Meglio ignorante che dotto. L'elogio paradossale in prosa nel Cinquecento 9788820740856


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Italian Pages 254 Year 2008

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Meglio ignorante che dotto. L'elogio paradossale in prosa nel Cinquecento
 9788820740856

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Maria Cristina Figorilli

MEGLIO IGNORANTE CHE DOTTO L ’e logioparadossale in p ro sa n el Cinquecento

Liguori Editore

«Pubblicato con il contribute del MIUR (“Progetto giovani ricercatori”). Dipartimento di Filologia dell’Università della Calabria»

Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (Legge n. 633/1941: http://www.giustizia.it/cassazione/leggi/1633 41.html). Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alia riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alia trasmissione radiofonica o televisiva, alia registrazione analogies o digitale, alla pubblicazione e difiusione attraverso la rete Internet sono riservati, anche nel caso di utilizzo parziale. La riproduzione di questa opera, anche se parziale o in copia digitale, è ammessa solo ed esclusivamente nei limiti stabiliti dalla Legge ed è soggetta alTautorizzazione scritta dell’Editore. La violazione delle norme comporta le sanzioni previste dalla legge. D regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile al seguente indirizzo: http://www.liguori.it/politiche contatti/default.asp?c=legal L’utilizzo in questa pubblicazione di denominazioni generiche, nomi commerciali e marchi registrati, anche se non specificamente idendficati, non implica che tali denominazioni o marchi non siano protetti dalle relative leggi o regolamenti. Liguori Editore - 1 80123 Napoli http://www.liguori.it/ © 2008 by Liguori Editore, S j .1. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Giugno 2008 Stampato in Italia da OGL - Napoli

FigorilhI Maria Cristina : Megiio ignorante che dotto. L ’elogioparadossale in prosa n el Cinquecento/Mana Cristina Figorilli Napoli : Liguori, 2008 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 4085 - 6 1. Anton Francesco Doni e Ortensio Lando 2. Libri di lettere facete I. Titolo

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La carta utilizzata per la stampa di questo volume è inalterabile, priva di acidi, a ph neutro, conforme aile norme UNI EN Iso 9706 oo, realizzata con materie prime fibrose vergini provenienti da piantagioni rinnovabili e prodotti ausiliari assolutamente naturali, non inquinanti e totalmente biodegjadabili.

INDICE

Premessa Capitolo primo I testi: forme e terni Note su retorica e poetica dell’elogio paradossale 5; Aree tematiche 36; Scritture asinine 40; Scritture in biasimo della scrittura 75.

Capitolo secondo I due libri di Letterefacete, etpiacevoli (1561-1575) Capitolo terzo L 'argute, etfacete lettere di Cesare Rao: paradossi e plagi Cesare Rao e le Lettere di Anton Francesco Doni 160; Elogi paradossali nei Tre libri d i lettere di Doni 164; I plagi dell'Oratione in Iode dellïgnoranza di Rao (Doni, Giulio Landi, Lando, Agrippa) 176; La «Iode delTasino»: il plagio da Pedro Mexia 183.

Appendice I Appendice II Appendice III Indice deinom i

PREMESSA

Questo libro vuole indagare una tra le diverse morfologie di elogio paradossale cinquecentesco: l’elogio paradossale in prosa e in volgare. II corpus di testi selezionato comprende opéré composte per lo più nel cuore del Cinquecento, tra gli anni Quaranta e Cinquanta. La prima parte del lavoro affronta la materia da un punto di vista ge­ nerale: da un esame complessivo degli elogi paradossali studiati si è potuta rinvenire sul piano deWinventio la presenza di topiche codificate, e di materiali riscritti e reimpiegati da un testo all’altro. Sul piano formale sono emerse costanti strutturali e stilistiche che fanno di queste scritture un insieme piuttosto uniforme. All’intemo del corpus dei testi esaminati è stato possibile distinguera due aree tematiche prevalenti, che presentano notevoli punti di contatto sul piano dei contenuti: scritture ‘asinine’ (dal Sermone d i Fra Cipolla «nella morte del suo asino detto Travaglino» di Ortensio Lando al Ragionamento sovra de l ’asino di Giovan Battista Pino, alla Nobiltà dell’asino di Adriano Banchieri) e «scritture in biasimo della scrittura» (da una lettera di Annibal Caro alla Sferza de’ scrittori antichi e modemi di Lando, ad alcuni passi della Seconda Libraria e dei M armi di Anton Francesco Doni). L’analisi dei testi è stata condotta anche con l’obiettivo di mettere in evidenza l’influenza déterminante che su alcuni di essi hanno svolto due opera fondamentali dell’Umanesimo d’Oltralpe: XElogio dellafollia di Erasmo e il De incertitudine et vanitate scientiarum di Comelio Agrippa. Circostanza questa che ci ha permesso indirettamente di occuparci di alcuni aspetti della ricezione italiana dei due testi che, come noto, hanno lasciato profonde e consistenti tracce in diversi settori del nostro Rinascimento. Lo studio dell’elogio paradossale volgare in prosa ha reso indispensabile il confronto da una parte con un genera letterario legato ai nuovi sviluppi del mercato éditoriale, il «libro di lettera»; dall’altra con modalità di composizione e scrittura dei testi assai diffuse a partira dalla metà del Cinquecento, ossia con le diverse fenomenologie della pratica del ‘riuso’. La seconda parte

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della ricerca si è infatti soffermata sul «Libro Secondo» delle Lettere facete, una raccolta di notevole successo editoriale allestita da Francesco Turchi e pubblicata a Venezia nel 1575, che ripropone alcuni degli elogi paradossali composti negli anni Quaranta e Cinquanta. L’analisi della raccolta Turchi ha consentito di incrociare una questione di grande importanza per le vicende librarie ed editoriali della seconda metà del Cinquecento: la censura. Infatti l’esemplare da me consultato, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, présenta interventi censori consistenti. La terza parte del lavoro prosegue con l’esplorazione di altri due libri di lettere che contengono elogi paradossali: i Tre libri d i lettere di Anton Francesco Doni (pubblicati nel 1552 da Marcolini) e le Argute, etfacete lettere di Cesare Rao, scrittore «polimate» (per dirla con Paolo Cherchi), emblematico esempio di letterato di secondo Cinquecento, esecutore di strategie compositive fondate sul ricorso sistematico e spregiudicato allé tecniche di riscrittura. Quest’ultimo libro, oggi ai più sconosciuto, dopo la prima edizione nel 1562 ebbe un numéro assai elevato di ristampe, qualificandosi come un vero e proprio best seller. Anche in questa raccolta si rinvengono tracce evidenti (che possono andare da generiche influenze a plagi veri e propri) degli encomi paradossali composti a metà Cinquecento: il che conferma la loro vitalité per tutto il secolo. Quanto ai plagi commessi da Rao, oltre a un caso già segnalato da P. F. Grendler, ne sono stati individuati altri due (a mia conoscenza finora ignoti): da opere di Pedro Mexia e di Comelio Agrippa (o meglio, come avremo modo di vedere, dai rispettivi volgarizzamenti). Come emerge dalla rapidissima sintesi del percorso seguito in questo volume, le scritture paradossali selezionate sono state indagate con un’ottica che privilégia le strategie retoriche e letterarie che presiedono alia composizione dei testi: caratteristiche come la ripetizione sistematica di identici schemi, il ‘riuso’ ininterrotto degli stessi materiali, la noncuranza per i nessi logico-argomentativi si connotano quali tratti strutturali di pratiche comunicative che mirano a una bizzarria mai fine a se stessa ma quasi sempre allusiva e antidogmatica. La lettera faceta, l’orazione giocosa, in un rimaneggiamento continuo delle forme della tradizione, attraverso il ricorso alia mimesi parodica, all’ironia, all’ambiguità e all’equivoco, sono ricondotte allé tipologie del serio-comico, permeandosi di spunti satirici, di istanze morali e di inquietudini religiose. Proprio per l’impegno serio ed etico dissimulato nello stravolgimento comico, tali testi sollevano una serie di problemi che in questa sede sono stati tenuti solo sullo sfondo (anche perché più che altro di pertinenza storiografica); problemi relativi allé implicazioni di questi scritti - o meglio dei loro autori - con i diversi ambienti legati alia penetrazione italiana

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delle dottrine riformate e, di conseguenza - come si notava poco sopra -, al loro coinvolgimento negli ingranaggi della macchina censoria messa in moto dagli assalti controriformistici del potere ecclesiastico. Dopo i classici studi di Cantimori, che hanno aperto un terreno di indagine assai produttivo anche per la messa in luce del frainteso atteggiamento dei letterati italiani di fronte all’onda dell’eterodossia, le ricerche storiche di studiosi quali Salvatore Caponetto, Gigliola Fragnito, Carlo Ginzburg, Adriano Prosperi, Silvana Seidel Menchi, e ancora Massimo Firpo - per non fare che pochi nomi, tra i più significativi per le vicende letterarie - hanno contribuito, con lapporto di sempre nuovi documenti, a delineare un panorama articolato, segnato da effettive compromissioni dei nostri intellettuali con posizioni ‘eretiche’, superando pregiudizi legati a visioni storiografiche fondate sulla presunta compléta impermeabilità della società culturale italiana alla Riforma1.

1 Si vedano almeno D. C antimori, Eretici italiani del Cinquecento e altri scritti, a c. di A. Prosperi, Torino, Einaudi, 1992 (I ed. Firenze, Sansoni, 1939); Id., Umanesimo e religione nel Rinascimento, Torino, Einaudi, 19802; S. C aponetto, La Riforma protestante nelVItalia del Cinquecento, II ed. riveduta e aggiomata, Torino, Claudiana, 1997; G. F ragnito, Cultura umanistica e riforma religiosa. II *De officio viri boni ac probi episcopt» d i Gasparo Contarini, «Studi Veneziani», xi (1969), pp. 75-184; Ead ., G li «spirituals e la fuga d i Bernardino Ochino, «Rivista storica italiana», lxxxiv (1972), 3, pp. 776-811; E ad ., Evangelismo e intransigent nei difficili equilibri delpontificato famesiano, «Rivista di storia e letteratura religiosa», xxv (1989), pp. 2047; E ad ., Intomo alia "religione” dell'Ariosto: i dubbi d i Bembo e le credenze ereticali delfratello Galasso, «Lettere italiane», xliv (1992), 2, pp. 208-39 (della studiosa si vedano anche i più recenti contributi dedicati al fenomeno della censura ecclesiastica: La Bibbia a l rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura [1471-1605], Bologna, il Mulino, 1997 e Proibito capire. La Chiesa e il volgare nella prima età modema, Bologna, il Mulino, 2005); C. G inzburg , Il nicodemismo. Simulazione e dissimulazione religiosa nelVEuropa del *500, Torino, Einaudi, 1970; A. Prosperi, Tra evangelismo e Controriforma. G.M. Giberti (1495-1543), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1969; Id., Intellettuali e Chiesa alVinizio delVetà modema, in Storia d'ltalia, Annali, IV: Intellettualiepotere, a c. di C. Vivanti, Torino, Einaudi, 1981, pp. 159-252; Id., Celio Secondo Curione e g li autori italiani: da Pico a l «Beneficio d i Cristo», in Giovanni e Gianjrancesco Pico. L*opera e la fortuna d i due studentiferraresi, a c. di P. Castelli, Firenze, Olschki, 1998, pp. 163-85; Id., Ueresia del libro grande. Storia d i Giorgio Siculo e della sua setta, Milano, Feltrinelli, 2000; Id., Censurare lefavole. IIprotoromanzo e VEuropa cattolica, in II romanzo, a c. di F. Moretti, I: La cultura del romanzo, Torino, Einaudi, 2001, pp. 71-106; S. S eidel M enchi, Sulla fortuna d i Erasmo in Italia. Ortensio Lando e altri eterodossi della prima metà del Cinquecento, «Rivista storica svizzera», 24 (1974), 4, pp. 537-634; E ad ., Erasmo in Italia 1520-1580, Torino, Bollati Boringhieri, 1987; M. F irpo , Riforma protestante ed Eresie nelVItalia del Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 1993; Id., G li affieschi d i Pontormo a San Lorenzo. Eresia, politico e cultura nella Firenze d i Cosimo I, Torino, Einaudi, 1997; Id., D al sacco d i Roma alllnquisizione. Studi su Juan de Valdes e la Riforma italiana, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1998; Id., Artisti, gioiellien, eretici. II mondo d i Lorenzo Lotto tra Riforma e Controriforma, Roma-Bari, Laterza, 2001.

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Il secondo e il terzo capitolo di questo volume sono già apparsi (grazie ad Alberto Casadei e a Gilberto Pizzamiglio) su «Italianistica», xxxii (2003), 2, pp. 247-73, e su «Lettere italiane», lv i (2004), 3, pp. 410-41. Entrambi i saggi per l’occasione sono stati rivisti e aggiomati bibliograficamente, e al secondo è stato aggiunto un paragrafo dedicato all’epistolario di Doni. Il primo, più ampio capitolo è inedito; inédite sono anche le Appendici poste in calce al volume. II materiale inedito è frutto di un’opera di rielaborazione e ‘riscrittura’ della mia tesi di dottorato discussa nel 2001 presso il Dipartimento di Filologia dell’Università della Calabria. I tre capitoli costituiscono le diverse parti di un’unica ricerca concepita in modo organico, ma per consentime una lettura anche indipendente non ho eliminato nelle note alcune ripetizioni bibliografiche da un saggio all’altro; inoltre nel secondo e nel terzo capitolo la prima volta che compare un rimando bibliografico l’ho citato per intero anche se esso già figurava nei capitoli precedenti. In questi anni, in fasi differenti del mio percorso accademico, ho contratto debiti con alcune persone che mi hanno prestato il loro aiuto in diverso modo. Un grazie sincero va a Giulio Ferroni, che per me resta un importante punto di riferimento nonostante la separazione ‘geografica’; a Nicola Merola, cui lego il ricordo dei bellissimi anni del dottorato da lui coordinato con vivacità e apertura intellettuale; e a Raffaele Perrelli, presi­ de della Facoltà di Lettere dell’Università della Calabria, che ringrazio per la competenza e per l’attenzione che sa dimostrare. Un supporto decisivo mi è poi venuto dalla solidarietà amicale di Chiara Cassiani e negli ultimi tempi di Zaira Sorrenti. Più specificamente per le ricerche confluite in que­ sto libro desidero esprimere la mia gratitudine a Mario Andrea Rigoni per la lettura attenta e preziosa del terzo capitolo (che grazie al suo generoso intervento aveva potuto vedere la luce su «Lettere italiane»). Un affettuoso ringraziamento per l’interessamento e l’incoraggiamento va anche a due tra i più competenti esperti del Cinquecento non ‘canonico’: Giorgio Masi e Paolo Procaccioli (al quale devo anche un’attenta lettura del primo capitolo e molti buoni consigli). Sono grata anche a Manuela Martellini, per la sua disponibilité. Infine un ringraziamento dawero spéciale va a Nuccio Ordine, a cui da sempre stanno a cuore la mia ricerca e il mio percorso universitario: a lui devo molto, ben oltre la pubblicazione di questo volume, che pure è stato stampato grazie al suo consueto, fattivo intervento. Da ultimo rivolgo un pensiero affettuoso a Paola Cosentino e ad Anna. M.C.F. Roma, febbraio 2007

1 I TESTI: FORME E TEMI

Note su retorica e poetica delVelogio paradossale 1. La delimitazione morfologica del campo di indagine, elogi paradossali in volgare e in prosa, permette di tracciare un reticolo culturale ben definito, di sostare su esperienze letterarie accomunate dalla predilezione per certe forme e pratiche comunicative, predilezione che, come è naturale, riflette sempre unopzione di poetica. Sulle tracce del genere «elogio paradossale in prosa e in volgare» ci si addentra in un settore della cultura cinquecentesca eterogeneo e marginale rispetto alia cultura ufficiale, comunque significativo, che mérita senz’altro le attenzioni che sta incontrando da parte degli studiosi negli ultimissimi anni. I testi che ho preso in esame, infatti, si configurano, pur nella fisiologica dinamica degli scarti e delle differenze, come un carpus', essi delimitano uno spazio letterario omogeneo, riconoscibile dalla presenza di costanti tematicoformali e dairappartenenza a uno stesso orizzonte ideologico. Anzi, proprio il riconoscimento del loro costituire un ‘insieme’ consente di misurare più a fondo il senso delle scelte letterarie che agiscono su tali pratiche di scrittura. Sono queste le ragioni che motivano lesclusione dal nostro raggio di interesse della poesia burlesca paradossale, dei capitoli bemeschi in terza rima1, che, pur avendo owiamente dei punti di contatto con i testi presi in considerazione,

1 Per la poesia burlesca in relazione al paradosso cfr. comunque P. C herch i, L 'encomio paradossale nel Manierismoy «Forum Italicum», ix (1975), 4, pp. 368-84; S. L onghi, L usus. II capitolo burlesco nel Cinquecento, Padova, Antenore, 1983; D. Romei, Bem i e bemeschi del Cinquecento, Firenze, Centro 2P, 1984; S. Z a tti, Elogio paradossale e poesia novecentesca, in Studi offerti a Luigi Blasucci\ a c. di L. Lugnani, M. Santagata, A. Stussi, Lucca, pacini fazzi, 1996, pp. 579-96; A. C o rsa ro , La regola e la licenza. Studi sulla poesia satirica e burlesca fra Cinque e Seicento, Manziana (Rm), Vecchiarelli, 1999, allé pp. 73-113.

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costituiscono un’esperienza culturale distinta sia morfologicamente che cronologicamente. Ma l’esclusione riguarda anche la tipologia latino-umanistica dell’elogio paradossale, che continuava a riscuotere consensi in un circuito di tipo europeo, come dimostrano le sillogi di encomia paradossali uscite a stampa nel XVII secolo nell’Europa del Nord2. Anche in questo caso, infatti, ci troviamo di fronte a una produzione a sé non solo per la discriminante linguistics ma per il differente quadro culturale di riferimento in cui essa si inscrive (differenza culturale marcata del resto proprio dall’uso del latino): una produzione di tipo accademico, che si connota per una pratica tutta colta e dotta dell’elogio paradossale; una produzione con cui certamente i nostri testi hanno notevoli punti in comune, soprattutto nella condivisione di analoghi modelli culturali, e neH’utilizzazione delle stesse fonti e della stessa topica, ma che poi si distanzia per le diverse modalité con cui modelli, fonti e topica sono riusati (gli elogi analizzati, come vedremo, riscrivono in modo non ortodosso i materiali classici). Inutile insistere, poi, su come i due circuiti, quello del lati­ no e del volgare, proprio nel periodo in cui è circoscritta 1’indagine, a partire dalla fine degli anni Trenta, si stessero differenziando sempre più sul mercato editoriale e per utenza e per fimzioni comunicative3. 2. L’elogio paradossale affonda le sue radici nella tradizione retorica antica4, come estensione della pratica epidittica che si ‘perfeziona’ nella sperimentazione tecnica di nuovi terni, fino ai più rari e inattesi5. Se infatti gli elogi ‘regolari’ attingono i propri oggetti al repertorio degli endoxa (cio che è universalmente degno di lode), gli elogi paradossali pertengono al campo tematico degli adoxa (materie di nessun valore) e, appunto, dei paradoxa o admirabilia (argomenti contro l’opinione comune e per tanto, al di fuori del discorso epidittico, considerati indifendibili)6. 2 Alcune di queste raccolte erano state segnalate da R.L. C o lie , Paradoxia Epidemica. The Renaissance Tradition o f Paradox, Princeton, New Jersey, Princeton University Press, 1966, pp. 4-5 e n. 4. Si veda anche C h erch i, L ’encomio paradossale cit., pp. 369-70 e L on gh i, L usus cit., pp. 149-51 e n. 14. Su queste raccolte secentesche cff. \ Appendice I. 3 Cfr. A. Q uondam , L a letteratura in tipograjta, in Letteratura italiana, dir. da A. Asor Rosa, II: Produzione e consuma, Torino, Einaudi, 1983, pp. 555-686. 4 Per un’analisi esaustiva della fenomenologia deU"elogio’ nella retorica classica cfr. L. P ernot, La rhétorique de l'éloge dans le monde gréco-romain, 2 tt., Paris, Institut d’Études Augustiniennes, 1993. Questo lavoro costituisce un punto di riferimento essenziale e costante per la mia analisi sia dal punto di vista della struttura dei testi sia da quello delle loro categorie estetiche ed etiche. 5 Cfr. P. D andrey, L ’éloge paradoxal de Gorgias à Molière, Paris, PUF, 1997, p. 296. 6 Questa distinzione tecnica (a cui bisogna aggiungere gli amphidoxa - oggetti, cioè, ora degni di Iode, ora biasimevoli), che risale alla classificazione del retore Menandro (sotto il

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Nella dottrina retorica tradizionale l’elogio paradossale pertiene, quindi, a quella categoria di paradosso che Rosalie L. Colie ha definito rhetorical paradox, o form al defense1-. Xepideixis esibisce e dispiega tutta la sua attrezzatura retorica per pronunciare un discorso atto a sostenere enunciati a grado debole di credibilità e verosimiglianza. Infatti nel momento in cui l’oratore accetta la sfida di nobilitare il basso, l’ignobile, l’insignificante, il vizio, uno dei requisiti che deve osservare la thesis, cioè il verosimile (che «altro non è che l’aderenza a un sistema di aspettative condiviso abitualmente dall’udienza»8), viene a cadere: l’elogio paradossale quindi costitutivamente si realizza attraverso l’adozione di cio che non puô risultare credibile o accettabile. E proprio per questo che l’elogio paradossale subito si connota come forma estrema di artificio retorico, la cui realizzazione richiede notevole abilità persuasiva. Tuttavia, affinché il meccanismo paradossale insito nello pseudo encomion possa scaturire, è condicio sine qua non la preesistenza di una doxa consolidata, di un patrimonio vitale e corrente di opinioni comuni, di una connivenza sul piano estetico ed etico tra l’oratore e l’uditorio: sull’orizzonte aproblematico e acritico del senso comune l’enunciato paradossale viene a produire contro ogni attesa uno scarto imprevisto e spiazzante. Gli elogi paradossali nel momento di massima espansione della sofistica greca divennero espressione della potenza del logos, delle smisurate capacité tecniche degli oratori, di fronte aile quali tutto diventa lodabile, persino il disvalore e il negativo. La punta più estrema dell’artificialité retorica, il massimo grado dell’onnipotenza virtuosistica della parola si raggiunse, come è noto, con l’uso di far seguire alla lode il biasimo di una stessa materia9. Legata alia pratica dello pseudo encomion era la difesa di una proposizione (thesis) ufficialmente disapprovata dall’opinione pubblica, appunto il parados­ so: nel Proemio ai Paradoxa stoicorum, che costituiscono il modello classico del genere. Cicerone aveva ben messo in evidenza l’aitificio retorico insito nell’enunciazione di «paradossi»: «Sed nihil est tarn incredibile quod non di-

cui nome ci sono stati tramandati due trattati sull'epidittica), ricalca lo schema delle quattro cause principali del genere giudiziario (riprese anche dai teorici latini): cause endoxoi (honestae), adoxoi (humiles), amphidoxoi (dubiae), paradoxoi {admirabiles)-, cfr. ivi, pp. 292-93. 7 C o u e, Paradoxia Epidemica dt., p. 3 . 8 U. Eco, L'industria aristotelica, in Cent’a nni dopo. llritom o dell’intreccio («Almanacco Bompiani 1972»), a c. di U. Eco e C. Sughi, Milano, Bompiani, 1971, pp. 5-11 (5). 9 Di tale tecnica antilogica, praticata nelle scuole ancora in età umanistica, si appropriano anche le forme letterarie: esempio célébré è la stmttura ancipite dei D ialog a d Petrum Histrum di Leonardo Bruni, su cui si veda F. Bausi, Nota sul procedimento antilogco net «Dialog» d i Leonardo Bruni, dnterpres», xn (1992), pp. 275-83. II procedimento palinodico, come vedremo, è anche alla radice dello schema doppio adottato da Ortensio Lando in alcune sue opere.

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cendo fiat probabile, nihil tam horridum, tam incultum, quod non splendescat oratione et tamquam excolatur»10. Paradossi ed elogi paradossali, «admirabilia contraque opinionem om­ nium», sul piano A&Welocutïo si appropriano àÆ acutum dicendi genus, il cui ingrediente primario è l’arguzia, accompagnata dall’ironia, dall’uso antifrastico del linguaggio, con tutto il corredo di figure retoriche connesse, che provocano lo «straniamento», come l’iperbole, l’enfasi, la litote, l’ossimoro11. II sapiente e consapevole uso degli strumenti della retorica produce la molteplicità dei significati, proiettando il discorso nello spazio del dubbio, del doppio, dell’ambiguo, dell’opinabile; spazio che proprio per la sua natura antidogmatica puô attivare un percorso conoscitivo in grado di mostrare la falsità delle convenzioni, delle certezze dell’ordinamento sociale poggiante sul iudicium m ultitudinis12. La storia cinquecentesca dell’elogio paradossale in prosa - segnata dalla corrosione del principio classico del decorum, nella convinzione cristiana che il ‘basso’ e l’umile possano awicinarsi al divino in misura infinitamente mag10 Paradoxa, [Prooemium] 3 (ed. Les Belles Lettres). Per le tecniche retoriche degli Stoici cfr. G. M oretti, Acutum dicendi genus: brevità, oscurità, sottigliezze e paradossi nette tradizioni retoriche degli Stoici, Bologna, Patron, 1995. I Paradoxa stoicorum nel Cinquecento ebbero notevole fortuna, come testimoniano numerose edizioni in cui i Paradoxa figuravano accanto ad altre opere filosofiche di Cicerone. 11H. L ausberg, Elementi d i retorica (1949), tr. it. Bologna, il Mulino, 19862, pp. 28-29 e passim. Lausberg sottolinea come il discorso che vuole sostenere l’indifendibile appartenga dal punto di vista del genere giudiziario al genus turpe (che urta il senso etico del giudice, a differenza del genus admirabile, che urta il suo senso di verità nel «sostenere una tesi intellettualmente assurda o chiaramente menzognera»); categoria praticabile, pertanto, solo dall’epidittica. Lo straniamento si configura come «l’effetto psichico che l’imprevisto, l’inatteso [...] come fenomeno del mondo estemo esercita sull’uomo» (p. 60). Sulla letteratura rinascimentale del paradosso si vedano, oltre a C o lie , Paradoxia Epidemica cit., A.E. M a llo c h , The Techniques and Function o f the Renaissance Paradox, «Studies in Philology», lu i (1956), pp. 191-203; Le Paradoxe au temps de la Renaissance. Actes du Colloque International (13 et 14 novembre 1981-23 et 24 avril 1982), dir. M.-Th. Jones-Davies, Paris, Université de la Sorbonne, Centre de recherches sur la Renaissance, Touzot, 1982. 12 Cfr. F. D aenens, Encomium mendacii owero del paradosso, in La menzogna, a c. di F. Cardini, Firenze, Ponte aile Grazie, 1989, pp. 99-119. Per una ricognizione del significato del termine paradosso cfr. L. Panizza, The semanticfield o f paradox in 16^ and 17th century Italy: firm truth in appearance false to falsehood in appearance true. A preliminary investigation, in II Vocabolario della République des Lettres. Terminologia filosofica e storia della filosofia. Problemi d i metodo. Atti del Convegno Intemazionale in memoriam di Paul Dibon (Napoli, 17-18 maggio 1996), a c. di M. Fattori, Firenze, Olschki, 1997, pp. 197-220. Per un contributo teorico sul paradosso, cfr. almeno F.W. L upi, Ars Perplexitatis. Etica e retorica del discorso paradossale, in Figure del paradosso. Filosofia e teoria dei sistemi 2, a c. di R. Genovese, Napoli, Liguori, 1992, pp. 29-59.

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giore rispetto ai cavilli della teologia più rigidamente razionalistica - trova il suo modello più significativo e imitato, come è noto, nel Moriae encomium di Erasmo; all*oratio comica erasmiana si deve anche la riformulazione, su base albertiana, di un classicismo di ispirazione lucianea, combinato con l’impostazione etica di Plutarco, classicismo che si apre alia sperimentazione di pratiche formali connotate dalluso marcato dell’ironia, dalla predilezione per i temi fiitili e ‘piacevoli’, per la misura breve, e dall’assunzione a ideale estetico del pseudos come «forma di mimesis ironizzante»13: tratti, questi, finalizzati alia fondazione di una nuova pedagogia in cui il messaggio cristiano non rinnega la strumentazione umanistica, piegata alla realizzazione di un utile dulci che rifiuta lo scontro aggressivamente frontale. Ad Ortensio Lando, che al pari di Luciano con un gioco combinatorio iperletterario rimanipola i materiali della tradizione, sottoponendoli a un processo di transcodificazione ironica, si deve invece, con la pubblicazione dei Paradossi (Lione, 1543), l’introduzione nella letteratura volgare del genere «paradosso», espressione raffinata della cultura umanistica14. 13E. M attioli, La poetica d i Luciano (1973), in Id ., Studi dipoetica e retorica, Modena, Mucchi, 1983, pp. 7-68 (55). Si veda anche P. P rocaccioli, Cinquecento capriccioso e irregolare. D eilettori d i Luciano e d i Erasmo; d i Aretino e Dont; d i altri peregrini ingegni, in Cinquecento capriccioso e irregolare. Eresie letterarie nelVltalia del Classicismo. Seminario di Letteratura italiana (Viterbo, 6 febbraio 1998), a c. di P. P. e A. Romano, Manziana (Rm), Vecchiarelli, 1999, pp. 7-30. Su Luciano, che come è noto coltivô il genere dell’elogio paradossale (elogi della tirannia, del parassita e il célébré elogio della mosca), ancora essenziale J. B ompaire, Lucien écrivain. Imitation et creation, Paris, De Boccard, 1958 (se ne veda ora la rist. con Nouvelle préface de l'auteur, Paris-Torino, Les Belles Lettres-Aragno, 2000). Oltre al citato Mattioli, si veda A. C amerotto, Le metamorfosi délia parola. Studi sulla parodia in Luciano diSamosata, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Intemazionali, 1998, a cui rinvio per la vasta bibliografia lucianea. SxûYElogio della follia si veda, tra gli altri, J.-C. M argolin, Parodie et paradoxe dans l'«Eloge de la folie» d'Erasme, «Nouvelles de la République des Lettres», 1983, 2, pp. 27-57. 14 Cfr. A. C orsaro, Ortensio Lando letterato in volgare. Intomo att'esperienza d i un reduce uciceroniano", in Cinquecento capriccioso e irregolare cit., pp. 131-48 (138) e P. C herchi, Polimatia d i riuso. M ezzo secolo d i plagio (1539-1589), Roma, Bulzoni, 1998, pp. 98-99. Per la pratica landiana del genere paradosso cfr. W. G. R ice, The Paradossi o f Ortensio Lando, in Essays and Studies in English and Comparative Literature, by Members o f the English Department of the University o f Michigan, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1932, pp. 59-74, da consultare anche per la fortuna europea dei Paradossi. Per quest’ultimo aspetto si vedano le segnalazioni delle edizioni straniere, soprattutto francesi, nel regesto bibliografico landiano in P.F. G rendler, Critics o f the Italian World (1530-1560). Anton Francesco Dont\ Nicold Franco and Ortensio Lando, Madison, Milwaukee and London, The University o f Wisconsin Press, 1969, pp. 222-39 (sul caso del Traictéparadoxique di Bénigne Poissenot cfr. M. S imonin , Autour du «Traictéparadoxique en dialogue» de Bénigne Poissenot: dialogue, fo i et paradoxe dans les années 1580, in Le Paradoxe au temps de la Renaissance cit., pp. 23-39). Per un quadro generale sul genere paradosso nel Cinquecento con riferimenti al mondo classico, cfr. J.-C. M argolin, Le paradoxe, pierre de touche desjocoseria» humanistes, ivi, pp. 59-84.

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Tuttavia, come ha osservato Paolo Cherchi, i Paradossi landiani non hanno nulla in comune con i ‘precedenti’ antichi o modemi del genere (si pensi ad esempio ai Paradoxa ducenta octaginta di Sebastian Franck 15): «modello di Lando - novità, questa, assoluta - sono i De retnediis utriusquefortunae di Pe­ trarca»16. Questo dato rappresenta un’ulteriore conferma del legame intrinseco che le scritture paradossali, veicolo di dissimulate istanze religiose, detengono con le radici più profonde del nostro Umanesimo, per il quale l’interesse biblico e patristico, l’attenta adesione agli enunciati ‘rivoluzionari’ promulgati dalle epistole paoline, l’inquietudine connessa a esigenze di riforma spirituale si configurano come aspetti non marginali e neanche secondari rispetto al più appariscente culto formale per l’antichità 17. Il trattato petrarchesco con il suo contenuto stoico-cristiano, per di più esibito attraverso lo strumento del paradosso, poteva di certo rappresentare un importante antecedente per l’autore dei Paradossi, impegnato del resto in una letteratura esplicitamente dottrinale, come ad esempio testimonia, tra le altre opéré, il trattato Della vera tranquillité dell'animo, ispirato, non diversamente dal De remediis, ai cardini del messaggio evangelico, quali la sopportazione delle sofferenze, la svalutazione dei béni e dei valori terreni, l’esaltazione della povertà, la condanna dei piaceri mondani, il disprezzo della morte, nel segno della più intransigente denuncia della vanitas vanitatum di fronte all’etemità della gloria di Dio18. 15 Su Sebastian Franck si veda J. L ebeau, Le paradoxe chez Erasme; Luther et Sebastian Franck, ivi, pp. 143-54. 16 C herchi, Polimatia d i riuso cit. pp. 98-101 (99). Corne è noto il De remediis conobbe fino a tutto il Seicento una straordinaria fortuna europea, annunciata dalla precocità dcMeditio princeps (1468), e confermata dall’elevato numéro delle edizioni e delle traduzioni nelle diverse lingue. In Italia, il primo volgarizzamento a stampa si ebbe per opéra di Remigio Fiorentino: Opera d i M. Francesco Petrarca, De rimedi de Vuna et Valtra fortuna, ad Azone, tradotta per Remigio Fiorentino, In Vinetia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrarii, 1549. Sull’incorporazione del De remediis nel testo della Polyanthea ‘rassettata’ da Joseph Lang in vista della stampa veneziana del 1607 (presso Giuseppe Guerigli), cfr. P. C h erch i, Petrarca in Barocco: il «De remediis» nella «Polyanthea» del Seicento, «Giomale storico della letteratura italiana>, clxxxii (2005), 599, pp. 321-39. 17 A. C orsaro, G li spazi e g li interventi dei letteratijra la Riforma e il Concilio, in II Rinascimento italiano d i fronte alla Riforma: letteratura e arte. Sixteenth-Century Italian A rt and Literature and the Reformation. Atti del Colloquio intemazionale (London, The Warburg Institute, 30-31 gennaio 2004), a c. di C. Damianaki, P. Procaccioli, A. Romano, Manziana (Rm), Vecchiarelli, 2005, pp. 3-29. 18 Su questo testo, che si finge composto da Isabella Sforza, in linea con la propensione landiana all’anonimato, cfr. F. D aenens, Le traduzioni del trattato «Della vera tranquiUità delVanimo» (1544): rirriconoscibile Ortensio Lando, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», L vi (1994), 3, pp. 665-94. Per i punti di contatto con il Beneficio d i Cristo di Benedetto da Mantova (fortunatissimo trattatello attraverso cui in Italia si diffuse la dottrina della «giustificazione per fede»), pubblicato nel 1543 a Venezia dopo essere stato rielaborato da Marcantonio

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Inoltre un testo come il De remediis presentava delle caratteristiche che non potevano non esercitare un forte richiamo per un lettore come Ortensio Lando: da elementi strutturali (come lo schema binario che costituisce Timpianto delfopera - il secondo libro è il ribaltamento quasi speculare del primo - o la disposizione enciclopedica tesa a inglobare una casistica compléta suif utraque fortund) a caratteri stilistici e retorici (la presenza di exempla, lunghe sequenze elencatorie, ricorrenti moduli antitetici, e ancora argomentazioni paradossali aile quali è da affiancare un gusto, che qua e là affiora, per i mirabilid), a nuclei tematici (come la rappresentazione della stulta sapientia umana, della rerum contrarietas, della coincidentia oppositoruni). E facile immaginare che il secondo libro, costruito come un inventario delle awersità dell’esistenza umana, volto, perô, a mostrare la dulcedo nascosta in esse, costituisse per Lando una assai congeniale fonte da rimaneggiare: il repertorio delle situazioni negative, che si svolge, per citare solo alcuni terni trattati, dalla bruttezza alla povertà, alia moglie sterile, alia prigione, alia vecchiezza, al male della gotta, finisce con il presentarsi come una lunga e persuasiva dimostrazione dei vantaggi insiti nelle sventure. E ancora (e questa volta ci riferiamo al primo libro), le sezioni dedicate agli svantaggi e ai pericoli insiti nell’accumulo dei libri o nel proliferare della scrittura non costituiscono forse un antecedente autorevoie (su cui avremo modo di tomare), riguardo al nucleo tematico, per testi come il «paradosso III», o la SJèrza de* scrittori antichi et modemP In alcuni casi si tratta di vere e proprie riprese testuali che lasciano pensare che il trattato petrarchesco - owiamente insieme ad una sérié di altri testi che Lando poteva compulsare - fungesse anche da serbatoio cui attingere una vasta mole di materiali, notizie e curiosità19. Oltre tutto, Tinteresse di Lando per il De remediis ben

Flaminio, cfr. C. G inzburg - A. P rosperi, Giochi d i pazienza. Un semtnario sul «Beneficio d i Cristo», Torino, Einaudi, 1975, pp. 163-64. Ma sul testo del monaco benedettino cfr. anche A. Prosperi, L \eresia del Libro Grande. Storia d i Giorgio Siculo e délia sua setta, Milano, Feltrinelli, 2000, pp. 38-101. 19 L’argomento meriterebbe senz’altro di essere indagato in modo più disteso e puntuale. Nondimeno, già da un’analisi del solo primo paradosso (sulla povertà) emerge con evidenza che Lando ha saccheggiato numerosi capitoli (in particolar modo del primo libro) e precisamente i capp. XVIII, XX, XXXI, XXXVI, XXXVII, XLII, LVIII, LIX, LXII del I libro e i capp. VIII e IX del II libro. Per fare un solo esempio, si prenda la sezione del paradosso landiano dedicata ai ‘volatili’ («Debbonsi disiderare le richezze per aver vileggiando le mandrie de’ grassi armenti? per possedere e cortili pieni de polli, per nudrir columbi, tortorelle, o vero per pascere il bel pavone? Non credo io, perciô che sarebbe una espressa sciochezza. Sono forse altra cosa gli armenti che esca de’ lupi e rapina de’ propri guardiani? e il ralegrarsi di si fatte cose non si puô meritamente dir che sia una alegrezza bestiale, essendo pel mezo delle bestie causata? Cosî anche altro non conosco essere e polli che preda de frodolenti volpi,

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si coniuga con i suoi gusti eccentrici o forse meglio con il ruolo decisivo che esercitarono sulla sua formazione i contatti con gli ambienti transal­ pine se teniamo conto di quanto rilevato da Dionisotti a proposito della vicenda editoriale italiana del Petrarca latino, dall’età degli incunaboli al primo Cinquecento. Assenti dal catalogo dei primi stampatori italiani, ad eccezione dei Psalmt\ le opéré latine del Petrarca vissero una breve, anche se significativa, stagione di ripresa, awiatasi in area lombarda negli anni Novanta del Quattrocento e culminata con le due edizioni veneziane, rispettivamente del 1501 e del 1503. Ma già a partire dal secondo decennio del Cinquecento, in Italia, a differenza del resto d’Europa, la stampa delle opere petrarchesche in latino conobbe una notevole flessione, certo contrastata e in parte compensata dalla pubblicazione di alcuni volgarizzamenti. Non è sufficiente a contraddire questa tendenza la singolare edizione del De remediis allestita a Venezia nel 1515 da Alessandro Paganini, che «ha tutta l’aria

cibo d’ingordi ucellaci, ruvina de cortili, e distruggimento de granai. Oh quanto è maggior la molestia loro di quel che imaginare si possa! buono Iddio, per un uovo, quanto strepito, quanto gridore si sente, e è pur una cosa non sol minuta [...]. Che dirô similmente de’ columbi non mai del beccar stanchi, perturbatori e della diuma e della nottuma quiete, contaminatori delle case, di maniera che inferiori non sono di molestia a’ pavoni, il cui rauco gridore porrebbe spavento fin nell’infemo. Hai misero pavone, certo, chi ti condusse in queste nostre parti ebbe assai più riguardo alla gola e al ventre suo che aile querele de’ vicini, al disfacimento de’ tetti, e aile ruvine de’ nostri amenissimi giardini»; si cita, come sempre d’ora in avanti, da 0 . L ando , Paradossi, doe sentence fa o ri del comun parère, a c. di A. Corsaro, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2000, pp. 89-90) e la si metta a confronta con il passo del cap. LXII del I libro del De remediis, dove si parla per primo dei pavoni: « Gaudium. Pavonibus affluo. Ratio. Ex illorum caudis Argi oculos repetisse consilium fuerit, ne pedibus noceat notissima tegularum pestis [...]; sed hec voluptas oculorum multo aurium tedio pensanda est, quibus contra ilium tartaree vocis horrorem vel fuge vel Ulyssee picis auxilio opus sit, ut sileam, omni peius tedio, vicinorum odium ac lamenta. Vos vero, dum imperiose et nichil intemptatum relinquenti gule pareatis, nec aliéna nec vestra incommoda cogitatis [...]. Gaudium. Pullos nutrio. Ratio. Impedimentum domui, escam vulpibus, aree sufFossores, quorum ungulis et pulvereum solum semper et nunquam superficies equa sit. Gaudium. Gallinarum magnus est numerus. Ratio. Ut cessent tedia, pene par fructus et impensa erit: magno pretio longisque clangoribus exiguum ovum constat [...]. Gaudium. Sed columbis affluo. Ratio. Atqui apum in thalamis siletur per noctem, ut Virgilius ait, in columbario autem nunquam. Vix est animal inquietius columbo. Gaudium. Plena michi sunt columbaria. Ratio. Sunt qui litigent et qui gemant, qui diebus domum fedent, noctibus somnum frangant: en magni gaudii materia!» : P étrarque, Les remèdes aux deuxfortunes. De remediis utriusquefortune. 1354-1366, Texte établi et traduit par C. Carraud, vol. I: Texte et traduction, vol. II: Commentaires, notes et index (Préface de G. Tognon, Introd., notes et index par C. C.), Grenoble, Jérôme Millon, 2002, 1, pp. 292-94. (Preciso che l’espressione «alegrezza bestiale» présente nella prima parte del segmento landiano citato, come anche il riferimento ai «grassi armenti», derivano dal cap. LEX del I libro: De gregibus et armentis, dove appunto la prima battuta pronunciata da Ratio è: «Brutinum gaudium!»: ivi, p. 284).

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di una bizzarria, non indegna di chi avrebbe di 11 a poco stampato la prima Macaronecp>\ infatti in tale occasione il corposo trattato venne confezionato «in formato e caratteri minuscoli» e dedicato a Leone X «notoriamente miope»20. Dietro al rapporto di Lando con il testo petrarchesco si potrebbe leggere come in filigrana il percorso di un’opera in parte ‘riscoperta in patria anche grazie alia mediazione degli ambienti culturali europei: forse non è un caso che il volgarizzamento, segnale évidente di una ripresa di interesse, non si fece attendere a lungo, comparendo a Venezia nel 1549 ad opera di Remigio Fiorentino. Come owio, il riuso da parte di Lando del voluminoso trattato petrar­ chesco è parziale e mirato21: Timpalcatura allegorica del testo petrarchesco, come anche quell’insistenza ossessiva sulla caducità e precarietà dello stato umano costantemente minacciato dall’incombere della morte, o le tonalità cupe e pessimistiche non potevano certo essere riassimilate dalla scrittura landiana, orientata alia ricerca estetica della leggerezza e piacevolezza. Una piacevolezza, perô (come avremo modo di vedere), mista a unaggressività satirica, nel segno di una scrittura costitutivamente ambigua, divisa tra la tendenza a sottoporre al gioco letterario ogni argomento, anche il più serio, e, d’altra parte, a far affiorare nella pagina, anche la più divertita, spie di una riflessione séria e morale22. Nel caso di Lando, poi, l’ambiguità della scrittura che sfrutta anche la commistione programmatica di verità e menzogna si propaga nell’opzione per la tecnica compositiva della confutatio, facendo seguire ai Paradossi la Confutatione. Una strategia, quella controversistica, assunta quale ciffa stilistica costitutiva, corne dimostrano i numerosi esempi nella sua produzione, dal Cicero relegatus, seguito dal Cicero revocatus, alla

20 C. D io n is o tti, Fortuna del Petrarca nel Quattrocento, «Italia medioevale e umanistica», xvii, 1974 {Per il VI centenario della morte d i Francesco Petrarca [1304-1374]), pp. 61-113 (67). 21 Un’altra forma mirata di ‘riuso’ del testo petrarchesco è attribuibile con ogni probabilité a Niccolô Machiavelli: cfr. al proposito il cap. 1 del mio volume Machiavellimoralïsta. Ricerche sufonti\ lessico efortuna, Premessa di G. Ferroni, Napoli, Liguori, 2006: Su M achiavelli e il «De remediis» d i Petrarca, pp. 3-43. 22 Echi petrarcheschi (dal De vita solitarid) sono presenti anche nel Ragionamento fa tto tra un cavalliero errante, et un huomo soletario, nel quale si tratta delle fallacie, e mahagità mondane: mostrando non potersi in verun stato ritnwar alcuna bontà: con una lode nelfine della vita soletaria, dove la scelta della solitudine, di cui si fa un elogio conclusivo, attuata dal Soletario (il cui nome paradossalmente, con rinvio a uno degli pseudonimi scelti da Lando, è Anonimo: «Anonimo mi chiamo»), è motivata dall’infelicità consustanziale a tutte le condizioni e professioni umane, che vengono passate in rassegna con il consueto gusto classificatorio. Il Ragionamento è incluso nei Varii componimenti d i M. Hort; Lando nuovamente venuti in luce. In Venetia, Appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, et fratelli, 1555 (ed. da cui si cita; la l a ed. è del 1552, sempre per Giolito).

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Sferza de* scrittori antichi et modemi che subisce un’immediata ritrattazione nella Brieve essortatione alio studio dette lettered. La scelta della palinodia diventa un potente strumento per amplificare, dilatare fino airestremo l’essenza ambivalente della scrittura: nelFassunzione del duplice discorso la comunicazione paradossale, caricandosi di tutta Pambiguità e la polisemia che il doppio formale comporta, pénétra nello spazio della contraddizione, del relativismo e del dubbio, sfumando i confini tra vero e falso. In più, il rifiuto totale dell'assertio, la volontà programmatica di «creare un paradosso sul paradosso», l’intenzione di confondere e disorientare sono accentuati, nel caso del dittico Paradossi e Confutation del libro de paradossi, dal gioco dellautore che si diverte a sdoppiare se stesso nella duplice maschera di «autor bugiardo e autor veritiero», portando allé estreme conseguenze la complessità semantica del testo2324. 3. Un ventennio dopo i Paradossi di Ortensio Lando, un’altra operetta, con il titolo di D ied Paradosse degli Academia Intronati, usciva anonima a Milano25. Nella dedica «Al Molto Illustre Signor Andrea Marini», il curatore, Giovan Paolo Ubaldini, curiosamente sottolinea la novità, per la lingua volgare, di unopera incentrata sulla dimostrazione di sentenze contrarie alla doxa, omettendo - non è possibile dire se volutamente per ragioni cautelative - la 23 Anche nei Ragionamentifamiliari d i diversi autori, opera contigua, dal punto di vista dei contenuti, ai Paradossi\ cosi come allé Consolatorie, figurano discorsi pro e contra su diversi argomenti: la musica, il vino, la caccia, la vita solitaria, il ‘prendere moglie’ e il ‘farsi cortigiano’; cfr. I. Sanesi, II cinquecentista Ortensio Lando, Pistoia, Fratelli Bracali, 1893, pp. 148-49. 24 D aenens, Encomium mendacii owero del paradosso cit., pp. 108-09. 25 D ied Paradosse degli Academia Intronati da Siena, In Milano, Appresso Gio. Antonio degli Antonij, 1564. L’operetta è segnalata in L onghi, L usus cit., pp. 170-71. II Melzi, che aveva presente un’ed. successiva (Venezia, Muschio, 1608) da cui ricavava la notizia, non meglio precisata, di una stampa anteriore, indicava come autore Felice Figliucci, «che fattosi religioso domenicano, prese il nome di Alessio»: G. M elzi, Dizionario d i opere anonime e pseudonime d i scrittori italiani o come che sia aventi relazione alVItalia, 3 tt., Milano, Di Giacomo Pirola, 1848-1859 (rist. anast. Bologna, Fomi, 1982), U, s. v. Su questo letterato senese si veda L. D e A n g e lis, Biografta degli scrittori sanesi..., Siena, Giovanni Rossi, 1824, pp. 289-91 (rist. anast. Bologna, Fomi, 1976). Fa riferimento ai D ied Paradosse Girolamo Bargagli, accademico Intronato, in un passo àé\'O ratione in lode dellAccademia Intronata, in cui si esaltano le abilità dei letterati senesi nel produrre arguzie e paradossi: «Lassarô io forse di accennare almeno le speciali argutezze in proporre, e provare da questo, e da quello Intronato, belli, strani, e capricciosi concetti contra la commune oppinione ordenariamente portati, con istraniera, ma ormai addomesticata voce, Paradossi addimandati? D e’ quali vedesi andare per altmi mani volumetto cosi hello, e cosi caro del comune nome nostro in fronte improntato»; cfr. R. B ru sca g u , Introduzione a G. B a rg a g li, Dialogo de*giuochi che nette vegghie sanesi si usano difare, a c. di P. D ’Incalci Ermini, Introd. di R. B., Siena, Accademia Senese degli Intronati, 1982, pp. 9-39 (24, n. 43).

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citazione dei Paradossi landiani, i quali ben presto, pochi anni dopo la princeps, videro la propria circolazione limitata dalle restrizioni censorie, anche se proprio nel 1563, e cioè un anno prima della pubblicazione dei paradossi senesi, un po’ eccezionalmente a seguito di quasi due decenni di stasi, vide la luce a Venezia una nuova edizione dellopera di Lando sempre per le cure di Andrea Arrivabene, l’editore che ne aveva garantito negli anni Quaranta la difiusione, anche se semiclandestina 26. Scrive dunque Ubaldini: Essendomi venute allé mani dieci Paradosse degli Academici Intronati; dove si prendono a sostenere dieci propositioni contra la comune opinione; leggendole io; mi parve il loro argomento in gran parte nuovo in questa lingua, e ingeniosamente trattato [...]; ho giudicato buono e cortese ufficio il darle fiiori aile stampe, e al publico, e non comportare ch’elle stiano più lungamente in oscuro, e in mano di pochi: avisando ch'elle potrebbono per aventura piacere a molti se non in quanto alia lingua, almeno in quanto allé cose: che quanto allé parole, e alla maniera del dire io so bene che, chi non scrive con quella del Decamerone, non puô sodisfare appieno aile dilicate orecchie di questo secolo. (c. A2r) 27 Lo schema dei dieci dialoghi che compongono il testo si ripete invariato: un interlocutore, attraverso argomentazioni filosofiche, persuade l’altro, inizialmente incredulo, della verità della tesi paradossale di volta in volta sostenuta. La metà dei paradossi è dedicata all’amore, secondo un gusto che rinvia ai «dubbi» e aile «questioni» dibattuti nelle conversazioni tra i letterati di corte: il primo «Che non è amore né amanti»; il secondo «Che li dissimili si amano et li simili si odiano»; il settimo «Che chi non ama dee essere più amato che chi ama»; il nono «Che una donna dee maggiormente amare un brutto che un bello»; il decimo «Che TAmore desidera solo cose honeste» (anche i paradossi dedicati ad altri argomenti contengono passaggi sulla tematica amorosa). Senzaltro curioso che si parli molto d'amore quando la sua esistenza è negata incontrovertibilmente all’inizio dell’opera, nel primo paradosso. 26 Per una ricostruzione delle vicende censorie dei Paradossi landiani, nonché per una riflessione sulla ricezione del testo, cfr. A. C orsaro, Tra Jtlologia e censura. I «Paradossi* d i Ortensio Lando, in La censura libraria neWEuropa deI secolo XVI. Atti del Convegno Intemazionale di Studi (Cividale del Friuli, 9-10 Novembre 1995), a c. di U. Rozzo, Udine, Forum, 1997, pp. 297-324. 27 Per quanto riguarda la trascrizione dalle edizioni cinquecentesche ho seguito un criterio conservative. Sono intervenuta, qui e in tutto il corso del lavoro, soltanto per sciogliere le abbreviazioni e la sigla tironiana (resa con ‘e’); per distinguere u e v secondo l’uso modemo e per uniformare alla consuetudine odiema accenti e apostrofi.

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Dei dieci paradossi alcuni ci interessano più da vicino per un’affinità con motivi e terni che circolano nei nostri testi. Ad esempio il paradosso terzo, «Che il male è necessario», i cui interlocutori sono il Cerloso e il Sodo Intronati; esso si svolge secondo una struttura ossimorica: dal male nasce il bene; se non ci fosse la fame non mangeremmo mai; se non ci fosse la sete non berremmo mai; dal veleno e dai serpenti si cavano medicine necessarie; anche le cose più abiette e vili sono utili. II paradosso quinto, «Che ci debbiamo dolere nel nascimento de figliuoli et rallegrarci nella morte», présenta evidenti influssi del De remediis petrarchesco: esso è attraversato da una visione pessimistica dell’esistenza umana, che sin dalla nascita si dà come dolore. Il tema di fondo è quello deH’impossibilita per l’uomo di essere felice, reso sintatticamente attraverso l’uso ripetuto delle strutture antitetiche 28. II paradosso ottavo, «Che la ragione nell’huomo è nocevole», présenta motivi che affiorano con frequenza nelle nostre scritture, sulla scia del modello erasmiano della Moria\ ad esempio il riferimento al mito dell’età dell’oro 29 o il tema della predilezione di principi e signori per buffoni e sciocchi piuttosto

28 Immediatamente riconoscibile la fonte petrarchesca (la lunga epistola proemiale con cui si âpre il II libro del De remediis) del seguente passo: «questo [muore] di fame; quello per troppo cibo [...]. Et si è trovato chi è morto per soverchio dolore, e chi per troppa allegrezza. Et si va a pericolo della vita mangiando, bevendo, stando, andando, dormendo, vegghiando. Et in somma non viviamo un’hora senza pericolo, e senza affanno. Se viene la State, siamo dal troppo caldo oltra modo fiaccati; et si risolvono gli spiriti, e le virtù. Se neH’Autunno arriviamo, siamo per la subita mutatione a mille infermità sottoposti. Nel Vemo agghiacciamo, e diventiamo pigri, e da niente. Et in somma infino nella Primavera, che pare stagione temperatissima, siamo da catarri, e da humori cattivi, che allhora in noi si commuovono, fieramente molestati. Troppo è sottoposto questo nostro corpo; troppo è fragile, troppo è debole. Non vedi tu che ogni animale, anchorché picciolo e vile, gli puô nuocere? Non sai tu quanto sia questa nostra complessione, questo nostro stomacho debole, e corruttibile? e di quante cose questo nostro corpo tema?» (c. 25r-v). 29 «Io mi ricordo [è il Bizzarro a parlare] di haver letto; e tu anchora credo che ’1 sappi; che nel principio del mondo, allhora che gli huomini non erano dall’uso, né dalle scientie anchora ammaestrati: e vivevano quasi a guisa di bestie contend solo di quello: che la terra senza l’altrui fatiche per se stessa benignamente produceva: havendo ogni cosa comune senza saper pur dire mio, e tuo; le quali parole hanno tutto il mondo miserabilmente corrotto, e rovinato; non cercavano acquistare né ricchezze, né ornate veste, né oro, né argento: percioché non havevano anchora tanto di conoscimento, che quelle sapessero in miglior uso convertire, che di una vil massa di terra fatto havrebbono: onde inimicitie, odij, furti, homicidij, e altri infiniti errori: di che si è il mondo ripieno, non ne seguivano. ma ciascheduno più oltre non allontanando i suoi pensieri, che a quello, che presente, e necessario gli era, di ogni affanno, e di ogni cura libero e scarco tranquillamente menava i giomi della sua vita. Né questo d’altronde nasceva, che dal poco intelletto loro, e dalla ragione, che in quel rozzo, e giovene mondo anchora svegliata nelle humane menti non era» (c. 39r-v). Su questo aspetto cfr. infra, cap. 2, pp. 140-41, n. 91.

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che per letterati e savi, o ancora il topos dei personaggi deirantichità che per il «troppo sapere» andarono incontro alla morte. Ma al di là di queste consonanze tematiche e del titolo, che potrebbero far pensare a un legame con i Paradossi landiani, questi dialoghi non hanno molto in comune (soprattutto per struttura e forma) con essi e in generale con le tipologie letterarie che ci interessano più da vicino, accomunate dalla stessa morfologia testuale, improntata agli schemi dell’orazione giocosa. 4. Se a Erasmo, nutritosi della lezione umanistica italiana, e in particolare della sperimentazione albertiana, si deve il rilancio dell’elogio paradossale, e a Lando l’introduzione nella letteratura volgare del genere paradosso, c e un altro letterato che, seppure non riconducibile all’area ‘irregolare’ del Cinquecento, si puô non a torto chiamare in causa per l’elaborazione di un program­ ma culturale che costituisce in parte il corrispettivo teorico della pratica delle forme comunicative paradossali (anche se da un’angolazione radicalmente diversa, sovraconnotata dalla valorizzazione del piano dell’elocutio - da non interpretare, perô, riduttivamente corne scelta edonistica). Il riferimento è allesperienza culturale dello Speroni - letterato che ha contribuito in modo decisivo alla riproposizione del dialogo mimetico corne forma letteraria che mette in scena Yopinio nel rispetto fedele del decoro del personaggio - e al progetto, che ha accompagnato tutta la sua produzione, di rifondazione della sofistica greca30. Lo stesso Speroni in età giovanile, accostatosi al modello dialogico serio-comico di ascendenza lucianea, aveva sperimentato il genere paradossale con due dialoghi, Della Usura e Della Discordia31, testi che egli a più riprese menziona mimetizzandoli tra gli altri esempi classici 30 Si veda M. Pozzi, Sperme Speroni e il genere epidittico, in Sperme Speroni («Filologia veneta», II), Padova, Editoriale Programma, 1989, pp. 55-88. Allô Speroni si deve anche un trattatello In difesa dei sofisti. Di Pozzi cfr. anche Sperone Speroni, in Id ., Lingua, cultura, società. Saggi sulla letteratura italiana del Cinquecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1989, pp. 205-56, in particolare le pp. 237 e sgg. 31 Pubblicati in Dialogi', Venezia, Figli di Aldo, 1542 {Della Usura, pp. 71-78; Della Discordia, pp. 81-105). Nel frammento di lettera a Daniele Barbaro, dove si lamenta per la pubblicazione dei Dialogi awenuta a sua insaputa, Speroni definisce «la Discordia e la Usura, due giovenili capricci simili a quello che ne’ dialogi di Platone toise a lodar la iniusticia, in Luciano la mosca, in Favorin la quartana e Busiri in Isocrate» (cit. da M.R. Loi - M. Pozzi, Le lettere fam iliari d i Sperone Speroni, «Giomale storico della letteratura italiana», clxiii [1986], 523, pp. 383-413: 385). Speroni fa anche riferimento a traduzioni in altre lingue dei suoi dialoghi giovanili: ad es. nella minuta di lettera del 1574 (quando lo Speroni era impegnato a difendere i Dialogi, pressato da preoccupazioni controriformistiche) scrive: «Molto mi dole che alcune parte di quei dialogi, già 50 anni da me scherzando composti, or che io son vecchio diventin scandalo atto a turbare le vostre menti. Ben mi consolo, e siami Dio testimonio con tutti loro che in varie lingue tante volte li ristamparono, che se io li scrissi io no lli ho mai publicati e in

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del genere. Sono numerosi i passi in cui lo Speroni introduce il canone dei testi paradossali antichi, a cui aggiunge, per lo più senza segnali distintivi, i suoi giovanili dialoghi; Tottica è sempre quella apologetica: [...] come è facile cosa lodar gli Ateniesi in Atene, cosi è facil cosa lodar gli uomini alTuomo; ma lodar le altre cose in quanto sono utili e benefiche al mondo vol qualche studio, almen per saper Tutilità che ci possa recare una cosa non comunemente nota aile persone. Dunque, sarà più difficil cosa lodar Busiri, Elena, la mosca, la quartana, la usura e la discordia, che lodar gli uomini boni e le cose di manifesta utilità32. Ma coloro ch’intendono Tarte possono anco, col giudicio ch’hanno, allargarsi dai precetti e far qualche cosa anche che non sia dalTarte insegnata; e in questo si dimostra la sua eccellenza. Impero chi non sa che nissun rettore non insegnô mai a lodare altre persone fiiori che le buone e le virtuose, e non si trova alcuno che dia il modo di lodar un tristo e vizioso uomo? Se adonque ad alcuno verrà in pensiero di far questo e partirsi dalle leggi delTarte, che doverà egli fare? Si ricercherà in costui molto giudizio perché egli sappia far quello che dalTarte, la qual segue la facilita nelTinsegnare, non gli vien dimostrato. Per tanto non fu anticamente ripreso Isocrate perché lodasse Busiri, che fu pure tiranno e scelerato; anzi dice Isocrate in quella orazione che vuole lodarlo perché certo altro, ch’avea preso a far questo, non avea saputo farlo. Fu adonque anticamente lodato Busiri, la Musca e altre cose simili, e a giomi nostri la discordia e Tusura; al che fare arte nessuna non è che ci dia ragione o precetti, anzi è solo Tarte di far il contrario33.

scrivendoli anzi ho seguito Taltrui usanza, cio è a ddire di Xenofonte, di Isocrate, di Platone e di mille altri cotali, che la mia propria conscienzia» (cit. ivi, p. 386). 32 D el genere Demonstrative), in Opere d i M. Sperone Speroni degli A lvarotti tratte da* mss. originalt\ Venezia, Domenico Occhi, 1740, in cinque tt. (rist. anast. con introd. di M. Pozzi, Manziana [Rm],Vecchiarelli, 1989), V, p. 550. 33 S. S peroni, Lezioni in difesa della Canace [II lezione], in Id ., Canace e Scritti in sua difesa. G. G iraldi C inzio , Scritti contro la Canace. Giudizio ed Epistola latina, a c. di C. Roaf, Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 1982, pp. 229-30. E ancora, nel frammento di Discorso sopra Dionisio Alicamasseo lo Speroni ipotizza che Dionigi nel Giudicio della istoria d i Tucidide «dalla ragione che mosse alcuni a lodare chi Busiri, chi la ingiustizia, chi la usura, chi la quartana, chi la discordia ed altre cose cotali, delle quali non per ver dir parlavano, ma tal per scherzo, tal per mostrarsi essere atto di fare orando le cause d’inferiori superiori, egli in contrario fosse indotto a vituperare la gloria e ’1 nome di quel si gran letterato, che non che ’1 darli alcuno biasimo, ma il commendarlo a bastanza paresse cosa impossibile» (Opere cit., Ill, p. 431); neW Orazione a l Re Filippo d i Spagna egli faceva riferimento a quegli oratori che «quasi tentino a lor potere di far del vizio virtù o trar profitto delli inimici e del veleno la medicina, ebbero ardire di commendare chi Busiri, chi Elena, chi la quartana, chi la ingiustizia, chi la usura, chi la discordia ed altre cose si fatte. E questi ingannano si gentilmente che non puô dirsi che faccian frode» (ivi, p. 35); nel dialogo primo Sopra Virgilio egli osserva che sia il poeta sia Toratore «par che si appaghi di dire o scrivere alcuna cosa che

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Mario Pozzi inquadra l’operazione speroniana di assidua promozione del genere epidittico, di valorizzazione antiplatonica della retorica come vera arte, in una prospettiva di relativismo antidogmatico «quasi scettico»: la scelta della letteratura rispetto alia filosofia si lega al rifiuto di certezze e verità assolute; d’altro canto la letteratura, l’artificio non producono solo diletto, ma possono rivelarsi strumenti più adeguati, pur nella loro natura costitutivamente antipedagogica, ed estranea a ogni funzione pratica e utilitaristica, per penetrare nella complessità e contraddittorietà del reale. Lo studioso cita a tale proposito un passo in cui emerge con evidenza Xhabitus dell’intellettuale che rinuncia ai percorsi univoci della logica, per intraprendere la strada del relativismo, del probabile, del verosimile, e cioè in definitiva della retorica: «Non è cosa qua giuso [...] né cosi rea che qualche bene non abbia in sé; perô è rea e lodevole, ma non già come rea, ma per quel bene che ella contiene o che ella fa, perché di mal nasce il bene talora. Ha dunque il reo qualche bontà e qualche male è nel buono»34. Se da un lato Speroni - in nome di una idea della forma estetica come spazio autonomo e separato, il cui fine è il diletto35 - si riferisce all 'encomion paradossale come all’esempio più nitido delle alte vette che l’oratore puô raggiungere, dall’altro è consapevole che, attraverso la pratica dello pseudo encomio, lo scrittore si svincola dai «precetti» e dalle «leggi» dell’arte («chi non sa che nissun rettore non insegnô mai a lodare altre persone fiaori che le buone e le virtuose [...]?»). E in effetti nei trattati di retorica cinquecenteschi le sezioni dedicate al genere dimostrativo muovono dal presupposto etico che bisogna lodare cio che è degno di lode e biasimare cio che mérita biasimo: essi, per altro, sulla falsariga della trattatistica latina36 non dedicano spazio al genere dell’elogio paradossale37, recepito nella sede ufficiale e seriosa della trattatistica come un genere minore, un sottogenere comico e ffivolo cui non nuova sia e difficile, ed ove un altro mediocre intelletto non possa o pensi di pervenire [...]. E quindi awiene che noi lodiamo con molto studio Busiri, Elena, mosche, febbri, discordie, usure e la età ferrea, poi quella d’oro vituperiamo» (ivi, II, p. 186): cfr. Pozzi, Sperme Sperrni e il genere epidittico cit., pp. 84-85 da cui si citano i passi. 34 Ivi, p. 88 (Della M ilizia, in Opéré cit., V, p. 432). 35 Cfr. G. M azzacurati, La fondazim e della letteratura, in Id ., II rinascimento dei modemi. La crisi culturale del XVI secolo e la negazione delle origim\ Bologna, il Mulino, 1985, pp. 237-59. 36 Del resto nella latinità il genere era poco coltivato (di cio si lamentava ad es. il retore Frontone nella lettera che introduceva i celebri elogi del fiimo e della polvere: si veda Ted. teubneriana delle M. Comelii Frontonis epistulae, allé pp. 215-17; egli compose anche un elogio della negligenza e un elogio del sonno che non ci è pervenuto): cfr. D andrey, L'éloge paradoxal cit., pp. 20-21. 37 Si vedano i testi raccolti nei Trattati dipoetica e retorica del Cinquecento, a c. di B. Wein­ berg, Bari, Laterza, 1970.

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dare rilievo teorico; mentre owiamente all'encomion regolare, al discorso in lode e in biasimo, viene dedicata la débita attenzione. II rifiuto delletichetta di ridicole nugae spiega la ricorrenza dawero insistita con cui i testi paradossali esibiscono le proprie auctoritates, in una sorta di autoapologia difensiva, come a prevenire le accuse dei calunniatori, dei vitilitigatores (per dirla con Erasmo) che reagiranno con il malevolo e sterile biasimo tipico dei pedanti. Sulla scorta del celebre catalogo di auctoritates che si legge nella dedicatoria d^E ncom ium moriae, e che diventa il modello di tutte le successive apologie in difesa degli elogi paradossali, la scrittura paradossale si autofornisce un canone classico in cui inscrivere la propria produzione38. La formularità implicita nella ripresa dello stesso schema è spezzata dalle variazioni introdotte nell’elenco degli auctores'. dal semplice rinvio allusivo a una tradizione che si dà per consolidate e che è sufficiente richiamare con poche battute, si passa a una lista più dettagliata e nei casi estremi al catalogo. Le argomentazioni in cui si inserisce il topos dei ‘precedenti’, oltre ad avere fiinzione apologetica, possono valere come segnali per orientare il lettore nella ricezione del sermo paradossale. E il caso dell’esordio dell’Oratione in lode delVlgnoranza di Giulio Landi in cui il motivo si inscrive in una riflessione sulla natura silenica dei testi paradossali, che dietro un’apparenza bizzarra o sconveniente nascondono importanti verità: Che benché moite cose nel primo aspetto, paiono disconcie, e malagevoli a dovere piacere, nulladimeno gustandole poi, e conoscendole bene, recano non poco piacere, e utilissimo frutto. Et veramente sicome il titolo di lodar la Peste, pareva ad ogn’uno a prima faccia un soggetto strano, 38 Cfr. L onghi, L usus cit., pp. 139 e sgg.; ma prima di Erasmo le lodi classiche della quartana e dell’ingiustizia erano state invocate a difesa in un celebre testo, certo ben noto a Erasmo: la lettera scritta da Giovanni Pico della Mirandola a Ermolao Barbaro nel giugno 1485; cfr. E. B arbaro - G. Pico d e ll a M ira n d o la , Filosofia o eloquenza?, a c. di F. Bausi, Napoli, Liguori, 1998, pp. 62-63 e la nota del curatore a p. 128. Anche nel Cortegiano si fa riferimento al canone paradossale, nel XVII capitolo del II libro, quando Emilia Pio, per esortare Federico Fregoso (che obietta: «E s’io, Signora, non avessi che dire?») a continuare la conversazione, chiama in causa gli antichi elogi paradossali in tutta la loro cifra retorica di pezzi di abilità oratoria: «Disse la signora Emilia: “Qui si vederà il vostro ingegno; e se è vero quello ch’io già ho inteso, essersi trovato omo tanto ingenioso ed éloquente, che non gli sia mancato subietto per comporre un libro in laude d’una mosca, altri in laude della febre quartana, un altro in laude del calvizio, non dà il core a voi ancor di saper trovar che dire per una sera sopra la cortegiania?”» (si cita da B. C a stig lio n e , II Libro del Cortegiano, Introd. di A. Quondam, note di N. Longo, Milano, Garzanti, 19872, pp. 143-44); cfr. C. O sso la , D al «Cortegiano» alV«Uomo d i mondo». Storia d i un libro e d i un modello sociale, Torino, Einaudi, 1987, pp. 53 e sgg. Ma si veda anche C o lie, Paradoxia Epidemica cit., pp. 33-34.

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noioso, inutile, et vile. Et il celebrare l’haver debito, fu tenuto cosa ridicola, dannosa, e vana. Et lo inalzare con lodi, l’essere scomunicato, parve più tosto cosa horribile, e da fuggire, che degna, che se ne favellasse, né degna, che fosse da qual si voglia plebeio, non che da persona grave, e nobile, sentita, e ascoltata39. Ma in linea generale la presentazione déXoratio paradossale nei termini di una tipologia già sperimentata risponde a un intento giustificatorio, come mostra la sezione proemiale della Pazzia, operetta di incerto autore, dove semmai si puô notare la scelta di identificare i detrattori con i «savi»; scelta che risponde all’intenzione di gettare sul testo, sin àÆ incipit, l’ambiguità della contrapposizione savio-pazzo: Diranno subito i Savij, ben deve esser costui in tutto fiiori di sentimento, che per, titolo, e argomento dell’Opra, e oratione sua, ha tolto a lodare la Pazzia. A i quali rispondendo dico, che anchora appresso li antichi si son lodate le Mosche, le Febri, la Vecchiezza, e la morte, e ai tempi nostri, non sono mancati di nobilissimi ingegni, c’hanno celebrato la primiera, li Scacchi, i Carciofi, e moite altre cose mancho degne di loda40. Non diversamente Niccolô Franco nella lettera di dedica del terzo libro delle Pistole vulgari inserisce il topos dopo il pronostico delle «invettive sanguigne d’inchiostro» che gli «faran contra i pedanti» per aver introdotto delle stravaganze nel suo libro; gli elogi paradossali sono menzionati, a scopo difensivo, come esempio del massimo grado di bizzarria e assurdità che le forme letterarie possano raggiungere: Tristo me, e fossa de le mie charte, s’io fussi solo, overo il primo ne la fintion de le baie, e se l’humor poetico in me solamente facesse gli effetti suoi, e se la mia penna fusse la prima che volasse dove la chiama la bizzarria [...] Udite la più da ridere. Son di quegli che si son posti a lodar la mosca. Altri la febre quartana corne fa Phavorino Philosopho. Chi Tlngiustitia, come fa Osiris. E chi ha finto parlar la Pazzia, de le quali cose, chi ben considéra, le fintioni de le mie lettre son le manco licentiose41.

39 Si cita da La vita d i Cleopatra reina d ’Egitto. DelVillustre S. Conte Giulio L andi Con una oratione nel fine, recitata nellAcademia delVlgnoranti; in Iode dell'lgnoranza, In Vinegia 1551, c. 52r-v. Per questo testo cfr. infra,, cap. 2, pp. 131-38. 40 Si cita da La P azzia [1541?], c. A2r. Sul testo cfr. infra, cap. 2, pp. 138-43 (per l’esemplare consultato, p. 138, n. 84). 41 N. F ranco , Le pistole vulgari (Rist. anast. dell’ed. Gardane, 1542), a c. di F.R. de’ Angelis, Bologna, Fomi, 1986, c. 185r.

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Ancora, la sorprendente artificiosità dell’absurde loqui, nella sua variante di innalzamento degli inopinabilia, è sottolineata nell’elogio delFasino che chiude il Dialogo del Contentioso di Pedro Mexia, dove il canone è chiamato in causa da uno degli interlocutori, Alvaro, a cui la lode di un animale cosî vile sembra superare per assurdità qualunque altro encomio paradossale, portando allé estreme conseguenze gli stratagemmi retorici della declamatio epidittica: Questo mi par, che sia arrivare alio estremo dello altercare [...] Ora io non mi maraviglio di quei, che scrissero in lode della Quartana, della Mosca, della Febre, e del Mossone [sic\, e de gli huomini calvi, e di altre cose simili; né manco mi maravigliarô di Erasmo, il quale scrisse in lode della pazzia; percioché più vil cosa di questo stimo, che sia l’Asino42. La pratica di «innalzare soggetti bassissimi e vilissimi», difliisa tra gli ‘antichi’ e ripresa dai ‘modemi’, è ricordata anche dal Doni dei Marmv. nel Ragionamento della stampa,, il Coccio al quesito del Crivello, «Non è egli lecito, per conto desercizio, scrivere ancora cose lascive?», risponde: Senza pensarci troppo, io direi risolutamente di no: ad uomo di buona vita ed esemplare mancano forse i modi onorevoli e onesti per i quali gloriosamente possiamo esercitare gli ingegni e inviarsi a cose grandi? Gli antichi che inalzarono e onorarono soggetti bassissimi e vilissimi, n’hanno posto l’esempio inanzi con le lodi della mosca, del calvizio e della quar­ tana, e i modemi uomini virtuosi e gentili con tanti begli e arguti capitoli quanti si veggono raccolti e stampati43. Indirettamente il potere persuasivo del discorso, e addirittura la sua capacità di cambiare gli orientamenti della doxa, è esaltato anche nel «paradosso V», Meglio è desser pazzo., che savio, dove il richiamo ai ‘precedenti’ annulla il topos della difficoltà del soggetto con cui di solito, invece, si aprono i paradossi landiani: infatti, grazie aile lodi che «due nobilissimi ingegni» negli «anni passati» hanno tributato alia pazzia, la dimostrazione della tesi paradossale diventa assai più agevole: Penso indubitatamente che poca fatica averô a persuader altrui che meglio sia Fesser pazzo che savio, essendo stata gli anni passati (per quel

42 Si cita dal volgarizzamento (a cui owiamente si deve la ricezione italiana dell’opera nella seconda metà del *500), Dialoghi d i Pietro Messia tradotti nuowamente d i spagnuolo in volgare da Alfonso dTJlloa, In Venetia, per Plinio Pietrasanta, 1557, p. 84. Per questo testo e per la riscrittura di Cesare Rao cfr. infra, cap. 3, pp. 183-91 e XAppendice HI, pp. 225-31. 43 A.F. D oni, I Marrni\ a c. di E. Chiorboli, 2 voll., Bari, Laterza, 1928, I, p. 188. Per il Ragionamento della stampa cfr. infra, pp. 102-03.

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ch’intendo) da dui nobilissimi ingegni con larga vena di facondia lodata la pazzia44. Ma quando si pensa all’uso del topos dei ‘precedenti* da parte di Ortensio Lando, non si ha certo in mente il passo ora citato; è un’altra la pagina landiana che si impone per P‘eccesso’ stilistico, e Pipertrofia accumulatoria con cui si dispone la lista dei precedenti: si tratta del fiinambolico catalogo incluso ne\YApologia d i M. Ortensio Lando ditto il Tranquillo per Vauthore che chiude i Sermonifunebri, in cui l’uso del topos diventa pretesto per un’abnorme sequenza testuale dove lo schema iterativo dell’elenco traduce Possessione per Paccumulo enciclopedico: Sonoci molti intenti al calunniare: li quali, biasmano questo Autore che posto si sia a trattare cose si frivole e di si poco momento, con dir che meglio fatto havrebbe segli havesse atteso alii studi della giovevole medicina, o vero havesse rivolto Tarte, Tingegno suo alia santa Theologia, di cui tanto vago già si dimostro fin da fanciullo: et io dirô a questi calunniatori che biasmino prima di lui Sinesio cirenense, il quale potendo scrivere delTaltre cose al lor giudicio alte e sublimi, scrisse le lodi della calvatura, mostrando al mondo, che lesser calvo fiisse di singolar omamento a capi nostri. biasmino anchora Dione (che per sopra nome fii detto Chrisostomo) che canto si dolcemente la loda della Chioma. Biasmino Omero e la guerra ch’egli scrisse delle Rane: biasmino il Moreto, le Api, e il Culice del buon Virgilio. Vituperino Policrate e Isocrate stremi lodatori di Busiride Tiranno: vituperino prima Glauco, che lodô con tanta vehementia Pingiustitia, vituperino Favorino, che tanto inalzô Thersite e la quartana febre: dichino primieramente male di Luciano, che lodô si efficacemente la Mosca, e la vita parasitica: dichino mal di Seneca philosopho tanto grave, che s’indusse a scrivere PApotheosi di Claudio: Mordino con i lor maligni denti prima Plutarco di haver scritto un dialogo di grillo e di Ulisse, mordino Apuleio e il suo Asino, e se non basta di morderlo, che se lo mangino spacciatamente (pur che Apuleio se ne contenti) Se vorranno li maligni flagellare con la lor pestifera lingua Pautore delli presenti sermoni per essersi posto a trattar di si humil sogetto, flagellino anchora Themisone che scrisse sî difiisamente le lodi della Plantagine e Omero huomo si grave le lodi del vino, flagelino Ephren Siro, che vituperô il ridere con non picciolo volume, flagellino Marcione che scrisse del Raffano: Hippocrate lodatore della orzata: e Mesalla, il quale di ciascuna littera delPalphabeto ne scrisse dui volumi: perché non 44 Lando, Paradossi c\U p. 122. Assai probabile che qui Lando si riferisca al volgarizzamento del Moriae encomium approntato da Antonio Pellegrini e pubblicato a Venezia nel 1539 e all’operetta La p a zzia sopra citata, di incerto autore (cfr. la nota di commento di Corsaro, ivi, pp. 122-23, n. 1).

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si maravigliano questi tali più tosto di Orpheo e di Esiodo trattatori si difusi delle sufumigationi, o vero di Giuba Re che scrisse si prolisso volume sol dell’herba Euphorbo? perché non si maravigliano cosi di Erasistrato che longamente si occupé in scriver sol dell’herba Lisimachia: e cosi di Icesio medico che scrisse di quella herba detta Anonimos? vorrei vedere che questi calunniatori si ridessero prima di Democrito che fece si gran volume del numéro quatemario: e un altro volume consumé in trattar solo del Camaleonte. Ridinsi prima di Pitagora che scrisse delle Scalorgne, di Catone lodatore del cavolo, di Diode magnificatore della rapa. Di Crisippo lodatore della Verza o Brasica che si fusse: di Museo esaltatore della herba detta Polion: di Phania phisico eccellente e gran lodatore dell’Urtica: ridansi di Asclepiade che scrisse del Mosto et le lodi di quell’herba detta Anthémis45. Modellata sulla pagina dell’Apologia di Lando (si tratta anzi di una riscrittura del testo landiano, che viene ripreso e scorciato) è la presentazione degli auctores che si legge nella dedica della redazione ampliata delYOratione in lode delllgnoranza di Cesare Rao: anche qui la citazione delle auctoritates ha una funzione apologetica contro le calunnie dei detrattori: Mi par con tutto cio sentire un vespaio di calunniatori, che cercano di traffigermi fino al vivo, con dire, ch’io meglio haveria fatto a lodar le scienze [...] Altro per hora non vo a questi rispondere, se non che biasimino prima di me Glauco, il quale potendo scrivere di cose alte, e sublimi, Iodé con tanta vehementia l’lngiustitia. Dicano primieramente male di Luciano, che Iodé si efficacemente la vita parasitica. Vituperino Policrate, e Isocrate, strenui lodatori di Busiride Tiranno. Riprendano Seneca, che s’indusse a scriuere l’Apotheosio di Claudio. Vituperino Favorino, che tanto inalzo la febre quartana. Biasimino prima di me Sinesio Cirenese, il quale scrisse le lodi de la calvatura, mostrando al mondo, che l’esser calvo fusse di singolaromamento a’ capi nostri. Mordano Apuleio, e *1

45 Si cita da Sermonifunebri de vari authori nella morte de diversi animali, In Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1548, cc. 34r-35r (si è consultato l’esemplare conservato in BAV con segn. Barberini.JIJ.V.ll). II testo è riportato anche da L onghi, L usus cit., Appendice IE, pp. 282-84. Di Lando si veda anche il Cathalogo d i tu tti qnei scrittori che d i basso soggetto trattarono (riprodotto dalla corrispondente lista, «Qui de modicis rebus opera scripserunt», redatta da Ravisius Textor nella sua Officina) contenuto nel libro VI dei Sette libri de cathaloghi a varie cose appartenenti, non solo antiche, ma anche moderne: opera utile molto alla historia, et da cui premier sip o ymateria difavellare d ’ogniproposito che ci occorra, In Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, e Fratelli, 1552, pp. 477-80. Entrambi i cataloghi, quello di Lando e quello della sua fonte Ravisius Textor, sono trascritti in L onghi, L usus cit., pp. 281-82, 284-86. II Cathalogo landiano si legge anche in M anieristi e irregolari del Cinquecento, Introd. di M. Mari, Apparati di C. Spila, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2004, pp. 366-67.

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suo Asino, e se non basta di morderlo, che se lo mangino spacciatamente, pur che Apuleio se ne contenti. Accusino Homero, che scrisse la guerra de le rane. Biasimino il Moreto, le Api, e ’1 Culice del buon Virgilio. Non è adunque meraviglia, se ancor noi insieme con questi, e infiniti quasi altri, che non racconto, habbiamo il cervello con tanta humidità, che ci fa aile volte sonnacchiar col grande Homero, e ridere una volta l’anno con Apolline46. Anche nell’esordio della «Iode dell’asino», Cesare Rao non rinuncia al topico riferimento aile auctoritates, che, perô, subisce una drastica e ironica restrizione, riducendosi il canone ai soli elogi degli insetti, i quali, d’altra parte, metafora dell’infinitamente piccolo da contrapporre alluomo, forse meglio di altri animali - sulla scorta degli esempi classici (il Culex pseudovirgiliano e la Musca lucianea) -, esprimono la carica anti-antropocentrica e l’estetica dell’incongruo insite nella zoologia paradossale: Se ’1 gran Marone Prencipe, e lume de Poeti latini (magnanimi Signori, e cortesi Gentirhuomini) non si sdegnô cantare della zenzara, e s’a Luciano Excellente Filosofo, e chiarissimo Oratore piacque di essaltare la Mosca, e s’altri di non picciol nome affaticarono l’ingegno loro in voler celebrare altri noiosi, e schiffevoli animaluzzi, che di giomo, e di notte ci danno molta noia, Perché non sarà ancora lecito a me di lodare, e assaltare [j/’r] un animale, il quale non solamente non è nocevole all’huomo, ma gli è di grandissimo giovamento, e senza il cui aiuto molti farebbono male47. Esempi, remoti e contigui, di scrittori di cose vili sono citati insieme, senza la consueta distinzione «tra gli antichi / tra i modemi», da Tomaso Garzoni nell’esordio del Mirabile cornucopia consolatorio, nel segno di una compléta disinvoltura nei confronti della tradizione, omogeneizzata, degerarchizzata, per cui ogni testo, antico o modemo, puô valere come fonte (siamo ormai alia fine degli anni Ottanta): Benché al primo incontro la materia da trattarsi paia disdicevole e vile, nondimeno, a quella guisa che Diode dal celebrar la rapa, Xanto lortica, Protagora il ravanello, Virgilio il pulice, il Calcagnino la cimice, il Molza la torta, e simili altri scrittori gravi diverse altre bassezze magnificando s’apersero la strada a una magnifica e onorata fama, cost in questa reputata 46 Lettera «al Magnanimo, e Illustrissimo Don Scipione de’ Monti»; si cita da Inuettrve, orationi, et discorsi d i Cesare Rao..., In Vinegia, Appresso Damiano Zenaro, 1587, cc. 150z^51r. Per 1’Oratione in lode dell’Ignoranza di Cesare Rao e per i suoi plagi cfr. infra, cap. 3, pp. 17683 e Appendice III\ pp. 215-24. 47 Si cita dalle Argute, et facete lettere d i M. Cesare Rao d i Alessano città della Leucadia..., In Vicenza, Appresso gli Heredi di Perin Libraro, 1596, c. 92r (la prima ed. è del 1562). Per la «Iode dell’asino» di Rao cfr. infra, cap. 3, pp. 183-91.

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ingiuria spero io mostrare il ritratto della vera ignoranza, tanto applicabile a colui che ha pensato di macchiar l’onore di V. Sig. molto magnifica in darle nome di comuto; ché quanto più egli ha pensato di dar carico e nota alla persona vostra, tanto più ei troverà d’avergli fatto inopinato onore48.

Per concludere questa rapida rassegna dedicata alia topica dei proemi paradossali, si puô menzionare la significativa variazione introdotta da Adriano Banchieri nel Proemio della Nobiltà delVasino: i precedenti, tutti modemi, anziché a difesa della propria opera, vengono chiamati in causa per le mancanze dei loro scritti, che rendono necessaria la composizione di un nuovo testo. L’inadeguatezza delle precedenti lodi asinine è motivata dal Banchieri - in perfetta consonanza con il mutato clima culturale, a séguito dei sempre più repressivi orientamenti postridentini - anche per il riprovevole uso di citare le Sacre Scritture, immoralmente piegate a improprie finalità burlesche: [...] m’hanno fatto nascere nella mente non piccola maraviglia, poiché tra il numéro di tanti scrittori antichi, non habbia trovato alcuno, che si sia accorto la specie dell’AsiNO esser’ la più compiuta, la più perfetta, e la più nobile tra li brutti di quante la Natura ne producesse mai al mondo. Et se bene de i modemi Giulio Camillo, Pietro Messia, e un certo Academico Peregrino, il Rao in una sua lettera, e un altro, che ne fece una digressione n’hanno scritto alcuna cosa, raccontando qualche considerabili qualità di detto A sino, cio hanno eglino tanto succintamente, e forse insipidamente fatto, che più tosto gl’hanno levato, che dato quella perfettione, che lo rende meritevole di haver la sentenza in favore d’esser più nobile di quai altra specie d’irragionevoli animali esser si voglia. Ma il peggio è che i sudetti scrittori hanno mostrato, non voglio dir poco giudicio, ma pochissima conscientia si bene, havendo havuto ardimento di sfacciatamente servirsi dell’authorità della Scrittura Sacra per raccontare le qualità dellAsiNO, perché il senso di quella non si puô, né si deve applicare a burle A sinesche che sarebbono veramente degni di severissimo castigo, havendo eglino inconsideramente dato aile parole del novo e vecchio Testamento diverse l’espositioni da quelle, che si devono intendere49.

5. Accanto all’esibizione dei ‘precedenti’ autorevoli, con la funzione programmatica di creare filiazioni, di definire le linee di una tradizione in cui inscriversi, figurano altri dementi di tipo retorico e strutturale a rendere omogenee queste scritture, accomunate dalla demolizione sistematica del­ le diverse componenti su cui si regge la tipologia del panegirico. Infatti, 48 Si cita da T. G arzoni, Opéré, a c. di P. Cherchi, Ravenna, Longo, 1993, pp. 527-28. 49 «A gli asineschi lettori Attabalippa dal Perù», pp. 2-4. Si cita dalfed. della Nobiltà delVasino del 1592, cit. a n . 178 (per questa operetta cfr. infra, pp. 68-74).

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dal punto di vista retorico, come è naturale, le ‘costanti’ sono date dalla riproduzione, con effetto parodico, dello schema del discorso epidittico regolare. Va da sé che l’assunzione di una materia vile, inappropriata rispetto all’impianto retorico desunto dall’ipotesto, créa uno scarto, una dissonanza, un’incongruenza50: i testi paradossali esibiscono le partizioni retoriche per accentuare il contrasto stridente e lo straniamento che l’adozione di strutture argomentative rinvianti aile più codificate norme retoriche producono a contatto con un oggetto ‘basso’. Come va da sé, altresî, che lo stravolgimento del modello nel processo parodico si pone come atto programmatico, nel senso che la ripresa parodica dell’ipotesto implica anche un rovesciamento della prospettiva etica, dell’antropologia epidittica51. Sul piano della dispositio è l’esordio a presentare il massimo grado di osservanza della struttura del discorso ‘regolare’: protasi, captatio benevolentiae, dichiarazione dell’ampiezza del soggetto e della difficoltà del compito celebrativo propostosi (assai marcato l’effetto di incongruenza che questo topos di esordio produce a contatto con la materia vile), topos di modestia, connesso, perô, all’asserzione della nécessité del discorso, apostrofi all’uditorio (che si ripetono anche nel resto della declamatio). Quando poi si entra nelle altre parti del discorso, narratio, argumentatio, peroratio, la fedeltà alio schema si spezza nella dilatazione déformante degli stessi elementi retorici, évidente nell’uso incontrollato degli exempta, delle testimonianze autorevoli, delle citazioni, dello schema della comparazione (il laudandum supera il ter­ mine di paragone prescelto). La proliferazione indiscriminata delle formule prese a prestito dallo schema epidittico se risponde all’intento polemico di mettere in risalto la convenzionalità artificiosa dell’elogio ufficiale, costruito attraverso l’aggregazione di stereotipi, d’altra parte rompe l’equilibrio e l’armonia del discorso regolare: ne risulta una composizione estremamente libera, in cui è attuato in pieno il principio della dissimulatio artis, dell’improwisazione. La narrazione si sussegue per incrementum, con la tecnica della transizione brusca (effetto della pretesa spontanéité) attraverso la giustapposizione, in alcuni casi caotica e confùsa, di materiali eterogenei, dove convivono citazioni coite, proverbi, riferimenti mitologici, letterari, storici, brevi inserti di commenti parodici, giochi di parole e mirabilia. In una parola, è in atto l’estetica della bizzarria e della stravaganza (mi sembra che una delle differenze rispetto all 'encomium paradossale latino-umanistico vada ricerca-

50 Sulla nozione di parodia si vedano almeno G. G enette, Palinsesti. La letteratura atsecondo grado (1982), tr. it. Torino, Einaudi, 1997 e G. G orni - S. Longhi, La parodia, in Letteratura italiana, dir. da A. Asor Rosa, V: Le Questioni, ivi, 1986, pp. 459-87. 51 Sull’antropologia epidittica cfr. P ernot, La rhétorique de l ’éloge cit., I, pp. 143 e sgg.

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ta proprio in questa liberté compositiva). A questa sequenza affastellante di materiali, resa anche attraverso l’impiego iterato dell’enumerazione (che insieme all’iperbole, figura consustanziale del genere epidittico52, costituisce uno degli strumenti retorici più appariscenti di queste scritture), spesso segue un epilogo improwiso, rapido, in cui l’esuberante tensione affabulatoria si interrompe bruscamente. Attraverso le pratiche dell’ironia e della parodia si manifestano i tratti di una cultura che sceglie la piacevolezza e la bizzarria, il capriccio e la stravaganza, categorie estetiche ed etiche che, nel passaggio da un testo all’altro, fomiscono delle spie, dei segnali efiicaci per interpretare una concezione della letteratura che vuole porsi come altemativa rispetto al sistema ufficiale ipercodificato. Le indicazioni provengono dai testi stessi: dichiarazioni di poetica nel rifiuto di ogni poetica, antipedantismo come bersaglio polemico ricorrente, rivendicazione della naturalezza, della misura breve. In una parola il rifiuto della serietà e l’opzione per il riso, che si traduce non solo nella scelta dei contenuti ma anche delle forme. Ma la scelta del gioco - come è stato ormai dimostrato a più riprese dagli studi critici dedicati soprattutto negli ultimi decenni ad alcuni dei testi e degli autori che si prenderanno in considerazione - non va interpretata come fiiga nel disimpegno, come pretesto per un diletto separato, conc/usus, e per cio stesso momentaneo. L’immagine silenica (autorizzata dalla fortuna europea conosciuta in area cinquecentesca dall’adagio Silent Alcibiadis) resta la più efficace per penetrare la dimensione di un lusus che nasconde un contenuto serio. Oltre al fatto che all’intemo di un sistema culturale ortodosso, come quello del classicismo dominante ufficiale, la scelta edonistica, tra la serie delle possibilité ‘alte’, è di per sé sintomo dell’adesione a una prospettiva antropologica altemativa. 6. Come emblema di queste scritture paradossali si puô scegliere la «zucca», elogiata da Doni nella lettera «Ai Lettori» dell’omonima opera. Nel gioco che si dé nella sovrapposizione della «zucca»-opera e della «zucca»-ortaggio, cui rimanda la citazione dell’apologo morale della zucca e del pino, dagli Emblemata dell’Alciato, emerge un’importante dichiarazione di poetica: la scelta di una letteratura che rifiuta l’ideale estetico della perfezione formale e della durabilité: S’io vi dicessi che questa mia Zucca in scritto ha fatto come la zucca naturale che in sei o otto giomi cresce interamente e non falla, voi mi avresti per goffo; ringrazio adunque Iddio che m’ha dato tanto vedere 52 Cfr. ivi, p. 403.

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che io son del parer vostro. Ci sarà qualche persona che fia d’opinione che la facci il medesimo fine che fanno tutte le zucche, come disse quel pino (negfEmblemi delTAlciato) a quella pianta che sali si alto: «La tua félicita fia breve perché in pochi mesi tu finirai». Come dire: «La tua opera andrà a monte come moite altre che si muoiono in poco tempo». Onde si dice: Chi tosto viene tosto se ne va. Io avrei risposto a quel pino come la mia natura è tale, per la qual cosa non ricevo ingiuria nessuna, pur che io facci il mio frutto, il mio seme e cresca secondo che crescon l'altre piante de la mia spezie mi basta e son ristucco53. L emblema CXXV di Alciato, In momentaneam felicitatem, è menzionato, con laggiunta di un altro ‘personaggio’, l’«oliva», pure nel Passerotto fi della «Parte Seconda» dei Fiori della Zucca54, sempre in un contesto argomentativo di svalutazione delTattività letteraria, nella sua espressione più séria e umanisticamente atteggiata; aH’intemo di una radicale professione di antidogmatismo nei confronti della tradizione degli studia humanitatis, si rivendica la libertà di esperienze culturali alternative fondate su valori anticonvenzionali, per cui ad esempio attività, cose e condizioni socialmente denigrate

53 A.F. D oni, Le novelle, t. II/1-2: La Zucca, a c. di E. Pierazzo, Roma, Salerno Ed., 2003, II/l, pp. 11-12 (d’ora in poi La Zucca). Sulla Zucca (pubblicata presso l’editore Marcolini nel 1551-’52), oltre Æ Introduzwne (II/l, pp. ix-xxvi), alla Nota a l testo (II/2, pp. 833-84) e al commento dell’ed. Pierazzo e ai precedenti contributi ecdotici della curatrice (E. P ieraz­ zo , Iconogrqfia della «Zucca» del Dont: emblematica, ekjrasis e variantistica, «Italianistica», xxvii [1998], 3, pp. 403-25; Ead ., Le edizioni marcoliniane della «Zucca» del Dont [1551-1552], ivi, xxvni [1999], 1, pp. 49-71), si vedano C. D el L ungo , La «Zucca» del Dont e la struttura della *grottesca\ «Paradigma», 2 (1978), pp. 71-91; G. M asi, «Quelle discordanze st perfette». Anton Francesco Dont 1551-1553, «Atti e Memorie dell’Accademia Toscana di Scienze e Lettere M La Colombaria"», u n (1988), pp. 9-112; A.P. M uunacci, Quando aleparole saccordano con VintaglioM : alcuni esempi d i riuso e riscrittura d i immagini in Anton Francesco D oni in Pencorsi tra parole e immagini (1400-1600), a c. di A. Guidotti e M. Rossi, Presentazione di L. Bolzoni, Lucca, pacini fazzi, 2000, pp. 111-40. 54 Capologus de pinu et cucurbita era anche nei Commentant' de honesta disciplina dellumanista Pietro Crinito. La favola con la sostituzione del pino in pero si leggeva anche nella Satira VII di Ariosto. Nel trattato Delle Imprese di Giulio Cesare Capaccio tra i valori simbolici dei diversi alberi viene anche menzionata la zucca: «La bellezza da Homero è dipinta per YAr­ bore; l’Huomo infruttuoso per l’Oleastro; la Médiocrité per la Quercia, e per la Zucca, per che l’una lungo tempo, e l’altra poco dura. Fu dall’Alciato per la Zucca, e un altro Arbore costante, significata la félicita momentanea, Impresa de gli honori soverchi che gli huomini ambiscono» (Delle Imprese trattato d i Giulio Cesare Capaccio. In tre L ibri drviso..., Napoli, Giovanni Giacomo Carlino e Antonio Pace [Orazio Salviani], 1592, I, cap. XVI, c. 55r~v\ il passo è riportato da G. Z appella, Iride. Iconografia rinascimentale italiana. Dtzionario enciclopedico. Figure, personaggi, simboli e allégorie nel libro italiano del Quattrocento e del Cinquecento, II, Premessa di R. De Maio, Milano, Editrice Bibliografica, 1993, p. 194). Cfr. anche D oni , La Zucca cit., pp. 11-12, n. 4.

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e marginalizzate possono essere riscattate, o, magari, parabole stravolte e anarchicamente reinterpretate possono palesare un’efficacia conoscitiva: Or udite della mia zucca, la quai non cresce se prima non fa il fiore, la se n’andô altiera un tratto, disse l’Alciato, perché la ingombrô un pino e tutto lo cinse, e il pino, ridendosi della sua grandezza breve e félicita, gli disse: - Tu durerai poco Un’oliva, andandogli ancora adosso questa benedetta zucca, si teneva impacciata e, vedendo sopragiugnerli l’invemo adosso e morire, disse: - Chi tosto viene, tosto se ne va - 55. E, infatti, nello stesso Passerotto, in un passaggio precedente, dopo aver ribadito la natura di «pazzie» di tutte le sue «materie scritte [...] uscite fuori» dalla sua «zucca» e il suo non essere dotto («Io che non sono [dotto], e non voglio né essere né essere tenuto»), l’autore esibisce la sua disinvoltura nel recuperare materiali umanistici, rimanipolandoli a suo piacimento, nel rifiuto dei vincoli di ogni pedagogia deU”imitatio: «e insino aile favole ho storpiate e recitatole a modo mio, perché son favole e non importa, se non ai pedanti che l’insegnano, dirle bene»56. Tomando al passo della lettera «Ai Lettori», si puô osservare corne intenzionale e programmatica sia la rinuncia alla «funzione metastorica dél­ ié forme alte e assolute»57 che l’ideologia del classicismo bembesco aveva perseguito corne obiettivo principe di un progetto letterario condizionato dall’ossessione per soluzioni atemporali. L’opzione per le morfologie miste, disgregate, per gli ibridismi e le contaminazioni si lega costituzionalmente a un’idea di letteratura corne sperimentazione, innovazione continua, esperienza che si consuma. L’opera-zucca, che insofferente di ogni rigidità omologante si âpre all’interferenza dei codici, alla frantumazione dell’impianto narrativo, alla dispersione delle forme, rivendica la sua natura effimera, di oggetto precario e prowisorio. L’assunzione di istanze naturalistiche conduce al rifiuto delle forme chiuse, delle costruzioni compiute e finite: la scelta della frammentarietà (da parte di Doni) o del discontinue e dell’accumulo caotico (da parte di Doni e di Lando) traduce la consapevolezza e l’intenzionalità di sperimentare pratiche comunicative connotate dalla vélocité dei circuiti di produzione e consumo58. Si tratta di scelte antagonistiche, vissute ed esibite 55 Ivi, p. 340. 56 Ivi, pp. 339-40. 57 M azzacu rati, II rinascimento dei modemi rit., p. 86.

58 Come osserva Paolo Procacrioli, l’«insistenza sul far presto, che Aretino e i suoi accoliti çarticolareggiano quantifîcandola in giomi e ore di lavoro, è una dichiarazione di poetica. E [...] un valore che nella prospettiva eversiva comporta l’adesione allô spontaneo contro l’elaborato, allabbondanza contro la “stitichezza", al personale contro l’altrui» (Procaccioli, Cinquecento capriccioso e irregolare cit., pp. 23-24). Per l’esibizione della propria «fertilité corn-

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con ironia e gusto del gioco e della provocazione; d’altra parte la scelta della labilità come essenziale modalità scrittoria dénota la consapevolezza deirinsufficienza e del limite di ogni opera e di ogni sapere59. Anche nel Prologo della Zucca si leggono im portant indicazioni programmatiche, inserite in un contesto giocoso e paradossale; innanzi tutto per la scelta del titolo dell’opera, Zucca, vengono chiamati in causa i grandi modelli della letteratura volgare (Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto e Caro): i grandi scrittori, «alla barba di costoro i quali d’una semplice imbrattatura di quattro fogli fanno una macchina più alta che la torre di Nembrotto», hanno spregiato titoli altisonanti60. Il prologo continua con l’intenzionale abbassamento della figura dello scrittore e della sua opera, che non puô essere altro che baie e chiachiere, utile al destinatario per cacciare le mosche fastidiose (se il destinatario sarà infastidito dalle mosche, l’autore sarà tormentato da ben altri insetti, i pedanti, contro i quali ricorrerà a metodi più brutali): Scilicet che al mio libro sta meglio il nome di Zucca, che di Sale, e corrisponde più alla mia fantasia, Cicalamenti, Baie e Ghiacchere, che non sarebbe s’io lavessi chiamato Motti, Arguzie, e Sentenze, perché io non sono Aristodle da darle, né Dante da parlare arguto, o qualche altro galante ingegno da sputare a ogni parola motti; son io altro che ’1 Doni? Non essendo altro adonque che un guastaleggende, non posso dir altro che baie, e per chiachiere voglio che le si leggino, cosî ne’ cicalecci delle barche, come negli aviluppamenti de le parole dopo il mangiare e ne’ trebbi delle pancacce, o simil ragionamenti da bottegai perdigiomate e spensierati. A voi signor mio ne viene un volume squademato, accioché questa state, leggendone un foglio per volta, possiate ancora schermire con le mosche fastidiose che vi daranno noia. A me so che mi ronzeranno intomo molti mosconi, tafani e vesponi; e io, gettato in terra la rosta, gli metterô in fuga con altro che con un foglio, perché a si indiavolati calabroni ci bisogna fuoco o acqua bollita61.

positiva» da parte di Doni cfr. M asi, «Quelle discordanze st perfette» cit., p. 38. Per la singolare circostanza di un Doni che «componeva ogni giomo direttamente nell’officina la quantité di testo necessaria a mantenere i torchi in attività», cfr. Pierazzo, Nota a l testo, in D oni, La Zucca cit., p. 833, che riporta un passo della lettera di Francesco Marcolini a Pietro Maria Buoni da Rimini in cui si afferma che le opéré doniane «son composte da lui mentre che le si stampano». 59 Per tutte queste considerazioni si rimanda alia riflessione teorica svolta da G. F erroni, Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura, Torino, Einaudi, 1996, in particolare pp. 3-32. 60 D oni, La Zucca cit., p. 8. 61 Ivi, pp. 9-10.

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La proposta di pratiche comunicative alternative alia cultura ufficiale non sembra attenuata dalla circostanza contingente che si riverbera su tutto il passo, ossia l’attacco a Lodovico Domenichi - l’amico di un tempo, poi acerrimo nemico - autore appunto delle Facezie, compilazione faceta concorrente a cui la Zucca, pur debitrice, intende contrapporsi, additandola come esplicito bersaglio polemico62. Del pari, nel passo del Ragionamento della poesia tra Baccio del Sevaiuolo e Giuseppe Betussi nella «Parte Seconda» dei Marmi, la veemente urgenza polemica antidomenichina non annulla la programmaticità dellopzione per una letteratura che si pone come chiachiera, baia e cicalamento\ Baccio. Vo’ dire che egli [Doni] sûbito prese la penna in mano e ne fece un altro di facezie, di motti, di arguzie, di sentenze e di proverbi; e, perché egli non si teneva dottore, non lo intitolô M otti o Sentenze, ma lo chiamô secondo che si sentiva su’ picciuoli, id est in gambe, dicendo fra sé: - S’io sono ignorante, non ho lettere, né, per conséquente, non son dotto, non debbo io dare un titolo al mio libro come mi sento? - E scrisse: Chiacchiere, baie e cicalamenti\ come dire: cose cavate dalla mia zucca: e zucca sia6364.

Anche il riferimento a Luciano (al Secondo Libro della Storia verdA), indicato come fonte di ispirazione per il titolo dell’ultima sezione della Zucca,,

62 Facette et motti argutï d i alcuni eccellentùsimi ingegni et nobilissimi signori, Firenze, L. Torrentino, 1548. Per la raccolta faceta di Domenichi e per la riscrittura (limitata al Bel libretto - che altro non è che i D ettipiacevoli attribuiti al Poliziano - accluso da Domenichi nella princeps delle sue Facetie, anonimo) operata da Doni nella Zucca cfr. F. P ignatti, Pratica e ideologia del plagio nelle raccolte facete e apoftegmatiche, in Furto e plagio nella letteratura del Classicismo, a c. di R. Gigliucci, «Studi (e testi) italiani», 1 (1998), pp. 323-45 e E. P ierazzo, La «Zucca» del Doni: fra novella e facezia, in Favole parabole istorie. Le forme della scrittura novellistica dal Medtoevo a l Rinascimento. Atti del Convegno di Pisa (26-28 ottobre 1998), a c. di G. Albanese, L. Battaglia Ricci e R. Bessi, Roma, Salerno Ed., 2000, pp. 509-33. 63 D oni, I M armi cit., I, p. 256. Le accuse di immoralité dirette al Domenichi si leggono immediatamente di seguito al passo citato. 64 II passo lucianeo cui si fa riferimento è il seguente: «All’alba salpammo con il vento che soffiava con violenza troppo grande: e, sbattuti dalla tempesta per due giomi, al terzo incappammo nei Colocintopirati [pirati montati su zucche]. Questi sono uomini selvaggi che, venendo dalle isole vicine, depredano coloro che navigano in quei pressi. Hanno navi grandi, fatte di zucche, della lunghezza di sessanta cubiti; quando hanno seccato la zucca, la svuotano e, toltane la polpa, vi si imbarcano, servendosi di canne come alberi della nave, e, al posto delle vele, del fogliame della zucca. Assalitici dunque, combattevano contro di noi con due equipaggi, e, scagliandoci i semi delle zucche, ferirono molti di noi» (L uciano, Storia vera, introd., tr. e note di Q. Cataudella, testo greco a fronte, Milano, Rizzoli, 19974, p. 147). Per l’influenza di Luciano sulla cultura umanistica, oltre a E. M a ttio li, Luciano e VUmanesimo, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 1980, e a Id., / traduttori umanistici d i Luciano,

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II Seme della Zucca65 (riferimento che si legge nella «Parte Quarta» dei Marmi, nel dialogo tra II Pellegrino il Viandante e il Romeo AcademiciPellegrini), ancora una volta si pone come importante segnale delle scelte culturali doniane: Viandante. Egli [Luciano] dice una certa sua stravagante navigazione e racconta quel che egli vedde, e, fra l’altre, racconta d’aver trovato, in certo suo mare, zuccacorsari, come dir fuste, brigantini, galere e altri legni da corsari di mare; e dice che sono uomini feroci, questi zuccacorsari, e che eglino hanno le navi loro grandissime fatte di zucche, e che le son lunghe più di sessanta braccia, e che delle foglie della zucca ne fanno le vele, de* gambi della zucca antenne, e che con il seme delle zucche ferivano bestialmente. Or vedete dove diavolo egli va a cavar l’invenzione d’una cosa! Egli ha fatto questo Seme della zucca che colpo per colpo offende; dà a questo, dà a quell’altro, e di tal sorte ch’io vi prometto che mai udi’ le più terribil cose, le più bestiali né le più capricciose66.

in Studi in more d i Rajfaele Spmgano, Bologna, Boni, 1980, pp. 205-14, cfr. C. L auvergnatG agnière, Lucien de Samosate et le lucianisme en France au XVT siècle. Athéisme et polémique, Genève, Librairie Droz, 1988; D. M arsh , Lucian and the Latins. Humor and Humanism in the Early Renaissance, Ann Arbor, The University o f Michigan Press, 1998; L. P anizza, La ricezione d i Luciano da Samosata nel Rinascimento italiano: coripheus atheorum ofilosofo morale? in Sources antiques de l'irréligion moderne: le relais italien, XV'-XVIt siècles. Actes des journées d etudes É.R.A.S.M.E. (Toulouse-Le Mirail, 3 et 4 décembre 1999), publiés par D. Foucault e J.-P. Cavaillé, Toulouse, Presses Universitaires, 2001, pp. 119-37; E ad ., Removable Eyes, Speaking Lamps and a Philosopher-Cock. Lucianic motifs in the service o f Cinquecento Reform, in II Rinascimento italiano d ijrm te alia Riforma cit., pp. 61-88. Per la presenza di Luciano in autori come Aretino, Franco, Doni, Lando cfr. Procaccioli, Cinquecento capriccioso e irregolare cit. Ben nota l’importanza della mediazione di Erasmo e Moro per la difïusione di Luciano di cui avevano tradotto un cospicuo numéro di dialoghi. Numerose le edizioni cinquecentesche di Luciano; qui ricordo alcuni volgarizzamenti: I Dilettevoli dialogi: le vere narratimi: lefacete epistole d i Luciano philosopho: d i greco in volgare nuovamente tradotte et historiate, Vinegia, per Nicolô di Aristotile detto Zoppino, 1525 (il volgarizzamento, a opera di Niccolô Leoniceno, conobbe diverse ristampe nel corso del XVI secolo); La vita de cortigiani de Lucianofilosofo, dove si mostrano le infinite miserie che essi continuamente nette corti sopportano. Interprète Giulio Rossetti fiorentino, In Vinegia, per Venturino di Ruffinelli, 1542 ; Due Dialoghi d i Luciano, nuovamente tradottiper M. Lodovico Domenichi, In Fiorenza [Lorenzo Torrentino], 1548. 65 D Seme della Zucca viene pubblicato per la prima volta nella seconda ed. della Zucca, uscita a Venezia nel 1565 con i torchi del Rampazetto; nel Seme, come è noto, rifluiscono le Pitture uscite l’anno precedente per i tipi del Percacino: cfr. P ierazzo, Nota a l testo, in D oni, La Zucca cit., pp. 847-50. 66 Id., I M armi cit., D, p. 216. La presentazione di opéré proprie non ancora pubblicate (in questo caso il Seme della Zucca) rientra in una strategia pubblicitaria piuttosto frequente in Doni; cfr. M a s i , «Quelle discordance siperfette» cit., pp. 38-41, che osserva come si inserissero nei suoi libri, a scopo propagandistico imposto dal ritmo industriale, «lettere di ammiratori [...], ma soprattutto si riportajre, per bocca di qualche personaggio o dell’autore medesimo, l’elenco degli scritti già stampati e di quelli da pubblicare» (39).

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Alla lettera di dedica dei Cicalamenti«usciti puramente dalla natura, senza arte, o dottrina acquistata», segue la Tavola, il cui passo iniziale richiama, per accumulo terminologico, la famosa lettera di Barbagrigia Stampatore premessa al Commento sopra la prima Ficata del Caro67: T avola Overo registro delle chiachiere, frappe, chimere, gofferie, arguzie, filastroccole, castelli in aria, saviezze, aggiramenti e lambicamenti di cervello; fanfalucole, sentenze, bugie, girelle, ghiribizzi, pappolate, capricci, frascherie, anfanamenti, viluppi, grilli, novelle, cicalerie, parabole, baie, proverbi, tresche, motti, umori e altre girandole e storie della presente leggenda per non dir libro, poche dette a tempo e assai fuor di proposito68.

Ma se la zucca è simbolo di un opera che vuole essere un’anti-opera, che rifiuta ogni istituzionalità, rivendicando la sua natura precaria e prowisoria contro ogni ambizione all’eternità, essa appartiene anche a quelle cose che, apparentemente vili’ e ‘insignificanti’, si rivelano preziose e di valore: essa al suo intemo nasconde del sale, simbolo di sapienza. II breve elogio della zucca, contenuto, come si diceva, nella lettera «Ai Lettori», inizia, infatti, con il riferimento agli Accademici Intronati di Siena, che l’avevano scelta come loro impresa con il motto di tipo silenico Meliora la ten t69: Dirô bene perché io sono inalberato con questa Zucca, perché la mi piacque e m’entro nella fantasia: quando quei bravi ingegni e nobilissimi intelletti sanesi Accademici ottimi la tolsono per impresa, mostrando che vi sta dentro ancor del sale [...]70. Si tratta della stessa prospettiva assunta da Ortensio Lando nella già citata Apologia d i M. Ortensio Lando ditto il Tranquillo per Vauthore che chiude i Sermonifunebri, contro le «serpentine lingue» che accoglieranno con il biasimo maligno l’opéra, Lando rivendica le profonde «cose secrete» contenute in soggetti apparentemente umili e ridicoli: 67 D oni, L a Zucca cit., p. 17. La lettera di Barbagrigia Stampatore è citata da Doni nella Seconda Libraria\ «Tutte le cose che si fabricano nella nostra zucca, le quali sien punto punto curiose, egli è forza che le sbuchino fiiori, altrimenti, disse il Barbagrigia stampatore, le ci farebbon male» (A.F. D oni, La libraria, a c. di V. Bramanti, Milano, Longanesi, 1972, p. 290). 68 Id., La Zucca cit., p. 20. 69 Lo stesso motto che si legge nei frontespizi delle diverse sezioni della Zucca (dopo la xilografia, in basso, nel cartiglio aw olto intomo a una zucca aperta). Per l’immagine del frontespizio vedi da ultimo P ierazzo, Iconografia della «Zucca» del Doni cit., pp. 404-06 e M ulinacci, Quando “le parole s yaccordano con Vintaglio” cit., pp. 116-29. 70 D oni, La Zucca cit., pp. 12-13.

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[...] dirô ben questo, ch’egli non poteva far cosa degna di maggior ho­ nore che levando da terra con sî temperato e dolce stiste [r/c] le humili creature inalzarle al par delle cose più grandi: e in cosa che all’apparenza paia ridicola, mescolarci molta eruditione e insegnarci cose secrete che natura puose nelle parti degli animali71. II doniano elogio della zucca présenta in modo rapido e caotico gli ingredienti tipici dello statuto della lode paradossale: testimonialize di auctoritates sul valore della zucca, inserzione di proverbi, riferimenti osceni, elenco delle ricette culinarie con cui si puô gustarla, delle sue qualità mediche e terapeutiche (con la topica citazione di Dioscoride, sempre menzionato, per esempio, all’interno delle scritture asinine, nelle liste dei rimedi farmacologici ricavati dalle parti dell’animale). Un altro elogio della zucca è nella lettera «A1 Signor Doni», datata «Da Murano, alii xvm agosto del LI» e firmata «Tutto vostro. Il dottore et protonotario Pasqualigo», inclusa nel fitto apparato paratestuale (formato da lettere e composizioni in versi) delle Foglie della Zucca72. Anche in questo caso lo slittamento semantico tra la zucca-opera e la zucca-ortaggio si lega alia rivendicazione della sua natura silenica; l’opera, infatti, è giudicata «molto bella e faceta» e anche «molto dotta, fregiata con un leggiadro stile, arricchita e copiosa di assaissimi precetti e utili documenti al viver umano» tanto che «esce di zucca, e più tosto da esser agguagliata e pareggiata a un melarancio o cedro, anzi a un tutto giardino». Anzi, poco più avanti la si reputa superiore agli stessi melaranci e cedri, con un’esplicita dichiarazione del valore che risiede dietro l’apparenza di «cosa vile»: «perché se bene a dir zucca par cosa vile, tuttavolta non istimo che né aranci né cedri siano di tanto prezzo e valor»73. Tra le virtù della zucca si loda l’ingegno e l’umiltà (l’umiltà è la topica prerogativa dell’asino); poi, senza collegamenti e nessi logici, senza alcun 71 Sermonifunebri cit., c. 36r. 72 Foglie della Zucca del Dont', In Vinegia, per Francesco Marcolini, 1552. Le Foglte, corne noto, constano per lo più di lettere tratte dall edizione fiorentina (presso il Doni) delle Let­ tere del 1547 e delle Prose antiche d i Dante, Petrarcha, et Boccaccio... (In Fiorenza, Appresso il Doni, 1547), oltre che di una Dichiaratione (già pubblicata a Venezia nel 1550: Sopra PEffîge d i Cesare...) : cfr. P ierazzo, Nota a l testo, in D oni, La Zucca cit., p. 855. La lettera del Protonotario Pasqualigo nell’ed. della Zucca del 1565 venne anticipata all’inizio. Si tratta di una di quelle lettere di ammiratori che Doni inseriva nei suoi libri a scopi propagandistici: cfr. supra, n. 66. Il Pasqualigo figura nell’elenco, contenuto nel Faifallone Ultimo (Fiori della Zucca), dei venti personaggi che, a detta di Doni, facevano parte dell’Accademia Pellegrina; cfr. G. M asi, Coreografie doniane: lAccademia Pellegrina, in Cinquecento capriccioso e irregolare cit., pp. 45-85 (63 e sgg.). 73 D oni , La Zucca cit., p. 383.

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ordine tematico, si accavallano exempla, citazioni di autori latini, riferimenti biblici, richiami a personaggi storici, calembours, secondo la tecnica più consueta nella composizione di elogi paradossali. Nella Zucca la tendenza alla frammentazione narrativa, alia disgregazione delle forme si riversa anche negli elogi paradossali in essa inclusi, che si presentano come rapidi segmenti, istantanei squarci che si aprono all’intemo di altrettanto brevi e frantumati spazi narrativi. Un esempio è offerto anche dal breve elogio della «pelatina» inserito nel Pelatoio. Diceria del Doni 74: alfintemo di una lettera, rivolta a un certo «Messer poeta», in cui domina il registro, di sapore burlesco, della vituperatio, fa la sua apparizione, in modo inaspettato e repentino, risolvendosi nel giro di poche battute, dal gusto aggressivamente realistico e repellente, questa pseudo lode della «pelatina», del «pelarsi», la «più santa, la più gloriosa, la più bella cosa che sia al mondo», che consente di liberarsi fmalmente dei pidocchi e di non «spendere al barbieri»75.

Aree tematiche Dal corpus dei testi esaminati emerge un inventario di soggetti piuttosto variegato: dagli oggetti del repertorio botanico (come la zucca, la castagna) a quelli del repertorio gastronomico (come il formaggio); da cose fiitili e insignificanti dell’uso quotidiano (come la padella e la chiave) a parti anatomiche Vili’, non certo contemplate nelle descriptiones personae del codice lirico alto (come il naso o la «pelatina»)76; da soggetti attinti al regno animale 74 Nella Terza Parte delle Foglie della Zucca", cfr. ivi, pp. 459-64. La Lettera del Pelatoio venne pubblicata per la prima volta negli Spiritifolletti, editi, con lo pseudonimo di Celio Sanese, a Firenze, presso il Doni, nel 1546 e ristampata nel 1547 nel Libro Secondo delle Lettere (Fi­ renze, Doni, 1547, cc. llr-12r). Cfr. A. D el F ante, Note su Anton Francesco Doni. G li Spiriti folletti', «Atti e memorie dell’Accademia Toscana di Scienze e Lettere “La Colombaria”», xli, n. s. xxvn (1976), pp. 171-209 (207-09) e P ierazzo, Nota a l testo, in D oni, La Zucca cit., pp. 855-56. Sulle lodi della pelatina cfr. infra, cap. 2, pp. 143-44. 75 Ivi, p. 463. Ecco come in modo inatteso, con un brusco passaggio, si passa a lodare la «pelatina>: prima Doni sembra dolersi: «Ora, come amico, mi sa male di voi, e per essere ancora poeta mi duole che voi siate pelato [...], e ho molto per cattiva nuova la disgrazia che vi è awenuta. Confortovi alia pazienza per qualche mese, che ella rimetterà», poi con rovesciamento fulmineo e paradossale muta parère: «Ma io ho sentito dire, se ben mi ricordo, che chi sta in cervello un ora è pazzo, perô io mi muto di fantasia e dico che voi sete il più felice uomo del mondo. Ohimè la pelatina ah? Ohimè pelarsi eh?» (ivi, pp. 462-63). 76 Per il significato osceno dei soggetti delle lodi paradossali, indicati a testo, cfr. J. T oscan , Le carnaval du langage. Le lexique érotique des poètes de Véquivoque de Burchiello à Marino (XVeXVIf siècles), 4 tt, Thèse présentée devant l’Université de Paris III (le 23 juin 1978), Lille,

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(in primis lasino; ma si pensi, ad esempio, anche aile altre specie animali elogiate nei landiani Serm onifimebri) a qualità astratte (come la furfanteria, la poltroneria, la pazzia e l’ignoranza)77. Non riconducibili ad alcuna delle classificazioni appena tentate ma pur sempre attinenti aile infames materiae, implicando una condizione di cui vergognarsi, sono le «coma». Una lode delle corna è contenuta nella Baia ultima («A1 Cornieri da Cometo») del Doni (nella «Tavola», indicizzata come «Lode delle coma e nobiltà»), che poteva derivare lo spunto sia dal capitolo In lode delle Coma del Lasca, sia dal capitolo di Pietro Nelli, Venne iersera sul tardi a visitarm i78. Nel testo figurano tutti i tratti strutturali propri delle lodi paradossali (tecnica delPimprowisazione, citazioni ironiche di auctores, affastellamento di oggetti, false etimologie, motivi dell’onomastica e toponomastica, inserzioni di commento burlesco) rimanipolati attraverso un giocoso e comico virtuosismo linguistico79. Due elogi paradossali delle coma figurano nel dialogo di Giovan Battista Modio, il Convito overo delpeso della moglie dove ragionando si conchiude che non pud la donna disonesta fa r vergogna a Vuomo (pubblicato a Roma dai ffatelli Valerio e Luigi Dorico nel 1554)80. Uno dei due pseudo encomia è pronunciato da Trifone Benci81: insistito il gioco delle burlesche etimologie nella sua declamatio, sebbene poi tutti gli interlocutori del dialogo presenteranno le proprie ipotesi sull’etimologia delle corna e sulla loro origine. L’argomentazione principale sostenuta dal Benci è che le corna siano da lodare in quanto

Université de Lille III, 1981. Per es. cfr. per padella, III, p. 1415; per castagna, III, p. 1437; per formaggio, IV, Glossaire, per cacio, IV, Glossaire e I, p. 703. 77 Per la «lode della Furfanteria» di Iacopo Bonfadio, la Nasea del Caro, la Formaggiata di Giulio Landi, la «lode della «pelatina» di incerto autore cfr. infra, cap. 2, pp. 110-13; 115-22; 143-44; per le doniane lodi della castagna, della chiave e della padella (nei Tre LibridiL ettere), e per la «lode della poltroneria» di Cesare Rao, cfr. infra, cap. 3, pp. 158 e 173-76. 78 D oni, La Zucca cit., pp. 146-62. A. Grazzini, Le rime burlesche édité e inedite, per c. di C. Verzone, Firenze, Sansoni, 1882, pp. 618-21; «Lodi delle coma al signor N. Comer», in P. N e lli, II Secondo Libro delle Satire alia carlona, Venezia, Comin da Trino, 1548, Sat. I, c. 3 r. cfr. L onghi, L usus cit., p. 277. Si veda da ultimo il commento in D oni, La Zucca cit., p. 146, n. 1, dove si segnala che forse il testo più contiguo a quello di Doni è una lettera di Niccolô Franco a M. Crispino da la Tripalda (Le pistole vulgari cit., cc. 245^246r) e che un «analogo tema è sviluppato nella lettera a Piero di Neri dalla Palaia contenuta nelle Lettere del 1547». 79 Cfr. M asi, «Quelle discordance si perfette» cit., pp. 34-35. 80 Si puô leggere in Trattati del Cinquecento sulla donna, a c. di G. Zonta, Bari, Laterza, 1913, pp. 309-70. 81 Su Trifone Benci, membro deH’Accademia romana dello Sdegno, diplomatico al servizio del cardinale Pole si veda L. B olzoni, La stanza della memoria. M odelli letterari e iconografrci nelVetà della stampa, Torino, Einaudi, 1995, pp. 91-92 e la voce redatta da A. P rosperi per il DEL

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«significative d’abbondanza»: tutti i comuti vivono nell’abbondanza, avendo «il cornucopia in casa». Inoltre essi sono amorevoli e buoni dal momento che mettono a disposizione degli altri persino le proprie mogli. Intéressante notare corne attraverso questa affermazione paradossale, prolungata in una giocosa spiegazione etimologica del nome di comuto (collegato proprio alla malleabilità di tali persone che si lasciano persuadere con facilita a mettere in comune le mogli, mostrando di possedere una natura simile a quella delle coma’ che, a differenza delle ossa o dei denti o delle unghie, al fuoco prendono qualunque forma), si insinui nel testo un’allusione al motivo della comunione delle donne e del libero amore, propagandato nella letteratura utopica corne parte di un programma di riforma morale82. Il vero e proprio elogio delle coma, tuttavia, è proclamato dal Marmitta a cui spetta di dimostrare «contra luniversal opinione» che le coma non sono da biasimare. Nell’orazione si recuperano tutti i motivi tipici della lode paradossale: gran pregio in cui le coma erano tenute presso gli antichi, inserzione di modi di dire, citazione di auctoritates e cosi via. Un altro esempio di elogio delle coma è offerto dal Mirabile cornucopia consolatorio di Tomaso Garzoni, pubblicato postumo nel 1601 ma composto con ogni probabilité tra il 1588 e il 1589: l’elogio paradossale si trasforma in una piccola enciclopedia eruditissima sul tema delle coma, di «natura puramente accademica»83. 82 Cfr. L. B o l z o n i , ïl mondo utopico e il mondo dei comuti. Plagio e paradosso nette traduzioni d i Gabriel Chappuys, «I Tatti Studies», vin (1999), pp. 171-96, che, a partire dall’analisi di una ed. francese dei M ondi (tradotti da Gabriel Chappuys) in cui il testo doniano è seguito da un’altra operetta. Le Mmide des comuz... (la cui prima parte è, appunto, un plagio del dialogo del Modio), offre indicazioni sulla ricezione del Convito in chiave utopica (suggerita dalla presenza nel testo di un motivo della letteratura utopica, cioè il comunismo sessuale). 83 P. C herchi, Premessa a II mirabile cornucopia consolatorio, in G arzoni, Opéré cit., p. 526; il testo aile pp. 527-40. Anche nei Hieroglyphica di Pierio Valeriano è repertoriata l’immagine delle coma corne simbolo di «sacrosancta dignitas»: «Hinc aliud nascitur hieroglyphicum, ut sacrosancta dignitas ex unoquoque comu significetur, quod antiquissima omnis vetemm indicat disciplina. Honoris enim, uti dicebamus, et potentiae signum tarn apud Gentiles, quam apud Christianae pietatis cultores, quique eos praecessemnt Hebraeos habita cornua. In divinis siquidem libris comu passim pro regia positum reperimus, complexaque similitudine quadam inter se, comu, radium, et coronam. Inde Moses comibus insignis effingitur, cuius faciès divini Soli lumine correpta, radiis quibusdam igneis promicare videbatur, adeo ut Israëliticus populus cum splendorem eum ferre non posset, oculis ab obtutum caecutientibus, ab eo, ut velata facie verba faceret, studiosissime contenderunt. Eadem porro dictio apud Hebraeos, et comu et coronam dénotât. Unde saepius apud Latinos in divinis literis comu pro corona positum: passimque ex instituto veteri coronae regiae radiorum referunt similitudinem» (P. V aleriano , Hieroglyphica, sive de sacris aegyptiorum, aliarumque gentium literis Commentant A Caelio Augustino Curione duobus Libris aucti, et multis imaginibus illustrati..., Basileae, Per Thomam Guarinum, 1567, VU, c. 56v).

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Numerosi sono poi gli elogi delle coma nella letteratura francese, sulla scia owiamente del Tiers Livre di Rabelais, tra cui La Come d ’abondance di Jean Passerat, in cui il poeta, «sous la forme d’un songe [...] cherche, par son plaidoyer en faveur des comes, à fléchir un mari qui tient sous clef sa femme, chérie par le poète»84. A tali categorie tematiche occorre aggiungeme un’altra, che intéressa non lo statuto della lode, ma quello specularmente opposto del biasimo: la scrittura. Alcuni testi, infatti, possono essere definiti con un gioco di paro­ le «scritture in biasimo della scrittura». Insieme con le «scritture asinine», esse rappresentano una tipologia paradossale ben individuata per maggior frequenza e, forse, significatività. Le «scritture in biasimo della scrittura», invero, costituiscono, per cosî dire, un sottogenere delle lodi dell’ignoranza, rientrando la denigrazione della scrittura in un generale svilimento delle arti e discipline umane. Ma in esse l’effetto parodico è corne amplificato dal fatto che nuove scritture vengano prodotte per combattere il proliferare delle scritture: l’oggetto biasimato coincide con il mezzo che produce e rende possibile l’espressione di quel biasimo. Entrambe le tipologie (e in particolar modo quella asinina) mostrano l’esistenza di una topica codificata che funziona corne quadro di riferimento, corne una griglia su cui inserire eventuali scarti: un insieme di citabilia precostituiti rappresenta il serbatoio privilegiato cui attingere, finendo con il creare una fitta rete di rimandi intertestuali. L’archetipo fondativo per ambedue le sérié di testi è il De incertitudine et vanitate scientiamm (con il capitolo conclusivo A d encomium asini digressio) di Comelio Agrippa85. Importante per la fortuna di questo testo in Italia il volgarizzamento nel 1547 di Lodovico Domenichi, che conferma il fiuto éditoriale del poligrafo piacentino, attento a captare gli orientamenti culturali del suo tempo86. Non sembra potersi at84 Cfi*. D andrey, L'éloge paradoxal cit., pp. 110 e sgg., 263 e sgg. e passim (la cit. è a p. 265). 85 L'editio princeps è quella di An versa, 1530. Sul De vanitate cfr. almeno P. Z ambelli, A proposito del «De vanitate scientiarum et artium» d i Comelio Agrippa, «Rivista critica di storia della filosofia», xv (1960), pp. 166-80; B.C. B owen , Cornelius Agrippas «De vanitate»: Polemic or Paradox?, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», xxxrv (1972), 2, pp. 249-56; E. Korkowski, Agrippa as ironist, «Neophilologus», lx (1976), 4, pp. 594-607. Sulla riforma teologica promossa dall’opera di Agrippa, cfr. V. P errone C ompagni, «Délia vanità delle scienze». Note d i lettura, «Bruniana & Campanelliana», xi (2005), 1, pp. 127-33. Per una collocazione di Agrippa nel nicodemismo, sulla scorta dell’interpretazione di Zambelli, cfr. S. A dorni Braccesi, L'Agrippa Arrigo' e Ortensio Lando: fra eresia, cabbala e utopismo. Ipotesi d i lettura, «Historia Philosophical, n (2005), pp. 97-113 (110-13). 86 L'A gippa, A rrigo C orneuo A grippa, Della vanità delle scienze, Tradotto per M. Lodovico Domenichi, In Venetia, 1547 (ora si veda H.C. Agrippa von N ettesh eim , DcU'incertitudine e

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tribuire a un caso che in Italia proprio nei primissimi anni Cinquanta, dopo il rilancio domenichino delTideologia scettica e antiscolastica propagandata dalla Vanità delle scienze di Agrippa, ci sia un fiorire di testi paradossali classificabili nelle due tipologie or ora individuate87.

Scritture asinine 1. L’interesse per l’asino, attestato dalle «scritture asinine», è da ricollegare alla notevole attenzione che il Cinquecento riversa sul mondo animale; si recuperano i materiali zoologici delle compilazioni enciclopediche classiche, del resto tramandatisi con continuità anche nei bestiari medievali, in cui confluiva appunto, con adattamenti platonico-cristiani finalizzati a un’esegesi mistico-teologica, il patrimonio di notizie provenienti dai vari autori di epoche diverse, come Aristotele, Plinio, Isidoro, Avicenna, Galeno, Ippocrate88. SuH’attenzione per gli animali convergono, spesso intrecciandosi, saperi diversi: dalla scienza della natura alla medicina (non è da trascurare che Lando sia un medico o che Rao abbia frequentato a Pisa le lezioni di un filosofo della natura corne Simone Porzio89), dalla fisiognomica all’emblematica, dalla filosofia morale all’esegesi allegorica.

della vanità delle scienze, a c. di T. Prowidera, presentazione di G. Pugliese Carratelli, Torino, Aragno, 2004, da cui si cita). Su Lodovico Domenichi si vedano A. D ’A lessandro , Prime ricerche su Lodovico Domenichi, in Le cortifamesiane d i Parma e Piacenza (1545-1622), II: Forme e istituzioni della produzione culturale, a c. di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 1978, pp. 171-200 e i contributi di R. G igliucci, cui rimando anche per la bibliografia pregressa: U dialog) «Délia fortuna» d i Lodovico Domenichi e Ulrich von Hutten, in Furto e plagio rit., pp. 263-82; «Qualis coena tamenl». Il topos anticortigiano del 'tinello\ «Lettere italiane», l (1998), 4, pp. 587605 (594-99); Un dialogo “romano” d i Lodovico Domenichi e il «De vera nobilitate» del Platina, «Academia latinitati fovendae. Comm entant, series altera, vii-vm (1998), pp. 53-60; Virtù e fu rti d i Lodovico Domenichi, in Cinquecento capriccioso e irregolare cit., pp. 87-97. Da ultimo cfr. la ricostruzione biografica articolata e documentata in E. G aravelli, Lodovico Domenichi e i ‘Nicodemiana ’ d i Cahino. Storia d i un libro perduto e ritrovato, Con una presentazione di J.-F. Gilmont, Manziana (Rm), Vecchiarelli, 2004 (in particolare pp. 36-96). 87 Per es. La sferza de’ scrittori antichi e modemi di Lando è del 1550; XOratione in Iode delllgnoranza di Giulio Landi è del 1551; la Seconda Libraria del Doni è del 1551; L ’Asinesca Gloria è del 1553. 88 Cfr. L. M orini, lntroduzione a Bestiari medievali, a c. di L. M., Torino, Einaudi, 1987, p p . VII-XXII.

89 Cfr. San esi, U cinquecentista Ortensio Lando rit, p. 10 e C. F ahy, Per la vita d i Ortensio Lando, «Giomale storico della letteratura italiana», cxu i (1965), 438, pp. 243-58 (247-49); N. V acca, Cesare Rao da Alessano detto uValocercan, «Archivio storico pugliese», i (1948), 1, pp. 7-32 (9).

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Curiosità legate alla natura e al comportamento animale erano disse­ minate anche nei Problemata, raccolte di quesiti, di ascendenza aristotelica e plutarchiana, gravitanti attomo ai più svariati campi scientifici - come la medicina, la biologia, la fisica, la matematica, la meteorologia, la botanica e la zoologia: una sorta di «microgenere» connotato dalla ricerca del «meraviglioso nel quotidiano», a metà strada tra lo scientifico e il letterario, di cui si hanno esempi dal XV al XVII secolo90. Allé origini dellmteresse per gli animali che attraversa il Rinascimento si pone naturalmente la riproposta editoriale della zoologia antica, awiata sin dagli ultimi anni del Quattrocento; si pensi al volgarizzamento ad opera di Cristoforo Landino della Naturalis historia di Plinio, pubblicato a Venezia nel 1476 presso Nicolajenson e alFedizione, sempre veneziana e dello stesso anno, per i tipi di Giovanni da Colonia e Johann Manthen, del corpus zoologico di Aristotele curata da Teodoro Gaza91, a cui sono da associare la stampa nel 1473 della Collectanea rerum memorabilium di Solino e la diffusione italiana del De animalibus di AJberto Magno con le due edizioni di Roma (1478), e di Mantova (1479)92. La divulgazione di notizie rare e preziose resa possibile dagli sforzi di restituzione testuale compiuti dalla filologia umanistica spiega, ad esempio, anche l’apparizione di curiosi componimenti appartenenti a diversi registri stilistici: da una parte le due «singolari operette impresse a Roma tra il 1514 e il 1515 dal lorenese Stefano Guillery» (Natura, intelletto e costumi de lo elefante cavato da Aristotele, Plinio e Solino e Forma e natura e costumi de lo rinocerote), dall’altra il Testamento delVelefante, una pasquinata dalla forte carica satirica anticuriale, composta nel 1516, che si ricollega all’antica tradizione del genere testamentario, in cui si è vista la mano di Aretino93. Senzaltro è il filone divulgativo della letteratura zoologica antica, conno­ tato dall’applicazione di una prospettiva antropomorfica al mondo animale, 90 P. C herchi, II quotidiano, i «Prvblemata» e la meraviglia. Ministoria d i un microgenere, «Intersezioni», xxi (2001), 2, pp. 243-75 (246). 91 Cfr. S. Perfetti, ‘Cultius atque integrius\ Teodoro Gaza, traduttore umanistico del «Departibus animalium*, «Rinascimento», xxxv (1995), pp. 253-86 (254). 92 Cfr. il commento in L. P ulci, Morgante, a c. di F. Ageno, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955, p. 922 n. 93 Cfr. A. Romano, II «Testamento delTElefante» attribuito a Pietro Aretino, e La zoologia antica in due rare e curiose stampe del primo Cinquecento: «Natura, intelletto e costumi de lo elefante»; «Forma e natura e costumi de lo rinocerote», in Id ., Periegesi aretiniane. Testi, schede e note biografiche intomo a Pietro Aretino, Roma, Salerno Ed., 1991, pp. 89-108 e 111-45 (la cit. è a p. I l l ; i testi, corredati di commento, rispettivamente allé pp. 96-106 e 117-42). II secondo dei due poemetti, quello dedicato al rinoceronte, è opera del medico, di origine fiorentina, Giovanni Giacomo Penni, con ogni probabilità autore anche del primo, apparso sotto lo pseudonimo di Philomathes (112).

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a suscitare maggiore curiosità: in primo luogo dalla pliniana Naturalis histo­ ric (libri VIII-XI) ma anche dal De natura animalium di Eliano si ricavano non solo notizie di bestie esotiche e leggendarie ma anche la casistica delle attitudini virtuose degli animali94. Naturalmente, accanto a queste fortunate compilazioni dellantichità, la voce più autorevole nell’ambito di un program­ ma volto a combattere ogni angusto antropocentrismo e a restituire dignità agli animali, documentandone le «doti intellettuali, etiche e pratiche»95, è quella del Plutarco degli «scritti sulla psicologia animale»; il Plutarco dei tre opuscoli ‘animalistici’ dei Moralia, e in particolare di uno di essi: il Bruta animalia ratione uti, che, come noto, conobbe una notevole fortuna nel Cinquecento, attestata anche da riscritture e rimaneggiamenti, tra cui il capitolo VIII dell'Asino di Machiavelli e la Circe di Gelli96. E restando su questo filone, convergenze con le scritture asinine présenta la produzione favolistica e allegorica delle scritture morali, la letteratura degli apologhi o, in ogni caso, dei discorsi sapienziali degli ‘animali parlanti*. A questa tipologia letteraria, legata al rilancio delle fabulae esopiche, possono ascriversi, pur nella differenza di genere - dalla novellistica (con particolare struttura a catena, «teoricamente inestinguibile e autogenerantesi all'infinito»97) al dialogo -, opere accomunate dal rifiuto, di matrice lucianea e plutarchiana, di un intellettualismo antropocentrico, come La Asinaria, «dialogo terzo» della «selva seconda» del Caos del Triperuno di Folengo, La prima veste dei discorsi degli animali del Firenzuola, la Moralfilosofia e i Trattati d i Sendebar di Doni, e la sopra menzionata Circe di Gelli98. 94 Cfr. D. D el C orno , Introduzione e Nota informative, in P lutarco, “D el mangiare came*. Trattati sugli animali, Milano, Adelphi, 2001, pp. 11-49 (33). 95 Ibid. 96 Per la fortuna di Plutarco nel Rinascimento cfr. i saggi contenuti in L'eredità culturale d i Plutarco dalVAntichità a l Rinascimento. Atti del VII Convegno plutarcheo (Milano-Gargnano, 28-30 maggio 1997), a c. di I. Gallo, Napoli, M. D ’Auria Editore, 1998, e Plutarco, Le bestie sono esseri razionali, Introd., testo critico, tr. e commento, a c. di G. Indelli, ivi, 1995 {Introduzione, pp. 7-39 [14-18] e commento, passim). La tematica paradossale della superiority quanto alTintelletto, delle bestie rispetto agli uomini è sviluppata, con una certa originality nel trattato Quod animalia bm ta saepe ratione utantur melius homine, composto dall’umanista friulano Girolamo Rorario agli inizi degli anni ’40 del ’500 (ma pubblicato postumo da Gabriel Naudé nel 1648): cfr. A. Sc ala, Girolamo Rorario. Un umanista diplomatico del Cinquecento e i suoi «Dialoghi*, Firenze, Olschki, 2004, pp. 115-61. 97 M. G uglielminetti, Introduzione a Novellien del Cinquecento, a c. di M. G., Milano-Napoli, Ricciardi, 1972, t. I, pp. ix- liii (xxi). 98 Sulla prosa morale degli apologhi di ispirazione umanistica cfr. S. P randi, Celio Calcagnint, Ortensio Lando e la prosa morale degli apologhi, «Schede umanistiche», n. s. 1994, 1, pp. 83-93. Sulla ‘riscrittura’ dell’indiano Libro d i Kalila e Dimna operata con notevole originalité da Doni nella Moralfilosofia e nei Trattati diversi d i Sendebar indiano filosofo morale, riscrittura

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Poi, quanto all’interesse per il simbolo dell’asino in particolare, non si puô non menzionare la diflùsione che nel corso del Cinquecento conoscono le metamorfosi asinine narrate nello pseudolucianeo Lucio l ’asino, di cui già verso la metà del XV secolo si aveva a disposizione una traduzione latina eseguita da Poggio Bracciolini, e soprattutto la fortuna dell’apuleiano Asino d'oro. II romanzo, infatti, dopo la princeps romana del 1469, dovuta allé cure dei tipografi Conrad Sweynheim e Arnold Pannartz, e in seguito ad alcune ristampe della fine del Quattrocento, consolidé il proprio successo grazie a tre significative operazioni culturali ed editoriali: l’edizione bolognese nel 1500 del celebre commento di Filippo Beroaldo il Vecchio; la traduzione approntata da Matteo Maria Boiardo, che vide la luce postuma nel 1519; e infine il rifacimento ad opera di Agnolo Firenzuola, anch’esso apparso postumo, nel 1550, a Venezia, per i torchi del Giolito". Ma se si passa alio specifico genere della laus asini, la tappa fondamentale della sua storia italiana nel XVI secolo è rappresentata, come abbiamo avuto modo di osservare, dal volgarizzamento domenichino del De incertitudine et vanitate scientiarum di Agrippa, chiuso appunto dall 'A d encomium asini digressio. Non sorprende, quindi, che dopo il 1547, anno del volgarizza­ mento, usd a stampa un numéro piuttosto considerevole, data la bizzarria dell’argomento, di testi in lode deU’asino100. Basti pensare al landiano «sermone» D i Fra Cipolla («nella morte del suo asino detto Travaglino»; 1548); o al Ragionamento saura de 1’asino di Giovan Battista Pino (incerto l’anno di edizione, da collocare, comunque, nei primissimi anni Cinquanta, anche se, per indizi intemi al testo, non prima del 1551101); quindi alia marcoliniana su cui ha esercito un ruolo decisivo la versione castigliana del libro ‘orientale’ e il parziale adattamento fomito da Agnolo Firenzuola con la Prima veste dei discorsi degli animait, cfr. P. P e lliz z a r i, Introduzione a A.F. D oni, Le novelle, t. I: La moralfilosofia. Trattati, a c. di P. P., Roma, Salerno Ed., 2002, pp. ix -L x n (xxv-xxxv). Sulla Circe di Gelli si veda C. Casslani, Metamorfosi e conoscenza. I dialoghi e le commedie d i Giovan Battista Gelli\ Pref. di G. Savarese, Roma, Bulzoni, 2006 (il cap. II: Metamorfosi della natura: «La Circe», pp. 103-219). 99 Per la ricostruzione della fortuna rinascimentale dell’«Asino d’oro» sul piano letterario e figurativo cfr. R. S c r t v a n o , Aw enture delV«Asino d'oro» nel Rinascimento, in Id., Il modello e I'esecuzione. Studi rinasdmentali e manieristici, Napoli, Liguori, 1993, pp. 81-102. 100 Sui significati teorici dell’asinità nel Cinquecento si veda N. O r d i n e , La cabala dell'asino. Asinità e conoscenza in Giordano Bruno, Pref. di E. Garin, Napoli, Liguori, 19962, corredato per altro di un apparato iconografico, dove l’immagine dell’asino emerge in tutta la sua pregnanza semantica. 101 Cfr. la Nota sul testo in G.B. P ino , Ragionamento sovra de l'asino, a c. di O. Casale, introd. di C. Bemari, Roma, Salerno Ed., 1982, pp. 175-77: 175 (ed. da cui si cita) e N. O rdine , Asinus portons mysteria. Le «.Ragionamento sovra del asino» de Giovan Battista Pino, in Id., Le rendez­ vous des savoirs. Littérature, philosophie et diplomatie à la Renaissance, Préface de M. Simonin, Paris, Klincksieck, 1999, pp. 55-65 (158, n. 6). Al momento si conoscono quattro esemplari

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Asinesca Gloria del 1553, riedita, sempre presso Marcolini, con varianti e con nuovo titolo, il Valore de g li asini, nel 1558102. E a metà Cinquecento il simbolo dell’asino trovava la sua consacrazione in quel vasto repertorio enciclopedico, summa di immagini e significati simbolici, «vero e proprio lessico iconico», che sono i Hieroglyphica di Pierio Valeriano, dove appunto parte del dodicesimo libro è dedicata alla figura dell’asino103. Qui la polisemia del simbolo emerge in tutta la sua evidenza, attraverso la sistemazione organica di una vasta mole di materiali prelevati con sapienza dagli scrittori classici e dagli antichi autori di opere naturalistiche, storiche e geografiche; infatti nell’ampia trattazione trova spazio sia la simbologia negativa, come evidenzia, tra gli altri, il capitolo Ignarus hominumque locorumque (dove per altro si fa riferimento al proverbio in imperitos di questa operetta piuttosto rara (conservati rispettivamente nelle Biblioteche Nazionali di Firenze, Napoli e Roma e nella British Library di Londra): cfr. ivi, p. 158, n. 5. Per la discutibilità di alcune scelte di trascrizione dell’ed. Casale del Ragionamento, cfr. Id., Simbologia dell'asino. A proposito d i due recenti ediziom\ «Giomale storico della letteratura italiana», c lx i (1984), 513, pp. 116-30 (116-21). 102 Una lode dell’asino in latino si deve a Jean Passerat: il suo Encomium asini fu più volte antologizzato nelle raccolte secentesche di encomia paradossali, sulle quali cfr. XAppendice I. Sulla ricca produzione paradossale di Passerat, per lo più in versi, cfr. D an d rey, L'éloge paradoxalcit., pp. 123-24, 263-67 e passim. Un capitolo in lode deirasino, E 'v iparrà capriccio da dovero, di incerta attribuzione è incluso nel Secondo libro delVOpere burlesche, d i M. France­ sco Bemi, del Molza, d i M. Bino, d i M. Lodovico Martelli, d i M attio Francesi, dellAretino, et d i diversi autori, in Fiorenza, Appresso li Heredi di Bernardo Giunti, 1555; cfr. L on gh i, L usus cit., p. 280. 103 Cfr. G. Savarese, La letteratura delle immagini nel Cinquecento (1980), in Id ., Indagini sulle «arti sorelle». Studi su letteratura delle immagini eu t pictura poesis negli scrittori italiani, a c. di S. Benedetti e G.P. Maragoni, Manziana (Rm), Vecchiarelli, 2006, pp. 3-48 (12). Si veda V ale­ riano , Hieroglyphica cit. («Liber duodecimus [...] de iis quae per asinum, miilum et camelum significantur ex sacris aegyptiorum literis», cc. 87r-94z;). Inoltre, per una trattazione «de asino» esaustiva non si puô non menzionare 1’enciclopedia zoologica del Gesner, dove la sezione riservata all’asino, in 8 capitoli dedicati ognuno ad aspetti diversi (secondo i criteri classificatori in cui è disposto il vastissimo materiale), dispiega, sistemato e organizzato, tutto il dicibile asinino ricavato da un numéro smisurato di fonti, puntualmente citate (diversi anche i repertori contemporanei a cui si rinvia). Grosso modo, il primo capitolo è dedicato ai nomi che l’animale assume nelle diverse lingue; il secondo aile differenze della specie a seconda delle diverse aree geografiche; il terzo alla descrizione anatomica; il quarto allé azioni vitali per la conservazione e la propagazione della specie; il quinto agli affetti, ingegni e costumi; il sesto all’uso che se ne puô trarre, nonché ai prezzi con cui gli asini venivano venduti nell’antichità; il sesto agli alimenti per l’uomo che vi si possono ricavare; il settimo ai «remedia et utilia»; l’ottavo (a sua volta suddiviso in otto parti) agli aspetti filologici e grammaticali (ma anche ad altre curiosité): si va dall’etimologia agli usi metaforici e alla sérié dei derivati; dalle arti figurative all’emblematica; da notizie fantastiche a quelle concementi la religione, i sacrifici, ecc.; mentre il paragrafo conclusivo è riservato ai proverbi; C onradi G esneri [...] Historiae Animalium Lib. I de Quadrupedis viviparis,..., Tiguri, apud Christ Froschoverum, 1551: De asino, pp. 3-23.

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«asinus ad lyram»104, o allepisodio narrato da Ovidio del re Mida, le cui orecchie un adirato Apollo trasformo in «aures aselli» 105), sia la simbologia positiva che in parte emerge ad esempio nel capitolo Populus iudaicus, dove per altro ritoma la celebre immagine di Cristo che cavalca l’asina, e soprattutto nel capitolo Labor indefessus atque servilis, che allude all’interpretazione cabalistica, di cui vale citare un breve passo: [...] apud Hebraeos, praecipue Cabalisticos, asinus est sapientiae symbolum, cuius quippe ideam constituunt Saphiroth, earn afferentes rationem, quod eum qui sapientiae sit operam daturus, victu admodum tenui, et eo plurimum plebeio contentum esse oporteat, cuismodi parsimonia praeditum esse asinum ignorât nemo: ad haec, penuriam, laborem, plagas, et famem patientissime tolerare, neque ad ullam excandescere contumeliam, undecumque illata fuerit: animo esse parvum, inopem atque simplicem, ut qui nullum inter carduos et lactucam discrimen habeat: corde sit mi­ nime vafro, minime cupiditatibus contaminato: bile ita careat, ut cum omni animantium genere pacem sibi perpetuam constituent: nec ullum sit onus quod detrectet, quod non obsequiose suscipiat, et si sit opus, pro bove terrain proscindat, plaustrum trahat, praecipue vero machinae maxime omnium necessariae pistrino aeternum serviat, ligna, poma, olera, frugum genus omne comportet, sit denique totius humanae commoditatis assiduus et infatigabilis minister, ut etiam, quod aiunt, mysteria portare compellatur106. D genere della «Iode asinina» continua ad essere praticato nella seconda metà del secolo, ad esempio, con lelogio di Cesare Rao (contenuto nelle Argute, etfacete letteré)] e ancora, sul finire del Cinquecento, con la Nobiltà delVasino di Adriano Banchieri, édita nel 1590 e ripubblicata, in versione ampliata, nel 1599107. Ed effettivamente il fenomeno delle «scritture asinine» doveva essere divenuto di moda se un elogio dell’asino compare piuttosto inaspettatamente anche nella versione ampliata di un trattato agronomico, in forma dialogica, Le vintigiom ate delVagricoltura, et de'piaceridella villa, composto dal bresciano Agostino Gallo: il trattato, dopo una circolazione manoscritta e alcune 104 Cfr. la favola di Fedro Asynns et lyra (ed. Les Belles Lettres, n. 117). Sul proverbio «asinus ad lyram» si veda H. A d o lf, The A ss and the Harp, «Speculum», xxv (1950), 1, pp. 49-57. Per ulteriore bibliografia suH’argomento cfr. O rdine, La cabala delVasino cit., p. 32, n. 7. 105 Cfr. O vidio , Metamorfosi, XI, 153-93. 106 V aleriano, Hieroglyphica cit., c. 91r. Una trascrizione più ampia del segmento in O rdine , La cabala delVasino cit., p. 52. 107 Per la «Iode dell’asino» di Cesare Rao cfr. infra, cap. 3, pp. 183-91; per la Nobiltà delVasino di Adriano Banchieri cfr. infra, pp. 68-74.

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stampe - nel corso degli anni Sessanta tra Brescia e Venezia - della redazione originaria in died giomate (e poi in trediti), vide la luce nella veste definitiva, in venti giomate appunto, nel 1569 a Venezia per i tipi del Percacino108. Nella quattordicesima giomata del trattato, dedicata agli asini e ai muli, Calisto Paradiso, che si intrattiene in dialogo con Vincenzo Maggio [Maggi] e Giovan Battista Avogadro, dopo aver assolto la funzione di formare con parole il perfetto asino, susdtando lo stupore di Giovan Battista («Et più dico, che se 1’asino in che fù convertito il misero Apuleio fosse stato simile; egli non havrebbe havuto tanto discara quella sua metamorfosi; poiché si hello, e si ben proportionato l’havete descritto»109), indugia sull’elogio dell’animale, passando in rassegna i topoi e l’aneddotica canonica dell’encomium asini: esso è paziente, mansueto, umile, dedito a servire gli uomini, lavoratore indefesso, robusto, gagliardo, parsimonioso. L’elogio continua con l’esibizione degli altri ingredienti della topica asinina: Gesù non fu mai veduto cavalcare se non la «natura humile dell’asina»; l’antico Testamento d documenta come 1’asino fosse la cavalcatura privilegiata di «huomini grandi»110; alcune parti dell’asino possiedono virtù terapeutiche111; la sua pelle puô essere utilizzata per fabbricare i tamburi che si adoperano nella milizia; il latte d’asina contiene propriété cosmetiche112, come mostra il topico aneddoto di Poppea, moglie dell’imperatore Nerone, e delle sue cinquecento asine; gli asini presso gli antichi erano tenuti in grande stima, come attesta la canonica dtazione del De re rustica di Varrone (II, 1, 6, 8). Nella sezione conclusiva della lode, la presentazione di un’ulteriore qualité dell’asino, do è la sua capadté di predire le mutazioni atmosferiche, è esemplificata all’intemo di una novelletta che ricorda, con le debite diflferenze, quella narrata da Ortensio Lando nei Varii componimenti, su cui avremo modo di soffermard poco più avanti.

108 Su Agostino Gallo e sul trattato si veda la voce redatta da G. B en zon i nel DBI, dove si sottolineano anche le forti inclinazioni devote e la profonda religiosità dell’agronomo bresciano, legato da amicizia ad Angela Merici, fondatrice delle orsoline. Sulla sezione asinina del trattato si veda M. V agni, L 'asino. Storia e letteratura stdl’animale che da sempre ha affian cato I’uomo, Roma, EdUP, 1999, pp. 39-42. 109 Si cita da A. G a llo , Le vintigiom ate dell'agricoltura, et de’piaceri della villa. In Turino, Appresso gl’heredi del Bevilacqua, 1580 (La quarto décima giomata deü’agricoltura aggiunta da M. Agostino Gallo, nella quale si tratta de g li Asini, e de’ Midi, pp. 219 [ma 272]-86; sugii asini pp. 272-82), p. 273. 1,0 Cfr. per es. Secondo Libro dei Re, xvn, 23 e xix, 24 e Giudici, V, 10. Ma per i rinvii biblici si veda O rdine, La cabala deü’asino cit., pp. 21-24. 111 La topica serie delle propriété terapeutiche è tramandata sin dall’antichità dai trattati sugh animali; si veda ad es. A lb e r to M agn o, De animalibus Lib. XXVI..., Lugduni, 1561, XXII ii, 1, p. 579. 112 Cfr. P lin io, Naturalis historia, XXVIII, 183.

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Nel tardo Cinquecento la topica asinina non poteva non trovare una dél­ ié sue più complete sistemazioni nellopera dello scrittore ‘classificatore* per eccellenza, votato a una sorta di «ossessione tassonomica»113, e cioè Tomaso Garzoni, che nel Discorso L F della Piazza universale d i tutte le professioni del mondo, intitolato De’cavallari, asinan\ mulattieriavert) somierio somegini, estabulari e servitori ofam eglida stalla, efabricatori d i scove, inserisce una lode asinina, composta con la tecnica del centone: il risultato è quello di un mosaico di segmenti attinti a testi altrui (come // Flavio dei Fasti volgari di Vincenzo Cartari, il Dialogo del Contentioso di Pietro Messia, la Digressione in lode dello asino di Agrippa), dove alia patina erudita si affianca il gusto per l’aneddoto e per il dato curioso secondo i tratti tipici dello stile della Piazza, a metà tra l’enciclopedia e la «selva»114. Il testo garzoniano riveste particolare interesse anche perché mostra come il materiale asinino trasmigri da uno scritto alTaltro, a distanza di anni e in contesti letterari e culturali notevolmente diversi. Qua­ si sicuramente nella prova del canonico lateranense, organico alTideologia controriformistica, l’asino, come accadrà in altri testi tardocinquecenteschi che prenderemo in considerazione più avanti, perde il suo valore di simbolo di una cultura del dissenso e del paradosso, delle cui tipologie letterarie, che continuano ad esercitare una notevole attrazione ‘estetica e formale, si vuole riprodurre in parte la stravaganza stilistica e Toriginalità tematica ma non certo la sostanza scettica o in ogni modo eterodossa115. Sempre sullo scorcio del secolo, la critica alla proliferazione degli «scelerati discorsi» in lode dell’asino che Giordano Bruno muove alPinizio della Declamazione a l studioso, divoto e pio lettore, premessa alia Cabala del cavallo 1,3 B. C ollina, IJ mondo femminile nelle pagine d i Tomaso Garzoni', in Tomaso Garzoni Uno zingaro in convento. Celebrazioni garzoniane, IV centenario, 1589-1989 (Ravenna-Bagnacavallo 1989-1990), Ravenna, Longo, 1990, pp. 205-16 (210). 114 Cfr. P. C herchi, Invito alia lettura della «P iazza*, in T. G arzoni, La P iazza universale d i tutte le professioni del mondo, a c. di P. C. e B. Collina, 2 voll., Torino, Einaudi, 1996, I, pp. xxi- lxvi (xxxi-xxxv), e le note di commento al Discorso LV, I, pp. 798-807. Sul Dialogo del Contentioso di Pietro Messia, cfr. infra, cap. 3, pp. 185-91. 115 Sul rapporto ambiguo che Garzoni instaura con autori sowersivi e ‘irregolari’ come Agrippa, Lando, Doni, Franco cfr. C herchi, Invito alia lettura della «Piazza* cit., pp. xxiixxiii e B. C ollina, Un «cervello universale», in G arzoni, La P iazza universale cit., pp. lxvii-cvi (lxxxvii- xciii). Quanto all’ortodossia di Garzoni, una posizione diversa in G.B. B ronzini, Introduzione a T. G arzoni, La P iazza universale d i tutte le professioni del mondo, a c. di G.B. B., con la collab. di P. De Meo e L. Carcereri, Firenze, Olschki, 1996,1, pp. vii- xlviii (ix), dove si parla di «dissenso religioso in pieno post-tridentino [...] sotto il manto della Chiesa». Sul rapporto complesso con Erasmo, relativamente all’Ospidale de*pazziincurabili non facilmente liquidabile come «un anti-Encomium moriae* composto «contro il “luterano” Erasmo», cfr. S. B arelli, Introduzione a T. G arzoni, L 'ospidale de*p a z z i incurabili, a c. di S. B., Roma-Padova, Antenore, 2004, pp. ix- lxii (xxxii- xlix: la citaz. a p. xxxv).

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pegaseo, documenta effettivamente che il genere degli encomia asini doveva ancora essere accolto con un certo intéresse dal mercato editoriale e librario e dal pubblico dei lettori116: Lasso, perché con ramarico del mio core, cordoglio del spirito et aggravio de Talma, mi si présenta a gli occhi questa imperita, stolta e profana moltitudine che si falsamente pensa, sî mordacemente parla, si temerariamente scrive, per parturir que’ scelerati discorsi de tanti monumenti che vanno per le stampe, per le librarie, per tutto, oltre gli espressi ludribrii, dispreggi e biasimi: Yasino dom, le lodi de Vasino, Xencomio de Vasino\ dove non si pensa altro che con ironiche sentenze prendere la gloriosa asinitade in gioco, spasso e scherno? Or chi terrà il mondo che non pensi ch’io faccia il simile? Chi potrà donar freno aile lingue che non mi mettano nel medesimo predicamento come colui che corre appo gli vestigii de gli altri che circa cotai suggetto democriteggiano? Chi potrà contenerli che non credano, affermino e confermino che io non intendo vera e seriosamente lodar Tasino et asinitade, ma più tosto procuro di aggionger oglio a quella lucema la quale è stata da gli altri accesa?117 Va altresl notato che se il Nolano da una parte prende le distanze dalla produzione asinina, a cui non riconosce una serietà di intenti dietro la forma ludica, per ritagliarsi un suo spazio di originalità, dalTaltra mostra di aver ben presente quella letteratura che rifiuta, di cui perô récupéra terni e topoi pur utilizzandoli in una direzione assai diversa118. Mentre nel cuore del Cinquecento, come abbiamo avuto modo di osservare, gli autori di lodi paradossali affidavano alTesordio il topos dei ‘precedenti’, impiegato in fimzione apologetica, esibendo la lista delle auctoritates in materia, sul finire del secolo, quando appunto questa pratica scrittoria aveva perso il carattere di stramba novità, divenendo probabilmente produ­ zione ‘alla moda’, non ha più ragione di esistere Targomentazione proemiale ‘difensiva, che lascia il posto alia polemica presa di distanza, come mostra anche Tincipit di un ben più modesto scritto - rispetto alia Cabala - cioè la Nobiltà delVasino di Adriano Banchieri. E se questultimo aveva condannato la letteratura asinina per Tuso improprio e irriverente delle sacre scritture,

116 Cfr. O rdine , La cabala delVasino cit., p. 120. 117Si cita da G. B runo , Opere italiane, Testi critici e nota filologica di G. Aquilecchia, Introd. e coordinamento generale di N. Ordine, 2 voll., Torino, Utet, 2002, II, pp. 416-17. 118 Sul valore del simbolo dell’asino nelle opere di Bruno e sulTambivalenza delTasinità positiva e dell’asinità negativa cfr. O rdine , La cabala delVasino cit; sui rapporti di Bruno con la letteratura asinina cfr. ivi, il cap. XII: La letteratura delVasino prima d i Bruno, pp. 119-41 (ma riscontri tematici erano stati già segnalati in V. S pampanato, Giordano Bruno e la letteratura delVAsino, Portici, Della Torre, 1904).

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prowedendo cosî a rendere più ‘innocuo’ il materiale a disposizione119, Bru­ no stronca i precedenti perché a suo giudizio hanno ‘democriteggiato’ sul soggetto della «gloriosa asinitade», che invece richiede una trattazione séria, anche se poi non manca di ricorrere in alcuni momenti al registro comico e satirico, pervenendo per altro, come è noto, ad esiti ancor più ‘pericolosi’ in termini di ortodossia120. Benché non tutti gli elogi paradossali possano essere considerati in blocco come esibizione di procedimenti ironici fini a sé stessi, ma molto spesso celino dietro l’apparente frivolezza comica istanze di un programma morale, è superfluo osservare come la Cabala sia qualcosa d’altro, non ascrivibile al genere delle lodi asinine, né in termini di forma, né di contenuto, per le owie implicazioni sul piano ontologico, conoscitivo e morale che il tema vi assume in rapporto alla «nova filosofia». Infatti già nella Declamaxione, costruita attraverso la giustapposizione di passi biblici in cui compare il simbolo dell’asino, allegoricamente interpretati 12\ l’adesione alia ‘follia’ paolina, che segna molti dei testi paradossali presi in considerazione, si inscrive in un registro al tutto sarcastico e antiffastico - come del resto conferma anche il sonetto In lode de Vasino -, su un livello di totale condanna delle forme di scetticismo radicale, uno dei bersagli polemici di Bruno, insieme aH’aristotelismo e al cristianesimo, di cui non risparmia né la versione cattolica né quella riformata122. Quanto alio scetticismo, se da una parte Bruno lo rifiuta nelle sue for­ me più radicali, dall’altra mostra di avere ben presente l’opera di Comelio Agrippa, sia il De incertitudine et vanitate scientiarum, e nella fattispecie il suo capitolo finale, XAd encomium asini digressio, di cui ad esempio récupéra la simbologia cabalistica dell’asino come sapienza, sia più in generale il De occulta philosophia, da cui dériva alcuni strumenti e categorie della tradizione ermetica123. In ultima analisi, l’operazione compiuta da Bruno nei conffonti della letteratura asinina consiste nell’assimilame alcuni motivi che vengono riformulati come elementi di una riflessione filosofica che si spinge oltre, andando al fondo del problema della conoscenza. Motivi presenti nella Ca­ bala (concentrati quasi tutti nella Declamazione), come l’asina profetica di

119 Cfr. supra, p. 26 e infra, p. 71. 120 Sul valore del comico in Bruno cfr. N. O rdine , La soglia delVombra. Letteratura, filosqfra e pittura in Giordano Bruno, pref. di P. Hadot, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 27-70. 121 Per le fonti bibliche cfr. il commento alia Cabala di N. Badaloni in B runo , Opere italiane cit., II, pp. 419 e sgg. 122 Cfr. O rdine , La cabala delVasino cit., in particolare le pp. 57-74. 123 Per il De occulta philosophia di Agrippa come importante fonte di Bruno cfr. F.A. Y ates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Bari, Laterza, 1992 ( la ed. 1964), pp. 282-300.

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Balaam124, che parla per voce di Dio, o la mascella d’asino, simbolo della predicazione, con cui Sansone uccise mille Filistei125, o la vittoria degli dei deU’Olimpo sui Giganti, messi in fuga dal ragliare degli asini126, o 1’immagine di Cristo che entra a Gerusalemme cavalcando un’asina127, o ancora l’invito ad inasinirsi; come del resto - passando alYAsino cillenico, il dialoghetto posto a conclusione della Cabala - il tema dell’asino sapiente e favellante, che per altro, oltre a confutare la fisiognomica, si intrattiene a esporre la dottrina pitagorica della metempsicosi di cui è sostenitore (teoria a cui si fa di frequente allusione nelle lodi asinine); tutti questi motivi hanno, come dire, un’aria di familiarità per un lettore di testi paradossali, anche se nello spazio della scrittura bruniana perdono quasi la loro riconoscibilità tanto sono diversi i contesti in cui essi vengono riassimilati e tanto sono différend gli esiti, le funzioni e le direzioni cui vengono piegati. 2. II Sermone d i Fra Ctpolla da Certaldo («nella morte del suo asino detto Travaglino») è il primo degli undici Sermonifunebri di Ortensio Lando, godibilissimo esempio cinquecentesco del genere orazione funebre paradossale, la cui circolazione europea fu garantita da traduzioni in francese e anche in latino128. II valore emblematico delloperetta in relazione aile modalità cinquecentesche di attuazione del codice burlesco e paradossale non rende superfluo svolgere alcune considerazioni in generale sui Sermoni prima di sostare sull’orazione funebre dedicata alFasino. La raccolta, al pari delle altre opéré dello scrittore milanese, présenta una complessità semantica difficile da penetrare fino in fondo, acuita da un uso del codice comico come strumento di controversia e propaganda religiosa.

124 Numeri, xxn, 21-35. 125 Gindici, xv, 14-16. 126Per l’intervento decisivo degli asini nella gigantomachia si veda E ratostene, Catesterismi, 11, e Igino , De astronomia, II, 23 3: «Dicitur etiam alia historia de Asellis; ut ait Eratosthenes, quo tempore Iuppiter, bello Gigantibus indicto, ad eos obpugnandos omnes deos conuocauit, uenisse Liberum patrem, Vulcanum, Satyros, Silenos asellis uectos. Qui cum non longe ab hostibus abessent, dicuntur aselli pertimuisse, et ita pro se quisque magnum clamorem et inauditum Gigantibus fecisse, ut omnes hostes eorum clamore in fiigam se coniecerint et ita sint superati» (ed. Les Belles Lettres; Igino viene stampato nel Cinquecento insieme al commento di Germanico Cesare ai Phainomena di Arato). Cfr. anche G esner, Historiae Animalium cit., p. 11 (in cui si rimanda a Igino). 127 Matteo, xxi, 1-7. 128 Cfr. G rendler, Critics o f the Italian World dt., pp. 231 e sgg.: sulle traduzioni in latino cfr. XAppendice /. Una scelta di Sermoni si legge in M anieristi e irregolari del Cinquecento dt., pp. 287-97.

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Se infatti il registro comico del testo è esplicitamente dichiarato già a partire dai nomi degli oratori, indicati sin dai titoli (in particolare, frate Cipolla, frate Puccio, Burchiello, Piovano Arlotto, Monna Tessa), che esibiscono il legame con la materia decameroniana e con la tradizione letteraria giocosa, restano invece decisamente nell’ombra, in linea del resto con la natura silenica delle scritture paradossali, i contenuti seri, di alto impegno morale e religioso; come anche difficili da decriptare, secondo le tipiche tecniche scrittorie di dissimulazione, risultano i riferimenti a figure ed ambienti frequentati dall’autore129. Dietro a motivi immediatamente riconoscibili, come ad esempio i tradizionali temi satirici antifrateschi o antipetrarchisti, o la denuncia della corruzione dei principi, e dietro alla corrosiva dissacrazione dei valori e delle convenzioni sociali, appena filtrata da una superficie connotata in senso burlesco e dal ricorso allelemento osceno, si nasconde nelle pieghe più profonde del testo un sottile sistema allusivo, a cui è affidato lo strato più intemo e elitario del messaggio landiano, il suo nucleo più iniziatico, la sua essenza più radicale di scrittura avanzata sul piano del dissenso religioso. L’operetta, tuttavia, accanto alia sua dimensione di occulta propaganda eterodossa, mostra un particolare interesse anche dal punto di vista formale, proprio per ladozione del codice comico della sproporzione e incongruenza camevalesche, che assicurava alio scritto una fruizione allargata rispetto alia ristretta cerchia di sodali cui era riservato il suo contenuto altamente mora­ le130. La struttura ibrida e aperta del testo, dove inserti novellistici si altemano a racconti di metamorfosi, a squarci favolistici, a sezioni zoologiche e genericamente compilatorie, è agevolata per altro dalla contaminazione operata tra il genere dellorazione funebre e quello dell’elogio paradossale, secondo una contiguità contenutistica e formale del resto insita nelle forme dellepicedio e delTencomio, espressioni entrambi della retorica del panegirico131. Infatti nella 129 Un utilissimo contributo all’interpretazione della raccolta landiana, sia per quanto riguarda il messaggio religioso più recondito, sia per quanto riguarda la rete dei riferimenti a personaggi legati all’autore, è quello di L.C. V accari, Un episodio della carriera veneziana d i Lando: i «Sermonifunebri», «Studi veneziani», n. s. xlvi (2003), pp. 69-97. 130 Uriaccurata analisi del testo sul piano delle strutture retoriche in M-F. P iéjus, Qrtensio Lando et Voraisonfunèbre parodique, in Lesfunérailles à la Renaissance. XIIe colloque international de la Société Française d’Etude du Seizième Siècle (Bar-le-Duc, 2-5 décembre 1999), Actes réunis et édités par J. Balsamo, Genève, Librairie Droz, 2002, pp. 469-83. 131 Per l’epigramma in morte di animali d’obbligo il rimando ai componimenti raccolti nel libro VII (costituito di epigrammi fiinebri) deW'Antologia Palatina (epigr. 189-216 dell’ed. Les Belles Lettres), che costituiscono il punto di riferimento del genere. Caratteri giocosi e parodistici sono propri della poesia epicedica per animali del Cinquecento, oltre che, corne ow io, nella variante burlesca, anche in quella più cortigiana; sul microgenere dellepicedio canino nel Rinascimento cfr. Cani dipietra. L ’epicedio canino nella poesia del Rinascimento, a c.

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gran parte dei Sermonila lode dell’animale specifico di cui Toratore piange la morte è preceduta o seguita dalla lode dell’animale in generale. Lo schema dell’elogio riproduce per lo più le canoniche partizioni della topica degli enco­ mia di persone: topoi di esordio (importanza e gravita del soggetto, excusatio propter infirmitaterri), eugeneia, virtù fisiche e morali, espressione dell’emotivita epidittica (profonda ammirazione, gratitudine, incontenibile dolore per la scomparsa deiranimale)132. Nel sermone funebre faceto l’effetto paradossale e parodico è owiamente legato all’incongruenza che scaturisce dalTapplicazione delle movenze della lamentatio rivolta ai defunti, con il dispiego dei tipici procedimenti retorici della lode (iperbole, enfasi, domande retoriche, paragoni nobilitanti, riferimenti mitologici, topos della difficoltà del compito, ecc.), a soggetti più modesti come gli animali, tra cui anche minuti insetti come il pidocchio133, che, simboli di umiltà e semplicità, testimoniano il rovesciamento del decorum, delle tradizionali gerarchie di alto-basso, consacrando al pari lmnalzamento delle realtà più spregevoli, nella più autentica adesione ai valori dello spiritualismo evangelico. Uno dei tratti compositivi che accomuna gli undid discorsi è dato dalla scelta di affidare le orazioni a fittizi oratori, maschere ‘corniche* sotto cui si nasconde l’autore, secondo la tipica tecnica scrittoria landiana incline alTanonimato, rispondente alia predilezione per una scrittura impersonale, che potrebbe collegarsi, oltre che alia scelta letteraria di amplificare con qualsiasi dispositivo l’ambiguità134, anche all’istanza evangelica di ridurre al minimo la figura ingombrante dell*autore, coerentemente con i valori cristiani dellumiltà e della modestia135.

di C. Spila, Traduzioni di M.G. Critelli e C. S., Roma, Quiritta, 2002 (e l’introd. di C. S., Tra cinofilia e cortigianeria, pp. xi- xxix). 132 Sulla topica epidittica e sulle modalità in cui essa viene impiegata, cfr. P ernot , La rhétorique de l'éloge rit., I, pp. 129-331. 133 Per la lode degli insetti modello classico è owiam ente il Culex virgiliano. Tra i testi rinquecenteschi in versi per la morte di animali, la canzone del Firenzuola in morte della rivetta, Gentile augeïïo, che dal mondo errante (corne noto, riproduzione parodica della bembesca canzone in morte del fratello), e la canzone del Coppetta in morte della gatta. Utile a me sopr’ognaltro animale, cfr. L onghi, L usus rit., pp. 176-78. 134 Opportunamente Piéjus osserva corne la scelta di affidare a frate Cipolla il primo discorso valga a inscrivere tutti i sermoni sotto il segno della menzogna: cfr. P iéjus, Ortensio Lando et Voraison funèbre parodique rit., p. 471. 135 Cfr. V accari, Un episodio della camera veneziana d i Lando rit., p. 74. Al riguardo possono valere le osservazioni di Prosperi sulla scelta di pubblicare anonimo il Beneficio d i Crista, scelta rispondente all’idea che i «frutti delTingegno umano erano una manifestazione della gloria del supremo autore di tutto, Dio> e che «era la verità delle cose dette e non lautorità del nome che doveva colpire e convincere i lettori» (Prosperi, L ’eresia del Libro Grande rit., p. 47).

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Dal punto di vista stilistico, la cifra che rende omogenea la raccolta è la contaminazione di materiali colti e popolari, secondo quella mescolanza degli stili che del resto era un antico requisito del panegirico, che aveva assunto la ‘forma mista del serio-faceto già in epoca tardoantica136: la patina erudita dei riferimenti mitologici, delle citazioni letterarie, delle testimonianze classiche137 è di continuo alterata da inserti novellistici, da paragoni inattesi con realtà basse e quotidiane, da improwise incursioni nel comico e nel caricaturale. La mistione degli elementi eterogenei è esibita con il piacere della sperimentazione e dell’innovazione e con il gusto delfironia che aggrediscono ogni componente del discorso, sicché anche gli stessi elementi topici possono essere coinvolti nel gioco della rimanipolazione e della variazione grottesca. Ad esempio nel «sermone» D i Monna Checca da Certaldo nella morte dun grillo, il topos delle origini è dilatato e trasformato in una novella che occupa quasi per intero l’orazione138. O ancora, nel «sermone» D i Monna Tessa da Prato nella morte del suo gallo, all’intemo della sezione dedicata aile proprietà terapeutiche delle diverse parti del gallo, il dato dei «testicoli che hanno mirabil proprietà per sovenir quelli che alii amorosi abracciamenti inetti e indisposti sono» è attualizzato dalloratrice con il racconto della sua esperienza personale (Monna Tessa racconta che suo marito, Tingoccio - personaggio di decameroniana memoria (VII 10) -, afflitto da tale disturbo, era guarito grazie a una «torta de testicoli di gallo» prescrittagli come cura da Mastro Grillo)139.

136 Cfr. E.R. C urtius, Letteratura europea e Medio Evo latino (1948), a c. di R. Antonelli, Firenze, La Nuova Italia, 19952, pp. 465-86. 137 Per le fonti dell’erudizione landiana cfr. C herchi, Polimatia d i riuso cit., pp. 98-127. 138 Cfr. cc. 32r-34r. Nel «sermone» D el Piovano Arlotto nella morte della sua civetta il topos delle origini offre il pretesto per l’inserzione di un racconto mitico di metamorfosi, che ha una fiinzione eziologica (cfr. c. 22r-v); il racconto è esemplato con ogni probabilité sulla narrazione ovidiana (Metamorfosi\ II, 589 e sgg): cfr. V accari, Un episodio della carriera veneziana d i Lando cit., p. 79, n. 37. Per i rapporti che in particolare il Sermone in morte del grillo, e il Sermone in morte del gallo intrattengono con il Decameron cfr. ivi, pp. 77-83. 139 Cfr. c. 31 r-v. Per il rinvio di Mastro Grillo, medico, al protagonista della novella in versi ( Opera nuova piacevole et da ridere de uno villano lavoratore nomato Grillo el quale volse drventar medico), cfr. V accari, Un episodio della carriera veneziana d i Lando cit., p. 81. Mastro Grillo compare anche come destinatario di una lettera di Cesare Rao: «A Mastro Grillo Medico Micidiale, e Mendico» (cfr. L Argute, etfacete lettere cit., cc. 75r-76v). Sull’uso proverbiale del nome Tessa («eponimo della cattiva moglie»), attestato nel sonetto V della Tenzone con Forese Donati, in Boccaccio (VU 1 e VIII 9) e poi in Burchiello, nel Pataffio, in una lettera di Machiavelli, in un sonetto di Matteo Franco e nel Commento del Grappa nella canzone del Firenzuola in lode della salsiccia, cfr. D. G uerri, Perlastoria d i monna Tessa (1933), in Id ., Scritti danteschi e d ’a ltra letteratura antica, a c. di A. Lanza, Presentazione di G. Pampaloni, Anzio (Rm), De Rubeis, 1990, pp. 355-65.

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L’ironia, con cui si dà il gioco iperletterario dell’accumulo mescidante e della rimanipolazione dei diversi codici, proprio attraverso la tecnica dell’accostamento inatteso e straniante, si dirige a colpire la stessa erudizione di cui il discorso fa sfoggio, e il sapere tradizionale di cui essa si fa tramite. Nel «sermone» Del Cimarosto nella morte d'un simione, ad esempio, il rovesciamento paradossale e il sarcastico ridimensionamento della conoscenza e del sapere tradizionali scaturiscono da una miscela in cui gioca un ruolo decisivo l’artificio dello scarto140. Innanzi tutto scarto tra la solennità con cui si intro­ duce la narrazione dei due esempi del «mirabil senno» dello scimmione e la sostanza comica (che diventa triviale nel secondo episodio) degli esempi stessi141. Scarto, poi, provocato dall’enunciato dell’oratore a commento del secondo episodio: «Io non credo che alcuno de sette savi havesse saputo ritrovar si presente rimedio» (c. \9v) \ la saggezza degli antichi è ridicolizzata dall’astuzia di cui una scimmia ha dato prova, per altro, in un contesto dove il basso-corporeo è esibito senza remore. A1 lettore di Lando non sfugge che i due esempi del «mirabil senno» dello scimmione costituiscono la materia di una novella dei Varii componimentim \ 140 Sui riferimenti all’ambiente trentino di questo sermone (pronunciato dal Cimarosto, buffone al servizio del cardinale di Trento, Cristoforo Madruzzo) che, insieme al «sermone» D i Catosso bergamasco nella morte del mergone d i Roccha d i Riva Trentino, costituisce il dittico della silloge in cui sono più esplicite, ancorché giocosamente camuffate, le allusioni autobiografiche al soggiomo nella rocca di Riva del Garda, durante la fase iniziale del Concilio, cfr. V accari, Un episodio della camera veneziana d i Lando cit., pp. 94-95. 141 Nel primo esempio si narra che la scimmia, posta a guardia di una cucina, era stata ingannata da un fiorentino, il quale, «sapendo che la natura delle Simie era di imitare cio che veggono altrui fare» (c.19/), aveva indotto l’animale a bendarsi gli occhi, per poter rubare un «buon fagiano». La scimmia cadde nella trappola: ma qualche tempo dopo, quando il furbo fiorentino tentô di ripetere l’operazione, essa non si lasciô ingannare. Nel secondo esempio la scimmia, che si trovava su un’imbarcazione insieme a un porco, dimostrô la sua prontezza di spirito non solo turandosi il naso per non sentire i cattivi odori che emanavano dal porco scosso dal movimento della barca, ma anche (quando esso «cominciô a smaltire») prendendo la «spina dalla botte» che era suH’imbarcazione e mettendola «in quella parte del corpo, per donde n’usciva quell’abhominevole fetore» (c. \9 v). Un brano del sermone è pubblicato in Novellieri del Cinquecento cit., I, pp. 429-30. 142 VariicomponimentidiM . Hort. Lando cit. L’argomento della novella è cosl esposto: «Nella seguente novella narransi alcune mostruose bugie, e quanto brutto vitio sia fesser bugiardo, poi che elle dispiacciono in fino a quelli, che aile volte vaghi se ne mostrano: parlasi anchora della natura delle Scimie». La novella (oltre che nell’ed. curata da S. Bongi, Lucca, Giovanni Baccelli, 1851, e in quella curata da G. Battelli, Lanciano, Carabba, 1916) è stata ripubblicata in Novellieri del Cinquecento cit, I, pp. 431-34 e in Novelle del Cinquecento, a c. di G. Salinari, Torino, Utet, 19762, pp. 343-46. L’episodio della scimmia che fa la guardia a una cucina présenta lo stesso contenuto (con alcune varianti) di una novella raccontata nella Seconda Libraria di Doni: la novella del «banchieri in Roma, il quale aveva un suo gatto mammone si bene ammaestrato a guardare il banco» {La libraria cit., pp. 391-92).

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qui, essi sono presentati come colossali fandonie narrate dai bugiardi protagonisti, il canonico di Ravenna (che «se per caso diceva alcuna fiata la verità, ne stava si maninconoso, come se egli havesse peccato in ispirito Santo») e il suo servo fiorentino (che per fare piacere al padrone si era riproposto non solo di confermame le bugie ma «di dime sempre un’altra non meno stupenda per fargli cosa grata», p. 165). L’ironia beffarda di Lando mira a disintegrare lorizzonte etico dell’epidittica tradizionale; attraverso la disgregazione ludica della stmttura dell’elogio, egli mette in discussione, rovesciandola, la prospettiva antropologica e l’idea di «virtù» che si annida dietro lo statuto della lode143. Ecco come nell’orazione D i Ser Bertacolone nella morte d'una gaza viene irriso il sistema umanistico della virtus, risolvendosi le aretai della gazza in abusi mangerecci e nella predisposizione agli svaghi: Ma tempo è hormai ch’io vi favelli di alcune sue particolari virtù: Ella mangiava S. miei la zuppa grassa con assai più gusto che non fa il grasso Bresciano: era più del vino vaga, che non è il Tedesco: arnica del pane unto più che un Abruzese. Mangiatrice de fagiuoli più del Cremonese: papava cavoli al par di qualunque Napolitano, cicalava più dun Fioren­ tino, danzava più gaiamente di qualunque lodegiano, era bramosa dudir sonar le pive più del Mantovano [...]. (c. 25r-v) Per tomare al primo degli undici sermoni, D iFra Cipolla «nella morte del suo asino detto Travaglino», si puô rilevare come accanto al suo contenuto dottrinale144, l’interesse del testo, in un’ottica di insieme, è dato anche dalla particolare fisionomia che esso assume all’intemo del microgenere delle lodi asinine. II testo si pone come esempio senzaltro assai originale per la commistione che vi si attua «fra il sermo paradossale e aforistico degli apologhi funebri e favolistici deU’Umanesimo [...] e il funus / fiinerale erasmiano» connotato dalla riflessione sul tema della buona morte cristiana145.

143 Per una riflessione sulla topica encomiastica come immagine semplificata di idee filosofiche e antropologiche cfr. Pernot, La rhétorique de l'éloge cit., I, pp. 129-249. 144 Per una lettura del testo come parodia del riformismo moderato erasmiano, attacco dissimulato sotto l’invenzione faceta, cfr. E. S elmi, Erasmo, Luciano, Lando: Funus e asinità. Storia d i un percorsofra paradosso ' letterario e ‘controversia *religiosa, in Erasmo e il Funus. Dialoghi sulla morte e la libertà nel Rinascimento, a c. di A. Olivieri, Milano, Edizioni Unicopli, 1998, pp. 51-97 (in particolare le pp. 51-53 e 83-87). Per la polemica antierasmiana di Lando, quale si manifesta nel dialogo In Desideri Erasmi Roterodamifunus, violenta satira contro il maestro rinnegato per le scelte conciliant! con la gerarchia papista, classico il riferimento a S. S eidel M enchi, Sulla fortuna d i Erasmo in Italia. Ortensio Lando e altri eterodossidella prim a metà del Cinquecento, «Rivista storica svizzera», 24 (1974), 4, pp. 537-634 (in particolare 537-41 e 574-97). 145 S elmi, Erasmo, Luciano, Lando cit., p. 51.

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Qui la sezione delFelogio generico delPanimale è assai più sviluppata rispetto aile altre orazioni. Del resto sulla figura dell’asino, come abbiamo cercato di dimostrare, fin dalla più antica tradizione si era addensata una ricca simbologia; la digressione di Agrippa poi, come già osservato, si poneva per gli scrittori cinquecenteschi come fonte in cui gli smembrati materiali asinini preesistenti erano stati riunificati, ristrutturati e codificati in una vera e propria topica encomiastica146. Nell’elogio landiano si ritrova, dunque, la gran parte dei motivi presenti nelle scritture sull’asino: come il gran pregio in cui esso era tenuto presso gli antichi (con la canonica citazione di Varrone); il motivo delfasino che da morto genera scarafaggi (come esempio della sua straordinaria fecondità); la serie dei rimedi, farmacologici e cosmetici, che si ricavano dalle membra dell’asino, e delle «utilità» in generale; le virtù fisiche e morali (resistenza alla fatica e vigore, parsimonia e modestia); la facoltà di prevedere le condizioni meteorologiche; il motivo delP«asinus portans mysteria»147. E ancora, esempi e aneddoti, come quello dell’asino discepolo «attentissimo uditore della rara sapienza di Amonio Alessandrino, di cui erano ad un medesimo tempo condiscepoli il dotto Origene, e l’acuto Porphirio» (c. 4z>)148, riferimenti letterari, citazioni di auctoritates conformemente alia formula mescidata e accumulante degli elogi paradossali in prosa. L’orazione, dopo la lode della natura asinesca in generale, prosegue con l’elogio delfasino Travaglino: alfinizio di questa seconda parte, Lando continua ad utilizzare alcuni loci della topica asinina, attribuendoli come specifiche prerogative all’asino compianto da frate Cipolla. Nel topos delle origini, infatti, il riferimento alia nascita di Travaglino dai «più discreti Asini che mai portasser basto» allude al motivo canonico della «discrezione degli asini» (associato al proverbio «la discrezione è madré degli asini»)149. Sem-

146 Su questo cfr. infra, cap. 2, pp. 130-31. 147 Cfr. infra, cap. 2, p. 131, n. 67. 148 II dato è riportato anche nel Dialogo intitolato Ulisse (che appartiene al genere della raccolta di mirabilid), contenuto nei Varii componimenti... cit.: «Gran miracolo di natura parvemi l’haver veduto un Philosopho, che haveva per suo uditore un asino» (p. 69). Per i rapporti di questo dialogo con XOfftcina di Ravisio Testore cfr. P. C herchi, Enciclopedismo e politica della riscrittura: Tommaso Garzoni, Pisa, Pacini, 1980, pp. 159-63. L’aneddoto di Ammonio Alessandrino che ebbe per discepolo, accanto a Origene e a Porfirio, un asino è riportato anche nei Hieroglyphica (cfr. c. 91/). 149 Nel Ragionamento saura de Vasino di Pino a proposito della discrezione dell’asino si racconta un apologo attribuito a un «commentatore di Galeno»: l’apologo si conclude con un asino che nel mangiare un cardo finisce con il divorare anche la Discrezione che si era rifiigiata proprio su quel cardo: «E d’alora in qua si dice: “Non è più Discrezione nel mondo ché l’asino se l’ha mangiata”. E cosi l’asino fu posto fra’ discreti, e perô si dice: “Tu se’ discreto com’asino” e “Discrezion d’asino”» (pp. 85-87: 87). La lettera di dedica (dell’Inasinito

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pre in questa sezione de\Y eugeneia, il topos dei due asini trasformati in stelle nella costellazione del Cancro è riadattato come particolare delle origini di Travaglino150. Nel corso dellelogio si intensifica il registro comico con Tinserzione di strambi paragoni, dove luso grottesco dell’iperbole si risolve in accostamenti stridenti e caricaturali151. Accanto a comparazioni assurde per l’eccezionalità del secondo termine di paragone, la comicità è affidata all’improwiso e inatteso abbassamento stilistico verso il popolare e il municipalistico, nel segno della più libera contaminazione tonale152. La natura silenica del testo appare con grande efficacia nella sezione in cui Travaglino è ricordato nelle sue vesti di asino sapiente e parlante; sul registro faceto, intensificato dall’antropomorfizzazione tesa a ingentilire l’animale, con indubbi effetti comici dovuti all’incongruenza della rappresentazione, si innesta un passaggio importante per la dimensione morale del testo: l’enunciazione, da parte di Travaglino, del decalogo dei precetti religiosi, nella «notte della Piphania», quando era «vecchia usanza» che le bestie favellassero153:

Academico Pellegrino all’Onagrio) déXAsinesca Gloria si âpre cosl: «La Discretione è madré de gli Asini, come si suol dire in proverbio, et io, che de gli Asini fiii sempre amico, sono parimenti amico, e buon figliuolo della Discretione [...]» (LAsinesca Gloria delVInasinito Aca­ demico Pellegrino, In Vinegia, nell’Academia Pellegrina, per Francesco Marcolini, 1553, p. 3). II proverbio è riportato anche nella seconda ed. della Nobïltà delVasino di Adriano Banchieri: «e chi non sa, che per proverbio si dice la discretione è madré delli Asini? adunque 1’Asino è discretissimo, perch’è figliuolo dell’istessa discretione» (ed. cit. infra, a n . 185: c. 10A 150 «Traheva Righetto [padre di Travaglino] sua nobil origine da dui eccellentissimi Asinelli, li quali furono già per lor gran meriti portati in cielo, et sino al di d’hoggi, quelle due stelle che sono nel segno di Cancro chiamansi da Latini Aselli» (c. 5/). Per gli Asini come stelle situate nella costellazione del Cancro cfr. E ratostene, Catasterismi\ 11 e Igino , De astronomia, II, 23 2: «In eius [Cancri] deformationis parte sunt quidam qui Asini appellantur, a Libero in testa Cancri duabus stellis omnino figurati» (ed. Les Belles Lettres). La stessa immagine compare nello Spaccio de la bestia trionfante e nella Cabala del cavallo pegaseo di Giordano Bruno: cfr. B runo , Opéré italiane cit., II, pp. 220 e 433. 151 Per es. si elogia l’asino per la sua capacità di danzare e cantare più leggiadramente e dolcemente delle muse, oppure perché più «sensato di Aristotele», più «intelligente di So­ crate» ecc. (c. 6r-v). 152 Ad es. corne prova dell’ardire e del coraggio di Travaglino, frate Cipolla ricorda che esso «uccise il Lupo divoratore della peccora del vostro Piovano: e se ’1 non fusse stato più che pronto all’aguzzar de denti e al trar de calci squarciavano li affamati Lupi, la vacca di Madonna Pippa sî corne mangiamo il porco del notaio, il becco del console, il Castrone del Sindico, e il bue del Podestà» (c. 6v). 153 Per un’interpretazione dei precetti dettati dall’asino Travaglino corne parodica «sintetica epitome delle Regole dell*Enchiridion e della catechesi erasmiana del miles christianus» cfr. S elmi, Erasmo, Luciano, Lando cit., pp. 86-87.

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[...] ricordatomi [dice frate Cipolla] il canuto senno e Tineffabil prudentia del mio Travaglino, pensai che dalla sua gratiosissima bocca uscir dovessero sententie più morali che non uscir mai dalla bocca di Seneca e detti più saggi del stoico Epitetto. Mel feci per tanto nella mia cella dormire, e sonate che fiirono le sette hore di notte, incominciô a favellarmi con una vocina si gentile, che mai la più gentile non si udi. (cc. 6v~7r) Il tema dell’animale parlante, che per concessione divina («per divina pietà») proferisce i suoi apoftegmi improntati a una morale stoico-cristiana, toma in un altro sermone, quello del Piovano Arlotto nella morte della sua civetta154. È il testo stesso, attraverso il racconto delforatore, a richiamare, stabilendo un nesso intertestuale, l’esperienza di frate Cipolla, a cui toccô la fortuna di udire le sacrosante sentenze asinine: Délibérai già una fiata, e non è anchora guari, di volermi chiarire se di tanta sapienza omata fusse, quanta si pensa e si ragiona: e havendo inteso che l’Asino di frate Cipolla mio padre spirituals la notte della Piphania gli haveva dato de molti utili ricordi, in camera sul pugno me la recai: e per la tutela della santa Dea la scongiurai mi desse qualche gusto dell’infiisa sapienza. passata adunque la mezza notte, ella incominciô a favellarmi in lingua attica, e dirmi cose degne veramente di esser scolpite in bronzo, e in marmo. (c. 23r) Al pari delfasino, anche la civetta, simbolo di Minerva e quindi di sa­ pienza155, detta una serie di massime morali che, soprattutto alia luce di altri testi landiani dalla forte connotazione dottrinale, mostrano la loro natura profondamente spirituale: anche dietro le parole della civetta si celano istanze riformate, fondate sul principio dell*imitatio Christi, in fimzione della rifondazione di un’autentica condotta cristiana, ispirata alio spirito apostolico e ai più alti valori della fratellanza e della misericordia. Attraverso la voce degli animali, che nella loro innocenza, purezza e umiltà si fanno portatori del messaggio di Dio, penetrano nel testo i riflessi di una pedagogia del miles christianus, votato al servizio del prossimo fino al sacrificio, lontano dalle degenerazioni del monachesimo e sacerdozio coevi, che sotto un falso ascetismo celano la propensione per unasocialità di fondo, antitetica a ogni forma di altruismo caritatevole156. 154 Per il legame di questo sermone con la facezia 19 dei M otti efacezie del Piovano Arlotto («Detta dal Piovano Arlotto al vescovo Antonino della civetta ch’era dove aveva a stare il corpo di Cristo») cfr. F. P ignatti, I «Motti efacezie del Piovano Arlotto» e la cultura del Quat­ trocento, «Giomale storico della letteratura italiana», clxxvi (1999), 573, pp. 54-86 (85). 155 Si veda ad es. V aleriano, Hieroglyphica cit. (De noctua), c. 146v. 156 Per la contiguità dei discorsi dei due animali, quanto al precetto dell’imitazione del-

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Nella produzione del Lando, la figura dell’asino, nella sua prerogativa di prevedere i fenomeni atmosferici, toma in una novella inclusa nei Varii componimenti, nella quale «chiaramente si dimostra la vanità dell’Astrologia, e trattasi della Divinatrice natura de gli Animali irragionevoli»157. Nella no­ vella, pertanto, l’implicita interferenza tra il tema dell’asino e il motivo della svalutazione delle discipline umane (che implica una polemica e paradossale esaltazione dell’ignoranza) si mostra con evidenza quasi didascalica; interferenza, del resto, connaturata all’uso paradossale dei due temi: nella pratica dell’elogio paradossale, infatti, il tema dell’asino e quello dell’ignoranza rinviano a uno stesso orizzonte ideologico, finendo con il sovrapporsi sul piano dei rimandi metaforici. Nella novella viene meno l’ambiguità di cui talora si carica il simbolo dell’asino: la sfiducia nei conffonti delle scienze umane, rappresentate dall’astrologia, e l’opzione, invece, per la natura, rappresentata dall’asino e dal villano, si risolvono nello scomo di Messer Ugo, l’astrologo, che deve prendere atto che l’«Asino di Carabotto (che cosi chiamavasi il contadino) haveva saputo più Astrologia di lui, che s’era in cotai studi invecchiato». L’attenzione al comportamento degli animali (oltre alla «divinatrice natura dell’Asino», nella novella si fa riferimento anche al gallo «il quale vi predice l’hore, come se egli havesse l’horiuolo» e ai delfini che annunciano «col dosso inarcato la vicina tempesta a marinai») si lega senz’altro all’interesse, assai documentato nei nostri testi, per le loro capacità percettive, su cui, come abbiamo avuto modo di osservare, agisce il modello plutarcheo158. r«eroismo attivo di Cristo» (in linea con le posizioni espresse nei trattato di Benedetto da Mantova, U Beneficio d i Cristo), con altri testi landiani, quali un passo del Commentario, due Ragionamentifamiliari (il Ragionamento d ijra te Feliciano Giorgi e il Ragionamento del Monsignore l ’e letto d i Terracina), e il Della vera tranquillité delVanimo, cfr. V accari, Un episodio della carriera veneziana d i Lando cit., pp. 87-89. 157 Cfr. pp. 160-64. La novella (oltre che nelle edizioni Bongi e Battelli su ricordate, n. 142) si legge in Novellieri del Cinquecento cit., I, pp. 440-43 e in Novelle del Cinquecento cit., pp. 339-43. 158 Ad es. è del 1545 il volgarizzamento del Dialog) d i Plutarco circa Vavertire de glanim ali quali sieno piu accord, o li terrestri, o li marini D i greco in latino, et d i Latino in Volgare. Nuovamente tradotto, e con ogni diligenza stampato, In Venetia, per Bortolamio, detto L’Imperatore. Alcuni aneddoti riportati in questa operetta, come quello del cavallo Bucefalo che si faceva cavalcare solo da Alessandro Magno (c. 17/), o deU’elefante innamorato di una fanciulla che «vendea le ghirlandette» (c. \9 v), confluiscono ad es. nella Nobiltà dellasino di Banchieri (pp. 11 e 18). Nei Valore de g li asini Plutarco è citato al riguardo come auctoritasr. «perché se a Plutarco cosi gran filosofo piacque di mostrare che ne partecipavano [della ragione] le bestie quasi tutte, ciascheduna per la sua portione [...]», c. Sv. Ma anche Agrippa, nella digressione in lode dell’asino, fa riferimento alla fonte plutarchea nei narrare alcuni aneddoti, come quello dell’elefante rivale in amore del grammatico Aristofane (invaghitisi entrambi di una

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3. Con il Ragionamento saura de Vasino di Giovan Battista Pino, l’elogio si dilata in un lungo discorso dove la topica asinina si dissémina in un coacervo di materiali eterogenei: citazioni di ogni sorta, testimonianze, aneddoti, curiosità, problemata, dati eruditi, giochi di parole, false ethnologie, proverbi e modi di dire159. La discontinuità della struttura ibrida è amplificata da un incontrollato andamento divagante: le digressioni si aprono 1’una dentro l’altra e ampie narrazioni sospendono lo svolgimento del discorso160. L’elogio, con tutto il suo armamentario topico, come si diceva ffammentato e disperso nella congerie degli elementi più disparati, costituisce il filo conduttore di un testo dove la contaminazione dei codici è attuata con il consueto uso dell’ironia. Evidente è la componente ludica dell’operazione ma altrettanto chiara è la tensione polemica che attraversa il gioco delle sperimentazioni. Ogni elostessa fanciulla) o del dragone che amô una giovane dell’Etolia. Tra gli altri volgarizzamenti cinquecenteschi di Plutarco ricordo la Seconda Parte de le cose morali d i Plutarcho, recate pur hora in questa nostra lingua, da M. Giovanni Tarchagnota. Con la Tavola d i tutto quello che si contiene nelVopera, In Venetia, per Michele Tramezino, 1548 (che comprende, ad es., Se g li animait’ brutiparticipano a qualche modo d i ragione, cc. 265r-272v\ cinque anni prima presso lo stesso editore avevano visto la luce Alcuni opuscoletti de le cose del divino Plutarco in questa nostra lingua nuovamente tradotti. In Venetia, per Michele Tramezino, 1543). Significativa, per le indicazioni sulla ricezione di Plutarco, la dedica alTAmolfini che Lodovico Domenichi premette al volgarizzamento da lui curato: Opere morali d i Plutarcho, nuovamente tradotte, per M. Lodovico Domenichi, Cioè U corrvito de ’ sette servi. Come altri possa lodarsi da se stesso senza hiasimo. Della Garrulità, overo Cicaleria. Intitolate a l molto Magnijico e Nobilisssimo M. Vincentio Amolfini, GentiVhuomo Lucchese, In Lucca, per Vincenzo Busdragho, 1560: è l’erudizione dello scrittore a costituire il polo di attrazione: «Corne è egli, Dio buono, perfetto filosofo? Come hebbe egli cognitione de gli scritti de gli antichi, e quanto ragionevolmente si puô dire, ch’esso gli havesse sulla ponta delle dita? Quante historié, e quanto bene a tempo allega egli? Quanto compiutamente pare, ch’egli possedesse tutte le arti, e minutamente havesse imparato quella che i Greci chiamano Ciclopedia? [...]. La sua eruditione è perfetta [...]. Egli dice assaissime cose, che converrebbono a uno huomo Christiano: cosi la divina bontà è stata cortese de* suoi doni a’ gentili anchora» (pp. 3-4). Su Plutarco, in quanto autore classico di riferimento, insieme con Luciano, per gli scrittori ‘irregolari’ cfr. Procacciou , Cinquecento capriccioso e irregolare cit., passim. 159 Per un’analisi dell*operetta cfr. O rdine , Asinus portans mysteria cit. 160 La prima lunga favola mitologica che si incontra nel testo, che ha per protagonisti Apollo e il giovinetto Sino, trasformato in Asino, offre il pretesto per inscrire preziose descrizioni e delineare, attraverso la peregrinatio dell’asino, la fantasiosa geografia asinina. La favola, a sua volta frammentata in diversi episodi, racconta anche il caso del «miracolo rosale» (sul valore metaforico della metamorfosi attraverso la manducatio dei petali di rosa, cfr. O rdine , Asinus portans mysteria cit., p. 60). Tra i vari spezzoni di diegesis figura anche la cosiddetta «farsa cavaiola», pubblicata separatamente sul finire dell’Ottocento da F. T orraca, Studi d i storia letteraria napoletana, Livorno, Vigo, 1884, pp. 91-96 (cfr. la Nota sul testo dell’ed. Casale cit., p. 175). Numerosi i racconti a carattere eziologico; tra le digressioni, piuttosto ampia quella sul «paradiso degli asini».

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gio paradossale, sotto la superficie del divertimento e della bizzarria, nasconde come tratto costitutivo una componente satirica: l’ambiguità della lode paradossale spesso nasce proprio dalPimprowisa e momentanea incursione nel registro della satira. Nel Ragionamento, perô, la commistione dello pseu­ do encomion e della satira è praticata con maggiore insistenza, divenendo la cifra stilistica dell’operetta. Infatti l’intento satirico si rivolge non solo contro il pedantismo e Tideologia ufficiale161 - bersagli comuni ai testi paradossali - ma anche contro un soggetto storico e politico specifico162. Nel Ragionamento, come anche nell'Asinesca Gloria (su cui ci si soflfermerà nel prossimo capitolo), i momenti satirici si danno attraverso le figure degli asini negativi, che in modo inaspettato vengono a turbare Timmagine di positività proiettata dalle lodi asinesche: gli asini negativi simboleggiano i falsi sapienti, che si nascondono dietro la maschera del vuoto prestigio, e coloro che esercitano il potere senza un adeguato sapere (gli asini-satrapi)163. A tale proposito, mi sembra particolarmente significativo un passo del Ragionamento dove si allude polemicamente agli «asinacci stravestiti» di cui «son piene [...] tutte le città del mondo», «asini mascherati» che occupano «sotto varie larve» posti di prestigio con esiti devastanti: Dunque è di bisogno - secondo questa autorità - dire che de gli asini a quattro piedi fur fatti gli asini di duo piedi, de* quali son piene quasi - anzi senza quasi - tutte le città del mondo, e vanno mascherati d’ogn’intorno, secondo il ghiribizzo che si li volge in capo, perché alcuni di questi asi­ nacci stravestiti, volendo contrafar i filosofi, si pongono una mascara con 161 «La natura e li pedanti son di contraria buccia perché si come quella fii prodotta da la mente di Giove nel tempo che fii generata Palla, cosi la pedantaggine nacque da la soperstizione alor che venne in terra la ignoranza. Essendo cosi, debbiamo credere più a la natura ch’a li pedanti, e tanto più quanto essi hanno stroppiato ogni buon uso e hanno assassinate le buone lettere. Io non so come sia questo ch’un pédante poltrone possa più con le sue buggie che non puô la dotta natura con la verità» (p. 68 ). Il passo continua con un attacco a un pédante (da identificare probabilmente con Bembo) che «anni adietro, ha crucifissa, ha sommersa, ha - per dirla chiara - assassinata questa nostra gentil favella» (p. 69); per l’interesse di Pino aile questioni linguistiche (documentato anche dal breve scritto A ïli studiosi della volgar lingua, pubblicato corne introduzione al Ragionamento del terremoto del nuovo monte di Pietro Giacomo Toledo - Napoli, Giovanni Sultzbach, 1539) cfr. O r d i n e , Asinus portans mysteria cit., pp. 61-62. 162 Si tratta del viceré Don Pedro de Toledo. Per le vicende politiche legate ai tumulti popolari scoppiati a Napoli nel 1547 contro il tentativo del govemo spagnolo di istituire il Tribunale dell’Inquisizione, vicende politiche che videro il Pino coinvolto in prima persona, rinvio alla Nota Biografica dell’ed. Casale cit., pp. 19-22, e a O rdine , Asinus portans mysteria cit., pp. 62-63. 163 Per un’indagine approfondita della contraddittorietà del simbolo dell’asino si veda Id., La cabala delVasino cit.

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una barba lunga e si vesteno una veste squarciata e vengono in mezzo de l’altre bestie parlando in bis e in bus. Altri, cavalcando uno altro animale diverso da la spezie asinile, omati di toga, si sforzano di parer fisici o leggisti. Bench’i personaggi ch el più de le volte volontiermente soglion contrafare, son persone di grande importanza, forse per parer ancor essi d’esser grandi. Onde credo che questo era quel che diceva quel mirabil uomo in quella sua satira: che quando Tuomo cominciava a salir quello scalino de la fortunata ruota, alora incominciava ad inasinire, e cos! di passo in passo si li cresceva Tasinità adosso, e tanto più quanto più s'avvicinava al termine beato, ove giunto, già era tutto asino e facea mostra di sé in forma di Satrapo. (p. 134)164 II riferimento iniziale agli «asini a quattro piedi» (da cui fiirono creati gli «asini di duo piedi») è introdotto da una parentesi di pseudo erudizione giocosa intomo a un «dubbioso luogo di Plinio sovra de l’asino»165: a conferma, quindi, della pluralité dei registri che percorrono Toperetta, il momento satirico è preceduto dau n ’invenzione faceta. Lautore, attraverso una serie di argomentazioni assurde e paradossali, si diverte ad alludere parodisticamente all’attivita esegetico-filologica degli umanisti. Si susseguono uno dietro l’altro gli ingredienti burleschi che mettono in atto la parodia delle pratiche del 164 II riferimento ai versi (46-54) della Satira VU di Ariosto, dove appunto è descritta la ruota di Fortuna, è anche nell'Asinesca Gloria e nella lettera doniana che introduce XOratione in lode dettlgnoranza di Giulio Landi; cfr. infra, cap. 2, pp. 125-26 e 133. L’immagine ariostesca affonda le proprie radici nella cultura didascalica e semipopolare del Medioevo; per l’analogia delfimmagine ariostesca con alcuni versi delle terze rime (De Motu fortunaè) di Antonio Comazano cfr. A. C o rsa ro , Per una lettura delle «Satire» dellAriosto, in Id., La regola e la licenza cit., pp. 9-47 (p. 28, n. 28). II passo del Ragionamento continua con un’altra citazione letteraria, da Dante (Paradiso, XXI, 132-33): «Ma perché quanto vi ho detto forse vi parrà chimera tratta da la collotola, leggete un poco Dante, e trovarete che parlando di que’ gran prelati, dice in effetto: “Chun manto cuopre due bestie”, tenendo per fermo che gli antedetti son bestie» (p. 135). La stessa citazione, piegata a un uso ancora più ironico, è anche ne\YAsinesca Gloria'. «Ond’è venuto anchora che i Prelati, quasi tutti de i tempi nostri, quali, benché sappiano di essere tenuti a caminare per le pedate di Christo, s’awengono nondimeno, che per la fragilità loro, non lo ponno imitare in tutte le cose, non ardiscono di cavalcare l’Asino, ma bene a quello s’accostano più che possono, e cavalcano il Mulo, che è mezzo Asino, come dissi; e i Cardinali, quali vorrebbono pure che fosse creduto ch’essi imitassero c h r is to affatto lo cuoprono co i manti loro, come disse Dante all’hora ch’ei non era forse troppo loro amico, / Cuopron de manti loro e Palafreni / Si che due bestie van sotto una pelle / O patienza, che tanto sostieni. / Perché sia creduto che cavalchino l’Asino, e pensino gli huomini che lo tengano coperto sotto quelle vesti, per che essi non siano degni di vedere quello animale, il quale porto già il Redentore del mondo, e fil présente al suo nascimento» (pp. 15-16). 165 «Io mi ricordava d’una parola di Ser Plinio, il quai [...] vol dire ch’in Scizia e in Ponto non vi siano d’asini» (p. 132). La citazione, corne riporta la nota di commento, è da Naturalis historia, VIII, 6 8 , 167.

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commento erudito: un passo controverso di Plinio, lo scartafaccio del Simposio di Platone, la postilla aggiunta in margine al manoscritto, il riferimento a Marsilio Ficino al quale sfaggi tale postilla166. L’accumulo caotico di forme, di temi e registri, del resto, è programmaticamente indicato come tratto costitutivo del discorso: è l’assunzione dello «stile asinesco», di «modi asinili» di scrittura, insistentemente richiamati dall’autore a giustificazione della disintegrazione del discorso, a determinare la dispersione della materia167. E anche il lettore per entrare nella comunicazione asinesca deve accettare il gioco della scomposizione e della pluralità dei significati, respingendo ogni tentazione di reductio ad unum. Invero, il discorso asinino sin dall’inizio si connota come discorso «segreto», pronunciato per la comunità ristretta dei presenti168. L’occasione del «ragionamento», infatti, è offerta da un convito, con fimzione di cornice novellistica, in cui i commensali, su invito del re della serata, pronunciano a tumo un discorso169. Secondo lunico dettame impartito dal re ai convitati (per il resto liberi di scegliere qualsiasi argomento), i discorsi si pongono sotto il segno della «piacevolezza», per svolgere al meglio la propria funzione di intrattenimento «finché cessi [...] la noiosa pioggia e [...] Vorribile tonare» (come appunto si dice nella breve sezione diegetica anteposta al 166Per il genere del commento parodico nel Cinquecento cfr. Cum notibusse et comentaribusse. Lesegesiparodistica egiocosa del Cinquecento. Seminario di Letteratura italiana (Viterbo, 23-24 novembre 2001), a c. di A. Corsaro e P. Procaccioli, Manziana (Rm), Vecchiarelli, 2002. 167 Lautore raccomanda lo «stile asinesco» anche a un eventuale continuatore delle lodi asinine, che magari supplisca aile sue mancanze: «e se pur pure io non dicessi quanto si conviene di tal mariera, il buon voler mi scusi, pregarô - si ben io - chiunque n’ara voglia, ch’a questo mio asino giunga tutto quel che cognoscerà convenirli, purché sia con stile asinesco come io fo [...]» (p. 59). 168 Ser Cinciglione (che ha la funzione di esporre la cornice del «ragionamento» di Padre Arculano) ammonisce i letton che non vadano «sbordellando quel tanto che da me n’udirete, né me ne facciate autore, perch’el Padre Arculano, quando di cio parlé, maledisse e asinilmente scomunico chiunque di noi altramente ne facesse parola con altrui, fuorché con coloro che vi fur presenti e del modo ch’egli ne ragionô; e questo per non so che ragioni asinesche che con efficacissima asinità porto in mezo> (p. 34). 169 U convito è ambientato a Napoli nel novembre del 1548, «anno primo dopo i tumulti di questa città» (p. 34). 1 convitati fanno il gioco del re della fava. Tra le testimonianze di questo gioco, figura il Capitolo I in viaggio di Mattio Franzesi: «la voce fa va [è] cosî spiegata in nota nello stesso libro di rime burlesche, che riproduce il capitolo del Franzesi {Secondo libro delle open burlesche ecc., Firenze, 1555, p. 453): TAutore intende della cena solita farsi la notte dell’Epifania, nella quale si taglia una torta in tante parti quanti sono i convitati, e quello di loro viene acclamato re della compagnia, a cui toccô quel pezzo di torta nell’orlo del quale sta nascosta una fava”> (cfr. 1’Introduzione di A. G reco a I. B onfadio , Le letten e una scrittura burlesca, Ed. critica con introd. e commento di A. G., Roma, Bonacci, 1978, pp. 9-41: 35-36).

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«ragionamento» di Padre Arculano) : nell’‘economia’ del discorso di intrattenimento le materie ‘alte’ e quelle ‘basse’ si pongono su uno stesso livello, senza distinzioni gerarchiche, per cui a un discorso politico sulle differenze tra monarchia e tirannide e a un elogio della verità, possono seguire le lodi delle donne e le lodi paradossali della fava e del vino. II discorso sull’asino puô darsi, come si diceva, solo in «stile asinesco». L’adozione delle modalità asinine di scrittura da parte del locutore si attua attraverso un procedimento di allusione e rovesciamento parodici di alcuni punti nodali del dibattito teorico cinquecentesco170. L’insofferenza per le «regole» del genere epidittico si traduce nell’opzione per una scrittura libera, estemporanea, e ancora una volta la materia asinesca viene richiamata a giustificazione del disordine formale e dell’eccedenza della materia: Ma ecco, Signor Re, che mentre entrava con queste sottiltadi di voler contrafar gli oratori nel genere demostrativo, per andar d’intomo a questo mio asino per gradi, come essi fanno, ancor io diventava asino da buon senno; e s’io - per tal cagion - riuscissi Arcasino, mi terrei felicissimo. Onde, lasciando di voler lodar questo asino al modo ch’essi lodano le lor bestie, rompendo le catene de l’irregolate regole del dire con le quali quasi m’era impregionato, e saltando senza cavezza e senza mosseruola da palo in frasca (per più conformarmi con parole asinesche a 1’asinissime lode di Messer l’Asino, il quai asinilmente m’ha trafisso dun pensier asinesco, nel qual tutto intento come asino a le verdi erbe de l’asinità), mi stava asenegiando, alorché Vostra Maestà mi richiese, anzi mi comando, ch’io volessi dir quel ch’avea in zucca per la osservanza de li istituti fatti per V. M. favale, si come in tal sera si costuma ab antico. (p. 82) La tecnica addizionale delle digressioni è in effetti praticata da Pino in forme cosi estreme che addirittura un semplice riferimento allé zucche chiamate dai medici ‘asinine’ potrebbe originare un elogio della zucca concorrenziale con la Zucca di Doni. Soltanto la remora di annoiare gli uditori

170 Ad es. per giustificare lo «stile asinino> si ricorre alia nozione di decorum: «Vo’ si ben protestarmi che, dovendo parlar de l’asino, non parlarô se non al modo asinile, per star più su il decoro del ragionamento» (p. 43). D concetto è ribadito più avanti in un passo che chiama in causa polemicamente le teorie linguistiche del Bembo: «E perch’el parlare è de l’asino, vo’ che le parole siene altresî tutte d’asino, né mi vo’ sottoporre al giogo de 1’altrui idioma, perché o non servarei il decoro, o volendo parlar altramente ch’ho imparato qua in Regno, non m’intravenga come a colui che da una vecchiarella fii cognosciuto che non era d’Atene, perché si sforzava troppo di parlare al modo atenese. E oltra di cio, in questo ragionamento non è presente il Bembo, né questi altri censori de la lingua che possano dirmi: - Dovevi dir cosi e cosi - » (p. 59). (Ricordo che l’aneddoto ciceroniano di Teofrasto era anche nella dedica del Cortegiano\ cfr. C astiglione, U Libro del Cortegiano cit., p. 10).

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«col tanto cicalare» trattiene Padre Arculano daU’irrefrenabile desiderio di proferire alPintemo del ragionamento suirasino un ragionamento sulla zucca; in ogni modo egli non rinuncia a delineare gli argomenti che a grandi linee dovrebbe svolgere il discorso e a rinviare a una sua operetta, il Passatempo, che «distinatamente tratta di queste zucche»: [...] de le quali vi ragionarei a lungo, s’io non credessi darvi noia col tanto cicalare; e vi direi che differenza è fra le cocoze napoletane e le zucche toscane, e quante spezie di esse si trovano - secondo l’oppenion di Democrito, di Teofrasto, di Catone, di Colomella e d’i modemi e vi direi come unte d’oglio si torcono e con l’acqua si slungano, e che significano li fior gialli e bianchi che fanno; e al fin fine vi farei veder una notomia ch’ho fatta d’una Zucca rotonda, d’altro garbo de la notomia del Vessalio: e vi farrei toccar con mano come le zucche son chiamate magazino del sale, e come non puô star bene una casa o una Republica ch’abbia le zucche vote di sale; e in ultimo, forse, la vi farei campaggiar dinanzi gli occhi non con manco riputazione de la Zucca del D o n i . Ma ragioneronne forse in un’altra conversazione, s’accaderà, e vi mostraro quel mio libretto chiamato il passatempo, il quai - secondo me - disti­ natamente tratta di queste zucche: opra scritta a richiesta di Madonna schifa-il-poco. (pp. 122-23) Dietro il gioco formale, il piacere delle sperimentazioni, il gusto della materia bizzarra, questo testo, al pari dell*Asinesca Gloria, propone attraverso le lodi dell’asino un modello antropologico e comportamentale altemativo all’ideologia ufficiale del classicismo ipercodificato. In questo senso è da interpretare la polemica contro la soluzione linguistica proposta dal Bembo, il rifiuto delle poetiche e la consequenziale opzione per la nature Ma a tale proposito il Ragionamento svolge un altro tema nodale non ancora messo a fiioco: Toperetta, certo con leggerezza e come «per burla», ma non per questo con meno efficacia, propone un modello umano da contrapporre a quello propagandato dal sistema classicistico delle corti. Esso non è simboleggiato dall’asino, come si potrebbe pensare, ma da un «onocentauro», con il quale Pino intende rappresentare la commistione della natura umana con quella asinina. Al di là del gioco, legato alio statuto iperbolico delfelogio, per cui il «mirabilissimo e raro individuo» (che ha nome di «Arcasino»171) puô ottenersi soltanto con la congiunzione di uomo e asino, viene riproposta la 171 «O forse dimostrano queste due nature: la umana, dico, e la asinile, de le quali si fa la composizione dun mirabilissimo e raro individuo, chiamato A rcasino » (p. 4 0 ); «la mistura di queste due nature, la qual da’ modemi - con più brevi parole di che essi soglion godersi - è stata pronunziata sotto questa voce: A rcasino, mostrante un uomo od un prencepe che sa in detti e in fatti usar queste azzioni, secondo i luoghi e secondo i tempi» (p. 80).

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lezione machiavelliana, recepita nei suoi aspetti più paradossali. I paradossi del Principe - che si riassumono nel célébré enunciato che «a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e luomo» e neirimmagine mitica di Chirone centauro che «nutre» Achille - travasati nello spazio burlesco vengono sottoposti a un’operazione di abbassamento e stravolgimento comici. Del resto, sulle modalità in cui si attua il recupero machiavelliano agisce senz’altro la tecnica del distacco ironico con cui l’autore gestisce la congerie delle citazioni; nondimeno, nel testo rivive, seppure in modo stravolto, rimmagine del «savio» machiavelliano in grado di discendere nel basso e nell’animalesco per avéré un «riscontro» con la natura172: Macchiavelli non niega che li grandi del mondo, non debbiano aver queste due parti del savio, dico, e del matto, o per dirla più chiaramente de l’uomo, e de la bestia. E dice che questo par ch’accennassero i poeti, quando dissero ch’Achille fii dato per discepolo a Chirone, il quai era mezo uomo e mezo bestia, a tal ch’egli ancora imparasse come dovesse govemare i suoi popoli e reggere suo stato, usando a tempo l’una e Paîtra qualité di natura; dico quella de l’uomo e quella de la bestia, o per meglio dir, de l’asino, il quai per le antedette cause è conforme a la natura de luomo più dogni altra natura d’ogn’altro animale. E se si dicesse che la bestia di Chirone era cavallo e non asino, non so come si potrebbe difendere, essendo manco del capo ch el possea determinare. (p. 79) Anche nella sezione finale del Ragionamento viene più volte riproposta la figura mitica dell’«Arcasino»: la discesa nell’asino, senza abbandonare del tutto la natura umana, è propagandata come garanzia per il conseguimento del «grado suppremo della felicitade»173. L’invito agli amici presenti a «inasinire, meschiando [...] l’accioni di queste due nature» si lega a suggestioni provenienti dal mito delletà dell’oro: «perché non è dubbio che nel mondo 172 La citazione nell’operetta di Pino di una tematica centrale nella riflessione di Machiavelli è una conferma di come le suggestioni più paradossali del suo pensiero siano accolte proprio da testi marginali rispetto alia produzione della cultura dominante; come osservava Giulio Ferroni: «Ma il fatto che il ‘savio’ machiavelliano abbia bisogno dei contrari, che scopra la pari validité dei livelli ‘inferiori’ e di quelli ‘superiori’, dell’alto e del basso, deH’ uomo’ e della ‘bestia’, costituisce in ogni caso una effettiva rottura della compattezza dell’ideale umanistico e cristiano, introduce nella riflessione antropologica un elemento rivoluzionario, una spinta paradossale che trovera seguito solo in settori extravaganti della cultura italiana e sarà completamente lasciata cadere dalla cultura ufficiale, del resto duramente impegnata a contestare e condannare in blocco l’opera politica del segretario fiorentino» (G. F erroni, «Mutazione» e «riscontro» nel teatro d i M achiavelli e altri saggi sulla commedia del Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1972, p. 25). 173 Cfr. pp. 166 e 170-171.

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ritomarebbe la età de l’oro, se ciascun si sforzasse d’esser uomo e asino, o li Prencipi inasinissero o almen gli asini regnassero» (pp. 166-167)174. Cosi l’operetta, dopo un percorso disgregato nelle infinite deviazioni, si conclude circolarmente, in perfetta simmetria con l’inizio. II paratesto, infatti, dopo un’immagine (affiancata da un sonetto che ne offre la chiave di lettura)175 e un sonetto di Niccolô Franco al Pino, présenta una dedica «A li Signori Asini» dove si elogia lo «stato asineo» come modello di una société non oppressa paradossalmente da quelle «bestialesche voglie» che hanno provocato la rovina di grandi civiltà. La «Republica» degli asini si configura come repubblica ideale dove non esistono la tirannide, l’ambizione, il concetto di propriété («ogni cosa v’è comune»), l'avidité, il desiderio di ricchezza, la guerra. Con un recupero di termini tecnici machiavelliani si lodano i «savi»

174 Costante degli elogi paradossali è il riferimento al mito dell’età dell’oro (su cui cfr. infra, cap. 2, pp. 140-41, n. 91); riferimento che dimostra come sui nostri testi agissero suggestioni provenienti dalla scrittura utopiense. O w io il rinvio all’ed. italiana, cui contribuirono Lando come traduttore e Doni come promotore della stampa, dell 'Utopia di Moro (il volgarizzamento, La Republica nuovamente ritrovata, del govemo delVisola Eutopia, usd nel 1548, preceduto da una lettera doniana a Girolamo Fava). Si veda L. Firpo, Thomas More e la sua fortuna in Italia (1976), in Studi sull'utopia, Raccolti da L. F., Firenze, Olschki, 1977, pp. 31-58. Su Lando e YUtopia cfr. anche R. Scrtvano, Ortensio Lando traduttore d i Thomas More (1972), in Id., La norma e lo scarto. Proposte per il Cinquecento letterario italiano, Roma, Bonacci, 1980, pp. 139-49; S. S e id e l M enchi, Ortensio Lando cittadino d i Utopia: un esercizio d i lettura, in La fortuna delV«Utopia» d i Thomas More nel dibattito politico europeo del *500. II giomata Luigi Firpo (2 marzo 1995), Firenze, Olschki, 1996, pp. 95-118. Sul Mondo savio e p azzo di Doni e su altri testi utopici cfr. L. B o lz o n i, Le città utopiche del Cinquecento italiano: giochi d i spazio e d i saperi, «L’Asino d’oro», iv (1993), 7 (Le città immaginarie), pp. 64-81 e C. R iv o le tti, Le metamorfosi delVutopia. Anton Francesco Doni e Immaginario utopico d i metà Cinquecento, Lucca, pacini fazzi, 2003. 175 L’immagine présenta al centro una testa d’asino e ai vertici quattro piccole teste di re. Corne suggerisce il sonetto posto a lato, capovolgendo l’immagine, la figura centrale diventa una testa di re e le piccole figure ai vertici delle teste di asino. In realtà la decifrazione offerta dal sonetto sembra limitare le suggestioni provenienti daU’immagine, fomendo un’interpretazione in chiave satirica della figura del re-asino, da intendersi in riferimento polemico al viceré spagnolo. L’immagine appare più densa di significati rispetto al testo esplicativo; il gioco del rovesciamento potrebbe alludere alla vicinanza degli opposti, all’idea che ogni cosa puô essere se stessa e il suo contrario; o anche alla nécessita della metamorfosi e del passaggio tra l’umanità e l’asinità, anticipando, cosi, il messaggio del Ragionamento. Inoltre il motto: «Poco vedete et parvi veder molto», con il verbo ‘vedere’ in funzione semanticamente pregnante (cioè ‘capacità di vedere oltre le apparenze’) potrebbe indicare che solamente al «savio», la cui ‘vista’ pénétra oltre l’esteriorità, non fermandosi ai significati attribuiti dall’opinione comune, è dato rinvenire nel ‘basso’ i sensi più autentici del reale; su questa xilografia cfr. O rdine , Asinus portans mysteria cit., pp. 63-64. L’immagine, oltre ad essere stata riprodotta nell’ed. Casale del Ragionamento, figura anche nella sezione iconografica allegata in O rdine , La cabala delVasino cit., p. 208.

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asini che grazie air«asinil prudenza» hanno creato «bonissimi ordini» che ‘assicurano’ da qualsiasi assalto di fortuna. Difficile misurare, a causa della esiguità delle notizie biografiche a disposizione, il ruolo di Pino nella storia della codificazione di una topica del discorso in lode delFasino. Da un lato l’ipotesi avanzata da Manzi della distruzione pressoché immediata delle copie del Ragionamento («in esecuzione della Prammatica vicereale»176) e in parte anche la pubblicazione delloperetta nel Regno di Napoli, per altro a Capua e non a Napoli (la stessa Napoli, del resto, se come capitale di uno stato régionale rappresentava un’area editoriale non certo periferica, era pur sempre lungi dall’esercitare quel ruolo di richiamo e di attrattiva di fatto svolto da Venezia, centro delleditoria e della produzione che a noi intéressa177), inducono a considerare piuttosto inconsistente il suo lascito. DalPaltro, l’amicizia con Niccolô Franco (che avrebbe potuto fare da tramite per la conoscenza dellopera di Pino fiiori del Regno di Napoli) e anche alcuni evidenti punti di contatto con XAsinesca Gloria (che, stante la datazione attualmente ipotizzata per il Ragionamento, dovrebbe essere successiva) potrebbero indurre a pensare che loperetta avesse una sua eco. 4. Comunque si siano svolte le cose, il fatto è che nel canone polemico (precedentemente citato) degli autori modemi lodatori di asini, redatto da Adriano Banchieri nella Nobiltà delVasino, il Pino non viene menzionato178. 176 P. M anzi, Annali d i Giovanni Sultzbach (Napoli 1529-1544 - Capua 1547), Firenze, Olschki, 1970, p. 106 (è il Manzi, p. 105, che ha individuato nel tipografo Giovanni Sultzbach lo stampatore del Ragionamento); cfr. la Nota sul testo dell’ed. Casale cit., p. 175. 177 Cfr. Q uondam , La letteratura in tipografia cit. (in particolare pp. 573-87). 178 La nobiltà delVasino d i Attabalippa dal Peru Prouincia del Mondo novo, Tradotta in lingua Italiana. Nella quale dopo Vhaver descritta la natura del Leone, e delValtre Bestie più famose, preferendo a tutte VAsino, con stfaceto e piacevole discorso si raccontano tutte le suefaculté, propriété, virtu, e eccellenze, che 7 Lettore con suo gentil piacere, senza noia A sinesca, apprende a pieno lutilità, g li agi, e le commodité, che ritrarre sipossono dallAsiNO. Con la Tavola d i tutte le cose più notabili. In Venetia, Appresso Barezzo Barezzi, 1592 (I ed. 1590). Da notare che la marca tipografica della tipografia Barezzi, un serpente tra le fiamme che morde una mano uscente dalle nuvole, con il motto: «Si deus pro nobis quis contra nos», richiama Timmagine descritta da Doni (Timpresa XI) nella lettera al Marcolini da Noale, che contiene la lista di alcune nuove imprese da comporre: «Una mano alla quai vi sia appiccatosi una Serpe, e la morda: e che questa Serpe esca d’alquanti rami di Arbore che abrucino, e il motto sia tale. Quis c o n tr a nos?» (Tre libri d i lettere del Doni.., In Vinegia, per Francesco Marcolino, 1552, p. 372). Sempre nel 1592 la Nobiltà delVasino esce anche a Pavia, presso Andrea Viani. Banchieri, monaco bolognese, musicista, fii autore (sotto lo pseudonimo di Camillo Scaligeri della Fratta) di svariate operette ‘piacevoli’, tra le quali i Trastulli della Villa distinti in sette giomate dove si legtmo in discorsi e ragionamenti novelle morali, motteggi arguti, sentenze politiche, hiperbolifavolose, casi seguiti, vivaci proposte e rime piacevoli, proverbi significanti, essempi praticati, paradossifaceti, dettifilosofici, accorte risposte. Curiosité dramatica..., Bologna, Mascheroni, 1627 e la Novella d i

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Ma ormai siamo sul finire del secolo, a quarant’anni di distanza dall’edizione del Ragionamento, di cui efFettivamente poteva essersi persa ogni traccia179. Nell’ultimo decennio del Cinquecento, Banchieri puô contare su una topica asinina consolidatasi nel corso di più di mezzo secolo, che egli riusa sottoponendo a dilatazione narrativa gli aneddoti e gli exempla. Già dalla «Tavola delle cose notabili» si puô osservare come nella Nobiltà delVasino siano raccolti tutti i più noti loci communes*, ne riporto alcuni: «Asino mangia d’ogni cosa senza farvi difFerenza alcuna: è parcissimo nel vivere: è patiente e Faticoso - Asino non récusa peso alcuno e è in ogni parte buono - Non cura le bastonate: è amatore della pace [...] - Non patisce né genera pedocchi - Non ha fiele in corpo - È specchio di patienza - Sua constantia - Asini adoprati in vece di cavalli alla guerra. Et da Bacco e da Vulcano contra i giganti - Asini co’ 1 lor ragghiar Fan Dario vittorioso degli Scithi - Quanto gran prezzo siano valuti in diversi tempi - L’utile che ci apportano co’ lor escrementi, e membri anco dopo morte - Came d’asini saporita [...] - Fegato d’Asini; L’unghia, lo stereo, il latte a che vaglia, e s’adopri - Dell’ossa d’Asini si Fanno zampogne - Asino scaccia il veleno del scorpione - Nell’unghia d’Asino serbasi ’1 veleno freddissimo - Figura d’Asino posta fra le stelle - Asino haver lasciato e posto il suo nome a diversi luoghi, fiumi, frutti, giochi, e Famiglie, ecc. - Asino ha la voce e il ragghio di melodia musicale - Cieco nato che bramô veder più tosto un Asino che altra cosa - Proverbij nati dall’Asino». Nel testo, prima dell’elogio dell’asino figurano cinque capitoletti dedicati ad altri animali eccellenti che potrebbero competere con l’asino per il titolo di animale più perFetto: il cane, il leone, il cavallo, la scimmia, l’eleFante. In efFetti l’operetta è tesa a dimostrare corne l’asino sia il più eccellente animale esistente in natura; nella perorazione, inFatti, con una protasi ricapitolativa si opta per «dar la sentenza in Favore dell’AsiNiNA specie», dichiarandola la «più nobile di tutto quanto il rimanente delle specie delle bestie che si trovano in terra, non che del Cane, del Cavallo, della Scimia, del Leone, e dell’EleFante» (p. 69).

Cacaseno figlio del semplice Bertoldino, Bologna, Cocchi, 1641 - «una continuazione del Bertoldo e del Bertoldino di G.C. Croce» (cfr. la voce redatta da O. M ischiati per il DBI). 179 Ma il fatto che Banchieri non citi Pino non costituisce una prova che egli non conoscesse il testo. Anzi esso potrebbe costituire la fonte principale e proprio per questo restare occultato. A me sembra che soprattutto nell’ed. ampliata della Nobiltà delVasino i debiti di Banchieri nei confronti di Pino siano evidenti (possibile anche, ma si tratta solo di un’ipotesi indimostrata, che Banchieri abbia potuto leggere il Ragionamento solo in un successivo momento e se ne sia giovato per le aggiunte introdotte nella riedizione, dove per altro scompare il proemio «agli Asineschi lettori» in cui si leggeva il riferimento ai ‘precedenti’).

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Il che è già sufficiente a dimostrare il cambiamento di prospettiva rispetto allé scritture asinesche della metà degli anni Cinquanta. La lode dell’asino non è più uno strumento retorico per dichiarare il proprio antagonismo e per proporre modelli umani di comportamento altemativi. L’esaltazione delle ‘virtù’ asinesche non assume più la fisionomia di un esercizio iconoclastico e irriverente nei confronti della doxa. La Nobiltà dell'asino non propaganda valori come l’imbestiamento, la discesa nell’animalità, la metamorfosi asinina, forme di accesso a un’antropologia diversa. L’asino, anche se nobilissimo, resta pur sempre un animale, separato dalla sfera dell’umano; il discorso asinesco non mette in discussione la distinzione gerarchica di humanitas e feritas, non promuove un’‘ideologia’ centaurica, contraria aile categorie etiche ufficiali180. Del pari, scompare anche la tensione sarcastica, l’ironia beffarda, l’atteggiamento irrisorio delle scritture asinesche della metà del secolo: la polemica contro i pedanti, i falsi savi, i potenti insipienti, quasi sempre trasmessa attraverso l’uso dell’antifrasi, che all’intemo del regime encomiastico genera l’ambiguità dell’improwiso e inatteso rovesciamento semantico, è annullata dal prevalere del divertissement disinteressato. Si perde anche il gioco contraddittorio scaturito dall’impiego di una strategia definibile come ‘retorica’ dell’ironia, contrassegnata dalle modalité aggressive con cui si gestiva la tecnica della citazione abnorme, dello sfoggio erudito, esibito con distacco derisorio e sottoposto ad alterazione comica e caricaturale: gioco attraverso cui passava, del resto, la portata satirica dell’operazione e il conflitto ideologico in atto nel testo. Anche nella lode dell’asino di Cesare Rao, su cui tomeremo nel terzo capitolo, si perde la componente antagonistica comunicata dalla metamorfosi asinesca; come emerge dalla protasi dell’esordio, Rao vuole mostrare che l’asino è il più eccellente animale: «Io donque (acciô che un cosî eccellente, e degno animale non resti privo delle dovute lodi) sforzarommi, per quan­ to si stenderà il mio potere, di far conoscere al mondo, che questo nobile Animale mérita fra tutti gli altri il Principato»181. E nell’epilogo ribadisce il valore epidittico del suo discorso, volto a rovesciare, mostrandone la falsità, un’opinione comune: «Mosso io adunque in parte da questo particolare, ho 180 E infatti l’invito finale, rivolto a «coloro, i quali vediam o giom alm ente innasinire di maniera, che in ogni loro operatione si sforzano d ’imitar gli Asini», di «instituire una com pagnia, che si chiamasse la compagnia de i Briganti dell’Asino, i quali fossero tenuti da portar al collo una medaglia, dove fosse scolpita l’imagine dell’AsiNO, acciô potessero esser conosciuti» (pp. 69-70), non mi pare che vada oltre alla convenzionalità tipica dell’epilogo (gli elogi si concludono, infatti, quasi sempre con un om aggio al taudandum , con un invito o a trasformarsi in esso o a tenerlo nel dovuto rispetto). 181 Rao, L ’a rgu te, e tfa c e te lettere cit., c. 92r.

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voluto prendere questa fatica per dimostrare a coloro, che odiano questo animale, e aborriscono il suo nome, quanto dalla falsa opinion restan ingannati, con la quai io spero, che raveggendosi mutaranno proposito» 182. Tuttavia, sul piano stilistico la lode di Rao non si allontana dai discorsi asinini precedenti; si puô pensare che essa rappresenti un anello intermedio nella catena delle scritture suU’asino, tra i testi degli anni Cinquanta e un testo tardocinquecentesco come la Nobiltà dell’asino. Come abbiamo osservato in precedenza, è lo stesso Banchieri a dichiarare nel proemio una netta presa di distanza dai ‘precedenti’ sia sul piano ideologico che su quello stilistico. L’elogio diventa, a detta dell’autore stes­ so, una burla asinesca: basti ripensare allé parole, già citate, dÆ Apologia dei Sermoni (con cui Ortensio Lando, nella finzione dello sdoppiamento di persona, aveva difeso l’autore per la serietà della sua operazione, cioè innalzare cio che appare inutile e ridicolo) per afferrare in pieno il radicale cambiamento di prospettiva. II bando delle citazioni dalle Sacre Scritture, per esigenze di adeguamento all’ondata di moralizzazione seguita agli orientamenti restrittivi della stagione postridentina, segna un notevole distacco e dall’ironia stilistica e dalle strategie del dissenso adottate dai ‘precedenti’, dal momento che con l’eliminazione dei riferimenti biblici viene meno la tipologia della citazione maggiormente connotata in senso morale. Con la Nobiltà dell’asino, dunque, l’elogio assume la morfologia di ope­ retta piacevole, che mira al diletto dei lettori, appagandone la curiosità; un’operetta che fa sfoggio di erudizione (confermato non solo dall’elevato numéro delle citazioni ma anche dalla puntualità con cui vengono offerti al lettore i rimandi bibliografici183) in modo leggero e mai noioso, riportando le testimonialize di auctores dell’antichità, ma anche di scrittori modemi (ad esempio viene menzionato Vincenzo Cartari); un’operetta che intrattiene piacevolmente il lettore con gustosi aneddoti, storielle, con riferimenti esotici (tratti ad esempio da opéré di cosmografi, a dimostrazione che ogni tipo

182 Ivi, c. 103r. 183 Per fàre solo qualche esempio: «Oltra di ciô egli [l’asino] non ha fiele in corpo, come

per la Anatomia chiaramente appare, senza che si riportiamo, né chiamiamo per testimonio Aristotele, che lo confessa nel quarto libro delle parti delli animali» (p. 24); «Testifica Plinio, che un asino fvi venduto una quantità grandissima de scudi, che hora non mi sovengono a memoria, ma ciascuno se ne puô chiarire leggendolo nel libro settimo delle sue naturali historié» (pp. 34-35); «Marco Polo nel primo libro del suo viaggio al gran Can nel Cattaio al Cap. xi parlando de i regni della Persia, dice. In questi regni sonvi ancora Asini li più belli, e li maggiori, che siano al mondo [...]» (p. 35).

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di sapere, se esibito con piacevolezza, puô contribuire a fomire materiali dilettevoli) e con l’inserzione di versi184. Le intenzioni dell’autore appaiono con maggior evidenza nell’edizione ampliata della Nobiltà dell'asino, sin dal frontespizio, in cui si dice che l’operetta è stata accresciuta di «moite cose non solo piacevoli, curiose, et di diletto: ma nottabili, et degne d’ogni asinina lode»185. All’aumento della piacevolezza, in questa nuova edizione, concorrono inserzioni di immagini186, aggiunte di aneddoti, exempla, curiosità e proverbi, allusioni a fittizi poeti burleschi, citazioni di versi di poeti contemporanei187, digressioni narrative facete introdotte a spiegazione di alcuni particolari. Compaiono anche problemata\ ad esempio «Quando l’Asino ha pisciato per­ ché alza la testa, e mostra i denti» (c. 11»); «Per qual cagione dove piscia un Asino, gli altri fano il medesimo» (c. 12/). Le due questioni mostrano 184 Nel sottolineare i cambiamenti verifîcatisi nel corso dei decenni nelle modalità di cornposizione delle operette paradossali mi sono awalsa della linea emersa in C herchi, Polimatia d i riîdso cit., dove si ricostruisce l’evoluzione che ha interessato il rapporto degli scrittori con l’erudizione nel corso del Cinquecento. 185 La nobiltà delVasino d i Attabalippa dal Peru. Riformata da Griffagno delli Impacci, et accre­ sciuta d i moite cose [...] Dedicata alla Sublime A ltezza, la Sig.m Torre delli Asinelli. E t in ultimo aggiuntovi d i nuovo L a Nobile, e Honorata Compagnia delli Briganti dalla Bastina Compositione d i Camillo Scaligeri dalla Fratta, In Venetia, Appresso Barezzo Barezzi, 1599. 186 A cominciare dal frontespizio, dove figura un’immagine con al centro, in alto, un asino con la corona, seduto su un trono, e ai due lati un cavallo e un elefante; poco più in basso, partendo da sinistra, un cane, un leone e una scimmia; gli animali esibiscono spartiti musicali (si tratta della vaga musica degli asini), mentre l’asino-re mostra uno spartito con su scritto «Ragghiate meco». Sotto il trono un’iscrizione: «Questo è un Canon dal nostro Re composto / Per cantarsi di maggio alla campagna, / Che s’udirà d’appresso, e da discosto». All’intemo del testo, quando si parla del talento musicale dell’asino, c è un rinvio aU’immagine: «Prima dall’opere [che l’asino è «Musico eccellente [...] ve lo faccio manifesto in tre modi»], delle quali se ne vede una in istampa, ch e posta nella prima facciata di questo libro; che cantandosi s’ode un’armonia, et un concerto veramente Asinesco» (c. Ylv). L’immagine è riprodotta nell’apparato iconografico in appendice a O rdine , La cabala delVasino cit., p. 201. Nel retrofrontespizio compare l’immagine della Torre degli Asinelli (la dedicataria dell’edizione accresciuta). Un’altra immagine è, per es., all’inizio della «Seconda parte»: ancora una volta un asino-re, con la corona e lo scettro, a cavallo di un elefante, e con una scimmia aile sue spalle che lo copre con un parasole; un cane con un tamburo conduce il corteo, seguito da un leone e un cavallo. 187 Si citano alcuni versi di Cesare Caporali, autore delle Piacevoli rime (numerose le edizioni a partire da quella milanese del 1585; Banchieri potrebbe aver présente l’ed. veneziana, Le piacevoli rime d i M. Cesare Caporaliperugino. Con una aggiunta d i moite altre rime,fa tte da diversi ecceïllentissimi e belli ingegni\ In Vinegia, presso Giorgio Angelieri, 1589 o quella ferrarese del 1590 per i tipi del Mammarello): «Secondariamente si pruova [che l’asino sia un «Musico eccellente»] per auttorità de’ scrittori degni di fede, fra quali il Signor Giulio Cesare Caporali, Poeta famoso de’ nostri tempi, canto della nobilissima spetie in questo tuono. Era di maggio, e gli Asin Pegasei [...]» (c. 17?;).

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una vicinanza con un «problema» incluso nel quarto libro della traduzione della Silva di Pietro Messia ad opera di Francesco Sansovino, pubblicata nel 1564: «Perché de cavalli e de gli asini, il maschio fiutando dove haverà pisciato la femina alza la testa, e mostra i denti»188. Le risposte fomite da Banchieri non corrispondono aile soluzioni ‘scientifiche’ esposte nella fon­ te; nella «burla asinesca» si offre una spiegazione fantasiosa e faceta, con il riferimento giocoso alla mitologia. Un esempio, questo, di quanto si affermava in precedenza, ossia che anche una produzione scientifico-letteraria, come i Problemata, in cui questioni morali e naturali venivano affrontate in modo dilettevole, poteva contribuire all’elaborazione dei materiali asinini. E in effetti altri due «problemi» raccolti da Sansovino costituiscono la materia di due topoi asineschi, relativo l’uno alia resistenza fisica dell’asino, l’altro alla sua frugalità: «Onde viene, che l’asino senta manco le battiture, che non fanno gli altri animali»; «Onde viene, che i cavalli bevendo tuffino la testa neU’acqua fino a gli occhi, et gli asini lo tocchino solamente con l’estremità delle labra»189. La natura dilettevole e burlesca dell’operetta è ribadita nella conclusiva «Licenza di Griffagno delli Impacci alii letton», dove il ‘revisore’ e responsabile dell’accrescimento del testo si augura che in futuro «si ritrovi qualch’altro gentil’humore, che si metta a lodare le Vache, i Bechi, o qualch’altro cornuto Animale, che se ne trovano pur di moite specie, anco fra Noi, le quali daranno materia di raccontar’Historie, favole, burle e passatempi piacevoli, et gratiosi» (c. 44/). E in effetti già qualcuno aveva seguito l’esempio di Attabalippa dal Perù, cui Griffagno delli Impacci riconosce infatti il merito, se non altro, di aver

188 Cit. da C herchi, Polimatia d i riuso cit., p. 217. Il IV libro della Selva volgarizzata da Sansovino - come osserva Cherchi - non costituisce la traduzione del IV libro che Pietro Messia aggiunse nella redazione del 1550, ma un’aggiunta attribuita a un «autore sconosciuto»: si tratta in effetti di un duplice plagio; il «problema» che a noi intéressa fa parte della sezione plagiata dai Problemi naturali e morali di Girolamo Garimberti (1549). Sull’opera di Garimberti cfr. ivi, pp. 127-41 (in particolare pp. 138-41) e Id ., Il quotidianoy i «Problemata» e la meraviglia cit., pp. 260-62; sulla traduzione-plagio di Sansovino, Id ., Polimatia d i riuso cit., pp. 216-24. 189 Ivi, p. 220. Anche questi due «problemi» fanno parte della porzione di testo plagiata da Garimberti. A proposito del modo di abbeverarsi, nella lode dell’asino di Cesare Rao c’è anche corrispondenza lessicale con il titolo del «problema»: «Sono tanto gentili, e costumati nel bere [...] che a pena toccano l’acqua con la sommità delle labra, cosa che non fa il cavallo, il quai bevendo tuffa talhora la testa nell’acqua fin presso a gli occhi» (L !argute, etfacete lettere cit., cc. 93z>-94r). Nella Nobiltà delVasino per presentare questo dato si ricorre all’inserzione di versi: «ma nel bere è ancora costumatissimo, il che fii molto ben notato dal nostro Poeta, quando disse. Forse che com’il Cavallo da furfante / Tuffa il cieffo nel bere: a pena tocca / L’acqua; tant’è costumato e galante» (ed. 1592, pp. 2 0 -2 1 ).

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sollecitato un altro ingegno a tessere le lodi di un animale altrettanto nobile, il porco: «Ma voglio ben dir questo, che volentieri ho durato questa Asinesca fatica, vedendo, ch’il buon’huomo se non havesse fatto mai altro, è stato pur cagione di risvegliare un bello intelletto, c’ha fatto conoscere al mondo la grandeccellenza del Porco, et provatola con autentiche, e unte ragioni» (c. 43^). Pare proprio che qui il Banchieri si riferisca all’Eccellenza et trionfo del porco, elogio paradossale composto da Salustio Miranda, pseudonimo di Giulio Cesare Croce, uscito a Ferrara nel 1594190. La Nobiltà delVasino vuole porsi, quindi, come esempio per una nuova produzione di scritture in lode di altri animali: come a dire che il debito nei confronti delTasino era stato ormai estinto. La topica asinina, raccolta e sistemata nelle forme del ‘piacevole, si offre, dunque, al lettore come godibile operetta destinata al suo diletto: alia fine del Cinquecento il tema dell’asino poteva contare su una piccola e gustosa ‘enciclopedia191, che conteneva tutto cio che poteva essere detto sul nostro animale, esibendo una serie di notizie e dati eruditi conditi da un'inventio burlesca, fondata sull’impiego dei dispositivi atti airintrattenimento. In ogni caso Banchieri non si esimeva dal ripetere, come i suoi ‘precedenti’, Tiperbolico topos delTinfinità della materia: Ma per raccogliermi hormai concludo, che delle sue tante honorate qualità degne di lode, non ho raccontato una particella, per esser si fatte e tali, che chi raccoglier le volesse tutte, sarebbe un voler ridurre l’acque del mare in un picciolo vaso, e un pigliar impresa di contendere con l’infinito. (ed. 1592, p. 36)192

190 Sulla vastissima produzione dello scrittore bolognese, per lo più ascrivibile al filone della letteratura popolare e burlesca, nonché per l’elencazione dei cinque capitoli in cui è ripartita la materia deU’Eccellenza e trionfo del porco, cfr. la voce redata da L. Strappini nel D B l 191 La struttura enciclopedica è visibile nella distinzione dei materiali in diversi paragrafetti, rinvenibile al di là delle digressioni narrative; tale ripartizione è più évidente nella seconda parte che si articola attraverso la successione di diverse sezioni: ad es. quelle dedicate allé ‘virtù’ terapeutiche e cosmetiche dell’asino, all’onomastica e alia toponomastica (con le suddivisioni in luoghi, città, fonti, monumenti), ai giochi, aile feste e ai proverbi. 192 Questo passo è nella conclusione della prima parte; nell’ed. 1599, invece, il topos è inserito nell’esordio e unito d\\'excusatio propter infirmitatenv. «Veramente io confesso di esser basso a tanta altezza, e indegno a tanta dignité, di dire Teccellenza, la preminenza, e la nobiltà dell’Asino: Qua vi bisogna la Tromba d’Homero, overo la Lira d’Orfeo; ma dico poco; s’io havessi cento lingue, e altretante bocche, con una voce di ferro, o di bronzo, non sarei pur bastevole a dire la millesima parte de i preggi, e delle lodi di questo mirabile, e stupendo Animale> (c. 8t>).

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Scritture in biasimo della scrittura 1. Come si diceva, la tipologia delle «scritture in biasimo della scrittura» rimanda all’area tematica delle «lodi dell’ignoranza»193; l’aggressione, perô, contro la letteratura nelle sue forme più dirette e materiali di trasmissione, cioè la scrittura e il libro, si carica di una più intensa tensione paradossale; l’autoreferenzialità dell’operazione, destinata a non uscire dai limiti della chiusa e ripetitiva ‘circolarità’ del serpente che si morde la coda, amplifica, di certo, il gioco della contraddizione. Invero, questa tipologia non si présenta quasi mai in forma ‘pura’: nei testi la condanna della scrittura si coniuga sempre con la condanna del sapere in generale; la distinzione tra «lodi dell’ignoranza» e «biasimo della scrittura» è quindi prevalentemente di natura formale, rinviante cioè aile duplici categorie epidittiche della «Iode» e del «biasimo». Ancora una volta, l’architesto per il «biasimo della scrittura» è la declamatio di Agrippa, con la sua svalutazione radicale e aggressiva del sapere umano. Il De incertitudine et vanitate scientiarum si pone corne il monumento dello scetticismo di ascendenza paolina e agostiniana, recuperato in funzione antiumanistica: l’opéra propaganda una visione ascientifica di totale rifiuto delle forme di conoscenza perseguite con strumenti umani, nella compléta accettazione mistico-cristiana dell’unica e autentica verità della rivelazione divina a cui si puô accedere soltanto con la fede e lo studio delle sacre lettere. Un’istanza di ridimensionamento delle scienze umane che promuovono un sapere parziale e limitato percorre anche l’opéra di Erasmo: l’umanista olandese récupéra, rinnovandoli, i terni dello spiritualismo cristiano, e quindi l’idea protocristiana che il vero sapere si nasconde sotto un’apparente insipienza, idea a cui si lega l’interpretazione silenica del Vangelo e della stessa figura di Cristo, quale emerge nel célébré adagtum Sileni Alcibiadis. E infatti anche Erasmo, e soprattutto l’Erasmo dell’Elogio della follia, costituisce un importante punto di riferimento per questa tipologia di testi paradossali: anche l’orazione di Moria si fonda sulla convinzione cristiana che le scienze umane, ofiùscando la vera fede, allontanano l’uomo dalla primigenia félicita dello stato di natura essendo la beatitudine appannaggio dei semplici, degli ignoranti e degli innocenti. Topico a questo riguardo il célébré passo in cui Vauctoritas platonica viene citata a riprova dell’infelicità generata dall’inven-

1,3 Per le orazioni in Iode dell’Ignoranza di Giulio Landi e di Cesare Rao, cfr. infra, rispettivamente i capp. 2 (pp. 131-38) e 3 (pp. 176-83).

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zione delle scienze e dell’alfabeto194. Ma in Erasmo il ridimensionamento della cultura mondana non porta a un totale rinnegamento del valore degli studia humanitatis'. egli condanna le storture e le degenerazioni subite dalle pratiche erudite e filologiche (storture e degenerazioni stigmatizzate nel Ciceronianus) come anche l’arrogante presunzione dell’autosufficienza delle discipline umane ai fini della comprensione della verità195. I valori più alti della cultura classica anziché essere azzerati vengono piegati allé esigenze di una rinnovata pedagogia cristiana che si oppone alia separazione di evangelismo e humanae litterae, le quali possono essere reintegrate se subordinate al fine primo che è la fede e l’awicinamento alia parola di Cristo, comprensibile solo attraverso il paradosso. Ed è proprio la rinnovata conciliazione di fede e lettere, quale obiettivo ultimo del programma di riforma religiosa e culturale, a costituire il fondamento deH’Umanesimo cristiano promosso da Erasmo, nel pieno rispetto dei valori della concordia e della tolleranza contro ogni forma di dogmatismo. La cultura del dubbio, l’adesione al linguaggio silenico del Vangelo, la predisposizione conoscitiva al paradosso, su cui svolge un ruolo decisivo la rivisitazione cristiana della tradizione classica nella sua linea lucianeo-albertiana, diventano la ciffa del progetto educativo erasmiano, altemativo alla rigidità e alia chiusura della teologia scolastica. Ma più che la conciliante moderatio erasmiana, sono il radicalismo e l’estremismo delle posizioni di Agrippa a costituire il modello per eccellenza per alcuni dei testi italiani di cui ci occuperemo: è soprattutto il rigetto polemico dell’intera

194 Cfr. E rasmo da R otterdam, Elogio della follia, con un saggio di R.H. Bainton, tr. e note di L. D ’Ascia, testo latino a fronte, Milano, Rizzoli, 1999 ( laed. 1989), pp. 122-23. Come noto Erasmo fa riferimento al mito del Fedro (274c-275b) di Platone sull’invenzione della scrittura: essa, escogitata dal genio maligno Theuth, viene condannata dal savio re dell’Egitto, Thamos, come causa di dimenticanza per le menti dell’uomo, che fidando nei nuovi segni estemi e privi di vita perderà l’uso della memoria interiore. Come osserva Giulio Ferroni, nella con­ danna platonica della scrittura «che tanti echi, reazioni, paradossali consensi ha suscitato nella lunga storia di una cultura basata proprio sulla scrittura, è in piena evidenza il distacco tra il testo scritto e l’essere delTautore-padre, la verità della sua trasparente presenza: lo scritto è sempre al di là, fiiori della sostanza vitale; si colloca comunque “dopo” la manifestazione della verità e della memoria che aspiravano a trasfondersi in esso, e cosî le sottrae a se stesse, le imprigiona e uccide nella lettera, le traspone in segni di morte» (F erroni, Dopo la fin e cit., p. 4). La citazione erasmiana di Theuth (il dio ostile al genere umano, inventore delle scienze, causa della rovina dell’uomo) nonché l’ironica identificazione tra il termine greco daemon, cioè ‘sapiente’, e demone nell’accezione negativa della tradizione cristiana sono presenti anche nel trattato di Agrippa (cap. I) e, per tali tramiti, nel «paradosso III» di Ortensio Lando (Meglio i d'esser ignorante che dotto\ cfr. Paradossi cit., p. 107). 195 Cfr. G. F alcone, Pensiero religioso, scetticismo e satira contro il pédante nella letteratura del Cinquecento, «La Rassegna della letteratura italiana», LXXXVIII (1984), 1-2, pp. 80-116 (8399).

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esperienza culturale umanistica operato dall’autore tedesco a ispirare alcune delle pagine più aggressive delle scritture paradossali contro la cultura196. Per evitare generalizzazioni, occorre precisare che sotto accusa non è l’Umanesimo tout court, ma l’ideale laico e mondano della cultura che aveva animato 1’Umanesimo nella sua corrente più classicistica, fondata sulla valorizzazione delle discipline grammaticali e filologiche. Non a caso, allé spalle delle visioni antintellettualistiche che permeano i testi paradossali, oltre alia tradizione dello scetticismo cristiano assimilata dai due scrittori d’Oltralpe, si pone (come abbiamo notato all’inizio di questo capitolo) il Petrarca morale, agostiniano e antiaristotelico del De remediis utriusquefortune o del De sut ipsius et multorum ignorantiam . Una linea ‘ideologica’ consolidata dunque che consente di osservare che «la critica radicale alla letteratura, e in particolare alia poesia, in quanto attività culturalmente e moralmente compromesse con un magistero profano e pertanto inadeguate a esprimere la verità cristiana, si localizza, ben prima che nella cultura riformata, nel mondo umanistico, in Italia prima ancora che nel resto d’Europa»198. In tale direzione l’esempio umanistico più pertinente è dato senz’altro dal Progymnasma advenus literas et literatos di Lilio Gregorio Giraldi, composto a Roma negli anni Venti ma pubblicato solo più tardi, nel 1551, a Firenze, in appendice al De poetis nostrorum temporum. Lo scritto, indirizzato a Giovan Francesco Pico, si awale della lezione albertiana del De commodis litterarum atque incommodis, recuperandone la visione pessimistica della contraddittorietà delle lettere: la prospettiva anticiceroniana che lo ispira si condensa nel rifiuto di molti miti deH’Umanesimo e della separazione tra res e verba, rifiuto a cui non sembra estranea un’istanza evangelica di ritomo al cristianesimo incontaminato delle origini199. II Progymnasma, oltre a presentare dei punti di contatto con l’erasmiano Elogio della follia, dal nostro punto di vista si dimostra di particolare interesse perché vi compare la rassegna delle infelicità e sventure che colpiscono i letterati, sezione destinata a diventare topica, appunto, nelle scritture paradossali contro la scrittura200.

m Cfr. ivi, pp. 105-16. 1.7 Per l’influenza che il De remediis esercita sulla produzione landiana, cfr. supra, pp. 1013. 1.8 C orsaro, Git spazi e g li interventi dei letteratifra la Riforma e il Concilio cit., p. 7. lw Cfr. D. R omei, Tre episodi d i un dibattito minore: Giraldi, Ariosto, Bemi, in Id ., Berm e bemeschi del Cinquecento cit., pp. 5-47 e R. A lhaique Pettinelu , Tra antico e modemo. Roma nel primo Rinascimento, Roma, Bulzoni, 1991 (pp. 9-62). 700 La rassegna delle sventure e delle morti infelici è presente anche in un altro scritto che présenta dei punti in com une con il Progymnasma, il De litteratorum infelicitate di Pierio

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Spostandoci sul versante della letteratura volgare, un altro testo impor­ tante, sempre di ambiente romano e ugualmente composto negli anni Venti (fra il ’25 e il ’26), a cui non si puô non fare riferimento, è il Dialogo contra ip o eti di Berni. L’attacco all’inutilità della poesia si précisa nella condanna della produzione poetica latina curiale: l’operetta, mostrando di recepire alcuni motivi della polemica erasmiana, si scaglia contro il neopaganesimo eretico, che contamina pericolosamente una poesia che dovrebbe essere cristiana. Anche se a questa altezza l’influenza erasmiana è riassimilata sul versante dell’ortodossia, non essendo ancora maturati quegli esiti rapportabili all’evangelismo, originati dal tragico evento del sacco di Roma e consolidatisi durante il periodo Veronese di Bemi, quando sulle sue posizioni agiranno con sempre maggior peso le inquietudini del datario pontificio Giovan Matteo Giberti riguardo all’esigenza di una rinnovata religiosità, il Dialogo - in cui si awerte la presenza delle idee legate alio scetticismo verso il sapere, rifiltrate attraverso la condanna platonico-cristiana della poesia come strumento di corruzione e allontanamento dallo stato di natura - mostra con precoce chiarezza la convinzione della scissione tra poesia e verità nelle pratiche poetiche di corte e l’inconciliabilità di cultura classica e cristianesimo201.

Valeriano (1528), dove emerge il motivo dell’impotenza dei letterati di fronte al destino degli eventi storici, chiaramente ispirato dalla catastrofe del sacco di Roma. Per la differenza di prospettiva rawisabile nei due scritti, riguardo al tema delle disgrazie, malattie e morti - il Giraldi imputando le tragiche fini alla follia che ha spinto certi uomini a dedicarsi allé lettere, il Valeriano alla Fortuna che si accanisce proprio su coloro che sono dotati di ingegno e virtù - vedi P ettinelli, Tra antico e modemo cit., pp. 11 e 41-42. Sul De litteratorum infelicitate del Valeriano cfr. B. Basile, I! «De litteratorum infelicitate» d i Pierio Valeriano, «Filologia e Critical, xxix (2004), 2, pp. 318-29. 201 Cfr. A. C o rsa ro , Il poeta e Veretico. Francesco Bem i e il \'Dialogo contra i poeti\ Firenze, Le Lettere, 1988. Per i debiti del Dialogo contra ip o e ti del Bemi con la Satira VI di Ariosto, la quale puô ascriversi «al primissimo momento di riflessione della cultura italiana intomo al labile prestigio della civiltà dell’umanesimo», cfr. Id ., Per una lettura delle «Satire» delTAriosto cit., pp. 33-34. Sul Dialogo e sui rapporti con il Progymnasma e la Satira VI ariostesca, nonché per le convergenze di questi testi con le epistole de imitatione di Giovanfrancesco Pico indirizzate al Bembo, cfr. Romei, Tre episodidi un dibattito minore cit. Per le ambiguità nell’adesione da parte del Bemi al programma gibertino di severa riforma morale cfr. Id ., Il ‘Comento alia Primiera d i Francesco Bemi: un enigma interpretativo, in Cum notibusse et comentaribusse cit., pp. 49-55. A proposito dei letterati che collaborarono al programma di riforma religiosa del Giberti, vorrei ricordare che uno tra essi, Marcantonio Flaminio, revisore - come già osservato - del Beneficio di CristOy esponente dell’evangelismo italiano e convinto assertore della giustificazione per sola fede, lascia trasparire nelle sue lettere l’atteggiamento riformato di svalutazione paolina della sapienza mondana: «V.S. aspettava forse qualche longo discorso di Platone o d’Aristotele; ma io non voglio altro maestro che Iesu Christo crucifisso, il quale è scandalo alii Giudei et stoltitia alii savii del mondo, ma agli eletti è potentia et sapientia di Dio et salute etema di ogni fedele»: lett. a Giovanni Francesco Anisio del 1540-41, in M. Flam inio, Lettere, a c. di A.

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2. Passando ad autori più vicini per cronologia, per esperienze culturali e per rapporti personali, agli scrittori dei testi paradossali che prenderemo in considerazione in modo più disteso, vale a dire Ortensio Lando e Anton Francesco Doni, sono particolarmente due i nomi che mette conto citare: Pietro Aretino e Niccolô Franco. La lettera aretiniana datata 1° marzo 1540, indirizzata a Giovanni Alberto Albicante, e pubblicata nel secondo libro delle Lettere, présenta in estrema sintesi lo stesso schema che verra adottato nella landiana Sferza\ con veemenza sarcastica e con spirito iconoclasta Aretino non risparmia gli auctores greci, latini, volgari, nonché i padri della Chiesa, tutti causticamente etichettati202. Se nella Pistola della lucema di Franco, in particolare nella sezione dedicata ai pedanti e ai grammatici, riprendendo le stesse argomentazioni di Agrippa, è denunciata con sarcasmo l’inutilità delle discipline grammaticali e filologiche, attraverso un satirico elenco delle questioni fiitili e vacue in cui si affanna vanamente la genia degli studiosi203, è con il Dialogo VII dei suoi Dialogi piacevoli (pubblicati, come anche le Pistole vulgari, a Venezia nel 1539) che, dietro lo schema lucianeo, prende corpo l’elenco delle miserie e dei vizi della «maledetta stirpe», cioè i poeti, secondo la consueta tecnica della reiterazione dello stesso modulo204. Invece dal punto di vista formale, una vera e propria paradossale «scrittura in biasimo della scrittura» proviene da un ambiente diverso da quello veneziano, ossia quello della corte e delle accademie romane: è la lettera Pastore, Roma, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, 1978, pp. 107-09 (108); e cfr. anche l’analogo passo nella lettera a Gerolamo Seripando, del 15 luglio 1539, pp. 75-82 (81). 202 Cfr. P. P rocaccioli, Per Ortensio Lando a Venezia. In margine alia recente edizione dei «Paradossi», «Filologia e Critica», xxvn (2002), 1, pp. 102-23, in cui si ipotizza, nel contesto di considerazioni svolte in margine al rapporto tra i due scrittori, che, nonostante la Sferza sia posteriore all’epistola aretiniana, «sia stato Lando a mettere a disposizione di Aretino i suoi materiali», osservando altresî che «se Aretino risulta debitore a Lando della materia della Sferza, nella stessa occasione il trattatista con buona probabilità ha modellato (in parte almeno) la sua figura e il suo ruolo di “sferza degli scrittori” sulla figura e il ruolo del “flagello dei principi”» (pp. 120-22). Procaccioli aveva avanzato questa ipotesi già in G.A. A lbicante, Occasioni aretiniane (Vita d i Pietro Aretino del Berna, Abbattimento, Nuova contentione), Testi proposti da P. Procaccioli, Manziana (Rm), Vecchiarelli, 1999, pp. 143-44, n. 8 , e più dettagliatamente in Lo scrittore alVabaco. La partita doppia d i Pietro Aretino, in Cinquecento capriccioso e irregolare cit., pp. 149-72 (150-51). Per il testo della lettera cfr. P. A retino , Lettere, t. II, libro II, a c. di P. Procaccioli, Roma, Salemo Ed., 1998 (vol. IV dell’Ed. Nazionale delle Opéré di Pietro Aretino), pp. 190-91: è la lett. n. 168. Il nesso umanesimo («pedanteria»)-eresia è esplicito nella lettera al cardinale di Ravenna, Benedetto Accolti, del 29 agosto 1537 (è la lett. n. 178, ivi, t. I, libro I, a c. di P. Procaccioli, Roma, Salemo Ed., 1997 [vol. IV dell’Ed. Nazionale delle Opere di Pietro Aretino], pp. 260-62). 203 Cfr. F alcone, Pensiero religioso, scetticismo e satira contro il pédante cit., pp. 105-06. 204 Per i prelievi àÆ Officina di Jean Tbrier de Ravisy cfr. il commento al Dialogo VII in N. Franco, Dialogi piacevoli, a c. di F. Pignatti, Manziana (Rm), Vecchiarelli, 2003, pp. 275-90.

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di Annibal Caro a Marc’Antonio Piccolomini, scritta nel 1541 e pubblicata l’anno successivo nella raccolta Manuzio delle Lettere Vilgan dt diverst nobilissimi huomini et eccellentissimi ingegni scritte in diverse materie205. Una lettera per la quale Doni mostrô un tale entusiasmo da scrivere nella Libraricr. «Ditemi: la lettera che egli [Caro] scrive in biasimo dello scrivere, non è ella divina?»206. Loccasione della lettera è data dal disagio per il gravoso onere segretariale dello «scriver lettere». Frequenti nelle epistole cinquecentesche le lamentele per la fatica dello «scriver lettere» per ‘professione’: cosl accanto all’entusiasmo bemesco per la scrittura epistolare come «sfogamento di cervello»207, c e il fastidio per lo scrivere forzato del segretario208. Inviso, ad esempio, quasi fosse una malattia, una piaga dannosa e nefasta, a Bernardino Boccarini, segretario di Rodolfo Pio, che si meraviglia che Bemi non abbia scritto un elogio paradossale sullo «scriver lettere» (alla maniera delle lodi della peste o del debito): Or io non voglio più scrivere, che horamai sono stracco, e mi vien voglia di mandare il cancaro allé cifre, alTambasciarie, aile segretarie, e anche alla carta, inchiostro, penna, et calamaro. Io credeva bene, che fusse fastidio a scrivere troppo, ma non una morte: e credo, ch’io diventarô un di d oro. 205 Su Caro cfr. infra, cap. 2, pp. 115-18. Marc’Antonio Piccolomini, Accademico Intronato, con il nome di Sodo, figura come interlocutore nel terzo dialogo dei D ied Paradosse (su cui vedi supra, pp. 14-17): cfr. la nota di commento di A. Greco (I, pp. 216-17, n. 1), nell’ed. cit. infra, n. 2 1 2 . 206 D oni, La libraria cit., p. 77. Ma anche Tasso espresse il suo apprezzamento nel Cataneo overv de le condusioni amorose'. «Danese Cataneo: Già io lessi quel che dal Caro, stanco dell’officio suo, fu scritto in questo argomento, nel quale egli essercitô le forze del suo maraviglioso ingegno» (T. T asso , Dialoghi, a c. di G. Baffetti, introd. di E. Raimondi, 2 voll., Milano, Rizzoli, 1998, II, p. 862). 207 Cfr. la lettera di Bemi a «M. Agnolo Divitio» [Angelo Dovizi], Protonotario Apostolico (datata Roma, 2 novembre 1522): «e più pare, che e vi sappia male, che io vi scriva spesso, et lungo, dite non so che per parentesi (tanto sono le tue) o di gratia non mi togliete questo sfogamento di cervello: che egli è il maggior passatempo, che i habbia. diavol fa, ch’io sia senza voi: e anche non possa cicalare a mio modo con le carte, scrivendo quel che mi viene a bocca. m’havete data poca allegrezza, vi so dire, e pregovi per amor d’Iddio, lasciatemi fare: che questo, et haver lettere da voi spesso, mi servono per antidoto: se voi non mi scriveste, e io non potessi scrivervi, pensate, come mi troverei: e non è mai ben di me, se non quel di, che mi son portate inanzi lettere da voi. né giucare, né ber vino Romanesco, né sorte alcuna di buona cera, ha forza di farmi stare allegro, quanto quelk»; la lettera si puô leggere in Lettere facete e piacevoli d i diversi grandi uomini e chiari ingegni, Zaltieri, 1561 (rist. anast. a c. di S. Longhi, Bologna, Fomi, 1991): lett. II, pp. 11-21 (20). 208 Cfr. 1’Introduzione (pp. v-xxiv) di S. L onghi, ivi, pp. xvn-xvni, che sottolinea come nel caso di Bemi «insieme con l’allegrezza, sono proprio lo scrivere e il ricevere lettere che funzionano da antidoto ottimo contro la peste» (xvn).

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e ognun non è come voi Segretari di Roma, che havete buona schiena, e con una lettera finite uno spaccio. Mi maraviglio, che il Berni non habbia fatto un Capitolo in laude di questa galantaria di scrivere. ma potreste ben voi raccordar destramente a M. Bino, che si ricordasse di dime un motto su quel suo libro, che fa del perfetto Segretario209. Giulio Ferroni ha sottolineato come nella lettera del Caro la condanna della scrittura si dia attraverso una creazione utopica, che non nasce perô da un’autentica istanza di rinnovamento sociale, confinandosi nello spazio deirevasione disimpegnata. L’immaginazione di un mondo senza scrittura, «dove i rapporti sociali non sono regolati da norme, dove ogni scambio awiene per comunicazione spontanea», nasce come parentesi edonistica all’intemo di una dimensione integralmente cortigiana, che non viene messa in discussione da un’intenzione polemica tradottasi in programma letterario. Caro reagisce alia stanchezza del segretario con un «sogno paradossale. Sogno senza spazio, chiuso nel breve giro di una lettera e di una scrittura che esso stesso condanna, ma che solo in essa puô nascere»210. Anche la lettera di Caro, come è naturale, présenta punti di contatto con la pagina dell’Encomium moriae poco prima ricordata: la citazione dal Fedro di Platone, la rappresentazione del mondo senza scrittura e senza scienze come stato di natura, libero dalle afïlizioni, dai travagli, dall’infelicité che il sapere produce. Caro mostra cosl la propria disponibilité ad assorbire spunti provenienti da esperienze letterarie attraversate dalla cultura del paradosso e della contraddizione, anche se poi con ogni probabilité ne respinge la portata eversiva recuperandole in una dimensione puramente edonistica. L’«umanité schietta delleté dell’oro», richiamata nel passo erasmiano come immagine simbolica di uno stato di natura, di un’esistenza perfetta immune dalle miserie indotte dai saperi, nelfimmaginazione cariana diventa la «sbracata vita» priva di fastidi, preoccupazioni, molestie, condizione ideale per il sorgere di una conversazione spontanea e amicale. Lo sfogo del segretario stanco e disilluso che cerca una compensazione divertita muovendo «guerra allé lettere con una lettera»211 emerge in un passo in cui i vantaggi di una société senza scrittura sono individuati anche nellassenza della corrispondenza epistolare, che stravolge vanificandolo ogni tentativo di comunicazione interpersona-

209 Cfr. ivi, p. 349; è la lett. CXXVII (datata Rouen, 4 aprile 1535). 210 Sono frasi di un inedito scritto cariano di Giulio Ferroni, che costituiva la seconda parte

del saggio Lettere e scritti burleschi d i Annibal Caro tra il 1532 e il 1542, «Palatino», xn (1968), 4, pp. 374-86; lo ringrazio per avermene fatto dono. 211 G. F erroni, Tra lettera fam iliare e lettera burlesca, in La Lettera fam iliare, «Quademi di Retorica e Poetica», i (1985), pp. 49-55 (55).

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le; la condanna platonica della scrittura come fissazione in segni inanimati della vitalità e della ‘presenza del discorso diventa condanna della scrittura epistolare, contrassegnata da uno scambio (per altro materialmente limitato da ritardi e smarrimenti) di oggetti-simulacro (le epistole) in cui non resta alcun residuo della vita dello scrivente: Non saremmo ingannati, e mal serviti da le lettere, le quali non possiamo mai si bene ammaestrare, che in mano di chi vanno, non ne riescano sempre scimunite e fredde, non sapendo né replicare, né porger vivamente quel che bisogna, né awertire la disposizione e i gesti di chi le riceve, come fa la lingua, il viso e l’accorgimento de l’uomo. E nel tomare, o quando da altri ci vengono, come di quelle che sono bugiarde, e senza vergogna, non ci possiamo assecurare, che non ci rispondano o più o meno, o non ci nieghino, o non ci domandino con più audacia, che non farebbono in presenzia di colui che le scrive. Moite volte non s’intende quel che elle dicono; non sanno dove si vadano, si fermano, si smarriscono, sono intercette per la strada, non vanno dove sono mandate, né ritomano dove sono aspettate, e cosi bene spesso non ci fanno il servigio, dove da noi medesimi faremmo ogni cosa meglio212. La lettera prosegue con una condanna del sapere, di cui si denuncia l’incertezza, l’inutilità, il danno; non manca l’attacco a ‘legulei’ e medici, secondo topoi che i nostri testi avevano ereditato dalla tradizione. L’awersione per le scienze si abbandona, poi, a una sorta di edonismo liberatorio, che si condensa in un’immagine di purgatio naturale che dissolve, purificando il mondo, tutti i materiali e i segni convenzionali che garantiscono la trasmissione dei saperi: Imaginatevi, che bella purgazione del mondo sarebbe, se si potesse evacuare in un tratto de’ registri, de’ ricettarii, di tanti libri, libretti, libracci, leggende, scartafacci, cifere, caratteri, numeri, punti, linea, e tante altre imbratterie, e trappole che ci assassinano, e ci impacciano il cervello tutto giomo. (p. 225)

212 A. C aro, Lettere fam iliari, ed. critica con introd. e note di A. Greco, 3 voll., Firenze, Le Monnier, 1957-1961,1, pp. 220-28 (223-24). Le lamentele per l’evenienza che una lettera non giungesse a destinazione, a causa delle difficoltà materiali in cui aweniva la corrispondenza epistolare, erano piuttosto frequenti tra gli scrittori cinquecenteschi di lettere. Considerazioni al riguardo, in riferimento aile strategie comunicative in atto nella produzione epistolare ufficiale’ di Machiavelli, in G. F erroni, La struttura epistolare come contraddizione (carteggio private,, carteggio diplomatico, carteggio cancelleresco), in Niccolô M achiavellipolitico storico letterato. Atti del Convegno di Losanna (27-30 settembre 1995), a c. di J.-J. Marchand, Roma, Salerno Ed., 1996, pp. 247-69 (251-53).

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Sul finire, anche se il tono continua ad essere giocoso, il discorso assume una prospettiva ideologicamente forte: la scrittura viene condannata come negazione della libertà; l’atto dello scrivere annulla la possibilité della contraddizione e del mutamento perché fissando la realté neirimmobilità delle lettere esercita una pressione violenta e tirannica sullo scrivente stesso. In altre parole, lo scrivere, che nella sua separazione irreversibile si costituisce come alterità rispetto alla mutabilité del soggetto, puô anche ritorcersi contro chi lo produce: Volete ch’io vi dica, che io credo che questa bestiaccia de lo scrivere faccia peggio al mondo, che non fa quel vituperoso de l’onore? 213 Lasciamo stare tutti gli altri disagi, e disordini che ci vengono da lui, e diciamo per una cosa d’importanza, che egli ci priva de la propria liberté. Percioché se noi diciamo una cosa, siamo in arbitrio nostro di disdirla, se la vogliamo una volta, possiamo un’altra volta non volerla; ma scritta che l’abbiamo, va di’, che possiamo non averla scritta, o non volerla. Che se ben ci toma in pregiudicio, se ben ce ne pentiamo, se ben siamo stati ingannati, e che ce ne vada la robba e la vita, bisogna, che noi facciamo, quel che abbiamo scritto, e non quel che vogliamo, e che giudichiamo il nostro meglio. (p. 226) La portata ideologica di tali affermazioni risulta con più evidenza se esse si leggono in rapporto alla politica culturale classicistica orientatasi verso il «primato della scrittura»214; la poetica classicistica nobilita la scrittura proprio per gli stessi motivi per cui Caro la condanna: la riforma bembesca del sistema letterario italiano, determinando una divaricazione radicale tra la ‘scrittura’ («fissité / éternité») e la ‘voce’ («vitalité immediata dei bisogni pratici / precarieté temporale e spaziale»), sublima la scrittura proprio per il suo status di spazio separato, autosufficiente, resistente «ai segni dell’oralité, aile sue metamorfosi» 215.

213 II riferimento al «vituperoso onore» costituisce anche un rinvio intertestuale alla produzione burlesca (capitoli in «disonore dell’onore» di Mauro) e soprattutto alla lettera di Aretino contro l’onore «A Malatesta mastro di stalla de le Muse» (Venezia, 21 dicembre 1537), su cui cfr. infra, cap. 2, pp. 107-08. 214 Secondo il titolo del classico saggio di G. M azzacu rati, Pietro Bembo e il primato della scrittura, in Id., Il rinascimento dei modemi rit., pp. 65-147. 215 Ivi, pp. 114 e 145. Giustamente Ferroni nel saggio inedito prima menzionato cita un passo tassiano tratto dal dialogo U Cataneo overo de le conclusioni amorose, in cui lo scrittore utilizza (con esplicito riferimento a Caro, corne osservato poco sopra) le stesse argomentazioni platoniche e poi cariane per elogiare la scrittura; in esso, ad es., si dice che «la voce afferma e niega, e spesse volte è contraria a se medesima e commossa per timoré e per amore e per odio e per misericordia, e da tutte le passioni è agitata; ma le lettere, che sogliono esser scritte

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Awiatasi la lettera verso la conclusione, l’interruzione del discorso di biasimo è affidata a un riferimento metatestuale: è l’autore stesso a svelare le contraddizioni implicite neH’atto di scrivere contro lo scrivere: «lo mi sento di fare una lunga intemerata de’ suoi mancamenti, ma l’odio che gli porto, gli toma in beneficio, percioché non lo fo, per non capitarli a le mani» (p. 227). La citazione autoironica delle motivazioni che rendono necessaria la sospensione del discorso (prolungando la scrittura si finisce con il fare il suo gioco, mostrando come essa sia indispensabile) svela l’inattuabilità di una scrittura contro la scrittura, che non puô esistere se non come un assurdo: ancora una volta la scrittura rivela la sua autosufficienza separandosi dalle intenzioni dello scrivente. 3. Al di là degli esiti paradossali cui approda la lettera, nell’idea cariana della letteratura agisce un’insofferenza nei conffonti delle soluzioni bembesche giudicate troppo anguste alia luce di una prospettiva eclettica216. Come è naturale, anche nei testi che prenderemo in considerazione più da vicino, oltre che allé implicazioni evangeliche e spiritualistiche, presenti in diversi gradi e con diverse sfiimature, la svalutazione della scrittura risponde anche ad istanze polemiche sul piano propriamente culturale. Il disagio nei confronti deU’imposizione di un canone standardizzato si unisce a un rigetto per 1’uniformazione e a una sensazione di sazietà nei conffonti del sistema letterario. Il topos terenziano del «tutto è stato detto»217 viene vissuto con una coscienza critica dei tratti costitutivi della cultura contemporanea, strutturalmente fondata sull’estensione totalizzante del principio dell’imitazione dei modelli. II senso di logoro, di trito si unisce quindi a un’insofferenza nei conffonti di un sistema letterario (il classicismo) per il quale la comunicazione estetica, fortemente normatizzata, è sostanzialmente ripetizione del già dato; insofferenza che coinvolge anche la stampa, il mezzo che aveva con animo quieto e vacuo da le perturbazioni, dimostrano non l’animosità ma la verità, e sempre sono conformi a se stesse: quel ch’affermarono una volta affermano continuamente, usano nei negare la medesima costanza, fanno presenti i lontani e quasi vivi i morti: e questa vince ogni altra maraviglia» (T asso, Dialoghi cit., II, p. 865). 2,6 Cfr. E. G aravelli, «Perché Prisciano non facet ceffb». Ser Agresto commentatore, in Cum notibusse et comentaribusse cit., pp. 57-77 (in particolare 57-60 e 74). 217 T erenzio, Eunuchus, 41. Ripetuto ad es. da Agrippa, insieme con l’altra topica citazione AslXEcclesiaste (I, 9-11): «Finalmente è sentenza di Terenzio che nulla ora si dica che prima non sia stato detto, e cost per aventura cosa fatta non è che prima non sia stata fatta [...]. Di questo medesimo non ragionô egli l’Ecclesiastico, quando disse: “Che è quello che già è stato, ciô che già fu fatto? Che è quello ch’è stato fatto? Quello che s’ha da fere. Nessuna cosa è nuova sotto il sole, né alcuno puô dire: ‘Ecco che questa cosa è nuova’, che già è stato ne i secoli che fiirono inanzi noi [...]» (Della vanità cit., pp. 500-01).

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materialmente reso possibile la riproduzione infinita dell’omologo. Una sorta di dichiarazione programmatica della saturazione del dicibile e dell’impossibilità della scrittura se non come ripetizione del già detto è contenuta nella già citata Apologia che chiude i Sermonifunebri di Ortensio Lando. Se infatti la prima parte dell 'Apologia offre un elenco ipertrofico di scrittori che si sono dedicati ad argomenti ‘bassi’, la seconda introduce un altrettanto ipertrofico elenco in cui si enumerano scrittori di diverse discipli­ ne (storici, grammatici, elegiaci, medici)218. La lista, che potrebbe continuare all’inffnito («Non voglio per ora scorrere in ogni professione»), è costruita attraverso l’iterazione di domande retoriche che traducono la consunzione irreversibile dello spazio letterario («Ma quai sorte d’historia doveva egli trattare che tocca e ritocca abondevolmente non fusse? [...] e che li restava più di scrivere volendo darsi all’istoria [...] doveva egli scrivere nella grammatica essendoci anchora vivi i scritti di [...]. Dovevasi egli dar al far delle Elegie per far concorrenza a [...]. Non è hoggidî pieno ogni luogo de Comici, de Tragici, de Iambici, de Epigrammatarij, de Lirici e Mimographi poeti?»219). L'Apologia, dunque, nella sua natura bipartita si dà come esempio del relativismo prospettico di cui si carica la scrittura landiana attraverso l’uso della comunicazione paradossale, retoricamente addestrata alia persuasione: se prima infatti si fa appello alia tradizione per giustificare la scelta di un soggetto ‘frivolo’, poi, senza alcuna transizione, la prospettiva puô essere rovesciata: la tradizione stessa è chiamata in causa per dire che non è rimasto nulla di cui scrivere, se non appunto di quelle «umili creature» innalzate dall’autore. Macroscopiche e, come dire, troppo evidenti per essere segnalate, le contraddizioni che nascono da testi che vogliono comunicare il disagio nei confronti di una civiltà letteraria condannata alia ruminatio dello stesso materiale, riproposto infinite volte: critica dell’eccessiva produzione di libri da parte di scrittori che proprio per la loro prolificità sono stati a lungo etichettati come ‘poligrafi’; critica della letteratura come ripetizione da parte di cultori del ‘riuso’, talvolta praticato nelle forme estreme del plagio; critica della saturazione provocata dalla stampa da parte di letterati il cui lavoro si caratterizza proprio per lo stretto rapporto con un’industria editoriale in crescente espansione220. Sicuramente divertente e suggestivo, ma piuttosto 218 L’elenco è costruito sulla falsariga di van capitoli deNOfficina di Ravisio Testore; cfr.

C herchi, Polimatia d i riuso cit., pp. 120 - 2 2 . 219 Lando , Sermonifunebri cit., cc. 35r-36w 220 Del resto la contraddizione è insita anche all’intemo della stessa riflessione sul fenomeno della produzione libraria. Per l’ambivalenza landiana, che si dà quale vero e proprio programma di scrittura, cfr. infra. Quanto a Doni, non è infrequente rinvenire nei suoi testi

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inutile, rimarcare la catena delle contraddizioni, per altro evidentissime e esibite con il consueto gusto del paradosso e della provocazione. L’operazione critica, del resto, pur corrosiva e graffiante, prende le mosse dall’intemo del sistema classicistico stesso, e quindi non puô essere svolta che con gli strumenti messi a punto da quel sistema, sebbene essi siano poi riutilizzati in modo non ortodosso. In più, le modalità ironiche e autoironiche del discorso svelano esse per prime le contraddizioni e Tambiguità dei testi. Le tecniche narrative possono essere diverse; ad esempio La sferza de9scrittori antichi e modemi di Lando, come vedremo, ci offre due esempi: la dissociazione tra il locutore e l’istanza autoriale, con l’immissione della figura sdoppiata delTautore nel contesto stravolto della critica déformante, e Tespediente del sogno come occasione narrativa, sorta di alibi, «legittimazione della trasgressione»221, preliminare awertimento al lettore della «capricciosa bizzaria»222 che troverà dispiegata alTintemo del libro. Eppure, proprio attraverso tale procedimento di ‘riduzione ironica e paradossale diventa predicabile cio che è impredicabile e si puô mettere in atto la sowersione più radicale. Diventa possibile, ad esempio, colpire al cuore il classicismo (ma anche lortodossia religiosa) aggredendone il principio produttivo e fondativo, cioè il principio dautorità. Cosî, ad esempio, gli ultimi «paradossi» di Ortensio Lando, contro Boccaccio, Aristotele e Cicerone, vengono a demolire le strutture portanti di quella tipologia culturale: si colpisce quel sistema nella sua istanza normativa più caratterizzante (paradossi contro Aristotele), nel suo processo di standardizzazione linguistica (paradosso con-

entusiastiche affermazioni sul valore del libro e della stampa. Ad es. la lettera a Iacopo de’ Nores («Contin di Tripoli»), con data 13 luglio 1552 (lettera di dedica, con cui si âpre il libro III dei Tre libri d i lettere), inizia con un elogio della stampa come unico mezzo in grado di contrastare l’azione corrosiva del tempo: «Ogni memoria che è scolpita ne i nosti [j/r] ricordi humani, tosto si cancella, perché di giorno in giorno, d’anno in anno, e di punto in punto, ci risolviamo in nulla. Perô si trovô un modo dalla Natura (che fu lo scrivere) di far che l’oblio non se lo dévorasse cosi tosto: Ma il tempo ingordo non acconsentl, talmente che spesso spesso, si smarrivano gli scritti, e si cancellavano i Pitaffi, Alla fine l’Arte s’uni con la Natura, e trovô la Stampa, e si fece fare il privilegio dal Tempo; Onde, corne fa la Primavera, la si rinova, perché del continuo si ristampano gli scritti, et corrono il Benefitio dell’Etemità. I libri dico che son dotati di cosa che ’1 Mondo, il Tempo, la Natura, e l’Arte se ne contenu» (p. 259). Sulla concezione doniana del libro a stampa corne «una sorta di “grande memoria” che custodisce immagim prelevate dal macrocosmo in tempi ben più ampi della singola vita umana», cfr. R iv o le tti, Le metamorfosi dellutvpia cit., pp. 124-28 (127). 221M asi, «Quelle discordanze stperfette» cit., p. 48; l’analisi si rivolge qui al «pretesto-tema» del sogno corne strategia narrativa sperimentata nelle opéré doniane del triennio marcoliniano, Zucca, Marmi, Mondi: si vedano le pp. 46-70. 222 Paulo Mascranico a lli cortesi letton, in Lando , Paradossi cit., p. 272.

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tro Boccaccio223), nella sua ‘anima’ imitativa simboleggiata dalle discussioni sul modello unico e ottimo (paradosso contro Cicerone224). Ecco con quale veemenza Lando si scaglia contro la tirannide del principio d’autorità: Non posso perô fare che gran piatà non abbia di chi si lascia cosi facilmente cattivare l’intelletto e legare il giudizio, di maniera che come si converebbe non discorra. Ma fu sempre questo un antico errore, e credomi introdotto fiisse dalla tirannia di Pitagora, il quale, non sapendo per aventura render ragione di cio ch’egli mostrava a’ suoi discepoli, voleva bastasse ch’esso detto l’avesse, senza altra ragione assegnare [...]. Quelli erano astretti dalla potenza e autorità del maestro ch’ebbe un ingegno tirannico, noi spontaneamente, come se l’intelletto nostro del tutto ocioso fusse, abbiamo messo il collo sotto il giogo ponendo in catedra questo animalaccio di Aristotele, dalle sue diterminazioni come da un oracolo dependendo, né accorgendoci ch’egli sia un buffalaccio, ignorantone, al tutto indegno di tanta riverenza e di tanto rispetto quanto gli è stato da’ sciocchi avuto225. E la citazione continua con una pagina in cui si denunciano gli ‘errori’ di Aristotele con la ripetizione anaforica del modulo «non errô egli [...]?> (incipit di una serie di domande retoriche): attraverso l’uso dell’anafora, inserita in una sintassi di tipo addizionale, l’eloquenza oratoria landiana si concentra sulla dimostrazione serrata della non autorevolezza della tradizione, ridotta a un accumulo di errori e mistificazioni. Per giunta i testi aristotelici (per altro nel paradosso precedente si nega la patemità aristotelica delle opere tramandate sotto il suo nome), su cui il classicismo aveva fondato tutta la sua elaborazione precettistica e normativa, sono anche ridicolizzati come accozzaglia di materiali mal scopiazzati qua e là da un Aristotele impegnato in maldestri ladronecci226. 223 Per «la possibilité di leggere il XXVII paradosso anche alla lettera» cfr. C orsaro , Ortensio Lando letterato in volgare cit., pp. 141-43 (143), che inquadra la polemica contro Boccaccio all’intemo dell’antitoscanismo landiano. 224Ciceroniana, invece, la formazione di Lando, come risulta dalla testimonianza della lettera di Giovanni Angelo Odoni a Gilbert Cousin, segretario di Erasmo: «A Lione ci ripeteva questo motto: “Chi legge una cosa e chi un’altra; a me piace solo Cristo e Tullio, Cristo e Tullio mi bastano”» (cit. da S eidel M enchi, Sulla Jbrtuna d i Erasmo in Italia cit., p. 566). II brano della lettera anche in A. C orsaro , Introduzione a L ando , Paradossi cit., pp. 1-25 (5-6). 225 Ivi, pp. 253-54 («paradosso XXIX»: Che Aristotele fusse non solo un ignorante ma anche lo più mahagio uomo d i quella età). 226 «Furacchiava poi da’ libri che comprava, e di pergameno in pergameno traportando, era di nécessité che infiniti errori si commettessero» (p. 255); «Va egli animosamente or questo or quello tassando per riempir il foglio, credendo forse per aver arso tanti buoni libri che li

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La stessa awersione per la soggezione incondizionata allé auctoritates era nella lettera al «lettore» del trattato di Agrippa, fonte largamente utilizzata da Lando227: Oltra di cio in molti, e quasi in tutti gli studi, è nato un costume, anzi dannosa usanza, che con giuramento astringono i discepoli, a i quali sono per insegnare di non contradire giamai ad Aristotele, o Boezio, o Tomaso, o Alberto, o a qualche altro suo scolastico Dio, da i quali se altri si discosta pure quanto è larga una onghia, subito lo chiamano eretico, scandaloso, offensivo delle orecchie pie e degno del fuoco. (p. 21)228 E poco più avanti, alia fine della lettera: «Oltra di cio fargli conoscere quanto sia empia tirannia confinare gli ingegni de gli studiosi ad alcuni auttori, e levare a i discepoli la libertà di speculare, e di seguire la verità» (p. 22). Come nel caso di Agrippa, anche nella polemica landiana contro l’aristotelismo confluivano quelle spinte eversive ed eterodosse sul piano religioso a cui abbiamo accennato in precedenza, quando ci siamo soffermati sugli apparentemente frivoli Sermonifunebri. Anche a proposito della lettura dei testi sacri, Lando fa proprie alcune istanze della teologia riformata: sul piano dell’esegesi biblica la sua opzione va alla lezione originaria da recuperare contro le letture, viziate dall’abuso del metodo logico, dei teologi cattolici. In un passo del «paradosso» contro Aristotele, l’insofferenza di matrice erasmiana nei confronti delle sofistiche interpretazioni delle scuole229, e l’esigenza di suoi fiirti non si avessero mai a scuoprire (p. 257); «Credo certamente che né ancora egli l’intendesse, per esser confiisi e rapezzati da vari scritti de antichi Greci» (p. 260). 227 Ma, ad es., già Petrarca aveva attaccato il principio di autorità nel De sut ipsius et muïtorum ignorantia. Penso che un’analisi approfondita del rapporto di Lando con la produzione latina in prosa di Petrarca, dalle opere morali e storico-erudite agli scritti polemici, potrebbe dare risultati interessanti. 228 Nel caso di Lando l’incontro con il trattato del filosofo tedesco dovette risalire a un’età anteriore al volgarizzamento italiano (da cui si è comunque citato, per comodità). Lando molto probabilmente conosceva il testo già durante la stesura dei Paradossi (A nonimo di U topia [O. L ando ], La sferza de’ scrittori antichi e modemiy a c. di P. Procaccioli, Roma, Vignola, 1995, p. 38, n. 1). Per la forte presenza dell’opera di Agrippa, compreso l’aspetto ebraico, cabalistico ed ermetico, negli scritti di Lando cfr. A dorni B raccesi, L uAgrippa Arrigo* e Ortensio Lando cit. 229 Contro le sottigliezze dei teologi si scaglia anche Doni nel Libro Secondo delle Letterr. «Sonci di questi theologoni da cucina, che hanno novanta anni, che fanno tragédie et biscantamenti, che io gli ascolto come pazzi egregii et non come spianatori della vita Christiana [...] et quando io do di cozzo in questi Scottish, Occamisti, Albertisti et Thomisti, e* mi bisogna studiar le pandette e paradoxare di echità, di quidità et di formalità. Ma io non la vincerei mai con questi arroganti; et come io sento sputar loro d’instanti, d’implicate et d’esplicate

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un ritomo all’autenticità del messaggio scritturale, sono espresse in modo diretto senza le consuete tecniche dissimulatorie230: Pensarono già alcuni fratocchi brodaiuoli non poter far meglio che invecchiare in tal lezione affirmando senza Aristotele non potersi intendere la Scrittura Santa, né mai aver uomo alcuno (per acuto che egli fusse) potuto intendere la materia della predestinazione congiunta col libero arbitrio. E cosî lasciavano il santo Vangelo, abandonavano la Bibbia per attendere a sogni di questo babuasso. Sopragiunse poi M. Lutero senza favore di Aristotele, senza soccorso delle formalità di Scoto, solo armato delle scritture santé a suo modo intese, e volse in fiiga tutti quelli reverendi

distintioni, io chiuggo la bocca, serro gli occhi, vôlto lor le spalle et vengo a scrivere a Vostra Beatitudine [Paolo III] che ci ripari, che s’ella va in lungo, sara danno della Sede Apostolica, della Christianità et dell’anime. Perdonatemi s’io scrivessi con poca riverenza: io son sforzato a dir che voi proveggiate che non salti su ogni di una setta di brodaioni, che ci caveranno un di gli occhi, rovineranno i bon costumi et corremperan la Chiesa* (cit. da M asi, «Quelle discordance si perfette» cit., p. 57, n. 146). L’elenco degli interpreti consacrati della Scrittura ricalca in parte l’erasmiano Elogio della follia: «E secondo me i cristiani darebbero prova di saggezza, se [...] spedissero contro i Turchi e i Saraceni gli Scotisti, fior di schiamazzatori, gli Occamisti, straordinariamente testardi, e gli invincibili Albertisti insieme all’intero battaglione dei Sofisti> (E rasmo, Elogio della follia cit., p. 191) e poco sopra: «Queste sottilissime sottigliezze le rendono poi ancora più sottili le tante scuole di teologi, sicché è più facile tirarsi fuori da un labirinto che non dalle complicazioni di Realisti, Nominalisti, Tomisti, Albertisti, Occamisti, Scotisti» (p. 187). Per le «tracce di orientamenti religiosi anticonformiste per lo più concentrate nel soggiomo fiorentino di Doni cfr. M. F irpo , G li affreschi d i Pontormo a San Lorenzo. Eresia, politica e cultura nella Firenze d i Cosimo I, Torino, Einaudi, 1997, pp. 196-203 (sulla lettera di ispirazione erasmiana, p. 199). Per il Libro Secondo delle Lettere del ’47 come raccolta che documenta, più di ogni altra opera doniana, le posizioni riformatrici dell’autore cfr. anche G. M asi, Interpolazioni editoriali e refasi d'autore: il Doni e rO ratio de charitate' d i Giovanni Nesi, «Studi italiani», i (1989), 1, pp. 43-90 (50-51). 230 In tale prospettiva è da ascrivere il Dialogo nel quale si rugiona della consolatione, et utilité, che sigusta leggendo la Sacra Scrittura, che Lando pubblico presso Andrea Arrivabene nel 1552. Sul Dialogo cfr. F alcone, Pensiero religioso, scetticismo e satira contro il pédante cit., pp. 106-07; per le eventuali implicazioni di Lando con la comunità dei ‘marrani’, fra Ferrara e Venezia, suggerite dalla dedica del Dialogo all’ebrea Beatrice de Luna e dalla presenza nel testo come interlocutrice di Lucrezia Gonzaga di Gazuolo (protettrice di Lando, a cui è indirizzata l’epistola di congedo dei Sette libri de' cataloghi, inquisita e costretta ad abiurare), cfr. da ultimo A dorni B raccesi, L'Agrippa Arrigo' e Ortensio Lando cit., pp. 107-08. Più in generale, per gli aspetti religiosi dell’opera di Lando e per i suoi rapporti con la teologia riformata (più precisamente con la teologia strasburghese ma anche con le dottrine antitrinitarie) cfr. gli ormai classici contributi di S eidel M enchi: Sulla fortuna d i Erasmo in Italia cit.; Spiritualismo radicale nette opere d i Ortensio Lando attomo a l 1550, «Archiv fiir Reformationsgeschichte», 65 (1974), pp. 210-77; Chif a Ortensio Lando?, «Rivista storica italiana», cvi (1994), 3, pp. 501-64 (dove viene proposta l’ipotesi di identificare Ortensio Lando con il propagandista eterodosso Giorgio Filalete detto il «Turchetto»).

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teologi aristotelici di Lipsia, di Lovanio e di Colonia, facendoli ravedere quanto sia gran fallo lasciar il grano per mangiare delle giande231. II biasimo della letteratura e del sapere è un tema caro alio scrittore milanese. Nel 1541 egli aveva scritto un Dialogo contra g li uomini letterati, rimasto inedito, i cui materiali confluiranno poco dopo nel «paradosso III», Meglio è d ’esser ignorante che dotto232. Nel Dialogo il debito landiano con il trattato di Agrippa è implicitamente dichiarato; Lando, infatti, ne cita la dittologia {de incertitudine et vanitate) del titolo incorporandola, come un sigillo, all’intemo del suo testo: «Non vagliono [le lettere] anco per dar diletto, per la incertitudine e vanità loro»233. E infatti lo scetticismo radicale della declamatio di Agrippa permea il paradosso landiano, in cui l’inutilità e pericolosità delle lettere è propagandata con la forza dirompente del messaggio paolino. Nondimeno, come capita sempre di fronte ai paradossi di Lando, che sfuggono a ogni tentativo di interpretazione univoca, rivelando una complessità e ambiguità forse impossibili da decifrare fino in fondo (del resto la loro cifra stilistica e ideologica è costituita proprio dall’ambivalenza, che in un certo senso dovrebbe anche essere assecondata), alcuni passaggi del testo mostrano come la svalutazione della letteratura possa trasformarsi, nel breve volgere di un giro di ffase, da obiettivo programmatico da proclamare a bersaglio polemico da denunciare. Si fa riferimento al paragrafo dedicato al poco favore che riscuotono le lettere presso le corti dei principi234. Come spesso capita in questa tipologia di scritture (e avremo modo di osservarlo più volte nel corso del lavoro) il registro paradossale puô repentinamente cedere il passo al registro satirico determinando un rovesciamento di prospettiva. E agevole pensare infatti che la scarsa considerazione in cui sono tenuti i letterati, sprowisti di protettori e costretti a vivere nella povertà {lamentatio ricorrente per esempio anche nell’epistolario doniano), costituisca oltre a un valido motivo in più per tenersi ben lontano dallo studio anche un segno della corruzione dei tempi da denunciare con veemenza. Tutto sommato le incursioni del «paradosso» nella satira sono esplicite e facili da 231 Lando, Paradossi c it., pp. 259-60. 232 La segnalazione, l’attribuzione a Lando del dialogo e la sua datazione si devono a S eidel M enchi, Un inedito d i Ortensio Lando. II «Dialogo contra g li huomini letterati», «Rivista storica

svizzera», 27 (1977), 4, pp. 509-27. Nel dialogo l’autore si firms con lo pseudonimo di Filalete Cittadino di Utopia. Ora il testo, trasmessoci da un manoscritto miscellaneo conservato nella Biblioteca Braidense di Milano, è stato edito da A. C orsaro , II dialogo d i Ortensio Lando *Contra gli uomint letterati» (Una tarda restituzione), «Studi e problemi di critica testuale», 39 (1989), pp. 91-131 (il testo allé pp. 105-31). 233 Ivi, p. 130. 234 L ando , Paradossicit, p. 111.

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individuare. Assai più complesso è il gioco sottilmente ambiguo, demandato aile strategie dissimulatorie, che si annida ad esempio nel passo in cui la sapienza è rigettata come fonte di eresia. Infatti gli interpreti hanno messo in evidenza come alia luce della tecnica scrittoria dissimulatoria la condanna delle eresie possa rinviare a un significato opposto a quello letterale, inviando al lettore (almeno quello ‘iniziato’) un segnale di complicità ammiccante: dietro l’esecrazione potrebbe nascondersi il tentativo nicodemita di rilanciare cripticamente i dubbi sollevati da dottrine bollate come eretiche, per esempio riguardo alia questione cristologica e all’antitrinitarismo235. Per il resto il «paradosso» si svolge secondo lo schema della laus ignorantiae con il topico riferimento al maligno spirito Theuth inventore delle lettere, con la rassegna delle morti violente in cui incorsero i letterati e con laugurio finale che le lettere vengano colpite da universal bando e che si faccia un decreto che vieti «carta, penne, inchiostri, e calamari»236. Stessa ambiguità, ma toni più aggressivi nella Sferza de* scrittori antichi e modemi pubblicata a Venezia da Andrea Arrivabene («A1 segno del Pozzo>) nel 1550, che si présenta nello specifico come una scrittura in biasimo dei libri, indicati per metonimia con il nome degli autori. Negli anni della produzione delle bibliografie, utili strumenti per Torientamento nel patrimonio librario e per l’allestimento di biblioteche237 (la ponderosa Bibliotheca Universalis del Gesner è del 1545238; il suo rifacimento «in prospettiva italiana e contemporanea»239, ossia la Libraria doniana, decisamente più agile, è pubblicato nello stesso anno della Sferza240), l’anticonformista Lando si diverte a smantellare una biblioteca privata, la «copiosissima librarian del 235 «Non vede ognuno che cio che il dotto tocca lo fa in eresia come Mida loro subito tramuttare? Vegasi un poco come hanno miserabilmente oltraggiato la povera scrittura santa. Trovamo già nell’Evangelio: wEt non cognovit earn, donee peperit filium primogenitum”, e subitamente da quel donee e da quel primogenito formamo due pestilenti eresie, delle quali appena la Chiesa nostra libera e netta al presente ne rimane. II medesimo si fece sopra di quella parola nisi, e anche sopra di quelTaltra ex* (ivi, pp. 103-04). L’allusione contenuta nel passo, derivato da Agrippa, è a Elvidio (negazione della verginita di Maria) e ad Ario (negazione della divinità di Cristo): cfr. S eidel M enchi, Un inedito d i Ortensio Lando cit., pp. 514 e 520-22; E ad ., C hifu Ortensio Lando? cit., pp. 555-58; A dorni B raccesi, L'Agrippa Arrigo' e Ortensio Lando cit., pp. 110-11; e il commento di Corsaro (Paradossi, pp. 103-04, n. 7). 236 Lando , Paradossi cit., pp. 107, 108-11, 114. 237 Cfr. Q uondam , La letteratura in tipografia cit., pp. 620 e sgg. 238 Pubblicata a Zurigo da Froschauer. Il titolo completo è Bibliotheca Universalis, sive Ca­ talogs omnium scriptorum locupletissimus, in tribus Unguis, latina, graeca et hebraica, extantium et non extantium, veterum et recentiorum in hunc usque diem, doctorum et indoctorum, publicatorum et in bibliothecis latentium. 239 Procaccioli, Per Ortensio Lando a Venezia cit., p. 117. 240 La libraria del Donifiorentino. Nella quale sono scritti tu tti glA utori vulgari con cento discorsi

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Signor Toso, fomendo a suo modo un catalogo di autori241. Il suo è un catalogo asistematico, fitto di autori minimi e di nomi rari attinti a repertori e compilazioni, che conferiscono alla pagina una patina erudita242: uno dei tanti esempi della landiana «tendenza ossessiva alla modalità enciclopedica e elencatoria»243. Si tratta, perô, di un «enciclopedismo rovesciato»244, e non solo perché la lista di autori non risponde all’obiettivo di sistematizzare e conservare il patrimonio culturale ma anche perché traspare, dietro la costruzione dell’elenco abnorme, l’intento caricaturale e giocoso di esibire in modo grottesco la refiirtiva erudita 245. La Sfèrza, secondo la pratica cara al Lando del discorso in utramque partem, è seguita da una Brieve essortatione allô studio dette letterc. l’opéra si présenta quindi con una struttura ancipite che rivela la natura retorica dell’operazione. Nel secondo testo Lando puô anche divertirsi a rovesciare con simmetria gli enunciati del primo. Un caso è offerto ad esempio dai corrispettivi passi dedicati ai giuristi; se nella Sfèrza, nel pieno di una aggressiva invettiva si dice che nei loro «libraccioni» pieni di ignoranza non si trova altro «che inganni per depredar le afflitte vedovelle et inghiottire i miseri pupilli» (p. 67), nella Essortatione la lode della «professione lega­ le», «honorata», e «santissima», récupéra l’immagine, ora invertita di segno, delle «vedovelle» e dei «pupilli»: «Morirebbe la giustitia, triunfarebbono gli sgherrani, depredarebbonsi le afflitte vedovelle, usurparebbonosi gli miseri pupilli [...]» (p. 81). Il richiamo intertestuale unito all’uso dell’enfasi tradisce l’ironia con cui Lando mette in atto la tecnica antilogica. Una tecnica che del resto poteva tradurre su un piano strutturale lo svolgimento di un pensiero aperto aile aporie, il gusto della contraddizione, della doppia prospettiva, il sopra quelli. Tutte le tradutionifa tte dalValtre lingue, nella nostra e una tavola generalmente come si costuma Jra Librari, in Vinegia, Appresso Gabriel Giolito de* Ferrari, 1550. 241 E proprio il Gesner e il Doni sono ricordati insieme nella Sfèrza corne autori delle due folli compilazioni: «Non so, per Dio, che frenetico humore venuto sia a Conrado Gesnero di far quel libro detto Biblioteca per che l’huomo a fatto a fatto impazzisca. La cui industria è stata a gli di passati nella volgar lingua imitata dal sagace et industrioso Doni, et ha insegnato come raunar si possino tutti gli libri in fiorentino volgare scritti, a chiunque disiasse fare una bella libraria. Iddio perdoni ad amendue et faciagli ravedere di si gran fallo» (Lando , La sfèrza cit., p. 63). Ben diverso il modo con cui Lando tratta i due ‘bibliografi’: le parole dedicate a Doni, se isolate dal contesto, più che stroncare sembrano ammiccare; quasi si trattasse di una segnalazione pubblicitaria. 242 Per le fonti utilizzate cfr. P. P rocaccioli, Introduzione, ivi, pp. 7-20 (14) e owiamente le note di commento. 243 C orsaro, Ortensio Lando letterato in volgare cit., p. 146. 244 Cfr. S. B lazina, Ortensio Lando Jra paradosso e satira, in I bersagli della satira, a c. di G. Barberi Squarotti, Torino, Tirrenia Stampatori, 1987, pp. 71-87 (80). 245 Cfr. C herchi, Polimatia d i riuso cit., p. 126.

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rifîuto delle ‘verità’ uniche e assolute; insomma la professione di relativismo e l’adesione a una cultura del dubbio. II gioco del rovesciamento strutturale coinvolge anche l 'occasione’ dei testi. Come già ho avuto modo di osservare, la Sferza nasce da un sogno: «Non è guari, Signor mio - scrive l’autore nella dedica a Benedetto Agnello -, ch’io mi sognai d’essere intrato nelle case d’un mio singolare amico, et parvemi che veggendovi una copiosissima libraria incomminciassi alia pazzesca, come soglio, a flagellargli. Svegliato finalmente da longo et profondo sonno, diedimi a scrivere quanto sognato mi haveva» (p. 35). L'Essortatione, invece, è il fhitto della veglia; il gioco della contrapposizione è esplicitato nella dedica del secondo scritto: «Hor mentre mi sognai sconfortai il Signor Toso mio caro amico et giovine d’alta speranza dallo studio delle lettere. Et hora mentre veglio conforto il Signor Gioan Battista B., genovese, alio studio delle lettere» (p. 71). Al di là della tecnica di presentare in un unicum testuale due discorsi contrapposti, uno in biasimo e uno in lode, il carattere aporetico della Sferza è rivelato anche da una serie di rovesciamenti e contraddizioni che si danno al suo intemo. Ad esempio, gli stessi autori «flagellati» possono essere riutilizzati come prove e testimonianze per le stroncature di altri24*246. Anche la pratica ironica dell’autocitazione è sottoposta alia stessa operazione di rovesciamento: in un caso Ortensio Lando è citato tra una serie di auctores antichi e modemi che hanno biasimato Cicerone247; altrove è citato come «bestia», che ha composto «tante fanfalughe», «pazzarello» che, pur essendo al tutto privo di competenze letterarie, crede «d’haver bevuto i fonti intieri della vera eloquenza» (pp. 66-67). II gioco della contraddizione investe anche le donne (molto presenti nella scrittura landiana): infatti una pagina in cui alcune donne sono lodate perché pur scrivendo non danno nulla aile stampe è seguita a breve distanza dalle querele contro l’ingratitudine delle donne248: se i «modemi ingegni» scrivono tanto «pensandosi di farsi grati allé signore celebrandole et gli lor libri dedicandogli» sappiano, come ha potuto sperimentare su di sé l’autore, che le donne sono «velenose serpi» e «crudelissime tigri»249. 244 Cfr. Blazina, Ortensio Lando fra paradosso e satira rit., p. 78. 247 «Né sono io solo che lo biasimi. Biasimollo anchora Latantio Firmiano; biasimollo

Agnolo Politiano; biasimollo Teodoro Gaza; biasimollo il dotto greco Argiropilo; biasimollo il Celio Clacagnino, il Maioraggio, il Cesano, Erasmo et Ortensio Lando» (p. 51). O w io il riferimento al primo dialog© del dittico Cicero relegatus et Cicero revocatus (Lione, 1534). 248 Vedi pp. 63 e 65. 249 Lando in più occasioni aveva tessuto le lodi delle donne: nel secondo libro delle Forcianae quaestiones, nel «paradosso XXV»; egli aveva poi pubblicato (anonima, nel 1548, a Venezia

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Ma è lo stesso tema della condanna dei libri a essere proposto in modo tutt’altro che coerente: accanto alla posizione più radicale e iconoclasta, per cui il patrimonio librario e culturale, aggredito nella sua totalità, è ridotto a un cumulo di «errori», «difetti» e «imperfettioni», fa capolino un’impostazione più moderata. Il messaggio più eversivo si appoggia a motivi topici di matri­ ce erasmiana già utilizzati nel «paradosso III» (lo studio delle lettere nuoce alla salute; insofferenza per le «sottili disputationi» che «oscurano la verità»; «sferzate» contro gli «ispositori delle più santé lettere»; eresia dei modemi teologi250); motivi combinati con altri argomenti cari al Lando detrattore delle lettere (accuse di fiirti; crudeltà e tirannia generate dalle «scuole de’

da Giolito) la raccolta delle Lettere d i moite valorose donne, nette qnali chiaramente appare non esser né d i eloquentia né d i dottrina a lii huomini inferior!\ e dedicato una sezione dei Cathaloghi alla rassegna delle donne dotte. Sulle Lettere d i moite valorose donne cfr. N. Bellucci, Lettere d i moite valorose donne... e d i alcune petegolette, owero: d i un libro d i lettere d i Ortensio Lando, in Le «carte messaggiere». Retorica e modelli d i comunicazione epistolare: per un indice dei libri d i lettere del Cinquecento, a c. di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 1981, pp. 255-76, e da ultimo M. Kennedy Ray, Unofficina d i lettere: le «Lettere d i moite valorose donne» e la fonte délia dottrina femminile\ «Esperienze letterarie», xxvi (2001), 3, pp. 69-91. Il généré dell’«eccellenza delle donne», speculare alla tradizione misogina (généré che conosce una secolare difïusione, dal trattato Mulierum virtutes di Plutarco, che ne costituisce l’archetipo - un fortunato volgarizzamento è quello ad opera di Giovanni Tarcagnota incluso nella Seconda Parte de le cose morali d i Plutarcho... rit. -, al De mulieribus claris di Boccaccio - volgarizzato da Giuseppe Betussi e pubblicato nel 1547), è rilanriato nel Cinquecento dal trattato Delia ecceïïenza e dignità dette donne di Galeazzo Flavio Capra (Roma, 1525), e soprattutto dal De nobilitate etpraeccelentia foeminei sexus di Agrippa (Anversa, 1529; il volgarizzamento - da una traduzione francese - use! da Giolito nel 1545, seguito da una Oratione in Iode dette medesime di Alessandro Piccolomini; un’anonima traduzione dal francese, uscita a Venezia nel 1544, è attribuita da N.F. Haym a Francesco Coccio). Tra gli esempi cinquecenteschi, oltre a Capra e Agrippa: Bernardo Spina, ïttustrazione délia eccettenza dette donne (Milano, 1544); Vincenzo Maggi, Un brieve trattato detteccellenzia dette donne (Brescia, 1545; seguito dalla landiana Brieve essortatione a g li huomini perché non si lascino superar datte donne)', Lodovico Domenichi, La nobiltà dette donne (Venezia, 1549; probabile plagio del trattato Difese dette donne di Domenico Bruni, pubblicato alcuni anni dopo, nel 1552, a Firenze); Sperone Speroni, Delia dignità dette donne (Venezia, 1542) e In Iode dette donne (Venezia, 1596). Lando stesso fomisce un canone di autori che hanno difeso il genere femminile nella Consolatoria del S. Benedetto Agnetto alla S. Susanna Valente che si doleva d'esser nata femirur. «Se alcuno vi rinfaccia la debolezza et imperfettione del sesso feminile, armatevi con le belle difese che per cotai sesso ha fatto Comelio Agrippa, Galeazzo Capra, Ortensio Lando; Bernardo Spina e sopra tutti questi, ultimamente; Messer Lodovico Domenichi» (cit. da C orsaro, Ortensio Lando letterato in volgare cit., p. 139). Su questo tema cfr. F. D aenens, Superiore perché inferiore: il paradosso délia supériorité délia donna in alcuni trattati italiani del Cinquecento, in Trasgressione tragica e norma domestica. Esemplari d i tipologie fem m inili dalla letteratura europea, a c. di V. Gentili, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1983, pp. 11-50, e M.L. D oglio, Introduzione a G.F. Capra, Della eccettenza e dignità dette donne, a c. di M.L. D., 2a ed., Roma, Bulzoni, 2001, pp. 13-62. 250 Si vedano le pp. 57, 59.

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filosofi»; attacco alia moda dei volgarizzamenti; desiderio che la stampa, le «penne», la «carta» scompaiano per sempre251). Non mancano spunti polemici estemi alla topica codificata dei discorsi in lode dell’ignoranza; significativo mi sembra un passo in cui la condanna della scrittura come istituto mistificante che oscura la verità delle cose si estende a coinvolgere (sempre con il supporto della tradizione: in questo caso Euripide) il linguaggio stesso concepito corne artificio e menzogna: Io vorrei per tanto, corne ancho brama Euripide, che le lettere non si trovassero più, ma che le cose istesse mandassero fiiori la voce loro, acciô più non si stimassero le artificiose parole. Et duolsi il poeta tragico che con ben composti argomenti et melate parole le cose vere sieno frodolentemente invilupate et oscurate. (p. 58) Tra le provocatorie e indiscriminate «sferzate» affiora, corne dicevo, un atteggiamento più moderato che si manifesta nell’invito a orientarsi tra la confusione e la congestione, selezionando accuratamente alcune poche e indispensabili letture252: con il ricorso alla topica immagine delle api, rielaborata alla maniera landiana secondo il gusto della variazione enumerante, si esorta ad astenersi dai «cattivi libri»: Ma ben d’altro polso sarebbono, et senza intoppo correrebbe lo stile de cotesti scimoniti scrittori, se con miglior ordine studiassero et le industriose api imitassero; le quali non raccogliono il tutto che fa lor mestieri da qualunque cosa, ma alcuni fiori succhiano per far il metin, altri per far il pissoceron, altri lo propolin, altri il ritacen, altri il mele, et altri per fare la figliuolanza. Doverebbono le medesime api imitare, et cosî da* cattivi libri astenersi corne esse da’ languidi et putrefatti fiori si astengono. (p. 64) E poco più avanti la condanna della scrittura si connota corne condanna del proliferare magmatico e vacuo delle moderne scritture:

251 Cfr. ad es. pp. 57, 61-64. 252 In linea con le argomentazioni petrarchesche nel De remediisr. nel dialogo XLIII, De

librorum copia, infatti, Ratio raccomanda un uso morigerato di libri: «Ratio. Libri quosdam ad scientiam, quosdam ad insaniam deduxere, dum plus hauriunt quam digerunt; ut stomachis, sic ingeniis nausea sepius nocuit quam fames. Atque ut ciborum, sic librorum usus pro utentis qualitate limitandus est: in rebus omnibus quod huic parum, illic est nimium. Itaque sapiens non copiam, sed sufficientiam rerum vult; ilia enim sepe pestilens, hec semper est utilis», e più avanti, a Gaudium che si vanta: «Libri innumerabiles sunt michi» risponde: «Et errores innumeri, quidam ab impiis, alii ab indoctis editi. [...] ornes autem vero adversi [...]» (Petrarca, De remediis cit, I, pp. 216, 218).

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Ma quanto farebbono meglio se ad altro che ad imbrattar carta rivolgessero et Tarte et Tingegno loro! È possibile che non si debba un giorno far fine di tanto scribattolare? È possibile che non ci basti leggere quel che scrissero gli saggi antichi senza che attomo de’ moderni ci aviluppiamo il cervello? (ivi) II precetto della selezione delle letture costituisce, per altro, un punto d’incontro tra la Sferza e la Essortationr. anche nel registro della lode la «copia de* libri» (che come si legge nelXincipit della Sferza «confonde Tingegno et indebolisce la memoria») non costituisce un valore: Et quantunque S. Gerolamo a Paulo, della concordia scrivendo, dica che la copia de’ libri soccorri la tardità delTingegno, non perô vi essorto a far una libraria tale quale hebbe Tolomeo il Philadelpho, ma solo a far la scelta d’alcuni eccellenti authori, et quegli vorrei ve gli convertiste in succo et in sangue. (p. 75) In tema di ambivalenza, anche la scelta stessa del sogno come pretesto della scrittura rivela una profonda ambiguità. Da una parte essa risponde a una funzione strutturale giustificando Tandamento disordinato dellopera: alla maniera dei sogni, spesso confusi (quanto meno nel ricordo vago che si ha di essi), la narrazione procédé in modo caotico. Anche se poi in eflfetti Lando ricorre pure a un altro espediente per giustificare la natura disconti­ nua delTopera; alTintemo del testo si ripete più volte che il disordine delle «sferzate» inferte «alla pazzesca» dipende dal disordine in cui sono disposti i libri negli scaffali della biblioteca del suo amico: «pregovi a non volervi curare se il debito ordine non serbo, poscia che né anche voi lo serbate in disporre la vostra libraria, oltre che non ho tutta quella memoria né tutto quelTotio che io desidero havere per sî fatto bisogno» (p. 40)253. DalTaltra parte Tartificio del sogno serve anche a mitigare la materia irriverente e paradossale, e ad alleggerire Taggressività della mordace requisitoria. Se nella dedica il «flagellare» è ascritto al sogno, nelTepilogo esso è ricondotto nello spazio del ‘cicaleccio’ e dello ‘scherzo’. Anche la dimensione

253 «Ma perché non gli havete voi meglio distinti? Perché non gli separaste secondo le lor professioni? Dovete pur sapere meglio di me che Tordine conserva la memoria et che stando disordinati molto per certo penar dovete prima che vi venga fatto de haver ritrovato cio che vi fa mestieri> (p. 53); «Dogliomi certo di non haver maggior ocio per favellarvi più ordinatamente, sanza confimdere Tordine de’ tempi et le varie professioni de’ mentovati scrittori, benché vostra è la colpa> (p. 57). Dai passi citati risulta che un ulteriore motivo del procedere confiiso è costituito dal poco tempo a disposizione, dall’impossibilità di praticare Xotium letterario.

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onirica rientra nel consueto schema silenico che contraddistingue le scritture paradossali, gettando sul testo una luce obliqua: come sotto la superficie comica del lusus si nasconde erasmianamente una sostanza séria, cosî nelTevanescenza del sogno possono celarsi recondite verità che smascherano le false certezze. Attraverso il sogno puô essere comunicata la paradossale verità dell’inutilità del sapere mondano, incerto, vano e contraddittorio e altresl puô essere denunciato l’inganno che si nasconde dietro la presunzione che lo studio accresca l’ingegno e la conoscenza. D finale, poi, affidato alia fulminea e inquiétante immagine del malinconico Ortensio Lando che «frezzoloso camina», altera bruscamente la dimensione del gioco, che si fa quanto meno ambiguo: Ma pur troppo ho cicalato questa mane, pur troppo importuno et satievole vi debbo esser paruto [...] Intendo per tanto di far quivi fine al mio cicaleccio et di ridurmi allusata mia quiete. Perdonatemi, Signor Toso, se troppo prolisso stato sono, et quanto v’ho detto pigliatelo da scherzo et non da senno, che non posso fare che io non motteggi famigliarmente con esso voi quando voglia me ne viene. Altrimenti scoppiarei come fa il nostro commune amico quando frezzoloso cammina. (pp. 69-70)254 Assai interessanti anche le indicazioni sull’atto dello scrivere che ci vengono dal testo. In un passo, dove compare di nuovo un riferimento al Lando scrittore, la scrittura si connota come frutto di «maninconico humore»; Lando si présenta come «spirito frenetico», che, alla maniera della declamatio «canina» di Agrippa, assume su di sé una scrittura praticata come strumento di aggressione mordace (anche nei propri confronti, contro cio che si è scritto):

254 Evidente in Lando il piacere di lasciare nelle opéré immagini di sé. Suoi autoritratti si leggono, ad es., nei Cathaloghi (nella rassegna «di quei ch’ebbero nome d’esser brutti») e nella Conjutatione del libro de paradossi’. «Ho cercato a’ miei giomi molti paesi, sî nel Levante, come anche nel Ponente, né mi è occorso vedere il più difforme di costui. Non vi è parte alcuna del corpo suo che imperfettamente formata non sia: egli è sordo (benché sia più ricco di orecchie che un asino), è mezzo Iosco, piccolo di statura, ha le labra di Etiopo, il naso schiacciato, le mani storte, et è di colore di cenere, oltre che porta sempre Satumo nella ffonte»; «Acciô che egli sia cosl da voi come i scritti suoi schivato e fiiggito, ho pensato di farvene un ritratto, con quei più fini colon che per me si potessero giamai. Egli in prima è di statura picciola anzi che grande, di barba nera e afiimicata, di volto pallido, tisicuccio e macilento, d occhio torbido e poco acuto, di favella et accento lombardo (quantunque molto si affatichi di parer toscano); pieno d’ira e di disdegno, ambizioso, impaziente, orgoglioso, frenetico e inconstante», e poco più avanti «intendo che egli di rado pianga e sempre smascellatamente rida. Non veggo già io [...] di maggior nome Eraclito, per aver molto pianto, che Democrito, del quale si legge che sempre ridesse» (cit. da Longhi, L u s u s cit., pp. 134-35).

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10 credo fermamente ch'ella sia una spetie di melancolia, et perciô un spirito frenetico, mio caro amico, mosso da maninconico humore, si diede a scrivere gli anni passati un volume de paradossi, né stette poi molto ch’ei si puose a confutargli con non minor rabbia et canina eloquenza che già scritti gli havesse. (p. 66)255 La stessa immagine di una scrittura che «morde» compare nella dedica della EAsortatione, a dimostrazione che P«eloquenza canina» non pertiene soltanto al biasimo ma al discorso epidittico in genere: Et se nel sogno haveva lacerato, traffitto et sbranato molti illustri auttori, cosa veramente di smoderato ardire, et sforzato m’era di mostrar al mondo le imperfettioni loro, in quest’altra parte ci ho posto Punghia et 11 dente per manifestar le lodi et le singolari perfettioni di quegli istessi quai havea si duramente et con si poco rispetto trattati. (p. 71) Anche nel «paradosso III» (alPintemo del già citato richiamo platonico a Theuth, spirito maligno inventore delle scienze) Patto dello scrivere in sé si connota come operazione che è costitutivamente ars maledicendi\ quasi la scrittura, nella sua totalità, si appropriasse del «dire male» dell’antiqua comoedia256. Gli «acerbissima iurgia», Pinsectatio diventano tratti strutturali di una scrittura che si dà, per nascita, nelle forme della satira malevola: Afferma pur Platone, che un maligno spirito detto per nome Teuda, fusse della scienza inventore, donde credo io nasca che gli uomini dotti sieno sempre maligni, invidiosi, sediziosi, e Pun cerchi sommergere e oscurare la gloria delPaltro, sempre arabbiati, insidiosi, vendicatori, se non con Parme, almeno con satire bestiali, con distichi mordaci, con iambici crudeli, e con furiosi epigrammi257. II labile confine tra oratoria e satira non costituisce Punica proposta della Sferza in materia di scrittura258. Nel testo, tra la congerie delle accuse, affiora 255 Da osservare come in Lando la tecnica della ritrattazione palinodistica potrebbe essere utilizzata per rinnovare il messaggio del testo di partenza. Cosi la Confutatione del libro de paradossi puô connotarsi come «appendice palinodistica atta a rilanciar^ i contenuti» dei Paradossi (Corsaro, Ortensio Lando letterato in volgare cit., p. 137). 256 Faccio mie, adattandole in un contesto diverso, le considerazioni svolte da Ezio Raimondi a proposito dell’influenza della commedia aristofanesca sulla drammaturgia comica del Cinquecento (nonostante la tendenza ‘ufficiale’ fosse per la linea terenziana) e in particolare sulla Mandragola di Machiavelli; cfr. E. Raimondi, Machiavellt\ Giovio e Aristofane, in Id ., Politica e commedia. U centauro disarmato, Bologna, il Mulino, 19982, pp. 99-113. 257 Lando, Paradossi cit, p. 107. 258 Per la scrittura landiana divisa «fra un’ambizione di distacco ironico e di dominio intellettuale e un malumore che sfocia nella satira», cfr. Blazina, Ortensio Lando fra paradosso e satira cit., p. 76.

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repentino e in modo del tutto indiretto e implicito l’ideale estetico della scrittura landiana. All’intemo di un procedere del discorso tutto in negativo, attraverso la trama degli ‘errori’, si rinviene, nel finale attacco ai giuristi, un segnale che e contrario traduce l’opzione landiana in termini di scrittura. Innanzi tutto il disprezzo con cui si allude ai loro «libraccioni», «libracci di si smisurata grandezza» (p. 67) la dice Iunga sul rifiuto dell’opera grave e séria, del monumentale «in folio», simbolo della sterile cultura ufficiale: la scelta cade sul libretto agevole, sulla misura breve259. Poi la domanda retorica: «Et forsi che troverete fra queste peccore qualche faceta narratione mescolata con philosophico sapore?» (ivi), indirettamente viene a suggerire quale sia la formula cara a Lando (felicemente sperimentata ad esempio nei Sermonifunebri): una scrittura in cui il gioco, la narrazione piacevole, l’intrattenimento insomma, si coniughino con il «sapore filosofico». La pratica erasmiana del serio ludere è nettamente assunta e dichiarata, anche se en passant, nei modi leggeri e antiprecettistici della maniera landiana. 4. Alla Sferza, anticatalogo, e ‘descostruzione’ di una biblioteca, fa seguito un anno dopo la Seconda Libraria di Doni, che si inserisce nella stessa prospettiva di reazione ludicamente aggressiva all’assetto culturale ufficiale260. «Doppio, paradossale e ironico» della Prima Libraria, il «trattato secondo», «colossale non sense bibliografico», si présenta corne invenzione giocosa che nasce sotto il segno dell’inutilità, della gratuità 261. Cio che viene offerto è un catalogo di «cicalatori», autori di improbabili opéré che non vedranno mai la luce. Il carattere di palinodia dell’operazione, che assume anche la fisionomia di un’autoparodia, e il passaggio da un registre serio, omaggio al sistema letterario volgare ormai autosufficiente, a un registre in cui prévale la dimensione del gioco, del sogno262, del parodosso, sono indicati dall’autore 259 Per l’importanza del formate) del libro come «segno autonomamente culturale», cfr. Q uondam, L a letteratura in tipografia cit., p. 623, n. 12. 260 Edita nel 1551 da Marcolini. 261 Q uondam , La letteratura in tipografia cit., pp. 622-31 (628). 262 Per il sogno come chiave di lettura del «secondo trattato» (la libraria sognata), suggerita dallo stesso Doni, si veda, nella parte conclusiva dell’opera, il seguente passo: «S’io non voglio multiplicare il volume, bisogna ch’io ponga silenzio aile novelle; perô con questa facezia farô fine. Messer Francesco Sfera mi venne a trovare una mattina e per sorte, ancor che fossi tardi, mi trovô a covare. Disse egli: “Ohimè, voi siete nel letto ancora, e io ho già fatto la taie e tal faccenda!”. Ond’io risposi: “Quel che io ho sognato vale assai più che tutto codesto e quel che voi farete oggi”. Potrebbesi tirare a proposito che c’è tal cosa in questa Libraria la quale è sognata che val più che non varranno tutte l’opere che faranno certi biasimatori novelli, i quali per esser di lontani paesi si fanno di gran casata e si pongono cognomi stupendi, ma alToperare conosceremo la grandezza e sufficienza loro» (La libraria cit., p. 398). Cfr. Q uon-

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nella célébré lettera «A coloro che non leggono»263: Ora per non girandolar più con parole, vengo a dirvi come io feci già una volta ricolta dautori stampati, e nel feci la prima parte della Libraria'. ora ho messo insieme tutti i cicalatori che io ho veduto a penna e che me n’è venuto cognizione, i quali libri composti pochi credo che sieno per venire a stampa, essendo libri rari e in mano di persone che non gli vogliono dar fiiori, anzi più tosto ardergli. Se qualche persona galante desiderasse sapere dove son queste opere, io son contento di dargnene aviso, con patto di non manifestare se non coloro che dato mi hanno piena licenza di farlo. Ma, per finirla, troppi mi paiono i libri che si veggono, senza desiderar questi che son riposti. Beato, adunque (al mondo quan­ to saremmo più felicü), se il primo trattato fosse come questo secondo, perché né chi legge e chi non legge, avrebbe mai da lodare, biasimare o dolersi di cosa che sia stata detta o scritta. Or legghino i lettori, se voglion leggere, perché io vi so dir certo che tanto ne saperrete alia fine voi quanto loro264. La lettera, che è una sorta di programma per la tipologia delle scritture in biasimo della scrittura, esprime, con notevole lucidità e consapevolezza critica, da un punto di vista intemo al sistema classicistico, il senso di saturazione di quel sistema stesso. La svalutazione della letteratura e la sensazione di pienezza della tradizione, sulle orme dell’antidogmatismo tracciato da Agrippa, si traducono in una acuminata riflessione sullatto della scrittura e sulle modalità della comunicazione letteraria. Se la scrittura non sfugge alia chiusa e ripetitiva circolarità del già dato, se non pud esistere se non come riproduzione infinita e omologa del passato, lo spazio di intervento si riduce alluso della scrittura come strumento di rimanipolazione dell’esistente, artificio dello smontaggio e rimontaggio di stessi pezzi, riaggregazione di materiali riciclati, ars combinatoricr265:

dam, La letteratura in tipograjia cit., pp. 629-30. Per una ricognizione generale sul tema della biblioteca in letteratura cfr. R. N isticô, La biblioteca, Roma-Bari, Laterza, 1999. 263 Sulle differenze tra la Libraria giolitina e la Ltbraria marcoliniana, inquadrate nel nuovo corso intrapreso dalla scrittura doniana a partire dal sodalizio con il Marcolini, cfr. M asi, «Quelle discordanze si perfette» cit., pp. 15-19. 264 La libraria cit., pp. 250-51. 265 Cfr. Bolzoni, Û mondo utopico e il mondo dei comuti cit, pp. 171 e 181, che assai efficacemente descrive tali strategie letterarie. Una prospettiva, quella fondata sull’idea di una letteratura che gioca con le parole e con le immagini tramandate dalla tradizione, che circola in moite zone deU’esperienza letteraria cinquecentesca, anche in quei settori caratterizzati dall’adesione al canone classicista (e quindi rawisabile anche al di fuori di istanze polemiche) : si veda E ad., La stanza della memoria cit. (in particolare le pp. 87-134).

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Quei primi primi che scrissono, presono i passi, e in poco tempo abbracciarono ogni cosa. Coloro che son venuti di mano in mano, hanno letto quel che hanno armeggiato gli altri, e pigliando un boccon di stracciafoglio da uno e da un altro un’imbeccata di carta, ora infilzando sei parole e ora rappezzandone quattr’altre, facevano un libretto, per non dir libro o libraccio. Noi altri ci mettiamo inanzi una soma di libri, nei quali ci son dentro un diluvio di parole, e di quelle mescolanze ne facciam delPaltre, cosi di tanti libri ne caviamo uno. Chi vien dietro piglia quegli e questi fatti di nuovo e rimescolando parole con parole ne forma un altro anfanamento e ne fa un’opera. Cosi si volta questa ruota di parole, sotto e sopra mille e mille volte per ora: pur non s’esce delfalfabeto, né del dire in quel modo e forma (e le medesime cose, mi farete dire!) che hanno detto tutti gli altri passati, e di qui a parecchi secoli si dirà quel che diciamo noi ancora. (pp. 246-47) La «soma di libri» 266, il «diluvio» e la «ruota» di parole267, che vengono infinitamente rimescolate senza pur «^ardelfalfabeto», delineano uno scenario congestionato, costipato dall’accumulo caotico e vano, corne se gli «scacazzacarte» (termine con cui Doni autoironicamente definisce la propria attività di letterato ed editore) prolungando quel maledetto esercizio dello scrivere268 producessero solo un vano e ingombrante ammasso di inutile «carta»: Ecco, adunque, i nostri cervelli dove si vanno mulinando, ecco dove si perde il tempo, e dove si getta via la giomata: in fregar carta, voltar fogli, consumar la vista, straccarsi la lingua, stemperarsi lo stomaco, affaticarsi il cervello e diventar pazzo con questo benedetto leggere e scrivere! (p. 247) 266 Già nella Prima Libraria Doni aveva usato l’espressione assai efficace di «selva inestricabile» per connotare l’eccesso di produzione libraria: «Prima la molta comodité de’ libri e gran quantité, che ci hanno oggi mai fatta una selva inestricabile sugli occhi deU’intelletto; poi la pania del diletto che altri ha di leggere infinite cose e sempre nuove, è stata cagione che molti uccellacci v’hanno invescate l’ale, sî che la fama loro, che in altra guisa avrebbe volato al cielo deH’immortalità con l’ali della gloria, è rimasa tarpata dalli artigli della ignoranza e da l’unghie del vituperio» (pp. 127-28). 267 Per la presenza deH’immagine della ruota in Doni si veda Bolzoni, II mondo utopico e il mondo dei comuti rit.: «Nel Doni, infatti, le suggestioni della pluralité tendono a confluire, o a richiudersi, nel modello unitario del cerchio: l’immagine della ruota compare nelle sue opéré con ossessiva insistenza a indicare sia la dimensione della metamorfosi, grazie alla quale la vita si conserva, sia la dimensione angosciosa della condanna alla ripetitivité, al mondo del gié dato, l’impossibilité dunque di usrire da un’arte combinatoria che puô usare solo un numéro limitato di carte da giocare» (p. 181). 268 «Ora vedete che maladizione è la nostra, d’esser confinati dal cielo, dal fato, dal destino o dalla sorte a menar la penna tutto il giorno sopra i fogli e a legger gli umori e le pazzie dagli altri scritte» (p. 249).

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L’idea della proliferazione incontrollata e della condanna alla ripetitività, generata dalTesperienza della stampa, è presente anche in un altro testo doniano (già in precedenza citato) appunto dedicato al mezzo tipografico, il Ragionamento della stampa fa tto a i M armi d i Fiorenza, incluso nella «Parte Seconda» dei M arm i269. Nel dialogo si altemano due posizioni: Alberto Lollio loda (per dirla con le parole del Crivello, il terzo interlocutore) la «bellissima invenzione delle stampe da imprimer libri», di grandissima utilità agli uomini, mentre spetta a Francesco Coccio «sostenere sî strano paradosso», cioè che la stampa sia causa di «grandissimo danno»270. L>e argomentazioni con cui il Coccio biasima Tarte tipografica si concentrano sugli effetti negativi provocati dalla «selva de’ libri», sulTeccesso di unofferta libraria fatta di prodotti scadenti e disprezzabili, che sommergono quei pochi libri buoni che andrebbero letti. Ritoma quellesortazione, di stampo petrarchesco, alia lettura mirata di rari testi preziosi che era affiorata anche nella Sferza 271: Coccio. Provate a essere a una tavola dove sieno infiniti cibi diversi e la maggior parte cattivi, vedrete come voi v’acconcierete il gusto e lo stomaco: nel tôrre un boccon qua e un là, alla fine non saperete che sapore si sia il buono né alio stomaco il cibo utile. La selva de libri che ci si para inanzi come un giardino di molti frutti, ha pochi arbori da cavame costrutto: chi torto, qual mezzo secco, uno marcisce e Taltro punge e puzza; onde non vè tempo da côrre poi de’ frutti buoni, se pur se ne trovano alcuni. Ma se Tuomo pascesse il suo intelletto di ottima dottrina.

269 Sulla quaestio attributiva relativa al Ragionamento della stampa (lo stesso testo, infatti, con il titolo Dialogo della stampa, viene pubblicato nei Dialoghi di Lodovico Domenichi, editi nel 1562) cfr. G. M asi, Postilla sulV«affaire» Doni-Nesi. La questione del «Dialogo della stampa», «Studi italiani», n (1990), 2, pp. 41-54, che documenta l’ipotesi del plagio doniano ai danni di Domenichi. Si rimanda a questo saggio anche per le accuse reciproche che, nei rispettivi testi, si scambiano i due letterati. 270 Doni, I M armi d t., I, p. 173. La duplicità dei punti di vista sulla stampa è anche nella Prima Libraria dove ‘virtù’ e ‘vizi’ vengono altemativamente evidenziati: passi significativi in cui si svolge la riflessione doniana sull’esperienza della stampa si possono leggere riuniti in Quondam, La letteratura in tipografia cit, pp. 625-26. 271 In questo caso, anzi, la matrice si spinge fino a Seneca (del resto è proprio la linea senecano-petrarchesca che viene assimilata da alcune esperienze letterarie cinquecentesche), dal momento che viene recuperato un brano tratto dalla seconda epistola di Seneca a Lucilio; cfr. Masi, Postilla sulV«affaire» Doni-Nesi cit., p. 47, n. 20. Sul riuso nei M arm i di alcune lettere di Seneca (Doni aveva pubblicato una traduzione delle Epistole di Seneca servendosi in larga misura della traduzione approntata da Sebastiano Manilio nel 1494) cfr. M asi, «Quelle discordanze si perfette» cit., p. 23.

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che ne pochi libri è riposta, egli partorirebbe poi frutti degni di merito e d’onore272. Si condanna, poi, Testrema facilita con cui, a partire dallawento della stampa, si possono comporre libri: lo scrivere è diventato appannaggio di tutti, anche di arroganti e presuntuosi ignoranti, che, con le loro «leggende scacazzat*?» raffazzonate scopiazzando qua e là, hanno congestionato il mercato librario273: Coccio. [...] Ogni pedante fa stampare una leggenda scacazzata, rappezzata, rubacchiata e strappata da mille leggendaccie goffe, e se ne va altiero per due fogliuzzi, che pare che egli abbi beuto sangue di drago o pasciutosi di camaleonti. Come egli vede qualche sua cantafavola in fiera, egli alza la coda e dice: - Fate largo; io non cedo al Bembo; TAriosto Tho per sogno; il Sanazzaro e il Molza non son degni di portarmi dietro il Petrarca. - Cosî, credendosi rubar la fama altrui, acchiappa su la vergogna per sé274. Come rimedio alia piaga dilagante degli scrittorucoli improwisati e degli «scartabellanti»275, il Coccio auspica il più volte invocato (nei nostri testi) «editto universale»: «Se si tagliasse la strada per un editto universale, che ogni libruzzo da tre soldi non si stampasse, e s’accordassero a questo Tuniversalita de reggimenti, sarebbe bello e proveduto a questo danno»276. Un altro frammento doniano contro Tarte dello scrivere (che per la sua

272 Doni, I M arm i cit., I, p. 185. 273 La stessa insofferenza per l’invasione, determinata dalla stampa, delle schiere di scrittori improwisati è espressa nella Sferza: «Lo scrivere fu sempre ne’ migliori tempi ufficio de pochi huomini, et hora ogn’uno temerariamente sell’usurpa et lascianosi condurre ad insegnare quello che non hanno anchora per sé apparato [...]. Ma Iddio volesse pure che gli huomini si contenessero ne gli lor confini et si serbasse il debito ordine, cioè scrivessero gli dotti et legessero gli ignoranti. Ma che furia è questa che venuta è a perturbar la tranquillité dell’ocio nostro? Scriveno gli sellai, scriveno gli lanaiuoli, scriveno gli piccicagnoli, et quante bugie si scriveno sotto l’ombra d’una vérité? Et quando lor manca soggetto, si riducono a mandar fiiori quante lettere scrissero mai al lor castaldo» (p. 66 ). Solo che Lando poi si diverte a inscrire se stesso, come scrittore di «tante fanfalughe», tra tali categorie di incompetent! (vedi supra, p. 9 3 ). 274 Doni, I M arm i cit., I, p. 186. Come osserva Luciana Borsetto «il termine “pedante” viene assunto nel Cinquecento sia nell’accezione di imitatore fedele che in quella di imitatore infedele. Gli interlocutori del Dialogo del Domenichi e del Ragionamento del Doni definiscono pedante chi non sa usare in modo regolato e onesto la scrittura» ( Traduztone ejurto nel Cinque­ cento. In margine a i volgarizzam enti deIl’«Eneide», in Furto e plagio cit., pp. 69-101: 74, n. 15). 275 II termine è ad es. nella Sferza, p. 63. 276 Doni, I M arm i cit., I, p. 186.

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giocosa provocazione si presta bene a concludere la nostra rassegna) com­ pare nel Preambulo generale a i letton dei Fiori della Zucca. Qui l’opzione per l’ignorante, come status che si oppone a quello del ‘dotto’, la denigrazione della letteratura, la svalutazione dei propri scritti («girandole da cacciarsi le mosche con la rostra di quei fogli imbrattati fuor di proposito») esplodono in un concentrato di scrittura paradossale, dove il gusto della contraddizione, il ‘capriccio’, l’autoironia, l’autopromozione scherzosa abbinata a una divertita deminutio sui si liberano nell’esuberanza di un linguaggio giocoso: S’io fossi dotto vorrei metter tutto il mio cervello a segno per sostentar queste conclusioni: che l’arte del compor libri, cioè esser o poeta, traduttor di leggende o inventor di scartafacci, come sarebbe a dire, scriver le vite degli uomini, le istorie, far libri di rime, compor comedie, tragédie, brevemente, far come ho fatto io, lambiccarsi il cervello per far un libro di nuova invenzione, scilicet, II Disegno, La Zucca, I Fiori, Le Foglie, la prima e seconda Libraria, i Dialogi de la Musica, Lettere, La Fortuna d i Cesare, Medaglie e altre girandole da cacciarsi le mosche con la rostra di quei fogli imbrattati fuor di proposito, dico che vorrei mantenere che l’è la più vil opera che possa far un uomo, e il più mecanico essercizio, disonorevole e dappoco che si trovi al mondo277.

277 Id., La Zucca, pp. 227-28.

2 I DUE LIBRI DI LE TTE R E FACETE, E T PIACEVOLI (1561-1575)

Nello scenario assai gremito della pratica epistolare cinquecentesca la aperta e proteiforme tipologia del «libro di lettere facete» si offre come il contenitore più consono ad accogliere elogi paradossali1. Come noto, nel primo Cinquecento la scrittura burlesca di Bemi e quella comica di Aretino avevano messo a disposizione degli scrittori di epistole facete un materiale fertile, denso di temi, situazioni, immagini da reimpiegare e di movenze e soluzioni linguistiche e stilistiche da imitare. E se le lettere di Bemi condivisero con le rime lo stesso destino di circolazione, quasi esclusivamente manoscritta2, le lettere del «secretario del mondo», con la pubblicazione nel 1538 del primo Libro, per i tipi del Marcolini, si imposero sul mercato editoriale con Tesemplarita del modello, segnando l’atto di nascita del «libro di lettere», genere intrinsecamente legato al nuovo sistema culturale dominato dal volgare e dai processi di stampa3. 1Vastissima la produzione critica sul ‘genere lettera’ nel Cinquecento. Mi limito a segnalare Le «carte messaggieir». Retorica e modelli d i comunicazione epistolare: per un indice dei libri d i lettere del Cinquecento, a c. di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 1981 (per una visione d’insieme fondamentale è il saggio che âpre il volume: A. Q uondam, D al «formulario» a l «formulario»: cento anni d i «libri d i lettere», pp. 13-157; esso fomisce indicazioni anche sulla lettera «faceta>, pp. 90 e sgg. e passim; più specificamente sulla lettera faceta, alTintemo del volume, si veda il contributo di A. de N ichilo, La lettera e il comico, pp. 213-35); G. M oro, Selezione, autocensura e progetto letterario: sullaformazione e la pubblicazione dei libri d i letterefam iliart nelperiodo 15421552, in La lettera familiare, «Quademi di Retorica e Poetica», i (1985), pp. 67-90; J. Basso, Le genre epistolaire en langue italienne (1538-1622). Repertoire chronologique et analytique, 2 voll., Roma, Bulzoni, 1990; N. Longo, Letteratura e lettere. Indagine nelVepistolografia cinquecentesca, ivi, 1999; M.L. D oglio, L'arte dette lettere. Idea e pratica délia scrittura epistolare tra Quattro e Seicento, Bologna, il Mulino, 2000 (e Ead., Lettera e donna. Scrittura epistolare a lfemminile tra Quattro e Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1993). 2 Cfr. de N ichilo, La lettera e il comico cit., p. 231. 3 Per un’analisi delle modificazioni prodotte sugli statuti della comunicazione letteraria dal-

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E proprio il primo Libro delle Lettere aretiniane, punto di riferimento dello «scrivere lettere» tout court, offriva al lettore, tra le svariate occasioni di divagazione narrativa, le lodi deirinvemo, dell’insalata e il biasimo dell’onore unito alia lode della vergogna4. Non a caso i tre testi sono collocati nella seconda parte del libro, caratterizzata da una «mutazion dello stile», con il rarefarsi delle lettere di tipo informativo, legate al rapporto di comunicazione tra i corrispondenti, a vantaggio di una tipologia di lettera discorsiva, sottratta al circuito mittente-destinatario5. Gli argomenti svolti in questi elogi paradossali, in particolare il vegetale’, mostrano una évidente vicinanza con l’universo tematico della produzione burlesca, nonostante l’Aretino della seconda ‘maniera’ prendesse esplicitamente le distanze da quel tipo di letteratura, soprattutto nella forma più rappresentativa del capitolo temario6. l’awento della stampa cfr. A. Q uondam, La letteratura in tipografia, in Letteratura italiana, dir. da A. Asor Rosa, II: Produzione e consumo, Torino, Einaudi, 1983, pp. 555-686. Per i rapporti tra opéré letterarie e officine tipografiche essenziale anche P. T rovato, Con ogni diligenza corretto. La stampa e le revisioni editoriali dei testi letterari italiani (1470-1570), Bologna, il Mulino, 1991. Per la «nuova moda» dei formati antologici, vuoi di lettere, vuoi di rime, cfr. C. D ionisotti, La letteratura italiana nelVetà del concilio d i Trento (1965), in Id ., Geograjia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1971, pp. 227-54 (237). 4 Si tratta rispettivamente delle lettere n. 164 «A M. Agostin Ricchi» (Venezia, 10 luglio 1537), n. 216 «A M. Girolamo Sarra» (Venezia, 4 novembre 1537), n. 315 «A Malatesta mastro di stalla de le Muse» (Venezia, 21 dicembre 1537). Si cita da P. A retino, Lettere, t. I, libro I, a c. di P. Procaccioli, Roma, Salerno Ed., 1997 (vol. IV delTEd. Nazionale delle Opere di Pietro Aretino). 5 Cfr. P. Procaccioli, Introduzione, ivi, pp. 31 e sgg. e Id ., Lo scrittore alVabaco. La partita doppia d i Pietro Aretino, in Cinquecento capriccioso e irregolare. Eresie letterarie nelVltalia del Classicismo. Seminario di Letteratura italiana (Viterbo, 6 febbraio 1998), a c. di P. P. e A. Romano, Manziana (Rm), Vecchiarelli, 1999, pp. 149-72. 6 Per i riferimenti polemici di Aretino nei confronti dei capitoli burleschi di Bemi, cfr. la celebre lettera del sogno di Pamaso, la n. 280 «Al S. Gianiacopo Lionardi» (Venezia, 6 dicembre 1537), e la lett. n. 297 «Al Fausto Longiano» (Venezia, 17 dicembre 1537), dove la stroncatura si estende al genere elogio paradossale, richiamato dal riferimento alia Mosca di Luciano: «Che vi par di quei che si credettero trottar per omnia secula co i capitoli de i cardi, de gli orinali, e de le primiere, non si accorgendo che si fatte ciancie partoriscono un nome che muore il di che egli nasce? Altro doppo le lodi de la mosca compose Luciano» {Lettere, t. I, libro I cit, p. 409). Contro i capitoli del Bemi, Aretino toma a scagliarsi nella lettera inviata a Francesco Calvo, il 16 febbraio 1540 (lett. n. 156, in P. A retino, Lettere, t. II, libro II, a c. di P. Procaccioli, Roma, Salerno Ed., 1998, pp. 176-77), ma questa volta la posta in gioco è la stampa del Rifacimento bemesco àÆInnamorato del Boiardo, contenente, nella stesura originaria, materiale antiaretiniano (poi eliminato nella redazione allestita per la stampa del 1542). Per questo aspetto, e per la ingiuriosa Vita d i Pietro Aretino, uscita nel 1538 sotto il nome del Bemi, rinvio a P. Procaccioli, Introduzione a G.A. A lbicante, Occasioni aretiniane (Vita d i Pietro Aretino del Berm, Abbattimento, Nuova contentione), Testi proposti da P. P., Manziana (Rm), Vecchiarelli, 1999, che attribuisce la maledica biografia a Giovanni

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Un capitolo «in laude del vemo», Messer compare, se v i ricordate, di Quinto Gherardo, comparve a stampa per la prima volta nelle sue Terze rime piacevoli\ pubblicate a Venezia presso Agostino Bindoni nel 1537; l’insalata, ortaggio assai presente nel repertorio botanico della poesia burlesca, è lodata dal Molza nel «capitolo della insalata a M. Trifone», Un poeta valente m i promise, incluso nella silloge Terze rime del Molza, del Varchi, del Dolce et d'altri, apparsa a Venezia presso Curzio Navô nel 1539; infine due capitoli del Mauro «in disonore dellonor al Prior di Iesi», Voisapete. Prior, che v o iet io e Io non vim issi a tavola, Priore, comparvero il primo nella raccolta I capitoli del Mauro et del Bemia et altri authori..., édita a Venezia presso Curzio Navô nel 1537, il secondo nella seconda sezione {Tutte le terze rime del M auro..) della silloge uscita, sempre per i tipi di Curzio Navô, nel 1538 (dove venne ripubblicato anche il primo)7. Nei testi di Aretino l’occasione delle lodi paradossali non offre il prêtesto per Passunzione di una tecnica scrittoria bizzarra, dominata dal gusto delFaccumulo e delPinserto curioso, secondo modalità stilistiche consuete negli elogi paradossali. Gli spunti in tale direzione, pur presenti, sono come controllati e trattenuti, magari in nome di quella scelta stilistica della brevitas, dichiarata ad esempio, sulla scorta forse del De conscribendis epistolis di Erasmo, nella lettera «Al Fausto Longiano» del 17 dicembre 1537: «II caso è ridurre, come ho fatto io, in un mezzo foglio la lunghezza de Pistorie e il tedio de Forazion, come si puô vedere ne le mie lettre»8.

Albicante. Dal canto suo Bemi, se era estraneo all’operazione diffamatoria confluita nella Vita, uscita con il suo nome, aveva, perô, come noto, precedenti antiaretiniani, testimoniati dall’invettiva Contra Pietro Aretino, composta con ogni probabilité nel 1527 (n. XXXII dell’ed. di F. Berni, Rime, a c. di D. Romei, Milano, Mursia, 1985). 7 II capitolo di Quinto Gherardo comparve anche nella ristampa del Secondo Hbro dellyOpere buriesche, d i M. Francesco Bemi, del Molza, diM . Bino, diM . Lodovico Martelli, diM attio Franzesi, delVAretino e d i diversi Autori, Firenze, Giunti, 1555; la lode dell’insalata del Molza fu ripubblicata anche nel Primo libro delVOpere buriesche d i M. Francesco Bemi, d i M. Gio. della Casa, del Varchi, del Mauro, d i M. Bino, del Molza, del Dolce, et del Firenzuola, uscito a Firenze presso i Giunti nel 1548, dove figurano anche i due capitoli del Mauro «in disonore dell’onore». Cfr. il regesto dei capitoli burleschi a stampa fomito nelle Appendicite. S. Longhi, L u s u s . Il capitolo burlesco nel Cinquecento, Padova, Antenore, 1983, pp. 247-80. Per l’ipotesi di una conoscenza da parte di Aretino dei due capitoli burleschi usciti nel 1537 («Iode del vemo» di Gherardi, e il capitolo «in disonore dell’onore» del Mauro) cfr. ivi, p. 64. 8A retino, Lettere, t. I, libro I cit., p. 409. Per l’ipotesi di un’influenza déterminante del De conscribendis erasmiano sulla progettazione delle Lettere di Aretino, attraverso la mediazione di Niccolô Franco, cfr. C. Cairns, Nicolô Franco, VUmanesimo méridionale, e la nascita delVepistolario in volgare, in Cultura méridionale e letteratura italiana. I modelli narrativi delletà modema. Atti dell’XI Congresso dell’AISLLI (Napoli, 14-18 aprile-Salemo, 16 aprile 1982), a c. di P. Giannantonio, Napoli, Loffredo, 1985, pp. 119-28.

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Nella lettera in biasimo dell’onore, ad esempio, la degradazione e banalizzazio n e dei personaggi dell’antichità classica si dispone in un elenco divertito, che non oltrepassa perô la misura del breve inserto comico: Che vi parse di Lucrezia? Non fu ella matta a tor consiglio da Lui? Era una galantaria il beccarsi la stretta datale da messer Tarquino, e vivere. Quella altra pecora di Curzio si gittô in un cesso per compiacere a l’onore. Muzio bestia arse la mano pur per suo conto. So che il soppiattone non ci colse le migliaia de i Romani savi che andarono sotto il giogo a le forche caudine. Regolo rimbambito lo maledisse più d’una volta, tosto che senti ne la botte le diaboliche punte de i chiodi. Buon per Grecia e per Troia, se Menelao castronaccio faccendo a senno di Monna vergogna lasciava Elena al suo berton Paris9. Niente a che vedere con la ripetizione dello stesso schema in una successione di segmenti testuali, dedicato ciascuno alla rassegna di una diversa categoria di personaggi, che si dispiega, ad esempio, nella Lode della furfanteria di Iacopo Bonfadio, su cui si avrà modo di tornare. Semmai, le lettere forniscono il pretesto per godibilissime descrizioni movimentate da giocose personificazioni e da gustosi inserti culinari: il tutto offerto al lettore in una pagina sapientemente costruita, dove l’efFetto di spontaneità e freschezza non ha nulla, a dire il vero, deU’improwisazione, o dell’approssimazione, che la poetica della ‘naturalezza’ propaganda più per motivi ‘ideologici’ di opposizione alla cultura ufiiciale che non per effettive pratiche di scrittura. La natura distesa, conversevole e divagatoria delle lettere, fatta eccezione per il biasimo dell’onore, dove il tono è più risentito e polemico, non impedisce ad Aretino di insinuare nella trama descrittiva indicazioni di poetica, e riferimenti a modelli culturali e antropologici alternativi. La lode del «verno» si âpre con un invito ad Agostino Ricchi, suo «creato», a raggiungerlo e ad abbandonare «le diavolarie d’Aristotele»: esplicita dichiarazione antiaccademica e antidottrinale, in nome di una cultura libera, creativa, svincolata da imposizioni e restrizioni dogmatiche. E si veda corne nella chiusa la preferenza accordata a una conversazione di tipo invemale «intomo a un buon fuoco», rispetto a una estiva, ambientata nel topico locus amoenus, diventi pretesto per proporre modelli comportamentali e letterari diversi da quelli imposti dal più rigido petrarchismo bembista:

9 A retino, Lettere, t. I, libro I cit., p. 434.

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E altro ciarlamento si fa intomo a un buon fuoco, che a l’ombra d un bel faggio, perché mille cortigianerie appetisce l’ombra. Ella vole il canto de gli uccelli, il mormorio de l’acque, il respirar del vento, la ffeschezza de l’erbe, e simili cianciette. Ma quattro legne secche hanno tutte le circunstanze che bisognano nel chiacchiarare di quattro o cinque ore, con le castagne sul tondo, e il vin fra le gambe. Si che amiamo il vemo primavera de gli ingegni10. La descrizione della vaghezza delle insalate, in cui immagini piuttosto ricercate si affiancano a inserti realistici, come il naso che non résisté a non «fiutare» i «fiori sparsi nel verde», o l’allusione alia squisitezza del condimento «a la Genovese», cede il passo a un colorito attacco antipedantesco: Non so che pedante per lettra facendo visaccio a una che l’altro di mi mandaste, entrô a celebrare la lattuga e l’indivia, prive d’ogni odore, tal che Priapo Iddio de i giardini, adirato con esso seco, délibéra di cacciarsigli dietro bestialissimamente, perché più vale un pugno non di mescolanza domestica, ma di radicchio salvatico unito con un poco di nepitella, che quante lattughe e indivie for mai11. Che l’epistolario di Aretino sia disseminato di indicazioni di poetica, che poi si traducono nel rifiuto di ogni poetica, con rivendicazioni di una cultura libera fondata sulla natura e non sui libri, è un dato del resto noto. Cio che mi premeva sottolineare è che, in uno scrittore come Aretino, e poi nei suoi ‘seguaci’ Doni e Lando12, la scelta tecnica dell’encomio paradossale si inscrive in una globale prospettiva culturale e antropologica che si riflette sui modi di concepire e fare letteratura. Una lode del «vemo», ad opera di Girolamo Muzio, si legge anche nel «Libro Primo» delle Letterefacete, etpiacevoli d i dtversigrandihuomini, et chiari 10 Ivi, p. 243. 11 Ivi, p. 307. 12 Nella prospettiva dei rapporti Aretino-Lando, si puô ricordare un’altra lettera aretiniana

appartenente al genere paradossale deU’epistola-consolatoria: si tratta della lettera del marzo 1548 «A maestro Antonio» (è la lett. n. 384 del tomo IV, libro IV, dell’ed. a c. di P. Procaccioli, Roma, Salerno Ed., 2 0 0 0 , pp. 242-43), in cui si consola il destinatario della sua sordità e della cecità della moglie; come osserva Procaccioli qui «l’elogio della cecità sembra almeno presupporre il quarto paradosso [landiano], M Che meglio è d’esser ceco, che illuminato", se non proprio dipendere da esso» (Procaccioli, L o scrittore alVabaco cit., p. 151, n. 5); ma per l’ascendenza classica di tale motivo paradossale e per le altre testimonialize nella letteratura volgare cfr. il commento al «paradosso IV» in O. Lando, Paradossi, cioè sentenzefuori del comun parère, a c. di A. Corsaro, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2000, pp. 115-21. Lando, per altro, si cimento nel genere con il volume Comolatorie de drversi autori nuovamente raccolte, In Vinegia, al segno del pozzo, 1550.

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ingegni, uscito per le cure di Dionigi Atanagi a Venezia, presso Bolognino Zaltieri, nel 156113. La dedica del curatore consegna la raccolta all’ambito di una letteratura che si prefigge la finalità terapeutica della «conservatione di se medesimi» e del diletto, qui espresso nella variante del riposo, della gratiosa piacevolexza in grado di rinfrancare l’animo14. Si tratta, come évidente, di argomentazioni che il «libro di lettere facete», come nuovo genere, prende in prestito dalle epistole dedicatorie sia delle sillogi di capitoli burleschi, sia delle raccolte di novelle e facezie15. E a questa funzione di divertimento giocoso, che non esclude, tuttavia, un palese intento satirico nei confronti della Roma di Paolo III, risponde di certo la «Lode della Furfanteria» che nella raccolta è presentata come lettera «d’incerto autore. A1 Furfante Re della Furfantissima Furfanteria»16. Si tratta di un elogio paradossale, attribuito a Iacopo Bonfadio e restituitoci in edizione critica da Aulo Greco, il quale propone come anno di composizione il 153817. La datazione riconduce il testo nell’alveo della produzione 13 Se ne veda la ristampa anastatica a c. di S. Longhi, Bologna, Fomi, 1991; per una descrizione delle diverse edizioni della raccolta cfr. XIntroduzione, pp. v-xxrx (vi-xii). Su Atanagi cfr. la voce redatta da C. M utini nel DBI, IV, pp. 503-06 e i contributi di G. M eyrat, Dionigi Atanagi e un esempio dipetrarchismo nel Cinquecento, «Aevum», lii (1978), 3, pp. 450-58 (dove per altro si dà l’informazione che nel codice H 175 inf!, conservato presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano, sono conservate lettere di mano dell Atanagi, preparate per l’edizione delle Letterefacete, p. 453, n. 20) e di A. C orsaro, Dionigi Atanagi e la silloge per Irene d i Spilimbergo (Intomo alia formazione delgiovane Tasso), «Italica», 75 (1998), 1, pp. 41-61; ma si veda anche C. Di Filippo Bareggi, Il mestiere d i scrivere. Lavoro intellettuale e mercato librario a Venezia nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1988, p. 34. Sulla raccolta cfr. Basso, Le genre epistolaire cit., I, pp. 204-07. Le lettere in persona e in lode del Vemo e in biasimo della State sono le n. CLXXXII e CLXXXIII; si possono leggere anche (la seconda in forma solo parziale) in Lettere del Cinquecento, a c. di G.G. Ferrero, Torino, Utet, 19672, pp. 474-90. 14 Sulla notevole differenza che intercorre tra la dedica di Atanagi e quella di Turchi, curatore del «Libro Secondo», interpretata come segno di un cambiamento radicale della «prospettiva di lettura, di uso, di questi testi faced», cfr. Q uondam, D al «formulario» a l «formulario» cit, pp. 91-92. 15 Per le prefazioni delle raccolte di rime burlesche rinvio a Longhi, L u s u s cit., pp. 15154; per quelle delle novelle (a partire dal modello boccacciano) e delle facezie alia rassegna fomita da N. Ordine, Teoria della novella e teoria del riso nel Cinquecento, Napoli, Liguori, 1996, soprattutto le pp. 51 e sgg. 16 Lett n. CXXII, pp. 323-36 dell’edizione Atanagi delle Lettere facete cit. 17 Cfr. I. Bonfadio, Le lettere e una scrittura burlesca, Ed. critica con Introd, e commento di A. Greco, Roma, Bonacci, 1978 (il testo è aile pp. 159-67). Per notizie biografiche su Bonfadio, vicino all’ambiente dei riformati, vedi l’lntrod. di Greco, pp. 9 - 10 , n. 1. Qui ricordo soltanto la sua condanna a morte, eseguita a Genova il 19 luglio 1550, con l’accusa di sodomia («ma mold dubbi fiirono sollevati sulla ragione autendca [...]; ultima ma forse più probabile ipotesi è quella che suppone che sotto il pretesto della sodomia si nascondesse una ben più grave

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deirAccademia della Virtù, che proprio nel camevale di quell’anno, il 1538, conobbe un momento di intensa e giocosa attività18. I termini «furfante» e «furfanteria» entrano nelluso letterario proprio nel Cinquecento; e una rapida ricerca effettuata con la L IZ indica che le prime attestazioni sono non solo cinquecentesche ma anche pertinenti al registro comico: l’area di attestazione del termine si estende dalla Lena dell’Ariosto fino al Candelaio del Bruno, attraverso autori come Bemi, Ruzante, Aretino, Grazzini. Dal GDLI, che fomisce altri esempi di autori cinquecenteschi, come Giovanni Maria Cecchi, Matteo Bandello ecc., si ricava invece che nelluso cinquecentesco il lemma «furfante» poteva anche essere usato con una sfiimatura semantica connotante un’estrazione bassa e plebea, come del resto emerge dall’elogio di Bonfadio19. accusa di eresia», ivi, p. 9). Si veda anche la voce Bonfadio di R. U rbani in DBI, XII, pp. 6-7. Per Bonfadio come «fervido discepolo del Valdés> cfr. E. G aravelli, Lodovico Domenichi e t 'Nicodemiana' d i Cahino. Storia d i un libro perduto e ritrxruato, Con una presentazione di J.-F. Gilmont, Manziana (Rm), Vecchiarelli, 2004, pp. 23-24. Ortensio Lando lo ricorda cosi nei Cathaloghi: «Iacopo Bonfadio Poeta eccellente et Oratore elegante, accusato da Genovesi d’haver contra natura operato fii alii di passati arso con grande dispiacere de i studiosi»; «scrisse le stone de’ Genovesi con stile eguale, dolce, et temperato. Fu poi arso per opra de’ falsi accusatori» (cit. dall'Indice degli autori, in appendice a A nonimo di U topia [O. L ando ], La sferza de' scrittori antichi et modemi, a c. di P. Procaccioli, Roma, Vignola, 1995, p. 94). II manoscritto che contiene le «lodi della fiirfanteria», segnalato da P.O. Kristeller nel suo Iter Italicum, è conservato presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano, segn. A 13 inf. mise. XVI; cfr. G reco, Introduzione a B onfadio , Le lettere cit., p. 31. Prima dell’ed. modema, il testo di Bonfadio venne pubblicato, con omissioni e lacune, per le quali cfr. infra (p. 149 e Appendice U, pp. 198-99), solo nelle Lettere facete dell’Atanagi. 18 Su questa accademia romana, oltre all’ovvio M. M aylen d er, Storia dette Accademie d'ltalia, 5 voll., Bologna, Cappelli, 1926-30 (rist. anast. Bologna, Fomi, 1976), V, pp. 478-80, cfr. G. F erroni, Lettere e scritti burieschi d i Annibal Caro tra il 1532 e il 1542, «Palatino», xu (1968), 4, pp. 374-86, a cui rimando anche per i contributi bibliografici anteriori. Si veda anche G reco , Introduzione a B on fad io, Le lettere cit., pp. 32-36; L onghi, L u s u s cit., pp. 43-47; D. Romei, Bemi e bemeschi del Cinquecento, Firenze, Centro 2p, 1984, pp. 52-55; V. De Caprio, Roma, in Letteratura Italiana. Storia e geografia, dir. da A. Asor Rosa, II: L'età modema, I, Torino, Einaudi, 1988, pp. 327-472 (461-63). Ma da ultimo si vedano i contributi di E. G a r a v e lli, Presence burchiettesche (e altro) nel «Commenta d i Ser Agresto» d i Annibal Caro, in La fantasia Juor de' confiai. Burchietto e dintom i a 550 anni dalla morte (1449-1999). Atti del convegno (Firenze, 26 novembre 1999), a c. di M. Zaccarello, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2001, pp. 195-239 (195-206); Id., «Perché Prisciano non facci ceffo». Ser Agresto commentatore, in Cum notibusse et comentaribusse. L'esegesiparodistica e giocosa del Cinquecento. Seminario di Letteratura italiana (Viterbo, 23-24 novembre 2001), a c. di A. Corsaro e P. Procaccioli, Manziana (Rm), Vecchiarelli, 2002, pp. 57-77; e P. C o sen tin o , L'Accademia della Virtu: dicerie e cicalate d i Annibal Caro e d i altri Virtuosi, ivi, pp. 177-92. 19 Tra gli esempi dell’accezione ‘che è di vile condizione, vagabondo, pitocco’ il Battaglia riporta un passo dei M ondi celesti, terrestri et infemali... di Doni, citato dall’ed. Venezia, 1583: «Parendoli a costui il plebeo esser diventato signore, si deliberô di farsi vedere a suoi parenti

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Il testo è costruito con l’impiego dei materiali tipici delle scritture burlesche in prosa: dall’abuso scherzoso della figura etimologica, concentrato nell’intestazione e nella protasi20, e affiancato, nel resto del testo, dal gu­ sto delle variazioni bizzarre intomo al termine ‘furfante’ («alla Furfantesca», «modi furfantili», «arti fiirfantili», «il vivere, e i costumi Furfanteschi», «fiirfantare») all’accumulo terminologico; dalla mimesi parodica dei diversi stili, come quello filosofico e sillogistico, o della storiografia e trattatistica politica, o ancora oratorio21, all’abbassamento giocoso degli antichi personaggi associato all’inserzione di corniche glosse esplicative22; dalle divertite pseudo-derivazioni onomastiche23 alia perorazione finale con l’esortazione a diventare ‘furfanti’. Una sequenza di rassegne deformanti, in cui si ripete lo stesso schema, costituisce l’impianto del testo: la disposizione elencatoria si apre con la galleria dei personaggi della mitologia e prosegue con le sezioni dedicate agli eroi della storia antica, agli imperatori romani e ai sapienti. Microcosmi ‘fiirfanteschi’, animati da ‘sgualdrine’ e ‘malandrini’ intenti ad attività popolafurfanti, e mostrare quanto e’ fosse divenuto nobile e ricco» (p. 74); ma ora vedi A.F. D oni, I M ondi e g li Infemi, a c. di P. Pellizzari, Introd. di M. Guglielminetti, Torino, Einaudi, 1994 (il passo è a p. 73). Sull’uso comico e novellistico del termine si veda anche G reco, Intrvduzione a Bonfadio, Le lettere cit., p. 31. 20 «e [considerando] di quanta autorità sia non solamente la Maestà V. Furfantesca, ma il minimo Furfante della vostra eletta Furfanteria, sono stato sforzato dalla mia Furfantaggine a farvi con questo mio discorso toccar con mano, di quanta preminenza e di quanto valore sia la Furfanteria, e chi lei segue» (Lettere facete, ed. Atanagi, p. 323). 21 «La quai principalmente trovo esser più antica assai del Boccaccio, anzi più della torre di Nembrotte: e essendo antica è di nécessita che sia eccellente e perfetta: et per conseguenza ogni Furfante eccellente, e perfetto» (ibid), dove oltre alia ripresa giocosa delTargomentazione logica è évidente anche un’allusione divertita al culto dell’antico imperante nella Roma del tempo; «discorrendo tutti gli altri regni [...] troverete che tutti hanno havuto principio, origine, et fondamento dalla Furfanteria. Né mai huomini alcuni, o rari, sono pervenuti in altezze et eccellenze di stati, se prima non sono stati Furfanti; né quelli con pace lungamente retto, se non hanno perseverato nella Furfanteria» (ivi, pp. 328-29; per quanto riguarda la mimesi dello stile oratorio, segnalo che tutta la p. 331 è costruita con una serie di domande retoriche in sequenza, a cui si risponde, per il primo tratto, con lenfatica ripetizione olofrastica: «I Furfanti»). 22 «Tito Tatio fu un mulattiere da Fiano Castel di Sabina: ancor che la Signora Helena Regina de Furfanti dica che si dee dire Foiano, che cosi è il nome suo antico» (ivi, pp. 32930); «Mutio Scevola fu fomaro, che sapete che fama acquistô col foco et col ferro, che non si euro d’abbrucciar la mano, per salvar la Furfanteria Romana, benché Matteo di Biello dica che gli fu mozza la mano dalla giustitia, perché in quello assedio in che era allhora Roma, mescolava la farina di fave con quella di grano, perché pesasse più il pane; contra la cui opinione replica Panutio che abbruciô la mano, per cavare una cacchiata di pane del fomo che abbruciava» (ivi, pp. 330-31). 23 Cfr. ivi, pp. 331-32.

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ri, vengono esibiti in un gioco continuato di abbassamento e riduzione verso il materico e corporeo: a Giove, seguito in tutti i travestimenti tentati per la soddisfazione dei suoi desideri sessuali, si affiancano anche Plutone «fomaciaio», Nettuno «pescatore» o forse «pescivendolo», Bacco «barilaro» o forse «sensale di vini», Cupido «un ruffianetto in chermisî», Giunone «gallinara», Diana «lavandara», Venere «una sgualdrina, più che la Pulliccia in Fiorenza». Come mostra quest’ultimo riferimento a Venere, l’effetto di abbassamento parodico è ottenuto anche attraverso paragoni denobilitanti con strambi personaggi tra il novellistico e il municipalistico: «Vulcano, come ognun sa, fù un fabbro più fallito che il Bratti ferravecchio. Apollo un cacciatoruzzo, che andava cacciando il naso per tutto, peggio che non fa il nostro Ulgiado Arcifurfantone» (Letterefacete, ed. Atanagi, pp. 327-28). Se Atanagi nella dedica pone l’accento sul «diletto», e fomisce quindi anche un segnale, pur mediato dalla natura topica degli spazi ‘liminari’, per la ricezione dell’elogio di Bonfadio, consegnato - complice il taglio censorio del riferimento alia corte romana, per cui si veda più avanti - alia dimensione dell’intrattenimento giocoso, Turchi, nella dedica al «Libro Secondo» delle Letterefacete24, insiste sulla natura retorica delle lettere, presentate al lettore come esempi delle possibilité espressive degli stili oratori25. E senz’altro 24 Delle letterefacete; et piacevoli, d i diversi grandi huomini, et chiari ingegni, Scritte sopra diverse materie, Raccolte per M. Francesco Turchi, Libro Secondo, In Venetia, 1575 (d’ora in avanti Letterefacete). La marca tipografica è di Andrea Muschio: cfr. Le «carte messaggiere» cit., p. 282 (l’attribuzione era già nella Biblioteca dell'eloquenza italiana di G. Fontanini con le annotazioni di A. Zeno: Parma, per li Fratelli Gozzi, 1803,1.1, p. 203). Della raccolta Turchi ho consultato la copia conservata in BAV, segn. Ferraioli. V. 7545 da cui cito. Su Francesco Turchi, carmelitano (nato a Treviso, morto nel 1599) cfr. la Biblioteca Italiana ossia notizia d e'librirari italiani divisa in quattroparti..., già compilata da N. F. Haym, Ed. corretta, ampliata [...], Milano, Presso Giovanni Silvestri, 1803,1, p. 27, II, pp. 88 , 125,212, IV, pp. 234,288; e la Bibliotheca Carmelitana..., tomus primus, Excudebant M. Couret de Villeneuve &J. Rouzeau-Montaut, [...] Regiique Aurelianensis Collegii Typographi & Bibliopolae, 1752, coll. 521-23, n. XCEX. Fatta eccezione per i titoli che pertengono alla letteratura religiosa e devozionale - che costituiscono per altro il grosso della produzione - Turchi collaboré, con la stesura di apparati, quali strumenti di consultazione o annotazioni e postille esplicative, a edizioni di autori latini (volgarizzati) e di testi della letteratura volgare ‘contemporanea’, come all’ed. Giunti 1575 delle Deche di Tito Livio, tradotte da Nardi; all’edizione (Venezia, appresso Camillo Franceschini, 1578) delle Metamorfosi di Ovidio, ridotte da GiovanniAndrea dell'Anguillara; all’ed. giolitina del 1568 delle Rime, et Satire d i Ludovico Ariosto; compose, inoltre, una Canzone alVlllustriss. [...] Cosimo de Medici, In Fiorenza, per i figlioli di Lorenzo Torrentini, 1565; per queste opere, per lo più riedite, cfr. il censimento dell’Istituto Centrale per il Catalog© Unico-Edit 16. 25 Cfr. Lettere facete, c. 4 r-v. L’associazione della lettera a un dialog© a distanza, e, quindi, l’estensione delle norme retoriche che regolano la composizione delle orazioni al corpo delle lettere, costituiva un locus communis delle teorizzazioni epistolografiche (cfr. Longo, «De epistola

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Tottica retorica costituisce una chiave di lettura indispensabile anche per penetrare nei meccanismi compositivi degli elogi paradossali, che nella raccolta di Turchi figurano in modo più cospicuo rispetto alia silloge di Atanagi. Del resto questi testi proprio attraverso un uso marcato della retorica comunicano per intero l’ambiguità polisemica delTargomentazione paradossale, in una contaminatio continua del discorso tra il ludico e il serio. La presenza di ben sei elogi paradossali nella raccolta curata da Turchi autorizza una considerazione inerente ai problemi posti dalla stampa e dalle esigenze del mercato éditoriale. L’inclusione di lettere-orazioni segna il massimo grado del processo di negazione e rimozione della lettera familiare di tipo informativo nella genesi del libro di lettere26. A1 contempo proprio le mirate operazioni di selezione dei materiali, che presiedono alia composizione degli epistolari, fomiscono indicazioni sugli orientamenti del mercato editoriale, in rapporto, si presume, alia domanda da parte dei lettori: in un volume, come quello di Turchi, destinato al largo consumo27, Pinserzione di elogi paradossali risponde, con ogni probability alPintento di reimmettere sul condenda». L ’arte d i “comporterlettere"nelCinquecento, in Id., Letteratura e lettere cit., pp. 119-40). Oltre all’orazione l’epistola veniva accostata al dialogo come pars altera dialogi. 26 Per questi aspetti cfr. M oro, Selezione, autocensura cit. Assai opportunamente in questo contributo si richiama l’attenzione sullo «status paradossale» della lettera ‘familiare’ a stampa, messo in evidenza da Sperone Speroni in una lettera a Benedetto Ramberti, presente nella raccolta aldina del 1542: «La stampa è cosa totalmente contraria alla profession che vuol fare una lettera famigliare, la quale a guisa di monaca o di donzella dee stare ascosa senza esser vista, se non a caso» (cff. ivi, pp. 69-70). Se da una parte la lettera familiare non dovrebbe approdare alia stampa, dall’altra, diffuse sono le proteste degli autori nei confronti dei «furbi librari che stampano ogni scempiezza» e dell’«ingordigia de gli stampatori» (le espressioni sono rispettivamente in una lettera di Annibal Caro inviata a Bernardo Spina il 10 settembre 1545 - dove l’autore invita il destinatario a stracciare le lettere non appena lette, «perché adesso ho visto andare in processione alcune mie letteraccie che me ne son vergognato fin dentro l’anima» - e in una lettera di Claudio Tolomei a M. Giovambattista Grimaldi, inviata da Roma il 12 maggio 1544; cfr. ivi, pp. 70-71). 27 II dato della popolarità di questo libro ha avuto un’ulteriore e recente conferma da E. Russo, II mercato dei classici: la letteratura italiana nella bottega d i Aldo M anuzio il giovane, «Nuovi Annali della Scuola Spéciale per Archivisti e Bibliotecari», xrv (2001), pp. 21-53: dallo studio di un inventario contenuto nei registro della bottega di Aldo Manuzio il giovane, tramandato dal ms. Vat. Lat. 7129 rinvenuto da Russo (il cui contenuto è stato descritto in un precedente contributo: Id., Un contratto nei registro d i bottega d i Aldo M anuzio il giovane, «Accademie e Biblioteche d’Italia», lxvi [1998], 4, pp. 5-20), si ricava che il «Libro Secondo» delle Lettere facete raccolte da Turchi è presente con un notevole numéro di copie, ben 135 (cfr. pp. 51-52 e n. 175). Il numéro delle copie, se confrontato ai dati relativi allé altre opere inventariate, si rivela decisamente alto: per quantité di presenze in bottega il libro di Tur­ chi è al secondo posto, superato soltanto dai lavori eruditi di Aldo il giovane stesso; dato, quest’ultimo, irrilevante nello stilare la classifica dei libri di maggior successo, per un’ow ia ragione di ‘conflitto di interessi’.

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mercato, debitamente espurgati, dei prodotti in grado di assolvere senz’altro a fiinzioni di intrattenimento, i quali conservassero perô, al contempo - almeno per un’eventuale fetta di pubblico, disposta a recepire, dietro la superficie più apparentemente svagata, il messaggio ‘secondo’ - una natura di testi altemativi, non annullata, nella sostanza, dalla revisione censoria. Il primo elogio paradossale che si incontra nella raccolta di Turchi è la «lode del naso», la cosiddetta Nasea o «diceria de’ nasi»28, qui fittiziamente attribuita al Barbagrigia Stampatore, cioè Antonio Blado, ma in realtà com­ posta da Annibal Caro nel camevale del 1538 e pubblicata per la prima volta, l’anno successivo, in appendice al Commento d i Ser Agresto da Ficaruolo sopra la prima Ficata del padre Siceo29. La scelta del naso, già di per sé, senza tener conto delle deformazioni iperboliche che esso subisce nel trattamento burlesco, non è affatto neutra: nella descriptio personae del codice lirico alto, infatti, il naso, come parte anatomica piuttosto disdicevole, non è mai menzionato3031.Esso invece non a caso è presente nel repertorio dei componimenti burleschi, come documentano i capitoli di Pietro Nelli, Le Muse, Apollo, le pive e Pamaso, e di Lodovico Dolce, Ualtrier, leggendo una scrittura a cason . Ma non solo nei capitoli

28 È la lettera n. 33 «A1 sesto Re della virtù, detto Nasone. Autore il Barbagigia [sic] Stam­ patore» (Lettere facete, pp. 75-84). Sulla Nasea, e sull’altra «diceria» del Caro, La statua della foia owerv d i Santa Nafissa, composta con ogni probabilité nello stesso 1538, ma inedita fino al XIX secolo (Dicerie d i Annibal Caro e d i altri a ' re della Virtù, a c. di B. Gamba, Calveley-Hall [ma Venezia, Tip. de Alvisopoli], 1821), cfr. Ferroni, Lettere e scrittiburleschicit., pp. 379-80. Sull’antologia curata da Bartolomeo Gamba, in cui La Nasea owerv Diceria de' nasi s\ legge allé pp. 19-30, seguita dalla lettera del Caro a Giovanfrancesco Leoni in Francia (qui datata «di Roma a 16 d’Aprile 1538») cfr. C osentino, L'Accademia della Virtù cit. La Nasea con la lettera al Leoni del 10 aprile 1538 fu édita anche nel volumetto Commento d i Ser Agresto da Ficaruolo sopra la prim a ficata del Padre Siceo, Bologna, Presso Gaetano Romagnoli, 1861; e di nuovo nel XII volume della «Biblioteca rara» pubblicata da G. Daelli: G li Straccioni commedia. La Ficheide comento. La Nasea e La statua dellafoia dicerie d i Annibal Caro, Milano, G. Daelli e Comp. Editori, 1863 (anche in rist. anast.: Bologna, Fomi, 1974). Delle Prose burlesche di Caro si attende un’ed. critica a c. di A. Sorella, annunciata come in corso di stampa nel Regesto bibliografico in appendice al volume Cum notibusse et comentaribusse cit., p. 279. 29 Sul commento cfr. i contributi di Garavelli citati supra alia n. 18. 30 Cfr. A. Q uondam, II naso d i Laura. Considerazioni sul ritratto poetico e la comunicazione lirica, in Id ., II naso d i Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del Classicismo, Modena, Panini, 1991, pp. 291-328, che assai opportunamente richiama la questione «arguta e piacevole» sollevata dal cavalier Bottazzo nel IV libro della C ivil conversazione di Stefano Guazzo, in riferimento al naso della Laura del Petrarca: «il quale [naso] non fu nominato dal poeta, né in lode né in biasimo, e par quasi ch’egli sia più tosto soggetto da romanzi e da capitoli bemieschi, dove piacevolmente si ragiona degli uomini nasuti» (S. G uazzo, La civil conver­ sazione, a c. di A. Quondam, 2 voll., ivi, 1993, I, p. 312). 31 Pubblicati rispettivamente nel Secondo Libro delle Satire alia carlona di Messer Andrea da

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bemeschi. Il naso fa la sua comparsa nelle descrizioni condotte secondo il canone dell’effictio, anche in quei testi che si collocano su orizzonti culturali alternativi rispetto al rigido petrarchismo bembista, o quanto meno che, pur all’intemo di soluzioni petrarchiste, mostrano una maggiore disponibilité e apertura ad accogliere suggestioni provenienti da altre tradizioni letterarie, con esiti di maggiore liberté e flessibilité espressiva. Mi limito a due esempi. Il primo riguarda un testo dalla struttura assai particolare e composita (consona alio sperimentalismo compositivo dell’autore): si tratta del Dialogo della musica di Anton Francesco Doni, pubblicato a Venezia per i tipi di Girolamo Scotto nel 1544. Nel testo, che antologizza ventotto madrigali, si leggono anche piacevoli ‘ragionamenti’ svolti tra diversi interlocutori. U naso non è affatto omesso, come attributo della bellezza femminile («a cui il naso ben composto fa omamento»), nella descrizione muliebre con cui il Domenichi prende parte, tra gli altri interlocutori, a una gustosa ‘disputa’ sul «formare una bella donna» - superfluo il richiamo al Cortegüzno il registro prosastico, più libero per tradizione rispetto al codice lirico, non toglie valore alia scelta di includere il naso nel ritratto della donna; infatti, gli scambi dialogici tra i diversi personaggi si svolgono in un contesto di critica al bembismo ufficiale, qui colpito prevalentemente nelle sue modalité esegetiche. A tale proposito compare una casuale forse, ma curiosa menzione del naso del Petrarca stesso, a colorire una frecciata contro i commentatori petrarcheschi che «vanno stuzzicando tutt’il dl il naso al Petrarca per farlo uscire del seminato». La circostanza è resa ancor più godibile dall’inserzione di proposte paradossali («delle brutte [donne] noi faremmo cento milia deche») e dall’espediente di portare la parola del Doni nella ‘brigata attraverso la presenza di una lettera: Selvaggia (da identificare con Isabetta Guasca), Tunica donna che partecipa alia discussione, infatti legge una lettera (che precede il canto XV, Chiaro leggiadro lume che dal delà) scritta dallo stesso Doni, il quale, appunto, nel lodare le bellezze di Isabetta Guasca non dimentica di alludere al «profilato naso»32. L’altro esempio, anteriore e più célébré, viene dal Furioso, Bergamo, In Venetia, per Comin de Trino de Monferrato, 1548 e in Terze rime del Molza, del Varchi, del Dolce et d a ltri cit. (il capitolo del Dolce fil ripubblicato anche nel Primo libro delVOpere burlesche cit.). Cfr. Ferroni, Lettere e scritti burleschi cit., p. 386, n. 38, che osserva come la Nasea di Caro abbia ispirato, oltre al capitolo di Dolce, anche L a lettera a l padre Naso di Marino, su cui cfr. M. G uglielm inetti, II Marino lettore ed interprète del Caro, «Lettere italiane», xv (1963), 4, pp. 485-90, e Longhi, L u s u s cit., p. 217 e n. 5, che segnala anche un capitolo adespoto «del naso», Dice un proverbio che p a r molto bello, in Capitoli del Signor Pietro Aretino, di Messer Lodovico Dolce, d i M. Francesco Sansovino, et d i altri acutissimi ingegni, diretti a gran Signori sopra varie et diverse materie molto delettevole, 1540. 32 Cfr. A. D oni, Dialogo della musica, a c. di G.F. Malipiero, messi in partitura i canti da V. Fagotto, Vienna-Londra-Milano, Universal Edition, 1965, pp. 102-06.

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dalla descrizione delle ingannevoli bellezze di Alcina; descrizione che non trascura, negli ultimi due versi dell’ottava dodicesima del settimo canto, di lodare il naso che «per mezzo il viso scende, / che non truova l’lnvidia ove l’emende». Per tomare alla Nasea, la «diceria del naso» accompagna il dono di un «guardanaso», antichissimo e prezioso, appartenuto a Nabucodonosor, grazie al quale il re della Virtù potrà tenere coperto un si gran bene, che deve essere mostrato solo raramente e con solennité (Lettere facete, p. 82). Nell’esordio lautore rivendica un suo spazio di originalité; sebbene molti si siano soffermati sulla «materia Nasale», resta la possibilité di dire cose nuove: «Voglio dire per questo, che dove gli altri si sono stesi universalmente a dire di tutti i Nasi; io mi ristringerô solamente a ragionar de’ Nasi Imperiali, cioè de* grandi, e specialmente del vostro» (ivi, p. 76). Bizzarri elenchi affastellano i materiali più eterogenei: la mimesi parodica e scherzosa dellesegesi filologico-umanistica introduce strambi chiosatori, fittizie postille, e allusioni burlesche aile mode archeologizzanti (ad esempio il racconto delle varie peripezie toccate in sorte al «guardanaso», finito, dopo tanto girovagare, nella «Sinagoga de gli Iachodim di Roma» insieme con «La Frombola di David, e col Teschio dell’Asino di Balaam»33). E inoltre modi di dire, proverbi accompagnati da false etimologie, riferimenti osceni si awiluppano in una congestione stilistica. Si impone per virtuosismo ver­ bale la sequenza dei nasi grandi ma non imperiali, dove immagini di nasi deformi si susseguono a ripetizione. L’esibizione linguistica si traduce in un segmento iperbolico, ludico e al contempo ricercato (corne mostrano le sequenze simmetriche, luso di anafore, le creazioni di rime interne), dove il gioco delle variazioni créa gli accostamenti più inusitati34: Percioché si truovano certi Nasoni sticciati a la Tartaresca: certi sffogiati alla Corvatesca: certi schrignuti a foggia di Montoni: certi bitorzoluti a guisa di Limoni: di quelli, che hanno la Pannocchia spugnosa, corne quel di Sileno: di quelli, che hanno la punta rugginosa, corne quel di Pane. Vi sono de* Callosi, de* Mocciosi, de Cancherosi, di quei, che crocchiano: di quei che mssano: sonvi de* fatti a tromba, a sella, a temone, a crocca: sonvi de* Satumini da scior balle, corne disse il Burchiello: de’ Pavonazzi 33 L’asino (o meglio l’asina) di Balaam è un riferimento topico in tutte le scritture asinine, dal Ragionamento saura de Vasino di Giovan Battista Pino all'Asinesca Gloria di Doni (o Cartari) e alla Nobiltà delVasino di Adriano Banchieri. 34 Opportunamente F erroni, Lettere e scritti burieschi cit., sottolinea l’obiettivo del Caro di «portare la volontà di divertimento all’intemo stesso della struttura verbale e sintattica», creando un «fiioco pirotecnico di variazioni che si sviluppa circolarmente, partendo dal naso del Leoni come da un obiettivo da aggredire» (p. 379).

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a uso di Petronciani, come quel di M. Biagio da Cesena, e di Mastro Giovanni da Macerata: li quali tutti io non dirô mai, che habbino in loro né bellezza, né dignità. (ivi, p. 81) La lettera successiva alia Nasea, nella raccolta Turchi, ancora inviata dal Caro a Giovan Francesco Leoni, il 10 aprile 1538, ritoma sul motivo delle lodi del naso, invocato secondo i moduli della preghiera: «Naso perfetto. Naso principale. Naso divino. Naso che benedetto sia sopra tutti i Nasi, e benedetta sia quella Mamma, che vi fece cosl nasuto, e benedette tutte quelle cose, che voi annasate»35. Le variazioni linguistiche intorno al termine naso, già evidenti nel passo or ora citato, con luso dellaggettivo «nasuto» e del denominale «annasare», raggiungono il culmine, con unesplosione di calembours, neU’augurio che ogni nuovo libro che si scriva sia una lode del naso: «Prego Dio [...] che ogni libro, che si compone, sia una Nasea in honore della Nasal Maestà vostra, e che non sia sî forbito Nasino, né sî stringato Nasetto, né si rigoglioso Nasone, né si sperticato Nasaccio, che non sia Vassallo, e Tributario della Nasevolissima Nasaggine del Nasutissimo Nason vostro»36. Alio stesso ambito culturale della Nasea va ricondotto un altro elogio paradossale antologizzato nella raccolta Turchi, la Formaggiata d i Sere Stentato A l Serenissimo Re della Virtu. L operetta, di cui è autore il piacentino Giulio Landi37, venne infatti composta, con ogni probabilité, entro il camevale del 153938, e «stampata In Piasenza per Ser Grassino Formaggiaro» (sotto lo

35 È la lett. n. 47 secondo la numerazione dell’ed. critica di Aulo Greco: cfr. A. C aro, Lettere fam ilian\ a c. di A. G., 3 voll., Firenze, Le Monnier, 1957-1961. Nella raccolta Turchi la lettera, come la precedente «diceria de’ nasi», è attribuita a Barbagigia [stc\ Stampatore, ed erroneamente datata il 10 aprile 1540 (il passo citato è a p. 86). 36 Lettere facete, pp. 86-87. Nell’ed. Greco cit. cfr. I, pp. 81-83. 37 Su Giulio Landi cfr. A. D el Fante, L Accademia degli Ortolani (Rendiconto d i una ricerca in corso)y in Le corti famesiane d i Parma e Piacenza (1545-1622)y II: Forme e istituzioni della produzione culturaky a c. di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 1978, pp. 149-70 (161-62 e 167), cui rimando anche per la bibliografia anteriore e M. Beer, Il conte Giulio Landi: un cavalière letteratOy in Ead., L 'ozio onorato. Saggi sulla cultura letteraria italiana del RinascimentOy Roma, Bulzoni, 1996, pp. 241-61. Per i rapporti di Landi con Lodovico Domenichi (due opere di Landi uscirono infatti per le cure di Domenichi, cioè la traduzione della Vita d i EsopOy pubblicata a Venezia presso Giolito nel 1545 e Le attioni moraliy il cui I libro fu edito sempre per i tipi del Giolito nel 1564), cfr. anche Di Filippo Bareggi, U mestiere d i scrwere cit., pp. 72 e 105, n. 131. 38 Per la ricostruzione della circostanza a cui far risalire la genesi dell’operetta, e per 1identifrcazione del Re della Virtù, cui essa è indirizzata, con Giovanni Gaddi, dati entrambi congetturati sulla base di riferimenti intemi al testo, si veda M. Baucia, Accertamenti storico-

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pseudonimo si cela probabilmente Gabriel Giolito de’ Ferrari) nel 154239. Molti degli elementi riscontrati nella «diceria de* nasi» del Caro organizzano anche l’impianto di queste «lodi del formaggio piacentino»: la riproduzione parodica delTargomentare filosofico40, Tironica allusione allé pratiche erudite e filologiche, con il consueto rinvio alla «glossa»41, l’inserzione di elenchi42, proverbi e false etimologie43. Tuttavia, la ripresa di questi materiali, cui è da aggiungere Pintroduzione di citazioni e di exempla, non è affiancata da tentativi di recupero del ricercato gioco linguistico perseguito dal Caro nella Nasea. A connotare, semmai, la Forrriaggiata è un’iniziale simulazione, con effetti parodici, delle partizioni retoriche delPelogio ‘regolare’, cui fa da controcanto un’esecuzione testuale assai libera, caratterizzata dal susseguirsi di motivi diversi che si affastellano letterari sulla «Formaggiata» del conte Giulio Landi, 1542, «Bollettino Storico Piacentino», lxxxi (1986), 1, pp. 104-21, il quale, per altro, ritiene che allé iniziative della stampa, awenuta a qualche anno di distanza dalla composizione, non dovette essere estraneo Doni, che anzi, proprio agli inizi del suo soggiomo piacentino, poté promuovere la «riesumazione» di un testo che ben si addiceva ai suoi programmi culturali. Ma dello stesso studioso si veda anche Per Vambiente letterario volgare piacentino nel medio Cinquecento (1543-1545), ivi, lxxix (1984), 2, pp. 141-82, in cui appunto si sottolinea la decisiva influenza, da prospettive diverse, delle attività culturali di Doni e Domenichi sull’ambiente piacentino dei primi anni Quaranta. 39 L’identificazione, ottenuta con uno studio di textual bibliography, si deve a D.E. Rhodes, Accertamenti tipografici sulla «Formaggiata» del conte Giulio Landi, 1542, ivi, lxxx (1985), 2, pp. 210-13. La Formaggiata è preceduta da una prefazione, «Lo stampatore a i lettori», che, per altro, testimonia del legame tra i Virtuosi e Ippolito de’ Medici: «Io già lo conobbi in Roma [Tautore della Formaggiata\ per le sue buone qualità molto caro, e grato a quel virtuosissimo, e magnanimo Signore Hippolito Cardinale de’ Medici, padre de’ virtuosi, e di tutte le virtù vera base, e fermo sostegno» (Letterefacete, p. 528). Aperta la questione dell’identità del prefatore: mentre Baucia, Accertamenti storico letterari cit., nonostante lasci aperta la questione sembra propendere per Doni, e in ogni modo si mostra convinto della separazione tra autore del testo e autore della lettera, distinzione del resto volutamente marcata dallo stesso «valore lessicale degli pseudonimi»: Stentato / Grassino, e per cosî dire implicita nella «logica del testo che insiste nel contrapporre stampatore ed autore» (pp. 110-11); Rhodes, Accertamenti tipografici cit. ritiene che la lettera dello stampatore sia dello stesso Landi. La Formaggiata si puo leggere in una modema ed. apparsa nella «Collana di testi sui latticini édita dal consorzio per la tutela del formaggio Grana Padano»: Formaggiata d i Sere Stentato a l Serenissimo Re della Virtude, a c. di A. Capatti, presentazione di C.S. Ferrero, Milano, Grana Padano, s. a. 40 Cfr. Lettere facete, p. 531, e per la riproduzione ironica dei procedimenti sillogistici, pp. 538 e 550. SuU’argomentazione filosofica come struttura dominante della Formaggiata ha richiamato l’attenzione anche Baucia, Accertamenti storico-letterari cit., p. 117. 41 «Benché io truovo una glosa, che dice sopra quel passo [...]» (Lettere facete, p. 551). 42 Si veda ad es. ivi, a p. 548, l’elenco di vivande che non potrebbero essere buone senza formaggio. 43 Cfr. ivi, pp. 535-36. Allé pp. 547-48 si riportano proverbi in dialetto milanese e bergamasco. Per la falsa etimologia si veda la spiegazione del termine formaggio: «formaggio, cioè forma agiata, magnifica, ampla, e conveniente alla grandezza, e Maestà sua» (ivi, p. 543).

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in un disordine esibito come effetto di spontaneity II testo si apre con la dedica al re della Virtù e con l’offerta del dono del formaggio; l’elogio è motivato proprio dal timoré che il destinatario possa sottovalutare un dono del genere: Ma perché potrebbe forse ad alcun parère ch’io le havessi mandato cosa vile, e perciô biasimare il mio dono, e me tener troppo ardito, e prosontuoso, isporrô brevemente, e con buona gratia della Maestà vostra, quanto nobUe, quanto buono, e quanto util sia il formaggio Piacentino. (Letterefacete, p. 530) Da osservare come nella protasi si ponga l’accento sulla tripartizione tematica di ‘nobiltà*, ‘bontà\ e utilité’ secondo la topica dell’elogio d e iprag n a ta 44. Nell’esordio, che prosegue con la captatio benevolentiae e con il topos iperbolico della difficoltà del soggetto e della ammissione di inadeguatezza, nel rispetto più completo dei moduli canonici della «retorica degli inizi», figura una inattesa dichiarazione di improwisazione ed estemporaneità, caratteristiche che effettivamente nel corpo del testo sono perseguite e ostentate, in maniera del tutto conforme aile pratiche compositive dell’elogio paradossale: Veramente Serenissimo Signore, quando io con la mente discorro le cose, che in lode del formaggio Piacentino si possono allegare, resto tutto confiiso, non sapendo io da quali primamente incominciare tante cose insieme; e in un tratto nell’animo m’occorrono di maniera, ch’io desidero in me un’accorta prudenza, e un limato giudicio, acciô che sapessi quelle tante cose ordinatamente disporre, e ciascuna ne* suoi luochi attamente porre, e collocare. Un’altra calamità qui mi awiene, che scrivendo io Tuna, l’altra mi fugge, e pongo in oblio: perché perdonimi la Maestà vostra s’io cosi scrivo, come le cose nella mente mi vengono. (ivi, pp. 530-31) Nel corso dell’elogio, la libertà e il «disordine» compositivo, non soltanto coesistono con la riproduzione di elementi tipici dello stile epidittico (quali formule allocutorie45, domande retoriche46 e la serie di comparazioni 44 Cfr. L. Pernot, La rhétorique de Véloge dans le monde gréco-romain, 2 voll., Paris, Institut cTÉtudes Augustiniennes, 1993, I, pp. 238-49. 45 Si veda ad es. l’apostrofe con fiinzione enfatica, a sottolineare un momento forte del discorso: «Volgete hora, volgete Signor mio l’animo, la mente, e tutti i sensi vostri alla intelligenza di questo raro, e occultissimo segreto, che hora vi voglio chiarire, forse non mai per lo adietro da persona detto, né scritto» (Lettere facete, pp. 534-35). 46 «Chi sarà dunque cosi ignorante, che nieghi il formaggio Piacentino non solo esser buono, ma ancora il meglior del mondo? Chi tanto sarà maligno, e ostinato [...] chi tanto fiior di

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introdotte a dimostrare la supériorité del landandunF), ma vengono, per cosi dire, contenuti dairinserzione di frequenti protasi parziali con funzione sia ricapitolativa, sia di anticipazione della nuova materia48. La variété strutturale della Formaggiata è legata anche alla dilatazione della forma dellelogio nella morfologia dellelogio combinato, molteplice: ad essere elogiato infatti non è solo il formaggio, ma anche i suoi elementi costitutivi, come il sale49 e il latte, e la sua forma circolare. La libertà strutturale e stilistica si traduce anche sul piano contenutistico: secondo una costante tematica degli elogi paradossali, nella Formaggiata non manca la reazione al principio coartante deU’imitazione, espressione di visioni dogmatiche e rigide, come anche la tirata antipedantesca, qui associata a un riferimento satirico alia corte romana: [...] ma io mi meraviglio hora della pecoraggine de* Medici di hoggidi, e della loro stolta e insipida ostinatione; che al dispetto del mondo vogliono in ogni cosa regolarsi secondo i detti de gli antichi, e non sanno altro

ragione sarà, e di sensi privo, che non loda [...] chi tanto havrà guasto, e perduto il gusto, che non desideri tutto *1 giorno, a tutt’hora il formaggio Piacentino?» (ivi, p. 547). 47 Si veda ad es., ivi a p. 542, l’elenco dei formaggi prodotti in altre parti d’Italia, le cui forme, che offrono il pretesto per inserire paragoni osceni con genitali di vecchi, non hanno nulla a che vedere con la nobüissima forma circolare del formaggio piacentino. La sequenza comparativa è introdotta da un paragone tra il formaggio piacentino «Re de gli altri casci», e il naso «di messer Francesco d’Ancona [...] Re de gli altri nasi» (ivi, pp. 541-42). Un riferimento alia Nasea di Annibal Caro e ai poeti burleschi è verso la fine dell’orazione: «Et veramente era impresa [lodare il formaggio] per quei divini, e nella virtu baroni, e principi, e di vostra Maestà servitori affettionatissimi; messer Claudio, il Molza, messer Bino, che si bene ha scritto del suo horto le belle lodi, o di messer Giovanni della Casa, o di quello che fece il naso dell’Anconitano famoso, o quello che cosi elegantemente scrisse della frugalità [...]» (ivi, p. 563). Nella prefazione invece lo stampatore rievoca «il dispetto» che il Barbagrigia (Antonio Blado) voile fare a Padre Siceo e a Ser Agresto, non soltanto stampando il Commente sopra la prima Ficata, ma anche rivelando l’identità degli autori, Molza e Caro, nascosta sotto gli pseudonimi: da parte sua, lo stampatore della Formaggiata si dichiara contento di fare alio «Stentato un dispetto solo; cioè stampare contra voglia sua queste sue lodi del formaggio Piacentino», senza rivelare perô la sua identità (ivi, p. 527). 48 Faccio riferimento a formule di questo tipo: «Primamente habbiamo lodato [...] poscia all’honore, e dignità della forma sodisfatto [...]» (ivi, p. 541)»; «In fin’a qui habbiam trattato della molto honorata, e gran dignità del formaggio Piacentino, segue di mostrare la bontà sua [...] Ond’io chiariro hora cose, che faro meravigliare [...]» (ivi, p. 544). 49 SulTelogio del sale menzionato da Platone nel Simposio, cfr. Pernot, La rhétorique de Véloge cit., I, p. 20, e II, p. 502, che osserva, per altro, come il Simposio, con l’indicazione del buono e del cattivo elogio (l’elogio positivo è quello filosofico, l’elogio negativo è quello retorico, menzognero, futile come appunto l’elogio del sale), possa essere letto anche come una vera tekhnê\ includendo, tra i suoi numerosi temi, gli elementi di un trattato di retorica sul genere dell 'enkômion.

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dire se non Galieno scrisse questo, Avicenna disse quelTaltro: Hippocrate comanda cosi: perdonimi la loro poca consideratione, perché non considerano che le cose del mondo ogni giomo variano, e gl’ingegni s’assottigliono sempre, e le cose s’affinano [...] ma fannomi rinegar la patienza certi Pedanti, hippocriti, e ignoranti; che quando sono a tavola de’ padroni; co i lor fanciulli raccommandati alia loro pedantaria sputano con una certa gravità questo verso Latino. Caseus est sanus, quem dat avara manus [...]. O goffi pedanti, Arcifurfanti; certo egli è peccato, che non siate condennati ne i tinelli di Roma a perpetuo carcere: e ogni volta che si mangiasse fosse obligati ad aUegare questa vostra pedantesca sentenza; percioché ivi sarebbe volontieri ascoltata, e meglio in essecutione posta [...]. (ivi, pp. 551-53)50 Su un piano diverso rispetto alla Nasea e alia Formaggiata, pur con d e­ menti strutturali e stilistici in comune, si collocano altri tre elogi paradossali presenti nel «Libro Secondo» delle Lettere facete, che, per affinità tematica - asinità, ignoranza, pazzia51 - possono essere ricondotti a un unico orizzonte ‘ideologico’: H Valore de gliasini, XOratione in lode delVIgnoranza e la Lode della pazzia. Fonti dirette per i tre testi sono il Moriae encomium di Erasmo e il De incertitudine et vanitate scientiarum di Comelio Agrippa, che con il capitolo conclusivo A d encomium asini digressio si pone come modello indiscusso sia per le scritture asinine sia per le lodi dell’ignoranza. Fondamentale per la ricezione cinquecentesca italiana di quest’ultimo testo il volgarizzamento del 1547 di Lodovico Domenichi52, che rilancia le idee scettiche e la critica 50 Un’altra sequenza satirica (rivolta contro il govemo piacentino), espressa con la figura dell’antifrasi, si ha quando lo Stentato finge di spacciare l’aumento del prezzo del sale come un prowedimento positivo, in grado di ristabilire finalmente il suo autentico valore: «non vedete poverelli quanto honore si fa al nostro sale? a cui facevasi gran torto a tenere tanto basso il suo valore? e veramente era una gran vergogna a tutta la città, che un tanto buono, e cosi eccellente alimento fosse in cosi vil prezzo, hora sarà più honorato, e saporito> (Lettere facete, pp. 537-38). 51 L’accostamento di queste parole-chiave è autorizzato dall'erasmiano Moriae encomium, dove ‘follia’-«stultitia» vale spesso come antonimo di «sapientia>, rinviando quindi al nucleo semantico di ‘ignoranza’, a cui si associa ‘asinità’. Un uso di tali termini come sinonimi è riscontrabile anche nella Cabala del cavallo pegaseo di Giordano Bruno: cfr. N. O rdine, La cabala deWasino. Asinità e conoscenza in Giordano Bruno, Pref di E. Garin, Napoli, Liguori, 19962, pp. 40-42. ">2 Su Lodovico Domenichi, figura di rilievo per la sua intensa attività di editor e operatore culturale, al cui prolifico impegno di traduttore si deve la riproposta di importanti autori antichi e recenti (oltre ad Agrippa, ad es. Senofonte, Plinio, Plutarco, Luciano e Erasmo) si vedano A. D ’A lessandro, Prime ricerche su Lodovico Domenichi, in Le cortifamesiane d i Parma e Piacenza cit., II, pp. 171-200 e i recenti contributi di R. G igliucci, cui rimando anche per la bibliografia pregressa: II dialogo «Della fortuna» d i Lodovico Domenichi e Ulrich von Hutten,

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corrosiva e demistificante nei confronti del sapere tradizionale promulgate dal pensatore di Nettesheim. Il Valore de g li asini delVInasinito Accademico Pellegrino è la seconda redazione, con alcune modifiche, pubblicata a Venezia nel 1558, per i tipi del Marcolini, dell’Asinesca Gloria delVInasinito Academico Pellegrino, data allé stampe nel 1553 (In Vinegia, nell’Accademia Pellegrina53, per Francesco Marcolini). Resta ancora un margine di incertezza riguardo alla patemità, tradizionalmente divisa tra Anton Francesco Doni e Vincenzo Cartari, anche se negli ultimi anni sembra prevalere Pattribuzione a Cartari, conformemente allé indicazioni dello Short-Title54. in Furto eplagio nella letteratura del Classicismo, a c. di R. G., «Studi (e testi) italiani», 1 (1998), pp. 263-82; «Qualis coena tamen!». Il topos anticortigiano del \tinello\ «Lettere italiane», l (1998), 4, pp. 587-605 (594-99); Un dialog? "romano” d i Lodovico Domenichi e il «De vera nobilitate» del Platina, «Academia latinitati fovendae. Commentarii», series altera, vii-vm (1998), pp. 53-60; Virtù e ju r ti d i Lodovico Domenichi\ in Cinquecento capriccioso e irregolare cit., pp. 87-97. Da ultimo cfr. G aravelli, Lodovico Domenichi e i ‘Nicodemiana ’ d i Cahino cit. (in particolare, per un profilo storico del letterato, le pp. 36-96). 53 Sulla questione dell’esistenza storica dell’Accademia Pellegrina cfr. G. M asi, Coreografie doniane: VAccademia Pellegrina, in Cinquecento capriccioso e irregolare cit., pp. 45-85, che, dopo aver puntualmente esaminato tutte le testimonianze a disposizione, giunge alia conclusione che l’Accademia Pellegrina «nasce nel 1549 come un’ancôra confiisa idea autopromozionale del Doni, il quale, sfruttando la propria vasta rete di conoscenze e awalendosi spregiudicatamente del mezzo tipografico, riesce a darle una parvenza di concretezza. II progetto doniano, al quale il Giolito (editore del Disegno) non pare interessato, si evolve e si précisa in combutta col Marcolini» (p. 75). 54 Per i rinvii bibliografici delle diverse attribuzioni sette-primonovecentesche, a Doni o a Cartari, cfr. la scheda (n. 42) dedicata aViAsinesca Gloria in C. Ricottini M arsili-L ibelli, Anton Francesco Doni scrittore e stampatore, Firenze, Sansoni Antiquariato, 1960, pp. 100-02 {II Valore de g li asini è registrato al n. 51, pp. 112-14). L’attribuzione dell Asinesca Gloria a Cartari è dello stesso Doni: si veda l’ed. giolitina del 1557 della Prima Libraria (La Libraria del Doni Fiorentino divisa in tre Trattatr, cfr. A.F. D oni, La libraria, a c. di V. Bramanti, Milano, Longanesi, 1972, p. 169). Si veda da ultimo Masi, Coreografie doniane cit.: «e se VAsinesca Gloria delTInasinito Academico Pellegrino fii veramente opera di Vincenzo Cartari, come il Doni stesso sembra accreditare nella Libraria, tuttavia egli sicuramente la sottopose a una disinvolta revisione, come risulta dalle procedure di adattamento delle illustrazioni (tratte da un Apuleio) al testo» (p. 58). Se la presenza doniana non va esclusa già all’altezza dell Asinesca Gloria, mi sembra ugualmente ipotizzabile che le modifiche introdotte nella seconda redazione siano da attribuire per intero a Doni, come sembrerebbe emergere dalla lettera («A’ Lettori») premessa alia dedica all’Onagrio: in questa prefazione l’autore, che nasconde la propria identità, rivelando solo la sua aspirazione all’asinità («né che sappia alcuno che io mi sia, se non ch’io sono amico de gli Asini. e quanto posso più mi ingegno, e mi sforzo di essere, o almeno di parère Asino», Letterefacete, p. 3 9 9 ), dichiara di aver pensato, in un primo momento, di seguire l’esempio dell’Inasinito Accademico, scrivendo «la seconda parte a questa cosi degna diceria delle Asinine lodi; percioché sono ben tante che troppo ci sarebbe che dire per la seconda.

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Rispetto alia «lode della fiirfanteria», alla «diceria de* nasi» o alia Formaggiata,, dove il senso risulta più immediato e diretto, questo testo présen­ ta una maggiore complessità e problematicità, legate sia a spostamenti di prospettiva che si verificano al suo intemo, sia alTintroduzione di motivi che rinviano a nuclei importanti della riflessione cinquecentesca, come il rovesciamento del rapporto virtù-stima, il contrasto tra essere e parère, o la nozione della mutazione e instabilité del reale. Per esempio notevoli sono i punti di contatto che questo testo dimostra con il pensiero di Machiavelli, in riferimento non soltanto all'Asino, ma alTintero orizzonte teorico tracciato dalla scrittura machiavelliana. È l'ambiguité insita neirimmagine stessa delTasino, risemantizzata nella cultura del Cinquecento, con un marcato slittamento sul terreno dell’ambivalenza e della contraddittorieté, a determinare la bidimensionalité di un testo che si apre al gioco del doppio asinino55. Già la dedica alTOnagrio svolge un’argomentazione che chiama in causa i motivi della simulazione e della mutazione di fortuna, mostrando come la tematica asinina si intrecci ai nodi teorici più importanti della cultura cinquecentesca: l’lnasinito Accademico Pellegrino, dopo aver dichiarato di aver composto le lodi asinine su richiesta della Discrezione «madré de gli Asini», al fine di allietare i lori animi afflitti dal disprezzo in cui sono tenuti nelTeta pre­ sente, invita FOnagrio a non dissimulare la sua amicizia con gli asini, «a conversare liberamente, e francamente tra gli huomini, perché non sempre sta il mondo in un medesimo essere, ma si muta del continuo: onde spero che gli amici nostri verranno forse ancora in breve in molta stima» (Lettere facete, p. 400).

e per la terza parte ancora chi la volesse fare» (ivi, p. 398), ma di aver poi abbandonato il progetto «accioché non pensasse qualch’uno forse ch’io volessi esser lodato delle altrui lodi, e venire a concorrere con quell’Asino ingegno dello Inasinito; e solamento ho ampliato quel che da lui è stato scritto» (ibid). Riguardo allé 21 incisioni presenti nella prima redazione dell’opera, a partire dalla segnalazione di Masi (vd. p. 58, n. 40) ho potuto verificare che esse figurano ad es. nell’ed. dell’Apuleio volgare del 1522: Apulecio Volgare, Diviso in Undect Libru Novamente stampato e in molti lochi aggiontovi che nella prim a impressione g li mancava e de moite più figure adomato: e diligentemente correcto. Con le suefabule in margine poste. Traducto per il Magnifïco Conte Matheo Maria Boiardo. Nel colophon: Finito Lucio Apulegio volgare a consolatione de li animi pelegrinL Impresso in Venetia per lanne Tacuino da Trino a di xxi Mazo [jtt] m .djooi (dove non puô non colpire «animi pelegrini»: che l’Apuleio volgare oltre allé immagim abbia fbmito anche l’idea per il nome di Accademia Pellegrina?). L’ed. giolitina del 1550 deWAsino d'oro di Apuleio, volgarizzato da Firenzuola, è sprowista delle immagim, che riappaiono invece, con qualche variante, nella riedizione del 1565. 55 Per l’ambivalenza del simbolo dell’asino cfr. Ordine, La cabala deU*asino cit.

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II motivo del ribaltamento ‘premio’-‘fatica’ (che io definirei machiavelliano, per l’incidenza con cui ricorre negli scritti del segretario fiorentino56), simboleggiato dal «basso stato» in cui versano gli asini, è ribadito con maggiore chiarezza aH’intemo del testo: gli asini pur essendo «bestie di molto valorem sono «contra ogni ragione riputati vili da molti, e trattati peggio assai di quello che convenga a i meriti loro» (ivi, p. 405), come del resto awiene tra gli uomini - a sottolinearlo è un vecchio Asino che vuole consolare i suoi simili - tanto che «quelli, i quali meno lo meritano sono moite volte tra gli huomini parimente stimati più de gli altri, e tenuti in gran conto: e restano sprezzati per lo più quelli, che dovrebbono essere havuti cari» (ivi, pp. 405-06). E analogamente aile argomentazioni machiavelliane, anche in questo te­ sto la scomparsa di ogni corrispondenza tra virtù e reputazione è denunciata come un sintomo della crisi del presente rispetto a un passato in cui il merito si accordava al valore: «onde non s’ha da guardare al conto, choggidî se ne fa, ma a quello, che ne fu fatto anticamente, come ho già mostrato quando nel pesare il valore delle persone era tenuta la bilancia dritta molto meglio c’hora non è, e a quello, che veramente se ne debbe fare» (ivi, p. 433). Nel corpo dell’elogio toma anche il riferimento al tema della fortuna, svolto in rapporto all’asinità, con la topica allusione alfimmagine della ruota57. Nel registro iperbolico della lode asinina, il fiinzionamento della rota fortunae, legato alia variabile commistione della componente umana e asinina, realizzata nei diversi punti cardinali, simboleggiante il valore della metamorfosi e della mutazione, si semplifica a vantaggio di una ruota che al nord (polo alto / positivo) présenta sempre un asino e al sud (polo bas56 Penso in particolare al proemio al primo libro dei Discorsi, al prologo della Mandragola, e allé terzine del primo capitolo dell 'Asino, su cui cfr. G. F erron i, «Mutazione» e «riscontro» nel teatro d i M achiavelli e altri saggi sulla commedia del Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1972, pp. 33 e sgg. e Id ., Appunti suir«Asino» d i M achiavelli in Letteratura e critica. Studi in onore di Natalino Sapegno, II, Roma, Bulzoni, 1975, pp. 313-45. Credo che la presenza di questo motivo in Doni (si vedano ad es. le Lettere) abbia come fonte proprio Machiavelli, del resto autore ben attivo nella memoria doniana. Con grande efficacia la mancanza di accordo tra ‘saviezza’ da una parte e potere e ricchezza dall’altra è espressa nella lettera di Doni a Girolamo Parabosco: «Vero è che tal volta io sono per dar del Capo nel muro, quando io considero, che il rimedio del mantenerci ha da venir da ricchi, e il trattenimento del consolarci da i Savi. Almeno fosse diviso ogni cosa eguale, tanta virtù, quanto ignoranza, cosi di mano in mano, tanta pazzia, quanta saviezza, ma noi haviamo virtù, e povertà, e essi infinita asenaria, e moltitudine di dinari» (D oni, Tre libri d i lettere. E i termini della lingua Toscana, in Vinegia, per Francesco Marcolino, 1552, p. 215). 57 Per il rapporto asino-fortuna, visualizzato nell’immagine della ruota, cfr. O rdine, La cabala delVasino cit., in particolare pp. 75-83, dove, per altro, si fa riferimento allé xilografie del Narrenschiffdi Sebastian Brant e della traduzione tedesca del De remediis utriusquefortune di Petrarca (1532).

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so / negativo) sempre un uomo. La metamorfosi asinina diventa garanzia di un riscontro con la fortuna, anzi diventa essa stessa la fortuna nella sua accezione di ‘buona fortuna’; nella condizione umana, che rappresenta uno stato di caduta, l’«inasinirsi» si présenta come Tunica possibilità di ascesa verso l’alto: La quai cosa si puô mostrar ancora esser vera con ragione [acquietare ogni desiderio nello stato asinino], perché vediamo noi le cose del mondo mutarsi del continuer. onde sono gli huomini hor tristi, hor lieti secondo che la fortuna è loro nimica, o vero favorevole al voltare della ruota. Ma l’Asino nel medesimo stato si truova sempre, ad un medesimo modo è sempre lieto, né per lui si volge mai la veloce ruota della Fortuna; anzi vi sta egli sempre su la rima: e se la disgratia pur vuole che ei ne cada diventa subito un huomo; e cos! da quella grandezza vien’ a cadere perché più non è Asino. Et chi d’altra parte vuole a quella ascendere si spoglia l’huomo, e vestesi YAsino: onde potiamo veramente dire che quel bene, che paressere da tutti tanto desiderato, e si crede che l’habbia solo chi su la ruota siede della fortuna, altro non è che l’Asinità; e che perciô naturalmente desideri ogn’uno d’inasinirsi. (ivi, pp. 432-33) La sezione iniziale della declamatio si svolge su un piano del tutto teorico, a partire dal riferimento a quel tipo particolare di pazzia che «fa che l’huomo si persuade, e crede veramente di esser quello che non è; e è impossibile sia giamai» (ivi, p. 401), sicché c e chi immagina di essere un Imperatore, o un Papa, o un gentiluomo, o un ricco mercante, o ancora un uomo dotto (pur sapendo «le lettere che sa un bue»)58, cosî come c’è anche 58 Tale pazzia, consistente in un eccesso di immaginazione, si rivela vantaggiosa per il benessere dell’uomo, perché puô «pigliare ciascuno quel grado che più li piace [...]. O vera­ mente dichiamo cosî, che come ad alcuno non giova havere quello ch’ei non sa, né crede di havere, cosî gode alcun’altro di quello, che non ha, e pensa di certo di havere, e perciô se ne allegra, e ne sta contento» {Letterefacete, p. 402). D nesso pazzia-felicità dériva dal Moriae encomium, ma mentre nell’elogio erasmiano la filantropia di Follia è individuata nel dono, che ella elargisce ai mortali, della filautîa (Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, con un saggio di R.H. Bainton, trad, e note di L. D ’Ascia, testo latino a fronte, Milano, Rizzoli, 1999 [1989], pp. 96-99), nel Valore de g li asini la félicita che scaturisce dalla pazzia non consiste nel voler essere cio che si è, ma al contrario nelTautoinganno del credersi cio che non si è. Per la filantropia corne topos dell’elogio classico degli dei si veda Pernot, L a rhétorique de réloge cit, I, p. 230; anche nel Moriae encomium Moria pone l’accento sulla sua filantropia (cfr. Elogio della follia rit., pp. 70-71). Intéressante notare corne il motivo della pazzia di credersi diversi da cio che si è compaia in una lettera di Doni «Al Molto astratto Amico, e bizzarro Cervello N.N.», indicizzata nel «Sommario» (si fa riferimento alTultima ed. dell’epistolario doniano) : «Quanto stia bene a esser Asino». Dopo l’accenno al fingersi glorioso letterato, nobile, ricco, principe, mercante, e infine asino, si loda lo stato dell'«asineria»: «caggio nel bel mezzo dell’Asineria, e tutto quel giorno sono un grande, grosso, dishonesto et sconcio

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chi «non trovando tra gli huomini cosa che gli piaccia, s’è imaginato di più non esser’huomo; e hassi dato ad intendere d’essere overo uccello, overo serpente, o pure qualche altra bestia» (ivi, p. 403)59. E proprio questo tipo di pazzia ha permesso airAccademico Pellegrino di «inasinirsi»; tuttavia, l’lnasinito per proferire le lodi asinine dovrà nuovamente recuperare, o quanto meno fingere di recuperare, un aspetto umano: Perché s’io stessi Asino, e ragionassi de gli Asini, o ne scrivessi in qualche modo potrebbe facilmente intravenire ch’io fossi trattato da Asino, onde farei a quelli, e a me stesso danno in un tempo medesimo. Adunque per­ ché non paia ch’io voglio raccontare favole, senza ch’io dico come cio sia intravenuto, faccia conto ogn’uno ch’io più non sia Asino, ma trombatore delle virtù dell’Asino; e banditore delle sue lode, (ivi, p. 407) pezzo d’Asino, dove io pratico fo l’Asino, dove mi trovo a ragionamento, ragghio da Asino, mangio, dormo, e fo tutte l’altre cose com’un Asino. In questo giomo mi par essere voi sputato, a capello, io vi somiglio come mosca, in fatti egli è il più bello stato che io habbi mai provato; Apuleio fu veramente sciocco a ritomar huomo, essendo in si bel Labirinto»: cfr. D oni, Tre libri d i lettere cit., pp. 308-09 (309). Del resto un riferimento analogo si legge anche in V. C artari, Il Flavio intomo a i Fasti volgari. In Vinegia, Appresso Gualtero Scotto, 1553: «Ricordomi d’haver letto dun certo huomo il più incostante del mondo, qual dopo che hebbe provato moite, e diverse cose, all’ultimo venne a questo, e si fermé quivi, che desiderava di più non esser huomo, ma un asino, quasi che sia quella la miglior vita che si possa fare, né meriti la vita asinesca d’essere cambiata per alcun’altra» (p. 195). 59 A questo punto si inserisce un ironico riferimento a Pitagora, alla sua idea «che le ani­ me de gli huomini andavano mutando corpo del continuo» {Lettere facete, p. 403). La teoria pitagorica della metempsicosi è chiamata in causa anche nel Ragionamento saura de Vasino di Giovan Battista Pino (su cui cfr. supra, cap. 1, pp. 60-68): un ipertrofico elenco di tutte le metamorfosi subite da Pitagora, sia antropomorfe sia zoomorfe, seguito da un’esposizione del principio della etema vicissitudine delle forme viventi, è introdotto a spiegare due modi di dire: «Oh, ch’un giomo tutti gli uomini sieno appiccati: e alor io sia asino!» e «Perché a l’asino si dice: “arre?”» (G.B. P ino , Ragionamento saura de Vasino, a c. di O. Casale, introd. di C. Bemari, Roma, Salerno Ed., 1982, pp. 143-47). L’autore dell 'Asinesca Gloria e Giovan Battista Pino potevano leggere un’allusione allé metamorfosi pitagoriche anche nella dedica della Vanità delle scienze di Agrippa: l’autore, dopo aver premesso che «quasi [...] trasformato in cane» non sa «se non mordere, abbaiare, maledire e villaneggiare», cioè proferire una «declamazione canina», annuncia le sue prossime trasformazioni: «mi faccio capitano a quegli ch’uscendo fuora del laberinto delle scienze umane vanno nella rocca della verità [...]. Ma io ora sto per farmi di cane crocodillo, o drago, o qualche altro serpente che getta fuoco, et incontanente credo di finire la Pirografia [...] allora mi laverô io dell’acqua sacra e nel flume vivo, acciocché finalmente, spogliatomi queste fatali maschere, di nuovo ritomi uomo, afline che non talora troppo pitagorizando, e trasformandomi in cosî varie bestie, alio ultimo io non mi cangiassi in uno asino filosofante a guisa di Luciano e di Apuleio. Ma attendi tu ora a felicissimamente vivere, e ricordati nel leggere delle cose mie che felicissima vita è il non saper nulla» (cito dal volgarizzamento domenichino: H.C. A grippa von N ettesheim , DelVincertitudine e della vanità delle scienze, a c. di T. Prowidera, presentazione di G. Pugliese Carratelli, Torino, Aragno, 2004, pp. 11-13).

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La predicabilità delle virtù asinine richiede un locutore umano: a differenza dell’elogio erasmiano in cui è Mona a pronunciare il proprio encomio, contrawenendo al principio epidittico della sconvenienza del lodarsi da sé60, l’lnasinito deve nascondere la sua asinità e mostrarsi uomo se vuole essere preso sul serio da un uditorio che non accetterebbe un «asino filosofante a guisa di Luciano e di Apuleio»61. II motivo del contrasto tra essere e parère soggiace nelle pieghe del testo62, comunicando aile argomentazioni un’ambiguità di fondo amplificata, come si diceva, dal riferimento, in enunciati antifrastici, all’asinità negativa, con prowisorie incursioni dell’elogio sul terreno della satira63. Doppio livello

60 Che l’autoelogio sia da evitare nell’orazione dimostrativa è una norma ribadita anche nei trattati di retorica cinquecenteschi: si veda ad es. F. Sansovino , La retorica (1543): «Inoltre è vituperosissimo lodar se medesimo, quantunque lo uomo sia degno di lode» {T rattati d i poetica e retorica del Cinquecento, a c. di B. Weinberg, Bari, Laterza, 1970, I, pp. 453-67, 463). Nell’Encomium erasmiano Moria non si lascia condizionare da questo precetto che pure conosce assai bene (cfr. Elogio della follia cit., p. 61). 61 A grippa, Della vanità cit., p. 13. 62 Cfr. ad es. Letterefacete, pp. 409 e 425. A p. 431 il motivo delTerrore nel celare la natura asinesca si coniuga a un paradossale riferimento alia nozione castiglionesca della ‘sprezzatura’: «La quai cosa, perché sappiamo che la perfettione a tutti piace in tutte le cose, dobbiamo dire che s’affatica ogn’uno di fare più che puô, ben che lo dissimuli, perché questo è il proprio di chi vuol arrivare a qualche alto grado, che si mostra quasi sempre alieno da quello a che più s’affanna di giungere: volendo forse in questo modo mostrare di fuggire l’ambitione; la quale benché a molti piaccia è nondimeno biasimata da molti. E perciô come ho già detto più volte fiigge quasi ogn’uno il nome dell’Asino, benché cerchi di ripararsi sotto la Asinità» (ivi, p. 431). II motivo dell’ingiusto rifiuto del nome di asino come si trattasse di un insulto è ripreso sia nelle «lodi dell’asino» di Cesare Rao - su cui cfr. infra, cap. 3, pp. 183-91 (C. Rao, L 'argute, et facete lettere.... In Vicenza, Appresso gii Heredi di Perm Libraro, 1596, c. 103r), sia nella Nobiltà delVasino di Adriano Banchieri - su cui cfr. supra, cap. 1, pp. 68-74 {La nobiltà delVasino..., In Venetia, Appresso Barezzo Barezzi, 1592, p. 58). Le fonti sono il Moriae encomium (cfr. ed. cit, pp. 64-65) e la Digressione in lode delVasino di Agrippa: «Perché non si degnino più, né si rechino a vergogna, i nostri vescovi e abbati se sono chiamati asini appresso questi elefanti giganteschi delle scienze» {Della vanità cit., p. 512; nell’ed. L Agrippa, A rrig o C orn eu o A grippa, Della vanità delle scienze, Tradotto per M. Lodovico Domenichi, In Venezia, 1547 (che ho consultato nell’esemplare conservato in BAV, segn. R.G. Filosofia. V. 958) la frase «non si degnino più» si legge nella forma corretta «non si sdegnino più» (c. 20I t;). 63 Che l’elogio paradossale sia aperto a contaminazioni con il genere della satira emerge dai testi stessi, in alcuni casi secondo la modalità retorica della preterizione, per cui si dichiara - ma soltanto dopo aver fatto effettivamente ricorso allô strumento della satira - di non voler cedere, snaturando il genere dell’elogio, al discorso satirico. Un esempio è offerto dal «paradosso XXm», in cui Ortensio Lando, dopo aver polemizzato contro l’uso di introduire nelle soprascritte delle lettere titoli sempre più altisonanti, finge di volersi trattenere: «Oh quante cose mi persuaderebbe a scrivere il sdegno contra delli ambiziosi conceputo; ma lo rafrenarô poi che mi ravego d’esser scrittore de paradossi, e non di sattire. Ma quanto mi sarebbe perô caro, se io potessi col mio scrivere levar dagli umani petti questa vana passione del voler esser

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delFasinità positiva e negativa, ambiguità della simulazione, rovesciamento del rapporto stima-virtù, con riferimento polemico al presente, confluiscono, provocando una reazione polisemica, in una sequenza dove Targomentazione subisce un’ulteriore complicazione paradossale: se gli asini veri non sono stimati, anzi disprezzati, godono di reputazione, invece, coloro che da uomini si fanno asini con arte:

[...] perché l’opere loro ad ogni modo fanno palese poi quello, ch’essi vorrebbono tenire occulto, cioè che sono trasformati in Asini; e veggonsi perciô haversi acquistata molta riputatione, e grado assai honorato: [...] se habbiamo in rispetto grande gli Asini fatti da loro stessi con qualche arte, e portiamo loro non poca riverenza, dobbiamo senza alcun dubbio molto più riverire i veri Asini, e quelli, che nasciuti sono asini, perché sono opere della natura [...]. (Letterefacete, p. 438) Secondo un tratto tipico degli elogi paradossali, riassumibile nell’opzione per la natura rispetto all’arte, anche qui il polo positivo dell’asinità è collegato alla ‘naturalezza, con tutte le implicazioni che la scelta programmatica della natura com porta sul piano del sapere e su quello antropologico. L’operetta si conclude con l’invito a ciascun asino a mostrare senza vergogna l’«asinesca pelle»:

[...] acciô che di lui non dica lo sdegno humano quel che suole dire d’alcuni quando vede che fanno quello, che meno dovrebbono fare, come che sia contra ad ogni giusta legge, e a tutti i buoni costumi; cioè travestire un Asino, e voler fare con ogni loro potere che più non paia Asino. Onde viene gridando tuttavia che impiccar si vorrebbe ognuno che voglia far d un Asino un destriere: percioché si puô bene in qualche altra cosa mutare, o correggere quello, che fé la natura, e se ne veggono spesse volte apparire di bellissime opere; ma in questa che l’Asino non sia Asino, e non paia Asino, non si puô già in alcun modo, et non fil mai lecito, né sarà mai; perô se ne guardi ognuno di farlo, e vederà manifestamente ogni di quanto gliene tomerà meglio. (Letterefacete, p. 440)64 detto illustre e nobile, non operando perô mai veruno atto nobile o virtuoso> (Paradossi cit., p. 2 1 6 ; per questo aspetto cfr. S. Blazina, Qrtensio Lando fra paradosso e satira, in I bersagli della satire^ a c. di G. Bârberi-Squarotti, Torino, Tirrenia Stampatori, 1987, pp. 71-87). Ancora una volta il modello è il Monae encomium di Erasmo (cfr. ed. cit., pp. 226-27). 64 Questa perorazione è aggiunta della seconda redazione: YAsinesca Gloria si conclude più brevemente e con minor enfasi: «né si vergogni [ognuno] di mostrarsi in publico vestito d’Asinesca pelle, la quale mostra senza alcun dubbio, e fa le persone più adomate assai di qual’altro maggiore omamento che si possa trovare» (LAsinesca Gloria delVInasinitoAcademico Pellegrino cit., p. 4 4 ). Anche nel Moriae encomium Mona dichiara di essere inconfondibile e di sfuggire a qualsiasi tentativo di mascheramento (cfr. ed. cit., pp. 64-65). Per l’immagine degli

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Tra le lunghe sezioni iniziale e finale, si dispiega tutto il materiale funzionale alia piacevolezza del testo: exempla sul rispetto di cui l’asino godeva nell’antichità, citazioni di auctoritates (quali Plinio, Plutarco, Esopo, Apuleio, Varrone, Strabone), rinvii aile Scritture, curiosité, stravaganze, inserzioni di proverbi ricondotti a improbabili etimologie. YJinventio si articola attraverso l’impiego della topica asinina: l’elenco delle virtù (quali la parsimonia, l’umiltà, la mansuetudine, la piacevolezza, la pazienza, il pudore, la resistenza alla fatica, talvolta esercitata anche al servizio degli uomini, ecc.); la lista dei topoi (come la predisposizione dell’asino alia musica, l’uso da parte di Cristo di cavalcare un asino, la favellante asina di Balaam cui si rivelô l’angelo, le fantasiose sequenze dedicate all’onomastica e toponomastica asinine). Nell’aneddotica codificata viene ricordata con insistenza l’utilità dell’asino anche in guerra: grazie al suo «terribile raghiare» non solo Dario riusci a sconfiggere gli Sciti, ma anche gli dèi ebbero la meglio nel combattimento contro i giganti - finito il quale gli asini fiirono trasformati da Giove, come segno di gratitudine, in due stelle della costellazione del Cancro -, mentre con una sola mascella d’asino Sansone uccise migliaia di nemici. Tutti questi materiali di provenienza classica e scritturale65 erano già stati recuperati e riorganizzati da Agrippa nella sua declamatio asinina, che costituisce - come abbiamo avuto modo di osservare - l’archetipo delle scritture in lode dell’asino. L’asino vi è lodato come esempio di fortezza, di pazienza, di clemenza, di resistenza alla fatica, alia fame e allé percosse, per il suo essere parco, parsimonioso, pacifico e utile in moite attività umane. La digressio asinina, che è la fonte cinquecentesca anche per episodi topici come quello dell’asino di Balaam, o di Sansone e la mascella d’asino, o ancora per loci communes, come il legame di Cristo con questo animale66,

asini vestiti della pelle di leone e delle orecchie asinine di Mida vedi II Valor? de g li asini... (Letter?facete, pp. 427 e 439). Il riferimento all’asino che tenta invano di spacciarsi per leone è ripreso in una lettera di Cesare Rao, «A Messer Bartolomeo di quella cosa in difesa del Signor Messer Martino Cuglia»: «Ma di gran lunga v’ingannate, e haweraw i come a quel somiero, che andô con quella pelle di Lione in dosso facendo del marzocco, che scoperto poi dal raggiare, oltre alla pelle, che s’havea usurpata, gli fu levata la sua» (L'argute, etfacete letter? cit., c. 22®). 65 Per le fonti classiche e bibliche di molti tra questi materiali asinini cfr. supra, cap. 1, in particolare le pp. 44-46, 49-50, 57. 64 «Cristo volse che fosse testimonio del suo nascimento, e su questo voile essere salvato dalle mani d’Erode; e l’asino ancora fia consacrato dal tatto del corpo di Cristo et onorato col segno della croce, perciocché ascendendo Cristo in Gierusalem a triomfare per la redenzione del genere umano, col testimonio de gli evangelisti, sali su questo animale, si come questo era stato predetto con gran misterio per l’oracolo di Zaccheria. E si legge che Abraam, padre de gli eletti, cavalcô solamente su gli asini [...]» (Della vanità cit., p. 510). Il motivo è

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rappresenta il modello per la promulgazione di un’asinità positiva, chiave d’accesso ai misteri della divina sapienza 67: l’asino è elogiato come simbolo dell’ignorante-dotto, l’autentico sapiente, che con «lo strepito [...] asinino» si mostra di gran lunga superiore a «tutti i loquacissimi sofisti»68. Il tema dell’ignoranza fonte di vera sapienza ci conduce nel nucleo argomentativo dell’altro elogio paradossale incluso nel «Libro Secondo» delle Lettere facete, XOratione in lode dett’Ignoranza. Anche l’attribuzione di questa operetta, preceduta da una lettera di dedica di Anton Francesco Doni al signor Gregorio Rorario da Pordenone69 e pubblicata, nel 1551, in appen­ dice alla Vita d i Cleopatra Reina d ’E gitto di Giulio Landi, présenta delle incertezze. Alla tradizionale attribuzione a Doni70 sono d’ostacolo le parole che si leggono nella dedica doniana, dove appunto l’orazione è presentata come opera del conte piacentino71. Effettivamente, almeno a quanto mi

presente anche nel Valore de g li asinv. «E quando quello che fin a qui ho detto niente facesse a dimostrare la degnità nell’Asino, hor questo solo lo mostri, questo ne faccia interissima fede, che C hristo nostro Signore fu dalla Madré fiiggito in Egitto su l’Asino, e il medesimo quando con tanto bel trionfo entré in Hierusalem, v’andô parimente su l’Asino, o Asina che fosse»; e più avanti si specifica corne questo animale «porto già il Redentore del mondo, e fu présente al suo nascimento» (questo passo del Valore de g li asini, nella redazione delle Lettere facete è sottoposto a censura, per tanto cito dall’ed. intégrale, Il Valore de g li asinï delVInasinito Academico Pellegrino, In Vinegia, per Francesco Marcolini, 1558, c. 10r-v: esemplare présente nella Biblioteca Angelica di Roma, segn. Mise. Rara A 1; per la questione della censura cfr. infra, pp. 144-50 e Appendice U). Un breve accenno alla preferenza accordata da Cristo all’asino è anche nel Moriae encomium (ed. cit., pp. 248-49). 67 Per l’espressione asinus portans mysteria «che trova le sue radici nell’antica consuetudine di usare l’asino come veicolo di divinità legate ai misteri (Dioniso, Iside e Cibele)» e l’indicazione di alcuni testi in cui essa è présente, cfr. O rdine, La cabala delVasino cit., pp. 86-87 (86) e Id ., Asinus portans mysteria. Le «Ragionamento sovra del asino» de Giovan Battista Pino, in Id ., Le rendez-vous des savoirs. Littérature, philosophie et diplomatie à la Renaissance, Préface de M. Simonin, Paris, Klincksieck, 1999, p. 55. All’uso antico, con il rinvio ad Apuleio, di far trasportare dall’asino «corne in processione con bellissima pompa la Dea Cibele» si fa riferimento anche nel Valore de g li asini (cfr. Lettere facete, p. 424). 68 A grippa, Della vanità cit., p. 513. 69 La lettera, con varianti, è riprodotta nella Chiachiera Ultima della Zuccar, cfr. A.F. D oni , Le novelle, t. II/1-2 : L a Zucca, a c. di E. Pierazzo, Roma, Salemo Ed., 2003, I I/1, pp. 190-97 (d’ora in avanti L a Zucca). 70 In R icottini M ar siu -L ibelu , Anton Francesco Doni cit., l’orazione è schedata al n. 33 (p. 66) come opéra di Doni: la studiosa ricava il dato da C. A rlia, Giunte a l Catalogo delle Opéré d A . F. D oni «Rivista bibliografica Italiana», v (1900), pp. 309-12; e rimanda anche a: Bibliothèque Nationale, Catalogue général des livres imprimés de la bibliothèque nationale,;Auteurs, tome XLI, Paris, Imprimerie Nationale, 1910 e British Museum, Catalogue o f printed books, vol. Dole-Doughty, London, William Clowes and Sons, 1886. 71 «In compagnia della Vita di Cleopatra Reina d’Egitto consacrata al S. Conte, ne viene

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risulta, non sembrano esistere dementi forti per negare l’attendibilità delle parole doniane (anche se è indubbio che di per sé esse non costituirebbero una prova inoppugnabile qualora emergessero dati talmente consistenti da riaprire la questione della paternité). L’orazione, che accoglie i fermenti dell’evangelismo contemporaneo, rivendica il valore di un’ignoranza intesa come semplicité, purezza, umilté: di contro a una sapienza mistificata e mistificante, nata dal proliferare di dottrine e teorie, generatrici di falsità e corruzione, sulla scia della lezione di Erasmo e di Agrippa - cui va aggiunto anche l’influsso di Ortensio Lando 72, che a sua volta proprio a quegli autori si era ispirato - si propaganda la necessità di un ritomo al primitivismo scritturale73. Nella lettera di dedica, Doni assume su di sé Pignoranza (egli si dichiara «certissimo» di «non saper nulla») come istanza di libertà contro una cultura dogmatica e una letteratura ipercodificata. Abbandonarsi all’immaginazione di «essere affogat/’nelPignoranza» è la condizione necessaria per dare vita a una scrittura intesa come «cicalata», dove le parole possano germinare con spontanéité: Et se paresse a qualche persona ch’io sapessi Pa, b, c. cio mi pesa molto, perché subito ch’io m’allaccio questa giomea, mi convien pesar le parole

un’Oratione (de ’1 medesimo galante huomo) dedicata anchora da me, alla vostra gentilezza. Il suggetto è la Iode dell’iGNORANZA» (La vita d i Cleopatra Reina d'Egitto. DelVillustre S. Conte Giulio Landi. Con una oratione nel fine, recitata nellAcademia delllgnoranti; in Iode dell’Ignoranza, In Vinegia, 1551, c. 49r, ho utilizzato l’esemplare presente in BAV, segn. Capponi. V. 833). Cfr. G. M asi, «Quelle discordanze si perfette». Anton Francesco Doni 1551-1553, «Atti e Memorie dell’Accademia Toscana di Scienze e Lettere M La Colombaria”», un, n.s. xxxix (1988), pp. 9-112, che osserva come l’«orazione sia a torto attribuita al Doni stesso, che ne fii il semplice curatore» (p. 18). Il rapporto tra i due scrittori doveva risalire almeno al 1543, anno in cui Doni approda a Piacenza, dove entra in contatto con gli Accademici Ortolani di cui Landi era membro; cfr. P. P e lliz z a r i, Nota biograjïca, in D on i, I M ondi e g li Infemi cit., pp. lxix-lxxxiv (lxx-lxxi), cui rimando per la bibliografia sugli Ortolani. Qui mi limito a segn alare R. Scrivano, Bartolomeo Gottifredi trattatista e poeta (1971), in Id., L a norma e lo scarto. Proposte per il Cinquecento letterario italiano, Roma, Bonacci, 1980, pp. 107-37, e D e l F ante, LAccademia degli Ortolani cit. 72 Nel 1551, anno in cui esce XOratione in Iode delllgnoranza, Ortensio Lando aveva già pubblicato, da 8 anni, i suoi Paradossi (Lione, 1543) di cui, corne è noto, il III è dedicato alla tesi Meglio è desser ignorante che dotto e, l’anno precedente, la Sferza de scrittori antichi et modemi (Venezia, 1550). 73 Per i rapporti di Giulio Landi con movimenti riformistici, cfr. E. G arin , Echi italiani d i Erasmo e d i Lefèvre d ’É taples, «Rivista critica di storia della filosofia», xxvi (1971), 1, pp. 88-90; D el F ante, LAccademia degli Ortolani cit., pp. 165-69 e F. L enzi, 1 Dialoghi morali e religiosi di Giulio Landi, Lefèvre dÉtaples ed Erasmo, in Umanesimo e teologia tra ’4 00 e 500\ «Memorie domenicane», n.s., 1973, 4, pp. 195-216.

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nel favellare, e nello scrivere archipenzolarle bene bene. Ma stando in questa fantasia ch’io ho fitta nella zucca, idest d’essere affogato nell’iGNOran za , posso aprir la bocca, e dire a mio modo, metter giù la penna sul foglio, e tirar via senza una consideratione al mondo: Questa mi pare una félicita non conosciuta, e quella una miseria chiarissima. Benedetti sieno adunque coloro, che abbracciano questa ig n o r a n za , poi che cicalando posson balestrar le parole a modo loro, posson vivere a caso, e morire senza pensare a mille chimere strane. {Letterefacete, p. 441)74

La lettera si svolge intomo a motivi e immagini già incontrati nel Valore de gliasini, come la raffigurazione della «girella della Ignoranza», che, al pari della ruota descritta nell’elogio asinino, présenta «asini interi interi» nella parte alta, e uomini al basso, riconfermando la contiguità delle nozioni di asinità e ignoranza e del loro rapporto con la fortuna7576. Una citazione implicita dal capitolo II del III libro dei Discorsi di Machiavelli, «Come egli è cosa sapientissima simulare in tempo la pazzia», è inserita a esemplificazione del caso in cui puô essere vantaggioso fingere Tignoranza («alcuni sanno, e non mostrano di sapere»; mentre «quando Thuomo crede di saper più, egli sa manco»): «Lucio Bruto fu uno di quegli, il quai finse dessere ignorante tanto che condusse ad effetto l’animo suo, di cacciare Tarquino superbo: la qual cosa non gli sarebbe forse riuscita s’egli non usava questo mezo delllgnoranza» {Letterefacete, p. 444). La redazione della lettera nella Chiachiera ultima della Zucca présenta un’aggiunta dove si descrive, con il consueto gusto doniano dell'ekphrasis1**. 74 Cfr. anche D oni , La Zucca, p. 190. 75 Per le «interferenze sim bolicho tra asinità e ignoranza, riproposte in questa lettera doniana, cfr. O rdine , La cabala delVasino cit., pp. 140-41, a cui rimando anche per una breve ma efficace lettura de\Y Orazione, incentrata sull’ambiguità e la «doppia connotazione» di cui si carica la nozione di ignoranza, secondo una disposizione ideologica costante nei nostri testi paradossali (si vedano le pp. 137-38). 76 Come noto l’interesse per l’emblematica e l’inclinazione aW'ekphrasis di Doni, lui stesso disegnatore, ricevettero un vitale impulso negli anni della collaborazione con l’officina marcoliniana, anni di un’intensa attività editoriale, che si distinse per la confezione di °ggetti-libro caratterizzati dalla commistione di parole e immagini. Per l’importanza delle immagini nelTallestimento dei testi doniani e per la pratica del riuso iconografico si vedano A. Q uondam , N el giardino del Marcolini. Un editore veneziano tra Aretino e Dont\ «Giomale storico della letteratura italiana», clvii (1980), 497, pp. 75-116; L. Bolzoni, Riuso e riscrittura d i immagini: dal Palatino a l Della Porta, dal Doni a Federico Zuccari, a l Toscanella, in Scritture dt scritture. Testi, generi, modelli nel Rinascimento, a c. di G. Mazzacurati e M. Plaisance, Roma, Bulzoni, 1987, pp. 171-206; G. M asi, «Quelle discordanze siperfette» cit., in particolare pp. 2630 e 90-112; A. Stefanini, Illustrazioni marcoliniane e testi doniani, in Riscrittura intertestualità transcodificazione. Atti del seminario di studi (Pisa, gennaio-maggio 1991), a c. di E. Scarano e D. Diamanti, Pisa, Tipografia éditrice pisana, 1992, pp. 145-66; L. Bolzoni, La stanza della memoria. M odelli letterari e iconograjtci nelVetà della stampa, Torino, Einaudi, 1995, pp. 117-19

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un tondo donato al cardinale de’ Medici: a commento della descrizione del dipinto - descrizione che per altro documenta uno dei non pochi plagi doniani di testi di Giulio Camillo77 -, Doni osserva che l’immagine non raffigura, come interpretano i più, una personificazione di Ignoranza ma riproduce i tratti di Fortuna, cieca e ignara dispensatrice di differenti sorti, che si riversano a caso sugli esseri viventi, senza alcuna cognizione di meriti o demeriti, con esiti che oscillano tra l’incongruenza più imprevedibile e la congruenza più fortuita78: Vivente il cardinale de’ Medici, gli fii donato un tondo nel quale era di­ pinto un arbore, le foglie sue erano grandissime e diverse e i frutti variati e nuovi al vedere, percioché produceva (in cambio di pere o pesche) libri, mitere, spade, funi, capucci da frati, berrettoni da duchi, corone da re, capegli da reverendissimi, bastoni, sacchi di ducati, forche e di tutte le sorte di frutti che luomo gusta in questo mondo cosi di dolore come d’allegrezza. Sotto a quest’arbore d’ogni qualità di bestie e di persone. Nella vetta di questo frntto era una femina cieca, la quale con una lunga pertica batteva questi frutti, cosi nel cadere voi vedevi una berretta adosso a un porco, un libro in capo a un villano, una spada sopra d’un principe, una macine adosso a un povero, un sacco di ducati a traverso alia schiena dun cane, un paio di forche in cima della capellina d’uno sgraziato, e va’ e 203-09; E. Pierazzo, Iconografia delîa «Zucca» del Dont: emblematica, ekjrasis e variantistica, «Italianistica», xxvii (1998), 3, pp. 403-25; A.P. M ulinacci, Quando *le parole saccordano cm Vintaglio alcuni esempi d i riuso e riscrittura d i immagini in Anton Francesco Doni, in Percorsi tra parole e immagini (1400-1600), a c. di A. Guidotti e M. Rossi, Presentazione di L. Bolzoni, Lucca, pacini fazzi, 2000, pp. 111-40; M. Plaisance, Ü riuso dette immagini ne «I Marmi» del Dont', ivi, pp. 9-18; P. Pellizzari, Riscrittura per immagini: la !'Moraljttosojia* e i T rattati*d i Anton Francesco D m i, «Levia Gravia», n (2000), pp. 97-128; C. Rivoletti, Le metamorfosi delVutopia. A ntm Francesco Doni e Vimmaginario utopico d i metà Cinquecento, Lucca, pacini fazzi, pp. 121-53; S. M affei, Introduzione a A.F. D oni, Pitture del D m i Academico Pellegrino, a c. di S. M., Napoli, La Stanza delle Scritture, 2004, pp. 11-128. 77 A portare alia luce il riuso doniano di brani di Giulio Camillo è stata L. B olzoni, DalVAriosto a l Camillo a l D m i Tracce d i una versione sconosciuta del «teatro», in E ad ., II teatro della memoria. Studi su Giulio Camillo, Padova, Liviana, 1984, pp. 59-76 (67); la stessa immagine della fortuna - non più rappresentata in un tondo come nel testo della Zucca ma vista da Doni stesso in un cammeo antico «nello studio del Magnifico M. Gabriele Vendramino» - toma nelle Pitture'. cfr. ivi, p. 71. 78 Sull’immagine dell’albero simbolo della fortuna cfr. G. Zappella, Wide. Iconografia rinascimentale italiana. Diziortario enciclopedico. Figure, personaggi, simboli e allégorie nel libro italiano del Quattrocento e del Cinquecento, II, Premessa di R. De Maio, Milano, Editrice Bibliografica, 1993, pp. 188-89. A Doni fa esplicito riferimento Cesare Ripa nell'Iamologia quando descrive l’immagine della Fortuna: «Donna con gl’occhi bendati, sopra un albero, con un’hasta assai lunga percuota i rami d’esso, e ne cadano varij istromenti appartenenti a varie professioni, come scettri, libri, corone, gioie, armi, ecc. Cosî la dipinge il Doni» (si cita da C. Ripa, Icmologia, ed. pratica a c. di P. Buscaroli, con pref. di M. Praz, I, Torino, Fôgola, 19914, p. 171).

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discorrendo. Ancora, sopra molti uomini virtuosi vi cadevon capelli da cardinali, mitre, corone e altre cose degne. Cos! dicevano esser questa pittura l’lgnoranza la quale non sapeva quello che la si facesse perché dispensava male i doni di questo mondo, ma io l’avrei più tosto battezzata la Fortuna, perché l’ignoranza non fa questi effetti boni79. Nell’esordio dell’orazione il motivo topico della captatio benevolentiae è svolto con la dichiarazione della natura silenica del discorso che sta per essere pronunciato: «Che benché moite cose nel primo aspetto, paiono disconcie, e malagevoli a dover piacere, nulladimeno gustandole poi, e conoscendole bene, recano non poco piacere, e utilissimo frutto» {Letterefacete, pp. 446-47)80. Un veloce richiamo ai ‘precedenti’, cioè a testi come la lode della peste, o del debito, o ancora dell’«essere scomunicato», che, vilipesi dal coro di detrattori, arrestatisi allé soglie dell’apparenza, illuminarono invece i pochi lettori «che dal suono di quei titoli, non si sgomentarono, ma con patienza lessero i primi versi, [e] presi da molta ammiratione, volsero poi con lor piacere intendere ancor il fine» (ivi, p. 447), inscrive il discorso in lode dell’ignoranza nell’alveo di quelle scritture che, ponendosi al di fiiori dell’opinione comune, si indirizzano a un uditorio ristretto in grado di penetrare all’intemo dell’involucro. II lettore che accetta la sfida di prendere sul serio cio che appare ‘ridicolo’, ‘dannoso’, e ‘vano’, spingendosi al di là della su­ perficie strana e bizzarra, nel cuore del discorso, potrà venire a conoscenza della verità che il paradosso nasconde in sé. Dopo la protasi con disposizione a climax («e non dubito ancor farvi poi vedere che altro non è ignoranza, che cosa buona, e lodevole, e con la virtù congiunta: e non solo questo, ma ultimamente, penso farvi chiaramente intendere, che ignoranza è una somma, sapienza»; ivi, p. 448), l’orazione entra nel vivo del discorso persuasivo con «un argomento d’autorità»: la nozione aristotelica di ‘privazione’. Dalla ‘privazione’ come «principio primo de la generatione», si passa alla «privatione di sapere», cioè l’ignoranza, corne principio del sapere stesso. 79 D oni, L a Zucca, pp. 194-95. 80 Per la fortuna che il simbolo silenico, rilanciato dall’adagio erasmiano SileniAlcibiadis (cfr. ora Erasm o da R otterd a m , I Sileni d i Alcibiade, Introd. e note diJ.-C. Margolin, Trad, di S.U. Baldassarri, Napoli, Liguori, 2002; ma sui Sileni si sofferma anche il Moriae encomium-, cfr. ed. cit., pp. 109-13), ha nella cultura cinquecentesca cfr. O rdine, L a cabala dell'asino cit., pp. 109-18, a cui rinvio anche per i riferimenti bibliografici. Ma si veda anche F.W. Lupi, L a scuola dei Sileni, in Scritti in onore d i Eugenio Garin, Pisa, Scuola Normale Superiore, 1987, pp. 1-20. L’immagine del Sileno era già stata evocata da Giovanni Pico della Mirandola nella célébré lettera (1485) a Ermolao Barbaro; dr. E. B arb aro - G. Pico d e ll a M ira n d o la , Fûosofia o eloquenza?, a c. di F. Bausi, Napoli, Liguori, 1998, pp. 48-49 e relativa nota a p. 112.

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L'argumentatio prosegue con una rassegna di varie discipline che ha la fimzione di addurre ulteriori prove e contrario alla tesi che l’ignoranza sia da lodare. Il catalogo delle arti riproduce sinteticamente, nel volgere di poche pagine, la struttura del trattato di Agrippa81: si comincia dai grammatici «i quali mentre in certi pontigli assai leggieri se assottigliano, intomo a quei s’affaticano, et sudano in guisa, che ’1 loro cervello si lambicca, e stilla tanto, che impazziscono affatto, e per fine in nécessita d’ogni ben posti, si muoiono dalla secca, e languida fame» (ivi, p. 452), per poi passare agli oratori, ai poeti, ai geometri, matematici, astrologi, filosofi, legisti, teologi. Dal catalogo delle discipline si dischiude uno scenario di vanità, finzioni e astruserie senza senso, popolato da falsi e presuntuosi sapienti che sembrano aggirarsi come diverse maschere di stultitia\ cosi ad esempio alla figura del poeta «huomo vano, bugiardo, adulatore, e spiritato», simile a «un giardiniero, che sempre ha in bocca fiori, e fronde, acque chiare, e fresche, Narcisi, Rose, e Viole» (ivi, p. 453), si affiancano il cultore della geometria che «fa gli huomini astratti in guisa, ch’essi non si ricordano se vivi, o morti siano, e paiono propriamente insensati» o ancora gli astrologi «i quali non so in che modo si sono vanamente imaginati, o più tosto sonniati, cotanto vario numéro de’ cieli, [...] tanti circoli, tanti movimenti fra loro varij, e contrarij, gli Epicicli, le retrogradationi [...] e tante altre favolose inventioni, e vane contemplationi» (ivi, pp. 454-55)82. 81 Cfr. P.F. G rendler, Critics o f the Italian World (1530-1560). Anton Francesco Doni, Nicolô Franco and Ortensio Lando, Madison, Milwaukee and London, The University o f Wisconsin Press, 1969, p. 159. Anche il Moriae encomium, come è noto, a partire dai Grammatici, présenta un catalogo delle diverse arti che appartengono allé schiere della follia. 82 Nella sezione della Geometria si fa riferimento alia «quadrature del circolo» («Et quale estrattione, o qual’intrigo è maggiore, che quella lor quadrature del circolo? Che da che egli è il mondo, fu cercata sempre, e trovata non l’hanno già mai?»; Lettere facete, p. 454) come nella Vanità delle scienze". «disputano de i punti, delle linee e delle superficie [...]. Nondimeno geometra alcuno non ha ritrovato ancora la vera quadrature del circulo, [...]» (cap. XXII, Della Geometria; ed. cit., p. 115). II passo citato sugli astrologi prosegue con l’allusione allé loro leggendarie cadute in «oscure fosse»: «le quali [«contemplationi»] passano tanto oltre, i sensi nostri, che mentre va l’huomo i movimenti de’ cieli, e le stelle fissamente mirando, e numerando, spesso awiene, che in qualche oscura fossa, di lordure piena, egli cade, e trabocca» (Lettere facete, p. 455). Questo motivo in Agrippa ha un più disteso sviluppo narrativo, incentreto sulla facezia pronunciata dalla serva di Anassimene: «La serva d’Anasimene argutamente riprese con un motto faceto questi astronomi: ella soleva talvolta andare co ’1 padrone Anasimene, il quale essendo uscito una notte per tempo fiior di casa a contemplare le stelle, non si ricordando del sito, mentre che securamente guardando il cielo considerava le stelle, cadde in una fossa che gli era inanzi a i piedi. Dissegli allora la fante: «Mi maraviglio, padrone, del modo con che ti credi di conoscere le cose che sono in cielo non sapendo prevedere quelle che hai davanti a i piedi. Dicesi che Talete Milesio con questa medesima facezia fu ripreso da Thressa sua fante» (cap. XXX, Della Astronomiar, ed. cit., p. 148).

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Conformemente allé partitiones enumerate nella sezione iniziale dell’orazione (‘bonta’, Virtù,, ‘divinité’ dell’ignoranza) il discorso, dopo aver mostrato, con gli esempi dei falsi sapienti (genia di vani, bugiardi, adulatori, presuntuosi, arroganti, superbi, insolenti), che l’ignoranza è buona e lodevole, passa a dimostrare come l’«ignoranza sia congiunta con la virtude». Gli ignoranti infatti posseggono tutte le qualità che pertengono alla virtù: quelle stesse virtù per cui sono lodati gli asini nelle scritture asinine. Non è un caso quindi che Cristo, che amava cavalcare gli asini, prediligesse poi circondarsi di uomini semplici: Perciô il figlio de Iddio salvator nostro, per suoi discepoli elletti primamente tolse da la Reti Giovanni, et Pietro, huomini bassi, e ignoranti, ma semplici, fedeli, e di buonissima mente, e certamente chiunque ignorante si conosce, vedretelo humile, riverente, reale, fedele, humano, conversativo, lieto, giocondo, et buon compagno83. La sequenza finale del discorso, organizzato secondo l’ordine crescente, è dedicata a dimostrare l’argomento forte: l’ignoranza è divina sapienza. Al pari dell’asinità, l’ignoranza è la chiave d’accesso al divino: attraverso l’enunciato ossimorico si rivela ancora una volta la coincidentia oppositorumy e l’immagine silenica del rovesciamento estemo-intemo. Di nuovo la conoscenza del divino si dà nel segno del paradosso; e ancora una volta Socrate che dichiara, pur molto ‘intendendo’ e ‘sapendo’, di non ‘sapere nulla* e ‘nulla intendere’, è presentato come immagine dell’autentico sapiente, la cui coscienza dell’ignoranza si rovescia in conoscenza: Eccovi adunque che quella cognitione, che del sommo, e potentissimo Iddio havere possiamo, altro non è infatti che ignoranza. Perciô ne segue, che per nessun’altro mezo, che de l’lgnoranza, intendere non potemo, né conoscere, che cosa sia lo inenarrabile Iddio. La onde quel gran sapien­ te, mentre egli considerava, e contemplava le divine intelligenze, e l’alta Maestà divina, disse questo aureo, e vero detto: Io sol questo intendo, e so che nulla so, e nulla intendo. Et awenga ch’ei molto intendesse, e sapesse, nondimeno a gli alti segreti, dell’infinita divinité, il conoscimento suo parangonando, parevali veramente, e con vérité conosceva, che egli nulla intendeva, e nulla sapeva. perô ingenuamente egli confessava, esser totalmente ignorante, e totalmente essere ripieno d’Ignoranza. (Lettere facete, pp. 465-66)

83 Si cita qui àÆ Oratione in lode dellïgnoranza, in La vita d i Cleopatra cit., c. 58v, dal momento che questo passo nelle Lettere facete è censurato.

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Nel «Libro Secondo» delle Lettere facete XOratione in lode delVIgnoranza è seguita dalla Pazzia,, di cui esistono varie edizioni, per lo più senza nome delFautore e senza note tipografiche84. Lo Short-Title ne registra una, con Tattribuzione a Vianesio Albergati e l’indicazione, come luogo e anno di stampa, Venezia 1550. Nella raccolta Turchi l’operetta è preceduta da una lettera «A1 Signor Bernardo Salso» firmata A. Persio85. Si tratta di una parziale e libera riscrittura delYElogio dellafollia: il mate­ ria l offerto dal testo erasmiano viene adattato alla situazione italiana anche attraverso l’inserzione di riferimenti alla contemporaneità politica86. Un cambiamento significativo, con implicazioni di tipo retorico ma anche ideologico,

84 Nella catalogazione dell’ICCU-Edit 16 risultano sei edizioni (1541, 1543, 1546, 1547, 1550, 1560); quelle degli anni Quaranta, eccetto fed. del 1546 - di cui non si fomisce alcun dato tipografico -, sono tutte attribuite a Giovanni Andrea Valvassori. Da parte mia, posso aggiungere che l’esemplare che ho visionato nella Biblioteca Nazionale di Roma, segn. 69.2.A.15 [circa 1550] (che nel colophon riporta: «Stampata in India Pastinaca, per Messer non mi biasimate, all’uscire delle Mascare, e delle Pazzie Camovalesche. Con Gratia, e Privilegio di tutti i cervelli heterocliti, e con espresso protesto, che chiunque di questa Pazzia dirà male, s’intenda d’allhora in poi esser Pazzo da dovero, quantunque per tale non fusse conosciuto»), da un controllo a campione présenta notevoli varianti grafiche rispetto all’ed. della Biblioteca Apostolica Vaticana [1541?], segn. Capponi. V. 551. Un’edizione modema basata su un esemplare della stampa del 1541 conservato alia Marciana di Venezia è in S. Jacomuzzi, L\universal p a zzia del mondo: la P azzia d i Anonimo e altri testi letterari del Cinquecento\ Torino, Giappichelli, 1977. 85 L’attribuzione a Vianesio Albergati risale a G. M elz i, Dizionario d i opere anonime e pseudonime d i scrittori italiani o come che sia aventi relazione allltalia, 3 voll., Milano, Di Giacomo Pirola, 1848-59 (rist. anast. Bologna, Fomi, 1982), II, p. 323. Per un resoconto delle diverse attribuzioni (J.-C. B runet, ad es., nel Manuel du libraire et de Vamateur de livres..., 6 voll., Paris, Librairie de Firmin Didot Frères, 1860-65, riporta come autore «despite the fact that he was not bom until 1554», proprio Ascanio Persio, che, nel «Libro Secondo» delle Lettere facete, figura quale mittente della lettera che precede e accompagna la «lode della Pazzia», IV, col. 459) cfr. G r e n d le r , Appendix V, «La P azzia », in Id., Critics o f the Italian World cit., pp. 253-54; Grendler inoltre, awertendo che loperetta «had at least six Italian and two French editions», elenca le stampe direttamente visionate: tre edizioni italiane, di cui una sola, quella del 1543, con note tipografiche (Stampata in Vinegia, per Giovanni Andrea Vavassore detto Guadagnino, e Florio fratello; mentre le altre due, rispettivamente del 1546 e del 1560, non presentano né luogo, né nome dell’editore) e due traduzioni francesi (Paris, 1566 e Lyon, 1567). Su Vianesio Albergati cfr. la voce redatta da G. A lb e r ig o nel DEI, I, pp. 621-24, che per altro mette in dubbio che egli sia stato l’autore della Pazzia, propendendo, secondo un’ipotesi già avanzata da B. C r o c e («Rassegna pugliese», ii [1885], 14, pp. 217-18), per uno scrittore di ambiente senese. Ma ora per una messa a punto dei testimoni superstiti, e per una ricostruzione delle diverse ipotesi attributive cfr. D. C apaldi, Le liberté del pazzo. Sulla tradizione italiana cinque-seicentesca delV«Encomium Moriae* d i Erasmo, «Linguistica e letteratura», XXVIII (2003), 1-2, pp. 83-148 (91-92 e 95-96, n. 37). 86 Per un'analisi delle modifiche apportate dal testo italiano rispetto all’opera di Erasmo cfr. ivi, pp. 92-98, 111-12, 121-24, 132-33.

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riguarda il personaggio cui è affidata l’orazione. Qui, non essendo direttamente Follia in persona a pronunciare il suo elogio, come awiene nel testo erasmiano, ma un normale locutore, il gioco del rovesciamento paradossale perde molto della sottile ambiguità del modello, privato, com’è, del valore che assume, all’intemo dell’ideologia silenica erasmiana, il motivo del perso­ naggio irrazionale per eccellenza, Moria appunto, prescelto a dire la verità. D’altro canto la propensione dell’autore a riservarsi brevi spazi autobiografici, presentandosi nelle vesti di chi fortunatamente è toccato dalla pazzia, contribuisce a ristabilire in parte l’oscillazione di significato tipica del codice paradossale. I tratti autobiografici del testo affiorano sin da quando l’autore, contrawenendo al topos dell’utilità dell’opera, finalizza la lode della pazzia a un uso del tutto personale, come privata consolazione: «sî come allé volte i Musici, non curandosi dell’altrui giudicio, soli a se medesimi, e aile sacre Muse i loro versi cantando studiano dilettare, cosi io non curando deH’altrui utilità, solo a mia ricreatione, over consolatione per dir meglio fra me stesso racconterô la lode della Pazzia, et i piaceri, che continuamente da quella riceve l’humana generatione» {Letterefacete, pp. 469-70). Essi poi si tingono di autoironia, quando nel pieno dell’elogio, svolgendosi l’argomentazione intomo al motivo della Jtlautta, l’autore stesso interviene assumendo su di sé la pazzia, e presentando la sua scrittura come folle esempio di amore di sé: «Et quanto sia grande questo piacere [delT«amar se medesmo»], io medesimo scrivendo questa mia Pazzia il provo: parendomi allé volte haver ritrovato inventioni assai ingegnose, e belle, e ancora haverle non molto goffamente scritte» (ivi, pp. 490-91). O ancora assumono tonalité neostoiche quando, a seguito della canonica rassegna dei savi spinti al suicidio dalla «prudentia» per «liberarsi dalle awersità, nelle quali ella gli ha messi», l’autore, dopo essersi proiettato solo per un momento all’intemo degli exempla allegati di Diogene, Catone, Bruto ecc. («L’essempio de i quali [i suicidi] io dovrei già haver imitato per dar una volta fine all’insopportabili miserie, che continuamente mi affliggono»; ivi, p. 502), si rawede, opponendo resistenza aile awersità, grazie al potere consolatorio della pazzia87. La sua stessa esistenza, dunque, afflitta dal dolore e dalle sventure, si offre quale esempio della filantropia di Pazzia, come emerge dal passo conclusivo dello squarcio autobiografico: In tanto mossa a compassione la dolce Pazzia, benignamente in tanti mali mi soccorre, una qualche volta, pascendomi di vana speranza con persuasione di poter sanare altre volte, levandomi in parte il sentimento

87 Sul motivo della pazzia consolatoria argomentato in termini neostoici cfr. ivi, pp. 122 e sgg-

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del male, con varie pazzie, facendomi passare il tempo che a pena me ne sento. La onde essendole tanto obligato nessun si deve maravigliare, se meritamente la lodo, si come unico refrigerio della mia noiosa vita, e di tutti gli altri calamitosi, i quali come hanno minor cagion di vivere, per beneficio della Pazzia, più desideran la vita, (ivi, p. 504)88 Anche in questo testo il termine ‘pazzia’, come ‘asino’ e ‘ignoranza’ negli elogi precedenti, ha una doppia connotazione, positiva e negativa: con le stesse modalità riscontrate ndSOratione in lode dell’Ignoranza, il trionfo della pazzia negativa si compie nel catalogo delle diverse discipline, raggiungendo l’acme nella finale tirata contro i Pedanti «che si reputano e fra gli altri credono esser molto savi». Esplicita, in termini di négativité, 1’attribuzione ai pedanti della «vera Pazzia», quale presunzione di ‘saviezza’: «Ma per esser come i Luterani incorrigibili in numéro grandissimo, lasciamoli godere del privilegio della vera Pazzia, actio che il più pazzo più savio si reputi; e di sua pazzia più si goda> (ivi, p. 522) 8990. II testo, come si diceva, è una libera e parziale riproduzione dell’elogio erasmiano, a partire dall’esordio, con l’allusione topica al canone degli autori, antichi e modemi, di elogi paradossali e la manifestazione di stupore per la mancanza di un discorso in lode della Pazzia: «Anzi pare cosa degna di molta meraviglia che in tanti secoli, non sia stato alcun’altro che (almeno per mostrarsi grato, e riconoscente) l’habbi celebrata; ben che io credo non saria mancato chi l’havesse fatto, se dalla grandezza, e difiicoltà del soggetto non fosse stato ritenuto» (ivi, p. 470). E anche per il resto, dal motivo iniziale dell'eugeneia* con il riferimento al mito delle Isole Fortunate91, allé

88 Un altro esempio in cui l’autore e il testo stessi sono proiettati nel dominio della pazzia si legge più avanti all’intemo della rassegna dedicata allé diverse attività umane: «e certo se la Pazzia, che a entrarvi [nel mare delle pazzie, «vasto e profondo»] m’indusse per sua benignità la mano non m’havesse porta, e quasi non mai da me partendosi, continuamente non mi soccorresse, già harei l’opéra più volte intermessa* {Lettersfacete, p. 518). 89 L’accostamento pedanti-luterani è aretiniano: cfr. la lettera a Benedetto Accolti, cardinale di Ravenna (n. 178 dell’ed. Procaccioli, t I, libro I cit, pp. 261-62: 261), dove compare il sintagma «Lutero pedantissimo». 90 Secondo la classificazione terminologica di Pernot, La rhétorique de l'éloge cit. (si veda in particolar modo il cap. I, Les topiques, images du monde, della Parte II, La technique. I, pp. 129-249). 91 Oltre che nel topos delle origini, il motivo dell’età dell’oro riaffiora, coniugato a quello del «nuovo mondo», e alia polemica contro la violenza degli Spagnoli colonizzatori, all’intemo dell’elogio, quando si svolge il tema dei «savi rovina delle Repubbliche» (cfr. Lettere facets, pp. 493-94). Frequente il riferimento all’età dell’oro nei testi paradossali, come immagine di una vita libera e naturale, non soffocata dai vizi e dai mali prodotti dagli esiti negativi della civilizzazione e dello sviluppo delle scienze: si veda ad es. la Lode della Furfanteria (Bonfadio ,

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L E T T E R E FACETE. E T P U C E V O U

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diverse sezioni in cui si divide il testo, dedicate ciascuna alia lode di una particolare morfologia di Follia, l’elogio riproduce lo schema erasmiano. La Pazzia vi è esaltata come essenza dell’esistenza umana e fondamento di tutte le relazioni sociali, dal matrimonio all’amicizia, dal rapporto padre-figlio a quello maestro-discepolo, dal rapporto signore-servo a quello principe-suddito. Rapidi e divertiti quadri, come quelli raffiguranti la pazzia dell’uomo nelle sue peculiarità legate all’età (pazzia della fanciullezza e della vecchiaia) al sesso (pazzia delle donne e delle vecchie) o alla condizione sociale (pazzia del re che ama circondarsi di buffoni92), si altemano all’inserzione di ‘piacevoli’ rassegne, secondo l’usuale tecnica del catalogo. Numerosi elenchi si susseguono per incrementum come altrettante testimonianze dell’eccellenza di Pazzia: elenchi dedicati alia rappresentazione del trionfo incontrastato di Follia, come l’elenco delle città, dei popoli e delle nazioni che la «Pazzia ha in sua peculiar protettione», o quello degli dèi «amicissimi della pazzia» (Bacco, Sileno, i Satiri ecc.)93, si affiancano a rassegne, con valore probante Le letter? cit., pp. 159-60), o la lettera contro la scrittura di Annibal Caro (a Marc’Antonio Piccolomini, lett n. 163 dell’ed. Greco cit., I, pp. 220-28). Per YElogio della Follia cfr. ed. cit., pp. 122-25. Sulla leggenda dei «Satumia régna» si veda G. C o sta , La leggenda dei secoli d ’oro nella letteratura italiana, Bari, Laterza, 1972. Per la presenza del mito dell’età dell’oro nella cultura cinquecentesca, rilanciato dalla scoperta del Nuovo Mondo, in rapporto alla critica che ne fa Giordano Bruno, cfr. O rdine, La cabala delVasino cit., pp. 57-61 e (anche per il topos «del tuo e del mio») Id., Contro il Vangelo armato. Giordano Bruno, Ronsard e la religion?, Milano, Cortina, 2006, pp. 81-94. La scoperta del Nuovo Mondo non tardô a suscitare l’interesse degli scrittori da Ariosto a Tasso a Bruno a Marino: per i rapporti tra le scoperte geografiche e i testi letterari si vedano i contributi di G. A q u ilecch la , Da Bruno a Marino. Postilla alV«Adone», X 45 (1979), in Id., Schede bruniane ( 1950-1991), Manziana (Rm), Vecchiarelli, 1993, pp. 287-92 (ma di Aquilecchia si veda anche - per la critica di Bruno contro i colonizzatori - Bruno e il *Nuovo Mondo» [1955], ivi, pp. 97-99); S. Z a tti, Nuove terre, nuova scienza, nuova poesia: la profezia epica delle scoperte, in Id., L ’ombra del Tasso. Epica e romanzo nel Cinquecento, Milano, B. Mondadori, 1996, pp. 146-207 (per il mito delle Isole Fortunate cfr. pp. 167-89); A. C asadei, "Nuove terre e nuovo mondo": le scoperte geografiche nel c. XV, 18-27, in Id., L a strategia delle varianti. Le correzioni storiche del terzo «Furioso», Lucca, pacini fazzi, 1988, pp. 79-85 e Id., I poeti, i cavalieri, le macchine, g li spazi: scienza e tecnica in Ariosto e Tasso, in Id., La fin e degli incanti. Vicende del poema epico-cavalleresco nel Rinascimento, Milano, FrancoAngeli, 1997, pp. 61-74 (66-73). Per ulteriore bibliografia su questi terni rinvio ai testi citati. 92 Per il motivo polemico del re che si diletta della compagnia dei buffoni, anziché di quella dei sapienti, ricorrente in età medieval e, cfr. E.R. C urtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, ed. it a c. di R. Antonelli, Firenze, La Nuova Italia, 1995, p. 523. 93 Rispetto al catalogo erasmiano delle divinità è aggiunto il riferimento a Giano bifronte, che qui vale come immagine del doppio caratterizzato dall’accostamento ossimorico del puer e del senex: «In prima credo a tutti sia manifesto, che alia porta del cielo sempre sta Iano con due faccie, l’una di giovine fanciullo, e l’altra d’insensato vecchio, le quali ambe due età (come v’ho detto) la pazzia sempre govema, e tale forma è in sé tanto pazza, che a tutti quelli, che la veggono, subito muove riso» {Letter? facete, p. 477); cfr. C urtius, Letteratura

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MEGLIO IGNORANTE CHE DOTTO

e contrario, impegnate nella denigrazione dei presunti sapienti, come quella dei dotti pusillanimi (inserita nella sezione dedicata alia pazzia della guerra), dei savi che hanno causato la rovina delle repubbliche, dei savi che hanno generato figli stolti, dei dotti sventurati, di quelli che si sono dati la morte. La riscrittura deWEIogto della follia attuata dal nostro testo, pur conservando la forza satirica di aggressiva denuncia contro la corruzione delle istituzioni e del potere, nel momento in cui tralascia, forse per ragioni di cautela, la porzione conclusive con ogni probabilità la più polemica dell’opera, snatura l’ipotesto privandolo del suo più profondo significato evangelico, mostrandosi, cosî, estranea allé istanze di riforma religiosa: lomissione di alcuni segmenti testuali, come la satira sul malcostume di pontefici, cardinali, sovrani e principi, o l’attacco ai settarismi, dogmatismi delle diverse scuole teologiche, e ai falsi e corrotti esegeti delle Scritture, che manipolano il messaggio evangelico, o la rappresentazione parodica, di dissacrante comicità, dell’oratoria delle prediche, atténua la componente eversiva e radicale del testo erasmiano, almeno sul piano della critica aile superstizioni, ai formalismi, ai farisaici cerimonialismi della religione cattolica ridotta a una esteriore pratica contrattualistica e isterilita dagli apparati razionalistici della teologia scolastica. Tuttavia, questa operetta, forse eccessivamente sottovalutata dalla critica94, présenta senz’altro un suo interesse, almeno come ulteriore documento della ricezione in Italia del testo di Erasmo, il cui messaggio, con ogni probabilità rilanciato anche dalla versione italiana, pubblicata a Venezia nel 153995, si mostrava del tutto vitale ancora negli anni Quaranta e europea cit., pp. 115-22 (115). Per la presenza di Giano bifronte o addirittura quadrifronte nel De sapiente (Parigi, 1511) di Charles de Bovelles, come immagine della ambivalenza umana, da associare in qualche modo a quella dei Sileni erasmiani, cfr. E. G arin, Introduzione a E rasmo da R otterdam , Elogio della follia, a c. di E. G., Milano, Mondadori, 1992, pp. xvn-xvm. 94 Alla stroncatura del Croce, che ne parlo come di «mediocrissima rifrittura del libro di Erasmo in languida e scolorita prosa, toltane per prudenza tutta la parte satirica sugli uomini di chiesa e aggiuntavi qualche pagina sui grammatici, i pedanti, le questioni sulla lingua» (B. C roce, Suite traduzioni e imitazioni italiane dell«Elogio» e dei «Colloqui» d i Erasmo, in Id ., Aneddoti d i varia letteratura, seconda ed. con aggiunte interamente riveduta dall’autore, I, Bari, Laterza, 1953, pp. 411-24, 414), si puô associare il giudizio di «modesta composizione» datone da Eugenio Garin (Echi italiani d i Erasmo e d i Lefèvre dÉtaples cit., p. 90). Più condivisibile mi sembra la posizione di Grendler, per il quale «the work is more than “a bad translation without originality”» configurandosi «as a typical book o f protest o f the 1540’s» (G rendler, Appendix V, «La P azzia» cit., p. 253). A una totale rivalutazione delfimportanza del testo come fonte (che molto spesso rimpiazza l’originale erasmiano) per una serie di scritture successive dedicate al tema della follia delle istituzioni mira il saggio di C apaldi, Le libertà del pazzo cit. 95 La Moria dErasmo n).

Allhora chi vedesse quelle pastorelle [...] con quanta gratia stroppicciandolo, se dimenano ... struggerebbesi di dolcezza (p. 546).

Allhora chi vedesse quelle pastorelle [...] con quanta gratia stroppicciandolo, se dimenano; mostrando allhora per la sotigliezza del guar-

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APPENDICE 0

nello la figura dette lor massiccie, ben composte, e dure mele, struggerebbesi di dolcezza (c. 12/). ove il Signor Marchese, e ’1 Reverendo Pog­ gio Nontio Apostolico sono cosi gratiosi, e di tanta auttorità, in parte per cagion de’ formaggi, che appresentono ... La Francia (p. 548).

ove il signor Marchese, e il Reverendo Pog­ gio Nontio appostolico sono cosi gratiosi, e di tanta authority in parte per cagione de i formaggi, che appresentono: e già sendo io in Spagna, meJu detto, che p er mangiar formaggio sbattezzaronsi ben mille marani\ la Francia (c. 13/).

in presentare di formaggio Piacentino la corte francesca ... Faranno il medesimo testimonio i Svizeri [...] non per altro, che per i formaggi, che donava loro ogni anno ... Et io ho veduto il Re de’ Romani [...] Testificarà la Moscovia, al Signor di cui havendo un molto Reverendo Nontio Apostolico ch’è in ... fra il Reverendo di Tivoli, e ’1 Giovio habitava [...] Volse sua eccellentia [...] che Monsignore ... e poscia desse [...] La cagione di cio non dispiacerà il sapere ... U Turco medesimamente ne è testimonio (p. 549).

in presentare di formaggio piacentino la corte francesca. LTnghilterra farebbe d i cio verissimo testimonio che per haver Papa Clemente contra il parère, e consulto del Reverendissimo Ghinucci, e del Cavalier ’ Casale vetato a l Re la tratta del formaggio si fece lutterano, né valse il pentirsi da sezzo. Faranno il medesimo testimonio i Sviceri [...] non per altro, che per i formag­ gi, che donava loro ogni anno: ne testifica­ rà anche VAlemagna, la ave sendo la Minerva Reverendissima memoria per convertir Martino Lutero, andato; e non possendo con le sue lettere, e fiatesca scienza cio conseguire, scrisse a Papa Leone, che per ultimo rimedio g li mandasse cento some d i formaggio piacentino per corrumpere con esso Lutero e attettare il Ducha d i Sassonia, e il Lancisgravio, suoi seguaci, e discepoli Et io ho veduto il Re de Romani [...] Testificarà la Moscovia, al signor di cui havendo un molto Reverendo nontio appostolico che in Paradiso, fia il Reverendo di Tivoli, e Iovio habbitava [...] volse sua eccellentia [...] che monsignore si parasse pontificalmente; e alpopo10 con molta cerimonia mostrasselo, come a Roma 11volto santo; e poscia ne desse [...] la cagione di cio non dispiacerà il sapere: un servitore d i monsignore il nuntio, a l gran camariere del signore, che troppo accuratamente délia bontà, et del modo d i fa r questo formaggio addimandava; detto havea, che dove era un pocho d i quetto, i topi non v i praticavano: e perché egli disiderava intendere la cagione d i questa propriété disseli il servitore in segretto, che procedeva dal seme dal suo padrone; a cui per la molta sua santità era divinamente concessa ta l gratia; accio potesse alla gran molestia, e danno, che topi nel suo paese facevano, rimediare: e percio che qualche volta a preghiere del popolo, o d i gran signori, con quel semefacea caghiare il latte: d i chefacevasi quel

APPENDICE n

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formaggio per resistere, e opporse alla maligna natura d i quei topi, onde allui era concern senza peccato menarsi laJava, e non la d i Ghirello; ma che avertisse nonfa r d i cio parola a sua Reverendissima signoria; perché cio mai non confessarebbe egli né la virtù d i questoformagio per non cadere in superbia, e vanità; il cameriero non ostante la promessa disse tutto a l signore il quale una mattina a buon hotta mando il suo gran mastro d i casa con un scudellino dàrgento a monsignore il nontio; dinanzi a cui sendosi egli con molta riverenza ingenochiato; pregollo in nome del signore che volesse menarsi il pastorale, e quello scudellino; del suo seme glie empiesse: ma il Reverendo tutto d i cio, turbato, e conjuso, negava voler' cio fare; Valtro instava, che compiacesse a l signore; havendo massimamente ad altri d i cio compiaciuto, e percio non g li denegasse questa gratia, che egli non ne voleva più, che quello scudellino; promettendoli d i moite bellefodre d i zebelini: finalmente sendo corse moite parole d i qua, e d i là, il gran mastro disseli la cagione perché erasi il signor mosso a chiederli del suo seme: onde il buon monsignore disse, che pigliasse il servitore il quale era pazzo, e bugiardo; e havea uno humor malenconico: ma egli havendo da principio inteso Vajfare, già erasi foggito; e nascosto; che se per esperienza la p ri­ ma buggia del servitor non si scuopriva, a d ogni modo il povero nontio era necessitato o menar Vorsa a modona, nefarebbe adunque della bontà del formaggio nostro testimonio la Moscovia. D Turcho medesimamente ne è testimonio (cc. 13r-14z;). Chi ha da negociare con Signori, il più delle volte sta attaccato ad una porta, ad un uscio rinegando ... di non potere entrare (p. 556).

chi ha da negodare con signori, il più del­ le volte sta ataccato ad una porta, ad uno usdo rinegando Iddio di non potere entrare (c. 17*).

David fii pastore, e formaggiaro, che se *1 Pa­ dre suo con quelle died forme di cascio non l’havesse mandato a* suoi fratelli, haverebbe forse ... Romulo parimente (p. 558).

David fii pastore, e formaggiaro; che se ’1 Padre suo con quelle diece forme di casdo non lhavesse mandato a suoi fratelli, have­ rebbe forse il gigante Golia, insieme co Filistei Jraccassato, e distrutto il popolo Israelitico; et egli poscia portava pericolo non esser’ maipiù Re; ma Voccasione d i portare que diece casaifu della sa­ lute, et delVhonore d i Israelle e del regno d i D avid cagione. Romulo parimente (c. 18z>).

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APPENDICE n

Et chi non sa che i tesorieri, i gabellieri, e gli officiali di questa città ogni anno mandano le some intiere, e non una, ma parecchie a donar ... Et perche? (pp. 558-59).

e chi non sa che i tesorieri, i gabellieri, e officiali di questa città ogni anno mandano le some intere, e non una, ma parecchie a donar a quei Reverendi signori d i Roma? Et perche? (c. 19/).

Ricordomi che un tratto burlando meco, presenti testimoni, mi promesse ogni volta, ch’egli fosse ... bench’io molto più la gratia sua (p. 560).

ricordomi che un tratto burlando meco, presenti testimony, mi promesse ogni volta, ch’egli fusse creato Papa, d i farm i Cardinale, bench’io molto più la gratia sua (c. 19z;).

e quanto util sia, non solamente alla sanità dell’huomo, ma ancho nella vita civile, aile commutation! delle cose mondane, all’espiditioni de’ negoci, e a i crescimenti de gli honori ... (p. 560).

e quanto util sia, non solamente alla sanità dell’huomo, ma anche nella vita civile, aile commutationi delle cose mondane, all’espiditioni de negocii, a i crescimenti de gli honori, e dignitati (c. 19v).

îl Valore de gli asini per che di che si ha più da dire, di che si ha più da scrivere, e che si ha più da lodare di quella cosa, la quale govema il mondo, comanda a’... e è maestra de gli ... e dei ... e de i ... fa stare i ... al segno; veste talhora di bella Giomea i letteruti, insegna a gli Artefici come neH’arti loro s’habbino da govemare; mostra a’ ... e a’ ... il modo di vivere da pari loro, e a tutti in somma a’ giovani, a’ vecchi, a poveri a ricchi, a* grandi, e a’ piccoli scorge la via, e insegna il camino d’andare per questo mondo (p. 407).

per che di che si ha più da dire, di che si ha più da scrivere, e che si ha più da lodare di quella cosa la quale governa il mondo, co­ manda a i Signori, è Maestra de gli Uffitiali, e de i M inistri dette Città, e de i Principe, fa stare i GentiVhuomini al segno; veste tal’hora di bella Giomea i letteruti, insegna a gli Artefici corne nell’Arti loro s’habbino da govemare; mostra a Preti, e a Frati il modo di vivere da pari loro, e a tutti in somma a giovani, a vecchi, a poveri, a ricchi, a grandi e a piccoli scorge la via, e insegna il camino d’andare per questo mondo (c. Ir).

Et che cio sia vero lo mostra quello che scrisse il ... e intende dell’huomo tutte le cose; le pecore, i buoi, e l’altre bestie, che stanno ne’ campi (pp. 409-10).

Et che cio sia vero lo mostra quello che scrisse il Propheta dicendo. H ai sottoposto Signore a i suoipiedi, e intende dell’huomo, tutte le cose; le Pecore, i Buoi, e l’altre bestie che stanno ne i campi (c. 8/).

Onde in un altro luoco si legge ... Et s’io volessi potrei addurre mille testimoni, i qua­ li farebbono fede che da i ... antichi non fu posto l’Asino mai tra le altre bestie soggette all’huomo (p. 410).

Onde in un altro luoco si legge: Guardatevi da essere corne il Cavatto, e il Mulo, quali non hanno intettetto. Et s’io volessi potrei addurre mille testimoni, quali farebbono fede che da i Propheti antichi non fu posto l’Asino mai tra l’altre bestie soggette all’huomo (c. 8/).

Onde hoggi ancora veggiamo che non è congregatione alcuna di ... cosi povera, la quale non voglia havere il suo Asino, e quelli pa-

Onde hoggi anchora veggiamo che non è congregatione alcuna de fr a ti cosi povera la quale non voglia havere il suo Asino, e

APPENDICE U

rimente, che stanno all’heremo hanno con loro il loro Asino, e fina le ... non vogliono essere private di vedersi caminare per casa di questa tanto degna razza (p. 414).

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quelli parimente che stanno all’heremo han­ no con loro il loro Asino, e fina le monache non vogliono essere private di vedersi cami­ nare per casa di questa tanto degna razza

(c. 10/). E quando quello, che fin a qui ho detto niente facesse a dimostrare la dignità nell’Asino, hor questo solo lo mostri, questo ne faccia interissima fede, che ... fuggito su l’Asino, e il medesimo quando con tanto bel trionfo entrô in ..., v’andô parimente su l’Asino, o Asina che fosse. E da questo potrebbe esse­ re venuto che i ... aile volte siano chiamati Asini, quasi che come l’Asino porto già ..., quando era tra i mortali; cosî essi hora lo portino pel mondo ... Ond’è venuto ancora che i ..., quasi tutti de i tempi nostri, per­ ché sanno di essere tenuti a caminare per le pedate di ..., e s’awengono anco poi, che per la fragilità loro, non lo ponno imitare in tutte le cose, non ardiscono di cavalcare l’Asino, corne ch’ei sia il più animale degno non conviene, ma bene a quello s’accostano più che possono, e cavalcano il Mulo, che è mezzo Asino, corne dissi; e alcuni altri, i quali vorrebbono pure che fosse creduto che essi imitassero ... affatto lo cuoprono co i manti loro, corne disse Dante allhora ch’ei non era forse troppo loro amico, / Cuopron de manti loro e Palafreni / Si che due bestie van sotto una pelle / O patienza, che tanto sostieni. / Perché sia creduto che cavalchino l’Asino, e pensino gli huomini che lo tengano coperto sotto quelle vesti, perché essi non siano degni di vedere quello animale, il quale porto già il ... Non trovô la Scrittura ... animale, cui potesse più degnamente rassomigliare il popolo Giudaico, e il Gentile dell’Asino, onde dell’uno, e dell’altro s’intende misteriosamente per l’Asina, e per l’Asinello, che condussero gli ... e questo per hora basti havere detto della dignità dell’Asino (pp. 414-15).

E quando quello che fin a qui ho detto niente facesse a dimostrare la degnità nell’Asino, hor questo solo lo mostri, questo ne faccia interissima fede, che Christo nostro Signoref a dalla Madré fuggito in Egitto su l’Asino, e il medesimo quando con tanto bel trionfo entrô in Hierusalem, v’andô parimente su l’Asino, o Asina che fosse. E da questo potrebbe essere venuto che i Frati aile volte siano chiamati Asini, quasi che corne l’Asino porto già Chri­ sto, quando era tra i mortali; cosi essi hora lo portino pel mondo con le Santé Predicationi. Ond’è venuto anchora che i Prelati\ quasi tutti de i tempi nostri, perché sanno di essere tenuti a caminare per le pedate di Christo, e s’awengono anco poi, che per la fragilità loro, non lo ponno imitare in tutte le cose, non ar­ discono di cavalcare l’Asino, corne ch’ei sia il più animale degno non conviene ma bene a quello s’accostano più che possono, e cavalca­ no il Mulo, che è mezzo Asino, corne dissi, e alcuni altri, li quali vorrebbono pure che fosse creduto che essi imitassero Christo affatto lo cuoprono co i manti loro, corne disse Dante all’hora ch’ei non era forse troppo loro amico: / Cuopron de manti loro e Palafreni / Si che due bestie van sotto una pelle / O patienza, che tanto sostieni. / Perché sia creduto che cavalchino l’Asino, e pensino gli huomini che 10 tengano coperto sotto quelle vesti, per che essi non siano degni di vedere quello animale, 11 quale porto già il Redentore del mondo, e f a présente al suo nascimento. Non trovô la Scrittu­ ra Sacra animale, cui potesse più degnamente rassomigliare il popolo Giudaico, e il Gentile dell’Asino, onde dell’uno e dell’altro s’intende misteriosamente per l’Asina, e per l’Asinello, che condussero gli Apostoli a l Signore, quando egli entrô in Gierusalem. E questo per hora ba­ sti havere detto della dignità dell’Asino (cc.

10r-ll/). Et in tutte l’altre arti sarebbe il medesimo; corne i Dipintori mossi da certa naturale verità mostrano nelle loro dipinture, ove fan

Et in tutte l’altre arti sarebbe il medesimo, corne i Dipintori mossi da certa naturale verità mostrano nelle loro dipinture, ove fan

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APPENDICE H

no l’Asino sonare l’Organo aile volte, e aile volte una Piva, overo qualche altro stromento dilettevole; giuocare a’ Dadi, a Carte, a Tavole, e a Scacchi; lo fanno Medico, e che vada al letto a visitare gli amalati. lo vestono da ... e lo pongono in alto a ... al popolo. L’hanno anco vestito da Dottore, e da Procuratore [...] Né è molto ch’io ne vidi uno vestito da ... con la ... in mano: e se ne veggono ancora mold vestiti in altri diversi habiti da donna (p. 428).

no l’Asino sonare l’Organo aile volte, e aile volte una Piva, overo qualch’altro stromento dilettevole, giuocare a dadi, a carte, a tavole, e a scacchi, lo fanno medico, e che vada al letto a visitare gli amalati, lo vestono da frate, e lo pongono in alto a predicare al popolo, fanno che vestito da dottore, e da procura­ tore [...] ne è molto ch’io ne vidi uno vestito da pizzochera con la corona in mano, e se ne veggono anchora molti vestiti in altri diversi habiti da donna (cc. \6v-Ylr).

e cara più di tutte l’altre... Se gli Asini dunque tanto sono grati aile Donne (p. 432).

e cara piu di tutte l’altre. E che sia vero cio che VAsino a tu tti sia cost cam, e tanto grato, non è chi ne possa fa r meglio fede dette donne, le quali mostrano d i haverio a schifo, e g li torcono il naso quando lo veggono nientedimeno nel segreto del cuore ad altro animale non hanno maggiore a f fetione poi, e questo p a r lom che sia il più bello, il più vagoy il meglio composto; e più interamente fa tto d i tu ttig li altri. Onde aw iene chepochissimi sono quetti li quali possano acquistare Vamore d i una donna, anziniuno Vacquisterà giam ai se non si f a conoscere per tanto simile alVAsino che da quetto a lu i sia pochissima o nutta differenza, cioè sia della persona sua ben formato, ben composto, efa tto in ogni parte con buona misura, si mostri tardo, e lento a l mutare proposito, a n zi si disponga diseguitare sempre Vamore ch una volta havrà cominciato. Sia patiente, e totteri tutto quetto che g li dirà la sua Donna, sia humtle verso lei, s ’a ffatichi sempre perfarle servitio, e allafatica s i mostripiù franco sempre, e più gagliardo, e in questo modo alla Donna ch’egli ama sarà grato, perchéfarà vedere ch egli ha in sé una gran parte dette buone qualité dettAsino, cornefu Apuleio giàfatto Asino a quetta gentildonna, la quale non posé m ai infino a tanto che seco Vhebbe a giacere, e pareva che tutta s i struggesseper amorsuo, e cost strettamente Vabbracciava, e baciava tanto dolcemente quelle labbra Asinine, che più non havrebbe potato fare a l più bel giovane del mondo, a n zi più m ai non voile vederlo p o i che d i Asinofu ritomato huomo, con tutto ch 'et'fosse assai betto, e molto bene com­ posto délia sua persona, e in ogniparte intern. Se gli Asini dunque tanto sono grati aile Donne (cc. 18^19 ?).

APPENDICE n

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Oratione in Iode deïllgnoranza [lettera di dedica: «Al Signor Gregorio Rorario da Pordenone, maggior suo honorando. Anton Francesco Doni»] Ignorantone, sarà quell’altro, che si fa adottorare in legge, non ne sapendo straccio, ... Ignorantaccio (p. 442).

Ignorantone, sarà quell’altro che si fa adottorare in legge, non ne sapendo straccio, o uno che predichi il Vangelo ad altri, e egli non creda nulla. Ignorantaccio (c. 49v).

Et veramente si come il titolo di lodar la Peste, pareva ad ogn’uno a prima faccia un soggetto strano, noioso, inutile, e vile, e ’1 celebrare l’haver debito, fu tenuto cosa ridicola, dannosa, e vana. e lo innalzare con lodi, l’essere ..., parve più tosto cosa horribile, e da fuggire, che degna (p. 447).

Et veramente sicome il titolo di lodar la Peste, pareva ad ogn’uno a prima faccia un soggetto strano, noioso, inutile, et vile. Et il celebrare l’haver debito, fu tenuto cosa ridicola, dan­ nosa, e vana Et lo inalzare con lodi, l’essere scomunicato, parve più tosto cosa horribile, e da fuggire, che degna (c. 52/).

Ma quelli, che si chiamono ... Onde potete comprendere che cotale ignoranza sia da quel sommo, e sapientissimo huomo non mediocremente lodata, e predicata (pp. 456-57).

Ma quegli che si chiamono Teologi, et che d'altrv, che de laltissimo îddio non voglionofavellare giamai, facendo professione d i spiare, et sapere tutto quello cefa, et pensa il sommo Iddio van no tanto oltra, con la presuntuosa sapienza loro, i misterij de la Trinitade, e de la Predistinatione, e daltri altissimi, e profundissimi segreti, investigando: che vengono p o i in pensieri, e openioni d i cose, che drittamente sono contra Vhonore de la Maestà drvina, e non cessano d i proseguire, e favorire quelle loro chimerationi, che de le cose divine non favellano, ma indiscretamente, e con poca riverenza favoleggiano, e nel ultimofannosi huomini seditiosi, e heretici, e nemici del grande, et vero Iddio. Perd ci ammoniva il santo Apostolo dicendo, che egli non è bene gire cercando d i sapere quello che non è mestieri d i sapere, e che non si conviene intendere: il quale avertimento ci insegna che util cosa egli è d i quelle cose divine rimanerci con Vignoranza. Onde potete comprendere che cotale ignoranza sia da quello sommo, e sapientissimo huomo non mediocremente lodata, e predicata (cc. 56v-57r).

Onde essi con I’Ignoranza caramente s’abbracciono ... Eccovi donde nasce l’arroganza (p. 459).

onde essi con l’ignoranza caramente s’abbracciono. Più oltre io credo che sapiate che quella cosîfa tta sapienza, è dal sommo Iddio odiata in guisa, che per leifu dato la morte a quei, li quali sendo prima ignoranti vivevano una vita inno­ cente,felice, et immortale. Perd quella sapienza in figura fu assomigliata a quello maledetto serpente, chmgarmo i nostri prim i parenti, ü quai per-

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APPENDICE II

suase loro, che sapendo essi discemere, e conoscere il bene dal male, sim ili sarebbono alVetemo Iddio. Eccovi donde nasce l’arroganza (c. 58/). Perciô il figlio ... huomini bassi, e ignoranti (p. 459).

Perciô il figlio de Iddio sahator nostro, per suoi discepoli elletti primamente toise da le R ed Gio­ vanni, et Pietro, huomini bassi, e ignoranti (c. 58z>).

Che più? vi dovete ricordare di quel pio, e maestrevole essempio di quei tre figli ... Vedete come in quello la ingiustitia, e impietà si scoperse, non per altro, che per troppo volere vedere, e sapere (p. 460).

Che più? vi dovete raccordare di quello pio, e maestrevole essempio di quei tre figli diNoè, il quaipreso dal sonno per il liquore che de la vigna sua gustato haveva, e in terra nudo giacendo. Cam voile vedere del Padre le p a rti segrete, e nascoste, a lu i non dicevoli. M a Sem, e laffetto, avenga che dalfrutello invitatifossero, anzim ossi da la Pietà, e riverenza figliale, havendo preso un manto, e quello postosi a le spalle, e movendo i passi indietro in quell modo andarono là dove Noe giaceva addormentato, e lasciato il manto destramente cadere sul corpo suo, lo coprirono. Vedete come in quello la ingiustizia, e impietade si scoperse, non per altro, che per troppo volere vedere, e sapere (cc. 58z>-59/).

Quindi nasce che quelli, che sono da tali Principi posti, in alto grado, con moite, e ampie facilita, sono per la maggior parte, non solamente ignoranti, ma ignorantissimi, et anco con vostra licenza dirô stupidissimi... La quai cosa chiaramente ci manifesta che quegli si­ mili gran Signori, vi è più l’ignoranza, che la dottrina, e la sapienza amano, e appregiano (p. 461).

Quindi nasce che quelli che sono da tali Principi posti, in alto grado, con moite, et ampie facultadi, sono per la maggior parte, non solamente ignoranti, ma ignorantissimi, et ancho con vostra licenza dirô stupidissimi capocchi, la quai cosa chiaramente ci mani­ festa che quegli simili gran signori: vi è più l’ignoranza, che la dottrina, et la sapienza amano, et appregiano (c. 59/).

La Pazzia Delle nove lettere del Trissino, e delle inventioni dell’unico,... si ridono, dicendo, non esser arguto, se non in punger quando non gli è turata la bocca con qualche presente. E per non dir di tutti, penso se il proprio Manganello ritomasse con quel suo ... Tedesco, che l’havea, che pareva un piè di trespolo, che a pena secondo il loro desiderio potria lor sodisfare (p. 482).

Delle nove lettere del Trissino, e delle inventioni dell’unico; si ridono delVAretino, dicendo non esser arguto, se non in punger, quando non gli è turata la bocca con qualche présen­ te. E per non dir di tutti, penso se il proprio Manganello ritomasse con quel suo Frate Tedesco: che l’havea, che pareva un pié di trespolo, ch’apena secondo il loro desiderio potria lor sodisfare (c. B3/).

Et Numa con la simulata Egeria? Et ... con l’incredibili pazzie del suo ... non govemô

E Numa con la simulata Egeria, e Macometto con l’incredibil pazzie del suo Alcorano,

APPENDICE O

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pacificamente gi’insensati, e furiosi popoli? i quali tanto amano le pazzie, che molto più facilmente si reggono, e govemano con le favole, e con le menzogne de’ pazzi, che con le savie leggi de i prudenti Filosofi: i quali non amano, e non gli vogliono udir, né conoscere? [il taglio è senza segnalazione di puntini] Oltre di questo, che cosa pensata [sic] voi inducesse Curtio Romano a precipitarsi armato (p. 498).

non govemô pacificamente gli insensati, e furiosi popoli; li quali tanto amano le paz­ zie, che molto più facilmente si reggono, e govemano con le favole, e con le menzogne de i pazzi, che con le savie leggi de i prudenti Filosofi, li quali non amano, e non li vogliono udir, né conoscere. H che manifestamente ancora si vede ne i nostri padri predicatori, li quali mentre ch*espongono li gran misterii della sacra Theologia, e dichiarano le dottrine, le meditacioni, e le contemplationi de i lor illuminati Dottori, pochi g li ascoltano, rari g li intendono, molti cianciano, alcuni sbadacchiano, altri dormeno, e subi­ to (Come spessofa r sogliano) quando raccontan qualche favola o qualche sciocchezze scappa lor dalla bocca, tu tti si destano, sallegrano, e rideno, e questo perché Vanimo de g li homini più deïïe p a zzie naturalmente si diletta,. Oltra di questo, che cosa pensate voi inducesse, Curtio Ro­ mano a precipitarsi armato (c. Dî>).

si che [i pazzi] da tutti accarezzati, riguardati, e ben visti fin che vivon, stanno sempre in giuochi, in piaceri, e in feste ... Hor sarà alcun tanto fiior di giudicio (p. 506).

che [i pazzi] da tutti accarezzati, riguardati, e ben visti fin che vivon, sempre stanno in giuochi, in piaceri: et in feste e dapoila morte, la quai non son drittamente (secondo i Theologi, li quali affermano, cheper essereJuor d i sentimento, non possan peccare) se ne vanno in paradiso, dove confelicità etemamente vivono, Hor sarà alcun tanto fiior di giudicio (c. Et).

Et di quelli, che presumono con incanti cavar ferri, sanar fente, guarir febre, e infino aile bestie rimediareP [il taglio è senza i puntini] Quasi di questa specie sono i Geomanti (p. 517).

E di quelli che presumeno con incanti cavar ferri: sanar ferite: guarir febre: infin aile bestie rimediare: e certo penso se J>er la paura degli inquisitori non restassent che alVultimo farian miracoli: li quali aile volte anchora mifanno mol­ to ridere; ma non è da scherzar co i sand. Quasi di questa specie son i Geomanti (c. Fv).

si

APPENDICE m

In questa appendice si fomisce una sérié di materiali testuali che illustrano quelle pratiche di nuso’ messe in atto da Rao che abbiamo preso in esame nel corso del capitolo 3. Si riportano: a) alcuni esempi di riciclaggio di stessi segmenti nelle Argute, etfacete lettere, b) alcuni prelievi (sempre nelle Argute, etfacete lettere) dalle Lettere di Doni non segnalati nel capitolo; c) i prelievi dal volgarizzamento del De vanitate di Agrippa nella redazione ampliata delY Oratione in Iode deWIgnoranza (contenuta nelle Irrvettive, orationi et discorsi)', d) le riprese nella «Iode dell’asino» dal volgarizzamento di Pietro Messia {Dialogo del Contentioso) ; e) riscontri testuali tra diverse scritture asinine. Le edizioni utilizzate sono owiamente quelle a cui si è fatto riferimento nel capitolo 3. a) Esempi di riciclaggio «intemo» nelle «Lettere» di Rao (non segnalati all’intemo del capitolo): Credendo voi di farvi o venerabili, o farmidabile [sic\ aile genti com’il Flagello de’ Prencipi (c. 14/). E con queste vostre ciancie credete di farvi o venerabile, o formidabile aile genti corne *1 flagello de’ Principi (c. 22v). Voi siete la salute de’ Pedanti, il sussidio de’ parasiti, il refugio di quei servidori, che non possono trovar padrone, l’aiuto delle zambracche, il soccorso delle donzelle gra­ vide, il guadagno de’ Lenoni, e d’altri simili huomini Illustri, e generosi (c. 17r-v). e hora havete perduta la vostra fenestrevol casa, la quale è il nido de’ Gnatonici, il sussidio de’ Sicofanti, l’aiuto delle Zambracche, e Zanzeri, il rifiigio de’ Pedanti, il guadagno de’ Lenoni, l’habitacolo de’ Parasiti, e ’1 domicilio d’altri simili huomini illustri, e generosi (c. 24r-v). perché voi havete un ingegno spicardino, un veder profiimato, un giudicio lucente, un intelletto mauro, un cervello accotonato, una memoria sprofondata un discorso balzano, che fate stupir il mondo (c. 16v). lucubrando di continuo co’l suo ingegno spiccardino, co’l suo cervello balzano, e co’l suo intelletto mauro, dove potesse fare una finestra, un uscio, e fatto che sia, se

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APPENDICE UI

non quadra al suo giuditio lucente, e al suo veder profiimato (c. 22r-v). E questi tali hanno un giudicio tanto lucente, e un veder profiimato (c. 30/). Non dice il proverbio, che la forza cacca [sic] adosso alla ragione? (c. 5v). la forza cacca addosso alla Ragione (c. 25z>). So che lo volevate balestrare, se non che trovando riscontro di spiedi, di reti, di cani, rivolgeste la rabbia in fugga [sic] (c. 49/). Credo che havereste ancor lacerato quello specchio di virtù, e tempio di vera Religione il Reverendissimo Monsignor di Larina, se non che trovandosi riscontro di spiedi, di reti, e di cani, havete rivolta la rabbia in fiiga, e vi siete fitto in una tana (c. 50/). Mi par gran cosa, che vogliate far lo Satrapo delle Muse (c. 47z;); A voler fare l’Archimandritta dell’Accademie [...] A voler giudicare gli altrui scritti, altro ci vole, che darvi ad intendere che ’1 Petrarca, e *1 Boccaccio vi parlino all’orecchio (c. 48/). A poter poi adempire quanto in fine della vostra promettete [...] bisognarebbe che ’1 Boccaccio, e *1 Petrarca vi parlasse a gli orecchi. Ma fatelo pur, che secondo il suono, che farete, cosi ballerô. [...] perché vengono [«le annotationi sopra il mio sollazzevol Convito»] da voi che sete rArchimandritta delle Accademie, e ’1Satrapo delle Muse (c. 54/). E poi vaccorgerete deirerror c’havete fatto a struzzicare [sic] i cani che dormono (c. 25/). E ti accorgerai poi meglio deirerror, ch’hai fatto a stuzzicare i cani che dormono (c. 62v). che se non lasciate di stuzzicare i Cani che dormono, vi farô una oratione coram populo in genere invettivo, e impulsivo (c. 51z>). altrimente coram populo ti sarà fatta una Oratione in genere impulsivo, e detestativo (c. 62^). Egli è pur vero quel che si dice Ser Bartolomeo, che un matto ne fa cento (c. 2k;). E cosî il proverbio vien verificato, che Un matto ne fa cento (c. 25/). E perché un Matto ne fa cento (c. 62z;). [Questo proverbio è présente anche nei Frutti della Zucca di Doni (fr u t t o xxxxi, «Un pazzo ne fa cento»: A.F. Doni, Le mrvelle, t. II/1-2: La Zucca, a c. di E. Pierazzo, Roma, Salemo Ed., 2003, 2, p. 594); e nei Marmi: A.F. Doni, I Marmi, a c. di E. Chiôrboli, 2 voll., Bari, Laterza, 1928, I, p. 20]. e in alcune [cose] havete fatto corne quelli, che si affaticano per impoverire (c. 522;). e farebbe corne quelli, che s’affaticano per impoverire (c. 63^).

APPENDICE in

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Non credo, che sia huomo cosî tinto di lettere, e awezzo di leggere il Morgante, e ’1 Meschino, che agevolmente non sappia rintuzzare le vostre ragioni (cc. 52v-53t). E poi per dirvi il vero, non è (credo) huomo al mondo cosî tinto di lettere, e avvezzo di leggere il Morgante, e ’1Meschino, che agevolmente non sappia rintuzzare le vostre ragioni (c. 66v). Questa [la «loica»] è quella fedele, e ubidiente Ancella di quella gran Donna, la quale ne gli animi nostri è dispensatrice de gli alti, e generosi concetti, e ch’è Reina di tutte le arti, e di tutte le scienze, investigatrice delle virtù, discacciatrice de i vitij, fondatrice delle Città, Inventrice delle leggi, Maestra delle discipline, e de’ buoni costumi, che ci leva dalle cose terrene aile Celesti (c. 73/). Hor da giovinetto ancor’io ardentemente acceso di quella gran Donna, anzi celeste Dea, che ne gli animi nostri è dispensatrice de gli alti, e generosi concetti, ch’è Reina di tutte le arti, e di tutte le scienze, investigatrice delle virtù, discacciatrice de i vitij, fondatrice delle Città, inventrice delle leggi, maestra delle discipline, e de’ buoni costumi, ho per lei sestenuto [sic\ infiniti disagi, e pericoli (c. 82r [ma 84r]).

b) Prelievi dalle «Lettere» d i Dont Per fomirla mi son messo in fantasia di non favellare, fare il sordo, non guatar mai, non scrivere, e non praticar con nessuno, e dir aile mie mani che non facciano se non lavarsi e mozzarsi l’ungie, imboccarmi, lavarmi la faccia, e l’altre cose necessarie (Rao, c. 83 v). Per fomirla; io mi son messo mezzo in fantasia da poi che s’ha arrivare al fine; di farmi tener pazzo col non favellare a nessuno; fare il sordo, non guatar mai, e dire aile mani che non faccino se non mozzarsi l’unghia, e lavarsi, cosî ogni membro non serva se non a sé medesimo (Doni, p. 230). Qua non c’è altro di novo: se non che noi consumiamo la vita in travaglio per far honorata morte, com’è stata openion di molti che colui, che vorrà essere huomo fra gli huomini, e non bestia fra gli huomini, debbe essercitarsi molto bene per vivere: ma assai più per ben morire. E questa debbe essere veramente una delle principali cose, che noi chieggiamo a Dio, buona fama, e buona morte. Perché il fine cattivo fa moite volte giudicare alla maggior parte de gli huomini un mal principio, e peggior mezzo, e assai persone dubitare quai sia stata la nostra vita. E per non fare il Savio senza proposito, farô fine alla mia ciancia (Rao, c. 103z>). Qua non c’è altro di nuovo; se non che noi consumiamo la vita in travaglio per far honorata morte, corne stata openion de molti, che colui che vorrà esser huomo fra gli huomini, e non bestia fra gli huomini, debbe essercitarsi molto bene per vivere; ma assai più per ben morire, e questa debbe esser veramente una delle principali cose, che noi chieggiamo a Dio buona fama, e buona morte. Perché il fine cattivo fa moite volte giudicare alla maggior parte de gli huomini un mal principio, e peggior

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APPENDICE ID

mezzo, e assai persone dubitare, quai sia stata la nostra vita, e per non fare il savio senza proposito farô fine alla mia ciancia (Doni, p. 231). Di statura somiglia tutto sputato al figliuol della Ciutaccia, e del Prevosto di Fiesole. Stretto in cintura come un Formicone, alto di spalle, con un scrignetto che li campeggia troppo bene, Gobbo vaghissimo, Orecchia ragionevole, che tiene dell’Asino più tosto, che no. La bocca somiglia a quella d’un fomo, il naso ad una tromba, largo di fronte1, e stretto il resto ad uso di Campagna, guarda poi verso le nuvole. Vero è che la mano è larga, e corta, che fa un poco di bel vedere, appiccata aile braccia longhissime; vi daro una figura, corne sarebbe a dire, una pala in un manico. Le gambe son pari alla persona. E le ginocchia uguali corne la coscia. Gli occhi non vi saprei dissegnare, che uno non è suo: per essere tessuto di ragnatelli, e di scarlata fra marcio, e rosso, senza che l’uno è un terzo più piccolo dell’altro, che di notte al buio non vi vede lume. Tien la beretta su gli occhi, perché su la fronte v’è un sigillo d’una Communità co’l privilegio di Cavagliere. Ha poi un cinque sopra una mascella, che gli fa2 per allegrezza sputare due denti mascellari, e quattro per galanteria de’ più piccioli ad honore del dipintore. Hora nel favellarli bisogna stare lontano:3 per lo fetente fiato, che questo è un pane unto: ma perché le parole vanno accompagnate con bava, e sputo a modo di verre, cosa molto delicata, massimamente che sempre son fuor di proposito, di termine, e di ragione. Potrewi dire sei, o otto gallanterie delle sue, e corne più volte egli è stato balzato qui tra noi, corne ha ricevuto bastonate, servitiali d’acqua forte, e pillole per confetti. Ma questi e simili sono scherzi, che si gli fanno per gentilezza. Ridetevi ultimamente, che lo femmo giuocare alla Civetta, né mai, benché rilevasse mascelloni solenni, e senza numéro su ’1 mostaccio, l’habbiamo potuto smascellare (Rao, cc. 106^107r). e non è di molta grandezza, né di molta camagione. giudichereste voi, se lo vedeste; che fosse figliuolo della Ciutaccia, e del Proposto di Fiesole. alla persona, le sue gambe son pari, e le ginocchia eguali corne la coscia; stretto in cintura corne un formicone. vero è che la mano è larga e corta; che fa un poco di bel vedere appiccata aile braccia lunghissime; vi darô una figura; corne sarebbe a dire una pala in un manico. di collo corto, e alto di spalle con uno scrignetto; che gli campeggia troppo bene. la barba è rara; e i denti son pochi; cosa molto miracolosa a vedere. la grandezza della bocca è smisurata, e la lunghezza de denti infinita; oltra che paiono di Porfido legato in Bronzo di quella maniera che son le medaglie antiche. orecchia ragionevole; che tien del satiro anzi che no. il naso largo di froge, e stretto il resto a uso di campana: guarda poi verso le nugole. corne quello dell’Elefante. gli occhi non vi saprei disegnare: che uno non è suo; per essere tessuto di ragnateli e

1 Ma, ad esempio, l’esemplare conservato nella Biblioteca Angelica di Roma dell’edizione delle Argute, etfacete lettere del 1591 (In Fano, Appresso Pietro Farri) ha la lezione del testo doniano: «froge». 2NelTed. 1591 (vedi nota precedente) si ha «fé». 3 Nell’ed. 1591: mon per lo fetente fiato», come nel testo doniano (il corsivo è mio).

APPENDICE III

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di scarlatta fra marcio, et rosso; senza che l’uno è un terzo più picciolo delTaltro; che alquanto da certi tempi non vi vede lume, ha poi un cinque sopra una mascella; che gli ha fatto il viso in triangolo. chi lo dipingesse in quel modo non si sa: ma il pennello si conosce ben che fil un pistolese. e egli per allegrezza sputô due denti mascellari, e quattro per galanteria de’ più piccioli a honore del dipintore. hora nel favellargli bisogna star lontano; non per il fetente fiato; che questo è un pane unto, ma perché le parole vanno accompagnate con bava e sputo a modo di Verre: cosa molto delicata; massimamente che sempre son fiior di proposito, di termine, e di ragione; e in tanta abbondanza; che bisognerebbe havere il cervello d’acciaio, e gli orecchi di ferro. le virtù sue son poi astrologia, fisonomia, e geomantia. e s’intende bene nel vedere una mano, e un viso; e fare la sua figura, virtuoso più che Guccio Porco fante di frate Cipolla. tiene la berretta su gli occhi: perché sulla fronte v e un sigillo d’una comunità col privilegio di Cavalière, si fa d’alto legnaggio, de Sacchi di Panonia, et Dio sa. sottoscrivesi eques: ma io penso più tosto; che si gli potrebbe dir meglio Equus Gaglioffiis; corne sarebbe dire in vulgare parente di sacco, tasca, o bisaccia; ma meglio gaglioffa; e scambio di Cavalliere Cavallo; e per non discordare Cavallo gaglioffa, mettergli una parola dinanzi per adomarlo; dicendo; memoria ga­ glioffa di Cavallo, potrevi \sic\ dire sei, o otto galanterie delle sue; e corne più volte egli è stato balzato qui tra noi, corne ha ricevuto bastonate, servitiali d’acqua forte, e pillole per Confetti: ma questi e simili sono scherzi, che se gli fanno per gentilezza. ridetevi ultimamente che lo facemmo giuocare alla Civetta; né mai, benché rilevasse mascelloni solenni e senza numéro su ’1 mostaccio, l’habbiamo potuto riquadrare. per hora io non ho tempo di dirvi certe altre cosette (Doni, pp. 39-41).

c) P relievi d a l volgarizzam ento d i A grippa

[Sezione dedicata alla Poesia] : Che altro è la Poesia, se non una fabrica di bugie? La quale non fu trovata per altro, che per lusingar gli orecchi de gli huomini sciocchi, con lascive rime, numeri e pesi di Sillabe (Rao, c. 163/). Arte che non fu ritrovata ad altro fine se non per lusingare l’orecchie de gli uomini sciocchi con rime lascive, con numeri e pesi di sillabe e con vano strepito di nomi [...]. Per la quai cosa meritô d’esser chiamata fabricatrice di bugie (Agrippa, p. 47). Appresso gli antichi Romani publicamente fil tenuta per cosa dishonorata. E secondo il testimonio di Gellio, e di Catone, chi studiava Poesia, era chiamato publico assassino, e per questo fri tassato Quinto Fulvio da Marco Catone, che essendo mandato per Console in Etolia, menô seco Ennio Poeta [...] Democrito chiamô la Poesia non arte ma pazzia (Rao, 163r). Ma appresso gli antichi Romani ancora pubblicamente la poesia fu tenuta in disonore et in modo taie che, col testimonio di Gellio e di Catone, chi studiava in quella era chiamato publico assassino; e più oltra fvi per questo tassato Quinto Fulvio da Marco

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APPENDICE ni

Catone che, sendo mandato proconsolo in Etolia, menô seco Ennio poeta (Agrippa, p. 50); Meritamente dunque Democrito non la chiamô arte ma pazzia (Agrippa, p. 52). [Sezione dedicata alla Retorica]: Socrate appresso Platone prova, che non è arte, ma servile adulatione, uno inganno, e una tirannia de le menti humane (Rao, c. 161/). Perciocché Socrate appresso Platone, con fermissime ragioni, prova ch’ella non è né arte né scienza, ma una certa astuzia, e che ella non è né famosa né onesta, anzi vergognosa e servile adulazione (Agrippa, p. 63). I Lacedemonij rifiutarono questa arte, dicendo, che *1 parlar de gli huomini dabene non dee venir da Tarte, ma dal cuore (Rao, c. 161/). Questa arte fu rifiutata in tutto da Lacedemoni, i quali dicevano che ’1 parlare de gli uomini da bene non dee venire dalTarte ma dal cuore (Agrippa, p. 64). Giudicô il divin Platone, che da la sua Republica dovessero gli Oratori insieme con Beffoni [.stc\, e Tragici essere gittati fiiora [...] Socrate parimente, sapientissimo di tutti i Greci, giudicô, che nessuno Rethore dovesse o potesse haver grado in alcuna bene ordinata Republica (Rao, c. 161/). la onde Socrate non crede che i retori siano degni di riputazione alcuna, né gli ha per uomini che debbano avéré auttorità veruna in ben govemata Republica. E Platone volse che insieme co i tragici, istrioni e poeti fossero esclusi, e meritamente, della sua Republica (Agrippa, p. 65). Chi dissipé e annullô la grandezza, la maestà, la incomparabile virtù Romana, se non quei facondi, e eloquenti Bruti, Cassij, Antonij, Catoni, Ciceroni, e Cesari? (Rao, c. 161v). Di questa cosa sono essempi i Bruti, i Cassii, i Gracchi, i Catoni, Cicerone e Demostene (Agrippa, p. 66). Di Cameade recita Plinio, che havendo un dî commendata altissimamente la giustitia, nel di seguente non men sublime, potente, e vincente commendô Tingiustitia. E Pericle vinto da Archidamo non parlô egli talmente, che pareva esso il vincitore? (Rao, c. 162/). si corne Archidamo dice di Pericle sofista (corne testimonia Ennapio), il quale domandato s’egli era più potente di quello, rispose: «Benché Pericle sia stato vinto da me in battaglia, nondimeno egli ha tanta eloquenza che ragionando di queste cose non pare vinto ma vincitore» [...]. E di questo medesimo [Cameade] si legge ch’avendo un giorno in publico, e sapientemente e con grande eloquenza, detto di moite cose in favore della giustizia, Taltro di con non minore dottrina e facondia orô contra la giustizia (Agrippa, p. 64).

APPENDICE III

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[Sezione dedicata all’Antmetica] : E perciô ben diceva Platone, 1’Arithmetica essere de* mali spiriti inventione. E Ligurgo dator de le leggi di Lacedemoni, ordinô, che da la Republica totalmente si levasse (Rao, c. 164^). Platone dice che ella fu prima mostrata dal demonio cattivo [...]. E Licurgo, quel grande uomo che diede le leggi a Lacedemoni, volse che come cosa travagliosa ella fosse cacciata della republica (Agrippa, p. 95). [Sezione dedicata alia Musica]: Antistene Filosofo sentendo, che Ismeno era lodato per buon suonatore di Flauto, disse. Non è huomo da bene; perché se fosse, non farebbe cotai arte, volendo quasi inferire, che la virtù sia quella, che fa gli huomini da bene, e non la Musica (Rao, c. 166r). Et Antistene, che fil quello uomo savio, udendo dire che un certo Ismenia era ottimo trombetta, disse: «Egli è un ribaldo, che non sarebbe trombetta se fosse uom dabbene» perché, corne si suol dire, quella non è arte di uomo sobrio e da bene ma di ozioso e giocolare (Agrippa, p. 100). Riprese Filippo Alessandro suo figlio, dicendogli. Non ti vergogni tu, di essere sî buon musico? quasi dicesse basta a gli huomini di valore, haver ocio di udire. Canta presso di Vergilio il crinito Iopa, e Enea con Didone stanno con gravita ad udire. Canta Demodoco presso di Omero a la presenza di Alcinoo Re de* Pheaci, e gli altri stanno intenti ad ascoltare (Rao, c. 166r). Il re Filippo intendendo che ’1figliuolo in certo loco aveva soavissimamente cantato, lo riprese dicendogli: «Non ti vergogni tu di sapere cosî ben cantare? Egli è bene assai e d’avantaggio che un prencipe abbia ozio d’udire quando gli altri cantano» [...]. Appresso Omero suona un citaredo et Alcione [stc\ et Ulisse lo stanno ad ascoltare. In Virgilio canta e suona Iopa, Didone et Enea lo ascoltano (Agrippa, pp. 100-01). [Sezione dedicata alla Geometria]: Con quei suoi punti, Linee, Superficie, Archipenzoli, e forme quadre [...] E quai intrigo è maggiore di quella loro quadratura del circolo? La quale da che è il mondo, fil cercata sempre, e trovata non Thanno giamai (Rao, c. 167/). disputano de i punti, delle linee e delle superficie [...]. Nondimeno geometra alcuno non ha ritrovato ancora la vera quadratura del circulo (Agrippa, p. 115). Percioché da lei fiirono trovati gli ingegni per gittar fiioco, fiirono trovate le machine, le Baliste, l’Ariete, lo Scorpione, gli Argani, le Catapulte, le Frombole, le Testudini, l’Artiglierie, i Schioppetti, Cunicoli, Scorpioni, Sambuche, Scale, Talleoni, Torn, che caminano, e molti altri istromenti diabolici, e machine di guerra (Rao, c. 167z;). Nondimeno dalla geometria istessa pendono [...] gli instromenti artificiosi cosi di guerre quanto d’architettura, et accomodati a uso dell’altre cose, corne arieti, te-

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APPENDICE m

studini, cuniculi, catapulte, scorpioni, exostre, sambuche, scale, tolleoni, torn che caminano, eliopoli, navi, galee, ponti, mole, carrette di due rote, di tre e di quattro, troclee, clicleole, ruote, argani et altri instromenti (Agrippa, pp. 115-16); Da questa arte ne vengono ancora varie sorti d’instromenti da guerra e bombarde et altri artificii, che gettano fiioco (Agrippa, p. 116). [Sezione dedicata all’Astrologia] : Corne awenne a Talete, il quale mentre un giorno le Stelle contemplando andava, caddè in una fossa, perciô fil da una serva sua ragionevolmente ripreso, con dirgli, ch’egli non conosceva le cose, che haveva tra piedi, e volea mirar quelle, che sono in Cielo (Rao, c. 168/). La serva d’Anasimene argutamente riprese con un motto faceto questi astronomi: ella soleva talvolta andare col padrone Anasimene, il quale essendo uscito una notte per tempo fuor di casa a contemplare le stelle, non si ricordando del sito, mentre che securamente guardando il cielo considerava le stelle, cadde in una fossa che gli era inanzi a i piedi. Dissegli allora la fante: «Mi maraviglio, padrone, del modo con che ti credi di conoscere le cose che sono in cielo non sapendo prevedere quelle che hai davanti a i piedi». Dicesi che Talete Milesio con questa medesima facezia fu ripreso da Tressa sua fante (Agrippa, p. 148). Perché Tolomeo afferma, che l’anima nostra atta a la cognitione, conosce ancora la virtù de le cose più, che non fanno gli essercitati nelle scienze, e in un altro luogo dice, che l’indovinare le cose future non vien tanto da le Stelle, quanto da gli affetti de l’animo (Rao, c. 169?;). di che ne fa ancora testimonio Tolomeo dicendo: «La scienza delle stelle è da te, e da quelle», volendo inferire che l’indovinare le cose future et occulte non vien tanto dall’osservazione delle stelle quanto da gli affetti dell’animo (Agrippa, p. 152). Sopra uno di questi temerarij Astrologi, che non sapea il passato né ’1 présente, e si vantava di saper l’awenire, fu fatto dal Moro Inglese un bellissimo Epigramma, che dicea cosi. / Le Stelle tutte Astrologo tu vedi, / Et elle il fatto altrui ti fan palese, / Né le Stelle perô veder ti fanno, / Che la tua moglie in publico si metta. / Satumo è lungi, e dicon, ch’era cieco, / Che un fanciul da una pietra non conobbe. / La Luna va con gli occhi honesti, e bassi; / E Vergin non vedria, che cose caste. / Giove ad Europa, a Vener Marte ha il core, / Venere a Marte pensa, a Dafne Apollo. / Mercurio d’Hirce si rimembra ancora. / E di qui viene Astrologo, che sendo, / Tua moglie fatta femina di mondo, / Le Stelle non perô te ’1 posson dire (Rao, c. 168r-?;). Qualità d’uomini veramente ostinata e straordinaria, i quali si vantano d’indovinare le cose a venire e non sanno le passate, né le presenti, e facendo professione di dire a tutti tutte le più secrete cose, le più volte essi non sanno quel che si faccia in casa et in camera loro, di quai sorte astrologo fu tassato dal Moro inglese in questo bellissimo epigramma: / Le stelle tutte, Astrologo, tu vedi, / et elle il fato

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altrui ti fan palese. / Né le stelle perô veder ti fanno, / che la tua moglie in publico si metta. / Satumo è lungi, e dicon, ch’era cieco, / ch’un fanciul da una pietra non conobbe. / La Luna va con gli occhi onesti, e bassi, / e vergin non vedria che cose caste. / Giove ad Europa, a Vener Marte ha il core, / Venere a Marte pensa, a Dafne Apollo. / Mercurio d’Irce si rimembra ancora. / E di qui viene, astrologo, che sendo / tua moglie fatta femina del mondo, / le stelle non perô tel posson dire (Agrippa, p. 155). Appresso gli antichi Romani, essendo Imperadori Tiberio, Valentiano, Gratiano, e Theodosio, fiirono cacciati di Roma tutti questi temerarij Astrologi, i quali le cose, che sono d’Iddio solo, danno a le Stelle, e noi che siamo nati liberi, fanno servi de le Stelle. Et havendo Iddio create tutte le cose buone, vogliono gli stolti, che vi siano alcune Stelle maligne, cagioni di mali influssi, e che le celestiali costellationi, e aspetti signoreggino il cuore, e lo spirito, mettendo non senza ingiuria di Dio, che nelle parti del Cielo, in quel Senato divino si trattino le ribalderie, che s’hanno da fare: e quello, che per lo difetto del volere accade, tutto l’attribuiscono aile stelle, i cui influssi, dicono essere inevitabili (Rao, c. 168z>). Appresso gli antichi romani, essendo imperatori Tiberio, Vitellio, Diocleziano, Costantino, Valentiniano, Graziano e Teodosio, fu cacciata di Roma, proibita e punita (p. 161); malvagia generazione d’uomini che le cose che sono d’Iddio solo, danno aile stelle, e noi che siamo nati liberi fanno servi delle stelle. E sapendo noi che Iddio ha creato tutte le cose buone, essi vogliono che vi siano alcune stelle mali­ gne, cagioni di scelerità e di mali influssi, mettendo, non senza ingiuria grandissima d’Iddio e de i cieli, che ne i luoghi del cielo, in quel Senato divino, si trattino i mali e le ribalderie che s’hanno da fare, e quel che noi pecchiamo per colpa del volere, e quel che per difetto della materia naturalmente accade, tutto l’attribuiscono aile stelle (Agrippa, p. 157). [Sezione dedicata alla Filosofia]: E s’egli è vero, che i primi inventori de la Filosofia naturale siano stati Prometheo, Lino, Museo, Orfeo, e Homero, corne si truova appresso gli antichi scrittori, quai verità potrà a noi dar la Filosofia, essendo ella generata da le favole de’ Poeti? (Rao, c. I70r). Di questa prima fecero professione i poeti, de i quali dicono che primi inventori fiirono Prometeo, Lino, Museo, Orfeo, et Omero. Quai verità dunque a noi potrà dare la filosofia essendo ella generata dalle ciancie e favole de poeti? (Agrippa, p. 215). Crate Tebano non conosce anima, e dice, che i corpi si muovono per certa virtu di natura [...] Altri la fanno di fuoco, corne Hiparco, Democrito, e Leucippo. Altri d’aria, corne gli Stoici, Anassimene, Anassagora, e Diogene. Hippia d’acqua. Hesiodo di terra. Quei, che la pongono mista. Altri la confondono di fuoco, e d aria, corne Epicuro. Altri di terra, e d’acqua corne Xenofante. Altri di terra, e fuoco, corne Parmenide (Rao, c. 171z;).

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perché Crate Tebano dice che non vi è anima alcuna, ma che i corpi cost si movono da natura [...]. Alcuni di quegli dissero ch’egli è di fiioco, corne Ipparco e Leucippo [...], e Democrito [...]. Altri dissero ch’ella è aria, corne Anasimene et Anasagora, Diogene [...]. Alcuni d’acqua, corne Ippia; altri di terra, corne Esiodo [...]; alcuni vogliono che sia spirito misto di fiioco e d’aere, corne Boete et Epicuro; alcuni di terra e d’acqua, corne Xenofonte; alcuni di terra e di fiioco, corne Parmenide (Agrippa, pp. 221-22). E dove poi ella si stia ne l’huomo, non è minor contentione: perché Hippocrate la colloca nel cervello; Stratone nella fronte; Epicuro nel petto; Diogene nel ventricolo del cuore; Crisippo, e gli Stoici in tutto il cuore; Platone, e Aristotele in tutto l’huomo (Rao, cc. \7\v~ \12r). Ecco che pur vedete quanto essi discordano insieme circa l’essenza dell’anima, né meno ridicolamente variano fra loro della stanza di quella, perciocché Ippocrate et Ierofilo la mettono ne i ventricoli del cervello, Democrito in tutto ’1corpo, Erasistrato circa la membrana epicranide, Stratone nello spazio fra le ciglia, Epicuro in tutto ’1 petto, Diogene nel ventricolo arteriato del cuore, gli Stoici con Crisippo in tutto ’1 cuore e nello spirito che vi è d’intomo, Platone, Aristotele, e gli altri più nobili filosofi in tutto il corpo (Agrippa, pp. 223-24). [Sottosezione dedicata alla Metafisica] : E fin i Pagani fiirono nemici di questa arte. Gli Atheniesi fecero morir Socrate. I Lacedemoni, e i Messeni non vollero nelle lor Republiche ammettere i Filosofi contemplativi; i quali ancor nel tempo di Domitiano Imperadore fiirono banditi da tutta Italia. Il Re Antioco fece una legge contra a i Padri, che lasciavano imparar Filosofia a* suoi figliuoli. E non solamente questi tali fiirono cacciati da i Re, da gli Imperadori, e da le Republiche; ma i dotti scrissero ancora libri contro di questi nemici capitali de la fatica, e operatione; corne Aristofane, il quale scrisse una Co­ media contra la Filosofia, e Timone compose un’opera in suo biasimo. Aristide fece un’Oratione contra Platone, e Hortensio Romano con fortissime ragioni perseguitô la Filosofia. Aristotele nel libro de la Politica dice, che i Filosofi non sono annoverati nelle parti de la Città. E Platone nel Gorgia dice, che la molta contemplatione corrompe l’huomo (Rao, cc. Y12v-\7Zr). Né ci mancano ancora essempi di pagani, i quali leggiamo che alcuna volta il medesimo hanno fatto, perciocché gli Ateniesi fecero morire Socrate padre della filosofia, i Romani cacciarono i filosofi della città, i Messani et i Lacedemoni non gli admessero giamai, e che più al tempo di Domiziano fiirono cacciati di Roma, et dato lor bando di tutta Italia. Ecci ancora una ordinazione del Re Antioco contra i giovani, i quali avevano ardire di imparare filosophia, e contra i padri ancora, i quali concedevano questo a figliuoli; né solamente fiirono e dannati e cacciati da gli imperatori e da i re, ma con libri composti reprovati da uomini dottissimi, nel numéro de i quali sono Fliasio e Timone, il quale scrisse una opera intitolata Sillos in vituperio de filosofi; et Aristofane, il quale scrisse una commedia contra di loro, il titolo della quale è

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le Nebbie; e Dione Pruseo scrisse una orazione eloquentissima contra i filosofi. Aristide anch’egli scrisse una orazione contra Platone molto elegante per quattro nobili ateniesi; Ortensio Romano, anch’egli uomo eloquentissimo e di nobilissima famiglia, con fortissime ragioni perseguitô la filosofia (Agrippa, p. 234). [Sottosezione dedicata alla Filosofia Morale] : La quale non è scienza, come molti pensano, ma una prattica di vivere commune, e mutabile, secondo l’openion de’ tempi, de’ luoghi, e de gli huomini (Rao, c. 173/). Ora al rimanente, se vi è pure, corne vogliono alcuni, filosofia o dottrina alcuna de costumi, credo io ch’ella sia fatta non tanto di ragioni debili di filosofi, quanto di diverso uso, consuetudine, osservazione, e prattica di viver comune, e ch’ella sia mu­ tabile secondo l’opinione di tempi, de luoghi e de gli uomini (Agrippa, p. 235). Et che ’1 sia vero hoggi di è lecito a pigliar moite moglieri appresso de’ Turchi. Et appo Christiani è vitio. In Grecia un Garzone, che compaia bene in scena, e c’habbia molti amadori, è riputato persona degna d’honore; e appresso de’ Romani era riputato infâme. Appo gli Atheniesi l’huomo lecitamente potea sposar la cognata, cosa, che appresso de’ Romani era tenuta ribalderia. Appresso de Greci non è lecito, che la moglie vada a convito alcuno se non de’ parenti, né che conversi in publico, né che habiti se non nella più segreta parte de la casa, il contrario di cio si costumava appresso de’ Romani. Gli Egittij, e i Lacedemoni haveano per cosa honorata il rubare, e appo noi i ladri s’impiccano (Rao, c. 173/). Appresso gli Ateniesi era lecito che l’uomo togliesse per moglie la cognata, e questo appresso Romani era tenuto ribalderia. Altra volta i Giudei, et oggidi Turchi, possono pigliare moite mogli et anco tenere delle concubine: questo appresso di noi cristiani non tanto è malfatto, quanto infamia et disonestà. In Grecia è tenuto per onore a un garzone ch’egli abbia di molti amatori, e finalmente ffa quelle nazioni non è vergogna alcuna né a femine, né a maschi, il comparire in scena et essere spettacolo del popolo, le quali cose perô appresso Latini e Romani erano stimate abiette, infami, e lontane dall’onestà. Non si vergognavano i Romani di menare le mogli a i conviti e farle conversare in publico, et abitare nella parte dinanzi delle case, ma in Grecia né la moglie viene a convivio, se non di parenti, né usa se non nella più sécréta parte della casa, dove non va alcuno che non sia parente prossimo. Gli Egizzii et i Lacedemoni avevano per cosa onorevole il rubare; appresso di noi i ladri s’impiccano su le forche (Agrippa, pp. 235-36). Theodoro il quale (secondo che si legge) fu chiamato Dio, disse, che ’1 dar opera al furto, a l’adulterio, e al sacrilegio non era cosa vergognosa (Rao, c. 173/). Di questi fra gli altri in tal modo filosofo quel Teodoro, il quale dicono gli scrittori che fu chiamato Dio, cioè il savio darà opera al furto, all’adulterio, et al sacrilegio quando ne sarà tempo (Agrippa, p. 238).

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[Sottosezione della sezione dedicata alla Politica (a sua volta sezione della Filosofia Morale)]: Platone, Aristotele, e Apollonio laudano la Monarchia, dicendo, che sî come nell’universo è solo un grande Iddio, nelle stelle un Sole, nelle Api un Re, cosi nella Republica bisogna, che sia un Re, come capo, c’habbia da guidar gli altri. All’incontro non mancano molti Filosofi, che biasimano il govemo di un solo, perché se ’1 Re è cattivo, si converte in Tiranno, potendo far ogni cosa senza pena, e s’egli è buono, facendosi Re diventa cattivo, e che sia il vero Caligula, Nerone, Domitiano, Mitridate, e molti altri ne possono far fede. Solone, Ligurgo, Demosthene, e Tullio dicono, che *1govemo de gli ottimati è migliore, per govemar le cose grandi, percioché più sanno molti Savij, che un solo, né si truova huomo, che da sé sappia quanto conviene, e che l’ufficio de la Monarchia è solo d’Iddio. Contra l’opinione di questi sono molti, che biasimando l’Aristocratia, dicono, che da l’odio, emulationi, e ira de gli Ottimati spesso ne nascono partialità, morte, e guerre civili, in danno de la Republica, corne per infiniti essempi si puô vedere nelle storie de Greci, e de* Latini. Otone di Persia, Eufrate, e Dione Siracusano laudavano il govemo populare, e lo chiamavano per nome Ixonomia, cioè equalità di ragione, perché ogn’un comanda, e è comandato, e dicono ancora, corne si suol dire, che la voce del popolo è la voce di Dio, e che la Democratia non è punto soggetta al pericolo de la seditione. Contra l’openiene [stc] di questi sono stati molti, e fra gli altri Apollonio con moite ragioni dissuade questa forma di Republica a Vespasiano Imperadore. Platone chiama questo govemo populare, bestia con molti capi. Aristotele nell’Ethica, dice, questo govemo essere pessimo, perché la plebe è capo de gli errori (Rao, cc. 173x^174/). Perciocché quegli che disputano la monarchia essere più eccellente, fortificano l’opi­ nion loro con gli essempi della natura, dicendo che sî corne nell’universo è solo uno grande Iddio, nelle stelle un sole, nelle api un re, nelle gregie una guida, ne gli armenti un rettore, e le gru vanno dietro a una, cosî nella Republica bisogna che sia un re come capo, dal quale le membra non abbiano punto a discordare. Questa più che le altre fîi approvata da Platone, Aristotele, Apollonio, a i quali s’aderiscono de nostri Cipriano e Girolamo. Ma quegli che lodano l’aristocrazia dicono che non è meglio per govemare le cose grandi che le consultazioni di molti e de migliori che s’accordino in uno, e che nessuno solo sa quanto conviene, essendo questo officio di Dio solo. A questa opinione si sottoscrivono Solone, Licurgo, Demostene, Tullio [...]. Ma quegli c’hanno messo inanzi la republica de populi, la chiamarono con più bel nome dell’altre isonomia, cioè equalità di ragione [...]. Finalmente si suol dire: «Voce di popolo, voce di Dio» [...]. Dicesi insomma che questo govemo è più securo che quello de gli ottimati perché non è sottoposto punto al pericolo della sedizione [...]. Oltra di questo nel govemo popolari è tutta la equalità [...] ma ciascuno, e tutta la moltitudine insieme, comanda a vicende et è comandato. Questa dunque sopra l’altre lodarono Otane Persa, Eucrate e Dione Siracusano (Agrippa, pp. 243-44); Perciocché i re, ai quali è lecito fare ogni cosa senza pena, corne lor piace, pochissime volte signoreggiano bene [...]. Ha questo male pestifero ancora in sé la regalità che anco quegli che già sono stati uomini ottimi e lodati dal consentimento

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d’ogniuno, tosto che hanno acquistato il regno, come c’avessero avuto licenza di far male, diventano et insolenti e pessimi, la quai cosa si vide in Caligula, Nerone, Domiziano, Mitridate e mold altri (Agrippa, pp. 244-45); Ma quando gli ottimati tengono il regno della republica, quivi insieme con esso loro vivono Tira, l’odio, l’emulazione [...], onde spesso ne nascono fazzioni e parzialità, mord e guerre civili in danno della republica. Infiniti essempi di questo male sono scritti nelle istorie de Greci e de Latini [...]. Ma quasi ogniuno giudica il govemo del popolo per lo peggiore. Apollonio con moite ragioni lo dissuade a Vespasiano [...], e Platone lo domanda bestia con mold capi [...]. Aristotele anch’egli nella Etica giudica che ’1 govemo del popolo sia pessimo e quel d’un solo ottimo. Perciocché la plebe è capo de gli errori (Agrippa, pp. 245-46). [Sezione dedicata ai Giureconsulti] : Le lingue de’ causidici, e Awocati son di gran lunga dannose, se con le fiini d’oro, e d’argento non si legano (Rao, c. 175/). Perciocché la lingua de gli avocati è tanto dannosa che s’ella non è legata con duoni, impossibile è di far sî che non ti nuoca (Agrippa, p. 462). l’hanno offuscata [«la faccia de la giustissima Astrea»] in maniera con tante procelle d’opinioni, con tante selve d’astutissimi consigli, e con tanta moltitudine di cautele, onde si pasce la tristezza de gli Awocati (Rao, c. 175/). Hanno oltra cio con infelicissima fecondità partorito tante procelle d’opinioni e tante selve di astutissimi consigli e di cautele, con le quali s’ammaestrano e si nodriscono le malizie de gli avocati (Agrippa, p. 465). Chi non sa discordar da gli altri, chi non sa mettere in dubbio le cose chiare, chi non sa per dubbiose ispositioni accomodar le leggi aile lor fittioni, non è tenuto buon Dottore. Di maniera che tutta la scienza di ragione è quasi fatta una ascosa rete d’iniquità (Rao, c. 175/). ne i quali è tanta laude, contrasto e discordia che chi non discorda da gli altri, chi non sa contradire con nuove opinioni a i detti altrui e mettere in dubbio tutte le cose chiare, e con dubbiose esposizioni accomodare aile finzioni loro le ben trovate leggi, punto non è stimato, né tenuto uomo dotto. Per questo tutta la scienza di ragione è fatta un malvagio consiglio et una ascosa rete de iniquità (Agrippa, p. 465). [Sezione dedicata alla Medicina]: E quale speranza debbiamo noi porre ne’ Medici, se (come dice Hippocrate) la sperienza loro è fallace? E se (corne afferma Plinio) nessuna arte è più incostante de la Medicina? [...] Felici gli Arcadi, e Babiloni. Bead gli Egittij, e Portughesi, i quali conoscendo gli inganni de’ Medici anticamente non vollero usar mai Medici: e pur vivevano oltre l’età di cento anni. Onde un Lacedemonio ad un, che gli disse, tu non hai mai male alcuno, rispose, perché io non adopero mai medici (Rao, c. 177/). Quale speranza dobbiamo noi dunque porre ne i medici se, come dice Ippocrate

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istesso, l’esperienza loro è failace? Che cosa certa possono promettere i medici se vero è quel che scrive Plinio, che nessuna arte è più incostante deUa medicina, né che più spesso si mute? [...]. Onde quel Lacedemone rispose a un certo che gli diceva: «Tu non hai male alcuno?», «Perché io non adopro medico». E replicandogli pure colui: «Tu sei fatto vecchio», rispose: «Perché io non ho mai adoprato medico», mostrando che non vi è altra via più certa alla sanità et alla vecchiezza che lo stare senza medici [...]. I Lacedemoni anch’essi, i Babilonii, gli Egizzii et i Portughesi, secondo il testimonio d’Erodoto e di Strabone, rifiutavano tutti i medici (Agrippa, p. 417). E questi tali, secondo che dovrebbono guarire gli amalati con poca spesa, per restituirci la natural sanità con cose vili, che nascono ne’ giardini, danno ad intendere, che non giovano se non cose di gran prezzo, e portate fin da le parti d’india (Rao, c. 176x;). Essi di nuovo promettono e vendono altrui la sanità con grande spesa per cose preziose e venute fin dalle ultime parti dell’India o di Ponente, dando ad intendere che non giovano se non le cose di gran prezzo (Agrippa, p. 418). Siano benedetti i Romani, che sotto Caton Censorino, norma e specchio de la severità Romana, cacciarono tutti i medici di Roma, e da tutta Italia (Rao, c. 177/). Perciô Romani anticamente sotto Caton Censorio cacciarono tutti i medici della città di Roma e di tutta Italia (Agrippa, p. 420). Gli Arcadi anticamente chiamavano i Medici boij de la natura i quali sono pagati per ispedire gli huomini a Volterra. Cosa, ch’è parimente concessa al Manigoldo, il quale in questo da loro è differente, che l’uno è micidiale honorato, e l’altro vituperoso; l’uno amazza i malfattori condannati per giustitia, e l’altro contra ogni ragione uccide gli innocenti malati (Rao, c. 177/). Il quale veramente è loro uno istesso e comune onore co ’1 manigoldo, cioè uccidere gli uomini et esser pagati, e questi soli traggono premio dell’omicidio, onde la legge ha ordinato supplizio a tutti gli altri e non ha voluto che alcuno resti senza pena. Vi è perô questa differenza, che il manigoldo non amazza i malfattori se non per la sentenza del giudice, ma il medico contra ogni giudicio, uccide ancora gli innocenti (Agrippa, p. 421). [Di seguito alla sezione dedicata alla Teologia]: Perô quella sapienza in figura fil assomigliata a quel maledetto Serpente, che ingannô i nostri primi parenti, e persuase loro, che sapendo essi discemere, e conoscere il bene dal male, simili sarebbono a l’etemo Iddio (Rao, c. 179/). la quale [«deificazione»] quello antico serpente artefice di cosî fatti dèi prometteva a i nostri primi padri, dicendogli: «Voi sarete corne dèi, sapendo il bene e ’1 male» (Agrippa, p. 505).

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d) Riprese nella «Iode delVasino» di Rao dallelogio asinino contenuto nel «Dialogo del Contentioso» di Pietro Messia [Segmenta dedicato alluso antico di cavalcare asini]: La Historia di Abrahàm fu delle prime di che faccia mentione il Sacro Testo della Bibia, e esso Abrahàm fii uno de i principali che all’hora si ritrovasse in terra, e ivi si legge, ch’egli messe in ordine il suo Asino per andare al monte a far sacrificio d’Isaac suo figliuolo, corne si puô veder nel libro del Genesi a c. 22. Mosé pose la moglie, e figliuoli sopra l’Asino per andare in Egitto, corne si legge nelPEsodo a cap. 4. e Assa figliuola di Caleb, e sposa di Otomel, signora di gran paese andando al padre per chiedergli un campo che si potesse inacquare, dice il testo, ch’ella sedeva sopra l’Asino, il che si puô vedere nel quintodecimo capo del libro di Giosué, e Saul quando fii onto in Re da Samuello, era ito a ricercare l’Asine di suo padre, come appare nel lib. i de i Re a capi. 9. e quella bellissima e ricca donna Abigail andando a placare l’animo irato di David v’andô sopra l’Asino, e dopo essendo rimasa vedova, e che David la richiese per moglie andando a lui, ella cavalcô sopra un Asino con cinque sue donzelle anche esse (corne si stima) sopra gli Asini, corne si narra al capo 25. del detto primo libro de’ Re. Architofel fu huomo di grande auttorità appresso David e Absalon, il quai veggendo sprezzato il suo mal consiglio che egli haveva dato ad Absalon contra il suo padre David, si parti sdegnato contra il suo Re cavalcando sopra il suo Asino, e Siba havendo condotto doi Asini carichi di pane, di vino, e di frutti al Re David, dissegli Asini domestichi sono, accioché vi seda sopra il Re; e l’altre cose sono ad uso de* suoi servi, corn e scritto nel secondo libro de i Re a capi 16. e 17. e quei doi profeti, de’ quali si narra nel terzo libro de i Re a cap. 13. cavalcarono gli Asini, e non solamente, i Profeti, perché forse alcuno non stimasse che fossero persone vili, ma etiandio i gran Baroni, e i Figliuoli de’ Re cavalcavano per ordinario gli Asini, corne si legge di Mifiboseth figliuolo di Gionata, figliuolo di Saul Re, che comandô al suo servo, che gli apparecchiasse l’Asino, corne è notato a capi 19. del secondo libro de i Re, e di quella rica donna Sunamite, la quale andô sopra lo Asino a ritrovar il Profeta Eliseo, perché gli era morto il figliuolo, il quale fu poi risuscitato dal detto Profeta, corne si legge nel quarto capo del quarto libro de i Re: E quelli trenta figliuoli di lair Galaadite Giudice del popolo d’Israël, i quali erano Prencipi di trenta città, e cavalcavano sopra Asini giovanetti, e di quell’altro Giudice chiamato Abdon, il quai haveva quaranta figliuoli, e trenta nepoti, che ca­ valcavano settanta Asinelli, il che si puô vedere nel decimo, e nel duodecimo capo del libro de’ Giudici, e fra le grandi ricchezze c’hebbe Giobbe fiirono cinquecento Asine, corne si legge nel primo capo del libro intitolato co’l suo nome (Rao, cc. 98z> [ma m v]A 01v). Nissuna Istoria non arriva, e se pur arriva non passa, dal tempo di Abram; il quale, essendo huomo principale, e grande, sappiamo, che messe in ordine il suo Asino, per andar su ’1monte a sacrificar il proprio figliuolo. Et Saul, quando egli fu unto Re del popolo Ebreo, era andato a cercar gli Asini del padre. E la bellissima, e ricchissima

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Abigail, quando essendo vedova del superbo Nabal, andô a maritarsi a David, sopra un Asino, dice il testo, che andô accompagnata dalle sue damigelle, che ancora si crede che cavalcassero su i medesimi. Et Assa figliuola di Caleb, sposa di Otoniel, e padrona di terre, e città, sopra un Asino, dice la scrittura, che andava quando dimando al padre i campi australi. Et ancora era ricca, e grande quelTaltra donna Sunamite, che alloggiô il Profeta Eliseo, e si scrive ancora, che sopra un’Asina lo seguitava; accioché gli risuscitasse il figliuolo. Et medesimamente leggiamo de’ santi Profeti, nel terzo libro de’ Re, al cap. xiii. che usarono gli Asini. Ma, accioché non possiate dire, che questi huomini santi fossero persone humili, e che per religione, 0 perché si stimassero poco andassero cosi, sappiate, che i primi Baroni delle corti, e i figliuoli de’ Re, usavano ordinariamente gli Asini. Architofel huomo possente, e valoroso appresso il Re David, si come si legge nel n. libro de’ Re, al cap. xvii. et presso Absalone suo figliuolo, quando egli si parti disperato, perché il Re non accettava il suo consiglio, si parti sopra un Asino per andarsene a casa sua; e sopra gli Asini cavalcarono i figliuoli del Re Saul, si come leggiamo di Mifiboset nel terzo de’ Re, al cap. xix. il quai era uno de’ figliuoli suoi, e haveva ordinato al servo, che mettesse in ordine il suo Asino, per accompagnar il Re suo padre, il quai si giudica, che ne cavalcasse un altro. Ancora i trenta figliuoli di Galaadite, Prencipe, o Giudice del popolo Ebreo, i quali erano Prencipi di trenta città, si come troviamo scritto nel x. e xn. lib. de’ Giudici, cavalcavano sopra trenta Asini giovani; e dell’altro Giudice, che haveva quaranta figliuoli, e trenta nipoti, si scrive ancora che cavalcavano in settanta Asinelli (Messia, pp. 85-86). [Segmento dedicato all’uso di Cristo di cavalcare l’asino (qui, come abbiamo osservato nel capitolo, Rao combina il testo di Messia con il passo corrispondente dell'Asinesca Gloria)]: Non porto questo benedetto animale il Fanciullino Giesù Re de i Re, con la sua gloriosa, e benedetta madre in Egitto fiiggendo la persecutione del crudel Herode? e esso nostro Redentore, e Salvatore non cavalcô egli sopra l’Asina, e il suo polledro il giomo delle Palme con maggior festa, e honore, che mai gli fusse stato fatto, a trionfare delle sue vittorie, come è registrato dal Vangelista Mattheo a capi 21. del suo Vangelio, e da Marco a capi n. e da Luca a capi 19 [...] Tutto questo c’habbiamo detto dovrebbe bastare non solamente per provare, che l’Asino sia la più honorevole cavalcatura che l’huomo possa usare, essendo stato adoperato per cosa honorata, e degna da tanti santi, e grand’huomini ma etiandio per havere in sé più di religione, e di divotione in adoperarlo: Dal che si puô adunque comprendere, che non si perde nulla di honore, e di riputatione a cavalcarlo, poi che non solamente tanti grandi Huomini l’hanno usato per cavalcatura, ma ancora Christo maggior di tutti (Rao, cc. 101i>-102/). Ma, perché cosa mi debbo io straccare, intomo far buono il costume di cavalcar gli Asini con essempi di Prencipi, e di Re, havendone io lo essempio del Re sopra tutti 1 Re Christo, Dio, e huomo, il quai voile entrar in Gierusalem sopra uno Asino in

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quel dî, che gli fu fatta la maggior festa, e honore, che mai gli fosse fatto in terra, e non si sa, né manco si presume, che cavalcasse in altro animale? La quai cosa deverebbe non solamente bastare per giudicar, che sia l’Asino la più honorevole, e miglior cavalcatura di quante l’huomo usa, ma etiandio per haver per religione, e divotione l’adoperarla. Vedete hora Signori, se qua si perde niente dell’honore per cavalcare sopra l’Asino, e, se è stata cosa honesta, e honorevole il farlo, massime havendolo fatto Giesù Christo (Messia, p. 86). [Gran conto in cui erano tenuti gli asini nei tempi antichi]: E ben che hoggidî ne sia fatto poca stima, e tenutone, poco conto, non fu perô cosî ne* tempi antichi, perché (corne recita Marco Varrone) in Roma un Asino avanzô il prezzo di ogni altro animale, che fu venduto sessanta sestertij, i quali (secondo Budeo) ascendono alla somma del valore di mille, e cinquecento ducati della moneta che si spende hoggidî, e quattro Asini fiirono venduti quattrocento mila sestertij. Scrive anco Plinio, che in Celtiberia (paese di Spagna c’hoggi si chiama il Regno di Aragona) fîi venduta un’Asina quaranta mila sestertij (che sono al conto nostro cento mila lire d’argento) (Rao, c. 96/). Era di tal sorte stimato questo animale, che *1detto Marco Varrone afferma, che al suo tempo fil venduto un Asino per sessanta sestertij, che, secondo Budeo, e altri, sommano mille cinquecento scudi; e quattro Asini fiirono venduti per quattrocento mila sestertij. Et Plinio dice nel libro settimo, al cap. x liii . d’un altro, che fii venduto per un’altra gran somma (Messia, p. 87). [Stelle con il nome di Asinelli] : Sono di più in cielo due stelle, dette da gli Astrologi Asinelli, e sono di quelle, che formano la figura del Granchio segno celeste nel zodiaco, e tre altre nuvolose chiamate il lor presepio, overo mangiatoia [...] (Rao, c. 98/). e oltra di questo, l’honorarono tanto, che lo finsero, e messero in cielo, corne hoggi si trovano due stelle nel segno di Cancro, chiamate Asinelli; e tre altre nuvolose, sono chiamate Presepi loro (Messia, p. 87). [Altre citazioni dalle Sacre Scritture e da Agostino]: e nel decimo precetto della legge data da Dio a Mosé, nel quale ci comanda, che noi non dobbiamo desiderar i béni del prossimo nostro si fa special mentione dello Asino, e del bue, che sono corne fratelli, e questo si legge nel capo ventesimo dell’Essodo, e nel quinto del Deuteronomio. Di gran misterio, e significatione fu quello che ’1 Patriarca Giacob disse ad Issachar suo figliuolo quando al fine della vita sua lo benedisce insieme con gli altri fratelli, dicendo, Tu Issacar Asino forte giacendo appresso i termini, e soggionse, che sottopone le spale per portare. Et quando Christo nacque si mostrô sî tosto a questo animale corne all’huomo, e non si sdegnô a pigliare per primo albergo il suo Presepio, e l’Asina sopra la quale sedè

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Christo quando andô in Gierusalemme, dicono gfinterpreti della Sacra Scrittura, e specialmente Agostino, che significava la Sinagoga de gli Hebrei, e il suo polledro la Chiesa Christiana (Rao, cc. 101^102/). Nel decimo precetto, nel quale si comanda, che non debbiamo procacciare né disiderare i béni del prossimo, solamente per eccellenza si fa mentione delTAsino, e del Bue [...] Et non è di manco maraviglia, e misterio quel, che il Profeta, e Patriarca Iacob disse a Isacar suo figliuolo, quando, essendo egli giunto all’hora della morte benedisse lui, e i fratelli suoi, con queste parole. Tu Isacar Asino forte, dormendo nella campagna; e soggiunge, che mette l’homero suo per portar la soma. Onde per Isacar chiamato Asino nello spiritual senso, dicono esser compreso Christo per la sua fatica, e ubidienza [...] quando Dio nacque in came humana, sî tosto si dimostrô a questo animale, corne a gli huomini, e si humilié a pigliar per primo albergo il suo presepe; e sî corne già si è detto, dopo voile cavalcar sopra di lui; per il che dice Santo Agostino, e altri Santi Dottori, che l’Asino è figura, e tipo della nova Chiesa, e popolo Christiano de Gentili, e f Asina della vecchia Sinagoga de gli Ebrei. Et per esso Agostino in questa signification dice, i Christiani chiamarsi Asini (Messia, pp. 87-88). [Rimedi che si ricavano daUe diverse parti anatomiche dell’asino]: Poppea moglie di Nerone teneva di continovo una gran mandra d’Asine, per bagnarsi nel latte loro, perché (secondo che dicono i Medici) quel latte fa bianca la faccia, e stende le grince del volto, e di tutto il corpo, e fallo delicato e morbido: Il quai ancora bevuto (corne vogliono gli istessi) è singolar rimedio contra i veleni, e alla Tisichezza, e a coloro specialmente giova che sono ridutti ad una estrema secchezza, chiamata da Medici Ethica, vale ancora alla gotta come recita Plinio, il quale afferma ancora, che particolarmente giova alla disinteria, cioè flusso di ventre co’l sangue, bevuto con mele, e sana anco gli occhi mescolato con polvere fatta delle sue unghie: Il suo Fegato, corne vuole Dioscoride, mangiato a digiuno sana il mal caduco: Il che parimente fanno le sue unghie trite, e bevuto il suo stereo crudo, overo abbrusciato, e impostato con aceto ristagna il flusso del sangue, il medesimo tolto da quelli che stanno alla campagna seccato, e infuso nel vino giova aile ponture delli scorpioni, la sua orina medica i difetti delle reni (Rao, c. 96v). Primamente il suo fegato mangiato a digiuno, guarisce il male, o morbo comitiale, secondo scrive Dioscoride, il quale afferma, che per la stessa infermità giovano assai le sue unghie trite, e bevute; e sappiamo ancora, che il latte di Asina bevuto giova contra ogni veleno, e leva il dolor della gotta. Plinio, e altri sono gli autori di cio; e esso Plinio afferma ancora, che bevuto col mele giova alla disenteria, e ha la medesima virtù per il mal de gli occhi, mischiato con le unghie delTAsino; e sappiamo, che col latte semplice sono guariti molti huomini, i quali erano per morire. Et ancora scrive Svetonio, che Popea moglie delTImperador Nerone si lavava il viso con latte di Asina, per farselo più lucido, e più bello. Della quale afferma Plinio, che non solamente si lavava il viso, ma etiandio si lavava tutto *1corpo, e per questo effetto,

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faceva, che le fossero apparecchiate cinquecento Asine, che havessero partorito per ogni banda, che ella andava (Messia, p. 88). [Alcune virtù dell’asino] : perciô che s’adoprano in arare la terra, si come i bovi, e i cavalli, come veggiamo farsi in molti luoghi de Italia; egli porta cosî bene la soma; corne il mulo, o il Cavallo, e porta Phuomo ancora, e più sicuramente che ’1cavallo, e serve a molinai, e a molti altri, né ha bisogno di essere domato, né ligato, per essere da sé piacevole, corne habbiamo detto (Rao, c. 97r). Egli puô arar la terra, corne fa il bue, si corne si usa in alcune bande d’Italia, e in altre provincie. Egli puô portar le some, e ogni peso, corne fanno i muli, e puô portar Phuomo etiandio più sicuramente, che ’1 cavallo. Egli non fugge fatica, né uflicio alcuno, sî per i molini, come per la strada, si per la città, come per la campagna, e tutto questo, corne ho detto, con più commodità, e facilita; percioché egli non ha le coma, con le quali possa ferire, corne il bue, né manco bisogna domarlo né legarlo, corne il giovenco, né si leva in due piè, né salta, corne il cavallo, non tira calzi, corne la mula, non gli bisogna giogo, né stimolo per farlo servire, va senza bisogno di sproni, e fermasi senza il vigor della briglia; camina assai, e bene, senza spender danari in ammaestrarlo (Messia, p. 89). [Asino, animale pacifico]: S’alcuno mi opponesse, ch’essendo egli vivo non vale, né è buono in uso di guerra, io gli risponderei che questo è un privilegio, e una special gratia donatagli da Dio, ch’egli (essendo quel cosî nobile, e cosî giovevole animale, ch’egli è) non s’habbi ad intromettere in cosa cosî pessima, come quella, dove s’ammazzano gli huomini, perch’egli è nato solamente per giovare, non per far danno alla generatione humana: né perché egli non entri in guerra si dee imputare a viltà conciosia che già un Asinello ammazzasse co’ calzi un bravo, e feroce Leone, corne narra Plutarco vero Historico nella vita di Alessandro Magno (Rao, c. 96/). Et non offende cosa alcuna a quello, che habbiamo detto, quel, che voi diceste, o si potrebbe dire; cioè, che PAsino non sia buono per la guerra, né manco per combattere; conciosia che io reputo, che questo sia privilegio, et special gratia di Dio concessagli; percioché, per una cosa sî cattiva, corne è ammazzarsi gli huomini Puno con Paltro, egli non fosse buono; di modo, che per sostentare, e aiutare la vita delPhuomo nella stessa guerra, e fiiori, in tutte le cose si servono di lui, e è utile, ma per dannare, e nuocere Phuomo, non voile Dio, che lo trovassero sî atto, né sî destro; e questo non si puô dire, che sia per mancamento di animo; conciosia, che nella vita di Alessandro, leggiamo di uno Asinello, che co’ calzi ammazzô un bravo Leone, e cosî lo scrive Plutarco Istorico vero, e cosî fil giudicato bastante per la guerra, e per la battaglia (Messia, p. 90).

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APPENDICE III

[Bontà della came d’asino] : Che la sua came non s’usi in cibo nostro non è perché la non sia buona, ma si ha riguardo ad un animale, dal quale l’huomo riceve tanti beneficij, e in vero questo sarebbe un atto d’ingratitudine, e di molta crudeltà, corne se un huomo mangiasse d’un altro huomo, Avenga che in alcuni luoghi per poca consideratione si sieno mangiate delle cami di questo buono animale, come nella Fiandra dove (secondo che io ho inteso) ne i loro banchetti danno le cami de gli Asinelli giovinetti per solenne cibo, e noi sappiamo che nel tempo dell’assedio della nostra Città per bisogno (non si potendo havere quel riguardo, che meritava questo degno animale) se ne mangiarono di quelle cami, le quali fiirono giudicate molto saporite, e delicate, come ancora si legge nel quarto libro de i Re a capi sei, che essendo assediata la Città di Samaria, un capo d’Asino fil venduto ottanta danari d’argento. Scrive ancora Plutarco, che in una guerra fatta dal Re Artaserse nel suo essercito fu venduta una testa d’Asino sessanta dramme, di modo che la sua came non si lascia di mangiare, perché la non sia buona, ma perché la sua vita è molto necessaria a gli huomini (Rao, cc. 96v-97r). Dir ancora, che gli huomini non mangiano la came sua, manco mi par, che sia difetto, né mancamento; conciosia che non è stato altro, che religione, e rispetto, il non voler gli huomini mangiar came d’uno animale, che fa loro sî grandi beneficij, giudicando essi, che sia crudeltà, e ingratitudine, come in vero è il mangiar l’un huomo l’altro; e ancora fu prudenza, il non consumare, né diminuire in cibo una cosa sî utile, e necessaria per la vita humana, e che tanti cibi acconcia, e conduce per altre vie; percioché senza dubbio per un boccone se ne haverebbe perduto mille; e nel resto del gusto, e del sapore, io credo fermamente, et ancora affermo, che l’Asino non si lasciarebbe di mangiare, e, se si usasse, e il gusto si assuefacesse a mangiame, forse che la came sua sarebbe di cosî buon sapore, e giovamento, quanto quella de gli altri animali, che si mangiano. Et io ho inteso dire, che i Fiamminghi ne’ banchetti, che essi fanno, per gran festa danno a mangiare Asinelli giovanetti; e sappiamo, che in tempo di necessità, quando non si puô haver riguardo a quel, che habbiamo detto, si è mangiato la sua came, e stimata assai; sî corne leggiamo ne’ libri de’ Re, che essendo assediata Samaria dal Re di Siria, valeva una testa di Asino ottocento denari; e scrive Plutarco, che in una certa guerra, che fece il Re Artaserse, si vide il suo essercito in tanto bisogno, che fil venduta un’altra testa per sessanta dramme. Di maniera, che la sua came non si lascia di mangiare, perché ella non sia buona; ma, perché è necessaria la sua vita (Messia, pp. 90-91). [Bellezza dell’asino]: E s’alcuno mi opponesse, che l’Asino è brutto animale per cavalcare: Io gli risponderei, che in suo essere egli non manca di proportione, e s’egli fusse ben trattato, accarezzato, e honorevolmente vestito corne il cavallo, e la mula, sarebbe molto più polito e bello di loro. Ma essendo cosî mal tenuto, e peggio trattato, non puô parère quello ch’egli è. Un altro direbbe, ch’egli ha troppo longa la coda, e le orecchie, e

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che gli mancano le chiome, queste sono tutte opinioni, perché si vede, che ad alcuni cavalli si tagliano le orecchie, e i crini, e aile mule la coda, e questo non procédé dal bisogno, ma dal volere, e quello che fatto la Natura non si dee dire, che sia malfatto, percioché essa Natura non fa veruna cosa indamo, e tutto quello che ella ha fatto è ben fatto, la opinione adunque è quella che stima, che una cosa naturale non sia bella. Questo medesimo awiene, che per essere in uso il cavalcar gli Asini, non sia stimata cosa buona, e honorevole. Ma se si ritomasse all’uso antico, non se ne direbbe nulla, e si pregiarebbe molto, e tosto co’l favore, e co’l buon trattamento ci parrebbero belli e gentili, come in fatto sono (Rao, c. 102z>). Et in quel, che voi motteggiaste, che l’Asino è brutto animale, manco havete ragione; percioché egli è bellissimo animale, e di buona proportione per quello, che fu creato, e, se fosse trattato, e govemato con quella cura, e diligenza, che mérita, e fosse acconciato, e messo in ordine, corne il cavallo, e la mula sono, ei sarebbe assai più polito, e più bello di loro. Et quel, che ha perduto della sua bellezza, certo è stato per colpa, e negligenza de gli huomini, sî corne manifestamente si vede in quei cavalli, che sono mal trattati; percioché nel resto di haver le orecchie grandi, o picciole, lo haver la coda, e i crini lunghi, e altre cose, che voi potreste dire, che gli mancano, certo è fantasia, e vanità de gli huomini; e non già, perché egli nelTessentiale sia cosi; e questo è chiaro; conciosia che a posta voi lasciate crescer la coda al cavallo, e la tagliate alla mula; e il medesimo fate ne* crini; e in alcuni volete le orecchie, e ad altri glie le tagliate; di modo, che questa non è vera nécessita, ma opinione, e costumi; tanto che, se si usasse l’andar su gli Asini, subito col favore, e buon trattamento ci parerebbeno belli, e gentili, sî come in effetto io credo ci parerebbeno, quando quei Prencipi, e grandi huomini, che ho detto, gli usavano (Messia, pp. 91-92). e) Riscontri testuali tra diverse scritture asinine Rapporti tra la «Iode delVasino» di Rao e V«Asinesca Gloria» (che si indica con le iniziali A. g), Primieramente egli non conobbe mai che fusse alterezza. fl che chiaro si vede, perché col capo chino se ne va mansuetamente (Rao, c. 93/). se ne va humile sempre col capo basso, e chino a terra (A g:, p. 17). Si crede, che questo animale sarebbe perfetto musico, quando gli fusse insegnato cantare (Rao, c. 94/). E perciô si puô concludere che nella Musica non sarebbe alcuno che potesse avanzare l’Asino, pure che gli fosse insegnato una volta (A. g., p. 25). I cavalli de’ Scithi che s’erano opposti alli Persiani, spaventati dal terribile ragliare, che facevano (Rao, c. 95/).

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i Cavalli de gli Scithi non ardivano venirsi ad opporre a i nemici, tanto terrore havea posto loro neiranimo il terribile raghiare de gli Asini (A. g., pp. 18-19). Non sia adunque chi dica, gli Asini non vagliano in uso di guerra (Rao, c. 95v). Non sia dunque più chi dica che nella guerra non sono gli Asini di alcun’utile (A. g- P- 20). perché (come recita Marco Varrone) in Roma un Asino avanzô il prezzo di ogni altro animale, che fil venduto (Rao, c. 96t). Scrive Varrone ch’un Asino in Roma avanzô il pretio di quai altro si voglia più stimato animale, percioché fu venduto (A. g> p. 34). Poppea moglie di Nerone teneva di continovo una gran mandra d’Asine, per bagnarsi nel latte loro, perché (secondo che dicono i Medici) quel latte fa bianca la faccia, e stende le grince del volto, e di tutto il corpo, e fallo delicato e morbido: Il quai ancora bevuto (corne vogliono gli istessi) è singolar rimedio contra i veleni (Rao, c. 96v). Trovasi appresso di Plinio che Poppea di Nerone teneva un armento grande d’Asine, e da quelle voleva quasi sempre esser accompagnata [...] sî anchora perché dicono che *1 latte di quelle mantiene bianca la faccia, fa la pelle tenera, e mole, e leva le crespe del viso, e il medesimo beuto si tiene che sia ottimo rimedio contra ’1 veneno (A. g , pp. 34-35). DalTAsino trasse il cognome una nobilissima famiglia di Roma detta gli Asini, da cui uscirono molti huomini Illustri, e di gran valore tanto in armi quanto in lettere, fra i quali fil Asinio Pollione celeberrimo Oratore, Asinio Gallo, Asinio Celere consoli, e altri (Rao, c. 97r). DalTAsino tenne a grandezza una delle più nobile famiglie di Roma essere cognominata, e fu quella de gli Asinij, c’ebbe molti huomini di grandissimo valore, e che fiirono stimati assai, corne Asinio Pollione, Asinio Gallo, Asinio Celere, e alcuni altri {A. g, p. 28). Non si legge, che giamai alcuno de gli altri animali havesse questa gratia di poter parlar flior che l’Asina di Balaam, la quale (corne si legge nel libro de Numeri a capi 22.) portando esso Profeta mandato da Balaac Re de’ Moabiti, acciô che egli maledicesse il popolo d’Israelle, fii fatta degna di vedere f Angelo di Dio, che le attraversa la strada con la spada ignuda in mano, perché la non andasse più oltra, e fiille donato l’uso del parlare, con cui ella si lamentô del Profeta, che con la sferza la voleva pur fare andare innanzi contra il divino volere (Rao, c. 100z>). Ma che egli sia sopra tutti gli altri animali, e che fosse anticamente stimato da gli Hebrei più degno di tutti, questo solamente voglio che per hora ne faccia fede, che fii appresso di loro degno di vedere l’Angelo di Dio, e di havere la favella humana, cosa che ad alcuna altra bestia non fii data giamai. Et quello che non potea vedere Balaam quando chiamato da quel Re andava per maledire il popolo d’Israël, fu veduto

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dall’Asina sua, la quale parlô, dolendosi di lui che volesse a forza di sferzate cacciarla inanzi contra 1’Angelo, il quale le s’era attraversato su la strada (A. g.f p. 15). Né si truova scritto che giamai Profeta alcuno o santo huomo cavalcasse altro animale che Asino (Rao, c. 100z>). Non si legge di Propheta alcuno, né di altro Santo huomo, il quale cavalcasse altro animale giamai, che TAsino (A. g:, p. 15). Non porto questo benedetto animale il Fanciullino Giesù Re de i Re, con la sua gloriosa, e benedetta madré in Egitto fiiggendo la persecutione del crudel Herode? e esso nostro Redentore, e Salvatore non cavalcô egli sopra l’Asina, e il suo polledro il giorno delle Palme con maggior festa, e honore, che mai gli fusse stato fatto, a trionfare delle sue vittorie (Rao, c. 10lv). Onde C hristo nostro Signore fu dalla Madré fuggito in Egitto su l’Asino, e il medesimo quando con tanto bel trionfo entrô in Hierusalem, v’andô parimente su l’Asino, o Asina che fosse (A. g , p. 15). Rapporti tra la «Iode dell'asino» di Rao e la «Nobiltâ delVasino» di A.. Banchieri (ed. 1592): ma nel bere è ancora costumatissimo, il che fil molto ben notato dal nostro Poeta, quando disse. Forse che com’il Cavallo da furfante / Tuffa il cieffo nel bere: a pena tocca / L’acqua; tant’è costumato e galante (Banchieri, pp. 20-21). Sono tanto gentili, e costumati nel bere [...] che a pena toccano Tacqua con la sommità delle labra, cosa che non fa il cavallo, il quai bevendo tuffa talhora la testa nelfacqua fin presso a gli occhi (Rao, cc. 93^94/). Racconta M. Varone, ch’un Asino al suo tempo fil venduto sessanta Sestertij, i quali secondo Budeo, e altri Computisti, ascendono alla somma di mille e cinquecento scudi: soggiundendo di più, ch’havea veduto quattro Asini esser stati compri quat­ trocento Sestertij. Testifica Plinio, che un Asino fu venduto una quantità grandissima de scudi, che hora non mi sovengono a memoria, ma tiascuno se ne puô chiarire leggendolo nel libro settimo delle sue naturali historié (Banchieri, pp. 34-35). perché (corne récita Marco Varrone) in Roma un Asino avanzô il prezzo di ogni altro animale, che fii venduto sessanta sestertij, i quali (secondo Budeo) ascendono alla somma del valore di mille, e cinquecento ducati della moneta che si spende hoggidî, e quattro Asini fiirono venduti quattrocento mila sestertij. Scrive anco Plinio, che in Celtiberia (paese di Spagna c'hoggi si chiama il Regno di Aragona) fu venduta un*Asina quaranta mila sestertij (Rao, c. 96f). Si legge che a un certo tempo nella Città di Samaria una testa d’AsiNO fu venduta ottanta danari [...] Racconta Plutarco, che in una guerra che fece il Re Artaserse, una testa d’AsiNO fu similmente venduta nel suo essercito sessanta dramme (Ban­ chieri, p. 40).

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come ancora si legge nel quarto libro de i Re a capi sei, che essendo assediata la Città di Samaria, un capo d’Asino fu venduto ottanta danari d’argento. Scrive ancora Plutarco, che in una guerra fatta dal Re Artaserse nel suo essercito fii venduta una testa d’Asino sessanta dramme (Rao, c. 97/). Scrive Dioscoride, che il fegato dell’AsiNO mangiato a digiuno sana quelli, che patiscono il morbo comitiale. Et il medemo effetto dice che ancora fa l’unghia dell’AsiNO pesta, polverizata, e bevuta nel vin bianco (Banchieri, p. 41).

II suo Fegato, come vuole Dioscoride, mangiato a digiuno sana il mal caduco: II che parimente fanno le sue unghie trite (Rao, c. 96z;). Oltra di cio gli [Plinio] aggiunge, che mescolandosi il detto latte con alquanto di miele fa mirabile giovamento a coloro, che patiscono la Dissenteria, bevendolo digiuno (Banchieri, p. 41). il quale [Plinio] afferma ancora, che particolarmente giova alia disinteria [...] bevuto con mele (Rao, c. 96-z;). gl’antichi Astrologi [...] lo collocarono nel Cielo col nome di due stelle poste nel segno di Cancro, chiamandole Asinelle, in un altro luogo ne puosero tre nominandole i presepi Asinelli (Banchieri, p. 47). Sono di più in cielo due stelle, dette da gli Astrologi Asinelli, e sono di quelle, che formano la figura del Granchio segno celeste nel zodiaco, e tre altre nuvolose chiamate il lor presepio, overo mangiatoia (Rao, c. 98/). mi resta bene di dire che mi reca maraviglia non poca veggendosi una infinita turba di sciocchi, che in cambio di recarsi a gloria il sentirsi dare dell’Asino per la testa corre alla resteliera delle arme, e danno di mano allé coltella volendo guastare la pelle a questo, e a quello (Banchieri, p. 58). i quali [«gli huomini del tempo d’hora»] non considerando più adentro di quello che puô penetrare il loro debole, e mal capace intelletto, non solamente non fanno veruna stima di questo cosî eccellente animale, ma estremamente ancora abboriscono il suo nome, di maniera, che quando alcuno si sente nominare per Asino, incontinente salta sù s’arma virum: e vol porre tutto il mondo sottosopra, quando ch’egli (s’havesse giuditio) dovrebbe reccarlosi a grand’honore, e singolar favore (Rao, c. 103/). Rapporti tra la «Nobiltà delVasino» di A. Banchieri {ed. 1592) e Pelogio delVasino di Pietro Messia: Racconta M. Varone, ch’un Asino al suo tempo fu venduto sessanta Sestertij, i quali secondo Budeo, e altri Computisti, ascendono alla somma di mille e cinquecento scudi: soggiundendo di più, ch’havea veduto quattro Asini esser stati compri quattrocento Sestercij. Testifica Plinio, che un Asino fii venduto una quantité grandissima de scudi,

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che hora non mi sovengono a memoria, ma ciascuno se ne puô chiarire leggendolo nel libro settimo delle sue naturali historié (Banchieri, pp. 34-35).

Era di tal sorte stimato questo animale, che ’1detto Marco Varrone afferma, che al suo tempo fu venduto un Asino per sessanta sestertij, che, secondo Budeo, e altri, sommano mille cinquecento scudi; e quattro Asini furono venduti per quattrocento mila sestertij. Et Plinio dice nel libro settimo, al cap. xliii. dun altro, che fu venduto per un’altra gran somma (Messia, p. 87). Si legge che a un certo tempo nella Città di Samaria una testa d’AsiNO fu venduta ottanta danari [...] Racconta Plutarco, che in una guerra che fece il Re Artaserse, una testa d’AsiNO fù similmente venduta nel suo essercito sessanta dramme (Ban­ chieri, p. 40).

si corne leggiamo ne* libri de’ Re, che essendo assediata Samaria dal Re di Siria, valeva una testa di Asino ottocento denari; e scrive Plutarco, che in una certa guerra, che fece il Re Artaserse, si vide il suo essercito in tanto bisogno, che fil venduta un’altra testa per sessanta dramme (Messia, p. 91). Scrive Dioscoride, che il fegato delf Asino mangiato a digiuno sana quelli, che patiscono il morbo comitiale. Et il medemo effetto dice che ancora fa lunghia delfAsiNO pesta, polverizata, e bevuta nel vin bianco [...] Plinio vuole, che il latte dell’AsiNA bevuto sia ottimo rimedio a guarire coloro, che havessero pigliato il veleno: soggiungendo ch’egli leva ancora il dolore che sogliono dar le podagre, e le gotte. Oltra di cio gli aggiunge, che mescolandosi il detto latte con alquanto di miele fa mirabile giovamento a coloro, che patiscono la Dissenteria, bevendolo digiuno. Finalmente la universal Academia de i Medici concorre in questo, che il latte dell’AsiNA bevuto giova a moite e diverse infermità, ch’io non mi sono curato di raccorre [...] Riferisce Svetonio Tranquillo, che Popea moglie di Nerone si lavaua ogni mattina tutta la persona nel latte delfAsiNA per solamente mantenere, e aumentare la sanità, la bellezza, e morbidezza; e esser pastosa, lustra, e delicata: soggiungendo che per tal effetto dovunque andava e stava, tenea, e conducea seco cinquecento Asine, le quali havessero poco innanzi partorito (Banchieri, pp. 41-42).

Primamente il suo fegato mangiato a digiuno, guarisce il male, o morbo comitiale, secondo scrive Dioscoride, il quale afferma, che per la stessa infermità giovano assai le sue unghie trite, e bevute; e sappiamo ancora, che il latte di Asina bevuto giova contra ogni veleno, e leva il dolor della gotta. Plinio, e altri sono gli autori di cio; e esso Plinio afferma ancora, che bevuto col mele giova alla disenteria, e ha la medesima virtù per il mal de gli occhi, mischiato con le unghie delfAsino; e sappiamo, che col latte semplice sono guariti molti huomini, i quali erano per morire. Et ancora scrive Svetonio, che Popea moglie delflmperador Nerone si lavava il viso con latte di Asina, per farselo più lucido, e più bello. Della quale afferma Plinio, che non solamente si lavava il viso, ma etiandio si lavava tutto *1corpo, e per questo effetto, faceva, che le fossero apparecchiate cinquecento Asine, che havessero partorito per ogni banda, che ella andava (Messia, p. 88).

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APPENDICE O!

Prelievo nella «Nobiltà dell’asino» di A. Banchieri di un passo della «Digressione in Iode delVasino» di Agrippa: Columella afferma che non è animale, del quai l’huomo habbia più di bisogno quanto dell’Asino. Egli (dice) rompe la terra con l’aratro, tira le carrette gravi: Nelle mulina, ne i pistrini, e nel portar il formento v’intarviene sopra tutto l’opéra di questo ani­ male. Non è villa, non è casa, e finalmente non v’è luogo, che non habbia bisogno di cosi necessario animale, quanto è l’Asino. Egli commodamente col collo, con le spalle, e con tutta la persona puô tirare, portare, e condurre da un luogo all’altro tutte le biade, e tutte le cose necessarie per l’uso delThuomo, cose che nissuno altro animale puô, e non è atto a fare (Banchieri, p. 21). L’asino, come dice Columella, fa moite opéré sopra la parte sua e tutte necessarie, perch’egli rompe la terra con l’aratro e tira di moite carette gravi. Ora nelle mulina e nel fare il fromento v’intraviene sopra tutto la fatica di questo animale; ogni villa ha bisogno di cosî necessario instromento quanto è l’asino, il quale comodamente e col collo e con le spalle puô portare e riportare nella città molti usuigli. (Agrippa, pp. 509-10).

INDICE DEI NOMI

Abdon 225 Abigail 225, 226 Abramo 130n., 225 Accolti, Benedetto 79n., 140n. Achille 66 Adolf, Helen 45n. Adomi Braccesi, Simonetta 39n., 88n., 89n., 91n. Ageno, Franca 41n. Agnello, Benedetto 93, 94n. Agostino, Aurelio 178, 183, 188n., 227, 228 Agresto da Ficaruolo (ser), pseud, di Annibal Caro, 115 e n., 12 ln., 145n., 155n., 175, 197 Agrippa di Nettesheim, Comelio 1, 2, 39 e n., 40, 43, 47 e n., 49 e n., 56, 59n., 75, 76 e n., 79, 84n., 88 e n., 90, 91n., 94n., 97, 100,122 e n., 127n., 128n., 130,13ln., 132, 136 e n., 153, 178, 181, 182 e n., 183, 184 e n., 187n., 211, 215-24, 236 Albanese, Gabriella 32n., 161n. Albergati, Vianesio 138 e n., 197 Alberigo, Giuseppe 138n. Alberto Magno 41, 46n., 88 Albicante, Giovanni Alberto 79 e n., 106n., 107n., 174 Alciato (Alciati), Andrea 28, 29 e n., 30 Alcina 117 Alcinoo 217 Alcione 217 Alessandrina (signora) 143n. Alessandro Magno 59n., 217, 229 Alfonso (interlocutore del Dialogo del Contentioso) 186 Alfonso di Ulloa 22n., 185n. Alhaique Pettinelli, Rosanna 77n., 78n. Alighieri, Dante 31, 35n., 62n., 205 Alvaro (interlocutore del Dialogo del Contentioso) 22, 186, 187, 191

Ammonio di Alessandria 56 e n. Anassagora 219, 220 Anassimene 136n., 182n., 218, 219, 220 Andrea da Bergamo 115-116n. Angelis, Francesca Romana de’ 21n. Anguissola, Girolamo 172 Anisio, Giovanni Francesco 78n. Antioco 220 Antiope 198 Antistene 217 Antonelli, Roberto 53n., 14ln. Antonio (maestro) 109n. Antonio, santo 201 Apollo 25, 45, 60n., 113, 218, 219 Apollonia, monna 172 Apollonio di Tiana 183n., 222, 223 Apuleio, Lucio 23, 24, 25, 46, 123n., 124n., 127n., 128, 130, 131n., 148, 161, 195, 206 Aquilecchia, Giovanni 48n., 141n., 171n. Arato di Soli 50n. Arcasino 64, 65 e n., 66 Archidamo II 216 Architofel 225, 226 Arculano (padre) 63n., 64, 65 Aretino, Pietro 30n., 33n., 41, 44n., 79 e n., 83n., 105, 106 e n., 107 e n., 108 e n., 109 e n., 111,116n., 145n., 149, 150n., 161 e n., 164 e n., 167n., 169, 171n., 175 e n., 208 Argiropulo, Giovanni 93n. Argo 12n. Ario 91n. Ariosto, Ludovico 29n., 31, 62n., 78n., 103, 111, 113n., 141n., 173 Aristide 220, 221 Aristofane 220 Aristofane di Bisanzio 59n. Aristotele 31, 40, 41, 57n., 71n., 78n., 86, 87, 88, 89, 108, 157, 168, 174n., 180, 183n., 220, 222, 223

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INDICE DEI NOMI

Arlla, Costantino 13 ln. Arlotto (piovano), vd. Mainardi Arlotto Amigio, Bartolomeo 180 Amolfini, Vincentio 60n. Arrivabene, Andrea 15, 89n., 91 Artaserse 230, 233, 234, 235 Asinio Pollione, Gaio 232 Asclepiade 24 Asor Rosa, Alberto 6n., 27n., 106n., llln ., 144n. Assa 225, 226 Assalonne 225, 226 Astrea 223 Atanagi, Dionigi 110 e n., llln ., 112n., 113, 114, 144, 197 Attabalippa dal Perù (pseud, di Adriano Banchieri) 26n., 68n., 72n., 73 Attilio Regolo, Marco 108 Auzzas, Ginetta 163n. Avicenna (Ibn Sina) 40, 122 Avogadro, Giovan Battista 46 Baccio del Sevaiuolo 32 Bacco 69, 113, 141, 195 Badaloni, Nicola 49n., 143n. Baffa, Francesca 167n., 169n. Baffetti, Giovanni 80n. Baglioni, Gostanza Vitella de’ 165 Bainton, Ronald H. 76n., 126n. R alaar 5 3 2

Balaam 50, 117 e n., 130, 184, 232 Baldassarri, Guido 185n. Baldassarri, Stefano Ugo 135n. Balsamo, Jean 51n. Banchi (furfante) 198 Banchieri, Adriano (vd. anche Attabalippa e Camillo Scaligeri della Fratta) 1, 26, 45 e n., 48, 57n., 59n., 68 e n., 69 e n., 71, 72n., 73, 74, 117n., 128n., 184, 233, 234, 235, 236 BandeÙo, Matteo 111 Barbagrigia Stampatore (pseud, di Antonio Blado) 34 e n., 115 e n., 118n., 12 ln., 155n. Barbaro, Daniele 17n. Barbaro, Ermolao 20n., 135n. Barberi Squarotti, Giorgio 92n., 129n. Barelli, Stefano 47n. Barezzi, Barezzo 68n. Bargagli, Girolamo 14n. Bariletto, Giovanni 150n. Bartolo da Sassoferrato 167n., 176n.

Bartolomeo, messer 130n., 155 e n., 178n., 179n., 180n., 212 Basile, Bruno 78n. Basso, Jeannine 105n., 110n., 153n., 183n. Battaglia, Salvatore l l l n . Battaglia Ricci, Lucia 32n., 161n. Battelli, Guido 54n., 59n. Baucia, Massimo 118n., 119n. Bausi, Francesco 7n., 20n., 135n. Beer, Marina 118n. Bellucci, Novella 94n. Bembo, Pietro 61n., 64n., 65, 78n., 103, 176n. Benci, Trifone 37 e n. Benedetti, Stefano 44n. Benedetto da Mantova 10n., 59n. Bentivogli (famiglia) 170 Benzoni, Gino 46n. Beolco, Angelo detto Ruzante 111 Bemari, Carlo 43n., 12 7n. Bemi, Francesco 44n., 78 e n., 80 e n., 81, 105, 106n., 107 e n., 111, 157, 161, 174n., 175 e n. Beroaldo, Filippo, il Vecchio 43 Bertacolone (ser) 55 Bessi, Rossella 32n., 161n. Betussi Giuseppe 32, 94n. Biagio, messer 199 Biagio (furfante) 198 Biagio da Cesena 118 Biancifîore, monna 176 Biello (furfante) 198 Bindoni, Agostino 107 Binet, Etienne 172n. Bini, Giovanni Francesco 44n., 81, 107n., 12 ln. Bizzarro, il 16n. Blado, Antonio (vd. anche Barbagrigia Stam­ patore) 115, 12 ln., 197 Blazina, Sergio 92n., 93n., 98n., 129n. Blesi, Stefano 169n. Boccaccio, Giovanni 31, 35n., 53n., 86, 87 e n., 94n., 112n., 161, 168, 212 Boccarini, Bernardino 80 Boeto di Sidone 220 Boezio, Severino 88 Boiardo, Matteo Maria 43, 106n., 124n. Bolzoni, Lina 29n., 37n., 38n., 67n., 100n., 101n., 133n., 134n., 152n., 160n., 168n., 173n. Bompaire, Jacques 9n. Bonfadio, lacopo 37n., 63n., 108, 110 e n.,

INDICE DEI NOMI

111 e n., 112n., 113, 140n., 197 Bongi, Salvatore 54n., 59n. Borsellino, Nino 161n. Borsetto, Luciana 103n., 160n. Bottarga, Stefanello 158n. Bottazzo (cavalier) 115n. Bovelles, Charles de 142n. Bowen, Barbara C. 39n. Bozzola, Lisandro 151 Bracciolini, Poggio 43, 161 Bragantini, Renzo 174n. Bramanti, Vanni 34n., 123n., 155n. Brant, Sebastian 125n. Bratti (ferravecchio) 113 Brocardo, Antonio 167n. Bronzini, Giovanni Battista 47n. Brucioli, Antonio 150n. Brunet, Jacques-Charles 138n. Bruni, Domenico 94n. Bruni, Leonardo 7n. Bruni, Roberto L. 143n. Bruno, Giordano 47, 48n., 49 e n., 57n., 111, 122n., 141n. Bruscagli, Riccardo 14n., 143n. Bruto, Lucio 133 Bruto, Marco Giunio 139, 216 Bucefalo 59n. Budeo, Guglielmo 189, 227, 233, 234, 235 Buffet, Piero 174n. Buoni, Pietro Maria 31n. Burchiello, vd. Domenico di Giovanni Buscaroli, Piero 134n. Busiride 17n., 18 e n., 19n., 23, 24, 195 Cabani, Maria Cristina 153n. Caims, Christopher 107n. Calandra, Endimio 171 Calcagnino (Celio Calcagnini) 25, 93n. Caleb 225, 226 Caligola (Gaio Giulio Cesare Germanico) 222, 223 Callisto 198 Calmo, Andrea 161 Calvo, Francesco 106n. Cam 147, 177n., 208 Camerotto, Alberto 9n. Camillo, Giulio 26, 134 e n. Canter, Willelm (o Gulielmo Canterio) 196 Cantimori, Delio 3 e n. Capaccio, Giulio Cesare 29n. Capaldi, Donatella 138n., 142n. Capatti, Alberto 119n., 144n., 145, 146, 149

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Caponetto, Salvatore 3 e n. Caporali, Cesare 72n. Capra, Galeazzo Flavio 94n. Carabotto 59 Carcereri, Luciano 47n. Cardini, Franco 8n. Cardini, Roberto 160n. Cameade 187e n., 216 Camesecchi, Simon 167n. Caro, Annibal (vd. anche Agresto da Ficaruolo) 1, 31, 34, 37n., 80 e n., 81, 82n., 83 e n., 114n., 115 e n., 116n., 117n., 118n., 119, 12 ln., 141n., 155n., 163n., 172n., 175 Carraud, Christophe 12n. Cartari, Vincenzo 47, 71, 117n., 123 e n., 127n., 161, 163n. Casadei, Alberto 4, 14ln. Casale (cavalière) 148, 202 Casale, Olga 43n., 44n., 60n., 67n., 68n., 127n. Cassiani, Chiara 4, 43 n. Cassio Longino, Bruto 216 Cassola (cavalier) 169 Castelli, Patrizia 3n. Castiglione, Baldassarre 20n., 64n. Castriota Carrafa, Giovanna 15ln. Castro, Antonio 184n. Cataneo, Danese 8On. Cataudella, Quintino 32n. Catone, Marco Porcio detto il Censore 24, 65, 215, 216, 224 Catone, Marco Porcio detto TUticense 139 Catosso 54n. Cavaillé, Jean-Pierre 33n. Cecchi, Giovanni Maria 111 Celere, Asinio 232 Celio Sanese (pseud, di Anton Francesco Doni) 36n. Cerloso, il 16 Cesano, Bartolomeo 93n. Chappuys, Gabriel 38n., 152 e n. Checca da Certaldo, monna 53 Cherchi, Paolo 2 ,5n., 6n., 9n., 10 e n., 26n., 38n., 41n., 47n., 53n., 56n., 72n., 73n., 85n., 92n., 143n., 152n., 160n., 182n., 184n., 186n. Chiappelli, Fredi 166n. Chiôrboli, Ezio 22n., 155n., 212 Chirone 66 Cibele 13 ln. Cicerone, Marco Tullio 7, 8n., 86, 87 e n., 93, 216, 222 Cimarrosto (buffone) 54 e n.

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INDICE DEI NOMI

Cinciglione (ser) 63n. Cipolla (frate) 1, 43, 50, 51, 52n., 55, 56, 57n., 58, 159 e n., 215 Cipriano, Tascio Cecilio 222 Ciutacria, la 214 Claudio, messer 12ln. Claudio (Tiberio Claudio Nerone Germanico) 23, 24 Clemente VII, papa 148, 202 Cleopatra 13 ln. Cocai, Merlin 161 Coccio, Francesco 22, 94n., 102, 103 Colie, Rosalie L. 6n., 7 e n., 8n., 20n. Collina, Beatrice 47n. Columella, Lucio Giunio Moderato 65, 236 Coppetta, Francesco Beccuti detto il 52n. Comazano, Antonio 62n. Corner, N. 37n. Comieri da Cometo 37 Corona Barcellario (maestro) 183n. Corsaro, Antonio 5n., 9n., 10n., 12n., 15n., 23n., 62n., 63n., 77n., 78n., 87n., 90n., 91n., 92n., 94n., 98n., 109n., 110n., llln ., 148n., 168n., 178n. Cosentino, Paola 4, llln ., 115n. Costa, Gustavo 14ln. Costantino I il Grande 219 Couret de Villeneuve, Martin 113n. Cousin, Gilbert 87n. Cratete di Tebe 219, 220 Craverio, Antonio 180n. Crinito, Pietro 29n. Crisippo 24, 220 Crispino da Atripalda 37n. Cristo (o Gesù) 45, 46, 50, 58n., 59n., 62n., 75, 76, 78n., 87n., 91n., 130 e n., 131n., 137,146,148,188,189,199, 205,226, 227, 228, 233 Critelli, Maria Gabriella 52n. Crivello, il 22, 102 Croce, Benedetto 138n., 142n. Croce, Giulio Cesare (vd. anche Salustio Mi­ randa) 69n., 74 Cuglia, Martino 130n., 155 e n., 178n., 180n. Culaccio 198 Cupido 113 Curione, Celio Augustino 38n. Curtius, Ernst Robert 53n., 14ln. Curzio (Marco Curzio) 108, 209 Daelli, Gaetano 115n.

Daenens, Francine 8n., 10n., 14n., 94n. Dafhe 218, 219 D ’Alessandro, Alessandro 40n., 122n. Damianaki, Chrysa lOn. Danae 198 Dandrey, Patrick 6n., 19n., 39n., 44n., 143n. Dario 69, 130, 184 D ’Ascia, Luca 76n., 126n. David 117, 203, 225, 226 De Angelis, Luigi 14n. de Bravis, Pietro 158n. De Bujanda, Jesus Martinez 144n. De Caprio, Vincenzo lll n . Del Como, Dario 42n. Del Fante, Alessandra 36n., 118n., 132n. Della Casa, Giovanni 107n., 12 ln. dell’Anguillara, Giovanni Andrea 113n. Del Lungo, Cristina 29n. de Luna, Beatrice 89n. De Maio, Romeo 29n., 133n. De Meo, Pia 47n. Democrito 24, 65, 97n., 215, 216, 219, 220 Demodoco 217 Demostene 216, 222 de Nichilo, Adriana 105n., 15 ln., 158n., 161 e n., 165n. Diamanti, Donatella 133n. Diana 113 Didone 217 Diego (interlocutore del Dialogo del Contentioso) 186 Di Filippo Bareggi, Claudia 110n., 118n., 185n. D ’Incalci Ermini, Patrizia 14n. Dino, marchese 156n. D iode 24, 25 Diocleziano, Gaio Valerio 219 Diogene 139, 219, 220 Dione Crisostomo 23, 221, 222 Dionigi di Alicamasso 18n. Dioniso 13 ln. Dionisotti, Carlo 12, 13n., 106n. Dioscoride Pedanio 35, 190, 228, 234, 235 Doglio, Maria Luisa 94n., 105n. Dolce, Lodovico 107 e n., 115, 116n., 173 e n., 185n. Domenichi, Lodovico 32 e n., 33n., 39 e n., 40n., 60n., 94n., 102n., 103n., 116, 118n., 119n., 122 e n., 128n., 157n., 181, 182n. Domenico di Giovanni detto il Burchiello 51, 53n., 117, 157 Domiziano, Tito Flavio 220, 222, 223

INDICE DEI NOMI

Donati, Forese 53n. Doni, Anton Francesco 1, 2, 4, 22 e n., 28, 29n., 30, 31 e n., 32 e n., 33n., 34n., 35 e n., 36 e n., 37 e n., 40n., 42 e n., 43n., 47n., 54n., 64, 65, 67n., 68n., 79n., 80 e n., 85n., 88n., 89n., 91n., 92n., 99 e n., 101 e n., 102n., 103n., 109, llln ., 112n., 116 e n., 117n., 119n., 123 e n., 125n., 126n., 127n., 131 e n., 132 e n., 133n., 134 e n., 135n., 143n., 150n., 153, 154 e n., 155n., 160 e n., 161 e n., 162 e n., 163, 164 e n., 165 e n., 166 e n., 167n., 168 e n., 169 e n., 171, 172n., 173 e n., 174 e n., 175 e n., 176 e n., 179 e n., 180, 184, 185, 207, 211, 212, 213, 214, 215 Dorico, Luigi 37 Dorico, Valerio 37 Dovizi, Angelo 80n. Eco, Umberto 7n. Efren Siro 23 Egena 198 Egeria 198, 208 Elena 18 e n., 19n., 108, 112n., 195 Eletto di Terracina, Y 59n. Eliano, Claudio 42, 163n. Eliseo 225, 226 Elvidio 91n. Enea 217 Ennapio 216 Ennio, Quinto 215, 216 Epicuro 195, 219, 220 Epitteto 58 Eraclito 97n. Erasistrato di Ceo 24, 220 Erasmo da Rotterdam 1, 9, 17, 20 e n., 22, 33n., 47n., 75, 76 e n., 87n., 89n., 93n., 107, 122 e n., 126n., 129n., 132, 135n., 138n., 142 e n., 178 Eratostene 50n., 57n. Erode il Grande 130n., 188, 226, 233 Erodoto 224 Esiodo 24, 219, 220 Esopo 130 Este, Ippolito d’ 173 Eucrate 222 Euforbo 24 Euripide 95 Europa 218, 219 Eusebio di Ces area 163n. Fagotto, Virginio 116n.

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Fahy, Conor 40n., 168n. Falaride 195 Falcone, Giandomenico 76n., 79n., 89n. Fania di Efeso 24 Fanzago, Bartolomeo 167n. Famese (cardinale) 167n., 169 Fattori, Marta 8n. Fava, Girolamo 67n., 170, 171 Favorino, Marco 17n., 21, 23, 24 Fedro 45n. Fenestella, Bindo 156n., 164n. Ferrari, Giovanfrancesco 143n., 158n. Ferrero, Carlo Scipione 119n. Ferrero, Giuseppe Guido 110n. Ferroni, Giulio 4, 13n., 31n., 66n., 76n., 81 e n., 82n., 83n., llln ., 115n., 116n., 117n., 125n., 155n. Ficino, Marsilio 63 Figliucci, Felice (poi Alessio) 14n. Filalete, Giorgio detto il Turchetto 89n., 90n. Filippo II, re di Macedonia 217 Finto Amico 167n. Firenzuola, Agnolo 42, 43 e n., 52n., 107n., 124n. Firpo, Luigi 67n., 89n. Firpo, Massimo 3 e n. Flaminio, Marcantonio 10-1 ln., 78n. Fliasio 220 Folengo, Teofilo 42 Follia (vd. Moria) Fontanini, Giusto 113n. Fomari, Arrigo 157n., 181n., 185n. Fortuna 62n., 126, 134 e n., 135 Foucault, Didier 33n. Fragnito, Gigliola 3 e n., 144n. Francesco d’Ancona 12 ln. Franck, Sebastian 10 e n. Franco, Matteo 53n. Franco, Niccolô 21 en ., 33n., 37n., 47n., 67, 68, 79 e n., 107n., 143, 161n., 164 e n., 169 Franzesi, Mattio 44n., 63n., 107n. Fregoso, Federico 20n. Frondola, Alberico 156 e n. Frontone, Marco Comelio 19n. Fulvio Flacco, Quinto 215 Gaddi, Giovanni 118n. Galeno, Claudio 40, 56n., 122 Gallo, Agostino 45, 46n. Gallo, Gaio Asinio 232

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INDICE DEI NOMI

Gallo, Italo 42n. Gamba, Bartolomeo 115n. Ganassa, Giovanni 158n. Garavelli, Enrico 40n., 84n., llln ., 115n., 123n., 163n. Garimberti, Girolamo 73n. Garin, Eugenio 43n., 122n., 132n., 142n., 151n. Garzoni, Tomaso 25, 26n., 38 e n., 47 e n. Gaza, Teodoro 41, 93n. Gelli, Giovan Battista 42, 43n., 150n. Gellio, Aulo 215 Generoso, Lazzero 169n. Genette, Gérard 27n. Genovese, Gianluca 15ln., 165n., 166n., 168n. Genovese, Rino 8n. Gentili, Vanna 94n. Germanico, Giulio Cesare 50n. Gesner, Conrad 44n., 50n., 91, 92n. Gherardo, Quinto 107 e n. Ghinucci (reverendissimo) 148, 202 Ghirello 146, 203 Giacobbe 227, 228 Giannantonio, Pompeo 107n. Giano 14 ln., 142n. Giberti, Giovan Matteo 78 e n., 174n. Gigliucci, Roberto 32n., 40n., 122n., 123n., 160n. Gilmont, Jean-François 40n., lll n . Ginzburg, Carlo 3 e n., lin . Giobbe 225 Giolito de’ Ferrari, Gabriel 13n., 43, 93n., 118n., 119, 123n., 166n., 171, 172n., 185n. Giona 225 Giorgi, Feliciano 59n. Giosafat 161, 162 Giosuè 225 Giovanni, santo (l’Evangelista) 137, 208 Giovanni da Colonia 41 Giovanni da Macerata 118 Giovanni della bottega 175n. Giove 50n., 61n., 113, 130, 198, 218, 219 Giovio, Alessandro 167n., 168n., 202 Giraldi, Lilio Gregorio 77, 78n. Giraldi Cinzio, Giambattista 18n. Giri, Vincenza 174n. Girolamo, santo 96, 222 Giuba 24 Giuliano, Flavio Claudio detto l’Apostata 195

Giunone 113 Giunti (editori) 107n., 113n. Glauco 23, 24 Golia 203 Gonnella, il (buffone) 161 Gonzaga (famiglia) 15ln. Gonzaga di Gazuolo, Lucrezia 89n. Gomi, Guglielmo 27n. Gottifredi, Bartolomeo 173n., 175n. Gracco, Tiberio Sempronio 216 Graf, Arturo 176n. G ran Can 71n. Grappa, il 53n. Grassino Formaggiaro 118, 119n., 197 Graziano, Flavio 219 Grazzini, Anton Francesco detto il Lasca 37 e n., 111, 143n. Greco, Aulo 63n., 80n., 82n., 110 e n., llln ., 112n., 118n., 141n., 145n., 163n., 197 Grendler, Paul F. 2, 9n., 50n., 136n., 138n., 142n., 144n., 150n., 15 ln., 155n., 161, 176, 179n., 184, 196 Griffagno delli Impacci 72n., 73 Grillo (Mastro) 53 e n., 181 e n . Grimaldi, Giovambattista 114n. Guasca, Isabetta 116 Guazzo, Stefano 115n., 186n. Guccio Porco (Guccio Imbratta) 215 Guerigli, Giuseppe lOn. Guerri, Domenico 53n. Guglielminetti, Marziano 42n., 112n., 116n., 154-55n. Guidotti, Angela 29n., 134n., 168n. Guillery, Stefano 41 Hadot, Pierre 49n. Haym, Niccola Francesco 94n., 113n. Iafet (o Giapeto) 147, 177n., 208 Iair Galaadite 225, 226 Icesio 24 Ierofilo 220 Igino 50n., 57n. Ignoranza 134 Imperador de Matti 154, 155 Inasinito Accademico Pellegrino 56-57n., 124, 127, 130n., 179n., 197 Indelli, Giovanni 42n. Instabile 154 Iopa 217 Ipparco 219, 220 Ippia 219, 220

INDICE DEI NOMI

Ippocrate 23, 40, 122, 220, 223 Irce 218, 219 Isacco (o Issachar) 225, 227, 228 Iside 13 ln. Isidoro di Siviglia 40 Ismenia 217 Ismeno 217 Isocrate 18n., 18, 23, 24 Jacomuzzi, Stefano 138n. Jenson, Nicola 41 Jones-Davies, Marie-Thérèse 8n. Kennedy Ray, Meredith 94n. Korkowski, Eugene 39n. Kristeller, Paul Oskar lll n . Lana, Franceschino 156n., 158n. Lancisgravio 149, 202 Landi, Agostino 168n. Landi, Giulio 20, 21n., 37n., 40n., 62n., 75n., 118 e n., 119n., 131, 132n., 153, 176 e n., 177 e n., 178 e n., 179, 197 Landi, Ottavio 161 Landino, Cristoforo 41 Lando, Ortensio 1, 7n., 9, 10, 11 e n., 12n., 13 e n., 14, 15, 17, 23 e n., 24 e n., 30, 33n., 34, 40 e n., 46, 47n., 50, 54 e n., 55 e n., 56, 59, 67n., 71, 76n., 79 e n., 85 e n., 86 e n., 87 e n., 88 e n., 89n., 90 e n., 91 e n., 92 e n., 93 e n., 94 e n., 96, 97 e n., 98n., 99, 103n., 109 e n., llln ., 128n., 132 e n., 143 e n., 147n., 150n., 153,158,159n., 162, 168, 178 e n., 183, 193, 196 Lang, Joseph lOn. Langoschi, Ottaviano 18ln. Lanza, Antonio 53n. Larivaille, Paul 171n. Lasca, vd. Grazzini, Anton Francesco Lattanzio, Lucio Celio Firmiano 93n. Laura (del Petrarca) 115n., 157 Lausberg, Heinrich 8n. Lauvergnat-Gagnière, Christiane 33n. Lebeau, Jean lOn. Lecari, Donato 156n. Lenzi, Floremi 132n. Leone X 13, 149, 202 Leoni, Giovanfrancesco 115n., 117n., 118 Leoniceno, Niccolô 33n. Leucippo 219, 220 Licurgo 217, 222 Lino 219

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Lionardi, Gianiacopo 106n., 170, 175n. Livio, Tito 113n. Loi, Maria Rosa 17n. Lollio, Alberto 102, 167n., 172n. Longhi, Silvia 5n., 6n., 14n., 20n., 24n., 27n., 37n., 44n., 52n., 80n., 97n., 107n., 110n., llln ., 116n., 143n., 158n., 173n., 174n. Longiano, Fausto 106n., 107 Longo, Nicola 20n., 105n., 113n., 144n. Luca (l’evangelista) 188, 226 Luciano di Samosata 9 e n., 17n., 23, 24, 25, 32 e n., 33 e n., 60n., 106n., 122n., 127n., 128, 157n. Lucilio Iuniore, Gaio 102n. Lucio (protagonista dell’Asino d’oro di Apuleio) 148n. Lucrezia 108 Lugnani, Lucio 5n. Luna 218, 219 Lupi, Filiberto Walter 8n., 135n. Lutero, Martin 89, 140n., 148, 202 Macchia, Salvestro 167n. Machiavelli, Niccolô 13n., 42, 53n., 66 e n., 82n., 124, 125n., 133, 150n., 171 e n., 172n. Madruzzo, Cristoforo (cardinale di Trento) 54n. Maffei, Sonia 134n. Maggi, Vincenzo 46, 94n. Mainardi, Arlotto detto il Piovano Arlotto 51, 53n., 58 e n., 159 e n. Maioraggio, Marcantonio 93n. Malatesta, il 83n., 106n. Malipiero, Gian Francesco 116n. Malloch, Archibald Edward 8n. Mammarello, Benedetto 72n. Manganello, il 208 Manilio, Sebastiano 102n. Manthen, Johann 41 Manuzio, Aldo il giovane 80, 114n. Manuzio, Paolo 169 Manzi, Pietro 68 e n. Maometto 149, 208 Maragoni, Gian Piero 44n. Marchand, Jean-Jacques 82n. Marchi, Galeazzo 170 Marcione 23 Marco (l’evangelista) 188, 226 Marcolini, Francesco 2, 29n., 31n., 44, 68n., 99n., 100n., 105, 123 e n., 167n., 169 Margolin, Jean-Claude 9n., 135n.

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INDICE DEI NOMI

Mari, Michele 24n., 154n. Maria (madré di Cristo) 91n., 189 Marini, Andrea 14 Marino, Giambattista 116n., 14ln., 153 Marmitta, Iacopo 38 Marsh, David 33n. Marte 218, 219 Martelli, Lodovico 44n., 107n. Martellini, Manuela 4 Martignago, Federica 163n. Marzagattone (o Mazzagottone) 199 Masi, Giorgio 4, 29n., 31n., 33n., 35n., 37n., 86n., 89n., 100n., 102n., 123n., 124n., 132n., 133n., 160n., 162n., 164n., 165n., 166n., 173n., 174n. Matteo (l’evangelista) 188, 226 Matteo di Biello 112n. Mattioli, Emilio 9n., 32n. Mauro, Giovanni 83n., 107 e n., 175 e n. Maylender, Michele l l l n . Mazzacurati, Giancarlo 19n., 30n., 83n., 133n., 160n. Medici (famiglia) 121 Medici, Cosimo de’ 113n. Medici, Ippolito de’ 119n., 134 Melzi, Gaetano 14n., 138n. Menandro di Laodicea 6n. Menelao 108 Mentolone, il 176n. Mercurio 161, 218, 219 Merici, Angela 46n. Merola, Nicola 4 Messalla 23 Messia, Pietro vd. Mexîa, Pedro Mestola, il 174 Mexîa, Pedro (o Pietro Messia) 2, 22 e n., 26, 47 e n., 73 e n., 153, 184, 185 e n., 188 e n., 189, 190, 211, 226-31, 235 Meyrat, Giuliamaria 11 On. Mida 45, 91n., 130n. Mifiboset 225, 226 Minerva 58, 148, 202 Miranda, Salustio (pseud, di Giulio Cesare Croce) 74 Mischiati, Oscar 69n. Mitridate 222, 223 Modio, Giovan Battista 37, 38n. Molza, Francesco Maria (vd. anche Padre Siceo) 25, 44n., 103, 107 e n., 116n., 12 ln., 175 Monsignor di Larina 212 Monti, Scipione de’ 25n., 15ln.

Moretti, Franco 3n. Moretti, Gabriella 8n. Moria 75, 128 e n., 129n., 139, 140 e n. Morini, Luigina 40n. Moro, Giacomo 105n., 114n. Moro, Tommaso (Thomas More) 33n., 67n., 218 Mosè 38n., 172n., 225, 227 Mulinacci, Anna Paola 29n., 34n., 134n., 168n. Muschio, Andrea 113n. Museo 24, 219 Mutini, Claudio 11 On. Muzio, Girolamo 109, 180 Muzio Scevola 108, 112n. Nabal 226 Nabucodonosor 117 Nannini, Remigio, detto Remigio Fiorentino 10n., 13 Nardi, Jacopo 113n. Narvaes, dottor (interlocutore del Dialogo del Contentioso) 185, 186, 187, 191 Nasone (sesto Re della virtù) 115n. Naudé, Gabriel 42n. Navô, Curzio 107 Nelli, Pietro 37 e n., 115 Nembrot 31, 112n. Nerone, Lucio Domizio 46, 190, 195, 222, 223, 228, 232, 235 Nettuno 113 Nisticô, Renato lOOn. Noè 147 e n., 177n., 208 Nores, Iacopo de’ 86n. Numa Pompilio 208 Odoni, Giovanni Angelo 87n. Olivieri, Achille 55n. Omero 23, 25, 29n., 74n., 217, 219 Onagrio, 1’ 57n., 123n., 124 Orapollo 163n. Ordine, Nuccio 4, 43n., 45n., 46n., 48n., 49n., 60n., 61n., 67n., 72n., 110n., 122n., 124n., 125n., 13 ln., 133n., 135n., 141n., 148n., 151n., 185n. Orfeo 24, 74n., 219 Origene 56 e n. Ortensio Ortalo, Quinto 220, 221 Osiride 21 Ossola, Carlo 20n. Otomel (o Otoniel) 225, 226 Ottone di Persia 222

INDICE DEI NOMI

Ovidio, Publio Nasone 45 e n., 113n. Paganini, Alessandro 12 Pallade (epiteto di Atena) 61n. Pampaloni, Geno 53n. Panizza, Letizia 8n., 33n. Pannartz, Arnold 43 Panuzio 112n. Paolo, santo 96, 201 Paolo III, papa 89n., 110 Paolo IV, papa 144 Parabosco, Girolamo 125n. Paradin, Claude 168n. Paradiso, Calisto 46 Paride 108 Parmenide 219, 220 Pasqualigo, Marco 35 e n. Pasquino 149, 156 e n., 199 Passerat, Jean 39, 44n. Pastore, Alessandro 78-79n. Pastore Stocchi, Manlio 163n. Pazzia (vd. Moria) Pecori, Orlando 173n. Pedro de Toledo 61n. Pelato, il 171 Pellegrini, Antonio 23n., 142n. Pellizzari, Patrizia 43n., 112n., 132n., 134n., 154n., 160n., 165n„ 166n., 172n., 173n. Penni, Giovanni Giacomo (vd. anche Philomathes) 41n. Percacino, Grazioso 33n., 46 Perfetti, Stefano 41n. Pericle 216 Pemot, Laurent 6n., 27n., 52n., 55n., 120n., 12 ln., 126n., 140n. Perrelli, Raffaele 4 Perrone Compagni, Vittoria 39n. Persio, Ascanio 138 e n. Petrarca, Francesco 10 e n., 12 e n., 31, 35n., 77, 88n., 95n., 103, 115n., 116, 125n., 157, 176n., 212 Philomathes (pseud, di Giovanni Giacomo Penni) 41n. Piccolomini, Alessandro 94n., 180 Piccolomini, Marc’Antonio (vd. anche il Sodo) 80 e n., 14ln. Pico della Mirandola, Giovan Francesco 77, 78n. Pico della Mirandola, Giovanni 20n., 135n. Piéjus, Marie Françoise 51n., 52n. Pierazzo, Elena 29n., 31n., 32n., 33n., 34n., 35n., 36n., 131n., 134n., 160n., 179n., 212

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Piero di Neri dalla Palaia 37n. Piero T. 162, 167n. Pierozzi, Antonino 58n. Pietro, santo 137, 208 Pignatti, Franco 32n., 58n., 79n., 160n. Pino, Giovan Battista 1, 43 e n., 56n., 60, 61n., 64, 65, 66n., 67, 68, 69n., 117n., 127n., 148n. Pio, Emüia 20n. Pio, Rodolfo 80 Pipo, Zoilo 156n. Pippa (madonna) 57n. Pitagora 24, 87, 127n. Pizzamiglio, Gilberto 4 Plaisance, Michel 133n., 134n., 160n. Platone 18n., 63, 76n., 78n., 8 1 ,9 8 ,121n., 157, 180, 183n., 216, 217, 220, 221, 222, 223 Plinio, Secondo Gaio, detto Plinio il Vecchio 40, 41, 46n., 62 e n., 63, 71n., 122n., 130, 184,189,190,216, 223,224,227,228,232, 233, 234, 235 Plutarco 9, 23, 42 e n., 59n., 60n., 94n., 122n., 130, 229, 230, 233, 234, 235 Plutone 113 Poggio (nunzio apostolico) 202 Poissenot, Bénigne 9n. Pole, Reginald 37n. Policrate 23, 24 Poliziano, Angelo 32n., 93n. Polo, Marco 71n. Poppea Sabina 46, 190, 228, 232, 235 Porfirio 56 e n. Porzio, Simone 40 Possevino, Antonio 180 Pozzi, Mario 17n., 18n., 19 e n. Prandi, Stefano 42n. Praz, Mario 134n. Présidente dell’Accademia Peregrina 162 e n. Prevosto di Fiesole 214 Priapo 109 Procaccioli, Paolo 4 ,9n., 10n., 30n., 33n., 60n., 63n., 79n., 88n., 91n., 92n., 106n., 109n., llln ., 140n., 143n., 149n., 162n., 164n., 175n. Prometeo 219 Prosperi, Adriano 3 e n., lin ., 37n., 52n. Protagora 25 Prowidera, Tiziana 40n., 127n., 182n. Puccio (frate) 51, 158, 159 Pugliese Carratelli, Giovanni 40n., 127n., 182n.

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INDICE DEI NOMI

Pulci, Luigi 41n., 173n. Pulliccia 113, 198 Quondam, Amedeo 6n., 20n., 40n., 68n., 91n., 94n., 99n., 100n., 102n., 105n., 106n., 110n., 115n., 118n., 133n., 15 ln., 164n., 180n., 186n. Rabelais, François 39 Raimondi, Ezio 80n., 98n. Ramberti, Benedetto 114n. Rampazetto, Francesco 33n. Rao, Cesare 2, 22n., 24, 25 e n., 26, 37n., 40, 45n., 53n., 70 e n., 71, 73n., 75n., 128n., 130n., 151-91, 211, 213-34 Rao, Mario 156n., 157n. Re della Virtù 118 e n., 120, 197 Re Fiorentin, Simona 165n., 166n., 167n., 169n. Regoliosi, Mariangela 160n. Remigio Fiorentino, vd. Nannini, Remigio Rhodes, Dennis E. 119n. Ricchi, Agostino 106n., 108 Riccio, Luigi 164 Rice, Warner G. 9n. Ricottini Marsili-Libelli, Cecilia 123n., 13 ln., 173n. Righetto 57n. Rigo, Paola 163n. Rigoni, Mario Andrea 4, 153n., 163n. Ripa, Cesare 134n. Rivoletti, Christian 67n., 86n., 134n., 173n. Roaf, Christina 18n. Romano, Angelo 9n., 10n., 41n., 106n., 162n. Romei, Danilo 5n., 77n., 78n., 107n., l l l n . Romolo 203 Ronchini, Giovanni 166n. Rorario, Girolamo 42n. Rorario da Pordenone, Gregorio 131, 179n., 207 Rosselli, Giulio 33n. Rossi, Massimiliano 29n., 134n., 168n. Rouzeau-Montaut, Jean 113n. Rozzo, Ugo 15n., 144n., 148n., 149n. Russo, Emilio 114n. Salabaetto 176 e n. Salinari, Giambattista 54n. Salso, Bemardo 138 Salviani, Orazio 15ln. Samuele 225 Sanesi, Ireneo 14n., 40n.

Sannazaro, Iacopo 103 Sansone 50, 130, 184 Sansovino, Francesco 73 e n., 116n., 128n. Santa Fiore (cardinale) 167n. Santagata, Marco 5n. Santippe 180n. Sarra, Girolamo 106n. Sasso, Gennaro 172n. Satumo 97n., 218, 219 Saul 225, 226 Savarese, Gennaro 43n., 44n. Savonarola, Girolamo 176n. Scala, Aidee 42n. Scaligeri della Fratta, Camillo (pseud, di Adriano Banchieri) 68n., 72n. Scarano, Emanuella 133n. Schifa-il-poco (madonna) 65 Scoto, Duns 89 Scotto, Girolamo 116 Scrivano, Riccardo 43n., 67n., 132n. Seidel Menchi, Silvana 3 e n., 55n., 67n., 87n., 89n., 90n., 91n., 149n. Selmi, Elisabetta 55n., 57n. Selvaggia (Isabetta Guasca) 116 Sem 147, 177n., 208 Semiramide 201 Seneca, Lucio Anneo 23, 24, 58, 102n. Senofane 219 Senofonte 18n., 122n., 220 Seripando, Gerolamo 79n. Sesto Tarquinio 108 Sfera, Francesco 99n. Sforza, Isabella lOn. Siba 225 Siceo (padre), pseud, di Francesco Maria Molza, 12 ln., 175, 197 Sileno 117, 141, 183 Simonin, Michel 9n., 43n., 13 ln. Sinesio di Cirene, detto Crisostomo 23, 24, 143 e n. Sino 60n. Socrate 57n., 137, 157 e n., 180n., 216, 220 Sodo, il (nome accademico di Marc’Antonio Piccolomini) 16, 80n. Soletario, Anonimo 13n. Solino, Gaio Giulio 41 Solone 222 Sorella, Antonio 115n. Sorrenti, Zaira 4 Spampanato, Vincenzo 48n. Speroni, Sperone 17 e n., 18 e n., 19, 94n., 114n., 167n., 180

INDICE DEI NOMI

Spila, Cristiano 24n., 52n., 154n. Spina, Bernardo 94n., 114n. Stampa, Massimiano 173n., 174 Stefanini, Alberto 133n. Stentato (ser), pseud, di Giulio Landi, 118, 119n., 12 ln., 122n., 197 Stiracchia, lo 176n. Stoppelli, Pasquale 16ln. Storella, Francesco Maria 151n. Storella di Alessano, Sansonetto 156n. Strabone 130, 224 Strappini, Lucia 74n. Stratone di Lampsaco 220 Strozzi, Francesco 171 Stussi, Alfredo 5n. Sughi, Cesare 7n. Sultzbach, Giovanni 68n. Sunamite 225, 226 Svegliato Accademico Peregrino 162n. Svetonio Tranquillo, Gaio 190, 228, 235 Sweynheim, Conrad 43 Tacuino, Giovanni 143n. Talete 136n., 182 e n., 218 Tarcagnota, Giovanni 60n., 94n. Tardiff, Antoine 152 e n. Tarquinio il Superbo 133 Tasso, Torquato 80n., 84n., 14ln., 185n. Tassoni, Alessandro 153 Temisone 23 Teodoro di Cirene 221 Teodosio I il Grande 219 Teofrasto 64n., 65 Terenzio Afro, Publio 84n. Tersite 23 Tessa, monna 51, 53 e n. Textor, Ravisius o Testore Ravisio, vd. Tixier de Ravisy, Jean Thamos 76n. Theuth (o Teuda) 76n., 91, 98, 178 Tiberio, Claudio Nerone 219 Timone di Fliunte 220 Tingoccio 53 Tintoretto, Iacopo 168n. Tito Tazio 112n. Tixier de Ravisy, Jean 24n., 56n., 79n., 85n., 143 e n., 157n. Tognon, Giuseppe 12n. Toledo, Pietro Giacomo 61n. Tolomei, Claudio 114n. Tolomeo 96, 218 Tommaso d’Aquino, santo 88

247

Torraca, Francesco 60n. Torre, Andrea 166n. Torre degli Asinelli 72n. Toscan, Jean 36n., 143n., 173n. Toso (signor) 92, 93, 97 Travaglino 1, 43, 50, 55, 56, 57 e n., 58 Tressa (fante di Talete) 136n., 218 Trifone, messer 107 Trissino, Giovan Giorgio 208 Trovato, Paolo 106n. Tuffo, Altobello 157n. Turchi, Francesco 2, 110n., 113 e n., 114 e n., 115,118 e n., 138,143,144,158,179n., 197 Turco, il 202, 203 Ubaldini, Giovan Paolo 14, 15 Ugo, messer 59 Ulgiado Arcifiirfantone 113 Ulisse 12n., 23, 217 Urbani, Rossana l l l n . Vacca, Nicola 40n., 15 ln., 152n. Vaccari, Letizia Chiara 51n., 52n., 53n., 54n., 59n. Vagni, Mauro 46n. Valdés, Alfonso de lll n . Valente, Susanna 94n. Valentiniano I, Flavio 219 Valeriano, Pierio 38n., 44 e n., 45n., 58n., 7778n. Valvassori, Florio 138n. Valvassori, Giovanni Andrea detto Guadagnino 138n. Varchi, Benedetto 107 e n., 116n., 161n., 163n. Varisco, Giovanni 15ln. Varrone, Marco Terenzio 46, 56, 130, 184, 189, 227, 232, 233, 234, 235 Vendramino, Gabriele 134n. Venere 113, 198, 218, 219 Ventura (cuoco di Massimiano Stampa) 173n., 174 Vergine 218 Vergogna, monna 108 Verzone, Carlo 37n., 143n. Vesalio, Andrea 65 Vespasiano, Tito Flavio 222, 223 Viani, Andrea 68n. Vicenzo di San Biasi 152 Vignali, Antonio (Arsiccio Intronato) 16ln. Virgilio, Publio Marone 12n., 23, 25, 180n., 217

248

Vitellio, Aulo 219 Vivanti, Corrado 3n. Volterrani, Silvia 173n. Vulcano 50n., 69, 113 Weinberg, Bernard 19n., 128n. Xanto di Lidia 25 Yates, Frances A. 49n. Zaccarello, Michelangelo 11 In., 163n.

INDICE DEI NOMI

Zaccaria 130n. Zaltieri, Bolognino 110 Zambelli, Paola 39n. Zanco, Elena 163n. Zappella, Giuseppina 29n., 134n. Zatti, Sergio 5n., 14ln., 173n. Zenaro, Damiano 151n. Zeno, Apostolo 113n. Zicotto, lo 176n. Zonta, Giuseppe 37n. Zoroastro 201

Critica e letteratura

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26.

N. Merola, N. Ordine (a cura di), La novella e il comico. Da Boccaccio a Brancati N. Ordine, Teoria della novella e teoria del riso nel Cinquecento V. Roda, Ifantasmi della ragione. Fantastico, scienza efantascienza nella letteratura italiana fra Otto e Novecento E. Giordano, 1llabirinto leopardiano H Bibliografra 1984-1990 (con una appendice 1991-1995) A. M. Di Martino, “Quel divino ingegnou'. Giulio Perticari: un intellettuale tra Impero e Restaurazione B. Pischedda, 77feuilleton umoristico di Salvatore Farina G. A. Camerino, Uirrvenzione poetica in Leopardi: Percorsi eforme L. B. Alberti, Deifira, analisi tematica e formale a cura di A. Cecere L. B. Alberti, De statua, introduzione, traduzione e note a cura di M. Spinetti M. Lessona Fasano, Le ragioni della letteratura. Scritton\ letton\ critici D. Della Terza, M. D’Ambrosio, G. Scognamiglio, Tradizione e innovazione. Studi su De Sanctis, Croce e Pirandello G. Ferroni, Le voci delVistrione. Pietro Aretino e la dissoluzione del teatro M. D’Ambrosio, Futurismo e altre avanguardie F. Minetti, Voce lirica e sguardo teatrale nel sonetto shakespeariano A. M. Pedullà, 77 romanzo barocco ed altri scritti V. Sperti, Ecriture et mémoire. Le Labyrinthe du monde de Marguerite Yourcenar G. Cacciavillani, La malinconia di Baudelaire M. M. Parlati, Infezione delVarte e paralisi della memoria neïle tragédie di John Webster L. Di Michele (a cura di), Tragiche risonanze shakespeariane E. Ajello, A d una certa distanza. Sui luoghi della letterarietà P. Pelosi, Guido Guinizelli: Stilnovo inquieto M. Del Sapio Garbero (a cura di), Trame parentali/trame letterarie E. Giordano, Le vie dorate e gli orti. Studi leopardiani G. Pagliano (a cura di), Tracce d'infanzia nella letteratura italianafra Ottocento e Novecento M. Dondero, Leopardi e gli italiani. Ricerche sul «Discorso sopra lo stato présente dei costumi deglltaliani» F. Fiorentino, G. Stocker (a cura di), Letteratura svizzero-tedesca contemporanea

27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 46. 47. 48. 49. 50. 51.

A. R. Pupino, La maschera e il nome. Interventi su Pirandello R. Mallardi, Lewis Carroll scrittorefotografo vittoriano. Le voci del profondo e r«inconscio ottico» V. Gatto, Benvenuto Cellini. La protesta di un irregolare L. Strappini (a cura di), I luoghi delVimmaginario barocco V. Sperti, La parola esautorata. Figure dittatoriali nel romanzo africano francofono P. Pelosi, Principi di teoria della letteratura S. Cigliana, Futurismo esoterico. Contributiper una storia delVirrazionalismo italiano tra Otto e Navecento G. A. Camerino, Italo Svevo e la crisi della Mitteleuropa AA.W ., La civile letteratura. Studi sulVOttocento e il Navecento offerti ad Antonio Palermo. Volume I: UOttocento L. Di Michele, L. Gafluri, M. Nacci (a cura di), Interpretare la differenza. E. Ettorre, R. Gasparro, G. Micks (a cura di), 77 corpo del mostro. Metamoifosi letterarie tra classicismo e modemità T. Iermano, Esploratori delle nuave Italie. Identità regionali e spazio narrativo nella letteratura del secondo Ottocento M. Savini (a cura di), Presenze femminili tra Ottocento e Navecento: abilità e saperi A. M. Pedullà (a cura di), Nel labirinto. Studi comparati sul romanzo barocco AA.W., La civile letteratura. Studi sulVOttocento e il Navecento offerti ad Antonio Palermo. Volume II: 77Navecento E. Salibra, Voci in Juga. Poeti italiani del primo Navecento E. Rao, Heart o f a Stranger. Contemporary Women Writers and the Metaphor o f Exile E. Candela (a cura di), Letteratura e cultura a Napoli tra Otto e Navecento G. Baldi, Narratologia e critica. Teoria ed esperimenti di lettura da Manzoni a Gadda R. Mullini, R. Zacchi, Introduzione alio studio del teatro inglese C. De Mattéis, Filologia e critica in Italia fra Otto e Navecento G. Pagliano (a cura di), Presenzefemminili nel Navecento italiano. Letteratura, teatro, cinema T. Iermano, Raccontare il reale. Cronache, viaggi e memorie nellltalia delVOttoNavecento S. Baiesi, Pioniere in Australia. Diari, lettere e memoriali del periodo coloniale 1770-1850

52. 53. 54. 55.

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56. 57. 58. 59. 60. 61. 62. 63. 64. 65. 66. 67. 68. 69. 70. 71. 72. 73. 74. 75. 76. 77. 78. 79. 80. 81. 82.

D. Monda, Amore e altri despoti. Figure, terni e problemi nella civiltà letteraria europea dal Rinascimento al Romanticismo G. A. Camerino, La persuasione e i simboli. Michelstaedter e Slataper G. Scognamiglio, L universo poetico di Moriconi L. Di Michele (a cura di), Shakespeare. Una “Tempesta”dopo Valtra G. Cacciavillani, “Questo libro atroce”. Commenti ai Fiori del male V. Sperti, Fotografia e romanzo. Marguerite Duras, Georges Perec, Patrick Modiano G. Pagliano (a cura di), Presenze in terra straniera. Esiti letterari in età modema e contemporanea M. Bottalico e M. T. Chialant (a cura di), Lmpulso autobiografico. Inghilterra, Stati Uniti Canada... e altri ancora M. G. Nico Ottaviani, “Me son missa a scriver questa letera... ”. Lettere e altre scritturefemminili tra Umbria, Toscana e Marche nei secoli XV-XVI R. Birindelli, Individuo e società in Herzog di Saul Bellow A. R. Pupino (a cura di), Matilde Serao. Le opere e igiom i G. Baldi, L'artificio della regressione. Tecnica narratrva e ideologia nel Verga verista S. Bigliazzi, Nel prisma del nulla. L'esperienza del non-essere nella drammaturgia shakespeariana R. Zacchi (a cura di), La scena contestata. Antologia da un campo di battaglia transnazionale L. Di Michele (a cura di), La politica e la poetica del mostruoso nella letteratura e nella cultura inglese e anglo-americana M. C. Figorilli, Machiavelli moralista. Ricerche sufonti, lessico efortuna E. Candela e A. R. Pupino (a cura di), Salvatore di Giacomo settanfanni dopo G. Baldi, Pirandello e il romanzo. Scomposizione umoristica e «distrazione» M. Morini e R. Zacchi (a cura di), Forme della censura M. H. Laforest (a cura di), Questi occhi non sono per piangere. Donne e spazi pubblici A. D’Amelia, F. de Giovanni, L. Perrone Capano (a cura di), Scritture delTimmagine. Percorsifigurativi della parola M. C. Figorilli, Meglio ignorante che dotto. Lelogio paradossale in prosa nel Cinquecento C. Mucci, Tempeste. Narrazioni di esilio in Shakespeare e Karen Blixen T. Iermano, Le scritture della modernité. De Sanctis, D i Giacomo, Dorso E. Candela e A. R. Pupino (a cura di), Napolinellmmaginario letterario deffltalia unita E. Candela (a cura di), Studi sulla letteratura italiana della modernité, vol. I G. Baldi, Le ambiguité della *decadenza». DAnnunzio romanziere