMKY di solito ricorre in contesti tutt’altro che solenni: è il grido, ad esempio, con cui una persona davanti alla porta del palazzo richiama l’attenzione di chi è al suo interno (Eur. IT 1304, Hel. 435, 1180, Ph. 1067, 1069), oppure con cui si cerca di destare una persona addormentata, come fa il fantasma di Clitemnestra quando risveglia le Erinni all’inizio delle Eumenidi (Aesch. Eu. 94). Con questa interiezione, inoltre, i Satiri cercano di richiamare l’attenzione del montone (Eur. Cycl. 51), a cui rivolgono una «rude minaccia» in una delle «allocuzioni caratterizzate da un tono fortemente colloquiale e mimetico» (Napolitano 2003, p. 101). 28
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DXMGZ . Il dio, ancora una volta, non è menzionato con il suo nome ma solo come figlio di Latona (e con una formulazione forse un po’ sbrigativa per la designazione di una divinità: WRQ/DWRX )32. Tanta confidenza, d’altra parte, è bilanciata dal rispetto di alcune caratteristiche formali dell’inno, come il ricorso alla subordinazione di tipo relativo e l’allusione al santuario di Delfi, dove Apollo ha la funzione di «estrarre a sorte» gli oracoli. Creusa insiste sull’intenzione di gridare come un banditore la propria verità, mentre l’espressione HLM RX? esplicita il desiderio di farsi sentire dai potenziali ascoltatori – non solo il dio ma verosimilmente anche i fedeli che affollano il santuario – sottolineando la volontà di raggiungere in modo diretto i destinatari del messaggio 33. Questa prima parte del congedo si segnala per le sequenze di docmi, interrotta solo nel finale dalla clausula interna costituita da un dimetro anapestico acataletto e da un paremiaco. Quindi, nel docmio successivo con rinnovato vigore viene proclamato che il dio non è altro che un «vile», un «maledetto amante»34. Poi, il ritorno ai paremiaci corrisponde con uno sviluppo tradizionale del discorso, mediante una Relativsatz che ingloba una Partizipialsatz, ma le parole di Creusa enfatizzano l’incoerenza di Apollo che agisce indipendentemente dai vincoli della charis. Anzi, in aperta violazione degli stessi: il figlio – quello altrui – concesso al marito di Creusa è contrapposto al figlio – quello concepito da Creusa nell’unione con il dio – abbandonato a una fine miserabile. L’opposizione fra figura materna e figura paterna, segnalata dall’iperbato HMPRNDLVRY, è testimoniata anche dalle fasce in cui la donna aveva avvolto il figlio e che gli uccelli rapaci hanno sciolto, lacerato, nella completa noncuranza di Apollo. Su questo aspetto insiste anche la particolarità prosodica legata alla necessità di una pausa all’interno del v. 916, prima dell’aggettivo DMPDTKY35: esso da un lato esprime la compassione nei confronti del figlio ritenuto morto e orribilmente straziato e dall’altro, essendo preceduto immediatamente dall’aggettivo possessivo VRY, fa ricadere la responsabilità dell’accaduto sulla figura paterna. L’evocazione del parto di Latona nell’ameno scenario del giardino di Zeus a Delo, in netto contrasto con la vicenda di Creusa, è utilizzata come ulteriore condanna del dio che fatto nascere il proprio figlio in condizioni drammaticamente antitetiche rispetto a quelle in cui lui stesso aveva visto la luce: ricorrendo a una singolare personificazione, la donna afferma Di norma il genitivo del nome del genitore è accompagnato da un sostantivo che chiarisce il rapporto di figliolanza (cf. Eur. Ion 885 Z?/DWRX SDL ). Nel v. 188, invece, il sintagma WZ L /DWRX segue la menzione esplicita del dio, /R[LYDL. L’irriverente richiamo che Creusa rivolge ad Apollo nel v. 907 può essere confrontato con le parole con cui le donne del coro cercano di attirare l’attenzione di Ione in occasione del loro primo casuale incontro: VHYWRLWRQSDUD QDRQDXMGZ (Eur. Ion 219-220). 33 Sull’interpretazione di questa espressione nel senso di dire «(perché giunga) all’orecchio» e sulla questione testuale relativa ad essa, vd. De Poli 2011, p. 195. 34 Sul valore connotativo di HXMQDYWZU in questo contesto, vd. Friis Johansen – Whittle 1980, III, p. 32, a proposito di Aesch. Suppl. 664-665, dove lo stesso termine è riferito ad Ares e alla sua unione “extraconiugale” con Afrodite. 35 Vd. De Poli 2011, pp. 195-196. 32
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in tono risoluto – il verbo PLVHL è posto all’inizio del v. 919 – che la stessa isola di Delo prova un sentimento di odio nei confronti di Apollo36. Il contro-inno si conferma lucidissimo fino alla conclusione: dapprima tornano le sequenze di paremiaci con la consueta clausola interna costituita da un dimetro anapestico acataletto e da un paremiaco; infine l’ultimo paremiaco chiude una serie di dimetri anapestici acataletti in cui si segnala l’alta frequenza della sostituzione dattilica. 2.1.1. L’anti-inno di Creusa e la tradizione poetica greca Proprio la conclusione della monodia di Creusa suggerisce evidenti riecheggiamenti di un’altra opera poetica, nota come Inno omerico ad Apollo. Ad esso rinvia, innanzitutto, l’episodio della nascita di Apollo a Delo, che occupa ampio spazio nella prima parte del canto rapsodico (Hom. h.Ap. 25-126): qui trova una spiegazione l’allusione della tragedia euripidea alla palma, la pianta a cui si dice che Latona si strinse in preda alle doglie (Hom. h.Ap. 116-117)37, e già in questo testo l’isola di Delo viene personificata, come testimonia il dialogo con la madre di Apollo per ottenere garanzie in cambio dell’ospitalità (Hom. h.Ap. 50-90). Inoltre, le parole cantate da Creusa nei tre paremiaci precedenti il brano in recitativo sono formulate in modo simile al v. 19 SZ WDYU VX-PQKYVZB., che insieme ai quattro esametri successivi «sono il proemio del vero e proprio inno in onore di Apollo» 38: Euripide sembra così adattare il motivo tradizionale della quaestio rhapsodica alla particolare situazione del personaggio tragico. Un altro componimento poetico dello stesso genere, l’Inno omerico a Ermes, fornisce la chiave di lettura per comprendere l’ambigua presentazione della figura di Apollo attraverso la confusione tra la kithara e la lyra: la descrizione del primo strumento proposta dalla monodia di Creusa non corrisponde al racconto della sua invenzione riferito nei vv. 24-64 della rapsodia. A sua volta, l’Inno omerico a Pan (Hom. h.Pan. 14) attesta l’uso del verbo NODY]Z con riferimento al suono stridulo del cosiddetto “flauto di Pan”, mentre nel testo euripideo è singolarmente associato alla musica prodotta dalla kithara di Apollo. Le affinità fra la monodia di Creusa e gli inni rapsodici sono limitate al piano contenutistico39, dal momento che la metrica lirica garantisce un’esecuzione cantata dei vv. 859-861 e 881-922 dello Ione. Nell’orizzonte della poesia innica, tuttavia, è possibile che il brano euripideo fosse modulato sulla falsa La Rue 1963, p. 136, insiste su questo aspetto, rilevando nei versi finali della monodia «a type of violent hypallage in which Creusa transfers her own hatred to the god’s Island, and to his sacred laurel tree». 37 Anche Odisseo afferma di aver vista una palma svettante sull’isola di Delo, accanto all’altare di Apollo: Hom. Od. VI 162-163. 38 Zanetto 1988, p. 236 n. 6. 39 Forse il verso epico poteva essere vagamente evocato dai dimetri anapestici acataletti nel finale del congedo, dove si ricorda la nascita di Apollo a Delo, attraverso le frequenti sostituzioni dattiliche. 36
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riga della citarodia, a cui rinviano le due menzioni della kithara come attributo di Apollo, rispettivamente nell’invocazione e nella parte centrale (Eur. Ion 882, 905). In particolare, all’inizio della monodia al nome dello strumento è associato l’aggettivo H-SWDYITRJJR, un dettaglio che implica un tipo particolare di kithara, a sette corde. Essa è descritta ancora una volta nell’Inno omerico a Ermes (Hom. h.Merc. 51 H-SWDFRUGDY) ma parte della tradizione antica la associa alla figura di Terpandro, indicato come il suo inventore o almeno come il primo poeta che la utilizzò per l’accompagnamento dei suoi canti 40. Lo stesso poeta lesbio, nei due esametri che appartenevano a un proemio o a un inno citarodico (Terp. fr. 4 Gostoli), manifesta l’intenzione di intonare «inni» con l’accompagnamento di una «phorminx a sette note» (H-SWDWRYQZLIRYUPLJJL, trad. Gostoli)41. Come è stato già osservato, le parole che Creusa canta come “proemio” (Eur. Ion 859-861) evidenziano alcune analogie con i proemi rapsodici – in particolare nella formulazione interrogativa con SZ – ma possono essere messe a confronto anche con formule simili della tradizione poetica. Gli appelli al proprio cuore, alla propria anima, sono un motivo ricorrente nella letteratura greca, dall’epica (ad esempio, Hom. Od. XX 18 NUDGLYK) alla tragedia (ad esempio, Eur. Med. 1242 NDUGLYD, IT 344 Z?NDUGLYDWDYODLQD, 882 Z?PHOHYD \XFDY, Or. 466 Z?WDYODLQDNDUGLYD \XFKYWHMPKY)42, e sono connessi di norma al «conflitto interiore di chi deve imporsi autocontrollo […] o farsi coraggio» 43. Sul fronte della poesia melica, invece, il IUKYQ, strettamente connesso alla \XFKY44, è spesso indicato come fonte di ispirazione del canto nei passi riconducibili al motivo della quaestio rhapsodica45. E l’esempio, forse, più significativo è offerto nuovamente da Terpandro, nei versi iniziali di un inno ad Apollo: DMPILYPRL DX?WLD>QDFTH-NDWDERYORQ / DMHLGHYWZIUKYQ (Terp. fr. 2 Gostoli)46. Senza dubbio nella tragedia eurpidea le parole di Creusa esprimono il tormento interiore della donna, desiderosa di gridare la propria accusa contro Apollo e allo stesso tempo trattenuta dal pudore, ma hanno anche la funzione di introdurre il canto successivo: l’anti-inno al dio di Delfi. Le suggestioni citarodiche presenti nella monodia assumono un significato particolare in rapporto al In merito al rapporto fra la testimonianza conservata dall’Inno omerico a Ermes e Terpandro come elemento utile per la datazione del canto rapsodico, vd. Zanetto 1988, p. 261 n. 18. Su Terpandro e l’invenzione dell’eptacordo, vd. Gostoli 1990, pp. XXXI-XLIII e 136-140. Cf. Terp. testt. 11, 24, 48, 49, 52 (H-SWDITRYJJRXWK OXYUD), 53a, 54, e fr. 4 Gostoli. D’altra parte, l’abilità di Apollo nel suonare l’eptacordo è ricordata anche da Pind. Ne. 5.24 IRYUPLJJ H-SWDYJOZVVRQ. 41 In modo analogo, Pindaro descrive il proprio canto come D>TUKVRQFDYULQH-SWDNWXYSRXIRYUPLJJR (Pind. Py. 2.70-71). 42 Mirto 2009, pp. 286-287, sottolinea che questo tipo di appello era impiegato «volentieri» da Euripide, tanto da essere stato parodiato da Ar. Ach. 450, 480, 487, Ve. 757. 43 Mirto 2009, p. 286. 44 Anima e mente sono associati, ad esempio, in Eur. Alc. 108 H>TLJH\XFD H>TLJHGHIUHQZ Q. 45 Secondo l’analisi di Pavese 1997, p. 345, la mente è menzionata nell’ambito del motivo quaestio rhapsodica in Pind. Ol. 2.89-90, 10.2-3. 46 Per una contestualizzazione di questi versi, vd. Gostoli 1990, pp. 128-132. 40
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contesto tragico in cui il brano viene eseguito: Creusa esegue il suo canto nella nota località della Beozia, di fronte al tempio di Apollo, e proprio questo santuario panellenico ospitava periodicamente degli agoni citarodici, nei quali i poeti in gara presentavano un inno al dio e, secondo fonti antiche, risultò a lungo vincitore lo stesso Terpandro47. Il canto a solo di Creusa, dunque, è coerente con la caratterizzazione dei personaggi tragici, soprattutto con quella di molti personaggi femminili euripidei, da Medea a Ifigenia, ma usa e rielabora ampiamente anche motivi e formule del patrimonio mitico ed espressivo della poesia rapsodica e di quella citarodica, da Terpandro a Pindaro.
3.
Il peana, l’upingo e il dafneforico: caratteristiche specifiche
La classificazione alessandrina dei carmi di Pindaro o di Bacchilide distingueva gli inni dai peana. Le scarse testimonianze testuali, conservate da papiri frammentari, non agevolano, tuttavia, l’individuazione delle caratteristiche essenziali di questo ulteriore tipo di canto. Gli studiosi moderni hanno proposto alcune ricostruzioni, analizzando le modeste fonti dirette e le testimonianze indirette. Tale operazione, d’altra parte, deve tenere in considerazione i cambiamenti che il peana ha probabilmente subito nel corso del tempo, dall’età arcaica a quella ellenistica e tardoantica: è riconosciuto, infatti, che l’evoluzione di questa forma poetica e la sua confusione con altre composizioni tradizionali hanno subito un impulso significativo tra il V e il IV secolo a.C., in un’epoca contemporanea all’ultima grande stagione tragica e non indipendentemente da essa48. Per avere un quadro quanto più completo del peana, risultano di primario interesse l’indagine condotta da Käppel e l’introduzione ai Peana di Pindaro proposta da Rutherford49. Quest’ultimo, in particolare, ha elencato alcuni elementi formali propri del peana: 1) l’invocazione rivolta a Peana, o comunque la menzione del suo nome; 2) la ricorrenza di un refrain, che spesso comprende un appello a Peana e che di norma chiude le strutture strofiche (epiphthegma o efimnio); 3) un’allusione all’orante in forma di sphragis; 4) la tripartizione tipica dell’inno (invoVd. Pavese 1972, pp. 230, 247-248; Gostoli 1990, p. XVI; Gostoli 1991, p. 97. Nelle parole di Creusa un’eco di questa situazione si può, forse, cogliere nell’uso del termine DMJZYQ (Eur. Ion 863): con esso qui si allude non a una gara canora, bensì a una gara di virtù, quella fra la donna e il marito Xuto, ma è precisamente sulle ragioni della virtù che si sta valutando l’opportunità di intonare il canto ad Apollo. 48 In merito al rapporto tra la tragedia attica e il peana, vd. Rutherford 2001, pp. 108-115. 49 Vd. Käppel 1992, pp. 32-86; Rutherford 2001, pp. 3-136. Un quadro generale sul peana è già, sommariamente ma efficacemente, delineato da Bona 1988, pp. V-XV, che anticipa la pubblicazione della ricerca di Käppel. Egli sottolinea, in particolare, il legame con cerimonie pubbliche di carattere religioso ma non necessariamente in onore di Apollo, le diverse possibili funzioni del canto, l’esecuzione da parte di un coro soprattutto maschile, ma talvolta anche femminile, e l’associazione con situazioni processionali. Ancora sul peana, vd. Privitera 1977a. 47
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cazione, eulogia, congedo); 5) stile simile a quello degli inni, con richiami alla charis e alla luce; 6) il ritmo emiolio, tipico dei cretici o, appunto, dei peoni; 7) l’accompagnamento musicale, spesso affidato all’aulos e più raramente alla kithara. Anche Käppel, che aveva anticipato molti aspetti di questa sintesi, insiste sulla presenza dell’epiphthegma LMKY come tratto distintivo del peana e ne cataloga le diverse formulazioni desumibili dalle testimonianze letterarie superstiti50. Tale grido è inteso a richiamare l’attenzione del dio ma, nell’ottica di un rapporto dialogico analogo a quello sotteso agli inni e alle preghiere51, non è meno importante l’esplicito manifestarsi dell’orante (Paian-Ich). Accanto alla componente formale, Käppel si sofferma anche su alcuni aspetti performativi: il canto era affidato di norma a un coro, sia maschile che femminile, ma poteva essere prevista anche un’esecuzione essenzialmente monodica con l’accompagnamento della voce corale che si limitava a intonare il ritornello o l’ololyge oppure all’exarchos poteva rispondere un coro. Sotto certi aspetti Rutherford delinea un quadro ancora più preciso. Il coro maschile, composto indifferentemente da adulti, da giovani o da bambini, era più comune del coro femminile e, soprattutto, non era usuale che questo canto fosse eseguito da un solista: se si escludono le immagini legate a particolari divinità, quali Apollo o Pan, oppure l’associazione con gli inni citarodici proposta da Strabone (Str. IX 3.10.421), non ci sono testimonianze di performance monodiche. Per quanto le uniche testimonianze dipendano da fonti “letterarie”, i peana dovevano riflettere pratiche cultuali reali, basate su un fondamento religioso52. Rutherford ricorda la possibilità di una loro esecuzione da parte di «FRURLY visiting sanctuaries of Apollo», oltre che da parte di «local FRURLY», e proprio nel caso del peana in onore di Apollo, come testimonia l’Inno omerico ad Apollo (Hom. h.Ap. 516-519), era particolarmente stretto il legame con il santuario di Delfi: qui tale canto era eseguito in occasione delle feste principali, da quelle pitiche53 a quelle del Septerion, quando veniva ricordato il ritorno a Delfi dell’DMPILTDOKNRX UR. Un peana frammentario di Simonide (Simon. fr. In particolare, vd. Käppel 1992, pp. 65-70. Per un analogo elenco, vd. Rutherford 2001, pp. 69-72. A sostegno dell’importanza dell’epiphthegma, Käppel 1992, pp. 38-42, adduce una ricostruzione dello scolio a un ditirambo di Bacchilide (fr. 23 Snell – Maehler = Maehler), secondo la quale Callimaco avrebbe individuato nella presenza di questo elemento il tratto distintivo rispetto al ditirambo: vd. Snell – Maehler 1970, p. 128. La nota al testo di Bacchilide, conservata da un frammento papiraceo è ricostruita, tuttavia, in modo diverso nell’edizione più recente, da cui non si evince più alcun riferimento all’epiphthegma LMKY: vd. Maehler 2003, p. 120. 51 A proposito del rapporto fra peana, preghiera e inno, vd. Käppel 1992, pp. 64-65, 82-86. 52 Questa considerazione che Furley – Bremer 2001, I, p. 40, propongono a proposito degli inni si può riferire anche, e forse a maggior ragione, ai peana. Anche Chapot – Laurot 2001, p. 131, riconoscono al peana di Ione nell’omonima tragedia euripidea «une origine liturgique». Vd. Pordomingo 1994, p. 324, in particolare a proposito del refrain. 53 Rutherford 2001, p. 28, ricorda in particolare la testimonianza di Strabone secondo cui nelle feste pitiche il peana era connesso alla performance citarodica di inni celebrativi: ciò accentua le ambiguità rispetto all’inno, anche in rapporto alla monodia di Creusa. 50
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519.35b Page) è stato collegato, invece, alla processione che si svolgeva da Atene a Delfi, nota con il nome di Pythais. Anche Käppel osserva che questo tipo di canto poteva essere accompagnato dalla danza oppure essere intonato durante una processione nell’ambito di pratiche cultuali54. Rutherford ritiene che nel V sec. a.C. il peana fosse un canto ben identificabile per i Greci, grazie ad almeno un elemento formale, la presenza del refrain contenente un «SDLDYQ-cry», frequente ma non indispensabile, e grazie anche all’associazione di quest’ultimo con l’idea della euphemia: «the utterance of SDLD QH or SDLDYQ-cries was a widely used formula for generating ritually correct utterance». D’altra parte, tutti concordano nel ricondurre il peana a diverse situazioni: esso, infatti, può essere intonato in alcuni momenti particolari della vita quotidiana (malattie e pestilenze, scontri bellici o altri pericoli), nell’ambito di determinate cerimonie (matrimoni, banchetti e simposi55) oppure in occasione di feste rituali. E probabilmente tra tante occasioni doveva sussistere una certa ambiguità, sfruttata dalla poesia tragica nei riferimenti ai peana e nei suoi riecheggiamenti. Una testimonianza antica (Pind. fr. 128c.1-2 Maehler) collega il peana ai due figli di Latona, gli dei Apollo e Artemide, e alla celebrazione delle feste in loro onore, ma i testi conservati evidenziano che la divinità a cui il peana era rivolto poteva variare in funzione del contesto al quale questo canto era collegato. Di fatto, alcune questioni relative all’individuazione del peana rimangono aperte. Sulla base della Crestomazia di Proclo (ap. Phot. Bibl. 320b), Rutherford ritiene, ad esempio, che esso si distinguesse dal nomos – inteso come inno citarodico – sulla base di una diversa struttura compositiva, mentre il prosodio – inteso genericamente come canto processionale – poteva coincidere con il peana eseguito durante una processione rituale. Grandolini, invece, ricordando la testimonianza di Polluce (Pollux Onom. 1.38), considera il prosodio come quel canto processionale che «doveva celebrare contemporaneamente Apollo e Artemide, che invece singolarmente erano destinatari l’uno del peana, l’altra dell’upingo»56. In ogni caso, il prosodio aveva carattere propiziatorio e veniva eseguito, ad esempio, nella processione che accompagnava le vittime all’altare prima del sacrificio, ma poteva esprimere anche richieste di protezione, come il peana, canto a cui assomigliava anche sul piano della tecnica compositiva57. Canto polimetrico, era di norma accompagnato dal suono dell’aulos. Vd. Käppel 1992, pp. 75-82 A proposito del peana simpodiale, vd. Fabbro 1995, XXI-XXIII. 56 Grandolini 1991, p. 128. Si precisa, inoltre, che nel prosodio, insieme ai due fratelli, poteva essere celebrata anche la madre Latona. L’uso del termine upingo non trova conferma in Euripide che nell’Ifigenia fra i Tauri allude a un NRYUKSDLD QD (Eur. IT 1402-1403) intonato dai marinai posti ai remi della nave con cui Ifigenia e Oreste stanno fuggendo dalla Tauride. Nel caso di Simon. fr. 519 Page, inoltre, gli appelli ad Apollo e Artemide dovrebbero indurre a riconsiderare la sua classificazione come peana, sostenuta da Rutherford 1990, p. 172. Per la denominazione di upingo per il canto destinato ad Artemide, cf. Athen. XIV 619b. 57 Per uno studio più approfondito del prosodio, vd. Grandolini 1987-1988. 54 55
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Ancora secondo le indicazioni di Proclo (ap. Phot. Bibl. 320a, 321a-b), se il prosodio poteva essere ricondotto al genere “inno”, in quanto canto destinato a entità superiori (HLMWRXX-SHURYQWD), esistevano anche canti processionali intesi a celebrare sia gli dei che gli uomini: è il caso, ad esempio, del dafneforico58. Questo particolare tipo di partenio era associato, ad esempio, alla festa che si celebrava ogni otto anni a Tebe, occasione per la quale sembra essere stato composto il fr. 94b Maehler di Pindaro. Ma cerimonie analoghe si svolgevano periodicamente anche a Delfi e in altre città greche, tra cui si può annoverare anche Atene59. In generale, si trattava di un rito processionale guidato da un SDL DMPILTDOKY – ovvero da un ragazzo che aveva entrambi i genitori viventi – e seguito da un corteo di compagni che intonavano un peana o, più esattamente, un daphnephorikon: i partecipanti alla festa portavano, appunto, un ramo di alloro, la pianta sacra ad Apollo, e nel canto, oltre alla eulogia della divinità, dovevano figurare anche riferimenti alle loro azioni e in particolare alla figura del SDL DMPILTDOKY. 3.1. Ione 112-143 (monodia di Ione): un peana monodico La monodia di Ione ha una struttura complessa: introdotta da un brano anapestico eseguito in recitativo (Eur. Ion 82-111), prosegue con una coppia strofica (Eur. Ion 112-143) e termina con un epodo (Eur. Ion 144-183). Nel complesso, gli elementi riconducibili a pratiche più strettamente cultuali sin concentrano nella sezione antistrofica: D>JZ?QHRTDOHZ? NDOOLYVWDSURSRYOHXPDGDYIQD D`WDQ)RLYERXTXPHYODQ VDLYUHLX-SRQDRL NDYSZQHM[DMTDQDYWZQ L^QDGURYVRLWHYJJRXVL-HUDLY WDQ † DMHYQDRQ † SDJDQHMNSURL!HL VDL PXUVLYQDL-HUDQIRYEDQ D_LVDLYUZGDYSHGRQTHRX SDQDPHYULRD^PD-OLYRXSWHUXYJLTRD L ODWUHXYZQWRNDWK?PDU
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Z?3DLDQZ?3DLDYQ HXMDLYZQHXMDLYZQ HL>KZ?/DWRX SDL NDORYQJHWRQSRYQRQZ?
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58 Per una ricostruzione del dafneforico e delle dafneforie, vd. Furley – Bremer 2001, I, pp. 18-19; Grandolini 1991, pp. 132-137; Calame 1977, pp. 117-124, 190-194. Bernardini 1989 offre analoghe informazioni, analizzando in particolare la Pitica XI di Pindaro. In merito alla dafneforia tebana, vd. Schachter 1981, pp. 83-85. 59 Cf. schol. in Hes. Op. 769-771.9-12.
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)RL EHVRLSURGRYPZQODWUHXYZ WLPZ Q[WKQ]PDQWHL RQH^GUDQ NOHLQRGR-SRYQRPRL THRL VLQGRXYODQFHYUH>FHLQ RXMTQDWRL DMOODMTDQDYWRL HXMIDYPRLGHSRYQRL PRFTHL QRXMNDMSRNDYPQZ )RL ERYPRLJHQHYWZUSDWKYU WRQERYVNRQWDJDUHXMORJZ WRQGZMIHYOLPRQHMPRLSDWHYURR>QRPDOHYJZ )RLYERXWRX NDWDQDRYQ Z?3DLDQZ?3DLDYQ HXMDLYZQHXMDLYZQ HL>KZ?/DWRX SDL Orsù, tenero e fresco servitore nato da un bellissimo alloro, tu che spazzi dinnanzi al tempio l’altare sacrificale di Febo e provieni da giardini immortali, dove linfe sacre fanno scaturire una fonte perenne che inumidisce i cespugli sacri del mirto: grazie a te io spazzo il pavimento del santuario e per tutto il giorno offro il mio servizio insieme all’ala veloce del sole. Oh Peana, Peana, che tu sia felice, felice, oh figlio di Latona! È bella la fatica che sopporto per servirti, Febo, davanti al tempio, onorando il tuo seggio oracolare. Mi fa onore sopportare la fatica di offrire schiava la mano agli dei: agli dei immortali, non agli uomini mortali. Non mi stanco di queste pie fatiche. Febo è mio padre, lui mi ha generato: io benedico colui che mi nutre, e il mio benefattore ha per me il nome del padre, Febo, che è in questo tempio. Oh Peana, Peana, che tu sia felice, felice, oh figlio di Latona! Gli studi relativi a questo canto sono in parte discordanti rispetto all’individuazione di un peana, e più precisamente dei suoi confini. L’attenzione è stata spesso catalizzata dall’efimnio (Eur. Ion 125-127 = 141-143) che rappresenta «the only true SDLDYQ-refrain in extant tragedy»60. Pordomingo considera questi tre versi come un piccolo inno delfico ad Apollo, che è ripetuto due volte nel corso della lunga monodia di Ione ed è «claramente desmarcado del contexto»61, almeno sul piano metrico62. La presenza di un’invocazione diretta ad Apollo (Eur. Ion 128-129) e le parole di benedizione che il giovane gli rivolge, almeno nei vv. 136-140, sembrano spiegare la scelta singolare di Chapot e Laurot di comprendere anche l’antistrofe, unitamente ai due efimni, in quello Rutherford 2001, p. 111. Pordomingo 1994, p. 324. 62 In modo analogo, Mirto 2009, p. 226, distingue il «canto monodico, strutturato alla maniera di un inno che celebra Apollo» dal «ritornello cultuale […] in forma di peana». 60 61
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che viene definito come un «péan d’action de grâces» 63. Trascurando la confusione terminologica e categoriale, Furley e Bremer annoverano tra gli inni i vv. 112-153 della monodia di Ione, integrando così anche la parte iniziale dell’epodo, e riconoscono solo nel refrain l’eco di un «paianic epiphthegma». Alla fine dei vv. 144-153 viene individuata la preghiera (Eur. Ion 151-153 HL>TPKSDXVDLYPDQK@SDXVDLYPDQ), che rappresenta una delle possibili formulazioni del congedo; eppure proprio a partire dal v. 144 Ione dichiara di interrompere il lavoro che ha svolto durante l’esecuzione del canto strofico e, sul piano metrico, i vv. 144-153 si configurano come una struttura modulante, in cui si alternano sequenze anapestiche, che anticipano lo sviluppo successivo dell’epodo, con sequenze docmiache, molto simili alle strutture gliconiche presenti nella strofe e nell’antistrofe 64. Pur riprendendo molti elementi di quest’analisi, Pace rileva che una richiesta simile a quella dei vv. 151-153 è già presente nel refrain (Eur. Ion 126-127 = 142-143 HXMDLYZQHXMDLYZQHL>K): la formulazione è diversa – il verbo all’ottativo, non preceduto da HL>TH, è alla seconda persona singolare, riferito ad Apollo-Peana, e non alla prima persona, riferito a Ione – e meno elaborata ma non per questo è meno esplicita o meno significativa. Del resto, il testo su cui la studiosa concentra la sua analisi corrisponde alla sezione strofica e in essa riconosce un «peana di ringraziamento ad Apollo»65. Le analisi retoriche e stilistiche proposte da Furley e Bremer e, soprattutto, da Pace hanno messo in luce la presenza nel canto di Ione di numerosi elementi tipici dell’inno (apostrofi e invocazioni, geminationes, epiteti, esortazioni, frasi relative e participiali, formulazioni enfatiche, tricolon, asindeto), un inno che soprattutto grazie al refrain assume le sembianze del peana. La presenza di un ritornello dotato di particolare autonomia rispetto al contesto, sia sul piano semantico – comprende invocazione e richiesta, caratterizzate da fenomeni di ripetizione, come una preghiera a sé stante – che sul piano metrico66 – la coppia di molossi si distingue nettamente rispetto alle sequenze gliconiche della struttura strofica –, tradisce l’influenza, o piuttosto la volontà del poeta tragico di imitare un canto rituale, avvicinandosi a forme tipiche del canto popolare. L’aura sacrale era stata in parte ricreata già nel precedente brano in anapesti recitativi dalle prescrizioni impartite da Ione agli altri servi del sanChapot – Laurot 2001, pp. 130-131. Furley – Bremer 2001, II, pp. 307-312. 65 Pace 2009, pp. 377-378. La sezione strofica è isolata come peana da Käppel 1992, pp. 399400 (Pai. 54). Alla stessa porzione di monodia rinviano Rutherford 2001, p. 111 («a strophe and antistrophe each conclude with a spondaic refrain»). 66 La sequenza di sei sillabe lunghe è stata variamente interpretata: vd. De Poli 2011, p. 185. Tre spondei sono segnalati da Gentili – Lomiento 2003, p. 66 n. 32, e da Rutheford 2001, p. 111 («spondaic refrain»). Due molossi, metri più vicini al ritmo emiolio dei cretici, sembrano più indicati in relazione alla forma del peana: vd. Mirto 2009, p. 224; Pellegrino 2004, p. 201. Un metro cretico con il primo longum soluto sembra riconoscibile anche nell’unico verso del refrain di un threnos pindarico (fr. 128e Maehler), per cui è possibile tentare un’analisi metrica: vd. Cannatà Fera 1990, p. 127. 63 64
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tuario: i vv. 94-101, infatti, sembrano riassumere le «regole di una specie di catechismo delfico»67. La scelta del peana è particolarmente calzante con la situazione scenica evocata dallo stesso Ione nel brano in recitativo, che introduce la monodia: il momento della giornata, con la descrizione delle prime luci dell’alba (Eur. Ion 82-88); l’ambientazione all’interno del santuario di Delfi davanti al tempio di Apollo (Eur. Ion 89-93); il richiamo all’euphemia (Eur. Ion 98-101). Eppure, questo canto risulta tanto calzante quanto straniante. Il peana è eccezionalmente intonato dalla voce solista di un personaggio che è rimasto desolatamente solo sulla scena: non è l’espressione di una comunità né nelle modalità di esecuzione né nelle intenzioni. Esistono solo Ione e il suo ramo di alloro in un contesto che rinvia ad Apollo, l’assente eccellente di questa tragedia 68. Rutherford considera tale situazione ancora più sorprendente dal momento che il Coro, composto dalle donne ateniesi al seguito di Creusa, quando fa il suo ingresso in scena, non canta nulla di pertinente con il peana di Ione69. Viene a sfumare anche il possibile sviluppo di un canto ad amebeo, in cui una pluralità di voci risponde all’exarchos. Tale osservazione potrebbe indurre a immaginare un altro caso di aprosdoketon scenico, ancora una volta nel raccordo tra la fine del prologo e l’inizio della parodo70. Tuttavia, in questo caso il modulo drammaturgico è rielaborato da Euripide, tanto da dare quasi l’impressione di volerlo dissimulare: tra il canto in onore di Apollo e il successivo canto corale, infatti, si inserisce il lungo canto di lavoro che accompagna prima l’opera di pulizia mediante l’utilizzo dell’acqua (Eur. Ion 144-153) e poi il tentativo messo in atto da Ione per tenere lontani gli uccelli dal tempio (Eur. Ion 154-183). Lo spaesamento e lo stupore delle donne ateniesi accentua piuttosto l’impressione di un personaggio che fa tutto da sé, sia che celebri Apollo e sia che impugni l’arco minacciando di scoccare delle frecce. Non c’è la ricerca di altri da parte del giovane né l’arrivo delle straniere sembra indispettirlo particolarmente. 3.1.1. Il peana di Ione e la tradizione poetica greca Fra i pochi testi di questo genere, che la tradizione ha conservato, il testo euripideo sembra trovare qualche significativo punto di contatto con quanto si legge in un probabile peana di Simonide (Simon. fr. 519b Page)71. Nel frammento molto lacunoso di quello che è stato segnalato da Käppel tra i peana legati al culto apollineo di Delfi72 ricorre la parola HX>IDPRQ (Simon. fr. 519b.10 Page; cf. Eur. Ion 98) che, insieme all’espressione L-HYPHQRLHMQRSDYQ (Simon. fr. Guidorizzi 2001, p. 114 n. 22. Vd. Pace 2009, p. 371; Rutherford 2001, p. 59. 69 Vd. Rutherford 2001, p. 112. 70 Come nel caso dell’Elena, anche nello Ione la presenza in scena del personaggio non impedisce al Coro di eseguire il suo canto d’ingresso (Eur. Ion 184-218) prima di cercare un contatto con lui (Eur. Ion 219-220). Vd. supra, pp. 74-76. 71 Per un’analisi di questo testo, vd. Rutherford 1990, pp. 172-176. 72 Vd. Käppel 1998, p. 322. 67 68
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519b.9 Page), sembra implicare la presenza di un refrain. L’elemento probabilmente più importante, però, è rappresentato dalle parole S]RYQRQX-SRPLYPQRPH[Q (Simon. fr. 519b.6 Page), che possono essere accostate alle numerose allusioni di Ione al proprio lavoro (Eur. Ion 128-130 SRYQRQODWUHXYZ, 131 R-SRYQR PRL, 134-135 SRYQRXPRFTHL QRXMNDMSRNDYPQZ). Il significato esatto del passo simonideo è incerto: forse esso allude alla fatica della theoria che è giunta a destinazione o che è in procinto di partire, oppure più probabilmente all’attesa del segnale che precede la partenza73. Nel riferimento alla funzione svolta dal coro (sphragis), la forma del verbo al plurale (X-SRPLYPQRPH[Q) evidenzia per contrasto l’insistente uso da parte di Ione della prima persona singolare, tanto nelle forme verbali (Eur. Ion 121 VDLYUZ, 129-130 ODWUHXYZ, 135 DMSRNDYPQZ, 137 HXMORJZ , 139 OHYJZ) quanto in quelle pronominali (Eur. Ion 131 PRL, 136 PRL, 138 HMPRLY), un uso che non dipende dalla comune identità nella quale si riconoscono i coreuti ma dalla solitudine del personaggio euripideo74. Un altro esempio di peana destinato a celebrare l’Apollo di Delfi, risalente al IV sec. a.C. – e quindi posteriore alla tragedia –, è quello composto da Aristonoo di Corinto e probabilmente legato alle celebrazioni del Septerion: esso testimonia l’impiego di metri gliconici all’interno di una struttura strofica che termina con la ripetizione del «SDLDYQ-cry» in forma di refrain. Anche se questo grido non viene isolato in un ritornello autonomo, la struttura compositiva del testo rispecchia quella della monodia di Ione, per la quale risulta ulteriormente avvalorato il legame con la reale pratica cultuale. Le suggestioni dell’“anomalo” peana eseguito da Ione nell’omonima tragedia di Euripide75 si spingono, tuttavia, anche oltre i confini di questo genere di canto. La particolare ricercatezza e l’enfasi adottata all’inizio della strofe nell’invocazione rivolta al ramo di alloro76 sono, probabilmente, all’origine della scelta, operata da alcuni studiosi e già segnalata 77, di escludere dal peana la strofe del brano tragico; eppure proprio questa componente poteva richiamare nell’immaginario del pubblico un’altra cerimonia rituale, in cui i rami di alloro avevano un ruolo centrale: le dafneforie 78. L’associazione tra la monodia e il canto tipico di queste celebrazioni religiose poteva essere supportata anche dalla composizione metrica, e in particolare dalle frequenti sequenze gliconiche (gliconei e ferecratei) acefale: il dafneforico pindarico (Pind. fr. 94b Vd. Rutherford 1990, pp. 175-176, che a proposito dell’idea del lavoro sacro rinvia proprio ai versi della monodia di Ione (n. 24), oltre che Pind. fr. 52h.22 Maehler (vd. Rutherford 2001, p. 249 nn. 18-19). Secondo una possibile ricostruzione del testo, cf. Pind fr. 52f.50 Maehler. 74 Le allusioni di Ione al proprio lavoro sono intese come «a kind of sphragis or seal» da Lee 1997, p. 171. Vd. Furley – Bremer 2001, I, p. 322. 75 Il canto di Ione è presentato come un peana “anomalo” da Pace 2009. In modo analogo, Furley – Bremer 2001, I, pp. 322-323, riconoscono nel testo alcuni elementi «‘para-hymnic’». 76 Per un’analisi puntuale di questo aspetto, vd. Pace 2009. 77 Vd. Chapot – Laurot 2001, pp. 130-131. 78 Rutherford 2001, pp. 111-112: «The strophe is a cheerful description of the branch of laurel with which Ion sweeps the temple (one is reminded, perhaps, of the laurel-bearing ritual in the Delphic Septerion, which would have been accompanied by the singing of SDLD QH)». 73
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Maehler) presenta la stessa caratteristica. Le forme gliconiche acefale si concentrano in particolare nella parte iniziale di strofe e antistrofe, dove sono presenti non solo molti riferimenti al lavoro compiuto da Ione sulla scena 79 ma anche le principali allusioni al contesto dafneforico. Proseguendo lungo il filo delle suggestioni, se si sposta l’attenzione sulle scelte lessicali, si ricavano ulteriori elementi in questa direzione. Nel primo verso della strofe spicca l’aggettivo composto QHRTDOHY, attributo del ramo di alloro, lo stesso che nell’Inno omerico a Ermes 82 VXQGKYVDQHRTKOHYRDMJNDORQ X^OK è riferito a fronde di tamerici e di mirto. Ma nel particolare contesto della monodia di Ione esso evoca un altro aggettivo composto strettamente connesso alle dafneforie: DMPILTDOKY, l’attributo del giovane che guidava la processione cultuale80. Del resto, anche all’interno dello stesso testo euripideo la ripetizione in poliptoto del verbo che descrive il lavoro compiuto dal custode del santuario di Apollo con il ramo di alloro (D`VDLYUHLD_LVDLYUZ) suggerisce l’identificazione fra la fronda e la persona81. E il cortocircuito – Ione, ramo di alloro, SDL DMPILTDOKY – è completo. L’aggettivo DMPILTDOKY designava, infatti, una persona che aveva entrambi i genitori viventi – patrimus et matrimus – e questa condizione contrasta nettamente con la situazione di Ione che non ha né un padre né una madre82. Il composto QHRTDOKY, da parte sua, si attaglia bene al giovane personaggio tragico e alle “novità” che lo attendono: negli sviluppi dell’azione drammatica egli prima trova un padre in Xuto e in seguito si scopre figlio di Creusa e Apollo (Eur. Ion 1606-1608), pur lasciando il patrigno nella convinzione di essere il suo genitore naturale (Eur. Ion 16011603). Il peana monodico di Ione è “anomalo” ma il suo canto è ancor più singolare in rapporto al dafneforico. Il giovane, attraverso l’identificazione con il ramo di alloro, può essere associato alla figura del SDL DMPILTDOKY, ma lo stesso assolve contemporaneamente al ruolo dei giovani o delle giovani che compongono il corteo e cantano per lui il daphnephorikon. Trova così ulteriore conNon si può escludere che questa particolarità metrica fosse legata alla gestualità dell’orante durante la celebrazione del rito, così come dell’attore di teatro impegnato sulla scena in un lavoro che evocava probabilmente le processioni dafneforiche: vd. De Poli 2011, p. 183. 80 Secondo Pace 2009, p. 372, l’aggettivo impiegato nella monodia di Ione «sembra scelto per rimandare a un contesto sacro […] o specificamente cultuale»: in particolare, cf. Aesch. Eu. 450 VIDJDLQHRTKORX ERWRX . 81 A questo proposito, vd. Pace 2009, pp. 372-373; Furley – Bremer 2001, II, p. 309; Segal 1999; Hoffer 1996, pp. 295-296. Una tale identificazione poteva essere favorita anche dal legame fra l’aggettivo QHRTDOKY e il sostantivo TDYOR, che in Euripide spesso designa da condizione di figlio: Eur. El. 15, IT 171, 209, 232, Ph. 88. 82 Per l’uso di DMPILTDOKY in tragedia, cf. Aesch. Ch. 394: vd. Untersteiner 2002, pp. 288-289. Citti 1962, p. 174 n. 227, sottolinea che nell’opera eschilea «il SDL DMPILTDOKY, menomato di questa sua qualità dall’assassinio del padre, invocherebbe in suo soccorso =HXDMPILTDOKY». Con un diverso significato etimologico, l’aggettivo ricorre anche in Aesch. Ag. 1144, dove Judet de La Combe 2001, p. 475, osserva che «il y a par ailleurs ironie à appliquer à la vie de la mère infanticide et pleurant son fils un terme qualifiant normalment des enfants dont les parents sont en vie». Vd. anche Fraenkel 1950, pp. 522-523. 79
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ferma l’impressione di uno Ione che fa tutto da sé, sommando nella sua persona ruoli tradizionalmente assegnati a persone diverse. 3.1.2. Equilibri drammaturgici: il peana di Ione e l’anti-inno di Creusa La caratterizzazione del rapporto di Ione e di Creusa con Apollo è molto simile e al contempo radicalmente opposta. Dietro la comune confidenza con cui entrambi gli parlano, l’uno si rivolge al dio come al proprio amorevole tutore, come a un padre putativo (Eur. Ion 136-140), mentre l’altra lo tratta alla pari di Xuto, suo marito, come un amante traditore, come una persona vile (Eur. Ion 878-880, 912), come un vero e proprio farabutto. Le rispettive monodie si richiamano a distanza e sembrano bilanciarsi a vicenda83. L’opposto giudizio relativo ad Apollo dipende dal diverso grado di conoscenza dei fatti, o meglio dalla presunzione della donna di conoscere in esclusiva un terribile segreto. Alla devozione84 rispondono il disprezzo e l’ingiuria85, alla fiducia lo sconforto e il risentimento. Eppure i loro canti – un peana-dafneforico anomalo e un anti-inno – producono lo stesso senso di vacuità. Nel contesto tragico la monodia di Creusa e la sezione strofica dell’assolo di Ione, ispirati alla tradizione poetica e alle reali pratiche cultuali delfiche, sono ugualmente svuotati del loro senso originale: rimangono soltanto un quadro senza cornice e un contenitore privo del suo abituale contenuto. Questi brani sono lo specchio di una maternità – quella di Creusa – destinata a rimanere inconfessata e di una paternità – quella di Xuto – inesistente, dispiegate in un tragico gioco fra realtà e apparenza. La riduzione monodica di canti tradizionalmente corali è il riflesso di pratiche pubbliche forzatamente ricondotte entro l’orizzonte individuale. Se il peana e ancor più il dafneforico erano connessi a riti di iniziazione, di passaggio all’età adulta, e quindi all’ingresso nella comunità civica86, Ione acquisirà una posizione attraverso un percorso minato alla base dall’apparenza e dall’illusione, in cui la verità è conosciuta solo da pochi “iniziati”: madre e figlio. La disgregazione completa è evitata solo grazie agli interventi divini di Ermes nel prologo e di Atena ex machina nell’esodo: il fulcro di tutta la vicenda, il dio della parola profetica, Apollo, non si rivela mai87. Lo stesso Ione, che riassume in sé le funzioni del SDL DMPILTDOKY e quelle del corteo che lo accompagna, nel seguito della tragedia costruirà da solo la tenda dove si deve compiere la sua investitura, agendo «al contempo la parte di chi deve essere iniziato e quella dell’iniziatore che prepara il luogo e i simVd. Furley 1999-2000, pp. 188-190. Furley 1999-2000, pp. 188-189, insiste sulla volontà di Ione di emulare il dio, utilizzando prima un ramo di alloro, la pianta a lui sacra, e poi un arco, tradizionale attributo di questa divinità. 85 Grube 1941, p. 269: «her feeling of anger and revolt against the god […] here culminates in the supreme blasphemy before his temple». 86 Vd. Rutherford 2001, p. 62. 87 Vd. Susanetti 2007, pp. 221-250. 83 84
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boli della cerimonia»88. Non diversamente opera il canto di Creusa: l’inno di norma esprime nella celebrazione del dio un sentimento condiviso dalla comunità e contribuisce a saldare la coesione al suo interno superando le logiche di parte e di classe89; al contrario la monodia della figlia di Eretteo funziona da strumento di persuasione nei confronti del vecchio servitore. Colui che aveva sollevato Apollo da ogni colpa nei confronti della padrona, in seguito all’anti-inno e alle necessarie precisazioni rivede completamente la propria opinione allineandosi alla verità propugnata da Creusa (Eur. Ion 952)90 e facendosi a sua volta istigatore della vendetta nei confronti del dio (Eur. Ion 970 ss.). Non fattore di unità e di pacificazione ma pungolo di rivoluzione, proprio nel cuore di uno tra i più importanti santuari greci dedicati ad Apollo 91. 3.2. Ifigenia in Aulide 1475-1496 (monodia di Ifigenia): un upingo proces sio nale Ifigenia è giunta in Aulide con la prospettiva di andare sposa ad Achille. In realtà il padre ha in serbo per lei un destino diverso: diventare la vittima sacrificale da immolare sull’altare di Artemide, perché la dea desista dalla sua collera e la spedizione diretta a Troia possa riprendere il suo corso. La tragedia di Euripide è costruita principalmente attorno alla costruzione dell’inganno, al suo disvelamento e ai tentativi di impedire che si giunga al suo irreparabile compimento. Il percorso non è lineare: intervengono i ripensamenti personali e le esitazioni dello stesso Agamennone, a turno provano ad opporsi al suo piano Ifigenia, Clitemnestra e anche Achille, ma alla fine la giovane donna decide di andare incontro alla sua sorte senza fare ulteriore resistenza. Rimasta in scena con la madre, si congeda da lei per l’ultima volta e la invita a non accompagnarla verso il sacrificio. Avviandosi verso l’altare della dea, pronuncia sette trimetri giambici, dando alcune indicazioni al Coro per una corretta celebrazione del rito92, e inizia poi a cantare: D>JHWHYPHWDQ,OLYRX NDL)UXJZ QH-OHYSWROLQ VWHYIHDSHULYERODGLYGRWHIHYUH WHSORYNDPRR^GHNDWDVWHYIHLQ FHUQLYEZQWHSDJDL H-OLYVVHWDMPILQDRYQ DMPILEZPRQ$UWHPLQ WDQD>QDVVDQ$UWHPLQ Susanetti 2007, p. 248. A proposito della funzione politica degli inni di Terpandro all’interno della città di Sparta, vd. Quattrocelli 2007. 90 L’adesione del vecchio alla posizione sostenuta da Creusa è evidente anche sul piano lessicale: Eur. Ion 952 $SRYOOZQGR-NDNRY; cf. Eur. Ion 912 LMZNDNRHXMQDYWZU. 91 Sulla funzione antisociale dei due canti rivolti ad Apollo, vd. Rutherford 2001, p. 112, che la riconnette al ritratto negativo del dio, che emerge da in generale dalla tragedia. 92 Questo preludio recitato presenta analogie funzionali con altri due passi euripidei: cf. Eur. Andr. 91-102 (trimetri giambici), Ion 82-111 (anapesti in recitativo). 88 89
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WDQPDYNDLUDQZ-HMPRL VLQHLMFUHZYQ DL^PDVLTXYPDVLYWH THYVIDWHM[DOHLY\Z Z?SRYWQLDSRYWQLDPD WHURXMGDYNUXDYJHYVRL GZYVRPHQD-PHYWHUD SDUL-HURL JDURXMSUHYSHL Z?QHDYQLGH VXQHSDHLYGHW$UWHPLQ &DONLYGRDMQWLYSRURQ L^QDWHGRYUDWDPHYPRQHGDYL!DGLHMPRQR>QRPD WD VG$XMOLYGRVWHQRSRYURLVLQR^UPRL Guidatemi! Guidate me, la donna che espugnerà la città frigia di Ilio. Datemi, portatemi una corona: ecco qui la chioma da incoronare. Orsù, portatela all’acqua lustrale. In onore di Artemide regina, di Artemide beata, volteggiate intorno al sacello, intorno all’altare: così, se serve, col mio sacrificio e col mio sangue darò compimento alle profezie divine. A te, venerabilissima Madre, no, io non le voglio offrire, le mie lacrime: non si può piangere davanti al tempio. Giovani donne, cantate con me, celebrando Artemide che fronteggia Calcide: qui fremono le mortifere lance, nelle anguste rade d’Aulide, a causa del mio nome. In una struttura scandita essenzialmente da sequenze giambo-trocaiche, sono frequenti i fenomeni di ripetizione: l’epifora ($UWHPLQ ripetuto alla fine della stessa sequenza giambo-trocaica nel v. 1482 e nel v. 1483, e in seguito anche nel v. 1492), l’anafora (DMPILY, seguito dai sostantivi QDRYQ e EZPRYQ legati dall’omoteleuto, nel v. 1480 e nel v. 1481; WDQ, seguito dalle parole assonanti D>QDVVDQ e PDYNDLUDQ, all’inizio di sequenze giambo-trocaiche diverse solo nella lunghezza nel v. 1482 e nel v. 1483), l’omoteleuto (DL^PDVLTXYPDVL nel v. 1485), la geminatio (SRYWQLD nel v. 1487). L’eleganza espressiva è testimoniata anche da alcune scelte lessicali, in particolare dal composto H-OHYSWROLQ (v. 1476)93. La dea Artemide, dapprima menzionata in forma indiretta con due epiteti tradizionali associati al suo nome (Eur. IA 1480-1483), viene in seguito invocata nei vv. 1487-1489 e, nel finale della monodia, viene ricordato il locale santuario della divinità. Il canto chiarisce anche lo scopo del rito imminente: il compimento dell’oracolo riferito da Calcante, secondo il quale la spedizione dei Greci verso Troia potrà riprendere solo dopo il sacrificio della figlia di Agamennone sull’altare di Artemide. Le parole di Ifigenia hanno, dunque, un carattere propiziatorio e insistono sui preparativi della cerimonia sacrificale. Le numerose esortazioni, rivolte alle giovani donne del coro, si susseguono in asindeto (D>JHWHGLYGRWHIHYUHWHH-OLYVVHWVXQHSDHLYGHW[H]) e riguardano l’organizzazione della processione, i movimenti di danza e l’esecuzione del canto. All’inizio viene chiesto che si porti l’acqua lustrale e la corona da porre sul capo della vittima predeQuesto aggettivo si trova già in Aesch. Ag. 689-690, nel tricolon H-OHYQDH^ODQGURH-OHYSWROLQ: vd. Günther 1992, p. 612.
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stinata: la frase incidentale, con cui Ifigenia piega la propria testa, e il deittico R^GH (Eur. IA 1478) sottolineano il carattere dinamico della scena e lo stretto legame tra il canto e la cerimonia in atto. La situazione è delineata in modo chiaro: una donna in veste di exarchos intona la monodia a cui risponde un coro femminile, il canto ha una funzione propiziatoria, è destinato ad Artemide e accompagna la processione che si avvia verso l’altare per il sacrificio e che coincide con l’uscita di scena di Ifigenia. Ma quale termine è più appropriato per definirlo? Partenio, perché intonato da giovani donne? Prosodio, perché eseguito durante un atto processionale? Secondo le categorie stabilite da Polluce, sarebbe più corretto parlare di un upingo a carattere prosodiaco. 3.2.1. Un “peana” per Artemide? La preparazione del rito processionale ha inizio, in realtà, già nella sticomitia e nell’antilabe con Clitemnestra (Eur. IA 1458-1466) e nei trimetri giambici che la stessa Ifigenia pronuncia prima di intonare la monodia (Eur. IA 1467-1474). Viene esclusa la partecipazione della madre, che con le sue lacrime avrebbe inficiato il carattere propiziatorio della cerimonia94, e viene scelto un servo di Agamennone come scorta fino al prato di Artemide. Vengono date disposizioni in merito alla consacrazione dei canestri, all’accensione del fuoco, alla purificazione dei grani d’orzo, ai giri che lo stratega atride deve compiere da destra attorno all’altare prima che venga affondato il coltello nella vittima. Il Coro deve cantare ad Artemide, la figlia di Zeus, e viene richiamato ripetutamente all’euphemia (Eur. IA 1467 HMSHXIKPKYVDW, 1469 L>WZHXMIKPLYD), imposta dalla circostanza cultuale: l’espressione più appropriata alla circostanza viene individuata in un “peana” (Eur. IA 1468 SDLD QD). Il termine usato da Ifigenia non è tecnicamente quello più preciso, dal momento che il peana di norma non è rivolto ad Artemide, almeno non come unico destinatario, ed anche la sua esecuzione da parte di un coro femminile risulta eccezionale95. La scelta della dea è senza dubbio coerente con la situazione drammaturgica e consente anche di osservare l’auspicabile identità di genere tra esecutore e destinatario del canto, ma non c’è alcuna traccia del «SDLDYQ-cry», né viene mai menzionata la figura apotropaica di Peana. È possibile che la terminologia impiegata all’interno di una tragedia non fosse sempre esatta come in un trattato tecnico, oppure che l’uso estensivo del nome dipendesse da una categorizzazione dei generi poetici che poteva essere nota alla fine del V sec. a.C. ma che era rispettata in modo non troppo rigido: proprio le opere tragiche, del resto, dimostrano di alludere al peana in maniera impropria e distorta 96. Eppure, rispetto all’imminente sacrificio, il canto intonato da Ifigenia ha la funzione propiziatoria tipica del peana.
Vd. Turato 2001, p. 248 n. 183; Günther 1992, p. 614. Vd. Rutherford 2001, pp. 23, 59; Calame 1977, pp. 147-149. 96 Vd. Rutherford 2001, pp. 111-112. 94 95
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La scelta terminologica operata da Euripide, d’altra parte, è coerente anche con la situazione più generale del dramma: tanto l’offerta immolata sull’altare di Artemide quanto il canto che accompagna il rito hanno lo scopo di favorire la spedizione a Troia e il successo della guerra. L’immagine finale delle lance costrette sulle anguste prode di Aulide e smaniose di combattere (Eur. IA 1494-1497) ritrae l’esercito nella fase che precede lo scontro. Ma l’esito è già deciso, la sconfitta del nemico è certa e Ifigenia, insistendo su questo aspetto, con un evidente anacronismo si presenta fin dall’inizio non solo come promessa di salvezza e vittoria per la Grecia ma anche come la conquistatrice di Ilio e della terra dei Frigi (Eur. IA 1476 H-OHYSWROLQ), quasi l’impresa fosse compiuta97. E proprio un peana poteva essere intonato a conclusione del conflitto bellico per suggellare la vittoria. La tragedia gioca, inoltre, con un’ulteriore possibile valenza del peana: il suo legame con la cerimonia nuziale. L’arrivo di Ifigenia in Aulide era motivato dalla prospettiva del matrimonio con Achille. L’usanza greca prevedeva che gli sposi fossero lavati in acque pure98 e coronati di fiori ma gli stessi preparativi interessavano anche le vittime dei sacrifici. La figlia di Agamennone all’inizio della sua monodia chiede che si porti l’acqua lustrale e con slancio porge il capo per ricevere la corona intrecciata, ma non sarà sposa, bensì vittima sacrificale99. La polivalenza propria del “peana” non ridimensiona la singolarità del canto di Ifigenia, che anzi risulta amplificata dalla sua polisemia. La monodia della figlia di Agamennone supera per certi aspetti anche la particolarità del brano corale infraepisodico delle Trachinie, intonato al posto del primo stasimo (Soph. Tr. 205-224). La partitura metrica dei due passi – scandita in prevalenza da sequenze giambo-trocaiche con l’inserzione di qualche docmio100 – è molto simile. Inoltre, il canto sofocleo prelude all’imminente ritorno trionfante di Eracle e presagisce «il ricongiungimento (una sorta di “nuovo matrimonio”) che si festeggerà in casa»101. Rispetto al passo dell’Ifigenia in Aulide, tuttavia, qui è presente un chiaro esempio di epiphthegma peanico (Soph. Tr. LMZ LMZ3DLDYQ) e l’autoesortazione a invocare Artemide, coerentemente con l’iden97 Anche nel primo stasimo dell’Agamennone eschileo (Aesch. Ag. 689) questo attributo, insieme agli altri due, è riferito a Elena alla luce di fatti già avvenuti, che il Coro si appresta a rievocare. 98 Vd. Contiades-Tsitsoni 1990, p. 40. 99 L’epiteto PDYNDLUD (Eur. IA 1483) riferito ad Artemide, per quanto non implichi necessariamente un legame con la cerimonia nuziale e con il makarismos né richiami il legame fra la dea e il matrimonio, poteva suonare tragicamente ironico sulle labbra di una donna costretta a sostituire la prospettiva dell’unione coniugale con quella del sacrificio e della morte. 100 Per l’analisi metrica del canto infraepisodico delle Trachinie, vd. Rodighiero 2004, pp. 266267; Centanni 1991, pp. 40-41. Nonostante qualche differenza legata alle scelte testuali, la caratterizzazione del brano rimane sostanzialmente identica. Per la monodia di Ifigenia, vd. De Poli 2011, pp. 334-335. 101 Rodighiero 2004, p. 164. Il canto delle donne di Trachis, tuttavia, presenta alcuni elementi tipici degli iporchemi e dei canti dionisiaci, espressione di una gioia sfrenata ma destinata a una cocente delusione e alla catastrofe tragica.
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tità femminile del Coro, si accompagna all’auspicio che si uniscano al canto anche gli uomini con l’intento di celebrare Apollo: dettagli che rispecchiano meglio le caratteristiche proprie del peana, anche se questa alternanza di voci maschili e femminili non si realizza sulla scena a causa dell’arrivo di Lica e delle prigioniere. Diversamente, Ifigenia non solo allontana la madre ma, proiettata verso un destino glorioso, esclude qualsiasi contatto con il mondo maschile, al quale si sostituisce lei stessa: secondo il racconto del messaggero, volendo affermare la propria volontà e il proprio coraggio, mentre si avvicina all’altare, la giovane chiede che nessuno degli Achei la tocchi (Eur. IA 1559). Nel singolare “peana” ad Artemide, intonato dalla figlia di Agamennone, alle logiche politico-militari si mescolano così l’eccezionalità del sacrificio umano e l’irruzione del femminile in ambiti tipicamente maschili. 3.2.2. Le incertezze del Coro Simili premesse permettono di leggere sotto una luce particolare la più ampia struttura lirica (Eur. IA 1475-1531), che inizia con la monodia e che prosegue con l’intervento del Coro102, secondo uno schema tripartito: monodia di Ifigenia (Eur. IA 1475-1499); amebeo fra Ifigenia e le donne di Calcide (Eur. IA 1500-1509); canto corale (Eur. IA 1510-1531). Già nell’Ecuba Euripide aveva costruito un’ampia sezione lirica articolata nello stesso modo: monodia di Ecuba (Eur. Hec. 154-174); amebeo fra Ecuba e Polissena (Eur. Hec. 175-196); monodia di Polissena (Eur. Hec. 197-215). A qui, tuttavia, le due monodie non solo sono disposte in modo speculare ma si corrispondono anche sul piano metrico103 e fra l’assolo della madre e quello della figlia sono presenti anche alcune riprese lessicali, talvolta nella stessa sede. La corrispondenza metrica fra i due brani non implica necessariamente una visione comune nei personaggi che li eseguono: alla notizia che gli Achei hanno deciso di sacrificare Polissena sulla tomba di Achille, Ecuba ha una reazione di disperazione, mentre la figlia vi riconosce l’opportunità di evitare l’umiliazione della schiavitù. L’identità morfologica delle due monodie mette in risalto la distanza etica fra le due donne ma, allo stesso tempo, è fondata sul comune tema del compianto: la madre lamenta la morte imminente di Polissena, mentre quest’ultima è addolorata per la misera sorte di schiava che attende Ecuba in terra greca. Anche il Coro dell’Ifigenia in Aulide ripete, alla lettera o con minimi aggiustamenti, alcune espressioni usate in precedenza dalla protagonista ma i loro canti non sono in responsione104: 102 Per diverse ragioni il finale di questa tragedia deve essere considerato spurio; tuttavia, la parte ritenuta non originale ha inizio dal v. 1532, dopo la fine del canto corale: vd. Turato 2001, pp. 254-256; Stockert 1992, pp. 79-87, 617-618; Jouan 1983, p. 152 n. 4. 103 La responsione metrica fra queste due monodie dell’Ecuba è controversa ma molto probabile: vd. De Poli 2011, pp. 84-94; De Poli 2005. 104 Hose 1991, p. 114, pur evidenziando la rispondenza tra le parole del Coro – in particolare la preghiera ad Artemide – e la richiesta di Ifigenia in tal senso, segnala che il canto di rispo-
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D>JHWHYPHW WDQ,OLYRX NDL)UXJZ QH-OHYSWROLQ VWHYIHDSHULYERODGLYGRWHIHYUH WHSORYNDPRR^GHNDWDVWHYIHLQ FHUQLYEZQWHSDJDL H-OLYVVHWDMPILQDRYQ DMPILEZPRQ$UWHPLQ WDQD>QDVVDQ$UWHPLQ WDQPDYNDLUDQZ-HMPRL VLQHLMFUHZYQ DL^PDVLTTXYPDVLYWH THYVIDWHM[DOHLY\Z Z?SRYWQLDSRYWQLDPD WHURXMGDYNUXDYJHYVRL GZYVRPHQD-PHYWHUD SDUL-HURL JDURXMSUHYSHL Z?QHDYQLGH VXQHSDHLYGHW$UWHPLQ &DONLYGRDMQWLYSRURQ L^QDWHGRYUDWDPHYPRQHGDYL!DGLHMPRQR>QRPD WD VG$XMOLYGRVWHQRSRYURLVLQR^UPRL
L>GHVTHW WDQ,OLYRX NDL)UXJZ QH-OHYSWROLQ VWHLYFRXVDQHMSLNDYUDVWHYIHD EDORXPHYQDQFHUQLYEZQWHSDJDY EZPRQDL^PRQRTHD U-DQLYVLQDL-PDWRUUXYWRL U-DQRX VDQHXMIXK WHVZYPDWRGHYUKQ VIDJHL VDQHX>GURVRLSDJDL SDWUZ LDLPHYQRXVLFHYUQLEHYWHYVH VWUDWRYW$FDLZ QTHYOZQ ,OLYRXSRYOLQPROHL Q DMOODWDQ'LRNRYUDQ NOKYLVZPHQ$UWHPLQTHZ QD D>QDVVDQ Z?SRYWQLDmSRYWQLD®TXYPDVLmQ®EURWKVLYRL Z-HMSHXMWXFHL SRYWPZL
La composizione astrofica105 è legata anche, probabilmente, al carattere processionale del brano106 ma è significativa anche in rapporto alla scarsa naturalezza e fluidità con cui si concretizza l’alternanza fra personaggio e Coro. Nel canto a solo Ifigenia assume il ruolo di exarchos e rivolge alle donne di Calcide ripetute esortazioni alla danza e al canto107. Queste inizialmente si erano mosse a compassione per l’imminente morte della giovane (Eur. IA 1336-1337 HMJZPHQRLMNWLYUZVHVXPIRUD NDNK WXFRX VDQ) e, di fronte alla sua decisione di affrontare il sacrificio, avevano manifestato la propria ammirazione per la nobiltà d’animo dimostrata (Eur. IA 1402 WRPHQVRYQZ?QHD QL sta ripete molte espressioni già utilizzate dall’eroina tragica ed è incline a considerare questo fenomeno come evidenza di un’interpolazione. 105 Jouan 1983, p. 119 n. 3, osserva che la monodia di Ifigenia e il canto corale «se réponent en partie (ainsi 1475-1479 et 1509-1513), mais sans qu’il y ait une véritable responsio, telle qu’Hermann et Nauck ont cherché à etablir entre 1475-1490 et 1510-1520». 106 Vd. Stockert 1992, p. 618. Nell’Ifigenia in Aulide i differenti movimenti del personaggio e del Coro potrebbero essere legati anche alla situazione drammaturgica: mentre Ifigenia esce definitivamente di scena avviandosi da sola verso l’altare di Artemide, il Coro sembrerebbe accompagnare la giovane senza allontanarsi dallo spazio scenico prima della fine della tragedia. Le incertezze relative alla versione originale dell’esodo, tuttavia, non consentono un’analisi sicura degli sviluppi successivi alla sezione lirica corrispondente ai vv. 1475-1531: solo come ipotesi, si potrebbe pensare che Ifigenia esca entro il v. 1520 e che il Coro sia rimasto ormai solo, quando intona la preghiera ad Artemide (Eur. IA 1521-1531), segnalata come inno da Furley – Bremer 2001, p. 312. Diversamente Jouan 1983, p. 120, segnala la contestuale uscita di scena di Ifigenia e di Clitemnestra alla fine dell’amebeo fra la giovane donna e il Coro (Eur. IA 1509), seppure in due direzioni diverse, ma il monito con cui si apre il brano corale (Eur. IA 1510 L>GHVTH) suggerisce che l’attore sia ancora visibile in scena. 107 Anche il canto infraepisodico delle Trachinie (Soph. Tr. 205-224) sembra associare al suo carattere processionale (Soph. Tr. 211 SDLD QDMQDYJHW[H]) frenetici passi di danza, tipicamente dionisiaci, come suggeriscono le grida e i riferimenti ad attributi bacchici: vd. Rodighiero 2004, pp. 164-165; Centanni 1991, pp. 39-42.
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JHQQDLYZH>FHL), pur rilevando l’anomalia della situazione (Eur. IA 1403 WRWK WXYFKGHNDLWRWK THRX QRVHL ). Ora, di fronte all’iniziativa di Ifigenia, forse affascinate dal suo carisma, non mostrano particolari segni di esitazione ed è possibile che inizino a muovere i primi passi di danza già durante la monodia. L’eroina, dopo aver esortato al canto (Eur. IA 1492 VXQHSDHLYGHW[H]), evoca la terra patria (Eur. IA 1498-1499): da qui ha inizio l’amebeo lirico ma, contrariamente alla struttura formale, la dinamica comunicativa è tutt’altro che dialogica. Le parole di Ifigenia seguono una logica propria, indifferente agli interventi del Coro108: la domanda formulata dalle donne calcidesi nei vv. 15001501 non ottiene alcuna risposta e il commento presente nel v. 1504 risulta un’inutile e inopportuna intrusione rispetto al «tradizionale congedo […] dell’eroe tragico alla vita»109 e alla struttura circolare del canto della giovane, evidente nella ripresa del termine IDYR (Eur. IA 1502 e 1509). La composizione ad anello è efficace anche se IDYR è impiegato con due connotazioni diverse: nel primo caso evoca lo splendore della gloria, nel secondo la luce del sole come sinonimo di vita. Da ciò dipende l’equivoco del Coro, che interviene – forse un po’ troppo frettolosamente – sottolineando il NOHYR immortale che la giovane otterrà con il suo sacrificio, senza cogliere l’intenzione ultima delle parole di Ifigenia a partire dal v. 1498. Finalmente, il Coro riceve il testimone da Ifigenia e prende in mano le redini della situazione ma non sa fare di meglio che ripetere e adattare le parole già utilizzate da Ifigenia nella sua monodia, enfatizzando l’aspetto cruento del sacrificio ed esplicitando la ragione impellente del suo gesto – la smania dell’esercito greco di giungere a Troia (Eur. IA 1519-1520) – e il fine auspicato – la gloria della vittoria per i soldati e in particolare per Agamennone (Eur. IA 1528-1531). Le donne di Calcide obbediscono alla volontà di Ifigenia, affascinate dal suo carattere nobile, ma, a differenza della madre, lo possono fare perché non sono unite a lei da vincoli di parentela o da particolari legami affettivi110. Il canto, che – indipendentemente dalla sua classificazione come peana, upingo o prosodio – doveva esprimere il comune sentire della comunità, viene stravolto da una situazione per molti aspetti anomala, offrendo a sua volta un’evidenza della perversione delle circostanze. Una situazione analoga si verifica nell’Alcesti (Eur. Alc. 244-279) fra i versi cantati dalla protagonista e i trimetri giambici di Admeto: vd. De Poli 2011, pp. 13-14. 109 Turato 2001, p. 248 n. 184. 110 Medda 2005, p. 127, osserva che «il coro dell’Ifigenia in Aulide, tradizionalmente bollato come uno dei più slegati dall’azione e non unito da alcun vincolo affettivo ad Ifigenia, è protagonista di una scena dialogica (Eur. IA 1475-1531) in cui accompagna la giovane alla morte eseguendo gli atti rituali da lei richiesti (Eur. IA 1466-74) e pregando Artemide perché il sacrificio abbia buon esito». Egli intende sottolineare l’esistenza di un’interazione fra il Coro e i personaggi presenti in scena, circostanza che non si verifica nelle Fenicie. Tuttavia, proprio questa interazione mette in evidenza l’impossibilità di una comunicazione piena ed efficace fra il personaggio e il Coro. 108
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CANTI NUZIALI 1.
I canti nuziali: caratteristiche generali
Nel mondo greco il matrimonio prevedeva diversi momenti, distribuiti in più giorni, e tutti potevano essere animati in vario modo da musiche, canti e danze1. Nelle fonti antiche il nome “imeneo” è utilizzato con valore estensivo, riferito indistintamente a espressioni meliche differenti2: oggi convenzionalmente esse possono, tuttavia, essere classificate con un diverso nome in funzione dell’occasione e del luogo in cui erano eseguite. La sera della giornata in cui si celebrava la cerimonia nuziale, si svolgeva anche la processione, la nymphagogia, durante la quale la moglie veniva condotta dalla dimora paterna fino alla casa del marito, alla luce delle fiaccole – impugnate in particolare dalle madri degli sposi – e accompagnata dal canto dell’imeneo: questo veniva intonato da un exarchos e gli altri partecipanti rispondevano in coro, secondo una struttura antifonale. Davanti al talamo degli sposi, all’arrivo del corteo o durante la prima notte di nozze, veniva eseguito l’epitalamio3, mentre il mattino successivo veniva intonato il “canto del risveglio”, indicato con il nome di diegertikon o di orthrion4. Un momento particolare era rappresentato dallo “svelamento” della sposa, o anakalypteria, anche se gli studiosi non sono concordi nel collocarlo durante il banchetto allestito a casa della nubenda il giorno delle nozze oppure in occasione dell’uscita pubblica della sposa il giorno successivo5. L’imeneo era contraddistinto dalla (1) invocazione a Imene, ma vi trovavano spazio anche altri motivi ricorrenti, come (2) formule di saluto con espressioni legate alla sfera della charis, (3) il makarismos degli sposi, (4) l’elogio degli sposi, (5) allusioni alla cerimonia in atto (riferimenti alle fiaccole o ai movimenti di danza, esortazioni o katakeleusmoi). Sul piano retorico-stilistico erano frequenti le (6) ripetizioni in tutte le sue forme, quali l’anafora, la geminatio, l’epifora, l’allitterazione, l’omoteleuto. La struttura compositiva aveva di solito (7) carattere antistrofico, ed era scandita da (8) sequenze gliconiche. A proposito del “canto del risveglio”, invece, le informazioni sono più scarse: il fr. 43 Radt di Eschilo dà indicazioni in merito al momento in cui ve1 Per una ricostruzione delle varie fasi, vd. Contiades-Tsitsoni 1990, pp. 33-41; Baltieri 2011, p. 205 n. 1. In merito ai momenti in cui venivano eseguiti alcuni canti e alle modalità performative degli stessi, utili osservazioni sono proposte anche da Muth 1977. 2 Sulla confusione fra imeneo ed epitalamio, vd. Muth 1977; Calame 1977, pp. 159-162. 3 Muth 1977, p. 53, segnala come esempio Theocr. XVIII, precisando che nel v. 6 il canto viene indicato impropriamente come “imeneo”: è possibile che la fortuna dell’epitalamio sia coincisa con il declino dell’imeneo, in un’epoca piuttosto tarda, non anteriore all’età ellenistica. 4 Questa pratica è attestata già in un frammento tragico del V sec.: Aesch. fr. 43 Radt. 5 La prima ipotesi è proposta, ad esempio, da Contiades-Tsitsoni 1990, p. 40. La seconda eventualità è argomentata da Rehm 1994, pp. 141-142.
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niva intonato, (a) l’alba, e al motivo principale del componimento, (b) l’augurio per gli sposi di essere felici e prolifici6. Il motivo della procreazione doveva essere comune anche all’epitalamio, qualora questo tipo di componimenti fosse comune già nell’età arcaica e classica, cioè prima del suo maggior sviluppo nell’epoca ellenistica. Il matrimonio era un rito di passaggio e come tale presentava alcune somiglianze con altre cerimonie analoghe, quale il funerale 7. Nel fr. 128c Maehler di Pindaro – probabilmente l’inizio di un threnos – l’imeneo viene considerato come uno dei «canti di morte», insieme al OLYQR e allo LMDYOHPR, in contrapposizione con i «canti di vita», rappresentati da peana e ditirambi: esso era legato al rito nuziale ma, secondo l’eziologia tradizionale, Imeneo era un giovane che morì il giorno del suo matrimonio, forse «proiezione mitologica e simbolica della scomparsa dell’imene»8.
2.
Riti nuziali, monodie e azione drammatica
Nelle monodie di Euripide alcuni passi evocano la celebrazione del matrimonio semplicemente attraverso la narrazione di eventi passati, altri sembrano alludere a diversi momenti del rito grazie a una scelta mirata delle parole che assumono una valenza particolare in rapporto all’azione drammatica, altri ancora riproducono sulla scena canti e danze nuziali. Giocasta nelle Fenicie (Eur. Ph. 337-349)9, incontrando Polinice, immagina lo sposalizio del figlio celebrato ad Argo: la circostanza è sintetizzata dal sintagma SDLGRSRLRQD-GRQDYQ (Eur. Ph. 338), che rinvia da un lato alla sfera del piacere e dell’eros e dall’altro alla procreazione di figli. Lo scenario di letizia è prontamente rovesciato dalla sottolineatura di molteplici anomalie: la cerimonia è stata celebrata in una casa straniera e con gente straniera 10 e ciò la rende insopportabile (Eur. Ph. 341 D>ODVWD); un matrimonio «estraneo» al genos (Eur. Ph. 343 JDYPRQHMSDNWRYQ) trasforma il piacere di procreare figli in una sciagura (Eur. Ph. 343 D>WDQ, che richiama il precedente D-GRQDYQ avendo la stessa funzione appositiva). Giocasta lamenta quindi la natura perversa di un rito compiuto in violazione delle usanze (Eur. Ph. 345 QRYPLPRQHMQJDYPRLZ-SUHY-
Il testo e la traduzione del frammento eschileo sono riprodotti in seguito: vd. infra, pp. 125126. Per la sua interpretazione, vd. Morani 1987, pp. 634-635 n. 2. 7 Vd. Rehm 1994, pp. 11-42. Con particolare riferimento ai riti funebri, vd. Cannatà Fera 1990, pp. 139-142; Mirto 2007, pp. 61-63, 73. A proposito della simbologia delle torce nella tragedia greca, vd. De Poli 2007. Nella tragedia queste affinità vengono spesso sfruttate per ottenere effetti di ironia tragica, giocati sul nesso amore-morte. 8 Vd. Cannatà Fera 1990, pp. 136-144. 9 Il testo di questi versi è stato oggetto di varie correzioni ed espunzioni da parte degli editori: in merito alle scelte specifiche, implicite nelle considerazioni proposte di seguito, vd. De Poli 2011, pp. 240-243. 10 Il particolare è sottolineato dall’anafora [HYQRLVLQHMQGRYPRL / [HYQRQGHNK GR (Eur. Ph. 339-340). 6
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SHL): la sua esclusione dall’accensione delle fiaccole e dalla nymphagogia, momento di particolare felicità per una madre (Eur. Ph. 346 PDWULPDNDULYDL); il mancato impiego delle acque dell’Ismeno per il bagno purificatore (Eur. Ph. 348 ORXWURIRYURXFOLGD ); l’imeneo non cantato sulle rive del fiume tebano (Eur. Ph. 347 DMQXPHYQDLD); il silenzio della città di Tebe (Eur. Ph. 349 HMVLJDYTK), contrario alla festante accoglienza riservata di norma alla sposa. Il matrimonio di Polinice – sottolinea la madre – è contrario alla tradizione e non può che portare rovina11. Sempre nelle Fenicie vi è un altro personaggio che fin dal prologo è caratterizzato come una vergine: Antigone. L’anziano pedagogo la introduce sulla scena, ricordando che lei ha potuto lasciare le sue stanze (Eur. Ph. 89 SDUTHQZ QD) per scrutare i guerrieri schierati solo dopo aver ottenuto il permesso della madre, e si premura di controllare che nessuno li veda perché entrambi non abbiano motivo di biasimo. Più avanti, nel corso della tragedia, Giocasta la invita a lasciare di nuovo quegli ambienti domestici (Eur. Ph. 1275 SDUTHQZ QD), dove si trastulla in danze e occupazioni femminili (Eur. Ph. 1265 SDUTHQHXYPDVLQ), per andare con lei fino al campo di battaglia ad impedire la morte dei fratelli, vincendo il pudore e la vergogna (Eur. Ph. 1276). Quella uscita la trasformerà: in seguito alla morte dei fratelli e della madre, la definitiva rinuncia di Antigone al pudore virginale (Eur. Ph. 1487-1489 RXMGX-SRSDUTHQLYD DLMGRPHYQD) si palesa attraverso la decisione di mostrarsi a volto scoperto, senza che il velo le copra le guance delicate e avanzando discinta nella veste tipica della festa12. Questa immagine, insieme ad alcune scelte lessicali 13, rinvia all’atmosfera tipica delle nozze: in particolare le parole iniziali della monodia di Antigone (Eur. Ph. 1485 RXMSURNDOXSWRPHYQD) richiamano il momento dell’anakalypteria. Ma questo gesto rituale si segnala per la sua singolarità: non c’è uno sposo ma tre cadaveri, non un matrimonio ma un corteo funebre, non un letto nuziale ma gli orrori della guerra – in particolare della guerra intestina e fratricida. Non è lo sposo o il padre 14 a toglierle il velo dal volto: vi ha Il racconto dei preparativi delle nozze è presente anche in una delle monodie di Ifigenia (Eur. IT 208-217): la giovane donna, ambita da pretendenti di tutta la Grecia, figlia primogenita di Agamennone e Clitemnestra, ricorda quando andò in Aulide su un carro con la prospettiva di celebrare il proprio matrimonio e l’illusione svanì tragicamente di fronte al sacrificio cui era stata destinata, ad onta del padre. Per le questioni testuali relative a questi versi, vd. De Poli 2011, pp. 165-166. 12 Nelle Baccanti Dioniso ammonisce Penteo, dopo averlo travestito da donna, perché gli si è allentata la cintura e la veste cade male fino alle caviglie: Eur. Ba. 935-936. A proposito dell’associazione fra la veste del colore dello zafferano e i momenti di festa, vd. Mastronarde 1994, p. 565. Le correzioni che egli adotta rispetto al testo tràdito, poco significative, non sembrano necessarie: vd. De Poli 2011, pp. 245-247. 13 In particolare, cf. Eur. Ph. 1485 DMEUDY. La delicatezza è un attributo riferito ad Andromaca in occasione del suo matrimonio: cf. Sapph. fr. 44.7 Voigt D>EUDQ$QGURPDYFDQ, a proposito del quale vd. Pernigotti 2001, pp. 14-17. 14 Nel finale dell’Alcesti, lo svelamento del volto della donna non è compiuto da Admeto ma da Eracle che sta affidando Alcesti all’amico imitando il comportamento tradizionale del padre della sposa. Sulla dinamica di questa azione scenica, vd. Susanetti 2001, pp. 275-276. 11
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provveduto il contatto diretto con il campo di battaglia15 ed ora Antigone può mostrare il proprio volto16. Rispetto alla procedura tradizionale del rito nuziale, queste anomalie dipendono dalle interferenze prodotte dal codice tragico e sono ancora più evidenti laddove canti e danze tipici del matrimonio sono agiti da alcuni personaggi sulla scena. 2.1. Troiane 308-340 (monodia di Cassandra) Taltibio, il messaggero degli Achei, è venuto con alcuni servitori a prendere Cassandra per condurla al guerriero a cui è stata assegnata: Agamennone. L’Atride intende portarla con sé ad Argo per farne la propria concubina. La giovane deve lasciare la madre e la tenda nella quale ora alloggia, per entrare in un’altra casa. La scena potrebbe evocare una situazione simile a quella di una nymphagogia, singolare in quanto non c’è la prospettiva di un’unione legittima e la figura dello sposo è al momento sostituita da quella di Taltibio, semplice esecutore degli ordini di Agamennone. In realtà, nulla evoca espressamente il rito nuziale fino a quando Cassandra non irrompe sulla scena agitando una torcia, e canta e danza invocando Imeneo: D>QHFHSDYUHFHIZ IHYUZVHYEZIOHYJZ LMGRXLMGRXYODPSDYVLWRYGL-HURYQ Z?#8PHYQDLD>QD[ PDNDYULRR-JDPHYWD PDNDULYDGHMJZEDVLOLNRL OHYNWURL NDW$UJRD-JDPRXPHYQD #8PKQZ?#8PHYQDLD>QD[ HMSHLVXYPD WHUHMSLGDYNUXVL JRYRLWHWRQTDQRYQWDSDWHYUDSDWULYGDWH ILYODQNDWDVWHYQRXVH>FHL
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Loraux (1981) ha analizzato il rapporto di sostanziale equivalenza fra l’ambito bellico (maschile) e la sfera erotica (femminile), fra le fatiche della guerra e le fatiche della procreazione: l’incursione di Antigone sul campo di battaglia potrebbe essere inteso come l’iniziazione della vergine, come il suo sverginamento. 16 Spogliarsi del velo per il personaggio tragico di Antigone significa, inoltre, superare l’immagine della «bimba pudica dell’inizio» per mostrarsi nel ruolo tradizionale di «custode dei morti e delle memorie famigliari»: per un’analisi più approfondita dell’evoluzione del personaggio euripideo delle Fenicie a confronto con la protagonista dell’Antigone sofoclea, vd. Susanetti 2007, pp. 267-270. Allusioni implicite al rito nuziale sono riscontrabili anche nella monodia di Elettra (Eur. El. 162-163), se si accetta la lettura proposta da Schiassi 1956, p. 245: «la PLYWUD era una benda avvolta […] attorno al capo in certe circostanze, come quando la donna si acconciava per un convegno amoroso notturno». La benda è segnalata come attributo tipico dell’acconciatura femminile in Eur. Hec. 923-924 SORYNDPRQDMQDGHYWRLPLYWUDLVLQ HMUUXTPL]RYPDQ. Cf. Eur. Ba. 833, 929, 1115. Altri studiosi vi colgono un’allusione agli ornamenti riservati ai vincitori di gare atletiche o di imprese militari: ad esempio, vd. Cropp 1988, p. 111. Tuttavia, anche il ricordo del momento in cui Agamennone fu ucciso (Eur. El. 157 ORXWUDY) sembra istituire un collegamento implicito con il bagno purificatore degli sposi: l’incontro tra Agamennone e Clitemnestra poteva portare a una ripetizione privata del rito nuziale ma proprio in questo contesto la sposa ha ucciso a tradimento il marito. 15
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HMJZWRYGHMSLJDYPRLHMPRL DMQDIOHYJZSXURIZ HMDXMJDYQHMDL>JODQ GLGRX VZ?#8PHYQDLHVRLY GLGRX VZ?#(NDYWDIDYR SDUTHYQZQHMSLOHYNWURL D_LQRYPRH>FHL SDYOOHSRYGDDLMTHYULRQD>QDJHFRURYQ HXMDQHXMRL Z-HMSLSDWURHMPRX PDNDULZWDYWDL WXYFDLR-FRURR^VLR D>JHVX)RL EHYQXQNDWDVRQHMQGDYIQDL DMQDYNWRURQTXKSROZ #8PKQZ?#8PHYQDL#8PKQ FRYUHXHPD WHUDMQDJHYODVRQ H^OLVVHWD LGHMNHL VHPHWHMPHYTHQSRGZ Q IHYURXVDILOWDYWDQEDYVLQ ERDYVDWHTX-PHYQDLRQZ> PDNDULYDLDMRLGDL LMDFDL WHQXYPIDQ L>WZ?NDOOLYSHSORL)UXJZ Q NRYUDLPHYOSHWHMPZ QJDYPZQ WRQSHSUZPHYQRQHXMQD L SRYVLQHMPHYTHQ
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In alto! Di lato! Con la fiaccola, con rispetto, – ecco, così – faccio luce in questo tempio. O Imeneo, sovrano! Beato lo sposo e beata anch’io che, sposa, mi avvio verso un letto regale, ad Argo. Imene! O Imeneo, sovrano! Dal momento che tu, madre mia, tra lacrime e gemiti persisti a lamentare la morte di mio padre e la rovina della nostra patria, io faccio risplendere questa fiaccola splendente, sfavillante, per le mie nozze, consegnando a te, Imeneo, a te, Ecate, questa luce per il letto virginale, come vuole l’usanza. Agita il piede in aria, guida la danza – Bacco, Bacco – come quando mio padre era all’apice della felicità. Il coro è puro. Guidalo tu, Febo, su: nel tuo tempio fra gli allori io compio sacrifici. Imene! O Imeneo, Imene! Danza, madre mia, ridi di felicità, volteggia e porta il tuo passo di qua, di là, a tempo con i miei piedi. E grida “Imeneo”, su, in onore della sposa con canti lieti e grida. Orsù, giovani frigie dalle belle vesti, cantate il mio sposo, destinato al letto delle mie nozze. I bagliori che Taltibio aveva interpretato come il tentativo delle Troiane di incendiare l’accampamento si rivelano fuochi di tutt’altra natura: al posto di una fiamma distruttrice, si profila la luce splendente della festa, in netto contrasto con lo scenario di dolore, morte e devastazione che pervade la tragedia. Alcuni tratti caratteristici dell’imeneo sono facilmente riconoscibili nella monodia di Cassandra: 117
(1) le invocazioni a Imeneo: Eur. Tr. 310 Z?#8PHYQDLD>QD[, 314 #8PKQZ?#8PHYQDLD>QD[, 331 #8PKQZ?#8PHYQDL#8PKYQ (cf. Eur. Tr. 335 ERDYVDWHTX-PHYQDLRQ Z>); (2)
[formule di saluto assenti];
(3) il makarismos degli sposi: Eur. Tr. 311-312 PDNDYULRR-JDPHYWDPDNDULYD GHMJZY (cf. Eur. Tr. 327-328 PDNDULZWDYWDLWXYFDL, 336 PDNDULYDLDMRLGDL ); (4)
un minimo elogio dello sposo (Eur. Tr. 340);
(5) i numerosi riferimenti alla cerimonia, in particolare alle torce: Eur. Tr. 309 ODPSDYVL (cf. Eur. Tr. 308 IZ , 320 SXURIZ , 323 IDYR)17; alla danza: Eur. Tr. 32518, 329, 332-334; al canto: Eur. Tr. 335-34019; (6) i frequenti fenomeni di ripetizione, come l’anafora: Eur. Tr. 311-312 PDNDYULR / PDNDULYD; la geminatio: Eur. Tr. 309 LMGRXLMGRXY; l’allitterazione: Eur. Tr. SDYOOH SRYGD; l’omoteleuto: Eur. Tr. 308 D>QHFHSDYUHFHIZ IHYUZVHYEZIOHYJZ; (7)
la struttura antistrofica;
(8) la presenza di sequenze gliconiche (Eur. Tr. 314 ~ 331, 319 ~ 335, 322324a ~ 338-340a), spesso in corrispondenza con le invocazioni a Imeneo o con le esortazioni al canto. Fra tanti elementi imenaici si innestano alcuni particolari di natura ambigua o decisamente altra. Ecate, invocata insieme a Imeneo (Eur. Tr. 322-323), può ricoprire qui le funzioni della dea Artemide per il suo legame con le giovani donne, le vergini e soprattutto con le spose, ma la presenza delle fiaccole evoca anche il suo stretto rapporto con la dimensione ctonia e con il regno infero, ovvero con la morte20. I passi di danza, che Cassandra esegue invitando la madre a imitarla, si addicono alla cerimonia nuziale ma evocano allo stesso tempo lo scenario dei culti bacchici. In modo analogo la letizia propria della festa assume l’espressione del riso tipicamente dionisiaca (Eur. Tr. 332 DMQDJHYODVRQ)21. A questo ambito, del resto, rinviano anche i dimetri o i tetrametri A proposito del rapporto fra la luce e la cerimonia nuziale, vd. Contiades-Tsitsoni 1990, p. 56. 18 Le parole D>QDJHFRURYQ sembrano costituire un’espressione formulare legata a simili circostanze: cf. Ps. Hes. Scut. 280 D>QDJRQFRURYQ. 19 Nel prosieguo della scena il richiamo al rito nuziale continua anche nella richiesta che Cassandra rivolge alla madre, affinché le ponga una corona sul capo (vv. 353-354). 20 Vd. Mazzoldi 2001, p. 221; De Poli 2007. Secondo Di Benedetto 1998, p. 159 n. 87, dopo il makarismos «l’alternanza “sposo/sposa” provoca per effetto di trascinamento altre iterazioni», tra cui quella della coppia divina composta da Imeneo e da Ecate, che mantiene «l’alternanza fra maschile e femminile». 21 Questo verbo è lezione solo di una parte della tradizione manoscritta della tragedia: per un’analisi più approfondita del problema testuale, vd. De Poli 2011, pp. 150-152. Per il legame fra il riso e la dimensione dionisiaca, cf. Eur. Ba. 380, 439, 1021. 17
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bacchiaci (Eur. Tr. 320-321 ~ 336-337)22 e l’inequivocabile grido HXMDQHXMRL (Eur. Tr. 326)23. Gli effetti del potere di Dioniso si manifestano nella capacità immaginifica di Cassandra: come in una lucidissima visione, la sacerdotessa si immagina non nell’accampamento delle prigioniere di guerra, sullo sfondo del quale campeggiano le rovine di Troia, bensì nel tempio di Apollo24, un ambiente per lei familiare e quasi domestico. Il suo rapporto privilegiato con il dio la autorizza a chiedergli di prendere parte alle sue nozze, guidando il FRURY (Eur. Tr. 329) e facendo così le funzioni del padre: a questa ricostruzione genealogica potrebbe fare gioco una particolare lettura dell’espressione WDQWRX )RLYERX SDUTHYQRQ (Eur. Tr. 253), formulata sul modello di Eur. Hyps. fr. 1.iii.6-8 Cockle, dove Egina è presentata come «D-WRX SRWDPRL R(i.e Asopo)SDUTHYQR$L>JLQ[D]». In una simile prospettiva il gesto di sciogliersi le bende sacre di Apollo (Eur. Tr. 451-454), prima di salire sulla nave diretta in Grecia, poteva richiamare alla mente il momento dell’anakalypteria25. La delicatezza, però, con cui provvede a liberare la sua fronte dalle insegne del sacerdozio divino (Eur. Tr. 452 FDLYUHW[H]) contrasta con la violenza suggerita in precedenza da Ecuba (Eur. Tr. 256 U-LS Y WH), e questo è solo uno degli aspetti che rivelano l’opposta visione della figlia rispetto alla madre e, più in generale, di Cassandra rispetto alle persone che la circondano: la scena dell’imeneo ne è la massima espressione. Il suo ingresso è annunciato dall’anziana regina come quello di una menade che arriva di corsa (Eur. Tr. 307 PDLQDTRDY]HLGHX UR.DVDYQGUDGURYPZL), caratterizzazione che la rende non credibile ancora prima che inizi a parlare. O a cantare. Proprio nella monodia – le sue prime parole proferite sulla scena – rivolge alla madre e alle altre donne troiane che compongono il coro ripetuti inviti a danzare e a cantare con lei, ma i suoi appelli rimangono senza effetto. Appena l’assolo si interrompe, il corifeo, il portavoce del Coro – ultimo interlocutore cercato da Cassandra (Eur. Tr. 338-339 Z?NDOOLYSHSORL)UXJZ QNRYUDL) – per tutta risposta rivolge la Sulla struttura del dimetro bacchiaco era scandito il grido degli iniziati al culto di Dioniso, L>DNFZ?L>DNFH (Ar. Ra. 316-317, 325), che mostra delle affinità foniche con il v. 337 della monodia di Cassandra: LMDFDL WHQXYPIDQ. Cf. Eur. Ba. 993-994 = 1013-1014 (3ba), 1177 ~ 1193 (2ba), 1181 ~ 1197 (4ba). Una coppia di bacchei introduce anche la monodia di Evadne: Eur. Suppl. 990 ~ 1012 (vd. infra, pp. 118-123). La stessa sequenza è presente anche in due iporchemi pindarici (Pind. frr. 105a.3, 109.1 Maehler) e potrebbe essere messa in relazione a particolari passi di danza. Per la ricorrenza di sequenze di due o più bacchei, vd. Gentili – Lomiento 2003, pp. 229-233. 23 Anche il motivo del makarismos è presente nell’iniziazione al culto dionisiaco. La scena di Cassandra è tutta pervasa da «vocaboli e linguaggio bacchici»: vd. Mazzoldi 2001, pp. 232244. 24 A proposito dell’atteggiamento visionario di Cassandra, vd. Mazzoldi 2001, p. 220; Susanetti 2008, p. 16 n. 63. 25 Il tono delle parole pronunciate da Cassandra nel momento in cui si toglie le bende sacre contrasta con quelle pronunciate dallo stesso personaggio nell’Agamennone eschileo: vd. Mazzoldi 2001, p. 228. Anche questo gesto nelle Troiane è ricondotto nell’orizzonte dionisiaco (Eur. Tr. 453 L>WDMSHMPRX FUZWRVSDUDJPRL ): vd. Mazzoldi 2001, p. 238. 22
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parola a Ecuba, sottolineando lo stato di follia della figlia (Eur. Tr. 341-342)26. La madre prosegue con un’invocazione a Efesto e solo dalla fine del v. 345 inizia a cercare un contatto con Cassandra, ma il suo atteggiamento è di «quasi aperta dissociazione»27: alla fine della stessa battuta Ecuba chiede al Coro di prendere la fiaccola dalle mani della figlia e di replicare al canto nuziale con il pianto (Eur. Tr. 350-351)28. L’uscita di Cassandra dalla “casa” paterna – sia essa rappresentata dalla tenda o dal tempio di Apollo – segna l’uscita dalla dimensione familiare dell’RL?NR nella prospettiva di entrare nella casa dello “sposo”, ma questo passaggio non prelude alla costituzione di un nuovo nucleo familiare, bensì alla sua distruzione: la cerimonia che la donna allestisce ha il sapore di una «ironica messa in scena»29. La sua prospettiva è esposta in modo chiaro ma l’uscita dalla famiglia originaria coincide con l’uscita definitiva da qualsiasi consesso sociale: la rivalsa sui nemici, il progetto di vendetta non viene compreso e il suo comportamento è percepito come manifestazione di follia30. In un simile contesto Cassandra presenta se stessa come la sposa ma assolve anche ai compiti tradizionalmente assegnati alla madre, portando la fiaccola, a quelli del Coro, rivolgendo al marito e a sé il makarismos31, e a quelli del padre, guidando la danza e in seguito togliendosi da sola le bende. Una scena che prevederebbe una pluralità di attori si risolve così tutta nell’iniziativa di un solo personaggio. Questa “focalizzazione spinta” su Cassandra è tanto più efficace quanto maggiore è il contrasto fra il suo stato d’animo e quello delle altre Troiane, a cominciare da Ecuba: la stonatura risulta amplificata. Inoltre, sotto l’influenza dionisiaca, Cassandra è oggetto e soggetto della scena, è regista e attrice, di se stessa e degli altri. I canti rituali prevedono in diverse occasioni un exarchos, a cui risponde il coro in rappresentanza della comunità, ma la visionarietà del progetto, l’atmosfera irreale che la donna cerca di ricreare, il fallimento dei suoi reiterati tentativi di coinvolgere altre persone contribuiscono a esasperare l’isolamento del personaggio sulla scena. 2.2. Supplici 990-1030 (monodia di Evadne) Nelle Supplici il tema centrale non è la celebrazione di un matrimonio ma la sepoltura degli eroi argivi morti a Tebe. Nel momento in cui il raggiungimento dell’obiettivo è ormai imminente, viene presa la decisione di celebrare un 26 Le prime due parole del corifeo, particolarmente significative, sono legate dall’allitterazione: EDVLYOHLDEDNFHXYRXVDQ. 27 Di Benedetto 1998, p. 161 n. 93. Cf. Eur. Tr. 345 H>[ZWHPHJDYOZQHMOSLYGZQ. 28 Vd. Mazzoldi 2001, pp. 222, 228-229. 29 Mazzoldi 2001, p. 222. 30 Mazzoldi 2001, p. 236, sottolinea che Cassandra in questa circostanza non viene presentata come folle in se stessa ma solamente nella prospettiva degli altri: Euripide insiste, cioè, non sulla follia reale ma sulla follia “percepita”. 31 A proposito dei compiti di solito assegnati dalla tradizione alla madre della sposa e a parenti e amici dei nuovi coniugi e qui assolti dalla stessa Cassandra, vd. Mazzoldi 2001, pp. 220-221; Battezzato 2005, pp. 78-79.
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rito comune di cremazione, dal quale sono escluse le madri, per evitare loro di vedere i corpi straziati dei figli: solo alla fine potranno raccogliere le loro ceneri32. All’interno di questo scenario viene previsto un trattamento particolare per il cadavere di Capaneo: all’eroe colpito dalla folgore di Zeus viene riservato l’onore di una pira distinta, che sarà eretta accanto al tempio e di cui si prenderanno cura i servi (Eur. Suppl. 934-939). A questo punto, mentre il corteo funebre principale si allontana e le madri dei defunti rimangono a lamentare la morte dei figli, quasi un lamento funebre in absentia, irrompe sulla scena la moglie di Capaneo, determinata a immolarsi sulla pira del marito 33. Questo gesto è improntato all’arete (Eur. Suppl. 1063) ma è evidente anche l’impulso dell’eros34, soprattutto nei motivi che emergono dal suo canto d’ingresso35: (X
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Sulla messa in scena del rito funebre per i sette eroi argivi nelle Supplici di Euripide e sulle ragioni politiche delle scelte operate da Teseo e Adrasto, vd. Mirto 2007, pp. 70-72. 33 Susanetti 2007, pp. 265-266, precisa che, a differenza dell’iniziativa dell’Antigone sofoclea, l’azione di Evadne non si presenta come una sfida al potere costituito o all’autorità, né turba la città. 34 Cf. Eur. Suppl. 1015 HXMNOHLYDFDYULQ, 1055 WLNOHLQRYQ. In modo analogo Alcesti, che sacrifica la propria vita per la salvezza del marito Admeto, viene definita la «migliore tra le donne» (Eur. Alc. 83-84 DMULYVWKGR[DYVDJXQKY): vd. Susanetti 2001, pp. 165-166. Sulla tensione erotica che caratterizza il gesto di Evadne, vd. Susanetti 2007, p. 266. 35 Il testo della monodia di Evadne è ritenuto corrotto in diversi punti: per una discussione dei singoli problemi, vd. De Poli 2011, pp. 105-113. 32
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[XQDYSWHLSRGRYDMOODWD HXMNOHL"DFDYULQH>QTHQR-U PDYVZWD VGDMSRSHYWUDSK GKYVDVDSXURH>VZ VZ PDWDL>TRSLIORJPZ L SRYVHLVXPPHLY[DVDILYOZL FUZ WDFURLCSHYODTHPHYQD )HUVHIRYQDK^[ZTDODYPRX VHWRQTDQRYQWRX>SRWHMPD L SURGRX VD\XFD LNDWDJD L>WZIZ JDYPRLWH †HL>THWLQHHXMQDL† GLNDLYZQX-PHQDLYZQ HMQ$UJHLIDQZ VLWHYNQRL R-VRGHXMQDL RJDPHYWD VXQWKFTHLDX>UDLDMGRYORL JHQQDLYDDMORYFRLR Ev. Che luce, quale bagliore allora il sole e la luna conducevano per l’aria dove ninfe sfuggenti cavalcano torce nell’oscurità, quando la città di Argo innalzò canti di gioia per le mie nozze e per il mio sposo dall’armatura di bronzo, Capaneo? In fretta, folle come una baccante, sono corsa fuori dalla mia casa incontro al fuoco della pira, alla tomba, cercando lui, per sciogliere nell’Ade una vita di tormenti e gli affanni dell’esistenza. Dolcissima morte morire insieme ai cari che muoiono, se un dio lo concede. Co. Ecco qui la pira, ci sei accanto: l’altare di Zeus su cui giace il tuo sposo, annientato dalla folgore luminosa. Ev. Vedo, sì, la morte qui dove sto: la sorte accompagna il mio passo. Ecco, da qui mi getterò per la gloria, saltando dalla rupe dentro al fuoco. Unendo nella fiamma viva il mio corpo a quello dell’amato sposo, la mia pelle accanto alla sua, giungerò in un talamo mortale: nel sottosuolo mai tradirò nel mio cuore te morto. Addio luce e nozze! Magari letti di imenei legittimi si palesassero ai figli in Argo! Tuo marito nel letto si è fuso all’animo sincero di una nobile sposa. Il ricongiungimento fra Evadne e Capaneo si profila come una sorta di secondo matrimonio36: la monodia, infatti, presenta alcuni motivi e alcune caratteristiche tipici del canto nuziale. Viene richiamato l’imeneo (Eur. Suppl. 1027 GLNDLYZQX-PHQDLYZQ); viene dato spazio all’elogio degli sposi, tanto di Capaneo
Vd. Collard 1975, pp. 358-362; Pordomingo 1994, p. 331. Il tema delle “seconde nozze” è presente anche nei finali dell’Alcesti e dell’Elena ma in questi due casi la circostanza specifica si colora di una luce positiva grazie al lieto fine del dramma. Sulle “seconde nozze” nell’Alcesti e nell’Elena, vd. Baltieri 2011, pp. 226-227. Per il caso specifico dell’Alcesti, vd. Susanetti 2001, pp. 275-276.
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(Eur. Suppl. 998-99937, 1028) quanto di Evadne (Eur. Suppl. 1013-1015, 10291030); viene evocata l’atmosfera festante della cerimonia nuziale di un tempo (Eur. Suppl. 990-999); ma, soprattutto, viene presagita la nuova unione degli sposi con un’insistenza particolare sulla componente carnale (Eur. Suppl. 1019-1021). Le allusioni alla luce sono un filo conduttore che lega la cerimonia del passato alla situazione presente. Il canto strofico, scandito in prevalenza da sequenze gliconiche o equivalenti ad esse, offre molti esempi di fenomeni ripetitivi: l’anafora (Eur. Suppl. 990 WLYWLYQ), il poliptoto (Eur. Suppl. 1007 VXQTQKYLVNHLQTQKYLVNRXVL), l’allitterazione (Eur. Suppl. 1016-1021 WD VGDMSR SHYWUDSKGKYVDVDSXURH>VZVZ PDWDL>TRSLI IORJPZ LSRYVHLVXPPHLY[DVDI ILYOZLFUZ WDFURLCSHYODTHPHYQD)38. Evadne è uscita dalla casa del padre per raggiungere il talamo dello sposo e ricongiungersi a lui. La scena, inserita come un cammeo nella tragedia, si segnala per alcune particolarità spettacolari, come l’allestimento in scena della pira di Capaneo o l’apparizione del personaggio femminile su una rupe accanto al tempio39. Come un abile regista, il corifeo con i suoi interventi prima guida lo sguardo dello spettatore verso il letto funebre dell’eroe morto e verso la figura di Evadne che svetta su un’altura (Eur. Suppl. 980-989 NDLPKQTDODYPDWDYVGHMVRUZ GKNOHLQKYQWD>ORFRQWRX GH(XMDYGQKQ), poi indirizza lo sguardo della donna sulla pira del marito (Eur. Suppl. 1009-1011 NDLPKQR-UD LWKYQGSXUDYQ), quindi richiama la sua attenzione sull’arrivo di Ifi (Eur. Suppl. 1031-1033 NDLPKQR^GDXMWRVRSDWKU)40. L’effetto è quello di una singolare nymphagogia nella quale Evadne si lancia da sola, inutilmente rincorsa dal padre dal quale fugge come da una forzosa «revirgination»41. La differenza rispetto alla scena di Cassandra nelle Troiane è evidente: la moglie di Capaneo guarda esclusivamente al ricongiungimento con il marito, senza cercare la partecipazione di altri a questa “cerimonia”, tanto meno quella di Ifi. E non è neppure l’unica anomalia: diversi elementi – a partire dalla posizione del personaggio sulla scena, in alto su una rupe, nel momento in cui cerca la gloria gettandosi sulla pira del marito – suggeriscono l’identificazione di Evadne con la figura di Capaneo – morto mentre si stava arrampicando sulle mura della città di Tebe, colpito dal fulmine, fuoco sacro di Zeus. Ne sortisce un effetto di crossing gender che coinvolge anche Ifi: il padre della donna, infat-
L’aggettivo FDONHRWXFK (Eur. Suppl. 999) presenta delle somiglianze con altri composti simili, attestati negli epinici bacchilidei: Bacchil. frr. 5.74 (FDONHRYNUDQR), 13.109 (FDO[FHRPLYWUD]Q), 5.34 (FDONHRYVWHUQR), 11.123 (FDONRTZYUD[) Maehler. 38 Pur non essendo propriamente una figura di ripetizione, si noti anche la figura etimologica che lega la successione di parole TDYQDWRVXQTQKYLVNHLQTQKYLVNRXVL (Eur. Suppl. 1006-1007). 39 Vd. Di Benedetto – Medda 1997, pp. 13, 77, 131, 298. Per una lettura complessiva della scena di Evadne nell’ambito della tragedia, vd. Paduano 1966. 40 Il Coro rimane sostanzialmente estraneo alla scena di Evadne, almeno fino al momento in cui la donna si getta sulla pira del marito: solo a questo punto la voce del Coro si alterna a quella di Ifi in un breve amebeo lirico-epirrematico (Eur. Suppl. 1072-1079). 41 Mendelsohn 2002, p. 201. 37
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ti, assume atteggiamenti simili a quelli di Demetra dopo la perdita della figlia42. In questa circostanza, d’altra parte, l’unione coniugale è strettamente legata alla dimensione della morte: la luce dei corpi celesti (Eur. Suppl. 990-994), che aveva rischiarato il matrimonio di Evadne e Capaneo ad Argo, ora è sostituita dalle fiamme della pira (Eur. Suppl. 1002 SXUD IZ WDYIRQWH). Secondo Loraux, Evadne «sogna l’annientamento sotto la forma erotizzata dell’unione dei corpi»43 ma la prospettiva del personaggio euripideo sembra essere leggermente diversa: il suicidio è finalizzato a ricomporre l’unione con Capaneo, ovvero Evadne sogna l’annientamento per ricongiungere il proprio corpo a quello del marito morto (Eur. Suppl. 1007 VXQTQKYLVNHLQ, 1020 VXPPHLY[DVD, 1029 VXQWKFTHLY; cf. Eur. Suppl. 1040 TDQHL QHMUZ VDVXQSRYVHL, 1063 SRYVHLJDUVXQTDQRX VDNHLYVRPDL, 1071 WZ LVXPSXURXPHYQZLSRYVHL). Questo legame fra matrimonio e morte è suggerito anche da alcune parole che si corrispondono all’interno della struttura responsiva: Eur. Suppl. 1002 WDYIRQ ~ 1025 JDYPR, 1006 TDYQDWR ~ 1028 JDPHYWD. E così il letto nuziale (Eur. Suppl. 1022 TDODYPRX) si confonde con il letto funebre (Eur. Suppl. 980 TDODYPD), nella felice sintesi dei )HUVHIRYQDTDODYPRX (Eur. Suppl. 1022)44. Coerentemente con questo scenario di amore e morte, sul piano strutturale l’imeneo si confonde con il lamento funebre. All’interno dello schema strofico, la monodia di Evadne evidenzia una tripartizione simile a quella dei threnoi pindarici45: alla fine della strofe trova spazio una frase dal forte sapore gnomico (Eur. Suppl. 1006-1008), mentre con minimi aggiustamenti il mito è sostituito dal ricordo del passato felice (strofe) e le dichiarazioni della donna in merito all’intenzione di suicidarsi per ricongiungersi a Capaneo rinviano all’attualità (antistrofe). Il confronto fra il passato (Eur. Suppl. 991 WRYT) e il presente (Eur. Suppl. 1012 R-UZ GKY) ricorda le parole pronunciate da Admeto al ritorno dalla sepoltura di Alcesti (Eur. Alc. 912-925 WRYWHPHQQX QG): il marito, rimasto vedovo, contrappone il suo ingresso in casa nel giorno del matrimonio a quello attuale di ritorno dal funerale, quando al posto degli imenei risuona il lamento, al posto della veste candida indossa una veste nera46. Anche Admeto avrebbe voluto gettarsi nella fossa insieme al cadavere di Alcesti per varcare insieme a lei la soglia dell’Ade, ma è stato trattenuto dal Coro e ora se ne lamenta (Eur. Alc. 895-902). Al contrario, nessuno riuscirà ad Vd. Mendelsohn 2002, pp. 197-223. Loraux 1988, p. 28. 44 Il riferimento a Persefone potrebbe essere messo in relazione con la collocazione della pira di Capaneo accanto al tempio di Demetra e Persefone oppure potrebbe essere inteso piuttosto come un riferimento al mondo infero (vd. Collard 1975, p. 371), ma il confronto con altre espressioni simili (ad esempio, Eur. Cycl. 397 $LGRXPDYJHLUR, Andr. 1192 #(UPLRYQD$LYGDQ, Hec. 1076 EDYNFDL$LGRX, HF 1119 $LGRXEDYNFR, IT 286 $LGRXGUDYNDLQD; cf. Aesch. Ag. 1115 GLYNWXRQ$LGRX, 1235 $LGRXPKWKYU) suggerisce di riconoscere al genitivo )HUVHIRYQD un valore connotativo: «talamo di morte». 45 Vd. Cannatà Fera 1990, p. 30. 46 Per un commento a questi versi, vd. Susanetti 2001, pp. 255-256. 42 43
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opporsi alla ferma volontà di Evadne: in un’atmosfera decisamente diversa, nessun ostacolo le impedirà di rifare figuratamente il percorso nella direzione del talamo, compiuto in occasione delle nozze. Nella cerimonia solitaria Evadne è la sposa ma, allo stesso tempo, è il “coro” che canta il nuovo imeneo per se stessa e per Capaneo. Questo sdoppiamento si compie, come nel caso di Cassandra, sotto gli effetti del potere dionisiaco: la fuga dalla casa paterna è presentata nella monodia come la corsa di una baccante (Eur. Suppl. 1000-1001 GURPDHMNEDNFHXVDPHYQD) e la coppia strofica si apre con un paio di bacchei (Eur. Suppl. 990 ~ 1012), che conferisce al canto fin dal principio una caratterizzazione particolare 47. 2.3. Elettra 125-126 (monodia di Elettra) All’inizio della tragedia, quando Elettra torna dalla fonte dove si è recata per attingere l’acqua, comincia ad albeggiare. Nella sua complessa monodia, la prima coppia strofica è intervallata da un mesodo molto breve (Eur. El. 125126): L>TLWRQDXMWRQH>JHLUHJRYRQ D>QDJHSROXYGDNUXQD-GRQDYQ Avanti, alza lo stesso lamento, rinnova il piacere del pianto. Queste poche parole non rivelano un legame esplicito con i canti nuziali ma diversi elementi, considerati in una prospettiva sinottica, suggeriscono una possibile allusione ad un “canto del risveglio”, coerentemente con il momento della giornata in cui si svolge l’azione drammatica. A tale circostanza rinvia, innanzitutto, il verbo HMJHLYUZ che ricorre sia nelle Danaidi di Eschilo (Aesch. fr. 43 Radt)48: ND>SHLWDGHL?VLODPSURQK-OLYRXIDYR H^ZHMJHLYUKLSUHXPHQHL WRXQXPILYRX †QRYPRLVLTHYQWZQVXQNRYURLWHNDLNRYUDL e poi sorgerà splendente la luce del sole, finché sveglierà «benigni gli sposi rendano – dicendo – con figli e figlie, come vuole l’usanza». (trad. Morani) sia in Sapph. fr. 30.6-9 Voigt49: Il particolare effetto prodotto dalla coppia di bacchei all’inizio della strofe è segnalato anche dalla parodia aristofanea (ad esempio, Ar. Ve. 316): vd. Prato 1962, pp. 100-101; Prato 1984-1985, p. 140; Gentili – Lomiento 2003, pp. 232-233. Indipendentemente dalla posizione incipitaria, sequenze di bacchei sono state già segnalate nella monodia di Cassandra (vd. supra, pp. 118-119). 48 Si riproduce il testo di Morani 1987, p. 634. 49 Si riproduce il testo di Ferrari 1987, p. 124. Vd. Contiades-Tsitsoni 1990, pp. 100-101. Lasserre 1989, pp. 37-38, 132, suggerisce una ricostruzione diversa del contesto nel quale doveva 47
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DMOOHMJHYUTHLKML!T[H VWHL FHVRLXMPDYOLN[D K>SHUR>VVRQD-OLJXYIZ[QR X>SQRQ[L>]GZPHQ Suvvia, o giovane, destandoti … va’ presso i tuoi coetanei (perché) noi possiamo vedere un sonno (più breve) di quello che dorme (l’uccello) dalla voce acuta. (trad. Ferrari) Nel frammento di Saffo, inoltre, l’imperativo VWHL FH ricorda i verbi L>TL e D>QDJH della monodia di Elettra. Lo stesso verbo DMQDYJZ è impiegato anche da Cassandra nel suo imeneo, quando esorta la madre a danzare (Eur. Tr. 325 D>QDJHFRURYQ), mentre il sostantivo D-GRQDYQ è usato da Giocasta in relazione al matrimonio del figlio Polinice (Eur. Ph. 338 SDLGRSRLRQD-GRQDYQ), presentato come presupposto per la procreazione di figli. Nei due gliconei cantati da Elettra sono disseminati alcuni tasselli linguistici riconducibili all’area semantica del matrimonio ma tutti sono impiegati con altri significati. Il «piacere» a cui fa riferimento la figlia di Agamennone non ha nulla in comune con la sfera erotica e riproduttiva: tutto è riferito alla dimensione del pianto e del lamento, anche le forme verbali all’imperativo50 e lo stesso verbo H>JHLUH (usato all’attivo). Con un effetto straniante, affine a quello proprio dell’aprosdoketon o di un procedimento continuamente antifrastico, le espressioni che possono richiamare il “canto del risveglio” concorrono alla formulazione di un “controcanto” confezionato abilmente, dissimulato all’interno della struttura della monodia. Le suggestioni che esso produce, tuttavia, sono particolarmente significative nell’orizzonte della tragedia, soprattutto se si considera che è intonato dal personaggio di Elettra. Nell’opera euripidea il tema del matrimonio è centrale51: a differenza delle versioni proposte da Eschilo e da Sofocle, qui la figlia di Agamennone è stata allontanata dal palazzo e data in sposa a un contadino, a un uomo umile, con la speranza che la loro prole non possa minacciare il potere di Egisto e Clitemnestra e vendicare la morte dell’Atride. Ma Elettra è ancora vergine, perché il contadino si ritiene indegno di una donna nobile, figlia dell’antico sovrano. L’allusione dissimulata al “canto del risveglio” – questo canto nuziale che non è fino in fondo un canto nuziale – è coerente con il conessere cantato il testo frammentario: «A la fin de la cérémonie du marriage, à la nuit tombante, devant la maison des époux et peut-être après un èpithalame». Lo stesso Ferrari, tornando sulla questione (Ferrari 2007, pp. 109-111), propone una traduzione diversa, che presuppone differenti integrazioni per le lacune, e immagina che il frammento sia riconducibile a un canto precedente alla formazione del corteo nuziale. 50 La forma L>TL potrebbe valere come autoesortazione riferibile sia al lamento sia all’incedere di Elettra sulla scena con la brocca sulla testa. 51 La presenza nella monodia di Elettra di altri riferimenti al tema del matrimonio, in particolare fra Clitemnestra e Agamennone, è stata già segnalata supra, p. 114 n. 16.
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testo, quello di un matrimonio che non è un vero matrimonio, di un matrimonio mai consumato.
3.
Spose eleganti e spose pezzenti
Su una rupe accanto al tempio di Eleusi, in procinto di raggiungere lo sposo, Evadne si mostra adorna di splendide vesti. Il padre Ifi, in lutto per la morte del figlio Eteoclo, si meraviglia di tanta eleganza (Eur. Suppl. 1054 VNHXK LGH WK LGHWRX FDYULQNRVPHL GHYPDB), doppiamente inopportuna: infatti, tra gli eroi caduti intorno alle mura di Tebe la donna ha perduto non solo il fratello ma anche il marito. Eppure per Evadne la situazione è connotata in senso diametralmente opposto: emulando l’audacia di Capaneo 52, si appresta a compiere un’impresa valorosa e a riportare una straordinaria vittoria (Eur. Suppl. 1057-1063 NDOOLYQLNRQLNZ VDQLYNKQDMUHWK L). Come lei, già Alcesti si era preparata ad affrontare la morte abbigliandosi con cura (Eur. Alc. 161 HMVTK WDNRYVPRQWHXMSUHSZ KMVNKYVDWR), secondo le modalità tipiche della vestizione del guerriero prima della battaglia, ma i ritratti di entrambe le eroine euripidee non sono prive di una certa fascinazione erotica53. Del resto, nei momenti che precedono immediatamente il trapasso, la moglie di Admeto si immagina trascinata da un nuovo kyrios in un’altra casa, come la sposa che il giorno delle nozze è condotta dal marito nella sua dimora 54. Se nelle Supplici Evadne cantava una sorta di imeneo così agghindata, l’effetto doveva risultare tutt’altro che straniante: una veste elegante, infatti, si addiceva alla donna in occasione del suo matrimonio55. Anche Cassandra nelle Troiane prevede per sé un futuro glorioso ed esorta la madre a porle sul capo la corona della vittoria (Eur. Tr. 353 SXYND]HNUD W HMPRQQLNKIRYURQ). La figlia di Ecuba, cantando il suo imeneo, si rivolge al Coro delle prigioniere troiane e, invitandole a partecipare al canto (Eur. Tr. 338339), nella sua lucida visione le qualifica come NDOOLYSHSORLNRYUDL, «giovani dalle belle vesti»: la circostanza richiede che anche loro si mostrino eleganti. Eppure la realtà è tragicamente diversa: la città è stata conquistata dal nemico, morte e distruzione regnano ovunque. La vecchia regina è prostrata, giace distesa a terra e porta i segni del lutto. Le donne sono ridotte in schiavitù. Vesti preziose sono indossate solo da Astianatte, dopo che è stato ucciso: quelle che nell’esodo della tragedia avvolgono il suo cadavere – secondo le parole di Ecuba – sono le stesse che egli avrebbe dovuto portare il giorno delle sue nozze (Eur. Tr. 1218-1220). L’abito di Cassandra, invece, come quello delle altre Tro-
Vd. Mendelsohn 2002, pp. 207-208. Vd. Susanetti 2001, p. 179. 54 Vd. Rehm 1994, p. 86. 55 Sull’eleganza della sposa nel giorno delle nozze insistono, con diverse intenzioni, sia Andromaca che Ermione: cf. Eur. Andr. 2 H^GQZQVXQSROXFUXYVZLFOLGK L, 147-148 NRYVPRQPHQ DMPILNUDWLFUXVHYDFOLGK VWROPRYQWH FUZWRWRYQGHSRLNLYOZQSHYSOZQ. 52 53
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iane presenti sulla scena, doveva essere poco appariscente, o almeno trasandato e lacero: doveva essere solo il ricordo di un passato glorioso, irrimediabilmente perduto. Un altro dettaglio scenico in antitesi con il suo canto festante. La situazione in cui si muove Elettra nell’omonima tragedia euripidea è ancora diversa: nata da nobile stirpe, è stata data in sposa a un uomo povero. Nonostante le circostanze non lo impongano, la donna ostenta la propria miseria per protesta contro i nuovi sovrani che, dopo averle ucciso il padre, la hanno così disonorata. Porta il capo rasato in segno di lutto e indossa miseri stracci (Eur. El. 185 WUXYFKWDYGHMPZ QSHYSOZQ): indegni della sua origine regale, non adatti a chi intenda partecipare alla festa istituita in onore di Era, propri di una serva (Eur. El. 107 SURYVSRORQ). In queste condizioni, anche il minimo accenno a canti nuziali risulta chiaramente antifrastico ma Elettra vi ricorre sapientemente, dissimulandoli, per enfatizzare l’offesa subita. Sulla scena tragica euripidea, dunque, il potere evocativo dei canti a solo rispetto agli imenei o ad altre esecuzioni canore affini risulta in vario modo amplificato, oltre che dalla circostanza drammatica, anche dal costume indossato dal personaggio, che contribuiva a spettacolarizzare il rito inscenato o solamente alluso.
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CANTI DI LAVORO 1.
Canti di lavoro: caratteristiche generali
Nel panorama della poesia popolare greca, il canto di lavoro è probabilmente l’espressione che più a lungo di ogni altra è rimasta esclusa dalle stanze della letteratura, perché più d’ogni altra era legata a circostanze non solo pragmatiche ma anche umili: a differenza degli imenei, dei peana o dei ditirambi, che possono vantare autori noti, quali Saffo, Pindaro o Bacchilide, la composizione di canti di lavoro è caratterizzata da un assoluto anonimato e questo aspetto ne ha complicato la trasmissione. I pochi esempi pervenuti fino ad oggi sono stati conservati prevalentemente da opere erudite di epoca alessandrina o successive e sono confluiti nelle raccolte di carmina popularia compilate in età moderna1. Alcune analisi dei canti popolari, condotte indipendentemente dalla specifica occasione a cui erano collegati, hanno permesso di individuare delle caratteristiche generali2, che possono essere considerate valide anche nel caso particolare dei work songs: 1) la natura pragmatica del testo privilegia la funzione conativa, con la prevalenza di forme verbali all’imperativo (keleusmata), legate al lavoro in atto; 2) il contenuto è semplice e la sintassi è essenziale; 3) lo stile è sobrio, con un’aggettivazione quasi assente, una presenza più significativa di deittici e di pronomi personali, frequenti iterazioni e figure di suono; 4) la ripetitività può interessare anche la struttura compositiva del canto, con la presenza di refrain3; 5) i metri impiegati sono di varia natura, anche se di solito si riconosce un particolare carattere “popolare” alle sequenze gliconiche4; 6) la struttura sintattica tende a coincidere con la struttura metrica. Inoltre, è stato notato che 7) le parole utilizzate sono ambigue, o potenzialmente tali e che 8) la lingua ha coloriture dialettali diverse e sono presenti anche espressioni epicoriche.
2.
I canti di lavoro e il teatro attico
Sulla base di queste premesse, tracce di canti di lavoro sono state riconosciute all’interno di alcune opere teatrali del V sec. a.C. Nell’ambito della produzione comica, un esempio significativo è rappresentato dai vv. 459-472 ~ 486-499 Un quadro storico delle antologie di canti popolari è proposta da Neri 2003, p. 195. Vd. Pordomingo 1996, pp. 469-474; Neri 2003, pp. 196-198. Quest’ultimo, elencando alcuni tratti caratteristici dei canti popolari, osserva che non tutti sono necessariamente compresenti nelle diverse composizioni e che nessuno è davvero esclusivo, ma il loro «addensamento» permette di intravedere, almeno parzialmente, «le sagome di un genus proximum e di una differentia specifica» (p. 196). 3 A proposito del carattere popolare del refrain, vd. Pordomingo 1994, pp. 323-324. 4 Vd. Pordomingo 1996, p. 473; Wilamowitz 1921, p. 223. 1 2
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e 512-519 della Pace di Aristofane5: la struttura dialogica scandisce i movimenti delle persone impegnate a tirare la fune per spostare il masso; una parte del testo, soprattutto in corrispondenza dei rimproveri e degli incitamenti di Trigeo, è scandita da dimetri anapestici con la prevalenza di sillabe lunghe (Ar. Pax 464-466 ~ 491-493, 470-471 ~ 497-498). La presenza di iati è significativa non solo fra un colon e il successivo ma anche all’interno della stessa unità metrica, senza evidenti conseguenze sul piano prosodico. Nel Ciclope di Euripide, l’unico dramma satiresco conservato integralmente, sono stati individuati due canti strettamente collegati ad attività lavorative6. La parte iniziale della parodo (Eur. Cycl. 41-62)7 presenta echi di un canto pastorale, con espressioni di carattere mimetico ed onomatopee: i satiri cercano di ricondurre le capre e il montone di Polifemo all’interno del suo antro. Il brano, costituito da una coppia strofica, un mesodo e un epodo, è scandito prevalentemente da strutture polischematiche, equivalenti a sequenze gliconiche, da sequenze anapestiche o enopliache. Anche in questo caso sono presenti iati interni (Eur. Cycl. 49). Nel quarto stasimo (Eur. Cycl. 656-662) la successione di imperativi in asindeto accompagna i vari momenti dell’azione che porta i satiri a conficcare il tronco nell’occhio del Ciclope: sono presenti figure di suono a carattere ripetitivo, come l’omoteleuto, ed è possibile riconoscervi alcune sequenze gliconiche. Anche nella produzione tragica dello stesso Euripide sono riscontrabili tracce di canti di lavoro, in particolare nella monodia di Elettra e in quella di Ione all’inizio delle omonime tragedie. 2.1 Elettra 112-113 = 127-128 (monodia di Elettra) Elettra torna dalla fonte portando una brocca d’acqua sulla testa e camminando canta queste parole: VXYQWHLQ(Z^UD)SRGRR-UPDYQZ> H>PEDH>PEDNDWDNODLYRXVD Allunga il passo – è ora – con slancio! Su, va, va e piangi! Nonostante una certa somiglianza con le strutture gliconiche che caratterizzano la monodia8, i due dimetri anapestici acataletti sono isolati sul piano ritmiPer un’analisi dettagliata di questi versi, vd. Zimmermann 1984, pp. 209-213. Per un’indagine specifica sulla presenza di canti di lavoro nelle commedie di Aristofane, vd. Rocconi 2010. 6 Alcune considerazioni in merito a questi due canti di lavoro sono proposte da Pordomingo 1994, pp. 326-327. 7 Il canto d’ingresso del Coro prosegue anche nei vv. 63-81 con parole di rimpianto per la lontananza dalle feste di Bacco e con lamenti per la misera condizione attuale. 8 La somiglianza strutturale fra questi due dimetri anapestici h h h h g g h h h e alcuni dei successivi gliconei h f h g g h f h e ferecratei h f h g g h f è evidente. Pordomingo 1994, p. 325, include nella sezione della monodia riconducibile a un canto di lavoro anche i vv. 114 = 129, 5
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co dal resto del canto. Questi versi, scanditi dalla stessa sequenza di sillabe in prevalenza lunghe, sono ripetuti identici come un refrain all’inizio della prima strofe e della prima antistrofe. Al loro interno presentano uno iato nella successione degli imperativi H>PEDH>PED e, se si aggiungono gli iati alla fine di entrambi i versi e il fenomeno della brevis in longo nei vv. 113 = 128, la struttura metrica, pur nella sua brevità, risulta particolarmente spezzata, caratteristica condivisa anche dall’andamento sintattico. Diverse soluzioni espressive, con le quali Elettra si esorta ad affrettare il passo – la successione paratattica degli imperativi VXYQWHLQ[H] ed H>PED in asindeto, l’inserzione della frase nominale (Z^UD) con funzione incidentale e l’interiezione Z> – scandiscono l’affannoso incedere del personaggio sulla scena. L’insistenza del ritornello è ulteriormente accentuata dalla geminatio di H>PED, forma colloquiale di H>PEDTL9 adatta all’umile circostanza lavorativa. Come nel successivo mesodo, dove si possono cogliere gli echi di un canto nuziale10, già in questi pochi versi, che riproducono le fattezze di un canto di lavoro, si insinua in cauda il motivo del lamento, in particolare mediante il ricorso al participio NDWDNODLYRXVD seguito delle esclamazioni di dolore LMZYPRLY PRL (Eur. El. 114 = 129). E anche qui la svolta finale produce un singolare effetto di sorpresa, simile a quello di un aprosdoketon. La situazione scenica risulta, infatti, quasi paradossale: la donna con la brocca sulla testa, pur esortandosi a compiere il lavoro più in fretta, indugia sulla propria sventura (Eur. El. 115121), rivolge un appello al padre defunto (Eur. El. 122-124), si interroga sulla sorte del fratello (Eur. El. 130-143) e innalza una preghiera a Zeus (Eur. El. 135-139). Il personaggio è così combattuto tra due tensioni opposte: uscire dalla scena per rientrare in casa o fermarsi per sfogare la propria sofferenza. Ma i gesti di dolore, oltre a quelli che potevano accompagnare una richiesta rivolta agli dei, sono impediti dall’oggetto che Elettra tiene sul capo. Solo all’inizio della seconda strofe i vv. 140-142 recuperano il tema del lavoro ma hanno lo scopo di accantonarlo definitivamente a favore del canto di lamento: THYWRYGHWHX FRHMPD DMSRNUDWRH- ORX VL^QDSDWULJRYRXQXFLYRX HMSRUTURERDYVZ Deponi questa brocca, toglila dal mio capo, affinché al padre io possa gridare all’alba i lamenti notturni. Anche qui il dettato è molto semplice, quasi scarno: l’imperativo THY in posizione iniziale è seguito dal dimostrativo WRYGH e dal possessivo HMPD , senza ulma le esclamazioni che vi sono contenute si addicono piuttosto al lamento e potrebbero essere scandite extra metrum oppure fungere da sequenza modulante fra l’inizio anapestico e le successive sequenze gliconiche. 9 Cf. Eur. Alc. 872 SURYEDSURYEDED TL, Ion 167 HMSLYED, Ph. 193 H>VED. Vd. Stevens 1976, p. 63. 10 Vd. supra, pp. 123-125.
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teriori forme di aggettivazione. All’interno di una struttura dattilica 11, le parole di Elettra sottolineano il gesto di togliersi la brocca dalla testa, ma questa volta non sono ripetute all’inizio dell’antistrofe, anche perché a quel punto la donna si è già liberata dell’oggetto d’intralcio: ora il suo dolore può essere esternato con maggiore libertà, sul piano vocale ma anche sul piano fisico, ad esempio con graffi e percosse autolesionistiche. 2.2. Ione 112-183 (monodia di Ione) Presso il tempio delfico di Apollo Ione ha il compito di badare all’ordine e alla pulizia. Entrando in scena nel prologo della tragedia, il giovane impartisce agli altri servi del santuario precise disposizioni e raccomandazioni (Eur. Ion 94-101); quindi, anticipa le incombenze che lo attendono (Eur. Ion 102-111): pulire il penetrale con fronde d’alloro e corone, lavare il pavimento con l’acqua, scacciare con arco e frecce le frotte di uccelli che minacciano di insudiciare il luogo sacro. Tutte queste azioni saranno compiute da Ione, rimasto solo davanti al tempio, e il canto accompagnerà ogni fase delle operazioni, articolandosi in altrettante distinte sezioni12. 2.2.1. Ione 112-14313 Ione utilizza un ramo di alloro per spazzare l’altare del dio e il pavimento del luogo sacro. La parte della monodia che accompagna quest’attività presenta alcune caratteristiche tipiche dei canti di lavoro ma anche alcuni aspetti singolari. Consone a questo genere di performance sono sia le strutture gliconiche della composizione strofica sia la presenza di un refrain. I movimenti del braccio erano probabilmente scanditi dall’interiezione Z? iterata due volte (Eur. Ion 112) e, in seguito, la ripetitività del lavoro è suggerita ancora dalla ripresa a distanza del verbo VDLYUZ in poliptoto (Eur. Ion 115, 121). La presenza di strutture acefale, cioè prive dell’elemento iniziale, è caratteristica dei canti popolari e in questo caso specifico la mancanza dell’elemento iniziale poteva coincidere con i colpi della ramazza. Altri particolari, invece, legati soprattutto alla struttura sintattica del testo – l’elaborata ipotassi con frasi relative e participiali – sono tipici degli inni e appaiono in contrasto con l’umiltà del lavoro descritto e con la fatica su cui il lessico insiste. Ugualmente anomala è l’elaborata invocazione rivolta allo strumento di lavoro. Anch’essa è stata messa in relazione dagli studiosi con lo stile dell’in-
11 Sulla possibile scansione dattilica dei canti popolari, anche se piuttosto rara, vd. Pordomingo 1996, p. 473; Neri 2003, pp. 197-198. 12 Pordomingo 1994, pp. 325-326, limita la sua analisi solo alla prima sezione, costituita dalla coppia strofica. Barner 1971, p. 290, parlando di «Ions Arbeitslied» a proposito della monodia nel suo complesso, sembrerebbe applicare questa etichetta a tutto il canto a solo, ma non analizza le particolarità e le differenze specifiche delle singole sezioni. 13 Questi versi della monodia di Ione sono già stati analizzati in rapporto alle strutture inniche, e in particolare al peana: vd. supra, pp. 97-102.
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no cletico14 ed è curioso che una simile particolarità caratterizzi l’inizio di un altro Arbeitslied euripideo: nella parodo del Ciclope, infatti, un appello nobilitante viene rivolto a una capra (Eur. Cycl. 41-42 SDL JHQQDLYZQPHQSDWHYUZQ JHQQDLYZQWHMNWRNDYGZQ) e i satiri sviluppano un discorso con gli animali del gregge15. Un procedimento analogo a quello testimoniato dallo Ione, seppure stilisticamente meno elaborato, è presente anche nel “canto della macina” (Carm. Pop. fr. 869.1 Page): D>OHLPXYODD>OHL NDLJDU Macina, mola, macina: infatti anche […] Ma Karanika ha suggerito la possibilità di confrontare questo tipo di appello con quello rivolto dal poeta allo strumento musicale in due incipit della tradizione melica più solenne16, ovvero Sapph. fr. 118 Voigt: D>JL17GKFHYOXGL DY†PRLOHYJH† IZQDYHVVD†GHJLYQHR† Suvvia, divina tartaruga, dimmi […] e acquista voce […] (trad. Ferrari) e Bacch. fr. 20b.1-2 Maehler: Z?EDYUELWHPKNHYWLSDYVVDORQIXODYV[ VZQ H-SWDYWRQRQO[L]JXUDQNDYSSDXHJD UXQ Cetra, non stare sul piolo inerte, rompi la tregua delle sette corde garrule […] (trad. Pontani) L’invocazione presente nel folk song si caratterizza chiaramente per una maggiore semplicità ma è probabile che formule di questo tipo avessero proprio un’origine “popolare” e che siano state poi rielaborate e introdotte anche in opere poetiche di registro più elevato: Ione – al pari dei Satiri del Ciclope – farebbe collidere così le due tradizioni, formulando un appello spropositato rispetto al contesto. Vd. Zimmermann 1985, p. 2. Anche l’inizio del quarto stasimo del Ciclope è caratterizzato da un aggettivo superlativo (Eur. Cycl. 656 JHQQDLRYWDW[H]) che suona spropositato rispetto ai referenti e al contesto: con esso, infatti, il corifeo si rivolge al Coro composto dai Satiri. 16 Vd. Karanika 2007, pp. 138-145. 17 Questo imperativo funge da generica esortazione, come la forma D>J[H] all’inizio del v. 112 dello Ione di Euripide. 14 15
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D’altra parte, le parole rivolte allo strumento – quasi fosse un essere animato in grado di sentire e di obbedire ai comandi di chi lo utilizza – dovevano fungere, attraverso il canto, da facilitatore dell’attività lavorativa e in particolari contesti questo procedimento poteva assumere anche i tratti di un rituale magico. Nella tragedia di Euripide questa atmosfera è evocata già negli anapesti in recitativo che precedono il canto, grazie alle parole con cui Ione descrive la realtà del santuario alle prime luci dell’alba: il fumo della mirra che sale; la Pizia seduta sul trono del tempio; le aspersioni con le acque pure della fonte Castalia, ordinate agli altri custodi, e le raccomandazioni in merito all’euphemia. La descrizione delle “origini” del ramo di alloro utilizzato da Ione per pulire non è meno significativa: esso proviene da giardini «immortali», dove scorrono «perenni» acque «sacre» che bagnano le fronde del mirto «sacro». Il giovane ha in mano un oggetto molto particolare – almeno egli lo presenta come tale – e con esso sembra celebrare un rito magico: in particolare, Ione si identifica con lo strumento di lavoro che sta utilizzando, fino a trasformarsi quasi in esso per compiere al meglio il proprio servizio al dio Apollo18. 2.2.2. Ione 144-153 Nella prima parte della sezione epodica della monodia, scandita da sequenze anapestiche e docmiache, l’azione scenica cambia: Ione lascia il ramo di alloro e versa dell’acqua per lavare il pavimento. La semplicità del lavoro contrasta con l’eleganza stilistica, che imita ancora una volta le forme dell’inno attraverso il ricorso a frasi relative e participiali. Come in una sorte di congedo, questa parte della monodia si chiude con la formulazione di un desiderio, che ricorda vagamente le espressioni tipiche della preghiera apotropaica (Eur. Ion 151153 HL>TPKSDXVDLYPDQK@SDXVDLYPDQ). Eppure, il particolare del vaso «d’oro» e la formulazione vagamente enigmatica utilizzata per definire l’acqua della fonte Castalia e per descrivere il gesto di versarla (Eur. Ion 146-148, lett. «spanderò la sorgente della terra, che i gorghi della Castalia riversano») continuano a suggerire un’atmosfera magica19. 2.2.3. Ione 154-183 La formula desiderativa che chiude la sezione precedente sembra suggerire la conclusione del canto, come avviene nel caso delle preghiere. Ione, invece, veUn procedimento simile è stato osservato da Karanika 2007, pp. 142-144, nel “canto della macina”: «We thus see the movement from thought to word, from word to work with words that work, bringing efficacy to the pronounced deed. […] Work and word, synchronized, acquire the kind of ritual force familiar from the combination of action and formula presented as necessary in the magical spells. […] The woman who grinds […] is both the agent and the receiver of the message she produces. Performativity and production work hand in hand: she says something while working, she “works” what she says». 19 Mirto 2009, p. 227, ricorda che «sia il metallo prezioso che l’acqua corrente hanno peculiari virtù catartiche». 18
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dendo arrivare frotte minacciose di uccelli, continua a cantare. Lo scarto rispetto ai vv. 144-153 è netto ed è sottolineato dall’interiezione di stupore H>DH>D – extra metrum fra il v. 153 e il v. 154 – e dall’omogenea scansione anapestica del brano. La situazione che si profila è molto simile a quella della parodo del Ciclope: il giovane dà inizio a un discorso frenetico con gli animali, in cui le frasi si susseguono prevalentemente in relazione paratattica e asindetica. In questa struttura “drammatica” molto frammentata, si segnala l’uso dei dimostrativi (Eur. Ion 161 R^GHD>OOR, 170 R^GNDLQRY) e del pronome personale di seconda persona singolare V[H] (Eur. Ion 158, 164 , 173). Ione rivolge direttamente agli uccelli alcune domande retoriche, pronunciate con evidente tono intimidatorio (Eur. Ion 162-163, 174), aperte minacce (Eur. Ion 164-165, 168-169, 173) e precisi ordini di allontanarsi (Eur. Ion 166-167). Un sentimento misto di sorpresa e di indignazione è ribadito dell’interiezione H>DH>D, inserita extra metrum ancora fra il v. 169 e il v. 170. L’atteggiamento sprezzante è evidente nell’uso dell’imperativo HMSLYED (Eur. Ion 167), tipica forma colloquiale, e nella scelta del verbo SDLGRXYUJHL (Eur. Ion 175), più concreto e quasi brutale rispetto a SDLGRSRLYHL. L’uso di aggettivi composti e solenni (Eur. Ion 157 FUXVKYUHL, 162 IRLQLNRIDK , 169 NDOOLITRYJJRX) ha al contrario la funzione di elevare il tono del discorso, confermando l’ambiguità che permea la monodia nel suo complesso. Dopo aver a lungo inveito contro gli uccelli, il pensiero di trovarsi davanti al tempio di Febo placa la foga di Ione: una sequenza di cinque sillabe lunghe segna una pausa e il ritorno del giovane alla sua pietosa occupazione a favore di Apollo. La monodia si chiude, dunque, in maniera circolare, riequilibrando e compensando la varietà di forme – il peana, l’inno, il dafneforico, il canto di lavoro – che sono rielaborate o semplicemente evocate al suo interno.
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MONODIE DIEGETICHE
ELEGIA NARRATIVA 1.
L’elegia narrativa: caratteristiche generali
Un’elegia1 è un testo poetico composto in distici, ovvero strutturato sulla base di un sistema epodico che associa un esametro dattilico e un asinarteto costituito da due hemiepe maschili (spesso indicato impropriamente come “pentametro” dattilico)2: il nome dice, dunque, principalmente l’aspetto formale, senza alcuna necessaria implicazione rispetto al contenuto. Nel tempo si è consolidata la convinzione di un legame privilegiato, e forse originario, fra l’elegia e i componimenti di carattere trenodico 3, favorita probabilmente dal comune accompagnamento dell’aulos, ma questa situazione non rispecchia la realtà dei fatti. Fin dall’epoca arcaica, l’elegia è stata impiegata, ad esempio, per trattare argomenti di carattere mitico o storico: lo testimoniano, in particolare, i frammenti e le testimonianze relativi alle opere di Mimnermo e di Simonide4. E le elegie di questo tipo assolvevano principalmente a una funzione diegetica, piuttosto che parenetica, gnomica o altra 5.
I diversi nomi che potevano designare questo tipo di componimento (HMOHJHL RQ, HMOHJHL D, HMOHJHLYD, H>OHJR) sono indagati da Gentili 1968. 2 Per un’analisi più approfondita delle caratteristiche proprie del distico elegiaco e in particolare dell’asinarteto che costituisce il secondo elemento, vd. Gentili – Lomiento 2003, pp. 283285. 3 Questa convinzione è in parte fondata sull’impiego del termine H>OHJR con riferimento a un canto lamentoso, testimoniato da Euripide e da Aristofane: vd. Gentili 1968, pp. 50-53; Lulli 2011, pp. 14, 18-20. L’origine dell’elegia a partire dal threnos era riferita, ad esempio, dalla Crestomazia di Proclo (ap. Phot. Bibl. 319b.6-14) e, in ambito latino, dall’Ars poetica di Orazio (Hor. Ars 75-78): vd. Lulli 2011, pp. 12-14. Ma Proclo affermava anche che «i poeti successivi utilizzarono l’elegia per diversi argomenti» (RL-PHYQWRLJHPHWDJHQHYVWHURLHMOHJHLYDLSUR GLDIRYURXX-SRTHYVHLDMSHFUKYVDQWR) e un’analoga indicazione è fornita dallo scolio al v. 113 dell’Andromaca euripidea (WRL JDUHMOHJHLYRLRXMPRYQRQHMSLTUKYQZQDMOODNDLHMSLD>OOZQHMFUZ QWR): vd. Gentili 1968, p. 51; Lulli 2011, p. 17 n. 34. 4 A proposito di Mimnermo e della «nascita poetica della storiografia», vd. Vetta 1992, pp. 190-192; De Martino – Vox 1996, pp. 703-704, 710-712, 727-730. A proposito degli epigrammi storici di Simonide, vd. Aloni 1994; Bravi 2006, pp. 37-90. In generale sull’elegia di argomento mitico e storico, vd. Lulli 2011. La varietà di argomenti trattati dall’elegia sono riassunti da Vetta 1992, p. 189: «la narrazione eroica e quella storica, la parenesi, la didattica, il TUK QR, il racconto personale, l’invettiva contenuta, il JUL IR, la preghiera». 5 Lulli 2011, pp. 21-22, propone la denominazione di “elegie diegetiche” per quelle elegie che propongono «la narrazione di eventi storici contemporanei o remoti, talora trattati in un legame senza soluzione di continuità con la materia mitica tradizionale» e nelle quali «l’istanza narrativa assume un ruolo preponderante». 1
139
2.
L’elegia e la tragedia attica
Secondo la tradizione indiretta, i tre principali tragediografi attici, Eschilo, Sofocle ed Euripide, composero opere poetiche non solamente drammatiche ma anche di altro genere. Plutarco nella Vita di Alcibiade (11.2 = Eur. fr. 755 Page) racconta che Euripide fu autore di un epinicio per il noto personaggio ateniese6, mentre le Imagines di Filostrato il giovane (13.4 = Soph. fr. 737 Page) costituiscono la fonte principale per l’attribuzione a Sofocle di almeno un peana, dedicato ad Asclepio7. Sul fronte della produzione elegiaca sembrano aver operato sia Eschilo che Sofocle: la Vita Aeschyli (8) riferisce che il primo sarebbe stato autore di un’elegia per i caduti a Maratona, forse destinata ad un agone in cui il poeta tragico sarebbe stato sconfitto da Simonide 8; Sofocle, invece, avrebbe dedicato un componimento in distici a Euripide (Ath. 604d-f = Soph. fr. 4 West) e un altro a Erodoto (Plut. = Soph. fr. 5 West), frammenti di una produzione testimoniata da diverse fonti (Soph. frr. 1-3 West). Nonostante la loro versatilità, i tre tragediografi non sembrano aver inserito di norma brani in distici elegiaci nelle loro opere drammatiche: l’unica eccezione è rappresentata dai vv. 103-116 dell’Andromaca di Euripide9. 2.1. Andromaca 103-116 (monodia di Andromaca) La moglie di Ettore non si trova più a Troia: la città è stata conquistata e lei, insieme alle altre donne, è stata condotta in Grecia come schiava. Ora abita a Ftia in Tessaglia, presso la casa di Neottolemo, figlio di Achille: qui si è unita al suo padrone e ha avuto un figlio, suscitando la gelosia della moglie legittima, Ermione. Quest’ultima non è ancora riuscita a dare una prole al marito e insieme al padre, Menelao, è determinata a uccidere Andromaca e il piccolo Molosso: di fronte a tale minaccia, la donna troiana ha trovato rifugio presso l’altare di Teti e ha allontanato il figlio dal palazzo. Alla fine della rhesis prologica una serva entra in scena per informarla che Ermione e Menelao hanno saputo che Molosso è stato nascosto fuori dal palazzo, e perciò viene in seguito mandata a cercare l’aiuto di Peleo. Nella parte finale del prologo Andromaca, rimasta di nuovo sola, manifesta l’intenzione di abbandonarsi ad un lamento accorato, elencando gli argomenti che ha a disposizione: la patria perduta, Ettore morto e la sua condizione di schiavitù (Eur. Andr. 91-102). Proprio su questi temi si sofferma la Lo stesso Plutarco, però, nella Vita di Demostene (1.1 = Eur. fr. 756 Page) manifesta qualche dubbio in merito alla paternità dell’epinicio per Alcibiade, che potrebbe essere stato composto da Euripide o da un altro poeta. 7 Vd. Rutherford 2001, pp. 38-39. 8 A questa informazione viene di solito ricondotta anche la notizia riferita da Plutarco nelle Conversazioni a tavola (I.10.3 = Aesch. fr. 1 West) in merito alla testimonianza fornita da Eschilo sulla battaglia di Maratona. 9 Vd. Martinelli 1995, pp. 287, 293. 6
140
monodia in distici elegiaci, che la donnna intona subito dopo (Eur. Andr. 103116): ,OLYZLDLMSHLQD L3DYULRXMJDYPRQDMOODWLQD>WDQ DMJDYJHWHXMQDLYDQHMTDODYPRX#(OHYQDQ D_H^QHNZ?7URLYDGRULNDLSXULGKL!DYOZWRQ HL_OHVR-FLOLRYQDX#(OODYGRZMNX$UK NDLWRQHMPRQPHOHYDSRYVLQ(NWRUDWRQSHULWHLFK HL^ONXVHGLIUHXYZQSDL D-OLYD4HYWLGR DXMWDGHMNTDODYPZQDMJRYPDQHMSLTL QDTDODYVVD GRXORVXYQDQVWXJHUDQDMPILEDORX VDNDYUDL SROODGHGDYNUXDYPRLNDWHYEDFURRYD-QLYNH>OHLSRQ D>VWXWHNDLTDODYPRXNDLSRYVLQHMQNRQLYDL Z>PRLHMJZPHOHYDWLYPHMFUK QH>WLIHYJJRR-UD VTDL #(UPLRYQDGRXYODQBD_X^SRWHLURPHYQD SURWRYGD>JDOPDTHD L-NHYWLSHULFHL UHEDORX VD WDYNRPDLZ-SHWULYQDSLGDNRYHVVDOLEDY Alla rocca d’Ilio Paride condusse nel suo letto un’amante, Elena: non fu sposa ma sciagura. O Troia, a causa di questa donna fosti conquistata e distrutta: Ares ti prese muovendo rapido dall’Ellade con mille navi. Ed Ettore, mio sposo, di me misera, il figlio di Tetide marina lo trascinò intorno alle mura alla guida del suo cocchio. Io, invece, strappata dal talamo, fui condotta sulla riva del mare col capo velato da un’odiosa schiavitù. Molte lacrime solcarono il mio viso, mentre lasciavo la città, il talamo e lo sposo nella polvere. Ahimè, misera! Perché dovrei continuare a vivere, costretta ad essere schiava di Ermione? Tormentata da lei, io qui, supplice della dea, davanti alla sua statua che stringo tra le braccia, mi struggo come goccia che stilla da fonte rocciosa. All’inizio dell’elegia, come in «una sorta di ‘archeologia’ della guerra di Troia»10, Andromaca ricorda l’unione illegittima e sciagurata di Paride ed Elena (Eur. Andr. 103-104). Grazie al nesso D_H^QHN[D] (Eur. Andr. 105), questo episodio è presentato come la causa scatenante delle sventure che sono accadute in seguito: il saccheggio e la distruzione di Troia da parte dell’esercito greco (Eur. Andr. 105-106), l’umiliazione del cadavere di Ettore da parte di Achille (Eur. Andr. 107-108), la deportazione e la schiavitù imposte alla stessa Andromaca (Eur. Andr. 109-110), le sue lacrime nel momento del distacco dagli affetti più cari (Eur. Andr. 111-112). Nell’ultima coppia di distici il canto si sofferma sulla dolorosa situazione presente della donna, non solo schiava ma anche vittima delle persecuzioni di Ermione, costretta a supplicare la protezione di Teti (Eur. Andr. 113-116). Il brano è costruito attorno a precise dinamiche parallele e oppositive: come Elena è stata la causa di tante sciagure, così la figlia Ermione è ora all’origine dei nuovi tormenti di Andromaca, e al nesso D_H^QHN[D] (Eur. Andr. 105) corrisponde D_X^SR(Eur. Andr. 114); diversamente, all’ingresso di Elena
10
Lulli 2011, p. 17.
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nel talamo di Paride (Eur. Andr. 104 DMJDYJHW[R]HMTDODYPRX) corrisponde – con un movimento uguale ma di direzione contraria – l’uscita di Andromaca dal talamo di Ettore (Eur. Andr. 109 HMNTDODYPZQDMJRYPDQ). La corrispondenza fra unità semantiche e unità metriche costituite dal distico elegiaco conferiscono al brano un equilibrio espressivo e un ordine espositivo limpidissimi. Solo in prossimità del finale, una pausa sintattica forte cade all’interno del “pentametro” (Eur. Andr. 114), ma l’anomalia è contenuta dalla coincidenza con la dieresi fra i due hemiepe. Per un’ampia parte della monodia gli elementi trenetici sono circoscritti all’invocazione diretta alla città distrutta (Eur. Andr. 105 Z?7URLYD)11 e all’uso dell’aggettivo PHYOHR (Eur. Andr. 107 PHOHYD) concordato a senso con il possessivo HMPRYQ. Solo il ricordo di Ettore caduto nella polvere e irrimediabilmente perduto provoca il primo vero grido di dolore di Andromaca, quel Z>PRLHMJZ PHOHYD (Eur. Andr. 113) che risuona simile nelle monodie di Peleo (Eur. Hipp. 817 Z>PRLHMJZSRYQZQ) e di Polimestore (Eur. Hec. 1056 Z>PRLHMJZY)12 e ancora nel lamento di Illo per il padre Eracle (Soph. Tr. 971-972 Z>PRLHMJZVRX Z>PRLHMJZVRX PHYOHR), dove viene recuperata un’espressione già omerica (Hom. Od. XIX 363 Z>PRLHMJZVHYR)13. Dopo questo sfogo, Andromaca sottolinea con una domanda retorica l’insensatezza di continuare a vivere in un simile stato di sofferenza (Eur. Andr. 113-114a). Solo in questo contesto, nella chiusa del canto, proprio dove si registra l’unica infrazione nella corrispondenza fra struttura metrica, sintassi e nucleo concettuale, il pianto, la schiavitù e la supplica si profilano come motivi propriamente trenetici. Nell’unico esempio di elegia presente all’interno di un’opera drammatica, Euripide integra così abilmente narrazione e lamento, probabilmente attingendo a tradizioni poetiche distinte e ben riconoscibili. 2.1.1. La scelta dell’elegia e la tradizione poetica greca L’eccezionalità di questa monodia tragica, che ha la forma di un’elegia, ha acceso un lungo dibattito fra gli studiosi in merito alle opere che potrebbero aver ispirato una scelta tanto singolare da parte di Euripide. Puntando l’attenzione sulla presenza dell’alpha dorico, Page (1936) ha ipotizzato un collegamento fra il canto a solo di Andromaca e una presunta tradizione peloponnesiaca di elegia trenetica, a cui si potrebbero ricollegare ad esempio i nomi di Echembroto e Sacada14. Rispetto a questa tesi, è stato obiettato che l’alpha dorico è caratteristico di tutti i canti della tragedia 15 e, se 11 Cf. Eur. Tr. 1277-1278. Vd. Lulli 2011, p. 16. In generale, a proposito della tensione emotiva implicita nel ricorso alle allocuzioni, vd. Di Benedetto 1998, pp. 54-64. 12 Vd. Gentili 1968, p. 53. 13 Vd. Pattoni 2000, che analizza anche il grido di dolore di Eracle, RL>PRLHMJZWODYPZQ (Soph. Tr. 986), modellato sull’esempio di Hom. Od. XIII 200 Z>PRLHMJZY. 14 Le notizie riguardanti questi due poeti sono molto scarse: vd. De Martino – Vox 1996, pp. 344-346, 355-358. 15 Vd. Lloyd 1994, p. 112.
142
di norma l’elegia prevedeva un’esecuzione in recitativo, è probabile che nel contesto della tragedia venisse cantata come una vera e propria monodia, anche se il canto poteva risultare più cantilenato e monotono16. Sono stati aspresi, inoltre, dubbi in merito alla effettiva storicità di una tradizione elegiaca di carattere trenetico, legata all’area del Peloponneso 17. Indipendentemente dal dialetto dorico, l’elegia aveva indubbiamente un legame con i monumenti funebri, come attestano ad esempio le epigrafi dedicate ai caduti alle Termopili ricordate da Erodoto (Hdt. VII 228): i tre componimenti sono costituiti ciascuno da uno o due distici elegiaci. Andromaca potrebbe presentarsi come la “tomba del suo passato”18, una tomba che prende voce sulla scena. La natura dattilica del distico elegiaco, d’altra parte, poteva richiamare alla mente del pubblico i lamenti funebri per la morte di Ettore, intonati dalla moglie nell’Iliade (Hom. Il. XXII 477-514, XXIV 725-745)19. Gli echi dell’epica omerica, del resto, sono evidenti in alcune scelte lessicali: -
,OLYZL DLMSHLQD L all’inizio di un esametro: Hom. Il. XIII 773 ,OLR DLMSHLQKY; Hom. Il. IX 419, 686, XV 215 ,OLYRXDLMSHLQK ; Hom. Il. XV 558, XVII 328 ,OLRQDLMSHLQKYQ;
-
HMSLTL QDTDODYVVD come clausola esametrica: Hom. Il. IV 248 HMSLTLQLTDODYVVK; Hom. Od. II 260, IV 779, VI 236, X 154, 402, 407, 569, XII 367, XIII 65, XV 205, XVI 358 HMSLTL QDTDODYVVK;
-
HMQNRQLYDL alla fine del “pentametro” come adattamento della clausola esametrica HMQNRQLYKLVL(Q): Hom. Il. IV 522, V 583, 588, XIII 205, 548, 617, XIV 418, XV 434, XVI 289, 471, 741, XXII 402;
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SHULFHL UHEDORX VD come clausola esametrica: Hom. Od. XI 211 SHULFHL UHEDORYQWH.
A proposito delle normali modalità di esecuzione dell’elegia, vd. Vetta 1992, p. 188. La tesi di Page in merito all’esistenza di una tradizione peloponnesiaca di elegia trenetica è stata confutata da Bowie 1986, pp. 22-25. Più recentemente gli argomenti addotti da quest’ultimo sono stati ritenuti convincenti da Lulli 2011, pp. 15-16. Diversamente, De Martino – Vox 1996, p. 346, a proposito di Echembroto, hanno sostenuto che è «possibile che davvero sia esistita un’elegia arcaica trenodica, linguisticamente caratterizzata dal dorico rispetto a quella parenetica in ionico (Tirteo)». Già Gentili 1968, pp. 51-52, pur ritenendo che l’elegia non abbia avuto esclusivamente un carattere trenetico, ribadiva le posizioni espresse da Page in merito ai componimenti di Sacada e di Echembroto. 18 Vd. Allan 2000, p. 56. 19 Vd. Lloyd 1994, pp. 111-112. Allan 2000, p. 56 n. 79, collega al lessico omerico anche l’uso del verbo WDYNRPDL e del sostantivo OLEDY, anche se non si tratta di riprese puntuali rispetto alle espressioni utilizzate in Hom. Od. XIX 204 ss., Il. IX 14-15 = XVI 3-4 per descrivere immagini analoghe. Allo stesso modo, l’aggettivo SLGDNRYHVVD può essere confrontato con l’epico SROXSLYGD[ (Hom. Il. XI 157). 16 17
143
Analoghe affinità, d’altra parte, suggeriscono un collegamento fra la monodia di Andromaca ed esempi di elegie diegetiche, che a loro volta hanno attinto abbondantemente al lessico della poesia epica. Il sintagma iniziale ,OLYZLDLMSHLQD L, ad esempio, può essere accostato all’incipit del fr. 9 West di Mimnermo: DLMSX‹›WH3XYORQ1KOKYL!RQD>VWXOLSRYQWH, che nella ricostruzione proposta da Gentili e Prato suona DLMSX3XYORQTK-PHL 1KOKYL!RQ (fr. 3 Gentili – Prato)20. Questo componimento narrativo, inoltre, come il canto tragico euripideo, fa coincidere l’unità sintattica e concettuale con il distico. Il nesso causale D_H^QHN[D], posto in rilievo all’inizio del v. 105 dell’Andromaca può essere confrontato con un’analoga espressione congetturata da Parsons all’inizio di un esametro nel fr. 11.11 West di Simonide: HL^QHN$OH[DY]QGURLRNDNRYIU[RQ]R. La parte iniziale di questo testo rievoca l’uccisione di Achille, sottolineando probabilmente la responsabilità di Paride-Alessandro, anche se nei vv. 7-8 si ricorda l’intervento decisivo di Apollo21. Il motivo delle «cause scatenanti» sembra, del resto, una componente caratteristica dell’elegia narrativa di età arcaica22, tradizione alla quale è riconducibile probabilmente la ,OLYRXSHYUVL di Sacada23. È probabile che Euripide, mescolando elementi trenetici ed elementi diegetici, abbia rielaborato le caratteristiche tipiche di diversi tipi di elegia 24. Se si considera, inoltre, il legame fra la monodia e i trimetri giambici immediatamente precedenti, recitati dalla stessa Andromaca, si ha l’impressione che il poeta tragico abbia associato volutamente a questo particolare componimento la riflessione relativa alla vita e alla felicità umana25: il carattere gnomico delle parole corrispondenti ai vv. 100-102 evoca, quindi, un altro filone della produzione elegiaca, quello parenetico. 2.1.2. La monodia di Andromaca sulla scena La varietà dei modelli a cui Euripide sembra essersi ispirato per la composizione della monodia di Andromaca ha favorito letture parzialmente diverse di questo brano: «la belle forme de l’élegie», così equilibrata, è stata intesa come l’espressione di una donna «maîtresse d’elle-même»26; altri hanno colto nel tono flebile dei distici la «figura reale di donna e madre sperduta sulla via di una dura vita»27; altri ancora hanno colto un’evoluzione nelle parole dell’eroina tragica, per cui «il lamento comincia maestosamente» ma «man mano Vd De Martino – Vox 1996, pp. 710-712; Lulli 2011, pp. 34-42. Vd. Aloni 1994; Lulli 2011, pp. 64-83. 22 Vd. De Poli 2005, pp. 263-264; Lulli 2011, p. 21. 23 Secondo Bowie 2001, p. 53, l’elegia tragica di Andromaca potrebbe essere messa in relazione proprio con questa opera di Sacada, se si ritiene credibile la testimonianza che la riguarda (Athen. XIII 610c). 24 A questo proposito della volontà di Euripide di coniugare lamento e narrazione, vd. Lulli 2011, p. 18. 25 Cf. Hdt. I 32.7. Sulla fortuna tragica di questo motivo, vd. Lloyd 1994, p. 111. 26 Kamerbeek 1943, p. 57. 27 Garzya 1951, p. 117. 20 21
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che il canto procede […] la linea melodica trova un’intensificazione emotiva nelle espressioni di angoscia e nei singhiozzi di un pianto sconsolato»28. La rigidità della struttura compositiva, in realtà, lascia poco spazio a espressioni fortemente passionali: le lacrime, che pure vengono evocate come filo conduttore tra passato (Eur. Andr. 111) e presente (Eur. Andr. 116), nella situazione scenica sono paragonate alle acque che sgorgano da una roccia (Eur. Andr. 116 SHYWULQD). Questa immagine suggerisce l’identificazione del corpo di Andromaca con la pietra e, se si considera che proprio su una lapide poteva essere incisa la scritta dedicatoria in distici elegiaci di una statua 29, la donna sembra incarnare l’epigramma votivo del simulacro di Teti a cui si tiene stretta, quasi una sorta di “epigrafe umana” del monumento: la scena deserta e immobile, la solitudine assoluta30 nella quale il personaggio tragico salmodiava questa elegia poteva forse favorire ulteriormente una simile impressione31. Nonostante ripercorra le proprie sventure e ricordi la morte di Ettore per mano di Achille, designandolo come SDL D-OLYD 4HYWLGR (Eur. Andr. 108), Andromaca non esprime alcun sentimento di protesta nei confronti di Teti; al contrario, come ha mandato la serva a cercare l’aiuto di Peleo, attraverso la monodia sembra rivolgere un’implicita richiesta di protezione e di soccorso alla dea, a cui si presenta come supplice e che effettivamente apparirà ex machina nel finale della tragedia per ricomporre le fila della vicenda.
Pintacuda 1978, pp. 178-179. In modo analogo, Di Benedetto 1992, pp. 223 ss., considera i vv. 91-116 come la premessa alla «poetica del pianto» o «del dolore», che trova la sua più compiuta espressione nelle Troiane. 29 Vd. Gentili 1968, p. 39; Bravi 2006, pp. 113-131. 30 In modo speculare, prima la serva (vv. 61-62) e poi le donne del coro (vv. 141-146) dichiarano di provare compassione per la sorte di Andromaca ma di non poter manifestare questo sentimento per il timore di ritorsioni da parte di Ermione. 31 E forse non è neppure casuale che nell’Andromaca, a differenza delle altre sezioni liriche, solo questa monodia sia separata dall’amebeo (Eur. Andr. 501-544). In merito alla funzione drammaturgica delle parti cantate dagli attori in questa tragedia, vd. Ferrari 1971. Per l’opposta caratterizzazione di Andromaca ed Ermione, vd. De Poli 2005, pp. 258-266. 28
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“NUOVO DITIRAMBO” 1.
Il ditirambo narrativo: caratteristiche generali
Il ditirambo era in origine un canto in onore di Dioniso (Archil. fr. 120 West)1, ma tra il VII e il VI sec. a.C. – a Corinto con Arione di Metimna oppure ad Atene con Laso di Ermione – subì una innovazione determinante per la sua fortuna successiva: da canto cultuale a canto narrativo2. Nella capitale dell’Attica questo genere poetico incontrò particolare fortuna, tanto che già all’epoca della riforma clistenica fu istituito un agone ditirambico nell’ambito delle Grandi Dionisie. In seguito, la rivoluzione musicale della seconda metà del V sec. a.C. diede vita al cosiddetto “nuovo ditirambo”3, caratterizzato da una ricca polimetria e da frequenti cambi di ritmo. Il mimetismo espressivo e il virtuosismo melico non si adattavano più all’esecuzione corale, e la voce solista, che probabilmente in origine intonava l’anabole assolvendo alla funzione di exarchos, si impossessò anche di questa performance canora4. Venne abbandonata la struttura antistrofica, legata al canto del coro, a favore degli apolelymena e si cercò di riprodurre con la cetra le potenzialità musicali dell’aulos. Il massimo esponente di questo genere fu Timoteo di Mileto, attivo tra la fine del V e l’inizio del IV sec. a.C., e nell’ambito della sua produzione, pervenuta in forma frammentaria, si possono ancora leggere ampie sezioni dei Persiani. Le indagini condotte sull’opera di questo poeta hanno messo in evidenza alcune caratteristiche retoriche e stilistiche particolari 5: 1) la presenza di espressioni e perifrasi oscure ed enigmatiche; 2) l’abbondanza di termini composti, anche con due preverbi o con la combinazione di tre diversi elementi; 3) l’indifferenza alle ripetizioni; 4) la prevalenza della paratassi, scandita soprattutto dalla particella GHY o dalla congiunzione WH; 5) l’eventuale asindeto inteso a produrre particolari effetti espressivi; 6) la subordinazione affidata in prevalenza alle congiunzioni HLM, HMSHLY, R^WH, HX?WH; 7) l’uso preponderante di forme verbali all’imperfetto. Alcune di queste particolarità sono condivise dalla “narrativa popolare” greca, le cui caratteristiche retoriche e stilistiche sembrano essere riflesse dalla prosa ionica e da autori come Ecateo di Mileto, Acusilao di Argo, Ferecide di
1 “Ditirambo” era anche un eponimo dello stesso dio (Eur. Ba. 526): vd. Susanetti 2010, pp. 221-222. Sul rapporto fra ditirambo e Dioniso, vd. Privitera 1991, pp. 142-143. Fra i canti popolari, alcuni componimenti celebrano espressamente Dioniso: Carm. Pop. frr. 5a-b, 25 Page. 2 Sulle vicende legate all’evoluzione del ditirambo, vd. Zimmermann 2008, pp. 26-41; Privitera 1991; Privitera 1977b. Un inquadramento complessivo di questo genere poetico è offerto anche da Hordern 2002, pp. 17-25. 3 Vd. Zimmermann 2008, pp. 116-133. 4 A proposito dell’anabole ditirambica e della sua evoluzione in conseguenza delle novità musicali, vd. Comotti 1989. 5 Vd. Hordern 2002, pp. 36-55; Wilamowitz 1903, pp. 47-55.
147
Atene ed Erodoto6. I loro racconti e i canti di Timoteo hanno in comune l’uso del connettivo GHY, lo stile ripetitivo e l’impiego dell’imperfetto – a cui si affiancano il presente storico e l’aoristo – come tempo della diegesi. Il “nuovo ditirambo”, nonostante la spiccata ricercatezza espressiva, continua ad essere dunque un esempio di poesia narrativa, sulla scia di Arione o di Laso, secondo la classificazione platonica (Plat. Resp. III 394c K-GHGLDMSDJJHOLYDDXMWRX
WRX SRLKWRX )7. Altre caratteristiche della “narrativa popolare” – significative per l’analisi delle monodie euripidee – sono: 8) l’uso di espressioni temporali, come H>SHLWD o WRYWH; 9) la collocazione enfatica iniziale del verbo.
2.
Le monodie ditirambiche nelle tragedie di Euripide
La tragedia ha intrattenuto rapporti di scambio e di influenza reciproca con il “nuovo ditirambo”: le tracce eschilee nei Persiani di Timoteo dipendono, almeno in parte, dall’affinità della materia trattata, ma sono notevoli anche i punti di contatto fra il poeta ditirambico ed Euripide 8 che, a sua volta, risentì ampiamente dello stile rinnovato di questo genere melico. Gli effetti sono evidenti soprattutto in quello che Kranz ha designato come «das neue Lied» focalizzando l’attenzione sui «dithyrambische Stasima» euripidei 9 e sulla loro funzione narrativa: la novità di questi brani ha iniziato a manifestarsi con la rappresentazione delle Troiane10, si è sviluppata nelle opere successive e a partire dai canti corali ha contagiato anche altre strutture della tragedia, come la monodia11. Sul piano strutturale, la rinuncia alla responsione strofica è compensata da «(möglichst kurze) DMQDERODLY “Eingänge”», ovvero da multiformi frasi musicali introduttive, che potevano essere anche ampliate in maniera spropositata rispetto al resto del canto12. Le caratteristiche retoriche e stilistiche di queste composizioni “ditirambiche” sono molto simili a quelle riscontrate nelle opere di Timoteo: la monotonia della narrazione è ravvivata attraverso il ricorso a invocazioni e allocuzioni patetiche13 o a figure retoriche, soprattutto ripetizioni e geminationes che perdono il loro valore rituale per diventare semplice Vd. Ruiz-Montero 2003, pp. 81-85. Vd. Privitera 1991, pp. 144-153; Privitera 1977b, pp. 33-34. 8 Ad esempio, vd. Firinu 2009; De Poli 2011. 9 Vd. Kranz 1933, pp. 228-266. 10 Vd. Battezzato 2005. Dai canti delle Troiane aveva preso spunto anche l’analisi di Kranz 1933, pp. 228-266. 11 Kranz 1933, p. 239: «Es ist aber klar, daß solch ausgeprägte stilistische Eigenart nicht nur dem Chorliedern, sonder auch anderen Gliedern des euripideischen Dramas sich aufgeprägt hat, vor allem den Monologen und Monodien». A proposito del rapporto fra canti corali e monodie nell’opera di Euripide, vd. Prato 1984-1985, che segnala la progressiva erosione dei primi a favore degli assoli. 12 Kranz 1933, p. 236. Vd. Privitera 1991, p. 152; Comotti 1989. 13 Vd. Kranz 1933, pp. 238-239. 6 7
148
«Wortspiel»14. Una spia particolare di quei canti narrativi che evocano il passato è costituita dall’avverbio temporale SRWHY15. Nella tragedia euripidea la natura ditirambica può caratterizzare la monodia nel suo complesso (monodia ditirambica) oppure può essere limitata a una parte del canto a solo (sezione ditirambica). Nella monodia di Creusa, ad esempio, alcune particolarità stilistiche tipiche del “nuovo ditirambo” sono circoscritte alla parte centrale del suo anti-inno, l’eulogia, quella più propriamente narrativa (Eur. Ion 887-906). D’altra parte, l’episodio dello stupro divino mostra evidenti analogie con il racconto nel quale Elena ricorda il suo rapimento e che occupa un’intera monodia (Eur. Hel. 229-252)16. Talvolta, invece, più canti a solo di carattere narrativo possono essere intervallati da brevi interventi del corifeo o da canti corali: si creano così delle macrostrutture ditirambiche che possono essere considerate in modo unitario (sistema ditirambico). Di seguito sono elencati i passi delle tragedie euripidee, distinti in sezioni, monodie o sistemi ditirambici: tragedia Tr. IT Ion Hel. Ph.
sezione 122-142
317b-349
Or.
982-1012
monodia
Sistema
203-235 887-906 164-178, 191-210, 229-252, 362-385 1567-1581 1369-1379, 1381-1392, 1395-1424, 1426-1451,1454-1472, 1474-1502
IA
1283-1333
La tabella conferma che la novità drammaturgica delle monodie ditirambiche nasce e si sviluppa a partire dalle Troiane, producendo gli effetti più eclatanti nell’Elena e nell’Oreste, dove sono presenti due complessi sistemi ditirambici.
Kranz 1933, pp. 231-232. Zimmermann 1984, p. 191, a proposito dell’espressione +UDLSRW[HY], osserva che «die balladenartigen L-VWRULYDL des Euripideischen Spätwerks werden häufig mit SRWHY eingeleitet» e rinvia a Eur. El. 432, 700, Hel. 1301. 16 I racconti di Creusa ed Elena ricordano entrambi un intervento divino in circostanze molto simili – la donna che raccoglie fiori (Eur. Ion 888-890, Hel. 244-245) – descritte con parole quasi identiche: NURYNHDSHYWDOD ~ FORHUDY U-RYGHDSHYWDOD; H>GUHSRQ ~ GUHSRPHYQDQ; HMNRYOSRX ~ H>VZSHYSOZQ. Cf. anche Eur. IA 1294-1299 D>QTHVLFOZURL NDLU-RGRYHQWD>QTHX-DNLYQTLQDYWHGUHYSHLQ: in questi termini viene descritto lo scenario in cui Era, Atena ed Afrodite si presentano a Paride per la gara di bellezza in una monodia ditirambica cantata da Ifigenia. 14 15
149
2.1. La struttura delle monodie ditirambiche La sezione ditirambica all’interno della monodia di Creusa (Eur. Ion 887-906) corrisponde a una componente costitutiva dell’inno, l’eulogia17; nell’Oreste, invece, la parte narrativa del canto a solo di Elettra (Eur. Or. 982-1011) coincide con il lungo epodo che segue una coppia strofica improntata piuttosto al lamento. In entrambi i casi18 l’aspetto strutturale è associato a una particolare caratterizzazione metrica: nello Ione il racconto è scandito da una successione abbastanza regolare di paremiaci con qualche variazione patetica, prodotta da sequenze che presuppongono fenomeni di superallungamento oppure da cola docmiaci; nell’Oreste, invece, le diverse unità semantiche corrispondono di solito ad altrettante unità non solo sintattiche ma anche metrico-ritmiche che, grazie alla loro differenziazione, conferiscono alla composizione del canto una spiccata varietà. Quest’ultima caratteristica è comune anche alla sezione ditirambica, riscontrabile nella monodia di Giocasta19: nelle Fenicie il canto gioioso della madre che ha ritrovato il figlio Polinice (Eur. Ph. 301-317a) termina con la maledizione rivolta contro il responsabile della sciagura che si è abbattuta sulla famiglia di Edipo (Eur. Ph. 350-354)20, mentre la sezione centrale (Eur. Ph. 317b-349), in cui Giocasta delinea in sintesi la situazione, ha un’impostazione diegetica: la parte iniziale, scandita da sequenze giambiche e cretiche abbastanza regolari, e quella conclusiva, caratterizzata dalla presenza di cola enopliaci, si distinguono chiaramente da quella centrale, più marcatamente polimetrica. Nelle Troiane la monodia di Ecuba ha una struttura tripartita, simile a quella del canto di Giocasta21: dopo il preambolo in anapesti eseguiti in recitativo, costellato da diversi spunti trenetici (Eur. Tr. 98-121), il canto si focalizza a partire dal v. 122 sui ricordi dell’anziana regina, interrotti solo nel finale dal richiamo rivolto alle altre donne troiane che compongono il Coro (Eur. Tr. 143-144 DMOOZ? D>ORFRLPHYOHDLNDLNRX UDLGXYVQXPIDL) e dall’esortazione a cantare con lei per la caduta della città (Eur. Tr. 145 DLMDY]ZPHQ). La parte centrale della monodia (Eur. Tr. 122-142) presenta una struttura compositiva piuttosto ordinata, con alcune riprese e minime variazioni: dopo un brevissimo preludio (o anabole) corrispondente al paremiaco iniziale (Eur. Tr. 122), in cui Ecuba evoca le prue delle navi greche dirette a Troia, altri paremiaci si alternano prima a una coppia di gliconei e poi a una coppia di dimetri anapestici acataletti (Eur. Tr. 123-129); quindi i vv. 130-133 ripetono la sequenza par 2an 2an par dei vv. 126-129; infine per due volte un paremiaco chiude serie più Per un’analisi più approfondita della monodia di Creusa, vd. supra, pp. 84-94. Per il testo e la struttura metrica della monodia di Creusa, vd. infra, p. 160 (testo 1); per la monodia di Elettra, vd. infra, pp. 160-161 (testo 2). 19 Per il testo e la struttura metrica della monodia di Giocasta, vd. infra, pp. 162-163 (testo 3). 20 In merito alla maledizione presente all’interno della monodia di Giocasta, vd. supra, pp. 57-58. 21 Per il testo e la struttura metrica della monodia di Ecuba, vd. infra, pp. 163-164 (testo 4). 17 18
150
o meno ampie di monometri e di dimetri anapestici o di cola ad essi equivalenti (Eur. Tr. 134-137, 138-142). Nella parte finale della monodia, dove interviene la componente parenetica (Eur. Tr. 143-148), la funzione di clausola ritmica, affidata in precedenza al paremiaco, è qui assolta dal prosodiaco di sei sillabe lunghe (Eur. Tr. 144b, 148). Ma Ecuba, anche nel ruolo di exarchos, torna ad evocare il lontano tempo felice in cui Priamo regnava (Eur. Tr. 149-152) e qui di nuovo un paremiaco chiude una sequenza composta da un monometro e due dimetri anapestici, sequenza simile a quella già presente nei vv. 134137. Le sezioni ditirambiche si inseriscono in strutture astrofiche, e tali sono anche le monodie interamente di carattere narrativo. Questi apolelymena, d’altra parte, sostituiscono di solito la responsione con una composizione particolare del canto, in cui ad esempio viene ripetuta la stessa clausola interna. La situazione esemplificata dalla sezione ditirambica della monodia di Ecuba nelle Troiane è molto simile a quella riscontrabile nella monodia dell’Ifigenia fra i Tauri o in quella di Antigone nelle Fenicie22. Entrambe esordiscono con una anabole distinta sul piano metrico-ritmico rispetto allo sviluppo successivo del canto: nel primo caso la serie di quattro paremiaci intervallata da un dimetro anapestico acataletto (Eur. IT 203-207) è interrotta da una coppia di dimetri anapestici acataletti (vv. 208-209), mentre nella tragedia più tarda l’anabole trocaica (Eur. Ph. 1567-1570) è seguita da sequenze dattiliche. Dopo questo scarto iniziale, sia nell’Ifigenia fra i Tauri che nelle Fenicie la parte narrativa prosegue con una struttura piuttosto regolare. Nelle parole di Antigone si segnala l’inserzione eccezionale di due esametri dattilici e di altre due sequenze “eterogenee” (Eur. Ph. 1572 hem, 1575 2sp dochm) e in entrambi i casi la scelta sembra essere legata a ragioni semantiche o retorico-stilistiche. Nell’Ifigenia fra i Tauri, invece, quando la giovane donna ricorda le sue aspettative in vista di un matrimonio felice, dopo la coppia iniziale di dimetri anapestici acataletti, il brano risulta scandito da una lunga serie di paremiaci o di sequenze equivalenti (Eur. IT 213), chiusa da un nuovo dimetro anapestico acataletto (Eur. IT 217). Dal v. 218, quando Ifigenia inizia a raccontare con dolore la sua situazione presente, il rapporto fra le due unità metriche si inverte: una serie di dimetri anapestici acataletti o di sequenze equivalenti (Eur. IT 22423, 226, 233) è chiusa da un paremiaco (Eur. IT 235). Quest’ultima monodia si inserisce in una composizione melica più articolata, che si sviluppa attorno alla parodo: sollecitata da una breve battuta cantata da Ifigenia (Eur. IT 123-125), il Coro esegue il suo canto di ingresso (Eur. IT 126-142), seguito nell’ordine da una monodia (Eur. IT 143-177), da un Per il testo e la struttura metrica della monodia di Ifigenia, vd. infra, pp. 164-165 (testo 5); per il testo e la struttura metrica della monodia di Antigone, vd. infra, p. 165 (testo 6). 23 Il v. 224 può essere analizzato non solo come paremiaco ma anche come cho an (cf. Eur. Or. 1007, IA 1277): in quest’ultimo caso può essere considerato come sequenza equivalente a un dimetro anapestico acataletto. In merito a questa forma di equivalenza, vd. De Poli 2011, pp. 289, 319. 22
151
corale (Eur. IT 178-202) e da una seconda monodia (Eur. IT 203-235). I due brani solistici sono caratterizzati in modo diverso: il primo associa il lamento alla celebrazione del rito della libagione, accompagnato da una apposita preghiera24; il secondo ha un impianto essenzialmente diegetico. Quest’ultima monodia di Ifigenia si lega comunque al canto corale precedente, non solo perché ne prosegue l’impostazione narrativa ma anche perché riprende in apertura (Eur. IT 203-204 PRLGXVGDLYPZQGDLYPZQ) le ultime parole cantate dalle schiave greche (Eur. IT 202 HMSLVRLGDLYPZQ). Tale meccanismo è sfruttato di nuovo e ulteriormente sviluppato nell’Elena25: qui il breve proemio dattilico cantato dalla protagonista (Eur. Hel. 164166) è seguito immediatamente da una monodia (Eur. Hel. 167-178), a cui risponde il Coro con la parodo (Eur. Hel. 179-190). I due brani sono fra eccezionalmente in responsione l’uno con l’altro, anche se personaggio e Coro non sono ancora entrati in contatto diretto. Il loro incontro è evidente solo a partire dal v. 191: la nuova coppia strofica è costituita dalla seconda monodia di Elena (Eur. Hel. 191-210) e da un altro canto corale (Eur. Hel. 211-228). L’articolata struttura melica termina, temporaneamente, con la terza monodia in funzione di epodo (Eur. Hel. 229-252). Gli assoli, scanditi da sequenze giambo-trocaiche, procedono secondo un disegno sostanzialmente coerente: con il proemio Elena introduce un canto di lamento per le sue sventure; quindi chiede il sostegno poetico delle Sirene e dei cori di Persefone; la seconda e la terza monodia sono introdotte ciascuna da una breve anabole (Eur. Hel. 191-195 e 229-231) e procedono rievocando in un caso le dolorose conseguenze della guerra di Troia e nell’altro le circostanze che portarono allo scoppio del conflitto. Se la parodo accompagna e motiva l’ingresso delle schiave greche, il secondo canto corale riprende gli episodi raccontati dall’eroina tragica nella sua seconda monodia, utilizzando parole ed espressioni molto simili, producendo un effetto di amplificazione simile a quello dell’eco. Dopo l’epodo, però, con due trimetri giambici (Eur. Hel. 253-254) Elena viene indotta dal corifeo a valutare con maggiore freddezza e razionalità la propria situazione. Una rhesis, una sticomitia e un breve amebeo preludono al ritorno del canto a solo: prima con un solenne giuramento (Eur. Hel. 348-359), quindi con l’ultima monodia che si sofferma sulle sofferenze patite in ugual misura da Greci e Troiani (Eur. Hel. 362-385). Questa volta la breve anabole (Eur. Hel. 362-363) e la narrazione (Eur. Hel. 364-374) sono chiuse da una porzione di canto distinta sul piano metrico – i cola dattilici marcano uno scarto netto rispetto alle sequenze giambo-trocaiche precedenti26 – in cui Elena confronta la propria sventura con quella toccata ad altre due figure femminili del mito, Callisto e Cos (Eur. Hel. 375-385).
A proposito del rito della libagione e del suo rapporto con la monodia di Ifigenia, vd. supra, pp. 64-67. 25 Per il testo e la struttura metrica delle monodie di Elena, vd. infra, pp. 166-169 (testo 7). 26 Cf. Eur. Or. 1005-1012, IA 1330-1333. 24
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Nell’Oreste il sistema ditirambico ha caratteristiche parzialmente diverse27. Indipendentemente dai due canti corali (Eur. Or. 1353-1368, 1537-1548), che si corrispondono a distanza e che inglobano anche il serrato dialogo in tetrametri trocaici catalettici fra Oreste e il Frigio (Eur. Or. 1506-1536), il servo esegue in successione sei brani cantati, che sono scanditi da scarni trimetri giambici recitati dal corifeo e che procedono secondo una logica sostanzialmente coerente. Il primo (Eur. Or. 1369-1379) è un ampio preludio con allusioni all’etere e al mare. Il secondo (Eur. Or. 1381-1392) si avvicina all’oggetto della narrazione ma ha ugualmente funzione introduttiva, soffermandosi sulla paura e sul desiderio di fuga del Frigio. Nel terzo (Eur. Or. 1395-1424) il racconto ha finalmente inizio ma è preceduto ancora da una breve anabole (Eur. Or. 1395-1399). Nel quarto brano cantato dal Frigio (Eur. Or. 1426-1452), interamente narrativo, la prima parte (Eur. Or. 1426-1430) si distingue perché, in risposta alla domanda del corifeo, si focalizza sulle azioni dell’io narrante, mentre nel seguito l’attenzione torna ad essere centrata sugli altri personaggi della vicenda. Nel quinto brano (Eur. Or. 1454-1472) una nuova anabole (Eur. Or. 1454-1456) rilancia la narrazione del momento in cui Oreste e Pilade rivelano le loro intenzioni offensive. Il racconto prosegue nel sesto brano (Eur. Or. 1474-1502), distinguendo anche in questo caso, per effetto del quesito posto dal corifeo, le gesta dei Frigi da quelle degli altri personaggi della vicenda. Il canto del servo di Elena è caratterizzato nel complesso da una polimetria spinta, tale da rendere difficile l’individuazione di microstrutture interne diverse dalle anabolai. Inoltre, a differenza del sistema ditirambico precedente, nell’Oreste il passaggio finale alla sticomitia in tetrametri trocaici catalettici è mediata soltanto da tre trimetri giambici recitati dal corifeo. La performace melica dà così l’impressione di rimanere incompiuta e la struttura aperta traduce sul piano formale l’informazione imperfetta fornita da un singolare exangelos. Nell’Ifigenia in Aulide Euripide ritorna alla misura più contenuta, quella della sezione ditirambica (Eur. IA 1283-1333), ma essa occupa quasi per intero la prima monodia della protagonista28: dopo aver risposto al lamento della madre continuando le sequenze anapestiche precedenti (Eur. IA 1279-1282), Ifigenia intona una sorta di anabole docmiaca, che incorpora a sua volta espressioni tipicamente narrative (Eur. IA 1283-1290); in seguito, attraverso un inutile scongiuro (Eur. IA 1291 PKYSRWZ>IHLOH‹Q›) ripercorre in un canto polimetrico le vicende remote che l’hanno condotta alla rovina (Eur. IA 12831318); rinnovando un desiderio impossibile (Eur. IA 1319-1322 PKYPRL Z>IHOHQ) inizia a evocare i fatti più recenti, legati alla presenza della flotta greca in Aulide e intona un brano omogeneo di sequenze anapestiche (Eur. IA 1319-1329), in cui si ripete per tre volte una coppia di dimetri acataletti (Eur. IA 1319-1320, 1324-1325, 1327-1328) variamente intervallata da paremiaci e monometri anapestici. La conclusione della sezione ditirambica, affidata a una considerazione gnomica sulla condizione umana, è scandita da sequenze dat27 28
Per il testo e la struttura metrica delle monodie del Frigio, vd. infra, pp. 169-174 (testo 8). Per il testo e la struttura metrica della monodia di Ifigenia, vd. infra, pp. 174-175 (testo 9).
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tiliche (Eur. IA 1330-1332), mentre attraverso il grido di dolore finale, rivolto a Elena, la monodia termina con una sorta di seconda chiusa, affidata a un paio di omogenee sequenze trocaiche. 2.2. Retorica e stile delle monodie ditirambiche Nelle monodie ditirambiche di Euripide sono riscontrabili in larga misura le caratteristiche retoriche e stilistiche evidenziate a proposito dei versi di Timoteo e degli stasimi “ditirambici”29, a cominciare dalla presenza di espressioni oscure o enigmatiche, che spesso risultano tali a causa di formulazioni brachilogiche30. Proprio richiamando lo stile tipico del ditirambo è stata ritenuta plausibile l’immagine di Callisto che entra31 nel letto di Zeus con le sembianze di un quadrupede (Eur. Hel. 375-376): l’ordine cronologico degli eventi risulta falsato ma viene così condensata la sfortunata vicenda della donna, amata dal dio e in seguito trasformata in orsa32. A espressioni come ILDYOKQ $UHZ (Tim. fr. 797 Hordern), «coppa di Ares», per indicare lo scudo, o come RMUHLYRXSRYGDQDRY (Tim. fr. 791.90-91), «piedi montani della nave», per indicare i remi, può essere accostata la perifrasi utilizzata nelle Troiane per designare le gomene: SOHNWDQ$LMJXYSWRXSDLGHLYDQ (Eur. Tr. 128-129), «educazione intrecciata di Egitto (inteso come personaggio del mito)» o «cultura intrecciata dell’Egitto (inteso come regione geografica)». In modo analogo Elena designa la propria bellezza come WDGHMPDGZ UD.XYSULGR (Eur. Hel. 364), «i miei doni di Cipride», utilizzando una perifrasi che ricorre anche in Bacch. Dith. III 9-11 L-PHUDYPSXNRTHD .XYSULGRD-JQDGZ UD, «i sacri doni di Cipride, la dea dall’affascinante diadema», in relazione alla bellezza di Eribea. Nei casi più oscuri queste espressioni hanno indotto gli editori di Euripide a congetturare dei guasti o delle lacune non necessari: la sorte toccata ai vv. 375-376 dell’Elena e ai vv. 128-129 delle Troiane, già citati, è condivisa anche da Eur. IT 204-205 GDLYPZQWD PDWUR]ZYQDNDLQXNWRNHLYQD («il destino del grembo materno e di quella notte», con riferimento al concepimento di Elettra), 216 QXPIHL RQ GXYVQXPIRQ («sventurato tempio delle ninfe», con riferimento a Ifigenia come sposa sfortunata), Hel. 197 SXUL,GDL"ZL («il fuoco dell’Ida», con allusione a Paride-Alessandro), Or. 1385-1387 GLDWRWD VGRMUQLTRYJRQRQR>PPDNXNQRYSWH29 Un confronto fra lo stile di Timoteo e alcune monodie euripidee, non strettamente ditirambiche, è abbozzato da Hordern 2002, p. 54: nella sua analisi include anche la monodia di Antigone nelle Fenicie (Eur. Ph. 1485-1538), che ha un’impostazione prevalentemente trenetica, e non rileva dati significativi se non l’uso «relatively frequent» di DMOODY, JDYU, PHYQ, GHY, NDLY e WH. 30 In un contesto non narrativo, espressioni enigmatiche sono presenti in Eur. IT 161-165 (vd. supra, p. 66) e possono essere confrontate con Tim. fr. 780.4-5 Hordern DL_PD%DNFLYRXQHRUUXYWRLVLQGDNUXYRLVL1XPID Q, dove il «sangue di Bacco» e le «fresche lacrime delle Ninfe» sono perifrasi per indicare rispettivamente il vino e l’acqua. 31 La lezione tràdita HMSHYED (Eur. Hel. 376) può essere probabilmente conservata nel testo: per un approfondimento sulla questione, vd. De Poli 2011, p. 223 (la lezione DMSHYED, riportata nel testo a p. 216, è da considerarsi un refuso). 32 Vd. Dale 1967, p. 92.
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URQNDOORVXYQD («a causa del suo bel volto di prole d’uccello con ali di cigno», con riferimento a Elena e alla sua nascita dall’unione tra Leda e Zeus in forma di cigno), ma per tutti è possibile fornire una spiegazione33. Le parole composte sono numerose e di vario tipo: in sostantivi, aggettivi, verbi si combinano elementi di natura diversa 34. Fra le altre categorie, quella degli aggettivi è particolarmente ricca e, oltre alle forme più usuali, composte con SROX o con GXV, è possibile isolare un gruppo consistente di attributi, presenti in quasi tutte le monodie ditirambiche, che insistono sull’aspetto cromatico: Eur. Tr. 124 SRUIXURHLGK , 143 FDONHJNHYZQ, Ion 890 FUXVDQWDXJK , Hel. 382 FUXVRNHYUDW[D], Ph. 322 OHXNRYFURD, 1577 FDONRYNURWRQ, Or. 999 FUXVRYPDOORQ, 1457 DMPILSRUIXUHYZQ, 1468 FUXVHRVDYQGDORQ, IA 1319 FDONHPERODYGZQ. Nella monodia di Ecuba nelle Troiane si ripete lo stesso aggettivo VWXJQRY a breve distanza – SDLD QLVWXJQZ L (Eur. Tr. 126) e VWXJQDQD>ORFRQ (Eur. Tr. 132) – ma il fenomeno è anche più ravvicinato e insistente: nonostante le riserve di alcuni editori la ripetizione è accettabile sia in Eur. Ph. 1578 WHYNQZQ WHYNQRLVL che in Eur. IA 1294-1297 D>QTHVLD>QTH[D]35. Questa particolarità può assumere molteplici forme, dall’anafora (Eur. Ph. 320-321 K?SRTHLQRILYORL / K?SRWHLQR 4KYEDL, IA 1327-1330 WRL VLGHWRL VLG / WRL GWRL GH / WRL VLGH / K?SROXYPRFTRQK?SROXYPRFTRQ) al poliptoto (Eur. Ph. 1569 L-NHYWLL-NHYWLQ), dalla geminatio (Eur. Hel. H>ULQH>ULQ, Ph. 1568 H>IHUHQ H>IHUHQ) alla figura etimologica (Eur. IT 225-226 DL-PRUUDYQWZQDL-PDYVVRXV(D), IA 1292 ERXVLERXNRYORQ). E nello stesso brano possono essere presenti contemporaneamente più fenomeni ripetitivi: Eur. Hel. 191-210
LMZTKYUDPDEDUEDYURXSODYWD #(OODQLYGHNRYUDL QDXYWD$FDLZ QWL H>PROHQH>PROHGGDYNUXDGDYNUXVLYPRLIHYUZQ ,OLYRXNDWDVNDIDL SXULPHYORXV,GDL"ZL GLHMPHWDQSROXNWRYQRQ GLHMPRQR>QRPDSROXYSRQRQ /KYGDGHMQDMJFRYQDL TDYQDWRQH>ODEHQDLMVFXY QRXVKMPD X-SDMOJHYZQ R-GHMPRHMQD-OLSROXSODQK SRYVLRMORYPHQRRL>FHWDL .DYVWRURYWHVXJJRYQRXWH GLGXPRJHQHD>JDOPDSDWULYGR DMIDQHDMIDQHL-SSRYNURWDOHYORLSHGDYSHGD JXPQDYVLDYWHGRQDNRYHQWR
I singoli problemi testuali sono discussi più dettagliatamente in De Poli 2011, pp. 140, 165, 166, 207-208, 223, 297-298. Cf. anche Eur. Hel. 205-206 .DYVWRURYWHVXJJRYQRXWHGLGXPRJHQH D>JDOPDSDWULYGR, «gemellare vanto di Castore e del fratello per la patria», per indicare i gemelli Castore e Polluce, vanto della patria. 34 Seppure inserito in un contesto trenodico, il verbo HMSRUTRERDYVZ (Eur. El. 142) rappresenta un caso esemplare di questa tendenza: vd. De Poli 2011, pp. 124-125. 35 Per un approfondimento sulle questioni testuali, vd. De Poli 2011, pp. 258, 326-327. 33
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(XMUZYWDQHDQLD QSRYQRQ Nell’Oreste tale concentrazione è particolarmente evidente: si segnala soprattutto la ricorrenza dell’aggettivo indefinito D>OOR, declinato in vari casi, ripetuto in poliptoto oppure associato agli avverbi D>OORTHQ e D>OORVH: Eur. Or. 1413 D>OORD>OORTHQ, 1418 D>OORD>OORQ, 1448 D>OORQD>OORV(H), 1450b-1451 (HMNHL VHMNHL THQ)D>OORQD>OORVH, 1458 D>OORD>OORVH36. La narrazione procede prevalentemente secondo un andamento paratattico, scandita dalla congiunzione WH – anche in articolazioni più ampie del tipo (NDL)WHWH – o dalla particella GHY – talvolta in correlazione con un precedente PHYQ o in combinazione con altri avverbi come nel caso di RXMGHY (Eur. IT 222). L’uso del semplice NDLY è piuttosto raro e di solito legato al fenomeno della crasi (Eur. Hel. 371 NDMQRWRYWX[HQ, Or. 1421 NDMGRYNHL) oppure in associazione con l’avverbio temporale QX Q (Eur. IT 229, Ion 902) a sottolineare in vario modo la situazione dolorosa nel presente37. I diversi momenti del racconto sono collegati fra loro anche da avverbi quali R^THQ (Eur. Ph. 322, Or. 996, 1001), H>QTD (Eur. IA 1300) o H>QTHQ (Eur. Hel. 232). La congiunzione avversativa DMOODY è impiegata in modo eccezionale (Eur. IT 224), come l’avverbio JDYU (Eur. Or. 1498). L’uso della disgiuntiva K> e dell’asindeto, invece, è legato alla struttura del testo: la prima ricorre all’interno delle anabolai (Eur. Hel. 165-166, 229-230, Or. 1375/1376), mentre il secondo fenomeno si verifica soprattutto nella transizione dalla anabole al racconto vero e proprio (Eur. IT 207-208, Hel. 195-196, Or. 1399-1400, 1456-1457), laddove non sia connesso piuttosto a fenomeni di ripetizione (Eur. Hel. 198-199 HMHM, 235-236 HMIHMSL). L’ipotassi si realizza spesso con frasi participiali o relative, introdotte non solo dai pronomi relativi ma anche da forme avverbiali come L^QD (Eur. Ion 900, Or. 985, 1400b), H>QTD (Eur. Or. 1475), R^TL (Eur. IA 1294/1295). Le subordinate temporali sono espresse mediante HX?WH + imperf. ind. (Eur. Ion 888-889), R^WH + aor. ind. (Eur. Or. 990-991), oppure Z- + aor. ott. (Hel. 246). Ancora Z- + aor. ott. è impiegato con valore finale (Eur. Hel. 237), mentre Z- + pres. ind. è utilizzato per frasi incidentali del tipo Z-SUHYSHL (Eur. Ph. 345). Quando si ricordano vicende lontane nel tempo ricorre anche l’avverbio temporale SRWHY (Eur. Hel. 381, dove si racconta della punizione inflitta da Artemide alla ninfa Cos; Eur. IA 1285 e 1300, dove vengono ricordati nell’ordine l’allontanamento del neonato Paride da Troia e la gara di bellezza fra Era, Atena ed Afrodite) 38, mentre WRYWH è utilizzato per sottolineare una svolta della situazione (Eur. Or. 1483 WRYWHGK WRYWH, nel momento in cui viene ricordato lo scontro fra i vili Frigi, servi di Elena, e i prodi Greci, rappresentati da Oreste e Pilade).
Cf. Eur. IA 1325 D>OORLD>OODQ. Il nesso NDLQX Q è ricorrente anche in contesti non narrativi, soprattutto all’interno di preghiere e inni: cf. Eur. Hipp. 1371, Hec. 494, Ion 902. Vd. supra, pp. 46, 48, 90. 38 Lo stesso avverbio ricorre anche in sezioni non propriamente ditirambiche ma contigue ad esse: Eur. Tr. 149, Hel. 359. 36 37
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La tendenziale monotonia dell’affabulazione è ravvivata da alcuni espedienti retorici e stilistici. Oltre ai vari fenomeni di ripetizione già segnalati, risulta di particolare effetto la collocazione del verbo in posizione iniziale (Eur. Ion 887, 897, Ph. 1570, Or. 1400, 1418, 1421, 1438, 1444, 1448, 1479, 1490) 39. L’alternanza fra le forme all’imperfetto e quelle all’aoristo è legata soprattutto al diverso valore aspettuale e la prevalenza delle seconde dice l’incalzante succedersi degli eventi. Raro ma attestato anche l’uso del presente narrativo allo scopo di presentare i fatti con maggiore immediatezza (Eur. Ion 897 WLYNWZ, quando Creusa ricorda il momento del parto segreto). Alcuni sintagmi appositivi (Eur. Hel. 132-133 .DYVWRULOZYEDQWZ LW(XMUZ WDLGXYVNOHLDQ, «vergogna disonorevole per Castore e per l’Eurota», che allude al tradimento di Elena e alla sua partenza per Troia, Or. 989 WRSWDQRQPHQGLYZJPDSZYOZQ, «alato inseguimento dei puledri», che anticipa l’immagine della corsa di Pelope con il carro, 1467 PHYOHRQSODJDYQ, «misera ferita», che sintetizza il gesto con cui Elena si autoinfligge delle percosse sul capo) producono un effetto icastico: il fenomeno risulta particolarmente evidente nelle Fenicie quando a breve distanza Antigone racconta lo scontro fra Eteocle e Polinice, fotografato come NRLQRQ HMQXDYOLRQ (Eur. Ph. 1572), «combattimento comune», e la loro morte cruenta, sintetizzata dall’espressione K>GK\XFUDQORLEDQIRLQLYDQ (Eur. Ph. 1575), «sanguinosa libagione ormai gelida». Il dettato è ravvivato, inoltre, da esclamazioni (Eur. IT 216, 217, Hel. 130, Or. 1465, 1491b), invocazioni (Eur. Ph. 1580) o allocuzioni patetiche, presenti non solo nelle anabolai ma inserite anche nella narrazione, in corrispondenza con momenti salienti, come quando il Frigio riferisce della sparizione improvvisa e inaspettata di Elena (Eur. Or. 1496). Lo stesso personaggio riferendo i fatti occorsi all’interno del palazzo raggiunge livelli di eccezionale immediatezza inserendo commenti personali, come la maledizione contro Pilade (Eur. Or. 1407), o porzioni di discorso diretto di secondo grado, quando riferisce le parole rivolte da Oreste a Elena (Eur. Or. 1439-1443) o quelle di Pilade ai servi frigi (Eur. Or. 1447) o ancora la promessa di morte che Oreste indirizza a Elena e il grido di disperazione di quest’ultima (Eur. Or. 1461-1463, 1466)40. 2.3. Fra elegia narrativa e poesia epica: motivi (e forme) eterogenei delle monodie ditirambiche Le monodie ditirambiche, oltre alle evidenti somiglianze con il genere poetico da cui derivano la denominazione, mostrano alcune affinità anche con altre espressioni poetiche di carattere diegetico: ad esempio, nelle diverse anabolai ritorna con una certa frequenza il motivo dell’DMUFKNDNZ Q, dell’origine di tutti i mali. Nell’Ifigenia fra i Tauri la ripetizione del complemento HM[DMUFD , «fin 39 Si considerano solamente i casi in cui il verbo coincide contemporaneamente con l’inizio del colon e con l’inizio del periodo sintattico; altri se ne aggiungerebbero considerando le due condizioni separatamente. 40 Una breve battuta riferita in forma di discorso diretto in contesto narrativo è presente anche in Eur. Ion 893.
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dal principio» (Eur. IT 203-204), in anafora e in posizione di forte rilievo all’inizio della monodia e del periodo sintattico, lo segnala in modo evidente ma lo si può trovare in forma meno esplicita anche altrove. Nell’incipit della terza monodia di Elena (Eur. Hel. 229-231), il racconto del viaggio di Paride a Sparta per ottenere il premio promesso da Afrodite, del successivo rapimento della donna da parte di Era e dello scoppio della guerra, è introdotto dalla domanda: «Ah, chi dei Frigi, chi di origine greca tagliò il pino che procurò tante lacrime a Ilio?»41. Di nuovo, nell’Ifigenia in Aulide il canto in cui si ricorda la sequenza di episodi che ha determinato la rovina della protagonista è introdotto da una anabole che richiama l’esposizione di Paride appena nato, ed è da questa circostanza che sono scaturiti gli episodi successivi (il giudizio delle tre dee e la spedizione greca contro Troia). Quello dell’DMUFKNDNZ Q è indubbiamente un motivo tragico, e particolarmente caro a Euripide, ma, nell’orizzonte della diegesi, anche l’elegia narrativa riserva una particolare attenzione alle cause remote delle sventure presenti, la stessa che è già stata rilevata nei versi iniziali della monodia di Andromaca. Più in generale, la tragedia e la poesia epica condividono episodi, situazioni e personaggi, ma nelle monodie ditirambiche i contatti con questo genere sono evidenti anche per altri aspetti. La descrizione del contesto bucolico in cui si trovava Paride al momento della visita delle tre dee (Eur. IA 1294-1299) ricorda quasi alla lettera il fr. 4 Bernabé dei Cypria, con il catalogo dei fiori in cui fu intinto il vestito per Afrodite, realizzato dalle Cariti e dalle Ore42: Eur. IA 1294-1299
DMPILWROHXNRQX^GZUR^TLNUK QDL1XPID QNHL QWDL OHLPZQWD>QTHVLTDYOOZQFOZURL NDLU-RGRYHQW D>QTHXX-DNLYQTLQDYWHTHDL GUHYSHLQ
Cypria fr. 4 Bernabé
HL^PDWDPHQFURLH^VWRWDYRL-&DYULWHYWHNDL :UDL SRLYKVDQNDLH>ED\DQHMQD>QTHVLQHLMDULQRL VL RL_DIRURX V :UDLH>QWHNURYNZLH>QTXX-DNLYQTZL H>QWHL>ZLTDOHYTRQWLUU-RYGRXWHMQLD>QTHL!NDOZ L K-GHYLQHNWDUHYZLH>QWDMPEURVLYDLNDOXYNHVVL D>QTHVLQDUNLYVVRXNDOOLUURYRXGRL_$IURGLYWK Z^UDLSDQWRLYDLWHTXZPHYQDHL^PDWDH^VWR
Proprio nel passaggio della monodia tragica in cui vengono riecheggiate le parole del poema epico, la struttura metrica dell’assolo tende a riprodurre lo schema del verso eroico, con un esametro dattilico catalettico in syllabam, un altro catalettico in disyllabum e una coppia di peoni primi seguiti da un metro giambico. In modo analogo sono riconoscibili due versi esametrici anche nelle
Vd. Kannicht 1969, p. 80. Per un raffronto più approfondito, vd. Stockert 1992, p. 564; De Poli 2011, pp. 326-327. In merito ad alcuni problemi testuali relativi al frammento dei Cypria, vd. Parlato 2008, che propone il confronto anche con alcuni versi di diversi inni omerici.
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Fenicie, quando Antigone narra il suicidio della madre43: i gesti della donna che afferra una spada e, stando accanto ai cadaveri dei figli, conficca la lama nella propria carne, cadendo al loro fianco, vengono così presentati come una impresa epica. Un certo gusto per la narrazione è implicito anche nei paragoni che il Frigio propone fra l’astuzia perversa di Pilade e quella di Odisseo (Eur. Or. 1404 RL_R 2GXVVHXY, «come Odisseo») o ancora fra l’impeto bellico del figlio di Strofio e quello di Ettore o di Aiace (Eur. Or. 1480 RL_RRL_R(NWZUR-)UXYJLR K@WULNRYUXTR$L>D, «come il frigio Ettore o Aiace dal triplice elmo»). Del resto, la matrice dell’epos è sicuramente presente nella similitudine della coppia di leoni, proposta sia nell’Oreste (Eur. Or. 1401 OHYRQWH(OODQHGXYRGLGXYPZ, «leoni greci, due, gemelli») sia nelle Fenicie (Eur. Ph. 1573 Z^VWHOHYRQWDHMQDXYORX, «come leoni che abitano nelle caverne»): nel primo caso Oreste e Pilade si muovono di nascosto insieme con la stessa audacia di Odisseo e Diomede nella sortita notturna (Hom. Il. X 297 Z^WHOHYRQWHGXYZ, «come una coppia di leoni»); nel secondo caso, invece, sembra aver funzionato da modello l’episodio della morte dei gemelli Cretone e Orsiloco, caduti insieme in battaglia, colpiti dalla lancia di Enea (Hom. Il. V 554 ss. RL^ZWZYJHOHYRQWHGXYZ, «come una coppia di leoni»)44. Ancora, nel vivo dello scontro il paragone fra Oreste e Pilade e i cinghiali montani (Eur. Or. 1460 Z-NDYSURLGRMUHYVWHURL) rinvia ad un’analoga immagine utilizzata per descrivere la veemenza di Ettore e Aiace nel duello che li contrappone (Hom. Il. VII 255-257 OHLYRXVLQHMRLNRYWHZMPRIDYJRLVLQK@VXVLNDYSURLVLQ, «simili a leoni feroci o a cinghiali»)45. 2.4. La funzione drammaturgica delle monodie ditirambiche Sezioni, monodie e sistemi ditirambici, pur accomunati dall’impianto narrativo, possono assolvere all’interno della tragedia a funzioni drammaturgiche diverse. Il servo frigio dell’Oreste si presenta come una sorta di exangelos che, uscendo dal palazzo, sembra nella condizione ideale per riferire quanto è avvenuto nello spazio retroscenico. Tale è l’aspettativa del Coro ma, a differenza dei consueti messaggeri, il personaggio arriva in scena in modo rocambolesco, quasi involontario, nel solo tentativo di sfuggire alla morte. E soprattutto, dopo aver ascoltato le ripetute richieste del corifeo e dopo aver alimentato la sua curiosità grazie a una singolare capacità affabulatoria, alla fine del suo sesto brano cantato non sa dire quale sia la reale situazione tra le mura della reggia e quale sorte sia toccata ad Elena. Il Frigio è chiamato a una funzione che non gli appartiene e, moltiplicando le sue monodie in un lungo sistema ditirambiVd. Pretagostini 1995, p. 180. In questo caso, il paragone insiste sull’inutile sforzo della madre che ha allevato i due leoni sulle cime dei monti, al riparo dai pericoli, fino a quando durante le loro scorribande in cerca di una preda cadono vittime dei cacciatori. 45 Cf. anche Hom. Il. XI 414 ss. Di Benedetto 1965, p. 271, considera RMUHYVWHUR come un «aggettivo omerico». 43 44
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co, alimenta un’atmosfera surreale46. L’anomalia di questa scelta drammaturgica risulta evidente dal confronto con la monodia di Antigone nelle Fenicie. Provenendo dallo spazio extrascenico, la giovane, desiderosa di riferire quanto è accaduto sul campo di battaglia, chiama il padre perché esca dal palazzo. Dopo un breve amebeo tra Edipo e la figlia, l’assolo di quest’ultima, decisamente più contenuto rispetto ai canti in successione del Frigio, è la risposta puntuale alla domanda in merito alle circostanze della morte di Giocasta. Pur non avendo le caratteristiche tipiche della rhesis angelike, anche la sezione ditirambica della monodia di Giocasta nelle Fenicie ha lo scopo di informare: la madre, infatti, dopo aver accolto con giubilo il ritorno del figlio Polinice, gli riferisce ciò che lui non può sapere. Gli racconta le reazioni sue, del padre Edipo e della città in seguito all’esilio impostogli da Eteocle e alle notizie giunte a Tebe in merito alla vita del giovane ad Argo. La maledizione conclusiva contro il responsabile delle sventure che la tormentano è il sigillo apposto a un discorso cantato più complesso, teso a persuadere Polinice delle buone intenzioni della madre: dopo aver vinto la paura, il figlio sarà disponibile a riferire nel successivo dialogo con Giocasta alcuni aspetti della sua esperienza di esule. Nello Ione, invece, i ricordi di Creusa sono integrati in un canto rituale più ampio e sono usati come motivo di biasimo in una struttura che prevederebbe piuttosto la celebrazione del dio. Ma, allo stesso tempo, la monodia è la prima occasione in cui Creusa rivela di aver partorito un figlio e questa notizia è rivolta sia ad Apollo, come rimprovero, sia agli altri testimoni presenti in scena: in seguito a questa circostanza, infatti, l’anziano servo, sollecitando ulteriori informazioni e richiedendo alcuni chiarimenti, dovrà riconsiderare la propria opinione in merito alle responsabilità del dio, istigando la regina ateniese a vendicarsi della perfidia divina. Anche la monodia di Ifigenia, la figlia di Agamennone relegata nella remota regione dei Tauri, è integrata in un contesto cultuale. Il suo canto, insieme a quello del Coro, è connesso alla libagione e l’unico destinatario plausibile di tali parole è il fratello ritenuto morto: anche se non si rivolge a lui in modo diretto, la giovane ripercorre le disavventure personali, dal momento del suo concepimento alla situazione presente, cercando implicitamente di giustificare l’impossibilità di offrire gli onori dovuti ad Oreste sulla sua tomba ad Argo. Ifigenia, d’altra parte, denunciando gli effetti perversi del proprio assurdo destino – figlia sacrificata dal padre, sposa mancata, nobile di stirpe ma costretta all’esilio, greca condannata a vivere in una terra straniera, esclusa dalle normali occupazioni femminili e chiamata a consacrare vittime umane – è disposta a dimenticare la pietà per questi morti – che chiama «stranieri», anche se allude ai Greci – sopraffatta da un sentimento più forte, il dolore per la perdita del fratello: ora le lacrime di Ifigenia sono solo per lui. Il racconto amplifica la condizione schizofrenica del personaggio, diviso tra memoria e oblio: la memoria delle vicende familiari e la rimozione delle sofferenze a cui è costretta fra i Tauri. In seguito, infatti, 46
Vd. Porter 1994, pp. 207-213.
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esasperata dalla frustrazione per non poter onorare il fratello 47, la vittima fatta carnefice rischia – senza saperlo – di replicare su Oreste la scelleratezza compiuta nei suoi confronti dal padre in Aulide. Anche il sistema ditirambico dell’Elena risponde, almeno in parte, a finalità informative: la protagonista riferisce alle donne del coro le notizie che ha appreso poco prima da Teucro in merito agli esiti e alle conseguenze della guerra di Troia. D’altra parte, risalendo all’origine dei suoi mali, rievoca anche l’episodio del giudizio di Paride e la sostituzione del phasma: la protagonista della tragedia, in una condizione simile a quella di Ifigenia fra i Tauri, enfatizza la scissione fra verità e apparenza, aggirandosi forse nelle stanze del rimorso per «una colpa che il soggetto non riconosce come propria, ma che gli appartiene in ogni caso»48. Nelle Troiane la sezione narrativa della monodia di Ecuba rievoca i vari momenti della spedizione greca e della guerra di Troia. La situazione iniziale della tragedia è riassunta già dalla rhesis prologica di Poseidone, che anticipa anche una parte delle vicende rappresentate in seguito, nel corso del dramma. Nel successivo dialogo con Atena, le due divinità si accordano sulla punizione da infliggere agli empi Greci e si allontanano. A questo punto, rimasta sola sulla scena, Ecuba racconta le dolorose vicende dei Troiani secondo un punto di vista strettamente umano, intonando un canto che serve da secondo prologo – quasi una seconda rhesis prologica – e che si ricollega idealmente al lamento funebre per la morte di Astianatte, con cui si chiude la tragedia. La monodia, d’altra parte, assolve anche a una funzione consolatoria, perché «anche questa è poesia per gli infelici: lamentare sventure senza danza» (Eur. Tr. 120121). A differenza dei casi precedenti, le sezioni ditirambiche delle monodie di Elettra nell’Oreste e di Ifigenia nell’Ifigenia in Aulide non hanno alcuno scopo informativo ma sono legate in vario modo a canti di lamento. Oreste ha tentato di persuadere l’assemblea degli Argivi ma ha fallito e ora per i due fratelli la prospettiva della morte è inevitabile: a loro è stato concesso solamente di togliersi la vita autonomamente. Elettra, sola sulla scena e in attesa del ritorno di Oreste, intona un canto funebre che anticipa il loro destino. Accanto alle espressioni di dolore, concentrate nella coppia strofica, la donna esprime nell’epodo narrativo un desiderio di rivolta, una protesta contro il genos49: dopo aver individuato in Tantalo l’origine dei suoi mali, li elenca come se l’avo potesse sentirla. Il canto è lo sfogo di un momento, l’unica consolazione di una donna disperata: appena avvista Oreste, infatti, Elettra torna ad esprimersi in tono lamentoso (Eur. Or. 1018-1020 RL@HMJZYRL@HMJZPDYODX?TL). Nell’Ifigenia in Aulide un analogo desiderio sconfina nell’irrealtà: PKYSRWZ>IHOH (Eur. IA 1291 ss.), PKYPRLZ>IHOHQ (Eur. IA 1319 ss.). Agamennone afferIl senso di frustrazione di Ifigenia è legato anche all’interpretazione del sogno (Eur. IT 4460): cf. Eur. IT 348-350. 48 Vd. Susanetti 2007, p. 160. 49 A proposito del tema della syngeneia nell’Oreste, vd. Susanetti 2011, pp. 201-207. 47
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ma la necessità della morte della figlia e Clitemnestra esprime il proprio dolore. Ifigenia dichiara di voler proseguire il lamento della madre e nella sua situazione ricostruisce il quadro della sua sventura. Risalendo all’origine dei suoi mali – l’esposizione di Paride da parte di Priamo – e ripercorrendo le tappe che l’hanno condotta alla rovina, il canto è anche per lei strumento di protesta, sfogo momentaneo, ma già la massima conclusiva sulla necessità della sofferenza per i mortali prelude alla svolta successiva del personaggio e all’accettazione del proprio sacrificio.
162
APPENDICE Monodie ditirambiche – Testi e struttura
testo 1: Ione 887-906 881-886: invocazione 887 K?OTHYPRLFUXVZ LFDLYWDQ 888 PDUPDLYUZQHX?WHMNRYOSRX 889 NURYNHDSHYWDODIDYUHVLQH>GUHSRQ 890 DMQTLY]HLQFUXVDQWDXJK 891 OHXNRL GHMPIXNDUSRL 892 FHLUZ QHLMD>QWURXNRLYWD 893 NUDXJDQ:PD WHYUPDXMGZ VDQ 894 THRR-PHXQHYWD 895 D?JHDMQDLGHLYDL 896 .XYSULGLFDYULQSUDYVVZQ
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897 WLYNWZGD-GXYVWDQRYVRL 898 NRX URQWRQIULYNDLPDWUR 899 HLMHXMQDQEDYOOZWDQVDYQ 900 L^QDPHOHYFHVLPHOHYDQPHOHYRL 901 HM]HXY[ZWDQGXYVWDQRQ
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905 VXGHNLTDYUDLNODY]HL 906 SDLD QDPHYOSZQ
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907-922: congedo
testo 2: Oreste 960-1012 960-981: lamento
163
982a PRYORLPLWDQRXMUDQRX 982b PHYVRQFTRQRY‹WH›WHWDPHYQDQ 983a DLMZUKYPDVL 983bSHYWUDQDMOXYVHVLFUXVHYDL 983c VLIHURPHYQDQGLYQDLVL 984 EZ ORQHM[2OXYPSRX
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996 R^THQGRYPRLVLWRL HMPRL 997 K?OTDMUDSROXYVWRQR 998 ORYFHXPDSRLPQLYRLVL0DLDYGRWRYNRX 999aWRFUXVRYPDOORQDMUQRR-SRY 999b WHJHYQHWRWHYUDRMORRQ 1000 $WUHYZL-SSRERYWD
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4da 4da dochm ba
testo 3: Fenicie 301-354 301-317: incontro e abbraccio con Polinice 317 LMZWHYNR 318 H>UKPRQSDWUZ LRQH>OLSHGRYPRQ 319 IXJDDMSRVWDOHLR-PDLYPRXOZYEDL 320 K?SRTHLQRILYORL 321 K?SRTHLQR4KYEDL
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327 R-GHMQGRYPRLVLSUHYVEXRMPPDWRVWHUK g h g h g h g h g h g h 3ia 328/9 DMSKYQDR-PRSWHYURXWD DMSR]XJHLYVDGRYPZQg h h g h g h h g h g h h g h 3dochm 330 SRYTRQDMPILGDYNUXWRQDMHLNDWHYFZQ whwhwhwh 2an 331 DMQK L[HPHQ[LYIRX ghghgh pros 332 HMSDXMWRYFHLUDYWHVIDJDQ ghghghgh 2ia 333 X-SHUWHYUDPQDYWDMJFRYQD ghghghgh 2ia 334 VWHQDY]ZQDMUDWHYNQRL ghhghgh ba ia 335 VXQDMODODL VLGDLMHQDLMDJPDYWZQ 336 VNRYWLDNUXYSWHWDL 337 338 339 340 341 342 343
VHGZ?WHYNQRQNDLJDYPRLVLQGK NOXYZ]XJHYQWDSDLGRSRLRQD-GRQDQ [HYQRLVLQHMQGRYPRLH>FHLQ [HYQRQWHNK GRDMPIHYSHLQ D>ODVWDPDWULWD LGH/D L"ZLWHWZ LSDODLJHQHL JDYPRQHMSDNWRYQD>WDQ
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165
344 HMJZGRX>WHVRLSXURDMQK \DIZ 345 QRYPLPRQHMQJDYPRL Z-SUHYSHL 346 PDWULPDNDULYDL
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2dochm dochm cr hypod
347 DMQXPHYQDLDG#,VPKQRHMNKGHXYTK 348 ORXWURIRYURXFOLGD DMQDGH4KEDLYZQ 349 SRYOLQHMVLJDYTKVD HL>VRGRLQXYPID
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2dochm 2dochm dochm pros
350-354: maledizione
testo 4: Troiane 98-152 98-121: preambolo in anapesti in recitativo / lamento 122 SUZ LUDLQDZ QZMNHL DL
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123 124 125 126 127 128 129
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130 131 132 133
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134 135 136 137
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138 139 140 141 142
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166
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testo 5: Ifigenia fra i Tauri 203-235 203 HM[DMUFD PRLGXVGDLYPZQ 204 GDLYPZQWD PDWUR]ZYQD 205 NDLQXNWRNHLYQDHM[DMUFD 206 ORYFLDLVWHUUDQSDLGHLYDQ 207 0RL UDLVXQWHLYQRXVLQTHDLY 208 209 210 211 212 213 214 215 216 217
D-PQDVWHXTHL VHM[#(OODYQZQ D`QSUZWRYJRQRQTDYORHMQTDODYPRL /KYGDD-WODYPZQNRXYUD VIDYJLRQSDWUZYLDLOZYEDL NDLTX PRXMNHXMJDYTKWRQ H>WHNHQH>WUHIHQHXMNWDLYDQ L-SSHLYRLHMQGLYIURLVL \DPDYTZQ$XMOLYGRHMSHYEDVDQ QXPIDL RQRL>PRLGXYVQXPIRQ WZ LWD 1KUHYZNRXYUDDLMDL
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218 QX QGDM[HLYQRXSRYQWRX[HLYQD 219 GXVFRYUWRXRL>NRXQDLYZ
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220 D>JDPRD>WHNQRD>SROLD>ILOR 221 RXMWDQ$UJHLPHYOSRXV+UDQ 222 RXMGL-VWRL HMQNDOOLITRYJJRL
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2ia 2an 2an 167
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testo 6: Fenicie 1567-1581 1567a GDYNUXDJRHUD 1567b IDQHUDSD VLWLTHPHYQD 1568 WHYNHVLPDVWRQH>IHUHQH>IHUHQ 1569 L-NHYWLL-NHYWLQRMURPHYQD
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168
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testo 7: Elena 164-178, 191-210, 229-252, 362-385 164 165 166
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167 SWHURIRYURLQHDYQLGH 168 SDUTHYQRL&TRQRNRYUDL 169 6HLUK QHHL>THMPRL JRYRL 170 PRYORLWH>FRXVDL/LYEXQ 171a OZWRQK@VXYULJJDK@ 171b IRYUPLJJDDLMDLQRL NDNRL 172 WRL HMPRL VLVXYQRFDGDYNUXD 173 SDYTHVLSDYTHDPHYOHVLPHYOHD 174 175 176 177 178
PRXVHL DTUKQKYPDVL[XQZLGDY SHYP\HLH)HUVHYIDVVD IRYQLDFDYULWDL^QHMSLGDYNUXVL SDUHMPHYTHQX-SRPHYODTUDQXYFLD SDLD QDQHYNXVLQRMORPHYQRLODYEKL
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179-190: Coro 191/2 LMZTKYUDPDEDUEDYURXSODYWD 193 #(OODQLYGHNRYUDL 194 QDXYWD$FDLZ QWL 195 H>PROHQH>PROHGDYNUXDGDYNUXVLYPRLIHYUZQ 196 197 198 199
,OLYRXNDWDVNDIDL SXULPHYORXV,GDL"ZL GLHMPHWDQSROXNWRYQRQ GLHMPRQR>QRPDSROXYSRQRQ
200 /KYGDGHMQDMJFRYQDL 201 TDYQDWRQH>ODEHQDLMVFXY 202 QRXVK-PD X-SDMOJHYZQ
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palim cr cr ba mol ia
169
203 R-GHMPRHMQD-OLSROXSODQK 204 SRYVLRMORYPHQRRL>FHWDL
w g w g w g h wgwghgh
tr cr tr cr
205 .DYVWRURYWHVXJJRYQRXWH hghghghg 2tr 206 GLGXPRJHQHD>JDOPDSDWULYGR wgwghgwg 2tr 207/8 DMIDQHDMIDQHL-SSRYNURWDOHYORLSHGDYSHGDw g w g h g w g h g w g 3tr 209 JXPQDYVLDYWHGRQDNRYHQWR hgwgwghg 2tr 210 (XMUZYWDQHDQLD QSRYQRQ hhhghghghi sp tr cr 211-228: Coro 229 IHX IHX WLYK@)UXJZ Q 230 K@WLY#(OODQLYDDMSRFTRQR 231a H>WHPHWDQGDNUXRYHVVDQ 231b ,OLYZLSHXYNDQB 232 233 234 235 236 237
hhghgh hghhghghghI wghwghg hghhh
sp ia 2cr ia cr tr cr sp
H>QTHQRMORYPHQRQVNDYIR VXQDUPRYVDR-3ULDPLYGD H>SOHXVHEDUEDYUZLSODYWDL WDQHMPDQHMIH-VWLYDQ HMSLWRGXVWXFHYVWDWRQNDYOOR Z-H^ORLJDYPZQHMPZ Q
hgwghgh ghghgwgh ghghghgh hghghgh wghghghhhI hghghgh
cr ia 2ia 2ia tr cr tr cr sp tr cr
238 D-GHGRYOLRD-SROXNWRYQR.XYSUL 239 'DQDL"GDLD>JRXVDTDYQDWRQ3ULDPLYGDL 240 Z?WDYODLQDVXPIRUD
h g w g h g h g h g h 2tr cr w g h g h g w h w g h 2tr cr hghghgh tr cr
241 D-GHFUXVHYRLTURYQRL 242a 'LRX-SDJNDYOLVPDVHPQRQ 242b +UDWRQZMNXYSRXQ 243 H>SHP\H0DLDYGRJRYQRQ
hghghgh wghghghg hhghgh ghghghghI
cr ia 2tr sp ia 2ia
hgwgwghghgh wgwghghg hghhgh ghghghgh hghghghg wghghgwg wghghgh
cr 2ia 2tr 2cr 2ia 2tr 2tr tr cr
244 R^PHFORHUDGUHSRPHYQDQH>VZSHYSOZQ 245 U-RYGHDSHYWDOD&DONLYRLNRQ 246a Z-$TDYQDQPRYORLP 246b DMQDUSDYVDGLDLMTHYUR 247 WDYQGHJDL DQHLMD>QROERQ 248 H>ULQH>ULQWDYODLQDQH>THWR 249 3ULDPLYGDLVLQ#(OODYGR
170
250/1 WRGHMPRQR>QRPDSDUD6LPRXQWLYRLU-RDL VLw g w g w g h g h g h g 3tr 252 PD\LYGLRQH>FHLIDYWLQ hgwghghi tr cr 253-329: trimetri giambici 330-347: amebeo 348 VHJDUHMNDYOHVDVHGHNDWZYPRVD wgwgwghw 2tr 349 WRQX-GURYHQWDGRYQDNLFZ URQ wghgwghg 2tr 350 (XMUZYWDQTDQRYQWR hhhghg sp tr 351 HLMEDY[LH>WXPRDMQGUR hhgwghg palim tr 352 D^GHPRLWLYWDYGDMVXYQHWDB hghgwgw cr ia 353a IRYQLRQDLMZYUKPD wghhhg cr palim 353b GLDGHYUDRMUHY[RPDL wghghghIH tr cr 354 K@[LIRNWRYQRQGLYZJPD hghghghg 2tr 355 ODLPRUUXYWRXVIDJD hhghgh palim cr 356 DXMWRVLYGDURQH>VZSHODYVZGLDVDUNRD^PLOODQ h w h w h w h w h w h h 6da^ 357a TX PDWUL]XYJRLTHDL VL hghghghg 2tr 357b WZ LWHVKYUDJJDMRL hghhgh 2cr 358 GD LVHELY]RQWL3ULDPLY hghhgwg cr tr 359 GDLSRWDMPILERXVWDYTPRX hghghghi tr cr 360-361: Coro 362 LMZ7URLYDWDYODLQD 363 GLH>UJD>QHUJR>OOXVDLPHYOHDYWH>WOD 364 365 366 367
sp tr ia cr ia
WDGHMPDGZ UD.XYSULGRH>WHNH wghgwgwg 2tr SROXPHQDL_PDSROXGHGDYNUXRQ wghgwgwg 2tr D>FHDYWD>FHVLGDYNUXDGDYNUXVLQH>ODEHSDYTHDw g w g w g w g w g w g 3tr PDWHYUHWHSDL GDR>OHVDQ hghghgwg 2tr
368a DMSRGHSDUTHYQRLNRYPD 368b H>THQWRVXYJJRQRLQHNUZ Q6NDPDYQGULRQ 369 DMPIL)UXYJLRQRL?GPD 370 371 372 373 374
hhhghg ghghhghgwgh
ERDQERDQG#(OOD NHODYGKVHNDMQRWRYWX[HQ HMSLGHNUDWLFHYUDH>TKNHQ R>QXFLGD-SDORYFURDJHYQXQ H>GHXVHIRQLYDLVLSODJDL
wghghgh cr ia g h g h g h g h g h g h I 3ia hgwghAI ithyph ghghhh whghwhhI wghgwghg wgwwgw ghgwhghh
ia sp 2ia^ (enopl) 2tr 2cr ia tr 171
375 Z?PDYNDU$UNDGLYDLSRWHSDUTHYQH.DOOLVWRL 'LR h w h w h w h w h h h w 6da 376 D`OHFHYZQDMSHYEDWHWUDEDYPRVLJXLYRL h w h w h w h w h h 5da^ 377 Z-SROXPKWURHMPD H>ODFHSOHYRQ h w h w h w h w 4da 378 D-PRUID LTKUZ QODFQRJXLYZQ hhhhhwhh 4da^ 379 R>PPDWLODYEUZLVFK PDOHDLYQK hwhhhwhh 4da^ 380 HM[DOODY[DVD>FTHDOXYSD hhhhhwhh 4da^ 381 382 383 384 385
D^QWHYSRW$UWHPLHM[HFRUHXYVDWR hwhwhwhw 4da FUXVRNHYUDWH>ODIRQ0HYURSR7LWDQLYGDNRXYUDQ h w h w h w h h h w h h 6da^ NDOORVXYQDH^QHNHQWRGHMPRQGHYPD h w h w h w h w 4da Z>OHVHQZ>OHVHSHYUJDPD'DUGDQLYD h w h w h w h w h 5da^^ RMORPHYQRXW$FDLRXY wghghhi ithyph
testo 8: Oreste 1369-1379, 1381-1392, 1395-1424, 1426-1451, 1454-1472, 1474-1502 1369 $UJHL RQ[LYIRHMNTDQDYWRX 1370 SHYIHXJDEDUEDYURLHMQHXMPDYULVLQ 1371 NHGUZWDSDVWDYGZQX-SHUWHYUDPQD 1372 'ZULNDYWHWULJOXYIRX 1373 IURX GDIURX GD*D *D 1374 EDUEDYURLVLGUDVPRL
hhhwhwh ghghghghghh ghghghghghg hghghgh hghghh hghghh
4da^^ 2ia ba 3ia^ tr cr ithyph ithyph
1375/6 DLMDL SD LIXYJZ[HYQDLSROLRQDL-THYUDMPSWDYPHQRK@ h h h g h g h w g h g h w g h 3dochm 1377 SRYQWRQ:NHDQRR`Q h g h w g h 2cr 1378 WDXURYNUDQRDMJNDYODL hghghgh cr ia 1379 H-OLYVVZQNXNORL FTRYQDB ghhghgAi ba ia 1380: Coro 1381 ,OLRQ,OLRQZ>PRLPRL 1382 )UXYJLRQD>VWXNDLNDOOLYEZORQ, 1383 GDR>URL-HURYQZ^VRMORYPHQRQVWHYQZ 1384 D-UPDYWHLRQD-UPDYWHLRQPHYOR 1385 EDUEDYUZLERD LGLDWRWD VGRMUQL 1386 TRYJRQRQR>PPDNXNQRYSWHURQ 172
hwhwhhh 4da^^ wghghhghgh 2hypod hwwghgwhghIH 2dochm hghghghhgh hypod dochm hghghgwhhh hypod dochm gwhghhgh dochm cr
1387 NDOORVXYQD/KYGDVNXYPQRQ'XVHOHYQD'XVHOHYQD hwhhhhhwghwgh 1388/9a [HVWZ QSHUJDYPZQ$SROOZQLYZQ(ULQXYQ h h h g h g h h g h g h h I 1389bRMWWRWRL hghIH 1390 LMDOHYPZQLMDOHYPZQ ghghghgh 1391 'DUGDQLYDWODYPZQ*DQXPKYGHRL-SSRVXY h w h h h w h w h w 1392 QD'LRHXMQHYWD hwhghi
2dochm cr 2dochm ba cr 2ia 5da dochm
1393-1394: Coro 1395 DL>OLQRQDL>OLQRQDMUFDQTDQDYWRX 1396 EDYUEDURLOHYJRXVLQ 1397 DLMDL $VLDYGLIZQD LEDVLOHYZQ 1398 R^WDQDL_PDFXTK LNDWDJD Q[LYIHVLQ 1399 VLGDUHYRLVLQ$LGD
hwhwhhwh hghghhI hhwwhhwh whwhwhwh ghghghhIH
2an ithyph 2an 2an ia ba
1400a K?OTRQHMGRYPRX 1400b L^QDX>TH^NDVWDYVRLOHYJZ 1401 OHYRQWH(OODQHGXYRGLGXYPZ
hghgh ghghghgh ghghhhgwgh
hypod 2ia ia pros
1402 WZ LPHQR-VWUDWKODYWDSDWKUHMNOKLY]HWR 1403 R-GHSDL 6WURILYRXNDNRYPKWLDMQKYU 1404 RL_R2GXVVHXYVLJD LGRYOLR 1405 SLVWRGHILYORLTUDVXHLMDMONDYQ 1406 [XQHWRSROHYPRXIRYQLRYWHGUDYNZQ
h g h g h g h g h g h h g A I H cr 2ia cr whwhwhwh 2an h w h h h h w h 2an hhwhwhhh 2an whwhwhwh 2an
1407 H>UURLWD K-VXYFRXSURQRLYDNDNRX UJRZ>Qh h h h g h g h h g h g h mol 2hypod 1408 RL-GHSURTURYQRXH>VZPRORYQWHD_ h g h g h g h g h g h 1409 H>JKPR-WR[RYWD3DYUL ghghghgh 1410 JXQDLNRYR>PPDGDNUXYRL ghghghgh 1411 SHIXUPHYQRLWDSHLQRLY ghghghhIH 1412 H^]RQTR-PHQWRNHL THQR-GH hhghghgw 1413 WRNHL THQD>OORD>OORTHQSHIUDJPHYQRL g h g h g h g h g h g h
cr 2ia 2ia 2ia ia ba 2ia 3ia
1414 SHULGHJRYQXFHYUDL-NHVLYRX 1415 H>EDORQH>EDORQ#(OHYQDD>PIZ
gwgwgwgh 2ia g w g w w h h h I H ia an
1416 DMQDGHGURPDYGHH>TRURQH>TRURQ 1417 D-PILYSRORL)UXYJH
wgwgwgwg hwhgh
2tr dochm 173
1418 SURVHL SHGD>OORD>OORQ 1419 SHVZQHMQIRYEZL 1420 PKYWLHL>KGRYOR 1421 NDMGRYNHLWRL PHQRX> 1422 WRL GHMDMUNXVWDYWDQ 1423 PKFDQDQHMPSOHYNHLQ 1424a SDL GDWDQ7XQGDULYGR- 1424b PKWURIRYQWDGUDYNZQ
ghghghh ghhgh hghhgh hghhgh hghhgh hghhgh hghhgw hghhghi
ia ba dochm 2cr 2cr 2cr 2cr 2cr 2cr
1426 )UXJLYRLH>WXFRQ)UXJLYRLVLQRYPRL 1427 SDUDERYVWUXFRQDX>UDQDX>UDQ 1428 #(OHYQD#(OHYQDHXMSDJHL NXYNOZL 1429 SWHULYQZLSURSDUKLYGRDMLYVVZQ 1430 EDUEDYURLQRYPRLVLQ
whwhwhwh whwhhhh whwhhhhgh whwhwhhh hghghhI
2an par an dochm 2an ithyph
1431 D-GHOLYQRQKMODNDYWDL 1432 GDNWXYORLH^OLVVH
hgwhwh hghghg
cr cho ithyph
h g g h w g h hhwhwhwh whwhhhwh hwhgw hwhhh
cho cr 2an 2an dochm dochm
1425: Coro
1433 QKYPDWDGL^HWRSHYGZL 1434 VNXYOZQ)UXJLYZQHMSLWXYPERQDMJDYO 1435 PDWDVXVWROLYVDLFUKYL]RXVDOLYQZL 1436 IDYUHDSRUIXYUHD 1437 GZ UD.OXWDLPKYVWUDL
1438 SURVHL SHG2UHYVWD ghwhh 1439 /DYNDLQDQNRYUDQ :'LRSDL ghhghhghh 1440 THL>FQRSHYGZLGHX UDMSRVWD VDNOLVPRX g h h g h h g h h g h h 1441 3HYORSRHMSLSURSDYWRURH^GUDQSDODLD g w g w g w g h g h h 1442/3 H-VWLYDL^QHLMGK LORYJRXHMPRXY hghghhghgh
dochm 3ba 4ba 2ia ba 2hypod
1444 D>JHLGD>JHLQLQD`GHMIHLY 1445 SHWRXMSURYPDQWLZ_QH>PHO 1446a OHQR-GHVXQHUJRD>OOH>SUDVV 1446b LMZQNDNR)ZNHXY
2ia 2ia 2ia ia sp
ghghghgh ghghghgh gwghghgh ghghhh
1447 2XMNHMNSRGZQL>WBDMOODMHLNDNRL)UXYJH h h g h g h g h g h g h I 3ia 1448 H>NOKLVHGD>OORQD>OORVHMQ 174
ghghghgh
2ia
1449 VWHYJDLWRXPHQHMQVWDTPRL ghhghgh 1450a VLQL-SSLNRL VLWRXGHMQHM[HYGUDLVLWRXGg h g h g h g h g h g h 1450b HMNHL VHMNHL THQD>OORQD>O ghghghgh 1451 ORVHGLDUPRYVDDMSRSURGHVSRLYQD gwhghgwhhhi
ba ia 3ia 2ia 2dochm
1452-1453: Coro 1454a ,GDLYDPD WHUPD WHU 1454b RMEULYPDRMEULYPDDLMDL 1455 IRQLYZQSDTHYZQDMQRYPZQWHNDNZ Q 1456a D^SHUH>GUDNRQH>GUDNRQ 1456b HMQGRYPRLWXUDYQQZQ
hhhhhhhI whHwhHhh whwhwhwh wgwgw hghghh
par an sp (pros) 2an hypod ithyph
1457 DMPILSRUIXUHYZQSHYSOZQX-SRVNRYWRX hghghghghgh cr 2ia 1458 [LYIKVSDYVDQWHHMQFHURL QD>OORD>OORVH g h g h g h g h h g h g A I 2ia hypod 1459 GLYQDVHQR>PPDPKYWLSDUZQWXYFRL h h g h g h h g h g h I H ia ba ia 1460 Z-NDYSURLGRMUHYVWHURL 1461 JXQDLNRDMQWLYRLVWDTHYQ 1462 WHHMQQHYSRXVL.DWTDQK LNDWTDQK L 1463 NDNRVDMSRNWHLYQHLSRYVLNDVLJQKY 1464 WRXSURGRXHMQ$UJHLTDQHL QJRYQRQ
hghghgh ghghghgh ghghghghhgh ghghhhghghh hghghhghghI
cr ia 2ia 2ia cr 2ia ba 2hypod
1465 D-GDMQLYDFHQL>DFHQZ>PRLPRL 1466 OHXNRQGHMPEDORX VDSK FXQVWHYUQRL 1467 NWXYSKVHNUD WDPHYOHRQSODJDYQ
hwwgwhhh hhhghghhhh ghghgwhhh
dochm mol 2dochm ia dochm
1468 IXJD LGHSRGLWRFUXVHRVDYQGDORQL>FQR g h g w g w g h w g h I 2ia cr 1469 H>IHUHQH>IHUHQHMNRYPDGHGDNWXYORX w g w g h g h g h g h 2tr cr 1470 GLNZQ2UHYVWD0XNKQLYGDMUEXYODQ ghghhghghgh ia cr ia 1471 SUREDYZ>PRLDMULVWHURL VLQDMQDNODYVDGHYUDQ ghhhghghgwghgh ba cr 2ia 1472 SDLYHLQODLPZ QH>PHOOHQHL>VZPHYODQ[LYIR h h h h g h g h h g h g h i mol 2hypod 1473: Coro 1474 LMDFD LGRYPZQTXYUHWUDNDLVWDTPRX 1475 PRFORL VLQHMNEDORYQWHH>QTHMPLYPQRPHQ 1476 ERKGURPRX PHQD>OORD>OORTHQVWHYJD 1477 R-PHQSHYWURXR-GDMJNXYOD
ghhghgwhgh ghghghghghgh ghghghghghgh ghghghgh
2dochm 3ia 3ia 2ia 175
1478 R-GH[LYIRSURYNZSRQHMQFHURL QH>FZQ g h g h g h g h g h g h 3ia 1479 H>QDQWDGK?OTHQ3XODYGKDMOLYDVWR 1480a RL_RRL_R(NWZUR-)UXYJLRK@ 1480b WULNRYUXTR$L>D 1481 R`QHL?GRQHL?GRQHMQSXYODLVL3ULDPLYVL
g h g h h w h w h h I ia hemf hghghhgwgh 2hypod gwghh penthia ghghghghgwgAI 3ia
1482 IDVJDYQZQGDMNPDVXQKY\DPHQ
h g h g h g h g h
hypod ia
1483 WRYWHGKWRYWHGLDSUHSHL HMJHYQRQWR)UXYJHw h w g w h w h g w 2dochm 1484 R^VRQ$UHZDMONDQ wwhhh dochm 1485 K^VVRQH#(OODYGRHMJHQRYPHTDLMFPD h w h w w w h h 2an 1486 R-PHQRLMFRYPHQRIXJDYR-GHQHYNXZ>Q w h w h w w w h 2an 1487 R-GHWUDX PDIHYUZQR-GHOLVVRYPHQR w h w h w h w h 2an 1488a TDQDYWRXSURERODYQ whwh an 1488b XMSRVNRYWRQGHMIHXYJRPHQ ghghghgh 2ia 1489 QHNURLGH>SLSWRQRL-GH>PHOORQRL-GH>NHLQW g h g h g h g h g h g h 3ia 1490 H>PROHGD-WDYODLQ#(UPLRYQDGRYPRX 1491a HMSLIRYQZLFDPDLSHWHL PDWURYD^ 1491b QLQH>WHNHQWODYPZQ
g w h g h h w h g h 2dochm gwhghghhgh 2dochm gwhhh dochm
1492 D>TXUVRLGRL_DYQLQGUDPRYQWH%DYNFDL 1493a VNXYPQRQHMQFHURL Q 1493b RMUHLYDQ[XQKYUSDVDQ
ghhhghghghh hghgh ghhghgh
ba hypod ba hypod ba ia
1494a SDYOLQGHWDYQ'LRNRYUDQ ghghghgh 2ia 1494b HMSLVIDJDQH>WHLQRQD-GHMNTDODYPZQ g h g h g h g h h w h 2ia cho 1495 HMJHYQHWRGLDSURGZPDYWZQD>IDQWR g w g w g h g h g h h I 2ia ba 1496 Z?=HX NDL*D NDL)Z NDL1XY[ 1497a K>WRLIDUPDYNRLVLQ 1497b K@PDYJZQWHYFQDLK@THZ QNORSDL
hhhhhhhh hhhghhI hghghhghgh
2an mol ba 2hypod
1498 WDGX^VWHURXMNHYWRL?GDGUDSHYWDQJDUHM[g h g h g h g h g h g h 3ia 1499 HYNOHSWRQHMNGRYPZQSRYGD ghghghgAI 2ia
176
1500a SROXYSRQDGH wgw 1500b SROXYSRQDSDYTHD0HQHYODRDMQDVFRYPHQR gwgwgwhwhgw 1501 DMQRYQKWRQDMSR7URLYDH>ODEH whwhhhwAI 1502 WRQ#(OHYQDJDYPRQ gwhghi
cr pros dochm 2an dochm
testo 9: Ifigenia in Aulide 1283-1332 1279-1282: risposta trenetica a Clitemnestra LMZLMZY ghgh extra metrum (ia) 1283/4 QLIRYERORQ)UXJZ QQDYSR,GDWR>UHDg w h g h w h h g w 2dochm 1285 3ULYDPRR^TLSRWHEUHYIRD-SDORQH>EDOH g w w g h g w w g w 2dochm 1286/7 PDWHYURDMSRSURQRVILYVDHMSLPRYUZL h w w g h g h w g h 2dochm 1288/9 TDQDWRYHQWL3DYULQR`,GDL R, g w h g w g h h g h 2dochm 1290 GDL RHMOHYJHWHMOHYJHWHMQ)UXJZ QSRYOHL h w w g w h g h g h dochm hypod 1291 PKYSRWZ>IHLOHmQ®WRQDMPIL hghhhghg 2tr 1292 ERXVLERXNRYORQWUDIHYQW$ hghghghg 2tr 1293 OHY[DQGURQRLMNLYVDL hhghghIH palim cr 1294/5 DMPILWROHXNRQX^GZUR^TLNUK QDL1XPID QNHL QWDL h w h w h w h h h h h h 6da^ 1296/7 OHLPZYQWD>QTHVLTDYOOZQFOZURL NDLU-RGRYHQW h h h w h h h h h w h 6da^^ 1298/9 D>QTHX-DNLYQTLQDYWHTHDL GUHYSHLQ h g w h g w g h g h 2cr ia 1300 H>QTDSRWH 1301 3DOODH>PROHNDLGROLRYIUZQ.XYSUL 1302 +UDT#(UPD TR-'LRD>JJHOR
hgw cr h g w g h g w h g h I hypod dochm hhhhgwhghI an dochm
1303 D-PHQHMSLSRYTZLWUXIZ VD 1304 .XYSULD-GHGRUL3DOODY 1305 +UDGH'LRD>QDNWR 1306 HXMQDL VLEDVLOLYVL
hgwghghg hghwghg hhgwghg hhgwgh
2tr cr tr palim tr palim cr
1307 NULYVLQHMSLVWXJQDQ 1308a H>ULQWHWD NDOORQD 1308b HMPRLGHTDYQDWRQ
wghgh ghghhgh ghwghI
hypod ia cr dochm 177
1309/10 R>QRPDPHQIHYURQWD'DQDL"GDLVLQZ?NRYUDL gwhghgwghghgh 1311 SURYTXPDGH>ODEHQ$UWHPLSUR,OLRQ g h g w g h g h g h g h I 1312 R-GHWHNZYQPHWDQWDYODLQDQ wghghghg 1313 Z?PD WHUZ?PD WHU hhghhg 1314 RL>FHWDLSURGRXH>UKPRQ hghghghg
dochm 2ia 3ia 2tr 2palim 2tr
1315 Z?GXVWDYODLQHMJZYSLNUDQ 1316 SLNUDQLMGRX VDGXVHOHYQDQ 1317 IRQHXYRPDLGLRYOOXPDL 1318 VIDJDL VLQDMQRVLYRLVLQDMQRVLYRXSDWURY
hhghghgh 2ia ghghgwgh 2ia ghghghgh 2ia ghgwghgwghgh
1319 PKYPRLQDZ QFDONHPERODYGZQ 1320 SUXYPQDD^G$XMOLGHY[DVTDL 1321 WRXYVGHLMR^UPRXHLM7URLYDQ 1322 Z>IHOHQHMODYWDQSRPSDLYDQ
hhhhhhwh hhhhhhhh hhhhhhh hwwhhhh
2an 2an par par
hhhhhhh hhhhhhhh hhhhhhhh hwhh hwhhhwhh hhhhhhhh hwhh
par 2an 2an an 2an 2an an
1323 PKGDMQWDLYDQ(XMULYSZL 1324 SQHX VDLSRPSDQ=HXYHL-OLYVVZQ 1325 DX>UDQD>OORLD>OODQTQDWZ Q 1326 ODLYIHVLFDLYUHLQ 1327 WRL VLGHOXYSDQWRL VLGDMQDYJNDQ 1328 WRL GHM[RUPD QWRL GHVWHYOOHLQ 1329 WRL VLGHPHYOOHLQ
3ia
1330 K?SROXYPRFTRQD>UK?QJHYQRK?SROXYPRFTRQh w h w h w h w h h I 5da^ 1331 D-PHULYZQFUHZQGHYWLGXYVSRWPRQ hgghhwhw cho 2da 1332 DMQGUDYVLQDMQHXUHL Q hwghh penthia 1333-1335: appello a Elena
178
CONCLUSIONI 1.
Euripide post-classico (o pre-alessandrino)?
Rispetto alla scansione delle tre epoche della letteratura greca – arcaica, classica e alessandrina – Rossi riconosce alla terza l’intenzionale violazione delle “leggi” dei generi, la loro contaminazione, con un «atteggiamento quasi lusivo di fronte agli elementi forniti dalla tradizione». In realtà, egli ne segnala le premesse già nello Spiel mit den Formen della commedia di Aristofane e nel virtuosismo del dramma satiresco 1. Lo stesso Rossi, riscontrando ad esempio la presenza di elementi eterogenei – «scolio simposiaco, NZ PR post-simposiaco, SDUDNODXVLYTXURQ, imeneo, PDNDULVPRY» – nel secondo stasimo del Ciclope di Euripide, afferma che «definire il nostro canto con una formula unica sarebbe misconoscerne la ricchezza allusiva» e che «la virtuosistica comicità sta nell’aver messo t u t t i questi elementi ‘biotici’ insieme nello stesso tempo»2. Le parole di Platone in merito alla “trasgressione impoetica” (D>PRXVR SDUDQRPLYD) di quanti – già ai suoi tempi – non osservavano le leggi dei generi (Plat. Leg. 700a 7-701a 2) sembrano alludere, oltre che al “nuovo ditirambo”, anche a simili opere drammatiche. Accanto alle “anomalie” comiche e satiresche, però, la tragedia funziona ugualmente da collettore di forme comunicative e di generi poetici altri: li recupera, li rielabora, li contamina3. Ed Euripide in particolare sembra anticipare fenomeni che sono generalmente riconosciuti come propri dell’età alessandrina4. Gli effetti di queste tendenze si manifestano, ad esempio, in quelle che Barner indica come «ambivalente Monodie»5, ovvero nei canti a solo in cui il Rossi 1971, p. 84. Il titolo dell’articolo di Rossi indica propriamente come ambito di indagine le «letterature classiche», perché nel finale (p. 86) l’analisi approda agli autori latini, ma l’attenzione è rivolta prevalentemente alla letteratura greca. 2 Rossi 1971b, p. 21. In modo analogo, Rocconi 2010, p. 26, sottolinea il ruolo della commedia dell’età classica come specchio del «repertorio popolare». 3 Pattoni 1989, pp. 49-50, segnala «la presenza di tendenze arcaistiche o, più genericamente, di recupero delle forme tradizionali» in particolare nella produzione tardo-euripidea. Rutherford 2001, pp. 108-126, analizza ad esempio i rapporti fra tragedia attica e peana anche in termini di «generic deformation or extension», di «generic mixture» o ancora di «paeanic ambiguity». A proposito della tendenza alla contaminazione di generi poetici diversi all’interno della tragedia, vd. Rodighiero 2008, relativamente al primo stasimo delle Trachinie di Sofocle. Più in generale sulla questione, vd. Perusino – Colantonio 2007. 4 Euripide sembra essere stato un precursore dell’alessandrino Callimaco anche nella tecnica eziologica: il poeta tragico «anticipa molti dei motivi che guideranno l’utilizzo della tecnica eziologica nella poesia callimachea» (Bardi 2003, p. 113). In merito al rapporto fra la tradizione musicale popolare e la tragedia attica, Rocconi 2010, pp. 41-42, non solo ritiene che i tragediografi abbiano utilizzato un «filtro letterario» maggiore rispetto ai poeti comici ma puntualizza anche che il teatro classico, grazie alla sua natura performativa, non ha potuto raggiungere «quei livelli di letterarizzazione delle forme poetico-musicali popolari che saranno poi tipici della poesia ellenistica». 5 Vd. Barner 1971, pp. 286-287. 1
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Alcesti Ippolito
Andromaca
Ecuba
Supplici Elettra
Troiane 180
244-272 393-415 669-679 817-851 1347-1388 103-116 846-865 1173-1196 59-97 154-174 197-215 1056-1106 990-1030 112-166 175-189 198-212 98-152 279-291
canto narrativo
canto di lavoro
canto nuziale
peana
inno
preghiera
threnos
personaggio alterna stati d’animo o atteggiamenti diversi. Ma tali brani non hanno in sé necessariamente qualcosa di comico, come afferma Barner e come è stato rilevato nel caso del dramma satiresco. Tali situazioni sono piuttosto giocate coerentemente con il contesto tragico: la comicità del Frigio nell’Oreste dipende non tanto mescolanza di spavento e lamento all’interno della monodia ma piuttosto dalla generale caratterizzazione esotica del personaggio, sinonimo di inadeguatezza: il suo fallimento in rapporto al compito di messaggero impedisce al pubblico e al Coro di sapere la sorte toccata ad Elena e alla figlia Ermione, dopo che sulla scena Oreste, Pilade ed Elettra avevano pianificato il loro assassinio e dopo che la madre dall’interno aveva levato grida disperate. Così, la gioia sfrenata dell’anziana Giocasta nelle Fenicie, paragonabile alla spavalderia del vecchio Peleo nell’Andromaca, gioca per contrasto con la gravità della situazione e contribuisce a creare una fortissima tensione emotiva che accentua la catastrofe. Accantonando il dato relativo alla caratterizzazione dei personaggi, alla loro emotività o al loro atteggiamento, e considerando piuttosto le monodie in rapporto alle forme e ai generi della tradizione poetica, è possibile riscontrare nello stesso canto la compresenza di tracce riconducibili a espressioni di natura diversa: tali monodie non possono essere circoscritte entro singole categorie ma assommano valenze plurime.
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Ifigenia fra i Tauri Ione Elena
Fenicie
Oreste
Ifigenia in Aulide
308-340 143-177 203-235 869-899 82-183 859-922 164-178 191-210 229-252 348-385 182-192 301-354 1485-1538 1567-1581 174-186 195-207 960-1011 1302-1310 1368-1502 1279-1335 1475-1496
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1.1. Monodie polivalenti La monodia euripidea è un chiaro esempio di arte poetica virtuosistica, che si manifesta secondo modalità differenti. Alle forme apparentemente più semplici, come i threnoi di Eumelo, di Teseo e di Peleo, se ne alternano altre che giocano tragicamente sull’ambiguità intrinseca alla circostanza rituale: ad esempio, i canti nuziali, riprodotti o riecheggiati da Evadne e Cassandra, insistono sull’opposizione amore / morte, legata alla concezione del matrimonio come rito di passaggio. Le caratteristiche delle monodie euripidee non seguono un’evoluzione lineare e già nelle opere più antiche si trovano fenomeni che si ripresentano in seguito, nelle ultime tragedie. Nell’Andromaca, ad esempio, la pluralità di funzioni generalmente assolte dall’elegia viene sfruttata per la realizzazione di un canto che coniuga componente narrativa e componente funebre. La stessa polifunzionalità del genere poetico è sfruttata anche nell’Ifigenia in Aulide, dove la scelta del peana-upingo si presta a un effetto tragico di rifrazione, fra propiziazione al sacrificio, celebrazione della vittoria e celebrazione della dea Artemide. Alcune monodie presentano una caratterizzazione prevalente ma sono in grado di ospitare al loro interno in modo coerente espressioni altre: così, ad esempio, nel canto di dolore di Ippolito, che anticipa la sua morte, trova spazio una forma particolare di preghiera, adatta alla caratterizzazione del personaggio tragico. In modo analogo, nell’Ifigenia fra i Tauri la prima monodia è un la181
mento funebre per Oreste, ritenuto morto, e per la rovina della stirpe, che culmina nel rito della libagione in favore del defunto. La mescolanza di generi talvolta procede in maniera più rigida, per giustapposizione: la lunga e complessa monodia di Elettra nell’Oreste fa corrispondere il threnos con la coppia strofica e la sezione “ditirambica” con l’epodo astrofico6. Altre volte le diverse componenti si intrecciano reciprocamente in maniera meno schematica, come testimoniano le due monodie euripidee probabilmente più complesse: quella di Elettra e quella di Ione nelle tragedie ononime. La prima, pur presentandosi come un continuo lamento funebre per la morte del padre Agamennone, ripete all’inizio della prima coppia strofica alcuni versi che rinviano ai canti di lavoro, inserisce un breve mesodo che richiama i canti nuziali, e chiude l’antistrofe con una preghiera di richiesta, mentre nella seconda coppia strofica e nel secondo mesodo si manifesta con tutta evidenza la caratterizzazione prevalente del canto, con la descrizione dei gesti tradizionali del threnos: oltre alle grida e al pianto, i graffi sul viso e le percosse sul capo rasato. Nello Ione il refrain presente nella struttura in responsione riproduce le espressioni tipiche del peana, la coppia strofica si sostanzia dell’inno ad Apollo, con possibili allusioni alla celebrazione delle dafneforie, ma accompagna e descrive anche un’attività lavorativa, che prosegue nel lungo epodo conclusivo, dove la monodia mostra in modo più evidente i suoi legami con l’Arbeitslied. 1.2. Laicizzazione, decontestualizzazione, rivoluzione Nella seconda metà del V sec. a.C. diverse espressioni della poesia tradizionale sono tramontate o si vanno estinguendo: il declino della lirica corale nelle sue diverse forme è associata di solito alla morte di Pindaro (438 a.C.)7. Una simile premessa doveva favorire processi di deritualizzazione o desacralizzazione8, ovvero situazioni in cui un componimento di un certo genere non è più destinato alla sua funzione originaria o viene legato a un’occasione diversa da quella tradizionale. Lo Spiel mit den Formen tragico sfrutta anche questa situazione, producendo una pluralità di effetti. In ambito tragico, in particolare in relazione alle monodie, il caso più eclatante è rappresentato dalla laicizzazione del threnos: le caratteristiche formali (appelli, esclamazioni, ripetizioni) riscontrabili nei lamenti in presenza di cadaveri – ad esempio nelle monodie di Eumelo, Teseo, Peleo, Antigone – sono riprodotte come semplici strumenti retorici anche in canti che presuppon6 La combinazione di parti trenetiche e di parti narrative caratterizza anche la prima monodia di Ecuba nelle Troiane e la prima monodia dell’Ifigenia in Aulide, entrambe astrofiche. 7 Vd. Rossi 1971, p. 77. Rutherford 2001, p. 126 osserva che il peana sul finire del V sec. a.C. doveva essere «largely out of date, except in conservative centres. It was probably not an important genre in Athens in the classical period, except (perhaps) in the context of pilgrimage to major centres of Apolline cult». La situazione relativa ai canti nuziali non doveva essere molto diversa, se ancora per gli alessandrini il principale termine di riferimento era Saffo, la poetessa di Lesbo vissuta fra il VII e il VI sec. a.C. 8 Pordomingo 1996, p. 469, osserva questo fenomeno a proposito della poesia popolare, ma lo stesso si può verificare nella poesia cosiddetta colta.
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gono solamente una situazione di sofferenza e dolore 9, come la monodia d’ingresso di Ecuba nell’omonima tragedia oppure la seconda parte della monodia di Giocasta. In particolare, la proliferazione delle ripetizioni contagia anche canti che non si configurano come threnoi. Nella stessa prospettiva si possono leggere anche l’imeneo di Cassandra, slegato da una reale cerimonia nuziale, e il canto a solo di Creusa, che rivoluziona l’inno citarodico inserendo nella struttura tradizionale un contenuto radicalmente opposto.
2.
Monodie sulla scena
Le monodie più “banali” sono quelle che si presentano come veri e propri threnoi, ovvero come lamenti funebri intonati sulla scena in presenza di un cadavere. Ma la loro semplicità è solo apparente, né può essere circoscritta alla produzione più antica, dal momento che, accanto alle monodie di Eumelo nell’Alcesti, di Teseo nell’Ippolito e di Peleo nell’Andromaca, si deve annoverare anche quella di Antigone nelle Fenicie. La profonda tragicità delle ultime due monodie segnalate si coglie nell’evoluzione del personaggio all’interno dell’opera nel suo complesso: il threnos, infatti, marca sia la svolta di Antigone da figlia timorosa e pudica a «baccante dei morti», sia quella di Peleo da autorevole capostipite della dinastia reale a vecchio nonno che, dopo aver perso l’unico figlio, piange ora la morte prematura dell’unico nipote, senza avere più eredi10. Eumelo e Teseo, invece, condividono una singolarità legata alla scelta del personaggio che si lamenta. La presenza in scena di bambini – tanto cara alla tragedia euripidea – si traduce spesso in comparse mute: il figlio di Alcesti, invece, a differenza della stessa sorella che insieme a lui è presente al capezzale della madre, non solo prende la parola ma intona un’intera monodia11 senza la partecipazione di altri personaggi. Non è usuale neppure che un re canti, tanto più un re ateniese: Teseo mostra il lato più umano del personaggio, quello del marito fedele e innamorato. La sua dicotomia interiore, fra dignità e sofferenza, si traduce in un canto che alterna sequenze docmiache e coppie di trimetri giambici, secondo uno schema tipico degli amebei liricoepirrematici: rispetto a una struttura tradizionalmente a due voci, però, egli riassume in se stesso entrambi i ruoli12.
Vd. Kranz 1933, pp. 231-232. Una simile situazione innaturale, per cui il progenitore piange la morte del nipote, è rappresentata anche nel finale delle Troiane, dove Ecuba intona il lamento per Astianatte. 11 Sulla funzione drammaturgica dei personaggi infantili nell’Alcesti, vd. Dyson 1988. Un’indagine sulla presenza dei bambini nelle tragedie greche in generale, vd. Sifakis 1979. 12 Vd. De Poli 2011, pp. 35-38; Barner 1971, p. 292; Barrett 1964, p. 319. 9
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2.1. Personaggi e coro13 La “semplice” monodia di Eumelo è emblematica anche per un fenomeno comune a numerosi assoli di tutta la produzione euripidea: la fine dell’antifonalità. Molti canti della tradizione greca, dal threnos all’imeneo, prevedevano l’alternanza fra una voce solista, di solito con funzione di exarchos, e un coro: nella ripresa dei modelli Euripide rompe questo legame, enfatizzando la solitudine del personaggio che canta la monodia. Alla fine della struggente sticomitia fra Alcesti e Admeto, che sconfina nell’antilabe, il corifeo certifica il decesso della donna: EHYEKNHQRXMNHYWH>VWLQ$GPKYWRXJXQKY, «è morta, la moglie di Admeto non c’è più» (Eur. Alc. 392). A questo punto il figlio della coppia inizia a lamentare la morte della madre e, ripetendo in parte le parole del corifeo (Eur. Alc. 394 EHYEDNHQRXMNHYWH>VWLQ, «è morta, non c’è più»), alterna gli appelli alla defunta (Eur. Alc. 400, 401, 414-415) con le invocazioni al padre (Eur. Alc. 395, 406, 411). Admeto interviene solamente con una coppia di trimetri giambici fra la strofe e l’antistrofe del canto: con una singolare freddezza egli chiosa il canto del figlio, sottolineando che Alcesti non può né sentire né vedere, e denuncia la comune sofferenza sua e dei due bambini. Alla fine della monodia, invece, riprende a parlare il corifeo: egli, ignorando completamente Eumelo, si rivolge ad Admeto (Eur. Alc. 416 $GPKW[H]) con formule consolatorie usuali, che rinviano all’inevitabilità della morte, e quest’ultimo dà le disposizioni per la cerimonia funebre e per il lutto, senza alcun riferimento o coinvolgimento dei figli. Una situazione analoga si verifica durante la scena di Cassandra nelle Troiane. Il suo canto è continuo: la coppia strofica non è interrotta da alcun intervento esterno. La monodia coincide con il precipitoso ingresso in scena della donna che, tra le invocazioni rituali dell’imeneo, esorta la madre a unirsi alla danza, ad essere felice come lei, ma l’anziana madre rimane immobile. Appena termina la monodia, le prime parole sono pronunciate dal corifeo che, come nell’Alcesti, trascura il personaggio che ha cantato e si rivolge alla regina (Eur. Tr. 341 EDVLYOHLD), invitandola a placare l’euforica follia della figlia. Ecuba finalmente interloquisce con Cassandra (Eur. Tr. 345), ma solo dopo aver manifestato al dio Efesto il proprio disappunto per una situazione sgradevole. La reazione all’imeneo è ancor più significativa se si considera che nel finale della stessa monodia (Eur. Tr. 335-340) ripetute esortazioni al canto vengono rivolte anche al Coro, inutilmente. Si riproduce così una situazione che si era già verificata in precedenza nella stessa tragedia. Secondo lo schema dell’Anruf-Motiv, il lamento iniziale di Ecuba era terminato con un appello alle donne troiane (Eur. Tr. 143-152) affinché si unissero a lei nel compianto per la città e per i suoi abitanti. Il Coro aveva risposto prontamente e, dopo un amebeo corrispondente alla prima coppia strofica, nella seconda aveva intonato il proprio
13 Il rapporto tra Coro e personaggio nei tragici greci è stato indagato da Pattoni 1989, le cui considerazioni sono spesso implicite nelle considerazioni proposte in questo paragrafo, anche se la prospettiva è diversa, centrata più sul personaggio che sul Coro.
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Klagelied. In seguito, Ecuba aveva reagito alle novità riferite da Taltibio rinnovando il canto di dolore in modo ancora più scomposto e di nuovo aveva chiesto la partecipazione del Coro: questa volta, però, sulla scena non si ricrea tra loro la stessa sintonia. Ecuba ha appreso la sorte a cui sono state destinate le figlie e, soprattutto, ha saputo di essere stata assegnata a Odisseo; le altre donne che compongono il coro, invece, attendono ancora l’esito del sorteggio e sono in ansia per questo: nel rispondere il corifeo sottolinea la distanza fra le loro condizioni attraverso l’opposizione WRPHQVRQWDG HMPD (Eur. Tr. 292)14. La mancata antifonalità interessa anche dinamiche tipiche della tragedia non strettamente legate a circostanze rituali. La struttura melica che l’AnrufMotiv produce all’inizio delle Troiane – monodia, amebeo attore-coro, parodo – rispecchia nell’insieme la situazione che si verifica nell’Ecuba subito dopo la parodo, quando la protagonista alla fine della propria monodia chiama la figlia, si alterna con lei in un amebeo e Polissena intona a sua volta un canto a solo. La sintonia tra i due personaggi risulta in questo caso per certi aspetti paradossale perché, di fronte alla notizia dell’imminente sacrificio della figlia, entrambe le donne rivolgono il loro compianto sulla sorte della madre che, sopravvivendo, sarà costretta al degrado e all’umiliazione. Nel primo episodio delle Fenicie l’incontro fra Giocasta e Polinice avviene secondo una dinamica diversa: questa volta il figlio è già in scena e la madre arriva rispondendo alla chiamata delle donne del coro. D’altra parte, la prima sezione del loro dialogo si articola in due lunghi discorsi, l’uno cantato da Giocasta (Eur. Ph. 301-354) e l’altro recitato da Polinice (Eur. Ph. 357-378). Alla monodia risponde una rhesis in trimetri giambici. Viene così ripreso uno schema ricorrente, soprattutto nelle tragedie euripidee più antiche, per cui lo stesso personaggio prima canta una monodia e poi pronuncia una rhesis, distinguendo la reazione emotiva dal tentativo di razionalizzare la situazione problematica. Tale scansione, tuttavia, viene rielaborata nelle Fenicie per sottolineare la distanza fra Giocasta e Polinice in quella che si delinea a tutti gli effetti come una scena di riconoscimento. I motivi presenti nei due brani sono gli stessi proposti, ad esempio, nell’Elena (Eur. Hel. 625 ss.): la gioia incontrollabile che culmina nell’abbraccio fra i due familiari o congiunti, il ricordo del passato e un rapido aggiornamento sulla situazione attuale. D’altra parte, se dal riconoscimento reciproco fra Menelao e la moglie si sviluppa un amebeo lirico, espressione di un comune sentire, nelle Fenicie la tensione tra madre e figlio si scioglierà solo in un secondo momento nel corso di una serrata sticomitia in versi recitati. Il caloroso abbraccio di Giocasta è gelato dalla reazione risentita di un sospettoso Polinice che lamenta l’ingiusto esilio e teme un agguato15. Pattoni 1989, p. 34, ha osservato come, dopo aver veicolato la “simpatia” del pubblico sul protagonista, «la sympatheia del Coro, intensa all’inizio, tenda in varie tragedie, soprattutto euripidee, a passare in secondo piano nel corso dell’azione». 15 Vd. Cerbo 1989, pp. 46-47. 14
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La corrispondenza fra voci diverse si manifesta in termini problematici anche nell’Ifigenia in Aulide, nuovamente in una situazione di carattere rituale e con la consueta composizione “triadica” (monodia, amebeo, coro). Nell’imminenza del sacrificio la protagonista intona un canto propiziatorio, nel quale viene anche celebrata la dea Artemide: fin dal principio la giovane esorta le donne di Calcide a preparare la cerimonia, a danzare e cantare con lei. L’ultimo appello di Ifigenia è interrotto da una domanda di chiarimento del Coro (Eur. IA 1500-1501) e il completamento della frase da parte della figlia di Agamennone è chiosato in modo banale (Eur. IA 1504). Dopo che la giovane ha pronunciato il suo addio solenne alla vita, finalmente le donne calcidesi rispondono con il canto auspicato; tuttavia, in massima parte si limitano a ripetere e rielaborare le parole della monodia che hanno ascoltato in precedenza, senza per altro riuscire a riprodurne lo schema metrico con un canto in responsione. Se ne ricava l’impressione di una sintonia imperfetta: le richieste di Ifigenia vengano raccolte da chi non sa, e forse non può, condividere pienamente il suo stato d’animo. Personaggio e Coro si erano trovati in una situazione analoga già nell’Ifigenia fra i Tauri. Per la celebrazione della libagione in favore di Oreste, la protagonista aveva cercato la collaborazione delle prigioniere greche ma inizialmente queste non si erano fatte trovare. Solo in seguito avevano risposto alla chiamata di Ifigenia, dapprima senza sapere con precisione cosa fare e poi cercando di intonare un canto coerente con il rito. Ma, da estranee, partecipano con difficoltà a una cerimonia di carattere privato: il loro brano non è in responsione con la monodia precedente e le considerazioni proposte sono inevitabilmente di carattere generale16. La differenza con il ruolo assolto dai Cori dei Persiani o delle Coefore conferma l’anomalia implicita nell’Ifigenia fra i Tauri. In certe circostanze il personaggio che intona la monodia sembra cosciente di non poter trovare nel Coro una spalla adeguata per il proprio canto. Così, ad esempio, Antigone nelle Fenicie piange da sola la morte della madre e dei fratelli, senza mai tentare di coinvolgere le donne del coro, che sono forestiere. Mentre, quando chiama il padre fuori dal palazzo, con lui dà vita a un amebeo che le consente di informarlo dell’accaduto ma, dopo l’ultima breve monodia narrativa di Antigone, non c’è spazio per ulteriori effusioni di dolore, magari da parte di Edipo: l’arrivo in scena di Creonte interrompe la scena dialogica con le indicazioni in merito alla sepoltura dei corpi e agli sviluppi successivi della vicenda. La stessa situazione si verifica anche nell’Ifigenia in Aulide, dove il Coro partecipa al canto di dolore di Clitemnestra e della figlia con una laconica coppia di trimetri giambici, in cui esprime la propria compassione e afferma l’ingiustizia della sorte toccata ad Ifigenia (Eur. IA 13361337). Nell’Oreste, invece, il silenzio del Coro di fronte al lamento di Elettra Pattoni 1989, pp. 53-56, insiste al contrario sulla sintonia tra coro e attore, evidenziata dal «gioco di corrispondenze e di richiami, tipico del threnos» che «contribuisce a rendere con immediatezza l’identità dei loro sentimenti».
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(Eur. Or. 960-981) è completo: la scena è monopolizzata dal singolo attore, che interpreta un personaggio solo con il proprio destino. Fin dall’inizio di questa tragedia, del resto, le donne di Argo non riescono a entrare in sintonia con l’eroina tragica: la loro presenza nel momento dell’ingresso in scena è più disturbante che consolante e così anche questa funzione tradizionale del coro viene ridimensionata17. 2.2. Canto autoreferenziale e anticipazione del rito Il peana prevedeva generalmente un’esecuzione corale o almeno un’alternanza di voci diverse; nel prologo dello Ione, tuttavia, il protagonista è solo sulla scena e nessuno può unirsi a lui nel canto. Per giunta, se nella sua monodia è possibile riconoscere qualche eco del dafneforico, egli ne è allo stesso tempo esecutore e destinatario. Situazioni di questo genere sono particolarmente frequenti nelle monodie mimetiche. Quando viene inscenato il rito nuziale, il canto è innalzato dalla “sposa” che, in verità, non è mai propriamente tale: la situazione di Evadne e quella di Cassandra – il suicidio e il destino di concubina – vengono intenzionalmente travisate. Diversamente, l’evocazione della cerimonia è affidata a personaggi, come Elettra e Antigone, che non hanno mai sperimentato le nozze e che, almeno nel caso della figlia di Edipo, non le conosceranno mai. La scena delle Troiane è quella più significativa, perché Cassandra dichiara apertamente di assolvere ai compiti che la tradizione assegna alla madre della sposa: «dal momento che tu, madre mia, tra lacrime e gemiti persisti a lamentare la morte di mio padre e la rovina della nostra patria, io faccio risplendere questa fiaccola per le mie nozze […], come vuole l’usanza» (Eur. Tr. 315-324). In modo analogo, la protagonista dell’Ifigenia in Aulide, dopo aver escluso Clitemnestra dalla partecipazione al rito perché piangendo avrebbe compromesso il buon esito del sacrificio, intona in prima persona il canto che dovrebbe propiziare la sua morte. Anche il lamento evidenzia la stessa tendenza: l’autocompatimento è un atteggiamento comune a diverse eroine tragiche, da Fedra a Ecuba, ma in alcuni casi il personaggio arriva a piangere anche la propria morte. Se nell’Ippolito il protagonista accompagna con il canto gli ultimi momenti della sua vita, Ifigenia prima di essere sacrificata sull’altare di Artemide risponde all’iniziativa di Clitemnestra piangendo il destino che la attende e che si sta per compiere (Eur. IA 1276-1282). Ma il caso più singolare è quello che si realizza nell’Oreste: l’assemblea degli Argivi ha deciso che i figli di Agamennone devono morire, concedendo loro solamente di togliersi la vita con le proprie mani; appena la notizia giunge all’orecchio di Elettra, la donna eleva un threnos per sé e per il fratello, anticipando un fatto che sembra ormai inevitabile. In realtà, il dramma approderà ad un esito diverso: Oreste e la sorella sopravvivono inaspettatamente e il lamento funebre viene cantato per una morte che 17
Vd. Pattoni 1989, pp. 81-82.
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non si concretizza. Qualcosa di analogo avviene nell’Ifigenia fra i Tauri, quando la figlia di Agamennone offre una libagione per un morto, il fratello Oreste, che non è morto. 2.3. La spettacolarità delle monodie Riti e situazioni drammatiche vengono talora trattati in modo simile: entrambi, infatti, possono essere svuotati della loro funzione tradizionale. Così avviene che un singolare messaggero esegue una serie di brani che dovrebbero fungere da rhesis angelike, ma la notizia attesa non viene mai formalizzata perché il Frigio non sa l’esito della vicenda: intanto, però, la parola cantata gioca con le aspettative frustrate del coro e del pubblico. Non diversamente accade in occasione dei diversi aprosdoketa scenici, legati soprattutto alla presenza nel testo di una preghiera: momenti solenni che sembrerebbero fungere da chiusa del canto e che invece preludono solamente a una svolta. L’episodio emblematico è quello della parodo dell’Elena, dove l’appello a divinità poetiche ed infere viene raccolto dalle schiave greche d’Egitto. Il fatto che l’aprosdoketon scenico fosse uno stilema drammaturgico particolarmente caro a Euripide sembra essere confermato in modo implicito da Aristofane nelle Rane: facendo la parodia dei canti di Euripide, Eschilo gioca con il testo dell’Ipsipile, chiedendo in principio di portargli una cetra e ripiegando poi su uno strumento molto più vile, le nacchere; queste ultime, d’altra parte, non saranno suonate da una popolana ma dalla Musa in persona 18. L’episodio comico testimonia, inoltre, la complementarietà scenica fra la componente uditiva – la scelta dello strumento musicale – e la componente visiva – la presentazione di un personaggio di aspetto modesto. I personaggi euripidei che cantano le monodie talvolta vengono presentati in condizioni fortemente degradate rispetto alle attese basate sulle loro origini: la figlia di Agamennone costretta a lavori umili e vestita di stracci, il figlio di Apollo che spazza e lava i locali del santuario di Delfi. Gli oggetti di scena – la brocca o la ramazza ma anche le torce di Cassandra – dovevano produrre uno straordinario impatto emotivo sugli spettatori, allo stesso modo dei movimenti di danza, tanto più se a compierli è la Giocasta delle Fenicie, una donna vecchissima che porta addosso i segni del lutto. Risultati analoghi potevano essere conseguiti anche attraverso situazioni sceniche radicalmente opposte come la fissità della postura di Andromaca o la prostrazione di Ecuba nelle Troiane e le oscillazioni del suo corpo disteso a terra. Quando il rito si fa spettacolo, il personaggio attraverso la monodia non solo esegue un canto di cui è allo stesso tempo il destinatario ma si fa anche regista della scena, dirigendo i suoi movimenti e cercando di dirigere quelli
Per un’analisi più approfondita delle dinamiche su cui si basa questo aprosdoketon scenico, vd. Di Marco 2009b.
18
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degli altri19: lo si vede nella cerimoniosità della libagione organizzata e presieduta da Ifigenia, nell’imeneo di Cassandra o nel peana dell’Ifigenia in Aulide. Erano questi i pezzi di bravura richiesti da attori sempre più professionisti, concentrati soprattutto nella parte iniziale del dramma per conquistare i favori del pubblico (Arist. Pol. VII 1336b 28-32): entro i primi quattrocento versi si esauriscono le monodie di tre tragedie superstiti – Elettra, Troiane, Elena – e nel primo e nel terzo caso sono assegnate tutte allo stesso personaggio protagonista20.
A proposito dell’ultima monodia dell’Ifigenia in Aulide, vd. Turato 2001, p. 248 n. 181; a proposito del canto di Cassandra, vd. Susanetti 2008, p. 161 n. 62, e Battezzato 2005, pp. 7779. 20 In merito alla distribuzione delle monodie fra i personaggi di una stessa tragedia, vd. De Poli 2005. 19
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