Melanconia e apocalisse. Studi sul pensiero portoghese e brasiliano 9788898694570, 9788885716179, 8898694571


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Melanconia e apocalisse. Studi sul pensiero portoghese e brasiliano
 9788898694570, 9788885716179, 8898694571

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Leonel Ribeiro dos Santos Melanconia e apocalisse Studi sul pensiero portoghese e brasiliano

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G u l l i ve r

Collana diretta da: Francesco Valagussa

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Gulliver | 4

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Leonel Ribeiro dos Santos Melanconia e apocalisse

Studi sul pensiero portoghese e brasiliano traduzione e saggio introduttivo di Alfredo Gatto

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© 2017, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Gulliver ISSN: 2499-7676 n. 4 - novembre 2017 ISBN – Edizione cartacea: 9788898694570 ISBN – E-book: 9788885716179 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth

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Saggio introduttivo di Alfredo Gatto

Il libro di Leonel Ribeiro dos Santos contribuisce a colmare un vuoto nel panorama editoriale italiano. Al di là dell’interesse letterario ed accademico nato intorno alla figura di Fernando Pessoa e agli studi dedicati a taluni aspetti dell’opera di António Vieira, la tradizione filosofica lusofona non ha ancora ottenuto l’attenzione che merita. Il presente volume, che siamo lieti di presentare, può rappresentare dunque un primo passo per introdurre ad un pubblico più vasto alcuni dei più importanti rappresentanti della filosofia e della cultura portoghese e brasiliana. Poiché molti degli autori su cui si è posato lo sguardo indagatore di Ribeiro dos Santos sono conosciuti e studiati solo da una ristretta cerchia di specialisti, riteniamo possa essere utile, in sede introduttiva, fornire una piccola mappa delle rotte tracciate dai singoli filosofi, ponendo in risalto le assonanze o i possibili legami che li accomunano. L’idea portante che sorregge il testo è che ogni popolo possa esistere, in piena autonomia, solo se in possesso di un pensiero, di una tradizione culturale radicata nella sua storia intellettuale. Possiamo ritrovare una riflessione degna di questo nome nel pensiero lusitano? Secondo l’autore, certamente sì, e in virtù di differenti sguardi prospettici. A questo proposito,

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la melanconia e l’apocalisse, ovvero l’endiade che dà il titolo al libro, è soltanto uno degli aspetti passibili di caratterizzare la specificità di questa tradizione, pur senza esaurirne la riserva critica e intellettuale. È naturale, tuttavia, soprattutto nel contesto filosofico e teologico di ascendenza portoghese, dedicare un posto di riguardo proprio al pensiero apocalittico ed escatologico di António Vieira (1608-1697). Il gesuita nato a Lisbona e cresciuto a Salvador de Bahia è senza alcun dubbio una delle più influenti figure del XVII secolo. Pensatore barocco per eccellenza, raffinato retore e confessore presso la corte romana di Cristina di Svezia, Vieira può essere considerato, come suggerisce Fernando Pessoa, «l’imperatore della lingua portoghese». La raffinatezza della sua prosa ha spinto, in anni più recenti, lo stesso José Saramago ad affermare che dopo Vieira la lingua portoghese non ha mai più raggiunto la stessa bellezza. Non è quindi un caso se parte dell’interesse di Ribeiro dos Santos si sia rivolto anche a questo specifico aspetto dell’opera del portoghese, e in modo particolare al confronto che vide Vieira impegnato con un altro gesuita, Padre Girolamo Cattaneo. Su richiesta di Cristina, trasferitasi a Roma dopo la conversione al cattolicesimo, Vieira e Cattaneo diedero vita ad un’impresa retorica perfettamente integrata negli stilemi estetici del Barocco. Il 6 dicembre 1674, presso l’Accademia Reale, i due oratori si esercitarono in un topos classico: erano invitati a convincere l’uditorio su chi, fra i due filosofi antichi, avesse ragione, se il “lacrimevole” Eraclito o il “ridanciano” Democrito. Pur difendendo le lacrime del sapiente di Efeso, Vieira minò alla radice l’antinomia fra i due filosofi, dimostrando con rara eleganza come il riso di Democrito, al di là delle apparenze, non fosse null’altro che un pianto, sebbene sotto la forma di una tragica ironia.

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La raffinatezza barocca dell’opera vieirina non costituisce, ad ogni modo, l’unico elemento su cui si è soffermato l’autore del presente volume. Ancor più importanti, infatti, sono forse i numerosi contributi di Vieira alla tradizione escatologicoapocalittica. Dal piccolo opuscolo Esperanças de Portugal e Quinto Império do Mundo inviato al Vescovo del Giappone, fino alla monumentale Clavis Prophetarum, passando per l’incompiuta História do Futuro, il gesuita ha sempre concentrato la sua attenzione sulle “cose ultime”, delineando un quadro profetico che serba traccia dell’influenza esercitata nella cultura portoghese da Gioacchino da Fiore, conosciuto da Vieira attraverso la mediazione dei Francescani spirituali e l’ampia tradizione gioachimita e pseudo-gioachimita. In linea con l’abate calabrese, nel Quinto Impero vieirino assistiamo ad una sostanziale immanentizzazione dell’avvenire escatologico: l’accadere di nuovi eventi conferma e accresce la profezia, e la verità stessa, lungi dall’incarnare un modello sottratto alle dinamiche mondane, è soggetta all’incremento della temporalità storica. All’interno di una prospettiva eminentemente topologica, non è difficile porre in relazione la riflessione vieirina con un pensatore contemporaneo come Agostinho da Silva (1906-1994). Anch’egli, al pari di Vieira, vide nel Brasile il luogo più idoneo dove realizzare la propria missione culturale, e non diversamente dal teologo barocco ritrovò nella tensione profetica del gioachimismo una delle chiavi per interpretare il mondo. Pur essendo un intellettuale volutamente non sistematico, l’interesse nutrito per la carica liberatoria contenuta in nuce nel culto azzorriano e brasiliano dello Spirito Santo, modulato secondo chiare ascendenze gioachimite, lo spinsero a recuperare sia la concretezza dell’utopia vieirina, sia il suo nazionalismo messianico, incentrato sulla missione provvidenziale assunta nella storia dal Portogallo. Al Quinto Impero di Vieira si sovrappone così la metaforica agostiniana di un pacifico Im-

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pero dello Spirito Santo, legittimo custode della buona novella e delle promesse di un’universale e progressiva libertà. António Vieira e Agostinho da Silva introdussero in Brasile, in differenti epoche, le proprie personali visioni del mondo; nell’ex colonia portoghese, tuttavia, la riflessione filosofica, soprattutto a partire dal XIX secolo, aveva già iniziato a dare i suoi primi frutti. Basti pensare, a titolo di esempio, al medico e diplomatico, drammaturgo e filosofo Domingos Gonçalves de Magalhães (1811-1882). Benché non possa certo essere considerato un gigante del pensiero e un innovatore, il pensatore brasiliano ci consente di gettare un rapido sguardo sulle influenze a cui era soggetta al tempo la cultura lusofona. L’impostazione filosofica di Gonçalves de Magalhães è figlia dell’incontro con la cultura francese, e in particolare con l’eclettismo di Victor Cousin. La sua riflessione, incentrata su un’appassionata difesa dello statuto e del ruolo della metafisica, era strettamente legata ad un intento pedagogico, volto a coltivare, nel seno della sua terra natia, una radicale riforma delle idee filosofiche. Come ebbe a confessare lui stesso, «è per il Brasile, e solo per il Brasile che scriviamo». Se Gonçalves de Magalhães aveva ritrovato nella cultura francese il sostrato su cui formulare la sua proposta filosofica, nella seconda metà del XIX secolo Antero de Quental (1842-1891) iniziava invece la sua avventura intellettuale proprio prendendo le distanze da quel «francesismo», cousiniano e comtiano, che aveva occupato e dominato i precedenti dibattiti. Nel pensiero di Antero è la tradizione tedesca ad imporsi come riferimento più prossimo. In questo discepolo della Germania filosofica e poetica, l’influenza esercitata da questa cultura non fu comunque mai accolta sotto il segno di una mera imitazione servile, ma alla luce di un’aperta assimilazione critica, sempre ben temperata e mediata da altre matrici filosofiche. Il pensiero anteriano è allora il risultato di quelle «caotiche

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letture» (l’espressione è del poeta portoghese) cui si era dedicato fin dalla giovinezza: Antero passerà così da una concreta prossimità ad Hegel ad un progressivo avvicinamento al pensiero leibniziano e kantiano, sempre accompagnato dall’interesso nutrito per Schopenhauer e Hartmann. Nella tradizione neokantiana, Antero scorgeva l’opportunità di conciliare le antinomie concettuali che avevano caratterizzato il pensiero moderno, formulando una sintesi feconda fra la natura e lo spirito, fra l’essenza prosaica della scienza e la presunta astrattezza dell’impianto metafisico. Una sostanziale vicinanza al pensiero kantiano è visibile anche nel pantiteismo di José Maria da Cunha Seixas (1836-1895). Con questa particolare forma di spiritualismo, direttamente connessa al fermo rifiuto delle sirene della cultura positivista e debitrice dell’ispirazione panenteista di Karl Krause, Seixas ricercava un’armonia garantita, in ultima analisi, soltanto dall’esperienza offerta dall’arte. Le diverse forme del fare artistico sono qui l’unica possibilità di cogliere, nell’orizzonte empirico, le vestigia dell’assoluto. Il progetto pantiteista e l’esigenza estetica che lo caratterizza si accompagnano ad una teologia e teodicea negative. Nella riflessione di Seixas, il Dio che fonda l’armonia non si consegna, nella sua totalità, alla visione, pur continuando a renderla possibile. Dio non si traduce dunque in un’immagine determinata, ma rappresenta la condizione di ogni armonia visibile. È interessante rilevare come la teologia negativa di questo avvocato di Lisbona conservi alcune assonanze con un altro studioso e filosofo del diritto, il brasiliano Miguel Reale (19102006). In linea con Seixas, Reale si propone di pensare con Kant, e al contempo contro e oltre le vulgate che hanno ricondotto il filosofo di Königsberg nel solo ambito delle tematiche gnoseologiche. Anche in questo caso, l’esperienza estetica è il mezzo privilegiato per cogliere la natura di un Essere che non

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può vedersi cristallizzato in nessuna proposizione sintetica. Attraverso il bello, l’Essere appare e si sottrae, si dà a vedere ritraendosi: il risultato del fare artistico lascia quindi trapelare il fondamento di una ratio incapace di rendere ragione della propria ragione, delineando i margini di un’ontologia negativa, di una realtà che non è in grado di trovare nella pratica metafisica il principio che la sostiene. L’insistenza sulla natura ineffabile dell’origine, unita alla necessità di guardare alla dimensione estetica per esperirne l’aporia, ha accompagnato anche l’opera di Vergílio Ferreira (1916-1996). Influenzato da Sartre e dalla scuola fenomenologica francese, Ferreira ha cercato di tracciare le linee guida di un’estetica negativa: non diversamente dal mistico, costretto ad affermare la natura del divino negandone ogni proprietà, chi si occupa della dimensione estetica può fornirne una descrizione solo nella consapevolezza di non aver alcuna parola per indicare l’esperienza patita e vissuta. L’indagine sull’arte del saggista e filosofo portoghese si rivela allora oltremodo paradossale: si scrive per esaurire le parole necessarie ad esprimersi, indicando lo spazio di un’ulteriorità che segna il confine del pensiero. In tal modo, l’intelletto si esercita sui proprio limiti e fa concretamente esperienza di un luogo che, pur essendo impensato ed impensabile, abita ogni riflessione. È lo stesso Ferreira ad esplicitarlo: «Si pensa soltanto l’impensabile. Ma è l’arte a dirlo, ancor prima del pensiero». L’interesse per la dimensione estetica – in questo caso, sarebbe forse meglio dire: “estetizzante” – caratterizza altresì l’intera opera di Eça de Queirós (1845-1900), uno dei più raffinati ed eleganti scrittori portoghesi. Ben prima di Pessoa, Eça aveva costruito la storia, la formazione intellettuale e le letture di molti dei suoi personaggi, destinati ad accentuare alcune specifiche tendenze della propria stessa personalità. Incontriamo così Carlos Fradique Mendes, un esteta decadente intriso di

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romanticismo, un «turista dell’intelligenza» incapace di legarsi stabilmente ad un sistema di idee e ad una Weltanschauung determinati. Oltre a Fradique, vediamo all’opera Jacinto, una figura che sembra a tratti richiamare Antero de Quental, e Zé Fernandes, il paradigma dell’anti-filosofo, in realtà un alter ego di Eça de Queirós e del suo spirito salace, disposto a mettere in gioco un vero e proprio esercizio maieutico nei confronti delle certezze di Jacinto-Antero, novello Don Chisciotte. Se è possibile ritrovare un tratto filosofico nell’opera queirosiana, Eça, al pari del “suo” Fradique Mendes, preferirebbe tuttavia definirsi, più semplicemente, “artista” («Io ero, e resto ancora, in filosofia un turista facilmente affaticato»). Secondo lo scrittore portoghese, l’arte è il naturale sostituto della religione, almeno per gli spiriti più nobili, capaci di sopportare la sostanziale evanescenza dei valori e dell’orizzonte del sacro. L’arte letteraria ricopre inoltre una funzione eminentemente sociale: è una pratica critica e corrosiva necessaria per scalzare la supposta solidità della cultura positivista. Ad essere posti sotto accusa non sono i soli fondamenti del positivismo, quanto i suoi indiscussi successi, ossia gli ideali di verità ed uguaglianza incarnati, rispettivamente, nella scienza e nella democrazia moderne. Gran parte degli autori fin qui citati hanno attribuito alla dimensione estetica una funzione e un ruolo fondamentali. In questa visione, le forme artistiche, e la letteratura in particolare, si intersecano con la filosofia, spesso riuscendo a cogliere, con venature romantiche, aspetti della realtà che sembrano preclusi ad un logos raziocinante. I più importanti rappresentanti della Scuola Portuense ne sono un ulteriore esempio. In Teixeira de Pascoaes (1877-1952), ad esempio, la poesia è vista come il controcanto estetico e letterario all’egemonia della ratio scientifica. Lo spirito creatore dell’uomo, attraverso il me-

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dium della parola poetica, dà forma all’informe, e imprime un senso alla natura caotica degli accadimenti mondani. In un’epoca storica dominata dagli stilemi neo-realistici, a loro volta giustificati da uno scientismo positivista ancora presente nel dibattito culturale, Pascoaes considera l’esperienza artistica come un concreto esercizio di trasfigurazione e idealizzazione del mondo. Accanto ad Aarão de Lacerda (1890-1947), uno storico e critico dell’arte di ascendenza romantica, incontriamo Leonardo Coimbra (1883-1936), anch’egli strenuo difensore della centralità metafisica dell’arte e dell’esperienza estetica («È attraverso l’arte che la sensibilità fa le sue richieste di eterno, conduce la sua lotta per l’immortalità»). Il suo «creazionismo» lo spinge a radicalizzare i presupposti operanti nella visione di Pascoaes: in Coimbra, infatti, la matrice estetica dello spirito creatore umano, estrinsecandosi in ogni aspetto del mondo, coinvolge anche l’impresa scientifica. In quest’ottica, perfino la scienza può e deve essere giudicata alla luce di un criterio estetico, non essendo altro che un prodotto della creatività umana. Nel suo giudizio sul valore estetico della scienza, il creazionismo leonardino si ritrova paradossalmente in linea con il razionalismo critico di un autore come António Sérgio (18831969). Il saggista nato nell’India portoghese, infatti, vicino alle posizioni formulate dal neokantismo di Marburg, dedicò un’attenzione particolare alle dinamiche totalizzanti della creazione intellettuale, suggerendo di considerare la stessa scienza come un’opera d’arte. In qualità di critico letterario, Sérgio si rifiuta di operare la classica distinzione fra “critici” e “creatori”, quasi che i primi fossero subordinati al lavoro dei secondi, costretti a riflettere e ad uniformarsi ad un costrutto estetico già integralmente dato. L’autentico critico è perciò un vero creatore: partorisce idee e forma dottrine letterarie,

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e non può essere affatto ricondotto ad un ruolo subalterno nel panorama culturale. Ogni atto dello spirito umano è allora un evento creatore; a cambiare è soltanto la materia su cui si esercita il processo creativo. In un volume dedicato al pensiero portoghese e brasiliano, non poteva naturalmente mancare un ampio spazio dedicato alla figura di Fernando Pessoa (1888-1935). Ribeiro dos Santos si concentra, in modo particolare, sul corpus poetico di Alberto Caeiro. Nella drammaturgia pessoana, Caeiro incarna il poeta bucolico: in controtendenza rispetto ad una tradizione metafisica che ha sacrificato la concretezza della natura sull’altare di una spiegazione onnicomprensiva del mondo rivelatasi astratta, incapace di coglierne la semplice e nuda concretezza, l’eteronimo del poeta portoghese ama definirsi come «l’unico poeta della natura». D’altra parte, è lo stesso Caeiro a presentarsi come il modello dell’anti-filosofo: «Io non ho filosofia, ho sensi…». Ora, senza discutere le aporie connesse all’eteronimo pessoano, possiamo limitarci a richiamare i tratti fondanti la visione del mondo di Caeiro: incontriamo così una radicale attenzione per la dimensione senziente, in contrapposizione ad ogni idealismo disincarnato; la pretesa di percepire gli elementi della natura nella loro intrinseca nudità, lontani da ogni sovrastruttura storica; un sostanziale e ingenuo nominalismo, diretto rifiuto di ogni archetipo universale. Caeiro decide, con piena consapevolezza, di abbandonare le costruzioni storiche e ideali alla disperata ricerca di un nuovo reincantamento del mondo, uno spazio in cui le cose possano finalmente darsi a vedere per ciò che sono, nella loro immediatezza percettiva. Con Alberto Caeiro, Pessoa delinea una filosofia della natura affermata al modo della teologia apofatica. Nella sostanza, il tentativo è quello di costruire un’esperienza diretta dell’universo raggiunta grazie a progressive sottrazioni, una natura

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interpretata come un dato – assoluto e immediato – che può essere colto solo facendo astrazione dai presupposti che accompagnano l’indagine filosofica. Nella vastità del materiale affrontato, Leonel Ribeiro dos Santos non ha cercato di imporre al lettore un’ermeneutica univoca ed escludente, suggerendo un nucleo concettuale a sostegno dell’intera tradizione portoghese e brasiliana – compito impossibile, o destinato a rivelarsi, quantomeno, sempre parziale. Attento alla dispersione e ricchezza delle testimonianze affrontante, e non ad un quadro comune in cui sacrificare le specificità dei singoli autori, l’autore ha consegnato a chi legge il compito di andare alla ricerca di possibili legami e analogie, assonanze e corrispondenze, senza precludere alcun percorso. Si potrà allora ripensare a questa tradizione soffermandosi sul ruolo fondante attribuito all’esperienza estetica come via di accesso all’originario, sull’importanza di una letteratura filosofica attenta a scorgere nella natura una verità nascosta dalla prepotenza della ragione metafisica, o sulla radice melanconica e apocalittica del pensiero lusitano. Ciò che non è possibile fare, invece, è continuare ad ignorare una tradizione culturale che ha contribuito in modo decisivo a formare il canone intellettuale dell’occidente, dandolo a conoscere a gran parte del mondo.

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Prefazione all’edizione italiana di Leonel Ribeiro dos Santos

I saggi riuniti in questo volume hanno rappresentato altrettante tappe di un personale percorso di scoperta di alcune figure della storia letteraria portoghese e (seppur in misura minore) brasiliana, le cui opere sono lette in questa sede non soltanto come monumenti letterari, ma anche, e soprattutto, come importanti testimonianze di una riflessione speculativa e come proposte di un pensiero e di una visione del mondo. A dispetto di ciò che sembra suggerire il titolo, ripreso dal primo dei saggi del presente volume, non si vuole proporre qui un’interpretazione globale del pensiero portoghese, e ancor meno di quello brasiliano, quasi oscillassero, in particolare il primo, tra la meditazione melanconica e gli slanci di sogni messianici o di soluzioni apocalittiche. Questi saggi, infatti, sono autonomi e non intendono comprovare alcuna tesi comune. Si è cercato invece di prestare ascolto a quanto ancora hanno da dire i pensatori analizzati, perscrutando lo spirito che anima la lettera dei loro testi, collocandoli all’interno dei contesti in cui hanno fatto sentire le proprie ragioni, e lasciando che fossero loro stessi a presentarle, senza imporre un catalogo di domande o obbligandoli ad un qualche protocollo di maniera.

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Ad ogni modo, sebbene non vi sia una tesi comune che attraversi questi dodici saggi, è comunque possibile seguire, attraverso ognuno di essi, i contorni dell’idea di un progetto messianico, o di una trascendenza culturale di matrice lusitana, in António Viera, in Fernando Pessoa, in Aarão de Lacerda, in Teixeira de Pascoaes e in Agostinho da Silva, e in alcuni (in particolare in Vieira e in Agostinho) nel contesto di una meditazione sopra il senso complessivo della storia umana. Cinque capitoli si occupano espressamente del pensiero estetico degli autori studiati, un dominio in cui essi hanno fatto registrare le loro più profonde riflessioni, portando alla luce il cuore della propria visione del mondo. In quasi tutti i saggi di questo volume ci si occupa, direttamente o in modo indiretto, del problema delle relazioni tra filosofia e letteratura, tra letteratura e filosofia, o fra filosofia e poesia, un tema centrale di cui ci siamo occupati anche in altri lavori precedenti, ma che è particolarmente interessante nell’ambito del pensiero portoghese, una riflessione che si è espressa svariate volte in generi letterari non convenzionali, almeno in rapporto ai generi e alle norme canoniche di esposizione del pensiero filosofico. Due di questi saggi affrontano inoltre le modalità di ricezione e appropriazione del pensiero europeo nella cultura brasiliana e portoghese del XIX secolo (Gonçalves de Magalhães e Antero de Quental). Comune è anche la prospettiva che presiede alla scrittura di questi saggi. A dispetto di una frequente tendenza a considerare gli autori analizzati nel contesto dei loro rispettivi paesi di origine, qui si propone un approccio che proietta la loro opera non soltanto in un orizzonte meramente nazionale (portoghese o brasiliano), ma in un contesto legato ai dibattiti europei o mondiali delle rispettive epoche. L’elenco offerto, tuttavia, non costituisce un’introduzione esaustiva del pensiero portoghese e brasiliano, e il sottotitolo del volume potrebbe quindi apparire, a ragione, inadeguato. Si tratta, in realtà, di una presentazione aleatoria. In alcuni

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casi, non siamo stati neppure noi, direttamente, a scegliere gli argomenti trattati, ma sono state le circostanze che hanno condotto questi pensatori o le loro opere alla nostra attenzione. L’esposizione è ancora più esigua per ciò che riguarda il pensiero brasiliano. Al tempo stesso, ad eccezione dei due saggi dedicati al seicentista António Vieira, tutti gli altri sono incentrati su pensatori e scrittori del XIX e XX secolo. Per quale ragione allora un tale sottotitolo? Perché alcuni dei pensatori possano essere senza alcun dubbio considerati veramente luso-brasiliani, come è il caso di Vieira, che trascorse 56 anni della sua vita in Brasile, e solo la metà di essi in Portogallo, o dello stesso Agostinho da Silva, che passò in Brasile la parte più istituzionalmente attiva e intellettualmente produttiva della sua vita. I pensatori cui ci siamo dedicati sono soltanto un gruppo ristretto. Pensiamo, però, che tale campione possa essere comunque un esempio espressivo, seppur non adeguatamente rappresentativo, di una certa maniera di pensare, nata e sviluppata, nella maggior parte dei casi, ai margini delle istituzioni accademiche. Una simile considerazione, anziché squalificare questa forma di pensiero, dovrebbe servire, innanzitutto, per valorizzare l’espressione più genuina di una cultura che non è quella della scuola, ma della vita.

Ringraziamo il carissimo Dott. Alfredo Gatto, che ha assunto l’iniziativa di tradurre questo volume in italiano, impegnandosi con grande entusiasmo e competenza, trovando inoltre un editore per il presente lavoro. È un onore che mai avremmo immaginato di meritare con questo libro. Ma l’onore svanisce sotto il peso enorme della responsabilità, perché conosciamo bene l’interesse, la conoscenza e l’apprezzamento che gli intellettuali italiani nutrono, già da molto tempo, per la cultura portoghese e per gli autori trattati in questo volume.

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Melanconia e apocalisse: l’esperienza del tempo e la concezione della storia in António Vieira

1. Vieira e la crisi della coscienza storica del Barocco Chi si confronta con l’opera di Padre António Vieira1, cercando di trovare in essa le linee di una coerente visione del mondo, 1. António Vieira nacque a Lisbona il 6 febbraio del 1608. Nel 1614, all’età di sei anni, partì per Bahia (Brasile), dove frequentò il Collegio dei Gesuiti, unendosi alla Compagnia di Gesù. Nel 1641 fu inviato in Portogallo con il figlio del Vice-Re del Brasile per presentare l’adesione della colonia al nuovo Re Giovanni IV, acclamato in seguito alla Restaurazione dell’Indipendenza del Portogallo dalla Spagna. Tra il 1646 e il 1650 fu inviato dal nuovo Re in varie missioni diplomatiche in Olanda, Francia e Italia. Nel 1651, partì per il Maranhão (Brasile) come missionario, impegnandosi nella difesa degli indio contro i coloni. Nel 1654 si recò in Portogallo per ottenere dal Re la protezione degli indio, riuscendo nel proprio intento con la Lei da liberdade dos índios. Nell’anno successivo morirà Giovanni IV, suo protettore, e il principe ereditario, Teodosio, morirà poco dopo, nel 1659. Luisa de Guzmán assunse la reggenza. Fu in questo periodo che Vieira scrisse, sotto forma di lettera ad André Fernandes, nominato vescovo del Giappone, l’opuscolo Esperanças de Portugal e Quinto Império do Mundo, che svolgerà un ruolo determinante nel processo che negli anni seguenti il tribunale dell’Inquisizione di Coimbra condurrà contro di lui. Nel 1661, dopo la rivolta dei coloni del Pará contro i Gesuiti, Vieira ritornò a Lisbona sperando di ottenere l’appoggio della Regina. Tuttavia, l’anno seguente una rivolta di palazzo sottrasse la reggenza a Luisa de Guzmán e consegnò il trono

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vede frustato, almeno inizialmente, il proprio intento. Nelad Alfonso. Vieira, perduto ogni appoggio, si diresse a Porto. Ma nell’anno successivo fu trasferito a Coimbra, dove ebbe inizio il processo inquisitorio che si protrarrà fino al 1668. Gli furono confiscati tutti i suoi documenti e appunti, ed egli scrisse la sua difesa solamente con l’ausilio della Bibbia e del Breviario. L’oggetto dell’accusa è il pensiero millenarista (l’idea del Quinto Impero e gli ingredienti connessi: peculiare interpretazione delle profezie bibliche, nazionalismo messianico, resurrezione di Giovanni IV, riconoscimento delle profezie di Bandarra). Considerato colpevole, oltre a non poter pregare e occuparsi dei temi condannati, Vieira venne rinchiuso in una casa della Compagnia, spostandosi da Coimbra a Lisbona. Nel 1669 riuscì a partire per Roma, con l’intento di richiedere la revoca papale della condanna inflitta. Venne ben accolto, e nel 1672 fu nominato predicatore dell’ex-regina Cristina di Svezia. Nell’aprile del 1675 ottenne dal Papa il Breve che lo esentava dalla giurisdizione dell’Inquisizione portoghese e dalla condanna inflittagli, e nel maggio dello stesso anno ritornò a Lisbona (Carcavelos), dove fu ricevuto con freddezza. Nel 1680, il Generale dei Gesuiti gli propose di ritornare a Roma in qualità di confessore e predicatore di Cristina di Svezia, ma Vieira rifiutò la proposta, invocando ragioni di salute ed età, decidendo di fare ritorno in Brasile, a Bahia. Lavorò così intensamente alla preparazione della pubblicazione dei suoi Sermoni e alla redazione della Clavis Prophetarum sive de regno Christi in terris consummato, una grandiosa summa del suo pensiero teologico millenarista (di cui esistono vari manoscritti parzialmente differenti, che solo molto di recente sono editati, tradotti e studiati). Nel 1688 fu nominato Visitatore Generale del Brasile. Nel 1694, tuttavia, sorsero nuovi conflitti con i coloni, sempre a causa della questione degli indio, visto che Vieira si opponeva fermamente alla loro schiavitù. Gli venne in seguito impedito dalla Compagnia Provinciale di Bahia di esercitare le proprie funzioni in qualità di membro della Congregazione, per la cui revoca sollecitò Roma, ma senza successo: giungerà infatti troppo tardi, alcuni giorni dopo la sua morte a Bahia, il 18 luglio del 1697. Le opere di Vieira e le rispettive edizioni saranno indicate nei due capitoli che gli sono dedicati in questo volume. C’è un’edizione recente della Obra Completa (che contiene molti inediti), patrocinata dall’Università di Lisbona e dalla Provincia Portoghese della Compagnia di Gesù (curata da un’equipe internazionale di specialisti, coordinata dai professori Pedro Calafate e José Eduardo Franco), e l’edizione dei Sermões (ancora in corso), patrocinata dall’Università Cattolica Portoghese. Della Clavis Prophetarum – al di là dell’edizione critica e traduzione portoghese del libro III di Arnaldo do Espírito Santo, citata in questo saggio e in quello successivo (Clavis

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la sua monumentale estensione, nella sua prodiga varietà di generi (sermoni, lettere, scritti utopico-messianici, apologie, progetti politici), sembra regnare, se non una contraddizione, almeno un gusto per l’antinomia ed il paradosso che non si lascia facilmente ridurre, nella sua labirintica complessità, ad un insieme economico di tesi. Ciò, tuttavia, non deve impedirci di tentare di comprendere la visione del mondo che anima e lega i vari aspetti dell’opera del gesuita portoghese e che, in qualche modo, sta al di là di questa stessa opera, giacché in essa si parla di un mondo e di un’epoca che non possono essere ridotti ad una autobiografia fisica, morale o intellettuale del suo autore. Essendo il documento personale di una vita intensa e variamente vissuta, l’opera letteraria di Vieira rappresenta innan-

Prophetarum / Chave dos Profetas: Biblioteca Nacional de Lisboa, Lisboa 2008) –, ci sono due pubblicazioni molto recenti: l’edizione di uno dei manoscritti latini originali – La Clavis Prophetarum di Antonio Vieira. Storia, documentazione e ricostruzione del testo sulla base del ms. 706 della Biblioteca Casanatense di Roma, a c. di S. Peloso, Sette Città, Viterbo 2009; e una traduzione portoghese (del manoscritto 706 della Casanatense confrontato con il manoscritto 359 della Gregoriana) a cura di António Guimarães Pinto, con la Prefazione di João Hansen e l’Introduzione di Pedro Calafate: Padre António Vieira, A Chave dos Profetas, Círculo de Leitores, Lisboa 2013 (rispettivamente, Voll. V e VI del Tomo III della Obra Completa). Al di là degli studi sulla riflessione vieirina che saranno citati nei due primi capitoli, si veda: S. Peloso, António Vieira e l’Inquisizione: il “Quinto Impero” e il problema della continuità dell’Impero Romano, in AA.VV., Quinto Impero. Attualità del Pensiero di Antonio Vieira S. J., Sassari-Roma 2000, pp. 139149; Id., António Vieira e o Império Universal: A história sob o signo da profecia, “Rivista di Studi Portoghesi e Brasiliani”, Pisa-Roma 2003, pp. 95104; AA.VV., Antonio Vieira. Celebrazioni per il IV Centenario della nascita (1600-2008). Studi, Contributi e Documenti, a c. di S. Peloso, Sette Città, Viterbo 2012; S. Peloso, Antonio Vieira e l’impero universale. La Clavis Prophetarum e i documenti inquisitoriali, Sette Città, Viterbo 2005; M. Ana T. Valdez, Historical Interpretations of the “Fifth Empire”: The Dinamics of Periodization from Daniel to Antonio Vieira, S.J., Brill, Leiden 2010.

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zitutto la testimonianza privilegiata per fare la diagnosi di una particolare epoca della storia moderna, chiamata “epoca barocca” o epoca del Barocco. Il carattere eminentemente barocco dell’opera di Vieira è stato tradizionalmente evidenziato, ma quasi esclusivamente in rapporto alla sua forma, al suo stile e ai suoi aspetti retorici2. Quello che vorremmo suggerire è che tale opera è interessante anche per la sostanza e il contenuto del suo pensiero. Nella sua labirintica espressione, essa ci può garantire l’accesso ad alcuni aspetti essenziali della visione barocca del mondo, in modo particolare per ciò che riguarda la congiunzione della concezione antropologica con la concezione della storia e della politica. Per fortuna, non è più necessario insistere sul fatto che il Barocco non rappresentò soltanto un fenomeno estetico del gusto, ma una peculiare visione del mondo, con una propria espressione letteraria e artistica, ma anche sociologica e politica, filosofica e teologica3. Ci proponiamo qui, in primo luogo, di identificare le tensioni profonde che percorrono l’opera del grande gesuita, per poi

2. Per una caratterizzazione del barocco di Vieira, cfr. M. V. Mendes, A Oratória Barroca de Vieira, Editorial Caminho, Lisboa 1989. Cfr. inoltre E. Lourenço, Vieira ou du temps baroque, in Padre Antonio Vieira, La mission d’Ibiapaba. Le Père Antonio Vieira & le Droit des Indiens, étude, traduction et notes par J. Viegas, Chandeigne-Libraire Portugaise, Paris 1998, pp. 7-19; P. Calafate, Expressões da temporalidade em António Vieira, in M. V. Mendes – M. L. G. Pires – J. D. C. Miranda (org.), Vieira Escritor, Edições Cosmos, Lisboa 1997, pp. 189-201. 3. Il processo di riconoscimento dell’identità culturale e mentale del Barocco rimane aperto, suscitando letture massimaliste e minimaliste, che vanno da un’adesione appassionata alla categoria, alla luce della sua virtualità euristica ed ermeneutica, ad un suo completo rifiuto. Non essendo questo il luogo per sviluppare tale querelle, utilizzeremo la categoria nel suo significato più ampio, sviluppato a partire dai lavori di Wölfflin, Eugenio d’Ors, Severo Sarduy, José Antonio Maravall e tanti altri. Per uno sguardo generale sulla situazione della discussione teorica, cfr. L. Anceschi, L’idea del Barocco. Studi su un problema estetico, Nuova Alfa Editoriale, Bologna 1984.

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interpretarle come i sintomi di un’epoca caratterizzata dall’instabilità, dalla crisi, dalla contraddizione e, al tempo stesso, dallo sforzo per equilibrare la disarmonia del mondo in una prospettiva che gli fornisca un senso o una soluzione. Il grande predicatore e missionario aveva una buona ragione per scrivere, già in occasione della sua lunga e vissuta esistenza, in una lettera del 24 luglio 1691: «Sembra che Dio mi salvi per testimoniare la varietà del mondo in questo secolo, dopo averne visto e percorso una lunga parte4». E cosa poteva vedere chi, nel tempo di Vieira, contemplasse con occhi bene aperti il vasto “teatro del mondo”? Avrebbe visto sicuramente una mappa “smisurata”, una “mappa universale delle miserie” di un mondo “sconcertato” che era mutato profondamente e in molti dei suoi aspetti. Identifichiamone alcuni. In un mondo che, dopo il viaggio di circumnavigazione di Magellano (1521) e la scoperta del continente australe (1616), si offriva finalmente completo in tutte le sue parti geografiche conosciute, l’opera di Vieira esprimeva già l’urto di quel fenomeno moderno che oggi chiameremmo “mondializzazione”, un mondo ogni volta più aperto, allargato e disperso che aveva perso il suo centro geografico, politico e spirituale. Vieira aveva veramente una visione sub specie orbis; da qui il suo sforzo per trovare un nuovo centro di riferimento di portata mondiale: forse a causa dell’eccezionale e pionieristico ruolo che aveva avuto in quel processo di dare nuovi mondi al mondo e di porre questi stessi mondi in comunicazione, il Portogallo gli apparve la nazione più indicata per svolgere quella funzione, vista non solo la sua antichità ma anche l’estensione della sua diffusione. Per tale ragione,

4. A. Vieira, Cartas, coordenadas e anotadas por J. L. de Azevedo, INCM, Lisboa 1971, Vol. III, p. 627.

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infatti, si poteva parlare allora di un Impero – fosse spirituale o temporale – che si estendeva realmente a tutto il mondo. In questo nuovo palco di dimensioni veramente mondiali, lo spettacolo che si offriva era caratterizzato dalla rottura e dalla guerra. All’unità e all’identità europee, garantite fino a quel momento, almeno sul piano simbolico, dall’idea di un Impero o di una “respublica christiana” – di una Cristianità unita sul piano politico-culturale e religioso –, subentrarono le lotte dei vari stati europei per l’autonomia e l’egemonia. Nel caso del Portogallo, c’erano ancora le guerre per la consolidazione della sua indipendenza nei confronti della Spagna e lo sforzo per resistere alla voracità delle nuove potenze marittime che minacciavano le conquiste portoghesi nell’Oriente e nel Brasile. All’interno di tale contesto, c’era chi sognava la restaurazione della perduta unità politica e spirituale grazie all’instaurazione definitiva di un effettivo Impero (spirituale e temporale) di Cristo nel mondo. Vieira era uno di questi, ed uno dei più appassionati. In un orizzonte più vasto, si giocava la grande opposizione politica, culturale e religiosa – oggi la chiameremmo la bipolarizzazione o il confronto fra civiltà – tra il mondo cristiano, da un lato, esso stesso profondamente diviso al suo interno da contrasti teologici e soprattutto da interessi politici e, dall’altro, il mondo islamico, incarnato dall’Impero turco, che, in particolare dopo la presa di Costantinopoli (1453), e a dispetto della sconfitta di Lepanto (1571), minacciava continuamente i domini della cristianità con conquiste e incursioni a nord e a ovest, arrivando fino alle coste dell’Italia e facendo affiorare in alcuni spiriti l’ideale medievale della crociata contro l’infedele. Negli anni della sua permanenza a Roma, Vieira fu un testimone molto prossimo di questa minaccia, che seguiva con grande preoccupazione, dando conto di essa nelle sue lettere e riferendo che «le trombe ottomane si sentono quasi dentro

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i muri di Roma, e già si scorgono dall’Italia le mezze lune turche battere alle porte». Tornato in Portogallo, a Carcavelos, e in seguito a Baía, continuerà a seguire la minaccia turca alla cristianità con una preoccupazione ancora maggiore5, ma vedendo al tempo stesso in tali avvenimenti il segnale inequivoco dell’imminenza della grande catastrofe finale dalla quale sarebbe nato un nuovo ordine del mondo. Sulla base delle profezie di Bandarra, Vieira credeva che la realizzazione di un simile evento non fosse riservata al re della Polonia o a un qualsiasi altro re cristiano, ma precisamente al re messianico del Portogallo, che avrebbe realizzato «il definitivo trionfo e la totale distruzione dell’Impero Ottomano»6, cosa che costituiva uno degli aspetti della concretizzazione della sua idea millenarista del Quinto Impero. A tutto ciò si deve aggiungere la scissione religiosa, in primo luogo fra gli stessi cristiani (cattolici e riformati), ma anche fra i cristiani e gli ebrei, e, nel caso portoghese, tra cristiani-

5. Lettera a Duarte Ribeiro de Macedo (Roma, 12 giugno 1677), in A. Vieira, Cartas, Vol. III (1971), pp. 240-241. 6. Lettera a Diogo Marchão Temudo (Baía, 8 agosto 1684), in A. Vieira, Cartas, Vol. III (1971), p. 525; cfr. inoltre la lettera a Duarte Ribeiro de Macedo (Lisbona, 26 giugno 1678), in Id., Cartas, Vol. III, pp. 307-308, e la lettera del 14 marzo 1673 inviata da Roma al medesimo Ribeiro de Macedo, in Id., Cartas, Vol. II (1971), p. 565. Riferendosi ai grandi preparativi turchi per l’invasione di un’Italia disunita e indifesa, Vieira evoca le profezie di Bandarra per l’anno 1673, e sostiene che molti segnali provano che «le disposizioni del mondo sono aperte a grandi novità». L’idea è ricorrente nella corrispondenza di Vieira nel corso del 1673: il gesuita è convinto «che il teatro del mondo sia pronto per quest’anno ad assistere a grandi cose» (lettera a Duarte Ribeiro de Macedo, Roma, 30 maggio 1673, in Id., Cartas, Vol. II, p. 588); e che si stiano «ponendo quest’anno le basi per una monarchia universale» (lettera al marchese di Gouveia, Roma, 3 giugno 1673, in Id., Cartas, Vol. II, p. 590); si vedano inoltre le lettere del 16 aprile 1672 a Duarte Ribeiro de Macedo e del 23 aprile 1672 al marchese di Gouveia, in Id., Cartas, Vol. II, pp. 430-431.

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vecchi e cristiani-nuovi (gli Ebrei convertiti). Vieira non fu l’unico, ma fu uno di quelli che nella sua epoca più intensamente sognarono una nuova era nella quale le grandi religioni si incontrassero sotto una nuova forma e a partire da una trasformazione dei loro stessi principi. Solamente l’Islam sembrava essere escluso da questo programma di riconciliazione7. Il periodo era ancora caratterizzato dal confronto fra differenti culture e forme di umanità. Da un lato, i popoli europei, con la buona coscienza di se stessi, alimentata dalla millenaria esperienza e frutto della fusione di varie matrici culturali; dall’altro, gli abitanti dei nuovi mondi scoperti dagli europei nelle loro più recenti navigazioni marittime, non soltanto gli inverosimili antipodi, ma anche i popoli dell’America e le loro rispettive culture, ed in particolare gli indio del Brasile, per i quali il mondo antico e medievale non aveva delle categorie antropologiche, giuridiche, assiologiche o teologiche. Vieira è in profonda sintonia con questo suo tempo e mondo così marcati dal sentimento della crisi, della frattura, della scissione. La sua opera e il suo pensiero, come la sua stessa personalità, ne forniscono un’inequivocabile testimonianza. Ci troviamo al cospetto di una tensione tra il realismo tipicamente moderno della “ragione di Stato”, a cui si associa un acuto senso di pragmatismo politico (una sensibilità che portava il gesuita a proporre, ad esempio, audaci ma lucide soluzioni politico-economiche e amministrative per risolvere i problemi della nazione appena restaurata, ma molto indebolita, e perciò vulnerabile in tutti i suoi domini: come il ritorno degli Ebrei espulsi e il conseguente afflusso dei loro capitali e talen7. Si veda, tuttavia, la sua dichiarazione al Consiglio Generale dell’Inquisizione: «Non mi sono dimenticato neppure dei Turchi (gli unici ad essere considerati ancora i nemici della Fede), volendo almeno sottrarre loro i rinnegati e quelli che rischiavano di diventarlo», in A. Vieira, Obras Escolhidas, prefácio e notas de A. Sérgio e H. Cidade, Sá da Costa, Lisboa 1952, Vol. VI, p. 172.

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ti, l’industria per stimolare lo sviluppo del paese o i progetti di riforma dell’amministrazione delle capitanias del Brasile), e l’esacerbato idealismo di cui danno prova i suoi progetti millenaristi e messianici e il neocruzadismo di natura medievale, che fece di lui uno dei più ispirati profeti seicentisti del Quinto Impero. Una tensione, infine, tra il nazionalismo e l’universalismo. Vieira fu il più esaltato patriota e al tempo stesso il più acuto e severo critico del carattere e dei costumi dei portoghesi; il più lucido quanto all’effettiva condizione precaria del regno restaurato del Portogallo, dal punto di vista economico, politico e militare, e tuttavia entusiasta, anche contro tutte le evidenze e tutte le smentite fattuali, della prossima instaurazione dell’impero mondiale teocratico cristiano sotto lo scettro del resuscitato re del Portogallo. La Storia del Futuro sarà dunque una storia del Portogallo, ma di un Portogallo nella sua vocazione messianica di portata mondiale: «Il Portogallo sarà il soggetto, il Portogallo sarà il centro, il Portogallo sarà il teatro, il Portogallo il principio e la fine di queste meraviglie e i portoghesi ne saranno gli strumenti prodigiosi8». È proprio questa tensione tra il nazionalismo messianico e il millenarismo universalista che vorremmo esplicitare in questo saggio, mostrando come, nonostante l’originalità della visione vieirina, essa riveli in se stessa affinità essenziali con la visione del mondo di altri pensatori europei dell’epoca barocca. Anche nei suoi aspetti più estranei e apparentemente arcaici – il nazionalismo messianico, l’utopia millenarista, l’idea di un Quinto Impero –, Vieira non è un caso isolato. Non lo è nello spazio della cultura portoghese e iberica, barocca e cattolica; e non lo è neppure in un contesto europeo più vasto, che va

8. A. Vieira, Livro Anteprimeiro da História do Futuro, ed. J. Van den Besselaar, Biblioteca Nacional, Lisboa 1983, p. 30; trad. it., Per la storia del futuro, a c. di D. Bigalli, postfazione di P. Rossi, L’Eubage, Aosta 2002, p. 52.

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dalla Francia alla Boemia, dall’Italia cattolica alla puritana Inghilterra.

2. Uno sguardo eracliteo sulla storia umana Nell’immensa produzione letteraria di Vieira si trova un aspetto singolare, curioso sia per la circostanza in cui fu prodotto, sia per il genere e il tema. Si tratta di un discorso in italiano proferito a Roma il 6 dicembre del 1674 nell’Accademia Reale, fondata accanto alla corte della regina Cristina di Svezia, che risiedeva lì dopo aver abdicato al trono svedese per essersi convertita al cattolicesimo9. Nella forma di un gioco o di un esercizio retorico, due oratori difendono, intorno allo stesso argomento, due tesi reciprocamente contrarie, procedimento che ben rispecchia il gusto per le antinomie dell’epoca barocca. Il tema di questo dibattito era un topos classico10 e consi9. Il discorso italiano di Vieira – Le lacrime di Eraclito – fu tradotto in portoghese probabilmente dal conte di Ericeira ed inserito nel Vol. XIV dei Sermões, nell’edizione di Lisbona (1710). Il discorso di Vieira è stato incluso nel Vol. VII delle Obras Escolhidas (salvo differenti indicazioni, questo è il testo cui fare riferimento per le nostre citazioni). Esiste un’edizione recente del testo originale e della traduzione dell’epoca a cura di Sonia N. Salomão: cfr. A. Vieira, As Lágrimas de Heráclito, fixação dos textos, introdução e notas de S. N. Salomão, Editora 34, São Paulo 2001. 10. Un tale topos appare già come tipica contrapposizione nei trattati morali di Seneca, vale a dire nel De ira (II, 10.5) e nel De tranquilitate animi (XV, 2-3). La preferenza del filosofo romano va all’attitudine testimoniata da Democrito: «Democritum potius imitemur quam Heraclitum: hic enim, quotiens in publicum processerat, flebat, ille ridebat; huic omnia quae agimus miseriae, illi ineptiae videbantur. Elevanda ergo omnia et facili animo ferenda: humanius est deridere uitam quam deplorare», De tranquilitate animi, XV, 2, in L. A. Seneca, Philosophische Schriften, Latein-Deutsch, WBG, Darmstadt 1999, Bd. 2, p. 162. L’identificazione dei due filosofi antichi – Democrito ed Eraclito – come esempi di due differenti tipi di melan-

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steva nel decidere quale dei due filosofi antichi avesse ragione, se Democrito, che di tutto rideva, o Eraclito, che piangeva. Per scelta della caparbia regina, al gesuita portoghese toccò la difesa delle lacrime di Eraclito, mentre dell’apologia del riso di Democrito si occupò padre Girolamo Cattaneo, anch’egli gesuita. La sostanza del discorso di Vieira si riassume giustificando il pianto del filosofo di Efeso dalle prove tratte dallo sconcerto generale del mondo e dall’ampia gamma di miserie e disgrazie che si offre agli occhi di chi è realmente capace di vedere ciò che gli accade intorno. Scrive Vieira: «Che altro è questo mondo che una mappa universale di miserie, di travagli, di pericoli, di disgrazie e di mortalità? E a vista d’un teatro immenso, così tragico, così funesto, ove ogni regno, ogni città ed ogni cosa muta continuamente la scena, ove ogni sole che nasce è una funesta cometa, ogni giorno che passa una fatalità, ogni ora, ogni momento si trae dietro a migliaia le disgrazie, qual uomo ci avrà mai, se veramente egli è uomo, che non pianga?11».

conia era stata avanzata dall’umanista e teologo riformato Filippo Melantone nel suo De Anima (in Corpus Reformatorum, ed. K. G. Bretschneider, Halis Saxonum 1842, Vol. XIII, coll. 83 ss). Il topos era diffuso anche nella letteratura barocca iberica, come si può vedere dai titoli seguenti: Francisco Quevedo, Heraclito Cristiano (1613), Antonio L. da Veiga, Heraclito e Democrito (1641), Nuno Barreto Fuseiro, Pratica entre Heraclito e Democrito (1693). Anche Robert Burton, nella sua opera The Anatomy of Melancholy (1621), glossa il medesimo argomento, dedicando la prefazione dell’opera a un «Democritus Junior». A questo proposito, cfr. J. Van den Besselaar, «Reminiscências clássicas no opúsculo Lágrimas de Heráclito do Padre António Vieira», in Van Goor Zonen (ed.), Homenaje, Estudios de Filología e História Literaria..., La Haya 1966, pp. 117-135. 11. Il testo italiano è tratto da A. Vieira, As Lágrimas de Heráclito (2001), p. 108; per la traduzione portoghese, cfr. invece A. Vieira, Obras Escolhidas, Vol. VII (1953), p. 130.

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Il motto si ripete lungo tutto il discorso, quasi fosse un coro che conclude ogni tappa dell’argomentazione: «Chi veramente conosce [il mondo], necessariamente ha da piangere; e chi ride e non piange non lo conosce […] Che speranza, o che luogo ritrovar può in questo mondo il riso se tutto il mondo piange ed insegna a piangere?12». In modo sorprendente, tuttavia, Vieira, che aveva assunto la difesa di Eraclito e del suo pianto contro il riso del padre degli atomisti, con un’abilità di ingegno tipicamente barocca – senza dubbio applicando quel principio esposto dal suo confratello Baltasar Gracián, secondo cui «tutto è il contrario di ciò che appare»13 –, finisce per annullare l’antinomia fra i due filosofi, mostrando che anche il riso di Democrito è un pianto, seppur sotto la forma dell’ironia. E così conclude: «Il fine d’amendue filosofanti era (come eralo di fatti) il manifestare agli uomini lo sconcerto del loro stato, persuadendo loro l’errore dei lor giudizi, lo sconcerto dei lor desideri e la vanità delle loro fatighe14». Questa conclusione è ugualmente confermata dai dati della filosofia naturale e dalla teologia. Vieira commenta la tesi di Plinio secondo cui la natura in se stessa, non diversamente dagli uomini, non farebbe altro che piangere15: «Nasce l’uomo, dice Plinio, piangendo e senz’altra colpa che l’essere nato; resta condannato a perpetuo pianto. Comincia nell’uomo nel punto stesso la vita e il pianto, acciocché chi entra in questo mondo sappia che viene a piangere. Il di più l’apprenderà di poi, perché è dottrina. Il pianto nasce già appreso, perché è natura: Non aliud est Naturae sponte, quam flere. Questa è la senten12. Ivi, p. 108 e p. 138. 13. Baltasar Gracián, El Criticón, III, IV. 14. A. Vieira, As Lágrimas de Heráclito (2001), p. 128. 15. Plinio, Nat. Hist., VII, 4.

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za irrefragabile della natura e questa è la natura dell’uomo. Risibile sì, ma nato per piangere, perché, se la prima proprietà del ragionevole è la potenza di ridere, l’esercizio proprio del medesimo e l’uso della ragione è il piangere». Ma subito il giudizio del tribunale della natura e della ragione naturale è confermato dalla verità dell’antropologia teologica: «Se alcuno mi opponga che se l’uomo non ridesse, rimarrebbe oziosa la potenza di ridere contro al fine della natura, a questa istanza non posso rispondergli solamente come filosofo naturale […], rispondendogli ben come filosofo cristiano. Domando: se l’uomo non avesse perduta per la disubbidienza al divino precetto la felicità in cui fu creato, piangerebbe o no? È certo che, conservandosi gli uomini in quello stato, non avrebbero mai pianto e che le lagrime, che oggi giorno si spargano, non si sarebbero allora sparse. Dunque, se nella felicità di quel tempo, senza mancare al fine della natura, sarebbe rimasta oziosa la potenza del piangere; nella miseria di questo tempo rimanga, senza opporsi a questo fine medesimo, oziosa la potenza del ridere16». Anche lasciando da parte la peculiarità del genere letterario e la circostanza in cui fu proferito, il significato di questo discorso non si riduce ad un bellissimo esempio di retorica barocca; lo si potrebbe forse pensare se il sentimento di melanconia e pessimismo, che Vieira traduce e legittima, non fosse effettivamente documentato in molti altri passi dello stesso tono e contenuto, da molte opere e fasi differenti della sua vita. Il grande gesuita, però, non si limita a descrivere i fenomeni come un esperto osservatore del teatro del mondo. In qualità di pensatore, a preoccuparlo è anche e soprattutto la comprensione della ragion d’essere caratteristica delle cose umane e mondane.

16. A. Vieira, As Lágrimas de Heráclito (2001), pp. 144-146.

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Nella ben nota difesa delle sue posizioni censurate dagli inquisitori, per tracciare il suo programma di competenze con cui risponde alle accuse di audacia nel proporre interpretazioni nuove e personali delle profezie bibliche, Vieira riferisce, fra i molti altri aspetti della sua vasta formazione, che, studiando filosofia dall’età di 20 anni, aveva composto nello stesso tempo «una filosofia propria17». Sfortunatamente, non siamo in possesso di questa filosofia, ma è comunque probabile che essa non si limiti a riprodurre, come qualcuno ha già sostenuto18, la filosofia dei suoi maestri, a sua volta fondata nei commentari scolastici dei Conimbricensi alle opere di Aristotele, ma che avesse invece un timbro proprio, dominato da preoccupazioni di tipo antropologico-esistenziale e da una visione morale del mondo, caratterizzata dalla fusione di motivi di ispirazione stoica con elementi di natura cristiana. In uno dei suoi sermoni – quello della Prima Domenica dell’Avvento –, troviamo infatti una lunga meditazione di stampo personale (seppur generosamente legata alle autorità della storia del pensiero filosofico e teologico) sulla transitorietà della vita e sull’inconsistenza delle cose umane, cui si ricollega tutta una filosofia di carattere eracliteo che si potrebbe riassumere nella tesi: nulla è, tutto scorre. Vieira incomincia la sua riflessione evocando l’argomento dello spettacolo della grande processione romana, un motivo tratto probabilmente dagli scritti di Seneca, che gli fornisce un’ampia allegoria della condizione umana, caratterizzata dalla transitorietà e dalla finitudine: «La più grande ostentazione di grandezza e maestà che si vide in questo Mondo fu lo sfarzo e la magnificenza dei trionfi romani. Entravano per una del17. A. Vieira, Obras Escolhidas, Vol. VI (1952), p. 158. 18. Cfr. A. Banha de Andrade, «Vieira Filósofo», in Id., Contributos para a História da Mentalidade Pedagógica Portuguesa, INCM, Lisboa 1982, pp. 147-160.

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le porte della città, a quel tempo vastissima, incamminandosi lungo il Campidoglio; procedevano i soldati vittoriosi con acclamazioni, seguivano le città vinte, le montagne inaccessibili scalate, i fiumi torrenziali guadati con ponti; le fortezze e le armi dei nemici e le macchine con cui furono espugnate; in un gran numero di carri, i bottini e le ricchezze, e tutto ciò che vi era di raro e ammirevole nelle regioni nuovamente conquistate; dopo tutto questo, una folla di prigionieri, e forse gli stessi re sconfitti; e, infine, in un carro di oro e pietre preziose, tirato da elefanti, tigri e leoni domati, il famoso trionfatore, ascoltando nello spazio quel glorioso e terribile grido: memento te esse mortalem. Mentre questo grande corteo (così chiamato da Seneca) procedeva, c’erano le strade, le piazze, le finestre e le tribune, pensate proprio per questo fine, coperte di infinita gente, tutti ad assistere. E se Diogene allora domandasse quali erano quelli che passavano, se quelli che avevano trionfato, se quelli che stavano osservando, non c’è dubbio che sembrerebbe una domanda degna di riso. Ma ciò che è certo è che tanto quelli del corteo e del trionfo, quanti quelli che dalle finestre e tribune stavano guardando, gli uni e gli altri ugualmente passavano, perché la vita e il tempo non si fermano mai; e andando o rimanendo, camminando o restando, tutti passiamo sempre con uguale velocità19». La meditazione prosegue con lo sviluppo molto personale di un altro argomento, anch’esso di antica provenienza, già ripreso da Erasmo nei suoi Adagia (II, 1, 10: In eadem sumus Navi), glossato da molti scrittori del Rinascimento (si pensi alla Nave dei folli di Sebastian Brandt), e ricorrente anche in scrittori e pensatori di epoca barocca: la comparazione del comune destino dell’esistenza umana con una nave in cui siamo 19. A. Vieira, Sermões, ed. Padre Gonçalo Alves, Lello & Irmão, Porto 1959, Vol. I, pp. 127 e sg. Cfr. anche P. Durão, Séneca nos Sermões de Vieira, “Revista Portuguesa de Filosofia”, XXI (1965), pp. 322-327.

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tutti imbarcati20. Per Vieira, la vita è l’imbarcazione comune, il tempo è il vento che la porta, e le differenze tra gli uomini sono analoghe alle differenti occupazioni e funzioni che spettano ai passeggeri durante il viaggio: «Siamo tutti imbarcati nella stessa nave, che è la vita, e tutti navighiamo con lo stesso vento, che è il tempo. E così come nella nave alcuni governano il timone, altri le vele, gli uni osservano, gli altri dormono, alcuni passeggiano, altri stanno seduti, gli uni cantano, gli altri giocano e mangiano, altri ancora non fanno nulla, e tutti ugualmente camminano verso lo stesso porto, così noi, anche se non ne siamo consapevoli, stiamo impercettibilmente procedendo e avvicinandoci ognuno alla propria fine». Proseguendo nelle sue riflessioni, Vieira ritrova nuovamente il filosofo Eraclito e la celebre tesi secondo cui nessuno può entrare due volte nello stesso fiume. La sentenza del saggio di Efeso è corroborata da un riferimento alla concezione agostiniana del tempo e da citazioni del libro biblico di Giobbe e di Filone di Alessandria, commentatore del Genesi. Scrive Vieira: «Fu detto dal grande filosofo Eraclito, sostenuto e celebrato da Socrate: Non posse quemquam bis in eundem fluvium descendere: che “nessun uomo può entrare due volte nello stesso fiume”. Perché? Perché se entrasse una seconda volta,

20. Un contemporaneo di Vieira, Pascal, condensò con questa metafora la sua meditazione sulla condizione umana: «Nous voguons sur un milieu vaste, toujours incertains et flottants, poussés d’un bout vers l’autre; quelque terme où nous pensions nous attacher et nous affermir, il branle, et nous quitte, et si nous le suivons il échappe à nos prises, nous glisse et fuit d’une fuite éternelle; rien ne s’arrête pour nous», B. Pascal, Pensées, n. 199, in Id., Œuvres complètes, Seuil, Paris 1963, p. 527. Per Pascal, così come per Vieira, tale condizione è caratterizzata dall’incostanza e da un movimento perpetuo («Inconstance…C’est le mouvement perpétuel», B. Pascal, Pensées (1963), n. 55-56, p. 506), dall’incertezza e dall’insicurezza, dal rischio e dal sentimento della scommessa: «Il faut parier; vous êtes embarqués», Id., Pensées (1963), n. 418, p. 550.

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il fiume, che sempre scorre e passa, sarebbe già diverso. Da ciò deduco che accadrebbe lo stesso se non si trattasse di un fiume, ma di un lago o di una vasca, perché anche l’acqua del lago o della vasca scorre e sempre modifica l’uomo, che non permane mai nello stesso stato: Et numquam in eodem statu permanet. Così disse Giobbe, e chi non dicesse la medesima cosa di ogni uomo e di se stesso non si conoscerebbe affatto. Si meraviglia Filone l’Ebreo del fatto che, domandando Dio ad Adamo dove fosse: Adam, ubi es?, egli non rispondesse. Ma subito scusa lo stesso Adamo, e qualsiasi altro uomo cui Dio rivolgesse la stessa domanda; perché come può rispondere dove sta, chi non sta? Se dicesse: “Sto qui” (come sottilmente afferma Sant’Agostino), tra la prima sillaba e la seconda già lo stare non sarebbe lo stesso, e nemmeno il qui sarebbe lo stesso luogo; poiché tutto sta scorrendo, tutto sarebbe cambiato. Per tale ragione lo stesso Filone conclude che, se Adamo dovesse rispondere in modo proprio e veritiero dove si trovava, dovrebbe dire: Nusquam, “in nessuna parte”, perché in nessuna parte si trova ciò che non sta, ma sempre passa: Ad quod proprie respondere poterat, nusquam, eo quod humana res nunquam in eodem statu maneat». La meditazione procede per saturazione di motivi, di metafore e di riferimenti, in una argomentazione molto caratteristica della generosità letteraria ed espressiva del barocco. Ma ogni ragione fornisce alla tesi centrale una sfaccettatura nuova che l’addensa e l’intensifica. È da notare l’amplificazione e la trasformazione che in questo modo riceve la sentenza di Eraclito: il cambiamento non attinge le cose soltanto nelle loro rispettive condizioni esteriori, ma è intima ad esse; il cambiamento non è solo la condizione oggettiva delle cose, ma è anche l’esperienza soggettiva dell’uomo. Non è soltanto il fiume a non essere lo stesso, ma è anche ciò che in esso si bagna che cessa di essere quello che era prima. L’evanescenza, la transizione, la temporalità, la finitudine, costituiscono l’essere

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più intimo delle cose umane e dell’uomo, il cui essere e la cui essenza non sono propriamente l’essere, bensì il passare, il non essere. È interessante verificare come queste riflessioni antropologiche ed esistenziali di Vieira siano in consonanza con quelle di altri pensatori suoi contemporanei che avevano sostituito la metafisica delle sostanze e la fisica degli stati con una metafisica della coscienza del sé evanescente e con la fisica del divenire e del movimento. Vieira traccia una visione della condizione umana che coincide con la fisica e la metafisica dei Moderni. Egli potrebbe perciò sottoscrivere il celebre pensiero di Pascal: «Notre nature est dans le mouvement21». Questa attitudine di pensiero è confermata dalla diagnosi che Vieira traccia della situazione contemporanea del Portogallo, dell’Europa e del Mondo, analizzato in una variegata metaforica della crisi. “Tempesta”, “tragedia”, “naufragio” sono i termini che ricorrono per esprimere una visione pessimista e apocalittica della storia letta nelle profezie antiche e nuove, nei segnali cosmici o negli accadimenti storici più recenti. Possiamo documentare questo aspetto con uno dei molti passi possibili. In una lettera del 29 aprile 1659, riferendosi all’anno fatale 1666, rispetto al quale le profezie di Bandarra annunciavano grandi avvenimenti, Vieira scrive: «È certo e certissimo che non mi inganno; anche per ciò che riguarda il computo del tempo, di cui non possiedo alcuna certezza, penso di non ingannarmi. E se sarà così, che il mondo si prepari per assistere in dieci anni fatali ad una rappresentazione degli eventi ulteriori e più prodigiosi di quelli che ha visto dal suo inizio fino ad oggi22». Vieira fornisce, nella continuazione, un breve riassunto della sua credenza messianica, della quale fanno parte avvenimenti 21. B. Pascal, Pensées (1963), n. 641, p. 588. 22. A. Vieira, Cartas, Vol. I (1970), pp. 522-523.

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politici di ambito nazionale (l’assoggettamento della Castiglia al re risorto del Portogallo), di ambito europeo (la pacificazione dei regni cristiani) e di ambito internazionale (la fine dell’Impero ottomano), senza dimenticare inoltri alcuni eventi religiosi (il ritorno e la riunione delle tribù disperse di Israele e il loro riconoscimento di Cristo come Dio e Signore). E conclude: «Questa è la prodigiosa tragicommedia, a cui Bandarra invita il mondo in questi dieci anni. Ma quelli che vivono sappiano che nella prima scena di questa grande rappresentazione tutto il teatro nuoterà nel sangue, e finirà affogato lo stesso mondo, perché il sangue gli arriverà a coprire la testa». Anche nei segnali cosmici si legge l’identico messaggio, e specialmente in quelli della cui traiettoria eccentrica e della cui anomala apparizione non si riconoscono ancora nell’epoca i segni naturali, come era il caso delle comete, lette perciò come segnali annunciatori di grandi catastrofi. Scrive il gesuita, a proposito di quella cometa che poteva essere osservata dal 27 ottobre al 9 novembre del 1695: «Che comprensione rude e ostinata quella incapace di persuadersi e conoscere chiaramente che un mostro di tale prodigiosa grandezza non fu creato senza alcun fine, e neppure inviato e mostrato casualmente, ma affinché i mortali, entrando dentro se stessi e innalzando il pensiero all’Autore e Governatore dell’Universo, riveriscano il suo potere e temano i suoi giudizi? Per tale ragione e non per curiosità deve nascere il razionale e giusto desiderio che tutti sappiano a chi si rivolge e ciò che dice questa portentosa figura, poiché dobbiamo uscire al teatro del Mondo, quando tutto è così pronto per qualche grande tragedia23».

23. A. Vieira, Obras Escolhidas, Vol. II (1951), p. 2.

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Il tema del naufragio, come ha mostrato Hans Blumenberg24, costituisce uno dei paradigmi della metaforica esistenziale e ha avuto un ampio sviluppo anche nella letteratura barocca. Questo antico motivo metaforico è frequente negli scritti di Vieira, in particolare in riferimento ad un avvenimento imminente ed inevitabile, letto in congiunzione ai vari segnali e profezie. Citiamo soltanto una delle occorrenze, estratta dalla corrispondenza del gesuita: «Dimmi che lo stato presente non promette alcunché, e io dico che la stessa situazione è uno dei maggiori argomenti che vi sia, e di cui siamo in possesso, per affermarlo. Quando gli Ebrei si trovavano prigionieri in Egitto, allora Dio discese dal cespuglio per liberarli dalla cattività; e quando il mondo meno meritava la redenzione, allora fu redento da chi lo aveva creato. La più grande furia della tempesta è il più certo segnale che i marinai aspettano per mutare il vento. Mi consenta questa speranza, o prepariamoci entrambi per un infallibile naufragio25». Coscienza di un tempo di crisi, Vieira fu anche la coscienza critica del suo tempo; in particolare, delle ingiustizie che infuriavano nel regno, della situazione politica, economica e soprattutto morale del paese. Per nobile ed esaltata che fosse la missione storico-messianica che attribuiva al Portogallo, non troviamo in questo appassionato patriota, in particolare nei suoi sermoni e nelle sue lettere, un discorso di esaltazione, ma innanzitutto una critica molto dura della vita politica e morale portoghese. E la stessa missione messianica riservata al Portogallo doveva passare infatti, prima di tutto, attraverso

24. Cfr. H. Blumenberg, Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinsmetapher, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1979; trad. it., Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, a c. di F. Rigotti, Il Mulino, Bologna 1985. 25. Lettera a Sebastião de Matos e Sousa, 14 luglio 1690, in A. Vieira, Cartas, Vol. III (1971), p. 605.

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una conversione morale. Scrive il lucido gesuita: «Io non so veramente in quale teologia né in quale fuoco della ragione si accetti che in un regno, e nelle parti soggette ad esso, si commettano tante ingiustizie e si perdano tante anime, e che ciò si sappia da informazioni veritiere e sicure, e che non si tratti di correzione o castigo, e che immaginino di essere in buona coscienza e in una situazione di salvezza quelli a cui spetta fornire un rimedio26». Particolarmente critici sono i giudizi del gesuita sull’Inquisizione portoghese ed i suoi metodi, che ben conosceva, avendoli sperimentati nella propria carne: «Alla fine la nostra fede è degenerata in follia, come dicono con scherno, irrisione e disprezzo tutte le nazioni cattoliche del mondo27». Nei sermoni è frequente e al tempo stesso contundente la critica sociale e politica: il confronto tra l’onore e valore degli antichi portoghesi e la villania e avidità dei contemporanei, il modo di distribuzione delle merci reali a coloro che non le meritano, il mal governo dei rappresentanti del re, il modo barbaro e disumano in cui sono trattati i neri e gli indio. Di certo, questa visione melanconica e tendenzialmente pessimista e catastrofista della storia contemporanea non fornisce sufficientemente ragione della complessità del pensiero di Vieira a proposito della storia. Essa deve infatti essere controbilanciata con altri aspetti, vale a dire con l’affermazione della funzione positiva e decisiva del tempo per la rivelazione e l’incremento della verità e del sapere, con l’effettivo riconoscimento del valore dell’innovazione, della scoperta e dell’esperienza, infine, del futuro e del progresso nella storia umana e nella storia propria delle scienze e della rivelazione della

26. Lettera del 4 aprile 1654 al Padre André Fernandes, in A. Vieira, Cartas, Vol. III (1971), p. 725. 27. A. Vieira, Cartas, Vol. III (1971), p. 536.

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verità teologica. Ma soprattutto essa deve essere apprezzata nel contesto della teologia vieirina della storia, aspetto che affronteremo nell’ultimo punto di questo saggio.

3. Nazionalismo messianico e millenarismo universalista: il Quinto Impero di Vieira e i suoi analoghi barocchi Uno degli aspetti più caratteristici della visione vieirina della storia è l’importanza che viene attribuita al tema del futuro. Esso costituisce uno degli aspetti inequivocabili della modernità dell’opera del gesuita, implicando una completa svolta nella valorizzazione dei momenti del tempo. Tale visione rivela un pensiero che smise di avere nel passato e nel tempo presente i suoi paradigmi principali e che, spinto dalle istanze del desiderio e della speranza, e alimentato dalla facoltà dell’ingegno creativo, si aprì agli illimitati orizzonti del nuovo e dell’avvenire28. Il futuro di cui parla Vieira, oltre a non essere un futuro indefinitamente differito, essendo l’avvenire del desiderio e della speranza, non è neppure quel futuro che risulta dalla progressiva costruzione delle azioni ed invenzioni umane. È un futuro 28. Si trova in Vieira, seppur ad un altro livello, una valorizzazione del tempo tipicamente moderna che si sviluppa come esplicitazione di due motivi confluenti: da una parte, l’antico aforisma della “veritas temporis filia” (nella versione di Vieira: «il miglior commentatore delle profezie è il tempo»), utilizzato anche da pensatori rinascimentali (Rabelais, Bruno) e moderni (Francis Bacon, Thomas Hobbes, fra gli altri); dall’altra, la celebre «controversia degli Antichi e dei Moderni» – che mobilitò i principali spiriti del XVII secolo e di cui Vieira ci fornisce, nei capitoli X-XII della sua Storia del futuro, un’interessantissima versione –, in cui è chiaro il giudizio del gesuita a favore dei moderni e del nuovo, e ciò molto prima che Charles Perrault proponesse il suo Parallèle des anciens et des modernes. Su questo secondo aspetto, cfr. il secondo capitolo del presente volume.

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imminente e già presente che riempie il passato e il presente della storia. Commentando un passaggio di una lettera di Paolo, in cui l’apostolo divide il futuro in due – un futuro ancora lontano e un futuro imminente, un futuro che verrà ed un altro che già viene, un futuro che sarà futuro ancora per molto e un altro che a breve sarà presente –, Vieira dichiara che l’oggetto della sua storia profetica, intenzionalmente indicata dall’ossimoro «storia del futuro»29, è il secondo tipo di futuro. È in questo futuro che si inscrive infatti la sua idea di un millenarismo universalista, convinzione che si combina e si incrocia, in modo quasi paradossale, con la concezione del suo nazionalismo messianico. Il gesuita lasciò varie testimonianze del suo millenarismo, nessuna delle quali, però, completamente sviluppata, giacché né la Storia del Futuro né la Clavis Prophetarum giunsero ad essere concluse integralmente. Vi sono alcune differenze tra le due versioni, e ciò è facilmente comprensibile se consideriamo che furono scritte in fasi della vita e in circostanze molto diverse, e per destinatari differenti, essendo visibile l’abbandono, o per lo meno la relativizzazione, di certi ele29. La pertinenza dell’idea di una «storia del futuro» fu oggetto dell’interesse del filosofo rinascimentale Francesco Patrizi nel III Dialogo della sua opera sulla storia (Della Historia Dieci Dialoghi, Venetiis 1560, pp. 13b – 18b). Al pari di Vieira, già in Patrizi questa nozione comporta l’identificazione fra storia e profezia: «Ma pure più à dentro, soggiunsi io, della mia imagine dell’historia io ueggo, che ella si può fare eziandio delle cose future […] Perciò che così pare, che l’historico sia del passato, come il Profeta del futuro, non è così? Si è, disse egli. Et nondimeno, Mose fu profeta del passato […] Così puote Isaia, et Gieremia essere historico del futuro. Sì, ma impropriamente, disse egli, ragionando. Anzi propriamente, replicai io, molto più, che ch’altri dica historico lui, che scrive le cose da lui lontane, et da suoi tempi. Perciò che historia è quasi Isoria, et un rimiramento che altri fa con gli occhi propri. Et quale è più vera, et men fallibili vista, che quella dell’anima da Dio illuminata?», Francesco Patrizi, Della Historia Dieci Dialoghi, Venetiis 1560, p. 13b.

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menti all’inizio considerati fondamentali, come è il caso della resurrezione del re Giovanni IV, secondo quanto si poteva inferire dalle profezie di Bandarra30. Il nucleo essenziale, ad ogni modo, si mantiene e si incontra in buona sintesi nella «Petizione al Consiglio Generale dell’Inquisizione». Ad essere messi in risalto sono, in primo luogo, gli aspetti religiosi: a) il nuovo stato della Chiesa e il suo completo rinnovamento; b) la conversione degli eretici; c) la riunione e la conversione degli Ebrei; d) la conseguente estensione universale della fede cattolica. Ad essi si associano gli aspetti politici: a) l’instaurazione dell’Impero universale di Cristo (Quinto Impero); b) il contenuto patriottico-nazionalista, ben esemplificato dal ruolo attribuito al Portogallo e al suo re nell’instaurazione di un nuovo ordine mondiale. A tutto ciò si uniscono inoltre gli aspetti propriamente utopici: la definitiva instaurazione della pace, della giustizia, dell’innocenza, della santità e della felicità. Scrive Vieira: «Nella Chiesa di Dio ci deve essere un nuovo stato, felicissimo e differente da quello attuale e da quelli passati, in cui non vi sia nel Mondo intero altra credenza né altra legge se non quella di Cristo; per raggiungere tale stato si dovranno convertire tutte le genti, si dovranno ridurre tutti gli eretici e si dovrà estinguere totalmente la setta di Maometto; dovranno inoltre apparire le dieci tribù di Israele, nascoste nelle terre incognite al di là dell’Eufrate, e dovranno convertirsi tutti gli

30. Ecco i luoghi principali dove Vieira espone la sua idea: Esperanças de Portugal, Quinto Império do Mundo, Primeira e Segunda Vinda de El-Rei D. João IV, scritti da Gonçalo Eanes Bandarra e commentati da Vieira, in una lettera al vescovo del Giappone D. André Fernandes (29 aprile 1659), in A. Vieira, Obras Escolhidas, Vol. VI (1952); História do Futuro (1664); Voz de Deus ao Mundo, a Portugal e à Baía. Juízo do Cometa (27 ottobre – 9 novembre 1695), in Id., Obras Escolhidas, Vol. VII (1953); Petição ao Conselho Geral da Inquisição, in Id., Obras Escolhidas, Vol. VI (1952), pp. 77 e sg.; Id., Clavis Prophetarum (Livro III), ed. crítica e tradução de Arnaldo do Espírito Santo, Biblioteca Nacional, Lisboa 2000.

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Ebrei, e devono esserci più santi di quelli della Vecchia Legge, e più simili a quelli della Chiesa primitiva, che saranno grandi zelatori e predicatori della Legge di Cristo; in questo tempo, in cui tutto il Mondo verrà a conoscenza della nostra santa Fede Cattolica, si deve compiere l’Impero di Cristo, ossia il Quinto Impero profetizzato da Daniele, e deve esserci quindi nel mondo la pace universale promessa dai Profeti nel tempo del Messia, la quale non si è ancora realizzata, se non parzialmente; nel tempo di questo Impero di Cristo deve esserci nel mondo un solo Imperatore, a cui obbediscano tutti i re e tutte le nazioni del Mondo: egli deve essere il Vicario di Cristo in ambito temporale, così come il Sommo Pontefice lo è in quello spirituale; tale Impero spirituale deve essere allora perfetto e compiuto, e tutto questo nuovo stato della Chiesa deve durare per molti anni; la testa di questo Impero temporale deve essere Lisbona, e i re del Portogallo i suoi Imperatori supremi, e in questo tempo deve fiorire universalmente la giustizia, l’innocenza e la santità in tutti gli stati31». Nel programma quinto-imperialista di Vieira ci sono, naturalmente, degli aspetti più contingenti e degli aspetti più essenziali. Fino a che punto la resurrezione di Giovanni IV, letta nelle strofe di Bandarra, ed elemento centrale della lettera del 1659 a Padre André Fernandes, è essenziale al messianismo di Vieira? A nostra parere, tale elemento costituisce soltanto un ostacolo – perderà infatti progressivamente importanza, fino ad essere dimenticato nelle versioni successive del programma –, e non soltanto per i problemi che presentò al gesuita, ma soprattutto per la chiara contrarietà dei fatti, destinati a smentirlo. In una lettera del 1689, Vieira sembra voler porre una pietra sopra l’intera questione, relativizzandola: «Non era

31. A. Vieira, Obras Escolhidas, Vol. VI (1952), pp. 78-79.

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mia intenzione resuscitare i morti, ma solo consolare i vivi32». La lettera diretta a Padre André Fernandes era destinata infatti, come si è poi saputo, alla vedova del Re, con l’intento di confortarla. Come comprendere, d’altro canto, la funzione attribuita al Portogallo in tutto il processo? Dobbiamo leggere in esso non tanto l’inclinazione visionaria e delirante del gesuita, quanto l’urgenza del realismo e dell’utopismo di Vieira, associata alla necessità barocca di creare evidenza. La congiunzione dei segni leggibili nel libro o nella mappa del mondo politico indicava a questo storiografo del futuro la vicinanza di un prossimo epilogo – di un’apocalisse – da cui sarebbe sorto un nuovo e durevole ordine delle cose. Ma perché la scelta proprio del Portogallo? Anche in questo caso, riteniamo che abbia avuto la sua importanza il gusto vieirino e barocco del paradosso: precisamente a causa della sua debolezza, Dio sceglie la nazione portoghese per realizzare il proprio disegno di una storia mondiale, poiché così «sarebbero ancora più meravigliose le sue meraviglie». Il nuovo impero messianico non si costruisce con lo sforzo degli eserciti o in virtù di mezzi umani e materiali, ma con una conversione morale. Il nazionalismo messianico, del resto, ampiamente rappresentato nel pensiero politico del XVII secolo, era funzionale alle necessità di quelle nuove monarchie europee che lottavano per la loro affermazione ad intra e ad extra, per l’autonomia e l’egemonia di un nuovo spazio in cui era scomparsa l’unità della religione come fattore di identificazione sociale e ideologica. Invocare una missione provvidenziale e trans-storica era, per le nuove nazioni europee, una forma di ulteriore legittimazione. Vieira non era l’unico a pensare secondo queste categorie, e se la sua riflessione possiede qui una qualche 32. A. Vieira, Cartas, Vol. III (1971), p. 593.

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singolarità, è precisamente perché essa è già relativamente tardiva nel suo manifestarsi33. Il gesuita, infatti, non è certo il primo ad utilizzare e ad interpretare la Scrittura (soprattutto le profezie tratte dal libro di Daniele) per fondare o legittimare una teoria politica, come poteva essere la convinzione che la restaurazione del Quinto Imperio fosse imminente34. Non è inoltre il solo a proporre degli argomenti a sostegno di un nazionalismo messianico. Si potevano già trovare in esso teologi cattolici e riformati, rabbini, filosofi, scrittori e sognatori di maggiore o minore statura. Di certo, l’opera e la figura di Vieira, qualora perdessero la loro originalità, non risulterebbero in nulla diminuiti. Al contrario, è proprio perché Vieira non è l’unico nella sua epoca a proporre la soluzione di un nazionalismo messianico e di un millenarismo universalista che la sua opera merita una maggiore attenzione. La singolarità del gesuita non deriva neppure dall’aver mescolato e posto allo stesso livello profezie come quelle di Bandarra e di altri portoghesi con le profezie bibliche per fornire un’ampia credibilità

33. Anche all’interno del Portogallo, Vieira aveva degli antecedenti. È il caso ad esempio dell’opera, recentemente editata, del frate Sebastião de Paiva, Tractado da Quinta Monarchia e Felicidades de Portugal Prophetizadas (1641), prefácio e revisão científica de Arnaldo do Espírito Santo, intr. de J. Eduardo Franco e B. Cardoso Reis, INCM, Lisboa 2006. Dello stesso autore, si veda inoltre il Tractado dos Prodigios que aqcontecerão neste Reyno do anno 1554, athe o de 640. Non sappiamo se Vieira conoscesse il manoscritto di Paiva; tuttavia, come scrive Arnaldo do Espírito Santo, è difficile ritenere che il gesuita non fosse a conoscenza né dell’autore né dell’opera, pur non citandoli mai. I punti in comune sono infatti molti, a dispetto del differente protagonista (nel caso di Paiva, il ritorno di Sebastiano I, nel caso di Vieira, Giovanni IV) e della diversa articolazione del tema fornita dal genio di Vieira, di cui Paiva era certamente sprovvisto. 34. A questo proposito, cfr. S. Peloso, Ut libri prophetici melius intelligantur, omnium temporum historia complectenda est: O Quinto Império de António Vieira e o debate europeu nos séculos XVI e XVII, in M. V. Mendes – M. L. G. Pires – J. D. C. Miranda (org.), Vieira Escritor (1997), pp. 177-187.

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alle sue idee. Anche in tale contesto si potrebbe applicare in maniera pertinente quella dichiarazione dell’autore della Storia del Futuro, quando dice che nell’opera non si tratta che di una «novità senza nulla di nuovo». Anche per ciò che riguarda l’attribuzione di una missione provvidenziale ad una particolare nazione e al suo rispettivo monarca, Vieira non era solo. Il filosofo e utopista italiano Tommaso Campanella l’aveva preceduto, avendo visto inizialmente nel re di Spagna (nel De monarchia hispanica, opera redatta attorno al 1598-1600 e pubblicata nel 162035), e più tardi nel re francese Luigi XIV – in una egloga intitolata Christianissimi Regi et Reginae in portentosam Delphini, orbis christiani summae spei, nativitatem (1630), e negli Aforismi politici per le presenti necessità di Francia (1635) –, o nel Papa Paolo V – nel suo De monarchia Messiae (redatto nel 1606 e pubblicato nel 1633) – i prescelti da Dio per realizzare nella terra la sua idealizzata monarchia universale teocratica. Campanella traeva le sue tesi e convinzioni (in cui, curiosamente, il destinatario variava a seconda dell’opportunità!) da un insieme di fonti eteroclite: dall’interpretazione delle profezie di Daniele, dall’astrologia, dalle considerazioni storiche e politiche contemporanee e anche dalla psicologia sociale. Negli scritti del frate calabrese possiamo trovare la maggior parte degli ingredienti che apparterranno all’utopia messia-

35. Delle principali opere di filosofia politico-messianica di Campanella vi sono alcune recenti edizioni: cfr. T. Campanella, Monarchia di Spagna, a c. di G. Ernst, Istituto italiano di Studi Filosofici, Napoli 1989; Id., Aforismi politici per le presenti necessità di Francia (1635), a c. di L. Firpo, Giappichelli, Torino 1941; Id., Monarchia del Messia, a c. di V. Frajese, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1995. Cfr. G. Ernst, Monarchia di Cristo e Nuovo Mondo. Il “Discorso della ragioni che ha il Re cattolico sopra il nuovo emisfero” di Tommaso Campanella, in S. R. Ghibaudi – F. Barcia (a c. di), Studi politici in onore di Luigi Firpo, Vol. II, Franco Angeli, Milano 1990, pp. 11-37.

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nica di Vieira: incontriamo ad esempio la necessità di riunire tutti i popoli sotto un unico impero teocratico allo stesso tempo spirituale e temporale, la conversione degli Ebrei, lo stabilimento di una nuova epoca in cui finiranno tutti i mali che affliggono l’umanità e in cui regneranno finalmente la pace e la felicità. Come scrive Campanella: «Tutte le nazioni per natural desiderio, che Dio non dà invano, desiderano questo secolo, in cui han da cessare guerre, epidemie, carestie, frodi e gli altri mali, cresciuti tra i figli di Adamo in conseguenza del peccato e non per svolgimento della natura36». Le prime idee di Campanella, relative alla monarchia universale capeggiata dal re di Spagna, furono fatte proprie dai teologi politici spagnoli, fra cui innanzitutto Juan de Salazar, nell’opera La politica spagnola, pubblicata a Logroño nel 1619. Rifacendosi alla profezia di Daniele, Salazar considera imminente la fine dell’impero ottomano e il raggiungimento dell’impero universale del popolo di Dio – i cattolici – nella persona del re di Spagna. Secondo il teologo ispanico, gli spagnoli sarebbero stati profeticamente designati da Dio per governare il mondo; era solo sufficiente attendere che la ruota della storia completasse il suo movimento e si fermasse nell’i-

36. T. Campanella, La prima e la seconda resurrezione, a c. di R. Amerio, Roma 1955, p. 61. Cfr. A. Dupront, Croisades et eschatologie, in Umanesimo e esoterismo. Archivio di Filosofia, Cedam 1960, p. 189; L. Perini, Gli utopisti: delusioni della realtà, sogni dell’avvenire, in Storia d’Italia, Annali 4 – Intellettuali e potere, Torino 1984; R. De Mattei, Il pensiero politico italiano nell’età della Controriforma, Ricciardi, Milano-Napoli 1983, Vol. I, pp. 211-229; V. Frajese, La “Monarchia del Messia” di Tommaso Campanella. Identificazione di un testo tra profetismo e controriforma, in “Quaderni storici”, 3 (1994), pp. 725-730. Un passaggio della Defesa do Livro intitulado “Quinto Império” mostra che Vieira era a conoscenza della letteratura che giustificava l’aspirazione degli spagnoli e dei francesi alla monarchia universale. Se potevano farlo loro, per quale ragione non avrebbe potuto farlo anche il Portogallo? Cfr. A. Vieira, Obras Escolhidas, Vol. VI (1952), p. 144.

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stante che la provvidenza aveva attribuito alla Spagna. Una volta instaurata, la monarchia spagnola e cristiano-cattolica sarebbe durata allora per molti secoli, ultima fra tutte37. Vieira era un lettore di Juan de Salazar, e può aver tratto dai suoi scritti e da quelli di altri teologi politici spagnoli (tra i quali si contavano anche alcuni gesuiti) la propria idea di un Impero e perfino quello di un Quinto Impero. Uno studio approfondito e allargato dell’ambiente culturale in cui si formò e visse Vieira permetterebbe di correggere l’immagine che alcuni importanti storici della cultura portoghese della prima metà del XX secolo fissarono a proposito dell’utopia quinto-imperialista vieirina. Alcuni sforzi in questo senso sono già stati fatti, almeno per quanto concerne l’ambiente iberico. Consideriamone qui in particolare uno, costruito intorno alla nozione vieirina di “impero”, il cui autore, António Vasconcelos Saldanha, sostiene che il Quinto Impero di Vieira «sia, in effetti, lungi dall’essere il frutto di un’immaginazione disgregata e figlia del “delirio di un’idea fissa” a cui allude Hernâni Cidade, della “mancanza di equilibrio mentale” sottolineata da Lúcio de Azevedo, o della “terribilità e puerilità delle immaginazioni” di un impostore, come lo classifica ingiustamente l’antigesuitismo pombalino. Al contrario, si inscrive in modo legittimo nella corrente delle costruzioni ideali e politiche che, con un vigore certo inusitato nella storia del pensiero europeo, fiorirono lungo il XVI secolo per prolungarsi con successo fino al secolo seguente, trasmettendo la forte tendenza di superamento o valorizzazione della società e dell’ordinamento politico. È proprio questo, quindi, lo spirito che presiede all’opera di António Vieira, opera interessantissima, seppur tardiva se confrontata con gli sforzi di altri autori ad essa contemporanei, 37. Cfr. H. Méchoulan, Juan de Salazar, lecteur de la Monarchie espagnole de T. Campanella dans La politique espagnole, in “Etnopsychologie. Revue de psychologie des peuples”, 20 (1973), pp. 112.

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perché vincolata organicamente alle aspirazioni e ai successi politici della storia portoghese seguenti alla restaurazione del 1640. Ad ogni modo, le sue origini ed influenze più dirette derivano indubitabilmente da quella letteratura peninsulare che Primitivo Mariño considerò “trionfalista e messianica”, a cui appartengono opere di scrittori spagnoli o spagnofili38». Anche più recentemente, altri studiosi hanno confermato questa idea, attraverso fonti portoghesi che Vieira, sebbene non citi, potrebbe aver conosciuto, come è il caso dell’opera (il Tratado da Quinta Monarquia del 1641) del frate trinitario Sebastião de Paiva cui abbiamo fatto in precedenza riferimento. Pur sottoscrivendo ciò che è stato scritto da Vasconcelos Saldanha, ci sentiamo in dovere di precisare che le idee quintoimperialiste e messianiche godevano di una diffusione che non si limitava ai soli ambienti spagnoli (e portoghesi). Nella stessa Francia, ad esempio, Desmarets de Saint-Sorlin, un altro contemporaneo di Vieira, pubblicò nel 1657 un poema eroico intitolato Clovis, ou la France chrestienne, nel quale esponeva le sue idee sul nazionalismo messianico applicato alla Francia e al suo re. In linea con l’ultimo Campanella, anche il poeta francese difende la missione provvidenziale della Francia come grande monarchia cristiana. Tuttavia, così come farà Vieira in relazione al regno del Portogallo, Saint-Sorlin, alla ricerca delle ragioni di questa storica missione provvidenziale, si rivolge alle origini medievali della monarchia francese, evocando le profezie e le promesse fatte ai suoi fondatori. Secondo il poeta, fu in modo sovrannaturale che Clovis pose fine all’impero dei romani, e la trasformazione del loro impe-

38. A. V. Saldanha, Da Ideia de Império na Obra do Padre António Vieira, S. J. – Ensaio sobre o Universalismo e o Pensamento Jurídico-Político Hispânico de Seiscentos, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Celebrazioni Colombiane, Ricerche Giuridiche e Politiche, Materiali I/2, Roma 1988, pp. 17-18.

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ro in una monarchia cristiana francese avvenne in un «temps fatal», con tutti i classici ingredienti apocalittici: diluvi, venti, tempeste. Una volta instaurato, il nuovo impero cristiano fondato da Clovis durerà fino alla fine del mondo, garantendo l’unione tra la Chiesa e lo Stato, fra il potere spirituale e quello temporale. Il poeta francese pone nella bocca di Cristo queste parole dirette alla Vergine madre: «Je choisis ce Monarque, et sa race vaillante, Pour rendre mon Eglise à jamais triomphante […] Et leur trône verra les derniers jours du Monde39». Il grande successo del poema è confermato dalle successive edizioni. Nella terza edizione del 1673, il suo autore rafforza e concretizza ancor più la sua idea in una «épître au Roy» in cui afferma che, dopo quattro imperi mondiali e un intervallo di mille anni di alleanze e guerre, si realizzerà con Luigi XIV il compimento della profezia di Daniele e dell’Apocalisse e la fondazione del regno di Dio sulla terra40. Contemporaneo di Vieira, e, come lui, disegnatore di utopie, è il filosofo, teologo e pedagogo ceco Giovanni Amos Comenio,

39. Jean Desmarets de Saint-Sorlin, Clovis, ou la France chrestienne, Poëme Heroïque, Leyde 1657, p. 59. 40. «Il y a dans la Sainte Écriture des prophéties toutes faites, et déjà accomplies en partie selon l’ordre des temps, qui ont annoncé les quatre Empires du monde distinctement; et que des Rois dévoient venir ensuite, qui feraient tantôts guerre, et tantôts alliance, comme il s’est fait depuis mille ans entre la France, l’Espagne, l’Angleterre, l’Allemagne, l’Italie, et les autres Etats, après lesquels doit être enfin l’Empire universel des Fideles, qui régneront avec Jésus Christ; de qui un grand Prince doit être l’image précédente […] Il n’est pas difficile de juger sur ces marques, qui sera ce Roi si merveilleux, qui aura l’honneur d’être l’image de Jésus Christ son Maistre; et la poésie Héroïque est Très-heureuse de trouver pour Votre Majesté de prophéties si magnifiques et si certaines, sans se mettre en peine pour en inventer», Jean Desmarets de Saint-Sorlin, Clavis, ou la France chrestienne, ed. 1673, pp. 13-15 (cit. apud J. Schlobach, Zyklentheorie und Epochenmetaphorik, Fink, München 1980, pp. 260-261).

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che delineò il piano di una monumentale «riforma universale di tutte le cose umane» in un’opera, anch’essa monumentale e conclusa solo in parte, intitolata De rerum humanarum emendatione catholica (1644). Comenio conosceva gli scritti messianico-politici di Campanella, a cui faceva espressamente riferimento. Una delle ragioni che mostrano, secondo lui, l’imperiosa necessità e urgenza di una riforma universale delle cose umane è la coscienza, ampiamente diffusa nell’epoca («tra i teologi di ogni parte»), dell’imminenza di una catastrofe mondiale («Tutti sanno che si approssima la catastrofe del mondo»), immediatamente preceduta dall’instaurazione del regno di Dio sulla terra. Le somiglianze con il Quinto Imperio di Vieira sono anche in questo caso evidenti41.

41. Scrive Giovanni Amos Comenio: «Sexto, Superesse Mundo Catastrophen suam (Comoediam enim nobiscum ludit Sapientia DEI in orbe Terrarum) intelligunt omnes: Theologique omnium partium agnoscere jam incipiunt, appropinquare dies Vocis septimi Angeli: cujus Tuba cùm coeperit sonare, consummabitur mysterium DEI, quod praenunciavit per servos suos Prophetas (Apoc. X, 7). Mysterium id qvale sit, patet è capite sequenti, v. 15. ubi dicitur: Postquam septimus Angelus clauxit auditas esse in coelo voces magnas dicentes: Facta sunt Regna Mundi Domini nostri et Christi ejus, qui regnabit in secula seculorum. Hoc est mysterium illud DEI, praenuntiatum per omnes Prophetas: Regnum Christi explicatum tandem iri ad omnes Gentes toto sub Coelo. Quemadmodum id ipse Christus praedixit (Math. XXIV, 6) et ante ipsum omnes Prophetae Veteris Testamenti: maximè Jesaias, Ezechiel, Daniel, Oseas, Sophonias, Zacharias; quorum omnium Prophetici libri in triumphum Ecclesiae, Regnumque Sanctorum sub coelo, desinunt. Suntque jam, qui in Cantico Canticorum, aliisque historicis Scripturae libris, reperiunt idem. Atque Propheticum hoc lumen enitere incipit magis magisque, in quo Omnes illi qui Judicia DEI scrutantur vident, reservatam esse ultimis saeculis illustrem Orbis Reformationem per Omnes Gentes (Videatur etiam è Romano-Catholicis Thomas Campanella, quae de Regno Dei in Monarchia Messiae, scripsit», Giovanni Amos Comenio, De rerum humanarum emendatione consultatio catholica ad Genus Humanum (1644), ed. Accademia Scientiarum Cecoslovacca Bohemoslovaca, Praga 1966, p. 32.

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Potremmo ampliare il ruolo degli scrittori messianici e dei profeti del Quinto Impero nella seconda metà del XVII secolo. È sufficiente ricordare che anche nell’anglicana e puritana Inghilterra fiorì un genere di letteratura millenarista e apocalittica e anche lì si incontrano pensatori sostenitori di una “Quinta Monarchia”. Lo stesso Isaac Newton seguì questa tendenza, scrivendo dei commentari alle profezie di Daniele e all’Apocalisse che hanno turbato soprattutto coloro che desideravano vedere nello scienziato soltanto il grande filosofo della natura, scopritore dell’equazione matematica che sostiene l’architettura del cosmo42. Un esempio di questa vasta letteratura è l’opuscolo di William Aspinwall, pubblicato a Londra nel 1653 con il seguente titolo: A brief Description of the Fifth Monarchy, or Kingdom, that shortly is to come into the World43. L’opera si basa su un’interpretazione letterale delle profezie di Daniele, dell’Apocalisse e di altri testi biblici, rifiutando in via preliminare, al pari di Vieira, qualsiasi interpretazione meramente metaforica di quelle fonti: quando parlano di regno o impero, infatti, i testi 42. Sul pensiero teologico e apocalittico di Newton, cfr. F. E. Manuel, The Religion of Isaac Newton, Clarendon Press, Oxford 1974. 43. Ecco il titolo completo dell’opuscolo di William Aspinwall: «A brief Description of the Fifth Monarchy, or Kingdom, that shortly is to come into the World. The Monarch, Subjects, Officers, and Lawes thereof, and the surpassing Glory, Amplitude, Unity, and Peace of that Kingdome. When the Kingdome and Dominion, and the greatness of the Kingdome under the whole Heaven shall be given to the people, the Saints of the Most high, whose Kingdome is an everlasting Kingdome, and all Sovereignes shall serve and obey him. And in the Conclusion there is added a Prognostic of the time when this fifth Kingdome shall begin», London 1653. Un raffronto tra il millenarismo di Vieira e quello dei millenaristi inglesi è stata fatta da J. Eduardo Reis, in un intervento presentato al Congresso Internazionale del Terzo Centenario della Morte di Padre António Vieira: O milenarismo utópico de Vieira e a transliteração ingleses dos Fifth Monarchy Men, in Actas do Congresso Internacional, Vol. II, pp. 969-989.

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biblici non si rifanno solo ad un potere spirituale esercitato dalla Chiesa, ma ad un effettivo potere temporale e civile44. Anche in questo caso, il contenuto delle Scritture è posto in relazione all’attuale situazione delle storia britannica. La fine del regno dell’Anticristo avverrà nel 1678, sebbene l’autore non presenti una data precisa per l’inizio della Quinta Monarchia, destinata a durare mille anni. Aspinwall si limita soltanto ad indicare le circostanze che devono realizzarsi prima del suo cominciamento: un grande terremoto, la chiamata degli Ebrei e l’ingresso di tutti i popoli in questa nuova fase. È ugualmente presupposto l’effettivo regno temporale (e non soltanto spirituale) di Cristo, regno che durerà mille anni e sarà retto da suoi vice-re, ossia i santi, i puri e i moralmente integri e purificati. Una caratteristica particolare dell’intera descrizione è l’insistenza sul tema della purificazione e della purezza di coloro che apparterranno al nuovo regno45: almeno fin quando non giungerà il regno millenario dei puri e dei santi, i tempi

44. «If it be yet said that all these expressions are Metaphorical, I deny it, nor can it be safe for us to coin metaphors of Scripture, where no necessity doth require it. Had it been the pourpose of the holy Ghost to hold forth Christs spiritual Government in the Churches, he could have expressed himself in proper phrases and words. Whereof I conclude, that it is safest for us to take the plaine meaning of the words, unlesse the holy Ghost had elsewhere declared himselfe to the contrary», Ivi, p. 2. Sulla difesa del letteralismo in Vieira, cfr. L. Ribeiro dos Santos, Vieira e a hermenêutica barocca, “Rivista di Studi Portoghesi e Brasiliani”, IV (2002), Pisa-Roma 2003, pp. 17-39, in part. pp. 32-36. 45. «The Supream Councellours and Judges under them, shall be holly men, thoroughly purged, Isa. I, 25,26. The words are very emphaticall, I will refine according to purity, thy tyn; alluding to the manner of Refiners of metal, who melt their metal upon the test until the tyn or allay be separated or wasted, and the metal reduced to its fineness. Even so will God deal with his peoples Judges and Councellours, and by consequence with all other inferior Officers, until he hath reduced them to the Primitive purity», Ivi, p. 5.

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presenti sono considerati dunque tempi di purificazione («refining times»)46. Non si pensi che simili convinzioni terminarono con l’esaurimento di una letteratura che inscenava l’arrivo imminente del regno millenario di Cristo, di tipo cattolico o puritano, preconizzato dalla Spagna, dalla Francia, dal Portogallo o dall’Inghilterra. Eliminato il suo significato politico immediato, e la già citata caratteristica nazionale, tale idea, nei suoi ingredienti più universali ed essenziali (la riconciliazione e l’unificazione politica e religiosa dei popoli, la pace perpetua, il regno della giustizia, del diritto e del bene in una comunità etica e politica), sopravvivrà ancora nel pensiero razionalista ed illuminista – anche in filosofi importanti come Leibniz o Kant – sotto forma di un ideale etico o etico-politico, riferita espressamente all’idea biblica di un “regno di Dio”, o trasfigurata nell’idea razionale di un “regno dei fini”, interpretati, però, non come il compimento delle profezie, bensì come il raggiungimento dell’imperativo morale della ragione o come la realizzazione del “piano segreto” di una natura provvidente rispetto al genere umano47. Del resto, l’utilizzo delle profezie e, in generale, 46. Ivi., p. 6. Su questa letteratura e sulla sua portata, cfr. B. S. Capp, The Fifth Monarchy Men, London 1972; P. G. Rogers, The Fifth Monarchy Men, London 1966; K. R. Firth, The Apocalyptic Tradition in Reformation Britain (1530-1645), Oxford 1979; M. Reeves, History and Eschatology: Medieval and Early Protestant Thought in Some English and Scottish Writings, in Id., The Prophetic Sense of History in Medieval and Renaissance Europe, Ashgate, Aldershot – Brookfield – Singapore – Sidney 1999, pp. 99-123. Ma sull’importanza e la dimensione di questo assunto, nell’epoca moderna e innanzitutto nei paesi protestanti, è necessario tener presente in primissimo luogo l’opera di Henrich Corrodi, Kritische Geschichte des Chiliasmus oder der Meynung über das tausendjährige Reich Christi, III Voll., Frankfurt u. Zürich, 1781-1783. 47. Kant può allora dichiarare, nel contesto della sua filosofia della storia, che «anche la filosofia possiede un suo chiliasmo» («die Philosophie könne auch ihren Chiliasmus haben»), I. Kant, Idee zu einer allegemeinen Ge-

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della Sacra Scrittura al servizio del discorso e del pensiero politico era frequente in molti scrittori e pensatori dell’epoca. Si pensi soltanto a Thomas Hobbes e al suo Leviathan (1651), o a Bossuet e alla sua Politique tirée des propres paroles de l’Écriture sainte (1677). La Scrittura poteva servire i propositi tanto degli assolutisti, come dei repubblicani o egualitaristi, quanto dei cattolici, degli anglicani o dei riformati48. È proprio Spinoza, nel suo Trattato Teologico-Politico (1670), a presentare per la prima volta in modo efficace una critica radicale di tali procedimenti, restituendo la Scrittura alla sua storia naturale e mostrando come in essa si dia precisamente una continua e perniciosa confusione tra il piano teologico e quello politico. Al cospetto di un simile quadro, non possiamo evitare di porre alcune questioni. In primo luogo, cosa dire della diffusione su scala europea di questo tipo di letteratura, presente persino nei paesi che non cadono sotto l’influenza della Chiesa di Roma? A ciascuno il suo quinto impero? A ciascuno i suoi profeti? A ciascuna nazione il suo millenario regno divino? A ciascun popolo o nazione il diritto di riconoscersi come i prescelti per una missione storico-messianica di portata politico-religiosa universale? Cosa significa una così straordinaria fioritura serotina di un genere di pensiero di stampo medievale, in un’epoca in cui gli avvenimenti storici, e soprattutto gli eventi politici, cominciavano ad essere riconosciuti nella loro schichte in weltbürgerlicher Absicht (1784), in Kants Gesammelte Schriften, Akademie-Ausgabe, Walter de Gruyter, Berlin 1968, Vol. VIII, p. 27. 48. Cfr. H. Méchoulan, L’utilisation théologico-politique du livre de Daniel chez quelques penseur du XVII siècle, in G. Canziani – C. Y. Zarka (a c. di), L’interpretazione nei secoli XVI e XVII, Franco Angeli, Milano 2000, pp. 455-469. In questo volume si trovano numerosi studi sull’interpretazione e l’uso politico della Scrittura in pensatori del XVII secolo (Bellarmino, Hobbes, Bossuet, Harrington, Spinoza). Si veda inoltre L. Ribeiro dos Santos, Hobbes e as metáforas do Estado, in Id., O Espírito da Letra. Ensaios de Hermenêutica da Modernidade, INCM, Lisboa 2007, pp. 207-244.

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autonomia, in maniera indipendente da qualunque ordine di valori religiosi o etici e da qualsiasi considerazione di carattere trascendente? In secondo luogo, Vieira ebbe, direttamente o indirettamente, una qualche conoscenza dei testi e degli autori menzionati, o almeno di alcuni di essi? Essendo stato, durante il suo periodo di permanenza a Roma, un «assiduo frequentatore della biblioteca», potrebbe aver avuto accesso ad alcuni dei libri citati. In questa fase, tuttavia, il suo pensiero messianico era già formato; è possibile quindi che egli potesse trovare una conferma delle proprie idee nella nuova letteratura. Non è un caso allora che egli si riferisca, in una lettera scritta a Roma, ad un’opera recente di un tal Piscatore di Chiaravalle, in cui avevano trovato conferma i suoi pronostici per l’anno 1673, ossia l’anno in cui «incipiet monarchia, et omnia regentur nutu unius49». Nonostante il significativo incremento degli studi vieirini negli ultimi anni, soprattutto nel contesto delle commemorazioni del III centenario (1997) della morte e dopo il IV centenario (2008) della nascita del grande gesuita, resta ancora molto da fare per ciò che riguarda l’identificazione delle fonti e delle condizioni di formazione dei nuclei essenziali del suo pensiero. È ancora praticamente da svolgere un’indagine comparata di tutta quella vasta letteratura messianica e quinto-imperialista che si sviluppò in tutta l’Europa barocca del seicento. Riteniamo che lo studio comparativo di questa letteratura messianico-apocalittica degli albori della Modernità potrebbe rivelare, oltre ad alcune caratteristiche strutturali comuni, degli aspetti di diagnosi rilevanti per comprendere l’eminente funzione sociale – oggi diremmo: “ideologica” e perfino “propagandistica” – che tale letteratura svolse in rapporto alle necessità 49. A. Vieira, Cartas, Vol. II (1971), p. 568.

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della coscienza storica dell’epoca durante un acuto periodo di crisi. Il testo da noi citato di Campanella ci fornisce una chiara indicazione di questa funzione, testimoniando al tempo stesso quella che potremmo definire un’economia della psicologia collettiva. Commentando un passaggio dei Proverbi (29, 18), lo stesso pensatore scriveva che quando muore la profezia, si disgrega il popolo («cum defecerit prophetia, dissipatur populus») e che «il non considerare il futuro è la rovina della cristianità50», una precisazione e un’avvertenza che l’autore della Storia del Futuro sottoscriverebbe di buon grado. Questa letteratura utopico-messianica risponde alle istanze profonde del desiderio e della speranza, negate o represse dalle circostanze storiche, economiche e politiche, ma anche da un’emergente ratio politica meramente pragmatica e senza alcun orizzonte teleologico che, ritenendo di aver compreso la meccanica delle passioni e dei desideri umani, voleva ridurli ad un ordine geometrico di ragioni. Quello che Ernst Bloch definì il “principio speranza” è invece ciò che fa sorgere le utopie, legittimandole attraverso lo spazio che esse occupano all’interno della psicologia collettiva. Quando l’ordine storico e politico moderno è in procinto di essere sviluppato, una tale generale ricaduta in un millenarismo di impronta medievale rappresenta la risposta ad una crisi profonda della coscienza storica del XVII secolo. Distrutta l’unità politica e spirituale del mondo, ogni nazioni europea vuole affermarsi e giustificarsi ritenendo di essere l’unica in grado di restaurare l’unità – un’unità che, per essere perfetta, costringe ogni nuova nazione ad inscriversi all’interno di un contesto messianico e apocalittico fondato sull’autorità della Bibbia.

50. T. Campanella, Antiveneti, in Id., Opuscoli filosofici, a c. di L. Firpo, L. S. Olschki, Roma 1951, p. 151.

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Lo stesso Vieira getta un po’ di luce su questo punto quando si propone di convincere i lettori dell’utilità della sua Storia del Futuro. Secondo il gesuita, tale storia serve non soltanto per consolare, ma anche per animare ed esortare ad intraprendere le gesta che sono stato promesse o viste prima. Questa storiaprofezia o profezia-storia, che dipinge i fatti prima che appaia il loro corrispettivo originale, crea e alimenta la coscienza di sé di un popolo o di una nazione, fornendole il senso della sua identità e della sua peculiare missione storica, e dandole anche l’unità di una coscienza collettiva: un popolo è ciò che è non perché sia tale o quale, ma poiché, agendo in accordo con quello che crede di essere, riesce a diventarlo. La profezia messianica, infatti, non dice tanto ciò che siamo, ma quello che dobbiamo essere o quello che gli stessi popoli devono diventare, «antivedendo quello che dovranno realizzare per realizzarlo, e quello che dovranno essere, per esserlo51». Il gesuita sottolinea che il profetismo biblico e la letteratura profetica furono la risposta alle varie situazioni di crisi della coscienza collettiva; all’interno di questo contesto, egli stabilisce in questi termini un’analogia tra la situazione della schiavitù degli Ebrei e la situazione del Portogallo: «Si deve rilevare come mai sopraggiunsero per il popolo di Israele tanti profeti insieme come prima della cattività babilonese e durante questa stessa cattività […] La ragione di questa concorrenza così straordinaria di profeti e profezie (mai vista né prima né in seguito) fu il fatto che mai il popolo e il regno di Giuda avevano subito un così grande tormento e una calamità così grande come fu la prigionia o trasferimento di Babilonia, quando furono prigionieri, catturati e spogliati di tutti i beni, strappati dalla patria e portati in terra di barbari, e là oppressi e trattati

51. A. Vieira, Livro Anteprimeiro da História do Futuro (1983), p. 62; trad. it. p. 82.

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come schiavi in durissima servitù. La Provvidenza e misericordia divina stabilirono che, in quel tempo e in quella condizione così calamitosi, vi fossero molti profeti e molte profezie […] affinché il popolo non si avvilisse sotto il peso della afflizione e, animato dalla speranza della libertà, ce la facesse nel tormento della prigionia. La cattività e il tiranno li opprimevano; i profeti e le profezie li confortavano. Si cantavano le profezie al suono delle catene e con la dolcezza di questo suono i ferri diventavano meno duri e i cuori più forti52». E prosegue: «Non so se godrà della stessa fortuna e se sarà accolto e letto con lo stesso animo e lo stesso sentimento questo nostro libro della Storia del Futuro, ma so che nei tormenti, nelle calamità e nelle afflizioni che il mondo dovrà patire (e può darsi che ricadano anche sul Portogallo) né il Portogallo né il mondo potranno avere altro sollievo né altra maggiore consolazione che la frequente lettura e meditazione di questo libro e delle profezie e promesse del futuro che vi si troveranno scritte. Perlomeno il Portogallo non negherà che al tempo della sua Babilonia, della sua prigionia, delle sue oppressioni, da cui molte volte si è visto tormentato e stretto, nessun aiuto aveva per il suo dolore, nessun altro sollievo e consolazione alla sua miseria, aldilà della lettura e dell’interpretazione delle profezie e della speranza della libertà e del suo tempo, del chiudersi e della fine della cattività che in esse si leggevano53». Secondo lo storico del futuro, una nazione, se vuole sopravvivere al cospetto di se stessa e di altre nazioni, non può sottostimare la fede nel proprio destino provvidenziale da realizzare nella storia. Vieira mostra, del resto, come l’esistenza e la sussistenza storica del Portogallo erano state e continuavano ad essere una questione di fede: «E se è stata tanto robusta

52. Ivi, pp. 50-51; trad. it. pp. 68-69. 53. Ibid.; trad. it., pp. 69-70.

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e importante per il Portogallo la conoscenza dei suoi futuri, in tutti i casi rilevanti che possono accadere a un regno, se sotto questa fede nacque, quando ricevette la corona; se sotto questa fede crebbe, quando vi aggiunse le conquiste; se sotto questa fede si restaurò, quando la restituì a queste e a se stesso – oh quanto più saranno necessari al Portogallo e quanto più utili e importanti questa stessa fede e la conoscenza dei suoi avvenimenti futuri per quelle imprese nuove e assai più grandi, che lo attendono nei tempi che debbono venire (o che già vengono)!54». Gli scritti messianici di Vieira possiedono, di conseguenza, una deliberata funzione tonificante per l’intera coscienza collettiva: avevano infatti l’obiettivo di contribuire a far sì che il Portogallo, a dispetto dalla sua indipendenza politica, riconquistasse la fede in se stesso, convincendosi di avere ancora un futuro. Lucido quanto al dolore mortale della disperazione nazionale, il buon gesuita cercava di soccorrerla con il «rimedio della profezia». È in questo contesto che si comprende anche il ricorso alle profezie di fattura e consumo nazionale (da quelle attribuite a San Bernardo sul re fondatore fino a quelle di Bandarra su un futuro re restauratore). Come scrive Vieira (ma il poeta Saint-Sorlin non faceva forse lo stesso?): «Nella confluenza di tutte queste profezie il Portogallo si consolava e traeva animo di condurre o di sopportare la vita fino al loro compimento55». E allo stesso modo anche adesso le vittorie, i trionfi e le conquiste che sono promesse al Portogallo dalla Storia del Futuro di Vieira, verranno intraprese «nella fede e nella fiducia di queste stesse promesse56». Interprete degli

54. Ivi, p. 60; trad. it. p. 80. 55. Ivi, p. 52; trad. it. p. 70. 56. Ivi, p. 55; trad. it. p. 73.

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avvenimenti e delle profezie del passato, lo storico è egli stesso un profeta, disegnatore e costruttore di futuro. Nello stesso orizzonte di idee si inscrive il riconoscimento dell’importanza politica dell’opinione: «L’anima dei regni, principalmente nei suoi principi, è l’opinione […] La conseguenza più pericolosa della guerra, e di cui non si deve mai aver timore nelle battaglie, è l’opinione. Nella sconfitta di una battaglia ad essere in pericolo è un esercito; nella perdita dell’opinione ad essere in pericolo è un regno57». Queste dichiarazioni mostrano in modo inequivocabile quanto Vieira fosse cosciente dell’importanza di quelli che oggi chiameremmo i fattori psicologici e ideologici all’opera nella politica e nella vita storico-collettiva dei popoli. Ecco allora che il millenarismo universalista e il nazionalismo messianico che si intrecciano nella sua idea di Quinto Impero e che, a prima vista, potrebbero apparire come ingredienti contraddittori e manifestazioni esacerbate del suo idealismo utopico, possono essere lette invece come la prova del suo lucido e sottile realismo.

4. Il divino «gioco del mondo» e la «commedia di Dio» della Storia mondiale Gli aspetti finora analizzati della concezione vieirina della storia sono caratterizzati da una visione di matrice provvidenzialista che costituisce il vasto orizzonte in cui si inscrivono le riflessioni più decisive dello scrittore e pensatore gesuita. La soluzione per le miserie dell’uomo, che avevano generato le

57. A. Vieira, Sermão pelo bom sucesso das nossas armas (1645), in Id., Obras Escolhidas, Vol. X (2ª ed., 1996), p. 229.

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lacrime dello stesso Eraclito, non poteva essere trovata dunque all’interno del mondo, ma al di fuori di esso. Non vedendo nel mondo o nell’uomo alcuna possibilità di trovare un punto di appoggio e permanenza, Vieira si rivolge a Dio. Soltanto Lui e il suo disegno sono infatti inalterabili: l’ordine divino delle cose si contrappone al disordine e allo sconcerto dei fatti mondani, all’instabilità delle cose e all’evanescenza delle opere umane. Il turbamento, la confusione e perfino il naufragio e la tragedia, che caratterizzano o minacciano le cose umane, sono, in verità, inserite in una grande rappresentazione teatrale – comica o tragica – che Dio porta sulla scena della storia umana e mondana, riservandosi il diritto di irrompere nel corso del tempo e degli avvenimenti con i suoi meravigliosi interventi, magari sospendendo l’intera successione dei tempi attraverso l’instaurazione di un regno millenario di giustizia, santità, pace e felicità. Alla filosofia melanconica e alla diagnosi pessimista della situazione storica del gesuita viene contrapposta una teologia delle storia di ispirazione medievale, al tempo stesso provvidenzialista, apocalittica e millenarista. La soluzione proposta da Vieira non passa tanto per la trasformazione lenta e progressiva del tessuto storico e mondano, attraverso l’azione politica e istituzionale degli uomini, quanto dal meraviglioso intervento di Dio, descritto come una violenta apocalisse ed interpretato come un «castigo della cristianità». Il futuro della Storia del Futuro è un futuro che non sa aspettare la lentezza dei processi storici e umani: è un futuro immediato, che già incomincia. Questo salto verso un’escatologia ed un futuro che non appartiene al tempo discorsivo della storia, bensì, più propriamente, a quello dell’annullamento o della sospensione del tempo in funzione di una brusca ed improvvisa instaurazione dell’impero millenario di Cristo, simultaneamente spirituale e concretamente terreno, è ben lontano dalla soluzione indicata dalle teorie politiche di alcuni pensatori moderni, contemporanei di Vieira, i quali, partendo

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da una diagnosi della situazione reale non molto differente da quella del gesuita portoghese, considerano tuttavia la possibilità che gli uomini possano influenzare la ruota della fortuna e contenere il flusso della storia guidando gli eventi e subordinandoli alla ragione, senza uscire dall’immanenza storica e mondana, ma costruendo essi stessi le dighe – le leggi e le istituzioni – e facendo funzionare la grande macchina, o corpo, dello Stato. Per esporre la sua concezione della storia Vieira fa ricorso a due metafore molto caratteristiche, seppur non esclusive, della visione del mondo del barocco: quella del teatro e quella del gioco. La storia mondiale, considerata da alcuni come una tragedia o tragicommedia umana, è in realtà una «commedia di Dio» e, sotto la disarmonia visibile del mondo, ha luogo un «divino gioco del mondo». La tempesta, il naufragio e la tragedia sono soltanto il primo atto della commedia divina, a cui seguirà il secondo atto della felicità messianica. Vieira non si discosta su questo punto dal paradigma tradizionale della letteratura apocalittico-messianica, come si può vedere dai seguenti passaggi, tratti da due lettere scritte nel dicembre del 1663: «Ciò che è certo è che le profezie andranno compiendosi a passo deciso, e che, secondo esse, attraverso i grandi sforzi e le calamità della Chiesa, ci aspettiamo per lei e per il nostro regno le immense felicità che sono state promesse […] Tutto si sta avviando alla punizione della cristianità, che, secondo le profezie, è l’ultima disposizione delle gioie che si attendono58». Come abbiamo già visto, il ragionamento per antitesi è caratteristico di quell’esimio oratore e scrittore barocco che fu Vieira. L’imminenza della tragedia può allora essere presagi-

58. Lettere, rispettivamente, del 19 e del 26 dicembre del 1663, in A. Vieira, Cartas, Vol. II (1971), p. 17 e p. 21.

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ta dalla congiunzione dei segnali che l’annunciano, dalla loro assenza o dalla presenza di segnali che paiono apertamente contraddirla. Dio possiede una percezione dell’opportunità dei tempi e delle occasioni molto differente da quella che possiedono gli uomini, e anche se l’attuale stato del mondo non sembra svelare alcun chiaro segnale circa il compimento delle profezie, ciò non esclude che tale situazione presupponga che siano proprio queste le circostanze che la Provvidenza di Dio sta aspettando «per rendere ancore più meravigliose le sue meraviglie59». Per Vieira, tutta la storia dell’umanità e del mondo è una storia di salvezza guidata dalla Provvidenza divina. Non c’è, dunque, una sostanziale differenza tra la storia biblica e la storia delle nazioni moderne; ciò permette allo storico-teologo di passare dall’una all’altra senza discontinuità, come se si trattasse di uno stesso tessuto. Secondo tale concezione, tutti gli avvenimenti obbediscono ad un piano della Provvidenza di Dio, e nella realizzazione di questo piano il ruolo delle nazioni, dei re e degli individui è molto secondario, giacché Dio potrebbe sempre dispensarli, sostituirli o perfino sopprimerli. Si presti attenzione a questa splendida pagina di estetica e teologia barocche in cui si condensa tutta la concezione vieirina della storia: «Questo mondo è un teatro, gli uomini gli attori che vi recitano e la storia veridica dei suoi accadimenti è una commedia di Dio, delineata e disposta meravigliosamente secondo le età della sua Provvidenza. E come l’eccellenza e la sottigliezza dell’arte teatrale consiste principalmente in quella sospensione dell’intelletto e nel dolce turbamento dei sensi, con cui la trama li viene trascinando con sé, sempre in bilico tra un avvenimento e un altro, mentre le fine della storia si viene occultando ad arte, senza che si possa capire dove va a concludere, se non

59. A. Vieira, Cartas, Vol. III (1971), p. 617.

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quando già s’avvia al termine e si scopre repentinamente tra l’attesa e l’applauso; così Dio, sommo Autore e Governatore del mondo, e perfettissimo Modello di tutta la natura e l’arte, a maggior manifestazione della sua gloria e ammirazione della sua sapienza, ci nasconde le cose future, anche quando le fa scrivere dai profeti, in modo che non ci lascia comprendere né attingere i segreti delle sue intenzioni, se non quando sono già pervenuti o vanno giungendo le loro fini, per tenerci sempre sospesi nell’attesa e pendenti dalla sua Provvidenza60». La storia umana è, di conseguenza, una «gesta Dei per nationes», e Dio è il suo vero protagonista. Gli uomini, confinati in uno spazio che si illumina con il progressivo sviluppo degli avvenimenti, si limitano ad ammirare lo spettacolo e, occasionalmente, ad interpretare il ruolo di comparse che gli è stato attribuito. All’interno di questo scenario, per ciò che riguarda la realizzazione del piano provvidenziale di Dio, vi è naturalmente una vocazione o destinazione storica speciale per certi popoli e per alcuni individui. Nei tempi antichi, tale funzione messianica spettava ad Israele. Nei tempi moderni, secondo Vieira, è il Portogallo la nazione cui compete questo ruolo. Non però per merito proprio, visto che, almeno nell’epoca di Vieira, la nazione portoghese certo non lo possiede, né per il suo potere militare o economico, ma per una decisione divina, che sceglie chi desidera per portare a compimento i suoi segreti disegni. Il ruolo stesso dei re è molto limitato. In verità, essi sono subordinati al supremo dominio di Dio, il quale, «come Signore assoluto dei regni e degli imperi, li può dare e togliere intieri e anche suddividerli e spartirli, quando gli piaccia». Le porpore che indossano i

60. A. Vieira, Livro Anteprimeiro da História do Futuro (1983), p. 110; trad. it. p. 129.

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monarchi «le impresta loro Dio dal suo guardaroba, affinché rappresentino il ruolo regale fin quando a lui piaccia61». L’altra metafora che si combina con quella del teatro è quella del gioco: il gioco del mondo e il gioco della vita. Questo argomento costituisce il tema di uno dei sermoni dedicati a San Francesco Saverio. Il mondo e la vita sono un gioco, un gioco giocato e guidato da Dio. Pur esponendo uno dei temi prediletti del barocco, ripreso da molti altri scrittori e pensatori dell’epoca, Vieira lo arricchisce utilizzando alcuni motivi tratti dalla letteratura sapienziale biblica (Prov. 8, 31) e profana: «Tutti i grandi cambiamenti degli stati che si vedono e si sono visti in questo mondo, sempre vario e cangiante, non sono altro che un gioco perpetuo del supremo potere che lo governa: Ludit in humanis Divina potentia rebus. A dirlo fu lo stesso braccio di questo potere, ossia il Figlio unigenito di Dio, rivelando l’ordine degli avvenimenti umani, che sin dal principio senza principio dell’eternità sono disposti e stabiliti nei segreti della Provvidenza Divina, affinché si rivelino e manifestino nel tempo stabilito: Cum eo eram cuncta componens, ludens in orbe terrarum. Gioco lo chiama, ludens, e dice che la tavola di questo gioco è composta da tutta la rotondità della terra, in orbe terrarum; e per questo è rotonda, giacché chi vi gioca non ha alcuna preferenza sul luogo in cui giocare, avendo tanto diritto a perdere o a vincere il re come i vassalli, i grandi come i piccoli, i ricchi come i poveri, e i signori come gli schiavi62». La rotondità della terra replica la ruota della fortuna, in cui il movimento inarrestabile di quelli che si innalzano fa già prevedere il momento della loro caduta. Vieira conferma tale impostazione quando si riferisce, poco oltre, al gioco dei regni, 61. Ivi, pp. 90-91; trad. it. pp. 109-110. 62. A. Vieira, Sermões, Vol. V (1959), pp. 269-270.

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degli imperi e delle monarchie, fornendo con questa metafora la sua personale visione della successione degli imperi nella storia e del ruolo prossimo venturo che egli attribuisce, in questo gioco giocato da Dio, allo stesso Portogallo: «Cosicché i quattro famosi imperi del mondo, tutti, chi prima, chi dopo, persero in questo gioco, passando da una nazione all’altra, senza che potessero impedirlo in virtù della loro arte o forza […]: Dio è colui che ordina [le carte], dispone e compone le cose come meglio preferisce63». Il gesuita trova nel libro biblico della Sapienza una nuova estensione della metafora del gioco della vita – lusum esse vitam nostram (Sap. 15, 12) –, grazie alla quale veniamo ricondotti alle riflessioni con cui abbiamo iniziato questo saggio. La metafora del gioco della vita testimonia, a suo modo, l’incertezza, la varietà e l’incostanza della sorte o della fortuna, fino alla contingenza e al rischio che caratterizzano tutte le cose umane. Ma essa indica anche il margine di iniziativa che resta agli uomini: se non è nelle loro mani decidere i dadi o le carte con cui giocare e neppure la sorte del lancio, resta loro, tuttavia, l’abilità nell’arte di giocare con le circostanze della vita, la possibilità di utilizzarle, come un buon giocatore, nel modo migliore, cercando di trarre dalle situazioni il miglior guadagno possibile. Ad essere quindi descritta è un’etica delle opportunità: «Questa nostra vita è sicuramente un gioco […] Lo mostrano alla perfezione la varietà, l’incertezza e il rischio presente in essa […] Tuttavia, essendo così diverso il gioco che capita a quelli che si considerano fortunati, e a quelli che si definiscono sventurati, quale rimedio, per quelli di loro con cui sempre vinciamo, e mai perdiamo? Plutarco lo insegnò in modo così veritiero, come se fosse cristiano: Quid jactu cadat non est in nobis situm: at quod cecidit, recte disponere in nobis

63. Ivi, pp. 271-272.

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est. Sic eventus in nobis non est, quod evenit, id in bonum vertere nostri muneris est. Il buon utilizzo dei dadi o delle carte non è nella mano del giocatore, ma se egli è esperto nell’arte è nella sua mano il buon uso del gioco […] Infine, in questo gioco che il mondo chiama della fortuna, ciò che è importante non è essere malvagio o buono, ma essere capace o incapace di utilizzarla». Sebbene Dio sia il supremo autore e direttore della grande commedia della storia o del grande gioco del mondo, ciò non impedisce che le persone che egli chiama a giocare in ogni rappresentazione non siano effettivamente responsabili della qualità del risultato. Il senso della responsabilità, dell’iniziativa e della libertà umane non è, per Vieira, in alcun modo incompatibile con il superiore e provvidenziale governo divino del mondo e della storia. È solamente riconosciuto nella sua reale dimensione e nel suo vero significato.

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Veira e l’ermeneutica barocca

Spiritus enim Prophetarum subjecti sunt Prophetis. 1 Cor. 14, 32

Chiunque legga gli scritti di Padre António Vieira non può evitare di riconoscere l’estensione e l’importanza, sostanziale e strategica, dell’uso dei testi della Scrittura e della loro rispettiva interpretazione. Gli stessi Sermoni, ancora i più caratterizzati dalle circostanze storiche o politiche, o sono il frutto della prolungata esplorazione del senso e del contenuto morale di un testo biblico, quasi sempre del Vangelo e a volte di una sua semplice frase, scelta come tema di tutto il sermone, o sono almeno ampiamente suffragati dalle Sacre Scritture. Nel celebre Sermone della Sessagesima, Vieira espone la propria concezione del buon sermone: esso deve costituire un tutto unico ed organico che può essere rappresentato da un albero, le cui radici – ossia il fondamento – sono naturalmente i Vangeli1. Allo stesso modo, anche negli scritti utopico-messianici, 1. A. Vieira, Obras Escolhidas, Vol. XI (1996, 2ª ed.), pp. 228-229. Vieira fornisce in questo sermone un classico esempio di una pratica che Erasmo registra nel suo manuale di retorica ecclesiastica (largamente ispirato al quarto libro del De Doctrina Christiana di Agostino), imponendogli

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in particolare nella Storia del Futuro e nella Clavis Prophetarum, il ricorso alla Scrittura è decisivo: «Saranno, poi, fonti primarie di questa nostra storia e primi e principali scrittori che seguiremo in essa, tutti (o quasi tutti) i profeti canonici da Osea a Malachia […] Così possiamo dire in una parola che prima e principale fonte e primo e principale fondamento di tutta questa nostra storia è la sacra scrittura2». Il concetto è espresso nella stessa forma anche nella Clavis: «Cercheremo ciò che dobbiamo sostenere, non nelle foglie sibilline che volano trascinate dai rapidi venti senza opporre resistenza, ma nelle sacre fonti della verità, ossia nelle divine pagine3». Soprattutto in quest’ultima opera, il suo autore rivela una conoscenza vasta e profonda della storia dell’ermeneutica dei testi biblici, dalla Patristica agli esegeti a lui contemporanei, mettendo in risalto la coscienza dell’autonomia dell’interprete, che si traduce non soltanto nella rivendicazione della legittima pretesa di criticare gli esegeti antichi e recenti, mostrando le rispettive contraddizioni o la fragilità dei loro presupposti e conclusioni, ma anche nella rivendicazione della libertà di proporre egli stesso delle congetture interpretative dei testi, con l’intento di eliminare i luoghi oscuri delle profezie presenti nella Scrittura. Vieira, pertanto, era ben cosciente dell’importanza del suo ricorso ai testi biblici e anche della singolarità e novità che lo caratterizzavano, al punto da apparire talvolta estraneo ai suoi stessi lettori. La pratica ermeneutica del gesu-

precise condizioni di pertinenza: «Non est absurdum, quod recentiores a Scripturae sententia quapiam sermonen auspicantur, Thema vocant, modo ea sit huiusmodi, ut argumenti summam complectatur, ex ipso loco quem interpretatur decerpta», Erasmo da Rotterdam, Ecclesiastae sive de ratione concionandi libri IV, Basileae 1544, p. 232. 2. A. Vieira, Livro Anteprimeiro da História do Futuro (1983), pp. 96-97; trad. it. pp. 114-115. 3. A. Vieira, Clavis Prophetarum (2000), p. 9.

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ita fu, del resto, uno dei principali punti oggetto della condanna dei suoi scritti da parte degli inquisitori, che lo accusavano espressamente di corrompere e adulterare il vero significato della Scrittura, arrivando fino a piegare violentemente i testi in modo da suffragare le proprie idee personali4. Nella petizione inviata al tribunale dell’Inquisizione, Vieira non solo conferma i presupposti e la buona ortodossia dei suoi procedimenti ermeneutici, ma presenta inoltre una vasta esposizione delle sue capacità ed esperienza nelle arti esegetiche5. Ed è precisamente nei capitoli della Storia del Futuro, un’opera scritta in pessime condizioni di salute ed estreme limitazioni fisiche per rispondere alle istanze degli inquisitori, che l’autore espone la propria posizione su tale questione ermeneutica. Se questa esposizione ha un’immediata funzione apologetica, per la lucidità di cui dà prova, per la convinzione delle sue tesi e per l’ampiezza dei suoi argomenti, finisce però per trascendere il suo obiettivo, quello di essere cioè un semplice discorso di difesa, diventando in realtà un’importante testimonianza della propria riflessione ermeneutica, lungamente maturata e coerentemente sviluppata. Lo studio della concezione e della pratica dell’ermeneutica vieirina è imprescindibile sia per comprendere il pensiero di questo singolare gesuita – in particolare le sue idee messianico-escatologiche e la particolare modalità di analizzarle –, sia per presentare, in un’epoca in cui si stava assistendo ad una profonda trasformazione dei presupposti dell’ermeneutica biblica, un emblematico ed importante testimone di una sensibilità culturale inscritta in un ampio processo di cui faceva

4. A. Vieira, Sentença que no Tribunal do Santo Ofício de Coimbra se leu ao Padre António Vieira, in Id., Obras Escolhidas, Vol. VI (1952), p. 181. 5. A. Vieira, Petição ao Conselho Geral da Inquisição, in Id., Obras Escolhidas, Vol. VI (1952), pp. 69-85.

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parte, soprattutto attraverso il suo Trattato Teologico-Politico, lo stesso Baruch Spinoza, un altro grande pensatore di origine portoghese. Un confronto tra le strategie ermeneutiche dello scrittore gesuita, che sperimentò, a causa delle sue convinzioni, il duro trattamento di un tribunale del Sant’Uffizio, e del filosofo ebreo, che fu ugualmente vittima, per le sue idee eterodosse, dell’intolleranza della sua comunità, sarebbe naturalmente di grande interesse, sebbene non faccia parte dell’argomento principale del presente saggio6. Benché sia, almeno nelle intenzioni esplicite, uniformata ai limiti definiti dal Concilio di Trento, l’ermeneutica vieirina si trova in un momento di svolta: essa rende infatti perfettamente conto di una tensione non ancora risolta tra i presupposti dell’ermeneutica medievale e le concezioni rinascimentali e moderne dell’interpretazione. A dispetto dell’importanza sostanziale e strategica del tema, fondamentale per comprendere lo stile e il modo di pensare di Vieira, la maggior parte degli interpreti non ha dedicato la dovuta attenzione a questo aspetto dell’opera del gesuita7. Tuttavia, nei tempi in cui vivia6. Per un’analisi della riflessione ermeneutica dei due autori, cfr. F. Lévi, Vieira e Espinosa: duas interpretações opostas da Sagrada Escritura e das profecias, in Terceiro Centenário da Morte do Padre António Vieira, Actas do Congresso Internacional (Lisboa, 20-23 de Novembro de 1997), Universidade Católica Portuguesa – Provincia Portuguesa da Companhia de Jesus, Braga 1999, Vol. II, pp. 1147-1156. 7. Questa affermazione è ora meno pertinente di quanto non fosse nel periodo in cui abbiamo redatto la prima versione di questo saggio, presentato nel Seminário Internacional de Estudos Luso-Brasileiros. Homenagem a Anchieta e Vieira, organizzato dal Liceu Literário Português e dalla Pontifícia Universidade Católica do Rio de Janeiro, dal 16 al 19 settembre 1997. R. Cantel, ad esempio, ha dedicato a questo aspetto del pensiero del gesuita portoghese alcune pagine della sua opera Prophétisme et Messianisme dans l’Œuvre d’Antonio Vieira, Édiciones Hispano-Americanas, Paris 1960, in part. pp. 52-55. António José Saraiva, avvertendo l’importanza dell’argomento, ha promesso di dedicargli un saggio, ma non sappiamo

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mo, contrassegnati da un’acuta sensibilità ermeneutica, in un periodo storico che qualcuno ha definito “l’epoca ermeneutica della ragione8”, non è affatto inopportuno prestare attenzione ad un argomento certamente non secondario dell’opera e del pensiero del grande scrittore, oratore e pensatore barocco9.

se sia riuscito a soddisfare la sua promessa. Un’eccezione è il breve studio di K. Rühl, Biblischer Originaltext und Bibelversion in den Predigten Vieiras, in H. Fläsche (ed.), Aufsätze zur portugiesischen Kulturgeschichte, Portugiesische Forschungen, I/5, Münster 1966, pp. 207-213. È stato soprattutto nel contesto delle commemorazioni del centenario della morte di Vieira che vari interventi ed alcuni articoli si sono occupati degli aspetti della riflessione ermeneutica dello scrittore barocco: cfr. J. C. Barcellos, Hermenêutica bíblica de Ludolfo de Saxónia a António Vieira, in Actas do Congresso Internacional, Vol. II (1999), pp. 1181-1194; J. N. Carreira, Os Sermões do Padre António Vieira e a crítica literária da Bíblia, in Ivi, pp. 1195-1205; Id., O uso da escritura nos sermões da Vieira, in M. V. Mendes – M. L. G. Pires – J. D. C. Miranda (org.), Vieira Escritor (1997), pp. 95-106; J. Villalejas, Palabra de Dios y sermones del P. Vieira, in Ivi, pp. 1207-1213; F. Lévi, Vieira e Espinosa: duas interpretações opostas da Sagrada Escritura e das profecias, in Ivi, pp. 1147-1156; C. Lund, António Vieira e Menasseh ben Israel: uma aproximação de dois hermeneutas, in Ivi, pp. 1125-1159; A. Coyné, Antonio Vieira: Prophétisme et Prophétie, in Ivi, pp. 835-855. Cfr. inoltre i due saggi di S. Peloso, O paradigma bíblico como modelo universalista de leitura em António Vieira, Brotéria, 145 (1997), pp. 557-566; Id., Ut libri prophetici melius intelligantur, omnium temporum historia complectenda est: O Quinto Império de António Vieira e o debate europeu nos Séculos XVI e XVII, in M. V. Mendes – M. L. G. Pires – J. D. C. Miranda (org), Vieira Escritor (1997), pp. 177-187. 8. L’espressione è di J. Greisch, L’âge herméneutique de la raison, Éditions du Cerf, Paris 1985. 9. Alcune opere recenti si sono dedicate ad una rivisitazione della riflessione ermeneutica nel XVI e XVII secolo: a questo proposito, cfr. G. Canziani – Y. C. Zarka (a c. di), L’interpretazione dei secoli XVI e XVII (2000); R. Bordoli, Ragione e Scrittura tra Descartes e Spinoza. Saggio sulla «Philosophia S. Scripturae Interpres» di Lodewijk Meyer e sulla sua ricezione, Franco Angeli, Milano 1997.

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1. Vieira e la dottrina ermeneutica tridentina A partire dalla metà del XV secolo, la critica dei metodi della teologia scolastica, inizialmente da parte degli umanisti10, e in seguito, dalle prime decadi del XVI secolo, anche da parte dei teologi riformati11, modificò profondamente la concezione e la pratica dell’ermeneutica biblica, costringendo i teologi e i padri del Concilio di Trento ad affrontare la questione con particolare attenzione. Gli umanisti erano assolutamente consapevoli dell’importanza sociale, antropologica e teologica del linguaggio; ciò li spingeva a coltivare con particolare cura le discipline connesse all’espressione, vale a dire la grammatica e la retorica, considerate le basi di tutte le scienze e le arti, dalla filosofia fino alla teologia. Nel campo dell’ermeneutica biblica, le concezioni degli umanisti e dei riformatori si traducevano in tre presupposti fondamentali: 1) nella volontà di ritornare ai testi nella loro forma più genuina e nelle lingue in cui

10. I protagonisti principali di questo processo sono, fra gli altri, Lorenzo Valla ed Erasmo da Rotterdam. Di Valla, si tengano presenti le sue Adnotationes in Novum Testamentum (1444-1457), mentre di Erasmo si considerino le due seguenti opere: In Novum Testamentum Praefationes (1516) e la Ratio seu Methodus compendio perveniendi ad veram Theologiam (1518). Sull’ermeneutica di Valla, cfr. S. I. Camporeale, Lorenzo Valla. Umanesimo e Teologia, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, Firenze 1972, pp. 277 e sg. Sull’ermeneutica degli umanisti, cfr. inoltre J. H. Bentley, Humanists and Holy Writ: New Testament Scholarship in the Renaissance, Princeton University Press, Princeton 1983. 11. Di Filippo Melantone si vedano, soprattutto, le seguenti opere: il De corrigendis adolescentiae studiis (1518) e l’Encomion eloquentiae (1523). La posizione dell’umanista luterano è chiarissima: «Cum nostris verbis loqui Deus voluerit, de sermone divino inepte iudicaverint imperiti artium dicendi», Filippo Melantone, Encomion eloquentiae, in Melanchthons Werke in Auswahl, III Band: Humanistische Schriften, ed. R. Nürnberger, Gütersloh Verlagshaus Gerd Mohn, Gütersloh 1969, p. 58. Si veda inoltre il nostro saggio A teologia retórica dos humanistas, in L. Ribeiro dos Santos, Linguagem, Retórica e Filosofia no Renascimento, Colibri, Lisboa 2004, pp. 77-115.

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erano stati originariamente scritti: questo proposito li portava non solo a proporre delle correzioni alla versione latina della Vulgata – l’emendata lectio –, ma anche ad intraprendere nuove traduzioni dei testi biblici e a considerare la stessa Vulgata una fonte secondaria in rapporto alle fonti originali, giudicate maggiormente credibili; 2) nell’attenzione concessa alla letteralità e letterarietà delle opere bibliche: questo presupposto li spingeva ad essere particolarmente sensibili alla necessità di captare e fissare, innanzitutto, il concreto significato letterale dei testi, così da poter riconoscere il loro carattere poetico e retorico; 3) nella tendenza a criticare l’eccessiva ed inutile proliferazione di interpretazioni allegorizzanti e nella volontà di evitarle, sostituendole con esegesi letterali o il più fedeli possibile al senso letterale e letterario dei testi. Il Concilio di Trento non poteva aggirare una simile questione, dalla quale dipendeva la credibilità delle fonti stesse della propria fede. In un decreto uscito dalla sua quarta sessione – il Decretum de vulgata editione Bibliorum et de modo interpretandi S. Scripturam –, l’8 aprile del 1546 stabilì i limiti consentiti ai cattolici nell’interpretazione della Scrittura, mettendo in risalto tre punti essenziali: 1) spetta alla Chiesa giudicare la vera intelligenza delle Sacre Scritture per ciò che concerne le questioni di fede e i costumi; 2) tutta l’interpretazione deve mantenersi nell’alveo della riflessione dei Padri; 3) il Concilio stabilisce che la Vulgata deve essere considerata l’autentica (pro autentica) versione latina dei libri biblici, sebbene non sia vietato agli esegeti e agli interpreti cattolici (ivi compresi i portoghesi) continuare a confrontare il testo con le versioni più antiche della Bibbia12. 12. Sullo stato dell’esegesi biblica in Portogallo al tempo di Vieira, cfr. il già citato articolo di J. N. Carreira, Os Sermões do Padre António Vieira e a crítica literária da Bíblia, in Actas do Congresso Internacional, Vol. II (1999), pp. 1195-1205.

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Il Concilio confermava così l’autorità della Chiesa e il principio della tradizione in materia di interpretazione dei testi sacri, «frenando la velleità e l’audacia degli ingegni individuali, che piegano il significato della Sacra Scrittura in funzione dei loro punti di vista, andando contro quel senso che è stato ed è proposto dalla santa madre Chiesa, a cui compete giudicare del vero significato dell’interpretazione delle Sacre Scritture, o che sono soliti interpretare la stessa sacra Scrittura contro il consenso unanime dei Padri13». Vieira conosceva bene le formule di questo decreto conciliare, che egli stesso trascrive e traduce; desiderava pertanto, senza dubbio perché cosciente della novità ed eccentricità di alcune delle sue interpretazioni, esplicitare la portata di quel decreto, in modo da poter trovare in quelle stesse formule conciliari uno spazio di libertà e creatività per il suo lavoro di interprete. Vieira enuncerà allora i principi che regolano il suo utilizzo e interpretazione dei testi biblici nella presunzione di non contraddire la lettera delle proposizioni conciliari e nella convinzione di continuare il libero esercizio della pratica ermeneutica degli antichi Padri della Chiesa. Dalla personale lettura del decreto tridentino Vieira trae dunque le seguenti conclusioni: 1) Spetta alla Chiesa Cattolica, prima e unica regola di verità, il potere e l’autorità suprema per interpretare, dichiarare e definire il vero e genuino significato della Scritture; questo

13. «Praeterea ad coercenda petulantia ingenia decernit, ut nemo, suae prudentiae innixus, in rebus fidei et morum, ad aedificationem doctrinae christianae pertinentium, sacram scripturam ad suos sensus contorquens, contra eum sensu, quem tenuit et tenet sancta mater Ecclesia, cuius est iudicare de vero sensu et interpretatione scripturam sanctarum, aut etiam contra unanimen consensum Patrum ipsam scripturam sacram interpretari audeat, etiamsi huiusmodi interpretationes nullo unquam tempore in lucem edendae forent…», Enchiridion Symbolorum Definitionum Declarationum de Rebus Fidei et Morum, ed. H. J. D. Denzinger – A. Schönmetzer, Friburgi Breisgoviae, Herder 1965, p. 366.

81 potere e questa autorità si esercitano soprattutto nelle questioni decisive per la fede e per l’orientamento dei costumi e a proposito di quei passi della Scrittura il cui senso è particolarmente difficile da interpretare, e che se fossero lasciati alla libertà degli interpreti potrebbero dare origine alle peggiori eresie; 2) Sui problemi che riguardano la fede e i costumi, quando i Padri della Chiesa sono unanimi nell’intelligenza di un certo passo della Scrittura, siamo obbligati a non dissentire, non essendo possibile interpretarlo in modo contrario; 3) Quando il significato che si attribuisce o che si può attribuire alla Sacra Scrittura, spiegato col comune consenso dei Padri, non è contrario ma differente, l’esegeta può interpretare lo stesso testo in modo diverso.

Vieira rivela non soltanto di conoscere perfettamente la dottrina tridentina sull’interpretazione della Scrittura e l’utilizzo che ne facevano i teologi, ma di accettarla nella sua interezza. Ad ogni modo, ad essere particolarmente significativo è il fatto che il gesuita fosse in grado di trovare, nella lettera stessa del Concilio, la legittimazione per la libera interpretazione personale da lui rivendicata. Questa libertà è illimitata quando gli argomenti in esame non si riferiscono direttamente a questioni di fede o di costume e quando la nuova interpretazione proposta non contraddice l’unanime consenso dei Padri. L’interpretazione può essere infatti diversa, senza essere necessariamente contraria. La libertà consentita non è quella di un andare contro, ma quella di un andare al di là, dando luogo ad un’esegesi differente. Con le parole di Vieira: «Si coglie chiaramente dalle stesse parole del Concilio, che non proibiscono che si possa attribuire a quella Scrittura un significato diverso,

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bensì un significato opposto […] Il significato diverso non si oppone né distrugge il significato attribuito dai Padri14». Resta comunque un ampio spazio per la libertà e creatività dell’interprete; una qualsiasi interpretazione non deve essere dunque considerata sospetta semplicemente perché nuova, o magari perché appare estranea a quelle già consolidatesi. Insiste Vieira: «Se il nuovo o differente significato che si attribuisce allo stesso luogo della scrittura non è contrario bensì diverso, non contra bensì praeter […], questo secondo e diverso significato non è compreso nel decreto del Concilio, che proibì soltanto e soltanto intese proibire i significati che fossero contrari e non altri. E la base di questa conclusione è che, nello stesso luogo della Sacra Scrittura, possono esservi molti sensi non allegorici ma letterali, come sostiene la più condivisa opinione dei teologi, posto che non possano aversi sensi contrari o contraddittori, che si scontrano con la verità. E chi in un tal luogo della Scrittura darà alcuna di queste interpretazioni, non perciò andrà contro la dottrina degli stessi Padri, poiché in tutto la lascia integra e in pieno vigore, come se illustrasse un altro luogo e non lo stesso15». Vieira si spinge però ancora più lontano, mostrando, attraverso la storia della Chiesa e l’autorità dei Santi Padri, come la diversità di opinioni, la disputa e il confronto – queste «pacifiche battaglie» – hanno spesso garantito, anche nelle questioni teologiche, l’effettivo progresso della verità. E nella Clavis Prophetarum il gesuita è abilissimo nel sottolineare a proprio favore la «costante discordia delle opinioni», considerandola come una situazione che necessita di essere oltrepassata; è opportuno perciò che altri interpreti cerchino di conciliare

14. A. Vieira, Livro Anteprimeiro da História do Futuro (1983), p. 179; trad. it. p. 206. 15. Ivi, p. 176; trad. it. p. 202 (il testo italiano è leggermente modificato).

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quello che le successive generazioni di esegeti e teologi non sono stati in grado di armonizzare16. Per rendere ragione dell’assenza di unanimità fra gli stessi teologici ed esegeti, Vieira presenta diverse ragioni: la difficoltà e oscurità proprie di molti luoghi della Scrittura, il differente stile e sensibilità di ciascun interprete e il rispettivo momento storico in cui ogni esegeta si inscrive. Egli ritiene inoltre che l’apprensione della verità della rivelazione o del significato delle profezie non dipenda dall’ingegno e della capacità dell’interprete, ma soprattutto dalle circostanze del tempo. È quindi per il contesto storico, o per il momento temporale cui appartiene, e non propriamente e soltanto per la sua capacità, che l’ermeneuta contemporaneo potrà trarre dei vantaggi nei confronti di qualunque esegeta antico. Come scrive il teologo gesuita: «È certo che i Padri non concordarono in tutto, anzi in molte cose discordarono e sostennero opinioni diverse e addirittura sostennero controversie accesissime tra di loro, come le sostengono oggi i teologi del nostro tempo, e queste pacifiche battaglie sono quelle che hanno dato tanto vittorie alla Chiesa e trionfi alla verità. E per quanto attiene la esposizione delle Scritture […] i Padri le interpretano molte volte in sensi molto diversi e addirittura contrari, come si legge nei loro commentari, o per l’oscurità di molti luoghi di queste, o per la loro grande fecondità o per la differenza naturale degli intelletti stessi, che sono tanto differenti nelle anime degli uomini come i volti nei corpi17». In altri passaggi, Vieira presenterà un’altra ragione per spiegare i motivi per cui i Padri antichi, a dispetto di tutta la loro sapienza, non riuscirono a comprendere il significato letterale

16. Cfr. A. Vieira, Clavis Prophetarum (2000), p. 17 e p. 159. 17. A. Vieira, Livro Anteprimeiro da História do Futuro (1983), p. 175; trad. it. p. 201.

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e storico di molti testi biblici. A loro mancava infatti la conoscenza di molti dati cosmografici e geografici che solo molto più tardi, grazie all’esperienza delle navigazioni dei portoghesi, sono state acquisite. L’assenza di precise conoscenze era sostituita da «ragioni filosofiche […] che allora, prima della esperienza, prendevano il nome di ragioni, ma oggi ci paiono ridicolaggini18». E così, invece di interpretazioni proprie e letterali che, per le circostanze appena esposte, i Padri non erano in grado di fornire, offrivano spiegazioni meramente allegoriche. L’interpretazione del senso genuino di molti passaggi della Scrittura, dunque, dipende, secondo Vieira, dall’avanzamento delle conoscenze umane, e ciò a sua volta deriva dalla maturità dei tempi storici, una circostanza che, come vedremo più avanti, pone in vantaggio gli interpreti moderni rispetto a quelli antichi. Vieira era consapevole di essere parte di una tradizione ermeneutica che ben conosceva e che animava la sua pretesa, da lui considerata legittima, di completare il lavoro delle generazioni di interpreti che lo avevano preceduto, conciliando interpretazioni divergenti, gettando luce sui passaggi ancora oscuri o semplicemente considerati irrilevanti da tutti gli altri interpreti, e dando, infine, unità al lavoro di molti, o, come scrive lui stesso, riducendo «ad un unico discorso ciò che gli altri disseminavano in molti luoghi19». Era sicuro, del resto, di possedere tutte le capacità necessarie per portare a termine questa impresa. Il gesuita ricorda infatti agli inquisitori che i suoi superiori gli diedero molto presto responsabilità di insegnamento non soltanto di Umanità e Filosofia, ma anche di Teologia e Scrittura, e che, nello svolgimento di tali incombenze, a partire dai 19 anni cominciò «un commentario

18. Ivi, p. 136; trad. it. p. 160. 19. A. Vieira, Obras Escolhidas, Vol. VI (1952), p. 157.

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letterale e morale sul libro di Giosuè e un altro sui Cantici di Salomone20». Vieira precisa inoltre che nei suoi molti viaggi e nelle sue lunghe peregrinazioni non abbandonò mai questi studi, ma gli approfondì grazie al consiglio di uomini dotti e attraverso lo studio, «essendo piuttosto un inquilino della libreria che del cubicolo»; il gesuita portoghese lesse quindi le opere a partire dalle loro fonti (principalmente quelle dei Santi Padri e commentatori della Scrittura, che dice di aver percorso nella sua interezza, e in modo particolare i libri profetici), soffermandosi sempre «sul senso genuino e radicale preteso dallo Spirito Santo», non distraendosi «nelle foglie e nei fiori (che rappresenta lo studio ordinario dei portoghesi), e cercando soprattutto la coerenza di ciascun luogo con gli altri, così che tutti potessero comprendersi in modo concorde, senza dare luogo ad alcuna contraddizione o ripugnanza in tutto il Testo sacro21». Viera era realmente convinto dell’ortodossia delle sue concezioni, considerate suffragate dalla stessa Scrittura e dalla dottrina dei Santi Padri e dei teologi, tanto dei più antichi quanto dei più recenti. Tuttavia, l’ingegnosità della sua esposizione, unita al carattere sorprendente delle sue associazioni e conclusioni, non poteva certo evitare di risultare sospetta ai suoi censori. Possiamo comprendere adeguatamente le ragioni dei suoi critici se chiarifichiamo alcuni dei presupposti di Vieira: 1) la sua concezione dell’unità, universalità e continuità della rivelazione; 2) la sua nozione di verità; 3) il ruolo del tempo nella rivelazione della verità; 4) la ricerca del significato letterale e della coerenza della Scrittura; 5) il lavoro di interprete e la funzione propria dell’ingegno e della ragione naturale nell’attività ermeneutica.

20. Ivi, p. 158. 21. Ivi, p. 159.

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2. Unità, universalità e continuità della rivelazione Tutta la concezione vieirina dell’ermeneutica biblica è dominata da un’idea fondamentale: quella dell’unità, universalità e continuità della rivelazione e della profezia nella storia, le quali si realizzano in molte forme e attraverso molteplici mezzi. Dio, la verità stessa e la fonte di ogni verità, si rivela lungo la storia a tutti i popoli, in molte maniere e a differenti persone, non limitandosi all’epoca della rivelazione canonica. In questa unica e continua storia della rivelazione e della profezia, l’interpretazione delle Scritture è naturalmente parte di questa stessa rivelazione profetica. Vieira afferma innanzitutto la portata universale della rivelazione fatta da Dio attraverso le Scritture canoniche, destinate a tutto il genere umano, e non soltanto a un popolo (gli Ebrei) o ad una comunità (i Cristiani) particolari: «È certo che, se le persone esperte nelle divine Scritture considerassero diligentemente il loro contenuto e il piano e l’armonia con cui furono dettate dallo Spirito Santo, si convincerebbero facilmente che non furono scritte soltanto in funzione della legge e dell’osservanza degli Ebrei, ma anche per la lezione e lo studio di tutte le altre nazioni22». Non dimenticando di sottolineare la superiorità anche letteraria delle Scritture bibliche nei confronti della letteratura pagana, Vieira fornisce una versione personale del tema medievale e rinascimentale della translatio sapientiae, secondo cui la rivelazione divina, originariamente fatta a Mosè, sarebbe poi passata ai Caldei e agli Egizi, giungendo infine ai Greci: «Il primo libro che il mondo vide fu il Pentateuco di Mosè, e non mancano certo alcune congetture per credere che Mosè fu quel prodigioso Mercurio che gli antichi celebravano con il 22. A. Vieira, História do Futuro, introdução, actualização do texto e notas por M. C. Buescu, INCM, Lisboa 1992, p. 336.

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nome di Trismegisto. Questo libro fu quello che fece i Caldei maestri dell’Asia, gli Egizi dell’Africa e i Greci dell’Europa23». Universale quanto al suo destino, la rivelazione è universale anche per i mezzi e gli strumenti di cui si serve: si dà infatti attraverso le persone, gli accadimenti del mondo fisico e storico, le parole, i gesti, i fatti, i segni; e si dà non soltanto nel popolo di Dio e nella sua Chiesa, ma si manifesta anche fra i gentili. È il caso delle Sibille, le profetesse del mondo pagano, cui si riferisce lo stesso Vieira: «Dio comunicò lo spirito di profezia a queste famose donne, perché, così come gli Ebrei ebbero i loro profeti, anche i Gentili avessero i loro, così che fossero manifesti ad entrambi i consigli divini, principalmente quelli necessari per la salvezza del mondo, secondo l’ordine e la disposizione della sua Provvidenza. E se qualcuno domandasse curiosamente a chi e con quale bocca Dio parlò più chiaramente, se agli Ebrei attraverso i profeti, o ai Gentili grazie alle Sibille, rispondo che in molte cose particolari, specialmente riguardo a Cristo, le Sibille parlarono in modo più chiaro di quanto non avessero fatto i Profeti, come si può vedere facilmente dai loro libri24». Lo spirito di profezia continua ad essere dispensato da Dio a certe persone, e si esprime non solo o non tanto in nuove profezie, ma nello sforzo di decifrare l’oscurità di quelle antiche. L’esegeta partecipa così, a suo modo, della carica profetica, come si può verificare dalla personale interpretazione fornita da Vieira di un passaggio paolino, secondo cui solo coloro che sono in qualche modo profeti possono interpretare i vaticini dei profeti: «le ispirazioni dei profeti devono essere sottomesse ai profeti25». 23. Ivi, p. 335. 24. Ivi, p. 346 e pp. 350-351. 25. 1 Cor., 14, 32.

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Universale è la rivelazione anche perché il disegno divino sulla storia dell’uomo si manifesta al di là delle Scritture e profezie canoniche, in certi spiriti (è il caso di Bandarra), che possono essere letti come dei segnali inequivocabili rivolti da Dio agli uomini. Questo è il caso delle profezie relative al Portogallo: anch’esse infatti, «sebbene di minore autorevolezza, furono tuttavia dettate […] dallo stesso Spirito26». Dio si rivela, infine, attraverso degli avvenimenti storici e dei fenomeni naturali o cosmici: segnali del tempo o del cosmo (è il caso delle comete27) che l’interprete può leggere nel grande libro della natura come annunciatori di scenari che hanno luogo nel teatro del mondo presieduto da Dio, supremo autore di quella divina commedia (o umana tragicommedia) che è la Storia considerata nella sua totalità. La rivelazione e la profezia obbediscono ad una precisa economia della Provvidenza, diretta manifestazione della volontà di Dio, e non puntano certo alla soddisfazione di una vana curiosità degli uomini. L’ampio dominio della nozione vieirina di profezia non consente tuttavia alcuno spazio alle profezie dei sebastianisti, considerate «documenti falsi e moderni, fatti al suono del tempo e disfatti dal tempo stesso, che ha dimostrato totalmente il contrario28». Non è facile comprendere il motivo di un rifiuto così deciso. Potrebbe essere dovuto forse alla convinzione che queste profezie non fossero altro che una testimonianza meramente politica e nazionalista, una sterile nostalgia fissata nel passato? Il messianismo di Vieira è, di fatto, orientato dal principio del futuro e il suo nazionalismo, più morale e spiri-

26. A. Vieira, Livro Anteprimeiro da História do Futuro (1983), p. 87; trad. it. p. 105. 27. A. Vieira, Voz de Deus ao Mundo, a Portugal e à Baía. Juízo do Cometa, in Id., Obras Escolhidas, Vol. VII (1953), pp. 1-56. 28. A. Vieira, Cartas, Vol. I (1970), p. 517.

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tuale che politico e terreno, è pensato al servizio di un piano divino di portata universale che trascende, nelle sue esigenze morali, l’ambito politico e nazionale. Un altro aspetto dell’ermeneutica vieirina è la convinzione della continuità dello spirito profetico nel corso della storia, una linearità che sopravvive al tempo canonicamente riconosciuto della rivelazione. Scrive il gesuita: «E poiché lo Spirito Santo, una volta chiuso il numero dei libri e delle sacre scritture […], non smise di illuminare e adornare la Chiesa sua Sposa con il dono e il lume della profezia; e poiché dopo quei primi anni vi furono sempre nuovi profeti, illuminati dallo stesso spirito, i quali predissero molti avvenimenti futuri, dei loro e dei tempi successivi, con parole e scritti, anche questi forniranno materia alla nostra storia. Metteremo in conto solo quelle profezie che, o per la santità dei loro autori approvati e canonizzati dalla Chiesa o per altre solide basi di ragioni, esperienza e opinione del mondo, hanno meritato, nel giudizio degli assennati, il nome e la venerazione di profezie o predizioni veridiche29». A dispetto di queste esplicite riserve, questo è uno degli aspetti più fragili del discorso di Vieira, come metteranno bene in risalto i suoi censori. Sebbene nel suo spirito vi fosse, in principio, una gerarchia e, di conseguenza, il riconoscimento di una differenza tra le profezie canoniche e quelle che non lo erano, il suo discorso, in realtà, non sempre si manteneva nel «giudizio degli assennati», giacché a volte mescolava a tal punto le sue varie fonti profetiche che la costruzione che ne risultava si rivelava quantomeno bizzarra, e non poteva dunque, al netto della sua ingegnosa verosimiglianza, non risultare so-

29. A. Vieira, Livro Anteprimeiro da História do Futuro (1983), p. 99; trad. it. p. 118.

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spetta agli occhi dei suoi censori, per quanto fosse magnanima e comprensiva la loro tolleranza. A rivelarsi controversa fu soprattutto la fiducia che Vieira attribuiva alle strofe di Bandarra e al loro carattere profetico, su cui scrive: «Fu una luce soprannaturale, profetica e divina, ad illuminare la comprensione di quest’uomo idiota e umile, affinché le meraviglie di Dio, che in questi ultimi tempi il mondo doveva ammirare in Portogallo, avessero anche quella superiorità che appartiene a tutti i grandi misteri divini molto prima di essere profetizzati30». L’effettiva prova dello spirito profetico, fondata nella Scrittura e nella dottrina e tradizione della Chiesa, è l’accadere delle cose profetizzate. Ora, secondo Vieira, Bandarra supererebbe questa prova, «poiché profetizzò e scrisse tanti anni prima tante cose, così esatte, precise e particolari, che abbiamo visto realizzarsi con i nostri occhi31». È chiaro che il tentativo di evidenziare una precisa corrispondenza tra le strofe cifrate del ciabattino-profeta e il realizzarsi dei fatti profetizzati necessitava di un grande ingegno interpretativo, che non incontrava certo un ampio consenso; inoltre, l’evento principale e decisivo che Vieira leggeva nel testo di questo profeta popolare – la resurrezione del re Giovanni IV – non soltanto tardava ad accadere, ma sembrava ogni volta negato dalla sequenza degli avvenimenti, con grande dolore dello stesso gesuita, che tanto impegno ed enfasi aveva riposto precisamente in questo particolare aspetto delle strofe, a tal punto che la loro mancata realizzazione lo aveva spinto a porre in causa la solidità di tutta la costruzione del suo progetto

30. Lettera a Padre André Fernandes, 29 aprile 1659, in A. Vieira, Cartas, Vol. I (1970), p. 482. 31. Ivi, pp. 468-471.

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messianico32. Ad ogni modo, come abbiamo visto nel primo saggio di questo volume, il gesuita portoghese non fu il solo costruttore barocco di utopie che pagò un tributo all’urgenza e necessità di un’oggettivazione che fornisse delle garanzie concrete alla realizzazione dei suoi progetti. Molte altre figure lo accompagnarono e lo anticiparono. Per fornire soltanto un esempio significativo, il filosofo italiano Tommaso Campanella lo aveva preceduto, attribuendo inizialmente al re di Spagna (De Monarchia Hispanica, 1620), poi al re di Francia (Monarchia di Francia o comunemente della monarchia delle nazioni, 1635) e, infine, al Papa, la missione di realizzare sulla terra la «Monarchia del Messia33».

3. Il concetto vieirino di verità Secondo Vieira, la verità, compresa quella teologica, essendo in se stessa una e identica – giacché la verità immutabile e fonte di ogni verità possibile è Dio stesso –, si esprime nell’uomo in molte maniere e secondo un’articolazione temporale sempre limitata. Il suo contenuto non è infatti afferrabile dall’uomo, né in modo graduale né in un’unica ed immediata maniera. L’ermeneutica vieirina parte dal presupposto che la rivelazione di Dio sia oggettivamente inesauribile e interminabile: il testo delle Scritture è perciò un tesoro sconfinato, suscettibile di letture, commenti ed interpretazioni sempre nuove. Sebbene nel testo rivelato vi sia qualcosa di perenne-

32. Sugli elementi di prova di Vieira, cfr. F. Gil, O advento do Quinto Império e a profecia bíblica, in M. V. Mendes – M. L. G. Pires – J. D. C. Miranda, Vieira Escritor (1997), pp. 275-288. 33. Cfr. T. Campanella, Monarchia di Spagna (1989); Id., Monarchia del Messia (1995).

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mente opaco, tale oscurità è parte integrante della fenomenologia della manifestazione della luce, visto che l’intelligenza del testo può essere sempre più estesa, e al tempo stesso più intensa e profonda. Come sottolinea l’ermeneuta gesuita, l’idea di rendere le Scritture oscure, spingendo l’uomo a leggerle molte volte per coglierne il significato riposto, rappresenta «uno dei misteri di Dio34». L’interpretazione della verità, al pari della sua rivelazione o effettiva manifestazione, è un processo continuo, progressivo e universale, concretato dal ricorso di successive generazioni di interpreti: «Dico che scopriamo oggi di più perché osserviamo da più in alto; e che distinguiamo meglio, poiché guardiamo da più vicino; e che fatichiamo meno, poiché troviamo rimossi gli impedimenti. Guardiamo da più in alto, poiché vediamo sulle spalle dei passati; vediamo da più vicino, poiché siamo più prossimi ai futuri; e troviamo rimossi gli impedimenti, poiché tutti quelli che hanno scavato in questo tesoro e hanno pulito la casa, vennero togliendo impedimenti alla vista; e tutto questo grazie al beneficio del tempo o – per meglio dire – grazie alla provvidenza del Signore dei tempi35». Nel nono capitolo della sua Storia del Futuro, con l’intento di chiarire il grado di verità che la Storia può legittimamente rivendicare, Vieira espone quattro livelli di verità che non si escludono reciprocamente, ma possono essere accumulati. È significativo il fatto che il problema della verità teologica si traduca preferibilmente in una semantica della certezza e nei suoi rispettivi gradi: ciò indica in modo chiaro che, sotto questo aspetto, le concezioni del pensatore gesuita si muovono

34. A. Vieira, História do Futuro (1992), p. 336. 35. A. Vieira, Livro Anteprimeiro da História do Futuro (1983), p. 112; trad. it. p. 131.

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nel sostrato naturale della Modernità, in cui ad essere privilegiata è la natura soggettiva della verità. Abbiamo così, in primo luogo, le verità che sono garantite da una certezza di fede, cioè quelle che si fondano nelle profezie canoniche e della cui intelligenza non è possibile dubitare, sia per la loro chiarezza, sia perché furono commentate all’interno di contesti canonici, attraverso i concili, la tradizione e il comune consenso dei Padri. In secondo luogo, Vieira fa riferimento a quelle verità che sono garantite da una certezza teologica, vale a dire tutte quelle che sono dedotte, in virtù di una naturale e logica conseguenza, dalle prime verità rivelate, non essendo semplicemente né verità di fede né di scienza, ma partecipando di entrambe le condizioni. In terzo luogo, vi sono le verità che richiedono una certezza morale, riferibili anche alle profezie non canoniche, le quali traggono la loro evidenza dalla prova dei loro effetti. Vi è spazio, infine, per una verità che si fonda soltanto su una certezza probabile, giustificata da congetture o verosimiglianze. Le tesi utopico-messianiche vieirine, sia quelle esposte nella Storia del Futuro, sia quelle presentate nella Clavis Prophetarum, possono aspirare solamente a quest’ultimo grado di certezza. Nella Clavis, in modo particolare, occupa un posto di rilievo la nozione di «opinione probabile36» e la difesa della libertà e legittimità di proporre «congetture per lo meno probabili37», «congetture in possesso di una qualche verosimiglianza38», o di «congetturare, disputare e affermare ciò che pare probabile, non con precisione e in modo definitivo, ma indeterminatamente39», non grazie ad una forma 36. A. Vieira, Clavis Prophetarum (2000), pp. 37 e sg. 37. Ivi, p. 41. 38. Ivi, p. 187. 39. Ivi, p. 51.

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rigorosa, ma ad una «forma più ampia e morale40», fondata in qualche analogia o proporzione41, o «attraverso l’osservazione delle Scritture e l’evoluzione degli accadimenti42». Benché le congetture possano rivelarsi false, dobbiamo comunque osare e formularle, così da avere più ipotesi per raggiungere la verità. Per il teologo gesuita, non soltanto i teologi e i Padri, ma perfino i profeti biblici, praticarono un’indagine basata su congetture, pur non essendo sempre in grado di accertare le loro ipotesi. Come avvenne nel passato, questa incertezza non deve condurre gli interpreti a porre in causa la libertà e legittimità di proporre congetture – a patto, però, che esse siano comunque verosimili e fondate su una ratio che fornisca loro una certa probabilità. Commentando l’opinione di alcuni Santi Padri, i quali, nel riflettere un tempo sui dolori e l’invecchiamento del mondo, ne predissero la scomparsa, venendo poi smentiti, Vieira scrive: «Sebbene si siano ingannati nella loro congettura, e non poco, provano e ci convincono di non avere dubbi né paura nel dissertare pubblicamente sull’argomento della nostra discussione e sul più grande mistero di tutti i futuri, cioè quello di esprimere un’opinione sulla fine del mondo, cosa che può apparire più difficile e quasi contraria al divino oracolo di Cristo. Ora, se si approva che, un tempo, sia stato lecito a uomini di tanta sapienza, pietà e autorità, filosofando a partire da cause meramente naturali e dall’evoluzione degli avvenimenti della loro epoca, trarre una tale conclusione, perché non è per noi legittimo, a partire dal divino autore e governatore della natura stessa, vale a dire dalla bocca e dalla parola di Dio consegnata nelle Sacre Scritture, dedurre un computo dei tempi futuri? […] Pertanto, che continui ad essere libero e lecito per noi, e senza la più piccola obiezione di 40. Ivi, p. 53. 41. Ivi, p. 43. 42. Ivi, p. 55.

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temerità, tentare quello che prima di noi sapientissimi teologi, e prima di loro sapientissimi Padri, e prima dei Padri gli stessi profeti, fecero così lodevolmente, cioè indagare, perscrutare in che momento o in quale tempo significò in essi lo Spirito di Cristo43». Vieira parte da una constatazione: gli antichi fecero uso della libertà di congetturare e le loro ipotesi si rivelarono false, e tuttavia nessuno di essi fu censurato né tantomeno condannato. In seguito, il gesuita sviluppa un argomento a pari: come fu concessa loro la possibilità di congetturare (e perfino di ingannarsi), non vi è alcun motivo per cui un moderno interprete non possa fare lo stesso. Vieira rinforza subito la propria tesi con un argomento a fortiori: egli, infatti, ha più probabilità di avvicinarsi al vero con le sue congetture di quanto non fossero in grado di farlo gli antichi, visto che le loro ipotesi si appoggiavano sull’interpretazione di eventi naturali e storici poco conosciuti, mentre quelle del gesuita si fondano su conoscenze disseminate nella storia, su un’esperienza più recente e comprovata dagli uomini e sul contenuto della stessa Scrittura. In sintesi: l’ultimo degli interpreti è in possesso di garanzie molto più sicure di quelle che potevano presentare gli esegeti più antichi. La distinzione dei vari livelli di verità dovrebbe condurre il nostro gesuita ad una loro esplicita gerarchizzazione all’interno del discorso. Tuttavia, non solo ciò non accade, ma i vari piani finiscono per confondersi in un’intricata tela, da cui risulta una meravigliosa costruzione retorica, dotata di una grande efficacia seduttiva e persuasiva, che non riesce a nascondere del tutto la sua essenziale fragilità.

43. Ivi, pp. 65-67.

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4. Ermeneutica e Storicità L’insistenza sul ruolo giocato dal tempo nel processo di sviluppo e rivelazione della verità costituisce uno dei punti più caratteristici dell’ermeneutica vieirina. La tesi secondo cui «il miglior commentatore delle profezie è il tempo» attribuisce alla sostanza della verità una caratterizzazione temporale. A sorprendere maggiormente è il fatto che il contenuto della tesi non si riferisca soltanto alle verità umane e mondane, ma anche, e forse innanzitutto, alle verità teologiche e perfino alle verità rivelate nelle Sacre Scritture. Vi è quindi un reale accrescimento della verità, almeno dal punto di vista della sua progressiva manifestazione e della coscienza che gli uomini possono raggiungere di essa. Questa tesi di Vieira rappresentò senza dubbio una delle più antiche formulazioni dell’intima correlazione esistente tra ermeneutica e storicità, secondo cui tutta l’interpretazione è resa possibile e al tempo stesso limitata dall’orizzonte storico di ogni interprete. Il tema non è del tutto nuovo e lo stesso Vieira, nella sua risposta agli inquisitori, riferisce che questa considerazione si incontra già negli antichi Padri44. Il tema fu inoltre frequentemente glossato con maggiore o minore estensione in molti contesti assai differenti nell’alveo della letteratura seicentesca, soprattutto spagnola45. Ma ciò che sorprende veramente è l’ampio utilizzo di questo principio in ambito teologico. La sua versione più antica si trova nel poeta latino Aulo Gellio, 44. Cfr. A. Vieira, Obras Escolhidas, Vol. VI (1952). 45. Cfr. J. A. Maravall, Antiguos y Modernos. Visión de la historia e idea de progresso hasta el Renacimiento, Alianza Editorial, Madrid 1986, in part. pp. 586 e sg. Non è impossibile che Vieira avesse una certa familiarità con l’argomento trattato all’interno della letteratura spagnola, in particolare con il Criticón di Baltasar Gracián. Tuttavia, in nessuno degli autori analizzati da Maravall l’argomento possiede la dimensione che avrà negli scritti di Vieira, neppure citato nel lavoro dello storico delle idee spagnolo.

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che lo attribuì a un non nominato poeta antico, sotto l’ormai celebre formula “veritas temporis filia”46. Il topico sarebbe comunque giunto alla sua piena espressione soltanto all’alba del pensiero moderno, venendo utilizzato come traduzione della visione moderna della storia e del progresso della conoscenza umana negli scritti di Francis Bacon47. Senza considerare il filosofo inglese, non conosciamo, nell’ambito della riflessione del XVII secolo, nessun autore che, al di là del gesuita portoghese, abbia svolto un così ampio e coerente sviluppo di questo argomento. I capitoli 10-12 della Storia del Futuro sono un vero e proprio manifesto della coscienza moderna della storia e dell’intrinseca storicità della verità e conoscenza, degni di figurare in un’antologia dedicata ad un Manifesto della Modernità. Anticipando di quasi due decadi la celebre Querelle des Anciens et des Modernes (1688), Vieira ci fornisce una personale e singolare versione teologica della «controversia disputata tra le cose nuove e le cose vecchie48», una controversia che 46. Aulo Gellio, Noctes Atticae, l. XII, c. 11: «Alius quidam veterum poetarum, cujus nomen mihi nunc memoriae non est, veritatem temporis filiam esse dixit». Il poeta antico potrebbe anche essere Sofocle; nel suo Aiace (rr. 647-648) si legge infatti: «Il lungo, infinito tempo rivela tutte le cose che sono nascoste, nasconde quelle che sono alla luce». 47. Cfr. F. Bacon, Novum Organum (1620), l. I, c. 84, in The Works of Francis Bacon, ed. J. Spedding – R. L. Ellis – D. D. Heath, London 1858, Vol. I, p. 191: «Recte enim Veritas Temporis filia dicitur, non Authoritatis». Lo stesso argomento si trova nell’Elogio di Nerone di Girolamo Cardano: «Ora, finalmente, la verità figlia del tempo, da me guidata, come nella maggior parte dei casi, dopo tanti secoli è venuta alla luce», G. Cardano, Elogio di Nerone, Claudio Gallone Editore, a c. di P. Cigada, Milano 1998, p. 175. 48. A. Vieira, Livro Anteprimeiro da História do Futuro (1983), p. 123; trad. it. p. 146. Come mette in luce Vieira, questa querelle appartiene a tutti i tempi, sebbene nella sua epoca la discussione intorno a questo plesso concettuale sia stata portata agli estremi quale strategia di demarcazione del paradigma rinascimentale. A questo proposito, cfr. H. Baron, The Querelle

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appartiene in verità ad ogni tempo, perché, come afferma lo stesso gesuita, «tutti i grandi ingegni mossero sempre questo lamento […], poiché tutti dissero cose nuove e a nessuno mancò chi gliele impugnasse49», ma che in nell’epoca, come è risaputo, costituiva una questione che sollecitava e mobilitava gli intellettuali e a proposito della quale si andavano formando strategie e modelli culturali assai divergenti. Evidentemente, Vieira non ritiene che il mero attributo della novità garantisca una sufficiente prova della verità o bontà di un’interpretazione. Ciò che invece rifiuta del tutto è il preconcetto secondo cui soltanto le cose antiche meritino considerazione. Da questo presupposto, possiamo comprendere in modo adeguato la tesi difesa nell’undicesimo capitolo della sua Storia del Futuro: «le cose nuove, in quanto nuove, non demeritano il credito della loro veridicità50». Nella sua argomentazione, che pare contraddire ciò che aveva sostenuto in precedenza, il pensatore gesuita va annullando il concetto di antichità e il preconcetto che le attribuisce un maggior valore: «Non il tempo, ma la ragione, dà credito e autorità agli scritti, né si deve chiedere quando siano stati scritti, ma quanto bene. L’antichità delle opere è un accidente estrinseco, che non toglie né aggiunge qualità e solo perché pone i loro autori più lontano dagli occhi dell’invidia acquista loro la triste sorte di esser più venerati o meglio conosciuti dopo la morte che in vita51». of the Ancients and Moderns as a Problem for Renaissance Scholarship, in P. O. Kristeller – P. P. Wiener (ed.), Renaissance Essays, New York 1968, pp. 95-114. Per un’analisi della querelle e del suo significato, cfr. J. Schlobach, Zyklentheorie und Epochenmetaphoriik. Studien zur bildlichen Sprache der Geschichtsreflexion in Frankreich von der Renaissance bis zur Frühaufklärung, W. Fink, München 1980, pp. 226-303. 49. A. Vieira, Livro Anteprimeiro da História do Futuro (1983), p. 121; trad. it. p. 143. 50. Ivi, p. 115; trad. it. p. 133. 51. Ivi, pp. 116-117; trad. it. p. 135.

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In un altro passo, Vieira invoca la distinzione tra la verità considerata in se stessa e il processo della sua acquisizione da parte dell’uomo. Propriamente parlando, non è in relazione alla verità ma in relazione alla sua conoscenza che il tempo esercita la propria giurisdizione: «La verità e le scienze, sulle quali non ha giurisdizione il tempo, vengono dette impropriamente nuove o vecchie, poiché sempre sono, sempre sono state e sempre saranno le stesse, anche se non sempre si conoscono in egual misura52». Infine, seguendo anche in questo caso una strategia analoga a quella che avevano già seguito alcuni dei più importanti pionieri della Modernità – Giordano Bruno53, Francis Bacon54 e Thomas Hobbes55 – nella loro lotta contro il comune pre52. Ivi, p. 123; trad. it. p. 146. 53. G. Bruno, La cena delle ceneri (1584), a c. di G. Aquilecchia, Einaudi, Torino 1955, p. 106: «Bene maestro Prudenzio si questa volgare, et vostra opinione per tanto è vera, in quanto che è antica: certo era falsa quando la fu nova […] poniamo dumque da canto la raggione de l’antico et novo; atteso che non è cosa nova, che non possa esser vecchia: et non è cosa vecchia, che non sii stata nova». 54. F. Bacon, Novum Organum, l. I, c. 84: «De antiquitate autem opinio, quam homines de ipsa fovent, negligens omnino est, et vix verbo ipsi congrua. Mundi enim senium et grandaevitas pro antiquitate vere habenda sunt; quae temporibus nostris tribui debent, non juniori aetati mundi, qualius apud antiquos fuit. Illa enim aetas, respectu nostri, antiqua et major; respectu mundi ipsius, nova et minor fuit. Atque revera quemadmodum majorem rerum humanarum notitiam et maturius judicium ab homine sene expectamus quam a juvene, propter experientiam et rerum, quas vidit, et audivit, et cogitavit, varietatem et copiam; eodem modo et a nostra aetate (si vires suas nosset, et experiri et intendere vellet) majora multo quam a priscis temporibus expectari par est; utpote aetate mundi grandiore, et infinitis experimentis et observationibus aucta et cumulata». 55. T. Hobbes, The English Works of Thomas Hobbes, ed. W. Molesworth, London 1839, Vol. I, p. 456: «I honour antiquity; but that which is commonly called old time is young time. The glory of antiquity is due, not to the dead but to the aged». Cfr. L. Ribeiro dos Santos, Da Verdade e do Tempo:

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concetto a favore degli antichi nei confronti dei moderni, il pensatore portoghese opera un’inversione di valore tra antichità e modernità: «Tutti dicono che gli antichi meritano lode maggiore, ed è così, ma questa lode, a ben considerare, non è elogio dell’antichità, ma della novità. Meritano lode maggiore gli Antichi poiché furono i primi inventori delle cose: quindi la lode è della novità, poiché la meritarono in quanto scoprirono quelle cose per la prima volta56». In un altro passaggio, Vieira è ancora più esplicito, esponendo il suo pensiero sul filo di una metafora biologica, comparando le età della storia con le età dell’uomo, e concludendo che, in accordo con l’ordine della natura, sono più sapienti i moderni di quanto non fossero gli antichi, poiché sono proprio i moderni ad essere i più anziani, trovandosi nella fase più matura della storia. Con le parole del pensatore barocco portoghese: «In tal modo vengono crescendo l’intelligenza, la scienza e la sapienza lungo le stesse scansioni temporali in cui vengono crescendo e trascorrendo gli anni, i secoli e le età; e questo non solo nella Chiesa universale e collettivamente, ma anche negli uomini e nei Dottori singolarmente presi, che sono le membra di cui si compone il suo corpo e i raggi di cui si compone la sua luce. Dove si deve obbiettare e avvertire (cosa che doveva già essere molto obbiettata e avvertita) che gli autori antichi e più vecchi, a voler parlare con proprietà e rigore, non sono i passati, bensì i presenti, non quelli che volgarmente vengono detti gli Antichi, ma quelli che oggi e nei tempi a noi più prossimi si dicono Moderni […] Donde segue che i dottori dell’infanzia, della puerizia e dell’adolescenza della António Vieira e a “Controvérsia dos Antigos e dos Modernos”, in J. Eduardo Franco (coord.), Entre a selva e a corte. Novos olhares sobre Vieira, Esfera do Caos, Lisboa 2009, pp. 79-89. 56. A. Vieira, Livro Anteprimeiro da História do Futuro (1983), p. 124; trad. it. p. 147.

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Chiesa furono i moderni e quelli della scienza moderna; e i dottori della maggiore e più esperta età della Chiesa sono i più vecchi e antichi e dotati di scienza più antica; perché la Chiesa non si compone di pareti morte, ma di membra vive; né venne crescendo dai nostri anni verso i primi, ma dai primi verso i nostri. E sarebbe non solo contrario all’ordine naturale, ma anche alla convenienza della stessa età, che la Chiesa non fosse più sapiente negli anni della maggiore età di quanto non fosse stata nella minorità57». Il gesuita portoghese considera, di conseguenza, la conoscenza umana come un processo di accrescimento. E se ciò vale per il grande oceano delle scienze umane, varrà anche per l’abisso senza fondo delle scienze divine58. In piena sintonia con alcuni dei più illustri rappresentanti della nuova coscienza moderna del tempo, che non solo non erano disposti a sacralizzare gli antichi e le loro posizioni, ma li interpretavano alla luce dei limiti e delle condizioni del loro tempo, preferendogli i pensatori moderni o almeno più recenti, capaci di tradurre in modo migliore la maturità dei tempi e del proprio mondo, Vieira domanda: «Perché noi dobbiamo dispregiare e offendere tanto la nostra età e i suoi uomini, da ritenere che non possono far avanzare le scienze né dire e aggiungervi qualcosa di nuovo? […] Molto ottennero gli Antichi e si devono loro le alte lodi; ma ci lasciarono anche i loro grandi talenti per esercitare i nostri59».

57. Ivi, p. 131; trad. it. pp. 153-154. Sull’uso della metaforica dell’età dell’uomo nelle filosofie (e teologie) della storia dell’epoca moderna, cfr. A. Demandt, Metaphern für Geschichte. Sprachbilder und Gleichnisse im historisch-politischen Denken, Beck, München 1978. 58. Cfr. A. Vieira, Livro Anteprimeiro da História do Futuro (1983), pp. 107-108; trad. it. p. 126. 59. Ivi, p. 118; trad. it. pp. 136-137.

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A partire da questo punto, si può comprendere più agevolmente il modo con cui Vieira interpreta la tradizione e la fedeltà ad essa, ossia non come una morta eredità che si riceva, si conserva e si ripete, ma come un patrimonio che si sviluppa aumentando continuamente, mediante nuove invenzioni della conoscenza e dell’ingegno propri di ciascun interprete. Da un altro punto di vista, il lavoro degli ultimi interpreti si inscrive comunque nell’ambito tracciato dai loro predecessori; e se essi vedono di più e con una migliore angolazione è soltanto perché generazioni di esegeti, grazie a svariati tentativi, ne hanno facilitato il cammino. Riprendendo, senza menzionare la sua provenienza, una frase che Giovanni di Salisbury attribuirà al suo maestro Bernardo di Chartres, Vieira considera gli interpreti più moderni come nani sulle spalle di giganti: «Ci riconosciamo pigmei in confronto con quei giganti che prima di noi videro attraverso le Scritture. Essi senza di noi videro molto di più di quello che noi avremmo potuto vedere senza di loro, ma noi, siccome siamo venuti dopo di loro e stiamo sulle loro spalle grazie al beneficio del tempo, oggi vediamo quello che essi videro e un poco più. L’ultimo gradino della scala non è più grande degli altri, anzi può essere più piccolo; ma è sufficiente che sia l’ultimo e stia sopra gli altri, perché da questo si possa raggiungere quello che non si raggiungeva dagli altri60». Nella stessa linea, glossando la parabola evangelica dei lavoratori della vigna, i quali, essendo stati assunti nell’ultima ora, fecero ciò che gli altri non erano stati in grado di fare durante tutto il giorno, l’autore della Storia del Futuro scrive: «Noi che studiamo e ci affatichiamo nella intelligenza della Sacra Scrittura, più o meno tutti zappiamo, e può succedere che quelli 60. Ivi, p. 106; trad. it. pp. 123-124. Sull’origine e trasmissione di questa immagine, cfr. J. A. Maravall, Antiguos y Modernos. Visión de la historia e idea de progresso hasta el Renacimiento (1986), pp. 232 e sg.

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che vengono all’ultima ora, per felicità della stessa ora, concludano e scoprano con pochi colpi quello che molti, in molto tempo e con molta fatica, zappando molto di più, non hanno scoperto61». Nella Clavis, l’avanzamento dei tempi della storia contemporanea è presentato come una ragione del vantaggio di chi intende scrutare i segnali della fine del mondo, poiché è certo che egli sia molto più prossimo alla rivelazione finale di quanto non fossero gli antichi, i quali certo non si trattennero dall’avanzare delle previsioni. Ora, se ciò fu permesso agli antichi, e se finirono persino per ingannarsi, perché questa opportunità non dovrebbe essere concessa anche a lui che, essendo prossimo alla fine del tempo, è in grado di osservare più chiaramente e da vicino il futuro che rimane62? È chiaro che la fortuna di coloro che dimorano nell’ultima ora non li autorizza a disconoscere il lavoro degli interpreti precedenti. Vieira riconosce quindi la straordinaria importanza che possiedono per l’intelligenza del testo sacro la storia delle sue interpretazioni e la controversia o differenza di opinioni. Il consenso degli spiriti – come pare si possa dedurre dalle tesi di Padre Vieira – non deve essere raggiunto a costo di perdere la libertà individuale di investigare in modo consapevole e responsabile. Se egli si preoccupa di menzionare ai giudici inquisitori la sua storia quarantennale di esegeta dei testi della Scrittura e i suoi commentatori più autorevoli, dai più antichi Padri fino ai più recenti teologi, non è certo per esibire l’autorità della sua erudizione, bensì per mettere in luce che è soltanto grazie ad uno studio approfondito di molte discipline che l’interprete si prepara a svolgere la propria funzione. In

61. A. Vieira, Livro Anteprimeiro da História do Futuro (1983), p. 106; trad. it. p. 124. 62. Cfr. Ivi, p. 112.

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ultima istanza, tuttavia, lo sviluppo della rivelazione e della sua interpretazione (giacché anche l’interpretazione della parola rivelata è parte della rivelazione) obbedisce ad un ordine temporale, modulato secondo l’economia della divina Provvidenza. Non raggiunge allora la comprensione del senso genuino delle Scritture chiunque possieda un ingegno sottile, ma solamente chi giunga nell’«ora determinata da Dio63». Ci troviamo al cospetto di una caratteristica essenziale della riflessione di Vieira – la convinzione che tutto il mondo spirituale e politico obbedisca al piano della sapienza e provvidenza di Dio, che solo lentamente riusciremo a comprendere. Nello spazio fra ciò che già si percepisce e il molto che rimane ancora occulto, l’uomo trova una ragione per ammirare, in quella divina commedia che Dio porta sulla scena del Mondo con gli uomini – attori e spettatori di una rappresentazione di cui non sono, però, i veri autori – la maestà della sapienza e onnipotenza divine. Per esporre questa concezione, Vieira si serve di una metafora, ricorrente nei suoi testi e ugualmente caratteristica della visione del mondo barocca – la metafora del teatro –, in cui si condensa, secondo un’economia mirabile, tutta la sua filosofia e teologia della storia. Diamogli la parola: «Questo mondo è un teatro, gli uomini gli attori che vi recitano e la storia veridica dei suoi accadimenti è una commedia di Dio, delineata e disposta meravigliosamente secondo le età della sua Provvidenza. E come l’eccellenza e la sottigliezza dell’arte teatrale consiste principalmente in quella sospensione dell’intelletto e nel dolce turbamento dei sensi, con cui la trame li viene trascinando con sé, sempre in bilico tra un avvenimento e un altro, mentre le fine della storia si viene occultando ad arte, senza che si possa capire dove va a concludere, se non quando già s’avvia al termine e si scopre repentinamente tra

63. Ivi, p. 108; trad. it. p. 126.

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l’attesa e l’applauso; così Dio, sommo Autore e Governatore del mondo, e perfettissimo Modello di tutta la natura e l’arte, a maggior manifestazione della sua gloria e ammirazione della sua sapienza, ci nasconde le cose future, anche quando le fa scrivere dai profeti, in modo che non ci lascia comprendere né attingere i segreti delle sue intenzioni, se non quando sono già pervenuti o vanno giungendo le loro fini, per tenerci sempre sospesi nell’attesa e pendenti dalla sua Provvidenza64». Al pari dell’apostolo Paolo, anche Vieira ritiene che lo spirito profetico sia disseminato in tutto il popolo di Dio. Il profeta, l’interprete delle profezie e il predicatore sono i più dotati nel leggere i segni dei tempi e nel comprendere non solo la direzione in cui si incammina la storia, ma anche nel cogliere le modalità con cui viene approssimandosi la fine. Di conseguenza, il predicatore non travalica la sua funzione quando interpreta le profezie e quando egli stesso profetizza. Come scrive il gesuita portoghese, i predicatori sono «gli interpreti della voce stessa di Dio65». Non eccede perciò il suo compito quando pretende di inscrivere efficacemente gli eventi nel senso supremo che li presiede. Predicatore, egli è dunque al tempo stesso storico e profeta. Vi sono delle situazioni in cui l’oratore barocco esplicita questa accumulazione di funzioni, quasi volesse rafforzare la retorica e l’efficacia del sermone. Ecco un esempio: «È così particolare la storia con cui si riferisce a noi oggi S. Luca nel capitolo 24 [si tratta dell’episodio dei discepoli di Emmaus, tristi per essere stati defraudati delle loro aspettative], che, a dispetto dello stile che ordinariamente seguo, voglio che il contenuto del sermone sia la storia stessa. Storico e predicatore sarò oggi: avrò il doppio obbligo di dire le verità […] Ciò che ritengo di poter promettere sicuramente

64. Ivi, p. 110; trad. it. p. 129. 65. A. Vieira, Obras Escolhidas, Vol. VII (1953), p. 50.

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è che la storia non vi infastidisca come una storia antica e ben conosciuta; poiché, anche secondo la buona cronologia, è vecchia più di mille e seicento anni, io farò in modo che appaia la storia dei nostri tempi. Nessuna cosa ascolterete che non sia ciò che vedete66». Il sermone in esame è una critica dura e piena di ironia al modo in cui erano distribuite le merci reali a dei vassalli che, pur essendo sempre scontenti, non meritavano quelle merci per le azioni effettivamente svolte. Alla fine, conclude il nostro oratore: «Ho promesso di fornire in questo sermone un giudizio sugli anni che vengono, e non ho fatto altro che riferire i successi degli anni passati. Ho mostrato la ragione delle profezie, il dilatarsi della speranza, il realizzarsi dei decreti […], e tutto questo è storia di ciò che è stato, e non un pronostico di ciò che dev’essere. Ora, sebbene non sembri, io mi considero disimpegnato da ciò che promisi, e tutto questo discorso fu un pronostico certo e un giudizio infallibile degli anni che vengono. Tutto ciò che dissi, o furono profezie realmente realizzatesi, o manifesti benefici della mano di Dio; e per ciò che riguarda le profezie e i benefici iniziati, lo stesso è riferire il passato che pronosticare e assicurare il futuro […], giacché gli effetti presenti del passato sono nuova profezia del futuro67». Non soltanto nei suoi Sermoni ma anche negli scritti dedicati ad un’ermeneutica delle profezie, specialmente nelle Clavis Prophetarum, il gesuita mette in pratica quello che Fernando Gil ha chiamato «la fusione dei tempi»: nella realtà, infatti, è come se tutto si svolgesse all’interno di un unico e medesimo tempo, in cui le distinzioni fra passato, presente o futuro si

66. A. Vieira, Sermão da 1a. Oitava da Páscoa (1647), in Id., Sermões, Vol. II (1959), p. 195. 67. A. Vieira, Sermão dos Bons Anos, in Id., Obras Escolhidas, Vol. X (1996), p. 182.

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rivelano così inter-comunicabili da finire per dissolversi68. Se Vieira dovesse tuttavia indicare un momento del tempo decisivo, non farebbe riferimento né al passato né al presente, ma al futuro. La scelta del gesuita è figlia di una caratteristica decisiva della sua visione barocca e moderna del mondo: il futuro è il tempo della realizzazione, della pienezza, della consumazione. Solo a partire da questa visione del futuro si può leggere e spiegare in tutta la sua pienezza e magnificenza il piano messo in scena da Dio nel palco del mondo e negli atti della storia. È anche per questo che quelli interpreti che sono più prossimi al futuro – cioè alla realizzazione delle cose rivelate o profetiche – possiedono un qualche vantaggio nei confronti degli esegeti più antichi. È precisamente il punto di vista del futuro che permette di comprendere la tesi vieirina commentata in precedenza, secondo la quale «il miglior commentatore delle profezie è il tempo69». Alla luce di tale presupposto, questo singolare storico può proporsi di scrivere una «storia del futuro», o di fornire una «copia prima dell’originale». Inoltre, così come nella visione profetica del passato viene inclusa, quasi si trattasse di un’unica intuizione, la futura

68. Cfr. F. Gil, O advento do Quinto Império e a profecia bíblica, in M. V. Mendes – M. L. G. Pires – J. D. C. Miranda, Vieira Escritor (1997), pp. 275-288. Sulla stessa linea, cfr. S. Peloso, Ut libri prophetici melius intelligantur, omnium temporum historia complectenda est: O Quinto Império de António Vieira e o debate europeu nos Séculos XVI e XVII, in Vieira Escritor (1997), pp. 177-187. 69. Sulla “temporalizzazione della storia” che si dà all’inizio della Modernità e sull’importanza che assume in essa la categoria di “futuro” come fattore di realizzazione e accelerazione, cfr. R. Koselleck, Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichtlicher Zeiten, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1979. Sebbene non citi mai (e forse neppure conoscesse) la Storia del Futuro di Padre Vieira, Koselleck avrebbe potuto trovare negli scritti del gesuita (e non con minore eloquenza di quella osservata nel quadro di Albrecht Altdorfer, La battaglia di Alessandro) tutto il corso della storia, ma letto preferibilmente a partire dal suo epilogo finale, cioè dal futuro.

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realizzazione di ciò che è stato profetizzato, essendo due facce di una stessa medaglia, allo stesso modo nella visione dell’interprete, che è più vicino al futuro, il senso della profezia si lascia decifrare con più facilità. Lo scrittore gesuita può allora, abbandonando il procedimento comune degli interpreti che prima di lui avevano sondato la cronologia della fine dei tempi, sovvertire l’ordine della storia e leggere il computo dei tempi finali a partire dall’inizio, e quello del futuro a partire dal passato70. Caratteristico di Vieira è l’investimento storico-politico – in una applicazione diretta e letterale – della sua interpretazione della Scrittura, in particolare delle profezie. Il gesuita portoghese, tuttavia, non rappresenta certo un caso isolato nel contesto culturale del suo tempo. È vero il contrario. In effetti, se la Scrittura non è altro che la rivelazione di un senso messianico inscritto negli eventi della storia politica del popolo ebraico, come non trasferire questo stesso senso all’interno degli avvenimenti e dei fatti della storia attuale e futura, soprattutto considerando che il supremo autore e conduttore della storia, quello che le garantisce il suo significato e che la conduce alla pienezza della sua realizzazione, è lo stesso Dio che si rivelò un tempo ai profeti e agli scrittori biblici, e che tutti i momenti del tempo sono uno stesso Presente e tutti i «futuri sono presenti»? Del resto, la tecnica di applicazione morale del senso del testo alla vita e dell’applicazione tipologica e letterale della profezia alla decifrazione degli accadimenti della storia politica attuale o futura era un procedimento caratteristico della stessa Scrittura. Alcuni avvenimenti e personaggi sono investiti di una speciale potenza di significazione, come tipi o figure di altri eventi o personaggi futuri, dando vita ad uno scambio semantico tra il tipo e la sua tipizzazione, tra la figure

70. Cfr. A. Vieira, Clavis Prophetarum (2000), pp. 75-77.

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e il figurato (Adamo-Cristo, Israele-Chiesa). Anche Paolo fece larghissimo uso di questo procedimento esegetico71. Per Vieira, interpretare la profezia significa svelare e creare il senso della storia, significa intervenire nella storia in termini creativi, plasmandola. L’impegno personale e perfino passionale dello scrittore e predicatore barocco è ben cosciente, come testimonia, fra le moltissime possibili, questa sua osservazione: «Quale storico vi è mai stato, dal cuore così puro e così integro amante della verità, che non venisse piegato dal rispetto, dall’adulazione, dalla vendetta, dall’odio, dall’amore per la sua o per straniera nazione o per il suo o per straniero principe? Tutte le piume sono materiate di carne e di sangue e tutti mescolano nell’inchiostro i colori delle loro passioni72». Come un tempo i profeti biblici, profetizzando il futuro, intervenivano effettivamente nella storia presente del popolo ebraico, allo stesso modo il predicatore ed ermeneuta interviene ora nella consunzione della storia, offrendo ai suoi lettori e ascoltatori «uno specchio nel quale vedere i futuri», così che possano, attraverso questa conoscenza, correggere l’inganno delle loro attuali speranze73. Vieira pratica una storia ed un’ermeneutica interessate, un’interpretazione delle profezie al servizio della storia desiderata, 71. A questo proposito, cfr. J. Daniélou, Sacramentum Futuri. Études sur les origines de la typologie biblique, Beauchesne, Paris 1950. 72. A. Vieira, Livro Anteprimeiro da História do Futuro (1983), p. 101; trad. it. p. 120. Potremmo presentare un riferimento al peculiare patriottismo di Vieira e alla sua fede tenace nel destino storico e messianico del Portogallo, a dispetto di ogni evidenza. Un documento-confessione di questa incurabile passione, estremamente lucida e profondamente sofferta, è fornito nella lettera a Duarte Ribeiro de Macedo del 17 ottobre 1673; cfr. quindi A. Vieira, Cartas, Vol. II (1971), pp. 646-647. 73. Cfr. A. Vieira, Livro Anteprimeiro da História do Futuro (1983), pp. 77-78; trad. it. p. 93.

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e una storia del futuro al servizio della speranza – dell’aspettativa o dell’urgenza – del presente. Ermeneuta della storia e del suo significato, il gesuita non è un mero spettatore disinteressato del suo corso, ma anche, e per ciò stesso, un partecipante diretto e un attore qualificato di questa storia, il cui senso decifra e denuncia74. Non si comprende il pensiero messianico di Vieira senza le basi dell’antropologia e psicologia sociale che lo supportano, un’antropologia e psicologia fondate sulla poderosa economia del desiderio di una ragione moralmente interessata all’effettiva realizzazione di tutto quello che era stato promesso nella figura del «regno messianico». La profezia è dunque l’alimento del desiderio e della speranza; per questo, lo scrittore biblico poteva sostenere che il popolo in cui non ci sono profeti è destinato a perire75. Ma il pensatore barocco è consapevole inoltre che il desiderio e la speranza non possono essere soddisfatti con promesse rinviate agli orizzonti indeterminati di un lontano futuro, ma devono essere realizzati e consumati in tempi brevi. L’autore di questo

74. Questa interessata ermeneutica vieirina non smette di avere una qualche analogia con la situazione in cui, un secolo più tardi, si troverà il filosofo morale Immanuel Kant quando, in presenza di un avvenimento della storia politica contemporanea come la Rivoluzione Francese, cercò di decifrare il ruolo da essa occupato nel senso della storia umana. Il filosofo tedesco lesse l’evento come un segnale storico (Geschichtszeichen) indicante una decisiva «disposizione morale presente nel genere umano» (moralische Anlage im Menschengeschlecht) per progredire moralmente verso il meglio (Fortschreiten zum Besseren); questa disposizione costituisce una «tendenza morale» (moralische Tendenz) che conduce gli spiriti a raggiungere in questo evento «una partecipazione secondo il desiderio, che confina con l’entusiasmo» (eine Teilnehmung dem Wunsche nach, die nahe an Enthusiasm grenzt). Cfr. I. Kant, Streit der Fakultäten, Akademie Ausgabe, Bd. VII, pp. 84-85. Questo aspetto del pensiero kantiano è stato evidenziato soprattutto da J.-F. Lyotard, L’enthousiasme. La critique kantienne de l’historie, Éditions Galilée, Paris 1986. 75. Cfr. Prov. 29, 18.

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singolare genere di storia-profezia che è la «storia del futuro» annuncia quindi «grandi futuri all’attesa», assicura «breve attesa al futuro», promette un «futuro che tra poco sarà presente», poiché è consapevole che sebbene sia «molto sicura, molto ferma e molto ben fondata la speranza, attendere è un tormento disperato76».

5. Critica dell’uso retorico e ricerca del senso letterale, naturale e veritiero della Scrittura Il già citato Sermone della Sessagesima dà spazio ad una critica incisiva dell’uso retorico della Scrittura da parte dei predicatori del tempo. Il motivo analizzato da Vieira è l’episodio del Vangelo in cui il Diavolo invoca la Scrittura per tentare Cristo, e questi gli risponde con un passo della stessa Scrittura per allontanare il suo seduttore. Partendo da questo passaggio, l’oratore sostiene che non sia sufficiente invocare simpliciter la sacra pagina, giacché essa può essere oggetto di una buona o pessima interpretazione, di un uso onesto o perverso. Dove si collocano i predicatori del tempo? Ascoltiamo il gesuita: «Dio si difese dal Diavolo con la Scrittura, e il Diavolo tentò Cristo con la Scrittura. Tutte le Scritture sono Parola di Dio; ma se Cristo prende la Scrittura per difendersi dal Diavolo, come il Diavolo prende la Scrittura per tentare Cristo? – La ragione è che Cristo prendeva le parole della Scrittura nel suo vero significato, e il Diavolo prendeva le parole della Scrittura in un senso estraneo e distorto; e le stesse parole, che prese in

76. A. Vieira, Livro Anteprimeiro da História do Futuro (1983), pp. 27-29; trad. it. p. 49-51.

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senso veritiero sono parole di Dio, prese in senso estraneo, sono armi del Diavolo77». L’analisi di Vieira prosegue applicando quanto detto alla condizione dei predicatori: il Diavolo tentò Cristo usando le parole della Scrittura, ma mal interpretandole, e ciò rappresenta, per l’oratore gesuita, la tentazione che coinvolge nella sua epoca tutta la Chiesa: «Ditemi, predicatori […], ditemi: questi argomenti inutili che molte volte sollevate, queste imprese che vi paiono acute che continuate, le avete trovate qualche volta nei profeti del Vecchio Testamento, o negli Apostoli ed Evangelisti del Nuovo Testamento, o nell’autore di entrambi i Testamenti, Cristo? – Certamente no, perché dalla prima parola del Genesi fino all’ultima dell’Apocalisse non c’è una cosa simile in tutte le Scritture. Visto che nelle Scritture non c’è ciò che dite o predicate, come credete di restituire la parola di Dio? Inoltre: nei luoghi, nei testi che citate per confermare quello che dite, è questo il senso attribuito loro da Dio? È questo il senso in cui li compresero i Padri della Chiesa? È questo il senso della stessa Grammatica delle parole? – No, assolutamente, perché molte volte le prendete per come suonano, e non per quello che significano, e a volte neppure per come suonano78». Ma quello straordinario maestro di retorica sacra che è Vieira non si limita a criticare quell’uso retorico che cerca nella Scrittura i fiori e le foglie con cui adornare il sermone, più che le radici che lo fondano, garantendogli la solidità della dottrina. Egli conosceva bene e praticò, almeno in gioventù (secondo le sue stesse testimonianze), la dottrina medievale dei vari sensi della Scrittura. Si avverte comunque in molti passi della sua opera il tentativo di oltrepassare quell’antica concezione 77. A. Vieira, Obras Escolhidas, Vol. XI (1996), pp. 237-238. 78. Ivi, pp. 238-239.

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e pratica ermeneutica che ricercava i vari significati del testo sacro, incapsulandoli per così dire uno nell’altro, tentando di sostituirla con quello che egli chiamava il senso «genuino e veritiero», vale a dire «il senso letterale», «l’intelligenza più letterale», garantiti dalla semplice «grammatica delle parole79». Vieira critica quindi l’ermeneutica allegorizzante e mistica dei Padri, alla ricerca di un significato «genuino e letterale del testo». Nell’opera del gesuita, si trovano frequentemente espressioni come «senso proprio e naturale», «senso letterale e veritiero», «il senso letterale delle parole», «il certo e vero senso», o termini equivalenti, sempre in contrapposizione al senso mistico, allegorico, metaforico, considerati estranei alla lettera del testo. Scrive Vieira: «Dalla parte dei Padri stessi si deve pure considerare che lasciarono indagare e dire molte cose di grande momento, che poi si conobbero e scrissero, poiché si adattarono alla necessità dei tempi in cui vissero. Tutta l’intenzione dei Padri antichi era di provare la verità dell’Incarnazione del Figlio di Dio e il mistero della sua Croce

79. Nei primi secoli della storia della Chiesa vi erano due scuole di ermeneutica, quella di Antiochia, che privilegiava l’interpretazione letterale e storica dei testi biblici, e quella di Alessandria (ben esemplificata da Origine), che coltivava il senso allegorico. La storia dell’esegesi medievale è caratterizzata dalla tensione tra queste due strategie e dal tentativo dei più autorevoli teologi (Ambrogio, Agostino, Tommaso, etc.) di conciliarle. A questo proposito, cfr. H. de Lubac, Exégèse médiévale, Aubier, Paris 1959. Nel contesto del pensiero ermeneutico cinquecentista, Erasmo, pur avendo molte volte censurato la tendenza allegorizzante dei teologi scolastici, rileva i rischi che corre l’utilizzo fondamentalista di una delle due strategie, e propone una soluzione di equilibrio e buon senso: «De nominibus igitur non erimus anxij, si de re conveniat […] A grammatico sensu […], quem Paulus literam appellat, recedere interdum cogit necessitas, interdum suadet utilitas. Necessitas cogit, quum in verbis est absurditas […] utilitas suadet, quoties in verbis scripturae simpliciter intellectis exigua aut nulla est utilitas, aut si qua est, tamen in sensu mystico longe est uberior», Erasmo da Rotterdam, Ecclesiastae sive de ratione concionandi libri IV, Basileae 1544, p. 650 e p. 666.

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[…] Per questo i primi Padri e i loro successori nient’altro cercavano nei Libri Santi, non solo profetici, ma anche storici, se non i misteri di Cristo […] E siccome questo solo era quel che cercavano per scrivere, questo solo era quel che rinvenivano o scrivevano, secondo i sensi allegorici e mistici, tralasciando o meno insistendo su quelli letterali, come si vede di solito in tutte le esposizioni dei Padri, che tutte si impegnano nell’allegoria, toccando molte volte solo di leggieri e superficialmente la lettera e talvolta non senza qualche improprietà e violenza80». Ricorrendo ad una strategia retorica caratteristica della sua riflessione, il gesuita portoghese invoca, in questo frangente, contro gli stessi Padri l’autorità di Riccardo di San Vittore, il quale, nel prologo sul libro di Ezechiele, dichiara di allontanarsi dall’interpretazione di San Girolamo, proprio con l’intento di cogliere il senso letterale del testo: «I Padri antichi, poiché dedicavano tutta la loro operosità e il loro ingegno nel senso allegorico delle Scritture, o passarono del tutto sotto silenzio o trattarono con minor diligenza alcuni luoghi più oscuri, pur essendo certo (giacché erano dotati di altissimi ingegni e ricchi di molta scienza e erudizione) che, se avessero insistito sul senso genuino e letterale del testo, lo avrebbero dominato più perfettamente e più felicemente di qualunque moderno81». Questo è un argomento che ritorna spesso nell’opera vieirina. Per quale ragione i Padri non si sono avvicinati alla «vera intelligenza di alcune Scritture»? Perché le «interpretarono in un senso diverso e alieno82»; lo fecero, tuttavia, poiché mancava loro l’esperienza e la conoscenza di quello che soltanto più

80. A. Vieira, Livro Anteprimeiro da História do Futuro (1983), p. 129; trad. it. pp. 151-152. 81. Ivi, p. 130; trad. it. p. 152. 82. Ivi, p. 135; trad. it. pp. 159-160.

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tardi si sarebbe riusciti ad ottenere, garantendo, come abbiamo già visto, un ampio vantaggio agli interpreti moderni. Vi è una situazione in cui Vieira, contro il comune intendimento soltanto metaforico, spirituale e mistico del tema in esame, difende un’interpretazione rigorosamente letterale di un tema biblico. Si tratta di quei passaggi delle Scritture relative al regno di Cristo, tema centrale del messianismo escatologico vieirino. Secondo il gesuita, se non si comprendessero tali riferimenti come significanti naturalmente e propriamente il regno temporale di Cristo, si finirebbe per esercitare una violenza ermeneutica sulla Scrittura, facendola incorrere in un’esiziale contraddizione. Il contenuto di quei testi, dunque, deve essere considerato in relazione al «regno temporale di Cristo, perché il contrario avrebbe fatto violenza al significato della parola Re, che in tutta la Sacra Scrittura significa Re temporale; e se è regola certa, come insegna Sant’Agostino, che le parole della Sacra Scrittura non si devono interpretare in senso metaforico e figurativo se non quando, se si comprendessero nel loro significato proprio e naturale, comporterebbero qualche grande inconveniente o assurdità contro la dottrina della stessa Scrittura ricevuta dalla Chiesa, gli stessi nomi di Re e Regno, tante volte celebrati e raccontati dai Profeti, parlando dell’Impero di Cristo, ci obbligano a concedere e confessare che significano propriamente Re e Regno temporale83», giacché in caso contrario finiremmo per interpretarli in modo poco conforme al vero. E così prosegue il profeta del Quinto Impero, in qualche pagina successiva: «Questo è […] il Regno e l’Impero di Cristo, tanto cantato e celebrato negli oracoli dei Profeti, giustamente definito Rex regum et dominus dominantium. E così la parola regum e dominantium significa senza dubbio re, e dominus significa re e signore anche temporale, per non ammettere, con manifesta 83. A. Vieira, História do Futuro (1992), pp. 301-302.

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violenza della Scrittura e ripugnanza della comprensione, che nella stessa frase e nella stessa parola venga modificato il senso e la supposizione di essa, e che rex e dominus possiedano un significato, e regum e dominantium un altro84». Il gesuita ricorre al vasto arsenale della sua erudizione sulla storia ermeneutica patristica (San Cirillo, Sant’Agostino, San Gregorio, San Bernardo, Sant’Ireneo, San Cipriano, Sant’Ilario, San Girolamo, Sant’Ambrosio, Sant’Atanasio, San Bernardino da Siena, San Giovanni Crisostomo) per mostrare, grazie al consenso e all’accumulazione di varie autorità, come perfino quel passaggio del Vangelo in cui Cristo, alla domanda di Pilato, che gli domandava se fosse un re, rispose in modo affermativo, precisando però che il suo regno non era certo di questo mondo, non poneva in alcun modo in causa la sua interpretazione letterale della sovranità mondana di Cristo. Vieira coglie l’occasione per mettere in mostra la sua arguzia e sottigliezza linguistica, notando che «Cristo non disse: Regnum meum non est hujus mundi, ma de hoc mundo, perché il Regno di Cristo era veramente di questo Mondo e di tutto il Mondo; soltanto, non aveva quelle caratteristiche di vanità e falsa grandezza con cui si sostenevano gli altri regni del Mondo85». Vieira adotta la stessa strategia anche nella Clavis. L’intera opera difende infatti il primato del senso letterale del testo «in tutta la sua proprietà ed estensione86». Il gesuita propone dunque una comprensione dei passaggi biblici «in accordo con l’umana consuetudine di parlare87» (ex humana dicendi consuetudine), così da evitare, per quanto possibile, il ricorso ad interpretazioni allegoriche, supposizioni, allusioni e iper84. Ivi, p. 303 e p. 305. 85. Ivi, p. 309. 86. A. Vieira, Clavis Prophetarum (2000), p. 727. 87. Ivi, p. 688.

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boli. Vieira decide di interpretare le parole bibliche «semplicemente per quello che sono, o meglio, per come suonano, con l’intento di mostrare nitidamente che, grazie ad una connessione propria e naturale, per nulla forzata, convergono in uno stesso senso e significato88». Il gesuita portoghese è consapevole che i testi biblici, e soprattutto quelli profetici, fanno ampio ricorso a figure retoriche (sineddoche, iperboli, allegorie, metafore, figure, enigmi), rendendo più difficile il lavoro dell’interprete. Tuttavia, ciò non autorizza l’esegeta ad interpretare indiscriminatamente qualsiasi testo biblico in termini allegorici, iperbolici o metaforici, soprattutto quando può essere interpretato «semplicemente e senza alcuna iperbole, nella comune accezione degli uomini89» (si sincera, et citra omnem hyperbolem communi… acceptione hominum). Curiosamente, quest’uomo che nelle sue interpretazioni dà prova di tanto acume, arguzia e virtuosismo nell’utilizzo di vari espedienti e artifici retorici, condanna quegli interpreti di sterile ingegno che, non sapendo aspettare il tempo necessario alla rivelazione delle profezie, finiscono per interpretarle modificando il loro «significato proprio e naturale90». Secondo Vieira, fedele servitore del testo, «non è pensando ma leggendo91» che si devono interpretare le Scritture. Siamo di fronte ad un aspetto realmente moderno dell’esegesi vieirina? A partire dagli umanisti del XV e XVI secolo, la concezione medievale sui quattro sensi della Scrittura, che privilegiava il significato letterale e storico, in relazione al senso anagogico, allegorico, tropologico e morale, fu oggetto di 88. Ivi, p. 191. 89. Ivi, pp. 145-147; pp. 138-140. 90. Ivi, p. 549. 91. Ivi, p. 15.

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una critica severa. Si ponevano così le basi per determinare il contenuto veritativo della Scrittura, frenando l’arbitrarietà di quei giochi ermeneutici che si rifugiavano nelle allegorie a causa dell’incapacità, figlia della mancata conoscenza delle scienze del linguaggio, di leggere e comprendere i testi nella loro concreta letterarietà92. Il senso letterale indagato dagli umanisti non è, ad ogni modo, quello di Vieira. Per loro, l’attenzione non soltanto alla dimensione letterale ma anche a quella letteraria, poetica e retorica dei testi biblici, e al rispettivo contesto naturale e storico sull’origine e l’uso delle parole, contribuiva a sostanziare il significato ricercato. L’esegeta umanista voleva quindi restituire il testo biblico alle condizioni naturali e sociali in cui era stato prodotto. I presupposti vieirini sono affatto differenti: senza una vera e propria critica letteraria o storica, il testo biblico è usato per rispondere all’urgenza dei fatti, o applicato direttamente alle situazioni della storia presente, come se si facesse direttamente riferimento ad esse93. D’altronde, il riconoscimento della canonicità del testo latino della Vulgata, uno dei punti che avvicinavano Vieira al contenuto del decreto 92. Questa era precisamente la critica che Melantone, al pari di molti altri umanisti, rivolgeva ai teologi romani: «Ego pro virili germanam ac simplicem sententiam et secum consentientem ac consentaneam reliquis scripturis ac dogmatibus ecclesiae inquisivi ac patefacere conatus sum. Non enim delector illo interpretandi genere, in quo singula dicta transformantur in infinitas sententias. Quid enim haberet certi religio? Quam possent habere piae mentes firmam de Dei voluntate sententiam, si hic ludus permissus esset ingeniis? Nihil enim tam simpliciter, tam plane dictum est, unde acuti homines non possint velut ex eadem cera mille formas ducere», Filippo Melantone, Commentarii in Epistolam Pauli ad Romanos (1532), in Melanchthons Werke in Auswahl, V Band: Römerbrief-Kommentar, ed. R. Schäfer – G. Ebeling, Gütersloh Verlagshaus Gerd Mohn, Gütersloh 1965, pp. 25-27. 93. Questo aspetto è già stato notato da A. Pécora, Teatro do Sacramento: a Unidade Teológico-Retórico-Política dos Sermões de António Vieira, EDUSP, São Paulo 1994, p. 172.

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tridentino, era proprio uno degli aspetti che lo differenziavano dagli umanisti. La Vulgata è il testo di riferimento di Vieira, e solo molto raramente il gesuita si riferisce nei suoi scritti ad altre versioni più antiche della Bibbia (Settanta, Ebraica) – edizioni che non aveva tuttavia neppure letto direttamente, conoscendole attraverso altri commentatori94. L’accettazione del testo latino della Vulgata, considerata un’edizione canonica di dignità pari a quella di un testo rivelato, lo conduce a considerare rivelati non soltanto il messaggio globale di questa traduzione, ma anche la sua lettera, ricercando a volte nei dettagli più minuti di questa versione latina (come abbiamo visto nell’esercizio esegetico incentrato sulla differenza tra hujus mundi e de hoc mundo) un significato esplicito o latente che spetta all’interprete e al predicatore rendere evidente. Le volte in cui il gesuita ricorre alla versione della Bibbia Ebraica o a quella dei Settanta è soltanto per esaminare in quei testi l’opportunità di qualche ingegnosa interpretazione, o per rinforzare la personale comprensione del senso proprio del testo95. Non dovrebbe perciò sorprendere che sia precisamente questa riduzione dei testi biblici al loro presunto senso letterale ciò che comportò molti problemi all’ermeneutica vieirina, soprattutto quando si trattava dell’applicazione diretta di passaggi delle profezie bibliche a situazioni concrete della storia del Portogallo o della storia mondiale. Problemi che non si sarebbero di sicuri presentati se tale applicazione fosse stata realizzata servendosi di un senso meramente morale o allegorico.

94. A questo proposito, cfr. K. Rühl, Biblischer Originaltext und Bibelversion in den Predigten Vieiras (1966), pp. 207-213; cfr. inoltre J. N. Carreira, Os Sermões do Padre António Vieira e a crítica literária da Bíblia, in Actas do Congresso Internacional, Vol. II (1999), pp. 1195-1205. 95. Cfr., ad esempio, A. Vieira, Clavis Prophetarum (2000), pp. 729-731; Id., Livro Anteprimeiro da História do Futuro (1983), pp. 152-153.

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A causa delle sue innumerevoli dichiarazioni contro l’interpretazione allegorica e a favore di un’esegesi letterale della Scrittura, Vieira sembra collocarsi inequivocabilmente sulla scia degli umanisti del XV e XVI secolo. Il gesuita, tuttavia, seguì solo apparentemente i presupposti dell’umanismo. Nella sua analisi, il richiamo ad un «senso letterale, proprio e genuino» possiede un significato essenzialmente retorico, trattandosi di un espediente per garantire autorità e realismo alle sue interpretazioni. Se fosse veramente coerente, il gesuita dovrebbe preferire, al testo latino della Vulgata, le versioni più antiche della Bibbia; tuttavia, quando ciò accade, la scelta è funzionale soltanto a sostenere o affinare la propria esegesi. D’altra parte, anche la stessa Vulgata a volte si rivela un espediente ingegnoso per dare sostanza a degli esercizi di semplice arguzia ermeneutica, tali da lasciare senza parole il più audace ed inspirato degli esegeti umanisti. Ci sono inoltre molte occasioni, nei sermoni o in altri scritti, in cui questo apparentemente incondizionato difensore del senso letterale, che promette di non parlare «per iperboli né per sineddochi96», pratica di fatto e assiduamente molte interpretazioni allegoriche, o costruisce su semplici metafore e persino su giochi arguti di parole i suoi argomenti e le sue congetture97.

96. A. Vieira, Livro Anteprimeiro da História do Futuro (1983), p. 35; trad. it. p. 57. 97. Questo procedimento si trova in molti sermoni, ma è presente anche in tanti altri scritti. Sulla metafora come strumento fondamentale della metodologia e del modo di pensare vieirino e come strategia retorica per generare persuasione, cfr. A. do Espírito Santo, Aspectos do pensamento de Vieira na Clavis Prophetarum, in Actas do Congresso Internacional, Vol. II (1999), pp. 916-917.

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6. L’ingegnosa ermeneutica di Vieira Analizzando l’attitudine di Vieira in relazione alla dottrina tridentina dell’ermeneutica biblica, abbiamo notato quanto essa fosse caratterizzata dall’obiettivo di giustificare la libertà creativa dell’interprete, pur cercando di non travalicare i limiti stabiliti dall’ortodossia. L’esercizio di una simile libertà non è certo facile; di fatto, uno degli aspetti più caratteristici della concezione vieirina è l’insistenza sul ruolo e la funzione propri dell’esegeta. L’interprete si trova di fronte infatti ad un «caos profondissimo e oscurissimo», prigioniero di un «oscuro e intricato labirinto98» di testi; da questa oscurità, egli deve trarre l’ordine e la luce. Per entrare ed uscire con successo dal labirinto, «le profezie e i Dottori serviranno da torce; l’intelletto e il raziocinio da filo99». Se per uno scrittore come Vieira il fondamento di ogni buona interpretazione non può che trovarsi nella Scrittura, il lavoro dell’interprete deve essere guidato dalla comprensione e dall’ingegno: spetta proprio a lui allora il compito di esplicitare il senso occulto nei testi, di ordinare il caos, ricercare il filo che lo guidi nel labirinto delle Scritture. Spetta a lui, inoltre, dare forma ad un discorso che ponga in evidenza la coerenza interna delle Scritture, oltrepassando e risolvendo le contraddizioni dei testi e dei suoi interpreti. Per delineare un compito così vasto, Vieira si serve di due metafore intrecciate, tratte dall’ambito architettonico ed organico: «Sopra questi fondamenti della prima e somma verità si stabilirà il ragionamento, come un architetto di tutta questa grande fabbrica, disponendo, ordinando, sistemando, combinando, inferendo e aggiungendo tutto quello che, per conseguenza e ragione naturale,

98. A. Vieira, Livro Anteprimeiro da História do Futuro (1983), p. 99; trad. it. p. 118. 99. Ibid.

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deriva e si inferisce dagli stessi principi; nel qual modo di edificare non si perde la prima verità dei fondamenti, ma va crescendo, dilatandosi e fruttificando, non in un corpo diverso, ma nello stesso, come l’albero sulle sue radici100». Il lavoro dell’interprete aggiunge alla luce della rivelazione il lume naturale della ragione, consegnando all’evidenza il senso occulto o latente della revelatio: «Aggiungendo il lume naturale del raziocinio al lume sovrannaturale della profezia, con cura, studio e operosità propri, leggendo, meditando, disputando […], così il lume sovrannaturale, che sta e splende nel corpo o nelle parole delle profezie, aiutato dal lume naturale del raziocinio, si va propagando, diffondendo ed estendendo a molte cose, tempi, accadimenti e circostanze che in queste stavano nascoste, e che con il confronto e la deduzione dello stesso raziocinio si vanno di nuovo ampliando e scoprendo101». Il lavoro personale dell’interprete non costituisce un’audacia eccessiva, e non offende neppure la reverenza dovuta agli oracoli divini. Secondo Vieira, gli stessi profeti non si limitarono ad ascoltare la profezia rivelata, ma vi contribuirono con lo sforzo della comprensione e della fede per raggiungere l’intelligenza delle profezie, «conoscendo di queste e attraverso di esse molte cose che non vi stavano direttamente rivelate102». Le comparazioni utilizzate da Vieira per descrivere il lavoro esegetico, tratte dalla Scrittura – zappare la vigna, pulire la casa alla ricerca del tesoro –, indicano tutte la portata industriosa ed ingegnosa richieste dall’impegno ermeneutico. La panoplia di risorse e di strategie usate da Vieira è impressionante; inoltre, è risaputo come fra le sue svariate funzioni la retorica barocca

100. Ivi, p. 97; trad. it. p. 115. 101. Ibid.; trad. it. p. 116. 102. Ivi, pp. 97-98; trad. it. p. 116.

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mirasse anche ad impressionare non grazie alla solidità dei suoi argomenti e artifici, bensì attraverso l’abbondanza e la lucentezza delle proprie rationes. Ad essere mobilitata è dunque l’intera enciclopedia dei saperi e dell’erudizione tipiche del barocco (la storia sacra e profana, i Padri e gli autori classici, le conoscenza naturali, l’etimologia e la filologia, le leggende e le tradizioni popolari, la numerologia e la cabala, le verità teologiche, le metafore e le allegorie). Vieira passa dalla storia biblica a quella profana, e viceversa; dalla storia degli Ebrei a quella del Portogallo, senza alcuna discontinuità. Viene annullandosi, ad esempio, la differenza tra la storia biblica e la storia nazionale portoghese, il profeta Isaia potendo essere considerato tra i cronisti del Portogallo o del Brasile, poiché egli, nell’ottica del gesuita, «molte volte parla delle conquiste spirituali dei Portoghesi e delle genti e nazioni che grazie ai loro predicatori si convertiranno alla fede103». Differenti fonti e materiali sono fusi labirinticamente insieme, e il discorso vieirino si serve di tutti gli spunti possibili a sua disposizione, indistintamente, senza che sia visibile l’esistenza di una precisa gerarchia. Tutto si trova lungo lo stesso asse, e ogni cosa è disponibile al lavoro di un interprete che, avvalendosi del suo potere di libera ed ingegnosa associazione, fondata sul solo principio di verosimiglianza, può dare vita alla produzione di un discorso capace di generare un senso. Per passare da un testo all’altro, è sufficiente il tenue filo di un’analogia tratta da un’etimologia, la suggestione di una qualunque similitudine tratta dalla natura, l’allusione o l’evocazione di un’autorità o di una citazione erudita. Il risultato non sarà un discorso veritiero, almeno secondo il forte significato usualmente attribuito alla parola, ma sarà verosimile quanto basta per rimanere in piedi nella sua impressionante coerenza di riferimenti

103. Ivi, p. 153; trad. it. p. 183.

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intrecciati e suggestive e luminose apparenze. Come ha giustamente sottolineato il grande studioso e interprete dell’opera di Vieira, António José Saraiva: «Per Vieira, il testo e la cosa sono situate sullo stesso piano. Si passa dall’uno all’altra come se le virgolette non esercitassero alcuna funzione. Ora un testo è interpretato come cosa, ora una cosa come testo, talora una è il prolungamento dell’altro, talaltra si intrecciano. Da un testo si estrae una cosa; da una cosa, una parola […] Il testo dell’autore stesso è un commentario, ossia una lettura ed una spiegazione. L’insieme costituito da un testo sacro, da testi profani al cui interno Dio, in qualche modo, parlò, e dalla Natura che, con la Storia, è una figura parlante della verità divina, forma un contesto unico, i cui termini – cose, immagini delle cose e parole – si spiegano insieme104». Forniamo un esempio, fra i molti possibili, di questa ingegnosa pratica ermeneutica del grande scrittore barocco, estratto dalla sua Storia del futuro. Vieira si serve qui dei più svariati ricorsi per costruire un discorso verosimile e dimostrare che un passaggio di Isaia (18, 1-2), interpretato nel suo «senso genuino, proprio e letterale», si riferisce in modo inequivocabile alle terre e ai popoli del Brasile; gli interpreti antichi e moderni, semplicemente, non erano in grado di cogliere il riferimento presente nel testo perché erano sprovvisti dell’esperienza e della conoscenza effettivi di quelle terre e di quelle genti, conosciute soltanto in seguito, grazie alle navigazioni dei portoghesi. Il testo del profeta biblico può essere tradotto nel modo seguente: «Ah, paese dagli insetti ronzanti che ti trovi oltre i fiumi di Etiopia, che mandi ambasciatori per mare, in canotti di papiro sulle acque: “Andate, messaggeri veloci, verso questa nazione sradicata e fatta a pezzi, verso un popolo terribile,

104. A. J. Saraiva, O Discurso Engenhoso, Editora Perspectiva, São Paulo 1980, p. 88.

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oltre il quale non vi è nessun altro, verso questa nazione in attesa e calpestata”». Le interpretazioni del testo, tanto quelle antiche quanto le più moderne, non sono state in grado di cogliere e decifrarne il significato. Vieira è l’unico capace di intuirne pienamente il senso, poiché beneficia della conoscenza dei nuovi popoli raggiunta grazie alle scoperte dei portoghesi: «Gli interpreti antichi si affaticarono sempre molto per scoprire la vera spiegazione e applicazione di questo testo, ma non la trovarono, né potevano trovarla, poiché non erano a conoscenza né della terra né della genti di cui parlava il profeta. I commentatori moderni colsero genericamente la comprensione della profezia, dicendo che si intende della nuova conversione alla Fede di quelle terre e di quelle genti nuove che negli ultimi tempi si erano conosciute nel mondo con la scoperta degli Antipodi; e alcuni rilevarono con acume e congruità che questo intende affermare la pregnanza della locuzione: ad gentem conculcatam: “gente schiacciata dai piedi”, poiché gli antipodi che rimangono sotto di noi sembra che li teniamo sotto i piedi e li calpestiamo. Ma, pervenendo più da vicino alla gente, alla terra o provincia di cui intende il profeta, anche i moderni non ne colsero finora il significato proprio, puro e naturale, e questo è quello che dobbiamo scoprire e scrivere qui, poiché lo abbiamo ricevuto da persona dotta e versata nelle Scritture che, avendo visto le genti, calcato le terre e navigato le acque di cui parla questo testo, finì con il comprenderle105». E qual è allora il «significato proprio, puro e naturale» del testo citato di Isaia? Vieira lo dichiara senza alcuna esitazione, utilizzando la tecnica dell’applicazione della profezia biblica agli eventi e alle conoscenze della storia recente: il testo del profe-

105. A. Vieira, Livro Anteprimeiro da História do Futuro (1983), p. 147; trad. it. p. 176.

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ta parla espressamente del Brasile, e in modo particolare dei popoli del Maranhão!106 Il gesuita decide in seguito di indicare per ogni parola del testo di Isaia l’adeguata corrispondenza con i popoli e le terre del Brasile, poiché, come precisa lo stesso Vieira, «tutte le parole del profeta contengono mistero, e tutte illustrano in maniera notevole le proprietà della gente di cui parla107». Per la buona riuscita della sua ingegnosa architettura, l’oratore barocco necessita di molte cose: i testi della Scrittura, la letteratura patristica, gli avvenimenti della storia recente (le navigazioni e le novità che esse permettevano di conoscere e decifrare), la discutibile erudizione linguistica, le conoscenze e i risultati dell’esegesi dell’epoca, le ugualmente discutibili corrispondenze semantiche e linguistiche – ad esempio, quella stabilita fra il cymbalum (il termine è tratto dal testo di Isaia, secondo la versione latina della Vulgata) e il maracatum (un’imbarcazione dei popoli del Maranhão, a sua volta proveniente da maracá, una parola che deriverebbe, secondo Vieira, dalla «campana» che traduce il cymbalum del testo di Isaia108) –, l’informazione storica, reale o fantasiosa, e le conoscenza tratte dalla storia naturale. Un lettore contemporaneo troverebbe tali interpretazioni quantomeno bizzarre: è quindi certamente ancora più strano che esse vengano presentate come delle intuizioni capaci di decifrare il «senso proprio, genuino e letterale» dei testi biblici e profetici, quasi ne costituissero l’interpretazione letterale e veritiera. Ad ogni modo, se teniamo presente i quattro tipi di verità che presiedono al lavoro dell’interprete, e se pensiamo inoltre che anche il verosimile faccia parte della nozione vieirina e barocca di verità, non possiamo non sorprenderci dinanzi ad una così acuta e sottile esegesi. Del resto, Vieira è ben consapevole di trovarsi 106. Cfr. Ivi, p. 148. 107. Ivi, p. 150; trad. it. p. 180. 108. Cfr. Ivi, pp. 151-152.

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sempre in vantaggio, visto che è sempre preferibile che un testo possieda un’interpretazione, seppur soltanto verosimile, piuttosto che non ne abbia nessuna109. In verità, la sua ermeneutica obbedisce ad una logica intenzionata a trovare una propria coerenza e pregnanza, sebbene raggiunte con materiali che non possono garantire null’altro che una fragile probabilità o tenue verosimiglianza. Come strategia di fuga alla vacuità del senso, il gesuita intende riempire le lacune, eliminare lo iato, la contraddizione e l’incoerenza esistenti fra i testi biblici e le interpretazioni offerte. Ciò che muove e sollecita questo tipico ermeneuta barocco è la zelante ricerca di una completa pienezza della Scrittura e delle sue profezie, e ciò si accompagna, naturalmente, all’urgenza della sua effettiva realizzazione nella storia. Vieira ritrova allora nelle contraddizioni degli esegeti precedenti la legittimità per proporre egli stesso un’interpretazione che superi il disaccordo, ponga in evidenza la concordanza delle Scritture, e analizzi il senso autentico e profondo di quei passaggi considerati oziosi o inutili dai vari commentatori precedenti110.

109. Lo stesso Descartes, che coltivava una cognitio certa et evidens, sapeva che non era possibile fornire una certezza assoluta ed evidente per tutte le tipologie di conoscenza; anch’egli, infatti, fece riferimento a delle verità connesse ad una «certezza morale», come è il caso di quelle che regolano i costumi, capaci di svolgere una funzione pratica, pur potendo sempre rivelarsi false. Il filosofo francese fornisce un esempio suggestivo a sostegno di questa certezza morale, in grado di chiarificare la strategia sottesa all’ermeneutica vieirina. Cfr. R. Descartes, Œuvres, ed. Ch. Adam e P. Tannery, Vrin, Paris 1996, Vol. IX, pp. 323-324. Sui presupposti dell’euristica cartesiana, accomunati con quelli propri dell’ermeneutica barocca, cfr. L. Ribeiro dos Santos, Retórica da Evidência ou Descartes segundo a Ordem das Imagens, Quarteto, Coimbra 2001, in part. pp. 181 e sg. (nova edição revista e ampliada, CFUL, Lisboa 2013, pp. 163 e sg.). 110. Cfr. A. Vieira, Clavis Prophetarum (2000), pp. 179-183.

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È il principio della pregnanza a comandare l’esegesi vieirina e la sua visione della storia e del mondo. Questo principio, al servizio della poderosa economia desiderante che attraversa il discorso messianico-apocalittico del gesuita portoghese, rappresenta, al tempo stesso, il suo vantaggio e il suo più grande problema. Nell’impazienza di vedere con i propri occhi la consunzione del tempo e la realizzazione delle profezie, Padre Vieira pensò di aver visto e compreso più di quanto fosse realmente possibile vedere e comprendere. Tuttavia, al pari di tutte le interpretazioni del passato, anche le sue previsioni furono alla mercé di quel supremo esegeta di tutte le verità che è il tempo. Ed è grazie al tempo che ogni interpretazione è destinata ad essere soppiantata e sostituita, non appena nuovi avvenimenti o una conoscenza più matura del tempo portino alla luce interpretazioni capaci di presentarsi come ancora più prossime alla verità, o almeno semplicemente esposte nella loro fragile condizione di ingegnose e generose congetture.

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Domingos Gonçalves de Magalhães: dal razionalismo ecclettico all’ontologismo metafisico

1. L’opera filosofica di Domingos Gonçalves de Magalhães1 non si distingue né per la sua estensione, né per il suo livello

1. Domingos José Gonçalves de Magalhães (Rio de Janeiro 1811 – Roma 1882). Medico e diplomatico; poeta, drammaturgo e filosofo. Studiò medicina (1828-1832), ma si interessò anche di filosofia, avendo seguito nel 1832 il corso tenuto da Frei Francisco de Monte Alverne, sostenitore delle idee di Locke e Condillac, nel Seminario Episcopale di São José (Rio de Janeiro). Nel 1833 si recò a Parigi con l’obiettivo di perfezionarsi in medicina. Lì entrò in contatto con le idee romantiche e con i filosofi di tendenza eclettica (Victor Cousin e Theodor Joufroy). Gonçalves de Magalhães è considerato colui che ha introdotto il Romanticismo in Brasile, il cui manifesto è il Discurso sobre a literatura no Brasil (scritto a Parigi nel 1836). Dopo il ritorno in Brasile fu nominato nel 1838 professore di Filosofia nel Collegio Imperiale D. Pedro II, sebbene l’assenza di alunni regolari gli abbia impedito di esercitare la propria funzione, che riprenderà solo nel 1841, con la lezione inaugurale e programmatica, il Discurso sobre o Objecto e Importância da Filosofia. A partire dal 1847 e fino al 1882 esercitò funzioni diplomatiche in vari paesi europei e americani. La morte lo colse quando era ambasciatore presso la Santa Sede. La maggior parte delle sue opere filosofiche è scritta e pubblicata in questa seconda fase della sua vita, mentre si trovava in Europa. Sul suo pensiero, si veda AA. VV., O Pensamento de Domingos Gonçalves de Magalhães, Lisboa 1994; A. Braz Teixeira, O Pensamento de Domingos Gonçalves de Magalhães, Lisboa 1994; R. S. M de Barros, A significação educativa do Romantismo Brasileiro: Gonçalves de Magalhães, São Paulo 1973.

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di profondità analitica, e neppure per la sua densità speculativa. Rivolgendosi ad un ambiente culturale in cui la discussione delle idee filosofiche non rappresentava un’abitudine consolidata o una necessità riconosciuta, l’autore dei Fatti dello Spirito Umano (1858) e dei Commenti e Pensieri (1880) rivelò il proprio talento cercando innanzitutto di porre le basi per lo sviluppo della cultura e della riflessione filosofica in un paese che, avendo già confermato la propria autonomia sul piano politico, dal punto di vista delle idee, secondo le parole dello stesso Magalhães, aveva per presente ciò che era stato «il passato del centro colto d’Europa2». La riflessione di Magalhães è un’opera di intervento culturale nel senso più vasto del termine. Cosciente che il pessimo stato della sua nazione, almeno sul piano politico e morale, era dovuto al valore delle idee in circolazione e ad una «incompleta teoria filosofica» presente nelle scuole e fra le classi dirigenti, Magalhães si propone di guidare una riforma delle idee filosofiche in grado di rigenerare moralmente la società brasiliana. «È per il Brasile, e solo per il Brasile che scriviamo» – dichiarava, nel 1836, il giovane autore del saggio di Filosofia della Religione. Nei suoi scritti filosofici successivi non perderà mai di vista il proposito di delineare un progetto di azione culturale, denunciando gli inganni e gli errori presenti in quelle teorie ed idee destinate a distruggere l’ordine morale e so2. D. G. de Magalhães, Philosophia da Religião (1836), p. 296. Le opere di Domingos Gonçalves de Magalhães saranno citate dalle seguenti edizioni: Id., Philosophia da Religião, in Obras de D. J. F. G. de Magalhães, t. III, Opúsculos Históricos e Litterários, Livraria de B. L. Garnier, Rio de Janeiro 1865; Id., Factos do Espírito Humano, Livraria d’Auguste Fontaine, Paris 1858; Id., Commentarios e Pensamentos, Livraria de B. L. Garnier, Rio de Janeiro 1880; Discurso sobre o Objecto e Importância da Filosofia, in: R. S. M. de Barros, A significação educativa do Romantismo Brasileiro: Gonçalves de Magalhães, Ed. Universidade de S. Paulo – Ed. Grijalbo, S. Paulo 1973, pp. 251-263.

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ciale, proponendosi al contempo «come guida della gioventù brasiliana al santuario della Ragione». In un secolo caratterizzato dallo sviluppo straordinario delle scienze fisiche, fisiologiche, biologiche e psicologiche, dal culto delle scienze positive e dal credo positivista; in un periodo storico che si lasciava inoltre sedurre dalla comodità del monismo materialista, ritenuto in grado di fornire una risposta definitiva alle grandi questioni riguardanti il mondo naturale e il mondo morale, Gonçalves de Magalhães aggiunse la sua voce a quella di altri lucidi spiriti contemporanei, i quali, pur riconoscendo le irrecusabili conquiste delle scienze, non si lasciarono ammaliare, difendendo le esigenze della metafisica e il rifiuto di ridurre la realtà a quei domini oggetto dello studio delle scienze positive e delle loro esplicazioni meccaniciste. A ciò li spingeva non solo la necessità di trovare per la scienza e i suoi procedimenti una comprensione più soddisfacente, ma soprattutto l’esigenza di fornire un significato più pregnante alle dimensioni dell’umano, che non potevano naturalmente essere ridotte alla sola pratica scientifica, esprimendosi ugualmente nell’arte, nella vita morale e nella credenza religiosa. È sotto il segno di un umanismo moralizzatore e aperto che il pensatore brasiliano concepisce la sua impresa filosofica. Ecco cosa scrive: La filosofia che professiamo, e che ci ha sempre guidato in tutti i nostri scritti, è naturalmente quella che più esalta lo spirito umano, lo eleva a Dio, moralizza l’uomo, e che è più capace di farci progredire nella società in cui siamo nati3.

2. Per la sua impresa filosofica, Gonçalves de Magalhães si ispira al pensatore francese Victor Cousin, dalla cui filosofia

3. D. G. de Magalhães, Factos do Espírito Humano (1858), VIII.

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trae non soltanto il metodo e la concezione fondamentale, ma anche la maggior parte delle nozioni storico-filosofiche con cui lavora. Quel filosofo francese, nel celebre discorso pronunciato all’apertura del suo Corso di Storia della Filosofia Moderna, il 4 dicembre 1817, raccomandava un «eclettismo illuminato che, giudicando con equità e perfino con benevolenza tutte le dottrine, vi estraesse ciò che possiedono di comune e veritiero, trascurando quello che hanno di opposto e falso4». Analogamente, nel suo discorso di apertura della lezione di Filosofia dell’Imperial Colégio de Pedro II, intitolato Discorso sull’Oggetto e l’Importanza della Filosofia (1842), Magalhães cita Cousin per mostrare come l’errore dei vari sistemi provenga dal loro dogmatismo e dall’unilateralità e incompletezza dei loro rispettivi punti di vista: L’errore della filosofia è di aver considerato un solo lato del pensiero, e di averlo visto tutto intero da questo lato. Non ci sono sistemi falsi, sì molti incompleti, abbastanza veritieri in se stessi, ma erronei nella pretesa, presente in ognuno di essi, di contenere l’assoluta verità che si trova in tutti5.

Dopo aver annunciato una tipologia dei sistemi filosofici cui rimarrà fedele, per ciò che concerne l’essenziale, lungo tutta la sua opera – il sensualismo, lo spiritualismo, lo scetticismo e il misticismo –, Magalhães propone una filosofia che, nella propria comprensione, sia capace di evitare i vizi denunciati, soddisfacendo al contempo lo spirito umano: la «filosofia eclettica». Il pensatore brasiliano si propone dunque di realizzare un fecondo confronto tra i filosofi, neutralizzando gli eccessi degli 4. V. Cousin, Cours d’Histoire de la Philosophie Moderne, 1/2, Paris 1846, p. 12. 5. D. G. de Magalhães, Discurso sobre o Objecto e Importância da Filosofia (1973), pp. 251 e sg.

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uni con le ragioni degli altri. Locke e Condillac compariranno davanti a Reid, Royer-Collard, Cousin e Fichte; Helvetius, Hobbes e Bentham saranno obbligati a confrontarsi con Kant, Dugald Stewart e Jouffroy. L’eclettismo è una teoria dell’equilibrio. «Non crediate», precisa Magalhães, «che, fuggendo da un estremo, noi si finisca in un altro6». È stato già notato in modo pertinente che l’eclettismo di Magalhães è lungi dall’essere un semplice calco della riflessione di Cousin. Nella sua opera, infatti, l’eclettismo non è soltanto un metodo per unire quello che vi è di comune nelle differenti dottrine, ma è, innanzitutto, uno strumento di critica e di valutazione dei sistemi filosofici. Essi devono sicuramente essere confrontati, giacché solo così si potrà riconoscere e correggere la rispettiva parzialità e unilateralità di prospettive. Al di là del confronto tra sistemi, ad essere realmente decisivo è il raffronto dei sistemi con i fatti, non soltanto con i fatti che sono oggetto delle scienze positive, ma con i «fatti dello spirito umano», vale a dire con quei fatti che si rivelano nella coscienza. In ultima istanza, sono propri i fatti a relativizzare, correggere o rettificare i sistemi filosofici. Così inteso, l’eclettismo filosofico di Magalhães, più che un sistema o una parte di dottrina, è un metodo aperto di scoperta e costruzione filosofica, con cui si cerca di raggiungere non solo l’accordo generale di tutti i filosofi riguardo ai principi fondamentali, ma anche il consenso tra la ragione filosofica e la teologia, la ragione e la fede, la ragione scientifica e la ragione metafisica, la ragione e l’esperienza, la ragione, il senso comune e la credenza. Si tratta di un programma molto vasto, che Magalhães presenta in questi termini: Cerco di comprendere l’ordine universale di tutte le cose, spiegandolo a me stesso senza ipotesi, e non invento per il

6. Ivi, p. 260.

134 mio piacere una teoria astratta, ricercando la forza per armonizzarla in tutte le sue parti, per darle questa bellezza ideale dell’unità con cui i grandi ingegni aspirano a suggellare le loro opere. Parto da fatti riconosciuti da tutti i filosofi delle scuole più diverse, e da tutti quelli in possesso di una qualsiasi conoscenza generale delle cose della natura; invoco la testimonianza di tutte le scienze non sospette di metafisica e di misticismo; ricerco i principi, le dimostrazioni e conclusioni di tutte le teorie più distanti, ciò che esse affermano, e ciò che negano sistematicamente, e ciò che inconsciamente confessano, per l’efficacia della verità, che riluce in tutte le teorie, anche in quelle che la disconoscono; come brilla la luce attraverso la nebbia che la ricopre7.

In un altro luogo, si esprime questa stessa intenzione, unita alla consapevolezza della vastità del compito, della novità del metodo e della modestia del risultato: Ci occupiamo di tutte le grandi questioni della filosofia; esponiamo le teorie più accreditate e accettate; rifiutiamo quelle che ci sembrano contrarie ai fatti, e tentiamo, in un modo differente da quello seguito da altri, di risolvere con la migliore chiarezza possibile alcune difficoltà, senza la minima pretesa di imporci come autori di un nuovo sistema filosofico8.

Il fatto che Magalhães non intenda proporre un nuovo sistema filosofico non significa che si limiti a compilare idee altrui. Egli discute le tesi in conflitto a proposito di un dato problema, avanza la sua opinione personale e, a volte, diverge anche dai suoi stessi maestri, andando al di là di essi e avventurandosi in nuove teorie – sempre che lo imponga la necessità di trovare una spiegazione più soddisfacente per i fatti in esame. Solo il minuzioso raffronto delle analisi del pensatore brasiliano con le fonti filosofiche e storico-filosofiche da lui utilizzate potreb7. D. G. de Magalhães, Factos do Espírito Humano (1858), pp. 359-360. 8. Ivi, VII.

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be fornirci un’idea adeguata del grado di originalità delle sue soluzioni (per esempio, per ciò che concerne le concezioni antropologiche o la teoria della sensibilità e della percezione), un’indagine certamente interessante, ma che non rientra nell’ambito di questo saggio. L’eclettismo è stato spesso svalutato come dottrina, considerato una forma di filosofia debole e poco originale, una filosofia superficiale fatta di soli compromessi, intenzionata a nascondere le ragioni di fondo della divergenza o differenza fra i vari sistemi filosofici, una filosofia mossa, infine, più dalla ricerca di facili consensi che dalla forte esigenza di verità, di coerenza e di obiettività. L’eclettismo proposto da Magalhães ricade in questa caratterizzazione? E qual è il metodo che il pensatore brasiliano intende seguire? Non c’è modo migliore di rispondere che leggere le sue stesse parole. È in questi termini che Magalhães caratterizza il proprio metodo: L’eclettismo è una critica che presuppone la conoscenza di vari sistemi e scuole differenti, al cui interno essa si esercita, discriminando ciò che le pare veritiero da ciò che le si presenta come falso9.

Non si tratta allora soltanto di comparare sistemi o di raccogliere quello che essi hanno in comune. Prima di tutto, l’eclettismo di Magalhães è un metodo di critica e discriminazione, le quali non possono esercitarsi senza un criterio che le orienti, trattandosi di un discrimine che, non potendo derivare dalle dottrine da lui stesso rese possibili, dovrà ovviamente precederle. Il pensatore brasiliano sa che non basta supporre genericamente che esista una verità in tutti i sistemi filosofici, giacché, in tal caso, continueremmo ancora a non sapere quale

9. Ivi, p. 35.

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sia la verità in comune. Secondo la personale convinzione di Magalhães, l’eclettismo non consiste in un mosaico di dottrine disparate, e non si risolve neppure in un «sincretismo sconnesso». Esso suppone invece, come espressamente afferma lo stesso pensatore, principi anteriori alla critica e una dottrina già formata, che gli serva da guida e da pietra di paragone nel processo di valutazione della verità dei differenti sistemi filosofici. Secondo Magalhães, fra i differenti sistemi, ve ne sono due che possono essere considerati come «i grandi e unici sistemi fondamentali di tutta la filosofia», vale a dire il sensualismo e lo spiritualismo10. Essi hanno in comune la volontà di ricercare la verità attraverso mezzi naturali, ricorrendo ai fatti e all’esperienza, sebbene il primo si riveli più limitato nella sua capacità di rispondere alle esigenze della ragione e soprattutto più pericoloso nelle sue conseguenze, poiché conduce alla negazione della ragione e della libertà umana. La radicalizzazione del primo conduce quindi allo scetticismo e al materialismo, mentre quella del secondo lo spinge al misticismo. Si tratta di conseguenze che il metodo eclettico cerca di evitare, correggendo o completando le limitazioni del sensualismo attraverso lo spiritualismo, e viceversa, realizzando così la «fusione» di entrambi in una sola dottrina11. In verità, nonostante questa sia l’intenzione dichiarata, Magalhães sta portando avanti nelle sue opere, più che una semplice correzione, una critica sistematica e un deciso rifiuto dei principi del sensualismo, accusandone senza ambiguità le perniciose conseguenze in tutti i domini del sapere. Nel saggio di Filosofia della Religione, il sensualismo (di Condillac, di Cabanis e di Destutt di Tracy), una filosofia insegnata alla gioventù 10. Ivi, p. 39. 11. Ivi, p. 40.

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nelle scuole, è indicato come una «incompleta teoria filosofica mal interpretata che, opponendosi alla sanzione religiosa e alla morale del dovere, distrugge tutti i nobili sentimenti della virtù12». Sulla stessa linea, il Discorso sull’Oggetto e l’Importanza della Filosofia vede nel sensualismo il sistema foriero delle conseguenze più gravi, tra le quali spicca il materialismo. Nei Fatti dello Spirito Umano, inoltre, sono esposte con maggior dettaglio i perniciosi effetti di questa filosofia, tanto sul piano teorico che su quello pratico, nella psicologia e antropologia, nella metafisica, nella morale, nell’estetica, nella politica e nella religione. Diamo la parola al pensatore brasiliano: La conclusione del sensualismo in psicologia è la negazione della ragione e della libertà, e delle idee necessarie e assolute, principi fondamentali dell’esperienza, senza i quali sarebbe impossibili qualunque scienza e l’esperienza stessa. In morale, è la negazione dell’idea del dovere e della giustizia, ridotte a mero interesse. In estetica, è la negazione del bello ideale, confuso con il piacere che lo accompagna. In politica, è il dispotismo assoluto di Hobbes. Che cosa sarà la storia secondo la teoria del sensualismo? Una lotta fatale e incessante di passioni disordinate, di interessi materiali contro il potere della forza, senza alcun fine morale. E la religione? Una superstizione figlia dell’ignoranza, fondata da una politica ipocrita, in favore del potere, e di un ordine puramente temporale. E quale sarà la missione del poeta sensualista? Esaltare i sensi, i piaceri sessuali, i godimenti materiali della vita, le orge e la voluttà13.

Dal sensualismo derivano, di conseguenza, lo scetticismo, il determinismo, l’utilitarismo, l’assolutismo, il materialismo e l’epicureismo. Esso corrompe infatti l’intero ambito delle 12. D. G. de Magalhães, Philosophia da Religião (1836), p. 299. 13. D. G. de Magalhães, Factos do Espírito Humano (1858), pp. 46-47.

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idee, e ben presto anche le attitudini e i comportamenti. Rifiutandone radicalmente i presupposti, Magalhães non si dilunga sull’ampio elenco delle sue estensioni e perverse conseguenze. Ma qual è il criterio della critica, della valutazione e del rifiuto delle dottrina filosofiche? E quali sono i principi che la guidano? 3. Se Magalhães intende realizzare, rimanendo fedele al suo metodo eclettico, una sintesi fra il sensualismo e lo spiritualismo, la sua riflessione, in realtà, propende già per lo spiritualismo: è a partire da questa prospettiva, infatti, che si comprende l’aggressività del suo rifiuto del sensualismo e delle implicazioni che lo riguardano. È importante, ad ogni modo, caratterizzare questo spiritualismo, e vedere in che senso possa incorporare la verità dello stesso sensualismo. Fin dall’inizio, il pensatore brasiliano presenta uno spiritualismo che non rifiuta i fatti e l’esperienza, che non si risolve in una filosofia di astrazioni e che non si rifugia neppure in un facile misticismo. Lo spiritualismo di Magalhães può essere propriamente definito un positivismo idealista o un razionalismo aperto. Si può parlare di un positivismo idealista per l’attenzione e la fedeltà ai fatti, non soltanto ai fatti bruti del mondo materiale, ma innanzitutto e in modo particolare ai fatti rivelati nella coscienza, ossia ai «fatti dello spirito umano». La riflessione del pensatore brasiliano, tuttavia, può essere considerata anche una forma di razionalismo aperto ai fenomeni del mondo fisico, psichico, morale e spirituale, che non si preclude un possibile confronto con il mistero. Si tratta inoltre di un razionalismo aperto poiché non si chiude in spiegazioni definitive e dogmatiche, ma accetta la revisione permanente delle sue stesse conclusioni. Lo spiritualismo di Magalhães non presuppone mai la rinuncia o la negazione

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della ragione, essendo proprio quest’ultima la vera pietra di paragone, l’ultimo e unico criterio della verità: Ciò che la ragione ci consiglia è di esaminare i fatti con tutti i mezzi legittimi di cui disponiamo, e di cercare con la nostra propria intelligenza di comprenderli ed esplicarli, senza derogare i principi fondamentali della ragione14.

Questa idea, esposta già nel Discorso del 1842, postulava una concezione dialettica, o, perlomeno, la necessità di una mutua collaborazione tra la ragione e i fatti: I fatti sono muti e in se stessi non danno luogo ad una vera scienza […], [ma] senza fatti osservati non possiamo concludere o dedurre alcunché, perché è necessario, secondo la nostra natura, che gli elementi a priori e quelli a posteriori avanzino di comune accordo, spiegandosi a vicenda; è dunque necessario interrogare i fatti, scoprire le leggi che li reggono e indagare le cause: questo è filosofare15.

L’esperienza e la ragione, la libera determinazione e verifica dei fatti, uniti alla ricerca dei principi che li sostanziano, costituiscono il presupposto metodologico fondamentale dell’epistemologia di Magalhães. Ecco perché nella spiegazione delle principali questioni filosofiche cui si applica nelle sue opere, il pensatore brasiliano cercherà di comporre un periplo di tutte le scienze, tentando di avvallare e armonizzare i rispettivi risultati, in modo che possano contribuire a chiarire i vari problemi in esame. Questo metodo può essere considerato una concreta applicazione di un eclettismo che non rifiuta nulla, ma che raccoglie e valuta tutto ciò che gli si presenta. E questo è proprio uno dei compiti della filosofia, che adempie così alla sua feconda funzione di «scienza delle scienze», promuo-

14. Ivi, p. 38. 15. D. G. de Magalhães, Discurso sobre o Objecto e Importância da Filosofia (1973), p. 254.

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vendo l’unità e la coerenza dei differenti saperi scientifici e realizzando quello che oggi chiameremmo interdisciplinarietà o transdisciplinarietà. In effetti, Tutte le scienze devono essere in armonia, o non c’è alcuna verità in esse. Chi può comprendere una politica o una religione opposte alla morale, e una morale opposta alla psicologia, o una psicologia opposta a tutte le altre scienze? Alla filosofia spetta ricercare tale armonia e questa grande unità di tutte le scienze e di tutte le cose, denunciando tutte le contraddizioni come la traccia di un inganno di una delle parti16.

Ma per il pensatore brasiliano l’ambito della filosofia e il lavoro della ragione non si esauriscono nella valutazione e armonizzazione delle leggi e delle conclusioni delle scienze positive. Nell’orizzonte della ragione, e, di conseguenza, in quello della filosofia, si agitano ugualmente le questioni propriamente metafisiche, le quali, essendo effettivamente già presupposte nelle leggi scientifiche, non possono essere tuttavia fondate (e tanto meno negate o rifiutate) dalla scienza. Rinunciare a tali questioni, infatti, significherebbe accettare la morte della ragione e condannarsi all’irrazionalità17. Ad ogni modo, non sarebbe certo meno pericoloso convertire i risultati delle scienze in tesi di portata metafisica. Ed è proprio questo ciò che fanno il materialismo e il positivismo, l’evoluzionismo darwiniano e il trasformismo lamarckiano, tanto di moda al tempo di Magalhães. È allora precisamente tale pericolo che il filosofo vuole denunciare e scongiurare in quel vero e proprio testamento spirituale che sono i suoi Commenti e Pensieri. In quest’opera, il pensatore brasiliano afferma che le scienze positive devono rimanere nei loro limiti e saper «distinguere i fatti dimostrati dall’osservazione e dall’esperienza,

16. D. G. de Magalhães, Factos do Espírito Humano (1858), p. 44. 17. Ivi, p. 12.

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dalle congetture sopra le cose che sono al di fuori della loro portata, e che appartengono al dominio della ragione e della fede18». Magalhães professa una profonda fedeltà ai fatti, indipendentemente dalla loro natura, cercando sempre di trovare la ragione più plausibile, se non la più veritiera. Già nel Discorso del 1842 egli subordinava la scienza alla filosofia e alla ragione, dichiarando: Non vi è scienza dove non c’è filosofia, non vi è filosofia dove non c’è ragione, e la ragione, soltanto la ragione, deve dominare tutti i nostri ragionamenti, affinché possano essere considerati scientifici. In questo modo si comprende che, nell’esercizio della ragione, nella ricerca delle cause, nella spiegazione propria dei fenomeni, si trova lo spirito filosofico19.

Queste parole potrebbero spingerci a pensare che Magalhães concepisse la sua filosofia soltanto come un «buon esercizio delle nostre facoltà intellettuali e dell’uso della ragione in relazione ai fenomeni»; di conseguenza, una filosofia e una ragione confinate ai limiti dell’esperienza, alla luce di un mal compreso criticismo kantiano. A nostro parere, non è questo il senso e l’intenzione delle sue parole. La scienza o la spiegazione devono piegarsi ai fatti, e non viceversa. Con le parole di Magalhães: L’oggetto della scienza è prima di tutto il fatto, la ricerca delle sue relazioni naturali nell’ordine delle cose in cui si manifesta, l’indagine delle condizioni e delle leggi che l’hanno prodotto; e se il fatto eccede tutto ciò che sappiamo, e sembra

18. D. G. de Magalhães, Commentarios e Pensamentos (1880), «Prefácio». 19. D. G. de Magalhães, Discurso sobre o Objecto e Importância da Filosofia (1973), p. 254.

142 contrario a tutte le leggi conosciute, dobbiamo ricercare altre leggi in grado di esplicarlo20.

Il pensatore brasiliano ebbe ben presto molto chiara la nozione del carattere limitato e sempre provvisorio delle spiegazioni scientifiche. Sapeva bene infatti che «tutti i progressi e le scoperte della scienza si riducono alla conoscenza di più fatti e di più leggi che non risolvono il problema della causa e dell’origine delle cose21». Queste considerazioni, tuttavia, non gli impediscono di rifiutare in modo liminare quel tipo di filosofia – è il caso del misticismo – che, invocando rivelazioni o intuizioni mistiche, si considerasse dispensata dal lavoro lento e riflessivo della ragione. Del misticismo, però, Magalhães rigetta soltanto il metodo e non le verità presupposte, poiché esse, se ben intese, «devono […] essere comprese e ammesse dall’intelligenza umana22». È all’interno di questo stesso spirito che la ragione si schiude alle dimensioni della fede, senza tuttavia cedere ad una qualsiasi forma di fideismo. Magalhães, infatti, non può accettare che la fede venga fondata «sulle rovine della ragione23», come esplicitamente afferma: Condannare la ragione e l’esperienza a favore della fede è pretendere di renderci ciechi per garantirci una vista migliore; è pretendere che Dio ci dia delle guide inutili e fallaci per sviarci dalla verità. Se la fede disdegna la testimonianza della ragione e dell’esperienza; se non è soggetta a nessun criterio naturale, perché dovremmo allora considerare erronea le credenze nel politeismo, nell’incarnazione di Vishnu e nella missione di Maometto? Chi se non la ragione ci indicherà come,

20. D. G. de Magalhães, Factos do Espírito Humano (1858), p. 42. 21. D. G. de Magalhães, Commentarios e Pensamentos (1880), «Prefácio». 22. D. G. de Magalhães, Factos do Espírito Humano (1858), p. 39. 23. Ivi, p. 37.

143 quando e fino a che punto ci è lecito credere nel sentimento, nelle rivelazioni straordinarie, nel senso comune, e nella parola di un capo di una dottrina? La ragione è alla fine l’unico criterio della verità; e la maggior conquista della fede risiede nel mostrare di non essere contraddetta dalla ragione24.

Non si tratta qui di difendere la fede nei limiti di una ragione ristretta. Più propriamente, sulla base di un’ampia concezione della ragione, si postula la continuità, l’armonia e il mutuo ausilio tra la ragione e la credenza. Questa scelta presuppone già un qualche istinto di razionalità, un oscuro presentimento di ragione: «La credenza è un riflesso della ragione nel mezzo della nostra ignoranza; come la luce della luna è un riflesso di quella del sole nel mezzo dell’oscurità25». Il problema della relazione tra la ragione e la fede è uno di quelli in cui sembra esserci un’evoluzione nella riflessione di Magalhães, ovverosia un cambiamento tra i suoi primi scritti, di inclinazione più razionalista, e l’ultimo, dove sembra concedere un ruolo più ampio alla credenza, e non soltanto sul piano pratico e morale, ma anche sul piano scientifico, proprio mentre insiste sulla relativizzazione della ragione e sull’affermazione dei limiti e delle insufficienze della scienza. Ecco alcuni esempi: «La fede, che moralizza ed edifica, è preferibile alla presunzione della scienza, che distrugge e corrompe26»; «nella vita pratica gli uomini sono guidati più dai sentimenti e dalle credenze che dalla scienza27»; «un uomo morale, senza credenze religiose, è come un cieco che, vacillante, si fa strada con il solo tatto28»; «il ritorno a certe credenze e prati24. Ivi, pp. 37-38. 25. D. G. de Magalhães, Commentarios e Pensamentos (1880), p. 146. 26. Ivi, p. 155. 27. Ivi, p. 151. 28. Ivi, p. 149.

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che è molte volte un grande progresso, anche nello sviluppo della scienza, che non poche volte recupera ciò che aveva abbandonato29». Adesso possiamo comprendere quindi la definizione fornita da Magalhães sull’ambito e l’oggetto della filosofia. Nel già citato Discorso del 1842, dopo aver analizzato le più conosciute definizioni storiche che consideravano questa disciplina ora come l’insieme di tutte le scienze, ora come l’indagine delle cause dei fenomeni in rapporto alle scienze, ora come scienza dei fenomeni spirituali – tutte spiegazioni ben lungi dal soddisfarlo –, il pensatore brasiliano presenta la propria definizione di quella «scienza di tutte le scienze», fornendoci al tempo stesso alcune chiare indicazioni sulla sua concezione delle relazione e della differenza tra scienza e filosofia. Con le sue parole: Se mi consentite che mi avventuri e vi fornisca il mio parere su questo titolo di scienza delle scienza, io vi direi che, nella conoscenza di certi e determinati fenomeni e delle leggi a loro relative, si compendia qualunque scienza umana, ma la filosofia non consiste solamente nella conoscenza dei fenomeni e delle loro leggi; attraverso quelle leggi noi spieghiamo i fenomeni, ma quelle stesse leggi hanno il loro fondamento nella volontà di un Legislatore Supremo, e una condizione nelle leggi della nostra comprensione, grazie a cui confidiamo nella sua veracità e oggettività30.

L’ambito della filosofia abbraccia, di conseguenza, non soltanto le questioni relative ai fenomeni del mondo fisico e alle sue leggi, che sono l’oggetto immediato delle scienze, ma si estende anche all’indagine della natura della comprensione umana e delle sue regole, oltre alla conoscenza di Dio quale causa del

29. Ivi, p. 146. 30. D. G. de Magalhães, Discurso sobre o Objecto e Importância da Filosofia (1973), p. 257.

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mondo e fonte delle nostre idee, come quelle in cui sussistono e traggono origine tutte le essenze e tutta l’esistenza. Nell’essenziale, Magalhães si mantiene fedele a questa concezione di filosofia lungo tutto l’arco della sua maturità. È quanto emerge da due passaggi dei Fatti dello Spirito Umano, in cui delimita l’oggetto della filosofia, toccando il problema della relazione della filosofia con le scienze. Ecco il testo: La filosofia, allo stato attuale di tutte le scienze, non mi sembra debba consistere solo nello studio dei fatti intellettuali e morali e delle loro leggi, ma anche nello studio della leggi generali e armoniche di tutti i fatti intellettuali e fisici in relazione allo spirito stesso, ricercando l’unità di tutte le cose […] La filosofia è la scienza di tutte le cose in rapporto al soggetto che pensa e alla causa che le produce.31 Considerata in tal modo, la filosofia si estende a tutte le scienze, senza smettere di avere un oggetto proprio, che, per la sua unità definibile, la caratterizza come una scienza a parte. Questa unità è più perfetta di quella di qualsiasi altra scienza; perché, al di là dell’unità del soggetto comune a tutte, ma che qui si presenta come centro e giudice, e si astrae nelle altre scienze, possiede l’unità dell’oggetto, visto che tutto è considerato in relazione a esso, mentre nelle scienze non filosofiche, presentandosi i fatti isolati, distinti e indipendenti gli uni agli altri, l’unità dei loro oggetti è fittizia, e imposta dalla stessa comprensione32.

Questi passaggi traducono bene l’intenzione e la determinazione spiritualista del pensiero di Magalhães: tutta la filosofia, in fondo, si risolve per lui nello spirito umano, e questo si contempla e si vede contemplato nello spirito divino. Ma come salvare allora la realtà del mondo fisico di cui si occupano le scienze? Come è possibile che una filosofia che si dichiari fe31. D. G. de Magalhães, Factos do Espírito Humano (1858), p. 22. 32. Ivi, p. 25.

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dele ai fatti termini nell’immanenza della coscienza umana o nell’immanenza della coscienza divina, difendendo delle idee molto vicine a quelle di un Malebranche o di un Berkeley? 4. Le questioni formulate ci conducono alle tesi centrali dell’ontologia e gnoseologia di Magalhães. Prima di dedicarci brevemente ad un’analisi di tali argomenti, possiamo soffermarci sulla pars destruens del suo pensiero, analizzando ciò che egli rifiuta e critica. Riportiamo qui di seguito alcuni topoi ricorrente nella sua opera: - Il rifiuto di un cieco meccanicismo e l’affermazione del finalismo e dell’ordine provvidenziale e morale del mondo fisico e spirituale; - Il rifiuto dell’ateismo e l’affermazione dell’esistenza di Dio come essere in cui sussistono tutte le essenze e tutti gli esseri; - Il rifiuto del determinismo morale e l’affermazione della libertà e immortalità umane; - Il rifiuto del materialismo, del panteismo e del naturalismo, a cui si contrappone la tendenza ad affermare un ontologismo spiritualista; - Il rifiuto, in politica e in morale, dell’assolutismo, dell’utilitarismo e dell’epicureismo, a cui si contrappongono i valori della libertà e del diritto e una morale del dovere di ispirazione vagamente kantiana; - Il rifiuto, in gnoseologia, del sensualismo e dell’empirismo, a cui si contrappone un innatismo dinamico in cui si evidenzia la spontaneità e creatività dell’intelligenza umana.

Le sue critiche e le sue opzioni teoriche non sono determinate da ragioni meramente astratte o speculative, ma da motivazioni affatto differenti: Con l’intelligenza, la libertà e la vita futura comprendiamo l’uomo, l’ordine sociale, la virtù e il vizio, il bene e il male;

147 senza l’intelligenza, senza libertà, senza vita futura tutto è oscuro, incomprensibile e assurdo nell’uomo e nella vita sociale33.

Tra gli argomenti menzionati, ce n’è uno che rappresenta, per così dire, il punto strategico grazie a cui si struttura la concezione filosofica di Magalhães: il rifiuto del materialismo. Già nel Discorso del 1842, il materialismo – questa «cosa ripugnante» – è considerato un cascame del sensualismo34. Ma è soprattutto nei Fatti dello Spirito Umano e nei Commenti e Pensieri che la critica al materialismo è articolata con un chiaro proposito. Magalhães possiede del materialismo una nozione vaga, che ingloba molte delle tendenze filosofiche del suo secolo, dal materialismo meccanicista ai materialismi biologici (evoluzionismo darwiniano e trasformismo lamarckiano), fino al positivismo, all’epicureismo e al sensualismo di Condillac. Che cos’hanno in comune questi indirizzi di pensiero? La negazione della natura e del destino spirituale dell’uomo, la negazione della vita morale e sociale o la rovina dei loro rispettivi fondamenti, la negazione di un ordine provvidenziale e di un senso finale del mondo e della storia; la negazione, infine, di Dio come principio e fine di tutte le cose. Diamo uno sguardo all’evoluzione della dottrina propugnata da Magalhães. Nei Fatti, predomina l’analisi dei «fatti dello spirito», cominciando dai più elementari e giungendo fino ai più complessi, vale a dire alle idee, allo spirito e allo stesso Dio. Magalhães adotta qui uno stile pedagogico, presenta le tesi incomplete del sensualismo materialista a poco a poco,

33. Ivi, p. 361. 34. D. G. de Magalhães, Discurso sobre o Objecto e Importância da Filosofia (1973), p. 260.

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per poi elevarne alle altezze o alle vertigini dell’ontologismo, esposte negli ultimi due capitoli dell’opera. Nei Commenti, Magalhães adotta invece una precisa strategia di combattimento: in effetti, non si tratta soltanto di rifiutare direttamente il sensualismo, ma altresì le sue conseguenze nelle teorie contemporanee sul piano biologico, fisico e cosmologico, sul piano politico e morale e sul piano metafisico e religioso. Magalhães non consente che la scienza travalichi i suoi confini, trasformandosi in metafisica. Al tempo stesso, però, visto che determinate concezioni vorrebbero sostenersi sull’autorità della scienza per proclamare l’esclusione della metafisica, arrivando fino a precludere all’uomo ogni dimensione spirituale, morale e religiosa, il pensatore brasiliano si impegna a mostrare come nella stessa scienza siano utilizzate o invocate categorie che, oltre a non essere giustificate dalla scienza, non derivano affatto dall’osservazione. Ora, da un lato Magalhães non accetta che le scienze si trasformino in metafisica, così da impedire che dalle loro idee possa nascere il materialismo, il meccanicismo, l’antifinalismo, il determinismo e il monismo naturalista. Dall’altro lato, però, egli pone in evidenza l’effettiva presenza di categorie metafisiche, e pertanto extrascientifiche, nella stessa attività scientifica. Ad esempio, l’evoluzionismo e il trasformismo, proprio mentre intendono sradicare ogni finalità dal mondo biologico, operano con categorie che postulano una qualche finalità o disegno, giacché si riferiscono ad una «tendenza alla perfezione», a dei «vantaggi acquisiti» e a delle «leggi di eredità»; la fisica e la cosmologia, nel tentativo di rendere ragione dei fenomeni, fanno un uso costante di categorie che non sono tratte dalla natura: è il caso delle nozioni di «forza», «materia», «spazio» e «tempo». Insomma, la scienza, a dispetto della sua pretesa di autonomia e autosufficienza, finisce per servirsi necessariamente di una «metafisica bastarda», che non sa né può legittimare. Con le parole del pensatore brasiliano:

149 Quando si approfondisce una questione filosofica, non si sfugge, per quanto lo si voglia, dalla metafisica. I materialisti e i positivisti più categorici finiscono per pagarle un involontario tributo, nonostante il disprezzo con cui se ne occupano nelle loro spiegazioni empiriche. Essi stabiliscono inoltre principi a priori, indimostrabili, dal momento che negano questa proprietà35.

5. Nei limiti riconosciuti dalla scienza si apre quindi lo spazio della metafisica come un dominio autonomo, i cui oggetti propri sono soprattutto lo spirito umano e Dio. La metafisica di Magalhães si condensa in quattro tesi fondamentali: l’innatismo, l’ontologismo, l’acosmismo e l’armonia prestabilita. L’innatismo di Magalhães è un innatismo dinamico, a volte identificato con un istinto o presentimento della ragione (cosa che lascia aperta l’importanza dell’incosciente nell’ambito della vita spirituale), descritto come una «rivelazione interiore o scienza intuitiva»36, o presentato sotto la forma generica della creatività e spontaneità dello spirito in relazione alla materia, in una versione romantica dell’innatismo tradizionale. Ma questa creatività dello spirito è posta in relazione immediata con la divinità, al punto da potersi definire l’«emanazione di tutte le intelligenze a partire da un’unica intelligenza divina37». Tutto, di conseguenza, si riduce all’immanenza della coscienza autoproduttiva: «Tutto esiste nell’intelligenza, dall’intelligenza e per l’intelligenza38».

35. D. G. de Magalhães, Commentarios e Pensamentos (1880), p. 63. 36. D. G. de Magalhães, Factos do Espírito Humano (1858), p. 11. 37. D. G. de Magalhães, Commentarios e Pensamentos (1880), p. 121. 38. D. G. de Magalhães, Factos do Espírito Humano (1858), p. 352.

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Ad ogni modo, l’intelligenza e lo spirito umani trovano il loro compimento, in ultima istanza, nella riduzione della totalità, e quindi anche di se stessi, all’unico spirito divino: «Abbiamo un essere unico, assoluto, in cui dimorano tutte le cose, abbiamo l’universo intelligibile in questo essere, da lui pensato, senza esistenza al di fuori di lui; abbiamo un universo sensibile, l’universo delle nostre percezioni, nella cui esistenza crediamo39». L’innatismo di Magalhães, in quanto tesi gnoseologica, si alimenta del suo ontologismo, secondo cui «lo spirito umano è in Dio, e nella sua intelligenza si riflettono i pensieri di Dio40». Prendendo in prestito le parole di Malebranche, il pensatore brasiliano scrive: «Noi vediamo tutte le cose intellettualmente in Dio, attraverso le idee stesse di Dio, che egli ci comunica41». In un’altra formulazione: «L’intellettuale in Dio e l’intellegibile per noi si identificano in uno stesso pensiero, in una stessa cosa pensata e percepita42». Secondo le audaci tesi di Magalhães, nella sua ottica ontologista e spiritualista, Dio è l’unica sostanza attiva e per questo i nostri pensieri corrispondono ai pensieri di Dio. Si può dire tuttavia anche l’inverso; domanda infatti Magalhães: «Non è in noi che Dio si contempla? Non è nella nostra intelligenza che egli riflette tutti i suoi pensieri immortali?43». Alla luce di questi riferimenti, possiamo già farci un’idea delle aporie cui giunge la riflessione di Magalhães nella sua impazienza di fondare l’autonomia del mondo spirituale. Presentiamone alcune: se Dio è la causa delle nostre idee e rappre-

39. Ivi, p. 350. 40. Ivi, p. 366. 41. Ivi, p. 347. 42. Ivi, p. 352. 43. Ivi, p. 358.

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sentazioni, perché non siamo allora in possesso di una simultanea intuizione di tutte le idee? Come è possibile rendere ragione del fatto che possediamo idee false, imperfette ed errate? Risulta quindi difficilmente spiegabile la finitezza della ragione, la contingenza, l’errore e lo stesso progresso della conoscenza, visto che non basta certo indicare il corpo come ragione dell’incompiutezza e del limite dello spirito. Più gravi ancora sono le aporie sul piano etico. Come salvare la proclamata spontaneità e creatività dello spirito umano, la sua autonomia, la libertà e responsabilità dei suoi atti? Inoltre, se Dio è l’unica sostanza intelligente, come spiegare la differenza degli spiriti in relazione a lui, e del mondo in rapporto a lui e agli spiriti? Dobbiamo considerare infatti, precisa il pensatore brasiliano, che «tutto si trova nell’intelligenza divina44», senza che vi sia alcuna esistenza sostanziale al di fuori di essa. Magalhães, che rifiuterà le perverse conseguenze del panteismo naturalista, non incorrerà in vizi analoghi, almeno per ciò che riguarda il suo panteismo spiritualista? Il pensatore brasiliano è cosciente delle difficoltà della sua posizione; tuttavia, sebbene abbia cercato di fornire una soluzione soddisfacente, i suoi sforzi di risposta non sono stati sufficientemente convincenti. L’ontologismo implica una teoria della divinità come unica sostanza intellettuale attiva, il cui lavoro incessante è pensare e creare le scienze; presuppone una teoria dello spirito umano e della sua relazione con la divinità e con l’universo; implica, infine, una riduzione del mondo allo spirito e dello spirito a Dio. Possiamo pensare di trovarci dinnanzi ad un eccesso poetico del pensatore, che adotta il linguaggio del misticismo per esporre il suo spiritualismo. Si sarà portati a pensare inol-

44. Ivi, pp. 361-362.

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tre che il tema in esame costituisca un argomento spurio e secondario della sua riflessione. A nostro avviso, le cose non stanno affatto così: riteniamo, al contrario, che questo topico rappresenti il punto nodale e più profondo del pensiero di Magalhães. Non certamente il suo punto di partenza, ma il suo punto di arrivo, il luogo da cui è sempre più attratto. L’ontologismo era latente in tutto il pensiero metafisico moderno, sotto la forma di un chiaro paradosso già nella filosofia cartesiana, secondo cui lo spirito finito trova in sé l’idea di infinito. Lo stesso Magalhães evoca questa tradizione filosofica (e anche la tradizione teologica e mistica), riconoscendo «l’importante accordo» che esiste su questo aspetto fondamentale «tra tutti i più eminenti teologi e filosofi45». Cita, come testimoni capaci di corroborare la sua tesi, San Paolo, Plotino, Agostino, Fénelon, Bossuet, Malebranche e Leibniz. L’ontologismo degli ultimi capitoli dei Fatti dello Spirito Umano non è perciò un elemento estraneo all’economia del pensiero esposto in quest’opera, ma integra la fenomenologia della percezione o l’analisi immanente dei fenomeni o fatti di coscienza che il suo autore conduce, in modo metodico e progressivo, mostrando, contro il sensualismo e il materialismo, come lo spirito sia presente già a partire dai livelli più elementari della sensazione. Come dirà nei Commenti e Pensieri, «tutti gli oggetti della natura sono fenomeni fantastici della nostra immaginazione creatrice46». La nostra percezione della realtà come qualcosa di esteriore è un’illusione e non possiede nessuna continuità tra le impressioni e le sensazioni: «La visione è un prodigio, una magia che solamente un potere

45. Ivi, p. 348. 46. Ivi, p. 75.

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divino poteva concepire e realizzare; è una vera creazione ideale. E questo ideale sensibile è per noi la realtà fisica47». Si potrebbe comunque indicare una ragione circostanziale per giustificare l’inflessione ontologista del pensiero di Magalhães. Negli anni 50’ e 60’ del XIX secolo, vi fu in Europa una significativa diffusione delle idee ontologiste, soprattutto in Italia (con Rosmini e Gioberti), in Francia e in Belgio (con Hugonin e Favre). Ora, i Fatti furono pubblicati a Parigi nel 1858: poiché Magalhães visse all’interno di questo clima intellettuale europeo, non si può escludere del tutto la possibile suggestione venuta da questi ambienti del più audace spiritualismo cattolico di matrice filosofica. Dalla tesi ontologista deriva, come suo corollario, l’acosmismo, ossia la riduzione del mondo a una rappresentazione di Dio o dello spirito umano, considerato, di conseguenza, come qualcosa di immateriale e ideale, un puro fenomeno. In questo punto, Magalhães non rimase fedele al proposito enunciato nel suo Discorso del 1842 di non seguire Berkeley nella negazione della realtà e esistenza del mondo materiale. Ma non è propriamente a Berkeley, bensì a Malebranche che egli si inspira. In effetti, questo spiritualista francese, chiamato anche «il grande metafisico», «pone il mondo materiale a lato, qualunque cosa esso sia, o come sia, e ci fa vedere tutte le cose attraverso le idee stesse che Dio ci comunica48». Fu forse lo sforzo speculativo esercitato nella critica e nel rifiuto del sensualismo e del materialismo ciò che spinse Magalhães ad una concezione acosmista e all’affermazione dell’immaterialità dell’universo. L’universo, infatti, è essenzialmente spirituale, un «riverbero dell’universo intellettuale», «un riflesso

47. Ibid. 48. Ivi, p. 347.

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fuori di noi dei pensieri di Dio percepiti intuitivamente49». La realtà è ideale, la materia non esiste, lo spazio e il tempo sono, come affermato da Kant, leggi soggettive della sensibilità umana, o anche, come già era stato detto da Henry Moore e Isaac Newton, attributi della divinità: lo spazio è l’immensità di Dio e il tempo la sua eterna durata. Diamo la parola al pensatore brasiliano: Questo mondo sensibile non ha in se stesso le qualità che gli attribuiamo attraverso le sensazioni […] Esso è per noi il risultato del nostro modo di percepire, e di una causa necessaria al di fuori di noi, che ci rende capaci di percepire grazie a molte intuizioni riunite insieme. Possiamo concludere che tutto questo immenso universo sensibile, che ci sembra sostanzialmente esistere tra noi e Dio, esiste soltanto intellettualmente in Dio come un suo pensiero, senza altra esistenza fuori dell’intelligenza stessa di Dio che lo pensò; nulla possiede un’esistenza materiale al di fuori di Dio, perché non vi è nulla fuori di Dio, né in Dio, che sia materiale; tutto, assolutamente tutto è intellettuale, tutto è spirituale […] Questo universo sensibile è un riverbero dell’universo intellettuale che esiste nel pensiero di Dio, e che prende corpo dinnanzi a noi attraverso il riflesso delle nostre intuizioni e sensazioni […] Queste sensazioni non sono qualità di nessuna sostanza finita e atomica, ma semplici segni dei movimenti dei pensieri di Dio, che attraverso di loro divengono per noi sensibili […], questo universo sensibile essendo un riflesso fuori di noi dei pensieri di Dio percepiti intuitivamente50.

In conclusione, l’idea di un’armonia essenziale domina tutta questa concezione di filosofia. Essa si esprime ora nelle leggi del mondo fisico investigate dalle scienze positive, ora nelle leggi del mondo morale e sociale, ora infine nelle leggi del

49. Ivi, p. 361. 50. Ivi, pp. 361-362.

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pensiero che esprimono il pensiero di Dio secondo le modalità con cui pensa e crea il mondo seguendo un sapiente piano. L’idea di armonia e di un ordine morale del mondo è in rapporto con la questione della finalità ultima della natura stessa, questione che Magalhães prese di petto nella sua critica dell’evoluzionismo, del trasformismo e del materialismo meccanicista. La ragione esige che il mondo abbia un significato e che obbedisca ad un piano del suo sovrano creatore. Di questo piano fa parte anche il mondo morale umano, retto da una provvidenza presciente che, nella sua previsione, tiene in conto la libertà umana. La filosofia non deve far altro che cercare di raggiungere la scienza di questo piano divino del mondo, conquistando la «conoscenza armonica di tutte le cose51». Anche il progetto eclettico di conciliazione dei sistemi e degli spiriti si inscrive nella realizzazione di questa concezione della filosofia come coscienza della superiore unità e armonia di tutte le cose. Unità e armonia che lo spirito realizza in se stesso mediante il suo lavoro speculativo, ma che, da ultimo, riconosce come rivelazione dell’unità della sostanza e intelligenza divine. L’opera filosofica di Magalhães, pur dando vita a molti paradossi e lasciando svariati problemi irrisolti, costituì un nobile e degno sforzo speculativo, e merita perciò ancora oggi di essere non soltanto evocata, ma anche meditata. Al pensatore brasiliano, infatti, accadde quello che capitò a molti altri pensatori che, pur essendo dotati di un innegabile talento, rimasero solitari, come quasi tutti quelli che si dedicarono alla speculazione filosofica in Brasile e in Portogallo. Non hanno sempre trovato qualcuno alla loro altezza, capace di discutere le loro

51. Ivi, p. 22.

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idee, spingendoli così ad esplicitarle e ad argomentarle più solidamente. A causa della mancanza del beneficio inestimabile della critica e del dialogo filosofici, le loro idee, spesso originali e promettenti, rimasero allo stato di semplici abbozzi, meri “commenti e pensieri”, se ci è concesso glossare il titolo di un’opera dell’autore brasiliano.

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Antero de Quental e la ricezione della filosofia tedesca in Portogallo

1. Durante il XIX secolo, la cultura letteraria portoghese fu largamente dominata dall’influenza della tradizione culturale francese. Dal punto di vista filosofico, il dominio di quello che è stato chiamato il «francesismo» era ancora presente nell’ultimo quarto di secolo attraverso il positivismo di Auguste Comte. Questa dottrina raccolse l’adesione di un buon numero di intellettuali, fra i quali spicca Teófilo Braga, conterraneo e collega di Antero de Quental1. Due contemporanei 1. Antero de Quental nacque a São Miguel (Azzorre) il 18 aprile del 1842, e lì morì l’11 settembre del 1891, dopo una vita in lotta contro il mal de vivre e le depressioni personali e sociali, che lo condurranno al suicidio. Era considerato, tuttavia, un leader intellettuale e morale dai suoi contemporanei, e l’influenza del suo intervento si concretizzò sotto vari aspetti. Sul piano estetico-letterario, oltre ai manifesti di quella che divenne nota come la “Questão Coimbrã” (1865), diretta contro l’accademismo tradizionale che aveva addomesticato gli impulsi di un romanticismo diffusosi tardivamente, a risaltare è la poesia di lotta e di idee (umanitarie e metafisiche) che propose nelle sue Odes Modernas e nei Sonetos. Sul piano culturale in senso ampio, è doveroso ricordare l’organizzazione delle “Conferenze Democratiche” a Lisboa (1871), che si proponevano di mobilitare i più alti ingegni dell’intellettualità portoghese dell’epoca, così da ottenere un ampio rinnovamento delle energie mentali del paese. Sul piano politico, inoltre, è necessario sottolineare il ruolo che ebbe nella fondazione del Partito Socialista

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di Antero posero l’accento sulla dipendenza e sudditanza dei politici, scrittori ed intellettuali portoghesi nei confronti della Francia. Nella sua Storia del Portogallo, Oliveira Martins scrisse che il Portogallo è un paese che «vive copiando, letterariamente e politicamente, la Francia, in un modo servile e indiscreto2». E Eça de Queirós scrisse un acuto saggio sul dominio esercitato dal «francesismo» nella cultura letteraria portoghese, condensando il suo giudizio in due formule lapidarie: «il Portogallo è un paese tradotto dal francese in vernacolo»; «il Portogallo è un paese tradotto dal francese in

Portoghese, nella difesa dell’Iberismo e del federalismo iberico, e infine il ruolo di presidente della Lega Patriottica del Nord, che mobilitò il paese contro l’ultimatum inglese del 1891. Sul piano filosofico, il suo progetto risultò forse un poco manqué, come lui stesso giunse a riconoscere; ad ogni modo, se consideriamo tutto ciò che egli suggeriva in molte delle sue lettere, alcune delle quali sono dei veri e propri saggi filosofici, risulta comunque alquanto significativo, soprattutto per l’ampiezza e la visione della vocazione e del compito della filosofia. Sono inoltre notevoli i suoi saggi di argomento estetico, che testimoniano la profondità e la densità della sua produzione poetica, di cui Fernando Pessoa si considerava un continuatore. Il più rappresentativo di questa produzione – i Sonetti – si meritò, quando il poeta era ancora in vita, la traduzione tedesca (di Wilhelm Storck, dell’Università di Münster) e italiana (di Tommaso Cannizzaro, dell’Università di Messina). Opere: Bom senso e bom gosto (1865); A dignidade das letras e as literaturas oficiais (1865); Causas da decadência dos povos peninsulares (1871); Considerações sobre a filosofia da história literária portuguesa (1872); A Poesia na Actualidade (1881); A filosofia da natureza dos naturalistas (1886); Tendências Gerais da Filosofia na segunda metade do século XIX (1890). Edizioni: Cartas, org., introd. e notas de A. M. A. Martins, Lisboa 1989 (II Voll.; reed. INCM, Lisboa 2009, III Voll.); Filosofia, org., introd. e notas de Joel Serrão, Lisboa 1991; Política, org., introd. e notas de Joel Serrão, Lisboa 1994; Tendências Gerais da Filosofia na segunda metade do século XIX, introd. e notas de L. Ribeiro dos Santos, Lisboa 1995. 2. O. Martins, História de Portugal (1879), Guimarães & C.ͣ Editores, Lisboa 1972, p. 570.

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dialetto3». La diagnosi di questi due contemporanei di Antero, pur essendo forse eccessiva, non è per questo meno veritiera. Lo stesso Eça de Queirós, che pensava di essere una vittima della tirannia delle mode letterarie francesi, individuava alcune rare eccezioni, indicando proprio Antero de Quental e Oliveira Martins. A partire dall’ultimo quarto del XIX secolo, però, l’influenza francese sulla cultura letteraria portoghese incominciò ad essere bilanciata da altre suggestioni, in particolare dalla cultura poetica e filosofica proveniente della Germania. Nella generazione di Antero, vi furono vari intellettuali intenzionati a liberarsi dalle ristrettezze della tradizione filosofica e letteraria francese, aprendosi agli orizzonti del pensiero tedesco. Pedro de Amorim Viana, José Maria da Cunha Seixas, Jaime Batalha Reis e, già nella generazione seguente, Manuel Ferreira Deusdado e Sampaio Bruno furono scrittori e pensatori che dialogarono con sempre più frequenza, consapevolezza e profondità con i pensatori tedeschi moderni e contemporanei. Non soltanto Leibniz, Kant e i loro successori Fichte, Schelling, Hegel, Krause e Schopenhauer, ma anche i più recenti, come Ludwig Feuerbach e soprattutto Eduard von Hartmann, hanno cominciato ad essere conosciuti e studiati; le loro opere incominciarono inoltre ad essere lette direttamente o nelle traduzioni a disposizione, e le loro idee vennero commentate e discusse, o poste in confronto con quelle di altri pensatori. La dislocazione dell’orizzonte intellettuale della cultura portoghese ottocentista verso il germanismo fu percepita e interpretata dai vari protagonisti come una vera rivoluzione. Questo rinnovamento, tuttavia, portava a termine un processo che,

3. E. de Queirós, Literatura e Arte. Uma Antologia, edição de B. Berrini, Relógio d’Água, Lisboa 2000, pp. 290-308. Il saggio queirosiano, scritto probabilmente nel 1887, fu pubblicato postumo.

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iniziato alcuni decenni prima, fece i primi e timidi passi con i rappresentanti del movimento romantico portoghese, specialmente con Alexandre Herculano, nei cui saggi degli anni 30’ era già chiaro un diffuso interesse per le idee estetiche dei pensatori tedeschi, Kant compreso (si trattava di un interesse risvegliato, probabilmente, non da uno studio diretto delle opere dei pensatori tedeschi, ma dalla lettura di De l’Allemagne di Madame de Staël), e nella cui opera storiografica erano raccolte alcune idee generali del romanticismo tedesco, tratte da Herder o da Ranke, sull’indole nazionale (Volksgeist) e sulla concezione organicista delle nazioni4. Il progressivo avvicinamento dei pensatori portoghesi al germanismo proseguirà poi con l’appropriazione, a partire dagli anni 40’, delle idee giuridico-sociali del krausismo all’interno della filosofia del diritto di alcuni professori dell’Università di Coimbra; anche in questo caso, queste suggestioni non furono tratte direttamente dagli scritti di Karl Christian Friedrich Krause, ma dai testi dei suoi discepoli belgi Ahrens e Tiberghien5. Nelle ultime quattro decadi del secolo, l’appropriazione del germanismo filosofico in Portogallo divenne sempre più ampia, varia ed intensa: in Amorim Viana, si espresse con degli accenti di ispirazione leibniziana, nel pantiteismo di José Maria da Cunha Seixas fu assunta dichiaratamente con un impianto krausista, mentre in Antero de Quental si presentò con un’ispirazione di matrice essenzialmente hegeliana, sebbene 4. Cfr. A. Éduard Beau, Considerações sobre Alexandre Herculano e a historiografia alemã, “Boletim do Instituto Alemão”, 6-7 (1937), p. 97. 5. Cfr. A. B. Teixeira, Perspectiva do Krausismo Português, in O Krausismo em Portugal, Centro de Estudos Lusíadas, Universidade do Minho, Braga 2001, pp. 37-54. Nello stesso volume vi sono altri saggi relati al nostro tema: cfr. Z. Osório de Castro, Reflexos do Krausismo em Portugal, pp. 115-124; P. Ferreira da Cunha, Auctoritas, Doxa e Para-Doxa no dealbar do Krausismo jurídico português, pp. 99-114; J. Esteves Pereira, O Krausismo de Rodrigues de Brito e o ambiente cultural português de Oitocentos, pp. 55-62.

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temperata dal kantismo e dalle riflessioni di Leibniz e Hartmann. Non essendo possibile sviluppare qui i vari aspetti e momenti della ricezione della cultura filosofica tedesca in Portogallo nel corso del XIX secolo, ci occuperemo, in modo particolare, di uno dei protagonisti di questo movimento. Abbiamo deciso di optare per questa strategia espositiva perché Antero de Quental è stato l’intellettuale portoghese che accolse l’eredità della tradizione germanica nel modo più cosciente e ampio, più profondo e critico. Egli rappresenta infatti uno degli esponenti più importanti della sua generazione letteraria e intellettuale, e la vastità, profondità e intensità del suo dialogo con la galleria dei pensatori tedeschi moderni e suoi contemporanei fanno del suo caso uno dei più rilevanti per studiare non soltanto la ricezione della filosofia tedesca in Portogallo, ma anche la storia delle relazioni intellettuali tra le due culture6. Vi è anche un’altra ragione che ci spinge a scegliere Antero come soggetto di questo saggio. In effetti, essendosi formato intellettualmente – più di qualsiasi altro scrittore della sua generazione – nello spirito della cultura tedesca, dichiarandosi per ciò stesso «un discepolo della Germania filosofica e poeti-

6. Per una panoramica molto generale, non incentrata sulla cultura filosofica, cfr. E. G. Jacob, Deutschland und Portugal. Ihre kulturellen Beziehungen. Rückschau und Ausblick, Leiden-Köln 1961. Cfr. inoltre M. Ehrhardt – R. Hess – J. Schmidt-Radefeldt, Portugal-Alemanha. Estudos sobre a Recepção da Cultura e da Língua Portuguesa na Alemanha, Livraria Almedina, Coimbra 1980; F. da Gama Caeiro, Notas acerca da recepção de Kant no pensamento filosófico português, in Dinâmica do Pensar. Homenagem a Oswaldo Market, Departamento de Filosofia da FLUL, Lisboa 1991, pp. 58-89. Per il periodo immediatamente successivo a quello di cui ci occupiamo, cfr. A. Enes Monteiro, A Recepção da Obra de Friedrich Nietzsche na Vida Intelectual Portuguesa (1892-1939), Centro Regional do Porto da UCP, Lello Editores, Porto 2000.

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ca7», ebbe la fortuna di assistere, ancora in vita, e a differenza di tutti i suoi contemporanei portoghesi, alla divulgazione della parte più significativa della sua opera poetica nell’ambito della cultura tedesca. Questa fortunata circostanza si deve ad un professore dell’Università di Münster, Wilhelm Storck, un intellettuale interessato alla letteratura portoghese che tradusse sia l’opera completa di Camões (Luis de Camões, Sämmtliche Gedichte zum erste Male deutsche von Wilhelm Storck), sia altre opere di letteratura portoghese e brasiliana (Aus Portugal und Brasilien Gedichte 1250-1890 e Hundert Alt portugiesische Lieder zum este erste Male deutsche), traducendo inoltre nel 1887 per il pubblico tedesco una selezione dei Sonetti di Antero (Ausgewählte Sonette von Anthero de Quental)8. 2. L’interesse di Antero per la cultura tedesca riguardò tutti gli ambiti in cui essa si espresse nella modernità. In primo luogo, si appassionò alla grande poesia tedesca, incarnata soprattutto dai nomi di Goethe, Schiller e Heine. Per confermare l’importanza di Goethe nella cultura portoghese dell’epoca, è sufficiente ricordare le svariate (cinque!) traduzioni integrali o parziali del Faust realizzate tra il 1867 e il 1873, una perfetta 7. Lettera a Wilhelm Storck, 14 marzo 1887, in A. de Quental, Cartas, Vol. II, p. 833 (seguiamo l’edizione della corrispondenza anteriana in due volumi organizzata e annotata da Ana Maria de Almeida Martins e pubblicata dall’Universidade dos Açores / Editorial Comunicação, Lisboa 1989). 8. La relazione di Antero con la cultura tedesca e le tracce di germanismo nell’opera poetica e filosofica anteriana sono stati già oggetto di due studi: uno di Carolina Michaëlis de Vasconcelos, Anthero e a Allemanha, in Anthero de Quental – In Memoriam, Porto 1896, pp. 383-425 (rist. anast. Presença e Casa dos Açores, Lisboa 1993), e l’altro di Albin Éduard Beau, Antero de Quental perante a Alemanha e a França – Reflexões e reacções, “Boletim do Instituto Alemão”, Vol. X, Coimbra 1942. Cfr. inoltre R. Hess, Antero de Quental en Allemagne, in Antero de Quental et l’Europe, Actes du Colloque, Paris, 13-14 Juin 1991, F. C. Gulbenkian, Paris 1993, pp. 35-62.

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testimonianza di quella che venne descritta come un’«onda faustiana9». Lo stesso Antero, che considerava Goethe uno dei modelli della nuova letteratura dell’«idea», e che cominciò a leggere il Faust in una traduzione francese, tradusse circa due terzi dell’opera (un lavoro che finì per distruggere per delle ragioni a noi sconosciute). Il poeta portoghese, oltre a considerare Goethe e Schiller come i perfetti rappresentanti dell’“umanismo poetico”, fu sensibile anche al naturalismo goethiano, pur interpretandolo secondo un’accezione panteista con cui non si identificava. Un altro dominio della cultura tedesca che Antero ben conosceva era quello della scienza storica, con particolare riguardo sia alla storia del diritto e delle istituzioni, sia alla storia universale, rappresentate dai nomi di Niebuhr, Movers, Savigny, Christian de Bunsen, Karl Ottfried Mueller, Leopold von Ranke. Era a conoscenza inoltre dei dibattiti teologici dei rappresentanti della scuola di Tubinga (F. Christian Baur) e dei loro critici (Ewald), prestando al tempo stesso attenzione alle proposte dei naturalisti: nella fattispecie, al «naturalismo enciclopedico» di Alexandre von Humboldt, al naturalismo panteista di Goethe e a quello materialista di Ernst Haeckel, criticandolo espressamente in uno dei suoi saggi. Ma è soprattutto la cultura filosofica tedesca moderna e contemporanea che il pensatore portoghese assimilò criticamente, a partire da Leibniz fino al suo contemporaneo Eduard von Hartmann e al neokantismo (movimento che nomina in genere, senza identificare i singoli autori, con la sola eccezione di Lange, avendo letto la sua Storia del Materialismo attorno al 1874), passando per Lessing, Herder, e in particolare per Kant, per i filosofi dell’idealismo tedesco – Fichte, Schelling e Hegel (riferen-

9. Cfr. J. Barrento (org.), Goethe em Portugal, in Goethe, Vida. Obra. Época, Círculo de Leitores, Lisboa 1991, pp. 98-111.

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dosi molte volte ad essi in modo congiunto, considerandoli i rappresentanti di un «realismo trascendentale») – e per i rappresentanti della generazione post-idealista, vale a dire Karl Marx (delle cui idee socialiste fu un adepto e divulgatore in Portogallo) e Ludwig Feuerbach, di cui lesse, nelle traduzioni francesi di Joseph Roy, i principali scritti sulla filosofia della religione10. Antero cercò inoltre di approfondire altre tematiche, dedicandosi sia alle fonti mistiche e teologiche tardomedievali del pensiero tedesco, sia alle sue fonti poetiche e medievali, come i Nibelunghi. La conoscenza di Antero della cultura germanica si incrementò progressivamente, attraverso fonti indirette e dirette, cominciando dalle opere e dagli studi11 dedicati alla filosofia tedesca e dalle traduzioni francesi delle opere dei poeti e pensatori tedeschi, passando in seguito a leggerle in lingua originale. C’è però un aspetto che deve essere sottolineato: nonostante l’interesse del poeta e pensatore portoghese per la cultura poetica, scientifica e filosofica tedesca, e a dispetto del

10. Sulla relazione di Antero con Feuerbach e la diffusa presenza dell’opera del filosofo tedesco nella riflessione anteriana, cfr. L. Ribeiro dos Santos, A sombra de Feuerbach na concepção anteriana da religião, in J. Barata-Moura – V. Soromenho-Marques (coord.), Pensar Feuerbach, colóquio comemorativo dos 150 anos da publicação de A Essência do Cristianismo (1841-1991), Departamento de Filosofia da FLUL, Edições Colibri, Lisboa 1992, pp. 123-147, ora in L. Ribeiro dos Santos, Antero de Quental. Uma Visão Moral do Mundo, INCM, Lisboa 2002, pp. 119-152. 11. Lo stesso Antero ci rivela alcune delle letture che lo influenzarono. Cfr., a questo proposito, C. Rémusat, De la philosophie allemande. Rapport à l’Académie des Sciences Morales et Politiques précédé d’une Introduction sur les doctrines de Kant, de Fichte, de Schelling et de Hegel (Paris 1845); le opere di Augusto Vera dedicate ad Hegel (Introduction à la philosophie de Hegel), le traduzioni delle opere hegeliane fatte dallo stesso pensatore; la Storia del Materialismo (1866) di Lange. Il catalogo della biblioteca personale di Antero ci fornisce un’idea delle fonti del poeta: al suo interno, le fonti tedesche e le opere sul pensiero tedesco sono ampiamente presenti.

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suo riconosciuto germanismo, l’influenza esercitata da questa tradizione non avvenne mai sotto il segno di una mera imitazione servile, ma alla luce di un’aperta assimilazione critica, sempre ben temperata con altre matrici culturali e filosofiche che risvegliarono comunque il suo interesse, scoprendo anche al loro interno una peculiare rilevanza. In queste fonti eclettiche – poetiche, filosofiche, teologiche e sapienziali –, dove trasse linfa e ispirazione il suo pensiero, non si trovano soltanto espressioni della riflessione europea, ma anche tracce della tradizione orientale. Carolina Michaëlis de Vasconcelos, una distinta intellettuale tedesca contemporanea del poeta, sua amica e corrispondente, si occupò del germanismo poetico di Antero e, intravedendo nell’influenza germanica la radice metafisica della poesia anteriana, sostenne che gli interessi nutriti per la filosofia e teologia tedesche furono fondamentali per «la sua immaginazione di poeta, fornendole anche il tono metafisico12». Una simile idea fu suggerita dallo stesso Eça de Queirós: «Nei suoi Sonetti, [Antero] esprime questa cosa strana e rara – i dolori di un’intelligenza. È una grande ragione che si dibatte, soffrendo, e dando voce alle grida della sua sofferenza, alle sue crisi, alla sua agonia filosofica, in un ritmo spontaneo della più sublime bellezza poetica; ogni sonetto è il riassunto poetico di un’agonia metafisica. Ed è per questo che la Germania si gettò su questo libro di Sonetti (che il Portogallo non lesse) e li tradusse, li commentò, li fissò religiosamente nella sua letteratura, come una cosa rara e senza precedenti13». Anche Carolina Michaëlis notò lo sforzo del poeta portoghese, solamente in minima parte raggiunto, di introdurre il germanismo nella 12. Carolina Michaëlis de Vasconcelos, Anthero e a Allemanha, in Anthero de Quental – In Memoriam (1896), p. 399. 13. E. de Queirós, O francesismo, in Id., Literatura e Arte. Uma Antologia (2000), p. 305.

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cultura letteraria portoghese, cercando in tal modo di distruggere un duplice preconcetto: il primo, uscito dalla piuma di Camilo Castelo Branco, secondo cui «la patria di Kant faceva troppa filosofia grossolana per non poter fare versi soavi»; il secondo, formulato da lei stessa, secondo cui il Portogallo è il «paese meno metafisico del mondo14». 3. Ad ogni modo, è il germanismo filosofico di Antero l’argomento di cui ora dobbiamo occuparci. Senza alcun dubbio, la più esplicita testimonianza in proposito è la lettera autobiografica del poeta a Wilhelm Storck, a sua volta confermata dall’evoluzione intellettuale di Antero. Il poeta rivela al suo traduttore tedesco che fu la crisi esistenziale, morale e filosofica che lo assalì nel corso del 1874 a spingerlo verso una profonda revisione della sua educazione filosofica: Antero ebbe così l’opportunità di interessarsi a vari filosofi, non soltanto suoi contemporanei, come Hartmann e Lange; si dedicò infatti a dei pensatori, come Leibniz e Kant, collocabili alle «origini del pensiero tedesco», senza dimenticare la lettura dei moralisti e mistici antichi e moderni, la Theologia Germanica e gli stessi libri buddisti. In questo cocktail di riferimenti multiculturali, la vigorosa cultura filosofica tedesca rappresentò per il poeta un motivo di rigenerazione spirituale delle sue energie speculative. In particolare, fu la grande sintesi hegeliana a costituire il riferimento dominante, sebbene il suo hegelismo fosse superato (o temperato) dalla lettura di Leibniz e di altri pensatori. È lo stesso poeta, del resto, a dichiarare senza equivoci lo sfondo hegeliano come base fondante della sua formazione filosofica, nonostante vi fossero già delle forti ragioni che l’avevano spinto a mettere in luce le fragilità della

14. Carolina Michaëlis de Vasconcelos, Anthero e a Allemanha, in Anthero de Quental – In Memoriam (1896), p. 399 e p. 400.

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filosofia di Hegel. Nella già citata lettera a Storck, Antero scrive: «Nel mezzo delle letture caotiche cui mi dedicavo allora, divorando con pari voracità romanzi e libri di scienze naturali, poeti e pubblicisti e perfino teologi, la lettura del Faust di Goethe (nella traduzione francese di Blaze de Bury) e il libro di Rémusat sulla nuova filosofia tedesca esercitarono tuttavia sul mio spirito un’impressione profonda e duratura: fui definitivamente conquistato dal Germanismo; e, se tra i francesi, preferii a tutti Proudhon e Michelet, sono senza dubbio questi due quelli in cui più si percepisce lo spirito al di là del Reno. Lessi inoltre molto Hegel, nelle traduzioni francesi di Vera (poiché solo più tardi imparai il tedesco). Non so se lo compresi correttamente, e neppure se l’indipendenza del mio spirito mi consentiva di esserne un discepolo: ma è certo che le tendenze grandiose di quella stupenda sintesi mi sedussero. Ad ogni modo, l’Hegelismo rappresentò il punto di partenza delle mie speculazioni filosofiche, e posso dire che fu al loro interno che si sviluppò la mia evoluzione intellettuale15». I principali saggi filosofici del poeta confermano questa autointerpretazione. Hegel non solo lo risvegliò alla filosofia, ma gli fornì l’ambiente in cui si inscrissero le sue riflessioni e la struttura fondamentale che garantiva loro una coerenza e un senso. Se l’influenza esercitata da Hegel è un dato indiscutibile, a non essere ancora chiaro è il modo in cui il poeta assimilò la filosofia hegeliana, ciò che di essa conservava e come la interpretò e la inserì nel suo proprio percorso intellettuale. Ad ogni modo, sembra che si possa affermare innanzitutto che la relazione di Antero con l’hegelismo non fu uniforme nell’arco di tutta l’evoluzione del suo pensiero. Da una conoscenza indiretta, il poeta passò ad una lettura mirata delle opere del filosofo. Troppo indipendente di natura per essere un fedele di-

15. A. de Quental, Cartas, Vol. II (1989), p. 834.

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scepolo di qualcuno, dopo l’entusiasmo giovanile per la grandiosa sintesi hegeliana, Antero percorse diverse tappe nel suo atteggiamento verso l’hegelismo, passando dall’assimilazione cosciente, e ogni volta più critica, fino alla progressiva autonomia e all’abbandono del sistema hegeliano come proprio privilegiato orizzonte speculativo di riferimento, integrandolo con la filosofia di Leibniz. Si descriverà allora come «un hegeliano che lesse in seguito Leibniz», finendo per proporre la sua filosofia come una «fusione dell’Hegelismo con la monadologia di Leibniz16». L’ultimo saggio filosofico di Antero, che è anche il suo lavoro più esteso ed importante, documenta il superamento dello sfondo hegeliano del suo pensiero, grazie ad una visione pandinamista che trasse dalle lettura di Leibniz e sicuramente da quella di Hartmann. Nella Coimbra dell’epoca, tra i giovani studenti di Diritto, Hegel era noto soprattutto come filosofo politico, considerato un apologeta dello Stato Prussiano e un «filosofo della Restaurazione». Tale aspetto avrebbe dovuto allontanare il poeta portoghese da Hegel, anziché avvicinarlo. Tuttavia, l’interesse nutrito da Antero non era diretto a questa particolare declinazione del pensiero hegeliano. In verità, Hegel, letto nelle traduzioni francesi di Augusto Vera, offriva al giovane poeta un’altra suggestione destinata a sedurlo, vale a dire una grandiosa sintesi, animata dalla pretesa di rendere ragione della totalità dell’universo. Antero fu a tal punto sedotto da questa idea da assolvere il sistema hegeliano dalle sue conseguenze in ambito politico. Come confesserà più tardi, a proposito della miriade di idee che si agitavano nel suo spirito giovanile, i poeti non erano un alimento sufficiente per rispondere alle sue preoccupazioni; Antero passò perciò alla filosofia, ma non ad una qualunque, bensì precisamente a quella di Hegel. Ascol-

16. Ivi, p. 761 (lettera a Jaime Batalha Reis, 24 dicembre 1885).

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tiamo: «Negli stessi poeti, ad attrarmi era la sfondo più che la forma. Nella mia impazienza, nella mia impetuosità, abbandonati i poeti, il linguaggio astruso, il formalismo, la straordinaria astrazione di Hegel non mi impaurivano né respingevano; al contrario: mi facevo largo con audacia avventuriera nei meandri e nelle ombre di quella foresta formidabile di idee, come un cavaliere diretto in una selva incantata alla ricerca del grande segreto, del grande fétiche, del Santo Graal, che per me era la Verità, la verità pura, estrema, assoluta17». Non sorprende quindi che la poesia della sue Odi Moderne (1865) sia retrospettivamente interpretata dallo stesso poeta come una «poesia di combattimento», rivelando al contempo una «ispirazione filosofica» e una «singolare alleanza […] del naturalismo hegeliano e dell’umanitarismo radicale francese18» (ossia, l’umanitarismo proudhoniano). Non stupisce neppure che, facendo un bilancio del significato storico-culturale della rivoluzione poetica da lui stesso incarnata, avendo egli avviato la famosa “Questão Coimbrã”, non si trovi una formula più espressiva delle seguenti dichiarazioni: «L’hegelismo dei Conimbricensi è esploso […] Il germanismo ha preso piede in Portogallo. Si è aperta una nuova era per il pensiero portoghese19». È probabile che Antero sia entrato nel vasto mondo della filosofia hegeliana attraverso la filosofia della natura. E sarà ugualmente la sua personale disaffezione per questa parte del sistema che lo porterà a distanziarsi dall’hegelismo nel 17. Ivi, p. 748. Nelle pagine seguenti sull’hegelismo di Antero, seguiamo da vicino, abbreviandolo, ciò che abbiamo scritto nella «Presentazione» del saggio di Antero, Tendências Gerais da Filosofia na Segunda Metade do Século XIX (1890), Ulmeiro, Lisboa 1982, reed. Editorial Comunicação, Lisboa 1989; Editorial Presença, Lisboa 1995. 18. Ivi, p. 837. 19. Ivi, p. 836.

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suo insieme, alla ricerca di orizzonti più ampi e di un’aria più respirabile. A dispetto di ciò che spesso si afferma, non fu il naturalismo delle scienze positive a disilluderlo, semplicemente perché egli non venne mai sedotto da simili questioni. A disingannarlo, fu invece il naturalismo metafisico dei grandi filosofi idealisti, considerato incapace di corrispondere alle esigenze del suo esacerbato sentimento morale. In realtà, se la ragione e l’intelligenza lo spinsero sempre dal lato dell’hegelismo in quanto sistema, il cuore e il sentimento lo condussero sempre ad un grande sconforto. E fu proprio tale insoddisfazione a spingerlo, alla fine, a prendere le distanze da Hegel, sostituendo questa “atmosfera” con quella di Leibniz. Diamo la parola direttamente ad Antero, che può spiegarci la sua evoluzione intellettuale meglio di chiunque altro: «Il naturalismo», precisa il poeta, «anche il più elevato ed armonico, come quello di un Goethe o di un Hegel, non è in grado di fornire delle soluzioni veritiere, lascia la coscienza sospesa, e il sentimento, in ciò che possiede di più profondo, ancora da soddisfare. La sua religiosità è falsa, e soltanto apparente; nel profondo, non è nulla più che un paganesimo intellettuale e raffinato. Ora, io mi dibattevo disperatamente, senza poter uscire dal naturalismo, dentro il quale nacque e crebbe l’intelligenza. Era la mia atmosfera, e tuttavia dentro di essa mi sentivo asfissiato. Il naturalismo, nella sua forma empirica e scientifica, è struggle for life; nella sua forma trascendente è una dialettica gelida e inerte, o un epicureismo egoisticamente contemplativo20». In un altro contesto, Antero criticherà la filosofia della natura di Hegel, accusandola di «fare scienza a priori», e, pur riconoscendo in ciò la principale ragione del suo discredito presso i contemporanei, riteneva che vi fosse comunque in

20. Ibid.

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questa «opera gigantesca» e «sublime», e nel mezzo di questo «chiacchiericcio scolastico», una «poesia della Natura nuova, grande e veramente inebriante21». È nella filosofia di Hegel e di Schelling (spesso considerati insieme) che Antero edificò, nelle sue linee direttive, il proprio personale concetto di evoluzione, una nozione che, oltre a svolgere un ruolo fondamentale nella sua concezione filosofica, costituì la base di tutto il pensiero moderno, seppur inteso in modo differente dai vari protagonisti dei diversi sistemi filosofici22. Non si tratta, ovviamente, di un concetto fisico, ma di una nozione metafisica, ed è per questo che può essere applicata, prima di tutto e con pieno diritto, al dominio della storia e, in un ambito più generale, al dominio dell’essere spirituale e delle sue realizzazioni. In una pagina dell’ultimo saggio filosofico del poeta, Antero esprime le sue considerazioni a riguardo: «Schelling e Hegel fondarono definitivamente la dottrina dell’evoluzione, e la fondarono nella più alta regione delle idee, dove essa domina tutto il pensiero del nostro secolo. L’evoluzione, da questa altezza, non è soltanto il processo meccanico e oscuro della realtà: è lo stesso processo dialettico dell’essere, e possiede le sue radici, comuni alle radici della ragione, nell’incosciente ma fondata aspirazione della natura a un fine sovrano, la coscienza di se stesso, la pienezza dell’essere e la perfezione ideale. La legge suprema delle cose si confonde con la loro finalità, e tale finalità è spirituale. 21. Ivi, Vol. I (1989), p. 231. 22. A questo proposito, si tenga presente il passaggio seguente, presente in uno dei saggi di Antero: «Credo con Haeckel, così come con Schelling, Hegel, Hartmann, Comte e Spencer, che è nel terreno dell’evoluzione che questa grande sintesi [un «materialismo idealista»] deve essere costruita, e che, dopo il XVIII secolo e dopo Kant, non è più possibile una filosofia che non sia essenzialmente una teoria generale dello sviluppo, cioè una filosofia dell’evoluzione», A. de Quental, A “Filosofia da Natureza” dos Naturalistas (1886), in Id., Prosas, Vol. III, p. 50.

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Con Schelling e Hegel la filosofia della Natura si compenetra dei suoi veri principi metafisici: il meccanismo si dissolve nel dinamismo, il cui tipo è lo spirito. L’Universo, alla luce del realismo trascendentale dei due grandi successori di Kant, si trasfigura: il suo movimento appare come una successione e concatenazione di idee e la sua immanenza si definisce come quella dell’anima infinita delle cose23». Di matrice ugualmente hegeliana è la concezione anteriana della Filosofia e della Storia della Filosofia, esposta nella prima parte di un saggio intitolato Tendenze Generali della Filosofia nella Seconda Metà del XIX Secolo, in cui espressioni come «spirito dell’epoca», «metafisica latente», «anima collettiva di ogni età» sono ricorrenti. Sebbene il poeta rigetti già esplicitamente in questo saggio la rigidità, l’immobilismo e il dogmatismo del sistema hegeliano, la sintesi filosofica da lui proposta può ancora essere letta – fatte salve le dovute proporzioni – come una versione mitigata, timida e parziale della concezione sistematica di Hegel. D’altra parte, hegeliano è il ritmo ternario e dialettico che scandisce il movimento del saggio, le cui tre parti corrispondono, rispettivamente, alla tesi, all’antitesi e alla sintesi. La presenza di Hegel si rivela inoltre in una certa concezione drammatica della storia che presiede l’intero saggio. Il termine «teatro» appari qui per caratterizzare il processo e l’azione in cui si mettono in gioco libertà, storia e natura: la storia è considerata infatti «il teatro della libertà» e la natura «il teatro della storia». La storia è il palco dove si incontrano, si incrociano e infine si identificano le leggi dello spirito (libertà) e le leggi della natura (determinismo), portando a compimento il «dramma divino dell’universo» o il «dramma dell’essere», il cui risultato consiste nella liberazio-

23. A. de Quental, Tendências Gerais da Filosofia na Segunda Metade do Século XIX (1989), p. 49.

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ne finale del Bene, ossia nella mediazione e realizzazione del destino morale dell’Umanità. Come abbiamo già messo in luce, l’hegelismo di Antero è stato filtrato criticamente, e il pensatore portoghese finirà per riconoscere e identificare i vizi del pensiero hegeliano. I punti critici della riflessione del filosofo tedesco sono di vario ordine, relazionati agli aspetti che si intendono privilegiare. Ecco allora che nell’ordine formale il vizio dell’hegelismo è soprattutto il dogmatismo e lo spirito di sistema, all’origine di quella «dialettica gelida e inerte», indifferente alla vita e alla realtà, frequentemente denunciata dal poeta. Nell’ordine scientifico, è l’assoluto apriorismo, cioè la «pretesa esorbitante di costruire l’universo deduttivamente e con il solo potere della dialettica», e, di conseguenza, l’indebita invasione della scienza positiva da parte della metafisica. Nell’ordine storico, è l’assoluto determinismo che sottomette tutto a una rigida necessità, non rimanendo alcuno spazio per ciò che è fortuito, per il caso e l’indeterminato: in breve, per la libertà delle deliberazioni e azioni umane. Nell’ordine morale e in quello della psicologia individuale, infine, è la protesta della libertà morale della coscienza, secondo Antero una «protesta molto grave», poiché «quella voce della coscienza, oscura e all’apparenza assente nei mille rumori del mondo, sempre in grado, e alle volte quasi con un sospiro, di far cadere e rovesciare castelli secolari, sarà abbastanza potente per spezzare e dissolvere i sistemi più tenacemente edificati dai filosofi24». Prestiamo attenzione a questa notevole pagina delle Tendenze, in cui si prende di mira il sistema hegeliano nel suo panlogismo e si commentano le critiche rivoltegli dai rappresentanti dello spiritualismo francese dell’ottocento – delle figure che, pur essendo forse dei semplici esponenti di una 24. Ivi, pp. 54-55.

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«filosofia letteraria», davano tuttavia voce alla coscienza e al sentimento dell’uomo comune: «La verità è che, al fondo di questa questione di filosofia, vi era una questione umana, di grande e fondamentale importanza. La metafisica, nella sua assorbente dialettica, è portata a dimenticare che gli individui non sono astrazioni, semplici determinazioni logiche di un’idea, ma esseri reali autonomi, il cui principio di azione risiede nelle profondità della loro natura, costituendo un vero e proprio in sé, distinto e irriducibile, e non un momento transitorio di una qualche sola e vera sostanza esistente nella sua vaga universalità. Per lo meno, questa è sempre stata l’universale affermazione della coscienza umana, e non sembra che nessuna dialettica possa distruggere nell’uomo un così intimo ed energico sentimento. Più di qualsiasi altro sistema metafisico, quello della nuova filosofia tedesca, trascinando e quasi triturando tutti gli esseri nel suo poderoso ingranaggio, sostituendo alla realtà la dialettica, sembrerebbe annullare gli individui, fusi nell’assoluta unità dell’essere-idea, e sopprimere la libertà, considerata incompatibile con la necessità logica delle dinamiche di quell’essere. Per quanto profonda fosse la concezione hegeliana della storia, della politica, dell’etica – e lo era, senza alcun dubbio –, e per quanto fossero sottili le sue distinzioni – e lo erano, certamente –, tale obiezione sorgeva irresistibilmente e, quando non era ancora giunta a condannare il sistema nella sua totalità, indicava comunque una lacuna gravissima, una deformità originaria che faceva diventare sospetta la salute dell’intero organismo. E, torno a ripeterlo, questa obiezione non era soltanto filosofica: era umana: da qui la sua grande forza. Di fronte a questa superiore necessità degli sviluppi dell’essere-idea, sostituendosi agli individui nel principio intimo della loro azione, dov’erano lo sforzo intrepido degli eroi, le lotte segrete della virtù e i loro dolorosi trionfi, l’abnegazione sublime dei martiri, la rinuncia volontaria dei buoni e dei giusti, dov’era il dovere e la libertà e tutta la no-

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biltà morale che queste due parole esprimono? È curioso che qui, in questa profonda regione del senso intimo e della vera realtà umana, gli spiritualisti, poco filosofi, per nulla metafisici, sembravano rappresentare in modo più genuino queste idee di forza e immanenza, di cui l’Hegelismo è la più vasta e poderosa sistematizzazione, di quanto non fossero in grado di fare Hegel e il suo sistema!25». Se volessimo organizzare, gerarchicamente e secondo il suo peso specifico, i differenti ordini di ragione che portarono Antero ad allontanarsi dal sistema hegeliano, dovremmo indicare le seguenti motivazioni: in primo luogo, l’imperativo della libertà morale della coscienza individuale, che il sistema soffocava o impossibilitava; in secondo luogo, l’imperativo della libertà nello sviluppo storico dello spirito umano; e, soltanto in terzo luogo, i diritti dei fatti positivi e delle scienze corrispondenti, contro le pretese dell’apriorismo e del formalismo dogmatico. Queste ragioni corrispondono adeguatamente alle differenti manifestazioni del pensiero del XIX secolo che, in un modo o nell’altro, reagirono all’hegelismo: lo spiritualismo francese, come reazione alla dissoluzione della libertà morale dell’individuo nel sistema; il positivismo comtiano, come rivendicazione dei diritti della scienza e dei fatti positivi; infine, il neokantismo, che tentò di recuperare, con un ritorno a Kant, la giusta maniera di equiparare le relazioni tra filosofia e scienza. È interessante notare come la disaffezione di Antero nei confronti del sistema hegeliano, vista ora come un processo della sua evoluzione personale, ora nelle dimensioni aporetiche e critiche, coincida con la storia delle reazioni e delle critiche all’hegelismo del XIX secolo. Non è sufficiente, tuttavia, rilevare la relativa pertinenza fra le posizioni di Antero e le 25. Ivi, p. 59.

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varie critiche dirette contro l’hegelismo. Anche in questo caso, infatti, il poeta portoghese è capace di indicare l’inconsistenza di queste reazioni, denunciandone la superficialità. Ad ogni modo, fra le varie risposte critiche ce n’è una che occupa una posizione speciale e che merita un’attenzione particolare. Si tratta del neokantismo, attraverso cui Antero pare aver riconsiderato la funzione della filosofia kantiana, non solo nel processo evolutivo del pensiero moderno (nel suo significato storico), ma anche considerandola in se stessa, permettendo di criticare le opposte tendenze, ora nella loro pretesa dogmatica, come è il caso dell’idealismo hegeliano, ora nelle loro nuove illusioni, come è il caso di altre correnti. Antero, che accolse ben presto la tesi kantiana del primato della morale e della ragion pratica sulla ragione speculativa e scientifica, sembra essere giunto a riconoscere il significato storico-filosofico della Critica kantiana anche in ambito speculativo. Ma cosa lo condurrà precisamente ad oltrepassare l’hegelismo e a giungere «alle fonti del pensiero tedesco», a leggere o rileggere Leibniz e Kant? Possiamo trovare una possibile risposta a questa domanda in una delle sue lettere, datata 7 settembre 1888: «Il ritorno a Kant», precisa il poeta, fu reso possibile perché «una moltitudine di fatti nuovi, nelle scienze naturali, nella psicologia e nella storia, rese evidenti le lacune e l’insufficienza delle antiche sintesi; e l’alleanza del kantismo con lo spiritualismo, o, ancor prima, il profondo rinnovamento di questo grazie a quello, mi sembra il fatto più considerevole del pensiero filosofico degli ultimi vent’anni26». All’avvicinamento di Antero al pensiero kantiano e leibniziano può aver forse contribuito la lettura dell’opera di Désiré Nolen (La Critique de Kant et la Métaphysique de Leibniz. 26. A. de Quental, Cartas, Vol. II (1989), p. 900.

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Histoire et théorique de leurs rapports, Paris 1875), in cui si stabiliva un confronto tra la metafisica di Leibniz e la critica di Kant, sottolineando più le affinità tra i due filosofi che le loro discrepanze. Lo stesso poeta riferisce inoltre che una delle sue letture decisive fu la Storia del Materialismo (1866) di Friedrich Albert Lange, dove è ugualmente all’opera una rivisitazione molto positiva della filosofia kantiana, in cui erano messe in luce le possibilità che le letture idealiste avevano precluso. Del resto, l’interesse per la filosofia di Kant e per il neokantismo muoveva altri intellettuali portoghesi della generazione di Antero, tra i quali non possiamo non ricordare il suo collega e amico Jaime Batalha Reis e il più giovane Manuel Ferreira Deusdado27. Qual è, secondo Antero, la virtù del neokantismo? Nientemeno che la possibilità, se non di risolvere, almeno di condurre il filosofo alla soluzione delle antinomie fondamentali del pensiero moderno, riconciliando la scienza con la metafisica, la natura con lo spirito. Come scrive il poeta: «La filosofia non può prescindere dai dati della coscienza; al tempo stesso, però, le affermazioni della coscienza non possono annullare i fatti 27. Antero possedeva nella sua biblioteca la traduzione francese della Storia del Materialismo di Lange in due volumi (Paris, 1877-1879). Ferreira Deusdado presenta la sua opera Ensaios de Filosofia Actual (Lisboa, 1888) come redatta «alla luce della filosofia critica contemporanea o dottrina del neokantismo», dichiarandosi un «umile discepolo della filosofia neocritica e ardente e sincero adepto della grandiosa morale kantiana». A sua volta, Batalha Reis dichiara in una lettera: «Mi sto per dedicare a Kant, Kant il primo, Kant l’inizio, Kant la cultura […] Mio caro Antero, io ritengo che la psicologia oggi dovrebbe essere rifatta come al tempo di Kant». Lo stesso Reis, in una lettera a Oliveira Martins del 1 ottobre 1873: «La lettura di Kant mi ha rivelato oggi ciò che ritengo rappresenti una questione capitale del metodo, e cioè che tutti gli assunti debbano essere [studiati] psicologicamente al microscopio. Questa rappresenta per me oggi una mania», in Correspondência entre Antero de Quental e Jaime Batalha Reis, introdução, organização e notas de M. Staack, Assírio & Alvim, Lisboa 1982, pp. 70, 84 e 157.

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naturali e storici provati e positivi. La risoluzione di questa antinomia, la spiegazione dell’Universo attraverso la coscienza e l’interpretazione della coscienza con principi analoghi alle leggi fondamentali dell’Universo, l’unità dell’essere e del sapere che Hegel tentò di dimostrare solamente dialetticamente e, pertanto, in modo insufficiente, ci sembrano più accessibili grazie al cammino offertoci dal Neokantismo rispetto a quello di qualsiasi altro28». Antero si pronuncia sul significato storico-filosofico del kantismo in varie pagine delle Tendenze. Ecco alcuni passaggi: «Il criticismo di Kant è ben lungi dall’essere semplicemente una nuova forma di scetticismo, come sembrò e ancora oggi sembra a molta gente. Non lo era nella sua intenzione, e lo è ancora meno nei fatti. E non va neppure incontro alle tendenze metafisiche del pensiero moderno: al contrario, sottomettendole ad una verifica rigorosa, le depura e le consolida; sondando la ragione nei suoi elementi ultimi, le amplia ed è, tutto sommato, un passo avanti nell’ambito di queste stesse tendenze. Che cosa pretende difatti Kant? Stabilire le vere basi della certezza delle nostre conoscenze. E dove si trovano queste basi? Nello spirito e soltanto nello spirito. Lo spirito è infatti per Kant, che egli lo sappia o no, il vero e proprio noumenon, lo spirito è la misura di tutti gli esseri, rivelazione della sua più intima natura. Le leggi dello spirito sono le leggi dell’universo nella sua forma più perfetta, ed è partendo dallo spirito che si deve conoscere il mondo oggettivo; non è partendo dal mondo oggettivo che si deve conoscere lo spirito […] L’universo, nel Kantismo, rifluisce integralmente per la coscienza, unendosi ad essa, ma per uscire trasformato, analogo allo spirito o identico con lo spirito. Il soggettivismo di Kant o non è quindi nulla – l’impossibilità di qualsiasi conoscenza

28. A. de Quental, Cartas, Vol. II (1989), p. 900.

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al di là della stessa facoltà di conoscere, in questo caso senza oggetto – o è allora, come lo intenderanno Fichte, Schelling ed Hegel, il riconoscimento della “identità dell’essere e del sapere”, la generalizzazione dello spirito a tutto l’universo, un idealismo realista che, proprio mentre subordina tutti gli esseri alle leggi della ragione, pone la ragione e le sue stesse leggi latenti in tutti gli esseri, perfino nei più elementari. Essendo così, e non potendo essere del resto altrimenti, la critica di Kant finì per confermare ed ampliare prodigiosamente, attraverso la scappatoia dello scetticismo, le idee fondamentali del pensiero moderno, portandole, possiamo dirlo, fino alle ultime conclusioni29». In alcuni saggi precedenti, abbiamo avuto l’opportunità di mostrare la profonda affinità di Antero con l’impostazione generale e con alcuni dei principali argomenti della filosofia morale kantiana30. Innanzitutto, nella percezione della «formidabile antitesi determinismo-libertà», e nel riconoscimento del primato della ragion pratica o del sentimento morale. Già nel 1865, il poeta scriveva: «La Ragione speculativa è un terreno scivoloso, e sono precari i sistemi che poggiano su di esso. Ma la ragione pratica (come dice Kant), la coscienza immediata che possediamo del nostro essere reale, della natura libera e razionale che esiste in noi, è una verità dell’intuizione, un fatto della coscienza, l’espressione della nostra stessa realtà31». Ventidue anni dopo, Antero esprime la stessa idea, seppur in un’altra formulazione: «L’essenza ultima dell’Essere è difficilissima da definire con le nostre formule metafisiche, [ma è] chiara e comprensibile al sentimento morale, che ne 29. A. de Quental, Tendências Gerais da Filosofia na Segunda Metade do Século XIX (1989), pp. 47-48. 30. Cfr. il nostro Antero de Quental. Uma Visão Moral do Mundo (2002), pp. 106 e sg. 31. A. de Quental, Cartas, Vol. I (1989), p. 330.

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è la sua adeguata manifestazione, la sua realizzazione32». L’essenza dell’essere appare infine nell’idea di legge morale come espressione della perfetta libertà e autonomia dello spirito33, e nell’idea di Dio come soggetto ideale della coscienza morale e punto di attrazione di tutti gli spiriti liberi34. 4. Alcuni interpreti di Antero hanno individuato altri pensatori tedeschi che avrebbero influenzato con minore o maggiore peso la formazione del suo pensiero in alcuni dei suoi aspetti. È il caso di Schopenhauer, al quale è spesso associato il pessimismo anteriano35; è il caso anche di Feuerbach, almeno per ciò che riguarda la filosofia anteriana della religione, un problema su cui abbiamo dedicato un saggio, a cui rimandiamo per un più ampio approfondimento36. Tra i filosofi tedeschi contemporanei di Antero, il dialogo più intenso del poeta fu quello con Eduard von Hartmann: possiamo dire quindi che «Hartmann si divide con Hegel il magistero filosofico nella mente di Antero; se questi fu il suo maestro durante la gio32. Id., Cartas, Vol. II (1989), p. 841. 33. A. de Quental, Tendências Gerais da Filosofia na Segunda Metade do Século XIX (1989), p. 116. 34. Ivi, p. 109. 35. Cfr. A. Sérgio, Notas sobre os “Sonetos” e as “Tendências Geraes da Philosophia” de Antero de Quental, Lisboa 1909, pp. 173-182; J. Alves, Antero de Quental. Les mortelles contradictions, F. C. Gulbenkian, Paris 1982, pp. 271 e sg. Anche i contemporanei di Antero hanno messo in luce la medesima associazione: cfr. J. Bruno Carreiro, Antero de Quental. Subsídios para a Sua Biografia, II Voll., Livraria Morais, Lisboa 1948, reed. Istituto Cultural de Ponta Delgada – Livraria Editora Pax, Braga 1981, Vol. I, pp. 18, 119, 160, 178, 342 e 438; Vol. II, pp. 224 e 419. 36. Cfr. L. Ribeiro dos Santos, A sombra de Feuerbach na concepção anteriana da religião, in J. Barata-Moura – V. Soromenho-Marques (1992), pp. 123-147; ora anche in L. Ribeiro dos Santos, Antero de Quental. Uma Visão Moral do Mundo (2002), pp. 119-152.

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vinezza, il filosofo dell’incosciente fu il suo maestro nel corso della maturità37». A giudicare dalla testimonianza della sua lettera autobiografica a Wilhelm Storck, Antero sarebbe entrato in contatto con le idee di Hartmann a partire dal 1874. Presumibilmente, il primo contatto avvenne in modo indiretto, attraverso la lettura di alcuni articoli e di opere divulgative38, e soltanto in seguito direttamente, con la lettura delle principali opere del filosofo, sia nelle traduzioni francesi – ovvero la Filosofia dell’incosciente (1877) e la Religione dell’Avvenire (1876) –, sia nella versione originale della prima e delle altre opere del pensatore tedesco che il poeta portoghese possedeva nella sua biblioteca39. L’apprezzamento filosofico di Antero per Hartmann appare con chiarezza in tutti i giudizi riferiti al pensatore tedesco, descritto spesso nelle sue lettere come un «simpatico

37. J. de Carvalho, Evolução Espiritual de Antero, in Id., Obras Completas, Fundação Calouste Gulbenkian, Lisboa 1982, Vol. II, p. 689. 38. Cfr., ad esempio, L. Dumont, Une philosophie nouvelle en Allemagne – Édouard de Hartmann et la théorie de l’inconscient, «Revue scientifique de la France et de l’Étranger», Giugno-Settembre 1872, pp. 220-229; cfr. inoltre E. Quinet, L’Esprit nouveau, Paris 1875, pp. 270-274. 39. Cfr. K. R. E. von Hartmann, Phänomenologie des sittlichen Bewusstseins. Prolegomena zu jeder künftigen Ethik, Berlin 1879; Id., Religionsphilosophie. Erster historisch-kritische Theil. Das religiöse Bewusstsein der Menschheit, Leipzig (2a ed.) 1888. Cfr. inoltre le opere dei discepoli del filosofo tedesco, come Taubert (Der Pessimismus und seine Gegner, Berlin 1873) e Moritz Venetianer (Der Allgeist, Grundzüge der Panpsychismus in Anschluss an die Philosophie des Unbewussten, Berlin 1874), interpreti raccomandati da Désiré Nolen nella prefazione scritta alla sua traduzione della Filosofia dell’Incosciente. Antero possedeva nella sua biblioteca anche altre opere di Hartmann, come i Gesammelte Studien und Aufsätze (3a ed.), Leipzig 1888 e, in traduzione francese, Le darwinisme: ce qu’il y a de vrai et de faux dans cette théorie (3a ed.), Paris 1880.

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filosofo», un «ingegnoso e profondo tedesco40» o, meglio ancora, come il «nostro rappresentante contemporaneo dell’alta speculazione». L’impatto della lettura di Hartmann sul pensatore portoghese è ben documentato da quattro argomenti principali: il pessimismo filosofico, che diede avvio alla riflessione anteriana nel periodo di crisi esistenziale del 1874, e soprattutto la nozione metafisica di incosciente, la filosofia della religione e la visione finalista della natura. Anche in questo caso, però, non si tratta tanto di un’influenza esercitata dalle idee di Hartmann su quelle del poeta portoghese, quanto del riconoscimento dell’essenziale affinità e convergenza di prospettive fra Antero e il filosofo tedesco. La vicinanza fra i due pensatori non impediva certo ad Antero di porre in rilievo anche le divergenze che lo separavano da Hartmann; in una lettera del 24 dicembre 1885, dopo aver esposto ad un amico un compendio del suo sistema filosofico, Antero scrive: «Il mio sistema è in una linea parallela rispetto a quello di Hartmann, distinguendosi nel metodo e in una maggiore dose di realismo, e avvicinandosi invece ad esso nelle tendenze generali e nelle conclusioni morali41». La percezione dell’affinità dei rispettivi punti di vista è documentata anche da una lettera a Oliveira Martins del 13 marzo 1876, a proposito della lettura de La Religione dell’Avvenire, la prima opera di Hartmann integralmente tradotta in francese: «[Il libro rappresenta] un buon tema per meditare. Sebbene io lo trovi conciso e carente in certi punti, mi è piaciuto tuttavia molto: di tutto ciò che ho letto sull’argomento, è quello che più si avvicina al mio modo di vedere. Sto iniziando a capire che il pessimismo di Hartmann si avvicina singolarmente al mio ottimismo, e sono morto per leggere un’opera

40. A. de Quental, Cartas, Vol. II (1989), p. 813. 41. Ivi, p. 762.

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più estesa del simpatico filosofo. Può darsi che io abbia inventato la “Filosofia dell’Incosciente” senza saperlo42». Antero si riferisce qui ad un suo sonetto, intitolato Incosciente (1875); sebbene questo poema sia stato scritto prima che il poeta conoscesse l’opera di Hartmann e il suo argomento principale, Antero presentò, sotto la forma condensata e istantanea del verso, delle riflessioni in linea con quelle espresse dal pensatore tedesco, con particolare riguardo all’idea dell’incoscienza di Dio43. Il tema dell’incosciente sarà sviluppato nelle Tendenze per mettere il luce la continuità del passaggio dalla natura allo spirito, dalla spontaneità alla libertà: «Nella spontaneità incosciente della materia si trova la radice di quello che nella coscienza e nella ragione si chiama realmente libertà44». Che questo concetto presieda non soltanto la visione anteriana della realtà, bensì anche la sua concezione della storia, lo rivela una lettera del 5 maggio 1888: non è la chiara coscienza degli uomini (e neppure quella dei politici o dei grandi uomini) che comanda il movimento della storia, poiché gli avvenimenti, prima di manifestarsi, sono lentamente preparati nella moltitudine profondamente incosciente della psicologia dei popoli45.

42. A. de Quental, Cartas, Vol. I (1989), p. 346. 43. A questo proposito, cfr. i saggi di J. de Carvalho, Sobre a origem da concepção da inconsciência de Deus em Antero de Quental, in Id., Obras Completas, Vol. II (1982), pp. 109-119; Id., Antero de Quental e a filosofia de Eduardo de Hartmann, in Obras Completas, Fundação Calouste Gulbenkian, Vol. I (1978), pp. 409-431. Più recentemente, il tema della relazione di Antero con Hartmann è stato oggetto di approfondimenti nel saggio di G. de Fraga, Reflexão sobre Antero, «Arquipélago», Vol. I, Ponte Delgada 1979, pp. 9-41. 44. A. de Quental, Tendências Gerais da Filosofia na Segunda Metade do Século XIX (1989), p. 77. 45. Cfr. A. de Quental, Cartas, Vol. II (1989), pp. 879 e 813.

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Un altro tema comune al filosofo tedesco e al pensatore portoghese è l’interesse per la filosofia della religione e la religione del futuro. Negli anni compresi fra il 1876 e il 1878, Antero aveva redatto una Teoria della Religione, un’opera cui attribuirà un grande significato, considerandola una parte essenziale del suo sistema filosofico. Alcuni suoi amici ebbero anche l’opportunità di visionare il manoscritto, destinato poi a scomparire, perduto o distrutto dal suo autore. Fra i vari testi cui si ispirò nella redazione del progetto, spiccano, fra gli altri, la Religione dell’Avvenire di Hartmann e l’Essenza del Cristianesimo e la Religione di Ludwig Feuerbach, nelle traduzioni francesi di Joseph Roy. In una lettera diretta a Oliveira Martins, datata 3 giugno 1876, Antero dichiara ancora una volta la sua vicinanza e, al contempo, il suo parziale disaccordo con le idee del filosofo tedesco: «Condivido la maniera di vedere di Hartmann sul futuro della religione. Il modo con cui egli definisce la religione, però, non mi soddisfa; è manchevole e sembra lasciare un margine al meraviglioso, o per lo meno all’immaginoso. In questi ultimi tempi, ho riflettuto abbastanza su questo argomento, e credo di essere giunto a delle conclusioni definitive sulla natura razionale e sentimentale (cosciente e incosciente, come dice Hartmann) e individuale e collettiva della religione46». Secondo Antero, il futuro della religione coincide con la rivitalizzazione del non ancora totalmente esaurito principio cristiano: non si stratta tanto di distruggere il Cristianesimo e ciò che rappresenta – il punto di vista della trascendenza metafisica e morale –, quando di completarlo con la scienza della realtà. E così, aggiunge il pensatore portoghese, «la religione del futuro, di cui ci parla Hartmann, non può essere altro [che un Cristianesimo rinnovato], e non ritengo certo

46. A. de Quental, Cartas, Vol. I (1989), pp. 347-348.

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necessario andare a ricercare il Buddismo, quando quello che vi è di migliore in esso si trova nel Cristianesimo, e con una forma sentimentale più pura, più umana47». Un altro argomento che conduce Antero a citare Hartmann riguarda la concezione finalista della natura, in opposizione al meccanicismo e al materialismo in voga all’epoca. Alcuni interpreti ritengono addirittura che tale topos costituisca il più importante contributo che la lettura di Hartmann offrì alla formazione del pensiero più maturo di Antero48. Di certo, come nota giustamente Joaquim de Carvalho, la spiegazione teleologica non era un’invenzione di Eduard von Hartmann, ma il filosofo dell’Incosciente fu quello che le diede nuova vita attualizzandola, grazie al vigore con cui cercò di mostrare che la causa finale e la causa efficiente sono aspetti derivati da un’unica «sostanza assoluta», da una realtà suprema e ultima che si manifesta come «volontà» e come «idea», come «movimento» e come «sentimento49». Antero, in sostanza, vedeva Hartmann non solo come il pensatore che proponeva idee e prospettive affini alle proprie, ma come un suo contemporaneo, nel cui lavoro era all’opera 47. Ivi, pp. 348-349. 48. Uno dei più influenti scrisse ad esempio: «Se non erro, l’influsso della Filosofia dell’Incosciente si manifestò principalmente nel contesto e nel tenore del pensiero, dal convincimento in cui lo lasciò la necessità della causa finale per la spiegazione completa della realtà naturale. Questa fu, forse, l’idea suprema con cui Hartmann influenzò il pensatore delle Tendenze, il cui spirito, peraltro, era in qualche modo pronto ad accoglierla, e sembra aver collegato la spiegazione teleologica con la revisione dei presupposti dogmatici del Materialismo che Lange, nel proseguimento del suo programma di un “ritorno a Kant”, aveva intrapreso nella Storia del Materialismo (1866), principalmente con l’obiettivo di giustificare l’irriducibilità dello psichico e del fisico, ossia il mondo dello spirito e quello della materia», J. de Carvalho, Obras Completas, Vol. II (1982), p. 690. 49. A. de Quental, Cartas, Vol. I (1989), pp. 690-691.

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la sintesi di ciò che riteneva fosse il contributo specifico del pensiero tedesco moderno da Leibniz a Hegel. Antero era convinto quindi che Hartmann, con il suo «panteismo spiritualista», stesse dando seguito a quella profonda intuizione di Francesco di Assisi – a sua volta formulata metafisicamente da Bruno e Schelling50 – in grado di superare, al pari di Leibniz, il meccanicismo e il materialismo dominanti, in vista di un rinnovamento della prospettiva finalista e spiritualista. Questa interpretazione è espressamente confermata da un passo del saggio La Filosofia della Natura dei Naturalisti (1886), dove si legge: «Se il Signor Vianna de Lima [si tratta di un autore brasiliano] si spogliasse per qualche tempo dei suoi abiti di pensiero di puro naturalista e studiasse un poco i tanto abominevoli metafisici, non solamente Leibniz e Hegel, ma anche il rappresentante nostro contemporaneo dell’alta speculazione, Hartmann (che non è, al pari dei primi due, particolarmente versato nelle scienze della Natura), vedrebbe che l’idea di finalità non si riduce, come lui ritiene, a quella concezione antropomorfica che rifiuta con così tanta facilità nel suo libro. Vedrebbe invece che la finalità può essere ancora concepita come immanente alla materia e come quel secondo elemento che va ad integrare, aggiungendosi al movimento, la nozione di realtà; che, in questo caso, lungi dall’essere in contraddizione con la spontaneità del movimento, è precisamente la spiegazione del movimento; e quello che sembra un effetto, dal punto di vista del puro meccanicismo, è una causa dal punto di vista della finalità, giacché sono due sfere della conoscenza che, proprio mentre si oppongono, si completano reciprocamente51».

50. Cfr. A. de Quental, Cartas, Vol. II (1989), p. 786. 51. A. de Quental, A ‘Filosofia da Natureza’ dos Naturalistas (1886), in Id., Prosas, Vol. III, p. 40.

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5. In conclusione, possiamo sottolineare gli aspetti più significativi dell’attitudine dimostrata da Antero nei confronti della cultura poetica, scientifica e filosofica tedesca. Il carattere eterogeneo ed eclettico delle fonti che hanno ispirato il poeta-filosofo portoghese – le «letture caotiche» a cui si dedicò a partire dalla giovinezza – ha reso possibile un confronto fra gli ingredienti della cultura poetica e filosofica germanica studiati da Antero e altre componenti; ciò lo obbligò a una sforzo maggiore di elaborazione, nel tentativo di giungere ad una sintesi superiore del pensiero capace di accordare matrici conflittuali e materiali a volte antitetici, realizzando così le esigenze logiche e morali del suo spirito. Fu proprio questa necessità a garantire al poeta un’ampia libertà e autonomia nelle proprie fonti di ispirazione, anche in relazione a quelle, come Hegel e Hartmann, che più fortemente e chiaramente lo influenzarono. Nel corso della sua evoluzione filosofica, Antero fu sempre guidato dalla preoccupazione di realizzare una sintesi tra le tendenze polari e dualistiche in cui si esprimeva il pensiero moderno e contemporaneo, tra lo spirito e la natura, l’idea e la realtà, la ragione logica e il sentimento morale, il pensiero e l’essere, la metafisica e la scienza, la libertà e il determinismo, l’apriorismo e il positivismo, il finalismo e il meccanicismo. Nella grande tradizione del pensiero tedesco, egli trovava non solo autori che, al pari di Hegel, rappresentavano in modo superlativo il principio del sistema, della logica, dell’idea, dello spirito e della metafisica, ma anche quei pensatori che, come Leibniz o Hartmann, l’avevano preceduto nella ricerca di una concezione che garantisse la salvaguardia della tensione armonica di questi principi, senza finire preda del monismo e del riduzionismo spiritualista o materialista, senza restare paralizzata in una qualche forma di dualismo, e che, senza uscire dal naturalismo, garantisse i diritti dello spirito e, senza sacrificare

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lo spiritualismo, garantisse i diritti della materia e della natura. In questo sforzo per superare dinamicamente le antitesi in cui si esprimeva il pensiero moderno, il programma filosofico di Antero è in sintonia con altri pensatori della sua epoca e, come loro, fu portato a presentare la propria filosofia con formule paradossali e a prima vista contraddittorie, facendo riferimento ad un «materialismo idealista» o ad un «idealismo materialista52». Di certo, Antero non poteva né voleva abbandonare l’orizzonte del suo tempo; più semplicemente, si sforzava di comprendere il crinale in cui si mostravano le tendenze filosofiche dell’epoca che gli toccò in sorte, tentando di ridurle ad una sintesi feconda, tanto dal punto di vista speculativo quanto dal punto di vista pratico. La sua ricezione della tradizione filosofica era condizionata dalla sua prospettiva ermeneutica, un ambito configurato dalle idee considerate rilevanti all’epoca, limitato dalla conoscenza disponibile delle opere dei vari pensatori, e canalizzato dalle interpretazioni canoniche di questi lavori. Non potendo uscire da tale orizzonte ermeneutico, Antero si impegnò tuttavia per ampliarne i confini, nel tentativo di estendere a nuove dimensioni l’ambito dei riferimenti della cultura mentale portoghese. E così, perfino i limiti insuperabili della sua opera, ci forniscono una testimonianza dell’autenticità del suo pensiero, illuminando un esempio ancora in grado di inspirarci.

52. Giusto per fornire un esempio, Hans Vaihinger, durante la stessa epoca (1875-1878), scrive come dissertazione accademica l’opera Die Philosophie des Als Ob (che verrà pubblicata soltanto nel 1911), presentata come un «positivismo idealista» o un «idealismo positivista».

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Ragione estetica e sistema nel pensiero di Cunha Seixas

Il fare dell’arte filosofia e della filosofia arte sembra essere un’impresa temeraria. Il Pantiteismo nell’Arte, p. 28 Se l’idea della verità è la più bella di tutte, non può essere proprio lei l’oggetto dei nostri canti e del nostro più impegnato amore? Ivi, p. 31

Sebbene il pensatore pantiteista José Maria da Cunha Seixas1 non abbia scritto alcun esplicito trattato o saggio autonomo su

1. José Maria da Cunha Seixas (1836-1895) iniziò i suoi studi di filosofia e teologia nella Facoltà di Teologia dell’Università di Coimbra, ma ben presto si trasferì alla Facoltà di Diritto di quella stessa università. Divenne avvocato a Lisbona, pur continuando ad esercitare funzioni di professore di filosofia nell’Instituto de Ensino Livre della capitale portoghese. Avendo concorso al ruolo di professore nel Corso Superiore di Lettere (Lisbona), gli fu preferito un candidato vicino a quella tendenza positivista che dominava al tempo l’istituzione. Di fatto, il suo sistema filosofico, di cui rivendicava l’originalità, indicandolo con il nome di pantiteismo, si ispirava all’idealismo panenteista del Krausismo (che aveva cominciato a conoscere attraverso i suoi maestri della Facoltà di Diritto di Coimbra) e prendeva criticamente le distanze dal positivismo, assumendo un timbro spiccatamente spiritualista. Il pantiteismo di Seixas, più che un semplice gioco di radici greche, indica la genuina intenzione di non perdere, nell’affermazione dell’assoluto e dell’eterno, il

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tematiche estetiche, dedicò tuttavia a questi argomenti un’attenzione costante e una riflessione consistente, riconoscendo non solo l’importanza storica e culturale dell’arte, ma anche il significato ontologico e antropologico del sentimento del bello. Pur non essendo del tutto originali, le sue concezioni estetiche rivelano comunque un aspetto caratteristico che è importante chiarificare per farsi un’idea più completa sia dell’estensione e della portata sistematica del suo pensiero, sia del movimento, diversificato e al tempo stesso convergente, delle scienze filosofiche in Portogallo nell’ultimo quarto del XIX secolo. Ad ogni modo, al di là della riflessione più o meno articolata che Seixas dedica al problema estetico, è tutto il suo sistema e la sua concezione della filosofia che rivelano una profonda caratterizzazione estetica ed artistica, attribuendo a questi termini un significato più ampio e al contempo più originario. Il nostro autore non aveva alcun bisogno di presentare, in modo peraltro un po’ artificioso, l’esposizione del suo sistema filosofico in forma di verso, come fece, con scarsa ispirazione e senza alcuna brillantezza letteraria, nel volume chiamato Il Pantiteismo nell’Arte. In verità, la forma estetica dell’opera e il modo di pensare di Cunha Seixas si esprimono in mol-

relativo e il finito, e di non smarrire, nell’affermazione di Dio e dell’Uno, l’illimitata varietà degli esseri. Opere: A Phenix ou a immortalidade da alma humana, 1870; Principios Geraes de Philosophia da Historia, 1878; Galeria de Sciencias Contemporaneas, 1879; Ensaios de critica philosophica ou exposição do estado actual da Philosophia, 1883; O Pantitheismo na Arte, 1883; Estudos de litteratura e philosophia segundo o systema pantitheista, 1884; Principios Geraes de Philosophia, 1897; Princípios Gerais de Filosofia e outras Obras Filosóficas, Introdução de E. A. Soveral, Lisboa 1995. Principali studi sulla sua opera: P. Gomes, Cunha Seixas, Lisboa 1975; A. B. Teixeira, O pensamento filosófico de Cunha Seixas, “Revista Portuguesa de Filosofia”, Vol. 21 (1971), pp. 353-373; Id., O pantiteismo de Cunha Seixas, “Revista Portuguesa de Filosofia”, Vol. 51 (1995), pp. 427-460; AA.VV., O Krausismo em Portugal, Braga 2001.

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ti modi, indipendentemente dal giudizio che si può fornire della qualità letteraria dei suoi lavori in prosa o in verso, non potendo essere naturalmente comparata a quella di altri autori, anch’essi convinti poeti della ragione, come Antero de Quental e Leonardo Coimbra. Pensatore intenzionalmente sistematico, Seixas è uno dei grandi pensatori dell’idea filosofica di sistema, oltre ad essere un convinto sostenitore della natura architettonica e poetica della ragione. È quindi proprio partendo da questo aspetto che ci occuperemo della sua opera e della sua riflessione. Simili questioni, pur potendo sembrare meramente formali, e dunque di scarsa pertinenza, hanno cominciato tuttavia a risvegliare l’attenzione degli interpreti: oggi, infatti, non si presta meno attenzione alle condizioni e ai presupposti di enunciazione delle proposizioni filosofiche di quanto non ci si occupi degli enunciati stessi, essendo interessati sia alle strategia dell’argomentazione sia alle dottrine argomentate e sostenute, sia ai processi di costruzione ed elaborazione del pensiero sia ai sistemi già formati e terminati. Tutti questi aspetti potrebbero tranquillamente far parte di una retorica e poetica speculative, le quali, a loro volta, ci spingono verso il terreno ancora poco esplorato della poetica trascendentale dello spirito. 1. Se esistono filosofi mossi dalla volontà di sistema e dalla passione per la sintesi e l’armonia, Cunha Seixas è senza dubbio uno di essi. È sufficiente prestare attenzione alle ricorrenze, presenti nei suoi testi, di termini come sistema, sintesi, ordine e armonia, per confermare tale assunto. Ciò rappresenta il dichiarato proposito, la cosciente inspirazione e il metodo utilizzato dall’«ideorealismo» pantiteista, un sistema che il suo autore definisce come uno «spiritualismo armonico», e mediante il quale intende risolvere e superare, in una «sintesi universale», tutte le antinomie esistenti tra i sistemi filosofi-

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ci, tra i principi logico-metafisici della ragione e le esigenze dell’esperienza, così da rivelare, come in uno specchio e attraverso differenti visioni, le armonie del pensiero e dell’essere – una caratteristica mai raggiunta da nessun altro pensatore in modo soddisfacente. Ecco le parole di Seixas: «Lo spiritualismo attuale si accompagnava a teorie imperfette, incomplete, caotiche, e poco attraenti nel corso di questo secolo, nemico di alcune attuali conquiste, e anche anarchico in molte specialità […] Noi abbiamo raggiunto attraverso la sintesi queste teorie, complete e soddisfacenti, e con esse abbiamo ridotto all’ordine ciò che era fuori di esso […] Non vi era né un inventario né una classificazione delle idee ontologiche, che sono la base dello spiritualismo […] Noi presentiamo delle teorie nuove […] per incominciare a mettere ordine dove regnava soltanto l’anarchia […] Sebbene il pantiteismo sia ciò che vi è di più fedele allo spiritualismo, si tratta tuttavia di uno spiritualismo armonico. Il pantiteismo trovò disordinato lo spiritualismo: prese tutte le dottrine e le teorie, alcune nuove e altre quasi nuove, e impose un governo dove esisteva la disarmonia e il disordine2». La straordinaria – e forse eccessiva – proliferazione di quadri sinottici, di abbozzi o tavole di classificazione e di sistematizzazioni categoriali esibita nelle opere di Seixas, che potrebbe di primo acchito sembrare soltanto opera del talento di un magazziniere e classificatore di idee o il lavoro di uno spirito profondamente caratterizzato dal vizio del formalismo giuridico, considerata a partire da questo nuovo angolo visuale acquisisce tuttavia una dimensione insperata, rivelandosi l’espressione di una genuina intenzionalità architettonica e di un irreprimibile impulso per l’armonia. Come vedremo più

2. J. M. da Cunha Seixas, Princípios Gerais de Filosofia, Lisboa 1897, § 362, p. 182.

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avanti, tale armonia non possiede in Seixas un mero significato logico e formale, bensì un contenuto, un fondamento e un significato ontologico e reale. Anche considerando solamente l’idea di filosofia del pensatore portoghese, possiamo renderci conto dell’impulso armonico che la domina. La filosofia, infatti, è da lui concepita non solo come una scienza che abbraccia le ultime sintesi di tutte le scienze, raggruppandole in un tutto, e mostrando così l’universo legato in un congiunto unitario ed armonico di leggi e principi3, ma anche e soprattutto come la scienza che fornisce i principi armonici e che, per ciò stesso, è veramente la scienza sovrana (in quanto scienza che definisce i limiti e decide l’ordine dei fini) e architettonica (in quanto scienza dei principi o archai), in quel senso già attribuitole da Aristotele e confermato, più tardi, da Leibniz, Lambert, Kant e dai filosofi dell’idealismo tedesco. Scrive Seixas: «Era necessario, però, che vi fosse una scienza che, abbracciando le sintesi ultime di tutte le scienze, le raggruppasse in un tutto e mostrasse l’universo legato in un insieme armonico. Questa scienza è la filosofia, sintesi generale di tutte le altre4». A dispetto delle apparenze, non siamo qui di fronte ad una concezione positivista, in cui la filosofia, non avendo in se stessa contenuto e principi propri, si limiterebbe a sistematizzare i principi e le sintesi di altre scienze. Per Seixas, la filosofia possiede un fondamento e una verità proprie, ed è precisamente grazie a loro che questa disciplina può realizzare la sua funzione sistematizzante e armonica. È applicando i suoi assiomi o idee ontologiche alle sintesi delle scienze, legando queste mediante quelle, che porta a compimento l’armonia generale delle scienze e riflette, come in uno specchio, il sistema armonico 3. Cfr. J. M. da Cunha Seixas, O Pantitheismo na Arte, Lisboa 1883, p. IX. 4. J. M. da Cunha Seixas, Princípios Gerais de Filosofia (1897), § 299, p. 152.

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dell’universo. Nelle parole di Seixas: «La filosofia, del resto, è la scienza sovrana che, contenendo le leggi universali, domina grazie ad esse le altre scienze, unendole in modo armonico5». 2. Questa vocazione e natura architettonica della filosofia si comprende più agevolmente gettando uno sguardo sulla nozione di sistema discussa dal nostro autore. Secondo Seixas, un sistema filosofico deve essere, simultaneamente, un sistema aperto, conciliatore, complesso e completo: deve essere, in sostanza, armonico – una parola che per il nostro filosofo possiede una risonanza e una pregnanza molto speciali. Analizziamone dunque brevemente le linee generali. Il sistema deve essere aperto. È avvalendosi di una delle tradizionali metafore in cui si articola la nozione filosofica di sistema – la metafora architettonica – che Seixas scrive: «L’autore sa che un sistema scientifico è un insieme di leggi universali che formano, come un’unità, la piramide di un vasto edificio delle leggi di tutte le scienze, senza tuttavia fissare il sistema scientifico, giacché l’unico vero sistema è quello che lascia ampi margini ai progressi della scienza e che, in qualche modo, li prepara e li prevede6». I principi sistematici non hanno perciò soltanto una mera funzione di ordinazione e classificazione delle conoscenze già acquisite o possedute. Sono principi dinamici di sistematizzazione che devono, di conseguenza, possedere un potenziale euristico, capace di promuovere la scoperta e l’invenzione di nuovi saperi, assicurando così il progresso e l’estensione della conoscenza. In questo senso, una filosofia genuinamente sistematica non è una filosofia dogmatica. D’altro canto, è risaputo quanto

5. Ivi, § 300, p. 152. 6. Ivi, p. XLV.

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l’autore rifiutasse tutte le forme di dogmatismo, nelle quali scorgeva la fissazione e assolutizzazione di verità parziali, e ciò a dispetto delle loro rispettive caratteristiche. L’autentico sistema filosofico deve, secondo Seixas, essere capace di conciliare tutte le antinomie, non solo quelle dei diversi sistemi, bensì anche quelle che possono sorgere tra le esigenze della ragione e i fatti dell’esperienza, e, al limite, tra il pensiero e la realtà. Il pantiteismo, nell’opinione del filosofo portoghese, rivela proprio questa qualità: «È questa una delle proprietà del mio sistema, che celebra con tanto amore le scoperte che più sembrano condurre al materialismo, come le valutazioni critiche che si mostrano favorevoli ai sistemi spiritualisti […] Il metodo consiste […] nella congiunzione armonica dell’esperienza e della ragione. Non vi sono qui esclusioni né dogmatismi. All’esperienza spetta l’ampia missione di presentarci i fatti: alla ragione compete l’unità di leggi universali e di principi rigorosi, caratterizzati dall’evidenza7». L’idea di unità è intimamente legata alla nozione di sistema. Non tutte le forme di unità, però, restituiscono il concetto di sistema di Cunha Seixas. L’unità è il primo dei suoi tre principi metafisici, e corrisponde all’essere e all’esistenza. In quanto tale, rappresenta tuttavia un concetto vuoto, in grado di acquisire un contenuto soltanto in un secondo momento, dispiegandosi nel tempo e nello spazio, manifestandosi e sviluppandosi, e assumendo le forme della molteplicità e della diversità. Il terzo momento di questa dialettica triadica è quello dell’armonia, che consiste nella sintesi dell’unità e della diversità, dell’essere indeterminato e della sua temporale e varia manifestazione. Un’effettiva unità, secondo Seixas, è soltanto un’unità armonica, che si ottiene nel corso di questo processo triadico. È per questo che la vera unità – l’unità armonica – 7. Ivi, p. XLVI.

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può essere solamente un’unità che integri la complessità e che non annulli ma assuma in sé la diversità, la differenza e la molteplicità. In breve, l’effettiva unità è, propriamente parlando, armonia. L’armonia è allora l’unità sviluppata, la sintesi della molteplicità espressa. Anche la totalità e la completezza costituiscono delle tracce per cogliere la verità del sistema. Esse presuppongono, innanzitutto, la capacità di superare l’esclusivismo delle visioni parziali e dogmatiche, rivelandosi in particolare nella pregnanza, ampiezza e fecondità esplicativa o comprensiva del sistema. Con le parole del nostro pensatore: «Quando un sistema lascia molto a desiderare, quando lo spirito si sente serrato dentro circoli ristretti, il sistema è necessariamente falso. Quando, al contrario, il sistema allarga la sfera del pensiero ed esibisce parametri di grandezza uguali a quelli che lo spirito intravede per comprendere l’universo, il sistema è veritiero». Il sistema deve essere dunque armonico. Il principio dell’armonia, la cui natura e ampiezza analizzeremo più avanti, essendo il criterio per giudicare la pertinenza filosofica di un sistema o di una teoria, rappresenta inoltre uno stimolo per la riflessione, un principio per correggere l’esclusività e parzialità di tutti i punti di vista incompleti, e quindi falsi o errati. Il principio dell’armonia è in grado allora di verificare la pertinenza dei fatti in esame, rivelandosi uno stimolo dell’intelligenza e un indicatore dei limiti della nostra intelligibilità. Scrive Seixas: «Se l’armonia è […] la cuspide dell’edificio, non appena essa scompare, comincia il disordine dell’errore o incomincia l’ambito dello sconosciuto. Quando la scienza urta con la disarmonia, deve tornare sui suoi passi e verificare se la nozione del tutto sia imperfetta o l’analisi errata; se giunge alla stessa conclusione e non si imbatte in alcuna armonia, è

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certamente entrata nella regione dell’incognito e dello sconosciuto8». Le caratteristiche della nozione di sistema appena presentate costituiscono le linee guida di quella che potremmo chiamare l’economia della ragione. Essa è retta dal seguente assioma: ottenere il massimo di fecondità esplicativa con il minimo dispendio di leggi o di principi. Senza dubbio, la ragione ricerca la massima semplicità e unità delle leggi, e Seixas è ben cosciente di tutto ciò quando scrive: «Tutte le verità si riducono a poche leggi e si fondano nell’infinito, suprema unità9». Non è tuttavia sufficiente che un sistema sia soddisfacente e costruito in modo da poter rendere ragione soltanto dei fatti o dei fenomeni che intende spiegare. A parità di circostanze, infatti, sarà più veritiero quel sistema che, garantita l’intima coerenza ed evidenza dei propri principi e la loro maggiore economia, riveli maggiore pregnanza, fecondità, ampiezza ed estensione nell’applicazione di questi stessi principi. Si avverte come il lavoro della ragione, anche per ciò che riguarda il piano del sapere scientifico, non sia guidato quindi solo da motivazioni stricto sensu logiche, ma sia mosso anche, e forse più profondamente, da interessi di ordine estetico, vale a dire dall’esigenza di piena soddisfazione della ragione e di una più ampia intelligibilità. La logica di Seixas non è una logica del semplice, del lineare e dell’omogeneo, retta dall’astratto principio di identità, ma una logica della complessità e della realtà effettiva, guidata non tanto dal principio di ragion sufficiente, ma dal principio della migliore e più piena ragione.

8. J. M. da Cunha Seixas, Galeria de Sciencias Contemporaneas, Porto 1879, p. 213. 9. Ivi, p. 214.

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3. Kant fu il primo filosofo a mostrare chiaramente come nell’intenzione sistematizzante della filosofia e nella sua idea filosofica di sistema si nascondesse l’indiscutibile dimensione estetica e teleologica della ragione. Fu il filosofo tedesco, infatti, ad identificare per primo la natura dei principi di sistematizzazione, riuscendo anche ad ordinarli e a sottometterli al principio trascendentale della finalità (Zweckmässigkeit), attribuito ad una specifica facoltà dello spirito: la facoltà del giudizio riflettente (reflektierende Urteilskraft). Kant dimostrò che la nozione di sistema e l’impresa di sistematizzazione, che costituiscono il telos di tutta l’attività della ragione nella sua ricerca dell’incondizionato racchiuso in tutte le sue sintesi, richiede principi armonici e teleologici. Il lavoro di sistematizzazione filosofica delle serie dei fenomeni nelle idee e dell’illimitata molteplicità delle leggi particolari della natura in principi trascendentali della ragione costituisce un lavoro che possiede tutti gli ingredienti di un’esperienza estetica, per quanto sia remota o dimenticata nell’archeologia della coscienza. Chiarificare questa dimensione estetica del sapere scientifico e filosofico è uno dei temi centrali (se non l’argomento principale) della sua Critica del giudizio, come si può facilmente comprendere dai densi paragrafi della lunga introduzione che precede l’opera. Ma la percezione del problema, unita ai presupposti fondamentali della sua soluzione nell’orizzonte della filosofia critica, erano già sufficientemente indicati in due luoghi della prima critica, precisamente nell’Appendice alla Dialettica Trascendentale e nel capitolo sull’Architettonica della Ragion Pura. Fu un peccato che i grandi pensatori dell’idealismo post-kantiano, dai quali Seixas riceve, attraverso la mediazione di Krause, la sua nozione di sistema, abbiano dimenticato o non abbiano pienamente compreso la lezione dell’autore della Critica del giudizio.

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Secondo il filosofo critico, vi è un piacere che lo spirito sperimenta – sicuramente, un piacere riflessivo, ma non per questo meno piacevole – quando si accorge che le leggi della natura si sistemano le une con le altre, subordinandosi vicendevolmente in maniera spontanea; in questo modo, la necessità razionale di una comprensione al tempo stesso più ampia, specifica e semplice, trova una corrispondenza nella capacità della natura di lasciarsi interpretare come un sistema di leggi e di serie, di generi e di specie, quasi corrispondesse all’intenzione architettonica dello spirito. Scrive Kant: «Il raggiungimento di ogni intento è collegato al sentimento del piacere […] La scoperta unificabilità di due o più leggi empiriche eterogenee della natura sotto un solo principio che le comprende entrambe è il fondamento di un piacere assai rilevante, spesso perfino di un’ammirazione, addirittura di un’ammirazione tale che non cessa anche quando il suo oggetto ci è abbastanza noto. Certamente noi non proviamo più un piacere avvertibile nell’afferrabilità della natura e nella sua unità dell’articolazione in generi e specie […] ma senz’altro questo piacere c’è stato a suo tempo, e solo perché senza di esso non sarebbe possibile la più comune esperienza, è andato gradualmente confondendosi con la semplice conoscenza10». Cunha Seixas, che si occupò spesso della filosofia di Kant, con particolare riguardo all’Estetica e all’Analitica trascendentali, generalmente con un intuito critico, ma rivelando quasi sempre una grande superficialità ermeneutica, non lesse di certo quelle parti dell’opera del filosofo critico (cui abbiamo appena fatto riferimento) che l’avrebbero aiutato a chiarire e ad approfondire la sua stessa nozione di sistema, la natura dei principi sistematici e della propria necessità di sistema, e a realiz-

10. I. Kant, Kritik der Urteilskraft; trad. it., Critica del giudizio, a c. di M. Marassi, Bompiani, Milano 2004, pp. 45-47.

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zare anche il suo genuino intento sistematizzatore. A questo proposito, Kant sarebbe stato, rispetto a Krause, certamente un maestro più illuminante. Nonostante ciò, la concezione di sistema di Seixas lascia comunque trasparire delle dimensioni che oltrepassano l’ambito logico, epistemologico o metafisico, consentendo quindi un confronto con la concezione kantiana. Il filosofo pantiteista è cosciente ed è al tempo stesso geloso della novità dei suoi principi armonici, nei quali riconosce la propria ispirazione krausista11 e, in modo più vago e distante, quella dei filosofi dell’idealismo tedesco. Seixas sottolinea, ad ogni modo, la differenza tra le sue sintesi e quelle di Kant, mettendo in risalto la propria originalità e superiorità, e dimostrando inoltre l’ingenua fiducia che il filosofo tedesco poneva nel potere di sistematizzazione logica delle categorie della ragione, prese incondizionatamente per valide anche in termini oggettivi ed ontologici. Vale la pena citare le parole con cui il pensatore portoghese conclude una frettolosa, sommaria ed incompleta revisione delle sintesi kantiane: «Si vede che non c’è alcuna idea nella classificazione di Kant che non sia presente nella nostra, seppur in modo molto diverso; non si vede né si poteva vedere inoltre l’ombra di un’imitazione: sarebbe del resto impossibile, perché le basi del kantismo e del pantiteismo sono molto diverse e poco somiglianti. Confrontando così la nostra classificazione con la critica che abbiamo fatto di quella di Kant, la superiorità delle nostre sintesi è manifesta. Abbiamo mostrato che Kant, partendo da basi limitate, vorrebbe sempre colmare le lacune che caratterizzano i suoi passaggi: in ogni momento scorge il suo precipizio e tenta di riempire le voragini per proseguire. Nella nostra filosofia non vi sono questi timori, e non

11. J. M. da Cunha Seixas, Princípios Gerais de Filosofia (1897), § 272, p. 139.

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appaiono neppure simili lacune e voragini: tutto procede serenamente da basi sicure verso altri scenari, ai quali si giunge naturalmente e senza gli enormi errori di Kant. Questo cammino aveva spezzato la sua catena, mentre proseguiva e aggiustava anelli che non si potevano legare a quelli precedenti: noi non abbiamo queste difficoltà, perché la nostra catena non si spezza né necessita di anelli altrui per rimanere solida12». Ad ogni modo, la prossimità fra i principi armonici di Seixas e i principi architettonici di Kant è flagrante, e il pensatore portoghese se ne sarebbe accorto se avesse letto nella sua interezza la Critica della ragion pura. In effetti, quello a cui fa riferimento il principio dell’essere (dell’indeterminazione o dell’unità), corrisponde al principio kantiano dell’unità (chiamato anche principio dell’uniformità o omogeneità), il principio della manifestazione (o della diversità) corrisponde al principio kantiano della specificazione (o della varietà), e, infine, il principio dell’armonia (dell’ordine, della sintesi) traduce il principio kantiano dell’affinità (o continuità). Entrambi i filosofi concordano nell’affermare che i due primi principi si bilanciano e, per così dire, si limitano e controllano vicendevolmente, mentre il terzo costituisce la sintesi dei primi due13. Come scrive lo stesso Seixas: «Tutti gli esseri possiedono un’unità: ogni essere è un uno: ciascuno possiede una forma o caratteristica peculiare ed è sottomesso alla legge dell’ordine. L’unità è il tutto, distinto da ogni altro essere. Questo tutto riveste una forma, che comprende i modi di essere, le qualità dell’oggetto, la varietà delle sue manifestazioni. Queste due leggi – unità e forma – rimarrebbero incomplete, se non vi

12. Ivi, § 271, p. 139. 13. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft; trad. it., Critica della ragion pura, a c. di G. Gentile, intr. di V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari 2000 (10a ed.), pp. 416-417

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fosse una legge superiore, che è quella dell’ordine […] Queste tre leggi – unità, forma e ordine – si possono dare tanto negli esseri materiali quanto in quelli spirituali14». Secondo Kant, i principi sistematici hanno una natura peculiare meramente logica e soggettiva. Soddisfano una necessità della ragione, e ciò basta a legittimarli, lasciando in sospeso la questione di sapere se, oltre a questo, siano anche in possesso di una rilevanza ontologica corrispondente alla costituzione del proprio essere, della realtà o della natura. La loro funzione è meramente metodologica, e serve a regolare l’attività della ragione, a titolo di principi ipotetici, per la sua economia e amministrazione immanente, in modo che nessuno sia legittimato a considerarli come principi costitutivi della realtà stessa. Assumerli come principi costitutivi o oggettivi significherebbe infatti modificare la funzione di dinamizzazione dell’attività razionale, che è propriamente ciò che li caratterizza. Diventerebbero, in tal caso, principi trascendenti e dogmatici, come si legge in un passaggio della prima Critica: «L’unità sistematica o razionale della conoscenza molteplice dell’intelletto è un principio logico per aiutare con le idee ad andare avanti, là dove l’intelletto da solo non giunge a regole, e a procurare insieme, alla diversità di queste regole, un accordo sotto un principio (sistematico) e quindi una coerenza, per quanto ciò è possibile. Ma se l’indole degli oggetti o la natura dell’intelletto, che li conosce come tali, sia in sé determinata per un’unità sistematica, e se questa si possa postulare in certa misura a priori e senza guardare a un tale interesse della ragione, e dire quindi: tutte le conoscenze possibili dell’intelletto (tra cui le empiriche) hanno un’unità razionale e sottostanno a principi comuni, da cui possono esser ricavate, nonostante la loro diversità: questo sarebbe un principio trascendentale

14. Cfr. J. M. da Cunha Seixas, O Pantitheismo na Arte (1883), p. XXIII.

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della ragione, che renderebbe necessaria l’unità sistematica, non solo soggettivamente e logicamente, come metodo, ma oggettivamente15» Lo stesso Kant, tuttavia, sembra esitare rispetto alla natura di questi principi, ammettendo una validità oggettiva ma indeterminata, come si può notare in un altro passaggio della Critica: «Ciò che in questi principi è degno di nota, e che del resto soltanto c’interessa, è questo: che paiono essere trascendentali, e, quantunque contengano semplici idee per l’osservanza dell’uso empirico della ragione, alle quali questo può conformarsi, per così dire, soltanto asintoticamente, cioè in modo solo approssimativo, senza poterle mai raggiungere, esse tuttavia, come proposizioni sintetiche a priori, hanno un valore oggettivo, ma indeterminato, e servono di regola all’esperienza possibile, e sono in realtà adoperate con buona fortuna anche nell’elaborazione di essa, come principi euristici16». Riferendosi proprio al principio della continuità, una variante del principio dell’affinità, Kant scrive: «Il metodo di ricercare secondo un tal principio un ordine della natura, e la massima di considerare quest’ordine come fondato in una natura in generale, senza determinare dove e fin dove, è certamente un legittimo ed eccellente principio regolativo della ragione; il quale, per l’altro, come tale, va troppo in là perché l’esperienza e l’osservazione possano pareggiarlo; tuttavia senza determinare nulla, non fa che presegnare loro la via all’unità sistematica17».

15. I. Kant, Critica della ragion pura (2000), p. 410. 16. Ivi, p. 418 17. Ivi, p. 421.

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4. Cunha Seixas non possedeva però le cautele critiche di Kant, e le sue riflessioni erano naturalmente ben lungi dal raggiungere la densità dei passaggi citati della Critica della ragion pura o della Critica del giudizio. Il portoghese rivendica per i suoi principi armonici e sistematici una dimensione al tempo stesso logica e ontologica. Esibendo in una sintesi armonica tutto il sapere umano, la filosofia aspira a riprodurre ugualmente, in una sintesi viva ed organica, il proprio stesso universo «come in uno specchio universale e unitario18». Di conseguenza, e a dispetto della nuance indicata dalla metafora speculare, per Seixas le leggi armoniche sono simultaneamente soggettive e oggettive, esprimendo un’esigenza dello spirito e della ragione e rispecchiando o riflettendo la struttura e la costituzione dell’essere stesso. Se le cose non stessero così, esisterebbe un’antinomia, la più fondamentale e importante di tutte, che il sistema non potrebbe armonizzare – l’antinomia tra il pensiero e l’essere. Diamogli la parola: «Ognuna [di queste leggi: la legge dell’essere (o dell’unità), la legge della manifestazione (o della diversità), e la legge dell’armonia] deve manifestare attraverso una forma semplice, propria di una legge e al tempo stesso complessa, idonea ad una sintesi, le realtà dello spirito e le realtà dell’universo. È necessario perciò formulare queste tre leggi nel modo più perfetto possibile, esplicando nel modo migliore i fatti complessi dell’universo. È necessario presentare, in altre parole, l’espressione o la formula di ogni legge per indicare nel modo migliore il governo del pensiero e il governo dell’universo, visto che il pensiero riflette l’essere e l’essere o la realtà hanno nel pensiero ontologico il loro specchio fedele. In questo modo risulta palese quello che abbiamo sempre sostenuto: noi non perdia-

18. J. M. da Cunha Seixas, Princípios Gerais de Filosofia (1897), § 300, p. 152.

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mo il nostro tempo con astrazioni inventate, ma con le leggi stesse dell’universo19». Affermando senza ambiguità la natura ontologica e oggettiva dei suoi principi armonici, Seixas non si dimentica però di sottolineare anche la loro dimensione soggettiva, riconoscendo il loro corrispondere ad un’esigenza e necessità dello spirito. Sono numerosi i passaggi della sua opera in cui tale aspetto è messo in risalto. Eccone alcuni: «Lo spirito esige sempre l’unità e una classe dove raccogliere l’essere. Lo spirito, inoltre, vuole che non vi siano antinomie, e che […] si annullino quelle trovate20». Lo spirito «non si accontenta della molteplicità: ricerca l’unità; non si accontenta delle unità: ricerca le sintesi21». Solamente l’armonia pacifica soddisfa e «fa riposare lo spirito, ricercando le esperidi della verità, con le quali sogna22». «Ottenendo l’armonia, lo spirito non procede nel mondo dei contingenti, perché non concepisce una legge superiore a quella dell’armonia, la quale, abbracciando completamente tutti gli elementi precedenti, non lascia allo spirito contraddizioni, lacune o antinomie che non richiedano un altro principio. Elevandosi all’armonia, si riposa: lo spirito non ha altro da chiedere, giacché l’armonia gli si presenta come una meta finale23». Al pari di Kant e del suo contemporaneo Nietzsche, anche Seixas sembra aver compreso l’esistenza di una dimensione estetica in filosofia che, nel suo compito essenziale di categorizzazione del reale e di sistematizzazione categoriale sotto principi razionali, non risponde soltanto a un impulso logico 19. Ivi, § 264, p. 135. 20. Ivi, § 263, p. 134. 21. Ivi, § 144, p. 75. 22. Ivi, p. 131. 23. Ivi, § 263, p. 135.

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di conoscenza guidato dal sentimento della verità, ma è spinta anche, e forse più profondamente, da un istinto estetico, dal sentimento della bellezza, ossia da un impulso che è, nella sua dimensione metafisica e antropologica, una variante dell’idea e dell’esigenza di armonia. La spinta verso l’armonia, l’ordine e la sintesi rivela un disegno e un interesse insopprimibile della ragione, e la soddisfazione di questo interesse e di questa intenzione dà origine a un piacere dello spirito che rappresenta un genuino piacere estetico. Seixas, inoltre, affermando la natura oggettiva e ontologica dei suoi principi armonici, non smette di riconoscere in essi, oltre alla funzione classificatoria e sistematizzante, anche la potenzialità euristica, regolativa e dinamica del lavoro speculativo e inventivo dello spirito, tanto nella scienza quanto nella filosofia. Le tre leggi armoniche dello spirito citate in precedenza restituiscono allora anche la fenomenologia dell’investigazione e attività razionale, scientifica o filosofica, un’attività che, partendo da un’unità vaga e indeterminata, procede nell’analisi del diverso fino ad una sintesi piena e cosciente. Come scrive il pensatore portoghese: «Tutta l’analisi è preceduta da una sintesi vaga, confusa e mal definita. Tale sintesi, che appare per prima, caratterizza la legge logica di questo sistema. La sintesi razionale e cosciente è quella che si manifesta nelle terza legge. Universo significa un tutto unico: varietà e unità. L’ordine universale non è soltanto la distribuzione degli esseri in serie: è la totalità di queste serie e l’unità dell’insieme24». 5. Come abbiamo già scritto, per Cunha Seixas l’armonia possiede un fondamento ontologico nell’ordine proprio dell’essere, il quale, a sua volta, ha la sua corrispondenza sul piano ra-

24. J. M. da Cunha Seixas, O Pantitheismo na Arte (1883), p. XXXVI.

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zionale dei principi logici e sulla natura stessa, in quanto esplicata e compresa attraverso le leggi della scienza. L’armonia è il principio che regge tutto il sistema della natura, dello spirito, della società, li traduce nell’unità e nella diversità, nell’essere e nell’evoluzione. Espressioni come ordine, bellezza, amore sono nomi che designano la loro manifestazione in differenti domini, ad esempio nel pensiero, nel sentimento estetico e nella convivenza sociale. Scrive il nostro filosofo: «L’armonia, terza legge delle cose, legge suprema dell’unione degli esseri, è il loro ordine nell’universo e nelle innumerevoli serie dell’evoluzione creatrice25». In ultima istanza, tuttavia, essa è radicata nella fonte stessa dell’essere, ossia nell’assoluto, nell’infinito, in Dio, rappresentandone la sovrana manifestazione, il suo riflesso più esplicito. Dio rappresenta in effetti per Seixas la vera fonte dell’armonia, ed è anzitutto nella trinità divina – una verità la cui pertinenza filosofica è autonoma, non riducendosi alle rispettive formulazioni teologiche – e nell’economia trinitaria dei principi armonici (essere, manifestazione e armonia), attribuiti, rispettivamente, a ciascuna delle tre persone divine, che egli si esprime. Il sistema pantiteista, che intende dimostrare la presenza divina in tutte le cose (al contrario del panteismo che, sostenendo che tutto è Dio o che ogni cosa è in Dio, ha dissolto ogni diversità nell’unità indifferenziata dell’unica sostanza divina), è ovviamente caratterizzato in profondità dal sentimento della presenza del divino nel mondo. Scrive Seixas: «Dio rappresenta per noi il centro, il principio dei principi, e si presenta non come un essere chiamato, per così dire, da fuori, ma all’interno del mondo, delle idee e delle cose come realtà suprema,

25. Ivi, p. XXVII.

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rispetto a cui tutto gli è subordinato in virtù di un legame indissolubile, come il raggio è legato al centro del cerchio26». Forse per questo motivo, il nostro autore considera superflua la dimostrazione dell’esistenza di Dio. Se vi è però nel sistema di Seixas una prova dell’esistenza di Dio, è quella determinata dall’esigenza di pienezza e armonia, esigenza che solo l’assoluto è in grado di soddisfare. L’ispirazione estetica si rivela allora ben presente nella teodicea di Seixas: «La funzione dell’assoluto è la sua funzione unitaria […] Soltanto nell’assoluto vi è una verità intera: tutto appare relativo: deve esistere una realtà suprema. Questa realtà è l’espressione suprema dell’armonia universale27». Questo Dio così prossimo ed intimo alle cose, che rappresenta lo stesso essere da loro manifestato, è al contempo un Deus absconditus, non detto, espresso o delimitato da nessuno degli esseri finiti in cui si rivela. Nelle parole di Seixas: «L’assoluto è totalmente impenetrabile nella sua natura: è un Deus absconditus. Qualsiasi tentativo che si faccia per penetrare l’insondabile sarà temerario, destinato all’errore […] L’assoluto non si lascia figurare: le immagini, con cui la nostra povera intelligenza tenta di rendere, per così dire, visibile tale realtà, non sono altro che illusori miraggi28». Impenetrabile nella sua natura, l’assoluto si consegna tuttavia alla visione, lasciandosi intravedere nella diversità degli esseri che la scienza umana studia e classifica e che la filosofia sistematizza nelle sue sintesi. Deus absconditus, l’assoluto è così per Seixas anche un Deus vivus, che si rivela nelle sue manifestazioni, ossia nei fatti indiscutibili testimoniati dalla scienza

26. J. M. da Cunha Seixas, Princípios Gerais de Filosofia (1897), § 352, p. 178. 27. J. M. da Cunha Seixas, O Pantitheismo na Arte (1883), p. XXXVI. 28. J. M. da Cunha Seixas, Princípios Gerais de Filosofia (1897), § 353, p. 179.

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umana. L’universo, di conseguenza, nella sua diversità ed evoluzione, se non può rappresentarne l’essenza, è comunque la manifestazione e la rivelazione stessa di Dio. Se abbiamo consapevolezza dell’esserci dell’assoluto soltanto attraverso le sue manifestazioni, la verità, il bene e la bellezza saranno i suoi attributi. Tuttavia, la più diretta e, in qualche modo, la più visibile delle manifestazioni dell’assoluto è quella che si dà, oggettivamente, nelle diverse forme dell’arte e, soggettivamente, nel sentimento del bello. Questo sentimento rappresenta nell’uomo il testimone più qualificato dell’essenza divina, che si ritrae ancora sotto l’apparenza delle forme artistiche. Con le parole di Seixas: «L’infinito si individua nell’arte: il bello rimane un riflesso dell’essenza divina rivelata al mondo, individualizzata nell’opera d’arte: essa chiama sempre alla sua origine e fa rammemorare l’origine da cui proviene: l’infinito, con il suo tipo nello spirito, si rivela immediatamente nell’opera d’arte e ci dona un sentimento di piacere che non ha alcuna relazione con gli altri piaceri che i sensi ci offrono, perché è un piacere sui generis, specialissimo29». All’arte e al sentimento della bellezza è riconosciuto inoltre un privilegio nei confronti della scienza e del sentimento della verità, della morale e del sentimento del bene e della giustizia. Questa scelta evoca un topos già sviluppato da Platone nel Fedro. Ad ogni modo, a dispetto di questo privilegio, l’arte si mantiene ancora nel solo dominio dell’apparenza: non ci fornisce direttamente la luce, ci permette però di formarci un’idea, un riflesso o un’ombra da lei proiettata. È proprio con metafore ottiche e fototropiche che Seixas introduce questa riflessione: «Il bello attrae sempre, al pari della luce. L’ombra segue sempre la luce o nasce dalla luce stessa; ma rimane

29. J. M. da Cunha Seixas, Galeria de Sciencias Contemporaneas (1879), pp. 152-153; ivi, p. 166.

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sempre nell’ombra […] Le realtà che scorgiamo con i sensi sono realtà apparenti; il reale resta velato, oscuro, poiché tutta l’essenza, in generale, si sottrae30». La teologia di Seixas recupera uno dei motivi centrali della teologia negativa, una riflessione che (ispirata forse dall’esperienza mosaica nel Sinai), a partire da Plotino e Dioniso, lo Pseudo-Areopagita, Nicola Cusano e oltre, ha sempre riconosciuto il linguaggio estetico e metaforico come il più adeguato per esprimere l’inesprimibile e l’ineffabile, proprio perché libero e cosciente della sua condizione di mera apparenza. L’ineffabile è allora ciò che permette di parlare, e l’inesprimibile è ciò che consente il moltiplicarsi delle espressioni. Non dovrebbe perciò sorprendere l’idea che, fra gli attributi riconosciuti della divinità, a risaltare siano le proprietà armoniche: «Come fonte di armonia vi sono in Dio questi attributi: la verità: la bontà: la bellezza: i primi attributi esprimono la sua natura: i secondi la sua manifestazione: i terzi la sua armonia31». Manifestazione, espressione e partecipazione sono termini frequenti nel vocabolario di Seixas, delle parole che rinviano ad un’ontologia neoplatonica, dando vita e consistenza sia alla sua ontoteologia evoluzionista ed espressionista, sia ad un’idea di evoluzione concepita in un’accezione metafisica. Si pone qui senza dubbio l’importante e classico problema di spiegare come si possa, al tempo stesso, salvare la trascendenza dell’assoluto e concepire, salvaguardando la rispettiva differenza ontologica, la relazione dell’assoluto con le sue manifestazioni. Il pantiteismo di Seixas non intende certo risolvere il problema della creazione, da lui considerato un’incognita insolubile32. Tuttavia, prendendo espressamente le distanze da un pantei30. J. M. da Cunha Seixas, O Pantitheismo na Arte (1883), p. XXXVII. 31. J. M. da Cunha Seixas, Princípios Gerais de Filosofia (1897), § 143, p. 74. 32. J. M. da Cunha Seixas, O Pantitheismo na Arte (1883), p. XXXV.

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smo che riduce tutto a Dio, il nostro pensatore vuole comunque mantenere formalmente una differenza tra Dio (l’assoluto, l’infinito) e gli esseri mondani e finiti. Ma è veramente in grado di raggiungere il suo intento? Come abbiamo già sottolineato, nella formula che riassume il progetto pantiteista – Dio in tutto – è presente la chiara volontà di valorizzare il finito, la diversità, la manifestazione. Ma cosa possiamo sapere della manifestazione in quanto tale se non sappiamo nulla né dell’essenza né delle modalità con cui si manifesta? Se l’analogia non è sufficiente ad istituire una proporzione fra il finito e l’infinito, e se quest’ultimo ci rimane occulto nella sua essenza, come possiamo sapere che ciò che cade nel campo della nostra comprensione corrisponda alla sua manifestazione? Il sistema di Seixas, d’altro canto, si confronta con un paradosso analogo a quello già affrontato da Descartes: sebbene non si possa comprendere l’infinito, non vi è però nulla, ivi compreso il finito, che si possa cogliere senza il presupposto incarnato dall’idea di infinito. Come scrive il filosofo nei suoi Principi Generali di Filosofia, se tutto il pensiero si esprime come un giudizio, e se non c’è giudizio senza che l’idea di essere sia implicata, è proprio l’idea dell’essere ad indicare l’assoluto; se le cose stanno così, «essendoci in tutti i nostri pensieri e in tutti i nostri giudizi il segnale della verità, noi stiamo affermando in ogni momento l’assoluto, poiché in ogni momento pensiamo33». Oppure, come si legge in un altro luogo: «Quando pensiamo, il nostro giudizio, implicando l’esistenza, presuppone Dio34». Nel tentativo di comprendere in modo adeguato la nozione di sistema e la concezione sistematica della filosofia di Cunha

33. J. M. da Cunha Seixas, Princípios Gerais de Filosofia (1897), p. 177. 34. J. M. da Cunha Seixas, O Pantitheismo na Arte (1883), p. XXXV.

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Seixas siamo stati condotti a confrontare le riflessioni del portoghese con quelle di Kant, un altro grande pensatore dell’architettura della ragione. Abbiamo analizzato le loro affinità e divergenze e, alla luce del confronto, è stata messa in risalto tanto l’ingenuità del filosofo portoghese, quanto la sua genuina intuizione di uno dei più importanti problemi filosofici. Abbiamo messo inoltre in evidenza la caratteristica estetica della concezione di sistema di Seixas, indicata da numerosi indizi, riconoscendo come tale aspetto tocchi alcuni nodi essenziali del suo stesso sistema filosofico: la concezione di scienza e di filosofia, l’ontologia, la filosofia della storia, la cosmologia e la teodicea. Questa caratteristica del pensiero di Seixas documenta un’attitudine filosofica tipica della riflessione portoghese contemporanea: lo possiamo trovare, infatti, pur con aspetti e matrici differenti, anche in Antero de Quental, e poi in autori quali Leonardo Coimbra e José Marinho. Tale aspetto testimonia il rifiuto di cristallizzarsi nelle antinomie, alla ricerca di una sintesi e di un’armonia in cui si possano ascoltare tutte le voci dell’universo, dove trovino un eco tutte le aspirazioni della natura e dello spirito, e in cui ottengano una risposta tutti i sentimenti e le facoltà degli uomini.

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Eça de Queirós e la filosofia, o l’artista in quanto pensatore

Di lui si può ben dire che è stato […] il discepolo di tutte le Filosofie – cometa che erra attraverso le idee, imbevendosi di esse, ricevendo da ognuna un sovrappiù di sostanza, e in ognuna lasciando però qualcosa del calore e dell’energia del suo movimento pensante. Eça de Queirós, A Correspondência de Fradique Mendes, Lello & Irmão, Porto (s. d.), pp. 67-68

1. A prima vista, il titolo proposto non sembra promettere nulla di particolare, e la stessa bibliografia queirosiana non smentisce certo questa percezione1. Tuttavia, se analizzata 1. Eça de Queirós (Póvoa de Varzim, 1845 – Parigi, 1900), romanziere, narratore, memorialista, è il principale rappresentante del realismo nella letteratura portoghese. Studiò Diritto all’Università di Coimbra, avendo come compagni Antero de Quental e Teófilo Braga. Terminato il corso, iniziò a lavorare come avvocato a Lisbona, pubblicando al contempo racconti e cronache in vari giornali. Collaborò con Ramalho Ortigão ne As Farpas (1871-72), un foglio di critica sociale e di costume. Nel 1871 partecipò a Lisbona alle Conferenze Democratiche organizzate da Antero de Quental: prima che le conferenze venissero proibite, proferì il suo intervento su O realismo na arte. In questa conferenza, Eça tracciò il suo programma estetico-letterario, pur senza esaurirlo, essendo riconoscibili nella sua opera anche i tratti propri del romanticismo e dell’idealismo, quasi si sforzasse di presentare la «realtà sotto il manto diafano della fantasia», come egli stesso scrisse. Nel 1873 incominciò la sua carriera diplomatica: divenne

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con attenzione, l’opera di Eça ha molti punti in comune con la filosofia, e a vari livelli2. Pur occupandoci in questo saggio

console, rispettivamente, all’Avana, a Newcastle e a Bristol, e, infine, dal 1888, a Parigi. La maggior parte della sua produzione letteraria fu composta nel periodo in cui risiedeva fuori dal Portogallo, sebbene i suoi temi e i suoi personaggi siano quelli tipici della società portoghese. Eça continuò a collaborare intensamente con giornali e riviste portoghesi e brasiliane, e nel 1890 creò da Parigi la Revista de Portugal, sollecitando la collaborazione di vari intellettuali portoghesi, tra cui Antero de Quental. La distanza rispetto al Portogallo gli consentì uno sguardo critico e impietoso sul suo paese, pur sempre temperato da una sottile ironia e realmente animato dalla volontà di trasformare mentalità e costumi di un’elite nazionale formata o dagli eredi della vecchia nobiltà senza più gli antichi valori, o dai nuovi borghesi e politici, già con tutti i vizi, ma senza le virtù, della borghesia. 2. Abbiamo scritto questo saggio (presentato in un incontro di filosofia lusobrasiliana tenutosi a Lisbona nel marzo del 2000) prima di aver preso visione dell’opera di Rui da Costa Lopes, O Segredo do Cofre Espanhol. Notas para un Ideário Filosófico de José Maria Eça de Queiroz, INCM, Lisbona 2000. Si tratta di una dissertazione di dottorato che intende liberare lo scrittore dalla generale incomprensione dei critici. Lo sforzo è meritorio, ma è lontano dal cogliere veramente nel segno. La strategia che seguiamo nel nostro saggio, pur essendo differente da quella di Rui Lopes, condivide tuttavia il proposito di studiare non soltanto le idee filosofiche di Eça e la relazione tra filosofia e letteratura presente nella sua opera, ma anche la sua attitudine generale in rapporto alla filosofia. Uno dei pochi interpreti che si sono occupati delle idee di Eça, António José Saraiva, ha pubblicato nel 1945 un’opera intitolata As Ideias de Eça de Queiroz, Bertrand, Lisboa 1982 (2a ed.). In un altro lavoro pubblicato nel 1990, lo stesso autore, riconoscendo che quell’opera rappresentava «un sunto dei cliché allora in vigore nei confronti dello scrittore», ha analizzato nuove idee presenti nella riflessione queirosiana, in un’ottica soprattutto estetica. A questo proposito, cfr. dunque A. J. Saraiva, Tertúlia Ocidental. Estudos sobre Antero de Quental, Oliveira Martins, Eça de Queiroz e Outros, Gradiva, Lisboa 1990. In un’opera che ha per lungo tempo costituito la vulgata interpretativa dominante nel presentare le grandi figure della storia letteraria portoghese – la História da Literatura Portuguesa di António José Saraiva e Óscar Lopes –, il giudizio sull’Eça pensatore non si distanzia molto dalle considerazioni precedenti. Analizzando le idee di Eça esposte in alcuni racconti, poi raccolti nelle Prosas Bárbaras, gli autori ritengono che sarebbe «inadeguato ricercare una qualche consistenza

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soltanto di alcune questioni3, riteniamo sia comunque utile elencare alcune delle possibilità che il titolo ci consentirebbe di sviluppare. Potremmo innanzitutto interrogarci sulle idee filosofiche o sulla riflessione di Eça in quanto filosofo. In effetti, al di là delle sue idee estetiche, politico-sociali, pedagogiche e morali, è possibile trovare nel pensiero del portoghese una particolare visione del mondo, una Weltanschauung? Potremmo indagare inoltre la presenza e l’importanza che la filosofia e i filosofi rivestono nell’opera di Eça de Queirós: qual è quindi il modo con cui egli si rapportò alla filosofia e ai vari filosofi? Qual era la sua conoscenza delle teorie filosofiche e dei filosofi che le sostenevano? Esaminando la galleria dei pensatori da lui citati e gli argomenti cui faceva riferimento, quali aspetti biografici, quali luoghi comuni o aspetti del pensiero razionale nell’Eça romantico», un pensatore che «oscilla tra il panteismo, un deismo filosofico, un deismo effettivamente cristiano (e democratico), o un vago monismo, che sembra tanto materialista quanto spiritualista» (Ivi, p. 859). Sugli aspetti del pensiero queirosiano, con particolare riguardo alla sua riflessione politico-sociale, cfr. J. Cortesão, Eça de Queiroz e a Questão Social, Seara Nova, Lisboa 1949. Sulle idee estetiche, cfr. invece M. Sacramento, Eça de Queirós: uma Estética da Ironia, Coimbra Editora, Coimbra 1945; A. Machado Pires, A Ideia de Decadência na Geração de 70, Ponta Delgada 1980 (2a ed. Vega, Lisboa 1992); A. Coleman, Eça de Queirós and European Realism, New York University Press, New York 1980; C. Reis, Teoria literária de Eça de Queirós, in Ensaios de Metodologia e de Crítica Literária, Instituto Nacional de Investigação Científica, Coimbra 1982, pp. 137-150. 3. Pubblichiamo qui la prima parte di uno studio più ampio sul pensiero di Eça de Queirós scritto nell’anno del centenario della sua morte. In questa prima parte, ci occuperemo in modo particolare della pars destruens della posizione di Eça nei confronti della filosofia e dei filosofi. La seconda parte, dedicata agli aspetti della visione queirosiana del mondo (la sua concezione della storia e della civilizzazione, la sua riflessione sul materialismo e sul naturalismo poetico, e il suo pensiero estetico), sarà pubblicata invece in un’altra sede.

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considerava? Descartes, ad esempio, è una figura ricorrente nei romanzi di Eça, non però in quanto filosofo del dubbio, bensì come autore del «cogito, ergo sum» e come viaggiatore, con particolare riguardo al modo con cui il pensatore francese leggeva la filosofia nel grande libro del Mondo4, al pari di Epitteto, chiamato in causa per il suo cosmopolitismo5. A risaltare immediatamente non è dunque la relativa abbondanza di riferimenti filosofici, ma il loro carattere sommario e superficiale, quasi avessimo di fronte dei luoghi comuni della cultura filosofica; ad ogni modo, ciò non dovrebbe per nulla meravigliarci, visto che ci troviamo al cospetto di un’opera letteraria, e non certo ad un lavoro accomunabile alla saggistica filosofica. Se analizzate all’interno di questo contesto, i riferimenti appaiono allora corretti e ben documentati: i personaggi queirosiani, infatti, anziché incarnare i fondamenti e i principi delle singole teorie filosofiche, sono posti in relazione ad una dimensione più aneddotica, maggiormente interessata a sottolineare le conseguenze all’opera nelle rispettive dottrine.

4. Cfr. E. de Queirós, Notas Contemporâneas, Ed. Livros do Brasil, Lisboa 2000, p. 363. Del suo personaggio Fradique, Eça scrive, citando Oliveira Martins: «Ha curiose affinità con Descartes! È la stessa passione per i viaggi che induceva il filosofo a chiudere i libri “per studiare il grande libro del mondo”; la stessa attrazione per il lusso e il rumore, che in Descartes si traduceva nel gusto per la frequentazione delle “corti e degli eserciti”; lo stesso amore del mistero, e delle improvvise sparizioni; la stessa vanità, mai confessata, ma intensa, dell’origine e della nobiltà; lo stesso sereno coraggio; la stessa singolare mescolanza di istinti romanzeschi e di esatta ragione, di fantasia e di geometria. Ciononostante, gli manca nella vita un fine serio e supremo, che queste qualità, in sé eccellenti, concorrano a realizzare. E temo che in luogo del Discorso sul Metodo arrivi a lasciare solo un vaudeville», E. de Queirós, A Correspondência de Fradique Mendes. Memoria e Notas, Lello & Irmão, Porto (s. d.), p. 53; trad. it., La corrispondenza di Fradique Mendes. Memorie e note, a c. di R. Vecchi e V. Russo, Diabasis, Reggio Emilia 2009, pp. 61-62 (la traduzione è leggermente modificata). 5. Cfr. E. de Queirós, Notas Contemporâneas (2000), p. 361.

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Il titolo di questo saggio dovrebbe spingerci a riflettere anche sul rapporto che legava Eça alla filosofia del suo tempo in Europa e in Portogallo. Nella sua opera trovano qualche eco le tendenze del pensiero europeo del XIX secolo? Particolarmente attento agli sviluppi culturali del tempo, lo scrittore dà conto della svolta cui andava incontro una filosofia che, abbandonato il positivismo, si stava dirigendo verso un nuovo idealismo e spiritualismo. Il suo saggio Positivismo e Idealismo rappresenta quindi una chiara e lucida testimonianza del cambiamento in corso. Nei suoi romanzi, Eça esamina soprattutto il dilettantismo filosofico di fine secolo: si prendono così in esame tutte le dottrine, senza trovare in nessuna di esse una soluzione; al positivismo di Auguste Comte e dei suoi epigoni, segnato dalla fiducia nella scienza e nel progresso scientifico, tecnico e politico, succede il pessimismo di Schopenhauer e il nichilismo, la seduzione esercitata dalle dottrine dell’incosciente di Eduard von Hartmann e il fascino per varie forme di irrazionalismo e di esoterismo, o per le dottrine orientali (buddismo, induismo). Anche nel pensiero estetico si passa dal realismo e naturalismo seicentista all’idealismo e simbolismo fin de siècle. Potremmo indagare inoltre i pensatori che hanno plasmato la formazione queirosiana. Come riconosce lo stesso Eça, furono soprattutto gli intellettuali francesi della seconda metà del secolo (Proudhon e Renan su tutti) a muovere la sua riflessione. Proprio il romanziere che un giorno scrisse che «il Portogallo è un paese tradotto dal francese in vernacolo» (o in dialetto) non sfuggì dunque al comune destino degli studiosi lusofoni, apprendendo anch’egli a leggere, scrivere e pensare attraverso i libri degli scrittori e pensatori francesi6.

6. Cfr. il saggio di E. de Queirós, Il Francesismo (1887), in Id., Literatura e Arte. Uma Antologia (2000), pp. 290-308.

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In Portogallo, l’ambiente mentale dell’epoca era caratterizzato dalla mancanza di pensiero e filosofia. In un tale deserto, il respiro delle idee che arrivò a Coimbra con il treno partito da Parigi ebbe sui giovani intellettuali della generazione di Eça l’effetto di una sbornia intellettuale: «C’erano fra di noi tutte le teorie e tutte le sette…7», scriverà egli, più tardi, ricordando quegli anni di letture tanto ingorde quanto caotiche. Fra i giovani studenti conimbricensi spiccava, naturalmente, Antero de Quental, che si affermerà come il leader intellettuale della sua generazione. Il suo profilo di pensatore e la sua evoluzione filosofica furono commentati da Eça nel saggio Un Genio che era un Santo, pubblicato nella raccolta In Memoriam. Eça, pur nutrendo una profonda ammirazione per Antero, non concordava totalmente con la filosofia del suo amico e collega: la distanza critica nei confronti dell’idealismo anteriano è espressa con sottile e delicata ironia, al tempo stesso identificando con grande efficacia la genuina ispirazione filosofica e l’essenza etica del progetto anteriano, confrontata con la più o meno superficiale e meramente letteraria motivazione dei suoi compagni della “Questão Coimbrã”. Eça pone inoltre in evidenza la condizione di solitudine e di esilio del pensatore azzorriano in un paese in cui la riflessione era scarsa e poco valorizzata. Si deve alla sua insistenza, del resto, la redazione del più importante saggio filosofico di Antero, scritto per la “Revista de Portugal”. Oltre ad Antero, altri importanti pensatori portoghesi della generazione di Eça furono Teófilo Braga, il principale esponente del positivismo portoghese, e José Maria da Cunha Seixas, l’ideatore del pantiteismo. Quale fu poi la relazione di Eça con il suo paese? Fu veramente un semplice esterofilo?

7. E. de Queirós, Prosas Bárbaras, Lello & Irmão, Porto (s. d.), p. 174.

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Interessato a rinnovare mentalmente e politicamente il paese, Eça partecipò, assieme ad altri intellettuali, alle famose “Conferenze Democratiche” (destinate ad essere poi proibite) tenutesi a Lisbona nella primavera del 1871; in quella sede, presentò una sua conferenza su Il Realismo nell’Arte. L’importanza di Eça de Queirós, tuttavia, non va ricondotta al suo lavoro teorico o estetico, ma alla sua attività di scrittore. Avendo passato la maggior parte della sua vita fuori del Portogallo, in qualità di console, ebbe per ciò stesso l’opportunità di coltivare rispetto al suo paese una prospettiva più distanziata e critica. Eça, ad ogni modo, seguì sempre da vicino tutto quello che accadeva in Portogallo, profondamente preoccupato dalla sua trasformazione culturale, come provano sia la sua corrispondenza, sia quella di Fradique Mendes, un personaggio uscito dalla fantasia della sua piuma. Quale idea si era fatto allora dell’ambiente mentale portoghese, e come vedeva l’incidenza della filosofia e del pensiero nella trasformazione della nazione? Possiamo ritrovare una risposta al quesito nella tesi esposta proprio da Carlos Fradique Mendes: In verità, solo il Pensiero e la sua creazione suprema, la Scienza, la Letteratura, le Arti, danno grandezza ai Popoli, attirando su di essi l’universale riverenza e affetto, e, formando al loro interno quel tesoro di verità e di bellezza di cui il Mondo ha bisogno, li rendono dinnanzi al Mondo sacrosanti […] Se una nazione, pertanto, ha superiorità solo se ha pensiero, chiunque riveli, nella nostra patria, un uomo nuovo dal pensiero originale, concorre patriotticamente a aumentarne la grandezza che la renderà rispettata, l’unica bellezza che la renderà amata […] Orbene, nel Pensiero esistono diverse manifestazioni; e se non tutte irradiano lo stesso splendore, tutte provano la stessa vitalità. Un libro di versi può in maniera sublime mostrare che l’anima di una nazione viva ancora del suo Genio Poetico; un gruppo di leggi emancipatrici, emanate da uno spirito positivo, può solidamente comprovare che un popolo viva ancora del suo Genio Politico; ma la

220 rivelazione di uno spirito, come quello di Fradique, assicura che un paese viva anche grazie ai lati meno grandiosi, ma altresì valorosi, della grazia, della vivace invenzione, della trascendente ironia, della fantasia, dell’umorismo e del gusto8.

La svolta attesa da Eça è simile a quella proposta dal suo personaggio: si tratta di trasformare il paese attraverso l’arte e la letteratura, confrontando gli spiriti dei suoi lettori con le attitudini, i valori e i costumi di una società decadente e malata, educando i cittadini nella forma e nella bellezza grazie all’«azione ineffabile dell’assolutamente bello9». Eça, però, possiede un vantaggio rispetto all’esteta Fradique, inibito per troppo tempo nel creare un’opera all’altezza del sentimento da lui nutrito per l’arte e la bellezza. Sebbene anche Eça fosse consumato dalla ricerca di un ideale di forma, perfezione e bellezza all’altezza delle proprie aspirazioni, riuscì comunque, a differenza di Fradique, a dare seguito ai propri propositi. Nella galleria di personaggi queirosiani non mancano i filosofi, o le figure che impersonano attitudini filosofiche nei confronti della vita. Vi sono anche alcuni profili di filosofi reali o fittizi. Incontriamo così, nel primo caso, Antero de Quental, sul quale Eça scrisse una suggestiva testimonianza, di taglio veramente agiografico, nel suo contributo al In Memoriam. Tra i profili filosofici inventati, spiccano invece Carlos Fradique Mendes, Jacinto e Zé Fernandes de La Città e le Montagne10. Alcuni commentatori hanno già sottolineato i tratti comuni

8. E. de Queirós, A Correspondência de Fradique Mendes (s. d.), pp. 115116; trad. it. pp. 107-108. 9. Ivi, p. 103; trad. it. p. 99. 10. Compaiono anche altri personaggi, seppur di minore importanza. L’iperspiritualista José Matias, ad esempio, è «un metafisico che commentò Spinoza e Malebranche, riabilitò Fichte, e dimostrò sufficientemente l’illusione della sensazione», E. de Queirós, Contos, Obras de Eça de Queirós, ed. H. C. Moura, Ed. Livros do Brasil, Lisboa (s. d.), p. 222.

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fra un personaggio reale come Antero – «Un Genio che era un Santo» – e Jacinto, benché l’evoluzione e il fine delle due figure fossero affatto differenti11. In effetti, pur potendo Eça imporre un felice finale all’idealismo e pessimismo di Jacinto, non fu certo in grado di evitare la tragica fine del suo amico e antico collega Antero. Come abbiamo già sostenuto in precedenza, un’altra figura in possesso di un profilo filosofico è Carlos Fradique Mendes, e ciò a dispetto delle stesse parole del personaggio, definitosi non un filosofo, bensì un «turista dell’intelligenza», un uomo incapace di legarsi in modo definitivo ad un solo sistema di idee. Fradique è un vero e proprio eteronimo di Eça, come possiamo dedurre dalle sue stesse parole: Se io avessi al tempo concepito una Filosofia originale, o avessi preparato i comandamenti di una nuova religione, o avessi sgraffignato alla Natura distratta una delle sue Leggi segrete – avrei di preferenza scelto Fradique come confidente di codesta attività spirituale12.

Sorta nel gruppo del “Cenacolo”, questa strana figura aveva già fatto la sua comparsa ne Il Mistero della Strada di Sintra, scritto da Eça e Ramalho. Eça descrive il profilo morale e intellettuale di questo personaggio attraverso la sua celebre corrispondenza, preceduta da una lunga introduzione. Fradique rappresenta l’ideale estetico ed umano di tutta una generazione. Misto di romanticismo e decadentismo, «uomo educato

11. Cfr. F. F. Sousa, O Segredo de Eça. Ideologia e Ambiguidade em «A Cidade e as Serras», Cosmos, Lisboa 1996, in part. pp. 194-197. 12. E. de Queirós, A Correspondência de Fradique Mendes (s. d.), p. 65; trad. it. p. 64. Il Fradique di Eça è stato recentemente oggetto di un notevole studio di A. Nascimento Piedade, Fradiquismo e Modernismo no Último Eça (1888-1900), INCM, Lisboa 2003.

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alla filosofia e saturo di erudizione13», Fradique rappresenta «una sintesi di tutte le creazioni ed idee di Eça14», «personaggio chiave di tutta la Geração de 70, una specie di archetipo15», una figura dotata di uno spirito superiore. Nel profilo del personaggio tracciato da Eça, lo scrittore ci fornisce al tempo stesso un ritratto ideale di se stesso e delle sue idee. Dal ritratto morale ed intellettuale risaltano alcune caratteristiche particolarmente importanti per restituire l’intenzionalità queirosiana e il proposito della sua opera letteraria. A risaltare è subito il coraggio morale, l’indipendenza di una ragione che gli impedisce di aderire interamente e sinceramente ad un sistema, la vasta cultura (classica, scientifica e storica), la «capacità di comprendere filosoficamente i movimenti collettivi», la percezione nitida della realtà, il «sottile potere di evocare psicologicamente i caratteri individuali», e infine il disprezzo per i politici e l’amore per il vero Portogallo. Alcuni tratti del Fradique di Eça ricordano Nietzsche e il suo estetismo: la critica della banalità imperante e del democraticismo che tutto livella in nome di un mediocre paradigma, il rifiuto del gregarismo che «riduce tutti i costumi, le credenze, le idee, i gusti, i modi, anche i più ingeniti e i più originalmente particolari, a un tipo uniforme16», la proposta di un rinnovamento dell’uomo capace di creare il nuovo, un’estetica aristocratica, la credenza nell’olimpica e pagana religione dell’arte. Fradique, scrive Eça,

13. Ivi, p. 105; trad. it. p. 100. 14. A. Machado Pires, A Ideia de Decadência na Geração de 70, Universidade dos Açores, Ponta Delgada 1980, p. 146. 15. A. Manuel Machado, A Geração de 70 – Uma Revolução Cultural e Literária, ICP, Lisboa 1977, p. 77. 16. E. de Queirós, A Correspondência de Fradique Mendes (s. d.), pp. 5758; trad. it. p. 84.

223 Era uno degli ultimi credenti dell’Olimpo, devotamente prostrato dinnanzi alla Forma, e tracimante di allegria pagana. Aveva visitato la Laconia, parlava la lingua degli Dei, da loro riceveva l’ispirazione […] Se non proprio un Dio dell’Olimpo – era per lo meno l’ultimo Pagano, conservando, in questi tempi di astratta e grigia intellettualità, la vera religione della Linea e del Colore17.

Questo esteta portoghese, però, a differenza dell’oltre-uomo di Nietzsche, si rivela più nella misura testimoniata da Apollo che negli eccessi di Dioniso18. Lo Zé Fernandes de La Città e le Montagne rappresenta invece apparentemente il tipo dell’anti-filosofo. L’ambiguità di questo personaggio e l’importanza nella struttura dell’opera sono state messe bene in luce da alcuni interpreti19. Con il suo esercizio critico, le sue insinuazioni e la sua ironia, Fernandes opera un vero e proprio atto maieutico nei confronti di Jacinto, rivelando di sapere più di quello che saremmo portati a credere alla luce del suo dichiarato curriculum di pigro universitario. Zé Fernandes è allora il volto critico e ironico dello stesso Eça. È lui, infatti, a scuotere le certezze dell’amico, instillandogli nello spirito quei dubbi che finiranno per corrodere le sue supposte evidenze, fino a condurlo, grazie alle sue sole forze, ad una vera conversione e ad un percorso di pacificazione con se stesso. Non è un caso quindi che i dialoghi

17. Ivi, pp. 38-40; trad. it. pp. 50-52. 18. Vi è una vaga allusione al filosofo tedesco, o almeno al suo pensiero, ne A Cidade e as Serras, Lello & Irmão, Porto 1980, p. 99; trad. it., La Città e le Montagne, a c. di N. Vincenti, intr. di A. Tabucchi, Tararà, Verbania 1999, p. 95. Sulla ricezione di Nietzsche in Portogallo in questo periodo, cfr. A. Enes Monteiro, A Recepção da Obra de Friedrich Nietzsche na Vida Intelectual Portuguesa (1892-1939), Lello Editores, Porto 2000, pp. 26 e sg. 19. Cfr., a questo proposito, F. F. Sousa, O Segredo de Eça. Ideologia e Ambiguidade em «A Cidade e as Serras» (1996), pp. 55 e sg.

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fra i due personaggi de La Città e le Montagne siano descritti come un esercizio filosofico: «E così, dolcemente filosofando…20»; Jacinto «filosofava, senza sosta, con l’entusiasmo di un convertito avido di convertire21»; «Nella sala immensa, dove avevamo tanto filosofato osservando le stelle22»; «Filosofammo allora con calma e facondia23»; «Jacinto, soffiando il fumo della cigarette dai finestrini aperti del coupé, era il buon compagno di sempre, di amabile vena, con cui era dolce filosofare in giro per Parigi24». Zé Fernandes rappresenta perciò il Sancho Panza di quel Don Chisciotte impersonato dall’idealista Jacinto. All’apparenza spensierato e senza convinzioni proprie, critico e distruttore di opinioni e convinzioni altrui, Fernandes incarna anch’egli un altro aspetto dello stesso Eça, lo scrittore dell’ironia e della maieutica, il romanziere critico e demolitore di sistemi, attitudini e costumi. È lui a riportare il suo Principe alla realtà e alla semplice allegria di una vita veramente utile. Se Fradique rappresenta l’Eça ideale, simile a ciò che egli stesso avrebbe voluto essere, Zé Fernandes incarna invece l’Eça reale. Nel mezzo, incontriamo due altre figure – quella ideale di Jacinto, e quella reale di Antero. Ecco che se a Zé Fernandes spetta il compito di richiamare alla realtà Jacinto, rispetto ad Antero è lo stesso Eça ad occuparsi di questa incombenza, pur senza raggiungere il suo scopo.

20. E. de Queirós, A Cidade e as Serras (1980), p. 187; trad. it. p. 181. 21. Ivi, p. 175; trad. it. p. 169. 22. Ivi, p. 168; trad. it. p. 162. 23. Ivi, p. 159; trad. it. p. 153. 24. Ivi, p. 40; trad. it. p. 38.

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2. Quando si parla della filosofia di uno scrittore, sia egli un romanziere o un poeta, è sempre utile tenere a mente la distinzione, già proposta da Kant, fra un «concetto mondano» (Weltbegriff o conceptus cosmicus) e un «concetto accademico» (Schulbegriff) di filosofia25. Anche se uno scrittore non possiede un proprio sistema di idee, ciò non significa che non vi sia alcun pensiero o idea nella sua opera, o che esse non rivelino, pur non essendo a prima vista manifesta, un’essenziale coerenza e una determinata visione del mondo. I grandi scrittori pensano. E lo fanno non soltanto quando espongono il loro pensiero, o in virtù dei principi estetici che presiedono l’elaborazione della loro opera, ma anche nella rappresentazione di certe attitudini, valori, caratteri e mentalità, e nella dialettica o nel confronto a cui li sottomettono nella loro opera di finzione. La letteratura, infatti, non vuole certo insegnare, dimostrare, decidere né fornire un giudizio finale: essa intende invece mostrare, esporre e mettere in scena attitudini del pensiero, personaggi che incarnino dottrine, sistemi e valori. D’altra parte, come accade in molti dei dialoghi di Platone, spetta al lettore pronunciarsi, decidere, scegliere. Ambiguità, indecisione, apertura: ecco le caratteristiche dell’opera letteraria in quanto opera d’arte, un’opera che, di conseguenza, non esaurisce la sua sostanza nell’essere un mero veicolo funzionale ad esporre le linee guida di una dottrina. Ad ogni modo, ciò non significa certo che la buona letteratura non abbia idee o non le esponga. La buona letteratura possiede delle idee, e le presenta in maniera libera. Le teorie sono proposte dai personaggi, e con essi discusse, senza la pretesa di giungere necessariamente ad una conclusione definitiva, magari appurando chi possieda la verità. L’analisi

25. Cfr. I. Kant, Logica, Intr. III, in Id., Kant’s Gesammelte Schriften, Walter de Gruyter Berlin, Vol. IX, p. 24.

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e la critica letteraria, però, non si sono quasi occupate del pensiero, delle idee e della visione del mondo degli scrittori, soffermandosi soltanto sugli aspetti stilistici o sulle trame romanzesche26. Prendiamo ad esempio il caso de La Città e le Montagne, il romanzo di Eça più vicino ad uno scritto portatore di una tesi precisa. Al suo interno, ritroviamo l’abbondante utilizzo del “come se” e del “parrebbe”, al posto di dichiarazioni perentorie. Il narratore-personaggio Zé Fernandes evita di formulare affermazioni assolute, indicando sempre il carattere incompleto e frammentario della conoscenza. Egli pratica una salutare forma di auto-ironia: se in un primo momento sembra attribuire importanza alle proprie riflessioni, è sempre ben disposto a negare loro, ironicamente, qualunque valore: «dopo tanto superiore filosofare […] credo di aver fissato definitivamente nello spirito del signor Dom Jacinto il salutare orrore della Città!27». In un altro luogo dell’opera, Zé Fernandes considera invece il suo discorso un «facile filosofare28» o una semplice «chiacchierata»29. Naturalmente, questa modalità quasi umile di riferirsi alle proprie considerazioni è una strategia retorica intesa a conquistare i favori del lettore. L’interesse e il signi26. Un campo di indagine che ha incominciato ad essere esplorato nelle ultime decadi è quello delle intersezioni fra Filosofia e Letteratura e, naturalmente, tra Letteratura e Filosofia. Non si tratta solo di comprendere la dimensione anche letteraria delle grandi opere filosofiche, ma l’importanza del pensiero nelle opere letterarie. Cfr. D. G. Marshall (ed.), Literature as Philosophy – Philosophy as Literature, University of Iowa Press, Iowa City 1987. Cfr. inoltre P. Griffiths (ed.), Philosophy and Literature, Cambridge University Press, Cambridge 1984, e la rivista “Poétique, Revue de théorie et d’analyse littéraires”, 21 (1975), dedicata al tema “Littérature et Philosophie mêlées”. 27. E. de Queirós, A Cidade e as Serras (1980), p. 102; trad. it. p. 98. 28. Ivi, p. 94; trad. it. 89. 29. Cfr. Ivi, p. 147; trad. it. p. 156.

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ficato di questo romanzo, cui la critica più recente ha riconosciuto la dovuta importanza, non derivano dal percorso umano di Jacinto, bensì dalla figura ambigua di Zé Fernandes, che rappresenta il testimone, il fulcro e il produttore dell’intreccio narrativo. È lui, infatti, a mantenere aperta l’opposizione dei paradigmi in competizione, lasciando così all’opera gli aspetti positivi e negativi delle alternative in questione. L’opera letteraria di Eça de Queirós rappresenta un luogo di lavoro privilegiato per lo studio delle relazioni tra Filosofia e Letteratura. Del resto, ci stiamo confrontando con un periodo storico in cui alla Letteratura fu giustamente attribuita una profonda missione sociale e civilizzatrice. Mai come in questo lasso di tempo, i poeti, gli scrittori e, in generale, gli artisti ebbero una così ampia coscienza della loro dignità e del loro compito. Per quanto riguarda l’ambito portoghese, ad esempio, si tengano presente gli scritti di Antero che innescarono la “Questão Coimbrã30”, sostenuti dallo stesso Eça, anch’egli convinto del potere e della missione dell’arte letteraria. Ci troviamo perciò di fronte alla «consacrazione dello scrittore» come sacerdote e profeta, e alla promozione della letteratura quale «potere spirituale dei tempi moderni31». È l’arte – e in particolare l’arte letteraria – che occupa ora il luogo della religione come guida delle coscienze e come interprete del senso della storia. Lo stesso Eça manifesta, 30. A questo proposito, cfr. L. Ribeiro dos Santos, Antero e a Arte, “Revista de História das Ideias”, Vol. XIII, Coimbra 1991, pp. 135-160, in part. p. 143. 31. P. Bénichou, Le temps des prophètes. Doctrines de l’âge romantique, Gallimard, Paris 1977, p. 7. Dello stesso autore, cfr. Le sacre de l’écrivain (1750-1830). Essai sur l’avènement d’un pouvoir spirituel laïque dans la France moderne, José Corti, Paris 1973; Les mages romantiques, Gallimard, Paris 1988. Il processo descritto da Bénichou in Francia ri realizzò successivamente anche in Portogallo. Fu soprattutto leggendo gli scrittori francesi analizzati da Bénichou che i giovani della generazione di Eça impararono infatti a pensare e perfino a scrivere.

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in più di un’occasione, la chiara consapevolezza di questo processo epocale, ad esempio quando pone in evidenza il contemporaneo stravolgimento delle funzioni della filosofia e della poesia, nient’altro che un vero e proprio ribaltamento dello stesso platonismo. Scrive Eça: Oggi, nell’anarchia che confonde le classi, il poeta ha invaso l’anima umana, ed ha allontanato da essa i filosofi, suoi rappresentanti ereditari a partire dai tempi di Platone: è lei ora a tessere la tela della psicologia e a soffiare sul fuoco della metafisica32.

È difficile, se non impossibile, comprendere l’opera queirosiana – ivi compresa quella di finzione – senza considerare il contesto culturale da cui ha preso le mosse e senza conoscere le tendenze del pensiero filosofico nell’ultimo quarto del XIX secolo. Sfortunatamente, la quasi totalità della letteratura critica sullo scrittore non considera in maniera adeguata questo aspetto, o, le poche volte in cui se ne è occupata, ha finito comunque, a causa della mancanza di un’adeguata prospettiva ermeneutica, per sottostimarlo. Se si ha l’intenzione di restituire alla letteratura la sua centralità, è necessario (ri)scoprire le idee presenti in essa; e se si intende ritornare ad una filosofia realmente suggestiva, è necessario mostrare che essa non è soltanto un’occupazione scolastica destinata a pochi professionisti, ma rappresenta una disciplina che si incarna nelle attitudini degli stessi individui. Eça e la sua opera si offrono dunque come un luogo privilegiato per un fecondo lavoro interdisciplinare, capace di porre in relazione la Filosofia e la Letteratura. 3. Eça, tuttavia, non si considerava un filosofo, né qualcosa di lontanamente simile. D’altra parte, chi poteva essere per lui

32. E. de Queirós, As Rosas, Gazeta de Notícias (1893), in Id., Notas Contemporâneas (2000), p. 214.

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un filosofo? La risposta ce la fornisce una lettera del suo Carlos Fradique Mendes ad Oliveira Martins, in cui il firmatario non si dichiara né scienziato, né filosofo, bensì artista. Al tempo stesso, però, il contenuto della missiva ci dà delle informazioni su ciò che egli riteneva fosse un sapiente ed un filosofo, presentando inoltre una lucida esposizione della relazione tra le scienze e la filosofia così come era configurata in un periodo storico caratterizzato dall’influenza positivista: la funzione della filosofia, in sostanza, è unire in una sintesi superiore le sintesi regionali delle diverse scienze. Ecco le parole che Eça attribuisce al suo Fradique: Non c’è in me purtroppo un saggio, né un filosofo. Intendo dire, non sono uno di quegli uomini sicuri e utili, destinati per temperamento alle analisi secondarie che si chiamano Scienze, e che consistono nel ridurre una moltitudine di fatti sparsi a Tipi e a Leggi particolari, attraverso cui esplicare le modalità dell’Universo; non sono neppure uno di quegli uomini, affascinanti e poco sicuri, destinati per genio alle analisi superiori che si chiamano Filosofie e che consistono nel ridurre quelle Leggi e quei Tipi a una formula generale, attraverso cui si esplica l’essenza stessa dell’intero Universo33.

L’utilizzo degli aggettivi è molto significativo: gli scienziati e i sapienti sono «uomini sicuri e utili», mentre i filosofi sono «uomini affascinanti e poco sicuri». Non è allora un sapiente o un filosofo semplicemente chi vorrebbe diventarlo, magari sforzandosi di raggiungere il proprio obiettivo; essere una cosa o l’altra dipende, invece, dal temperamento o dal genio naturale di ognuno. Lo spirito di Eça, al pari del suo Fradique, rifiuta il sistema e nutre una «sfiducia in se stesso come pensatore, le cui conclu-

33. E. de Queirós, A Correspondência de Fradique Mendes (s. d.), p. 65; trad. it. p. 71.

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sioni, rinnovando la filosofia e la scienza, potessero imprimere allo spirito umano un movimento insperato34». Il senso di indipendenza e di libera elasticità dello spirito, unito alla sua profonda sincerità, gli impediscono di individuarsi totalmente in un sistema in cui fissare una volta per tutte la propria riflessione35. Fradique, al contrario, si considera un viandante, un uomo destinato a percorrere il vasto mondo delle dottrine e dei sistemi umani, un turista dell’intelligenza (al pari di Fernando Pessoa, che si presenterà, alcuni anni dopo, come un turista o un viandante delle sensazioni36). Non si giudica tuttavia un dilettante, bensì un eclettico, più simile ad una farfalla che ad un ape. Leggiamo un altro passaggio di Fradique-Eça: L’egoista occupazione del mio spirito, oggi [...] consiste nell’avvicinarmi a un’idea o a un fatto, scivolarvi soavemente dentro, percorrerlo minuziosamente, esplorarne l’inedito, godere di tutte le sorprese e emozioni intellettuali che possa dare, trarne con cura l’insegnamento o la parcella di verità che esista nelle sue pieghe – e poi abbandonarlo, passare a un altro fatto o a un’altra idea, con calma e con pace, come se percorressi una a una le città di un paese d’arte e di lusso […] Nel tempo e nello spirito rimasi semplicemente un touriste37.

La suprema qualità intellettuale di Fradique è quindi, secondo l’editore-autore della sua Corrispondenza, la «percezione straordinaria della Realtà», vale a dire la capacità di sorprendere, al di là dell’esteriorità dell’illusione o del fenomeno, l’«esatto, reale e unico modi di essere» delle cose, cogliendone la forma e definendola con assoluta precisione. Ora, come non 34. Ivi, p. 103; trad. it. p. 99. 35. Cfr. Ivi, p. 65; trad. it. p. 71. 36. Sulla relazione di Pessoa con Eça, cfr. B. Berrini, Eça e Pessoa, Regra do Jogo, Lisboa 1985. 37. E. de Queirós, A Correspondência de Fradique Mendes (s. d.), p. 66; trad. it. p. 71.

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riconoscere nelle osservazioni attribuite a Fradique il peculiare realismo e oggettivismo di Eça? Lo scrittore confessa spesso la sua mancanza di vocazione filosofica. Nel 1878, scrivendo a proposito di Ramalho Ortigão, con cui collabora nella rivista “As Farpas”, dichiara: «Io ero, e resto ancora, in filosofia un turista facilmente affaticato, e nella scienza un semplice dilettante38». Nella raccolta In Memoriam, Eça contrappone all’Antero filosofo – «il cui spirito era interessato soltanto all’essenza pura delle cose» – la sua personale incapacità, in quanto «artista», di cogliere la filosofia nel solo terreno delle idee, percependo l’irresistibile tendenza a rappresentarla in immagini: «Io mi sono sempre offerto di essere il suo S. Paolo, per affrontare i Gentili, diffondere il Verbo. Ma Antero temeva che, in qualità di artista, io materializzassi le sue idee in immagini – immagini floride, cesellate, pittoresche, facendo inorridire chi, come lui, detestava il pittoresco39». Riflettendo inoltre sulla filosofia di Antero, Eça confessa la propria incompetenza, pur riconoscendo in essa, con grande acutezza interpretativa, l’essenziale ispirazione etica, considerata il tratto distintivo del giovane pensatore e poeta nel confronto con quelli della sua generazione40. Artista e non filosofo, pertanto. Ma qual è la funzione dell’artista, secondo Eça? La risposta più icastica si trova in quei testi in cui lo scrittore si sofferma sull’arte e sul suo significato umano e sociale, sull’arte come sostituto della religione per gli spiriti più nobili della sua generazione, sull’arte come unica cosa che resiste e permane nella generale evanescenza della vita e dei valori, su quell’arte, infine, che rappresenta il tutto, mentre «tutto il resto è nulla». Non dobbiamo considerare 38. E. de Queirós, Notas Contemporâneas (2000), p. 29. 39. Ivi, p. 277. 40. Ivi, p. 274.

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però questa affermazione come una dichiarazione di semplice estetismo, quasi si trattasse di una difesa dell’arte per l’arte. L’ispirazione proudhoniana cui attinse Eça, al pari di Antero, nei suoi anni di studio a Coimbra, glielo avrebbe certamente impedito. Nella sua opera, infatti, l’arte, in generale, e l’arte letteraria in particolare, svolgono una superiore funzione sociale e civilizzatrice, anche nell’ambito del pensiero, seppur con i mezzi che le sono propri. Tra questi mezzi, lo scrittore portoghese sottolinea quell’ironia capace di incarnare realmente una filosofia, una forma superiore di pensiero. Da Socrate fino al romanticismo, l’ironia non fu soltanto una strategia filosofica, usata contro la presunzione sofistica e la cecità dei dogmatici di ogni risma, ma rappresentò una vera attitudine filosofica. Friedrich Schlegel coglieva dunque nel segno quando sosteneva che la filosofia fosse l’autentica patria dell’ironia41. Con maggiore o minore estensione, i grandi filosofi, mettendo in pratica una salutare auto-ironia, se ne servirono ampiamente, e non per criticare le idee altrui, ma proprio perché ironici nei confronti di se stessi e delle idee da loro sostenute. Potremmo qui citare lo stesso Kant, la cui filosofia e modo di pensare critici sono continuamente attraversati da una sottile ironia, intesa non solo come una modalità di esercitare la ragione contro se stessa, ma come una via per raggiungere una prospettiva realmente imparziale, capace di affrontare le importanti questioni in esame42. Potremmo ci-

41. «Die Philosophie ist die eigentliche Heimat der Ironie», F. Schlegel, Lyceums-Fragment 42, in Id., Prosaische Judendschriften, ed. J. Minor, Wien 1882, Bd. II, p. 188. 42. Sull’ironia kantiana, cfr. il nostro Metáforas da Razão ou Economia Poética do Pensar Kantiano, JNICT – F. C. Gulbenkian, Lisboa 1994, in part. pp. 556-560.

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tare inoltre l’austero Pascal, convinto che il farsi gioco della filosofia rappresentasse l’autentico filosofare43. Per Eça, l’ironia non rappresenta soltanto un espediente retorico, ma è, come ci confessa egli stesso, una forma superiore di pensiero – una filosofia accessibile alla moltitudine. Il programma di “As Farpas” è inscritto in questo registro: Ridiamo, allora. Il riso è una filosofia. Molte volte il riso è una salvezza. E, all’interno della politica costituzionale, il riso è, per lo meno, un’opinione44.

La stessa idea è ulteriormente sviluppata in una nota sullo «spirito» di Ramalho: il riso come decostruzione, come critica, come raziocinio universalmente e intuitivamente accessibile, come superiore manifestazione dello «spirito», nella genuina accezione dell’espressione. Scrive Eça: Parlerò dello spirito? […] Lo spirito non è una lesione cerebrale che fa vedere il comico: è una disposizione cerebrale che fa scoprire il comico, che lo rivela attraverso le convenzioni esteriori e la forme consacrate; trovare il comico in una cattiva istituzione o in un pessimo costume […] significa porlo in contraddizione con il buon senso e il buon gusto, significa annullarlo. Un atto di spirito può essere così un atto di grande giustizia sociale. La parola spirito, ultimamente, è stata avvilita, avvicinandola alle uscite piccanti della conversazione spiritosa, il bon mot, i lazzi, la spiritosaggine. Lo spirito rappresenta però un’entità più alta: la critica viene dal riso, e il ragionamento dall’ironia. Chi sono i grandi precursori delle Rivoluzioni in Letteratura? I grandi schernitori: Rabelais, Cervantes, Lesage, Voltaire. A partire da “Gargantua” fino alle “Nozze di Figaro”, da chi è condotta la campagna sociale?

43. «Se moquer de la philosophie c’est vraiment philosopher», B. Pascal, Pensées (1963), n. 513. 44. E. de Queirós, Uma Campanha Alegre, Lello & Irmaão, Porto 1979, Vol. I, p. 15.

234 Chi è che ha abbandonato l’idea puramente razionale dei miti retorici del paganesimo e dei misteri confusi del cristianesimo? E chi ha condotto la civilizzazione alla giustizia? Coloro che ridono: Pantagruel, D. Chisciotte, Gil Blas, Candide […] Il riso è la forma più utile di critica, perché è la più accessibile alla moltitudine. Il riso non si rivolge al letterato o al filosofo, ma alla massa, all’immenso pubblico anonimo. È per questo che oggi è così utile e irriverente ridere delle idee del passato: la moltitudine non si occupa di idee, si occupa delle formule visibili, convenzionali delle idee45.

Dio stesso è, secondo Eça, un Dio che ride. In un passo de La Città e le Montagne, Zé Fernandes è condotto in sogno in Paradiso, dove può contemplare l’Altissimo che ride, intento a leggere Voltaire in un’edizione economica: La fronte divinissima che aveva concepito il Mondo era poggiata sulla mana fortissima che lo aveva creato; e il Creatore leggeva e sorrideva. Osai, rabbrividendo di sacro terrore, spiare sopra la sua spalla risplendente. Era un libro brossurato, da tre francos…L’Eterno leggeva Voltaire, in un’edizione economica, e sorrideva46.

4. L’ironia si manifesta nell’opera letteraria di Eça in molti modi e con svariati espedienti retorici, già rilevati dalla critica47. Ci occuperemo quindi soltanto di quegli aspetti relati al

45. E. de Queirós, Notas Contemporâneas (2000), pp. 35-36. 46. E. de Queirós, A Cidade e as Serras (1980), p. 77; trad. it. p. 74. 47. Cfr. M. Sacramento, Eça de Queirós: uma Estética da Ironia (1945). In questo testo, Sacramento concepisce l’ironia come la coscienza delle antinomie che, pur essendo accompagnata da un accento affettivo, rinunci ad integrarle in un’unità destinata a superarle. Cfr. inoltre M. de Unamuno, El sarcasmo ibérico de Eça de Queiros, in E. do Amaral – M. Cardoso Martha (org.), Eça de Queiroz: in Memoriam, Atlântica, Coimbra 1947, pp. 387390. Il tema dell’ironia queirosiana è stato analizzato più recentemente da

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pensiero queirosiano che non sono stati ancora oggetto di uno studio approfondito. Dobbiamo innanzitutto sottolineare l’auto-ironia dei personaggi, e in particolare la svalutazione che loro stessi per primi compiono delle loro idee ed elucubrazioni filosofiche, etichettandole ad esempio come una «metafisica acerba, colta al volo dai rami di un castagno», esposta in «raffinate metafore48», e altre espressioni del genere. Questa auto-ironia è particolarmente frequente negli interventi del narratore-personaggio Zé Fernandes. Si stratta di una strategia retorica per catturare il lettore, ben disposto così ad abbassare le sue difese. All’apparenza in modo modesto, quasi non avesse alcuna pretesa, lo scrittore può in tal modo affermare le proprie verità. All’interno della sua invettiva contro la città, pronunciata dall’alto della collina di Montmartre – un vero e proprio “sermone della montagna” al contrario – il personaggio e narratore Zé Fernandes distrugge subito l’effetto di serietà e forse perfino di originalità del suo intervento con la seguente osservazione: E sotto il peso di queste vecchie e venerabili invettive, ripetute puntualmente da tutti i moralisti bucolici, fin dal tempo di Esiodo, nel corso dei secoli, il mio Principe piegò la docile nuca, come se esse sgorgassero, inattese e fresche, da qualche Rivelazione superiore, su quelle alture di Montmartre: – Sì, è vero, la Città…È forse un’illusione perversa! Insistetti ancora, con magniloquenza, tirando i polsini, assaporando il mio facile filosofare49.

L’invettiva continua e, poco oltre, lo stesso Zé Fernandes chiude l’episodio con un’ultima osservazione che dissolve tutta la

A. Nascimento Piedade, Ironia e Socratismo em «A Cidade e as Serras», Instituto Camões, Lisboa 2002. 48. E. de Queirós, A Cidade e as Serras (1980), p. 177; trad. it. p. 171. 49. Ivi, p. 94; trad. it. p. 89.

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serietà della sua argomentazione e delle precedenti considerazioni: Pensosamente [Jacinto] abbandonò il parapetto della terrazza, come se la vista della Città, adagiata nella pianura, fosse scandalosa. E camminammo lentamente, sotto il languore grigio della sera, filosofando, e convenendo che per tale iniquità non esisteva rimedio umano, possibile a uno sforzo umano […] Passeggiammo ancora sul terrazzo, spargendo per aria altre solide idee, che nell’aria si dissipavano […] – Ho una tale sete, Jacinto…È stato questo tremendo filosofare50.

In una scena successiva, seduto in un ristorante per la cena, lo stesso Zé Fernandes, sempre pronto a dispiegare tutti gli argomenti contro la civilizzazione, si prepara ad assaporare non certo un pasto frugale, degno di un autentico discepolo di Epicuro, bensì il raffinato servizio di un selezionato ristorante parigino: Ed io, spiegando beatamente il tovagliolo: – È giunta l’ora di placare la mia terribile sete con un vinello gelato! Me lo merito davvero, perbacco, dopo tanto superiore filosofare!...E credo di aver fissato definitivamente nello spirito del signor Dom Jacinto il salutare orrore della Città!51.

Il discorso del personaggio è classificato ora come un «facile filosofare», ora come una «tremenda filosofia», ora come un «superiore filosofare»! Al contempo, il gioco dei contrasti e delle contraddizioni tra ciò che si dice e ciò che si fa intensifica l’ambiguità generale. Le verità sono presentate non come verità definitivamente dimostrate, bensì come libere formulazioni destinate a lasciarci in sospeso, permettendoci così di

50. Ivi, pp. 96-97; trad. it. pp. 91-93. 51. Ivi, p. 102; trad. it. p. 98.

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pensare non certo cose serie o ponderose, ma «solide idee che nell’aria si dissipavano». Forniamo un altro esempio: la sistemazione dei libri di Jacinto nelle scatole per il viaggio da Parigi a Tormes rappresenta la parodia della classificazione positivista delle scienze, dove la metafisica è chiamata in causa soltanto per riempire i buchi e gli spazi lasciati vacanti dalle altre scienze: Gettammo poi dentro, a bracciate, Geologia, Mineralogia, Botanica…Vi spargemmo sopra un aereo strato di Astronomia. E, per fissare bene nella cassa queste Scienze vacillanti, infilammo, tutto attorno, cunei di Metafisica52.

Allo stesso modo, la descrizione della biblioteca di Jacinto, in cui i filosofi e i loro commentatori rivestivano un’intera parete, dalle scuole pre-socratiche fino a quelle neo-pessimiste, conferma la visione d’insieme: Su quegli scaffali erano ammonticchiati più di duemila sistemi, e tutti in contraddizione tra loro. Dalle rilegature s’individuavano subito le dottrine. Hobbes, in basso, era pesante, di cuoi scuro; Platone, in alto, risplendeva in una pelle di capretto pura e candida53.

Anche le filosofie e gli stessi filosofi sono spesso oggetto dell’ironia queirosiana. Innanzitutto, gli ambienti filosofici parigini, le mode e i rituali di una «filosofia da birreria» che evocano gli ambienti del dilettantismo giovanile dei tempi di Coimbra, e associano l’ubriacatura di idee alla sbornia di birra. È in un tale ambiente che il personaggio centrale de La Città e le Montagne scopre e formula la sua grande equazione metafisica, un compendio del positivismo: Somma Scienza x Somma Potenza = Somma Felicità. La felicità degli individui,

52. Ivi, p. 129; trad. it. p. 124. 53. Ivi, p. 26; trad. it. p. 24.

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in sostanza, come quella delle nazioni, si realizza attraverso lo sviluppo illimitato della meccanica e dell’erudizione. Con le parole del narratore: Jacinto illustrava prolissamente la sua Idea, quando conversavamo dei fini e dei destini umani, bevendo bocks polverosi sotto i tendali delle birrerie filosofiche, nel Boulevard SaintMichel54.

In una nota intitolata Il Bock Ideale55, questo topos si generalizza, diventando una teoria sul modo di produzione delle idee e dei sistemi filosofici: Svuotare bocks e sviluppare teorie non sono occupazioni diverse né nuove. A partire da Spinoza, e forse dalla stesso Aristotele, le birra è intimamente legata alla metafisica. Nelle vecchie città scolastiche della Germania, molte volte dal fondo di un bock è sorta una sintesi dell’universo. E lo stesso accade a Parigi – nei caffè con dei nomi perfettamente turpi, in cui non ha alcun posto l’ideale, come il “Topo Morto” o la “Porca che fugge” –, sempre che ragazzi di vent’anni, che abbiano già sfogliato da un librario qualche volume di Kant o di Hegel, si siedano a un tavolo libero – immediatamente si ride, si beve, si filosofa.

Non molto tempo dopo, Nietzsche farà un’identica affermazione a proposito dei metafisici idealisti tedeschi, attribuendo la natura indigesta dei loro sistemi a delle bevute di birra mal digerite, e quindi considerandoli il prodotto di un vizio o di un malfunzionamento gastrico. Anche ne La Città e le Montagne, troviamo un altro esempio di ironia raggiunto attraverso un contrasto – il pessimismo dei sazi e dei parassiti sociali (d’altronde, tutta l’opera espone il contrasto tra l’abbondanza di beni e di civilizzazione di Jacinto 54. Ivi, pp. 11-12; trad. it. p. 9. 55. E. de Queirós, Notas Contemporâneas (2000), pp. 243 e sg.

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e il suo incontenibile sbadigliare!). Ci troviamo al cospetto di un giovane pedante che, con la pancia piena e tra i sorsi di Château-Yquem, decreta il nichilismo: Egli, bevendo sorsi di Château-Yquem, dichiarò che oggi l’unica emozione veramente raffinata sarebbe stato l’annientamento della Civiltà. Né la scienza, né l’arte, né il denaro, né l’amore erano più in grado di dare un gusto intenso e reale alle nostre anime sazie. Tutto il piacere che si traeva dal creare era esaurito. Dunque, non restava che il divino piacere di distruggere! Espose ancora altre enormità, con un chiaro sorriso negli occhi chiari56.

Ciò che si profila dietro tutte queste forme di ironia, però, è l’esplicita denuncia e la corrosiva critica queirosiana delle relazioni perverse tra l’ideale e il reale, fra le teoria e la pratica, tra la filosofia e la vita, fra le idee o i sistemi filosofici e l’azione conseguente e utile. È questo scarto che porta lo scrittore a riconoscere nella filosofia e nel pensiero un dolore che invariabilmente rivela un’identica sintomatologia e sequenza fatale: il passaggio da un esaltato idealismo (positivista o romantico) ad un estremo pessimismo. Lo scrittore è spinto quindi a constatare e ad affermare in uno dei suoi racconti che «oggi, in modo incontestabile, pensare è soffrire […] Oggi, la vita del pensiero è un vasto ospedale di anime57». Eça si riferisce qui al romanticismo. La sua osservazione, tuttavia, vale per tutte le riflessioni lontane dalla realtà, dall’azione, dalla vita e dalla natura. È per questa ragione allora che, a proposito di Fradique – iniziato, «ancor prima che gli fosse cresciuta la peluria, alla Critica della Ragion Pura e all’eterodossia metafisica dei professori di Tubinga» –, Eça precisa che, «per fortuna, già allora trascorreva lunghe giornate a cavallo nei campi […], e dall’a56. E. de Queirós, A Cidade e as Serras (1980), p. 66; trad. it. p. 64. 57. E. de Queirós, Prosas Bárbaras, Lello & Irmão, Porto (s. d.), p. 177.

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nemia che gli avrebbero causato le astrazioni del raziocinio, lo salvò il soffio fresco delle cavalcate e la naturale purezza dei ruscelli in cui si dissetava58». Potremmo confrontare questa descrizione con il primo Jacinto, il quale, imbevuto di teorie e di civiltà, nel mezzo della natura sperimentava soltanto una «improvvisa e umiliante inservibilità di tutte le sue facoltà superiori59». Negli scritti di Eça, troviamo una costante svalutazione della teoria in quanto tale. Nel finale de La Città e le Montagne, Jacinto incarna un perfetto esempio della riconciliazione fruttifera e salutare della teoria con la pratica, della scienza con l’azione, del pensiero con la vita reale degli uomini, e proprio nel momento in cui il personaggio presenta soluzioni concrete e alla portata dell’effettiva capacità dell’uomo, anziché astratte soluzioni di carattere universale, utopiche e irrealizzabili. Alla filosofia delle dottrine e delle scuole, Eça preferisce dunque una filosofia che sorge dalla vita, colta nella conoscenza del mondo e dell’esperienza. Ecco che già ne Il Mistero della Strada di Sintra una donna confessa allora di aver appreso la filosofia nella scuola dei suoi conflitti sentimentali: Non si ricorda che allora mi chiamava il filosofo biondo? Il filosofo ha sentito, ha pianto, ha sofferto: ha fatto i suoi migliori studi. Quale insegnamento migliore delle lacrime? Il dolore è una verità eterna che resta, mentre le teorie passano. Non immagina quanto abbia imparato dalla vita quando mi è capitata questa disgrazia! Non immagina quante idee giuste e precise derivano dalle incoerenze del pianto!60.

58. E. de Queirós, A Correspondência de Fradique Mendes (s. d.), p. 14; trad. it. p. 31. 59. E. de Queirós, A Cidade e as Serras (1980), p. 16; trad. it. p. 13. 60. E. de Queirós – Ramalho Ortigão, O Mistério da Estrada de Sintra, Europa-América, Mem Martins 2000, pp. 130-131; trad. it., Il mistero della strada di Sintra, a c. di A. Di Munno, Sellerio, Palermo 2000, p. 227.

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In questo senso, anche la corrispondenza di un uomo – considerata il registro di una vita vissuta che si confessa agli altri – può assumere un valore superiore a quello di una filosofia coerentemente sviluppata. È ciò che accade a Fradique, la figura su cui Eça costruisce la sua convinzione dell’opposizione tra Vita e Filosofia: Le lettere di un uomo, essendo il prodotto caldo e vibrante della sua vita, contengono un insegnamento maggiore che la sua stessa filosofia – che è soltanto la creazione impersonale del suo spirito. Una Filosofia offre meramente una congettura in più, che si va a aggiungere all’immenso cumulo di congetture: una Vita che si confessa costituisce lo studio di una realtà umana, che, posta a lato di altri studi, allarga la nostra conoscenza dell’Uomo, unico obiettivo accessibile allo sforzo intellettuale61.

In un articolo intitolato La decadenza del riso, Eça scrive: L’uomo di pensiero che costantemente, a causa del fanatismo dell’educazione scientifica e critica, cerca le realtà attraverso le apparenze […] e cammina sempre alla ricerca di una legge stabile ed eterna […] non può che essere triste62.

Questa osservazione era riferita forse al suo antico compagno e amico Antero, a proposito del quale Eça scrive: A dispetto di qualche scetticismo e molta ironia, egli cadde semplicemente in grossi inganni, perché lo spirito translucido non prevedeva, e mai si ricordava del dolore e della falsità. In quell’erudito pessimista vi era sempre un innocente63.

E lo stesso può dirsi di Jacinto:

61. E. de Queirós, A Correspondência de Fradique Mendes (s. d.), pp. 109110; trad. it. p. 104. 62. E. de Queirós, Notas Contemporâneas (2000), p. 166. 63. Ibid.

242 E adesso, eccolo lì l’ultimo Jacinto, un Jacintucolo con la delicata pelle imbevuta di aromi, la misera anima intrigata in filosofie, intrappolato tra cupi sospiri nella meschina indecisione di vivere64.

Un processo frequente in alcuni dei personaggi di Eça è il passaggio da un estremo idealismo a un radicale pessimismo. Alcuni critici hanno già indicato le analogie tra la descrizione fornita da Eça del reale percorso di Antero de Quental e il cammino fittizio compiuto da Jacinto. L’idealismo di Antero, visto l’esito finale, non ebbe alcuna cura, a dispetto dell’ottimismo teorico degli ultimi scritti, manifestatosi soprattutto nelle Tendenze Generali della Filosofia e nelle Lettere dell’ultimo periodo. Eça comprese il mal-de-vivre di cui soffriva il suo amico, e cercò quindi di riportarlo alla realtà, seppur invano. Nel caso di Jacinto, tuttavia, Eça ha realmente l’opportunità di intervenire e promuovere la conversione del suo personaggio, facendolo evolvere, grazie alla maieutica socratica di Zé Fernandes, dal morboso astratto idealismo della teoria positivista al sano realismo dell’azione concreta, dall’alienazione della Civiltà alla realtà della montagna e della natura, dall’irrealtà del sogno alla concretezza dell’azione effettiva; infine, dal pessimismo ad una felicità che, pur modesta, si rivela realmente a misura d’uomo, perfettamente integrata nell’orizzonte della natura. Ecco la testimonianza dello stesso Zé Fernandes: Durante le settimane passate in ozio a Tormes, assistetti con commosso interesse a una considerevole evoluzione di Jacinto riguardo ai suoi rapporti con la Natura. Da quel primo periodo di sentimentale contemplazione, in cui coglieva teorie dai rami di qualunque ciliegio, e costruiva sistema sopra la spuma delle acque correnti, il mio Principe lentamente passava al desiderio dell’Azione…E di un’azione diretta e mate-

64. E. de Queirós, A Cidade e as Serras (1980), p. 125; trad. it. p. 120.

243 riale, in cui la sua mano, finalmente restituita alla sua funzione superiore, rivoltasse la zolla65.

Ma la riconciliazione e la pace raggiunte con questo ritorno alla natura rappresentano la perfetta soluzione per l’uomo? L’ambiguità e i dubbi traspaiono in un’osservazione di Zé Fernandes (lo stesso che si impegnava al massimo per distruggere nell’amico l’ossessione per la civiltà, cercando al tempo stesso di avvicinarlo ai piaceri della natura) sulla nuova condizione del suo Principe felice, lasciando così aperta la possibilità di prendere partito rispetto a due modelli di realizzazione umana, quello di un ritorno alla Natura, o quello del massimo sviluppo della Civiltà: «È persino diventato monotono, a causa della perfezione della sua bellezza morale, quell’uomo così pittoresco per l’inquietudine filosofica e per i pittoreschi tormenti della sua fantasia insoddisfatta66». Zé Fernandes sembra quindi voler suggerire che è proprio mantenendo la tensione tra i due domini che l’uomo può realizzarsi in tutte le sue varie dimensioni. Il tema del viaggio come topos filosofico è un argomento ricorrente nell’opera queirosiana. Il paradigma è Descartes: Fradique e Eduardo Prado (e anche lo stesso Eça) rappresentano perciò il controcanto letterario del filosofo francese; anche loro, infatti, preferiscono leggere il libro della vita e degli uomini reali piuttosto che sfogliare altri libri, dove le anime sono destinate ad essere imbalsamate per sempre. Sul brasiliano Eduardo Prado, anch’egli diplomatico, Eça scrive: Viaggiò ampiamente, viaggiò intensamente, e non come vagabondo, ma come filosofo, per cui il mondo rappresenta quel libro che loda Descartes, il migliore da sfogliare, pur essendo

65. Ivi, p. 188; trad. it. pp. 181-182. 66. Ivi, p. 254; trad. it. p. 244.

244 il più difficoltoso da comprendere, giacché è vivo, mentre gli altri libri sono anime imbalsamate67.

Come il filosofo francese dedicava poche ore al giorno alla filosofia, e poche ore all’anno alla metafisica, così Fradique, che al pari di un honnête homme cartesiano aveva molte altre cose di cui occuparsi, non potendo dunque dedicarsi alla sola filosofia, si recava «due o tre volte alla settimana fino alla sua officina di Metafisica per sapere se, guidato dall’anima dolce di Maine de Biran, che gli fa da cicerone nei suoi viaggi verso l’Infinito, egli ha già intravisto, nascosta dietro i suoi ultimi veli, la Causa delle Cause68». È così che Eça esprime, con la sottigliezza dell’ironia, il suo personale agnosticismo sulle questioni metafisiche. Fradique, tuttavia, pur non possedendo alcun sistema filosofico, aveva almeno, secondo il suo portavoce, un abbozzo di metafisica costruito sulla nozione di Realtà, sulla relazione tra Realtà e fenomeno, e sulla Realtà del fenomeno. È curioso che questa precisazione sia presentata in una supposta lettera ad Antero; è probabile che Eça volesse fare un riferimento alle categorie filosofiche che occuparono spesso, nei suoi saggi e nelle sue lettere, l’autore delle Tendenze. Il passo, ad ogni modo, è importante per comprendere il peculiare “realismo” di Eça. Ecco un passaggio in cui lo scrittore espone il pensiero del suo Fradique: Ogni fenomeno (scrive in una lettera a Antero de Quental, suggestiva dentro una certa oscurità che l’avvolge) ha una Realtà. L’espressione Realtà non è filosofica; eppure la impiego, la uso a caso e a tentoni, per coglier da essa il più possibile un concetto poco coercibile, quasi irriducibile al verbo. Ogni fenomeno, dunque, ha, rispetto al nostro intelletto e alla sua potenza di discernerlo, una Realtà – voglio dire certi carat67. E. de Queirós, Notas Contemporâneas (2000), p. 363. 68. E. de Queirós, A Correspondência de Fradique Mendes (s. d.), p 171; trad. it. p. 153.

245 teri o (per esprimermi con un’immagine come raccomanda Buffon) certi contorni che lo limitano, lo definiscono, gli danno una forma propria nell’insieme disseminato e universale insieme, e che costituiscono il suo esatto, reale e unico modo di essere. Soltanto l’errore, l’ignoranza, i preconcetti, la tradizione, l’abitudine e soprattutto l’ILLUSIONE formano attorno a ogni fenomeno una nebbia che ne sfuma e deforma i contorni, e impedisce che la visione intellettuale lo distingua nel suo esatto, reale e unico modo di essere69.

L’idea è presentata poco dopo con un’immagine tratta da una fenomenologia percettiva, più consona alla sensibilità dell’autore di quanto non fosse l’utilizzo di concetti astratti o di qualche “tecnicismo filosofico”: Nelle mattine di nebbia, in una via di Londra, è difficile distinguere se l’ombra densa, che da lontano si impasta, è la statua di un eroe o il frammento di una siepe. Una grigiastra illusione sommerge la città – e con stupore si trova in una taverna chi aveva pensato di entrare in un tempio. Dunque, per la maggioranza degli spiriti una nebbia uguale fluttua sulle realtà della Vita e del Mondo. Ne consegue che quasi tutti i loro passi sono traviamenti, quasi tutti i loro giudizi sono inganni; e costantemente non fanno che confondere il Tempio con la Taverna70.

Eça-Fradique parla di due piani: quello della realtà in sé e quello della percezione che l’uomo possiede della realtà stessa. È quest’ultima, unita alle condizioni che la circondano, che impediscono all’uomo di accedere ad una visione intellettuale delle cose quali sono in se stesse: «Rare sono le visioni intellettuali, acute e potenti abbastanza da rompere – attraverso la foschia e sorprendendo le linee esatte – il vero contorno del-

69. Ivi, pp. 68-69; trad. it. p. 73. 70. Ivi, pp. 69-70; trad. it. pp. 73-74.

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la Realtà71». Non è molto differente la posizione che Antero espone, all’inizio delle sue Tendenze, con un’immagine assai simile: Il Sole, visto attraverso la nebbia, è sempre il Sole, e le proprietà fisiche e chimiche della sua luce, diminuite ed alterate, sono tuttavia le proprietà fondamentali della luce solare. Se non potessimo mai vederlo se non attraverso questo mezzo offuscante, potremmo comunque ancora studiarlo e conoscerlo. È così che ogni abbozzo, ogni tentativo di definizione della verità filosofica contiene in sé, a dispetto delle alterazioni inerenti alla nostra indissipabile foschia, l’indicazione preziosa di alcune proprietà fondamentali della verità assoluta72.

La denuncia del dilettantismo e dell’inutilità della continua successione delle mode filosofiche occupa nelle opere di Eça un particolare rilievo, almeno dal periodo conimbricense degli anni 60’ (si tenga presente la testimonianza riportata già in precedenza: «C’erano fra di noi tutte le teorie e tutte le sette…») fino al soggiorno a Parigi («Babele di etiche ed estetiche») degli anni 90’. Dopo aver sperimentato tutte le teorie, filosofie e dottrine, gli stessi che una volta furono ferventi adepti del positivismo, della ragione e della scienza, dopo aver attraversato tutte le mode di pensiero che la cosmopolita Parigi poteva offrire, finirono per aderire alle più curiose forme di irrazionalismo ed esoterismo, pur non abbandonando la retorica positivista incentrata sui “fatti” e sulla “prova o base sperimentale” dell’indagine! Si presti attenzione a questa eloquente pagine de La Città e le Montagne. Jacinto e Zé Fernandes si incontrano a Montmar-

71. Ivi, p. 70; trad. it. p. 74. 72. A. de Quental, Tendências Gerais da Filosofia na Segunda Metade do Século XIX, apresentação e comentário de L. Ribeiro dos Santos, Presença, Lisboa 1995, p. 45.

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tre con Maurício de Moyolle, una vecchia conoscenza di Jacinto. È interessante notare come la maggior parte delle volte sia proprio il dilettante a denunciare l’imperante dilettantismo: – Sono tre anni che non ti vedo, Jacinto…Come è stato possibile in questa Parigi che è un paesotto e tu sei sempre ovunque? – È proprio vero! Sono passati tre anni, dalla casa dei Lamotte-Orcel. Tu visiti ancora quel santuario? […] – Oh! È più di un anno che mi sono separato da quel branco di eretici…Una turba indisciplinata, Jacinto mio! Nessuna stabilità, un dilettantismo confuso, mancanza completa e ridicola di qualsiasi base sperimentale…Quando frequentavi i Lamotte-Orcel, e la Chiacchiera del 37, e la Birra Ideale, che cosa andava di moda? – Non saprei!...Andava di moda Wagner e la Mitologia Eddica, e il Ragnarok, e le Norme…Anche molto Preraffaelismo, e Mantegna, e Fra Angelico…In morale, il Renanismo. – Oh, tutto ciò apparteneva ad un passato arcaico, quasi lacustre! Quando Madame de Lamotte-Orcel aveva rinnovato la sala con i velluti Morris, grossi carciofi su tinte zafferano, il Renanismo era già superato, dimenticato come il Cartesianismo. – Tu sei rimasto al tempo del culto dell’Io? […] – Ho continuato a coltivarlo. – Bene! Subito dopo fu la volta dell’Hartmannismo, dell’Inconscio. Poi si diffuse il Nietschismo, il Feudalismo Spirituale…Poi si diffuse il Tolstoismo, un ardore immenso di rinuncia neo-cenobitica […] Poi venne l’Emersonismo… Ma la piaga più crudele fu l’Ibsenismo! Insomma, figlio mio, una Babele di Etiche e di Estetiche. Parigi pareva impazzita. Vi erano già alcuni deviati che tendevano al Luciferismo. E certe nostre amiche, poverette, scivolavano verso il Fallismo, un miscuglio mistico-malizioso, predicato da quel povero La Carte che poi si fece Monaco Bianco, e che vaga per il deserto…Un orrore! E un giorno, all’improvviso, tutta la massa si buttò con impeto sul Ruskinismo! […] – Il Ruskinismo?

248 – Sì, il vecchio Ruskin…John Ruskin! […] – Ah, Ruskin!...Le Sette Lampade dell’Architettura, La Corona di Ulivo Selvatico… È il culto della bellezza. – Sì, il culto della bellezza – confermò Maurício. Ma a quel tempo io, nauseato, ero già sceso da tutte quelle nuvole chimeriche…Calpestavo un terreno più sicuro, più fertile […] Jacinto aspettava, con le narici sottili dilatate, come per respirare il Fiore della Novità che stava per sbocciare: – E allora? Allora? […] – Sono venuto a Montmartre...Ho qui un amico, un uomo geniale, che ha percorso tutta l’India…Ha vissuto con i Toda, è stato nei monasteri di Garma-Khian e di Dashi-Lumbo, e ha studiato con Gegen-Chutu nel santo ritiro di Urga… Gegen-Chutu fu la sedicesima incarnazione di Guatama, ed era dunque un Bodhisattva…Lavoriamo insieme, facciamo ricerche…Non sono visioni. Ma fatti, esperienze antichissime, che risalgono forse ai tempi di Christna […] Tutto infine si riduce al supremo sviluppo della Volontà nella suprema purezza della Vita. È tutta qui la scienza e la forza dei grandi maestri indù […] Tu conosci gli esperimenti di Tyndall, con le fiamme sensitive…Quel povero chimico, per dimostrare le vibrazioni del suono, toccò quasi le porte della verità esoterica. Ma niente! Uomo di scienza, dunque uomo stolto, egli rimase al di qua della soglia, tra le sue placche e le sue storte! Noi siamo andati oltre. Abbiamo verificato le ondulazioni della Volontà! Davanti a noi, per l’espansione dell’energia del mio compagno, e in cadenza coi suoi ordini, una fiamma, a tre metri, ondulò, strisciò, lanciò lingue ardenti, lambì un’altra parete, ruggì furiosa e nera, risplendette diritta e silenziosa, e bruscamente dissolvendosi in cenere morì! E quello strano uomo, col cappello sulla nuca, rimase immobile, a braccia aperte e con lo sguardo stralunato, come nel rinnovato stupore e nell’estasi di quel prodigio […] Strinse la mano del mio Principe, salutò questo perplesso Zé Fernandes, e serenamente s’incamminò per la via tranquilla, con il cappello di paglia sulla nuca, le mani affondate nelle tasche, come un uomo naturale tra le cose naturali.

249 – Oh Jacinto! chi è questo stregone? Racconta!...Chi è, nel santissimo nome di Dio? […] Il mio principe mi raccontò, concisamente…e mormorò, attraverso il solito sbadiglio: – Lo sviluppo supremo della Volontà!...Teosofia, Buddismo esoterico…Aspirazioni, disinganni...L’ho già sperimentato… Una noia!73.

Jacinto scandagliò direttamente quel periplo di dottrine, sperimentandone l’inanità. Come abbiamo già sottolineato, questa generazione imborghesita, oziosa e futile ricercava nelle idee e nelle mode ciò che soltanto un’azione effettiva e produttiva gli avrebbe consentito di raggiungere, grazie a quella forma superiore di azione rappresentata dalla creazione della bellezza attraverso l’arte. 5. Ricercando il profilo intellettuale di Eça, ciò che risalta immediatamente è il suo risvolto negativo, la sua pars destruens, ossia l’Eça ironista e critico delle soluzioni filosofiche in voga al tempo. La sua critica si dirige, in particolare, a due posizioni estreme e ugualmente distanti dalla realtà, dalla vita e dall’azione: l’ottimismo positivista e il pessimismo, soprattutto nella sua espressione schopenhaueriana. Nonostante rappresentino i due estremi di un arco intellettuale, è frequente, come dimostra il caso di Jacinto e, in un certo senso, anche quello di Antero, il passaggio dall’uno all’altro, come se Eça volesse suggerire che tutti gli idealismi (ivi compreso il positivismo) conducono allo scetticismo, al pessimismo e al nichilismo. La critica e demolizione queirosiana del positivismo, presente in vari luoghi e periodi dell’opera dello scrittore, non è rivolta tanto ai presupposti del positivismo, bensì è diretta 73. E. de Queirós, A Cidade e as Serras (1980), pp. 99-102; trad. it. pp. 94-98.

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ai suoi supposti successi. Ne Il Bock Ideale, ad esempio, Eça dimostra che le due grandi idee e creazioni della Modernità, la scienza e la democrazia – la vittoria della Verità attraverso la scienza e la vittoria dell’Uguaglianza grazie alla democrazia – sono in realtà false vittorie destinate ad escludersi a vicenda, annullandosi l’una nell’altra o in se stesse. A questo proposito, è sufficiente considerare la contraddizione tra la libertà proposta dal diritto e il determinismo presupposto dalla visione scientifica della natura, e dunque, nella sostanza, la contraddizione fra scienza e democrazia: La democrazia, uscita tutta intera dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo che affermava superbamente la libertà e l’uguaglianza, trova nell’uomo un essere miseramente soggetto a tutte le fatalità fisiche e a tutte le dipendenze sociali, senza essere in grado di liberarlo da simili vincoli – perché contro i diritti dell’uomo, solo dichiarati, protestano le realtà della Natura, realmente sperimentate. Da qui tutte le contraddizioni del secolo. In luogo della fraternità, si vede la ghigliottina operare come fattore di civilizzazione; al posto delle razze unite nella concordia universale, crescono i nazionalismi antagonisti, che si detestano e vivono coperti di ferro e armi, sbirciando, dalla cima delle frontiere, il tanto atteso momento per lacerarsi l’un l’altro. L’aristocrazia territoriale e signorile è troncata, e rinasce, come la seconda testa dell’idra, l’aristocrazia capitalista e industriale; e il mondo, che aveva smesso di vedere schiavi in rivolta e jacqueries, le ritrova di nuovo di fronte a sé, ma implacabili e dolorose, sotto il nome di comunismo e di nichilismo. E, come se tutto ciò non bastasse, la scienza stessa nega l’origine della democrazia, che si riteneva fosse ugualmente naturale, provando che l’unica legge universale è la disuguaglianza; che l’uomo, al pari degli altri esseri, è soggetto alla selezione evolutiva; che il diritto delle specie alla vita si valuta in rapporto alla loro capacità di vivere; che chi trionfa e sopravvive è il più forte e che, pertanto, la realtà del diritto si ha soltanto quando vi è una manifestazione di forza.

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Questa accusa è di un’estrema perspicacia e tocca di fatto il cuore della grande utopia moderna. Nell’ultima parte del testo citato, vi è una chiara allusione alla dottrina evoluzionista darwiniana che, in nome della scienza e collocando l’uomo nell’orizzonte della natura e delle sue leggi biologiche elementari, mette a nudo la contraddizione fra le rivendicazioni politiche di una democratica uguaglianza e le evidenze del violento meccanicismo della natura, dove, anche nell’ambito umano, vi è spazio solo per la forza e in cui il diritto è soltanto quello del più forte. La scienza distrugge così il diritto e si rende inaccessibile all’ordine umano e morale del mondo. In tal modo, essa si avvicina a quei meccanismi di oppressione e dominio che si impongono nuovamente sotto altre forme e con altri protagonisti. Ma la scienza, oltre a distruggere i fondamenti del diritto umano e della democrazia, sarà in grado almeno di far rinascere definitivamente la verità e la certezza tra gli uomini, portando così a compimento il proprio progetto? La risposta è negativa: Attorno ad ogni piccola verità che la scienza conquista, si estende, immediatamente e in modo irrimediabile, un immenso campo di incertezza. Più avanza, e più si sente e si verifica la terribile estensione dell’oscuro cammino da attraversare. Non appena essa riesce ad attraversare, sudando e gemendo, quella che ritenevamo fosse l’ultima porta del tabernacolo – immediatamente, di fronte a noi, appare un’altra porta, più difficile e più impenetrabile. La celebre “Luce della Scienza”, ad ogni istante più viva e più alta, ci serve soltanto, proprio quando aumenta in altezza e luminosità, per mostrarci quanto sia infinito e inaccessibile il tremendo buio metafisico. La scienza è riuscita realmente a rendere soltanto più intensa e forte una certezza – la vecchia certezza socratica

252 della nostra irreparabile ignoranza. Ogni volta sappiamo sempre di più di non sapere nulla74.

Il fatto che il positivismo scientista, forse perché consapevole della sua congenita debolezza, non voglia soltanto imporsi come una religione, ma divenire un suo alleato, è una particolarità che Eça constata con grande sorpresa e sospetto75. Anche ne La Città e le Montagne, ad esempio, la concezione positivista del mondo, condensata nell’«equazione metafisica» di Jacinto, e destinata al progressivo accumulo di tutti i saperi e di tutte le tecniche necessarie per sostanziare la civiltà umana, è oggetto dell’interesse dello scrittore portoghese: Ora, in quel tempo, Jacinto aveva concepito un’Idea…Questo Principe aveva concepito l’Idea secondo cui “l’uomo è superiormente felice solo quando è superiormente civilizzato”. E per l’uomo civilizzato il mio compagno intendeva colui che, irrobustendo la propria forza pensante con tutte le nozioni acquisite a partire da Aristotele, e moltiplicando la potenza fisica dei propri organi con tutti i meccanismi inventati a partire da Teramene, lo scopritore della ruota, si trasforma in un magnifico Adamo, quasi onnipotente, quasi onnisciente, e capace perciò di raccogliere, in seno a una società e nei limiti del Progresso (come esso si presentava nel 1875), tutti i piaceri e tutti i vantaggi che risultano dal Sapere e dal Potere76.

In alcune pagine de La Città e le Montagne troviamo una critica del pessimismo schopenhaueriano fatta da Jacinto mentre ricorda la noia della sua precedente vita parigina. Di fronte alla nuova felicità sperimentata a Tormes, Zé Fernandes commenta: «Oh Jacinto, e quando andavamo in giro per Parigi con

74. E. de Queirós, Notas Contemporâneas (2000), pp. 246-247. 75. Cfr. Ivi, pp. 248-250. 76. E. de Queirós, A Cidade e as Serras (1980), pp. 1-12; trad. it. p. 9.

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il pessimismo addosso, gemendo che tutto era illusione e dolore?». Ecco la risposta di Jacinto: Oh, che ingegnosa bestia quello Schopenhauer! E più bestia io, che me lo divoravo, che mi disperavo veramente! E comunque […] il Pessimismo è una teoria ben consolatrice per chi soffre, perché disindividualizza la sofferenza, la dilata fino a renderla una legge universale, la legge stessa della Vita; le toglie così l’aspetto angosciante di un’ingiustizia sociale, commessa contro colui che soffre da un Destino nemico e fazioso! […] E poi – esclamava ancora il mio amico – il Pessimismo è eccellente per gli Inerti, perché minimizza il volgare delitto dell’Inerzia. Se la meta non è altro che un monte di Dolore, contro cui l’anima va a cozzare, perché camminare verso la meta, tra le difficoltà del mondo? E del resto, tutti i Lirici e i Teorici del Pessimismo, da Salomone fino al maligno Schopenhauer, lanciano il loro cantico o la loro dottrina per mascherare l’umiliazione delle loro miserie, subordinandole tutte a una vasta legge di vita, a una legge cosmica, e adornando così con l’aureola di un’origine quasi divina le infime imperfezioni del loro temperamento e della loro sorte. Il buon Schopenhauer formula tutto il suo schopenhauerismo quando è ancora un filosofo senza editore e un professore senza discepoli; e soffre di terrori e di manie atroci; e nasconde il suo denaro sotto un’asse del pavimento; e tiene i suoi conti in greco tra continui lamenti di sfiducia; e vive nelle cantine per paura degli incedi; e va in giro con un bicchiere di latta in tasca per non bere nel vetro che le labbra di un lebbroso avrebbero potuto contaminare!...Allora Schopenhauer è cupamente schopenhaueriano. Ma appena giunge alla celebrità, e i suoi poveri nervi si calmano, e lo circonda un’amabile pace, non vi è, in tutta Francoforte, un borghese più ottimista, con una faccia più gioconda, e che goda più giudiziosamente dei vantaggi dell’Intelligenza e della Vita!...E L’altro, l’israelita, il pesantissimo re di Gerusalemme! Quando scopre, questo sublime Retore, che il mondo è Illusione e Vanità? A settantacinque anni, quando il potere gli sfugge dalle mani tremanti, e il suo serraglio di trecento concubine è

254 ormai per lui ridicolamente superfluo. È allora che prorompe in pomposi lamenti! Tutto è vanità e afflizione dello spirito! Non vi è nulla di stabile sotto il sole! In effetti, mio buon Salomone, tutto passa, soprattutto la facoltà di usare trecento concubine! Ma si restituisca a questo vecchio sultano asiatico, imbevuto di Letteratura, la sua virilità, e che fine farà allora il lamento dell’Ecclesiaste? Ripeterà invece, in una seconda e trionfale edizione, l’estasi del Cantico dei Cantici!... Così discorreva il mio amico nel notturno silenzio di Tormes. Credo che formulasse ancora sul Pessimismo altre idee gioviali, profonde o eleganti; ma io mi ero addormentato, beatamente avvolto dall’Ottimismo e dalla Dolcezza77.

Ci troviamo di fronte ad una vera critica psicanalitica (ed è proprio questo il caso, visto che la psicanalisi stava per nascere in quegli anni), un rifiuto ad hominem più che ad veritatem, analogo a quella che Nietzsche aveva proposto in Al di là del Bene e del Male, considerando le differenti filosofie come una semiologia cifrata delle passioni dei rispettivi autori78. I sistemi filosofici parlano delle rimozioni, delle frustrazioni, dei risentimenti, delle piccole vanità e delle passioni umane, e soprattutto di quelle passioni “oltremodo” umane dei suoi autori. Alle volte, sotto le forme sottili e nobili del travestimento, si nasconde il parassitismo, l’autocompiacimento melanconico, il narcisismo e l’egocentrismo petulante e isterico. Tali filosofie non riflettono quindi la vita di organismi in piena salute; devono essere lette perciò innanzitutto come campioni clinici del vasto ospedale di anime che è il mondo delle idee. Il tante volte sottolineato scetticismo di Eça non può essere semplicemente ricondotto alla sua personale sensibilità. In 77. Ivi, pp. 179-181; trad. it. pp. 173-175. 78. Cfr. F. Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse; trad. it., Al di là del bene e del male, a c. di F. Masini, intr. di G. Colli, Adelphi, Milano 2007 (22a ed.), I, 3, p. 9.

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realtà, è ben fondato in un’analisi circostanziata della realtà sociologica del suo tempo e del fallimento delle grandi idee e illusioni che hanno guidato la civiltà moderna. I presupposti del positivismo si auto annullano, e la scienza ha un effetto detergente nei confronti di se stessa, poiché ogni nuova verità scalza e distrugge verità e convinzioni precedenti: ciò lascia la convinzione che la scienza incarni un compito vano, e che non sia grazie ai suoi servigi che l’uomo trova quella verità e quella pace cui tanto aspira. Eça, oltre a non aver realmente professato lo scetticismo, non cade però neppure nell’irrazionalismo. La posizione che difende è un sensato realismo critico, basato su un auspicabile equilibrio tra la ragione e l’immaginazione, fra i diritti della ragione – della scienza, della verità – e i diritti del sentimento e del cuore. Si comprende così anche il motivo per cui decise di seguire, come via di realizzazione personale e umana, l’opzione artistica: l’arte, infatti, è ciò che consente all’uomo di raggiungere una verità capace di redimerlo o di fornirgli un senso. D’altra parte, come ha scritto lo stessa Eça, solamente l’arte ha il potere di creare qualcosa che permane, in un mondo in cui tutto, inesorabilmente, sembra destinato a svanire79.

79. Cfr. E. de Queirós, Prefácio a Azulejos do Conde de Arnoso (12 giugno 1886), in Id., Notas Contemporâneas (2000), pp. 108-110.

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Estetica e filosofia dell’arte nei pensatori della “Scuola Portuense” – Teixeira de Pascoaes, Aarão de Lacerda, Leonardo Coimbra

La Storia dell’Arte è veramente la Storia Umana […] Arte significa Religione, l’unione delle anime nell’Amore e nella Bellezza. Teixeira de Pascoaes, António Carneiro (1950), in Id., A Saudade e o Saudosismo, p. 204 La buona arte di un’epoca è l’annuncio della nuova vita che emerge. Leonardo Coimbra, A Razão Experimental (1923), in Id., Obras, Porto 1983, Vol. II, p. 797

Il titolo di questo saggio promette più di quanto possa effettivamente offrire. In un Congresso dedicato ai pensatori di Porto, avremmo voluto presentare una breve riflessione sul creazionismo di Leonardo Coimbra da un punto di vista estetico. Gli organizzatori, tuttavia, confidando eccessivamente nella nostra capacità di sintesi, ci hanno suggerito di allargare l’orizzonte del nostro intervento al pensiero estetico di tutta la “Scuola Portuense1”. Considerando la grande varietà di 1. La Scuola Portuense (o Scuola di Porto) è il nome che si dà ad un gruppo di intellettuali (filosofi, poeti, artisti) formatosi nella seconda decade del XX secolo, ereditando una tradizione di pensiero sviluppata nelle ultime decadi del XIX secolo con i nomi di Pedro de Amorim Viana e Sampaio Bruno, approfittando dello slancio portato dall’impianto della Repubblica (1910) e aggregando le energie del movimento della Rinascita Portoghese (1912), gui-

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autori e tenuto conto anche del poco tempo a disposizione, abbiamo deciso di circoscrivere il nostro intervento a tre incontestati maestri: Teixeira de Pascoaes, Aarão de Lacerda e Leonardo Coimbra. Sebbene la nostra presentazione non potrà che rivelarsi incompleta, riteniamo possa comunque dare un’idea dell’importanza, dell’estensione e della profondità che hanno assunto in questi pensatori le tematiche estetiche, indicando inoltre i principali vettori in cui si articola la loro riflessione. Analizzeremo innanzitutto gli aspetti più rilevanti del pensiero estetico di ognuno di essi, per poi sottolineare alcuni luoghi concettuali in cui si manifesta una convergenza di punti di vista, tanto negli argomenti trattati, quanto nelle soluzioni fornite.

1. Teixeira de Pascoaes: dall’affermazione dell’assoluto della Poesia al riconoscimento dell’indole musicale dell’Essere La complessa figura di Teixeira de Pascoaes (1877-1952) è caratterizzata soprattutto dalla densità e profondità della sua opera poetica. Ma ciò che fornisce al suo corpus poetico ricchezza e spessore è l’implicita metafisica e visione del mondo che lo anima. Non ci si deve dunque meravigliare se il poeta fosse più portato a riflettere sui presupposti della propria metafisica poetica, esposti non attraverso dei concetti, ma grazie

dato da Teixeira de Pascoaes e animato dal magistero filosofico di Leonardo Coimbra alla Facoltà di Lettere di Porto appena creata (1919). Con la chiusura della Facoltà (1931) e la morte precoce di Leonardo Coimbra (1936), il gruppo si disperse, pur dando origine più tardi al movimento della Filosofia Portoghese (1943) che, cercando di coltivare l’autenticità e la singolarità della cultura filosofica portoghese, ha assunto sempre più un’impronta anti-razionalista e anti-accademica. A questo proposito, si veda lo studio di P. Gomes, A Escola Portuense – uma introdução histórico-crítica, Caixotim, Porto 2005.

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a suggestive immagini, giacché, come ha egli stesso precisato, «la vera filosofia è poetica o intuitiva2». La filosofia estetica di Pascoaes è una reiterata affermazione della poesia come linguaggio dell’essenziale natura poetica delle cose e del poeta come genuina espressione dell’«Uomo Universale». Il suo pensiero è caratterizzato da un’insistente diatriba contro l’egemonia della ragione scientifica nell’alveo della cultura occidentale, soprattutto sotto l’egida dello scientismo positivista. Le idee estetiche di Pascoaes sono allora presentate in un costante confronto, a volte persino aggressivo e schematico, tra la visione scientifica e la visione poetica della realtà. Alla relativizzazione della scienza segue l’inequivoca affermazione del carattere assoluto della poesia: solo la poesia, infatti, può rivelare il senso del mondo e fornire un significato alla vita, visto che «senza una concezione poetica della vita, il nostro pianeta sarebbe soltanto un refettorio e un cimitero3». Alla luce della sua visione poetica, Pascoaes intende scongiurare ogni inclinazione positivista dominante nelle elites portoghesi dell’epoca, e promuovere un ampio progetto per rianimare le genuine forze creatrici dello spirito portoghese. La sua riflessione contribuì a fondare il movimento della Renascença Portuguesa (1912), di cui fu uno dei principali esponenti, e senza dubbio il suo più fervente apostolo. Scrive Pascoaes: «Noi siamo stanchi della parola scientifica. L’anima dell’uomo desidera ascoltare la parola ispirata, la parola viva, creatrice della nuova Fede, la parola che accese l’aurora delle belle civiltà – il Fiat lux. La scienza, i metodi positivisti, l’esperienza, la visione obiettiva, tutto ciò si definisce in metalliche forme di macchine che rappresentano il loro ruolo nel mondo, ma in un ambito limitato. Noi sentiamo il nostro essere impolverato, 2. T. de Pascoaes, O Homem Universal, Assírio & Alvim, Lisboa 1993, p. 81. 3. Ivi, p. 89.

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privo della libera critica; la sede la si è trovata nell’anima che sperava di veder cadere dal cielo la dolce rugiada refrigerante, le lacrime divine di una nuova e religiosa commozione […] Per questo, l’opera della Renascença Portuguesa possiede a mio parere, su tutti gli altri, l’incommensurabile valore di sottrarre la Poesia alla sua propensione abituale di inerte contemplazione e immobilità estatica. Le ha infuso vita attiva e apostolica; le ha donato una forza galvanizzante di inerzie e direttrice di volontà. La Musa ha abbandonato il trono etereo, e vive sulla terra, fra gli uomini, seminando la speranza in una vita lusitana e umana superiore […] Sì: il grande merito del nostro Rinascimento è aver messo in moto le energie sentimentali, primitive, germogliate da un’anima ispirata, in un delirio rivelatore e creatore4». Dalle prime formulazioni del progetto rinascimentale di Pascoaes5 l’ispirazione estetica è ben visibile, così come la presenza di alcuni temi essenziali del Romanticismo: l’idea dell’esistenza di un carattere etnico individuale e proprio di ogni popolo ed etnia, l’imperativo del ritorno alla purezza originale ed essenziale della razza e il proposito di rinnovare le energie creatrici di un’intera civiltà. Uno dei propositi del movimento era quello di restituire, nella sua purezza essenziale, l’anima della stirpe lusitana, di rivelarne la natura nella sua intimità originaria, affinché fosse in grado di rendere ragione di se stessa, e di realizzare il suo destino civilizzatore attraverso l’arte, la letteratura e la religione. Secondo Pascoaes, il genio portoghese si esprime grazie a quel sentimento-idea chiamato saudade, rivelato sopratutto dai poeti. Nella più recente poesia portoghese, egli avverte un approfondimento di questa 4. T. de Pascoaes, A era lusíada (1914), in Id., A Saudade e o Saudosismo, Assírio & Alvim, Lisboa 1988, p. 167. 5. Cfr. il Manifesto da Renascença Portuguesa pubblicato ne “A Vida Portuguesa” il 10 febbraio 1914, e redatto nell’estate del 1911.

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rivelazione. La nuova poesia portoghese, infatti, è permeata da un panteismo che anima tutte le cose della nostra stessa vita, e la saudade si esprime quindi in esse, quasi fosse l’essenza propria del cosmo: «È per simpatia cosmica che la nostra anima trasborda da noi, inondando di amore le cose morte che ritornano a vivere6». Nel passaggio riportato è ben visibile la presenza del presupposto romantico secondo cui il mondo rappresenta una proiezione e creazione dello spirito. Scrive Pascoaes: «La natura materiale ricorda un caos che lo spirito dell’uomo va ordinando successivamente in forme armoniche ogni volta più perfette. L’universo è una specie di massa amorfa, a cui il nostro spirito imprime il volto definito e vivo della sua allucinazione. E tutta questa materia universale e caotica acquisisce una forma perfetta e animata, in spirito, nella creatura umana7». In verità, la poesia possiede in Pascoaes un ampio significato, inglobando tutte le arti e le superiori manifestazioni dello spirito, in particolare la religione e la filosofia. Poiché la poesia riassume ogni possibile manifestazione spirituale, tutto il mondo della cultura nasce dalla poesia, o è almeno da essa ispirata e animata: «La Poesia, che si tratti della musica di Beethoven, della pittura di Raffaello, del platonismo di Platone, del cristianesimo di Cristo, del tolstoismo di Tolstoj, è sempre stata la grande levatrice dell’anima umana, insinuandole i sentimenti più belli, come l’amore, la pietà, il bene, la giustizia […] Nonostante la Religione, l’Arte e la Poesia, l’uomo rimane

6. T. de Pascoaes, O génio português na sua expressão filosófica, poética e religiosa (conferenza proferita il 9 aprile 1913), in Id., A Saudade e o Saudosismo (1988), p. 77. 7. Ivi, p. 84.

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comunque un essere ancora molto imperfetto […] L’uomo è ancora ben lontano dall’Uomo8». Il compromesso della poesia con l’uomo è uno dei tratti caratteristici dell’umanesimo poetico di Pascoaes e rappresenta uno dei motivi della sua critica al razionalismo e alla visione scientifica, giudicati incapaci di rivelare all’essere umano la propria vera natura, permettendogli di realizzarsi in una dimensione spirituale. «L’uomo è prima di tutto un poeta», e può dirsi universale grazie ad una fantasia indefinitamente dilatata. Se la ragione è sedentaria, l’inspirazione è in grado di volare. La visione scientifica non va al di là della superficie delle cose; solo la poesia può parlare della profondità del reale9. Il culmine di questo umanismo poetico può essere perciò raggiunto grazie a quelle facoltà che la ragione scientifica disprezza o reprime: la sensibilità, il sentimento, l’affettività, la fantasia, l’emozione e perfino i più oscuri domini dell’incosciente e dell’irrazionale, visto che ciò che è «oscuro è alla base del chiaro, e l’irrazionale è alla base del razionale10». La poesia non è dunque un povero succedaneo della conoscenza e del pensiero, ma rappresenta la sua spontanea e più naturale espressione, la più adatta a schiudere il velo di mistero che avvolge l’universo e la vita. La poesia accorre lì dove la scienza confessa il proprio limite, situandosi proprio dove la scienza ha il suo sconosciuto cominciamento: «Dove termina la Logica inizia la Fantasia, o comincia la Poesia dove finisce la Scienza. La Scienza ha ridotto l’area dell’ignoranza, la Poesia ha ridotto l’area dell’innominato e ha aperto (e ancora apre) il cammino alla Scienza, visto che le

8. T. de Pascoaes, A Saudade e o Saudosismo (1988), pp. 195-196. 9. Cfr. T. de Pascoaes, O Homem Universal (1993), p. 84. 10. T. de Pascoaes, A Saudade e o Saudosismo (1988), p. 220.

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prime conoscenze furono casuali o spontanee, nate da se stesse o da una pura generazione poetica11». Al termine della sua vita, il poeta riaffermerà ancora una volta il legame essenziale che unisce la poesia e l’arte alla trasformazione della società e alla superiore realizzazione dell’umanità: «Senza Poesia», sostiene Pascoaes, «non c’è Umanità. È la Poesia la più profonda e la più eterea manifestazione della nostra anima. L’intuizione poetica o orfica precede, come fonte spirituale, la conoscenza euclidea e scientifica, fornendoci il significato più perfetto e armonico della vita. Perfezionando l’essere umano, lo allontana dall’artropode e lo avvicina all’antropo […] L’Umanità è un’Aristocrazia, per quanto noi si sia anti-aristocratici! E io credo che tornerà ad orientare il suo superiore destino! […] Credo nell’avvento dello Spirito, nel culto scientifico della realtà e della giustizia, e nel culto poetico della Verità e della Bellezza. Aspiro ad una profonda trasformazione della società. Ma non posso dimenticare che la lira di Orfeo ammansiva le bestie (e ammansire è umanizzare) e che ogni cambiamento deve essere operato musicalmente12». Pascoaes era ben consapevole sia del valore speculativo della poesia, sia dell’originaria affinità tra la poesia e la letteratura. La lettura del Pensiero Creazionista di Leonardo Coimbra gli fornisce perciò l’opportunità di sviluppare la sua riflessione a questo riguardo: «In ogni vero poeta vi è un filosofo addormentato, e in ogni poeta addormentato vi è un vero filosofo. Il poeta filosofa dopo aver cantato e il filosofo canta dopo aver filosofato […] Perché un destino così differente per questi due fratelli? È che il poeta cade dalle vette della Vita, dell’infanzia; l’aurora della sua nascita gli illumina il cammino che muore,

11. Ibid. 12. T. de Pascoaes, A velhice do poeta (1951), in Id., A Saudade e o Saudosismo (1988), pp. 269-270.

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laggiù, in una combinazione autunnale di ombre e brividi […] Il filosofo sale sopra la fine delle cose, si eleva nella luce della sera in cui tutte le forme si definiscono; è un alpinista della Vecchiaia; e là, dall’altitudine del crepuscolo, riceve un etereo abbaglio che lo estasia […] La certezza rivelata dall’intelligenza si mostra poi al sentimento che desidera possederla, e la possiede; e, ricca e allarmata, alza la voce affinché tutti ascoltino. La parola della ragione intona in un mezzo ben limitato; solo la voce del cuore si lascia udire da tutta la gente13». Attraverso le metafore Teixeira de Pascoaes rende comprensibile la differenza e la complementarità del poeta e del filosofo, la fraterna alleanza tra il pensiero e il sentimento, tra la ragione e il cuore, proposta e praticata, del resto, anche dallo stesso Leonardo Coimbra, che scrive: «Il pensiero, pensato, si commuove; e, riposato e allegro per la verità costruita, la sua voce, dopo aver parlato alla ragione, parla anche al nostro cuore. Indossa le ali del canto. Il poeta ha risvegliato, colpendola, la luce creata dal filosofo14». Pur essendo un poeta, e vedendo naturalmente il mondo dalla prospettiva privilegiata del poeta, Pascoaes era comunque attento a tutte le manifestazioni dell’arte, con particolare riguardo alla pittura e alla musica. Uno dei suoi ultimi saggi, ad esempio, ha per oggetto il pittore António Carneiro (1952): qui ha l’occasione per affermare nuovamente alcune delle sue idee sulla natura dell’arte, sul rapporto fra l’arte e la realtà, e sulla funzione dell’artista, proponendo un’idea dell’arte come idealizzazione della realtà e come trasfigurazione del mondo, in un epoca in un cui l’ambiente letterario e artistico portoghese era dominato da un’estetica neo-realista. Scri-

13. T. de Pascoaes, Uma carta a dos filósofos, in A Águia, Vol. III, n. 43 (Luglio 1915), in Id., A Saudade e o Saudosismo (1988), p. 180. 14. Ivi, p. 179.

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ve Pascoaes: «L’artista, degno di questo nome, ci dà il mondo idealizzato, trasfigurato e per nulla falsificato, o perfino più veridico, giacché la verità è un’espansione psicologica della realtà: o è questa che si eccede per essere compresa coscientemente. Sì, il mondo idealizzato è più veritiero di quello stesso mondo che tocchiamo con le mani15». L’arte non è il resoconto o il documento di un episodio nel tempo che passa, ma è il tentativo di salvare gli esseri dalla voragine del tempo, garantendo loro l’opportunità di giungere ad un piano di trascendenza, di eternità e di immortalità. Nello stesso saggio, incontriamo un abbozzo di organizzazione di tutte le arti in rapporto alla loro maggiore o minore prossimità alla musica: «La scultura e la musica sono i due estremi dell’arte. E la pittura rappresenta la transizione dalla scultura alla musica. Si colloca tra Fidia e Beethoven, come il liquido tra il solido e il vaporoso. La scultura è il tempo classico, la pittura il tempo medievale, la musica il tempo moderno, non però quello attuale, poiché l’attualità è il Jazz-Band16». La poesia stessa rivela la sua natura musicale nel ritmo e nella metrica. Ma si può ugualmente dire che il vero poeta incarna tutte le arti allo stesso tempo: «Il vero poeta è scultore, pittore e musicista17». Quest’ideale romantico sulla natura musicale dell’arte è sempre più presente negli ultimi saggi del poeta. Convergendo con una tesi sostenuta anche da Leonardo Coimbra, e recuperando la sua stessa dottrina della saudade e della memoria, Pascoaes parla di un’«indole musicale dell’essere», intesa come «il prodotto della combinazione armoniosa, o costruttiva, di due forze che agiscono in due direzioni opposte, una nel 15. Ivi, p. 204. 16. Ivi, p. 208. 17. Ivi, p. 226.

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futuro e l’altra nel passato. Ora, queste due forze, unendosi, descrivono il profilo divino della Saudade, che è l’anima nostra e del mondo18». La metafora musicale si rivela il linguaggio migliore per esprimere il movimento creatore dello spirito e del cosmo, costituito dall’accordo dei contrari: della sensazione e dell’idea, dell’intellettuale e dell’ideale, del concreto e dell’astratto. Il poeta domanda se l’universo non sia un fenomeno acustico, un tumulto di suoni sottomesso a un ordine o a un’armonia da un misterioso maestro nascosto nella nebbia della distanza. Questa è la sua risposta: «Un sistema di onde sonoro-luminose, ecco il Cosmo […] La musica è il fascino degli uomo, perché trovandosi a distanza da tutte le cose, ci spinge ad ascoltarla, da vicino, come definizione dei nostri sentimenti e del sentire universale, della vita stessa. La nostra intimità e quella delle cose sono la stessa intimità […] La musica è l’essenza della Natura, anima naturae […] Rifugiamoci nella Musica! Tutto è la stessa sinfonia, lo stesso suono rumoroso e vicino, lontano e armonioso […] I rumori e le note dicono tutto ciò che vi è di buono e malvagio, dal triangolo aspro, come gli atomi dell’aceto, alla sfera dolce, come gli atomi del miele. Che potere plastico quello del suono! Riproduce tanto l’amore quanto una collina in fiore […] Tutto, nell’essenza, è suono19». Questa ontologia musicale di ispirazione romantica e forse nietzschiana, esposta con il linguaggio geometrico degli antichi atomisti, permettendoci di comprendere i gradi dell’essere a partire dalla materia caotica e stridente fino allo spirito e alle sue più sublimi e armoniose creazioni, ci consente anche di comprendere la saudade come sentimento musicale

18. T. de Pascoaes, Da saudade (23 maggio 1952), in Id., A Saudade e o Saudosismo (1988), p. 231. 19. Ivi, pp. 236-237.

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della distanza, ascoltando lo sfondo armonioso o silenzioso dell’essere. E la stessa atmosfera musicale – che ritroveremo ugualmente, con modulazioni proprie, in Aarão de Lacerda e in Leonardo Coimbra – getta luce sulla teoria delle razze e dei popoli, riconosciuti ora nella loro unità differenziata, come un’armonia realizzata dalla diversità delle voci e formata da vari colori e toni.

2. Aarão de Lacerda: aristocrazia dell’arte, “arte popolare” e simbolica Le idee estetiche di Aarão de Lacerda (1890-1947), saggista, critico d’arte e storico dell’arte portoghese, sono contenute in numerose note e in vari saggi su riviste e giornali. Gran parte di questo materiale è raccolto in due volumi intitolati Cronache dell’Arte (la prima edizione fu editata a Coimbra, senza alcuna data; la seconda fu stampata invece a Porto nel 1917). Lacerda sviluppò inoltre alcune delle sue intuizioni teoriche in un saggio sull’Estetica dell’Arte Popolare (Coimbra, 1917), in un volume su Il Fenomeno Religioso e la Simbolica (Porto, 1924) e in uno studio su Beethoven e il romanticismo (Beethoven, il Primo Romantico, Porto 1931), opere che toccano alcuni degli argomenti centrali della sua riflessione, vale a dire l’idea di un’arte popolare, la simbolica e il significato della musica. Aarão de Lacerda è un esteta per natura, una personalità interamente modellata da un profondo sentimento per l’arte. La sua personale predilezione va all’espressione artistica musicale, che coltivava non solo in qualità di colto estimatore, ma con particolare perizia tecnica e con la coscienza del suo alto significato umano e metafisico. Alcune delle “note” riunite nei due volumi delle Cronache dell’Arte sono dei saggi

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in cui Lacerda delinea la propria personale filosofia dell’arte; a dispetto dei suoi propositi, l’autore non riuscì però a presentare, o per lo meno a pubblicare, un’elaborazione unitaria che rendesse conto dei vari aspetti della sua riflessione estetica. Ad ogni modo, possiamo comunque, visti i materiali di cui disponiamo, identificare le linee guida essenziali della sua filosofia: inscrivendosi in un ambiente culturale di ascendenza romantica, e stimolato dalla lettura de La nascita della tragedia di Nietzsche, le sue idee estetiche non sono distanti, fatte salve le rispettive differenze, dalle idee proposte da altri autori della Scuola Portuense, visto e considerato soprattutto il comune coinvolgimento nei confronti di quel grande progetto intenzionato a promuovere una rinascita dello spirito nazionale attraverso l’arte. Dal Romanticismo, Lacerda non accoglie soltanto l’idea del primato della musica e della sua portata metafisica, ma anche l’idea che ogni popolo possieda un genio proprio, capace di esprimersi in modo particolare nelle forme artistiche, essendo l’arte la massima affermazione dello spirito. Lacerda condivide la lettura critica nietzschiana della condizione moderna, caratterizzata dalla decadenza del senso estetico – dell’idea, della forma, della bellezza –, quella grande e precisa sensibilità che ha caratterizzato la civiltà greca. Al pari del filosofo tedesco, anch’egli sogna la possibile rinascita di una civiltà modellata dall’arte; non si aspetta certo che il sentimento per l’arte sia compreso da tutti, ma crede che possa diffondersi ed essere accettato dai più attraverso un’iniziazione di quelle anime, dotate di un’elevata sensibilità, che non siano mosse dal mero utilitarismo dominante al tempo. In tal modo, si potrebbe formare ciò che Lacerda chiama un’«aristocrazia dell’arte», una scuola di spiriti che, pur essendo radicati nell’organismo della vita spirituale del popolo, siano capaci di plasmare con le loro creazioni una nuova civiltà. Sulla scia dell’autore de La nascita della tragedia, Lacerda dichiara che l’arte contiene in

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sé la più profonda interpretazione della vita, essendo l’alma mater di quanto è stato fatto di magnifico e divino: il bello si rivela così la forma superiore di ogni sentimento vitale. L’arte è dotata dunque di una portata metafisica, e il suo effetto sulla coscienza degli individui e sul sentimento dei popoli possiede l’intensità di una religione e il fervore appassionato di una mistica20. Un aspetto peculiare della riflessione di Lacerda, non secondario per la comprensione del fenomeno religioso ed estetico, è il suo utilizzo della simbolica, in cui sono ben riconoscibili l’eco del Romanticismo, la lettura di Nietzsche e le acquisizioni coeve delle scienze antropologiche (Émile Durkheim e la sua opera Le forme elementari della vita religiosa, ad esempio, sono espressamente citati). Lacerda vede il simbolo non come una forma minore di espressione, inferiore al concetto, ma come la migliore modalità per fissare, potenziare e comunicare l’espressione delle idee, dei sentimenti e delle emozioni. I simboli, infatti, non esprimono meno dei concetti scientifici, ma qualcosa di più, non esaurendo mai la loro pregnanza significante, e testimoniando così il sintomo di un’inesauribile ricchezza dello spirito e il mezzo in cui esso mette in gioco la sua spontanea creatività. Riportiamo un passaggio de Il Fenomeno Religioso e la Simbolica: «Lo spirito è una fonte perenne e abbondante di simboli: come mezzi sintetici, essi riassumono processi multipli e complessi, e aiutano il pensiero nella fissazione del distinto; essi occupano nel processo ideale e nell’associazione mentale un luogo preponderante […] Quando, a causa dell’insufficienza dei processi dialettici, non riusciamo a tradurre idee complesse, allora il simbolo si forma naturalmente, incamminando anche lo spirito verso più ampie operazioni mentali, aprendogli nuovi orizzonti: in questo

20. A. de Lacerda, Crónicas de Arte, Vol. I, Coimbra (s. d.), p. 90.

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modo vi sono simboli che giungono ad assumere il ruolo di percezioni dirette, servendo quindi da base per un’ammirevole concatenazione di analogie21». Lacerda sottolinea inoltre la funzione sociale della simbolica in quanto elemento in cui si raccoglie l’anima collettiva di un popolo e attraverso il quale questa stessa anima si esprime. Scrive Lacerda: «Non siamo in grado di spiegare a noi stessi le cose se non collegandole ad un oggetto concreto, la cui realtà sia profondamente percepita; le coscienze individuali sono chiuse le une alle altre, non potendo comunicare se non per mezzo di segni in cui vengono tradotti gli stati inferiori. Si dà la fusione dei sentimenti particolari in un sentimento comune, si opera la loro coordinazione in un unico e solo risultato, che è ciò che permette loro di prendere coscienza della loro unità morale. Ora, senza simboli, i sentimenti sociali possiedono soltanto un’esistenza precaria: il simbolismo è allora necessario per esprimere l’anima collettiva, e l’omogeneità dei movimenti e dei gesti simbolici traduce il pensiero comune del gruppo22». L’arte e le forme estetiche sono quindi il territorio naturale dell’espressione simbolica, e i simboli plasmati nell’arte sono le forme privilegiate di accesso all’identità e all’anima di un popolo. Come abbiamo già precisato, Lacerda aderisce con le proprie posizioni al movimento della Renascença Portuguesa, vedendo in questa corrente un enorme potenziale pedagogico di portata nazionale, almeno nell’ottica di poter riattivare le energie creatrici necessarie alla rinascita del genio portoghese, destinato ad esprimersi al meglio proprio nelle forme ar-

21. A. de Lacerda, O Fenómeno Religioso e a Simbólica, Guimarães Editores, Lisboa 1988, pp. 95-96. 22. Ibid.

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tistiche. L’arte incarna allora alla perfezione la reazione delle forze della vita contro la morte e la decadenza23. Tuttavia, se Lacerda riconosce che l’ethos portoghese ha già trovato la sua più sublime espressione nella letteratura poetica, constata al tempo stesso con malinconia che non vi è stato ancora nessuno capace di esprimere adeguatamente lo stesso ethos in forma musicale. Il saggio sull’Estetica dell’Arte Popolare è dedicato proprio a questo problema, nel tentativo di comprendere il motivo della natura poco musicale del popolo portoghese. Per “arte popolare” non si deve comunque pensare all’arte delle classi basse, contrapposta all’arte delle classi erudite o colte, bensì a quell’arte che esprime in modo autentico l’anima di un popolo. A questo proposito, riportiamo un passaggio delle sue Cronache: «Ascoltata l’arte musicale nella sua esuberante espressione, siamo spinti subito ad affermare la sua superiorità come manifestazione estetica del popolo che l’ha prodotta, manifestazione diretta dell’anima di un popolo, rivelatrice delle passioni che si agitano intimamente in lei, accompagnandola nel suo destino. Una volta percepita, si fa strada in noi più profondamente il sentimento della patria, appaiono più vive le aspirazioni di indipendenza, si radicano con più forza i lacci della fraterna simpatia fra le creature che passano la loro esistenza sotto lo stesso cielo. E quanti ignorano la delicatissima bellezza di quest’arte, profonda ispirazione del genio nazionale!24». È quest’arte popolare che deve costituire la materia, il fondamento e il motivo ispiratore con le quali e a partire dalle quali gli artisti potranno creare forme artistiche più complesse e raffinate, senza smentire la loro originaria matrice. Cercando di approfondire la relazione intima ed essenziale tra gli artisti 23. A. de Lacerda, Crónicas de Arte, Vol. I (s. d.), p. 85. 24. Ivi, p. 105.

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e il loro popolo, Lacerda sostiene che i veri artisti siano quelli capaci di esprimere in modo superiore l’anima del popolo, restituendogliela nella sua verità. In quanto storico dell’arte portoghese, Aarão de Lacerda cerca di mostrare che il Portogallo non era situato ai margini del grande movimento artistico europeo, giacché possedeva una peculiare e particolare produzione artistica propria. In una delle sue cronache possiamo leggere il seguente lamento: «L’arte portoghese è ancora ben lungi dal possedere un’opera complessiva che la caratterizzi in un onesto e profondo studio critico: ecco le ragioni dell’ignoranza quasi integrale delle manifestazioni spirituali che formano l’essenza più intima dell’anima nazionale25». Sarà lui stesso a colmare in parte questa lacuna: il risultato di questo sforzo è il primo volume della Storia dell’Arte in Portogallo, pubblicato dalla Portucalense Editora nel 1942, dedicato ad un periodo temporale che va dalla pre-istoria fino al XIV secolo. Lacerda, ad ogni modo, non voleva semplicemente dimostrare l’esistenza delle varie manifestazioni artistiche presenti in Portogallo; egli si proponeva infatti anche di captare ed identificare la peculiarità dell’arte portoghese, cercando di scorgere un’estetica nazionale che fosse espressione dell’anima lusitana. Lacerda, del resto, vedendo nell’arte lo «Speculum Majus delle azioni che hanno contribuito alla formazione, definizione e permanenza della Patria», continuava ad essere convinto che l’arte fosse lo specchio privilegiato per cogliere l’anima e l’identità nazionale: «nell’immaginario della pittura e della scultura, nell’estro architettonico delle costruzioni manueline, si manifesta, principalmente, la fioritura del genio del popolo26».

25. Ivi, p. 199. 26. A. de Lacerda, Prefácio alla História da Arte em Portugal, Vol. I, Portucalense Editora, Porto 1942.

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In questa interpretazione dell’arte portoghese, assume particolare rilievo la sua dimensione simbolica, intesa come il linguaggio delle forme che le anime hanno modellato per mettersi in scena, manifestarsi ed esteriorizzarsi. Nella trama orchestrale della storia dell’arte portoghese, risaltano in particolare due matrici simboliche, quella della terra e quella del mare. Fra le due, è la metaforica connessa al mare a predominare, esprimendosi soprattutto nell’apoteosi dell’epopea di Luis de Camões, senza comunque dimenticare la sua presenza nella forme plastiche della pittura, della scultura e dell’architettura.

3. L’arte e l’esperienza estetica nel Creazionismo di Leonardo Coimbra Pur non essendo un poeta, un artista o un esteta, bensì un filosofo, Leonardo Coimbra (1886-1936) dedicò all’arte e all’esperienza estetica una continua attenzione nel corso della sua carriera di pensatore. Questa attenzione si manifesta nei vari tentativi di collocare l’arte nella sintesi filosofica creazionista e l’esperienza estetica nel contesto di un’esperienza umana integrale (detta anche esperienza-sintesi). L’interesse leonardino per l’arte, infatti, è caratterizzato da un’intenzione sistematica, sebbene i differenti approcci, pur non essendo del tutto divergenti, non siano stati in grado di trovare una completa sistematizzazione. - Il Creazionismo (1913): il luogo estetico dell’arte nella fenomenologia leonardina dello spirito e la matrice estetica del Creazionismo Si potrebbe sostenere che l’intuizione originaria che presiede al creazionismo leonardino sia di matrice estetica, soprattutto

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considerando il potere creatore attribuito allo spirito umano nella scienza, nell’arte, nell’etica, nella religione e nella filosofia o metafisica. Secondo Leonardo, «conoscere è creare27», e le creazioni dello spirito non sono altri che la scienza, l’etica, l’arte, la religione e la filosofia. Nell’organismo della vita spirituale, però, queste creazioni o espressioni non si situano tutte sullo stesso piano, non svolgendo neppure la medesima funzione: fra di loro vi è infatti una relazione organica di sequenzialità e di reciproca interazione. A differenza di Teixeira de Pascoaes, Leonardo non porta avanti una lotta contro la ragione scientifica e il positivismo, considerandoli nemici dell’uomo e dello spirito, e non oppone nemmeno l’arte alla scienza, ma, riflettendo sui presupposti della ratio scientifica, finisce per giudicarla come una creazione dello spirito e un’affermazione della sua trascendenza e libertà. Il creazionismo è la sintesi di tutti le attività del pensiero umano necessarie per adattare il mondo allo spirito e lo spirito al mondo. Tali attività si organizzano in tre domini principali: la scienza, l’arte e la filosofia. Se la prima risponde alla relazione tecnica dell’uomo con il mondo, l’ultima riguarda la dimensione speculativa, mentre l’arte è connessa alla dimensione delle emozioni e dei sentimenti. La filosofia capace di abbracciare tutta la complessità della vita spirituale e della realtà non si rivelerà, almeno secondo le coordinate del creazionismo, né un astratto intellettualismo, né un mero pragmatismo empirico, bensì una «creazione di concetti scientifici e simboli artistici che, pur senza esaurire il piano del reale, lo organizzano all’interno delle più alte aspirazioni dello spirito28». L’attenzione che Leonardo rivolge all’arte non è determinata da un interesse esteriore o accidentale, ma è qualcosa che si 27. L. Coimbra, Dispersos, Vol. II, Verbo, Lisboa 1987, p. 77. 28. Ivi, p. 179.

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impone all’interno della sua stessa filosofia, essendo questa un momento della fenomenologia creazionista dello spirito che va dalla dialettica scientifica alla sintesi filosofica (l’arte gli si presenta in questo cammino come qualcosa di sconfinato). Le varie attività dello spirito sono allora irriducibili, nonostante vi sia fra loro, al tempo stesso, una qualche continuità e complementarietà. Non diversamente da Hegel, ma in un differente contesto speculativo, anche per Leonardo l’arte non rappresenta l’assoluto, ma un termine dell’evoluzione della vita spirituale, o al massimo la forma più espressiva della creatività dello spirito. È alla filosofia che egli riconosce infatti la capacità di realizzare la sintesi superiore tra la visione tecnica della scienza e la visione emotiva dell’arte. Al contrario di Hegel, però, per Leonardo l’arte non è superata e dissolta nella coscienza filosofica, ma è integrata nell’esperienza piena, possedendo qui un proprio dominio, un significato peculiare e una funzione insostituibile. Il dominio specifico dell’arte è il sentimento: «Attraverso la dialettica artistica, la persona prende possesso della continuità della vita del sentimento, rende presenti ed efficaci le grandi idee di bellezza, dona la forza persuasiva della bellezza a tutte le grandi idee, a tutti i nobili entusiasmi29». Attribuire all’arte l’ambito del sentimento, ovvero definire l’arte come dialettica del sentimento, non elimina però una certa ambiguità, visto che lo stesso dominio è solitamente attribuito anche alla religione. Leonardo presuppone forse una qualche affinità o continuità essenziali tra l’arte e la religione? Alcuni passaggi sembrano sostenere questa ipotesi, poiché il filosofo di Porto sembra ammettere una scala di sentimenti, al cui vertice si troverebbe il sentimento religioso: «Il sentimento, che è la tonalità emotiva semplice […], giunge perfino all’emozione

29. L. Coimbra, O Criacionismo, Livraria Tavares Marttins, Porto 1958, p. 48.

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religiosa30». Il sentimento del sublime, ad esempio, è quello che meglio esprime la dialettica del sentimento e che meglio esplicita la sovrapposizione di frontiere fra l’arte e la religione31. Il sentimento religioso è allora il sentimento estetico divenuto cosmico, illimitato e universalmente condiviso. L’emozione estetica rappresenta dunque, per così dire, un esempio limitato di quello che potrebbe rivelarsi l’emozione religiosa. Leonardo esprime questo concetto per via metaforica: «L’arte è sempre un’associazione più limitata, giacché si dirige, a poco a poco, alle più sottili ed effimere forme del sentimento superiore, cercando di fornire loro la permanenza e l’eternità. L’arte è come la scossa del fusto più alto, che irrompe in altezza. La religione è l’estasi e l’entusiasmo dei grandi rami, oscillando, irretiti, nell’immensità in cui e per cui si agitano […] Nell’arte, le anime condividono le altitudini; nella religione, queste stesse anime elette scendono verso valle, dandosi in comunione a tutti gli umili […] Se in un’associazione artistica sentiamo crescere l’anima, non sarà più vigorosa, fraterna e santa l’anima che ci metterà in comunione con tutti? […] Le emozioni della grande Arte sono generose, certo; ma non vediamo noi, proprio nella fraterna pietà reciproca dei veri artisti, come sarebbe un’inondazione di intima e semplice fraternità la comunione religiosa di tutte le anime?32». Ciò che queste parole restituiscono è il riconoscimento della straordinaria forza del sentimento, la possibilità intravista di una rigenerazione non solo della religione, ma anche della morale e della politica, attraverso la mediazione estetica, la mobilitazione del sentimento, la convinzione dell’organicità di tutte le manifestazioni dello spirito. L’arte non è la religione,

30. Ibid. 31. Cfr. Ivi, p. 70. 32. Ivi, pp. 90-94.

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così come la religione non è arte. La religione, al di là del fattore “sentimento”, richiede il fattore “volontà”, e presuppone il bene e la virtù. Il filosofo, tuttavia, non smette di aspirare ad «un’armonizzazione complementare della scienza e dell’arte in una morale cosmica o religiosa», considerandola il postulato cosciente o incosciente di tutta l’opera d’arte33, quasi volesse suggerire che l’arte completa è destinata a consumarsi in una religione cosmica. La tesi proposta nel 1912 sul luogo dell’arte nel sistema delle creazioni dello spirito verrà rivista, all’inizio della decade seguente, ne La Ragione Sperimentale (1923). Benché il linguaggio subisca alcune variazioni, l’idea di fondo rimane la stessa, espressa forse con ancora più enfasi e convinzione: vengono nuovamente confermate sia la continuità e complementarietà della scienza e dell’arte, sia la convinzione che la filosofia sia capace di inglobare tutte le forme di manifestazione dello spirito, alimentandosi e fecondandosi attraverso di esse. L’arte o la “ragione estetica” equilibra la tendenza della scienza ad escludere gli individui e la sensibilità nella sua ricerca di certezze e sintesi generali. L’arte rivela che «ogni individuo possiede in ogni momento delle singolarità irriducibili e incoercibili che solo la coscienza artistica coglie ed esprime34». Invertendo in un certo senso la prospettiva precedente, secondo cui era la scienza la disciplina votata ad aprirsi all’arte, Leonardo intravede ora la possibilità che sia l’arte ad anticipare le evidenze della scienza, arricchendo così l’orizzonte della percezione e della conoscenza umane: «Quante sensazioni accadrebbero senza vita umana, se non avessero trovato nel loro cammino un artista capace di riceverle ed espri-

33. L. Coimbra, Dispersos, Vol. I (1987), p. 24. 34. L. Coimbra, A Razão Experimental, in Id., Obras de L. C., Vol. II, Lello & Irmão, Porto 1983, p. 590.

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merle? Una buona parte delle ricchezze percepite, che sono oggi utili all’erudito, fu scoperta dagli artisti nel fremito e nel turbine della vita35». La filosofia continua ad essere descritta come la massima espressione della realizzazione dello spirito, e considerata come una sintesi superiore profondamente coinvolta nell’esperienza estetica: illuminato dal sole della bellezza, il filosofo si trova tra lo scienziato e il poeta o artista: «La filosofia abbraccia tutte le attitudini che l’hanno storicamente definita, conservando il suo ruolo principale di credente nella Bellezza, organo supremo della Libertà. È proprio questo sforzo platonico verso il Bene supremo che fornisce alla filosofia la sua bellezza e la sua alta dignità spirituale. In un certo modo, e contro gli intellettuali senza spirito, essa sarà la poesia di un’anima […] Tra il sapiente che tutto vede, ad eccezione dell’uomo, e il poeta che ingenuamente canta senza valutare l’uomo per l’Universo, il filosofo avrà la tranquilla e umile attenzione del primo, conservando la profonda allegria e l’universale simpatia del secondo36». È come se Leonardo Coimbra fosse progressivamente giunto a percepire con chiarezza la matrice estetica che presiede al suo creazionismo, a riconoscere che alla base della creatività dello spirito vi è l’attività estetica. Ci sono vari luoghi dell’opera che documentano questa percezione. Potremmo citare, ad esempio, quei brani che sottolineano la dimensione estetica della scienza stessa. Sebbene riconoscesse che l’intrinseca bellezza della scienza rimane ancora velata al grande pubblico, il filosofo di Porto dichiara, ne La Ragione Sperimentale, che «la scienza è bella, al pari di una creazione artistica, grazie all’armonia interna delle sue opere e alla graziosa li-

35. Ivi, pp. 590-591. 36. Ivi, pp. 592-593.

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bertà del suo agente37». In numerosi altri passaggi della stessa opera, Leonardo considera la scienza come una «costruzione estetica», una «libera speculazione disinteressata», sostenendo che in essa «i criteri di scelta saranno ancora, per ciò che concerne quella funzione di armonia e bellezza che entra in ogni giudizio umano, criteri di seduzione estetica, e mai di necessità38». Si tratta di un’idea confermata in un altro luogo del lavoro leonardino, in cui esprime la vittoria della libera ragione estetica sulla tirannia della ragione scientifica, in termini che evocano la proposta leibniziana di subordinare i principi meccanici della scienza ai principi architettonici della filosofia: «Alle certezze assolute e immobili della vecchia Ragione tirannica va sempre sostituita la grazia dell’armonia, l’opzione e l’eleganza della bellezza, il libero e tollerante accordo della maggiore o minore possibilità. Nessuna necessità pesa sopra la certezza scientifica più di quella qui posta per la libertà dello spirito scientifico39». - L’Allegria, il Dolore e la Grazia (1916): Un’estetica del movimento Ne L’Allegria, il Dolore e la Grazia, Leonardo delinea un’estetica o filosofia delle arti attorno ad un certo numero di concetti estratti dalla fisica. Come concetto centrale di questa estetica, il pensatore portoghese sceglie il movimento; i restanti ingredienti – il colore, il suono, la luce e la linea – sono considerati invece come creazioni del movimento nello spazio e nel tempo. All’interno della sua riflessione, il movimento non è però

37. Ivi, p. 595. 38. Ivi, p. 642. 39. Ivi, p. p. 681.

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il fortuito incontro di fenomeni indipendenti, bensì «la vibrazione in ogni essere dell’esistenza di tutti gli altri40». Tutte le forme dell’arte – pittura, scultura, architettura, musica – sono movimento, cioè espressioni dell’anima dei corpi nelle combinazioni stabilite dai colori, dalle linee e dai suoni. Questo tentativo rivela quindi la volontà di realismo difesa dal filosofo, confermando al contempo il rifiuto di cedere ad un’estetica esclusivamente soggettivistica, incentrata sul soggetto e sulla psicologia. La ricerca del realismo è un tratto caratteristico dell’estetica leonardina: si tratta, tuttavia, di una forma di realismo che non consiste in una mera descrizione, copia o riproduzione di oggetti dati, giacché presuppone la presa di possesso del soggetto da parte dell’oggetto, e dell’oggetto nei confronti del soggetto. A proposito della pittura, ecco le considerazioni di Leonardo: «La pittura, della natura all’uomo, non dovrà perdere il significato del colore e del tratto; e, se nell’uomo un’ombra vuole indicare l’approfondimento di un’anima, non dimenticherà che l’ombra è, nei corpi, una privazione del colore all’interno, un movimento in profondità. La psicologia al di fuori della fisica è artificiale e contraria alla grande ragione dell’Arte – l’allegria dell’Unità […] La pittura dovrebbe, prendendo il valore reale (nel senso attribuitole dal movimento) del colore e della linea, procedere dalla natura all’uomo, in un continuo arricchimento. Eviterà così la natura posticcia di un simbolismo senza linguaggio reale, la pochezza, l’effimero di un impressionismo soggettivista, e il falso di un nuovo impressionismo, disarticolato e fondato su singoli aspetti riferiti ad un singolo spettatore. Quest’ultima tendenza, che rientra nel vago termine di futurismo, costituisce una completa incomprensione dell’essenza del movimento41». 40. L. Coimbra, A Alegria, a Dor e a Graça, in Id., Obras de L. C., Vol. I (1983), p. 434. 41. Ivi, pp. 436-437.

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Partendo dall’idea di movimento e dal modo in cui le diverse arti giocano con lo spazio e il tempo, Leonardo sviluppa una gerarchizzazione delle arti. Ecco allora che le arti in cui il movimento attinge il proprio maggior potere rivelatore sono la musica e la poesia, superando perciò tutte le altre nella loro particolare capacità espressiva: «Le altre arti giocano soltanto implicitamente con il tempo. La musica e la poesia, possedendo un tempo implicito nei loro elementi, li organizzano tanto nello spazio quanto nel tempo. Il movimento è così implicito in loro; il suo discorso è vivo, e il dramma è rappresentato e non soltanto presentato42». Un’altra idea ricorrente negli scritti di Leonardo è la convinzione che l’arte rappresenti una lotta contro la morte, l’entropia e l’evanescenza, alla ricerca dell’eterno: «Tutte le arti lottano contro il transitorio, e ricercano l’eterno. L’arte eternizza l’istante. Sotto il flusso dei fenomeni, ricerca l’idea dell’essere, quella stessa idea che essi traducono […] L’arte vede, sotto il fenomeno che appare, il principio che è. In un albero verde e florido, il pittore non ritrae queste foglie e questi fiori, ma la Primavera, madre di tutte le foglie e di tutti i fiori. E, come le arti parlano alla sensibilità umana, esse forniranno l’esatto volto dell’eternità, l’aspetto di una lotta contro la morte, contro l’irreversibilità, la fuga del tempo. La rivelazione dell’idea, del principio dell’essere, assumerà in ogni arte un valore particolare. In relazione alla nostra comprensione, la pittura e la scultura guadagnano l’eternità attraverso l’isolamento di un fenomeno in cui si compie la piena realizzazione di un principio. L’architettura non è invece quasi mai, per quanto riguarda la sensibilità, che la mineralizzazione della vita, il simulare l’eternità nella sproporzione delle durate. La musica e la poesia

42. Ivi, p. 437.

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forniscono un volto visibile dell’eternità, un’eternità animata, viva, drammatica43». Dobbiamo tenere presente inoltre la concezione leonardina della poesia e della musica, senza alcun dubbio le due arti principali nella sua visione estetica. Curiosamente, è la poesia e non la musica ad essere collocata a fianco della soggettività: essa rappresenta infatti una proiezione dell’uomo – dei suoi sentimenti e delle sue idee – nella natura. La musica, al contrario, parla immediatamente il linguaggio degli esseri, delle cose, del mondo: è pura fisica nel corpo di un suono. Al tempo stesso, però, nessun’altra arte che non sia la musica è capace di restituire la natura dell’anima e tutta la sua forza passionale, chiamata dalle profondità sotterrane del subcosciente. La musica, infatti, traduce la materialità dello spirito, tutta l’energia caotica di quel mondo passionale da cui provengono le creazioni più luminose. La musica, essendo il linguaggio naturale della cose (e non solamente una suggestiva metafora, o un suo simbolo), rappresenta allora il linguaggio stesso delle forze psichiche: «Nella musica sono i corpi che si riuniscono nel concerto delle loro voci elementari. L’analogia procede dalla Natura all’uomo, e, quando la forma dei pensieri e dei sentimenti ricerca la memoria del suo discorso, è la grande solidarietà degli uomini con le cose che dà a questa armonia la voce degli elementi. È nel mentale che parla l’eroismo, il forte abbraccio assorbente e conquistatore; è nel vegetale che si trova la voce accattivante e morbida […] Con l’armonia la musica dispiega la coesistenza dei corpi, e con la melodia attinge una realtà più significativa, che è la mobile sintesi, l’unità attiva che si rifà in modo permanente […] Gli accordi armonici consentono di realizzare, all’interno dell’esistenza, la rimozione, le distanze degli esseri, la gradazione della loro parentela. L’accordo me-

43. Ivi, pp. 437-438.

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lodico fornirà il dramma della coesistenza, l’unità dell’Allegria rifacendosi tra l’ostacolo delle pluralità oppressive. Si consideri inoltre che non siamo di fronte ad un semplice simbolo dell’anima umana, piena di cosmiche analogie, ma alle cose stesse, con le loro voci, innalzando le individualità in un’atmosfera di rivelato accordo. E se appare l’anima umana, è perché essa rappresenta un’unità attenta, qualcosa come il circolo ideale che si estende alla circonferenza, attraversando lo spazio, ma possedendo il minimo da cui è partita la forma, che lo unifica e realizza […] Nella poesia è la parola umana che dà respiro all’inerzia delle cose, è il sentimento, lo psichismo, che presta al silenzio della materia una finestra dove il suo interno possa gettare uno sguardo; nella musica è il mondo fisico, che serve all’anima le voci dei suoi elementi, è il movimento, il suo schizzo che sparge l’anima sopra il volto delle cose, fornendo a tutte le forme della vita interiore, con la tonalità e il ritmo, la rivelazione del loro essere44». Le suggestive metafore musicali inizieranno ad essere considerate le più idonee per esprimere la comunione intima degli esseri, nella loro diversità riconosciuta e consentita, per esporre la sua sociologia cosmica e la sua ontologia armonica. Diamo un’altra volta la parola a Leonardo, citando un passaggio tratto da La Lotta per l’Immortalità: «Nel suono è più intima l’unione con il pianeta. Tutto vibra e mormora. La molecola scossa dal muto equilibrio in cui si trova lancia, nell’ambiente, la forma della sua inquietudine e tutto lo spazio la imita commosso. La vita e il movimento possiedono un loro linguaggio: è il suono. E ogni corpo sviluppa la propria individualità nel timbro della sua voce […] Il canto è il miglior atto di amicizia della Natura

44. Ivi, pp. 440-441.

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e dell’uomo45». «Il canto rappresenta la più seria commozione e regalo degli esseri46». «Il mondo canta, noi risuoniamo, e la vita è un immenso cantico […] Fluttuiamo nel suono come nella luce; e, se essa ci colloca nel cuore pieno dell’infinito, il suono ci unisce all’interno della terra in un’intima unione familiare – il pianeta è reso un focolare domestico47». Queste tesi evocano, naturalmente, le teorie romantiche della musica, in particolare quelle di Schopenhauer e Nietzsche. Leonardo Coimbra, pur non sottoscrivendo il pessimismo che sorregge la riflessione del filosofo di Danzica, si sofferma più di una volta sulla convinzione schopenhaueriana che la musica rappresenti la diretta affermazione della Volontà48. Nonostante tutto, Leonardo rimane comunque più prossimo al Nietzsche de La nascita della tragedia, che vede la musica come il linguaggio del cuore e dell’intimità essenziale della realtà49. Ad ogni modo, a differenza del filosofo tedesco, il creazionista Leonardo manifesta un maggiore apprezzamento per le armonie apollinee che per le tragiche dissonanze dionisiache. - Da La Lotta per l’Immortalità (1918) a La Ragione Sperimentale (1823): l’estetica come verità della sensibilità e l’esperienza estetica nell’esperienza-sintesi Quasi non fosse rimasto soddisfatto del suo tentativo di fondare una nuova estetica sulla nozione di movimento, Leonardo

45. L. Coimbra, A Luta pela Imortalidade, in Id., Obras de L. C., Vol. II (1983), p. 283. 46. Ivi, p. 285. 47. Ivi, p. 286. 48. Cfr., ad esempio, L. Coimbra, Dispersos, Vol. II (1987), p. 65. 49. Cfr. L. Coimbra, A Alegria, a Dor e a Graça, in Id., Obras de L. C., Vol. I (1983), p. 442.

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sviluppa, nei due anni seguenti, una nuova formulazione del problema estetico. L’oggetto precipuo dell’Estetica non sarà più il sentimento o il movimento, bensì la sensibilità. Anche in questo caso, l’obiettivo rimane quello di fondare un’estetica che non perda il senso della realtà e dell’oggettività: i sentimenti non sono visti allora come semplici affezioni dello spirito, ma come dei diretti messaggeri dell’oggettività. I sensi sono quindi delle finestre aperte sulla natura, e la «sensazione è interpretata come un piccolo pertugio in cui penetra e si insinua l’ampia realtà coesistente50». Rivelare la verità della sensibilità e unire le relazioni sensibili vere ed oggettive: ecco il destino e la funzione dell’arte. Il bello, pertanto, rappresenta per Leonardo la natura oggettiva di questo legame, poiché «la bellezza non è una semplice relazione armonica di attività solidali, ma un’unificazione che si realizza grazie ad una reciprocità proporzionata e progressiva51». Ad ogni modo, non tutte le sensazioni sono delle sensazioni propriamente estetiche; lo sono infatti soltanto quelle capaci di dispiegare degli immediati interessi biologici, ovverosia quelle in grado di aprirsi all’immaginazione e al sogno. In altre parole, ad essere estetiche sono le sensazioni libere e disinteressate, più adatte ad essere comunicate. Tanto l’arte quanto la scienza hanno a che fare con le sensazioni e intendono rivelare la loro verità: la scienza, però, è subito pronta a sostituire alla sensazione il concetto, mentre «l’arte si attarda nel valore intrinseco delle sensazioni52». Allo stesso modo, non tutti i sensi possiedono un’uguale capacità estetica. I più estetici sono ad esempio l’udito e la vista,

50. L. Coimbra, A Luta pela Imortalidade, in Id., Obras de L. C., Vol. II (1983), p. 289. 51. Ivi, p. 292. 52. Ivi, pp. 278-279.

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tenuto conto del loro illimitato potere e della loro capacità di creare e diffondere informazioni. Ma anche nel tatto, nel gusto e nell’olfatto, benché meno “estetici”, può rivelarsi una dimensione estetica, strettamente connessa all’innocenza e al disinteresse che l’accompagnano. L’atto di bere dell’acqua da una fonte di montagna o una carezza materna possono dunque possedere dei tratti propri di un’esperienza estetica. Un’estetica così sensualista può definirsi come una “scienza del piacere”. Per piacere, però, Leonardo non intende la soddisfazione egoica del soggetto, ma il piacere comunicativo che aumenta in proporzione alla sua condivisione. Non vi è perciò piacere – così come non c’è soggetto estetico – senza una connessione alla realtà, senza il lavoro creativo con cui l’artista scopre le leggi che costituiscono l’oggetto estetico: «Il piacere estetico non è il riflesso soggettivo di cose, ma di leggi. Del resto, la sensazione stessa, nel suo significato oggettivo, è già misura, proporzione e legge. L’oggetto estetico non è, al pari di quello scientifico, una cosa; è invece un sistema di armonia, è la legge delle sensazioni estetiche. Esiste, pertanto, un criterio oggettivo dell’arte che permette l’accordo dei giudizi estetici53». Leonardo utilizza questo nuovo concetto per ripensare le relazioni tra l’arte e la scienza. In primo luogo, l’analogia tra la condizione del giudizio estetico e quella del giudizio scientifico è ovvia, sia per quanto riguarda lo sforzo di oggettività, sia per ciò che concerne la pretesa di universalità: “A è bello”, ecco un giudizio estetico. In questo caso, si tratta infatti di un giudizio che non obbliga ad un accordo immediato, così come un accordo immediato non vincola il seguente giudizio scientifico: “La massa elettromagnetica è funzione della velocità”. Ci troviamo al cospetto di un’appropriazione sperimentale 53. Ivi, p. 289.

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che, ripetuta, ci permette di comprenderlo, così come accade con qualunque verità scientifica54. Ciò che è stato detto a proposito dell’oggettività può essere riferito analogamente alla questione dell’universalità: «Il giudizio del bello è il solo ad essere universale perché può essere compreso da ogni uomo, a condizione che si viva l’esperienza che lo costituisce. Esso è soprattutto universale come lo è il dovere, nel significato sociale di un legame globale della realtà55». In fondo, anche l’oggetto estetico dell’arte è identico a quello della scienza, sebbene ognuna lo affronti a suo modo: la scienza lo ricerca «nel determinismo della sua azione», mentre l’arte lo trova «nel cuore nascosto della sua intimità56». Leonardo presenta dunque un lungo elenco di aspetti complementari che l’arte e la scienza condividono. Se la scienza è alla ricerca dell’accordo nell’identico, l’arte cerca invece l’accordo del diverso. Nella sua tendenza alla sintesi e all’unità, la scienza dimentica e sottovaluta la diversità, la contingenza e la sensibilità, rischiando di omologare tutto. Spetta quindi all’arte il compito di ristabilire il senso della diversità all’interno di un’unità viva e pregnante. L’arte, infatti, consiste in una permanente socializzazione, ed ha il compito di mostrare che ogni individuo possiede, in qualsiasi momento della sua vita, delle caratteristiche uniche ed irripetibili, delle peculiarità che solamente la coscienza artistica è in grado di rivelare ed esprimere. L’arte umanizza perciò la scienza, le fornisce una concreta sensibilità, imprimendole il marchio della via affettiva. Leonardo conferma questa considerazione in un passo de La Ragione Sperimentale: «È necessario che il dato scientifico si umanizzi, generalizzandosi attraverso il pensiero filosofico, 54. Cfr. Ibid. 55. Ivi, pp. 289-290. 56. Ibid.

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e si umanizzi, generalizzandosi grazie all’universalismo estetico della Bellezza per acquisire così la forza della vita reale, sufficiente ad attualizzarlo nella vita sociale57». A questo punto, è più facile comprendere le modalità con cui l’esperienza estetica può essere integrata in un’«esperienzasintesi». Innanzitutto, essa non può esser qui dimenticata, a patto di non voler perdere un’essenziale dimensione dello spirito58: nel contesto organico dell’esperienza-sintesi, infatti, possiede l’imprescindibile funzione di mettere in moto altre esperienze, fornendo loro, in qualche modo, il sigillo dell’esteticità. Non solo la scienza, ma anche la morale, la religione e la politica, possono beneficiare del potenziale di mediazione o socializzazione dell’arte. Leonardo vede all’opera questa azione anche nel mondo economico delle relazioni di lavoro e di proprietà: l’attitudine estetica libera gli oggetti dall’appropriazione privata per il piacere e la comunicazione universali, permettendo anche all’uomo di fare esperienza di una più autentica relazione con gli oggetti e con gli stessi esseri umani. Il lavoro si rivela allora ogni volta più estetico, restituendo all’uomo la possibilità di intraprendere una più autentica relazione con la natura. Possiamo citare un passo che riassume alla perfezione il pensiero leonardino circa le relazioni organiche, reciproche e complementari della scienza, dell’arte e della morale: «La scienza, differenziandosi, ha creato soprattutto i processi di adattamento all’ambiente cosmico, dando vita alla Ragione sperimentale, il miglior organo di adattamento e ricostruzione del contesto sociale. L’arte prende questo sapere e la vita ide-

57. L. Coimbra, A Razão Experimental, in Id., Obras de L. C., Vol. II (1983), p. 558. 58. Cfr. L. Coimbra, A Luta pela Imortalidade, in Id., Obras de L. C., Vol. II (1983), p. 293.

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ale generata nell’intimo dell’uomo, incominciando a battere alla porta del reale con le nuove formule del vivere. La morale apre tutte le porte della realtà, introducendo la vita che trasporta. E nell’unità suprema del giudizio l’uomo ha compreso l’attività che, segnando i legami con la materia, gli mostra al contempo la dimensione spirituale da cui è venuta la scienza, dove palpita l’ideale artistico e dove risiede solidamente il potere del giudizio e dell’azione morale59». Vi è infine un ultimo topos – la relazione dell’arte con la vita e con la realtà – che ci consente di comprendere adeguatamente la peculiare tipologia di realismo estetico che caratterizza la proposta teorica di Leonardo. Diamogli la parola: «L’arte è la vita ripensata, cioè rappresentata e risentita, nella direzione di una maggiore ricchezza e armonia delle sensibilità reali e possibili. […] L’arte dà valore a questa parte della realtà – la concreta comunicazione sensibile [… ] È attraverso l’arte che la sensibilità fa le sue richieste di eterno, conduce la sua lotta per l’immortalità60». Ne La Ragione Sperimentale, l’arte è descritta come ricreazione, saggio e anticipazione della vita. D’altra parte, difendere un’arte che sia realista non significa considerarla come una mera riproduzione di una realtà data. Essa deve prima essere capace di esprimere il dinamismo creatore della realtà e dello spirito. L’ideale fa parte del reale. Leonardo afferma così il potenziale anticipatore e creatore dell’arte – confermando la sua funzione eminentemente sociale e forse persino rivoluzionaria, almeno fin tanto che incarna una critica permanente della realtà data e stabilita; si tratta naturalmente di un aspetto de-

59. L. Coimbra, A Razão Experimental, in Id., Obras de L. C., Vol. II (1983), pp. 797-798. 60. L. Coimbra, A Luta pela Imortalidade, in Id., Obras de L. C., Vol. II (1983), p. 290.

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stinato ad avere un notevole sviluppo già nella seconda metà del XX secolo, in particolare nella riflessione dei filosofi della Scuola di Francoforte, Herbert Marcuse e Theodor Adorno (rispettivamente, ne La dimensione estetica del 1977, e nella Teoria estetica del 1970). Scrive Leonardo: «Ciò che l’uomo sa, prima che sia atto realizzato, efficace collocazione nell’ambiente cosmico e sociale, è sogno, aspirazione e desiderio. E l’arte è in ogni società attuale un abbozzo semplificato della società futura […] L’arte è la prova della vita che emerge: il bambino gioca, rappresenta e vive in anticipo i suoi futuri impegni di uomo sociale. L’arte rappresenta quindi un’eccedenza su ciò che è già creato, perché è il fremito di ciò che batte alle porte della vita61». - La Russia di Oggi e l’Uomo di Sempre (1935): la bellezza creata e increata Leonardo Coimbra si occupa brevemente del problema estetico e dell’arte anche ne La Russia di Oggi e l’Uomo di Sempre, indagando il significato dell’arte in relazione all’umanesimo cristiano e al cristianesimo cattolico. Il pensatore di Porto rifiuta qui il puro estetismo nietzschiano – un’estetica al di là del bene e del male, l’idea di un Dio-Artista e amorale –, legandolo all’estetismo del cristianesimo ortodosso orientale, una religione estetica sospesa in un mondo di bellezza spirituale ideale, ma senza alcun compromesso con la realtà, almeno secondo l’esposizione fornita da alcuni suoi teologi. Secondo Leonardo, la vera estetica non è al di là del bene e del male: «L’estetica è al di là del bene e del male nella presentazione della Bellezza, ma la Bellezza è ciò che si situa a lato del Bene. La bellezza creata è uno splendore dello spirito nell’anima, un 61. L. Coimbra, A Razão Experimental, in Id., Obras de L. C., Vol. II (1983), p. 797.

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chiaro di luna dell’anima nel corpo, una trasparenza dell’idea nella materia. La bellezza è la magnetizzazione dell’inferiore per la presenza invisibile del superiore, ossia l’orientamento organico e gerarchico degli esseri inferiori per le linee di forza venute da quelli superiori, la gravitazione dell’Universo per Dio […] La Bellezza increata è Dio che raccoglie in sé la virtù e la fonte di tutti gli esseri, un Dio che splende di vita integrale, vita-origine, la vita viva della piena convivenza trinitaria62». Secondo Leonardo, nessun sistema è in grado di tradurre l’essenza dell’arte e dell’estetica più del cristianesimo cattolico, nella cui liturgia sacrale riconosce una feconda dialettica tra l’immanentismo e il trascendentalismo, l’unione feconda dello spirito e della materia. Il filosofo può allora sostenere che «i grandi artisti sono sempre stati dei temperamenti cattolici», e che «l’arte è una prefigurazione, un annuncio o un commentario del sacramentalismo della Chiesa». In effetti, continua il filosofo, «nel sacramento la materia è l’indizio, il segno o lo strumento di un influsso reale dello Spirito», così «nell’arte la materia, la voce, la pietra, il colore o il suono esprimono lo spirito dell’uomo, e, se si tratta di vera arte, esprime questo stesso spirito nell’orbita e nella marea dello Spirito Infinito63». Il creazionismo leonardino si avvicina quindi, anche sul piano estetico, al creazionismo cristiano, e le brevi pagine dedicate all’arte e all’estetica nell’ultima opera di Leonardo testimoniano la fecondità di questo incontro.

62. L. Coimbra, A Rússia de Hoje e o Homen de Sempre, Ed. Travares Martins, Porto 1962, p. 276. 63. Ivi, p. 28.

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4. Affinità e convergenze Nell’analisi appena svolta sono state messe in risalto le differenze e singolarità, ma anche le ovvie affinità e convergenze di temi e di prospettive, fra i tre pensatori Portuensi. Poiché la loro riflessione, com’è naturale che accada, si è sviluppata in accordo con le rispettive sensibilità e preoccupazioni speculative, non si può parlare propriamente di un’influenza esercitata da qualcuno sugli altri. Se non vi è stato dunque un influsso diretto, i tre pensatori hanno comunque dato vita ad un continuo e reciproco confronto. Le loro affinità e convergenze derivano soprattutto dall’incidenza esercitata in essi dall’elemento romantico. Per ampi tratti, il pensiero estetico di questi pensatori si può caratterizzare come una forma di neo-romanticismo estetico. E ciò vale anche per Leonardo Coimbra, il meno “romantico” fra tutti, quello che più si è sforzato di costruire un estetica aperta, in quanto creazione dello spirito, alla realtà e alla natura. Ecco alcuni dei punti in cui possiamo riconoscere un tratto romantico, più o meno diffuso: 1) La critica dell’egemonia della scienza e il rifiuto di una visione esclusivamente razionalista e oggettivista del mondo e della vita, che non lascia alcuno spazio al sentimento, all’affettività, alla sensibilità, alla diversità e alla contingenza dell’individualità. La visione molto limitata, parziale e povera della scienza deve essere temperata e integrata da altre forme di relazione con la realtà, e precisamente da una visione artistica o ragione estetica, dall’arte o dalla poesia, considerate forme più idonee ad esprimere quel delicato rapporto. Naturalmente, le posizioni dei vari autori possiedono delle radici proprie: in Teixeira de Pascoaes, risalta soprattutto il confronto tra la poesia e la scienza, tra una visione scientifica ed una visione poetica. In Leonardo Coimbra, invece, si evidenzia in particolare l’intenzione di continuità, reciprocità e complementarie-

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tà della scienza e dell’arte, in vista di un’esperienza integrale fondata su rationes filosofiche. La scienza si apre all’arte e l’arte amplia le prospettive della scienza, fornendole pregnanza e concretezza, e recuperando inoltre le dimensioni dell’individualità concreta, della sensibilità e del sentimento. Lo sforzo di “sintesi” e armonia domina dunque il pensiero creazionista, intenzionato a porre fine ad ogni esiziale dualismo. Un altro aspetto ugualmente caratteristico dell’estetica leonardina è la volontà di realismo e di natura: il filosofo, infatti, è convinto che il dinamismo dello spirito lavorerebbe a vuoto se non vi fossero degli spazi dove far entrare il mondo e la natura. Salvaguardate le distanze e le proporzioni, potremmo ben dire che Leonardo sta ai suoi amici ed esteti neo-romantici come Hegel stava al primo Romanticismo. Per la sua volontà di natura, di sintesi, di sistema e di armonia, Leonardo sembra essere allora più un classicista che un romantico. 2) La supremazia riconosciuta all’arte, in generale, e alla poesia e alla musica in particolare, non solo come massime espressioni della realizzazione spirituale, ma anche per la loro capacità di rivelare l’essenziale e intima natura delle cose e dell’Essere. Questa importanza è testimoniata sia dalla volontà dell’arte (della poesia) e dell’artista (del poeta) di ricercare l’assoluto, sia dalle considerazioni sul misticismo estetico e religioso dell’arte, ricorrenti in Aarão de Lacerda e in Pascoaes, ma non del tutto assenti neppure in Leonardo Coimbra. L’importanza attribuita all’arte, alla poesia e alla musica presuppone anche il riconoscimento dell’importanza delle facoltà estetiche – il sentimento, la sensibilità, la fantasia, l’immaginazione e la ragione estetica –, tanto nel confronto con la ratio scientifica, quanto nella volontà di rivendicare la loro decisiva partecipazione nell’espressione della vita organica dello spirito. 3) L’idea di un’essenziale unità, continuità e armonia tra l’uomo e la natura, il desiderio di presentare una differente in-

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tegrazione dell’uomo nel seno della natura, e il conseguente rifiuto di ogni dualismo gnoseologico o metafisico. Possiamo trovare una traccia di quest’ultimo aspetto nella tendenza, propria del panteismo naturalista di Pascoaes, a soggettivare la natura, o nella volontà di istituire una reciproca compenetrazione di uomo e natura, come nell’ontologia armonica del creazionismo leonardino. La differenza tra Leonardo e Pascoaes può essere adeguatamente compresa alla luce della seguente considerazione del filosofo creazionista sul suo amico e poeta metafisico: «Il suo panteismo è il monismo radicale del suo essere. Quando parlo con Pascoaes, mi sento a volte uno spettro della sua immaginazione […] L’analogia, l’ultimo processo della conoscenza del filosofo e il primo del Poeta, gli fornisce gli altri esseri che, per la sua immaginazione assorbente, sono gli spettri di un pluralismo che fa capo a se stesso. Sento che da me partono fili per tutti gli esseri e che sono un poco quello che mi sta intorno; sento che, per Pascoaes, ciò che lo circonda è essenzialmente Lui. Il pino entra nella mia anima con vegetazione e resina, il pine esiste per Pascoaes soltanto come gufo che emette solitudine e tristezza. Il residuo di questa assimilazione immaginifica è un vago sentimento di inaccessibile alterità che dà a Pascoaes il disegno dantesco della Solitudine. Tutto è psicologia nell’anima di questo poeta, e credo che se egli tentasse un’enciclopedia, questa sarebbe uno spettrale panpsichismo64». Sulla stessa linea si dirigerà la critica di Fernando Pessoa al naturalismo di Pascoaes. Ed è per questo che, secondo il poeta del Messaggio, il vero naturalismo, quello del vero poeta e scopritore della natura, incarnato alla perfezione da Alberto Caeiro, è presentato come un Pascoaes all’incontrario.

64. L. Coimbra, A poesia e a filosofia moderna em Portugal, in Id., Dispersos, Vol. I (1987), pp. 37-38.

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4) La convinzione che esista un’anima o un genio di ogni popolo che si esprima soprattutto attraverso le forme della sua realizzazione artistica, poetica, scientifica e religiosa, e che definisca la sua identità e modelli la sua storia manifestando la propria concreta universalità. Tutti e tre i pensatori parteciparono, ciascuno a suo modo, alla creazione o alla restaurazione di un’arte nazionale e popolare, capace di esprimere la genuina anima lusitana. L’arte non è soltanto uno degli strumenti della rinascita desiderata, ma incarna l’aspetto essenziale e ispiratore di questo vero e proprio rinascimento nazionale. Tale preoccupazione è più visibile in Pascoaes e Lacerda, sebbene anche Leonardo abbia cercato di identificare l’essenza di un’estetica nazionale, individuata soprattutto nella poesia, sotto forma di un panteismo poetico in grado di rispecchiare il pensiero metafisico portoghese radicato nell’anima del popolo. Il tentativo di Leonardo è ben visibile nel saggio La poesia e la filosofia moderna in Portogallo (“Atlântida”, 1917), dove traccia il percorso della poesia portoghese da Antero a Pascoaes65. Nessuno meglio dello stesso Leonardo ha fornito una descrizione migliore del nazionalismo estetico comune ai tre pensatori. Non si tratta di difendere l’isolamento dei popoli in se stessi, ma di far sì che ogni popolo si concentri sulle sue energie creatrici, affinché possa poi partecipare, con voce, timbro e tema propri, sia al grande concerto di tutti i popoli, sia alla grande sinfonia del cosmo e dell’essere: l’uomo, infatti, precisa Leonardo Coimbra, «attinge l’universale soltanto astraendolo dal particolare, e trova Dio solamente ricercandolo nello spettacolo dei mondi e delle anime66».

65. Cfr. Ivi, pp. 35 e sg. 66. Ivi, Vol. II (1987), p. 65.

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Questa ricerca di un’identità nazionale portoghese nell’arte – nella sostanza, di un’estetica nazionale – sarà presente anche in pensatori successivi, intenzionati a recuperare il lascito di Teixeira de Pascoaes e Leonardo Coimbra. Pensiamo, ad esempio, a Alfonso Botelho, che vedeva, interpretando la simbolica connessa al mare (in ciò seguendo Aarão de Lacerda), in certe opere della pittura, della scultura e dell’architettura portoghesi, gli emblemi e i documenti segreti della sapienza di un popolo. «Il simbolo», scrive Alfonso Botelho, «è un residuo o un segnale di quella verità prima da cui ci stiamo allontanando. I simboli, pertanto, in ultima analisi risvegliano in noi la nostalgia per il Paradiso che abbiamo perduto. I simboli costituiscono così la funzione attiva della memoria, l’attivazione degli archetipi che essi, per analogia, rappresentano67».

5. Un’estetica della resistenza? Vorremmo dedicare un’ultima nota alla relazione dei pensatori Portuensi con i movimenti artistici loro contemporanei, in particolare il Modernismo e il Futurismo. Essendo dei neoromantici, è naturale che le loro preferenze si dirigano verso le varie espressioni del Romanticismo, soprattutto per ciò che riguarda la loro espressione musicale. A partire dall’esigenza di dare vita ad un’arte oggettiva e realistica, Leonardo rifiuta gli eccessi dei simbolisti, il relativismo degli impressionisti e l’egoica arbitrarietà dei futuristi, considerandole forme incapaci di rispettare l’intrinseca dialettica dell’arte. Anche Pascoaes allontana il suo progetto estetico dalla celebrazione del progresso che ha caratterizzato il movimento 67. A. Botelho, Ensaios de Estética Portuguesa, Verbo, Lisboa 1990, pp. 53-54.

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futurista. Egli considera infatti il Futurismo, che ebbe in Portogallo la sua massima espressione con l’Álvaro de Campos di Pessoa, la capitolazione della poesia e dell’arte di fronte all’ossessione per la scienza e la civiltà industriale: «“Il canto dei motori”, “Aeroplani”, “Versi elettrici” sono titoli di Poesie! Ecco dove porta l’ossessione scientifico-industriale! O povera Musa futurista, il tuo sguardo è uno splendore di vernice, in pupille di vetro! Passeggi a vapore tra nuvole di polvere, nel tuo ferreo volto stridente, vestita di annunci commerciali […] Oh, che illusione, che stupida illusione quella dell’uomo che tenta di uccidere la fame divina dello spirito, dandogli da rosicchiare carbone e ferro! [Il Futurismo] confonde il movimento semplice con la vita complessa, cioè spostando nello spazio ciò che si sogna nell’Infinito. Ma questa è ancora retorica – la retorica che proviene dall’epidermide verbale e vuole attingere l’essenza viva, l’anima! No: la Vita, l’unica materiaprima della Bellezza, non si trova nei motori, negli aeroplani o nella luce elettrica. Tutto ciò è scheletro. La Poesia, anche quando è un epitaffio, non scende al fondo della sepoltura; si conserva, qui fuori, sopra il marmo, dove si posano gli uccelli cantando e dove batte il chiaro di luna e la luce del sole […] Noi, portoghesi, vogliamo rinascere e non soltanto progredire. Vogliamo vita e non movimento inanimato, spirito e non retorica. In verità, la parola “progresso” possiede un significato ispido e secco. Essa evoca immediatamente rumori metallici di macchine, sotto un cielo livido di fumo, in mezzo ad un paesaggio senz’alberi. E peggio ancora: la parola “progresso” si è trasformata in una specie di divinità egoista e feroce, circondata da intolleranti e rossi proseliti – cuori carbonizzati che hanno perso il divino significato delle Cose […] Noi vogliamo rinascere. Il semplice progresso non soddisfa il profondo desiderio dell’anima portoghese che vuole andare al di là delle espressioni materiali e ristrette della Vita. Io comprendo che il belga, lo svizzero, popoli poco caratteristici […], adorino il

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progresso, lo splendore dell’oro, i fischi delle locomotive, le velocità delle automobili, infine, la forma borghese della Civiltà68». Per la sua radice romantica e per l’impronta saudosista, l’estetica dei maestri Portuensi può sembrare un’estetica della resistenza – un’estetica incapace di accompagnare e riconoscere la pertinenza e l’importanza di molti dei movimenti estetici del XX secolo. Ma la loro resistenza, come abbiamo visto nel corso di questo saggio, era condotta in nome di cause e ragioni essenziali. Nel tramonto e nell’esaurimento di tutti i modernismi e futurismi, nell’attuale fase “post-moderna” in cui tutti ci troviamo a vivere, in cui nuovamente l’arte, le forme artistiche e le teorie estetiche sono oggetto di una radicale rivalutazione critica, i maestri di Porto non avranno per caso ancora qualcosa da dirci?

68. T. de Pascoaes, A Saudade e o Saudosismo (1988), pp. 158-159.

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Fernando Pessoa, poeta e filosofo della natura

Fernando Pessoa ha smesso di essere soltanto una figura culminante della letteratura portoghese per diventare patrimonio della letteratura mondiale1. La diffusione e traduzione 1. Fernando Pessoa nacque (13 giugno 1888) e morì (30 novembre 1935) a Lisbona. Poeta e filosofo, visse la sua vita come semplice impiegato di scrivania (corrispondente commerciale). Trascorse l’adolescenza e la giovinezza a Durban (Sud Africa), dove il patrigno svolgeva le funzioni di console del Portogallo. Ebbe una formazione scolastica inglese, e arrivò a candidarsi all’Università del Capo, avendo scritto i primi poemi in inglese, che sarà una delle sue lingue di creazione poetica e di espressione letteraria, nonostante abbia scritto: «la mia patria è la lingua portoghese». Nel 1905 ritornò a Lisbona, e nell’anno seguente si iscrisse al Corso Superiore di Lettere (istituzione che si sarebbe in seguito trasformata nella Facoltà di Lettere), che abbandonò senza concludere neppure il primo anno. Nel 1912 pubblicò nella rivista A Águia i primi saggi sulla nuova poesia portoghese, e nel 1915 partecipò alla creazione della rivista Orpheu, che lanciò il movimento modernista in Portogallo. Qui pubblicò alcune poesie con il proprio nome e sotto l’eteronimo di Álvaro de Campos, oltre a dirigere il 2º (e ultimo) numero. Nel 1924 fondò e diresse la rivista Athena, e a partire dal 1927 collaborò con la rivista Presença. Oltre alle poesie e ai saggi pubblicati nelle riviste citate, Pessoa pubblicò in vita solamente quattro opere, tre in inglese ed una in portoghese, Mensagem, l’anno prima della morte. Lasciò tuttavia inedita un’opera immensa – anzi, un’intera biblioteca –, ortonima e eteronima, che non è ancora conosciuta nella sua totalità, essendo in corso

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della sua opera, l’interesse che ha generato e gli studi che continua a suscitare ne sono la perfetta testimonianza. Tuttavia, che cos’altro si può dire ancora che non sia già stato detto e scritto decine di volte dalla vasta, dotta e devota tribù dei pessoani? Cosa ci può ancora dire l’opera del poeta, quasi un secolo dopo la sua gestazione e produzione? Quale messaggio o quali messaggi si nascondono ancora nell’opera dell’autore del Messaggio? L’opera di Pessoa, non soltanto per le particolari circostanze della sua avulsa e finora incompleta pubblicazione, ma soprattutto per la sua peculiare complessità, rimane (e rimarrà ancora per molto tempo) un’opera aperta, il cui senso globale ci sfugge. Per descrivere la situazione dell’ermeneutica pessoana, rimane valida l’osservazione che possiamo leggere in una pagina destinata a Il libro dell’inquietudine: «Tutto ciò che l’uomo espone o esprime è un appunto a margine di un testo completamente cancellato. Dal significato dell’appunto deduciamo più o meno il significato che avrebbe dovuto ave-

l’edizione della sua opera completa. Sia come poeta, sia come filosofo è difficile – è impossibile – classificarlo. Negli ultimi anni, accanto alla crescente internazionalizzazione della sua figura e al riconoscimento dello straordinario significato della sua opera poetica (Harold Bloom lo considera uno dei massimi personaggi del suo Western Canon), è cresciuto l’interesse per la sua opera di pensiero, ancora non accessibile nella sua totalità, e la cui portata speculativa è lungi dal poter essere adeguatamente misurata. Si veda, oltre agli studi citati nel corso del saggio, i seguenti testi: Paulo Borges (coord.), Nietzsche, Pessoa, Freud, CFUL, Lisboa 2013; P. Borges, Olhares europeus sobre Fernando Pessoa, CFUL, Lisboa 2010; L. Ribeiro dos Santos, Géneros flutuantes. Poesia e Filosofia em Antero de Quental e Fernando Pessoa, in P. Calafate e J. L. Mora García (coord.), Filosofía y Literatura en la Península Ibérica. Respuestas a la crisis finissecular, CFUL/FIL/AHF, Madrid 2012, pp. 189-212.

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re il testo; ma rimane sempre il dubbio e i significati possibili sono molti2». Il testo pessoano non è, naturalmente, del tutto cancellato. Ma a causa della natura incompleta, parziale e modificata a piacere dai vari criteri scelti dai suoi editori, è quasi come se fosse in buona parte cancellato. Gli studiosi di Pessoa conoscono molto bene le peripezie e i problemi che hanno caratterizzato l’edizione del corpus e del lascito letterario del poeta. Scarsamente editato nel corso della propria vita, Pessoa, oltre ad aver lasciato molti progetti editoriali di opere redatte in modo più o meno definitivo, ci ha soprattutto trasmesso molti abbozzi o versioni frammentarie di opere, e molti, moltissimi frammenti, espressione diretta della sua stessa frammentazione creativa, o almeno della sua peculiare forma di creare, e della fenomenologia che presiede alla sua officina poetica, 2. F. Pessoa, Livro do Desassossego, ed. de R. Zenith, Assírio & Alvim, Lisboa 1998, p. 164; trad. it., Il libro dell’inquietudine, a c. di V. Tocco, Mondadori, Milano 2011, p. 158. Non essendoci ancora un’edizione critica o canonica completa dell’opera pessoana, useremo le varie edizioni disponibili, sia quelle composte da lavori avulsi, sia l’edizione dell’Obra em Prosa de Fernando Pessoa. Escritos íntimos, cartas, e páginas autobiográficas, curata da A. Quadros e pubblicata dalle Publicações Europa-America nel 1986. Per il corpus di Alberto Caeiro ci serviamo dell’edizione curata da T. Sobral Cunha: F. Pessoa, Poemas Completos de Alberto Caeiro, Presença, Lisboa 1994. Si tratta infatti di un’edizione che ha il vantaggio della comodità, poiché riunisce in uno stesso volume le testimonianze su Caeiro, sia quelle dello stesso Pessoa, sia quelle degli altri eteronimi, comprendendo inoltre altri documenti fondamentali per l’ermeneutica di una così singolare creazione letteraria. Questa edizione sarà indicata nel corpo del testo, per quanto riguarda le fonti portoghesi delle citazioni, con PC, accanto all’indicazione delle pagine corrispondenti [N. d. T.: la traduzione italiana de Il custode di greggi e dei Poemi Sciolti è quella curata da F. C. Martins e R. Zenith: F. Pessoa, Le poesie di Alberto Caeiro, Passigli, Firenze 2000. Per quanto concerne tutti gli altri passaggi pessoani, la traduzione è invece nostra. In alcuni rari casi, per conservare una maggiore fedeltà alla lettera del testo pessoano, siamo stati obbligati a modificare leggermente le traduzioni citate].

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retta da un’economia dissipatrice. È perciò ben comprensibile l’estrema difficoltà di un’edizione critica delle sue opere che, pur essendo in corso, si trova al cospetto di innumerevoli complicazioni, non essendoci neppure fra gli specialisti un preciso accordo sui criteri da utilizzare3. E senza un’edizione critica non vi può essere alcuna sicura fissazione del corpus del poeta, né una datazione dei testi, e nemmeno un’identificazione del progetto in cui si sarebbero dovuti originariamente inscrivere. In sua assenza, il tesoro del lascito pessoano, oltre ad essere continuamente visitato da devoti e coscienziosi studiosi che se ne occupano con attenzione ed affetto, è stato anche assaltato e dilapidato da pirati letterari che ne hanno squartato i pezzi o ne hanno modificato la loro collocazione, e questo solo per delle opportunistiche ragioni editoriali. E se molti documenti rimangono ancora inediti, ve ne sono stati altri editati senza alcun criterio, o magari in nome di particolari progetti di ricerca, distorcendo così ancora di più un’opera già profondamente complessa in virtù della sua sola e peculiare natura. Ancor più serie rispetto a quelle derivanti da un’edizione non ancora completa sono le difficoltà connesse allo studio dell’opera pessoana, difficoltà che trasformano in un vero e proprio tormento di Sisifo i tentativi di ogni genuina interpretazione intenzionata a ritrovare il significato unitario o la coerenza globale della riflessione del poeta portoghese. Le difficoltà cui si è fatto appena riferimento sono relate a tre aspetti particolari. In primo luogo, alla complessità risultante dalla grande eterogeneità dell’opera (sia essa in prosa o in verso), complessità ed eterogeneità che sono espressione

3. Sulle vicissitudini e le difficoltà del progetto, cfr. I. Castro, Editar Pessoa, INCM, Lisboa 1990 e Id., Defesa da Edição Crítica de Fernando Pessoa, Lisboa 1993; cfr. inoltre T. Rita Lopes, A Crítica da Edição Crítica, “Colóquio-Letras”, n. 125-126 (Julho-Dezembro 1992), pp. 199-218.

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della molteplicità di interessi e dei differenti risvolti del suo autore, un poeta multiforme, un pensatore e un saggista, un critico e un teorico di un nuovo progetto di civilizzazione. Per non parlare del Pessoa esoterico, ermetico, teosofo, gnostico, cabalista, astrologo e spiritista, interessato alle dottrine dei movimenti iniziatici – i Rosacroce, la Massoneria, l’Ordine dei Templari, l’Ordine di Cristo – e ai loro rispettivi rituali. Fino a che punto si può parlare quindi di una sua personale adesione e credenza, o di una semplice curiosità intellettuale tipica dell’analista di ogni tipo di cultura, comprese quelle all’apparenza meno canoniche4? In secondo luogo, un’altra difficoltà è connessa alla natura ibrida dell’opera pessoana, redatta in un registro di pensiero intellettuale e poetico che le conferisce una densità ed un’ambiguità molto peculiari: i due registri, infatti, non procedono parallelamente, ma si intersecano, dando vita ad una tensione permanente e feconda. Se la poesia di Pessoa guadagna così un particolare taglio speculativo e persino intellettualista, il suo pensiero dischiude una più ampia apertura interrogante, presentandosi molte volte sotto la forma del paradosso, quasi rappresentasse l’esperienza stessa del pensiero, anziché un coacervo di tesi più o meno coerenti sulla realtà. In terzo luogo, dobbiamo confrontarci con le difficoltà associate alla ben conosciuta e discussa eteronimia pessoana, una scelta stilistica che rende impraticabile qualunque tentativo di comprendere l’unità dell’uomo se non sotto la forma della diversità, che impedisce ab origine di delimitare l’identità di Pessoa se non attraverso la continua moltiplicazione di personaggi autonomi e indipendenti, che preclude, infine, ciò cui tende ogni interpretazione, ovvero l’identificazione di una

4. A questo proposito, cfr. I. K. Centeno, Fernando Pessoa e a Filosofia Hermética, Presença, Lisboa 1985.

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possibile coerenza, per quanto semplice o complessa, lineare o dialettica possa essere. Ma dove si trova allora Pessoa? Quale dei suoi eteronimi lo rappresenta meglio? Come conciliare i punti di vista diversi che la sua opera presenta? Quale gerarchia possiamo stabilire fra loro? Dov’è il centro gravitazionale della galassia pessoana? Dovremmo dunque concluderne che non c’è, più semplicemente, alcun centro, così come non vi è nessuna personalità autoriale? O magari questo centro è soltanto un luogo vuoto, un nulla, un buco nero, un «pozzo senza pareti»? Un altro passo de Il libro dell’inquietudine sembra suggerire una precisa risposta all’ultimo quesito: «E io, proprio io, sono il centro che esiste soltanto per una geometria dell’abisso; sono il nulla intorno al quale gira questo movimento solo perché deve girare, con un centro che esiste solo perché ogni cerchio deve possederne uno. Io, proprio io, sono il pozzo senza pareti ma con la resistenza di tutte le pareti, il centro di tutto con il nulla attorno5». Di fatto, il contatto con l’opera di Pessoa – soprattutto quando si passa da una semplice lettura ad un lavoro analitico ed ermeneutico – è sconcertante. Abbiamo subito la sensazione che il suo pensiero ci sfugga: appena sembra localizzarsi in un punto, in un’evidenza, in una tesi o in un’osservazione, ci appare subito in un altro testo differente e irriducibile, al tempo stesso policentrico e senza alcun nucleo gravitazionale. Il nostro interesse per l’opera dell’autore del Messaggio deriva dalla confluenza di varie linee di investigazione in relazione alle quali la figura e l’opera di Pessoa si sono imposte come ineludibili. La riflessione di Pessoa, infatti, è fondamentale per comprendere e analizzare il contemporaneo pensiero 5. F. Pessoa, Livro do Desassossego, ed. de M. Alzira Seixo, Editorial Comunicação, Lisboa 1986, p. 52; trad. it. p. 359.

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estetico portoghese, le relazioni tra la filosofia e la letteratura (ivi compresa la poesia) nel pensiero europeo post-kantiano, e le poetiche e le filosofie della natura. È proprio in relazione a quest’ultimo topico che andremo sviluppando la nostra analisi, concentrandoci, in particolare, sul corpus poetico di Alberto Caeiro, lo stesso che incarna, nella drammaturgia poetica pessoana, la poesia e la filosofia della natura, lo stesso che dice di sé di non essere semplicemente «l’unico poeta della natura», ma «lo scopritore della natura». Ma chi è dunque Alberto Caeiro? Qual è il suo ruolo e la sua funzione nell’opera di Pessoa? È più facile per noi oggi comprendere il significato dell’eteronimia pessoana rispetto ai primi lettori e critici dell’autore portoghese6. L’eteronimia come processo letterario non è un’invenzione di Pessoa. Anche nella stessa letteratura portoghese vi era stato un antecedente molto prossimo impersonato da Fradique Mendes, il risultato di una creazione collettiva dei giovani della Geração de 70 (Antero de Quental, Jaime Batalha Reis, Eça de Queirós, Ramalho Ortigão), una figura che Eça avrebbe poi stilizzato e proposto come una sorta di proprio alter ego, un esteta in cui rivedeva il superiore ideale della sua generazione, creandogli una biografia ed una corrispondenza ad hoc (La corrispondenza di Fradique Mendes) con cui espone il suo progetto estetico-filosofico7.

6. Per un’indagine sulla situazione ermeneutica dell’eteronimia pessoana in generale, e con particolare riguardo alla figura di Alberto Caeiro, cfr. lo splendido saggio di E. Lourenço, Fernando Pessoa Revisitado, Moraes Editores, Lisboa 1981 (2a ed.). 7. L’associazione fra Pessoa e gli scrittori della Geração de 70 è stata proposta da Mário Sacramento e soprattutto da Joel Serrão. Di quest’ultimo, cfr. Acerca da tendência heteronímica de Antero, in Id., Afecto às Letras. Homenagem da Literatura Portuguesa Contemporânea a Jacinto do Prado Coelho, INCM, Lisboa 1984, pp. 311-319; cfr. inoltre Id., Acerca da

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Sono state addotte e suggerite varie proposte sull’eteronimia pessoana, e direttamente dallo stesso Pessoa: alcune di natura psicologica o analitica, altre di matrice socio-culturale (la mancanza di interlocutori nell’ambiente culturale portoghese e la necessità di creare un club di amici e partner per dare vita ad un confronto intellettualmente stimolante e produttivo), altre ancora di natura semplicemente letteraria, considerando l’utilizzo degli eteronimi come una messa in scena drammatica, come il frutto di ludici esercizi di finzione poetica, o come delle forme con cui il poeta fuoriusciva dalla propria identità8. Dietro l’eteronimia pessoana vi sono certamente dei processi collegati alla peculiare psicologia del poeta. Egli stesso sembra confermare questa linea interpretativa quando, nella famosa lettera a Casais Monteiro del 13 gennaio 1935, associa le sue creazioni eteronimiche ad una «profonda traccia di isteria» presente nella sua psicologia, o alla sua «tendenza organica e costante per la spersonalizzazione e per la simulazione9». I testi che documentano questa tendenza sono troppo espliciti ed insistenti per non essere considerati in modo adeguato, pur potendo, naturalmente, dare luogo a differenti interpretazioni. Così, ne Il libro dell’inquietudine il suo autore – un altro eteronimo o semi-eteronimo di Pessoa, Bernardo Soares (considerato da alcuni la figura che espone nel modo più fedele le idee e i sentimenti del poeta) – confessa: «Ho creato in me varie personalità. Creo personalità costantemente. Ogni mio sogno, appena lo comincio a sognare, è immediatamente incarnato in un’altra persona che inizia a sognarlo, e io non più. – Per creare, mi sono distrutto: mi sono esteriorizzato talmente dentro tendência heteronímica de Antero e Eça de Queiroz, in Id., O Primeiro Fradique Mendes, Livros Horizonte, Lisboa 1985, pp. 177-191. 8. Secondo quanto si legge nella Prefácio às Ficções do Interlúdio, in F. Pessoa, Livro do Desassossego (1998), pp. 505-507. 9. F. Pessoa, PC, p. 294.

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di me che dentro di me non esisto se non esteriormente. Sono il palcoscenico spoglio su cui passano vari attori a recitare varie opere teatrali10». In un altro luogo Soares afferma: «Sono un nomade della coscienza di me. Al primo pastore si sono disperse le greggi della mia ricchezza intima11». Che non si tratti soltanto di un sintomo personale, ma di una caratteristica propria della coscienza umana, lo conferma un altro passaggio di questa stessa opera: «Ciascuno di noi è più d’uno, è molti, è una prolissità di se stesso […] Nella vasta colonia del nostro essere ci sono persone di molte specie, che pensano e sentono in modo diverso […] Sento continuamente di essere stato un altro, di aver sentito altro, di aver pensato altro. Quello a cui assisto è uno spettacolo con un altro scenario. E quello a cui assisto sono io12». Non è possibile pensare che il poeta si stesse semplicemente divertendo, giocando con se stesso e con i suoi eventuali lettori, sebbene si sappia, almeno dopo la riflessione di Schiller, che il gioco e la finzione sono le cose più serie che un uomo possa fare, essendo «pienamente uomo unicamente quando gioca o scherza13». L’eteronimia pessoana nasce dall’intenso e abissale sentimento dell’evanescenza della coscienza e della personalità o identità personale. Vi è quindi un eraclitismo pessoano, ossia la percezione della fluidità delle cose, delle anime e del decorso interiore della propria stessa coscienza, e ciò in un movimento continuo, come se ogni evento scorresse all’interno di margini inesistenti. È la personalità, la coscienza il fiume mai uguale a

10. F. Pessoa, Livro do Desassossego (1986), p. 55; trad. it. p. 167. 11. Ivi, p. 198; trad. it. p. 162. 12. Ivi, p. 47; trad. it. p. 420 e p. 386. 13. F. Schiller, Über die ästhetische Erziehung des Menschen; trad. it., Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, a c. di A. Negri, Armando, Roma 2005, p. 174.

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se stesso, un rivolo che si moltiplica di continuo in uno spettacolo di vari attori, nell’«ansia insaziabile e infinita di essere sempre lo stesso e un altro14». Ad essere esposta in queste pagine non è solo il dramma psicologico dell’individuo Fernando Pessoa, bensì il dramma della coscienza moderna nel suo complesso. Un umanista del Rinascimento, il valenciano Juan Luis Vives, aveva esposto questa condizione moderna dell’uomo nella sua Fabula de Homine, un’apprezzabile e preveggente meditazione sulla scarsa sostanzialità e sull’impossibile fissazione dell’identità umana, visto che ciò che caratterizza l’uomo è precisamente la sua illimitata capacità di essere attore – ossia di rappresentare ogni ruolo, senza riconoscersi pienamente in nessuno di essi, di impersonare la successione delle sue rappresentazioni e delle sue maschere – e, al contempo, spettatore del proprio stesso spettacolo15. Pessoa sapeva perfettamente che la sua strategia eteronimica non era «un processo nuovo in letteratura, bensì una maniera nuova di impiegare un processo già antico16». Il poeta portoghese associa il processo fondato sulle eteronimie al processo della costruzione drammatica, come se si trattasse di personaggi individualizzati di un dramma realmente vissuto all’interno di una coscienza frantumata ed incapace di realizzare una sintesi fra le sue varie manifestazioni. Anche nella letteratura filosofica vi era già stato un precedente abbastanza prossimo. Kierkegaard, infatti, aveva fatto proprio un processo fondato sulla polinimia – del tutto analogo allo sviluppo dell’eteronimia pessoana – per esprimere tipologie di esistenza ra-

14. F. Pessoa, Livro do Desassossego (1986), p. 45; trad. it. p. 93. 15. Cfr. J. Luis Vives, Fabula del Hombre (1518), in Id., Obras Completas, trad. de L. Riber, Aguilar, Madrid 1948, Vol. I, pp. 538-542. 16. F. Pessoa, PC, p. 241.

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dicalmente singolari, considerate quindi irriducibili alla sintesi unificatrice della totalità hegeliana. Le differenze non possono essere più inglobate in una coscienza unificante absoluta, in un Io, ma sono in se stesse assolute, irriducibili nella loro particolare specificità17. Anche in ragione della prossimità con Kierkegaard, si può misurare ancor meglio la portata dell’eteronimia pessoana. Esprimendo nella forma di un dramma personalmente vissuto uno degli aspetti essenziali della crisi della coscienza moderna, essa rappresenta la disseminazione di quello che la dialettica hegeliana avrebbe voluto riunire, ma che non è possibile si mantenga in un’unione sostanziale con se stessa: la coscienza di sé, l’identità e la permanenza di qualcosa come un Io. Per questo aspetto di frammentazione e dissoluzione del soggetto e dell’identità, l’opera di Pessoa rivela uno dei sintomi di crisi della modernità, al contempo anticipando alcuni degli aspetti essenziali di quella che si sarebbe poi venuta a chiamare “condizione post-moderna”. Ad ogni modo, a dispetto dell’importanza e del significato che si può attribuire all’eteronimia pessoana, o dell’interpretazione che si vorrebbe magari suggerire, la figura di Alber-

17. Cfr. S. Kierkegaard, Première et dernière explication, in Id., PostScriptum, II Voll., Éditions de l’Orante, Paris 1971, pp. 301 e sg. Le analogie tra le affermazioni del filosofo danese e la famosa lettera di Pessoa a Casais Monteiro sulla genesi dei suoi eteronimi, la relazione esistente fra lui stesso e le sue creazioni e sul loro significato autonomo, non potrebbero essere più esplicite, nonostante l’ermeneutica pessoana non le abbia sufficientemente considerate. Naturalmente, non intendiamo certo suggerire e neppure affermare una qualsivoglia influenza di Kierkegaard su Pessoa. Tuttavia, proprio per questa ragione la somiglianza fra i due scrittori appare ancora più significativa. Sugli altri scrittori che hanno utilizzato una strategia eteronimica, e sul suo preciso significato, cfr. E. Finazzi-Agrò, L’alibi infinito. Il progetto e la pratica nella poesia di Fernando Pessoa, Galeati, Imola 1983.

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to Caeiro assume nell’intera riflessione del poeta portoghese un’evidenza ed un’importanza sostanziali. Figura matrice, da essa nascono le altre principali figure eteronimiche (Campos, Reis, Mora…) con cui si moltiplica il dramma vissuto (o finto!) dal poeta: ognuna di esse, in virtù di una propria personalità, gravita, come un discepolo, intorno al maestro Caeiro, richiamandosi alla sua fecondità intellettuale. In fondo, Caeiro è quel poeta che lo stesso Pessoa avrebbe voluto essere, se ne avesse veramente e semplicemente avuto l’opportunità. Tuttavia, così come Pessoa non può mai essere il suo ingenuo poeta bucolico Alberto Caeiro, anche quest’ultimo non riesce a diventare completamente se stesso, poiché, nonostante tutto, il suo creatore, con tutto il suo dramma, rimane oltremodo presente. La trascendenza di Caeiro nell’opera pessoana è sottolineata da una complessa messa in scena retorica. Di una simile rappresentazione ed orchestrazione fa parte, fra i vari aspetti, la personale enfatizzazione del proprio ruolo di autore. Caeiro, infatti, non è soltanto l’autore di un corpus letterario; alla sua figura si richiama un’intera famiglia di discepoli che interpretano ed esplicitano la sua opera, un gruppo di critici che l’analizzano, editori, traduttori ed intervistatori che la rappresentano ad un vasto pubblico e in differenti contesti. Egli possiede inoltre una variegata biblioteca, ed è in grado di mobilitare una complessa impresa letteraria. L’enfasi posta nell’affermazione della novità, originalità e singolarità di Caeiro e della sua opera è parte di questa stessa messa in scena. Caeiro si descrive come «l’unico poeta della natura», o come «lo scopritore della natura». E i suoi discepoli confermano e rinforzano la sua descrizione, con un’enfasi evidente e volontaria. Caeiro è allora «il maggiore di tutti i poeti contemporanei» (se non di tutti i tempi!), la sua opera è la «cosa più importante dopo duemila anni», i suoi versi sono

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«unici nel mondo», la sua opera «non ha alcuna somiglianza»: «Caeiro ha creato, una volta per tutte, la poesia della Natura, l’unica poesia della Natura18». La sua opera è presentata inoltre come una rivelazione che trascende, per l’origine e il destino, le dimensioni dello stesso poeta, della sua personalità e volontà: ad esempio, è per «un’intuizione sovraumana», secondo Reis, che quest’uomo scoprì il mondo senza neppure pensarci; può ben essere definito quindi come «il messia del paganesimo» – il «nuovo Cristo» – che, al contrario di quello antico, ha rivelato agli uomini non ciò che non si vede, bensì quello che, pur essendo sempre stato a disposizione di tutti, non è stato ancora visto da nessuno. La sua apparizione è presentata come qualcosa di inesplicabile e inverosimile, come un «miracolo umano» deciso dal Destino o dalla volontà degli Dèi. Ecco cosa si domanda a sua volta António Mora: «Come è potuto accadere che un portoghese, nato nell’estremo disordine della Guerra, nell’ultima abiezione della Patria, abbia trovato in sé la sostanza intima di quella verità con cui i Greci hanno conquistato il mondo?». E conclude: «Non lo so spiegare, e non è nemmeno necessario, accetto il fatto per cui gli Dèi l’hanno voluto19». Caeiro è considerato da suoi discepoli come l’urto della rivelazione di una verità inaudita, come l’annuncio di un mondo e di una civiltà nuovi, come una vera e propria iniziazione. Così lo definisce almeno Ricardo Reis, il più enfatico di tutti loro: «Quando ho sentito leggere per la prima volta Il custode di greggi ho avuto la più grande e perfetta sensazione della mia vita […] Non potrò mai dimenticare quell’ora di imprevista

18. F. Pessoa, Páginas sobre Literatura e Estética, in Id., Obra em Prosa de Fernando Pessoa (1986), p. 139. 19. F. Pessoa, PC, pp. 263-264.

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iniziazione in cui ho visto, in tutta la sua frescura e certezza, la Natura / naturale / faccia a faccia20». Ci troviamo al cospetto di sottili modalità retoriche per sottolineare e amplificare la trascendenza dell’effetto Caeiro e del suo messaggio poetico, filosofico e civilizzatore. Non dobbiamo credere che Pessoa, informato com’era sulla storia della letteratura mondiale, non fosse consapevole delle affinità del suo figlio-poeta con le altre forme storiche di poesia bucolicopastorale e di pensiero naturalista. Alcune di esse, d’altronde, affiorano negli stessi versi di Caeiro, che sono perciò solo all’apparenza versi di un poeta ingenuo e illetterato: è il caso, ad esempio, dell’allusione a Cesário Verde, ai pastori di Virgilio, a quel poeta della natura che fu Francesco di Assisi. Sono presenti anche delle figure che vengono apertamente criticate – come quei «poeti mistici» (probabilmente Teixeira de Pascoaes) e quei «poeti falsi» che, parlando della natura e delle cose naturali, non riescono realmente a vederle, perché non le attribuiscono ciò che si consegna direttamente alla visione, ma qualcosa che in qualche modo le trascende. Inoltre, come ha suggerito Eduardo Lourenço, ci sono anche le presenze cancellate, quelle il cui effettivo impatto si è estinto, tra le quali spicca quella del poeta nord-americano Walt Whitman, l’autore di Foglie d’erba21. Ad ogni modo, potremmo fare riferimento a molte altre testimonianze della letteratura portoghese a lui contemporanea. Senza soffermarci su Pascoaes e Cesário, lo stesso Eça de Queirós, ad esempio, non si era soltanto soffermato nell’ultima delle sue opere pubblicate – La Città e le Montagne – sul confronto tra la civilizzazione e la natura, ma aveva anche avanzato in alcuni suoi racconti (Memorie di una

20. Ivi, p. 196. 21. Cfr. E. Lourenço, Walt Whitman e Pessoa, in Id., Poesia e Metafísica. Camões, Antero, Pessoa, Livraria Sá da Costa, Lisboa 1983, pp. 173-198.

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forca, Il falco, I morti, Tra la neve, Il lume), poi riuniti in Prose Barbare, una specie di materialismo e naturalismo poetici, caratterizzati dal desiderio di annullare la civiltà nella natura, e in questa dissolvere l’uomo stesso, l’unico essere realmente in grado di turbare l’ordine naturale delle cose e l’unico capace con il proprio rumore di stonare la serena armonia della natura e di sporcare e tingere di sangue il verde del paesaggio. Le descrizioni di Eça ci fanno subito pensare a Caeiro, una figura più simile a qualcosa di semplicemente naturale, come una pietra o un’erba, piuttosto che ad un poeta o ad un essere umano. In uno dei suoi racconti, Eça de Queirós scrive: «È ormai tempo di sapere qual è l’opinione che la vasta natura, i monti, gli alberi e le acque si sono fatti dell’uomo22». Questa considerazione non è stata adeguatamente considerata dall’ermeneutica queirosiana, benché permetta di tracciare una linea di continuità fra le varie espressioni di naturalismo poetico-filosofico nella letteratura portoghese degli ultimi due secoli. Vi è più di un poema di Caeiro che sembra evocare i racconti di Eça. Possiamo citare, come esempio, la sedicesima poesia de Il custode di greggi: Magari la mia vita fosse un carro di buoi […] Io non dovevo avere speranze – dovevo solo aver ruote […] Quando poi non servivo più, mi toglievano le ruote E restavo rovesciato e spezzato nel fondo di un dirupo. O allora facevano di me qualcosa di diverso E io non sapevo nulla di ciò che facevano di me… Ma io non sono un carro, sono diverso Ma in cosa sono realmente diverso non me lo diranno mai23.

22. E. de Queirós, Memórias duma forca, in Id., Prosas Barbaras (s. d.), p. 195. 23. F. Pessoa, PC, p. 65; trad. it. p. 59.

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La strategia di Pessoa è comunque comprensibile: se avesse iniziato ad enumerare i tentativi storici di delineare una poesia della natura, tutti i progetti di un ritorno ad essa o di una sua riscoperta, avrebbero finito per indebolire l’impatto del suo messaggio. Avrebbe corso infatti il rischio di dissolverlo in una semplice scoperta letteraria, e non in un vera e propria scoperta della natura. Del resto, ogni scoperta – ogni genuina esperienza – è originaria. Non è importante se altri siano già riusciti a realizzarla, o quante volta sia già stata conseguita. Chiunque vi riesca, lo fa assolutamente, quasi fosse la prima volta, la più decisiva. Caeiro – il poeta bucolico inventato da Pessoa – è il primo, il più originario, il maestro e il creatore di tutti i suoi eteronimi. Di genesi immediata, inscenata come un’estasi poetica, raggiunta in un giorno unico e trionfale, la cui opera è prodotta di getto nella sua perfezione24, egli rappresenta il personaggio in cui il suo autore si riconosce più intimamente, quello nel cui nome scrive «per pura ed insperata ispirazione, senza sapere o calcolare25». Nel dramma poetico pessoano, tutto sta ad indicare che il personaggio Caeiro non ricopre soltanto un ruolo fondativo in relazione agli altri eteronimi, ma svolge un compito centrale in rapporto all’autore stesso. Come abbiamo già rilevato, Caeiro è la persona che Pessoa avrebbe voluto essere, se ne avesse realmente avuto l’opportunità. Tuttavia, come vedremo a breve, Pessoa non può essere completamente Caeiro, così come

24. È risaputo che la storia raccontata da Pessoa nella lettera ad Adolfo Casais Monteiro sulla genesi immediata, estatica e perfetta dei poemi, ben presto attribuiti a Caeiro, costituisce una creazione del poeta, come testimoniano le versioni precedenti di molti di questi poemi ritrovati nel lascito del poeta e nelle successive modifiche e revisioni presenti in molti testi. Su questo punto, cfr. i saggi di I. Castro, Espólio e edição de Alberto Caeiro, in Id., Editar Pessoa (1990), pp. 61 e sg. 25. F. Pessoa, PC, p. 296.

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lo stesso Caeiro non può essere se stesso, poiché, a dispetto di tutto, egli è ancora troppo Pessoa. Nella storia della letteratura portoghese, Pessoa è, senza alcun dubbio, il più speculativo dei poeti portoghesi, avvicinabile soltanto ad Antero de Quental e a Luís de Camões. Nel 1910, in una sorta di confessione auto-interpretativa, il poeta scrive di se stesso: «Io ero un poeta stimolato dalla filosofia, non un filosofo dotato di capacità poetiche. Mi piaceva ammirare la bellezza delle cose, scorgere nell’impercettibile, attraverso ciò che è minuto, l’anima poetica dell’universo26». Ben presto Pessoa avrebbe chiaramente compreso lo statuto pensante e filosofico dell’arte letteraria e della poesia. Lo scrisse: «Una corrente letteraria non è altro che una metafisica27». A questo proposito, si tenga presente il suo interessante saggio sulla metafisica della nuova poesia portoghese. Il fatto che la poesia sia correlata alla percezione della gravità della vita e al suo mistero è una riprova della sua sincerità e serietà. Secondo Pessoa, una corrente letteraria è in possesso di un vero e proprio significato e interesse quando, al di là di un’estetica determinata, contiene una metafisica – un concetto dell’universo – e ciò che egli chiama una sociologia, ossia una proposta di intervento culturale. Poeti e filosofi sono i qualificati interpreti e al tempo stesso i creatori dell’anima di un’epoca e delle sue rispettive intuizioni metafisiche28. Molto prima che Heidegger, nella sua Lettera sull’Umanismo (1947), nell’ambito del suo compito di superamento della me26. F. Pessoa, Páginas Íntimas e de Auto-Interpretação, ed. de G. R. Lind e J. P. Coelho, Ática, Lisboa 1966, p. 14. 27. F. Pessoa, A Procura da Verdade Oculta. Textos Filosóficos e Esotéricos, ed. de A. Quadros, Publicações Europa-America, Lisboa 1986, p. 105. 28. Cfr. F. Pessoa, A nova poesia portuguesa (1912), in Id., Textos de CrÍtica e de Intervenção, Ática, Lisboa 1980, pp. 448 e sg.

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tafisica in nome di un pensare più originario, lanciasse la suggestiva idea di considerare il pensatore e il poeta come dei “pastori dell’essere”, l’autore de Il custode di greggi e de Il pastore amoroso aveva detto lo stesso. In una nota a margine alla prima poesia de Il custode di greggi, databile nel 1914, possiamo leggere: «Non ci meravigliamo che una cosa sia il poeta, l’altra il filosofo, sebbene siano la stessa cosa29». In uno dei suoi saggi, analizzando le forme della poesia e i tipi di poeti, Pessoa identifica un genere di poesia che chiama «poesia metafisica», indicando Antero de Quental come il suo fondatore in Portogallo30. Al pari di Antero, Pessoa si inscrive in quell’elemento generato dalla rivoluzione nata nel pensiero europeo alla fine del XVIII secolo, da cui risultò una profonda trasformazione del discorso filosofico e del discorso poetico, avviando un loro progressivo avvicinamento. Tale rivoluzione si tradusse in una spostamento della filosofia dal piano della scienza o della conoscenza (Erkennen) al piano del pensiero (Denken): in questo contesto, sul piano della metafisica la seduzione per la poiesis viene a sostituire la mathesis, mentre nell’ampio orizzonte estetico si riconosce all’arte il ruolo di analogon e organon della filosofia, e alla poesia quello di suo arché e telos. Il Sistema dell’Idealismo Trascendentale di Schelling (1800) consacra inoltre, sul piano speculativo, l’importanza di questo avvenimento, certamente decisivo tanto per la filosofia, quanto per l’arte e la poesia. Era proprio in relazione ad una simile dislocazione che Hölderlin, nel suo Iperione, domandava: «Che rapporto c’è […] tra la fredda sublimità di questa scienza e la poesia?”». E risponde: «La poesia […] è l’alfa e l’omega di questa scienza,

29. F. Pessoa, PC, p. 41. 30. Cfr. F. Pessoa, Páginas sobre Literatura e Estética (1986), p. 126.

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non essendoci mai stato un popolo filosofico senza poesia31». Non diversamente Novalis, cercando di corrispondere a questa svolta, aveva dato vita all’idea di una “poesia trascendentale”, che fosse una fusione di poesia e filosofia32. Lo stesso evento condurrà anche il giovane Nietzsche a concepire la filosofia come «una forma di poesia […], la poesia al di là dei limiti dell’esperienza33». Ciò che così si dichiara in molti modi e voci è quindi la coscienza dell’originaria affinità tra filosofia e poesia, la convinzione del primato stesso della poesia, l’affermazione della sua capacità di pensare e di dar da pensare. La portata di questo avvenimento – tanto per la filosofia quanto per la letteratura degli ultimi due secoli – non è stata sufficientemente sottolineata. Non possiamo perciò concordare con la lettura proposta da Hans-Georg Gadamer, in particolare quando questo autore interpreta l’intero processo, che si estende nella cultura tedesca da Herder fino ad Heidegger, come un sintomo della povertà intellettuale dell’epoca posthegeliana34. La tensione fruttuosa tra poesia e filosofia non è peraltro una caratteristica esclusiva dell’epoca romantica o post-romantica, ma accompagna, in modo latente o secondo modalità espressamente dichiarate, l’intero percorso della riflessione occidentale, nonostante abbia raggiunto una particolare evidenza e legittimazione nell’ambito del pensiero post-kantiano, fra i pensatori del classicismo e del primo ro-

31. F. Hölderlin, Hyperion in Id., Sämtliche Werke, Hanser, München 1970, Bd. I, p. 661; trad. it., Iperione, a c. di G. V. Amoretti, Feltrinelli, Milano 2004, p. 101. 32. Novalis, Schriften, WBG, Darmstadt 1981, Bd. II, p. 536. 33. F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente, Sämtliche Werke, DTV – W. de Gruyter, Berlin 1980, Bd. VII, p. 439. 34. Cfr. H.-G. Gadamer, Philosophie und Poïesis, in Id., Kleine Schriften, Tübingen 1977, Bd. IV, pp. 211-218.

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manticismo tedesco, con delle ramificazioni che giungono fino ai nostri giorni. La competenza filosofica di Pessoa era al tempo stesso vasta ma non superficiale, spesso di seconda mano ed acquisita in buona parte in modo autodidattico. Rimaniamo tuttavia sorpresi sia dalla correttezza della sua conoscenza, sia dall’arguzia interpretativa che l’accompagna. Pessoa, che accusava l’elite letteraria portoghese di non aver idee neppure sulla letteratura, sarebbe certamente in grado di esporre in maniera pertinente e di discutere con intelligenza i sistemi di Kant, di Hegel, di Platone, di Descartes e di molti altri. Ma anche qui si esprime la condizione pessoana di un’identità molteplice, che lo portava a dire, per bocca di Bernardo Soares: «Pensando, mi sono creato eco e abisso. Approfondendomi, mi sono moltiplicato35». Pessoa viaggia attraverso le varie filosofie, ma non ne abbraccia nessuna. Si cercherà perciò invano nella sua produzione un sistema filosofico conchiuso e definitivo, o qualcosa che gli assomigli. Le tesi filosofiche che enuncia nella sua opera ortonima ed eteronima rappresentano l’espressione di interrogazioni e perplessità personali piuttosto che il registro di convinzioni e certezze definitive. In un frammento manoscritto non datato, scritto in inglese ed editato di recente, possiamo leggere la seguente confessione: «Thousands of theories, grotesque, extraordinary, profound, on the world, on man, on all problems that pertain to metaphysics have passed through my mind. I have had in me thousands of philosophies36». Per Pessoa, tutti i sistemi filosofici sono possibili. Possono essere più o meno solidi e coerenti, ma rimangono comun-

35. F. Pessoa, Livro do Desassossego (1986), p. 55; trad. it. p. 156. 36. Testo cit. in T. Rita Lopes, Pessoa Inédito, Livros Horizonte, Lisboa 1993, p. 402.

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que reciprocamente incommensurabili. Il poeta non vede la filosofia nella sua declinazione “logica”, ma come l’espressione di un temperamento, di un modo di vedere il mondo, di sentire le cose e di vivere la vita: «Una metafisica è un modo di sentire le cose […] Le metafisiche sono modi più o meno intensi, più o meno lucidi, di sentire l’Universo37». I differenti sistemi filosofici traducono temperamenti umani distinti e, se questi sono genuini, anche quelle stesse teorie si riveleranno veritiere. Le filosofie, però, sono comunque esperienze di pensiero, esercizi che la mente compie con se stessa, a volte nei limiti della propria comprensione e talvolta dinanzi all’abisso. Così come questo restauratore del paganesimo ammette nel suo pantheon tutti gli Dèi, allo stesso modo considera tutte le filosofie ugualmente accettabili: «Egli non cerca di unificare in una metafisica le sue idee filosofiche, ma intende realizzare un eclettismo che non ricerca la verità, ritenendo tutte le filosofie ugualmente vere38». Anche la negazione della filosofia, il non voler avere una filosofia e persino la lotta contro le filosofie sono sempre dei modi di filosofare e di possedere una precisa inclinazione filosofica. E questo è precisamente il caso peculiare di Alberto Caeiro, solo all’apparenza il meno filosofico degli eteronimi pessoani e il più distante dalle teorie e dai vari sistemi di pensiero. Di fatto, la prima cosa che si coglie in Caeiro non è soltanto l’esplicito rigetto della filosofia – «Io non ho filosofia, ho sensi…39» –, ma anche un’insistente diatriba con la filosofia e i filosofi, la metafisica, le teorie e i sistemi che tentano di rinchiudere la natura in una rete di idee o che si propongono

37. F. Pessoa, A Procura da Verdade Oculta. Textos Filosóficos e Esotéricos (1986), p. 105. 38. Ibid. 39. F. Pessoa, PC, p. 44; trad. it. p. 25.

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di svelarne il mistero intimo, e proprio mentre si dimostrano incapaci di cogliere una verità posta semplicemente di fronte ai loro occhi. La quinta poesia de Il custode di greggi rappresenta la decostruzione del proposito di qualsiasi filosofia o metafisica che avanzi la pretesa di conoscere l’essenza delle cose, la loro intima costituzione e il senso profondo dell’intero universo. Al filosofo che pensa si sostituisce allora il poeta che «apre gli occhi e vede» e che «pensa vedendo e udendo» ciò che si dà spontaneamente alla vista e all’ascolto. «L’unico significato intimo delle cose», dunque, «è che non hanno significato intimo alcuno». La stessa luce del sole, infatti, «vale più che i pensieri / Di tutti i filosofi e di tutti i poeti». È per questo che C’è molta metafisica nel non pensare a nulla […] Metafisica? Che metafisica hanno quegli alberi Quella di essere verdi e tagliati e di avere rami E di dar frutti al loro momento […] Ma quale migliore metafisica della loro, Che è quella di non sapere perché vivono Né di sapere che non lo sanno?40

Secondo Caeiro, la filosofia – la metafisica, il pensiero, la coscienza riflessiva e interrogante e, al limite, il linguaggio stesso – è un sintomo di una malattia umana che può essere curata soltanto con un salutare bagno nella natura. È frequente nei versi di Caeiro l’associazione tra filosofia e malattia, o la caratterizzazione dei filosofi come «malati» o come «uomini pazzi»41. Uno degli elementi strutturali dei poemi di Caeiro è la contrapposizione liminare tra vedere e pensare: i filosofi pensano, ma per ciò stesso non vedono. Pensano precisamente in rapporto alla loro cecità: in alcuni poemi di Caeiro, ci

40. Ivi, pp. 48-49; trad. it. pp. 31-33. 41. Ivi, p. 78; trad. it. p. 75.

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troviamo così al cospetto di un’allegoria della caverna di segno opposto, dove sono i filosofi che vivono prigionieri nelle loro caverne, monadi senza finestre, incapaci di vedere una realtà che filtrano con le loro sole categorie ideali. In una poesia dei Poemi Sciolti, si legge: Non basta aprir la finestra Per vedere i campi e il fiume. Non è sufficiente non essere cieco Per vedere gli alberi e i fiori. È necessario anche non aver alcuna filosofia. Con la filosofia non ci sono alberi: ci sono solo idee. C’è solo ciascuno di noi, come un sotterraneo. C’è solo una finestra chiusa, e tutto il mondo là fuori; E un segno di quello che si potrebbe vedere se la finestra si aprisse, Che mai è quello che si vede quando si apre la finestra42.

In sostanza, è necessario abbandonare la filosofia se si vuole avere accesso alla «pura oggettività delle cose», alle «cose così come sono», giungendo alla «sorprendente realtà delle cose». Un parziale distacco dalla filosofia è parte quindi di quel regime terapeutico che il poeta portoghese ha sperimentato in prima persona prima di proporlo agli altri. Forse in relazione ai versi prima citati, l’eteronimo Álvaro de Campos descrive il suo maestro Caeiro come un «temperamento senza filosofia», per precisare poi subito dopo che, essendo un poeta, ha comunque «espresso una filosofia, cioè un concetto dell’universo», seppur in modo istintivo e non intellettuale43. Per Campos, ad essere importante nei versi di Caeiro «non è il sistema filosofico che da lì possiamo trarre: è il sistema filosofico che non possiamo trarre da lì. È la frescu-

42. Ivi, p. 113; trad. it. p. 203 43. Cfr. Ivi, p. 164.

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ra, la limpidezza, la primitività delle sensazioni. È l’assenza di sistema, precisamente44». Sempre secondo Campos, sono stati lui e Ricardo Reis ad esplicitare e António Mora a sviluppare sistematicamente le «idee organicamente occulte nell’espressione poetica» del loro comune maestro. L’altro poeta-eteronimo di Pessoa, il classicista Ricardo Reis, è il più eccessivo ed enfatico dei discepoli di Caeiro. Reis è convinto che l’aspetto più interessante nel corpus del suo maestro sia riconducibile alla nuova idea filosofica in esso contenuta, ossia l’oggettivismo assoluto: «Dove Caeiro è davvero grande è nella struttura interna delle sue poesie, nel concetto filosofico del tutto nuovo del poeta. Caeiro è, in filosofia, ciò che nessuno è stato: un oggettivista assoluto. Egli ha inventato i processi poetici di tutti i tempi […] Ha inventato i processi filosofici della nostra epoca, andando al di là della pura scienza dell’oggettività. Ha rotto con tutti i sentimenti che sono stati posseduti dalla filosofia e dal pensiero umani». Reis insiste sul «temperamento metafisico» del suo maestro45, addirittura affermando che «gli stessi Greci della vera Grecia, creatori dell’Oggettivismo, non raggiunsero l’Oggettivismo Trascendente del mirabile portoghese46» e, fornendo delle indicazioni sul carattere sistematico ed intellettuale dei poemi del maestro, che si nasconde dietro un’apparente semplicità e spontaneità, scrive: «In questi poemi apparentemente così semplici, il critico, se si dispone ad un’analisi attenta, si trova continuamente di fronte a elementi ogni volta più inattesi, ogni volta più complessi. Dando per assiomatico quello che, da subito, lo impressiona – la naturalezza e spontaneità delle poesie di Caeiro – , si meraviglia nel constatare che essi sono, 44. Ivi, p. 231. 45. Cfr. Ivi, p. 35. 46. Ivi, p. 36.

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al tempo stesso, rigorosamente unificati da un pensiero filosofico che non solo li coordina e concatena, ma che, ancor più, prevede obiezioni, anticipa critiche, spiega difetti integrandoli nella sostanza spirituale dell’opera47». Secondo António Mora, un altro eteronimo di Pessoa proclamatosi discepolo di Caeiro, il cui compito è quello di sistematizzare la filosofia implicita del maestro, l’opera del poeta «custode di greggi» è un pensiero che «pensa in verso48». Per Mora, il significato dell’opera di Caeiro risiede nel suo valore filosofico e si esplica in due topici reciprocamente solidali: la reinvenzione dell’oggettivismo e la restaurazione del paganesimo49. In Caeiro, Mora vede quindi l’annuncio di un «ritorno degli Dèi», la promessa della restaurazione di una civiltà in salute come lo è stata quella greca con il suo paganesimo, retta dai principi dell’armonia e della moderazione, sotto la tutela di Apollo50. Pessoa, tuttavia, non affida alle sue sole creazioni eteronimiche l’interpretazione dell’opera di Caeiro. Anch’egli, infatti, presenta un proprio commento, caratterizzato da una sorta di distanziamento critico, in cui indica con precisione le ambiguità, le incoerenze, le difficoltà del sistema e della filosofia di Caeiro, presentata come una «specie di kantismo» del concreto, pur essendo al contempo molto astratto nella sua volontà di concretezza, molto spiritualista e mistico nel suo sforzo di essere materialista o realista – «è con elementi perfettamente spiritualisti che ha edificato l’edificio del suo materialismo assoluto51» –, molto poco spontaneo e troppo 47. Ivi, p. 34. 48. Ivi, p. 259; 49. Cfr. Ivi, p. 264. 50. Cfr. Ivi, pp. 268-269. 51. Ivi, p. 216.

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analitico e cosciente, avendolo sorpreso in molti dei suoi versi preoccupato a discutere e distruggere teorie e a rispondere ad obiezioni. Per Pessoa, infine – chi altri potrebbe del resto saperlo meglio di lui? –, Caeiro non è veramente un poeta, bensì un filosofo chi si esprime in versi, come i primi filosofi greci. «Nel Sr. Alberto Caeiro», ci dice Pessoa, «tutta l’ispirazione, lungi dal provenire dai sensi, proviene dall’intelligenza. Egli, propriamente, non è un poeta. È un metafisico alla greca, scrivendo in verso teorie puramente metafisiche52». E quale sarebbe allora la filosofia di Caeiro? Dobbiamo tenere presente ciò che Pessoa fa dire ad Álvaro de Campos sulla sua fecondità ed essenziale ambiguità: «Nelle affermazioni e nelle risposte […] del mio maestro Caeiro, uno spirito filosofico può trovare riflessi di ciò che, in verità, sarebbero sistemi differenti53». Possiamo cercare di identificare allora i suoi assiomi fondamentali, connessi all’argomento del nostro saggio: 1) Il sensazionismo e il conseguente rifiuto di qualsiasi forma di idealismo. Da qui deriva la frase, citata in precedenza, «Io non ho filosofia, ho sensi…». Per Caeiro, al pari di Pessoa, «sentire è pensare senza idee, e perciò sentire è comprendere, visto che l’universo non possiede idee […] Vedere, ascoltare, odorare, gustare, palpare – sono gli unici comandamenti della legge di Dio. I sensi sono divini perché sono la nostra relazio-

52. Ivi, p. 220. Si tratta di un’idea ripetuta in un frammento non datato citato in T. Rita Lopes, Pessoa Inédito (1993), p. 278: «Nell’opera di Alberto Caeiro c’è più una filosofia che un’arte. Vi riappare la primitiva forma greca di filosofare attraverso la poesia». 53. F. Pessoa, PC, p. 171.

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ne con l’Universo e la nostra relazione con l’Universo Dio54». Lo stesso Caeiro espone questa tesi in una delle sue poesie: Sono un custode di greggi. Il gregge è i miei pensieri E i miei pensieri sono tutte sensazioni. Penso con gli occhi e con le orecchie E con le mani e i piedi E con il naso e la bocca. Pensare a un fiore è vederlo e odorarlo E mangiare un frutto è conoscerne il significato. Per questo quando in un giorno di calore Mi sento triste di goderlo tanto, E mi distendo lungo nell’erba, E chiudo gli occhi accaldati, Sento tutto il mio corpo disteso nella realtà, So la verità e sono felice55.

Di questa tesi gnoseologica, che si ispira di certo al sensualismo di Condillac56, deriva l’affermazione secondo cui «tutto l’oggetto è una nostra sensazione», la quale può avere un’interpretazione soggettivista (che sarà quella di Campos: le cose sono le mie sensazioni), o un’interpretazione oggettivista, che 54. F. Pessoa, Páginas sobre Literatura e Estética (1986), p. 133. 55. F. Pessoa, PC, p. 58; trad. it. p. 51. 56. Cfr. F. Pessoa, Livro do Desassossego (1988), p. 156; trad. it., Il libro dell’inquietudine, a c. di M. Josè de Lancastre, intr. di A. Tabucchi, Feltrinelli, Milano 2004 (8a ed.), p. 100: «Condillac comincia così il suo celebre libro: “Per quanto in alto possiamo salire e per quanto in basso possiamo scendere, non usciamo mai dalle nostre sensazioni”, non sbarchiamo mai da noi stessi. Non arriviamo mai ad essere altri diventando altri attraverso l’immaginazione sensibile di noi stessi». Si tenga però anche presente un altro passaggio dello stessa opera (Ivi, p. 123; trad. it. a c. di V. Tocco, p. 156), dove si dichiara: «In me, l’intensità delle sensazioni è sempre stata meno forte rispetto all’intensità della coscienza di esse».

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sarà quella propria di Caeiro: le mie sensazioni sono le cose stesse57. 2) L’oggettivismo, vale a dire la pretesa di cogliere le cose così come sono, nella loro pura oggettività. Ma ciò che esse sono non è altro che il loro apparire e il loro darsi nelle nostre sensazioni. Questa tesi, in cui si condensa tutta la filosofia di Caeiro, si può esprimere in molti modi: «inchinarsi davanti all’oggettività pura delle cose», alla «sensazione delle cose così come sono», assumere il «mondo esteriore come tipo della realtà». I suoi discepoli ed interpreti sostengono che egli abbia inaugurato l’oggettivismo trascendente, restaurando l’oggettivismo dei Greci. Ma a quali Greci si fa qui riferimento? Soltanto il materialismo degli epicurei possiede una qualche somiglianza con questa visione sensualista della realtà. Ricostruire l’interpretazione dei Greci come oggettivisti e la contrapposizione tra il loro oggettivismo e il soggettivismo dei Moderni ci condurrebbe ad un’interpretazione hegeliana della storia della filosofia, o alla mediazione di questa riflessione operata da Antero de Quental, sotto la forma di una contrapposizione tra il naturalismo greco e lo spiritualismo cristiano e moderno. Al sensazionismo, in quanto gnoseologia della sensazione, può corrispondere soltanto un’ontologia del sensibile. L’oggettivismo di Caeiro è allora un fenomenismo delle percezioni sensibili, simile all’esse est percipi di George Berkeley. Dice Caeiro: Ciò che noi vediamo delle cose sono le cose. Perché vedremmo noi una cosa se ce ne fosse un’altra?

57. Cfr. F. Pessoa, PC, pp. 228-229.

327 Perché vedere e udire sarebbe illuderci Se vedere e udire sono vedere e udire?58

Al di fuori di ciò che di sensibile vi è nelle cose, non si trova una qualche essenza intelligibile, magari catturata dall’intelligenza e della ragione. Non c’è spazio per nessuna metafisica al di là della fisica, e tutto ciò che di fisico c’è nelle cose si consegna alla sola percezione sensoriale. Le cose sono quindi quello che sono nella loro pura esteriorità e superficie: non vi è un dentro all’interno di ciò che si mostra, non c’è alcuna anima dietro il corpo, e non c’è nemmeno un’essenza al di là dell’apparenza. Si potrebbe dire ancor meglio: non vi è un dentro che non sia già fuori, un’anima che non sia già il suo corpo. Con le parole del poeta: L’unico senso occulto delle cose È che esse non hanno alcun senso occulto […] Che le cose siano realmente ciò che appaiono essere E non ci sia nulla da comprendere59.

L’oggettività e l’oggettivismo di cui parla Caeiro non hanno naturalmente nulla a che vedere (se non in modo critico e provocatorio) con l’oggettività e l’oggettivismo della scienza moderna. In quest’ultima, infatti, l’oggettività è raggiunta precisamente a costo della negazione delle sensazioni del soggetto e delle qualità sensibili dell’oggetto (colore, sapore, suono, durezza, odore). Il progetto oggettivista di Caeiro ha un duplice obiettivo: vuole liberarci dalle false idee metafisiche e idealiste sulla natura e recuperare quello che la visione scientifica e razionalista del mondo ci ha sottratto. Ecco allora che per avere accesso alla natura e alla realtà dobbiamo ritornare alla loro essenza, recuperando la nostra sensibilità.

58. Ivi, p. 74; trad. it. p. 69. 59. Ivi, p. 89; trad. it. pp. 91-93.

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3) Il nominalismo – che si può anche definire concretismo o anti-astrattismo – secondo cui esistono soltanto gli individui, e non gli universali; esistono le cose, e non le teorie o i sistemi di parole (anche i poemi lo sono) sulla realtà delle cose; esistono le parti, e non un tutto che le sussuma. Al limite, esistono le sensazioni, o meglio: esiste questa sensazione di colore giallo, quella della durezza, ma non esistono oggetti colorati o duri, e neppure qualcosa come il “giallo” e la “durezza”. Un simile nominalismo finisce tuttavia per corrodere lo stesso naturalismo di Caeiro, decostruendo non soltanto la visione della natura propria dei «falsi poeti», dei filosofi e degli scienziati, ma anche tutto il discorso sulla natura, rendendo impossibile la propria stessa riflessione. Invece di creare poemi, è come se Caeiro finisse per dispiegare semplici esercizi di decostruzione analitica del linguaggio e dei processi poetici. I nomi stessi, infatti, non designano più l’essenza delle cose; al contrario, rappresentano il sipario che impedisce di vedere e di avere accesso alle cose stesse, nel loro semplice darsi alle sensazioni. Il nominalismo poetico di Caeiro rifiuta perciò ogni concetto universale che voglia sussumere i particolari e i singolari. Solamente gli individui o le parti esistono, perché sono solamente loro a poter essere percepiti, diventando l’oggetto delle sensazioni. Non vi è pertanto alcuna sensazione di un “insieme” o di un “tutto” delle cose. L’ontologia che corrisponde a una fenomenologia e gnoseologia del sensibile può essere quindi soltanto un’ontologia di individui. Da qui il rifiuto di ridurli a un tipo comune o a un concetto universale, come scrive lo stesso poeta ne Il custode di greggi: In un giorno eccessivamente nitido […] Intravidi, come una strada tra gli alberi, Ciò che forse è il Grande Segreto, Quel Grande Mistero di cui parlano i falsi poeti. Vidi che non c’è Natura

329 Che Natura non esiste, Che ci sono monti, valli, pianure, Che ci sono alberi, fiori, erbe, Che ci sono fiumi e pietre, Ma che non c’è un tutto al quale questi appartengano, Che un insieme reale e vero È una malattia delle nostre idee. La Natura è parti senza un tutto60.

Il nominalismo poetico di Caeiro si traduce allora in una critica e in un rifiuto dei concetti astratti o delle idee universali, nella ricerca del concreto e dell’individuale, nell’esperienza della contrapposizione dei nomi e delle cose e nella coscienza dell’abisso che li divide. Al limite, il poeta, nel suo sforzo di liberarsi di tutto ciò che gli impedisce di avere accesso alle cose stesse, è portato a rifiutare perfino il linguaggio – i nomi – con cui sono composti i poemi, rappresentando ancora qualcosa che si interpone fra lui e le cose, impedendogli così di sentirle o vederle. Seguiamo questo esercizio di decostruzione del linguaggio poetico: Brilla il mattino. No: il mattino non brilla. Il mattino è una cosa astratta, sta, non è una cosa. Cominciamo a vedere il sole, a quest’ora, qui. Se il sole mattutino sugli alberi è bello, È bello tanto se chiamiamo il mattino «cominciamo a vedere il sole» Come lo è se lo chiamiamo mattino; Per questo non è utile mettere nomi sbagliati alle cose, E nemmeno mettergli qualche nome61.

Ecco un altro passaggio: Un filare di alberi là lontano, là sul pendio. 60. Ivi, p. 98; trad. it. pp. 103-105. 61. Ivi, p. 134; trad. it. p. 147.

330 Ma cos’è un filare di alberi? Ci sono solo alberi. Filare e il plurale di alberi non sono cose, sono nomi62.

Anche la Natura, considerata come un tutto, non è altro che un nome e un’idea che non esiste veramente nella realtà. Con questo nome designiamo semplicemente il corso delle nostre sensazioni, senza che ciò ci consenta di dedurre qualcosa sull’essenza della natura, sulla sua permanenza, sul suo ritorno o sulla sua eternità: «Nulla ritorna, nulla si ripete, perché tutto è reale63». Non sorprende quindi che il nominalismo del poeta si presenti anche come una decostruzione dei processi di metaforizzazione e di simbolizzazione, di ogni forma indiretta di significare le cose, come possiamo vedere dal poema in esame, vera e propria replica del Cantico delle Creature di quel grande poeta della natura che fu il santo di Assisi: Perché devo chiamar sorella l’acqua, se non è mia sorella? Per sentirla meglio? La sento meglio bevendola che chiamandola in qualche modo – Sorella, o madre, o figlia. L’acqua è acqua ed è bella per questo. Se la chiamassi sorella mia, Nel chiamarla sorella mia, vedrei che non lo è E che se è acqua la cosa migliore è chiamarla acqua; O, meglio ancora, non chiamarla in nessun modo, Ma berla, sentirla sui polsi, guardarla E tutto questo senza alcun nome64.

Se il poeta finisce per attribuire dei caratteri antropomorfi alla natura o a qualcuno dei suoi elementi, dicendo, ad esempio,

62. Ivi, p. 95; trad. it. p. 99. 63. Ivi, p. 123; trad. it. p. 129. 64. Ivi, p. 133; trad. it. pp. 143-145.

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che «i fiori sorridono», o che «i fiumi cantano», ciò è già il segno di una qualche accondiscendenza nei confronti della debolezza umana. Con le parole del poeta: È perché così faccio sentir di più agli uomini falsi L’esistenza veramente reale dei fiori e dei fiumi Poiché scrivo perché essi mi leggano mi sacrifico a volte Alla loro stupidità dei sensi…65.

Se Caeiro finisce per essere un’«interprete della natura» non è perché egli sia o abbia un linguaggio in grado di parlare o simbolizzare al di là di essa. Le cose non parlano di nulla, se non di se stesse: «il vento solo parla del vento66». Tutti i procedimenti tipici della poesia – l’analogia, la similitudine, la metafora – sono rifiutati come forme di falsa poesia: Ah, non paragoniamo niente; guardiamo. Abbandoniamo analogie, metafore, similitudini. Paragonare una cosa con un’altra è dimenticare quella cosa. Nessuna cosa ricorda un’altra se la osserviamo. Ogni cosa ricorda solo ciò che è Ed è solo ciò che è e niente più67.

Tuttavia, il poeta metaforizza. Le sue metafore, però, sono semplici comparazioni, caratterizzate da una flagrante e sconcertante ingenuità. Ecco alcuni esempi: azzurro come il cielo, calmo come l’acqua sotto il sole, nitido come un girasole, come camminare sotto la pioggia, come stendersi al sole… Una grande parte delle poesie di Caeiro costituisce una sorta di analisi critica e decostruttiva del suo stesso linguaggio poetico, delle aporie e dei paradossi in cui sfocia o in cui si muove.

65. Ivi, p. 81; trad. it. p. 81. 66. Ivi, p. 59; trad. it. p. 53. 67. Ivi, p. 117; trad. it. p. 173.

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Sembrano a volte una forma di antipoesia. Alcuni di esse (soprattutto quelle contenute nei Poemi Sciolti, ma non soltanto) sono veri e propri raziocini paradossali che si presentano come una successione di proposizioni, ognuna delle quali, pur valendo di per sé, intensifica l’effetto retorico o poetico attraverso la concatenazione che la lega alle altre. Eccone alcuni esempi: «Sono un custode di greggi / Il gregge è i miei pensieri / E i miei pensieri sono tutte sensazioni68»; «Avendo per conseguenza la morte / La guerra prova che è falsa / Essendo falsa, prova che è falso tutto il voler alterare69». Per Caeiro, il linguaggio ha cessato di essere la casa confortevole del poeta. Benché sappia che «tutto quel che si sente direttamente porta con sé parole proprie70», confessa tuttavia che le parole falliscono «quando vogliamo esprimere un qualche pensiero» e sbagliano «i pensieri quando vogliamo pensare qualche realtà71». Le verità perfette non possono essere espresse: indicarle, seppur poeticamente, anche attraverso i loro nomi propri e concreti, nel caso ci fossero, sarebbe già dimenticare ciò che esse esprimono: «Ma, come l’essenza del pensiero non è essere pronunciato ma essere pensato / Così l’essenza della realtà è esistere, non essere pensata / Così tutto ciò che esiste, semplicemente esiste / Il resto è una specie di sonno»; queste verità, ad ogni modo, «non sono perfette perché sono dette72». Come conseguenza di questa quasi sistematica decostruzione del linguaggio poetico sulla natura, non resta al poeta altro discorso che quello di una fisica negativa. Per quanto riguarda 68. Ivi, 58; trad. it. p. 51. 69. Ivi, p. 142; trad. it. 163. 70. Ivi, p. 132; trad. It. p. 213. 71. Ivi, p. 136; trad. it. p. 153. 72. Ibid.

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la natura, infatti, affermare e negare i suoi attributi sarebbe ugualmente una modalità per non coglierla, non essendo altro che umane modalità di riferirsi ad essa. Parlando della natura, il poeta si trova nella stessa difficoltà in cui si trova il teologo speculativo quando vuole parlare di Dio: è costretto a sovvertire la logica e affermare al tempo stesso attributi contrari, o procedere accumulandoli e negandoli simultaneamente. Ma tutto ciò è fatto comunque per corrispondere al linguaggio imperfetto e alla comprensione limitata degli esseri umani: Sola la Natura è divina, ed essa non è divina… Se a volte parlo di lei come di un ente È che per parlar di lei devo usare il linguaggio degli uomini Che dà personalità alle cose, E impone nomi alle cose. Ma le cose non hanno nomi né personalità: Esistono…73.

Per essere assolutamente coerente con se stesso, Caeiro dovrebbe concludere il suo discorso in una poetica del silenzio, quale ascesi suprema della poesia, o con un suo completo annichilimento. A ragione quindi qualcuno ha descritto questo programma poetico come «il grado zero della poesia74». 4) Un paganesimo…senza Dèi! Caeiro, oltre a possedere una filosofia, ha anche un progetto di civilizzazione ad essa legato, interpretato dai suoi discepoli come una restaurazione del paganesimo greco antico, come un «ritorno degli Dèi», come la ricostituzione della civiltà greca. Ma in che cosa consiste 73. Ivi, p. 77; trad. it. p. 75. 74. J. Augusto Seabra, Alberto Caeiro ou le dregé zero de poésia, “Sillages”, n. 1 (1972), pp. 31-56.

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questo paganesimo o neo-paganesimo? Si tratta, in sostanza, di un progetto di ispirazione estetica: il paganesimo di Caeiro, del resto, è un altro modo di fare riferimento al suo oggettivismo. Così almeno lo spiega il suo discepolo Ricardo Reis: «Il mio proposito è definire in questo luogo in che cosa Alberto Caeiro sia il ricostruttore del paganesimo, il rivelatore della sua essenza perduta […] L’oggettività greca […] la può avere soltanto chi è in possesso dei sensi di natura costituiti in modo da poter percepire oggettivamente. Caeiro è più oggettivista di quanto non fossero i greci antichi […] La caratteristica essenziale della mentalità pagana è l’oggettività assoluta […] In Caeiro, il paganesimo resiste essenziale e integrale – senza gli Dèi, certamente, ma con tutta l’Intelligenza e la sensibilità pagana, l’oggettività assoluta nel pensiero75». Cercheremmo invano nei versi di Caeiro delle dichiarazioni di esplicito paganesimo, o delle invocazioni agli Dèi. Questa assenza, tuttavia, non ha impedito ai suoi discepoli di vedere in lui «il prodigioso araldo del ritorno agli Dèi, lo stupendo ricostruttore dell’essenza del paganesimo76». Il principale teorizzatore e sistematizzatore del paganesimo implicito in Caeiro – l’eteronimo-filosofo António Mora77 – precisa: «Il paganesimo è la religione che nasce dalla terra, direttamente dalla natura – che nasce dall’attribuzione ad ogni oggetto della sua vera realtà […] È rinato, in noi, il paganesimo. Ma il paganesimo rinato in noi è il paganesimo che è sempre esistito […] Per il pagano ogni cosa possiede un suo

75. Fernando Pessoa e o Ideal Neo-Pagão, recolha e transcrição de L. F. B. Teixeira, F. C. Gulbenkian, Lisboa 1966, pp. 40-42. 76. F. Pessoa, PC, p. 254. 77. Il corpus relativo a questa figura eteronimica è stata recentemente pubblicato da L. F. B. Teixeira come sesto volume dell’edizione critica di Fernando Pessoa: Obras de António Mora, INCM, Lisboa 2002.

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genio o una propria ninfa, ogni cosa è una ninfa prigioniera o una driade catturata dallo sguardo; per questo ogni oggetto ha per lui una meravigliosa realtà immediata, ed egli è in comunione con ogni cosa non appena la vede, e in amicizia quando la tocca78». Il classicista Ricardo Reis è, come sempre, più enfatico nella sua interpretazione ed appropriazione del paganesimo del suo maestro: «Credo negli Dèi come in una verità e in una salvezza. La loro presenza addolcisce e semplifica […] Vedere le fonti e i boschi abitati realmente da enti reali di altre specie non mi sembra più assurdo che credere che tutto ciò è venuto dal nulla, o che Dio sia l’essenza di questo tutto. E io ho avuto la felicità di nascere tale che sento naturalmente la presenza di enti reali nei boschi e nelle fonti, che, senza preconcetti classici, Nettuno è per me una personalità reale, Venere un ente vero e proprio e Giove il padre esistente e terribile di tutti gli Dèi tranquilli. Nulla mi fa interpretare la natura in modo migliore, né me la fa amare di più. La presenza di una nereide mi rallegra quando mi trovo al lato di una fonte. E mi è grata la compagnia del silenzio quando attraverso, umanamente solo, la sobria quiete dei boschi freschi79». Leggendo ed ascoltando queste dichiarazioni siamo spinti a domandarci se Caeiro non abbia finito per contrapporre al «disincanto del mondo», provocato dalla scienza moderna, un nuovo incantamento poetico della natura, ripopolandola di Dèi e ninfe. Di fatto, alcuni dei suoi poemi – il più espressivo è il XIII dei Poemi Sciolti – possono spingerci a rispondere in modo affermativo, a patto, però, che quest’opera di reincantamento non presupponga alcuna ricaduta negli eccessi sentimentali e soggettivisti del romanticismo o del simbolismo, o 78. F. Pessoa, PC, p. 251. 79. Ivi, p. 250.

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in qualsiasi altra forma di panteismo e misticismo spiritualista. Concede Caeiro: Forse in ogni cosa abita una cosa occulta. Ma quella cosa occulta è la stessa Cosa senza essere occulta. Nella pianta, nell’albero, nel fiore […] Abita una ninfa, uno spirito esterno, dentro, Che gli dà la vita; Che fiorisce con il loro fiorire Ed è verde nella loro verdezza. È entrata nell’animale e nell’uomo. Vive fuori da dentro E non più dentro da fuori. Dicono i filosofi che è l’anima. Ma non è l’anima: è la cosa stessa Nella maniera in cui esiste. E penso che forse ci saranno enti In cui queste due cose coincideranno E avranno la stessa dimensione, E che questi enti saranno gli dèi80.

In questa personale visione pessoana di una “Grande Catena dell’Essere”, sorprende l’incondizionato rifiuto del dualismo anima-corpo, l’assoluta separazione fra apparenza e realtà, fra esteriore e interiore. Potremmo forse parlare, con qualche ragione, di uno spinozismo di Caeiro. Siamo di fronte infatti ad una completa corrispondenza fra l’anima e il corpo delle cose: anima o corpo sono modi di dire una stessa e unica realtà. Ma se dovessimo realmente attribuire una qualche forma di panteismo al poeta, si tratterebbe allora di quella particolare forma di panteismo proposta da Cunha Seixas, un pensatore

80. Ivi, p. 119; trad. it. pp. 219-221.

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portoghese della generazione letteraria precedente a quella pessoana. Nella fattispecie, dovremmo fare precisamente riferimento al suo pantiteismo, cioè non alla riduzione degli esseri naturali a un Tutto chiamato magari Dio o Natura, bensì all’affermazione positiva della divinità e del carattere assoluto di ogni essere individuale, come se si trovasse in esso, individualmente, l’intera divinità81. Andrebbe nella stessa direzione anche il panteismo di Caeiro. Ma anche questa sarebbe una maniera ridondante per descrivere il suo naturalismo. La prossimità con Eça de Queirós sembra essere dunque più appropriata, come dimostra un passaggio del letterato portoghese: «È nella natura che si deve ricercare la religione: non è nelle ostie mistiche che cammina il corpo di Dio – è nei fiori degli aranci82». Caeiro, a sua volta, espone così la sua religione della natura: Non credo in Dio perché non l’ho mai visto […] Ma se Dio è i fiori e gli alberi E i monti e sole e il chiaro di luna, Allora credo in lui, Allora credo in lui a ogni ora, E la mia vita è tutta un’orazione e una messa, E una comunione con gli occhi e con le orecchie. Ma se Dio è gli alberi e i fiori E i monti e il chiaro di luna e il sole, Perché lo chiamo Dio? Lo chiamo fiori e alberi e monti e sole e chiaro di luna; Poiché, se egli fece, perché io lo veda, Sole e chiaro di luna e fiori e a alberi e monti, Se egli mi appare come alberi e monti E chiaro di luna e sole e fiori, 81. Cfr. J. M. Cunha Seixas, O Pantitheismo na Arte (1883) e Id., Princípios Gerais de Filosofia (1897). 82. E. de Queirós, Prosas Bárbaras (s. d.) p. 104.

338 È perché vuole che io lo conosca Come alberi e monti e fiori e chiaro di luna e sole83.

Ad essere caratteristico in Caeiro è dunque il riconoscimento dell’auto-sufficienza delle cose nella loro immediatezza percettiva: non rinviano a nulla, non necessitano di nulla, sono qualcosa di unico e assoluto in se stesse. Non diversamente dal pantiteista Cunha Seixas, non sono propriamente le cose che si trovano in Dio, annullandosi e dissolvendosi in Lui, ma è Dio che si dissolve in tutte le cose. In nessun altro modo sembra si possa allora applicare con altrettanta pertinenza il celebre Deus sive Natura del filosofo della diaspora portoghese Baruch Spinoza. La natura non necessita di un Dio per essere: essa è il corpo visibile di Dio, e Dio non ha altro modo di essere che quello, poiché se ne avesse un altro, sostiene il poeta, lo avrebbe già dato a vedere. Il naturalismo di Caeiro potrebbe essere confrontato anche con il panteismo naturalista di un altro importante poeta appartenente alla stessa generazione di Pessoa, Teixeira de Pascoaes. In una nota, Pessoa commenta il possibile rapporto con queste parole: «Tanto Caeiro quanto Pascoaes affrontano la Natura in un modo direttamente metafisico e mistico; entrambi affrontano la Natura considerando ciò che vi è di importante in essa, escludendo o quasi escludendo l’Uomo e la Civiltà, ed entrambi, infine, integrano tutto ciò che cantano in questo loro significato naturalista. Hanno in comune questa base astratta: ma per il resto sono, non differenti, ma assolutamente opposti. Forse Caeiro procede da Pascoaes; ma procede per opposizione, per reazione. Pascoaes preso all’incontrario, senza enuclearlo dal luogo in cui si trova, dà come risultato Alberto Caeiro84». Caeiro è dunque un Pascoaes all’incontra83. F. Pessoa, PC, p. 49; trad. it. pp. 35-37. 84. Ivi, p. 227.

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rio: invece che ad una divinizzazione della natura, ci troviamo di fronte ad una naturalizzazione di Dio e degli Dèi: «Chi ha i fiori», del resto, «non ha bisogno di Dio85». Uno degli aspetti della visione del mondo di Caeiro consiste nell’associazione tra il naturalismo (il progetto di un ritorno alla natura), il classicismo (un ritorno alle forme della cultura classica antica) e il paganesimo. Questa associazione è ricorrente nella storia del pensiero letterario e filosofico, ed è di solito accompagnata alla critica della contemporaneità e del percorso intrapreso dalla civiltà divenuta dominante. La sua più visibile manifestazione si trova nel classicismo tedesco, con delle ramificazioni che giungono fino all’autore de La nascita della tragedia. La mediazione nietzschiana si rivela qui decisiva. Nel caso di Caeiro, almeno secondo l’interpretazione dei suoi discepoli, è soprattutto il cristianesimo – il «verme cristiano» – e la civiltà cui ha dato vita – la democrazia, il soggettivismo, il romanticismo, il simbolismo, l’antropocentrismo, l’umanitarismo – che, essendo l’opposto del paganesimo, dovrebbero essere soppressi per lasciare spazio ad un nuovo paganesimo trionfante che sappia di nuovo ispirare una civiltà fondata sull’armonia dell’uomo con la natura, o che consenta all’uomo di fare ritorno alla natura, poiché «il vizio cristiano di sostituire l’uomo alla natura è l’autentica malattia per cui siamo nati tutti decrepiti86». L’interpretazione della storia umana e soprattutto della civiltà moderna è dominata perciò dalle idee di decadenza e degenerazione: «La civiltà moderna, fondata sulle basi della psiche cristiana, è dal suo inizio decadenza; invece di proseguire l’opera della Grecia, si è innestata sopra lo spirito greco decadente e lo spirito romano decadente e lo spirito semita decadente. La nostra civiltà è il prodotto

85. Ivi, p. 86; trad. it. p. 213. 86. Ivi, p. 252.

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di tre decadenze […] È importante, innanzitutto, cercare di riattivare la tradizione perduta dell’opera greca, allontanando l’elemento romano e quello semita, che rappresentano dei ritardi e delle degenerazioni rispetto allo psichismo greco87». In questa denuncia della modernità e della sua decadenza (ma non della sua genesi), Pessoa è vicino a quanti, a partire dal classicismo tedesco della fine del XVIII secolo, come Schiller e Hölderlin, pur con ingredienti affatto diversi, associavano alla critica dell’Illuminismo (Aufklärung) e della sua civiltà scientista e razionalista precisamente la reinvenzione della Grecia, la riscoperta della natura e l’idea di un ritorno ad essa come condizione di salvezza. Ad ogni modo, se Pessoa si trova in consonanza con Nietzsche quanto all’identificazione dei sintomi della decadenza e della sua principale causa – il cristianesimo –, la Grecia del suo Caeiro è tuttavia molto più vicina alla Grecia descritta dai classicisti tedeschi settecentisti (Schiller e Hölderlin su tutti) rispetto a quella tratteggiata dall’autore di Così parlò Zarathustra. Il paganesimo e l’ellenismo di Caeiro sono esempi di moderazione, armonia, disciplina e di stoico ascetismo, e si rivelano in Apollo, contrapposto a Cristo, e non negli eccessi del Dioniso nietzschiano, un «Bacco tedesco» che, secondo Pessoa, non comprende veramente la Grecia e non sa parlare la sua lingua88. 87. Ivi, p. 253. 88. La complessa relazione di Pessoa con Nietzsche avrebbe bisogno di un’analisi interamente dedicata. Non potendo svolgere qui, in una semplice nota, un’indagine accurata, si veda, per gli aspetti generali di questo rapporto, lo studio di A. Enes Monteiro, A Recepção da Obra de Friedrich Nietzsche na Vida Intelectual Portuguesa, Universidade Católica Portuguesa, Porto 2000, in part. pp. 283-350. Per quanto riguarda l’argomento in discussione, si tenga presente invece il seguente commento pessoano: «L’odio di Nietzsche nei confronti del cristianesimo ha affilato la sua intuizione su questo punto. Ma ha commesso un errore, perché non era in nome del paganesimo greco-romano che egli erigeva il suo pianto, sebbene ne fosse

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5) Tutta la filosofia che si trova nella riflessione di Caeiro rinvia, in ultima istanza, alla sua pretesa scoperta della natura e al suo peculiare naturalismo. I suoi interpreti-discepoli sono convinti che il poeta portoghese abbia scoperto il vero naturalismo una volta per tutte: è grazie a lui, infatti, che il «naturalismo è apparso sotto una forma nuova e originale89». Secondo Campos, «Caeiro ha creato, una volta per tutte, la poesia della Natura, l’unica poesia della Natura90». Lasciando da parte l’esagerazione retorica di simili dichiarazioni, possiamo comunque porci le seguenti domande: in che cosa consiste il naturalismo di Caeiro? Che relazione sussiste

convinto; era in nome del paganesimo nordico. E quel Dioniso che contrappone ad Apollo, non ha nulla a che vedere con la Grecia. È un Bacco tedesco. E neppure quelle teorie disumane, eccessive come quelle cristiane, seppur in un altro senso, non devono nulla al paganesimo chiaro e umano degli uomini che crearono tutto ciò che veramente sussiste, resiste e ancora crea all’interno del nostro sistema di civiltà», F. Pessoa, Textos Filosóficos e Esotéricos (1986), p. 129. Si confronti anche il passo seguente: «Il paganesimo di Nietzsche è un paganesimo da stranieri. Ci sono costanti errori di pronuncia nella sua interpretazione dell’ellenismo. Anche se accetta che un tedesco europeo (ossia, prima di Bismarck) potesse comprendere la Grecia antica; ma un tedesco, cioè, come Nietzsche, un polacco o un ceco, o qualsiasi cosa senza Europa né vocali, difficilmente si può comprendere a se stesso come se volesse parlare greco con lo spirito», Ibid. Del resto, il tema della relazione tra Pessoa e Nietzsche è costantemente presente nella letteratura pessoana; fra i vari studi, cfr. i seguenti: J. de Sena, O Poeta é um Fingidor, Ática, Lisboa 1961, pp. 21-61; J. do Prado Coelho, Diversidade e Unidade em Fernando Pessoa, Verbo, Lisboa 1963 (2a ed.), pp. 172-182; G. R. Lind, Alberto Caeiro, o renovador do paganismo, in Id., Teoria Poética de Fernando Pessoa, Inova, Porto 1970, pp. 95-157; Id., Estudos sobre Fernando Pessoa, INCM, Lisboa 1981, pp. 79-161; E. Lourenço, Nietzsche e Pessoa, in A. Marques (org.), Nietzsche: Cem Anos após o Projecto “Vontade de Poder – Transmutação de Todos os Valores”, Vega, Lisboa 1989, pp. 247-267. 89. F. Pessoa, PC, p. 256. 90. Ivi, p. 238.

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fra questa poesia della natura e le altre forme conosciute di poesia o filosofia della natura? Il discorso del poeta sulla natura – e la maggior parte delle poesie sviluppa effettivamente, come abbia già rilevato, una riflessione decostruttiva del discorso filosofico e poetico sulla natura – giunge a formule paradossali, che finiscono per autoannullarsi. Ecco alcuni esempi: «Ho visto che non c’è Natura / Che la Natura non esiste»; «La Natura è un’irrealtà divina»; «Solo la natura è divina, ed essa non è divina». In accordo con le convenzioni letterarie, la poesia di Caeiro appartiene a un genere denominato “poesia bucolica”. Fu lo stesso Pessoa, del resto, a confessarlo a Casais Monteiro, e lo confermano sia le ambientazioni delle poesie (una natura primaverile o estiva; fiumi; ruscelli, fonti, alberi, fiori, piante, frutti, sole, acqua, chiaro di luna…), sia le immagini semplici e naturali, ingenue e minimaliste, sia, infine, la tonalità idilliaca e melanconica dei suoi versi. La natura di Caeiro, tuttavia, è una natura ridotta al contesto morfologico (i monti, le valli, i fiumi…) e vegetale, eccezion fatta per il volo degli uccelli e il ricorrente custode di greggi, vale a dire i pensieri – le sensazioni! – di questo strano poeta-pastore. Gli elementi riconducibili alla tecnica umana sono quasi del tutto assenti, eccezion fatta per qualche riferimento al «vago sibilo […] di un convoglio lontano», alla diligenza, al carro di buoi, o al suono del piano che si contrappone al naturale mormorio e ai sussurri degli alberi. Nonostante l’esplicito rifiuto di ogni astrazione, le cose naturali sono presentate con una designazione generica: gli alberi non sono mai descritti con il loro nome proprio (quercia, pino, melo…), ma quasi sempre con il generico nome di “alberi”. Non si incontra mai quindi questo particolare tipo di albero o questo fiore, bensì “gli alberi” e “i fiori”. D’altra parte, queste forme generiche si trovano in quasi tutte le poesie, e spesso

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inserite in una lunga serie («i fiori e gli alberi e i monti e il sole e il chiaro di luna», «fiori e alberi e pietre»). Ecco allora che a dispetto dell’autoproclamata novità, spontaneità e naturalità dei versi di Caeiro, ritroviamo nel testo i segni di un intertestualità letteraria che li lega al genere e alla tradizione della poesia bucolica (si pensi soltanto all’allusione ai pastori di Virgilio91), o ad altre espressioni di poetica della natura, come i Fioretti di Francesco di Assisi92, il Libro di Cesário Verde o il panteismo naturalista di Teixeira de Pascoaes. La metafora del pastore amoroso ci riconduce al genere pastorale e alle Egloghe di Camões, il cui poeta-pastore, parente molto prossimo di quel pessoano guardiano di greggi che osserva i propri pensieri (ossia le proprie sensazioni), dice di se stesso: «Il bestiame che pascolo / sono nell’anima le mie preoccupazioni93». Al pastore di Caeiro possiamo affiancare anche «l’audace pastorella della religiosa Irlanda» descritta da Cesário Verde nella sua poesia Mattine nebbiose: «E intorno, in un paese di prati e dirupi, / Se i miei dolori vanno, mansuetissime pecore, / Corrono i loro disprezzi profondi, come vitelli bianchi94». La natura di Caeiro è dunque una natura veramente sentita, o si tratta di una natura meramente scritta, detta, cantata? Dovremmo prendere alla lettera l’affermazione di Pessoa, secondo cui «il neopagano si convince di realizzare, scrivendo, il proprio sentimento della Natura95»? O si tratta soltanto di

91. Cfr. Ivi, p. 61; trad. it. 53. 92. Cfr. Ivi, p. 133; trad. it. pp. 143-145. 93. L. de Camões, Rimas, ed. de A. J. da Costa Pimpão, Atlântida, Coimbra 1973, p. 322. 94. Poesias de Cesário Verde, ed. de M. Vieira Mendes, Ed. Comunicaçâo, Lisboa 1987, p. 94. 95. F. Pessoa, Textos Filosóficos e Esotéricos (1986), p. 105.

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una confessione ironica e disperata dovuta all’impossibilità sperimentata dal poeta di uscire dalla rete del linguaggio e dal circolo poetico delle parole, o magari dall’incapacità di congedarsi dalla sfera della coscienza per cogliere la realtà bruta delle cose e le loro pure sensazioni? A risaltare in Caeiro sono le forme di comprensione delle natura che rifiuta, piuttosto che quelle che propone. La pars destruens della sua opera si rivela perciò più esplicita della pars construens, poiché ad essere veramente in gioco, come abbiamo visto, sono le aporie e i paradossi del linguaggio con cui il poeta parla della natura. Per quanto concerne l’esercizio critico proposto da Caeiro, ci viene in aiuto il riassunto di António Mora: il poeta portoghese rigetta tutte le forme di antropocentrismo che pongono l’uomo al di fuori o contro la natura e che finiscono magari per sostituirlo alla stessa realtà naturale, e parimenti tutte le maniere di vedere o apprezzare la natura non per ciò che è in se stessa, ma in nome di qualcosa che la trascende: un Dio che la crea, il Tutto di cui fa parte e in cui si incorpora, la funzione che le si attribuisce. Si trovano in questo ambito i mistici o creazionisti cristiani, i sognatori panteisti, i materialisti e gli uomini di scienza: per tutti loro, infatti, «il mondo non è altro che i loro pensieri96». Ecco che nel creazionismo cristiano, secondo Pessoa, il valore di ogni cosa è ricondotta alla sua relazione di dipendenza con Dio. Quando pensa alla natura, il cristiano vede in essa la creazione e l’opera di Dio, o la traccia e il linguaggio scritto dalla mano del creatore. Il simbolismo e l’allegorismo medievale sono qui a testimoniarlo: la natura è una griglia attraverso cui l’uomo guarda a Dio, o più semplicemente un linguaggio con cui Dio parla all’uomo. Allo stesso modo, per il panteista ogni cosa possiede un significato solo perché partecipe di un 96. F. Pessoa, PC, p. 252.

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tutto, e ciò lo porta a vedere una cosa scoprendo al contempo le tracce di un’altra. Non pensa quindi a quello che vede, ma prende in considerazione il rapporto di continuità che lo lega al resto del mondo. Il panteismo salva l’immanenza, ma non certo l’auto-sussistenza di ogni cosa e la sua intrinseca realtà. Anche la visione scientifica – per quanto materialista e razionalista possa essere – non permette un vero accesso alla natura: «Il mero materialista o razionalista, per il quale ogni cosa è meravigliosa per il lavoro che la “Natura” ha svolto, e per l’energia latente che in essa si agita, di modo che viva il sistema planetario che ogni atomo include – quest’uomo non ama questa cosa, e neppure la vede». Per tale ragione, «un materialista non ha mai prodotto arte, mai un materialista, o un razionalista, ha guardato il mondo. Tra lui e il mondo, la scienza ha interposto il suo velo, il microscopio, ed è caduto nella realtà come in un pozzo. Per lui ogni cosa è diventata non una persona della terra, ma una grata, con cui spia la sua intima essenza, a differenza del panteista, per cui ogni cosa è una grata o una finestra per il Tutto97». Il poeta testimonia questa stessa convinzione anche in altro modo, ossia considerando tutte quelle scienze che si presentano come discipline qualificate per l’analisi della natura, come la botanica e la geografia: Tristi anime umane, che mettono tutto in ordine, Che tracciano linee da cosa a cosa, Che mettono etichette con nomi sugli alberi assolutamente reali, E disegnano paralleli di latitudine e longitudine Sopra la stessa terra innocente…98.

97. Ibid. 98. Ivi, p. 95; trad. it. p. 99.

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Le convinzioni di Caeiro sulla relazione fra l’uomo e la natura assumono una particolare rilevanza. Abbiamo già notato come il poeta rifiuti tutte le forme che sostituiscono l’uomo alla natura e che pretendono di «integrare l’uomo nella natura senza privarlo dell’umanità99». Caeiro esclude quindi qualunque privilegio dell’uomo sugli altri esseri, se non quello di essere dotato di coscienza, un fatto, però, che rappresenta una condanna e una malattia più che un vantaggio. Gli esseri sono incommensurabili100, e la natura si trova prima e al di là dell’uomo. Tutto passa, l’uomo passa. Soltanto la natura è simultaneamente ciò che rimane e passa: in essa tutto si dissolve e tutto sussiste. Essa è sempre la stessa e sempre differente. Tutto accade nella natura per necessità, secondo l’ordine del destino. Una strana sintesi di Eraclito e Parmenide. Il turbamento umano consiste nel voler alterare l’ordine eterno della natura, «la pace della natura senza persone». La ricerca dell’armonia della natura si dice in molti modi – voler «essere naturale», essere soltanto «una cosa naturale qualsiasi», come «l’albero antico101», essere solo «un animale umano che la Natura ha prodotto102», o ancora: «Restiamo semplici e calmi / Come i ruscelli e gli alberi103». Alcuni versi testimoniano la volontà di essere qualcosa di semplicemente naturale (come la polvere della strada, o i fiumi che scorrono, o i pioppi ai bordi del fiume), e non l’essere cosciente che si è – colui che «attraversa la vita / Guardando dietro di sé con pena…104». Altri ancora – come nei già citati racconti di Eça – dicono il

99. Ivi, p. 253. 100. Cfr. Ivi, p. 117. 101. Ivi, p. 43; trad. it. p. 25. 102. Ivi, p. 97; trad. it. p. 101. 103. Ivi, p. 50; trad. it. p. 37. 104. Ivi, p. 67; trad. It. p. 61.

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desiderio di sparire nell’indistinto di una comune natura, di essere mangiati dalla terra e di «tornare diritti al suo cuore». Anti-attivista, Caeiro è un contemplativo, e la sua etica consiste nel lasciar essere, lasciar essere ciò che è così com’è: «Perché tutto è come è e così è / E io accetto105». L’anti-attivismo e l’indole contemplativa di Pessoa appaiono chiari in una poesia allusiva sulla guerra, intesa come la volontà di alterare rapidamente l’ordine e la pace della natura. Si tratta di una poesia che può essere ben letta come l’antitesi dell’Ode Trionfale di Campos, e quella in cui meglio appare, in questa poetica della natura, il malessere del tempo storico ed umano (la poesia è datata 24 ottobre 1917, un mese prima della fine della Prima Guerra Mondiale). Anche qui ci troviamo al cospetto di una denuncia – e molto prima che lo stesso Heidegger le desse voce nel suo saggio su La questione della tecnica – della complicità esistente tra scienza, filosofia e dominio politico e tecnologico sul mondo e il conseguente sterminio degli uomini, della terra, della natura. Diamo la parola al poeta: La guerra che affligge con i suoi squadroni il mondo, È il tipo perfetto dell’errore della filosofia. La guerra, come tutto ciò che è umano, vuole alterare. Ma la guerra, più di tutto, vuole alterare e alterare molto. E alterare subito. Ma la guerra infligge la morte. E la morte è il disprezzo dell’universo per noi. Avendo per conseguenza la morte, la guerra prova che è falsa. Essendo falsa, prova che è falso il voler alterare. Lasciamo l’universo esteriore e gli uomini dove la Natura li pose […]

105. Ivi, p. 73; trad. It. p. 69.

348 Lasciate esistere il mondo esteriore e l’umanità naturale! Pace a tutte le cose pre-umane, anche nell’uomo! Pace all’essenza interamente esteriore dell’Universo106!

La guerra è l’espressione della volontà di potenza, rappresenta la pretesa dell’uomo di imporre il suo ordine alla natura, anziché accettare l’ordine naturale delle cose, inscrivendosi in esse. Caeiro, come uno stoico pagano, dichiara di accettare l’universo, così come gli è stato consegnato dagli Dèi107. Ma non avverte tuttavia il rischio di attribuire agli Dèi o alla natura ciò che potrebbe rivelarsi semplicemente l’ordine o il disordine dell’uomo. Ad ogni modo, il proposito di Caeiro si colloca agli antipodi rispetto a quello di Campos: il progresso non è qui quello del modernismo e del futurismo, bensì la volontà di fare ritorno a ciò che vi è di originario nella natura o nella cultura umana. Il desiderio di accettare o di seguire l’ordine e il ritmo della natura si esprime, nelle poesie di Caeiro, attraverso metafore semplici e suggestive: si parla di andare «per mano con le Stagioni», o di lasciarsi «portare in braccio dalle Stagioni108». Anche la riflessione poetica di Caeiro segue la poetica della natura, ed è quindi spontanea, libera, regolare o irregolare come lei: Non mi importano le rime […] Penso e scrivo così come i fiori hanno colore […] Mi commuovo come l’acqua scorre quando il terreno è inclinato, E la mia poesia è naturale come il levarsi del vento…109.

106. Ivi, p. 142; trad. it. pp. 163-165. 107. Cfr. Ivi, p. 136. 108. Ivi, p. 41 e p. 86; trad. it. p. 21 e p. 89. 109. Ivi, p. 63; trad. it. p. 55.

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Non è dunque sorprendente il fatto che Caeiro censuri i poeti artisti che «lavorano sui loro versi / Come un carpentiere sulle assi110», o i cui versi sono poveri come i fiori «nelle aiuole dei giardini ordinati111», e ai quali contrappone l’arte della terra, che fa fiorire spontaneamente le sue piante. Così i versi devono essere i fiori e il frutto spontaneo del poeta. Un altro argomento molto ricorrente in cui è chiaramente testimoniata la volontà di ritornare alla natura è quello del ritorno, annunciato e desiderato da Caeiro, all’infanzia – il bambino e il desiderio di esserlo di nuovo, anche sotto la forma iperbolica del Bambino Eterno, del Bambino Nuovo o del Dio Bambino dell’ottava poesia de Il custode di greggi – che dorme nell’anima del poeta, e che si sveglia a volte la notte per giocare con i propri sogni. Il ritorno all’infanzia dà voce al sogno di restaurare un’originale autenticità, recuperando così quell’innocenza perduta a causa dell’emergere della coscienza e del pensiero. Nelle poesie di Caeiro si presenta inoltre il classico argomento della contrapposizione cultura-natura e città-campagna. Si legga, ad esempio, la settima poesia: Dal mio villaggio vedo quanta terra si può veder dell’universo […] Nella città la vita è più piccola Che qui nella mia casa sulla cima di questa collina. Nella città le grandi case chiudono la vista a chiave, Nascondono l’orizzonte, spingono il nostro sguardo lontano da tutto il cielo, Ci rendono piccoli perché ci prendono ciò che i nostri occhi ci possono dare,

110. Ivi, p. 86; trad. it. p. 87. 111. Ivi, p. 83; trad. it. p. 85.

350 E ci rendono poveri perché la nostra unica ricchezza è vedere112.

Nel modo con cui Caeiro concepisce la relazione dell’uomo con la natura assume particolare rilievo l’economia delle sensazioni e dei sentimenti. I secondi tendono ad essere sostituiti dalle prime, in particolar modo dalla visione e dell’atto di vedere. Il vedere è in Caeiro contrapposto al pensare. Tuttavia, il vedere è il senso più intellettuale, quello da cui è tratto il linguaggio predominante che si è imposto, a partire da Platone, all’interno del mondo delle idee, modulato secondo una fenomenologia della visione ed una retorica dell’evidenza. Per Caeiro, invece, il mondo visibile non è una semplice immagine del mondo intelligibile delle essenze. Al contrario, esso rappresenta l’unico e vero mondo: Chi sta al sole e chiude gli occhi, Comincia a non sapere che cosa è il sole E a pensare molte cose piene di calore. Ma apre gli occhi e vede il sole, E non può pensare più a nulla, Perché la luce del sole vale più che i pensieri Di tutti i filosofi e di tutti i poeti113.

Il privilegio della visione sugli altri sensi deriva dal semplice fatto che solo attraverso di essa è consentito l’accesso alla meravigliosa diversità degli esseri e alla pura oggettività delle cose. Il dominio della visione nei versi di Caeiro viene ad essere intensificata per ridondanza, come appare chiaro, fra gli altri, in questi versi: «I colori veri delle cose che vedono gli occhi»; «Mi contenta vedere con gli occhi e non con le pagine114». Sono criticati perciò quei poeti che parlano delle cose

112. Ivi, p. 51; trad. it. p. 39 113. Ivi, p. 48; trad. It. p. 33. 114. Ivi, p. 132; trad. it. p. 191.

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ma che non guardano veramente ad esse, come lo stesso Francesco d’Assisi115. Al netto del suo eccesso, questa predominanza del vedere testimonia l’effettiva impossibilità del poeta di farsi realmente natura, o al massimo di viverla. Poiché il vedere si sostituisce all’essere o al vivere, il poeta, ben cosciente di questo slittamento, lo confessa apertamente: «Non ho mai cercato di vivere la mia vita / […] Ho solo voluto vedere come se non avessi anima / Ho solo voluto vedere come se fossi soltanto occhi116»; «Io non sono neppure poeta: vedo117». In alcuni versi – comunque pochi se paragonati a quelli dedicati alla vista – compaiono anche gli altri sensi: l’udito, l’olfatto, il tatto. Quest’ultimo, soprattutto, dovrebbe essere quello dominante in una filosofia come questa, interessata a stabilire la più stretta relazione possibile con la natura, e in un poeta come Caeiro, sempre alla ricerca dell’«assoluto corpo delle cose». Nella drammaturgia poetica pessoana, spetta tuttavia a Campos questo rapporto privilegiato e quasi tattile con la realtà. Ecco come il poeta descrive la relazione con il reale: «Io non vedo soltanto la realtà – io la tocco118». Pur non essendo del tutto assente, il tatto occupa comunque in Caeiro un posto meno rilevante di quello occupato dalla visione. Riportiamo, ad ogni modo, a titolo di esempio, alcune eccezioni al generale predominio della vista: Sono malato. I miei pensieri cominciano a essere confusi. Ma il mio corpo, toccando le cose, entra in esse. Mi sento parte delle cose con il tatto E una grande liberazione comincia a farsi in me119.

115. Cfr. Ivi, p. 133; trad. it. pp. 143-145. 116. Ivi, p. 132; trad. it. p. 195. 117. Ivi, p. 122; trad. it. p. 129. 118. Ivi, p. 167. 119. Ivi, p. 117; trad. it. p. 155.

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Questa sensibilità è presente anche in un’altra poesia: Chiudo gli occhi e la dura terra su cui mi stendo Ha una realtà tanto reale che finanche le mie costole la sentono. Non ho bisogno di raziocinio se ho le spalle120.

In una poesia il godere viene contrapposto al vedere, quasi come se l’uno neutralizzasse e impedisse l’altro: Godo i campi senza farci attenzione […] Godere un fiore è stare vicino a lui inconsciamente E avere una nozione del suo profumo nelle nostre idee più sfuocate. Quando faccio attenzione, non godo: vedo. Chiudo gli occhi, e il mio corpo, che sta nell’erba, Appartiene interamente all’esteriore di chi chiude gli occhi – Alla durezza fresca della terra profumata e irregolare121.

È come se il poeta ci dicesse che sa bene che la natura delle cose raggiunta attraverso la vista è una natura oggettiva, ma al tempo stesso distante, fredda e in qualche modo slegata. La natura è vista, percepita, ma non toccata, e nemmeno effettivamente vissuta o gustata. Il proposito di ridurre l’uomo alla semplice natura si rivela allora impossibile, e proprio a causa del modo di apprensione visuale delle cose naturali, un’apprensione che distingue, differenzia, ritaglia, moltiplica illimitatamente gli esseri, impedendo però al contempo la loro unificazione, unione e fusione, vale a dire l’elementare identificazione con la natura che sembra essere il più segreto desiderio del poeta. Caeiro ci parla della «tenerezza per le cose come semplici cose», dell’amore per la natura, dice di essere triste o con120. Ivi, p. 143; trad. it. p. 165. 121. Ivi, p. 146; trad. it. p. 187; cfr. Ivi, p. 58; trad. it. p. 51.

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tento. Ma i suoi sentimenti sono freddi, frutto di un’ascesi esangue e disinteressata che il poeta impone innanzitutto a se stesso, forse per correggere i vizi e gli eccessi dei romantici e dei simbolisti. «Amai le cose senza sentimentalità alcuna122», confessa questo pastore amoroso. E, tuttavia, riconosce che i sentimenti intensificano la sensazione della natura. Con la mediazione dell’amore, o grazie alla presenza di qualcuno che si ama o che ci ama, la natura si scopre «più commossa e vicina», si vede migliore, aumenta la sua bellezza e il suo interesse. Il poeta scopre dunque che «i campi, in fondo, non sono più verdi per coloro che sono amati / Che per coloro che non lo sono123». In sostanza, la natura di cui parlano i versi di Caeiro è, a dispetto di tutto, una natura distante, schematica, povera di attributi e di significati. Colta soprattutto con la vista, non sorprende che gli attributi che le sono riconosciuti siano i più visibili nella loro superficie e nella loro mera esteriorità («perché la natura non possiede un dentro»): al di là del semplice “esistere”, le cose non hanno che “forma” e “colore”. Ma a che titolo allora la bellezza può essere considerata un attributo della natura? Per Caeiro, attribuire bellezza alla natura è il risultato di una delle menzogne umane, una proprietà che gli uomini attribuiscono alle cose, ma che non costituisce una loro vera proprietà. A questo proposito, si veda un’interessante poesia de Il custode di greggi: A volte, nei giorni di luce perfetta ed esatta, Nei quali le cose hanno tutta la realtà che possono avere, Domando a me stesso piano Perché mai attribuisco io Bellezza alle cose.

122. Ivi, p. 126; trad. it. p. 135. 123. Ivi, p. 124; trad. it. p. 133.

354 Un fiore per caso ha bellezza? Ha bellezza per caso un frutto? No: ha colore e forma E solo esistenza… La bellezza è il nome di una cosa qualunque che non esiste Che io do alle cose in cambio del piacere che mi danno. Non significa nulla. Allora perché dico io delle cose: sono belle? Sì, anche a me, che vivo solo di vivere, Invisibili, vengono a me le menzogne degli uomini Di fronte alle cose, Di fronte alle cose che semplicemente esistono. Che difficile essere se stessi e non vedere se non il visibile124!

Al di là di questa ascesi, Caeiro vorrebbe instaurare una genuina attitudine estetica o estesica di fronte alla natura. E ciò è possibile soltanto attraverso un processo di depurazione che ci permetta un accesso sensibile alla natura, senza la mediazione di concetti o idee, di teorie o di sistemi funzionali a spiegarla. 6) In molti modi, infine, si esprime, nei versi di Caeiro, il proposito di reintegrare l’uomo nella natura, il desiderio di trovare nella realtà naturale il rimedio che lo curi dal male della coscienza, della cultura, dei sentimenti, della civiltà. Il poeta, tuttavia, sa bene che si tratta di un semplice tentativo, e non certo di una possibilità concreta. Per giungere alla natura, infatti, è necessario eliminare ogni relazione con la cultura. Per accedere a delle vere emozioni, emozioni che solo la natura potrebbe garantirci, è necessario liberarsi da tutti i sentimenti che una cultura antropocentrica e soggettivista ha attribuito alla natura. Per cogliere la ricchezza della natura, infine, è 124. Ivi, p. 76; trad. it. p. 73.

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necessario praticare un’ascesi degli affetti e fare fronte alla penuria dei mezzi poetici e linguistici. In questo senso, il minimalismo poetico di Caeiro ha la funzione propedeutica di rendere possibile un (re)incontro effettivo con la natura e con il suo vero e autentico essere. Ma questo nuovo incontro si può realizzare solamente prima o al di là della poesia: Cerco di dire ciò che sento Senza pensare a cosa sento […] Né sempre riesco a sentire ciò che so che devo sentire […] Cerco di spogliarmi di ciò che ho imparato, Cerco di dimenticare il modo di ricordare che mi hanno insegnato, E raschiare la tinta con cui mi hanno dipinto i sensi, Disimballare le mie vere emozioni, Sbrogliarmi ed essere io, non Alberto Caeiro, Ma un animale umano che la Natura ha prodotto. E così scrivo, desiderando sentire la Natura, non come un uomo, Ma come chi sente la Natura, e nient’altro125.

Nella sua opera Sulla poesia ingenua e sentimentale, un lavoro che costituisce una notevole diagnosi sulle poetiche della natura, Friedrich Schiller ha scritto: «I poeti sono ovunque, e per definizione, i conservatori della natura. Quando non possono più esserlo compiutamente e già sperimentano in loro stessi l’influsso devastante di forme arbitrarie e artificiose, oppure hanno dovuto combattere un simile influsso, allora essi si presentano come i testimoni e i vendicatori della natura. O saranno natura perduta o la cercheranno. Da ciò hanno origine due generi poetici totalmente diversi, da cui l’intero campo della poesia viene esaurito e misurato. Tutti i poeti che sia-

125. Ivi, p. 97; trad. it. p. 101.

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no realmente tali apparterranno […] o al genere ingenuo o a quello sentimentale126». Alberto Caeiro non può essere un poeta ingenuo e non vuole essere nemmeno un poeta sentimentale. Troppo cosciente per essere ingenuo, troppo freddo ed intellettuale per essere sentimentale, la sua triste soddisfazione di voler essere qualcosa di solamente naturale è la chiara confessione melanconica di una malattia incurabile della coscienza, la riconosciuta impossibilità di essere di nuovo così semplicemente naturale come una pietra o una pianta. Non volendo essere sentimentale e non potendo neppure essere ingenuo, egli è nondimeno un guardiano della natura, e se non riesce a diventare neanche il suo vendicatore, il poeta rimane almeno un suo fedele testimone. Nella drammaturgia poetica di Pessoa, Caeiro si trova agli antipodi del modernismo e futurismo di Campos (per quanto quest’ultimo si considerasse un suo discepolo). Egli indica ciò che vi è di più originario nella poesia, e quindi ciò che vi è anche di più futuro, il suo unico e genuino futuro. Critico della modernità e della sua civiltà malata e industrializzata, Caeiro è la freschezza mattutina dell’origine, l’acqua sorgiva di una natura non ancora corrotta dalla cultura. Nell’universo di Pessoa, Caeiro rappresenta qualcosa di più del semplice antimodernismo, il post-moderno o il futuro. Ma questo futuro può aprirsi di fronte a noi soltanto se saremo in grado di cogliere ciò che vi sta all’origine. E nell’origine vi è la natura, anche se solo come un desiderio, come la nostalgia o la confessione di qualcosa di irrimediabilmente perduto, come un nome che ci è rimasto.

126. F. Schiller, Über naïve und sentimentalische Dichtung in Id., Sämtliche Werke, WBG, Darmstadt 1989, Bd. V, p. 712; trad. it., Sulla poesia ingenua e sentimentale, a c. di E. Franzini e W. Scotti, SE, Milano 1996, pp. 31-32.

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Ragioni del sentimento e piaceri dell’intelligenza. Sulle idee estetiche di António Sérgio

Procedo e sento come un romantico; ma cerco di pensare come un geometra. Si tratta di un segno caratteristico della mia piccola personalità. António Sérgio, “Seara Nova”, n. 296 (1932), p. 118

Dobbiamo incominciare questo saggio formulando alcune domande: in António Sérgio1 c’è spazio per una riflessione pro-

1. António Sérgio (1883-1969) nacque a Damão, nell’India Portoghese, visse in Africa e fu esiliato a Parigi tra il 1926 e il 1933. La sua prolifica opera fu di natura volutamente saggistica, e si estese a temi di critica letteraria, storiografia, pedagogia, scienza, politica e filosofia. Sérgio fu legato ai principali movimenti culturali portoghesi della prima metà del XX secolo, in particolare al movimento della “Renascença Portuguesa” (1912), da cui si allontanerà a causa dell’impronta saudosista, anti-razionalista e nazionalista impressa da Teixeira de Pascoaes. Sérgio aveva una prospettiva razionalista e cosmopolita, interessata alla modernizzazione delle mentalità e della società portoghese nei suoi vari aspetti (pedagogico-culturale, economico, politico). Nel suo esilio parigino (1926-1933), entrò in contatto con i rappresentanti del razionalismo francese dell’epoca (Paul Langevin e Léon Brunschvicg). La sua importantissima azione di intellettuale si può considerare ispirata da una filosofia pensata come pedagogia in senso ampio (mentale, culturale, sociale e politico) e guidata dall’idea di riformare il Portogallo attraverso l’influenza esercitata dalle idee. Il movimento “Seara Nova” (1921), che prende il nome dalla rivista omonima di cui fu co-fondatore con altri intellettuali di prima grandezza (Raul Proença, Jaime Cortesão), aveva proprio questo obiettivo,

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priamente “estetica”? Possiamo trovare nelle sue opere delle “idee estetiche”? Nel pensiero sergiano ci sarà spazio inoltre per la dimensione e prospettiva “estetica”? E se sì, dove trovarli e in quale senso? A prima vista, la risposta alle domande appena formulate non potrà che essere negativa. In effetti, ciò che domina la riflessione sergiana è il riconoscimento del primato della scienza geometrica e matematica, un’egemonia che informa il suo razionalismo critico, a sua volta modellato da due delle più importanti figure dell’idealismo filosofico: Platone e Descartes. Se l’estetica fa segno alla dimensione della sensibilità, cogliendone la logica peculiare, non c’è allora alcun posto per essa in una filosofia che, in linea con il fondatore dell’Accademia e con l’autore delle Meditationes, squalifica espressamente la

ed esercitò la sua influenza per sei decadi. Una tale concezione pedagogica della filosofia e del pensiero come critica e maieutica culturale e sociale lo spinse ad ingaggiare frequenti polemiche con altri intellettuali portoghesi. Il carattere polemico, saggistico e critico della sua riflessione non ha contribuito al riconoscimento della rispettiva densità e pertinenza, che solamente negli ultimi anni sta iniziando ad essere oggetto di una giusta attenzione. Profondamente influenzato dalla lettura precoce dell’Etica di Spinoza, il suo pensiero rivela i tratti di un razionalismo creatore e critico prossimo a quello che egli avrebbe chiamato platonismo o cartesianesimo “ideale”. Tra i movimenti a lui contemporanei, Sérgio si considerò vicino alle tesi del neokantismo di Marburg. Opere: Ensaios, VII Voll.; Educação Cívica, Porto 1915; Considerações Histórico-Pedagógicas, Porto 1915; O Problema da Cultura e o Isolamento dos Povos Peninsulares, Porto 1914; Sobre Educação Primária e Infantil, Lisboa 1939; O Ensino Como Factor de Ressurgimento Nacional, Porto 1918; Notas sobre Antero, Cartas de Problemática e Outros Textos Filosóficos, Lisboa, 2001. Studi sul suo pensiero: AA.VV., António Sérgio. Pensamento e Acção, Actas do Colóquio Internacional (Porto, 2-4 de Janeiro de 2003), II Voll., Lisboa 2004; António Pedro Mesquita, Ensaios Sergianos, Lisboa, 2013; João Príncipe, Razão e Ciência em António Sérgio, Lisboa, 2004; Id., Quatro Novos Estudos sobre António Sérgio, Vale de Cambra 2012; V. Magalhães Vilhena, António Sérgio: O Idealismo crítico e a crise do Idealismo burgês, Lisboa 1964.

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conoscenza sensibile o aspira, al massimo, a trasformare tutto il sensibile in intelligibile. Per Sérgio, così come per Platone o Descartes, ad essere fondamentale è la conoscenza genuina, ed essa può essere raggiunta soltanto quando lo spirito è in grado di cogliere negli oggetti non le loro rispettive qualità sensibili, bensì «le relazioni di intelligibilità pura2». Apparentemente, il freddo e arido razionalismo geometrizzante, che ispira fin nel midollo il pensiero sergiano, sembra presupporre la totale eliminazione della sensibilità e la repressione del sentimento, o, per lo meno, la loro sovradeterminazione in nome della ragione. Tuttavia, vi sono altri testi, come quello collocato in epigrafe, in cui questo discepolo di Platone e Descartes si confessa un romantico, un artista, un gourmet. Ci sarà allora in Sérgio almeno un’estetica implicita? E se sì, di quale tenore? Possiamo comunque già ora sottolineare che se esiste qualcosa come un’estetica in Sérgio, non sarà certo un’estetica fondata sull’etimo greco di aisthesis, una logica della sensibilità o una gnoseologia della conoscenza sensibile, secondo la caratterizzazione offerta da Alexander Baumgarten, e non sarà neppure un’estetica di ascendenza romantica, intesa come una giustificazione del sentimento. Sarà invece innanzitutto un’estetica dell’intelligenza, intenzionata a ricercare la bellezza non nei corpi del mondo sensibile, ma nelle relazioni del mondo ideale. Una citazione di Henri Poincaré, collocata dal saggista portoghese in epigrafe al quarto volume dei suoi Saggi, ci può indicare dove ricercare i tratti caratteristici della sua estetica: «Se i Greci trionfarono sui barbari, se l’Europa, erede del pensiero greco, signoreggia sul mondo, la ragione è semplice: i selvaggi amano i colori violenti e la cacofonia dei

2. A. Sérgio, Ensaios, Livraria Sá da Costa Editora, Lisboa 1934, Vol. IV, pp. 156-158.

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tamburi che dominano i sensi; i Greci, invece, amavano la bellezza intellettuale che si cela dietro la bellezza sensibile, ed è quella che rende l’intelligenza sicura e forte3». Ad ogni modo, al di là di un’estetica propriamente detta, ciò che i testi di Sérgio mettono veramente in luce è quella che si potrebbe chiamare una poetica dell’intelligenza, vale a dire l’attenzione al processo della creazione intellettuale, sia che si realizzi nelle arti o nelle scienze, sia che si manifesti nelle varie tecniche o nella filosofia. Di certo, una simile poetica non è mai stata l’oggetto di un particolare lavoro del saggista portoghese. I suoi contorni, tuttavia, pur non essendo stati analizzati in forma sistematica, possono essere colti seguendo e legando i fili dispersi disseminati in un’opera caratterizzata da un’indagine essenzialmente dispersiva, o presenti nelle critiche alle opere letterarie, nelle note e negli studi introduttivi alle edizioni di scrittori portoghesi, nelle polemiche e nelle controversie di cui Sérgio fu protagonista, riuscendo sempre ad estrarre da queste schermaglie un positivo saldo pedagogico. Nonostante questo aspetto non sia oggi debitamente preso in esame, siamo convinti che una sua analisi ci permetterebbe di comprendere più in profondità il razionalismo e intellettualismo sergiani, mettendo in risalto proprio quegli aspetti spesso misconosciuti ed ignorati dai suoi contemporanei e dai sui critici successivi.

3. Passo cit. in Ivi, p. 6.

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1. La critica come opera d’arte. Pratica e teoria sergiane della critica estetica e letteraria Per Sérgio, l’obiettivo della critica letteraria e artistica non è differente da quello della scienza o della filosofia. Ognuna di queste discipline, infatti, intende rendere intelligibile e far comprendere un’opera, poiché, come scrive il nostro saggista, «comprendere è relazionare [costruire una Forma]; comprendere una cosa […] significa porre in rapporto l’idea della cosa con un insieme di idee di altre cose; o ancora: è passare dalla fantasia di un’inerenza alla concezione di un tessuto di relazioni – relazioni dell’idea della cosa studiata con le idee di tutto ciò in cui essa si integra4». Ad essere veramente importante nel lavoro del critico o dell’ermeneuta, dell’epistemologo o del filosofo, è allora l’idea (l’ipotesi, la forma) che lega i fatti (i fenomeni, gli elementi isolati) in una struttura, illuminandoli e garantendo loro una precisa rilevanza. E l’idea, l’ipotesi, la forma sono, naturalmente, una creazione dello spirito. Nelle parole di Sérgio: «Il vero criterio dell’oggettività dei “fatti” è sempre la coerenza di un sistema di idee che cerca di interpretare ciò che si presenta ai sensi […] È “fatto” quello che si lega intelligibilmente con le altre cose che consideriamo “fatti”, ciò che è compatibile con l’insieme dei “fatti”. Qualunque sentire è un semplice segnale che aspetta da noi un’interpretazione coerente, e l’unico criterio dell’oggettività del “fatto” si riduce ad un criterio di interpretazione di diritto […] Dovremo ricorrere, in ultima istanza, al legame dell’idea del presente fatto con una trama di idee che abbiamo in mente, realizzando dunque un’“abilità dialettica”, per quanto semplice e grossolana possa essere5».

4. Ivi, p. 7. 5. Ivi, pp. 220-221.

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In questa analisi sulla funzione dell’ipotesi come sistema di idee che interpreta i dati che intende spiegare, sono certamente ben riconoscibili gli echi della lettura di Scienza e Ipotesi di Poincaré, un autore espressamente citato, e proprio con l’intenzione di mettere in risalto l’affinità tra l’indagine scientifica (nelle scienze naturali o storiche) e la creazione artistica. La presenza dell’epistemologo francese, tuttavia, non vuole certo suggerire la possibilità di trasferire tout court i processi della scienza nell’arte; al contrario, l’obiettivo è quello di coltivare la scienza come se fosse essa stessa un’arte. Scrive Sérgio: «Poincaré diceva che è come artisti che dobbiamo coltivare le matematiche. Non ha definito così una condizione estrinseca, ma l’essenza stessa dell’indagine scientifica, il criterio finale del vero. Allo stesso tempo, ha affermato l’unità del nostro spirito e delle differenti attività cui si consacra: arte, scienza, filosofia, moralità6». L’intuizione architettonica di un tutto, in cui le varie idee si relazionano con coerenza, domina l’epistemologia sergiana. Fra le molte possibili, riportiamo una delle sue più felici formulazioni: «La ricerca della verità, alla fine dei conti, si rivela la ricerca di una struttura totale delle idee […] Chi vede un oggetto pensa un mondo che precede e condiziona questo stesso oggetto. Un “fatto” è sempre un conglomerato di idee, e il criterio della verità è tutto interiore: la coerenza di un’idea con le altre idee, dell’idea di una parte con l’idea di un tutto […] La realtà di quello che si considera un “fatto” è funzione dell’intelligibilità di questo stesso fatto, e l’atto che si considera una vera percezione è una fantasia coerente con l’insieme delle altre. È grazie all’invenzione dell’intelletto che si crea il reale7».

6. Ivi, p. 221. 7. Ivi, pp. 221-222.

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L’epistemologia sergiana, pertanto, più che una teoria dell’oggettività scientifica, è in realtà una teoria della creatività dello spirito, in cui perfino la spiegazione dell’indagine scientifica viene compresa a partire da una poetica che fa capo all’invenzione e alla creazione dello spirito. Ora, secondo Sérgio, anche la critica letteraria o artistica rappresenta, prima di tutto, il lavoro di un’intelligenza che vuole rendere intelligibile un’opera, assegnandole il più ampio significato possibile. Non vi è quindi un’essenziale differenza tra comprendere un’opera letteraria o spiegare un fenomeno della natura grazie alla scienza fisica. In entrambi i casi, infatti, l’intelligenza deve inventare un’ipotesi feconda che li illumini, rendendoli comprensibili. Questo presupposto intellettualista, se applicato in ambito letterario o artistico, possiede delle visibili conseguenze, da alcuni considerate perverse. Riportiamo alcuni esempi di questo potenziale pericolo: lo schematismo dell’interpretazione sergiana dell’Antero de Quental diurno/notturno (o apollineo/ romantico) e la chiara tendenza a valutare positivamente soltanto il lato diurno o razionale dell’opera del poeta8; l’organizzazione proposta da Sérgio dei Sonetti di Antero, subordinata ad un piano logico e coerente; l’interpretazione idealista (platonica o neoplatonica) dell’opera poetica di Luis de Camões e, in termini generali, il rilievo dato al pensiero filosofico o 8. Non dobbiamo comunque dimenticare che Sérgio, con la sua proposta ermeneutica del pensiero di Antero (1909), anticipa l’antinomia che Karl Jaspers andrà a proporre ed esplicitare nel terzo volume della sua Filosofia (Springer, Berlin 1932) tra la “Legge del Giorno” e la “Passione per la Notte”. Questi due ambiti reggono l’essere profondo della coscienza umana, in un’antitesi priva di una sintesi finale. La stessa idea sarà sviluppata anche da Gilbert Durand nella sua opera Les structures anthropologiques de l’imaginaire (Bordas, Paris 1960). Sull’interpretazione sergiana di Antero de Quental, si veda il nostro saggio Antero, segundo Sérgio, in M. G. Castro – M. C. Carvalho, Horizontes do Conhecimento. Estudos em Homenagem ao Professor José Luís Brandão da Luz, Letras Lavadas, Ponta Delgada 2015, pp. 225-247.

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sociale degli autori alla luce della mera forma; la preferenza accordata da Sérgio ai poeti-pensatori (come Camões e Antero) o agli scrittori la cui opera letteraria è portatrice di un messaggio umano, sociale, filosofico; infine, la tendenza a subordinare la letteratura e l’arte ad una determinata funzione sociale, portandolo, ad esempio, a preferire il Candide di Voltaire al Wilhelm Meister di Goethe. L’idea della critica come categoria estetica fondamentale si è sviluppata lungo tutto l’arco del XVIII secolo; del resto, è stato anche intorno ad essa che si sono sviluppati e costituiti il discorso estetico e la filosofia dell’arte, e non soltanto in quanto semplice giudizio o critica delle opere e delle realizzazioni artistiche e letterali, ma precisamente come “critica del gusto” o “critica del giudizio estetico”. La critica, d’altronde, è sempre stata, fin dall’inizio, al centro del programma seareiro sergiano: «Ciò che ci lega è un desiderio comune di libera indagine, condotta, per quanto ci è possibile, attraverso gli abiti salutari della disciplina critica. Essere critica investigatrice, da un lato; ed essere, dall’altro, portatrice di molte altre idee: ecco due caratteristiche della “Seara Nova”9». Per Sérgio la critica rappresenta dunque, innanzitutto, un abito mentale – una disciplina – e un metodo che si esercitano non tanto sulle istituzioni, quanto sulle attitudini mentali: «In noi, la radice della nostra opera non è politica: è una riforma di carattere intimo, essenziale; è un’iniziazione all’oggettività dello spirito, al vero pensare10». Così intesa, la critica ha, di conseguenza, una funzione pedagogica e culturale di ampia portata, e la critica letteraria praticata da Sérgio non sfugge ad un simile contesto pedagogico-culturale. La critica non è perciò coltivata in nome di interessi letterari o estetici, 9. A. Sérgio, “Seara Nova”, n. 357 (1933), p. 327. 10. Ibid.

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considerati magari semplici valori isolati e disincarnati, ma nella convinzione che le opere letterarie e le attitudini estetiche abbiamo un ruolo in quanto espressioni della vita sociale. Il primo compito consisterà allora nel criticare la critica – la tipologia di critica letteraria e artistica – praticata in Portogallo, dove, secondo le parole di Aubrey Bell citate da Sérgio, «alla vaghezza del pensiero corrisponde l’incoerenza e lo sfarzo nello stile», e in cui, a causa dell’inesistenza della vera critica, le «oche credono di volare come le aquile», sperperando i veri talenti a causa della mancanza di una buona direzione di marcia. Una tale critica, infatti, rappresenta una pallida imitazione di un vero e proprio esercizio critico, svolgo con lucidità e severità mentale, e perciò capace di contribuire realmente all’innalzamento del livello della cultura. «Lirica è lirica, e critica è critica», scrive Sérgio, rivolgendosi a quel genere di critica letteraria praticata in particolare da João Gaspar Simões, a proposito dell’opera poetica di Guerra Junqueiro e di António Nobre. Naturalmente, l’osservazione sergiana non si applicava certo a tutti i protagonisti della cultura letteraria portoghese, essendo ben consapevole, ad esempio, dell’eccezione rappresentata da José Régio, considerato «un poeta completo – un poeta classico –, uno dei nostri critici che sono più critici11», una figura capace di distinguere la funzione del critico dalla profusione di espedienti lirici. Sérgio si lamenta spesso della reale incapacità dei letterati portoghesi di comprendere la critica propriamente detta. Egli considera perciò scientemente la sua azione pedagogica in funzione non tanto del popolo in generale, bensì in relazione a quelle persone che vorrebbero esercitare proprio questa funzione. Per il saggista portoghese, l’autentica critica di un’ope11. Ivi, p. 331.

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ra letteraria o artistica non deve essere, essa stessa, letteraria o artistica, come se questi aggettivi designassero un punto di vista privilegiato, l’unico capace di cogliere il senso e la portata dell’opera letteraria o artistica. Dovendola eventualmente definire, Sérgio ritiene sia preferibile chiamarla «critica pedagogica» o «critica sociale». Lo stesso Sérgio, d’altronde, non si considera mai espressamente un critico letterario o artistico. Lo statuto letterario o artistico, infatti, non rappresenta per lui un punto di vista privilegiato, una prospettiva indispensabile per accedere al significato delle opere letterarie e artistiche, e neppure una chiave di lettura necessaria per comprendere il loro reale valore letterario o estetico, disperdendosi in eccessi sentimentali e in un profluvio di manifestazioni liriche – delle modalità tutte destinate a tradursi volgarmente in mera confusione, quando non in semplice inganno, in vana retorica, in vacua declamazione e in disonestà artistica. Nella comprensione e nella pratica di Sérgio, la critica autentica, non meno di una vera creazione, richiede una rigorosa disciplina, e non certo una disciplina estetica, ma innanzitutto una disciplina logica: «Nella critica, nella filosofia, nella scienza, nella dottrina politica, nell’organizzazione sociale, la disciplina è di natura logica, o morale, o teorica, e sono qui esclusi […] tutti gli “eccessi sentimentali”, a cominciare dalla semplice oscurità delle idee. Non confondiamo. Un’eclisse di sole è un’oscurità, ma la teoria delle eclissi non è un’eclisse; e se la lirica può essere pertanto oscura, la critica del lirismo deve essere chiarissima12». Pur non essendo stata generalmente compresa dai letterati dell’epoca, la pratica sergiana dell’ermeneutica letteraria ha meritato tuttavia l’apprezzamento di Jorge de Sena, che ha

12. A. Sérgio, Tentando desfazer equívocos, “Seara Nova”, n. 296 (1932), p. 120.

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definito la critica di Sérgio ai prefatori e agli editori della lirica di Camões13 «uno dei monumenti pioneristici della critica del significato14»; il saggista portoghese è riuscito infatti a richiamare «l’attenzione sulla profonda intellettualizzazione del pensiero poetico di Camões e sulla natura “mistica” di questa intellettualizzazione del suo lirismo amoroso, una natura che trascendeva di molto l’erotismo volgare di un grande appassionato15». Un tratto caratteristico delle critiche di Sérgio consiste nel rilevare la dimensione di pensiero presente nelle opere letterarie, rifiutando quelle strategie di lettura che considerano le opere soltanto come il documento privato di una singolarità personale, o che finiscono per dissolvere il suo contenuto e significato nel registro degli episodi biografici dei rispettivi autori. È ciò che accade con le analisi di Luis de Camões e di Antero de Quental. La strategia sergiana intende consegnare all’opera la pregnanza e il significato che le spetta. Non ci si deve perciò meravigliare se la preferenza di Sérgio va a quegli autori nelle cui opere il valore letterario ed estetico si accompagna alla critica sociale e all’intenzione di contribuire ad una riforma della società. È il caso, ad esempio, di Eça de Queirós, nella cui estetica realista finisce per riconoscersi16, o di Antero e Voltaire. Al criterio letterario e meramente estetico, Sérgio contrappone il «criterio sociale» come punto di vista privilegiato per analizzare ed apprendere il significato delle opere letterarie, rifiutando la mera prospettiva artistica che conside-

13. A. Sérgio, Questão prévia dum ignorante aos prefaciadores da Lírica de Camões, in Id., Ensaios, Vol. IV (1934). 14. J. de Sena, Uma Canção de Camões, Portugália, Lisboa 1966, p. 308. 15. Ivi, p. 298. 16. A. Sérgio, Um problema literário-social. Eça de Queirós e a sociedade portuguesa, “Seara Nova”, n. 26 (1923), pp. 39-42.

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ra l’arte un semplice gioco, nient’altro che una visione sterile ed inadeguata per cogliere il valore estetico di un’opera. Ad una critica esterna, composta da effemeridi, dal semplice elenco di influenze e fonti, dall’accumulo di dati biografici, Sérgio contrappone quella che chiama una «critica interna»: «Le critiche che abbiamo fatto sono critiche interne che esaminano la logica interiore dei contenuti, la coerenza intima delle loro idee, il legame delle parti, la loro armonia con i fatti storici17». La «critica estetica e filosofica» proposta e praticata da Sérgio non consiste nel censire le «minuzie dell’eruditismo» o nel dissolvere le opere nel registro delle circostanze personali in cui furono composte. «Per quanto ci riguarda», scrive Sérgio, «proponiamo l’ipotesi precisamente contraria, ossia: il valore artistico è una virtù intrinseca, indipendente dalle circostanze in cui l’opera nacque, e perciò apprezzabile in modo completo da chi sappia leggerla in nome di un criterio estetico (o filosofico), e non biografico. Chiediamo, insomma, che la critica estetica e filosofica inizi ad occupare un umile luogo ai piedi delle minuzie della biografia e della ricerca approfondita delle cosiddette “fonti”18». Ad ogni modo, dove si rivela più luminosa la concezione e la pratica sergiane della critica letteraria è in un passo della prefazione alla prima edizione del terzo volume dei Saggi, in cui l’autore presenta la critica come fosse «un’opera d’arte». Domanda Sérgio: «A cosa serve la critica? Qual è il suo fine? Forse non sbagliamo se cominciamo a dire (valga come ipotesi) che essa serve come serve un poema epico, una tragedia, una sonata, un quadro di genere, una scultura. La sua utilità è intrattenere la gente; la critica serve per darci piacere. Osiamo affermare che essa è un’opera d’arte, e che si legge come tale 17. A. Sérgio, “Seara Nova”, n. 357 (1933), p. 331. 18. A. Sérgio, Ensaios, Vol. IV (1934), pp. 9-10.

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[…] Invece di un gioco di immagini, o di azioni, o di caratteri, la critica ci fornisce una trama di idee, provocate dall’idea dell’arte. In altre parole: la critica non sarà anche un’arte – l’arte delle arti, o l’arte sopra le arti? Suppongo di sì […] Già da qui si può cogliere quanto mi paia assurda la distinzione fra critici e creatori. Il vero critico è un creatore – creatore di idee e di dottrine critiche; e non si trova nell’arte un creatore completo che non sia anche un eccellente critico – eccellente critico, per lo meno, in determinati rami speciali: quelli in cui primeggia come creatore». Sérgio adduce inoltre alcuni esempi particolari: «La galleria psicologica di un Sainte-Beuve non è più distante di quella di un Balzac; e Baudelaire, visceralmente poeta, era anche visceralmente critico. Fra i portoghesi, non meno visceralmente poeta fu Antero de Quental, che ha riassunto in questi termini la sua esperienza estetica: “L’idea poetica risulta tanto più abbondante e libera quanto più chiara e logica è l’idea filosofica; e dicano che la critica è nemica dell’ispirazione!”19».

2. La nozione sergiana dell’intelligenza creatrice e dell’unità organica dello spirito Al centro dei giudizi su un certo tipo di critica e teoria letteraria molto in voga nei circoli letterari e accademici della sua epoca, e soprattutto nelle polemiche che lo videro coinvolto (ad esempio, con João Gaspar Simões e Adolfo Casais Monteiro), è chiarissimo il rifiuto sergiano di stabilire una stretta separazione – figlia della loro presunta mutua incompatibilità – tra le facoltà poetiche o artistiche e le facoltà razionali o intellettuali: il rifiuto di quella che era solito chiamare la dottrina dei

19. A. Sérgio, Ensaios, Prefácio à 1a edição, Vol. III, Porto 1932, pp. 9-13.

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compartimenti stagni. Ad ogni modo, ad essere qui in gioco è soprattutto una nuova e caratteristica forma di intendere la ragione o l’intelligenza stessa. È proprio nella descrizione della sua concezione della ragione che Sérgio delinea i contorni di quella che potremmo definire una poetica dell’intelligenza, comune a tutte le produzioni dello spirito, dalla poesia a qualunque altra arte, dalla filosofia fino alla scienza e alla tecnica. Troviamo tutti i topos essenziali di questa poetica dell’intelligenza – senza la quale, in verità, non si può comprendere in modo adeguato né la critica letteraria né il peculiare razionalismo di Sérgio – in una lunga riflessione che precede l’edizione sergiana dei Sonetti di Antero de Quental. Non a caso, la posizione di Sérgio si rivela molto vicina a quella che il giovane autore dei Sonetti descrive, per i suoi 19 anni, in un piccolo saggio sul poeta João de Deus, in cui sono già tracciate le linee essenziali della sua futura poetica. Antero mostra qui come la materia poetica bruta – ossia l’emozione, il sentimento – deve attraversare un processo di successive elaborazioni prima di giungere a quella forma pura del lirismo rappresentata per lui dal sonetto. Questo processo di elaborazione si realizza solo grazie all’intervento decisivo dell’intelligenza e della riflessione. Scrive Sérgio: «Sorta l’emozione, la realizzazione della poesia (cioè: dello strumento che trasmette l’emozione a chi legge) richiede due successivi interventi dell’intelletto, come vuole la tesi anteriana. Vale a dire: come fase iniziale, la riflessione del sentimento nell’intelligenza, o l’elaborazione intellettuale dell’emozione; e, in seguito, l’espressione in parole di questo nuovo stato, ossia la concessione di una forma letteraria al sentimento-idea che si è così formato20».

20. In A. de Quental, Sonetos, ed. organizada, prefaciada e anotada por A. Sérgio, Livraria Sá da Costa, Lisboa 1962, p. 4.

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Il saggista portoghese prosegue la propria analisi, traducendo nel suo linguaggio le formulazioni anteriane: «Quello che caratterizza il lavoro dell’intelligenza nei riguardi del sentimento (così pensa Antero) è il fatto che essa formi un tutto, un’unità dei vari aspetti rilevati nel sentimento (noi diremmo che ciò che caratterizza le operazioni dell’intelligenza associate al sentimento – o originate nel sentimento –, da cui risultano delle concezioni di carattere artistico, è il raggiungere attraverso di esse totalità apprese intuitivamente, ossia un tutto colto con un’unica visione dello spirito, secondo l’idea spinoziana di intuizione). Ora, così come l’idea-sentimento elaborata dall’intelligenza è un insieme unico, organico, al pari di un ritratto figlio dello studio coordinato dei vari aspetti dell’individuo, così anche la forma deve essere una, come affermava lo stesso poeta: “tagliata in un unico pezzo; della stessa natura; ma che cominci a coprire bene ogni parte, e poi copra il tutto e lo avvolga”. E non è proprio questo ciò che si dà nel sonetto? Sì, risponde Antero, argomentando in questo modo: “E che cosa c’è nel sonetto? Un’unità perfetta: si disegna ogni idea parziale di per sé, ma non così indipendente dalle altre che non ci sia fra esse alcuna relazione, cosicché alla fine, unendo tutto in una sola cosa, si presenti per tutti i lati allo stesso tempo, e in una sintesi, la chiusura – chiave d’oro! Quindi, unità. E semplicità? Tutta: le parti conservano uno stretto legame fra loro: è soltanto un sentimento, solo un’idea; non sono diverse, ma diversi lati: l’unità finale li fonde in un tutto”. In sintesi: “Questa è la forma superiore del lirismo del cuore”21». Commenta Sérgio: «Interessante dottrina, e per più di un motivo: sia per ciò che concerne propriamente il sonetto, sia per quello che riguarda la natura della poesia in generale; e viene 21. Ivi, pp. 5-6. A questo proposito, cfr. L. Ribeiro dos Santos, Ideia poética e ideia filosófica. Sobre a relação entre Poesia e Filosofia em Antero de Quental, in Id., Antero de Quental. Uma Visão Moral do Mundo (2002).

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da un autore che in proporzione considerabile è diventato un poeta del vivere dell’intelletto, modellando in sonetti le sue emozioni non pure, come si avverte nel ruolo attribuito all’intelligenza – non dico nel sorgere dell’attitudine poetica, cosa chiarissima, ma nella realizzazione del mezzo di comunicazione per gli altri, vale a dire nella creazione della poesia. Capita che egli si occupi, trattando questa questione, di ciò di cui si dimentica con maggior frequenza gran parte dei letterati che parlano di poesia: non chiamano poeti i sensitivi puri, ma quelli che sono capaci di scrivere poesia, cioè di creare strumenti di trasmissione della poesia – cosa che non si può realizzare senza l’intervento dell’intelletto, nelle sue forme intuitive e strutturanti […] Sì, il vero artista non è soltanto quello che sente: è l’artefice capace di realizzare l’opera, liberandosi dai particolari da cui l’ha sentita nascere […] Attraverso la fuga liberatoria dal biografico […], dalla situazione singolare, dalla limitazione aneddotica, dall’io parcellizzato dell’individualità organica, il sentimento si trasforma in opera d’arte: e tanto di maggior luminosità è il diamante artistico quanto più è stato coinvolta nella sfaccettatura della gemma la coscienza intellettuale del rispettivo autore, che riesce a superare il mero io biologico, influenzato dalle circostanze in cui si è sviluppato il processo. L’opera d’arte nasce dalla circostanza, certo: ma deve allontanarsi da ciò che è circostanziale. E alla critica propriamente letteraria – o artistica – non importa, peraltro, il circostanziale caduco22». Nel prosieguo del testo, il saggista esplicita, ora già in un linguaggio proprio, la sua personale opinione della poetica dell’intelligenza, che segue nell’essenziale le tappe della poetica anteriana, pur essendo riferita a tutte le creazioni dello spirito. È curioso che nella genesi del processo Sérgio indichi

22. Ivi, pp. 6-7.

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non la sensazione avulsa o l’emozione bruta, ma l’«emozione ritmata», come se volesse sottolineare che l’ordine – un certo ordine – si trova già nell’emozione generatrice propria dell’arte. Dobbiamo vedere in questa scelta un tratto dell’intellettualismo sergiano, o il riconoscimento del privilegio della percezione tattile e corporale degli stimoli mondani presuppone forse, al contrario, un accento anti-intellettualista? A questo proposito, diamo la parola direttamente a Sérgio: «A nostro parere, il fatto originario di un pezzo lirico è l’emozione accompagnata da un certo ritmo, o una percezione cinestesica (muscolare, diciamo) intimamente associata a qualunque sensazione. “Nel principio era il ritmo”, aveva sentenziato von Bülow, riferendosi allora specialmente alla musica; e per questa stessa ragione anche Wallaschek aveva avvertito che la musica è esistita prima che esistessero i suoni, essendoci di fatto già ritmo senza che ci sia alcuna melodia. Ora, se l’individuo ha doti di creazione espressiva, da questo ritmo interiore che l’emozione accompagna possono sorgere tre generi di creazione artistica: una danza, una composizione musicale, un poema lirico; e affinché sia un poema quello che da qui si genera, è necessario che al ritmo si associno idee, si aggiungano immagini (ed ecco qui ora il secondo stadio, secondo il modo di vedere anteriano). Se non ci allontaniamo troppo dal vero, si potrebbe anche dire che, da un’intelligenza creatrice di architetture sonore, lavorando a partire da un’attitudine ritmica, sorge l’opera caratteristica del compositore musicale, e che essa dà all’opera tipica del poeta lirico un’intelligenza creatrice di combinazioni mentali che lavora ugualmente su un’emozione con ritmo; essendo il ballerino, di queste tre specie, quello che si mantiene più prossimo alla mera “nudità” emotiva […] Nell’attitudine poetica originaria (ritmo-emozione) può intervenire ben poco la comprensione nitida: ma non è già più così nelle fasi successive, le quali hanno come effetto la realizzazione della poesia. Nella terza, e ultima, della sche-

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matizzazione anteriana, è compito di tenore propriamente intellettivo quello di valutare fino a che punto una combinazione di parole […] trasmetterà fedelmente il tono interiore iniziale, la pura “nudità” dell’emozione23». Sérgio si occupa in seguito di una situazione inversa, domandandosi se le idee e le concezioni teoriche siano esse stesse capaci di suscitare un sentimento profondo, da cui risulti la creazione di qualsivoglia opera lirica. In altre parole: la vita intellettuale può diventare materia poetica? Il saggista portoghese risponde affermativamente alla domanda, invocando innanzitutto la chiara evidenza di alcuni esempi storici: Dante, Lucrezio e lo stesso Antero sono la prova che le idee e il pensiero sono capaci di emozionare lo spirito, elevandolo a forme superiori di creazione di bellezza. Poco oltre, Sérgio espone quella che possiamo considerare la più genuina espressione del pensiero sergiano sulla poetica generale dell’intelligenza, a cui partecipano, in modo uguale seppur in differenti combinazioni, tutte le facoltà espressive, a partire dallo stesso intelletto. Scrive Sérgio: «L’intelletto, quando è creatore e vivo, opera accompagnato da una certa emozione che gli è propria, suscettibile di assumere un aspetto lirico (solo coloro che sono privi dell’esperienza della creazione mentale, nella scienza o nella critica, credono nel fantasma della “fredda intelligenza”). Semplicemente, affinché la vita possa dare origine a tale sentire – nello spirito del poeta o dell’individuo che lo legge – capita che l’autore e il contemplatore dell’opera abbiano entrambi la capacità del pensiero critico – cosa che in pochi poeti, e in pochissimi artisti, e in lettori molto rari, accade veramente24». Lungi dal contrapporre l’ispirazione poetica e la critica riflessiva, quasi fossero reciprocamente nemiche, Sérgio sottoscri23. Ivi, pp. 8-9. 24. Ivi, p. 9.

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ve, come abbiamo visto, la dichiarazione di Antero de Quental in una lettera a Oliveira Martins: «L’idea poetica risulta tanto più abbondante e libera quanto più chiara e logica è l’idea filosofica25». Ma ciò che soprattutto emerge dal commento sergiano della poetica anteriana è l’idea di intelligenza come organismo vivo, come un potere di creazione che si esplicita in modi diversi e secondo dei ritmi che, pur essendo differenti, rimangono comunque intercomunicanti. Come possiamo leggere in una nota di Sérgio ad un sonetto di Antero, «lo spirito è un’attività e non una cosa, ed è perciò capace di vettorializzarsi a se stesso e di creare in sé strutture differenti26». Queste strutture vanno dalla poesia alla filosofia, dalla scienza alla mistica. Secondo Sérgio, l’autentica esperienza estetica non si dà senza un intervento dell’intelligenza in vari gradi di intensità; non ha quindi alcun senso opporre il sentimento alla ragione: «Ciò che caratterizza le operazioni dell’intelligenza associata al sentimento – o originate nel sentimento –, da cui risultano concezioni di carattere artistico, è il giungere grazie ad esse a totalità che possono essere colte intuitivamente, ossia grazie ad una visione unica dello spirito, in accordo con l’idea spinoziana di intuizione27».

25. Lettera a Oliveira Martins, 14 Marzo 1875, in A. de Quental, Cartas, Vol. I (1989), p. 273. 26. In A. de Quental, Sonetos (1962), p. 274. Nella prefazione alla seconda edizione dei suoi Saggi (p. 43), Sérgio precisa: «Per me le idee non sono riflessioni delle cose: sono libera creazioni dell’intelletto umano, intelletto che concepisco come radicalmente dinamico [radicalmente spontaneo] […]; a mio parere, la percezione stessa è una creazione dello spirito; e la filosofia implicita nei miei scritti è sempre stata una filosofia dell’attività pura, della spontaneità della mente, della sua sintetica creatività nella percezione e nel sapere». 27. Ivi, p. 5.

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Nel corso delle sue polemiche, il saggista portoghese si sforza di correggere quella che considera l’idea antica, e secondo lui errata, di ragione o di intelligenza, a suo parere connotata dall’aristotelismo (l’unica che sembrano poter cogliere gli irrazionalisti e lo stesso Henri Bergson), proponendo al contempo un’idea moderna di queste nozioni, intesa non come una mera facoltà astrattiva, discorsiva e giudicatrice, bensì come una facoltà intuitiva e creatrice, fatta espressamente corrispondere a quella “scienza intuitiva” che Spinoza considerava il grado più elevato della conoscenza. Tutta la creazione si rivelerà allora un atto intellettuale intuitivo, cui verrà associata una vera e propria emozione: un’emozione, tuttavia, considerata non alla stregua di un mero sentimento biologico, ma come una vera emozione intellettuale. È questa emozione intellettuale, e non la semplice emozione biologica, a dover essere considerata propriamente estetica. È un’emozione di questo tipo quella che sperimentano tutti i grandi creatori, sia nei domini dell’arte, sia in quelli della scienza o della filosofia. Con ogni probabilità, è stata proprio un’emozione di questo tipo quella che hanno sperimentato Pitagora, Archimede o Kepler, o uno Spinoza e un Kant. L’attività essenziale dell’intelligenza è perciò la creazione, nei vari domini della poesia, delle arti, delle scienze, delle tecniche, delle filosofie. Non vi è, in fondo, differenza tra tutte queste creazioni; l’unica differenza riguarda soltanto la materia in cui esse si esercitano nella «vastità, nella concentrazione e nel ritmo» che lo stesso processo creativo esige sempre. Siamo di fronte, insomma, ad una connaturata analogia tra il processo creatore nell’arte e nella scienza, un’analogia che si basa non solo sull’identità dei processi e dei ritmi, ma anche sull’identità della stessa originaria facoltà creatrice.

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3. Le ragioni del sentimento e i piaceri dell’intelligenza L’essenziale di quella che abbiamo chiamato “poetica dell’intelligenza” può essere espresso in tre tesi: la concezione dell’intelligenza come potere di creazione che si esprime in materie e modi diversi; l’affermazione che sostiene l’esistenza di un’emozione propriamente estetica che accompagna gli atti della vera creazione intellettuale e artistica; l’idea che non vi sia vera creazione artistica o estetica senza un lavoro dell’intelligenza. In una splendida pagina dei suoi Saggi, Sérgio espone queste tre tesi, sottolineando la loro rispettiva e intima solidarietà, proprio mentre smonta i preconcetti dei suoi critici ed avversari. Diamogli la parola: «In primo luogo […], al di là dei sentimenti di natura vitale, delle emozioni e delle passioni (amore, odio, ira, allegria, tristezza, ammirazione, etc.), esiste un’emozione propriamente estetica, evocata da qualità propriamente estetiche (da uno spettacolo naturale o dal lavoro di un artista), rendendo possibile la contemplazione delle opere e l’indipendenza dei sentimenti volgari o biologici (ascoltare musica, ad esempio, senza nessun sentimento che non sia estetico, senza cercare “espressioni”); e, in secondo luogo, chi afferma che l’intelletto compone la poesia (come ad esempio Antero) non deve dimenticare i numerosi critici che sostengono che l’intelligenza non crei poesia. A questi critici, in effetti, osiamo presentare due brevi critiche. La prima: che il sentimento volgare è una cosa, e un’altra cosa abbastanza diversa il sentimento poetico che gli si potrà unire; e ancora un’altra, infine, l’attività da cui risulta la stessa opera scritta, trasmissione della poesia agli altri, con le due fasi – o momenti – di cui parla qui la teoria di Antero. Ora, se l’intervento dell’intelligenza può essere quasi nullo nell’apparizione di qualsivoglia di quei due sentimenti, non possiamo dire la stessa cosa dell’attività creatrice del poema lirico, come l’autore dei Sonetti ha perfettamente osservato. E il secondo: che mai quei critici ci hanno spiegato cosa significhi per loro la parola

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“intelligenza”: se ce lo spiegassero, potremmo forse replicare che non è questa intelligenza, predicatrice e discorsiva, quella che crea la poesia, ma che anche la matematica, la fisica, la chimica non sono mai create da una tale pseudo-intelligenza, una facoltà di gran lunga inferiore che non ha mai attinto la verità e che un esame superficiale disgraziatamente ha inventato (l’ispirazione creatrice si presenta nelle scienze perfettamente analoga all’ispirazione nelle arti). L’intelligenza non è, nel suo procedere caratteristico, né una facoltà astratta a cui l’aveva ridotta Aristotele, né l’immaginazione spaziale con cui l’ha confusa Bergson (le combinazioni delle idee, nella nostra maniera di vedere, sono più affini a quelle dei suoni che a quelle delle figure, e ciò che a noi pare caratteristico dell’operare dell’intelletto è la creazione di oggetti ogni volta più concreti grazie al progressivo addensarsi delle relazionalità comprensibili). Di certo, queste pseudo-intelligenze [quella di Aristotele o quella di un Bergson] non hanno mai creato una poesia: ma non hanno mai creato matematica o fisica, astronomia o meccanica, né nessun altro dei prodotti della scienza o della tecnica che sono sempre stati considerati come manifestazioni dell’intelletto. Ciò che manca a tali critici cui mi sto rapportando è la conoscenza delle condizioni della creazione genuina nei domini della scienza, della filosofia e della critica, e la commozione sentimentale cui questa creazione si accompagna. Se avessero creato (nel campo industriale o scientifico, nella filosofia o nella critica), avrebbero scoperto attraverso la loro stessa esperienza che la creazione si origina in un atto intellettuale intuitivo (che è emozionale come nell’arte), e che tra l’intuizione e i processi che si è soliti chiamare discorsivi non esiste una differenza di natura e di metodo (come ha fantasticato Bergson), ma soltanto di ampiezza, di concentrazione o di ritmo: l’apprensione intuitiva è infatti un’intelligenza fulminea, che di colpo si trasporta tra due gradi che si trovano distanti. D’altro canto, la creazione artistica non ha bisogno di

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nulla, mentre quella scientifica, diversamente, essendo libera e spontanea come la creazione artistica, deve essere confermata da una rigorosa sperimentazione28». Ci scusiamo per la lunghezza della citazione, ma essa risulta certamente più chiara di qualunque possibile commento. La posizione estetica di Sérgio può essere infatti definita come una forma di intellettualismo. È necessario però comprendere adeguatamente il significato di questa espressione e ciò che essa rappresenta. Innanzitutto, il rifiuto dell’idea che l’arte appartenga al dominio dell’irrazionale, che sia quindi refrattaria all’intelligenza: si tratta di un’idea che conduce all’irrazionalismo estetico e poetico, in particolare secondo quelle modalità con cui l’arte veniva descritta all’epoca in Portogallo da vari critici letterari e storici della letteratura, e soprattutto dai teorici del movimento Presença. Nel 1932 e 1933, Sérgio rivolge, nelle pagine di “Seara Nova”, una feroce critica ai presupposti del “presencismo29”, così come erano stati presentati da João Gaspar Simões, mostrandone gli equivoci, le fragilità e perfino quelle contraddizioni che derivavano dal totale rifiuto del razionalismo e dal rifugio in una specie di misticismo estetico (una confusa approssimazione della poesia e della mistica ispirate alle idee di Henri Brémond), non dimenticando neppure di criticare sia l’idea di un supposto “mistero poetico”, sia la tesi dell’assoluta incompatibilità tra poesia e ragione. Mistero della Poesia: questo è il titolo dell’opera di João Gaspar Simões che accoglieva le tesi che Henri Brémond aveva esposto nelle sue opere Preghiera e Poesia e La Poesia pura. Sérgio riteneva che questi mistici difensori di una poesia “pura”, alie-

28. Ivi, pp. 15-17. 29. [N. d. T.: il termine fa riferimento ad un movimento estetico e letterario portoghese che ha esposto le proprie idee, dal marzo del 1927 fino al 1949, nella rivista “Presença”].

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na a qualsiasi contaminazione con l’intelligenza, ignorassero le linee guida del vero razionalismo. Come scrisse in una risposta ad Adolfo Casais Monteiro, che aveva preso le difese di João Gaspar Simões, per lui «il razionalismo non è […] una dottrina, ma la maniera di vivere con lo spirito30». Il saggista estende la sua critica a coloro che, al pari di Gaspar Simões o dello stesso Bergson, rivelano una completa ignoranza circa la nozione moderna di ragione, considerandola l’antitesi dell’intuizione e ponendola per ciò stesso contro di essa31. Per Sérgio, che in questo frangente si ispira chiaramente all’intellettualismo di Spinoza, «la ragione stessa è anche intuitiva; l’intuizione razionale è l’intuizione che giudica, ordina, valorizza le altre; è l’intuizione costruttrice e architettonica; è l’intuizione comprensiva che considera le altre dal punto di vista della totalità, dell’infinito, del cosmo, dell’uno32». L’idea pregnante di una ragione intuitiva lo conduce a rifiutare la convinzione che lo spirito funzioni come se fosse diviso in compartimenti stagni, corrispondenti alle rispettive e differenti facoltà, alcune (la sensibilità, l’intuizione, il sentimento) responsabili della creazione poetica, altre (la ragione, l’intelletto) della produzione della scienza e della filosofia. A questa convinzione, Sérgio contrappone la sua «tesi della totalità dello spirito in ognuna delle opere che produce33», da cui consegue non solo l’originaria affinità tra tutte le creazioni dello spirito, ma soprattutto l’intervento in ognuna di loro, secondo differenti gradi, di tutte le facoltà. È per questo motivo che non gli pare sostenibile la tesi del “presencista” João Gaspar Simões, il quale, seguendo le tesi di Brémond,

30. A. Sérgio, “Seara Nova”, n. 304 (1932), p. 244. 31. Cfr. A. Sérgio, “Seara Nova”, n. 311 (1932), p. 357 e p. 361. 32. A. Sérgio, “Seara Nova”, n. 357 (1933), p. 332. 33. A. Sérgio, “Seara Nova”, n. 311 (1932), p. 357.

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esacerbava l’incompatibilità tra l’attività spirituale poetica e le operazioni dell’intelletto. Sérgio ha dedicato due saggi34 all’esplicita discussione delle tesi di Brémond, cercando però al tempo stesso di analizzare le tesi che João Gaspar Simões aveva già sviluppato nella sua opera Il Mistero della Poesia. Sérgio rifiuta in particolare la poetica irrazionalista – l’idea di un mistero poetico ineffabile e refrattario alla ragione, l’invocazione di una misteriosa esperienza poetica germogliata come una forza irrazionale e istintiva dalla natura, di un Io profondo inaccessibile per via razionale, l’idea di una “poesia pura”, considerata non come un sentimento poetico elaborato dalla ragione, nel senso attribuitole da Antero de Quental, ma con un differente significato, ossia come una poesia estranea alla dimensione intellettuale; il saggista portoghese rifiuta, infine, la confusa approssimazione tra l’esperienza poetica e l’esperienza mistica (da qui il titolo dei saggi Ragione e poesia, Ragione e mistica). Gaspar Simões gli risponderà, anch’egli nelle pagine di “Seara Nova”, mettendo in risalto l’incapacità sergiana di comprendere veramente l’essenza del lirismo poetico, e di occuparsi, nella sua concezione della poesia, soltanto di alcuni specifici poeti, ovverosia i poeti-filosofi, lasciando da parte la maggior parte di quei grandi poeti che non avevano bisogno di essere filosofi, ed erano perciò più vicini all’ideale di una “poesia pura”. Sérgio preciserà la sua posizione in vari articoli pubblicati nella rivista che dirigeva. In questa polemica fu coinvolto, prendendo la difesa di Simões, lo stesso “presencista” Adolfo Casais Monteiro, anch’egli guadagnandosi una precisa risposta da parte di Sérgio. Pur avendo senza dubbio attinto nei suoi lavori ad alcuni temi centrali dell’estetica “presencista”,

34. Cfr. A. Sérgio, “Seara Nova”, n. 286 e n. 189 (1932), pp. 348 e pp. 5-10 (in seguito incorporate nel terzo volume dei suoi Saggi).

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Sérgio ha sempre fatto però molta attenzione a non coinvolgere nelle sue osservazioni e nelle sue critiche la figura centrale del movimento, José Régio, da lui considerato un vero classico come poeta, e come critico una figura in grado di comprendere la vera funzione e la concreta responsabilità della critica letteraria e artistica, non confondendola con sentimentali indignazioni o vani esercizi di lirismo. Negli anni seguenti (1934-1935), le pagine di “Seara Nova”35 ospitarono un’altra controversia fra Sérgio e José Marinho, da cui è possibile trarre alcune interessanti indicazioni sul tema di cui ci stiamo occupando, soprattutto per comprendere la poetica dell’intelligenza sergiana e il peculiare piacere che dovrebbe esserle associato. Reagendo al tono generale delle osservazioni di Marinho, che lo accusa di essere un intellettualista e un razionalista, Sérgio, esponendo la sua idea di intelligenza libera e viva, capace di supportare l’ironia, e non ignara del piacere e delle emozioni della creazione o della visione intellettuale, scrive a sua difesa le seguenti parole: «L’attività dell’intelligenza, a mio parere, e nel piccolo ambito in cui mi posso esercitare, significa realmente una grande gioia […] Pertanto, con un semplice gioco di amplificazioni, arrivo a fantasticare che un’intelligenza vasta, capace, onnipotente, trionfatrice, conceda ai geni un premio affettivo di cui non mi è possibile immaginare un’idea minore […] Chi ha letto Spinoza, ad esempio, sente un eco, un profumo della sua beatitudine speculativa36». Nella continuazione, Sérgio evoca un’esperienza personale: «Quando ero ancora un ragazzino di scuola, ho vissuto un’esperienza che non mi sono più dimenticato, e che mi ha fatto seguire per la prima volta […] quello che potrebbe

35. Cfr. “Seara Nova”, n. 290 (1932), pp, 19-22. 36. A. Braz Teixeira, A controvérsia entre António Sérgio e José Marinho, “Análise”, Vol. II, n. 1 (1985), p. 330.

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essere l’amore intellettuale per la vita affettiva dei maggiori spiriti. Mi è capitato di studiare, non ricordo in quale libro, l’esposizione della teoria delle equazioni. Alla fine, ho avuto una specie di visione di insieme del tutto armonioso che avevo appena letto. Si direbbe che tutto si concentrava ora – come se avesse attraversato una lente convessa – in un fuoco luminoso che sentivo in me (ho sempre visto la scienza e la filosofia con l’attitudine di un artista e di un gourmet). Era un sentimento di musica perfetta, di chiara bellezza; era la grazia aurorale di una luce piena. E ciò affiorava, precisamente, dalla radice di un semplice e “pedestre” esercizio di concettualizzare e giudicare, senza nulla di mistico e di affettivo, senza alcun vero e proprio amore intellettuale. Ma il concettualizzare e il giudicare di un Kant, di un Platone, di un Descartes, di un Newton, saranno sempre alla fine questa cosa “pedestre” che sembra a noi semplici mortali?37». Pur senza riuscire a convincere i suoi critici, Sérgio poteva comunque affermare con ragione: «Se c’è una creatura che apprezza i valori intellettuali, quella sono io; se c’è chi assume nella propria scienza e nella filosofia una certa mentalità estetica, sono io38». Al pari di Poincaré, il saggista portoghese comprende alla perfezione che è in qualità di artisti che dobbiamo coltivare non soltanto la filosofia, ma perfino la matematica39. Colta nella sua pregnanza e organicità, la nozione sergiana di intelligenza resiste ad un’ulteriore specificazione in varie facoltà, poiché agisce come un tutt’uno, sia che intuisca, inventi o crei, sia che giudichi e stabilisca relazioni tra idee o realtà.

37. Ivi, pp. 300-301. 38. A. Sérgio, Prefácio à 2a ed. de Ensaios, Livraria Sá da Costa Editora, Lisboa, Vol. I, p. 12. 39. A. Sérgio, Ensaios, Vol. IV (1934), p. 221.

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Sérgio rifiuta, come abbiamo visto, la dottrina dei “compartimenti stagni”, e raramente cede alla tentazione di attribuire funzioni specifiche ad una facoltà particolare. Tuttavia, per quanto concerne l’argomento che ci interessa, è di particolare importanza il modo con cui concepiva quella facoltà a cui generalmente si attribuiscono le funzioni inventive o creative: l’immaginazione o la fantasia40. Ora, Sérgio introduce curiosamente una distinzione tra questi due termini, assunti spesso come sinonimi, facendoli designare differenti facoltà, e modificando al tempo stesso il significato più moderno che questi termini avevano iniziato ad assumere: nella filosofia kantiana, infatti, si attribuiva all’immaginazione non soltanto la funzione di riprodurre immagini, ma soprattutto la funzione trascendentale di mediare tra la sensibilità e l’intelletto e tra l’immaginazione e la ragione, in relazione alla produzione e creazione di immagini, schemi, simboli e idee estetiche, legando così la molteplicità dispersa e caotica in sintesi unificanti, associando e relazionando tra sé realtà eterogenee mediante la scoperta e la manifestazione delle loro affinità occulte41.

40. Per un punto della situazione, cfr. la prefazione di M. Fattori, Phantasia vel Imaginatio?, in M. Fattori – M. Bianchi (a c. di), Phantasia – Imaginatio, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1988, pp. XI-XXX. Si veda inoltre, nello stesso volume, il contributo di J. Starobinski, En guise de conclusion, in Ivi, pp. 565-585; riportiamo l’ultimo paragrafo del saggio: «Disons que, malgré son relatif déclin par rapport à la fréquence de ses emplois au début du XIXe siècle, imagination reste en français un “philosophème”; fantaisie ne l’est pas, au point que le langage même de la critique littéraire […] n’en fait plus grande usage…». 41. A questo proposito, cfr. L. Ribeiro dos Santos, A razão sensível. Reflexão acerca do estatuto da sensibilidade no pensamento kantiano, in Pensar a Cultura Portuguesa, Homenagem a Francisco da Gama Caeiro, Departamento de Filosofia da Faculdade de Letras da Universidade de Lisboa, Edições Colibri, Lisboa 1993, pp. 402-426, ora in Id., A razão sensível. Estudos Kantianos, Edições Colibri, Lisboa 1994.

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In un saggio dedicato ad Eça de Queirós, intitolato Note sull’immaginazione, la fantasia e il problema psicologico-morale nell’opera novellistica di Queirós, Sérgio conclude sostenendo che l’autore de I Maya era «ricchissimo di immaginazione, ma molto meno di fantasia42», per poi subito precisare: «Designo con il termine di immaginazione (o inventiva figuratrice) la facoltà di creare e combinare immagini, nel dominio del sensibile; e riservo il vocabolo di fantasia (o inventiva relazionatrice) per il potere di intuire sviluppi psichici, che distingue i romanzieri veramente psicologi, o per il dono di inventare relazione comprensibili (delle vere idee, o forme platoniche), che caratterizza la mentalità dei creatori scientifici e dei veri filosofi43». A dispetto della singolarità dell’uso sergiano dei due termini – utilizzo che, forse perché eccessivamente vicino al «significato cartesiano del termine “immaginazione”44», manifesta la totale mancanza di attenzione per l’intenso trattamento filosofico che questa facoltà aveva ricevuto a partire dalla fine del XVIII secolo –, è necessario riconoscere, tuttavia, il ruolo attribuito dal saggista a quella che lui chiama fantasia, e non solamente nelle opere letterarie o artistiche, ma anche nella scienza e nella stessa filosofia. A questo proposito, Sérgio si trova in consonanza – se non per il nome, almeno per la cosa in sé – con i filosofi dell’idealismo tedesco (Kant, Schiller, Fichte…). Furono proprio loro, infatti, a porre per la prima volta in assoluta evidenza il decisivo ruolo demiurgico dell’immaginazione nella poetica dello spirito45. 42. A. Sérgio, Ensaios, Vol. VI, p. 55. 43. Ibid. 44. A. Sérgio, Ensaios, Vol. V, p. 91. 45. Cfr. B. Kuster, Einbildungskraft und Phantasie im Deutschen Idealismus, in M. Fattori – M. Bianchi (a c. di), Phantasia – Imaginatio (1988), pp. 447-462; cfr. inoltre N. Hinske, Die Rolle der Einbildungskraft in Kants

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4. L’ideale estetico di Sérgio: la nozione sergiana di classico e il classicismo sergiano. La critica del Barocco e del Romanticismo Dichiaratamente classicista, Sérgio esplicita la sua nozione di classico e di classicismo sia in opposizione al barocco o barocchismo, sia in opposizione al romantico o romanticismo. Tanto il barocchismo quanto il romanticismo, infatti, sono in aperto contrasto con l’attitudine classica, seppur in modo differente. Il primo rappresenta l’esuberanza della sensibilità e della fantasia, mentre il secondo rivendica l’assoluto del sentimento e della soggettività individuale. Uno è tutto dominato dall’esteriorità dello spettacolo offerto ai sensi, l’altro dall’intimità del soggetto che si pone come punto di vista assoluto con cui riflette e media l’intera realtà. Entrambi, tuttavia, si rivelano ugualmente parziali e privi di oggettività e realtà, cercando di sopperire alle loro mancanze attraverso lussureggianti messe in scena di semplici apparenze o con illusioni e sogni deliranti. È ormai noto quanto l’idea che ci si è formati di queste categorie estetiche – barocco, classico, romantico – sia stata molto volubile nei vari e differenti periodi storici. Nell’epoca di Sérgio, ad esempio, già si assisteva ad una riabilitazione del barocco, e non soltanto come categoria epocale ma anche come tipo estetico (si pensi agli studi di Eugenio d’Ors) in possesso di un carattere universale e trans-epocale. All’apparenza estraneo a questo movimento di riabilitazione, Sérgio intende il barocco come una perversione della fantasia nel dominio dell’arte e della cultura, come un’«arte gesuita e castigliana» la cui manifestazione ed espansione corrispondono all’influenza assunta dalla cultura gesuitica nei paesi cattolici dell’Europa e dell’America. Leggiamolo: «Il barocco è il contrario della

Logik Vorlesungen, in Ivi, pp. 415-446; J. Starobinski, En guise de conclusion, in Ivi, pp. 565-585

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tradizione classica. La maniera semplice e chiara dei processi classici si insinua discreto e lentamente, trovando l’intelligenza e l’anima intera nella grazia incrollabile di una bellezza unica; ciò a cui il barocco mira, al contrario, è l’esplosione dello stupore; è il dono di sorprendere e di sbalordire lo spirito a forza di decorare e ricercare artificiosamente. Per tale ragione, vi sono momenti in cui la bellezza barocca ha il suo che di incerto e stressante [e pesante] per quell’entusiasta che si innamora di lei46». L’artista barocco ricerca la meraviglia, provoca la sorpresa, facendo scoppiare di fronti agli occhi dell’uditorio artificiali fuochi d’artificio fatti di parole o di immagini. Sebbene Sérgio consideri il barocco come una manifestazione estranea al genio lusitano, non può però non ritrovarlo nel Padre António Vieira, su cui formula un giudizio tendenzialmente negativo. Parlando della prosa del gesuita seicentista, scrive: «A volte, sconvolge i nervi del suo [stordito] uditorio con la magnifica ricchezza della fantasia plastica; sono serie di quadri cinematografici, che divertono e stordiscono come uno spettacolo, e non come una catena di argomentazioni. Per richiamare i fedeli al pentimento, utilizza poco i processi propriamente morali: né idealismo, né lirismo amoroso, né unzione del mistero, né rapimento mistico. Vieira li lascia da parte per un’azione fisiologica, ricorrendo ad un bombardamento di rappresentazioni sensibili che soggiogano per la paura di un futuro terribile le anime sgualcite dei peccatori. È un fragore di trombe in una battaglia […] I sermoni barocchi del prosatore seicentista non so se si distacchino dal nostro genio lusitano [a patto

46. A. Sérgio, A propósito de dois jesuítas, in Id., Ensaios, Vol. V, pp. 88-89. La concezione sergiana del barocco è in linea con quella esposta da B. Croce nella sua Storia dell’età Barocca in Italia (1925). Cfr., a questo proposito, L. Anceschi, L’idea del barocco. Studi su un problema estetico, Nuova Alfa Editoriale, Bologna 1984, pp. 20 e sg.

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che esista]; sono opere prime, tuttavia, di un’arte gesuitica e castigliana, non facendo parte della grande tradizione portoghese47». Il barocchismo è il regno dell’immagine, dove a dominare sono l’immaginazione e la fantasia. La legge di questo regno è la dismisura, l’abuso, l’eccesso, la profusione. Seguendo una proposta di Menéndez y Pelayo, Sérgio distingue nel barocchismo due tendenze psicologiche – il cultismo e il concettismo – che, secondo il dominio e l’abuso della fantasia, si esercitano in particolare sulla forma, le immagini, la rappresentazione sensibile, o sui contenuti e le relazioni, ricercando in questo caso le relazioni fittizie e le approssimazioni arbitrarie tra gli esseri o tra le idee, non consentite dal pensiero logico e dall’intelligenza scientifica, ma assolutamente legittime per l’«acutezza di ingegno» dell’artista barocco48. Di conseguenza, se la tendenza “cultista” è un abuso o un artificio della fantasia nel campo psicologico della rappresentazione sensibile, la tendenza “concettista” costituisce un eccesso o la raffinata ricerca della fantasia nel dominio della comprensione e del pensare formale, ma sovvertendo i suoi principi e le sue regole in virtù dell’intromissione delle leggi dell’immaginazione, una facoltà che lavora invocando principi di analogia e verosimiglianza. Vi è spazio così, anche nel barocchismo, per i sensualisti e gli intellettualisti. In fondo, gli uni e gli altri guardano allo stesso obiettivo: meravigliare, sorprendere, terrorizzare, provocare stupore, benché cerchino di realizzare i loro propositi attraverso mezzi differenti; non è raro, del resto, ritrovare in uno stesso scrittore l’incrocio di entrambe le strategie, visto che anche qui lo spirito non opera attraverso semplice compartimenti stagni.

47. Ibid. 48. Cfr. Ivi, pp. 90-91.

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Per quanto riguarda il romanticismo, Sérgio fornisce anche di questa corrente estetica un ritratto negativo, quasi prolungando la stessa critica che gli intellettuali della Geração de 70 (Eça de Queirós, Antero de Quental) avevano già svolto. Il romantico è dominato dal sentimento, e questo dominio è il segno di un’infermità, di uno squilibrio psichico. Così scrive: «Mi sembra che si possa definire il romantico assoluto un uomo sconcertato e di mentalità incompleta, di imperfette doti di comprensione, un’anima in balia di impeti sconosciuti, femminea ed isterica, ed incapace di concepire, per ciò stesso, che ci possano essere regole estetiche che non abbiano il significato di limitazioni, che si riesca ad unire l’emozione poetica al senso dell’armonia e dell’insieme, e la fantasticheria alla capacità critica; che io possa, in somma, organizzare il “furore” senza ucciderlo. Rimane soddisfatta la vanità dei poveri quando chiamano ricchezza la loro stessa indigenza: così accade con l’emozione priva di controllo, incapace di un’architettonica spirituale49». Accusato già dai suoi contemporanei di essere un uomo freddo e intellettualista, Sérgio non si riconosceva certo in questo ritratto. Al contrario, non solo difendeva il ruolo imprescindibile del sentimento nella vita psichica e spirituale, ma si riteneva egli stesso un romantico, capace però di riconoscere il valore della disciplina e dell’ordine della ragione. Ecco le sue parole: «I romantici portoghesi ignorano che il sentimento è la molla dell’attività, e che un compito tenace di idealista, un’esistenza di apostolo instancabile, una vita di realizzazioni e di combattimenti – una vita “di sembratore”, infine – presuppone un’anima di appassionato, una fornace accesa di sentimento. Questi romantici mi ricordano chi vedesse passare una locomotiva – rapidissima, come un fulmine – sopra i bina-

49. A. Sérgio, Ensaios, Vol. IV (1934), p. 177.

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ri […], e concludesse che nella fornace non c’era fuoco, e che nella sua caldaia non c’era vapore. Fredda, la locomotiva? No: un incendio sottomesso all’intelligenza, una fiammata…disciplinata. Perché ci sono fiammate disciplinate, e anime fatte di calore e di luce. Ecco ciò che non è in grado di percepire il romantico50». Se il barocco e il romantico si rivelano parziali e squilibrati, il classico si afferma invece come la forma di mentalità armoniosa e multipla, architettonica, instauratrice dell’unità e della bellezza dell’insieme51. Sérgio si dichiara un incondizionato adepto della forma classica. Ma che cosa intende egli realmente per classico, per classicismo, per forma classica? Possiamo trovare una risposta in molti passi delle sue polemiche e dei suoi saggi, sebbene non siano tutti accordati sullo stesso tono. Alcuni, infatti, sembrano denunciare un certo formalismo razionalista; altri, al contrario, pur rivelandosi classici nella forma, si muovono all’interno di un contesto romantico, nel senso citato in precedenza. Un esempio dei primi, tratto dal primo volume dei suoi Saggi, sarà la base della replica di João Gaspar Simões52: «È l’opera classica quella che viene penetrata di razionalismo; dove la corporizzazione del sentimento artistico avviene sullo scheletro dell’universalità che l’intelligenza scopre nell’oggetto, e non sul fuggitivo e fantasmagorico dei sogni soggettivi; dove le descrizioni del mondo fisico sono espressioni del pensiero umano; dove le differenti parti si collegano secondo una gerarchia di idee solide, sorvegliate una ad una dalla ragione pratica e dalla realtà53».

50. A. Sérgio, “Seara Nova”, n. 357 (1933), p. 332. 51. Cfr. A. Sérgio, Ensaios, Vol. IV (1934), p. 178. 52. Cfr. J. Gaspar Simões, A propósito de uma nota sobre Poesia, do Sr. António Sérgio, “Seara Nova”, n. 290 (1932), pp. 19-22. 53. A. Sérgio, Ensaios, Vol. I, p. 39.

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Forse quella riportata non è ancora la più felice delle definizioni sergiane. Si legga allora quest’altra dichiarazione in cui il saggista gioca con la distinzione di José Régio tra verità umana e verità artistica, commentando la tesi dello stesso Régio («la verità umana del poeta può non diventare verità artistica»): «Un’opera classica, per me, è quella in cui la verità umana attinge forme di verità artistica, quella che ha trovato un’espressione “naturale e giusta”, e che, non pensando di essere o non essere moderna, attinge l’eterno che è di ieri-oggi-domani; e chiamo disciplina classica la disciplina artistica che ci porta lì54». Ad ogni modo, vi è un passo ancora più eloquente in cui Sérgio espone la sua piena comprensione di ciò che rappresenta per lui il classicismo. In fondo, un simile classicismo non si oppone al romanticismo ben inteso, ma rappresenta innanzitutto l’elaborazione del caos del sentimento fatta dalla ragione. I due elementi, il sentimento e la ragione, sono, di conseguenza, necessari. Tutto il processo creativo consiste dunque nel far uscire l’ordine dal caos, la luce dall’oscurità, l’intelligenza dal sentimento, la ragione dalla passione, senza tuttavia permettere che il risultato appaia qualcosa di freddo, consunto, morto. Ecco le parole di Sérgio: «I romantici della nostra terra confondono l’ordine del classicismo con l’ordine dell’accademismo, ed è in questa immensa confusione di idee che si fondano tutti i loro argomenti. L’accademismo, però, rappresenta la caricatura del classicismo. L’ordine dell’accademismo è una ricetta preliminare, un ordine di convenzione e una fase iniziale, un ordine statico da cui si può cominciare, anteriore all’opera, un ordine senza contenuto, da imparare a memoria. L’ordine del classico, al contrario, è propriamente un’ordinazione, ossia un ordine dinamico e creatore, che viene dopo; in altre parole, è un disordine superato, disordine in

54. A. Sérgio, “Seara Nova”, n. 311 (1932), p. 360.

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cui l’intelligenza è riuscita ad entrare, un impeto di passione che si è organizzato, trasformandosi in un “furore” molto più robusto, e per ciò stesso di maggior effetto per chi lo contempli allo stesso tempo con chiara intelligenza e sensibilità estetica. L’ordine del classico è tutto interiore: è nato dal disordine, e nel proprio disordine; è un’intelligenza intima sorta dal “furore”, e nel proprio “furore”. – Ma organizzare la passione in fuoco (obietterà il romantico) è impossibile: organizzato, il “furore” si perde, si raffredda, muore. – Tu dici questo, amico romantico, perché ignori ciò che è un grande artista, un artista completo e superiore. Un artista completo (per definizione) è un uomo che si distingue dagli altri uomini perché capace di un atto che ti appare impossibile: organizzare la passione senza perderla. Fare arte suprema (o arte classica) significa organizzare la passione senza perderla, trarre la luce dal colore senza far raffreddare il fuoco55». Il classico e il classicismo non rappresentano per Sérgio soltanto un concetto o un ideale estetico: sono innanzitutto una mentalità e uno stile di vita, come possiamo leggere in una sua risposta a João Gaspar Simões: «La disciplina classica, per me, non è una ricetta di cucina poetica; non è una formula di composizione letteraria. La disciplina classica […] è un fattore psicologico e sociale». Nello stesso luogo, Sérgio fa riferimento ad un passaggio del suo secondo volume di Saggi (pp. 176-177) dove chiarifica la sua comprensione del classicismo come «formula di vita», come «armonia dell’anima», come «urbanità dello spirito», come «finezza del tratto», come un «impeto vitale». Diamogli ancora una volta la parola: «L’ideale classico è l’ideale dell’armonia, l’ideale dell’ordinazione e della disciplina delle forze: subito, presuppone le forze ciò che impone l’ordine. Per prima cosa le forze; l’ordine viene

55. A. Sérgio, “Seara Nova”, n. 357 (1933), p. 332.

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dopo. Solo l’ordine è prezioso – quando è l’ordine nella forza libera. Sente il prezzo della disciplina classica soltanto chi ha avuto dei disordini dentro di sé, e la creatura più disciplinata è quella che ha disciplinato le maggiori passioni. Questa disciplina è tanto più bella – armoniosa e classica – quanto più vive e più vigorose, più naturalmente tumultuose sono le forze spirituali che è riuscito a vincere». Si tenga presente inoltre il seguente passaggio, tratto dal primo volume dei suoi Saggi: «Il sentimento e la logica, l’ispirazione e il buon senso, la sincerità e l’armonia, il Furore e l’Ordine, sono le due qualità che, riunite, compongono l’opera superiore». E così prosegue, commentando se stesso: «Il classico, a mio parere, è quindi la disciplina di un “romanticismo” precedente, di un furore anteriore56». Benché Sérgio abbia fornito varie spiegazioni di questa visione romantico-classica, non fu mai capace di farsi ascoltare e capire. Citiamo un ultimo esempio tratto dai suoi Saggi: «Il classico […] non affoga o distrugge gli impulsi romantici: cerca di completarli in un’armonia più alta, dà loro una struttura e unità interna, frenando gli impeti sotto un ideale superiore, cercando di conferire loro in questo modo una maggiore densità di espressione artistica. La strutturazione vitale, la pianificazione vitale, è ancora più vitale dell’élan vitale57». Molte di queste affermazioni devono essere intese, innanzitutto, nel loro contesto reattivo nei confronti del culto portoghese dello spontaneismo, contro la pigrizia del talento e la facile tendenza alla celebrazione di piccoli slanci di ordinario sentimento, quasi fossero grandi opere d’arte. Al tempo stesso, però, Sérgio non è meno critico nei riguardi di una certa cultura “dell’arte per l’arte”, contro una certa concezione 56. A. Sérgio, “Seara Nova”, n. 296 (1932), p. 119. 57. A. Sérgio, Ensaios, Vol. IV (1934), p. 178.

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dell’arte libera e disinteressata, ben personificata all’epoca da alcuni “presencisti”. Il saggista portoghese difende invece un’arte in possesso di una funzione sociale e al servizio di un ideale umano, un’arte socialmente compromessa: e come Fichte rispondeva al programma schilleriano di trasformare le relazioni politiche e etiche mediante la libertà estetica, ricordandogli che la libertà deve essere prima di tutto conquistata e garantita effettivamente sul piano del Diritto58, così Sérgio ricorda ai difensori dell’arte emancipata e libera da compromessi sociali che essi possono rivendicare questo statuto di libertà solo in una società che glielo concede. Operando una comparazione letteraria fra Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister di Goethe, il Candide di Voltaire e L’illustre casa di Ramires di Eça de Queirós, Sérgio manifesta la sua preferenza per l’opera di Voltaire, essendo quella in cui l’arte (o il romanzo) e l’artista che la produce si rivelano compromessi con la verità e la giustizia; quest’arte, inoltre, è animata da una «carità rivoluzionaria», da un «ardente e vibrante sentimento eroico» che spinge l’autore a difendere le vittime, a denunciare le ingiustizie, a ridicolizzare i preconcetti, a rovesciare le tirannie. Al classicismo di un Goethe, invece, precisa Sérgio, manca la «generosità eroica» di Voltaire, l’altruismo ardente e la tenerezza di una santità laica. Il suo utopismo idilliaco si rivela così imborghesito e limitato, rivelando la prudenza conservatrice del Consigliere Goethe59.

58. Cfr. L. Ribeiro dos Santos, O espírito da letra: sobre o conflito entre Fichte e Schiller a respeito da linguagem da flosofia, in F. Gil – V. E. López Dominguez – L. Couto Soares (org.), Fichte: Crença, Imaginação e Temporalidade, Campo das Letras, Porto 2002, p. 53, ora in L. Ribeiro dos Santos, O Espírito da Letra. Ensaios de Hermenêutica da Modernidade (2007), p. 291. 59. Cfr. A. Sérgio, Ensaios, Vol. IV (1934), p. 188.

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La conclusione sergiana del confronto fra le tre opere citate può restituirci un’idea non soltanto del tenore della sua critica letteraria, ma anche dell’ideale umano che l’accompagna: «In Goethe non risplende un’energia di trasformazione sociale: ma lo anima un desiderio di saggezza interiore; in Queirós, da un lato, l’autocritica a cui sottomette Gonçalo manifesta una portata sociale evidente: la soluzione che risulta da questa critica non rivela tuttavia un significato sociale e altruista, e non include nemmeno un ideale di consolidazione interna, di una virile compostezza superiore dello spirito […] Né il Wilhelm Meister né L’Illustre Casa ci indicano una soluzione che mi appaia integra, per la triplice struttura di un ideale umano: quella che unisce all’esercizio di un’attività tecnica la sottomissione ad un ideale di sapienza interiore; e, al di là di quest’ultima, l’attitudine rivoluzionaria del vero apostolo. Ora questa attitudine, se non ci sbagliamo, pur non trovandosi chiaramente nella conclusione del Candide, affiora a volte nel corso del romanzo, ed è la molla magnanima di tutta l’azione di Voltaire60». «Delle tre attitudini», conclude Sérgio, «quella di maggior valore per le coscienze di oggi […] è l’idealismo non conformista dell’autore del Candide61». Preferendo l’idealista Voltaire al classicista Goethe e al realista Eça, Sérgio rivela la sua chiara predilezione per quel romanticismo sociale che aveva ispirato allo stesso modo anche Antero de Quental. È tempo di terminare la nostra analisi, rivelatasi più articolata e fruttifera di quanto non potessimo all’inizio immaginare. Sul piano delle idee estetiche, come in molti altri domini, abbiamo sottolineato nella riflessione e nella produzione saggistica di Sérgio la sua dimensione pedagogica e la sua volontà di intervenire sul piano sociale e culturale, coll’obiettivo sia di

60. Ivi, p. 186. 61. Ivi, p. 189.

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richiamare la critica letteraria e artistica al terreno delle idee, portarla a riflettere, sia di disciplinare i critici, spingendoli a prendere coscienza della loro importanza sociale e culturale. In effetti, senza critici lucidi e severi, senza un terreno culturale impegnativo ed elevato, gli stessi artisti e creatori di talento finiranno per veder frustate le loro reali capacità, essendo celebrati e consacrati prima di aver realmente rivelato quello di cui sarebbero veramente capaci, finendo così per volare come oche, quando avrebbero potuto invece volare come aquile. Il programma critico sergiano costituiva il cuore del suo stesso ideale letterario, e si traduceva nel desiderio di creare una cultura intellettuale autentica basata sullo sviluppo di una vera e propria democrazia formata dalla creazione dei migliori spiriti e dalla cultura mentale degli individui appartenenti ad un’elite62. La critica letteraria ed estetica è allora per Sérgio un modo per comprendere e praticare l’amore generoso e pedagogico63. Sérgio lo descrisse proprio come lo praticò: «Colui che ama con generosità aiuterà l’altro ad edificare in alto – ben rivolto verso il sole – le solide fondamenta del suo stesso io. La personalità non si costruisce da fuori, ricevendo nella culla il metallo incandescente, come si fa con i lavori di fusione: ma i grandi cambiamenti incominciano da dentro, come – facci caso – l’argento modellato in un vassoio artistico. Incita, allora, l’anima degli altri a vibrare di tali colpi: e se sarà veramente di metallo prezioso, farà di se stessa un’opera d’arte64».

62. Cfr. A. Sérgio, “Seara Nova”, n. 357 (1933), p. 328. 63. Cfr. Ivi, p. 329. 64. Ibid.

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L’arte come ossessione o l’umanesimo estetico di Vergílio Ferreira

Il mito dell’arte […] fa appello alla grandezza dell’uomo, senza ignorare quanto questa grandezza abbia qualcosa di disperato. Vergílio Ferreira, Interrogação ao Destino, Malraux [1963], Bertrand, Venda Nova 1998, p. 15

La tesi che vogliamo esporre in questo saggio è la seguente: se il pensiero di Vergílio Ferreira1 può essere a ragione

1. Vergílio Ferreira (1916-1996) è stato uno degli scrittori e intellettuali che più hanno caratterizzato la vita culturale portoghese nella seconda metà del XX secolo, grazie soprattutto alla sua vasta opera narrativa (romanzo, racconto, diario) e saggistica. In ambito narrativo si avvicinò all’ambiente del neo-realismo, ma si servì ben presto di una scrittura molto personale, densamente caratterizzata dalla tonalità esistenziale di un umanesimo tragico, che si muove negli ambienti dell’esistenzialismo e della fenomenologia francese (Sartre, Merleau-Ponty, Michel Henry), sotto la persistente interrogazione del mistero dell’esistenza e della ricerca di un senso per l’uomo, in un universo senza più alcun significato. La preoccupazione esistenziale e la tonalità tragica, in cui è riconoscibile la libera modulazione di alcuni temi nietzschiani e heideggeriani, caratterizzano anche la sua densa opera saggistica, dove predominano i temi antropologici e estetici, fra cui spiccano: Do Mundo Original (1957), Da Fenomenologia a Sartre (1963), André Malraux – Interrogação ao Destino (1963), Espaço do Invisível (IV Voll., 1965-1987), Invocação ao Meu Corpo (1969), Pensar (1992). Cfr. H. Godinho, O universo imaginário de Vergílio Ferreira, Lisboa 1985; E. Lourenço, O Canto e o Signo. Existência e Literatura, Editorial Preseça, Lisboa 1993.

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considerato una forma di umanesimo, questo umanesimo è caratterizzato da un chiarissimo tratto estetico. Lo scrittore e saggista portoghese, infatti, vive e riconosce l’arte come una forma qualificata di rivelazione e di espressione dell’umano, in un’accezione soggettiva-oggettiva, considerando l’esperienza estetica, in quanto esperienza della sensibilità e del sentimento, come la più originaria e quella che meglio caratterizza l’essenza dell’essere umano. Senza voler esaurire l’analisi di un tema che è, senza dubbio, uno dei più costanti e densi della meditazione dello scrittore, ci concentreremo solamente sui seguenti argomenti: 1) il luogo dell’arte nella saggistica vergiliana; 2) il significato umano e metafisico dell’arte; 3) il tema della “morte dell’arte”; 4) la relazione tra arte e filosofia. 1. L’arte è, secondo Vergílio Ferreira, «la grande scoperta» del suo tempo, «la grande ossessione del XX secolo2». Si potrebbe ugualmente sostenere, ad ogni modo, e non senza ragione, che l’arte è stata anche la grande scoperta e la grande ossessione della vita, dell’opera e perfino della meditazione saggistica dello scrittore. Come egli stesso riconosce, l’arte non gli si è imposta come un mero ornamento in un’esistenza prosaica, come un rifugio ed una consolazione per qualcosa di mancante, ma come ciò che colloca l’essere umano nella «dimensione inattaccabile della verità dell’essere». L’arte si impone allora come «presenza continua, centro evidente di un ordinamento culturale, valore dei valori, una realizzazione di vita, non solo per l’artista ma per tutti coloro che si fondano in autenticità e nobiltà. Per essere vivo se è artista. Per essere vivo se ama l’arte3».

2. V. Ferreira, Espaço do Invisível (1965), Bertrand, Venda Nova 1990 (3a ed.), Vol. I, p. 140. 3. Ivi, pp. 96-97.

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L’arte e le tematiche estetiche sono effettivamente uno dei soggetti centrali della saggistica vergiliana, in una rivisitazione quasi monotona degli stessi argomenti, in una variazione reiterata e quasi ostinata degli stessi motivi, ripetuti come se non fossero mai espressi in maniera adeguata. Tale monotonia, però, non deve essere interpretata come il segnale di una mancanza, bensì come il tratto genuino di un carattere. In un frammento di Pensare, lo scrittore fa notare che la monotonia è il marchio dell’autenticità e che, in questo senso, ogni artista «è “monotono”, nella misura in cui firma con il suo “stile” la propria opera e la propria vita, e imprime la sua identità in tutto ciò che crea4». È comunque legittimo porre la questione relativa ad un’evoluzione del pensiero estetico di Vergílio Ferreira. Vi è stato infatti un sviluppo nella sua riflessione, ed è lo stesso autore a riconoscerlo, passando da una prima fase di ispirazione neo-realista ad uno stadio in cui le tematiche esistenziali incominciano ad occupare uno spazio sempre più ampio nella sua opera narrativa e nella sua produzione saggistica. Il suo pensiero, quindi, sarà sempre più caratterizzato da tematiche ed argomenti metafisici, in particolare alla luce della sua ricezione dell’esistenzialismo sartriano e della scuola fenomenologica francese (Maurice Merleau-Ponty e Michel Henry su tutti), senza dimenticare certi tratti del pensiero heideggeriano e nietzschiano. Tuttavia, a partire dalla metà degli anni 50’, se esiste un’evoluzione nel pensiero vergiliano, la si può trovare in un senso di approfondimento e di esplicitazione, piuttosto che in uno spostamento di prospettiva o nell’abbandono delle intuizioni e delle preoccupazioni precedenti. Possiamo dunque seguire la riflessione di Vergílio Ferreira sull’arte dalla metà degli anni 50’, nelle sue polemiche con il 4. V. Ferreira, Pensar, Bertrand, Venda Nova 1992, fram. 615.

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neo-realismo e con tutte le forme di strumentalizzazione o subordinazione dell’arte all’ortodossia, alla società, alla morale, alla politica, alla scienza e alla stessa filosofia. A prima vista, Ferreira sembra rimettere a suo modo in gioco temi caratteristici del pensiero estetico dei “presencistas”, in particolare di José Régio, il quale, negli anni 20’ e 30’, aveva difeso, in contrapposizione alle forme di intellettualismo estetico, l’irriducibilità dell’arte, la sua autonomia, il suo mistero, sottolineandone gli aspetti di autenticità, considerando l’arte come un’esperienza emotiva ed un’espressione dell’individualità creatrice dell’artista. Nei primi saggi di Vergílio Ferreira dedicati all’arte possiamo trovare questi tratti caratteristici. Simili argomenti, tuttavia, assumono nell’autore della Mattina Sommersa un profondo accento drammatico-esistenziale: ogni volta, infatti, emerge sempre più chiaramente un questionare che non può essere considerato meramente estetico, essendo caratterizzato piuttosto da un ordine metafisico. Possiamo così seguire la meditazione vergiliana sull’arte, pressoché inalterata nei suoi topici essenziali e nelle sue formulazioni, almeno dai saggi degli anni 50’, riuniti nel volume Del Mondo Originale (1957), passando per quelli raccolti nella serie di volumi intitolati Spazio dell’Invisibile (1965) e nel lungo saggio su Malraux (Interrogazione al Destino – Malraux, 1963), senza dimenticare i brevi e lapidari frammenti di Pensare (1992). Tuttavia, il luogo in cui tutti i temi e i motivi di questa meditazione raggiungono la loro superiore orchestrazione è nel denso e teso capitolo dell’Invocazione al mio Corpo (1969) dedicato all’arte, dove si esplicita la sua portata umana e metafisica, la rilevanza che assume per la coscienza dell’uomo contemporaneo l’ultimo dei grandi miti in cui l’essere umano ha depositato le sue speranze più profonde, dove, infine, si accompagna il processo di assolutizzazione dell’arte e quello della sua morte annunciata

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– o forse già consumata –, in quanto portatrice di un senso assoluto ed umano. Il discorso vergiliano sull’arte, in verità, mette in gioco una poderosa retorica avvolgente in cui si fanno udire i timbri del pensiero estetico del Classicismo e del Romanticismo, di quel preciso momento in cui l’arte iniziava ad essere riconosciuta ed instaurata in tutta la sua pregnanza antropologica e metafisica da Kant, Schiller, Schelling ed Hegel. Parlare però di retorica a proposito di un’opera letteraria e di un pensiero in cui tanto si insiste sull’autenticità potrebbe sembrare strano, abituati come siamo a pensare che la retorica abbia a che fare con l’ordine del fittizio e dell’artificio, opponendosi a ciò che vi è di autentico e naturale. Per mostrare che le cose non stanno affatto così, conviene fare riferimento direttamente allo stesso Ferreira, e in particolare alla sua analisi della relazione tra arte e retorica (un tema che è stato espressamente trattato anche da José Régio5, seppur in un significato alquanto differente, dove l’«espressione retorica» appare agli antipodi dell’autentica «espressione artistica»). Possiamo trovare la personale posizione di Ferreira nel suo saggio Arte, artificio6. Secondo il saggista, tutta l’arte – e non soltanto quella oratoria – possiede una retorica; ma la retorica dell’arte e del pensiero non dipende solo dal carattere artificiale di tutta l’opera, e non è nemmeno il risultato della semplice rottura della naturale complicità che si genera spontaneamente tra l’artista e il suo lettore o spettatore; dipende invece, innanzitutto, dal registro emotivo in cui, secondo lo stesso saggista portoghese, l’esperienza estetica dell’arte e l’arte si costituiscono. È precisamente l’entusiasmo, l’adesione

5. Cfr. J. Régio, Em torno da expressão artística, in Id., Três Ensaios sobre Arte, Editorial Brasília, Porto 1967, pp. 45-59. 6. Cfr. V. Ferreira, Espaço do Invisível, Vol. I (1990), pp. 53 e sg.

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concreta, l’emozione, l’ardore, ciò che nasconde allo scrittore e all’artista la propria stessa retorica. Vale dunque per Vergílio Ferreira ciò che egli dice degli scrittori romantici: «Si comprende perché uno scritto sia difficilmente considerato retorico da chi non ha mai vacillato ed ha sempre la possibilità di rispecchiarsi nella sua esaltazione: per un periodo di entusiasmo (come fu il Romanticismo), la retorica che lo esprime è tale soprattutto per noi, che la osserviamo a freddo7». In questo stesso saggio, lo scrittore denuncia con grande lucidità l’illusione di un’arte senza retorica, almeno secondo le pretese del realismo fotografico e dell’oggettivismo giornalistico. Osserva Ferreira: «Se l’arte ricerca la comunione dello spettatore, appartiene ai suoi scopi prodursi come verità naturale. La sua naturalità, però, si afferma attraverso il coordinamento interno dei valori che la formano. Tale coordinamento si realizza fondamentalmente grazie all’intima unione dell’artista con se stesso. Tutta la strategia per un’opera autentica, pertanto, si accetta come la parola d’ordine invisibile dell’accesso a un mondo. È impossibile comunque prevedere che la retorica non sorga: il rifiuto di questo mondo rende flagrante l’apparenza dell’artificio che si estende non soltanto al linguaggio ma allo stesso mondo ricreato. Perché un problema di retorica non si riferisce solamente ai mezzi di espressione: fa anche riferimento alle idee, alle situazioni, ai sentimenti in causa – a tutto quanto può implicare un distacco tra l’opera d’arte e l’appello a ciò che di profondamente umano vi è in noi […] La retorica nasce allora dal fallimento di questo tacito accordo che l’artista stabilisce con il suo spettatore. Che l’artista sia sincero, di questa sincerità specifica dell’arte, e la sua opera sarà vera8».

7. Ivi, p. 54. 8. Ivi, p. 59.

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Il saggista, tuttavia, non sembra rendersi conto che anche l’invocazione dell’autenticità e della sincerità è – può essere, o funzionare come – una manifestazione della profonda retoricità dell’opera, ed essa è tanto più poderosa quanto più rimane nascosta al lettore, allo spettatore e a volte perfino allo stesso autore, scrittore o saggista. Ora, nella retorica della saggistica vergiliana sull’arte sono riconoscibili molti dei motivi del classicismo schilleriano e del romanticismo. Prima di tutto, il regime contrassegnato da opposizioni mai veramente superate: sentire/pensare; arte/pensiero (che a sua volta ne dispiega altre: ragione, riflessione, filosofia); esperienza/spiegazione; soggettivo (dell’esperienza estetica)/oggettivo (dell’osservazione esteriore dei fenomeni estetici). Di fatto, nel discorso estetico vergiliano possiamo ritrovare tutti i grandi temi in cui si è andato configurando, a partire dalla fine del XVIII secolo, il grande mito dell’arte, eretto già nel crepuscolo di tutti i miti come un dominio dove poteva ancora mantenersi tutto quello che era stato considerato degno degli antichi miti caduti: il sacro, la trascendenza, la dignità, l’autenticità, la verità, la libertà, la promessa di pienezza, di vita, di assoluto, di totalità, di armonia. Nella sua aura e pregnanza, l’arte convoca tutt’ora quest’ampia costellazione di argomenti e descrizioni saturi di significato. Tutto ciò, però, è ricondotto ora ad uno spazio di assoluta immanenza, dove si dispiega infinitamente la capacità dell’uomo di creare un mondo di significati che fanno riferimento soltanto a lui. D’altronde, non era stato lo stesso Kant a sostenere che la bellezza è qualcosa che vale «soltanto per gli uomini», questi esseri razionali che sono al tempo stesso sensibili9? E non è stato Schiller ad esclamare, nel suo poema Gli Artisti, al cospetto di una prerogativa esclusiva dell’es-

9. I. Kant, Critica del giudizio (2004), § 5, p. 89.

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sere umano, sottratta perfino agli Dèi: «L’arte, o uomo, l’hai tu soltanto10»? E perché non evocare un pensatore e poeta portoghese, anch’egli convertito a quella religione dell’arte che stava emergendo negli anni della sua gioventù, all’inizio degli 60’ del XIX secolo? Stiamo parlando, naturalmente, di Antero de Quental, il quale, in un saggio giovanile intitolato Arte e Verità, scriveva: «Le religioni parlano di Dio – e gli Dèi, ritirandosi passo passo dai domini degli uomini, scompaiono giorno per giorno, evaporando nell’infinito. Solamente l’arte parla dell’uomo e del mondo – e il mondo e l’uomo, passo passo, giorno per giorno, si allargano, crescono e vanno occupando i Cieli e gli Olimpi, tutto il dominio antico del divino11». Per Vergílio Ferreira l’arte non è solo oggetto di apprezzamento o di meditazione: essa è innanzitutto un destino personale di vita, come testimonia un passo dello stesso scrittore: «Nacqui per scrivere romanzi. E tutto il resto fu marginale rispetto a questo fatto12». Il bilancio della sua vita si confonde con quello della sua opera artistica, come confessa lui stesso in un brano di Pensare: «La mia arte, l’ultimo mio bene che mi resta – e sempre mi è restato […] Ho soltanto la mia arte e la sublimazione che viene da lei e che mi eleva sopra tutto ciò che di basso vi è in me13».

10. F. Schiller, Philosophische Gedichte, in Id., Sämtliche Werke (1989), Bd. I, p. 174; trad. it. cit. in N. Sàito, Schiller e il suo tempo. Poesia e polemica dal 1788 al 1795, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1963, p. 30. 11. A. de Quental, Prosas da Época de Coimbra, Sá da Costa Editora, Lisboa 1973, p. 238. 12. V. Ferreira, Espaço do Invisível, Betrand, Venda Nova 1998, Vol. V, p. 100. 13. V. Ferreira, Pensar (1992), p. 141.

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Vergílio Ferreira parla quasi sempre dell’Arte con la maiuscola. A volte individualizza le arti, la pittura, la musica14, la letteratura. Ma è chiaro che la sua arte è proprio la letteratura, un’arte che, tuttavia, quasi trasgredisce e tradisce ciò che lo scrittore e saggista ritiene sia il dominio peculiare e specifico dell’arte – l’indicibile vissuto dell’emozione originale –, diventando un’arte della parola che veicola delle idee che appartengono già al dominio della ragione o della spiegazione. Lo scrittore possiede comunque una chiara consapevolezza di questo paradosso. Come ha scritto nel saggio Arte e Tempo, l’arte letteraria si presenta «come la forma più difficile o problematica dell’arte perché l’appello dell’indicibile si sente imprigionato nella rete del dicibile, il massimo o l’irriducibile di sé, che è l’assoluto di se stesso, si sente limitato nel riducibile di ciò che si dice15». Comprendiamo allora con più facilità come non vi sia una vera discontinuità tra i testi romanzeschi e la saggistica vergiliana. In effetti, anche nei suoi romanzi di riflessione e nei suoi saggi ad apparire è sempre e soltanto un «questionare metafisico del mondo16». Ad ogni modo, l’esperienza privilegiata dell’arte nella sua forma letteraria colloca la saggistica virgiliana in una situazione alquanto paradossale, poiché lo scrittore parla reiteratamente dell’arte proprio mentre ne proclama l’ineffabilità, dichiarando l’indicibilità dell’esperienza estetica. È lo stesso Ferreira a dircelo nel frammento 575 di Pensare: «L’innominabile è ciò che più varrebbe la pena nominare. L’impensabile è ciò che più dovremmo pensare. Il mistero dell’arte o della bellezza è ciò che più importerebbe rivelare. Ma il lato occulto di tutto

14. Cfr., ad esempio, V. Ferreira, Interrogação ao Destino, Malraux (1998), pp. 96 e sg. 15. V. Ferreira, Espaço do Invisível, Vol. V (1998), p. 27. 16. Ivi, Vol. I (1990), p. 191.

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questo è importante proprio perché occulto, e il suo svelamento sarebbe la distruzione di quanto di essenziale c’è in esso […] Ma non desistiamo dal proposito di illuminarlo, perché sapere è la nostra invincibile ossessione. Così noi interroghiamo incessantemente quello che non possiamo conoscere. E tuttavia simultaneamente vorremmo conservarlo, perché rivelare è distruggere […] In questa duplicità di voler sapere e non voler sapere noi conserviamo la vita intera per il mistero delle cose. Ma ciò che noi manteniamo nell’incertezza è la certezza che questo mistero non si rivelerà mai. Allora la bellezza dell’arte si mantiene intatta di fronti agli sforzi interminabili di “spiegarla”. Ed è perché in fondo sappiamo che non riusciremo mai, che tentiamo in modo interminabile. Perché solo nel mistero risiede la ragione maggiore della nostra fascinazione17». Ferreira è stato ben presto consapevole di questa paradossale condizione del suo discorso sull’arte. Del resto, se essa appartiene all’ordine dell’ineffabile, e se l’esperienza estetica è realmente intraducibile e inesplicabile a parole, per quale ragione allora insistere e continuare a parlare dell’arte? Parlare, voler in qualche modo comprendere o spiegare, non implica già travisare quello che si offre nell’irriducibile originarietà di un’emozione o di un sentimento? Leggiamo una delle prime formulazioni virgiliane di questo paradosso: «Del mondo originale si parla nel corso di tutto questo libro. Ma poiché si parla di esso, in qualche modo lo si travisa. Tutto quanto si dice dell’arte è eccessivo, giacché il mondo dell’arte corrisponde alla soglia della vita, il mondo iniziale, il mondo dell’apparizione, di cui essa è il segnale sensibile e l’efficace mezzo di accesso. L’istante del miracolo le ragioni lo ignorano – esse arrivano già tardi, un poco come i corvi sul cadavere. Fremito di pre-

17. V. Ferreira, Pensar (1992), pp. 330-331.

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senza senza margini, l’arte parla la voce delle origini, recupera all’uomo il dono dell’inizio, dell’evidenza. Alla pluralità e indifferenza delle cose (e in queste, delle idee in quanto idee), l’arte oppone l’assoluto della sua verità inaccessibile alle “verità”, la comunicazione impossibile al non essere della comunicazione. Gettando luce sul fondamentale, corporizzando l’ineffabile, l’arte esaurisce la comunicabilità possibile – e le ragioni che la spiegano sono così i poveri avanzi del miracolo18». Vergílio Ferreira voleva dunque salvare l’arte da ogni intellettualizzazione, voleva difendere la sua irriducibilità, prevenire la sua dissoluzione in un insieme di ragioni o di spiegazioni. Al pari dei mistici che, avendo un’esperienza oltremodo intensa del divino, non potevano esprimerla se non per il tramite di una teologia negativa, così chi ha vissuto almeno una volta un’esperienza estetica può descrivercela soltanto attraverso un’estetica negativa, balbettando in tutte le maniere possibili l’ineffabilità dell’arte. In verità, insistere nel parlare dell’arte, tentando di fornire delle ragioni e spiegazioni, pur sapendo che nulla di tutto ciò può aggiungere alcunché alla nostra esperienza, non è altro che un accondiscendere ad una “storia dell’intelligenza” con cui si confonde la storia dell’Europa, obbligandoci a dimostrare anche l’indimostrabile e a riconoscere con la ragione perfino il fallimento della ragione stessa: «Pensare l’opera d’arte è pertanto inevitabile, pur sapendo che il pensarla non chiarisce ciò che le è essenziale – dato che l’essenziale non può essere pensato ma sentito. Tuttavia, innumerevoli relazioni esterne possono essere stabilite a proposito di un’opera artistica, e su di esse è sempre inevitabile per noi tentare di chiarirci. L’errore, in tale ambizione, viene dal supporre a volte che la stessa morte dello schematismo mentale

18. V. Ferreira, Do Mundo Original (1957), Bertrand, Amadora 1979 (2a ed), p. 20.

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possa recuperare la vita dell’arte stessa […] Un errore parallelo, però, consiste nel supporre che essendo l’arte, in quanto arte, inaccessibile alla ragione, ogni tentativo di chiarimento, per quanto riguarda le sue varie relazioni, sia superfluo. Un cadavere non è un essere vivo: ma l’anatomia non è inutile […] Per chi vive l’arte, e conosce il luogo di cui essa parla – il mondo iniziale –, ignora, come cosa vana, tutta la rete di spiegazioni; per chi può osservarla da fuori, l’arte si sottomette, come tutto, al dominio della necessità. In che modo questi due mondi si relazionano – quello della necessità e quello dell’esperienza profonda? In qualche modo. Ma una volta ammessa l’interferenza, e dopo averne avuto consapevolezza, mentre si vive, l’arte torna ad essere irriducibile, indipendente19». Non è comunque veramente legittimata la necessità di cui parliamo quando facciamo riferimento all’arte. Di fatto, Vergílio Ferreira non è stato il primo a porre in evidenza il carattere ineffabile dell’esperienza estetica, analoga, del resto, all’esperienza mistica. In un decisivo paragrafo della sua Critica del giudizio, Kant ha fatto riferimento a questa singolare creazione dell’immaginazione che sorge quando tale facoltà è posta in tensione e in movimento da un’esperienza estetica (un sentimento del bello o del sublime), chiamandola “idea estetica”: sebbene sia una rappresentazione intuitiva composta da elementi sensibili, essa non si lascia tuttavia imprigionare in un concetto determinato della comprensione, non essendo, di conseguenza, riducibile alla conoscenza oggettiva di qualcosa. Ad ogni modo, secondo il filosofo tedesco l’idea estetica non è certo ottusa, ma dà naturalmente molto da pensare, pur facendoci al tempo stesso riconoscere il fallimento di tutti i concetti e di tutti i linguaggi, incapaci di imprigionare nelle loro ma-

19. Ivi, pp. 20-21.

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glie quell’assoluto e infinito senza fondo che si insinua in noi nell’esperienza estetica, e soprattutto in quella del sublime20. Dichiarare l’ineffabilità dell’arte o dell’esperienza estetica non significa allora rifugiarsi nella zona grigia dell’irrazionale, ma significa confessare i limiti della ragione e delle sue spiegazioni – una ratio, quindi, ancora una volta chiamata in causa per esercitarsi nei suoi limiti, riconoscendo la sua impotenza nel valoroso sforzo cui è sollecitata. Anche per Vergílio Ferreira l’esperienza estetica, appartenendo all’ordine del vissuto, è situata in una zona più profonda della ragione e perfino del pensiero: è allora proprio in questo luogo originario dell’impensato che si costituisce veramente l’uomo, ottenendo così uno scorcio dello spessore e del mistero che coinvolge la sua relazione con il mondo. È lo stesso scrittore a testimoniarlo: «Si pensa soltanto l’impensabile. Ma è l’arte a dirlo, ancor prima del pensiero21». 2. Servendosi di una suggestiva e ricorrente metafora, Vergílio Ferreira ritiene che l’arte parli del “mondo originale” o del mondo “iniziale”22. La metafora testimonia la proto-archeologia dell’umano, una scelta accaduta prima di ogni ragione, suggerendo un modo di essere che esprime l’originaria relazione dell’essere umano con il mondo, una relazione detta di “equilibrio” o di “armonia”, data in una sorta di coscienza pre-riflessiva appartenente all’ordine della sensibilità, del sentimento, dell’emozione. La relazione e la rivelazione più profonda ed essenziale in cui l’uomo si trova coinvolto – questo peculiare accadimento di evidenza o di rivelazione di sé 20. Cfr. I. Kant, Critica del giudizio (2004), § 49, pp. 319-331. 21. V. Ferreira, Espaço do Invisível, Vol. V (1998), p. 89. 22. Cfr. V. Ferreira, Do Mundo Original (1979), in part. pp. 20-22 e pp. 215-247.

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a se stesso a cui lo scrittore dà il nome d “apparizione” – è di ordine estetico. Riportiamo un frammento di Pensare: «Tutta la relazione con il mondo si fonda nella sensibilità, come abbiamo appreso nell’infanzia e non possiamo più dimenticare. È questo equilibrio interno che dice al pittore che tale azzurro o rosso sono perfetti nella composizione di un quadro. È lo stesso equilibrio indicibile che impone al filosofo la verità della sua filosofia […] Così ciò che esprime il nostro equilibrio interiore, generato nell’impensabile o nel nostro impensato, è un sentimento estetico, un modo di essere nella sensibilità, prima di trovarsi nella ragione o nell’intelligenza23». Di conseguenza, secondo Vergílio Ferreira, l’uomo si sorprende e si costituisce come essere umano in un’originaria esperienza estetica. E tale esperienza – come sapevano bene i filosofi settecentisti che erano in grado di descrivere la fenomenologia e comprendere le peculiari “ragioni” di questo nuovo dominio (si pensi soltanto a Baumgarten, a Kant o a Schiller) – appartiene all’ordine della sensibilità e del sentimento. Data nella sensibilità e nel sentimento, l’esperienza estetica è per l’uomo simultaneamente la più originaria e la più comune, in quanto rivela la nostra immediata presenza nel mondo e ci lega in comunione di sentimento agli altri esseri umani. Scrive Vergílio Ferreira: «Il sentimento estetico, ossia il nostro appetito per l’arte, si mantiene e si sviluppa interrottamente dalla nascita alla morte. Esso è allora non soltanto la voce con cui ricerchiamo l’arte, ma ogni modalità di essere umano [...] Tutta l’arte è una concretizzazione di un appello confuso affinché la bellezza esista. C’è una voce che parla in noi e l’opera in cui si sente. Diremo che l’opera condensa e manifesta quanto in noi c’è di occulto e indistinto. Il bello nell’arte è la sua forma-

23. V. Ferreira, Pensar (1992), pp. 12-13.

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lizzazione, la riduzione al percettibile del suo impercettibile. Qualsiasi uomo è artista nell’aspirazione ad esserlo24». Tutte le decisioni umane, tutte le definizioni dell’uomo sono fondate in questa originale matrice estetica. Nella riflessione del saggista portoghese, il sentimento estetico ci è consustanziale, rappresentando sia ciò che ci fornisce un equilibrio interno, sia il fondamento ultimo delle verità che orientano la porzione più importante della vita25. «La visione estetica è il centro di irradiazione, perché la sensibilità è il segno più evidente della nostra presenza nel mondo26». E se l’arte ci parla in modo così intimo e perentorio è perché ci tocca nel nostro io più profondo, è perché ci riporta a quella «forma autentica della presenza al cospetto della verità originaria della vita27». L’antropologia filosofica di Vergílio Ferreira si presenta come un’antropologia estetica, un’antropologia dell’uomo sensibile. E un’antropologia così intesa non potrà che terminare in un’apoteosi del corpo, giacché è proprio nel corpo che l’uomo, innanzitutto, sente, si emoziona e da ultimo pensa. È questo corpo soggettivo, e non tanto lo spirito, ciò che veramente costituisce l’uomo in quanto uomo. Nel corpo, quindi, si dà e si percepisce l’immediata presenza dell’uomo nel mondo. Il corpo, pertanto, è l’irriducibile luogo dell’immanenza, solamente a partire dal quale la trascendenza diviene possibile, essendo proprio dal corpo che può emergere la creazione umana di significati. L’uomo può allora dire di essere il proprio corpo, che il corpo non è altro che il suo spirito, e che il suo spirito altri non è che il corpo, un corpo spiritualizzato o uno spirito incarnato, e che il suo corpo, infine, è la realtà più radicale e 24. V. Ferreira, Espaço do Invisível, Vol. V (1998), p. 33. 25. Cfr. Ivi, p. 88. 26. Ivi, Vol. I (1990), p. 37. 27. Ivi, p. 21.

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intima del suo stesso essere. Noi siamo il nostro corpo. Siamo quello che siamo nel nostro corpo e a partire dal nostro corpo. Con le parole di Ferreira: «Se è nel nostro corpo che siamo presenti a noi stessi […], è sempre in esso che siamo presenti al mondo […] Il mondo esiste come proiezione del nostro corpo […] Come la coscienza è coscienza di qualcosa, il corpo che la presentifica o la realizza è la viabilità – ma non lo strumento – della sua esecuzione nel mondo. La coscienza è proiezione di sé e il corpo la possibilità di questa proiezione: un corpo è la realizzazione di uno spirito28». In questa antropologia in chiave fenomenologica siamo di fronte ad un inversione del platonismo: l’uomo non è tanto uno spirito incarnato in un corpo, quanto un corpo che si espande nello spirito e nel significato. In un linguaggio che sembra ricordare quello dei pensatori del Rinascimento, quando celebravano enfaticamente le particolari ragioni a sostegno della dignità e dell’esistenza dell’uomo (o investigavano i motivi per cui Cristo, il Figlio di Dio, si era fatto Uomo e non Angelo), Vergílio Ferreira scrive: «Più grande degli Dèi e degli Angeli, l’uomo è spirito e corpo, o realizza lo spirito nel corpo, o è un corpo spiritualizzato. Tutta l’elevazione in cui egli è superiore, si realizza nel suo corpo e attraverso ciò che è terreno, assorbendo e sublimando ciò che il suo corpo gli trasmette. Intrecciato alla realtà, il corpo la conosce e la trascende in una dimensione spirituale […] Il gesto di creazione sono io che lo realizzo e nessun altro al di là di me. Dal mio corpo centrato nel mondo irradia la vita in cui un uomo può vivere, ossia il mondo umano, vale a dire semplicemente il mondo. Perché non c’è mondo al di fuori dell’ordinazione che l’uomo gli impone29».

28. V. Ferreira, Invocação ao Meu Corpo, Portugália, Lisboa 1969, p. 292. 29. Ibid.

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In una celebre affermazione della sua Etica, Spinoza ci ha lasciato questa enigmatica osservazione: «Essi non sanno di che cosa sia capace il corpo30». Ferreira non cita il pensatore della diaspora portoghese seicentista, inscrivendo la sua meditazione sul corpo direttamente sulla scia della riflessione fenomenologica francese di Merleau-Ponty e Michel Henry. Ma si potrebbe comunque ben dire che la sua Invocazione e la sua “Ode al corpo” costituiscono un’interessante risposta alla sfida di Spinoza sulle possibilità del corpo. Una volta riconosciuta la matrice estetica dell’antropologia vergiliana, diviene più comprensibile l’insistenza dello scrittore sul significato umano dell’arte, espresso in molti modi: l’arte come forma autentica della presenza umana nel mondo, come la verità dell’uomo, come espressione della libertà originaria, intesa in un’accezione metafisica, come l’essere ciò che si è. Nessun altra manifestazione umana, infatti, rivela in modo migliore ciò che l’uomo è, come l’autore Del Mondo Originale aveva già scritto in una nota che ritornerà con insistenza nei suoi saggi successivi: «Oggi che abbiamo scoperto l’Arte, abbiamo riconosciuto in essa uno dei più alti valori umani, per alcuni senz’altro la reinvenzione dell’Assoluto, dopo la morte di tutti gli altri. Un mito? Forse una vita non può realizzarsi senza miti, senza una forza che la superi e la unifichi. Il sapere che è un “mito” l’annulla come tale – in parte almeno […] Si comprende allora come l’Arte si trasformi in Forza Totalizzante, se pensiamo che essa è forse la forma migliore di un’esperienza profonda dell’istante che passa31». È comunque nell’arte che l’uomo sa, grazie ad un’esperienza emotiva, vissuta, e non meramente pensata, che al di fuori

30. B. Spinoza, Etica, III, prop. II, in Id., Opere, a c. di F. Mignini, Mondadori, Milano 2007, p. 901. 31. V. Ferreira, Do Mundo Original (1979), p. 101.

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del mondo di significati che egli stesso crea nulla esiste realmente o ha valore. Gesto creatore e demiurgico, l’arte esprime l’illimitato potere dell’uomo che si confronta con quello posseduto da Dio. Al di là del mondo che gli è dato, e che è in possesso di un significato solo perché lui lo sappia e lo riconosca, l’uomo crea altri mondi, e nulla lo limita in questo processo creativo. A differenza di quella divina, infatti, «la creazione umana non ha un settimo giorno32». Questa enfatica retorica demiurgica, che ricorre a una terminologia molto prossima a quella che Antero de Quental aveva usato nel primo dei suoi saggi estetici, non verrà moderata nei successivi saggi dello scrittore, a dispetto della viva e chiara consapevolezza della reale contingenza e finitudine fisica dell’uomo. Ad ogni modo, nonostante il suo profondo significato umano, e la natura indissolubile che la lega all’uomo, l’arte si rivela ancora colma di un significato metafisico. Rivelazione dell’uomo a se stesso, l’arte rivela anche la realtà, aprendo, grazie alla mediazione umana, il campo illimitato dei suoi possibili significati. Tutta l’arte, compresa quella più realista, trascende metafisicamente la stessa realtà. Anche il pensiero, d’altra parte, è una trascendenza della realtà; ma la trascendenza del reale che si rivela nell’arte è una trascendenza emotiva e sensibile della realtà. Il mondo non è neppure “mondo” se non è l’uomo a conoscerlo, e il mondo non sarà mai un altro mondo se non sarà l’arte a rivelarlo. Ascoltiamo il saggista portoghese in una delle sue molte affermazioni sull’argomento: «Diremo in modo sommario che l’arte è la trascendenza emotiva del tutto, ossia la sua metafisica. È questa trascendenza che si può realizzare nella semplice contemplazione del reale […] È l’arte che orienta la nostra visione senza che lo sappiamo, perché

32. V. Ferreira, Espaço do Invisível, Vol. I (1990), p. 149.

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è l’arte che ci dice precisamente ciò che noi cogliamo nel reale […] Così ammettiamo che in principio l’arte non abbia limiti, poiché essi non sono in possesso della vita e della nostra capacità di emozionarci e trascenderci. Quello che l’arte aggiunge a tutto il reale è la sua trasposizione nel dominio dell’immaginario ed emotivo, il dispiegarsi del reale nella sua duplice figurazione trascendente33». In tal modo, la trascendenza del reale che l’arte instaura e consegna alla visione non è altro che una trascendenza nell’immanenza umana, e gli infiniti altri mondi possibili rivelati o condotti all’evidenza dall’arte si danno soltanto nel dominio dei significati, pertanto in un domino umano. Lo scrittore non si esime comunque dal confrontarsi con il mondo di una supposta creazione divina, scrivendo in uno dei frammenti di Pensare: «La trascendenza dell’arte è questo – la creazione di un universo nel nostro infinito. Come Dio non potrebbe farlo. Perché il mondo grezzo è per lui solo questo mondo grezzo, ossia quello che non può essere altro da ciò che è. Ma l’uomo lo fa essere un altro34». Un altro tema ricorrente negli scritti vergiliani è l’affermazione dell’arte come espressione dell’assoluto, del sacro e del divino, ma di un divino, di un assoluto e di un sacro che l’uomo riconosce ora come propri, e non già come attribuiti ai soliti Dèi: «Tutta la vera arte è un’espressione del sacro. E anche l’arte religiosa a volte lo è35». In altre parole, l’arte è ora ciò che è in virtù della densità e dell’auto-trascendenza umana che in 33. Ivi, Vol. V, (1998), pp. 34-35. 34. V. Ferreira, Pensar (1992), p. 65. 35. Ivi, p. 570. In un altro testo possiamo leggere il seguente passaggio: «Se l’arte di oggi è la moneta dell’assoluto, senza Assoluto fuori dall’arte, il linguaggio religioso “irrita”, poiché l’arte di oggi rifiuta il sacro e vuole essere l’affermazione radicale dell’uomo irriducibilmente umano […] Così l’arte […] noi la ergiamo ad una quasi divinità e agli artisti conferiamo la dignità

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essa si esprime. La coscienza estetica chiarisce all’uomo, più di qualsiasi altra cosa, che egli è il vero e reale instauratore assoluto di tutti i significati, che egli è stato ed è il creatore dei suoi miti, dei suoi Dèi, dei suoi valori. Ciò non significa, però, che le sue creazioni siano in qualche modo squalificate; più semplicemente, esse vengono ora ricondotte al loro legittimo proprietario. In qualità di Assoluto che nega ogni altro assoluto oltre e al di là di se stessa e dell’uomo, l’arte non è comunque il confortevole sostituto di una trascendenza morta, e neppure il rifugio che ci permette di eludere il destino che abbiamo ereditato. Al contrario, è grazie ad essa che è possibile accedere alla verità translucida della condizione umana, non attraverso una via lastricata di ragioni, ma lungo la via di un «vero sentire non illuso». Di certo, l’arte non ci difende dalla morte. Essa, infatti, fa già molto nel cercare di difenderci dalla vita, l’uomo non avendo mai trovato nessun modo più efficace dell’arte «per opporre la libertà all’oppressione, per gridare la dignità contro l’umiliazione imposta, contro il degrado, per resistere, sotto la fragile apparenza dei colori, delle linee, nel profondo silenzio, nell’umile oscurità, al grossolano rimbombo dell’acciaio delle divisioni, dell’inflessibile geometria delle pianificazioni, dell’assalto animale all’intelligenza innocente36». 3. Nella grande apoteosi e celebrazione dell’arte rappresentata dalla saggistica vergiliana, c’è un tema ricorrente che la disturba, e su cui essa ha steso un velo d’ombra e di malinconia. È il tema della “morte dell’arte”. In questo argomento si condensa l’interpretazione vergiliana della fenomenologia che si conferiva ai martiri, ai santi», V. Ferreira, Interrogação ao Destino, Malraux (1998), pp. 174-175. 36. Ivi, p. 176.

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della coscienza contemporanea dell’uomo. È infatti il suo modo per testimoniare il nichilismo, la distruzione, il deserto che avanza, il vuoto che si estende, il silenzio, la disperazione, in quanto effetti della proclamata “morte di Dio”, annuncio anche della fine fisica della stessa specie umana. Già toccato nei suoi primi saggi, il tema si addensa ed assume degli accenti quasi vicini ad un pessimismo tragico nelle pagine dell’Invocazione al mio Corpo e nei frammenti di Pensare. È la prova che anche l’arte, e perfino l’uomo, come tutti gli altri miti e gli altri assoluti, sono destinati a morire, e molto presto. Enunciato e pensato per la prima volta da Hegel nella sua Estetica, il tema della “morte dell’arte” è stato glossato, in vari modi e forme, durante gli ultimi due secoli di letteratura estetica, da filosofi, critici e storici dell’arte37. In una delle sue prime analisi sul tema, Vergílio Ferreira evoca e commenta la tesi hegeliana, secondo cui la morte dell’arte avviene perché le esigenze dello spirito non troverebbero più nell’arte la loro propria soddisfazione. Per la coscienza, l’arte potrebbe essere già qualcosa di passato, su cui si potrebbe certo ancora riflettere, nel tentativo di spiegare o comprendere, ma non certamente vivere. Il dominio del sentimento avrebbe dunque 37. Cfr. G. F. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik, Theorie Werkausgabe, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1970, Bd. I, pp. 141-142. Sul dibattito attuale intorno a questo argomento, cfr. B. Lang (ed.), The Death of Art, Haven Publishers, New York 1984; H. Belting, Likeness and Presence. A History of the Image before the End of Art, University Chicago Press, Chicago 1984; Id., Das Ende der Kunstgeschichte?, Deutscher Kunstverlag, München 1983; Id., Das Ende der Kunstgeschichte: Eine Revision nach zehn Jahre, Verlag C. H. Beck, München 1995; A. Danto, After the End of Art, Princeton University Press, Princeton 1997; Id., The State of Art, Prentice Hall Press, New York 1987 (contiene un capitolo intitolato Approaching the End of Art); Id., Encounters and Reflections: Art in the Historical Present, Noonday Press, New York (contiene un capitolo sulle Narratives of the End of Art). Cfr. inoltre il capitolo Morte o tramonto dell’arte, in G. Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985, pp. 59-72.

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ceduto il passo al dominio della riflessione concettuale: in un mondo dominato dalla ragione filosofica o scientifica non ci sarebbe più spazio per l’arte come un elemento in cui la coscienza possa riconoscersi, magari giungendo a riconciliarsi con se stessa. Nella cultura portoghese dell’ottocento, toccò ad Antero de Quental affrontare in uno dei suoi saggi estetici questo problema. Confrontandosi con il positivismo allora dominante, il poeta, che pochi anni prima aveva celebrato l’alta missione civilizzatrice e umana dell’arte e della poesia, vede a breve raggio il loro futuro venir inesorabilmente minacciato da una civiltà modellata dalla scienza, la quale, come promettevano i profeti e i ministri della nuova fede progressista, avrebbe alla fine perfettamente eguagliato e risolto tutti i problemi dell’umanità con formule scientifiche, non rimanendo più alcuna occasione o spazio per le forme oscure dei sentimenti che si sono espressi duranti i secoli nell’arte38. Sebbene il tema si possa considerare, al netto delle sue molteplici variazioni, sempre lo stesso, la situazione contemporanea dell’arte con cui si confrontava Vergílio Ferreira era radicalmente differente dal tempo in cui Hegel pronunciava la sua condanna a morte, o Antero diagnosticava la morte della poesia di fronte all’apparentemente inesorabile trionfo delle scienza positive. Quando Hegel presentava la sua tesi, infatti, l’arte incominciava ad essere costituita e riconosciuta, nella sua dignità, come forma superiore di realizzazione dello spirito umano grazie ai pensatori del Classicismo e del Romanticismo (Schiller, Hölderlin, Schelling, Novalis). Nel bel mezzo del XX secolo, del resto, l’arte non muore perché la filosofia e la scienza finiscono per occuparle il posto, ma muore di per sé, per una sorta di suicida autofagia, dopo un secolo e mezzo di

38. Cfr. A. de Quental, A Poesia na Actualidade (1881), in Id., Prosas, Vol. II (1926), pp. 310-322.

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euforia di cultura estetica e artistica, di elevazione dell’arte a valore assoluto e di consacrazione dell’artista come demiurgo del senso del mondo e figura superiore e assoluta dell’uomo. Scrive Vergílio Ferreira: «L’artista moderno è stato libero e potente, e nel potere e nella libertà ha reinventato l’Assoluto. Ma nessun morto si alza per riconoscergli il potere. L’Assoluto del tutto è stato l’Assoluto del nulla». Ecco allora che l’arte, nella sua ricerca di assoluto e nel tentativo di affermarsi come assoluto, non ha distrutto solamente tutti gli altri valori, ma ha finito per consumare anche il proprio stesso valore. Ed è proprio qui che risiede la sua tragedia, la stessa tragedia che caratterizza la coscienza contemporanea dell’uomo: quando ha raggiunto il suo punto più alto, imponendosi nella sua sovranità, proprio lì ha finito al tempo stesso per annullarsi. Leggiamo l’autore dell’Invocazione: «Nella distruzione delle forme, nella violazione delle successive proposte di questa stessa distruzione, nella sfida a un gusto che si continuava a ritenere vivo, affinché la sfida conservasse ancora una qualche ragione, nella negazione dissennata che nega se stessa per non aver più nulla da negare, nell’umore cupo che attribuisce all’Arte ciò che nell’Arte si rifiuta, nell’auto-divoramento di ciò che in essa si stava già divorando, nella tragica immersione nel silenzio che nulla dice, per essere solo silenzio senza nient’altro – noi dobbiamo interrogarci su noi stessi, sulla sorte che ci è capitata. Messaggera del nostro svuotamento, angelo della morte di un mondo, beffa finale nei confronti di tutto quello che ci ha commosso, l’Arte di oggi sconta nel suo silenzio tutto un bimillenario periodo di Storia […] L’autonegazione è la verità del nostro tempo. Ma così anche tutto ciò che resta dell’Arte è la sua memoria, poiché la sua presenza si definisce attraverso la sua assenza. Del grande combattimento per la sua liberazione, non resta altro che un campo di morti. Senza un Valore che la orienti o un nemico da combattere, l’arte combatte se stessa, come certi pazzi infuriati che si pren-

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dono a pugni da soli, nell’impossibilità di colpire l’avversario. Perché tutti i suoi possibili nemici sono morti che si perpetuano39». C’è un dolore malinconico e un malcelato tono apocalittico in queste considerazioni vergiliane. La crisi e la morte dell’arte sono il più chiaro segnale della crisi della coscienza e dell’umanità contemporanea, giacché era proprio qui, nell’arte, che l’uomo riusciva ad essere più vicino a se stesso e al suo mistero, era nell’arte che si potevano riconoscere i più alti valori umani e la reinvenzione dell’assoluto e del sacro, vista la mancanza di tutti gli altri valori e assoluti. L’arte garantiva all’uomo l’intima certezza di una presenza autentica nei confronti di se stesso e del mondo, gli prometteva una pienezza, una totalità, un’armonia e una profondità che nulla gli potrebbe mai assicurare; l’arte gli dava la garanzia di non essere alienato né di negarsi in essa, promettendogli di ritrovarsi affermato in tutta l’autenticità del suo essere. Ma ecco che anche l’arte si è trasformata in mito e si è degradata, non essendo più in grado di rispondere al profondo ed essenziale questionare dell’uomo. Al pensatore resta soltanto la lucidità di saper vedere e registrare questo momento crepuscolare que ci è toccato in sorte, rivelandosi un destino: «Nella vasta estensione del mondo umano, tutte le dimore degli uomini si rovinano, con fragore risuona il suo vasto crollo – dove nascerà un fiore? La polvere sollevatasi dalle macerie copre il sole e il cielo – un’apertura deve ancora squarciare la luce, in che punto? Silenzio di attesa, l’Arte sprofonda in esso. Il sole è morto nei pennelli del pittore, si sono rotte le corde nella lira del poeta, l’armonia ci fa scoppiare il cervello di rumori e ci blocca i nervi, il gesto della creazione modella l’aria di vuoto. Come può l’uomo ritrovarsi ancora nell’Arte? […] L’arte ha sempre ricostruito il mondo

39. V. Ferreira, Invocação ao Meu Corpo (1969), p. 48.

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alla sua maniera, alla maniera dei suoi sogni, ossia alla maniera dell’assoluto della verità che si rivelava in essi. Ma solamente se ricostruisce ciò che è stato costruito, e solamente se fa questo in funzione di ciò che si immagina, in funzione di quella che si spera – che cos’è che l’uomo spera? –, così come solo se ha speranza in quello che la fonda – che cos’è che può fondarla? All’annuncio dell’invasore contro cui non si può resistere, l’Arte risponde con la strategia della “terra bruciata”. Alla distruzione che si annuncia, essa risponde con la sua conferma, con la distruzione che le si anticipa. Per molto tempo è stato possibile illuderci sull’Arte che negava, con la speranza che un giorno avrebbe affermato. Per molto tempo abbiamo creduto che l’Arte stesse inventando un alfabeto nuovo, un nuovo linguaggio, per tessere con esso l’unione armonica degli uomini. Sappiamo oggi, al termine di cent’anni di attesa, che questo linguaggio offeso non era un balbettio infantile ma l’afasia della vecchiaia, non annunciava un inizio ma era un avviso della fine, non inaugurava un coordinamento con il mondo ma una scoordinazione40». L’analisi della situazione contemporanea dell’arte rappresenta la più sensibile diagnosi della situazione contemporanea dell’uomo. La “morte dell’arte” – la morte dell’ultimo grande mito in cui l’uomo si era sentito coinvolto – è il più chiaro segnale della crisi generale del mondo e della stessa “morte dell’uomo”. Sopravvivrà l’uomo alla morte di tutti i suoi miti? Sarà capace di creare ancora un nuovo mito? O capirà alla fine che non ci saranno più miti che possano redimerlo? La risposta di Vergílio Ferreira a simili questioni è ancora quella di una speranza contro ogni evidenza, di una fede incondizionata nell’uomo, nella certezza che si sveglierà alla fine dalla notte opaca in cui è attualmente immerso per creare un mondo

40. Ivi, pp. 229-230.

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nuovo. E così la crisi generale dell’arte può essere letta come «l’annuncio categorico di un totale rinnovamento per il nostro spazio umano41». L’uomo sopravvivrà al collasso dei suoi miti e anche alla morte dell’arte, il suo ultimo grande mito. E proprio ora che stanno zoppicando tutte le risposte in cui si è rifugiato, forse sarà nelle condizioni di fare ritorno a se stesso e all’interrogazione iniziale che ha sempre cercato di silenziare con le sue risposte. Nel crepuscolo di tutti i miti, il Grande Mito ancora da inventare è l’Uomo stesso42. E ora che sono morti tutti gli Dèi, che sono caduti dal loro piedistallo tutti gli assoluti, che sono crollati tutti i miti, dopo la grande notte che è diventata il nostro tempo, l’uomo rinascerà ancora in nuove forme per affermare la propria pienezza. Questa è la speranzosa convinzione in cui si esprime l’umanesimo estetico di Vergílio Ferreira, un umanesimo che non nasconde un deciso accento tragico di derivazione stoica. 4. In uno dei principali saggi Del Mondo Originale (quello che dà il titolo all’intero volume), erano già presenti quei temi che scandiranno per più di tre decadi la riflessione estetica vergiliana e che delineavano, nel loro insieme, quella che si potrebbe considerare un’apoteosi dell’arte, e ciò a dispetto dell’accento tragico delle considerazioni crepuscolari commentate in precedenza. In quel luogo, inoltre, era già presente il confronto fra arte e filosofia, tra il dominio dell’emozione e quello delle idee, un tema a cui il saggista farà sempre riferimento. I termini di questo rapporto sono così delineati: «Il dominio della Filosofia è in qualche modo soltanto quello delle “idee”, della chiarezza mentale, della riducibilità: i suoi valori tendono a convertirsi alla condizione di oggetti, maneggevoli, indiffe41. V. Ferreira, Espaço do Invisível, Vol. III (1993), p. 214. 42. Cfr. V. Ferreira, Invocação ao Meu Corpo (1969), p. 48.

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renti. Il mondo dell’Arte è quello dell’esperienza emozionale, dell’irriducibilità43». Nei primi saggi, soltanto con riserve e a certe condizioni lo scrittore consentiva una qualche prossimità o permeabilità tra i due domini. In una Nota sul romanzo di idee, Ferreira scrive: «Non si compone di certo un romanzo con idee matematiche: la matematica non è artistica. Ma ci si può avvicinare all’arte scrivendo perfino un libro di filosofia. È sufficiente che a questo scopo le “idee” si rivelino qui artisticamente, abbiano un supporto emotivo44». E in un altro passo: «Di certo – e l’ho ripetuto a sazietà – un’idea in arte non è un’idea in pura filosofia. E, poiché ciò che viene denominato “esistenzialismo” non è un sistema filosofico ma innanzitutto e immediatamente una problematica umana, è soprattutto per questa ragione che esso confina con l’arte letteraria. Così “l’esistenzialismo” pone in evidenza quello che separa un’idea strettamente filosofica da un’idea in arte. Un’idea in arte – l’ho detto – è un’idea con sangue, è un valore emotivo, è un valore estetico. Nietzsche, Kierkegaard, Pascal, e perfino un Bergson (soprattutto per ragioni “stilistiche”) sono artisti oltre che pensatori. Kant, Spinoza, e sotto un certo aspetto anche Hegel […], nella misura in cui sono ciò che puramente esprimono, sono rigorosamente filosofi45». Non si tratta, come si può vedere, di una contrapposizione schematica. Ciò che viene anzitutto testimoniato è l’originarietà del dominio dell’emozione e del sentimento che si esprimono nell’arte e il carattere secondo e sovradeterminato delle idee di cui si occupano la ragione e la filosofia. Alla fine della degli anni 60’, nell’Invocazione al mio Corpo, il saggista espli43. V. Ferreira, Do Mundo Original (1979), p. 215. 44. V. Ferreira, Espaço do Invisível, Vol. I (1990), p. 149. 45. Ivi, pp. 70-71.

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cita la sua tesi nei seguenti termini: «L’Arte è alla radice del pensare, perché è alla radice di ciò che è. È allora esatto dire che la Filosofia sta al di sopra dell’Arte – ma soltanto come le foglie stanno sopra la radice. Quando la Filosofia appare, tutto è già stato deciso; quando ragioniamo, sentiamo già quello che pensiamo. Ogni ragione – l’abbiamo già detto – esplicita una scelta assurda precedente, incomprensibile come la libertà. L’Arte esprime questa libertà. Ora ogni atto libero è ingovernabile come l’amore. Così l’Arte si realizza nel dominio dell’emotività, alla cui porta le ragioni aspettano gli ordini di servizio46». E, all’inizio degli anni 90’, Ferreira esprimerà lo stesso concetto sotto una forma ancora più concisa: «La ragione è una serva che non dà ordini, ma li riceve e li porta a termine fino al limite delle proprie forze, cioè fino a non contraddirsi47». Ma se è visibile nei saggi vergiliani l’intenzione di piegare l’irriducibilità dell’emozione al piano della ragione, se in essi Ferreira insiste nella contrapposizione fra Arte e Filosofia, è altrettanto vero che il linguaggio della contrapposizione cede il passo al riconoscimento di una prossimità originaria ed essenziale tra i due domini, nel tentativo di recuperare una qualche relazione, e non certo con l’intenzione di ridurre l’arte alle ragioni della filosofia, bensì avvicinando la filosofia all’esperienza estetica, ossia considerando la filosofia come una sorella gemella dell’arte. Possiamo vedere all’opera questo tentativo in un frammento di Pensare: «La filosofia è un’arte che è andata al di là di se stessa, fino a diventare una materia fredda e morta. E già qui non si vede la vita che si trova là. Perché dev’essere più accettabile la mitologia di Omero di quanto non siano le idee di Platone? Tutta l’arte del passato si

46. V. Ferreira, Invocação ao Meu Corpo (1969), p. 221. 47. V. Ferreira, Espaço do Invisível, Vol. V (1998), p. 86.

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riformula nel presente – perché sarà impossibile la riformulazione del pensare? […] I filosofi si contraddicono ma non hanno la curiosità di voler sapere il perché. Questa sarebbe ora la più importante questione di tutte le questioni. Perché forse si riconoscerebbe che la filosofia e l’arte sono sorelle gemelle. C’è solamente […] un’ondata immensa, come quella della vita, che si diversifica nelle onde del suo passare48». O forse in quest’altro, che ricorda i frammenti del giovane Nietzsche per Il libro del filosofo: «La filosofia non è un mezzo per scoprire la verità. Ma è, come l’arte, un processo per crearla49». Riportiamo un altro frammento: «La filosofia non è un sapere, ma un vedere, organizzato poi in ragioni per essere un sapere e sembrare filosofia. Perché solo allora, dispiegata in raziocini, essa può giudicarsi con diritto ad essere e non ad apparire. Essere filosofo è un effetto del “dimostrare” ciò che si propone e sottomette alla smentita degli altri. Ma la verità del filosofo si trova prima della dimostrazione, come il seme esiste prima dell’albero […] L’albero e l’uomo, prima di essere, sono nell’indiscutibilità del loro punto di partenza, per diventare in seguito la possibile varietà della loro realtà visibile […] Ma la filosofia non può rifugiarsi nel suo indicibile ed evidente punto di partenza senza ricominciare da capo. Perché commetterebbe allora l’indelicatezza dell’arte, che è arte senza nessun altra spiegazione. La filosofia ha voluto lasciare la casa dell’arte, che era dove si trovava bene e quello che era. C’è qualcuno che per caso “discute” con l’opera d’arte? L’unica discussione possibile è voltare le spalle. La filosofia è un modo per ognuno di stare nel mondo e nella vita, e visto che non si disturba (molto) l’ordine pubblico, nessuno ha nulla a che fare con esso. Una filosofia non deve far altro che “dimostrare”, dire solo ciò che appare. Felici quei filosofi che 48. V. Ferreira, Pensar (1992), frag. 441. 49. Ivi, frag. 628.

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l’hanno saputo. Nessuno discute con loro dell’azzurro o del rosso del loro quadro […] La storia della filosofia è una storia dell’arte che è germogliata. Tagliato il germoglio, rimarrà, al pari dell’arte, perfettamente funzionale50». Per concludere, riportiamo un ultimo passaggio: «L’arte non serve a nulla. E nemmeno la filosofia. Eccetto come estensione della persona che si è, ossia dell’uomo che si è51». Ciò che queste affermazioni vogliono insistentemente testimoniare è che l’estetica non si riduce al dominio dell’arte, ma abbraccia ogni dominio del sentimento e dell’emozione; a poco a poco, il suo autore ha perciò riconosciuto che anche le idee – specialmente quelle filosofiche – possono essere espressione di una genuina emozione, o almeno «il residuo di un’emozione che si è dimenticato52», e che perfino l’ordine geometrico delle ragioni filosofiche di uno Spinoza, come aveva già ben compreso Goethe, può far trapelare il sentimento più profondo.

50. Ivi, frag. 633. 51. Ivi, frag. 672. 52. V. Ferreira, Espaço do Invisível, Vol. V (1998), p. 36.

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Agostinho da Silva, pedagogo della libertà

1. In una tarda evocazione della sua infanzia, George Agostinho da Silva (1906-1994) aveva confessato di essere stato attratto ben presto dalla vita del marinaio. Sebbene la famiglia non lo abbia assecondato nel suo desiderio, il represso e frustato sogno dell’infanzia otterrà comunque la sua vendetta, e, seppur sublimato, attraverserà tutta la sua vita, facendo del filosofo un navigante dello spirito, sempre pronto a partire per nuove esperienze ed orizzonti. È con il linguaggio e la metaforica del mare, infatti, che Agostinho da Silva espone la propria concezione dell’esistenza, descritta come una perenne avventura, una navigazione, «una vita toccata dal vento1». 1. A. da Silva, Dispersos, org. e introdução de P. Borges, INCM, Lisboa 1988, p. 81. L’opera e la riflessione di Agostinho da Silva sono state oggetto di alcune analisi recenti, fra cui spiccano: E. Abranches de Soveral, Agostinho da Silva: um homem de Deus, in P. Calafate (dir.), História do Pensamento Filosófico Português, Editorial Caminho, Vol. I, T. I, pp. 273-295; Id., O Pensamento e a obra de Agostinho da Silva, in Actas do Congresso Internacional Pensadores Portuenses Contemporâneos, UCP (Porto) – INCM, Lisboa 2002, Vol. III, pp. 301-308; G. De Mello Kujawski, Agostinho da Silva, o navegador intelectual, in Ivi, pp. 309-314; A. dos Santos Pereira, A soteriologia portuguesa de Agostinho da Silva. Uma divina loucura, “É que também somos deuses”, in Ivi, pp. 315-325; M. Antónia Jardim, Entre

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Dopo un’infanzia ed un’adolescenza trascorse nei paesaggi altoduriensi, poiché i proventi della famiglia non gli permettevano di trasferirsi a Coimbra per studiarvi Diritto, si immatricolò nella Facoltà di Lettere appena fondata a Porto, al cui interno spiccava la personalità e il magistero filosofico di Leonardo Coimbra, di cui Agostinho da Silva divenne alunno. In quella stessa Facoltà, al tempo sotto la minaccia di un’imminente chiusura, concluderà molto presto il suo dottorato in Filologia Classica (1929) con una dissertazione su Il senso storico delle civiltà classiche. In questa dissertazione giovanile, Agostinho traccia uno dei più costanti ed importanti temi della sua riflessione – il senso della storia umana: in questo primo lavoro era già ben visibile la sua preferenza per una soluzione ottimista, contro le tesi del pessimismo di Oswald Spengler esposte ne Il tramonto dell’Occidente, un’opera che, pur essendo stata pubblicata nel 1918, continuava a possedere un impatto culturale non indifferente in un’Europa ancora segnata dall’esperienza della Prima Guerra Mondiale. Dopo aver frequentato a Lisbona la Scuola Normale Superiore, Agostinho diventò professore in un Liceo di Aveiro; non eserciterà comunque la sua professione per molto tempo, poiché verrà allontanato dal suo lavoro dopo aver rifiutato di firmare una dichiarazione (a cui, in virtù della legge vigente, erano obbligati tutti i funzionari pubblici) in cui dichiarava di non Fernando Pessoa e Agostinho da Silva, uma educação simbólica, in Ivi, pp. 327-332. Le commemorazioni del centenario della nascita del pensatore, avvenute nel 2006, hanno dato origine a vari studi e alla rivalutazione ermeneutica di un’opera la cui estensione si sta conoscendo in modo sempre più approfondito, vista anche la pubblicazione del lascito dell’autore portoghese. Cfr. inoltre lo studio di R. Valente Pinho, Religião e Metafísica no pensar de Agostinho da Silva, INCM, Lisboa 2006. Fra i vari congressi che si sono tenuti, cfr. in part. R. Epifânio (org. e intr.), Agostinho da Silva, Pensador do Mundo a Haver, in Actas do Congresso Internacional, 15-17 de Novembro de 2006, Zéfiro e Associação Agostinho da Silva, Corroios – Lisboa 2007.

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essere mai appartenuto o che non avrebbe mai fatto parte di una società segreta. Più tardi, evocando l’episodio, il pensatore portoghese non vide in questo fatto un particolare coraggio o un segno di eroismo, benché riconoscesse che sarebbe stato certamente più comodo e sensato firmare quella dichiarazione, come facevano tutti. Un tale episodio, però, oltre a rivelare un tratto molto caratteristico della personalità di Agostinho da Silva – il suo viscerale senso di libertà –, mise anche fine a quella che sarebbe potuta essere la serena e comoda vita di un professore liceale di lingue classiche, al tempo stesso segnando l’inizio di una vita errabonda e straordinariamente ricca di realizzazioni. Dopo un’esperienza come borsista a Madrid, dove studiò i mistici spagnoli, e a Parigi, dove visse assieme ad António Sérgio, fece ritorno in Portogallo, guadagnandosi da vivere con ripetizioni di filosofia, con la traduzione dei classici e con alcuni scritti. Sebbene non condividesse il razionalismo e i progetti politici sergiani, collaborò comunque con il gruppo “Seara Nova”. Nella metà degli anni 40’, senza che vi fosse nulla che lo trattenesse in Portogallo, e rispondendo inoltre ad una sfida che aveva proposto a se stesso, Agostinho decise di trasferirsi in Brasile, dove, nel corso di più di due decenni, realizzerà un’impressionante opera pedagogica e culturale. Il suo curriculum nelle terre di Vera Cruz è molto esteso: professore universitario di Letteratura e Cultura Portoghese, di Filosofia dell’Educazione e occasionalmente di altre materie; co-fondatore delle Università di Paraíba, Santa Catarina, Brasília e Goiás; creatore e direttore di vari progetti e centri di investigazione (nel Dipartimento di Ricerche Storiche nell’Itamarati; nell’Istituto Osvaldo Cruz di Zoologia Medica, nel Centro di Studi Afro-Orientali dell’Università di Bahia, nel Centro Brasiliano di Studi Portoghesi dell’Università di Brasília, nella Commissione di Studi Iberici dell’Università del Mato Grosso, nella Commissione di Studi Europei dell’Università di Pa-

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raná). Fu anche Segretario della Cultura dello Stato di Santa Catarina e Direttore Generale dell’Insegnamento Superiore a Rio de Janeiro. Tutte queste esperienze sono dovute sia alla sua naturale disponibilità ad accettare nuove sfide, sia all’illimitata curiosità del suo spirito, che si interessava «a tutto ciò che esiste nel mondo2». Nel 1969, percependo che la sua missione in Brasile era ormai compiuta, decise di tornare in Portogallo, cogliendo così l’occasione di viaggiare in quei luoghi dove era ancora possibile ritrovare le tracce della presenza e della cultura dei portoghesi, dall’Africa all’estremo Oriente, con l’obiettivo di sperimentare ed esplicitare il suo peculiare concetto di cosmopolitismo lusitano. Negli anni 80’, Agostinho incominciò ad essere scoperto dai mezzi di comunicazione portoghesi, e la sua figura, semplice e spontanea, fu ampiamente esplorata, essendo sollecitato da numerose interviste alla stampa, alla televisione e alla radio. Se da un lato l’attenzione dei media lo fece conoscere al grande pubblico, tutto ciò ebbe però l’effetto perverso di banalizzare le sue idee e la sua visione del mondo, all’apparenze ingenue ed espresse quasi sempre in formule paradossali o aforistiche, pensate come materia di riflessione, e non certo considerate come tesi teoriche, quasi fossero delle facili ricette per i problemi economici, politici o pedagogici con cui si confrontava la società portoghese dell’epoca, divisa tra la memoria della tradizionale vocazione atlantica e marittima e il seducente e promettente appello della ricca Europa continentale. Fu proprio in questa epoca che molti portoghesi scoprirono Agostinho da Silva, l’affascinante uomo di molte vite, marinaio di molti porti, multiforme personalità di filosofo, pedago-

2. Cfr. A. da Silva, Dispersos (1988), p. 112.

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go, pensatore, poeta e saggista, eremita, ma non misantropo, asceta, ma con un intensa inclinazione all’allegria e al piacere, simultaneamente ingenuo e profondo, mistico, ma con un forte senso della realtà e del concreto, visionario sognatore di utopie, ma con i piedi ben piantati a terra, infine un uomo libero e un poeta “a piede libero”, come credeva dovesse essere ogni uomo intenzionato a realizzare veramente la propria umanità. In un appunto autocritico, Agostinho delineò il suo profilo con queste parole: «Più uomo di azione che intellettuale: per il lavoro del pensare è troppo mistico; ma anche in qualità di uomo di azione, è stato criticato per la mancanza di persistenza; si scoraggia e cambia molto facilmente attività3». Quello che più impressiona nella sua biografia è la straordinaria capacità di approfittare di ogni possibilità, traendone sempre un lato positivo, la capacità ginnica di saltare sopra gli ostacoli, considerando le difficoltà come sfide e stimoli. La sua arte di sopravvivere ai naufragi della vita impressiona, guardando sempre davanti e al futuro senza lamenti o risentimenti. Agostinho considerava la sua vita come il risultato di una successione di casi, cercando di trarre da ognuno il meglio possibile4: egli stesso, del resto, considerava l’esistenza umana come un gioco – come «la scacchiera in cui il mondo intero gioca con noi un’intensa partita5», spettando proprio all’uomo il compito di approfittare delle opportunità che gli sono date per realizzare le sue scommesse. Si tratta di un tema della cultura barocca che il Padre António Vieira aveva sviluppato in modo particolare nel celebre Sermone del

3. Ivi, p. 296. 4. Ivi, p. 59. 5. Ivi, p. 27.

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Gioco6, benché non fosse certamente soltanto questo l’unico motivo che legava la visione del mondo di questi due pensatori veramente luso-brasiliani. A risaltare sono perciò il senso del rischio e la permanente capacità di rispondere all’inesauribile appello della vita, prodiga di possibilità per quelli che vivono con l’attitudine e la disponibilità nei confronti della creazione. Riportiamo una frase che ben testimonia il motto di un’intera vita: «Rischiare tutto per la nostra libertà e non negarla a nessuno7». Una simile assoluta disponibilità si traduceva nel personale programma di una vita nuda e semplice, espressa in questi termini: «Vivere povero, vivere modesto, vivere studiando per aver qualcosa di più da adorare, vivere servendo, vivere eliminando i propri problemi per aver soltanto quelli degli altri, vivere con i piedi nella possibilità per attingere l’impossibile, nel reale per raggiungere l’irreale8». 2. Cercheremo invano di trovare negli scritti e nelle interviste di Agostinho da Silva qualcosa che assomigli ad un sistema o ad una dottrina di filosofia. Il suo pensiero non si esprime sotto forma di accurate analisi e aperte argomentazioni, ma, di preferenza, con aforismi in cui viene sintetizzato un sapere, all’apparenza magari ingenuo, disarmato e disarmante, in contrasto con le idee convenzionali, eppure guidato da una vasta esperienza e da una matura riflessione. L’aforisma, d’altronde, non è un modalità seconda di espressione, e molti filosofi ne hanno fatto un ampio uso. È lo stesso Agostinho da Silva 6. A. Vieira, Sermões, Vol. V (1959), pp. 269 e sg. Si veda in questo volume pp. 65 e sg. 7. Ivi, p. 27 8. A. da Silva, Lettera del 22 agosto 1976, in J. Florido, Um Agostinho da Silva, Correspondência com o Autor, Ulmeiro, Lisboa 1997, p. 127.

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a riconoscerlo: «L’aforisma non traduce sempre il disprezzo della ragione o una mal intesa libertà. Ci sono aforismi che sono come piccoli capitoli di un libro che si vorrebbe scrivere, come fotografie scattate attimo per attimo sui passi di un uomo che marcia diritto e fermo per la sua strada; possono essere così logicamente incatenati fra sé, costituire un così sicuro edificio come il trattato che si andrà completando nella lentezza e nel silenzio9». Benché sia sempre stato considerato un filosofo, Agostinho non si riconobbe mai in tale definizione: filologo di formazione, si considerava più un poeta che un filosofo, una persona più in grado di «immaginare la vita anziché spiegarla10». A nessuno potrebbe quindi calzare più propriamente un’osservazione di Fernando Pessoa, secondo cui, in fondo, «forse ogni filosofo è un filologo che sogna11». Un filosofo che sogna, ecco ciò che è stato Agostinho da Silva. Durante la sua formazione universitaria, non si interessò mai veramente alla filosofia, pur essendo stato alunno di Leonardo Coimbra, le cui idee e lezioni, senza alcun dubbio stimolanti, non riuscirono tuttavia a spingerlo verso questo ramo del sapere. Più tardi, evocando il periodo della sua formazione universitaria, confessò candidamente: «Io non avevo il minimo interesse per la filosofia, e suppongo di non averlo nemmeno oggi12». Con la semplicità e la franchezza che gli appartenevano, Agostinho dichiara che tutta la sua competenza tecnica in filo-

9. A. da Silva, Considerações e Outros Textos, Assírio & Alvim, Lisboa 1989, p. 18. 10. A. da Silva, Conversação com Diotima, Gráficas Minerva, Famalição, 1944, p. 117. 11. Textos Filosóficos de Fernando Pessoa, estabelecidos e prefaciados por A. P. Coelho, Edições Ática, Lisboa 1994, Vol. II, p. 211. 12. A. da Silva, Dispersos (1988), p. 173.

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sofia, compreso il suo passato in Brasile, era stata acquisita con la lettura di un manuale scolastico di Cuvillier, utilizzato per fornire delle spiegazioni particolari agli alunni liceali, e nelle discussioni con il gruppo “Seara Nova”, dove imperava quello che chiamava il “cartesianismo” di António Sérgio, un pensiero che, del resto, non lo seduceva né entusiasmava. In Brasile, all’inizio degli anni 50’ e nel decennio seguente, ebbe comunque l’opportunità di far parte di uno stimolante e vasto circolo di intellettuali, legati da alcune affinità speculative, conosciuto come “Grupo de São Paulo”, di cui facevano parte i filosofi brasiliani Miguel Reale, Vicente Ferreira da Silva e un altro emigrante portoghese, il filosofo e mitologo Eudoro de Sousa. Le tematiche e le preoccupazioni caratteristiche di questo gruppo di pensatori erano le seguenti: la ricerca delle origini (di una Grecia mitica e formata da miti) e della radice spirituale dell’Occidente, la filomitia, l’interesse per un poetare pensante e poetico come rifiuto delle forme scolastiche di filosofia (in questo caso, siamo probabilmente di fronte ad un’ispirazione heideggeriana, seppur indiretta), l’interesse per il sacro, per il ludico e per il linguaggio, la riflessione sulla cultura, sull’arte, sulla tecnica e sui valori13.

13. La designazione “Escola de São Paulo” fu proposta da António Braz Teixeira nel suo O Espelho da Razão, EDUEL, Londrina 1997, pp. 223 e sg., ed è stata poi seguita da altri commentatori. Su questo gruppo o cenacolo filosofico-letterario e sulle caratteristiche e le affinità speculative dei suoi maestri (al suo interno partecipavano anche, al di là di moltissimi intellettuali brasiliani – Dora Ferreira da Silva, Milton Vargas, Renato Cirell Czerna, Adolpho Crippa, Heraldo Barbury, Luís Washington Vita, Gilberto de Mello Kujawski –, il ceco Vilem Flusser e gli italiani Ernesto Grassi e Luigi Bagolini), cfr. C. Marcondes César, O Grupo de São Paulo, INCM, Lisboa 2000; della stessa autrice, possiamo leggere un saggio più recente sul Pensamento originário e filomitia, in Actas do Congresso Internacional Pensadores Portuenses Contemporâneos, Vol. III (2002), pp. 333-345. Cfr. inoltre M. Helena Varela, A Escola do Porto e a Escola de São Paulo: as

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Pensatore senza metafisica e senza sistema, Agostinho da Silva è comunque sensibile alla drammaturgia di un pensiero, perfettamente incarnata nei dialoghi di Platone, che si esprime nei differenti sistemi filosofici. L’ideale, secondo lui, sarebbe avere non solo un pensiero filosofico, ma essere anche capaci di affrontare tutti i sistemi, impersonandoli dialetticamente, amalgamandoli, confrontandoli, facendoli comunicare gli uni con gli altri, correggendoli e completandoli l’un l’altro – un compito eclettico per il quale considerava essere particolarmente dotato il genio portoghese14. Se la condizione di filosofo può comunque calzare a quest’uomo di molteplici dimensioni, lo sarà solamente secondo la modalità socratica di praticare la filosofia, come l’arte «di provocare, non di stabilire verità15». La filosofia interessa a questo filologo di formazione solo «per far nascere la confusione nello spirito di quelli che la ricercano, per minare le loro certezze, in modo da far emergere quello che in loro è fondamentale16». La filosofia come metodo maieutico, onomatopeias do sagrado na obra de Vicente Ferreira da Silva, in Ivi, Vol. III (2002), pp. 347-370. 14. Cfr. A. da Silva, Dispersos (1988), p. 57. 15. Ivi, p. 75. Nel Diário de Alcestes, Ulmeiro, Lisboa 1990, pp. 43-45, Agostinho da Silva discute la tesi di Boutroux sul vero Socrate, concludendo: «Non c’è un vero Socrate contrapposto a dei falsi Socrate; quello che possiamo fare è scegliere fra tutti quelli, come quello che più ci soddisfa, il più logico, il più coerente, quello che meglio unisce ed esplica i fatti storici che ci sono giunti dalla sua biografia […] Di buon grado assimilerei questo problema socratico a quei problemi di geometria in cui si chiede di tracciare una curva su un certo numero di punti; considererò come soluzione migliore quella che sembra la più semplice, la più elegante e la più esatta, combinando secondo il grado di precisione la quantità di punti assorbiti nella curva; e questa sarà la stessa base su cui possiamo appoggiarci per ridere soltanto del Socrate delle Nuvole, restando un poco scettici di fronte al Socrate platonico». 16. A. da Silva, Dispersos (1988), p. 58.

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pertanto, o al massimo come stile di vita, e non come una professione di cui si vive, un’arte o una dottrina che si insegna. Si tratta di un’attitudine che il saggista ritrova in Spinoza, considerato l’unico portoghese veramente filosofo, nato in Olanda solo per caso, pur avendo sviluppato qui il suo pensiero. Anche per quest’altro importante rappresentante della diaspora portoghese, l’aspetto fondamentale non era avere o esporre una filosofia, ma vivere e agire filosoficamente. Fu proprio questa la ragione che spinse Spinoza a rifiutare un invito ad insegnare in un’università tedesca. Commentando questo rifiuto, Agostinho scrive: «Il grande gesto di Spinoza è consistito […] nell’aver rifiutato, quando è stato invitato, di insegnare filosofia. Aveva compreso che la filosofia, quando si trasforma in educazione, perde la vocazione provocatoria, convertendosi in dottrina17». Della concezione socratica della filosofia fa parte, naturalmente, il gusto del paradosso, una caratteristica che Agostinho intende e pratica come una strategia per non rimanere imprigionato in posizioni teoriche unilaterali. Il paradosso mantiene il pensiero in una tensione feconda, aperto alla creazione, alla novità, alla sorpresa. La paradossalità è allora la forma che assume la dialettica agostiniana, il suo modo di praticare l’unione dei contrari, di fecondare l’ortodossia con l’eterodossia, e viceversa. Ecco le sue parole: «Mi piace il fatto di essere considerato paradossale. Come vedo sempre nell’eterodosso l’ortodosso contrario, credo che quello che realmente ci può unire è il paradossale. È importante collocarci nel paradosso. Ho paura io dell’ortodosso e dell’eterodosso, che mi tratterrebbero dal fare ciò che mi piace molto: poter conversare con persone in possesso di pensieri diversi, varie attitudini, con

17. Ivi, p. 80 e pp. 118-119.

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la capacità di comprenderle in se stesse, soprattutto quando qualcuna mi sembra di segno interamente opposto al mio18». Nelle Sette Lettere ad un Giovane Filosofo, Agostinho da Silva insiste sull’incapacità della filosofia di rendere conto della versatilità della realtà e di accompagnare il movimento della vita. Nel seno della stessa intenzione filosofica, infatti, è presente una contraddizione: essa vuole spiegare la realtà, ma la realtà è viva e diversa; ogni spiegazione è quindi destinata a semplificarla, ed ogni sistema filosofico ad immobilizzarla. D’altro canto, la filosofia intende essere una spiegazione totale, benché vi sia sempre in lei l’esclusione del proprio contrario. Scrive Agostinho: «Una filosofia, da quello che ho capito, deve essere una spiegazione dell’universo: perché allora non includere quello che ci appare come avversario?». La realtà non viene colta in un sistema filosofico, né nella totalità dei sistemi, la vita e l’amore valgono infinitamente più di una filosofia, il mondo continua ad essere lo stesso sia che lo so si interpreti con una filosofia idealista o materialista, e la verità, per essere ciò che è, non necessita dei sistemi degli uomini. Invece del cartesiano “penso, dunque sono”, Agostinho, non diversamente dall’Alberto Caeiro di Pessoa, raccomanda al suo giovane corrispondente di adottare come più feconda la tesi «sento, ed esisto solo quando sento, e mentre sento, l’universo esiste19». Infine, ciò che si legge nelle lettere non è un’esortazione filosofica, bensì – in un sottile esercizio di ironia socratica – un invito a disertare la filosofia come professione che vincola il pensare ad un sistema, ad una scuola o ad una tendenza. La verità, del resto, secondo Agostinho, costituisce un valore subalterno, meno importante dell’amore o del senso di

18. Ivi, pp. 79-80. 19. A. da Silva, Sete Cartas a um Jovem Filósofo (1945), Ulmeiro, Lisboa 1997 (4a ed.), pp. 64-65.

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umanità. Ecco cosa ricorda al giovane candidato alla filosofia: «Quando si perde l’umanità, non vale la pena essere filosofo; se venisse un Dio in terra, nonostante il compito spetti meglio ad un demonio, e gli consegnasse la verità, ma con l’incarico di prendere in cambio l’amore degli uomini, il filosofo non dovrebbe avere in sé altro comportamento che quello di un rifiuto. Quando ci raggeliamo al punto da non comprendere gli altri, allontanandoci da loro perché li giudichiamo, o realmente sono, meno intelligenti o meno colti, o, su un altro piano, meno onesti, la filosofia pregiudica solamente, aggrava soltanto il rifiuto, questa dolorosa separazione tra ciò che vale e ciò che non vale20». Ad un’esplicita ontologia o ad una concezione dell’essere o della realtà, Agostinho da Silva sostituisce una continua attenzione al mistero delle cose e un’intensa percezione del carattere dialettico della realtà: «A mio parere, il fondamento delle cose è intimamente misterioso. Non posso dire che il fondamento è, poiché, al tempo stesso, può non essere. Non escludo una visione del mondo in cui l’essenza delle cose – di ognuna di esse – possa essere e non essere allo stesso tempo21». Alcuni indizi sembrano spingere la riflessione del saggista verso un’ontoteologia creazionista, sebbene si tratti di un creazionismo differente sia da quello della teologia cristiana, sia dal creazionismo filosofico fatto proprio dal suo maestro Leonardo Coimbra. Si tratta, invece, di un’intuizione che lo spinge a concepire l’intera realtà, compresi Dio e l’uomo, come un impulso permanente rivolto alla creazione. La teologia agostiniana non è ovviamente una teologia affermativa, trattandosi al contrario di una teologia essenzialmente negativa. Ad ogni modo, ciò non spinge il pensatore portoghese a difendere 20. Ivi, p. 59. 21. A. da Silva, Dispersos (1988), p. 72.

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una teologia creazionista, almeno secondo quella concezione tradizionale che guarda ad un Dio che crea il mondo, definendolo così una volta per tutte; abbiamo a che fare invece con un Dio perennemente occupato nel lavoro di creazione e distruzione dell’universo: «Se pensiamo ad un Dio creatore, possiamo immaginarlo mentre crea e distrugge l’Universo22». Questa ontoteologia presuppone che la realtà oscilli perennemente tra l’ordine e il caos, e che anche l’universo, nella sua storia e nella sua più intima struttura, sia caratterizzato da una permanente oscillazione tra la struttura e la destrutturazione, tra l’essere e il non essere. Quest’antica idea, tipica delle ontocosmologie presocratiche, soprattutto di quelle di Eraclito e Anassagora, rivela delle analogie con la cosmologia del giovane Kant, autore della Storia universale della natura e del cielo (1755), e del buddismo zen, e perfino con le teorie di alcuni cosmologi contemporanei. In una simile concezione, svolge un ruolo importante la nozione di gioco, di caso, di indeterminazione. Ed è precisamente nelle fratture degli ordini, nelle zone di caos e di instabilità, in un mondo e in una realtà non ancora strutturati che vi è spazio per la novità, per la libertà, per l’azione e soprattutto per la creatività umana – un’attività retta non dalla ragione calcolante, da una rigida previsione e pianificazione, ma dall’immaginazione, dall’imprevedibile, da cui può sempre sorgere qualcosa di realmente nuovo. 3. Ancor più esplicita di un’ontologia, in Agostinho da Silva è presente una particolare riflessione antropologica, anch’essa interamente dominata dall’idea di libertà e creazione. Agostinho concepisce l’uomo come un essere in possesso di illimitate capacità, sempre aperto all’imprevedibile, capace di es-

22. Ivi, p. 73.

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sere tutto e il suo contrario, di moltiplicarsi in vari eteronimi, di giocare in molteplici ruoli. Questo pensatore, pertanto, egli stesso poeta, interpretava alla perfezione un altro poeta, viandante fra varie sensazioni e personalità, che si travestiva ora da Alberto Caeiro, da Álvaro de Campos, da Ricardo Reis, da António Mora, da Bernardo Soares, ora perfino da Fernando Pessoa. Contro il culto della specializzazione, Agostinho vuole che si cerchi di essere effettivamente tutto ciò che siamo, dando espressione a tutte le dimensioni dell’umano. Con le sue parole: «Ogni persona deve essere totale, completa, e avere la libertà di esserlo. Mi sono sempre battuto sul punto, per me importantissimo, della libertà totale, non condizionata: che ognuno sia ciò che è, cosa abbastanza limitata dall’apparato politico ed economico. L’uomo è stato fatto per essere un poeta libero, qualunque sia la sua espressione poetica. Può essere la musica, la letteratura o nessuna cosa […] Guardare i gatti, le pietre, gli alberi23», come farebbe l’eteronimo pessoano Alberto Caeiro, considerato da Agostinho «il più portoghese di tutti i poeti portoghesi24». Anche la scienza può essere praticata in modo rigoroso e serio senza per questo differenziarsi da chi pratica la poesia: ciò accade ad esempio quando la dimensione umana non è in essa ipotecata, quando l’uomo non perde la capacità di meravigliarsi di fronte all’insondabile mistero delle cose, una zona d’ombra che non si riduce mai completamente alle più sublimi equazioni, alle più solide costruzioni teoriche. Si può intendere allora meglio la sua idea, spesso ridicolizzata quanto mal compresa, secondo cui «l’uomo non è nato per lavorare, ma per creare». Come filologo classico, Agostinho conosceva

23. Ivi, p. 115. 24. A. da Silva, Educação de Portugal (1989), Ulmeiro, Lisboa 1996 (3a ed), p. 10.

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molto bene il significato originario del verbo greco poiein, dal sostantivo poiesis, dall’aggettivo poietico. Sapeva quindi che ciò che è poetico non si confina alla poesia o alle arti, ma è posto in relazione all’oggetto di un’azione o di una creazione spontanee. Contrapporre dunque la creazione al lavoro o alla produzione pianificata non significa affermare che il poetico escluda l’economico, come quest’ultimo esclude o marginalizza di fatto il primo, ma che le stesse attività produttive ed economiche guadagnerebbero una dimensione sorprendentemente nuova se in loro gli aspetti della realizzazione umana, della creazione, della fruizione estetica non fossero posti a lato. Significa, in sostanza, la denuncia di una produzione trasformatasi in un regime non di uomini liberi, ma di schiavi. Se c’è un imperativo categorico nel pensiero di Agostinho da Silva, è proprio il seguente: essere libero e conferire libertà. Ma la libertà non indica soltanto un diritto politico o giuridico, ma qualcosa di più fondamentale: il potere dello spirito, l’impulso della creazione, l’assoluta disponibilità per l’impensabile. È questa intuizione profonda della libertà che Agostinho da Silva trova in uno dei suoi argomenti favoriti – la religione o culto dello Spirito Santo –, che evoca una concezione medievale difesa dall’abate Gioacchino da Fiore; secondo il teologo calabrese, infatti, si annunciava l’avvento prossimo di un’epoca della storia del mondo retta dalla terza persona della trinità divina. Quest’epoca andrà a coincidere con il regno dello spirito, della creazione dell’immaginazione, in cui il mondo sarà governato da un bambino, vivendo nell’eterna novità del mondo25. In tale antropologia, non è l’adulto ma il bambino che rappresenta la misura e l’ideale dell’umano, poiché è lui a rappresentare la creazione, l’immaginazione, la libertà, l’unità integrale 25. Cfr. Ivi, pp. 22 e sg.

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dell’uomo, la piena e innocente consegna al gioco del mondo. Siamo al cospetto di un tratto che rivela una qualche analogia tra l’antropologia agostiniana e quella nietzschiana, esposta in Così parlò Zarathustra, in cui il bambino – simbolo dell’innocenza del divenire e dell’affermazione ludica dell’esistenza – succede al cammello (ossia all’uomo del dovere) e al leone (all’uomo del potere). È facile vedere come questa concezione antropologica si estende alla filosofia dell’educazione, un dominio in cui le riflessioni di Agostinho da Silvia si incrociano con quelle di molti pensatori contemporanei – con umanisti come Ivan Illich, con sociologi come Pierre Bourdieu, e anche con alcuni filosofi moderni, come Montaigne e Rousseau26 –, assumendo un carattere eminentemente critico nei confronti delle istituzioni educative, dei presupposti che le sorreggono e delle pratiche funzionali al loro sviluppo. Esse non permettono l’espressione delle potenzialità umane, ma le subordinano agli imperativi dell’organizzazione economica del mondo, al principio della redditività e dell’efficienza, coltivando la specializzazione delle abilità e delle facoltà, promuovendo lo sviluppo unilaterale e disarmonico dell’uomo. «Tutte le nostre scuole», accusa Agostinho, «sono scuole di guerra, per il reclutamento, perché vogliamo soltanto i più adatti, o quelli che giudichiamo tali, per la disciplina del corso e del comportamento, e per il nostro obiettivo di prepararli, al termine degli studi, per le armi», ossia per le varie specialità.

26. La consonanza di Agostinho con l’autore dell’Emilio è confermata dai seguenti passaggi, tratti dal saggio sull’Educação em Portugal (1989), pp. 10-12: «L’uomo nasce buono, cioè nasce fratello del mondo, non suo proprietario o distruttore; penso che l’educazione, in tutti i suoi livelli, forme e processi, non abbia altro sistema se non quello che trasforma questa fraternità in dominio […] L’educazione non avrà altro compito se non quello di lasciare che la bontà iniziale splenda e sia»

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In alternativa, il saggista portoghese propone che si distrugga la scuola che conosciamo e che si creino scuole dove coltivare la libertà, l’immaginazione, l’invenzione, dove si possa riscoprire il piacere della conoscenza e non solo l’utilità della scienza, dove le relazioni umane siano di convivialità e non siano determinate dal senso della gerarchia, dove, infine, tutte le dimensione dell’umano (artistiche, scientifiche, tecniche) possano trovare la loro piena, libera e armonica espressione. Nelle parole di questo pedagogo dell’antipedagogia: «Realizzare la distruzione della scuola come la conosciamo, cioè della scuola destinata a preparare adulti e ad aumentare in loro la capacità di efficienza al lavoro. La scuola, che deve essere, al tempo stesso, artistica, scientifica e tecnica, deve aumentare la capacità di invenzione, accelerare il processo di immissione nella creazione di tutti i campi, preparare lo spirito ad accettare ogni esperienza e a risolvere ogni problema. Facciamo delle scuole senza professori, solo con l’incontro quotidiano di ricercatori e inventori e creatori nei vari gradi di progresso […]; facciamo scuole […] che si rinnovino attraverso il contatto intimo con chi le frequenta, o come professore o come alunno27» . Quest’uomo, che fu legato alla fondazione di quattro università in Brasile, afferma che l’università adempie veramente alla sua funzione soltanto quando si rivela superflua, quando porta coloro che la frequentano ad andare al di là di essa, ad essere autodidatti: «Tutte le università dovrebbero spingere il soggetto ad essere autodidatta. Dovrebbero avere un ambiente tale che chi non si istruisce per se stesso stia male28». Ad ogni modo, l’università deve essere più un luogo di investigazione gratificante che uno spazio chiuso

27. A. da Silva, Dispersos (1988), p. 199. 28. Ivi, p. 32.

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ad un insegnamento addomesticante: «Una vera università è quella che, fabbricando domande, obbliga a trovare risposte e, obbligando a ciò, ci fa guardare il palazzo come se fosse festa e non come se fossimo buoi29». 4. Due matrici strutturano la visione del mondo di Agostinho da Silva. Esse rappresentano ciò che egli considerava l’aspetto più essenziale in Occidente e in Oriente. Per quanto riguarda il lato occidentale, Agostinho pensava naturalmente al cristianesimo, letto attraverso la visione millenarista medievale dell’abate Gioacchino da Fiore e del francescanesimo, il cui spirito si era radicato in Portogallo a partire dai primordi della nazione, per poi diffondersi per il mondo con la diaspora portoghese, e di cui rimangono delle vestigia, sebbene a volte soltanto folcloristiche, in certe espressioni della cultura popolare (ad esempio, il culto dello Spirito Santo nelle Azzorre e in certe regioni del Brasile). Dell’Oriente, invece, Agostinho coglie l’etica e l’ascetica del buddismo zen, l’eremitismo, il distacco, l’attitudine contemplativa di fronte alla natura30. Secondo Agostinho, non diversamente da Padre Vieira, l’autore della Storia del Futuro, il futuro non è una categoria storica distante, ma rappresenta una dimensione dell’esistenza reale e presente agli uomini: il futuro, infatti, «arriva e si avvicinerà nella misura in cui noi tutti lo desideriamo e lo incorporiamo già a partire dalla nostra esistenza31». Una volta, in relazione alla questione “Cosa ci riserva il futuro?”, Agostino confessò di non essere metafisicamente molto sicuro dell’esistenza oggettiva del futuro, preferendo considerarlo nel presente

29. Ivi, p. 30. 30. Cfr. Ivi, p. 114. 31. Ivi, p. 11.

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e viverlo, per quanto è possibile, come se già esistesse, non essendo molto interessato all’esistenza o alla non esistenza del futuro, «non collegandolo per nulla alla metafisica32». In verità, la questione del futuro e del senso della storia e della vita non è per Agostinho da Silva un problema speculativo che possa essere deciso in termini metafisici, essendo invece una questione di ordine etico e di orientamento esistenziale. È allora solamente secondo questa angolazione che la preoccupazione sul significato della storia si trasforma in una constante della sua riflessione. Tale problematica si esprime sotto forma di una visione fondamentalmente ottimistica, provvidenzialistica ed utopica, più utile, però, ad animare l’azione che a confortare e ad addormentare la ragione: «Io mi affido totalmente, nel senso di essere in azione, all’idea che esista un significato provvidenziale nella Storia. Se non avessi la quasi certezza che, in ultima istanza, le cose andranno per il meglio, forse non mi impegnerei nell’agire, nell’agire pensando […] Quello che giustifica dinanzi a me stesso il senso della mia azione è la convinzione che la storia sia provvidenziale e avrà successo un giorno33». Questa visione provvidenzialistica non soltanto coesiste con una concezione che fornisce al caso, al gioco e all’incomprensibile un ruolo ben preciso, ma non dispensa nemmeno il lavoro subordinato della previsione e del calcolo. L’utopia non è la fuga dalla realtà, ma è in funzione della realtà, rappresentandone un ingrediente fondamentale. La realtà è sempre più di quello che già è, e l’utopia dice questo eccesso, testimonia tutta la pienezza possibile e perfino quello che appare impossibile, compreso tutto ciò che non si realizzerà mai. Ecco un passaggio dove il pensatore portoghese espone con meridiana

32. Ivi, pp. 27-28. 33. Ivi, p. 71.

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chiarezza la sua concezione dell’utopia: «Credo sia necessario camminare per l’utopia, nel suo significato reale, come qualcosa della cui impossibilità pratica tutti siano coscienti. Sono solito utilizzare una formula un po’ paradossale: la realizzazione dell’utopia per mezzo della matematica, cioè non avanzare con nulla che non sia certo, sicuro, razionale e sperimentato, ma in modo da camminare verso un’utopia, verso l’impossibile. Assumere il prevedibile come via di accesso all’imprevedibile34». È nel contesto di questa concezione, simultaneamente provvidenzialista ed utopica, che si inscrive la peculiare interpretazione agostiniana della missione storica del Portogallo, glossando a suo modo l’idea barocca del Quinto Impero, sviluppata in particolare da Padre António Vieira, e ripresa anche dallo stesso Fernando Pessoa. In Agostinho da Silva, la componente politica del progetto cede il passo al versante umanista e cosmopolita di mediazione culturale e di diffusione dello spirito di libertà e di creazione, che considera essere la caratteristica più profonda del popolo portoghese, benché sommersa da secoli di maldestre istituzioni e grette mentalità. Questo messianismo agostiniano è un messianismo illuminato che, in ultima istanza, si consolida riconoscendo l’importanza che la dimensione della speranza e del desiderio possiedono nella sua visione dell’uomo. Ecco perché egli può dire nel suo stile personale, dove sono ben riconoscibili le assonanze vieirine, le seguenti parole: «Sono di queste fiducie come lezione del passato e di questi ottimismi come volontà di futuro; siamo rimasti delle catastrofi per essere quello che vogliamo quando vogliamo: e non c’è modo migliore di essere, dopo aver acceso in noi la fiamma […]; è giunto il tempo di prepararci per i nuovi viaggi, che il calo degli ormeggi è ormai

34. Ivi, p. 58.

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pronto […] Con una correzione: quella di mettere ora mondi anziché mari; e un dubbio: quello che non vi sia magari giusto che la virgola tra il verbo volere e il verbo potere35». Il Portogallo, del resto, non rappresenta per Agostinho solo quello stretto rettangolo territoriale collocato nell’estremo occidente d’Europa, ma il vasto mappa-mondo della lusofonia, della lingua e della cultura portoghesi. Glossando e ampliando la ben nota affermazione di Pessoa, il saggista dirà che «è la lingua portoghese che ci costituisce come Patria36», poiché è proprio la lingua che testimonia la cultura e l’esperienza storica del mondo e della vita. D’altra parte, com’è documentato da molti esempi nella storia, è soprattutto fuori dalla ristrettezza delle loro frontiere di origine che i portoghesi hanno rivelato nel modo migliore ciò di cui sono capaci, come se la piccolezza e ristrettezza della geografia risultasse piccola per un sogno così grande. O come se nella loro stessa terra fossero stati allora, nel corso dei secoli, sminuiti da miserrime istituzioni, da elites ignoranti o da petulanti intellettuali esterofili che disprezzavano il popolo e la sua cultura, da governanti inetti, al punto da potersi considerare quasi un miracolo che un paese così bistrattato durante tutto questo tempo esista ancora37. Abbiamo a che fare con delle affermazioni che non si distanziano molto da quelle che, a suo tempo, era solito formulare Padre Vieira. 35. A. da Silva, Educação de Portugal (1989), p. 78; cfr. inoltre Ivi, p. 69. 36. A. da Silva, Dispersos (1988), p. 613; cfr. A. da Silva, Educação de Portugal (1989), p. 17. 37. Una volta Agostinho si è lasciato sfuggire questa affermazione: «Se riuscissimo a comprendere dove sono gli ostacoli che impediscono al portoghese di essere poeta [creatore, libero, immaginativo] nella sua stessa patria, forse riusciremmo a creare una generazione di poeti a piede libero, e noi portoghesi saremmo il principio del regno dell’imprevedibile», A. da Silva, Dispersos (1988), p. 59.

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Pur essendo solidale con i movimenti che dall’inizio del XX secolo si sono sforzati di recuperare l’anima popolare portoghese e la forma peculiare del pensiero lusitano, Agostinho da Silva non si lasciò tuttavia imprigionare nella ristretta mentalità di alcuni dei fautori dell’idea di una “filosofia portoghese” chiusa in se stessa. Il genuino senso lusitano è per lui il cosmopolitismo, la mediazione su scala mondiale, e non la cultura sterile di una singolarità insulare. La visione per nulla esaltante della storia reale del Portogallo contrasta con l’interpretazione idealista e messianica che Agostinho si è fatto del ruolo storico che il Portogallo ha svolto e ancora svolge nel mondo38. I portoghesi sono stati i veri artefici della modernità: hanno creato la mondializzazione, hanno mostrato come il mondo sia un arcipelago e il mare l’elemento che lega i popoli anziché separarli, hanno unito gli uomini tra loro, senza distruggere le rispettive differenze, hanno dimostrato che la multiculturalità e la multirazzialità sono possibili, rappresentando ogni giorno di più il futuro e il destino dell’umanità. I Portoghesi, nella loro lunga diaspora, hanno perciò realizzato la moderna ekouméne. La loro opera, tuttavia – attualmente rappresentata da tutta la comunità multirazziale e multiculturale che si esprime nella lingua portoghese –, deve proseguire, perché l’armonia universale dei popoli (componente essenziale anche dell’idea vieirina di Quinto Impero) non si è ancora realizzata39. Al pari del grande gesuita barocco, anche per Agostinho l’utopia si traduce innanzitutto nell’ideale ecumenico di unire tutti i credi (il cristianesimo, il buddismo, l’islamismo e le stesse culture animiste40) in una sorta di “cat-

38. Cfr. A. da Silva, Educação de Portugal (1989), pp. 13 e sg. 39. Cfr. Ivi, p. 26. 40. A. da Silva, Lettera del 26 febbraio 1972, in J. Florido, Um Agostinho da Silva, Correspondência com o Autor (1997), p. 91.

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tolicesimo” realmente universale, capace di contenere in sé tutte le religioni e le filosofie di salvezza, non disdegnando neppure le forme di ateismo41. Nella sua visione utopica, Agostinho inserisce ancora un altro importante argomento, da lui considerato parte integrante dell’immaginario portoghese: la dimensione edonista – l’idea del Paradiso, della restaurazione dell’armonia dell’uomo con la natura, della soddisfazione innocente di tutti i più profondi desideri –, un aspetto che il saggista ritiene sia cantato in maniera ammirevole da Luís Camões, nel celebre episodio dell’Isola degli Amori nel nono canto de I Lusiadi. Queste brevi indicazioni sono sufficienti per far capire quanto sia stato intenso il dialogo che Agostinho ha coltivato con le grandi figure della cultura portoghese – in modo particolare con Camões, Vieira e Pessoa42 –, e quanto la visione agostiniana del mondo e della storia si sia costituita grazie alla reinterpretazione di una genealogia di motivi, considerati capaci di indicare quella speranza che spinge a vivere come individui e come popolo43. Uno di questi aspetti è la già citata idea di un “impero dello Spirito Santo” o di una “metafisica dello Spirito Santo”, come egli stesso a volte la chiama44. La religione dello Spirito Santo rappresenterebbe, secondo Agostinho, l’«essenziale dell’esperienza religiosa portoghese45», benché si 41. A. da Silva, Lettera del 22 agosto 1976, in Ivi, pp. 26-27. 42. È ricorrente negli scritti di Agostinho il dialogo con il Pessoa poeta degli eteronimi e del Messaggio, senza dimenticare il Pessoa pensatore del destino storico del Portogallo. A questo proposito, cfr. A. da Silva, Um Fernando Pessoa, Guimarães Editores, Lisboa 1959 e Id., Do Agostinho em Torno do Pessoa, Ulmeiro, Lisboa 1990. 43. Cfr. A. da Silva, Reflexão à Margem da Literatura Portuguesa, Ministério da Educação e Cultura, Rio de Janeiro 1957. 44. Cfr. A. da Silva, Dispersos (1988), p. 28. 45. Ivi, p. 195.

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sia ormai ridotta ad una semplice curiosità folcloristica. Questo “impero”, tuttavia, non esercita alcun dominio o servizio, non coltiva le virtù del potere ma quelle dell’umiltà, della fragilità. È un “impero” consegnato ad un bambino, indicando così la disponibilità, la gratuità, l’innocenza, il gioco46. In sostanza, con la metafora dell’impero dello Spirito Santo, ritrovata negli scritti millenaristi di Gioacchino da Fiore, il portoghese presenta l’universale buona novella della libertà, della creazione, dell’immaginazione, il rifiuto di un mondo fondato esclusivamente sulle relazioni di potere e dominio47. Agostinho da Silva non lesinava i suoi interventi sulla politica nazionale portoghese e mondiale. Le sue idee non sono tratte dai manuali di economia politica, ma dalla lettura della storia e dalla conoscenza concreta, in particolare della vasta realtà brasiliana. Sebbene fossero riducibili ad alcuni principi di semplice buon senso, vi è stato chi ha visto nei suoi interventi una componente filo-marxista, o, in un senso opposto, reazionaria, o semplicemente l’ha descritto come un sognatore ingenuo o poco realista. Agostinho proponeva, per quanto riguarda la politica nazionale, il principio di autarchia: ogni paese, nei limiti delle sue possibilità, dovrebbe produrre quanto consuma, così da evitare ogni forma di dipendenza. Egli suggeriva inoltre di fermare l’euforia del consumo, caratteristica delle attuali società, nel tentativo di indirizzare diversamente il sistema economico, in modo da poter realizzare le necessità basilari, vale a dire i bisogni sociali (alimentazione, miglioramento delle

46. Cfr. Ivi, p. 196. 47. In una delle sue lettere, Agostinho scrive: «Quello che rovina è la nozione stessa di “potere” – sia esso spirituale o temporale. La nostra preghiera quotidiana dovrebbe essere “Signore, liberaci dal potere” […] Quello che chiediamo è la libertà, ed essa distrugge il potere, che è sempre “possedere”», cit. in J. Florido, Um Agostinho da Silva, Correspondência com o Autor (1997), p. 165.

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condizioni di vita, salute), l’educazione e la cultura. L’aspetto culturale non è considerato in un’accezione elitaria, ma come l’espressione dell’identità di un popolo e la forma che avvolge il tutto. In un governo, pertanto, il primo e principale ministero non dovrà essere certo quello delle Finanze, ma quello della Cultura. Agostinho, ad ogni modo, riconosce la necessità di una gestione accorta delle cose materiali, precisando: «Il Portogallo ha bisogno di ordinarsi – non creare una filosofia o una dottrina o una metafisica –, ma di ordinarsi nelle cose della terra […], ordinarsi in relazione a quello che la terra può produrre48». Particolarmente critico del “nuovo ordine mondiale”, Agostinho da Silva vede in esso, più propriamente, un vero e proprio disordine su scala planetaria: in effetti, anziché promuovere l’emancipazione e lo sviluppo dei popoli, quest’ordine fabbrica e moltiplica la dipendenza e il continuo indebitamento della maggior parte dei paesi, ipotecando non solo il suo sviluppo economico, sociale e culturale, ma la sua stessa autonomia politica. All’interno della sua visione, anche la politica e l’economia dovrebbero essere animate dal grazioso e libero impero dello spirito, che crea e moltiplica la datità e il servizio, e non dal demonio della pianificazione e dalla razionalizzazione finanziaria, economica e politica, che, retta esclusivamente dall’imperativo del profitto, non fa altro che riprodurre e perpetuare l’oppressione e la miseria mondiali. Anche l’immaginazione, infine, e non solamente la ragione, dovrebbe essere chiamata a farsi carico dei compiti di governo politico e dell’amministrazione economica del mondo.

48. A. da Silva, Dispersos (1988), p. 62.

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Il pensiero estetico di Miguel Reale

Se per parlare in modo pertinente dell’arte non è semplicemente raccomandato, ma in qualche misura perfino necessario essere artisti, Miguel Reale1 possiede questa precisa con1. Miguel Reale (1910-2006), giurista, filosofo e poeta, è conosciuto sopratutto per le sue opere di filosofia del diritto (in particolare la sua teoria tridimensionale del diritto, assente nei tre pilastri – fatto, valore e norma – considerati in una relazione dialettica di implicazione e polarità) e di scienza politica e teoria dello Stato. Professore di Diritto nell’Università di San Paolo e per due volte Rettore dell’Università, Miguel Reale svolse un ruolo importante nella riforma della Costituzione brasiliana (1969) e nella redazione del Codice Civile brasiliano (2003). Ma la sua azione fu importante anche per il consolidamento della filosofia in Brasile, grazie alla creazione dell’Instituto de Filosofia Brasileira, dell’Instituto de Filosofia Luso-Brasileira, della Revista Brasileira de Filosofia e all’organizzazione di vari congressi nazionali e internazionali di Filosofia nel corso di tutta la seconda metà del XX secolo. Alcune delle sue opere di filosofia e di filosofia del diritto sono state tradotte in spagnolo, italiano e francese. Opere di Filosofia: Experiência e Cultura (1977), A Filosofia na Obra de Machado de Assis (1982), Verdade e Conjetura (1983), Introdução à Filosofia (1988), O Belo e Outros Valores (1989), Estudos de Filosofia Brasileira (1994), Paradigmas da Cultura Contemporânea (1996). Opere di Filosofia del Diritto: Teoria tridimensional do Direito (1968), O Direito como Experiência (1968), Fontes e Modelos do Direito (1994), O Estado de Direito e o Conflito das Ideologias (1998). Sul suo pensiero filosofico, si veda AA.VV., O Pensamento de Miguel Reale, Atti

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dizione. Non parla infatti dell’arte e dell’esperienza estetica dal di fuori; in realtà, anch’egli può dire, al pari di Antero de Quental, di aver ricevuto il «battesimo dei poeti». Reale conosce l’arte non soltanto nella forma più comune dell’esperienza estetica, ossia in qualità di spettatore, e nemmeno in quell’altra, già più accurata, propria del critico o dell’ermeneuta, ma possiede una conoscenza più intima che gli deriva dalla sua stessa esperienza di artigiano della poesia. Ad ogni modo, al di là della sua intimità con l’arte e l’esperienza estetica, e indipendentemente dall’approccio esplicito e continuo ai temi estetici, è tutto il pensiero di Miguel Reale a fornire una concreta testimonianza dell’originaria esperienza di creazione, che si esprime attraverso la poesia e il pensiero filosofico, specialmente quello di estrazione giuridica. Il poeta e il filosofo, l’intuizione dell’artista e la riflessione del pensatore, sono delle dimensioni che si fecondano mutualmente, pur mantenendo la loro relativa autonomia, senza che in Reale si verifichi quel fenomeno, da lui stesso diagnosticato in Dante, di una trasmutazione della filosofia in poesia, o di una identificazione dell’esperienza filosofica con il contenuto stesso della poesia2. Da un pensatore che si è occupato in modo così intenso e proficuo di concetti giuridici, ci aspetteremmo una forma di pensiero caratterizzata dal formalismo, da analisi aride e da soluzioni schematiche. L’opera di Reale, tuttavia, è ben lontana dal confermare un simile pregiudizio. In effetti, anche in ambito giuridico il suo pensiero si rivela profondamente inno-

del Colloquio a lui dedicato a Porto (4-9 Ottobre 1996), pubblicati dall’Instituto de Filosofia Luso-Brasileira e dalla Câmara Municipal de Viana do Castelo, Lisboa 1998. 2. Cfr. M. Reale, O Belo e Outros Valores, Academia Brasileira de Letras, Rio de Janeiro 1989, p. 111.

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vatore, creativo e originale, proponendo delle nuove forme di comprensione non soltanto in relazione agli stessi fondamenti trascendentali del diritto, ma anche in rapporto all’architettonica dell’intero sistema giuridico, cercando di reinventare le sue stesse basi epistemologiche e ontognoseologiche. Anche il suo pensiero giuridico è caratterizzato da un’agilità e fecondità, possibili, a nostro parere, solo perché immerse in quelle stesse fonti in cui fluisce ogni creatività dello spirito. Il pensiero di Reale, infatti, vive di feconde congetture e cerca, a suo modo, sia la costruzione architettonica di una buona teoria, sia soprattutto di contribuire alla manifestazione dell’armonia del cosmo, istituendo così le giuste basi dell’armonia sociale. L’attitudine metodologica di Reale, per ciò concerne il suo modo di rapportarsi all’arte e all’esperienza estetica, non è sistematica e non intende nemmeno fornire un’esposizione articolata di una dottrina o la costruzione di una teoria. Adottando una genuina impostazione fenomenologica, ispirata sia ai fenomenologi contemporanei (in modo particolare Edmund Husserl e Merleau-Ponty), sia agli analisti del sentimento estetico e ai critici del gusto del XVIII secolo – dopo tutto, i veri creatori dell’estetica –, Reale indaga tutte le voci dell’esperienza umana ed esplicita gli aspetti e gli ingredienti dell’esperienza estetica, non disdegnando neppure il progetto di riuscire ad unire, dopo il riconoscimento della loro rispettiva specificità, tutte queste voci ed ingredienti in una teoria generale dell’esperienza. Pur non essendo sistematica, la sua indagine è comunque guidata da un impulso sistematizzatore, nella profonda convinzione che l’autentico pensare filosofico e lo stesso spirito umano, se non possono trarre conforto da verità definitive legate insieme in un sistema completo, non possano trovare soddisfazione nemmeno nella natura rapsodica di analisi avulse, essendo guidati innanzitutto dall’intimo e segreto istinto di ricercare l’armonia delle loro prospettive, da

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una teleologia immanente inscritta nel processo architettonico di costruzione delle loro idee. Come ha scritto il pensatore brasiliano in un passaggio di uno dei suoi saggi estetici, «se non è plausibile e come tale congetturabile l’esistenza in sé di archetipi ideali, ciò non significa che filosofi, teologi, artisti, scienziati, scrittori non sentano il fascino di un’Idea capace di farci intravedere il punto dove le radici delle nostre diverse percezioni, emozioni e raziocini si intrecciano insieme3». In una delle sue splendide poesie della Vita Occulta, Miguel Reale manifesta alla perfezione quell’attitudine di uomo e di pensatore – ad un tempo metodologica e sostantiva – cui siamo interessati nell’ambito di questo saggio. Scrive il poeta: Sfortunatamente, mi manca la certezza o la convinzione nei valori ideali come stelle in alto sempre accese guidando il passo inquieto dei mortali Come sarebbe bello vedere la bellezza e la verità nell’azzurro chiaro del cielo nella comunione platonica della tavola senza alcun luogo per lo scettico o per l’incredulo Appartengo all’altra famiglia, quella degli afflitti cercatori della radice dei miti esaminando gli arcani della memoria o nell’angoscia delle nuove scoperte sfidando il mistero e gli incerti sentieri dell’esistenza e della storia4.

3. Ivi, p. 63. 4. M. Reale, Vida Oculta, M. Onho – Stefanowski Editores, São Paulo 1990, p. 42.

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Il pensiero filosofico di Reale è retto da un insieme di presupposti o principi, fra cui spiccano: l’unità e l’integralità, la complementarità, la dialetticità e la circolarità. Sono principi fra loro solidali che funzionano, più che come tesi definitorie, come presupposti dinamici di orientamento delle sue indagini e riflessioni, impedendo ogni concessione a soluzioni facili o a prospettive unilaterali, e garantendo anche la fluidità processuale e il movimento, la reversibilità, la dinamica totalizzante e, infine, l’organicità della sua concezione del lavoro dello spirito o del mondo della cultura e dei valori. Possiamo chiamarli principi regolatori, visto il loro carattere eminentemente dinamico e aperto, e dato il loro compito di amministrare l’economia e la poetica dello spirito in tutti i domini in cui si oggettivano. Sono principi tipici di una ragione indagatrice e inventiva – di uno spirito che si coglie innanzitutto nella sua originaria dimensione estetica: non sorprende quindi la loro insistente ricorrenza nelle riflessioni estetiche di Reale. In realtà, è nel dominio estetico che più appare la pertinenza e la fecondità euristica ed ermeneutica di tali principi. Le note che seguono non hanno la pretesa di esporre ogni aspetto della riflessione estetica di Reale; intendono limitarsi a mostrare le modalità con cui le varie questioni estetiche si inscrivono nell’insieme delle sue preoccupazioni filosofiche, cercando sia di identificare il nucleo della sua concezione del problema estetico – la teoria della sensibilità, la visione dell’unità circolare dello spirito –, sia di indicare il contributo di questa concezione ad una nuova comprensione dell’uomo e della cultura.

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1. Il ruolo e l’ambito tematico della riflessione estetica nell’opera e nel pensiero di Reale A dispetto del suo carattere essenzialmente saggistico, la riflessione sul problema estetico non rappresenta una mera appendice nelle preoccupazioni filosofiche o speculative di Miguel Reale. Non si tratta infatti di un capitolo più o meno secondario, di un piccolo spazio destinato al tempo libero, magari per alleviare la durezza delle questioni e serie occupazioni della prosa giornaliera. L’estetica, del resto, è il punto dove si incrociano e a cui continuamente ritornano i più importanti temi della sua filosofia. Cercheremo di mostrare quanto l’estetica occupi qui un posto centrale, inscrivendosi negli assi portanti del pensiero filosofico di Reale e finendo per modellarli. A nostro parere, questo pensiero si articola in un orizzonte delineato da tre vettori essenziali: la fondazione di una teoria della cultura, l’elaborazione di una teoria generale dell’esperienza e la legittimazione di una filosofia dei valori. Questi vettori, inoltre, definiscono gli argomenti principali della riflessione di Reale sui problemi estetici, vale a dire: la determinazione della specificità dell’esperienza estetica, l’integrazione dell’arte nel sistema della cultura, la spiegazione della natura del bello che appare nell’“immagine assoluta”. Per quanto concerne il primo tema, lo sforzo speculativo di Miguel Reale è intenzionato ad ampliare il concetto di esperienza umana, così da poter attingere, al di là dell’esperienza conoscitiva, le altre forme di esperienza e di vita: l’esperienza etica, storica, giuridica, religiosa ed estetica. Come vedremo, per raggiungere questo scopo, Reale deve superare la concezione kantiana dell’esperienza, almeno secondo quell’accezione che fu più enfatizzata dal filosofo critico e recepita così dal pensiero successivo. Sebbene il riconoscimento dell’ampiezza dell’esperienza umana sia stato raggiunto anche in virtù del contributo della fenomenologia, in particolare con Husserl e

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Merleau-Ponty, Reale non si limita a riconoscere la specificità dell’esperienza estetica e la sua irriducibilità ad un’esperienza speculativa, conoscitiva o morale. Procedendo nell’analisi di una simile modalità esperienziale, avverte che essa rappresenta in qualche modo un’esperienza fondante: è in questo senso dunque che Reale sostiene che la «teoria dell’esperienza estetica» non costituisce soltanto «uno dei più affascinanti capitoli della Teoria dell’Esperienza», essendo infatti anche «la base naturale sulla quale le ricerche filosofiche acquisiscono maggiore consistenza5» È come se l’esperienza estetica rappresentasse quindi l’esperienza originaria dello spirito, capace di illuminare e al contempo fecondare tutte le altre. Più che in qualsiasi altra forma di esperienza (scientifica, giuridica, etica), in essa si realizza concretamente l’integrità psicologica, permettendo all’uomo di intravedere il potere quasi divino della creazione. In questo senso, l’esperienza estetica è la vera e propria rivelazione dello spirito a se stesso: lo spirito prende coscienza di sé, del suo potere creatore, ma anche del suo limite, della dialettica con l’oggetto, cioè la materia della sua creazione, e della comunità intersoggettiva nel cui orizzonte si erge l’opera carica di significato. Allo stesso modo, anche nell’arte, più che in qualsiasi altro dominio, si rivela la logica e l’ontologia della cultura. È l’oggetto artistico che meglio di qualunque altro fa comprendere la natura del “bene culturale”, un bene che non risiede sostanzialmente nella sua materia o funzionalità, ma nell’istanza portatrice del suo significato. L’arte è allora la vera matrice del mondo della cultura, di un mondo configurato dall’immagine

5. M. Reale, Experiência e Cultura, Editora da Universidade de São Paulo, São Paulo 1977, p. 261.

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dell’uomo, e che solo grazie alla sua azione oggettivante ed intenzionale viene all’esistenza. Più che in qualsiasi altra creazione umana, è ancora nell’arte, nell’apprensione estetica e soprattutto nella creazione artistica che si rivela ciò che costituisce essenzialmente il mondo umano della cultura, ossia la libertà e la capacità di creare, per così dire, a partire dal nulla e al cospetto del mondo naturale, un mondo autonomo di significati e valori6. Dovendo chiarificare in cosa consista la struttura dei beni culturali formata dal binomio supporto/significato, Reale mostra grazie all’arte la prevalenza del significato (l’intenzionalità soggettiva oggettivata) sul supporto (la materia), quale tratto specifico dell’oggetto o bene culturale: «Si prenda una statua, che può essere di bronzo, di granito o di marmo. La materia rappresenta il supporto di un significato di bellezza. Che cos’è importante in una statua? Dipende. Ci sono certe statue il cui unico valore si basa sul materiale di cui sono fatte […] In una realizzazione autentica di valore, ciò che prevale, tuttavia, è il suo significato. Quello che interessa, quello che vale in una statua è la sua forma, che traduce un’espressione di bellezza, così come in un quadro ciò che vale non è la tela, ma quello che il tocco creatore dell’artista ha saputo progettare nel mondo oggettivo, rendendo universale la singolarità della sua esperienza, e perenne il flusso della sua esperienza assiologica […] È chiaro che esiste un legame essenziale, un necessario adeguamento tra il “supporto” e il significato” […], ma, in ultima analisi, è il significato che caratterizza e contrassegna la ragione per cui qualcosa può essere un bene culturale7».

6. Cfr. M. Reale, Introdução à Filosofia, Ed. Saraiva, São Paulo 1994, p. 200. 7. Ivi, pp. 169-170.

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Come questo passaggio conferma, Reale ricorre con frequenza ad esempi tratti dal dominio dell’arte e dell’esperienza estetica per illustrare i punti essenziali del suo pensiero. Non è quindi per caso, ma in nome di una esigenza ben precisa, che esiste una concreta familiarità e affinità tra la sua filosofia e l’essenza propria dell’arte. Il “bello”, inoltre, trova il suo luogo nel sistema di valori, un sistema dove regna non la gerarchia, ma la complementarietà e la circolarità. Al bello spetta allora un decisivo ruolo di mediazione fra i vari valori (la giustizia, il bene, la verità), sulla scia del pensiero platonico e plotiniano. Il bello è quindi sia lo «splendore della verità», sia un modo proprio, specifico ed eminente di manifestare l’Essere. D’altronde, in nessun altro dominio di valori è così viva la tensione tra la manifestazione e ciò che rimane occulto, tra la forma e la materia, tra il finito e l’infinito, tra l’immanenza e la trascendenza. Nel bello, l’Essere si manifesta nella forma artistica, ritraendosi nell’istante stesso in cui appare. La forma artistica, consegnandolo alla visione, non lo imprigiona. Forse è proprio per questo che l’esperienza artistica è così affine alla genuina esperienza metafisica, almeno come la intende Reale, ossia come un’esperienza di quella che potremmo chiamare un’ontologia negativa, un’ontologia caratterizzata dall’incapacità di cogliere, in qualche forma o con qualche concetto, il luogo in cui sembra emergere l’Essere e dove viene attratto ogni sforzo di oggettività dello spirito8. Ma l’esperienza artistica guidata dall’idea trascendentale della bellezza possiede un aspetto significativo per il sistema di valori della filosofia anche alla luce di un altro aspetto. Nell’arte sono manifesti la nascita e l’istituzione dei valori nel proces-

8. Cfr. l’ultimo capitolo di M. Reale, Experiência e Cultura (1977).

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so della coscienza intenzionale: l’arte è infatti «l’immediata espressione del potere nomotetico o simbolizzante della coscienza intenzionale nell’atto in cui essa costituisce una struttura significativa valida in sé e per sé, dotata di una sua propria logica e linguaggio, nel contesto dell’espressione umana. L’artista è prima di tutto un creatore di modelli, di strutture significanti come pure percezioni oggettivate9». Mettendo in risalto il processo creatore dello spirito, Reale non cade tuttavia nella mistificazione della soggettività assoluta dell’artista e del potere del genio, portata avanti dai romantici. Al contrario, sostiene con insistenza che ogni creazione, compresa quella artistica, si dà in un terreno già formato di valori, e che qualsiasi oggettivazione si realizza in un contesto di riferimenti culturali già costituiti, e che, di conseguenza, «vi è sempre un valore che avvolge le matrici di qualunque atto creativo10».

2. La reinvenzione dell’estetica o il ritorno alle fonti della sensibilità: il neokantismo estetico di Reale Non diversamente dalle altre aree del pensiero, Reale riflette sulle questioni estetiche attraverso un dialogo permanente con la vasta tradizione filosofica. Ciò gli permette di affrontare i problemi con delle prospettive più ampie, sottraendolo alla facile tendenza di analizzare i problemi in esame a partire da un approccio unilaterale. Rifiutando il dogmatismo e il faziosismo delle diverse scuole estetiche, Reale si propone di trovare, mediante un’ermeneutica inclusiva e una riflessione serena, un “nuovo equilibrio” capace di integrare il patrimonio 9. Ivi, p. 262. 10. Cfr. Ivi, p. 177.

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della riflessione classica (Platone, Aristotele e Plotino), il contributo dei fondatori settecentisti dell’estetica e le concezioni contemporanee dell’arte, dal Romanticismo e Idealismo fino alle estetiche positiviste, sociologiche e semiotiche. Anziché escludere in partenza un possibile contributo, Reale intende analizzare, selezionare, elaborare in virtù di una propria riflessione, captare tutto ciò che di significativo e specifico l’esperienza estetica può offrire, integrando tutto ciò in una visione più ampia: d’altra parte, non è proprio l’esperienza estetica il paradigma di un’esperienza piena e della percezione, pur fugace, della pienezza? Tra gli interlocutori privilegiati da Reale nella sua riflessione estetica un posto di riguardo spetta alla figura di Immanuel Kant. Il debito di Reale nei confronti del filosofo tedesco è assunto criticamente, trattandosi più che altro di un’eredità filtrata dal proprio stesso lavoro di approfondimento. Miguel Reale pensa con Kant, contra Kant e oltre Kant. Ad ogni modo, questo suo essere contro e oltre Kant non è tanto un andare contro e oltre il pensiero del filosofo di Königsberg, quanto un andare contro e oltre le vulgate che hanno ricondotto l’opera del filosofo critico quasi esclusivamente agli orizzonti delle questioni gnoseologiche. In questo senso, la critica e il superamento delle tesi kantiane portate avanti da Reale, più che rappresentare un allontanamento dal pensiero kantiano, implicano la riscoperta di quelle feconde intuizioni non ancora esplorate a dovere, e che soltanto di recente hanno iniziato ad essere oggetto dell’indagine ermeneutica. Il superamento di Kant si rivela allora un vero e proprio “ritorno a Kant”, in modo particolare per ciò che concerne l’esperienza estetica. Per Reale, Kant fa parte di quel gruppo di pensatori la cui riflessione è al tempo stesso germinale e architettonica, e la cui opera ha innescato nella storia intellettuale dell’Occidente un processo che ha determinato una nuova comprensio-

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ne dell’intera cultura: della filosofia, dell’arte, della religione, della politica e della scienza. Il filosofo tedesco, infatti, è un pensatore ineludibile, e chi desidera riflettere sulle questioni decisive non può naturalmente evitare di confrontarsi con lui. Sfortunatamente, però, il suo pensiero nella maggior parte dei casi non ci è giunto attraverso la freschezza dei suoi testi, ma nell’aridità di vulgate interpretative ormai consunte. Reale rigetta e rivede le interpretazioni stereotipate della filosofia kantiana, ripensa le potenzialità inscritte nel pensiero di Kant e ancora non esaurite o neppure percepite. Al tempo stesso, egli non rinuncia tuttavia ad indicare le imprecisioni, le dimenticanze e le promesse incompiute del progetto kantiano. E questo è precisamente il caso di due topici fondamentali in ambito estetico: la teoria dell’esperienza e la teoria della sensibilità. L’esperienza, secondo Reale, sarebbe stata pensata da Kant esclusivamente (o, per lo meno, prevalentemente) nella forma dell’esperienza del sapere e della conoscenza della natura. Sebbene abbia riconosciuto alcune volte che «si trovava proprio nella filosofia di Kant la chiave di comprensione dell’esperienza etica e del mondo storico11», e che Kant abbia fatto più di qualsiasi altro pensatore moderno per rendere autonoma l’estetica e il sentimento estetico, Reale, tuttavia, era convinto che il privilegio concesso all’esperienza nella sua forma gnoseologica avesse impedito al filosofo tedesco di giungere ad un’adeguata comprensione dell’umano, in particolare del mondo della cultura, dei valori e della storia, ma anche dell’esperienza etica ed estetica, quest’ultima essendo stata interpretata come un “giudizio estetico”, in modo quindi tendenzialmente ancora troppo intellettualista.

11. Ivi, p. 175.

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Uno dei propositi più cari a Miguel Reale consisteva nel correggere la ristrettezza e il travisamento della nozione kantiana di esperienza, cercando di completarla mediante i contributi dei pensatori post-kantiani, in particolare dei fenomenologi (Husserl, Scheler, Heidegger, Merleau-Ponty), contribuendo così ad edificare una «teoria generale dell’esperienza» ed una sorta di esperienza «integrale12», in grado di inglobare tutte le modalità dell’esperienza umana, riconosciute nella loro specificità, irriducibilità e unicità. Ecco le parole del filosofo brasiliano: «In una rilettura di Kant, a partire dalla sua Estetica trascendentale, nelle tabelle della Critica della Ragion Pura, in confronto con le tesi gnoseologiche della Critica del Giudizio, ci è parso […] che non si debba propriamente formulare un “giudizio estetico”, bensì determinare gli elementi caratterizzanti dell’esperienza estetica in quanto esperienza assiologica che ha il bello come suo valore fondamentale. Pensiamo, dunque […], che l’essenziale consista nel situare l’esperienza estetica nel contesto dell’esperienza umana, cercando di determinarne i tratti distintivi13». Non spetta a noi in questa sede discutere l’interpretazione di Kant offerta da Reale; ciò che qui ci interessa, infatti, sono gli aspetti utili per analizzare la sua comprensione del fenomeno estetico14. Ci sono, tuttavia, due tematiche che vorremmo sottolineare: in primo luogo, la lettura integrata dell’opera kan-

12. M. Reale, O Belo e Outros Valores (1989), p. 96. 13. M. Reale, Introdução à Filosofia (1994), p. 230. 14. Per quanto riguarda la nostra interpretazione della filosofia di Kant, con particolare riguardo al luogo e alla funzione che in essa occupano la questione estetica, la sensibilità e il gusto, si vedano, oltre ai testi già citati nel corso del presente libro, i seguenti lavori: L. Ribeiro dos Santos, Regresso a Kant. Ética, Estética, Filosofia Política, INCM, Lisboa 2012; Id., Ideia de uma Heurística Transcendental. Ensaios de Meta-epistemologia kantiana, A Esfera do Caos, Lisboa 2012.

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tiana, ossia il ponte stabilito fra la Critica della ragion pura e la Critica del giudizio, come se la proposta della prima fosse pienamente comprensibile in tutta la sua portata filosofica soltanto se interpretata alla luce delle prospettive offerte dalla terza critica; in secondo luogo, la prospettiva essenzialmente fenomenologica adottata da Reale, una lettura che corrisponde nella sostanza alla genuina intenzione manifestata da Kant nella sua analisi delle questioni estetiche, quale analista dei sentimenti del bello e del sublime, «critico del gusto», rifiutando espressamente la «teorizzazione estetica» e il pronunciamento dottrinale. Il secondo punto decisivo nella critica di Reale riguarda la dottrina della sensibilità. Anche qui ci troviamo sullo stesso piano di fondazione dell’estetica. Del resto, è stato proprio sull’aisthesis (sulla sensibilità) e sui aistheta (sui sensibili) che il filosofo settecentista Alexandre Baumgarten (dando voce ai convergenti tentativi di Vico e Breitinger) ha fondato l’Estetica come disciplina filosofica, riconoscendo la “logica” e la “gnoseologia” proprie di questa forma di conoscenza considerata “inferiore”, che è la conoscenza sensibile, i cui prodotti si rivelano nel vasto e vario campo delle “belle arti”. Immanuel Kant, naturalmente, ha le sue proprie opinioni sulla sensibilità. Non volendo circoscriverla, a differenza di Baumgarten, nel dominio delle belle arti, ne scopre ben presto l’importanza decisiva, in particolare all’interno dello stesso processo conoscitivo, permettendogli di minare le basi dell’intellettualismo e di chiamare criticamente in causa le pretese della metafisica dogmatica e speculativa. L’Estetica trascendentale della sua Critica della ragion pura rappresenta la consacrazione di questo riconoscimento, divenuto pubblico per la prima volta nella Dissertazione del 1770. Miguel Reale sottolinea la straordinaria portata filosofica dell’Estetica trascendentale kantiana, non solo per il suo ruolo

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nel processo conoscitivo, ma anche nell’ambito dell’antropologia filosofica. In effetti, nella teoria kantiana delle forme a priori della sensibilità si annuncia una comprensione dell’uomo come essere nel mondo e nel tempo, caratterizzato ontologicamente, e non soltanto in termini gnoseologici, con il marchio della mondanità e della temporalità – una comprensione che solo nelle ontologie contemporanee di ispirazione fenomenologica (soprattutto quella di Martin Heidegger) si verrà compiutamente ad esplicitare. L’errore di Kant, secondo Reale, risiede nell’aver confinato la sensibilità ai soli aspetti gnoseologici, interpretandola soltanto come la prima tappa del processo conoscitivo dell’uomo, e attribuendole un ruolo essenzialmente passivo, come ciò che si dà al soggetto nella percezione. Kant non avrebbe quindi riconosciuto appieno il ruolo della sensibilità come un’istanza di creazione destinata a rivelarsi, in modo particolare, nel dominio estetico. È perciò attraverso un’interpretazione audace dell’Estetica trascendentale che Reale si propone di correggere Kant. A suo parere, è necessario legare la dottrina della sensibilità dell’estetica kantiana presente nella prima critica con le prospettive aperte dalla Critica del giudizio, interpretando la sensibilità non solo come l’evento aurorale della percezione, ma come il momento finale della creazione estetica di immagini cariche di significati. Reale stabilisce così le basi della sua comprensione allargata della sensibilità come fondamento e dominio specifico dell’estetica, ponendo le condizioni per una vera e propria rifondazione dell’Estetica. La sensibilità, secondo lui, non è quindi definita dalle forme kantiane dello spazio e del tempo, ma è intesa invece come il dominio dell’aisthesis, della sensibilità, dell’espressività e comunicabilità: in sostanza, come il potere di formare immagini e di instaurare segni.

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Scrive Reale: «Mi sembra infatti che, andando oltre le forme a priori dello spazio e del tempo con cui Kant ha modellato esteticamente la sensibilità, questa debba essere studiata in tutta la sua potenzialità, nella ricchezza di tutte le sue espressioni e nella sua naturale dinamicità, senza considerarla soltanto come momento iniziale e preparatorio dei momenti ulteriori dello spirito. Questa comprensione della sensibilità nella sua pienezza, in funzione di tutte le sue condizioni trascendentali di possibilità, senza limitarci allo spazio e al tempo, per abbracciare altre condizioni come, per esempio, la capacità espressiva mediante immagini e l’immaginazione creatrice (a cui Kant riserva così grande importanza nella Critica del giudizio, senza considerarla uno dei presupposti dell’estetica trascendentale) […], avremo l’occasione di dispiegare il sorprendente dominio dell’arte. Da questo nuovo punto di vista, la teoria trascendentale della sensibilità, o estetica trascendentale, inizia ad essere vista anche come la teoria trascendentale dell’Arte, oltre ad essere la teoria fondamentale della conoscenza per quello che riguarda l’esperienza sensoriale […] La “capacità espressiva” è, quindi, qualcosa di trascendentalmente condizionante l’essere umano, al pari della sua inclinazione di convivenza e, pertanto, di “comunicabilità”. Ecco qui, a mio parere, per impiegare la terminologia kantiana, altre “forme a priori” della sensibilità, senza le quali lo spazio e il tempo rimarrebbero come “forme passive”, e non come condizioni della dinamicità esistenziale, a cui fa capo, nella sua radice, la relazione “corpo-mente”15». In un altro luogo, Reale riconosce in questo aspetto il «punto centrale» del suo pensiero estetico, ossia l’idea che «la sensibilità – che Kant situa come fase iniziale del processo conoscitivo, anticipando la conoscenza – corrisponda anche al momen-

15. M. Reale, O Belo e Outros Valores (1989), p. 96.

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to finale del processo estetico, senza ridursi, nel frattempo, a mero giudizio estetico16». La sensibilità si trova, pertanto, non solo all’inizio e alla fine di tutto il processo percettivo e conoscitivo, poiché da essa passa tutto il processo di creazione dello spirito. Reale vede così manifestarsi sul piano estetico la sua tesi della circolarità e reversibilità dello spirito. Ci sono altri punti dell’estetica di Miguel Reale dove è visibile, a nostro parere, la sua ispirazione kantiana. È il caso, ad esempio, della già citata idea dell’unità circolare dello spirito (della cultura e dei valori), che ci sembra evocare la concezione kantiana dell’«armonia delle facoltà», una concezione che si consuma precisamente nel giudizio o sentimento estetico, senza una sovradeterminazione di una facoltà sull’altra, ma secondo una logica ludica, ossia secondo il «libero gioco dell’immaginazione». Allo stesso modo, l’«immagine assoluta» di Reale, che commenteremo fra poco, fa immediatamente pensare all’«idea estetica» kantiana. In generale, l’insistenza sul potere nomotetico dello spirito, espressa non soltanto nella capacità di legiferare sulla natura mediante le categorie e le leggi scientifiche, ma anche di creare, grazie all’immaginazione, forme cariche di significato, senza tuttavia cadere nell’assolutizzazione del soggetto o del genio, ma ponendo di fronte ad esse l’oggetto e la materia, e al contempo esigendo da loro un lavoro di costruzione, l’insistenza sulla “formatività” della dinamica di oggettivazione: tutto ciò fa ricordare lo spirito kantiano della Formgebung. Non possiamo dimenticare, inoltre, l’esplicito e fecondo recupero di Reale della nozione di congettura o giudizio plausibile, dichiaratamente tratta dalla concezione kantiana dei giudizi problematici e soprattutto dalla concezione kantiana dell’Als ob (del come se), categoria che si estende e si appli16. M. Reale, Introdução à Filosofia (1994), p. 231.

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ca al dominio delle rappresentazioni etiche e giuridiche, delle teorie scientifiche, delle creazioni estetiche e delle concezioni metafisiche. Lo stesso Reale interpreta con assoluta lucidità e piena consapevolezza le idee metafisiche come congetture. In questo senso, la sua analisi non si distanzia da quanto proposto dall’autore della Critica della ragion pura quando, in certi passaggi del suo Opus postumum, le chiamava «finzioni» o «poesie della ragione» (Dichtungen der Vernunft). Di certo, dobbiamo attribuire al termine finzione – come al termine congettura – il significato e la pregnanza che tanto Kant quanto Reale le attribuiva, un senso più vicino alla linea estetico-metafisica del De coniecturis del pensatore rinascimentale Nicola Cusano, anziché alla tradizione del pragmatismo epistemologico esposto nell’opera Congetture e Confutazioni dell’epistemologo contemporaneo Karl Popper. Al di là dell’audacia del pensatore brasiliano, è importante sottolineare l’originalità dell’interpretazione di Kant fornita da Reale, in particolare per quanto riguarda la sua rilettura dell’Estetica trascendentale, nel tentativo di liberarla dall’esclusivo servizio svolto nell’ambito gnoseologico, cercando di vedere in essa il principio di una sensibilità piena, non soltanto estatica e ricettiva, ma creatrice di forme cariche di significato. Nelle ultime decadi, si è iniziato a porre particolarmente in evidenza il Kant della Critica del giudizio, il Kant dell’estetica, della filosofia della storia e della cultura (fino al Kant post-moderno dell’analitica del sublime, secondo la lettura offerta da Jean-François Lyotard). Senza voler avviare un’esplicita esegesi erudita dei testi kantiani, la meditazione di Reale, proseguendo un percorso autonomo essenzialmente riflessivo, si è trovata in consonanza con la più recente e feconda ermeneutica del kantismo, un’indagine che sembra indicare un nuovo “ritorno a Kant”, ben differente, però, in ampiezza e profondità, da quello intrapreso a partire dall’ultimo quarto del XIX secolo.

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Concludendo questo breve excursus sul dialogo intenso e fecondo fra Reale e Kant a proposito delle tematiche estetiche, possiamo dire che agli importanti studi di Reale sulla ricezione del filosofo tedesco in Brasile17 dobbiamo aggiungere un nuovo capitolo sul kantismo estetico di Miguel Reale, un kantismo che, in realtà, ha iniziato ben presto ad apparire, sotto l’influenza della scuola neokantiana di Baden, nei suoi scritti di filosofia politica e giuridica, in particolare sui temi della distinzione fra essere e dover-essere, sulla relazione fra natura e cultura18, intensificandosi sempre più in una riflessione autonoma, e culminando nell’approssimazione critica ai maggiori argomenti dell’estetica kantiana e nel proposito di ricostruire l’unità, quasi mai avvertita dai vari commentatori e interpreti, del progetto e del percorso kantiano aperto con la Critica della ragion pura e concluso, nei termini di un progetto trascendentale, nella Critica del giudizio.

3. L’«immagine assoluta» e il ruolo creatore dell’immaginazione. Significato ontognoseologico dell’immagine estetica Fondare e stabilire l’esperienza estetica sul piano della sensibilità significa riconoscere la sua autonomia e specificità relativamente ad altre istanze, ossia relativamente all’intelletto e alla sua scienza e speculazione metafisica. Significa, tuttavia, al tempo stesso, recuperare il significato delle forme di espressione della sensibilità: le immagini, i simboli, le metafore. Significa inoltre, in modo particolare, riconoscere la pregnanza

17. Cfr. M. Reale, A Doutrina de Kant no Brasil (2a ed), Editora Revista dos Tribunais, São Paulo 1949; cfr. inoltre Id., Quatro momentos da doutrina de Kant no Brasil, in Id., O Belo e Outros Valores (1989), pp. 149-163. 18. Cfr. Ivi, p. 163.

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di quelle forme di creazione spirituale nella sostanza sensibile a cui Reale dà il nome di «immagini assolute». Questa espressione segnala non solo l’autonomia e l’auto-sufficienza dell’immagine di fronte al concetto, ma anche la depurazione dalla sensorialità primaria e mimetica, mediante la “formatività”, e il lavoro creativo dell’immaginazione. L’immagine assoluta è la massima espressione del potere creatore dello spirito, nel suo sforzo di cogliere e manifestare in forme sensibili l’armonia del cosmo. Scrive Reale: «Quando l’attività spirituale si dispiega captando l’armonia recondita della natura, non per esprimerla attraverso concetti o leggi, ma per comprenderla secondo forme e ritmi presenti in essa, il punto culminante colto dall’artista è, a mio parere, quello dell’immagine assoluta, nella cui elaborazione ha contribuito l’intelletto, senza sradicarla, nel frattempo, dalle sue radici nella sensibilità, il cui orizzonte proprio è tracciato dall’immaginazione creatrice o dalla fantasia19». L’immagine assoluta esibisce concretamente il superamento delle tradizionali antinomia fra il pensiero e la sensibilità, lo spirito e la natura, la mente e il corpo, la forma e la materia, il soggettivo e l’oggettivo. Rappresenta l’espressione sovrana dell’unità e circolarità dinamica dello spirito. Ad ogni modo, al di là della sua dimensione estetica, essa rivela al tempo stesso una peculiare pregnanza ontognoseologica, essendo una forma di conoscenza e di verità, un modo di accesso congetturale all’Essere. Reale lo dice in differenti occasioni e in molte maniere. Citiamone una: «L’immagine assoluta è un tutto unitario di significazione oggettiva o oggettivata (resa oggettiva) che segnala il momento culminante di proiezione delle condizioni trascendentali della sensibilità, secondo una determinata prospettiva dell’Essere. Nell’opera d’arte si coglie, per così 19. Ivi, p. 38.

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dire, l’ente, nell’immediatezza dell’Essere, mentre si presenta ed è colto attraverso le vie imprevedibili della sensibilità. Quando si esalta la funzione fondante della poesia, ciò che si ha presente, implicitamente, è questa relazione di immediatezza dell’atto estetico con l’Essere, conferendole un primordiale significato immaginale, cosa che spiega il motivo per cui la finzione immaginaria, da una semplice figura primitiva fino alla più complessa struttura del mito, possa essere tanto un’espressione artistica quanto il preannuncio o il vestibolo di una verità scientifica20». L’immagine assoluta, inoltre, possiede anche una forma peculiare di oggettività – oggettività significativa o assiologica – che suppone l’intersoggettività (la relazione dell’uomo con l’uomo) e la transoggettività. Non diversamente dall’oggettività dei valori, anche la natura oggettiva dell’immagine assoluta come creazione dell’arte suppone l’esperienza della temporalità e, di conseguenza, la storicità del mondo della cultura. Nell’immagine assoluta, in sostanza, si concentra, sul piano della sensibilità, la massima espressione del potere creatore dello spirito. È come se in essa lo spirito realizzasse il suo processo di oggettivazione, il quale, partendo dalla percezione sensibile del mondo, giunge a plasmare in forma sensibile ogni energia spirituale. Con le parole di Miguel Reale: «Quando l’artista sta creando un’opera d’arte, è tutto il suo essere che si verticalizza verso il valore del bello, e può farlo solo collocando la sua azione quale momento della sensibilità e nell’istanza della sensibilità […] Non si tratta, quindi, di vedere il problema in termini di “giudizio estetico” – con il quale Kant non riusciva ancora ad abbandonare la sua fondamentale vocazione gnoseologica –, ma di riconoscere che è tutta l’energia corporale e psicologica dell’artista che si concentra per attingere l’apice 20. Ivi, p. 40.

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della creazione artistica, rappresentata da un’espressione comunicativa di natura puramente immaginale. Tutta la sua vita costruttiva si puntualizza allora in un’immagine assoluta che assorbe in sé tutta la potenzialità creatrice dell’artista, con tutta la forza del suo sentire, del suo pensare e del suo volere. I sentimenti congetturali legati alla sua individualità biopsichica e sociale, il suo potere conoscitivo e volitivo, tutto si converte e si trasfigura, in breve, in termini costruttivi per dare alla luce l’opera d’arte come espressione di un’immagine assoluta, assoluta perché capace di integrare in sé tutti i motivi operanti nel processo di oggettivazione estetica21». Con la sua teoria dell’immagine assoluta, Reale pensa di essere riuscito non solo ad affermare l’autonomia dell’estetica, ma anche l’auto-sufficienza della sensibilità, che nella filosofia kantiana era ancora compromessa dalla tendenza gnoseologica che conduceva a considerare l’esperienza estetica come un “giudizio”. Reale, tuttavia, non sembra aver avuto coscienza di come la sua immagine assoluta potesse rappresentare una profonda ripresa di quello che nel paragrafo 49 della Critica del giudizio Kant espone sotto il nome di “idea estetica”, con cui il filosofo critico conferma e realizza la rivalutazione della sensibilità e dell’immaginazione, proprio mentre risolve esteticamente la questione insolubile teoreticamente di oggettivare in qualche modo le idee della ragione, fornendo loro un senso e perfino una corrispondenza sul piano della sensibilità. Tutto ciò è possibile solamente in modo estetico. I simboli, le metafore, le congetture, le immagini cariche di significato (sinnreich) non fanno conoscere nulla, pur dando comunque molto da pensare (viel zu denken veranlassen), e costituiscono, per così dire, l’elemento saturo dove si processa e in cui si alimenta tutta l’attività e la vita dello spirito.

21. M. Reale, Introdução à Filosofia (1994), p. 231.

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4. L’arte nel sistema della cultura: autonomia dell’arte e dell’esperienza estetica nell’unità e circolarità dello spirito Nell’opera di Reale è inequivoca l’affermazione dell’autonomia dell’arte e la sua irriducibilità ad altre modalità dell’esperienza, come la scienza, la filosofia o la religione. L’autonomia dell’arte si fonda nella sua forma peculiare di oggettivazione e di espressione: la sensibilità e l’immagine. Essa possiede, di conseguenza, un linguaggio e una logica, un dominio e un contenuto – insomma, un’ontologia – propri. Miguel Reale rifiuta qualsiasi privilegio attribuito alla scienza e all’attività conoscitiva su ogni altro ambito. E, più ancora, rigetta le teorie che presuppongono una qualche subalternità dell’arte nei confronti della scienza, della morale e della religione, ivi compresa quella hegeliana, che finisce per considerare l’arte come un semplice momento dell’idea, funzionale ad una verità assoluta raggiungibile solo nel concetto. Il riconoscimento dell’autonomia, irriducibilità e dignità dell’arte, tuttavia, non implica che si difenda l’idea che il prodotto estetico contenga soltanto ingredienti sensibili. È la forma ad essere sensibile; i contenuti e la materia possono essere intellettuali o morali o religiosi, senza che ciò offenda in qualche modo l’autonomia dell’arte. Si tratta di un’idea molto cara a Reale: la specificità delle forme di espressione dello spirito è compatibile con la sua unità, intesa in modo circolare, secondo una rispettiva reciprocità organica delle parti con il tutto, del tutto con le parti e di quest’ultime con sé. Ecco cosa scrive il pensatore brasiliano: «Quando situo fondamentalmente l’arte nella sfera della sensibilità non ignoro […] che essa implica sempre altri momenti dell’attività spirituale, poiché, data l’unità essenziale dello spirito soggettivo, è comprensibile che il sensibile non solo condizioni l’elaborazione dei concetti e delle idee, ma anche li sviluppi in una veste immaginale, cosa che spiega la ragione

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per cui nelle forme artistiche il concetto si integri nel sensibile […] L’intelligenza e la ragione, dunque, non sono estranei al processo di creazione e costruzione artistica, ma vi partecipano, senza, però, dissolvere in essa i dati sensibili, superandoli. Si potrebbe dire, in virtù dell’unità strutturale dello spirito, che, nel processo conoscitivo, le immagini possono verticalizzarsi in concetti, così come i concetti possono sublimarsi in immagini […] Tuttavia, è necessario considerare che questa partecipazione non ha carattere sostitutivo, caratterizzando, al contrario, il momento in cui il sensibile e il mentale si fondono in quella che io chiamo “immagine assoluta”, condizione della piena unità tra contenuto e forma nell’opera d’arte22». In un senso diverso, però, e forse ancor più importante, è opportuno porre a tema l’«intreccio della bellezza con tutte le espressioni della vita umana23», la presenza illuminante e feconda della bellezza nella vita morale, nell’esperienza giuridica e scientifica, fino alla più comune delle esperienze umane: «Il senso della bellezza come segno della verità si sprigiona in tutti i domini della conoscenza24». Si può dire allora che le leggi di Kepler rispondono tanto ad una necessità teorica di intelligibilità, quanto ad un’esigenza estetica di armonia, o che la teoria generale della relatività di Einstein nasce da una necessità di bellezza in cui si trova, in termini immanenti, anche un’intuizione di verità25. Allo stesso modo, «il giurista autentico si sente soddisfatto solamente quando riesce a cogliere la legge capace di integrare in sé tanto i valori di armonia e giustizia sociale, quanto quelli di operatività

22. M. Reale, O Belo e Outros Valores (1989), p. 37. 23. Ivi, p. 46. 24. Ivi, p. 45. 25. Cfr. Ibid.

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o di efficacia pratica26». Anche l’autentica scienza giuridica è dunque guidata dal sentimento estetico e, come scrive Miguel Reale, «una legge bella è già a metà strada per giungere alla comprensione della giustizia27». Il legame della bellezza con tutte le altre espressioni della vita umana rivela l’originarietà e la radicalità dell’esperienza estetica, esprimendo al contempo nel modo migliore l’essenza dell’uomo di quanto non possa fare, ad esempio, un’esperienza di natura meramente conoscitiva. Secondo Reale, il cartesiano “penso, dunque esisto” dovrebbe essere sostituito dall’“ammiro, dunque esisto!”. Di fatto, mentre l’atto del pensare implica una relazione neutra e oggettiva tra un soggetto e un oggetto, il più comune e universale atto estetico di ammirazione coinvolge un nesso di simpatia, suppone la partecipazione esistenziale e l’emozione, la coscienza della mutua coesistenza. Un argomento insistente nella riflessione di Reale è l’affermazione della dimensione ontologica dell’esperienza estetica e della sua prossimità all’esperienza metafisica. Il rifiuto delle teorie idealiste, che vedono nell’arte l’espressione dell’Assoluto o dell’idea assoluta, affatto incongruenti con la finitudine dell’essere umano, non gli impediscono di vedere nell’arte, al di là di un’interpretazione, anche una forma di costituzione della realtà, o anche una via di accesso congetturale all’Essere, attraverso la via del linguaggio immaginale, simbolico o metaforico. Come scrive il pensatore brasiliano: «Quando l’ispirazione sboccia dalle pieghe della sua sensibilità, l’artista si confonde con tutto ciò che gli sta intorno, in quella “finzione di identità” implicita, ad esempio, nell’opera di Fernando Pessoa, poiché, come ho già affermato, l’identificazione assoluta 26. Ibid. 27. Ibid.

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con l’Essere è impossibile, senza che per questo l’arte smetta di essere un’imitazione immaginale dell’Essere, un assoluto dell’Essere, assoluto congetturale in quanto metaforico […] La mimesi artistica, al pari dell’esperienza mistica e della meditazione ontologica, è una delle vie di accesso congetturale all’Essere, mentre quella della Metafisica passa attraverso le idee (nel significato che Kant attribuisce a questa parola, e che io interpreto in senso congetturale) e quella della Mistica è la contemplazione in un atto di resa totale del sé al Valore Assoluto […] Il giudizio estetico è un giudizio ontologico di natura immaginale, e l’arte una delle forme fondamentali di approssimazione all’Essere28». Siamo ora nelle condizioni di comprendere l’idea di “cultura integrale” a cui mira la filosofia della cultura di Reale: secondo lui, infatti, le differenti via di accesso dello spirito alla realtà, le differenti forme di intenzionalità oggettivante della coscienza, dovrebbero superare le loro prospettive necessariamente parziali e unirsi, dando luogo ad un’esperienza umana totalizzante. Con le parole di Miguel Reale: «Eccoci di fronte quattro cammini distinti, quello dell’Arte, della Scienza, della Filosofia e della Religione, tutti intenzionati a svelare la verità reale, nell’immanenza delle loro leggi o nella trascendentalità dei loro principi. Armonizzare queste quattro vie, comprendendo e rispettando ciò che le distingue, rappresenta forse l’imperativo di una cultura integrale, nell’unità pluralista delle loro fonti ispiratrici29». Pur avendo insistito sullo straordinario significato dell’arte e sulla sua rispettiva fecondità nel mondo dello spirito e della cultura, e sebbene abbia posto in grande evidenza come tutto possa essere trasfigurato grazie al significato della bel28. Ivi, pp. 51-52. 29. Ivi, p. 55.

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lezza, il pensiero di Reale non si avvicina a quella che si potrebbe chiamare un’estetizzazione della vita (la riduzione di tutto all’arte), e non arriva nemmeno a proporre una visione estetica del mondo, benché essa sia in qualche modo presente nell’insistente idea della «congruenza logica della natura», dell’armonia dello spirito e del mondo dei valori, come congetture di tutta l’attività spirituale, come «il presupposto di qualsivoglia investigazione culturale, sia essa scientifica o artistica30».

5. Conclusione Per concludere, vorremmo fare un breve riferimento alla portata antropologica e pedagogica della concezione estetica di Reale. Abbiamo di fronte una riflessione interessata a promuovere lo sviluppo di tutte le dimensioni dell’umano contro la visione dello specialista limitato nelle proprie capacità d’esperienza, e dunque incapace di assaporare una poesia o di intravedere i segreti della creazione. L’estetica di Reale, come del resto tutta la sua filosofia e personalità, è interessata a descrivere la totalità dell’esperienza umana, dando voce ad un umanesimo aperto e totalizzante, sulla scia del più genuino classicismo di ispirazione schilleriana. È doveroso sottolineare allora la fecondità dell’idea della comunità e affinità strutturale tra i differenti domini della cultura, senza mai smarrire il senso della specificità di ognuno di essi: «L’Arte, la Filosofia e la Poesia sono forme di conoscenza della Natura, al pari delle scienze che indagano sulle sue relazioni immanenti31».

30. Ivi, p. 31. 31. M. Reale, Experiência e Cultura (1977), p. 258.

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Ma se l’arte possiede conoscenza e verità, ciò non implica che non ci possa essere bellezza ed emozione anche nella scienza. L’invenzione scientifica e la creazione artistica, d’altra parte, si realizzano secondo dei processi analoghi che non possono essere, in ultima istanza, ridotti a delle regole precise: «La creatività artistica non si distingue radicalmente, come si pensa ancora sotto l’influsso di supposti poteri magici, dalla creatività scientifica positiva o filosofica: le differenze riguardano il senso, e non la dialettica esperienziale32». Ecco un aspetto della visione di Reale che l’epistemologia contemporanea sta mettendo sempre più in risalto. Vorremmo ora ricapitolare l’idea che abbiamo voluto esporre in questo saggio, temendo che le modalità con cui abbiamo discusso la riflessione di Reale non siano state in grado di porla adeguatamente in evidenza. A questo proposito, ci prendiamo la libertà di invertire il pensiero di Miguel Reale, citando un passaggio introduttivo del suo libro su La Filosofia nell’Opera di Machado de Assis: «Filosofia e Arte sono sorelle gemelle, ma parlano lingue diverse: il massimo che si può sperare è che la prima ci aiuti a comprendere la seconda». Quello che abbiamo voluto suggerire con questo saggio è che possa essere vero anche il contrario: anche l’arte e l’esperienza estetica, infatti, possono aiutarci a comprendere la filosofia e l’esperienza filosofica, visto che la visione dell’arte e dell’esperienza estetica offertaci da Reale ci permette di comprendere meglio la sua stessa concezione della filosofia e la sua particolare attitudine di fronte ai problemi filosofici. Il pensiero di Reale è veramente e propriamente un realismo, caratterizzato dal senso del concreto, dall’oggettività e dall’oggettivazione, e segnato dal senso e dall’appello all’Essere. Il suo realismo, tuttavia, è al tempo stesso un congetturalismo, 32. Ivi, pp. 268-269.

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vista la sua concezione del carattere congetturale di tutte le oggettivazioni e creazioni umane, specialmente quelle che intendono captare e definire l’essenza dei valori e l’Essere stesso – un Essere che è assunto, però, come supremo Oggettivo e Valore, in ogni tentativo di oggettivazione e valorizzazione. La nozione di congettura o di pensiero congetturale è decisiva per comprendere l’opera e il pensiero di Miguel Reale: essa trova in una delle sue opere (Verità e Congettura) un’esplicita ed ampia tematizzazione. Il peculiare congetturalismo di Reale possiede dei tratti estetici, ispirati alla nozione kantiana dell’Als ob, e le cui potenzialità speculative sono state messe bene in luce sulla scia di Hans Vaihinger, ponendo così in evidenza il potere immaginario e libero dello spirito nella creazione di forme autonomamente significative, cosa che permette, in ultima istanza, di comprendere l’importanza attribuita da Reale al mondo culturale e valoriale. È lo stesso filosofo brasiliano a riconoscere il ruolo che i giudizi congetturali svolgono nella filosofia di Kant, sia nelle Critica della ragion pura, sia nella Critica del giudizio. Reale sottolinea come molte delle tesi kantiane, in particolare quelle estetiche, possiedano un carattere essenzialmente congetturale. Ecco allora che l’«universalità del bello riposa sulla congettura dell’unità e dell’universalità dello spirito umano33». E non soltanto l’estetica, ma anche il giudizio teleologico della natura e perfino l’indagine scientifica del mondo si fondano, in ultima istanza, sull’armonia congetturale tra la natura e lo spirito, tra il cosmo e le nostre facoltà di comprenderlo, esplicarlo, modellarlo e fornirgli un senso.

33. M. Reale, Introdução à Filosofia (1994), p. 224. Su questo punto, cfr. L. Ribeiro dos Santos, Hans Vaihinger: o Kantismo como um ficcionalismo?, in Id. (coord.), Kant: Posteridade e Actualidade, CFUL, Lisboa 2006, pp. 515-536.

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Il riconoscimento del carattere congetturale delle più significative realizzazioni umane, tuttavia, non inibisce ma anzi stimola lo spirito o il pensiero nel loro esercizio, dischiudendo il campo illimitato delle loro possibili creazioni. Reale può quindi sostenere – non diversamente da un altro grande pensatore delle congetture e del potere creatore dello spirito umano, il Cardinale Nicola Cusano – che, non essendoci alcun modo di esprimere in modo conveniente ciò che deve essere detto, diviene utile e legittimo moltiplicare le maniere di esprimerlo34. In effetti, quando non è più possibile apprendere adeguatamente e una volta per tutte la realtà e la verità così come sono in se stesse, si può restituire comunque un’idea della loro fecondità solamente moltiplicando il linguaggio, ossia diversificando – mediante simboli, metafore, concetti, idee, immagini, congetture – le differenti modalità in cui potersi esprimere. In tal modo, proprio dove sembra risiedere un limite insuperabile, si rivela la possibilità stessa dell’illimitata creatività ed espressività dello spirito umano. In ogni caso, poiché questa creatività è al tempo stesso una creatività che si colloca nel dominio dell’oggetto, come suprema istanza di oggettivazione, tutta la creazione congetturale dello spirito, anche quella che si realizza nel dominio dell’arte, si riveste allora di una dimensione ontologica, rivelando e anticipando aspetti e dimensioni dell’Essere che rimarrebbero altrimenti nascosti. Anche grazie alla bellezza, alle immagini e creazioni dell’arte si rivela la verità, e non solo il suo alone o il suo splendore. Anche attraverso l’arte, infatti, l’Essere in qualche modo emerge, seppur nel regno delle apparenze e sotto il velo delle immagini. Rivelando lo spirito e dandogli voce, pertanto, l’arte e la bellezza non esprimono certamente in modo minore il mondo e

34. Cfr. N. Cusano, De Mente, cap. IV, § 74, in Id., Opera Omnia, Hamburg 1983, Vol. V, p. 113.

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l’Essere. Ma, a differenza di molte altre manifestazioni – in particolare quelle della scienza –, l’arte ha il privilegio di conoscere più in profondità il carattere congetturale delle sue creazioni e della sua incapacità di plasmare, una volta per tutte, le forme dell’Essere, imprigionandolo in una rete fatta soltanto di immagini.

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Indice

Saggio introduttivo di Alfredo Gatto

p. 9

Prefazione all’edizione italiana di Leonel Ribeiro dos Santos

p. 19

Melanconia e Apocalisse: l’esperienza del tempo e la concezione della storia in António Vieira

p. 23

Vieira e l’ermeneutica barocca

p. 73

Domingos Gonçalves de Magalhães: dal razionalismo critico all’ontologismo metafisico

p. 129

Antero de Quental e la ricezione della filosofia tedesca in Portogallo

p. 157

Ragione estetica e sistema nel pensiero di Cunha Seixas

p. 189

Eça de Queirós, o l’artista in quanto pensatore

p. 213

Estetica e filosofia dell’arte nei pensatori della “Scuola Portuense” – Teixeira de Pascoaes, Aarão de Lacerda, Leonardo Coimbra

p. 257

Fernando Pessoa, poeta e filosofo della natura

p. 299

486

Ragioni del sentimento e piaceri dell’intelligenza. Sulle idee estetiche di António Sergio

p. 357

L’arte come ossessione, o l’umanesimo estetico di Vergílio Ferreira

p. 397

Agostinho da Silva, pedagogo della libertà

p. 427

Il pensiero estetico di Miguel Reale

p. 453

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Gulliver - 4

Collana diretta da Francesco Valagussa Comitato Scientifico Danielle Cohen-Levinas Georg Bertram Adriano Fabris Elio Franzini Thomas Harrison Luca Illetterati Valerio Rocco Lozano Giampiero Moretti Federico Vercellone Emanuele Vimercati

ISBN E-book 9788885716179

I saggi riuniti in questo volume presentano al pubblico alcune delle figure più importanti della tradizione filosofica portoghese e brasiliana. Attraverso la meditazione melanconia e il furore dei sogni apocalittici, Leonel Ribeiro dos Santos si propone di fornire un quadro ampio e variegato del pensiero lusitano. L’indagine propriamente filosofica si accompagna così alla letteratura e al pensiero estetico: da António Vieira a Fernando Pessoa, passando per Antero de Quental e Eça de Queirós, l’autore traccia una storia della riflessione portoghese e brasiliana e disegna un quadro ricco di riferimenti culturali e letterali, contribuendo a colmare un vuoto nell’attuale storiografia.

Leonel Ribeiro dos Santos è professore ordinario presso l’Università di Lisbona, dove ha insegnato, fra il 1977 e il 2011, Filosofia moderna, Etica, Filosofia politica, Filosofia dell’educazione e Filosofia del Rinascimento. È autore delle seguenti opere: Metáforas da Razão ou economia poética do pensar kantiano (1989; 1994); A razão sensível – Estudos Kantianos (1994); Retórica da evidência ou Descartes segundo a ordem das imagens (2001; 2013); Linguagem, Retórica e Filosofia no Renascimento (2004); O espírito da letra. Ensaios de Hermenêutica da Modernidade (2007); Regresso a Kant. Ética, Estética, Filosofia Política (2012).

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