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Italian Pages 357 Year 2004
Carlo Maria Lomartire MATTEI Storia dell'italiano che sfidò i signori del petrolio MONDADORI una delle figure più rappresentative e controverse del dopoguerra. La sua morte è uno dei «grandi misteri» dell'Italia contemporanea. Se spesso si è parlato della tragica scomparsa di Mattei, poco si è detto della sua vicenda personale e della sua parabola politica. La storia del manager marchigiano e quella del nostro paese si intrecciano per oltre un ventennio: nel periodo della Resistenza, a cui partecipa come comandante delle formazioni partigiane cattoliche; negli anni difficili e convulsi dell'immediato dopoguerra, quando diventa presidente dell'Agip, che gli era stato chiesto di liquidare e che invece risana e potenzia; nel decennio in cui è a capo dell'Eni, allorché mette le basi dell'unica vera multinazionale italiana. La sua eccezionale vicenda umana e professionale è segnata soprattutto dalla volontà di dare all'Italia quell'indipendenza energetica che le avrebbe permesso di entrare a far parte dell'aristocrazia internazionale del petrolio. L'ossessione per l"«oro nero», che Mattei non riuscirà mai a trovare in quantità tali da essere accolto nel «club dei grandi», lo porterà al punto di bluffare sulle nostre effettive risorse e a destabilizzare il mercato energetico attraverso accordi commerciali, contrari agli interessi delle cosiddette Sette Sorelle, con alcune nazioni produttrici. Per i suoi sostenitori, Mattei è il terzomondista e l'antiamericano che lotta contro l'arroganza delle grandi potenze neocolonialiste, il paladino dei paesi in via di sviluppo che tentano di liberarsi dal rapporto subordinato con chi sfrutta le loro ricchezze. Per i suoi denigratori, è l'antiliberista che abusa del controllo sull'energia di Stato per condizionare la vita economica e politica italiana, un uomo che elargisce senza scrupoli denaro pubblico per i suoi scopi. Qualcuno, per il suo rapporto spregiudicato con la politica e i partiti, oggi lo considera addirittura il «padre di Tangentopoli». Famosa è la sua frase: «Per me i partiti sono come dei taxi, li prendo, mi faccio portare dove voglio e alla fine della corsa pago e scendo». Carlo Maria Lomartire ci offre il primo ritratto complessivo - al di là delle congetture sulla tragica fine e dello stereotipo del «grande boiardo» di Stato - di una figura chiave del ventennio postbellico, uno dei principali artefici del passaggio dell'Italia da paese agricolo a potenza industriale. Carlo Maria Lomartire, giornalista, si è sempre occupato di temi economici e politici. È stato, fra l'altro, inviato speciale del «Giorno». Ha curato i servizi di economia e finanza per i telegiornali Rai dalla sede di Milano. È stato caporedattore per l'economia del Tg5, vicedirettore di Studio Aperto, responsabile editoriale di Mediavideo. Attualmente è vicedirettore di VideoNews. ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO GRAPHIC DESIGNER: ANDREA GEREMIA L'Editore ha ricercato con ogni mezzo i titolari dei diritti fotografici senza riuscire a reperirli: è ovviamente a piena disposizione per l'assolvimento di quanto occorra nei loro confronti. www. librimondadori. it ISBN 88-04-52666-1 © 2004 Arnoldo Mondadori Editore S. p.A., Milano I edizione maggio 2004 INDICE MATTEI A mia moglie Lella, compagna dolce e paziente
Capitolo Primo LA NATIA ACQUALAGNA «Giuseppe Musolino è morto questa mattina a Reggio Calabria all'età di 80 anni. Nato il 26 settembre 1876 a Santo Stefano in Aspromonte, era noto come il brigante Musolino.» È il tardo pomeriggio del 22 gennaio 1956. Le telescriventi delle agenzie di stampa hanno appena finito di battere queste poche parole. All'Eni, chi riceve quel testo conosce, come tutti i dipendenti dell'ente petrolifero, la storia di Enrico Mattei, almeno per come gliel'hanno raccontata, e intuisce che la notizia è di grande interesse personale per il loro capo, una notizia che potrebbe risvegliare in lui ricordi remoti ed evocare emozioni profonde. Si affretta perciò a portare il foglio di carta a Fiorenza Giacobbe, la severa, ostica e potentissima segretaria del «principale» - così, con affettuosa deferenza, Mattei è chiamato dai dirigenti e dalle persone del suo staff in questi primi anni di vita dell'Eni. La Giacobbe legge, come al solito non muove un muscolo della faccia e senza guardare negli occhi la persona che le ha portato quel dispaccio la congeda con un secco «grazie». Anche lei, come tutti lì, sa che Musolino è stato catturato da un eroico sottufficiale dei carabinieri, il brigadiere Antonio Mattei, il padre del «principale». Un episodio che, sebbene accaduto quasi cinque anni prima che Enrico Mattei venisse al mondo, era stato rivissuto tante volte nei racconti serali del papà e nelle pagine di giornali dell'epoca religiosamente conservati, e aveva segnato profondamente la personalità e la formazione etica del bambino, indicandogli la strada della perseveranza tenace, della silenziosa dedizione al dovere, dello spirito di servizio, insieme al senso della disciplina e del comando trasmesso dal genitore carabiniere nella vita di tutti i giorni. 4 La signorina Giacobbe, insomma, sa benissimo che se il «principale» è quel grand'uomo che tutti in Italia stanno imparando a conoscere lo si deve anche a quel remoto avvenimento, la cattura del brigante Musolino. Perciò si alza e va a bussare alla porta dell'ufficio di Mattei. Al solito «sì?» entra, si avvicina decisa alla scrivania e mostra il piccolo foglio di carta velina al suo capo. Mattei legge, si appoggia per qualche secondo allo schienale della poltrona, poi si alza e va verso la finestra. La sede milanese dell'Agip e dell'Eni è ancora a palazzo Serbelloni, un bell'edificio del XVII secolo al numero 16 di corso Venezia. Una sede che sta per essere abbandonata: entro tre mesi, infatti, è prevista l'inaugurazione del primo lotto di Metanopoli, la «cittadella degli idrocarburi» voluta da Mattei a San Donato Milanese, alle porte meridionali della metropoli, da dove sta per partire verso sud l'Autostrada del Sole, la Al, madre del sistema autostradale italiano, prima grande opera della Repubblica, i cui lavori saranno inaugurati fra quattro mesi, realizzata anche grazie all'iniziativa e al contributo finanziario dell'Eni, preannuncio e sostegno della motorizzazione di massa del paese. Ma in questa sera d'inverno del 1956, nel centralissimo tratto di strada a due passi da piazza San Babila, attraverso la nebbia di gennaio che ancora arriva fino nel cuore di Milano, Mattei vede passare vecchie Fiat Topolino e qualche più moderna 1100, una bella Lancia Appia - un modello nato appena tre anni prima -, una desideratissima neonata Alfa Romeo Giulietta. Di Fiat 600, ultima creatura della casa torinese, neppure una. Presentata pochi mesi prima al Salone di Ginevra come l'automobile che avrebbe portato anche in Italia la motorizzazione di massa, sarebbe dovuta diventare ciò che trent'anni prima era stata per gli Usa la Ford «T». Se la motorizzazione di massa è ancora lontana, però, Milano è comunque la città più motorizzata del paese, e osservando il traffico Mattei pensa - come gli accade tutti i giorni e molte volte al giorno - che ha il dovere di fornire benzina italiana a tutte quelle vetture italiane. Questa è la sua missione civile e patriottica, per questo ha salvato l'Agip dalla liquidazione, per questo ha fondato l'Eni. «Se in questo paese sappiamo fare le automobili dobbiamo 5
saper fare anche la benzina» è la battuta che ama ripetere spesso a un uomo politicamente distante ma caratterialmente simile a lui, il presidente della Fiat Vittorio Valletta, del quale è diventato amico dopo averlo conosciuto due anni prima e col quale condivide un grandioso progetto: la motorizzazione di massa come primo passo per fare dell'Italia una grande potenza industriale. Ma subito la sua mente torna al padre Antonio, morto cinque anni prima, e ai suoi racconti della cattura del brigante Musoli- no, ascoltati tante volte da ragazzo mentre passeggiavano per le strade di Matelica o a casa, davanti al focolare dopo la cena frugalissima. «Maledittu chillu filu» ringhiò Giuseppe Musolino in strettissimo calabrese aspromontano, l'unico idioma che fosse in grado di parlare, dibattendosi furiosamente fra i due carabinieri reali che, dopo un lungo inseguimento, gli erano piombati addosso immobilizzandolo. Erano riusciti a raggiungerlo perché aveva commesso un errore: abbandonato lo stretto viottolo in terra battuta, per sfuggire ai due militi si era inoltrato tra due filari di viti in una delle tante vigne che ricoprivano le alture di località Fameta, nel territorio di Acqualagna, pochi chilometri a sud di Urbino. Ma era ormai quasi sera e a causa dell'oscurità era inciampato in un filo spinato rimanendovi impigliato per qualche secondo, il tempo sufficiente perché i carabinieri lo raggiungessero. Certo, se Domenico Feliziani di Braschi, presso Perugia, e Antonio La Serra di San Ferdinando, Foggia, avessero anche solo sospettato di avere a che fare con il famigerato, sanguinario, ricercatissimo e leggendario brigante Musolino, forse sarebbero stati meno insistenti nell'inseguimento e più prudenti nell'affrontare quell'uomo. Li aveva insospettiti l'abbigliamento, alquanto diverso da quello dei contadini marchigiani, e il fatto che sembrasse camminare senza una meta precisa, come se si fosse perso, come se non conoscesse la zona. Siamo alla fine di ottobre del 1901, ma in realtà già da tempo l'equilibrio psichico di quello che nell'Italia postumbertina era considerato il nemico pubblico numero uno dava segni di grave instabilità. Perciò la sensazione che due uomini di legge 6 lo stessero osservando mise in allarme il bandito di Santo Stefano in Aspromonte, che affrettò l'andatura inoltrandosi nella campagna. D'altra parte la sua paranoia aveva qualche giustificazione: oltre a ritenere ingiusta la condanna che gli era stata comminata, ai suoi occhi pareva assurdo l'enorme spiegamento di forze per riportarlo in galera. Infatti, dopo quasi tre anni di caccia al bandito attraverso mezza Italia, lo Stato aveva già speso più di un milione di lire di allora, qualcosa come tre milioni e mezzo di euro, impiegando migliaia di poliziotti, carabinieri e soldati. A poco più di un anno dallo shock dell'assassinio del re Umberto di Savoia a Monza, la pressione dell'opinione pubblica per una rapida cattura di Musolino era fortissima. Il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti era costretto quasi ogni settimana a rispondere a interrogazioni e interpellanze parlamentari e dal governo la pressione si trasferiva direttamente sul prefetto di Reggio Calabria La Mora, che aveva creato una specie di pool incaricato di coordinare una caccia all'uomo senza tregua. Quando Musolino seppe da una «talpa», probabilmente un impiegato della prefettura, che si stava organizzando un'operazione di strettissimo rastrellamento dell'Aspromonte, utilizzando anche l'esercito, capì che era il momento di cambiare aria e lasciò la Calabria per dirigersi al Nord. Tutto era cominciato il 27 ottobre 1897, quando il ventunenne boscaiolo di Santo Stefano in Aspromonte, Giuseppe Musolino, figlio di Giuseppe e di Mariangela Filastò, venne ai ferri corti col mulattiere Vincenzo Zoccali per un piccolo regolamento di conti rusticano. Qualche settimana prima, una lite per una partita di nocciole aveva portato i due compaesani davanti al giudice conciliatore il cui verdetto, naturalmente, non era stato accettato. I litiganti perciò, secondo il costume aspromontano di allora, si rivolsero a due amici compari e protettori incaricati di dirimere la questione e, se necessario, di assisterli nel ricorso finale al coltello. Duello che regolarmente avvenne e durante il quale Giuseppe
rimediò una ferita a una mano. Due giorni dopo, poco prima dell'alba, mentre Zoccali si trovava nella sua stalla, qualcuno sparò contro di lui un paio di fucilate mancandolo. Per quell'attentato, Zoccali denunciò 7 Musolino ai carabinieri che si misero alla sua ricerca. Avvertito dai parenti, il giovane boscaiolo, che forse non sarebbe neppure stato arrestato sulla base di quell'unico labilissimo indizio, si diede alla macchia. Dopo una breve latitanza venne arrestato, processato e condannato a ventun anni di carcere: le sue furiose dichiarazioni di innocenza e l'appassionata difesa dell'avvocato Biagio Ca- magna non servirono a nulla: la fuga venne considerata dalla corte alla stregua di una tacita ammissione di colpevolezza, il residuo pregiudizio piemontese e ideologico nei confronti del «brigantaggio meridionale» fece il resto. Rinchiuso nel carcere di Gerace, nel gennaio del 1899 evase con l'aiuto della «pic- ciotteria» locale (ma soprattutto, racconterà Musolino, di san Giuseppe) e raggiunse fortunosamente Santo Stefano per salutare i suoi parenti, che gli consigliarono di rifugiarsi in America. Il suggerimento non era campato in aria: oltreoceano avrebbe potuto contare su importanti e affidabili collegamenti. A Toronto, per esempio, in quegli anni nella zona del porto comandava, taglieggiando commercianti e gestendo bische clandestine, Joe Musolino, cugino di Giuseppe. Quest'ultimo, però, non pensava che a vendicare le ingiustizie subite, e vendetta giurò davanti alla tomba della sua amatissima e venerata madre. E nei quasi tre anni di latitanza che seguirono, la vendetta esplose feroce, sanguinaria e indiscriminata: uccise a fucilate uno zio e un nipotino di Zoccali, una guardia municipale che gli aveva dato la caccia, una donna che aveva testimoniato contro di lui al processo, due compaesani che considerava «spie», poi due coniugi, anch'essi testimoni a carico... una strage! Intanto la stampa seguiva le sue imprese con grande interesse, descrivendolo come un rivoluzionario dall'animo semplice istintivamente impegnato nel riscatto delle plebi meridionali e arrivando quasi a farne un mito. Il personaggio di Musolino suggestionava i socialisti e i poeti, tanto che Giovanni Pascoli, che era l'uno e l'altro, gli dedicò un'ode, e forniva ottimi spunti retorici ai primi meridionalisti e a tutti i teorici del «Risorgimento tradito». Per i giornali naturalmente si trattava di una ghiottoneria: sul «Corriere della Sera» era Augusto Guido Bianchi (che aveva seguito il processo Dreyfus e aveva reso popolare in Italia la neonata bicicletta, allora «velocipede») a seguirne le imprese, mentre all'estero quotidiani come il francese «Journal de Paris» e il britannico «Daily Express» non perdevano l'occasione di raccontare ai loro lettori l'Italia pittoresca e primitiva che si aspettavano. La fuga spingeva Giuseppe sempre più a nord lungo la Penisola, in treno, a piedi, a cavallo o a dorso di mulo, con una taglia record di 50.000 lire sulla testa e centinaia di uomini alle calcagna. Fino ad Acqualagna, dove, quella sera di ottobre del 1901, fu catturato dai due carabinieri. Musolino, stremato dal lungo inseguimento, venne condotto in caserma, dove ad attenderlo c'era un brigadiere abruzzese trentatreenne, Antonio Mattei, di Civitella Roveto in provincia dell'Aquila. Il sottufficiale sulle prime, pensando di avere davanti un ladro di polli, fu quasi infastidito da quella che considerava una seccatura. Sennonché il brigante commise un errore: disse di chiamarsi Colafini e di venire da Pescara. A Mattei l'accento del prigioniero non sembrava affatto delle sue parti, semmai meridionale, molto meridionale. Cominciò a osservare con maggior attenzione quell'uomo vestito in modo strano: calzoni color caffè, giacca di velluto scuro alla cacciatora, berretto da ciclista, al collo un fazzoletto bianco annerito dalla fuliggine, come di chi aveva fatto molta strada in treno. La perquisizione del fermato rafforzò i sospetti dei carabinieri che gli trovarono addosso una rivoltella, un pugnale, un rasoio, un calendarìetto profumato con immagini di donnine discinte, di quelli regalati dai barbieri ai clienti, una discreta somma di denaro, 280 lire - quasi 1000 euro -, e una lettera per il fratello, ancora priva di indirizzo, con 25 lire per la Madonna del santuario di
Polsi in Aspromonte. Dunque non c'erano dubbi, l'uomo era un calabrese, probabilmente latitante. Che a questo punto commise il secondo grave errore: offrì 200 lire al brigadiere perché lo lasciasse libero: «Se mi arresta, i miei affari sarebbero danneggiati e lei passerebbe dei guai» gli disse in sostanza. Il sottufficiale riuscì a malapena ad afferrare che il brigante stava tentando di corromperlo, e siccome era una persona orgogliosa della propria 9 onestà andò su tutte le furie. Musolino a quel punto capì che non era aria, che ormai buttava malissimo. Si fece prendere dalla disperazione e implorò di essere ucciso. Il brigadiere prudentemente ci dormì sopra e la mattina dopo inviò un rapporto scritto al tenente Levero, che si insospettì e corse da Urbino ad Acqualagna per interrogare il prigioniero. E siccome l'ufficiale aveva trascorso molto tempo in Calabria, riconobbe facilmente l'accento e confermò i sospetti di Mattei. Non restò che telegrafare a Reggio, da dove piombò ad Acqualagna il brigadiere De Bellis, un esperto del pool istituito dal prefetto La Mora. Dopo quattro o cinque giorni i sospetti diventarono certezza: l'uomo era il brigante Musolino. Tutti si complimentarono con il brigadiere Mattei, che per la verità Musolino se l'era trovato quasi per caso fra le mani. Giolitti gli mandò una bella lettera che il sottufficiale conserverà per tutta la vita come una preziosissima reliquia. La notizia della cattura di Musolino, avvenuta il 27 ottobre 1901 da parte di due carabinieri reali agli ordini di un sottufficiale, era enorme, tanto che per qualche giorno fu tenuta segreta. Allorché venne resa pubblica, Beltrame disegnò per la «Domenica del Corriere» una delle sue più famose copertine. L'evento però era destinato a segnare per sempre anche la vita di Antonio Mattei, che da quel momento diventò per tutti «il carabiniere che ha catturato il brigante Musolino» e che per l"«eroica impresa» venne promosso maresciallo per meriti speciali. Egli stesso alla fine dovette persuadersi di aver avuto un ruolo decisivo in quella cattura, convincendone quindi la famiglia. Enrico Mattei, che nascerà quasi cinque anni dopo, raccontando questa storia al giornalista Luigi Barzini junior come il padre gliel'aveva raccontata, commenterà così: «Mio padre, che aveva tenacemente dato la caccia al brigante Musolino finché l'aveva catturato, mi ha lasciato una sola regola nella vita. Bisogna, diceva, avere pazienza, molta pazienza, perché le cose riescano». Probabilmente Enrico sapeva benissimo che il padre non aveva mai «dato la caccia» al brigante Musolino, la cui cattura gli era piovuta dal cielo. Ma, in fondo, il mito del brigadiere Mattei tenace ed eroico cacciatore di briganti era molto utile anche al figlio Enrico, che quanto meno mostrava di crederci. 10 Niente di meglio di un padre così per accreditare l'immagine del grande servitore dello Stato, altrettanto tenace e vincente. Quanto a Musolino, già il processo di Lucca avrebbe dovuto far capire che il piccolo aspromontano, stranamente somigliante a Pirandello in barba alle teorie lombrosiane allora in voga, era completamente pazzo, un paranoico con tratti di schizofrenia. Tanto che, condannato all'ergastolo, nel 1917 fu trasferito dal penitenziario di Porto Longone, dov'era segregato in condizioni disumane, al manicomio criminale di Reggio Emilia e il 16 luglio 1945, dopo una grazia solo formale, al manicomio di Reggio Calabria, dove di fatto passerà il resto della sua vita e nel quale morirà ottantenne la mattina del 22 gennaio 1956, cinque anni dopo il maresciallo Mattei. Il quale continuò a seguire le vicende di Musolino per tutta la vita con un interesse e un'attenzione che suggeriscono l'esistenza di un inconscio legame fra il brigante e il suo «cacciatore». In realtà, la figura di Antonio Mattei è ben più grigia e banale di quanto questa storia volesse mostrare. L'uomo è un conservatore e un conformista, privo di slanci di fantasia, di forti passioni e di grandi ambizioni, bisognoso di certezze e di continuità. Per questo, in fondo, ha scelto la carriera militare, anzi quella che ai suoi occhi era apparsa - forse a torto - la meno avventurosa e la più regolata, quella del carabiniere. Certo, ha un forte senso del dovere, della fierezza e della
dignità personale, doti che trasmetterà in dosi massicce al primogenito Enrico, ma non è certo un temerario cacciatore di briganti. Antonio Mattei, insomma, ama la vita tranquilla in ambienti rassicuranti, scandita da ritmi regolari. Per esempio, con la promozione a maresciallo potrebbe chiedere il trasferimento in una sede più interessante dal punto di vista professionale e sociale, ma lui ad Acqualagna, un piccolo paese composto principalmente di contadini e pastori, si trova bene e non ha alcuna intenzione di spostarsi. Tanto per cominciare va matto per i tartufi e lì se ne trovano di ottimi e in abbondanza: sono la principale fonte di ricchezza della comunità, l'oro (nero e bianco) di Acqualagna. Certo, col suo stipendio non se ne può permettere molti, ma non capita di 11 rado che, per omaggiare il brigadiere Mattei - l'uniforme non la persona, s'intende - gliene portino di bianchi o di neri, sempre profumatissimi, talvolta anche di discrete dimensioni. L'importante, certo, è che il donatore sia davvero disinteressato e non abbia alcuna pendenza con la legge: in quel caso, sebbene a malincuore, non potrebbe in alcun modo accettare. Ma comunque ad Acqualagna si mangia bene e si beve meglio. E se, magari per ragioni di servizio, ci si spinge lungo la Flaminia fino alla vicina suggestiva gola del Furio e ci si ferma in una di quelle modeste ma ottime trattorie sulle rive del Metauro o del Candigliano, le cose vanno ancora meglio. Il brigadiere Mattei, dunque, è ben radicato nella comunità, si sente uno del paese, tanto da aver aderito a un comitato di notabili locali che intende chiedere al re il ritorno al nome medievale del borgo, Acquabattaglia, dovuto a un evento storico del 552, quando su quella terra e tra quei fiumi il generale bizantino Narsete sconfisse Totila, il re dei Goti. All'Italietta militarista e velleitaria di quegli anni, e tanto più al brigadiere Mattei, sostituire «lagna» con «battaglia» sembra una doverosa scelta di pugnace fierezza, tanto più se motivata dalla storia. In ogni modo l'iniziativa, sebbene a lungo dibattuta ed elaborata, come spesso accade in casi del genere non ha alcun seguito. Ma la ragione principale dell'attaccamento di Antonio Mattei al paese è sua moglie, Angela Galvani, più giovane di dieci anni, nata in una delle migliori famiglie di Acqualagna. Il padre era un costruttore edile rispettato in tutta la zona e la madre, Ester Marconi, era stata a suo tempo direttrice dell'asilo del paese con un'autentica vocazione per l'insegnamento, passione che non era venuta meno neppure con la pensione. Quella di Angela, dunque, è una famiglia conosciuta da tutti e rispettata. Anche quando gli affari del padre hanno preso ad andar male e poi sempre peggio, tanto che la ragazza, che avrebbe potuto sposare un rampollo di una delle non molte famiglie benestanti della zona, piccoli proprietari terrieri o commercianti, ha dovuto rassegnarsi a scendere di qualche gradino nella scala sociale e a mettere su famiglia con un brigadiere dei carabinieri. Quel matrimonio, inutile negarlo, le procura una certa frustrazione, anche perché Angela è dei due la più istruita e, sebbene i figli la ricordino dolcissima e tenerissima, quella dotata del carattere più forte e dell'intelligenza più vivace, la più energica e intraprendente. Infatti oltre che frustrante, la sua situazione matrimoniale è anche noiosa: suo marito è un autoritario maschilista privo di interessi e di ambizioni, che non fa il minimo sforzo per tentare di migliorare le condizioni della famiglia e che non ha neppure saputo adeguatamente sfruttare quel colpo di fortuna piovuto dal cielo e del tutto immeritato della cattura del brigante Musolino. Per combattere questa frustrazione Angela si butta a capofitto in attività caritatevoli, pronta a dare una mano a chiunque. E in molti si rivolgono a lei, trovando sempre una risposta positiva, la ricerca di una soluzione possibile a qualunque problema e mai una consolazione rassegnata. Questa grande disponibilità verso il prossimo deriva anche da una fede profonda che Angela pratica da par suo, con intensità ed energia e perfino con qualche non trascurabile tratto di bigottismo. Il marito la considera tanto affidabile da lasciarla a custodire il suo
ufficio in caserma quando è costretto ad uscire in perlustrazione con i suoi uomini. E questa irrituale supplenza non sorprende affatto coloro che andando in caserma trovano lei anziché il marito brigadiere. Dopo la prima guerra mondiale l'esperienza acquisita con le faccende della burocrazia militare le consentiranno di dedicarsi ad una specie di consulenza per le contadine della zona, quasi sempre analfabete, che pensano di aver diritto ad una pensione di guerra perché hanno perso un marito o un figlio o perché i loro uomini sono tornati a casa invalidi. Angela le consiglia, le aiuta a preparare e a seguire le pratiche. Le «assistite» ricambiano con qualche regaluccio in natura - un pollo, delle uova, del burro raramente in denaro. Col tempo questa attività di «consulenza» diventa un piccolo business, anzi uno dei suoi business, perché Angela è anche una donna attivissima, dotata di un solido pragmatismo e di un acuto senso degli affari ereditato dal padre. Perciò, per migliorare la situazione economica della famiglia dopo il pensionamento del marito, si industria anche in qualche piccola attività commerciale, vendendo in casa tessuti e vestine e arrangiandosi con qualche lavoretto di sartoria. Fino a quando, con i suoi primi risparmi, Enrico appena ventenne le apre un negozietto. Come si vede, anche grazie all'intraprendenza di mamma Angela, la situazione economica della famiglia è certo difficile ma non delle peggiori, specie se paragonata alle condizioni della campagna italiana di quegli anni: una situazione che sicuramente non si può definire agiata ma che non giustifica neppure i continui, quasi ossessivi riferimenti nei discorsi e negli scritti di Enrico Mattei alla miseria nella quale sarebbe cresciuto. Era la miseria di tutti o quasi, allora. È inevitabile che una spiccata personalità come quella di Angela eserciti una marcata influenza su chiunque venga a contatto con lei e a maggior ragione sui cinque figli, tre maschi - Enrico, Umberto e Italo - e due femmine: Ester (detta Esterina per distinguerla dalla nonna) e Maria. Ma è soprattutto col primogenito Enrico, il prediletto, che Angela ha un rapporto forte, un'intesa particolare, «una sorta di complicità dalla quale gli altri si sentivano un po'"esclusi», come racconta Maria, la più piccola della cucciolata Mattei e, come spesso accade tra fratello maggiore e sorellina minore, la più coccolata e vezzeggiata da Enrico. «La mamma» ricorda Maria «continuò ad avere fino alla fine una fortissima influenza su Enrico che quando tornava a casa, cosa che negli ultimi anni di vita dei nostri genitori avveniva abbastanza spesso, quasi ogni fine settimana, parlava con lei fitto fitto per ore, in disparte. La mamma poi gli preparava i cappelletti fatti in casa, con quella sfoglia sottile sottile che solo le donne marchigiane sanno tirare, in brodo di cappone e il cappone allo spiedo. E spesso quando ripartiva Enrico si portava via un po'"di cappelletti.» Agli amici Angela ha sempre spiegato che questo affetto speciale era dovuto al fatto che Enrico era nato prematuro, di sette mesi, «e per tirarlo su» racconta sorridendo con tenerezza «c'è voluto tanto amore, tante notti in bianco e tante bottiglie di acqua calda», quelle bottiglie che, tenute intorno al corpicino del neonato, svolgono in qualche modo la funzione dell'incubatrice nella povera campagna italiana del primo Novecento, dove i parti avvengono in casa con l'aiuto di altre donne o, quando va bene, della levatrice. Questo intenso legame fra Angela e il suo primogenito, rafforzato dalla totale dedizione della dolcissima nonna Ester all'educazione del nipote, non verrà mai meno, neppure negli anni in cui Enrico Mattei è uno degli italiani più potenti e noti. Anche allora, anzi, la donna non esiterà a esercitare, persino con una certa ruvida invadenza, il suo ascendente sul figlio. Ma sempre a fin di bene, almeno nelle intenzioni, soprattutto per segnalare conoscenti da aiutare o iniziative benefiche bisognose di finanziamenti. «Molte scelte dei tanti collaboratori e dipendenti originari delle nostre zone» spiega Maria «sono state "suggerite" da nostra madre.» È famoso, fra chi frequenta casa Mattei, il «quadernetto» sul quale Angela annota i nomi dei ragazzi alla
ricerca di un lavoro che si rivolgono a lei affinché spenda una «buona parola» col potentissimo figliolo. Il quale non sa negarle nulla, ogni suo tentativo di resistenza alle pressanti richieste materne è destinato a fallire. È solo questione di tempo. «Mia madre» racconta «è una delle due persone alle quali non ho mai avuto il coraggio di ribattere.» L'altro sarà Ezio Vanoni, il suo principale tutore e mentore politico. Mattei non ha la lacrima facile, ma si commuove solo in due situazioni e senza ritegno: quando, lui che non è riuscito ad aver figli, incontra i bambini e quando ricorda la mamma scomparsa. Quando, alla fine del 1905, Angela si accorge di essere incinta, la vicinanza e la disponibilità amorevole di sua madre Ester si rivelano provvidenziali e preziosissime. In questi anni nelle campagne italiane una gravidanza è vissuta in condizioni neppure lontanamente paragonabili a quelle attuali. Con un'assistenza sanitaria rudimentale e approssimativa e con ospedali che sono lontani ore se non giorni di viaggio, nella maggior parte dei casi si può, come già detto, contare al massimo su un'ostetrica e sulla robustezza della puerpera e del nascituro. In queste condizioni, nelle zone rurali la mortalità neonatale sfiora il 20%. La morte di un neonato è messa nel conto ed è considerata poco meno di una fatalità. E spesso comporta anche la morte della madre. Comprensibile perciò l'apprensione nelle famiglie Mattei e Galvani per le difficoltà della gravidanza di Angela, difficoltà che annunciano un parto prematuro, avvenuto il 29 aprile del 1906. Il 7 maggio, nella parrocchia di Santa Lucia di Acqualagna, al primogenito dei coniugi Mattei viene somministrato il battesimo. Al neonato, piuttosto robusto nonostante fosse settimino, sono imposti i nomi di Enrico, Vittorio, Umberto. La storia di questi nomi è in un certo senso divertente e significativa del clima familiare e dell'ambiente culturale in cui quel bambino crescerà. Il padre Antonio vorrebbe chiamarlo Umberto Vittorio, come i due re di casa Savoia ai quali si sente legato dal giuramento di fedeltà dei carabinieri: Umberto I, ucciso a Monza quasi sei anni prima e nelle cui mani Antonio ha prestato giuramento da carabiniere, e Vittorio Emanuele III, il sovrano felicemente regnante. Ma quel sempliciotto di un carabiniere ha fatto i conti senza la suocera. Nonna Ester, infatti, considera l'educazione dei piccoli più che una missione, la ragione per la quale è venuta al mondo ed è perciò determinatissima ad occuparsi personalmente dell'educazione del nipote. Come tante maestrine di quegli anni, ama molto le letture edificanti ed ha spesso per le mani L'età fiorita, uno degli ultimi romanzi di Emilio De Marchi del periodo in cui l'autore milanese si dedica appassionatamente solo ad opere di carattere educativo - e, manco a dirlo, Cuore di Edmondo De Amicis. Con questi radicati convincimenti è facile per Ester indurre il genero ad imporre come primo nome del nipote proprio quello del ragazzo che in Cuore racconta in prima persona l'annata scolastica: Enrico, appunto. Nel 1960, all'apice del potere e della notorietà, visitando un asilo, attività alla quale si dedica sempre con passione, Enrico Mattei chiederà alla maestra che lo accompagna: «Ma lei parla mai ai suoi bambini del libro Cuore di De Amicis? Lo faccia! Educare, educare bisogna, al sacrificio e alla dedizione alla patria». E in questa esortazione c'è tutto il bagaglio etico e educativo dell'uomo, ottenuto mettendo insieme le eredità del padre, della madre e della nonna. E ci sono le ragioni di quel nome. Ecco come Italo Pietra, giornalista e suo grande amico, che Mattei chiamerà alla direzione del quotidiano «Il Giorno», di 16 proprietà dell'Eni, descrive la prima fotografia del piccolo Enrico: «... con grembiulino nuovo e berretto a fianco, tenuto per mano dalla nonna. La madre, con vitino di vespa e maniche a sbuffo, troneggia a destra del marito, in uniforme, con un bel paio di baffi neri e una medaglia sul petto». La medaglia è evidentemente quella ottenuta per la cattura di Musolino. Il piccolo Enrico vive i suoi primi anni ad Acqualagna in ambiente rassicurante e in un clima carico di affetti tra la rocciosa solidità di papà Antonio, le cure
amorose di mamma Angela e le attenzioni di nonna Ester. In una comunità di contadini e pastori, la famiglia del brigadiere e poi maresciallo Mattei si trova certamente in una posizione di prestigio. Quindi da bambino Enrico «conosce» racconta ancora Pietra «il piacere di appartenere ad una famiglia distinta e poi, nella vita», come conseguenza di quel clima e di quell'ambiente, «il culto della forma, l'attitudine all'ordine, la cura di presentarsi bene, l'ossequio alle autorità, l'amore della patria». Ma viene educato anche all'amore per le tradizioni, al rispetto per le amicizie, alla sacralità del lavoro - oltre che a quelle che diventeranno due grandi passioni della sua vita: la buona cucina e la pesca. Per altri versi, tanta austerità e tanto spartano rigore sono anche forzosamente indotti dalle modestissime condizioni economiche della famiglia, che, se ha aspirazioni molto limitate, ha comunque mezzi insufficienti per raggiungerle. Lo stesso Mattei racconterà fin troppo spesso - lo abbiamo detto - con una punta di demagogica fierezza, che la sua infanzia è stata quella della «povera gente» per la quale «vivere era una fatica». Secondo Pietra, tuttavia, questa abitudine di «commiserare la propria infanzia, dipinta spesso e volentieri coi colori della povertà» in Mattei è quasi un vezzo. E in effetti, come abbiamo visto, non si può dire che la sua famiglia, almeno fino al pensionamento del maresciallo Antonio, se la passi poi tanto male, e comunque non tanto peggio della grande maggioranza degli italiani di quegli anni, grazie soprattutto alla vocazione imprenditoriale di mamma Angela. Questo continuo richiamo alla miseria da cui proviene è per Mattei adulto e potente anche una forma di civetteria propagandistica, funzionale alla costruzione del personaggio dell'italiano nato povero ma che con la forza della volontà, la dedizione al dovere e l'intelligenza riesce ad emergere. In questo modo Mattei, forse inconsapevolmente, spera di indurre l'opinione pubblica a identificare l'immagine dell'italiano che con le proprie forze si riscatta dalla miseria con quella dell'Italia, paese povero, uscito sconfitto, stremato e semidistrutto dalla seconda guerra mondiale che però riesce a riconquistare dignità e prestigio in campo internazionale. E per far questo, Mattei ne è convinto, è necessaria la piena autosufficienza energetica. E questa era sua la missione: dare benzina alle macchine italiane, gasolio alle industrie italiane, metano alle città italiane. Insomma, insistere nel dare di sé l'immagine dell'uomo che ha saputo riscattarsi dalla miseria è un'abile, ma probabilmente inconsapevole, operazione di comunicazione. E in effetti, benché chi lo ha conosciuto lo descriva come introverso e timido, Enrico Mattei è in realtà un grande comunicatore naturale, istintivo. E istintivamente ha sempre saputo proporre di sé un'immagine funzionale ai suoi progetti e all'interpretazione del suo ruolo pubblico. La vita della famiglia Mattei trascorre dunque, tutto sommato, tranquilla nella stazione dei carabinieri di Acqualagna, o -dopo qualche trasferimento del maresciallo - in altre località vicine, come Visso, nel Maceratese, dove Enrico vede nascere le sue due sorelle: Esterina quando egli ha appena tre anni, nel 1909, e Maria due anni dopo. Papà Antonio è un educatore ruvido e autoritario, a volte troppo. Maria racconta, ad esempio, che in casi particolarmente gravi puniva i figli chiudendoli nelle celle della caserma: «Per noi era insieme una punizione temuta e un gioco». Controbilanciava tanta severità, comunque, la dolcezza attiva di mamma Angela - che spesso interveniva per mitigare il rigore militaresco del marito - e di nonna Ester, che con i nipoti dava libero sfogo alla sua vocazione di educatrice, impegnandosi soprattutto con il maggiore. L'impostazione contadina e insieme militare della famiglia riserva infatti al primogenito un ruolo particolare: «Enrico» racconta Maria «aveva uno status privilegiato; in casa venerato. Di noi fratelli a tavola solo lui poteva parlare. Noialtri più piccoli eravamo costretti al silenzio per tutta la durata del pasto. Comunicavamo fra di noi con gli sguardi, facendo delle facce e dei versi strani. Spesso la conseguenza
inevitabile era che scoppiavamo a ridere, come succede certe volte a scuola, e per punizione venivamo mandati a mangiare in cucina. A volte con papà e mamma rimaneva a tavola solo Enrico». Ad Àcqualagna, Mattei frequenta dalla prima alla terza ele- rnentare: in occasione dei trasferimenti del padre, per non abbandonare la scuola resta a casa della nonna, tornando in famiglia durante le vacanze estive. Anche per questo Ester è la persona che, dopo mamma Angela, più influisce sullo sviluppo della personalità di Enrico. La sua prima maestra, Carolina Lippi, è molto paziente e attenta: essendo amica di nonna Ester, ha per il piccolo Mattei un'attenzione particolare. Ma il bambino è sveglio ed è facile volergli bene, come ricorda Ne- rina Ragnetti, qualcosa di più di una sua compagna di quel primo anno di scuola, quasi una fidanzatina: «Enrico era seduto nel banco dietro al mio ... Era bravissimo, intelligente, di un'intelligenza viva; certo, ogni tanto combinava qualche marachella ma era tanto simpatico». Di questo clima tanto favorevole e denso di affetti egli sentirà la mancanza dopo il trasferimento della famiglia in Abruzzo. Nel 1913, infatti, il maresciallo Antonio Mattei viene trasferito alla caserma di Casalbordino, in provincia di Chieti, dove Enrico prosegue le scuole elementari con il maestro Tito Ferrante, il quale non ha per lui le attenzioni della Lippi, probabilmente perché sugli insegnanti di Casalbordino nonna Ester non ha alcuna influenza e possibilità di intervento. D'altra parte il piccolo Mattei è sempre più vivace e irrequieto, nonostante il rigore della disciplina imposta dal padre. Sta di fatto che fra il bambino e il suo insegnante si crea un clima di incomprensione, forse responsabile dei difficili rapporti che Enrico avrà da allora con la scuola. C'è da dire che il piccolo non riesce a adattarsi bene alla nuova sede della famiglia. Casalbordino è un bel paesone a ridosso della costa abruzzese, già allora centro di villeggiatura per la borghesia di Pescara e di Chieti, quindi certamente più dinamico e interessante di Àcqualagna. Il fatto è che, nonostante le origini abruzzesi di papà Antonio, l'intera famiglia non riesce a mettere radici perché totalmente impregnata di «marchigianità», una particolare forma di sensibilità e modo di vivere della quale torneremo a parlare perché ha profondamente caratterizzato la figura di Enrico Mattei. Intanto l'Italia vive la tragedia della prima guerra mondiale. Il maresciallo Antonio legge con attenzione le cronache dei giornali e ne parla spesso a casa, sempre con accenti di intensa passione patriottica. Dopo la disfatta di Caporetto teme persino di essere mandato al fronte a combattere contro gli austriaci, com'è successo a molti altri carabinieri. Ma queste sue preoccupazioni sono fuori luogo, ormai ha quasi cinquant'anni, e il comando dell'Arma, in quelle terribili settimane in cui il paese è percorso dalla paura della sconfitta e da fremiti di ribellione, preferisce non sguarnire soprattutto i piccoli centri di campagna, da dove l'esercito preleva gran parte degli uomini da mandare al fronte. Il marcato patriottismo di Mattei, più tardi spinto fino ad una originale forma di nazionalismo populista, sebbene quasi inevitabile e congenito nel figlio di un carabiniere, viene innescato in questi terribili mesi. Da allora ha sempre scritto Patria con la P maiuscola, anche quando, dopo la seconda guerra mondiale, è stata a lungo considerata una parola quasi impronunciabile. Nel frattempo la famiglia Mattei si era accresciuta con gli ultimi due maschi: nel 1914 Umberto e nel 1919 Italo. «Enrico non era molto legato a noi fratelli minori» racconta Maria «o almeno non mostrava di esserlo: se si esclude quel po'"di tenerezza che aveva per me, la minore delle sorelle, non mostrava attenzione o confidenza nei nostri confronti. Anzi, per noi era quasi un secondo padre; questo era il ruolo che gli aveva affidato papà, con la sua concezione gerarchica della famiglia.» In realtà Mattei è molto affezionato ai suoi fratelli, così come a tutti i componenti della famiglia e conta molto su di loro, come dimostrerà negli anni dei suoi successi, quando con la massima fiducia li sceglierà tra i suoi primi collaboratori. Capitolo Secondo
MATELICA, LA PATRIA ADOTTIVA Nel 1919 il maresciallo Mattei va in pensione. Lo fa appena ne ha la possibilità, soltanto cinquantunenne. Potrebbe restare in servizio ma preferisce lasciare l'Arma nella speranza di ottenere facilmente, col suo passato di carabiniere e col credito che egli presume inevitabilmente dovuto a chi può vantare questa esperienza, un'altra attività con una buona retribuzione da aggiungere alla pensione. Come vedremo si tratta di una speranza un po'"troppo ottimistica. Ma il progetto più che velleitario è generoso: Antonio vuole guadagnare di più perché i suoi ragazzi possano continuare a studiare e magari arrivare a frequentare l'università e laurearsi. Ha sempre sognato di riuscire ad avere un figlio «dottore». Almeno con Enrico, col primogenito, questa aspirazione deve realizzarsi. Ma a quei tempi a Casalbordino non c'erano neppure le scuole superiori e l'università più vicina era a mezza giornata di treno. Antonio decide perciò di riportare la famiglia nelle Marche e di sistemarsi a Camerino, città universitaria dalle tradizioni gloriose e allora ricca di prestigio e fascino, soprattutto per le famiglie marchigiane e romagnole. E il racconto di questo trasferimento è diventato uno di quei «mitici» episodi su cui Mattei ha fondato la leggenda del suo prometeico riscatto dalla miseria. Ecco come lo ricorderà quarant'anni dopo, in occasione del conferimento della laurea honoris causa proprio all'Università di Camerino: in questa città «arrivai tanti anni fa, bambino, su un carro, con mio padre sottufficiale dei carabinieri ormai in pensione, con mia madre e con i miei fratellini ... Mio padre diceva che è brutto essere poveri perché non si può studiare e senza titolo di stu- 21 dio non si può fare strada. Così ci portò a Camerino, perché in questa città la vita era a buon mercato e c'erano scuole medie e università. Girammo col carro in lungo e in largo a cercar casa, ma anche Camerino era troppo cara per noi. Così ce ne andammo; mio padre scrollava il capo, lasciando alle spalle quella città sognata e la speranza di farci studiare. Andammo in un paese non lontano dove ci trovammo bene». Sono andate davvero così le cose? Dobbiamo prendere per autentica l'immagine patetica di questo pensionato che, caricata la sua numerosa famiglia su un carro, si aggira per le belle contrade medioevali di Camerino alla sconsolata ricerca di una casa? Non ricorda un po'"troppo certi quadri sulla «fuga in Egitto» della Sacra Famiglia, oppure certe sequenze cinematografiche del neorealismo italiano? Comunque, al di là della possibile enfasi retorica dovuta a comprensibili esigenze autocelebrative, è certo che i Mattei hanno dovuto rinunciare per ragioni economiche al loro originario progetto di sistemarsi a Camerino e ripiegare su un'altra destinazione poco distante, in modo da non precludere la possibilità ai figli di frequentare l'ateneo marchigiano. La scelta cadde su Matelica, esattamente a metà strada tra Fabriano e Camerino, un bel paesone molto attivo e vivace con qualche migliaio di abitanti, di antiche origini preromane, fiero della sua storia, delle sue tradizioni, dei suoi bei palazzi rinascimentali e barocchi, del suo patrimonio artistico. Già allora Matelica era quasi una cittadina, borghese e popolare insieme, con una sua certa effervescenza sociale e culturale e con un'antica attitudine imprenditoriale basata su attività artigianali di tradizione rinascimentale, come la lavorazione del ferro e della pietra, la produzione del pannolana - che, come abbiamo visto, spinse l'intraprendente mamma Angela ad arrangiarsi con qualche lavoretto di rammendo e cucito per i conoscenti - e la concia delle pelli. Industria, questa, che coinvolgerà pienamente Mattei e che rappresenta la prima e importante tappa del percorso che lo porterà al successo. Insomma, una realtà molto più ricca e stimolante della piccola e depressa Acqualagna e anche della poco amata Casalbordino. A Matelica la famiglia riesce finalmente a sistemarsi: un col22 lega propone ad Antonio «una bella casa grande», ricorda Mattei: in realtà è un alloggio comodo, dignitoso ma modesto, e comunque al limite delle sue possibilità
finanziarie, benché si trovi in una via centralissima, che allora i matelicesi chiamavano «la via dei nobili» per i suoi palazzi signorili e le sue dimore di architettura gentilizia, al numero 22 di via Tom maso De Luca. Oggi quella strada porta il nome di Marcello Boldrini. I Boldrini erano una agiata famiglia di artisti ed intellettuali tra le più antiche e in vista di Matelica, la loro bella casa era adiacente a quella dei Mattei e presto le due famiglie, in particolare le signore, prenderanno a frequentarsi e stringeranno una duratura e proficua amicizia. Marcello Boldrini, di 16 anni più grande di Enrico, sarà figura importantissima, decisiva nella sua formazione personale, manageriale e politica; è uno dei personaggi che, avendo percepito la qualità, la stoffa dell'uomo, ne ha fatto un protagonista della vicenda italiana del dopoguerra. In un certo senso, è stato Boldrini ad «inventarsi» il Mattei che tutti conoscono. Ma la via Tom maso De Luca avrà una singolare importanza per la vita economica e politica italiana, giacché nei palazzotti che vi si affacciano abitavano, oltre ai Mattei e ai Boldrini, famiglie con nomi che segneranno la vita dell'Eni: i Girotti, ad esempio. La famiglia viene registrata come residente nel comune di Matelica dal 10 ottobre 1920. Inizialmente però le cose non vanno affatto bene. Pagata la pigione, della pensione di Antonio resta ben poco. L'ex maresciallo si rende rapidamente conto che trovare un lavoro facendo affidamento sul prestigio conferito dal servizio nell'Arma non è così facile come credeva. Ma si accorge anche di aver perso punti sul piano del prestigio sociale: presentarsi come maresciallo dei carabinieri è un conto, come pensionato è tutt'altro; la differenza sta nella possibilità o meno di esercizio del potere. Si adatta perciò a fare il guardiacaccia - le Marche sono terra di grande tradizione venatoria - saltuario e mal pagato. Mamma Angela inizia a fare qualche lavoretto di cucito; più tardi, come abbiamo visto, comincerà a dare quelle «consulenze» alle donne che aspiravano ad una pensione di guerra. La casa ha un orto sul retro e ai ragazzi viene chiesto di collaborare: andare a raccogliere erba per i conigli, innaffiare il fazzoletto di terra messo a pomodori, attingere periodicamente dal pozzo in fondo all'orto l'acqua che in casa non c'è. Nei Mattei la delusione è forte, le aspettative erano molto, molto diverse. Enrico si sente improvvisamente caduto in povertà; in realtà le condizioni complessive della famiglia non sono molto peggiorate, ma è il confronto con il nuovo ambiente che procura questa sensazione. La maggior parte dei ragazzi che incontra in quella bella strada sono destinati al liceo e all'università e poi a carriere prestigiose, magari in una grande città, Roma o Milano, e lui è costretto a guardarli dal basso in alto, con un senso di frustrazione del quale non si libererà più. Ed è probabilmente proprio dalle asprezze della vita in quella strada di signori, dal frustrante confronto quotidiano fra l'esistenza difficile della sua famiglia e quella agiata dell'aristocrazia matelicese, che è germogliato e cresciuto quel complesso d'inferiorità sociale ed economica e quello spirito di rivalsa in cui si trovano le radici più profonde della visione politica di Mattei e, insieme, della sua fiera volontà di riscatto personale e della sua tenace ambizione. Intanto però la scuola, in quell'ambiente nuovo, più evoluto e competitivo, non è che il luogo dove le frustrazioni di Enrico adolescente si manifestano in tutta la loro chiarezza: nel confronto con le condizioni di partenza degli altri, nell'evidenza dei diversi progetti e dei percorsi di vita, delle aspettative. Dopo le elementari, da Casalbordino Mattei era andato in collegio nella vicina Vasto per frequentare le scuole tecniche inferiori, quelle che allora si chiamavano «avviamento tecnico». Poi da Matelica, andando ad abitare in casa di parenti, inizia a frequentare l'istituto tecnico della troppo lontana Aquila. Ma le cose vanno sempre peggio, i risultati scolastici sono scoraggianti, disastrosi. Il fatto è che Enrico vive la scuola come un vicolo cieco, una strada che non lo porta da nessuna parte, è convinto che la competizione scolastica premi solo i privilegiati, i fortunati che nascono in famiglie facoltose e colte. Il ragazzo è intelligente, certo, ma profondamente demoti24 Mattei vato e perciò indolente, indisciplinato, assolutamente refrattario a qualsiasi
regola e imposizione. Non studia, marina spesso la scuola e trascorre le mattinate passando da una monelleria all'altra, il suo rendimento è inevitabilmente bassissimo. Legge anche molto poco, passa i pomeriggi a ciondolare su e giù con gli amici per le strade di Matelica, guardando le ragazze, facendo il bullette: è un ragazzo difficile, in casa le scenate sono quotidiane e i genitori sono seriamente preoccupati. L'unica attività che sembra appassionarlo, e che non abbandonerà più per tutta la vita, è la pesca. Uno sport fatto di abilità, tenacia, pazienza, solitudine, lunghi silenzi: un aspetto niente affatto secondario, anzi importante per capire Enrico Mattei e la sua vicenda perché ha, come spesso accade, un'evidente corrispondenza col suo carattere, e quindi col suo modo di lavorare e di coltivare i rapporti umani. Durante le vacanze estive Enrico torna ad Acqualagna, dove è rimasta l'amata nonna Ester. Trascorre l'estate giocando, correndo nei campi con gli amici dell'infanzia e pescando trote nei torrenti della zona. Se a Matelica avviene la formazione di Mattei, ad Acqualagna ci sono le radici profonde, i primi affetti: non a caso i due centri si contendono il privilegio delle sue origini; una gli ha dato i natali, l'altra lo ha allevato, ambedue hanno intitolato ad Enrico Mattei la piazza principale. Ricorda la sua amichetta, la compagna di scuola delle elementari Nerina Ragnetti: «Dopo il '14 io sono andata in collegio e allora per un periodo ci siamo persi di vista. Persi di vista per modo di dire, però, perché io ero molto amica della sua sorellina Maria e poi, quando avevamo finito di studiare, d'estate, venivano ad Acqualagna, dalla nonna ... mi invitavano a casa loro e spesso parlavo con Maria. A volte poi Enrico ci invitava a ballare al Furio, perché c'era magari qualche orchestrina che suonava ... Io andavo molto volentieri e ci divertivamo davvero, tutti e tre, con spontaneità e gioia». Infine, di fronte all'evidente disastro scolastico, Antonio, che sognava di fare del primogenito un «dottore», prende atto con amarezza del fallimento - e Mattei, crescendo, se ne sentirà per sempre in colpa - e decide che è inutile continuare a sprecare soldi per far studiare il ragazzo, che ormai ha quasi 15 anni: meglio «metterlo a padrone», così almeno porta a casa qualche soldo. Enrico accoglie la decisione paterna con la solita abulia. Comincia con dei lavoretti occasionali, passa da un posto all'altro, garzone di bottega, fattorino per le consegne, cameriere in una pensioncina. Ma spesso combina pasticci, i suoi datori di lavoro si lamentano. Un giorno Antonio sorprende il figlio, che avrebbe dovuto essere al lavoro, a bighellonare con altri ragazzi per le strade di Matelica cantando a squarciagola una vecchia canzone anarchica marchigiana: «L'avvocati cò la leggi, / li carabinieri cò le manetti, / li preti cò lu Padreterno, / tene lu popolo fermo. / Santa Maria lu prete fa la spia». Quella volta la reazione paterna fu terribile: fu l'ultima volta in cui il papà alzò le mani sul figliolo ormai quasi adulto. Ma il maresciallo in pensione si era convinto da tempo che in quel ragazzo non c'era molto da sperare. Tutte quelle aspettative, il liceo, l'università, un lavoro prestigioso in città ... velleità, fantasie. Sogni: ecco, nient'altro che sogni, visto come si comportava Enrico, la sua totale mancanza di ambizione, di amor proprio e di senso di responsabilità. Sarebbe stato un bel successo già riuscire a sistemarlo definitivamente in una bottega o in una fabbrica, magari come garzone od operaio. Ma bisognava trovare una persona paziente e ben disposta a sopportare uno scavezzacollo fannullone. Un amico, solo un amico poteva essere disposto ad accollarsi un peso morto del genere. E un giorno ad Antonio venne in mente che una persona così forse esisteva: era Cesare Scuriatti, un gran brav'uomo col quale i rapporti erano ottimi, quasi fraterni nonostante si conoscessero da un tempo relativamente breve. Scuriatti aveva avviato, e subito con un discreto successo, una piccola fabbrica di letti metallici. Un'autentica novità per quei tempi. Fino ad allora i letti della gente comune erano sempre stati in legno; spesso, per contenere i costi, il legno scelto non era dei più pregiati, così come verniciature e decori non erano di grande qualità: non sempre quei prodotti avevano una gran durata. Col ferro era
tutta un'altra cosa, si ottenevano dei letti robusti e duraturi ed erano possibili decorazioni 26 più facili e accurate. E infine quei prodotti avevano un aspetto più piacevole e moderno. Perciò presto divennero di moda. Fatto sta che Scuriatti accetta subito e di buon grado la richiesta di Antonio: «Vedrai che non ci saranno problemi, lo faremo lavorare, stai tranquillo». Enrico comincia come apprendista operaio. In effetti le cose prendono ad andare subito abbastanza bene, perché, almeno all'inizio, il lavoro inaspettatamente non dispiace al ragazzo; e anche perché in quella fabbrichetta lavora anche qualche suo amico, fra i quali Gaetano Fabiani, che così racconta l'assunzione del giovane Mattei: «Il babbo di Enrico venne a cercare un posto per il figlio proprio nel laboratorio della fabbrica di letti di Cesare Scuriatti dove io già lavoravo e avevo un ambiente riservato a me dove facevo la "macchiatura" di finto legno e la decorazione dei letti... Io, benché fossi tanto giovane, ero tenuto in grande considerazione dal principale, così ottenni che Enrico venisse a lavorare con me. I primi ammaestramenti di verniciatura glieli ho dati io». Siamo nel 1921, comincia così il rapporto di Mattei con le vernici e i solventi. Né lui né il suo amico Fabiani né, tanto meno, suo padre che quel poco ambito posto di lavoro gli aveva procurato, avrebbero mai potuto immaginare che quel rapporto si sarebbe sviluppato fino a far diventare Enrico un ricco imprenditore prima dei trent'anni. Intanto, però, il lavoro nella fabbrichetta di Matelica è duro: 10 ore di fatica al giorno per 6 giorni alla settimana. Misera la paga: 5 lire al giorno. Ma stavolta Enrico ci mette impegno e interesse, un po'"perché ha la sensazione di imparare qualcosa di utile ma anche perché a impartirgli i primi rudimenti di tecnica della verniciatura, il primo a spiegargli le caratteristiche e le proprietà di vernici, smalti e resine è il suo amico Gaetano. I primi compiti dell'apprendista Mattei consistono nel realizzare le «macchiature» di finto legno sulle fiancate o le testate dei letti. Poi, col tempo, deve imparare a dipingerle, specie per i letti in ferro battuto, con fiori, angeli, madonne e crocifissi tracciati dal suo amicomaestro, buon disegnatore allievo del Tamagnini, un illustratore discepolo del Beltrame, proprio quel Beltrame che illustrò la copertina della «Domenica del Corriere» con la cattura del brigante Musolino da parte dei due carabinieri di Antonio Mattei. Italo Pietra attribuisce, giustamente, un grande valore formativo a quell'esperienza: «A Mattei uomo fatto piacerà parlare di questi primi passi che gli mettono nel sangue l'insofferenza della routine, la ruggine contro il lavoro infimo» e forse anche il gusto della pittura; quel gusto che, quando le sue finanze glielo permetteranno, diventerà un fiuto straordinario che lo spingerà a comprare quadri di giovani pittori italiani mettendo insieme con gli anni una delle più importanti collezioni private di pittura contemporanea. Ma anche molti anni dopo, dei mesi di fatica passati in quel laboratorio ricorderà solo che «il lavoro era duro e la puzza di vernici dava allo stomaco». Quel primo lavoro «vero», dunque, segna Enrico adolescente, tanto che arriva a rievocarlo con nostalgia, come sempre accade per le esperienze della giovinezza, anche le più dure e sgradevoli. Pietra racconta ancora che, ad esempio, una sera degli anni Sessanta, passeggiando in un borgo dell'Oltrepò pavese, vedendo in vendita dei letti come i «suoi» da antiquari e rigattieri, con tono nostalgico Mattei commentò: «Io li ho visti nascere, questi letti che adesso sono di moda per le seconde case, e li ho dipinti da ragazzo. Evocano le buone cose di una volta, il pane fatto in casa, il vino cotto, le mele cotogne al forno, ma nella mia memoria hanno un odore che fa piangere, che prende alla gola, che fa vomitare: l'odore della vernice. Allora, se un pezzo di pane cadeva per terra ci si affrettava a raccoglierlo e a baciarlo in segno di rispetto per un cibo caro, per un dono di Dio». C'è la sua abituale retorica pauperista di maniera insieme, forse, a nostalgia autentica.
Col passare dei mesi, l'amicizia fra Enrico e Gaetano diventa sempre più forte ed è destinata a durare solida negli anni. Durante le lunghe giornate di lavoro i due ragazzi parlano molto, si confidano piccoli segreti e grandi speranze, progetti e sogni. Le chiacchierate continuano interminabili anche dopo l'orario di lavoro, passeggiando di notte lungo le strade di Matelica, accompagnandosi alternativamente a casa l'un l'altro senza mai decidersi a rientrare, come succede spesso fra ragazzi. Naturalmente i due adolescenti si confidano anche dei loro piccoli affari di cuore e così un giorno scoprono di essere innamorati di due ragazze della «Matelica bene», le sorelle Marani, figlie di un fattore molto noto e rispettato nonché nipoti del parroco, don Pietro Marani. Naturalmente tutto si limita a sguardi, sorrisini, tante chiacchiere e lunghe «vasche» su e giù per via Umberto I per continuare ad incontrarsi e rincontrarsi; nient'altro. Maria, la ragazzina alla quale era interessato il giovanissimo Mattei, è la più riservata delle due, sembra sempre che sia altrove, che pensi ad altro: e forse è proprio per questo che Enrico è attratto da lei. Le scrive delle lettere che non spedirà mai, ma che fa leggere all'amico Gaetano che ricorda: «Enrico scriveva molto bene ... quelle lettere erano scritte con sentimento, in forma semplice ma efficace. Lui le scriveva per fissare i suoi sentimenti, le sue fantasie». Ma ben presto è chiara la ragione di tanta ritrosia, quando Maria si fa novizia per diventare suora di clausura nel monastero delle clarisse della Beata Mattia di Matelica, col nome di suor Teresa. La sua non è una decisione imposta dalla famiglia e dallo zio parroco o indotta dall'ambiente, tutt'altro. Si tratta, anzi, di una scelta sicura e consapevole, dovuta ad una vocazione profonda della ragazza, tanto che fin dal noviziato viene presa ad esempio dalle consorelle. La tradizione popolare le attribuisce interventi miracolosi in vita e dopo la sua morte molti matelicesi sono convinti che meriterebbe di essere elevata all'onore degli altari. Insomma Mattei ragazzo comincia a mostrare una certa attitudine a ficcarsi in situazioni difficili e a lanciarsi in imprese temerarie. Il Mattei adulto, ricco e potente degli anni Cinquanta sarà devotissimo della Beata Mattia, farà restaurare e ammodernare a sue spese il convento delle clarisse e acquisterà il bel palazzo Marani, nel centralissimo corso Vittorio Emanuele, dove le due sorelle erano cresciute. A Matelica in molti sono convinti che si tratti di nostalgiche e romantiche conseguenze di quell'amore da adolescenti. Persino il suo amico Gaetano Fabiani ci vede una «radice lontana e profonda ... nel ricordo di quella creatura che abbandonò il mondo per il rigore della clausura». I 29 Ma probabilmente le cose stanno in termini molto meno romantici. Ecco, ad esempio, come racconta la cosa un altro amico, Antonio Fiore, figlio del secondo datore di lavoro di Mattei, con occhio più laico e disincantato, quasi cinico: «Nella strada principale, noi Fiore avevamo un appartamento nel quale alloggiavamo mio padre, io e quando venivano a Matelica anche i miei zii. Dunque: questo appartamento era del parroco di Matelica che aveva una nipote sulla quale Mattei aveva messo gli occhi. Ricordo che era una gran bella ragazza. Però il parroco non ne voleva sapere perché la posizione di Mattei era modesta, mentre lui, questo parroco, era ricco. Tempo dopo, quando era già diventato "l'ingegner Mattei" Enrico mi disse: "Mi sono preso la soddisfazione, ho comprato quasi tutta la proprietà di quel parroco"». Sta di fatto che a Matelica, Mattei compra palazzo Marani ma anche palazzo Grassetti, bello e centralissimo, nel quale sistema i genitori, e diversi terreni agricoli: probabilmente fa questi acquisti per la semplice e ottima ragione che li considera dei buoni affari. E se proprio vogliamo andare a cercarci una motivazione psicologica, forse è più semplice pensare ad un comprensibile desiderio di rivalsa verso le condizioni di miseria patite nei primi anni a Matelica. Per quanto riguarda la devozione alla Beata Mattia e le generose attenzioni verso il convento, invece, bisognerebbe aprire il discorso della religiosità di Mattei, della sua fede robusta e profonda, trascurando certe superficiali sbandate da ragazzo, una fede direttamente ereditata dalla mamma, con tutto il suo carattere
semplice e sincero e persino un po'"rozzo di devozione popolare. Angela si rivolgeva spesso in preghiera alla Beata Mattia, specialmente quando le preoccupazioni per quel figlio scavezzacollo inducevano al pessimismo sul suo futuro, o quando la situazione economica della famiglia diventava allarmante. E Mattei, legatissimo alla madre della quale aveva ereditato il carattere, le attitudini e la fede, ereditò anche questa devozione e in questa forma. La sistemazione del vecchio convento duecentesco è conseguenza di questo sentimento. E d'altra parte sono molti altri i casi in cui Mattei si è mostrato generoso verso istituzioni o iniziative religiose, di assistenza e di beneficenza. 30 Comunque quel restauro, iniziato nel 1956, procura a Mattei forse la più originale delle tante onorificenze ricevute in vita: per dimostrare la loro gratitudine le monache gli fanno conferire i «Privilegi dell'Ordine francescano», massimo riconoscimento che l'Ordine assegna ai benemeriti. Mattei ne andrà orgogliosissimo. Per completezza c'è da aggiungere che qualcuno dubita che l'innamorata del giovane Enrico fosse la Maria diventata suora. In una biografia di suor Teresa Marani, ad esempio, si racconta che le attenzioni di un certo E. M., un ragazzino vivace e istintivo (il nostro, evidentemente), fossero rivolte non a Maria ma a sua sorella. Ma francamente questa versione sembra dettata più dalla preoccupazione agiografica di allontanare qualsiasi ombra mondana dall'immagine della suora che si vorrebbe canonizzare. Ma, come sempre succede a tutti i ragazzi di quell'età, di cottarelle Enrico ne ha avute diverse, scegliendosi spesso situazioni difficili, come quando si innamorò di Lina Fiore, sorella di Antonio e figlia del suo principale: un obiettivo irraggiungibile per un giovane apprendista. Stando al racconto di Antonio, solo in occasione di una visita a Matelica negli anni Cinquanta, Mattei ormai adulto e famoso, incontrando Lina Fiore, si dichiarò pubblicamente, per così dire, a posteriori: «Ora posso confessarglielo, all'epoca ero innamorato di lei. -E mia sorella: "Perbacco, perché non me lo ha detto?". E lui: "E chi si azzardava? Io ero un modesto impiegato e lei era la figlia del principale". E finì in una risata generale». Quei primi mesi nella fabbrichetta di Cesare Scuriatti insegnano finalmente a Mattei il senso del lavoro, dell'attività continua, regolare e finalizzata ad un risultato. Ma forse proprio per questo, ben presto quell'impiego comincia a sembrargli poca cosa, inadeguata a quelle che considera le sue capacità. Sa che può fare di meglio e di più impegnativo, e vuole provarci: inorridisce all'idea di passare la vita a dipingere letti in metallo. Ormai ha capito anche che è stato un grave errore abbandonare la scuola, perciò decide di riprendere gli studi privatamente, con le Scuole Riunite. Ma con questo stato d'a31 nimo, con l'emergere di queste nuove ambizioni, comincia a trovare soffocante anche la vita di provincia, assolutamente insoddisfacenti le opportunità che può offrirgli un paese come Matelica e, come tutti i giovani marchigiani di allora, sogna la grande città, la capitale: si convince che a Roma la vita offra le opportunità, le prospettive e l'intensità adatte ad un ragazzo irrequieto come lui - non può certo immaginare che, invece, fortuna, ricchezza e successo gli arriveranno a Milano. Ormai è evidente che quell'ansia del fare, quell'orrore per l'inazione e per la mancanza di stimoli esterni che lo accompagneranno per tutta la vita sono diventati la componente principale del suo temperamento. E dunque non ha dubbi, il futuro bisogna andare a cercarselo a Roma. All'inizio dell'estate Enrico convince l'amico Fabiani a tentare la fuga. E proprio di fuga si tratta, giacché i due ragazzini sanno benissimo che le rispettive famiglie mai li avrebbero lasciati andare. La cosa, più che di un primo ingenuo e velleitario tentativo di andare a cercarsi un futuro migliore, ha tutta l'aria di una banale bravata, della ricerca di novità e avventura di due giovanissimi sempliciotti di paese. Ma, come ricorda Fabiani, forse mitizzando un po'"quella ragazzata, rivedendola attraverso le lenti di ingrandimento della nostalgia e del rimpianto, le motivazioni profonde di quell'iniziativa erano comunque quelle: «Eravamo mossi dall'ansia e dalla speranza di poter costruire un avvenire».
Inconsapevolmente, aggiungerei. Perciò, «un mattino uscimmo di casa con i nostri pochi risparmi in tasca e sotto il braccio un fagotto nel quale avevamo messo un cambio di vestiti. Erano le sei del mattino, l'ora in cui abitualmente andavamo in fabbrica». Pagato il biglietto di terza classe, con i restanti quattro soldi in tasca saltano sul treno per Roma. Dove però le cose vanno diversamente da come le avevano immaginate. Nessun amico, nessun riferimento, nessuna conoscenza della città, si trovano a girovagare senza meta: «Non eravamo tristi, ma storditi». Non sanno neppure dove andare a dormire e non hanno la minima idea della sproporzione fra il loro mondo e quello nel quale erano andati a ficcarsi, dei prezzi, del costo della vita. La prima sera capitano di fronte ad un albergo dall'aria antica e austera come 32 certi palazzi del centro di Matelica, solo un po'"più grande. Rassicurati dall'aspetto familiare entrano per chiedere una camera con due letti. Era il Grand Hotel. Il portiere li caccia via in malo modo: «Via, andate via, qui per voi non c'è niente». Racconta Fabiani che «il modo dispiacque molto ad Enrico, che lo fece capire al portiere, si era sentito ingiustamente umiliato e questo non lo sopportava. Ma fu un attimo, perché sapeva controllarsi bene». Ma forse quel portiere gallonato come un ammiraglio si sarebbe comportato molto diversamente se solo avesse immaginato di avere a che fare col futuro presidente dell'Eni, che entro una trentina d'anni avrebbe pagato a quel lussuoso albergo conti astronomici per i suoi ospiti, provenienti a centinaia da ogni parte del mondo. Non sa, il povero portiere romano, che quel ragazzino sarebbe diventato, secondo la rivista americana «Harper's», «Italy's new Cesar». Fatto sta che per quella notte devono accontentarsi di una squallida cameretta procurata da un mediatore. I due ragazzi cercano lavoro e non trascurano alcuna occasione, nella loro candida e sfacciata intraprendenza. Le provano tutte: una mattina passano davanti agli uffici romani della Metro Goldwyn Mayer ed entrano per offrirsi come «attori giovani». Non potevano capire che si trattava di una sede commerciale. L'impiegato al quale si erano rivolti, racconta Fabiani, «fece una gran risata e ci invitò ad aspettare nell'anticamera. Noi aspettammo un po', ma poi ci prese il sospetto che fosse andato a telefonare alla polizia e per paura di guai ce ne andammo». Inevitabilmente all'entusiasmo e alla voglia di avventura dei due ragazzi subentrano presto la delusione, la frustrazione e la depressione, ma l'orgoglio e la paura della punizione sono più forti: non vogliono tornare a casa con la coda fra le gambe e mortificarsi al cospetto delle famiglie e del paese intero. Perciò si arrangiano, per qualche giorno tirano avanti come possono: dormono all'aperto, sulle panchine dei giardini o alla stazione, ogni tanto riescono a mettere insieme un pasto facendo i lavapiatti in qualche osteria, e quando neppure questo è possibile si riducono a raccattare gli scarti al mercato della verdura. 33 Questa esistenza da randagi, nella quale sono svaniti i loro ingenui sogni di gloria, dura una settimana. A casa c'è grande angoscia. Angela sente che il suo ragazzo è a Roma: conosce benissimo i suoi pensieri e le sue aspirazioni, spesso lo ha sentito parlare della capitale come di una sorta di mecca dell'emancipazione e del riscatto personale. Un giorno arriva la conferma di questa intuizione da mamma, quando Enrico, temendo che i suoi si preoccupino troppo, scrive loro di stare tranquilli, che va tutto bene. Non dà alcun recapito, ma la busta porta il timbro postale di Roma. Angela implora il marito di andare a cercare il loro ragazzo, ma il maresciallo in pensione fa il duro: che si arrangi quel disobbediente anarchico ribelle buono a nulla, deve tornare a casa con le sue gambe e chiedere perdono. La fuga dei due adolescenti termina alla stazione di Poggio Mirteto, sulla riva sinistra del Tevere, una quarantina di chilometri a nord di Roma. I ragazzi avevano deciso di giocare un'altra carta, tentando di raggiungere a tappe il Nord, dove speravano di avere qualche opportunità in più. Quella notte, dunque, digiuni da quasi tre giorni, saltano su un treno merci alla stazione di Sette Bagni, sistemandosi in una cabina dei frenatori e lì vengono scovati da un ferroviere e consegnati ai carabinieri di Poggio Mirteto; i quali, siccome i due ragazzi si
rifiutano di dire chi sono e da dove vengono, senza tanti complimenti li sbattono in cella senza cena. Il provvedimento ha una sua ruvida e spiccia efficacia, la «tortura» dura pochissimo e i due si rassegnano a «confessare», prontamente ricompensati da una bella pentola di pasta e fagioli, pane, formaggio e fave fresche. Intanto i carabinieri avvertono le famiglie. «Venne a prelevarci il padre di Enrico» racconta Fabiani. «Ci scrutò con occhio molto severo, molto eloquente ma non ci mortificò, non ci volle mortificare di fronte ai suoi subalterni.» In effetti in quell'occasione la preoccupazione principale di Antonio Mattei sembra quella di mantenere, in una situazione obiettivamente imbarazzante per chiunque, un atteggiamento dignitoso, conforme al prestigio dell"«eroico» cacciatore del brigante Musolino. Ma appena fuori della caserma l'uomo diede sfogo alla sua vergogna e alla sua frustrazione 34 appioppando al figliolo un sonoro ceffone accompagnato, racconta Pietra, dal più patetico e pretestuoso dei rimproveri: «Mascalzone, hai fatto piangere tua madre». Le famiglie a quel punto decidono che i due ragazzi devono essere separati: per Enrico il lavoro da Scuriatti perciò termina lì, ma non la loro amicizia, rafforzata anzi da quella fallimentare ma formativa esperienza, durante la quale essi stringono un tacito patto di aiuto reciproco che durerà negli anni: «Chi primo arriva, aiuta l'altro». E andrà così. Capitolo Terzo GENESI DI UN MANAGER Per un po'"Mattei sembra ripiombare nell'abulia e nell'apparente disinteresse per il futuro. Riprende il saltabeccare inconcludente, il girare a vuoto da un lavoretto all'altro. Finché nel 1922 comincia l'esperienza lavorativa decisiva, quella alla conceria Fabretti, dei fratelli Giovanni, Giacomo e Vito Fiore. «Andò a fare l'impiegatino» racconta Maria «ma era contento.» In effetti Enrico appare finalmente soddisfatto, placato: sembra ritrovare entusiasmo e interesse al lavoro. Con i suoi 150 operai e 5 tecnici, la conceria è l'industria matelicese più importante e prestigiosa di allora: macchinari, tecniche produttive e dinamismo dei capi ne fanno la portatrice in quelle zone di un senso di innovazione, movimento e speranze di sviluppo. Per un certo periodo, inoltre, lo stabilimento può dare un lavoro di guardiano notturno anche al papà di Enrico, Antonio. Certo, anche alla Fabretti la paga di Mattei è bassa, la concia dei pellami è ancora più puzzolente della vernice per i letti ma l'importanza, le dimensioni e la modernità dell'azienda, l'impiego di tecniche avanzate, il buon rapporto che egli riesce a instaurare con capi preparati e intelligenti lo coinvolgono fino al punto di trasformarlo definitivamente. Se nella fabbrichetta di letti metallici Mattei si sentiva chiuso, bloccato, senza prospettive di crescita professionale e personale, ora capisce che il lavoro non è solo una necessità, una fatica senza orizzonte e senza luce. Ora gli è assolutamente chiaro che il lavoro, la dimensione del fare dà un senso all'esistenza, rappresenta un itinerario per la crescita personale e morale, oltre che l'unica via legittima ed eticamente accettabile per il riscatto dalla miseria e dalla marginalità, per l'affermazione di sé, per la ricerca del successo. 36 Con questo nuovo positivo stato d'animo, Mattei, da apprendista e garzone «tuttofare» a poco a poco conquista la fiducia del titolare Giovanni Fiore. Anzi, diventa amico di suo figlio Antonio che racconta: «Mattei trascorreva le ore libere in mia compagnia: andavamo al cinema anche nei paesi vicini, al teatro - quando funzionava - e a volte veniva con me nell'unico ristorante in centro - si fa per dire - quello dell'albergo "Aquila d'Oro", che disponeva di una vasta sala che mio padre aveva fatto ripulire dagli operai della fabbrica. La prima volta che vi condussi Mattei, anzi "Enrico", come io lo chiamavo, mentre lui mi chiamava
"signorino", c'era il direttore tecnico della conceria, dottor Gualdi, il quale mi chiamò da parte e mi disse: "Come mai porti questo operaio con te?". Io gli risposi che se non voleva mangiare al nostro tavolo poteva sedersi altrove». Non passerà molto tempo prima che Mattei possa avere soddisfazione di questo sgarbo. Il ragazzo ha, infatti, un buon carattere, è intelligente e ha tanta voglia di imparare, viene preso a benvolere anche dagli operai, che lo chiamano Richetto e gli insegnano tutto quello che sanno: le sostanze, i componenti, le miscele, le loro proprietà, le tecniche del mestiere. Saranno le basi della sua futura ricchezza. La fiducia conquistata e la conoscenza dell'azienda gli assicurano, nonostante il suo basso livello di istruzione, una promozione a incarichi di segreteria, o come racconterà lui più tardi, «a scrivere a macchina». In breve diventa assistente nel laboratorio chimico e arriva a sostituire, all'occorrenza, l'odioso direttore tecnico, il torinese Gualdi, diventando quindi il suo vice. Quando, nel 1926, Gualdi viene finalmente licenziato in tronco, Giovanni Fiore, prima ancora che la notizia arrivi ai dipendenti, chiama l'ignaro Enrico: «Enrico, te la senti di fare il direttore tecnico? Sei ormai pratico e hai trascorso quasi due anni nel gabinetto chimico dello stabilimento». «Mattei» è sempre Antonio Fiore che racconta «sbiancò in volto e rispose: "Principale, non so proprio se sarò in grado di affrontare questa responsabilità". Mio padre replicò: "Sono sicuro che te la caverai benissi37 mo". E fu così.» Ma lo sbigottimento di Enrico è più che comprensibile: l'incarico era di eccezionale impegno e responsabilità per un ragazzo di vent'anni, anche se avesse avuto una preparazione scolastica e un'esperienza lavorativa maggiori di quelle di Mattei. Assunto come fattorino a 16 anni, passato operaio alla purga delle pelli a 17, tecnico e addetto di segreteria a 18, vicedirettore del laboratorio chimico a 19, direttore a 20. Una carriera folgorante, pur nell'ambito di quella esperienza limitata, nella quale si cominciano a vedere i segni di quel talento, di quella volontà e di quell'abilità nei rapporti umani che faranno di Mattei un imprenditore di successo, un capo della Resistenza, e infine il fondatore dell'Eni, il più famoso e potente manager di Stato, uno dei più influenti uomini di potere della Repubblica. Il fatto è che in pochi anni il ragazzo abulico, svogliato, inaffidabile e indisciplinato è rapidamente maturato, riuscendo a «vincere se stesso», a far esplodere la sua personalità autentica, a trovare la sua strada, ad appassionarsi al lavoro e ad assumersi, appena ventenne, delle responsabilità da adulto. E finalmente arrivano i soldi: con i crescenti guadagni per prima cosa decide di dare alla madre un'attività propria e nell'autunno del 1926 apre un negozio di stoffe in cui investe tutti i suoi risparmi e forse anche la sua capacità di indebitarsi, della quale farà abile uso nelle future vicende imprenditoriali. Enrico e la sua famiglia, della quale è ormai il principale sostegno, cominciano a conoscere i primi agi, le difficoltà economiche degli anni passati diventano un ricordo. Ben volentieri papà Antonio cambia idea sulla vera natura di quel ragazzo che fino a pochi anni prima era la sua più assillante preoccupazione. Cambia idea ma non lo dirà mai al figlio, il quale per questo eccesso di riserbo o di orgoglio paterno proverà un sottile rammarico che si porterà sempre dentro. Intanto Enrico si è fatto anche un gran bel ragazzo, alto e con una bella faccia forte e aperta, gli occhi dolci ma lo sguardo severo e sornione insieme, la fronte alta, un imperioso naso aquilino. Ha anche un bel portamento, una sua eleganza naturale e le accresciute possibilità economiche gli permettono anche un buon guardaroba. Vestirà sempre bene, con rigore e sobrietà. 38 In breve, dunque, è diventato il miglior partito di Matelica: bello, intelligente, simpatico, benestante, di successo ... cosa può desiderare di più in quegli anni una ragazza di un paesotto marchigiano? E infatti, mentre la gente comune si gira a guardarlo con ammirazione e invidia, le giovani matelicesi se lo mangiano con gli occhi. Ed Enrico, che è anche vanitoso, volentieri lascia fare e se ne compiace. Come quando era ragazzino, va matto per lo struscio serale su e giù per via Umberto
I, corso Vittorio Emanuele e piazza Valerio (oggi piazza Enrico Mattei). Ha preso la patente automobilistica, guida la macchina della ditta. Ora è più facile andare ad Acqualagna ad abbracciare l'amatissima nonna Ester, che se lo vede arrivare, radioso e sicuro, al volante di una bella Fiat 501 scoperta, talvolta con la mamma e qualche fratello. Ad Acqualagna va spesso a salutare anche l'amico più caro dei primi anni di scuola, Luigi Pietrangeli: Mattei farà da padrino al battesimo di sua figlia Anna Maria, popolare attrice cinematografica degli anni Cinquanta e Sessanta. Ad appena vent'anni, dunque, e senza essere andato negli studi oltre le medie inferiori, Enrico ha assunto su di sé la responsabilità e la guida della famiglia, giacché è lui che la mantiene, assicurandole un tenore di vita prima inimmaginabile e insperato. Ora finalmente i conti dei bottegai non mettono più angoscia alla povera mamma Angela e i vicini non incutono più soggezione: il negozietto di stoffe che Enrico le ha aperto garantisce una base minima di reddito alla famiglia e a lei, figlia di un imprenditore e con una ereditaria attitudine per gli affari, dignità personale e la gratificazione di una buona attività propria, dopo tanti anni di lavoretti di rammendo e cucito per amiche e conoscenti. Ora per trovare a tavola il pollo arrosto non è più necessario aspettare «le feste», i vestiti non passano più da un fratello all'altro e per i più piccoli non ci sono più solo zoccoli di legno, ma anche vere scarpe di cuoio. A Pasqua sulla tavola non si trovano più solo le uova sode dipinte a mano, come usava un tempo nelle nostre campagne, ma autentiche uova di cioccolata, ancora un lusso per la maggior parte delle famiglie italiane. 39 Quando compie ventun anni Enrico Mattei è costretto ad interrompere il lavoro che lo aveva portato ai suoi primi successi per andare a prestare il servizio militare di leva. Per due o tre volte è riuscito a farsi «riformare» in modo da rinviare l'arruolamento e la conseguente caduta delle entrate della famiglia (secondo i maligni grazie a qualche intervento di papà Antonio presso sue antiche conoscenze dell'Arma, ma più probabilmente per interessamento del suo datore di lavoro, che non voleva privarsi di un così prezioso collaboratore). Alla fine però deve rassegnarsi: viene mandato ad Orvieto a fare il soldato semplice - a causa della mancanza di titolo di studio - nel reggimento dei Granatieri di Sardegna, per la sua alta statura e la sua prestanza fisica. Nonostante il suo patriottismo e il suo senso del dovere, Enrico la prende male: abituato ormai a comandare in fabbrica, ad essere idolatrato in casa, a sentire l'ammirazione della gente durante il passeggio serale, ad essere corteggiato dalle ragazze, trovarsi in caserma come «marmittone» (così era chiamato un po'"spregiativamente il soldato di leva) a dover rispondere sempre «signorsì», è un brusco risveglio. I suoi coetanei diplomati prestano servizio come ufficiali di complemento e tornano a Matelica a pavoneggiarsi in piazza Valerio con belle uniformi, sciabola e stivali. E c'è persino lo sgradevole senso di una rinnovata condizione di sottomissione al padre ex sottufficiale. È il solito irrisolto complesso d'inferiorità: del nato povero, senza i privilegi, i mezzi e le opportunità degli altri; condannato ad una condizione subalterna e piena di umiliazioni. La formidabile spinta, la principale forza, quel complesso, che ha fatto della sua vita una continua missione di riscatto: di sé da una marginalità oscura, della famiglia dalla miseria, dell'Eni dalla soggezione alle grandi compagnie petrolifere, dell'Italia dalle grandi potenze industriali. Tutte le volte che percepisce, a torto o a ragione, una condizione di ingiusta inferiorità imposta. La ferma, comunque, dura solo sei mesi. Giovanni Fiore, il proprietario della conceria, non ha mai smesso di brigare e di muovere le sue conoscenze perché Enrico tornasse in fabbrica al più presto. In realtà, stando ai ricordi di alcuni commilitoni, tra cui il napoletano Tagliaferro - rimasto poi suo amico -, 40 non aveva mai smesso di dirigere completamente il laboratorio, continuando il lavoro anche dalla caserma di Orvieto «per corrispondenza». E finalmente arriva il congedo anticipato perché, data «l'età avanzata del padre», Enrico era il
«principale sostegno della famiglia». Dopo appena sei mesi di servizio militare, dunque, verso la seconda metà del 1927, Mattei torna in fabbrica. E ci torna facendo ancora un passo avanti, come direttore dello stabilimento e braccio destro del padrone. Prestigio e benessere aumentano. E d'altra parte deve recuperare quei sei mesi di ritorno alla frustrazione; la sua eleganza ora è un po'"più ostentata: nel taschino della giacca, in bella vista, porta una bella penna stilografica d'oro da 100 lire, d'inverno indossa un rarissimo soprabito impermeabile foderato di lana di cammello e persino un paio di stivali, uguali a quelli che aveva tanto invidiato ai suoi coetanei ufficiali. All'ora dell'aperitivo lo si può incontrare in uno dei bar eleganti di via Umberto I o di piazza Valerio, sigaretta in una mano, il bicchiere di Campari nell'altra. Spesso va a ballare, si fa ammirare e desiderare, corteggia le ragazze più carine della zona, mai niente di serio, però. Insomma, è soddisfatto di sé, non gli manca nulla, fa la bella vita - per quanto è possibile in quegli anni in un paese della remota provincia marchigiana, certo. Per il momento Enrico è completamente disinteressato alla politica: il clima familiare, il papà «eroico» carabiniere e la nonna maestra da libro Quote gli hanno inculcato una forma di nazionalismo populista che lo fa sentire del tutto a suo agio nell'Italia fascista. Più avanti, anzi, Mattei non farà mistero delle sue simpatie per il regime. Ha un solo cruccio inconfessato, da parvenu: non riesce a farsi ammettere al Circolo Cittadino, un sodalizio che accoglieva i notabili di Matelica. Questa esclusione per lui significa che il riconoscimento della sua nuova posizione nella comunità mate- licese non è ancora completo e indiscusso. E ne soffre. Questa sindrome dell'esclusione, questo complesso dell'eterno emarginato è una costante dell'intera vicenda personale di Mattei, un rovello interiore che lo spingerà ad un continuo inseguimento di se stesso, mai pienamente soddisfatto degli straordi41 nari traguardi volta per volta raggiunti. Una costante che segnerà anche la storia dell'Eni, continuamente lanciato, in uno scontro epico, alla conquista di un riconoscimento da parte dell'aristocrazia internazionale del petrolio, dell'ammissione al «circolo dei nobili» delle compagnie petrolifere. Comunque, almeno a Matelica, otterrà soddisfazione anche di quest'ultima frustrazione: la rivincita morale arriverà molto più tardi quando, diventato ormai il potente capo dell'Eni, verranno a pregarlo di «voler onorare il Circolo con la sua adesione». Per il resto, se la gode. E fa bene, perché all'orizzonte, provenienti dagli Stati Uniti, cominciano a addensarsi nubi fosche. Sull'Occidente, infatti, sta per abbattersi il più tremendo cataclisma economico e finanziario del Novecento, la crisi catastrofica, la famosa «Grande Depressione» alla fine degli anni Venti. Naturalmente la crisi colpisce prima e più impietosamente le piccole e medie imprese, non risparmiando la conceria Fabretti. Giovanni Fiore non è tipo da abbattersi o rassegnarsi agli eventi, si dà da fare, chiede aiuto alle banche e ad altri imprenditori, ma è tutto inutile: la crisi morde ferocemente e le cose vanno male per tutti. Agli inizi del 1929, Fiore è costretto a chiudere la sua conceria. Mattei risente molto di questo rovescio, prima di tutto sul piano psicologico e morale. Gli sembra che tutto quello che è riuscito a costruire stia per crollare, che la sua vita debba tornare ad essere quella dei brutti tempi, perdendo il prestigio conquistato in paese, l'ammirazione delle ragazze, l'ascendente sui familiari. Non resta, dunque, che andare a cercare fortuna altrove, lasciando Matelica, che evidentemente non ha più nulla da offrire, e la famiglia, che comunque dalla miseria è stata messa al riparo. Capitolo Quarto PRIMI PASSI A MILANO La nuova destinazione non può essere che Milano, anche in quegli anni la città più dinamica e proiettata verso il futuro, la città dell'industria, metropoli di frontiera - ha appena raggiunto il milione di abitanti - della quale i Fiore
parlano come di un nuovo Eldorado. Tanto che da tempo, ben prima che la crisi lo costringa ad emigrare, Mattei pensa alla possibilità di trasferirvisi: «Matelica» racconta la sorella prediletta Maria «ormai gli andava stretta e sapeva che non poteva dargli più di quello che gli aveva dato». Ma l'attaccamento alla famiglia e la lealtà verso il suo datore di lavoro gli avevano sempre fatto accantonare l'idea. Adesso però è costretto a scegliere di prendere la via del Nord: è lo stesso Giovanni Fiore a consigliarglielo con insistenza affettuosa, fornendogli, anzi, delle lettere di presentazione per alcune aziende milanesi dello stesso ambito merceologico, insieme ad una liquidazione di 500 lire, ottima per quei tempi. Ormai la decisione è presa. Enrico passa con i suoi familiari l'ultimo Natale e parte subito dopo, all'inizio del 1929. Fra risparmi e liquidazione dispone di una bella sommetta, quasi 20.000 lire, a suo dire. E, con la sua bella valigia di cuoio, qualche cravatta di seta e due abiti su misura non ha l'aria del povero emigrante. Rievocando negli anni Sessanta il suo arrivo a Milano, Mattei lo descrive così, con la consueta retorica autocelebrativa: «Eccomi. Porto addosso tutto il mio, come fanno le lumache. Ho 23 anni ma il tempo mi prende alla gola, non posso fare la lumaca». È un emigrante, non disperato e affamato, certo, ma un emigrante. Perciò, come capita a tutti coloro che scelgono una seconda patria, ne interiorizza e ne esalta 43 i valori ben più di chi vi è nato. Come uomo d'impresa sarà più «milanese» di tanti altri nati sotto la Madonnina. Quel giovanottone di provincia, però, si porta dietro anche qualcosa di più profondo e intenso, qualcosa di incancellabile e importante sul piano morale e culturale, dei sentimenti e delle attitudini. Porta con sé a Milano la marchigianità. Che non è solo quel radicamento, quel forte senso di appartenenza che lo spingerà a tornare ad Acqualagna e a Matelica, nonostante il sovraccarico di impegni, in ogni occasione possibile. Mattei rivendicherà sempre, apertamente e orgogliosamente, il legame con la sua terra, delle cui sorti si preoccuperà, nei cui confronti si sentirà profondamente debitore, cercando continuamente di saldare quel debito con iniziative economiche ed assistenziali. Per questo, e non per banale clientelismo, la maggior parte dei suoi collaboratori saranno marchigiani. Per uno di costoro, l'economista anconetano Giorgio Fuà le cose stanno semplicemente così: «I marchigiani amano la loro terra e ci vogliono tornare. Anche [Mattei] faceva tanto e appena poteva correva qui». Ma per il sociologo Achille Ardigò la marchigianità è anche caparbia volontà di riscatto: «Credo che non si possa comprendere Mattei» ha scritto in un lavoro rievocativo negli anni Ottanta «senza tenere conto del suo esser marchigiano ... Le Marche ... erano una terra di laboriosissimi contadini ed artigiani, con un'enorme capacità di sacrifici e di imprenditorialità ... bloccata dalla mezzadria e dalla lontananza dalle grandi aree metropolitane. Questa potenzialità, che è esplosa negli anni Sessanta e Settanta, ... formava grandi lavoratori in cerca di una liberazione da arretratezze di rapporti sociali e di vincoli geografici». D'altra parte proprio la mezzadria così diffusa nelle Marche e in Romagna ha contribuito, secondo le analisi di molti storici, a sviluppare, generazione dopo generazione, quella imprenditorialità diffusa che ha fatto di quelle regioni due tra le più laboriose e ricche d'Italia: il mezzadro in fondo era imprenditore di se stesso, anche se doveva versare la metà della sua produzione al «padrone», e la sua più forte aspirazione era accumulare abbastanza denaro per comprare il fondo sul quale lavorava. È questa la marchigianità che Mattei si porta dietro a Mila44 Mattai no, non una forma patetica e folcloristica di nostalgia del focolare ma una quasi rabbiosa volontà di affermazione. Prende casa in via Perugino 27, in una zona allora semiperiferica, e trova subito lavoro. Grazie ad una delle lettere dì presentazione dei Fiore viene assunto come venditore dalla Max Meyer, un'importante azienda tedesca produttrice di vernici a smalto e solventi per concerie. Gli tocca dunque ricominciare daccapo, dal livello più basso; ma ormai Mattei crede in se stesso, ha conquistato una buona fiducia
nelle sue capacità e poi ha a che fare con prodotti che conosce bene, mentre Milano gli dà l'impressione di una piazza dalle potenzialità enormi, di un mercato ricchissimo: «Un pozzo di San Patrizio», dice. Ce la farà, ne è sicuro. E anche i suoi familiari non hanno alcun dubbio. Immediatamente, infatti, lo raggiunge la sorella Maria, diciottenne. Papà Antonio le ha ordinato di seguire il fratello maggiore per occuparsi della casa ed accudirlo, fedele alla concezione gerarchica e maschilista della famiglia, sua e dei suoi tempi, e che Enrico mostrerà sostanzialmente di condividere. Tanta fiducia si dimostra presto del tutto giustificata: gli affari cominciano subito ad andar bene. Con gli uomini ci sa fare, sa trattare le persone, glielo hanno insegnato le esperienze di fabbrica e la vita di provincia, con i suoi complessi e ricchi rapporti umani. E poi tra letti da dipingere e pelli da conciare ha imparato il mestiere, conosce materiali e tecniche. Ai potenziali clienti ai quali si presenta piace questo bel ragazzo dall'espressione aperta e onesta, che fa capire subito di venire dalla gavetta e di intendersi di quello che vende, perché Mattei ha il dono naturale di piacere a prima vista, di ispirare simpatia. Si presenta bene, ben vestito, curato nell'aspetto persino con qualche eccesso: ad esempio, porta un pettine nel taschino della giacca e si ripassa i capelli prima di presentarsi ad un cliente. Si mostra sempre di buon umore e si esprime con proprietà. Il piacevole accento marchigiano, non è un problema, piace ai milanesi, che lo conoscono da secoli, da quando, secondo la tradizione, mercanti ed artigiani di Senigallia hanno preso a salire fin qui per animare il più antico mercatino delle 45 pulci, oggetti usati e bric- à-brac, chiamato, appunto, «Fiera di Senigallia (o Sinigaglia)». D'altra parte a Milano vive un'importante e vivace comunità regionale marchigiana, raccolta in associazione - come allora accadeva per le molte comunità regionali stabilitesi nella metropoli - la «Famiglia Marchigiana», un sodalizio molto attivo che accoglie operai e impiegati ma anche imprenditori, professionisti e intellettuali, col quale Mattei prende rapidamente contatto. Gli sarà molto utile e non solo per allargare le conoscenze necessarie per i suoi affari. Tra i frequentatori dell'associazione, infatti, ritrova un'antica e preziosa conoscenza matelicese: Marcello Boldrini, la cui famiglia, nonostante facesse parte dell'elite più ricca e colta di Matelica, aveva accolto con amicizia i nuovi vicini Mattei al loro arrivo. A causa della notevole differenza d'età - Boldrini ha 16 anni più di Mattei - i due non si sono frequentati molto a Matelica, ma a Milano è tutta un'altra cosa: ormai sono entrambi adulti e scatta subito la solidarietà fra emigrati, sebbene di lusso, e soprattutto fra marchigiani. L'amicizia vera e propria arriverà più tardi, col tempo, ma intanto prendono a frequentarsi e naturalmente nessuno dei due può immaginare che da quel rapporto trarranno origine vicende decisive per le loro esistenze e per il futuro del paese. Boldrini discende da una dinastia di intellettuali e artisti dalla quale ha ereditato un'intelligenza acuta e irrequieta, una genialità attiva e disordinata. A Milano ha una ricca rete di conoscenze, in particolare negli ambienti cattolici delle professioni, degli intellettuali e della finanza. E ciò non solo grazie all'estrazione familiare, giacché la sua carriera professionale e accademica è brillantissima. Laureato in economia alla Bocconi nel 1912, a 22 anni, inizia la carriera universitaria come assistente. Dopo la prima guerra mondiale lavora alla Società delle Nazioni di Ginevra ad impostare il bollettino statistico. Torna in Italia nel '26, insegna nelle Università di Messina e Padova finché diventa docente all'Università Cattolica di Milano di materie statistiche e demografiche, ma sempre con grande attenzione alle teorie economiche e sociali. Qui sarà 46 Mattei maestro di Amintore Fanfara e di altri futuri protagonisti della vita politica italiana nelle file della sinistra cattolica, della Resistenza e della Democrazia cristiana. Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira, Enrico Falck, Giuseppe Spataro, Orio Giacchi: ecco i nomi di alcuni intellettuali cattolici antifascisti che Boldrini frequenta
negli anni Trenta e che si preparano, nel crogiuolo del vivace cattolicesimo lombardo, a diventare protagonisti della politica italiana dei prossimi decenni proprio nelle aule, nelle biblioteche e nei corridoi dell'ateneo milanese fondato e in quegli anni ancora diretto da padre Agostino Gemelli. Quell'università costruita alle spalle della basilica di Sant'Ambrogio si incarica di fornire gli strumenti culturali e scientifici a quel movimento cattolico democratico e cristiano- sociale così attivo, forte e strutturato in Lombardia, dove è cresciuto con una marcata connotazione anticapitalistica e statalista, e persino con venature antirisorgimentali. Da quel movimento nasceranno le correnti della sinistra democristiana. «Boldrini» ha scritto Indro Montanelli sul «Corriere della Sera» descrivendo la formazione politica di Mattei «era della pasta ideologica dei Dossetti e dei La Pira: ma con una pacatezza, una compostezza e una vanità da "barone" universitario vecchio stile.» Apparentemente, dunque, per personalità, formazione, interessi ed età i due illustri matelicesi di Milano sembrano destinati, pur frequentandosi, a percorrere strade ben distinte. E invece col passare degli anni quel rapporto diventa sempre più stretto: alla vigilia della seconda guerra mondiale è ormai un'amicizia intensa e fertile. E a pensarci bene, ad avvicinarli è anche, se non soprattutto, un dato caratteriale, come spesso accade: e cioè proprio quella comune irrequietezza intellettuale, la curiosità sempre insoddisfatta, l'avidità di conoscere e di sapere il nuovo, l'inesplorato, sebbene in campi tanto diversi; e infine il gusto del fare, l'entusiasmo attivo. Col suo giovane amico, del quale ha capito l'intelligenza rapace e la grande capacità di azione, Boldrini si impegna nel corso degli anni in un lento, paziente ma efficace lavoro di rieducazione politica, facendo leva sulla sua formazione cattolica, 47 sulla sua eterna voglia di riscatto sociale, sul suo rifiuto dell'esclusione, sul suo acuto desiderio di equità. A questi sentimenti (e a questi complessi) personali e privati Boldrini riesce a dare una valenza generale, politica. Perché non si può, non si deve consentire, pensa il professore, che un uomo con queste capacità si adagi tra le braccia del regime, per opportunismo o mancanza di opportunità, di cultura e di spirito critico. Alla fine degli anni Trenta, alla vigilia della guerra, Mattei, che negli anni passati non aveva mai fatto mistero della sua simpatia per il fascismo, sarà sinceramente convinto che il sistema nel quale il paese vive da vent'anni, il soffocante connubio tra dittatura e capitalismo, sia profondamente ingiusto e sbagliato e che può e deve essere cambiato. È ingiusto, gli spiega Boldrini, perché favorisce i ceti privilegiati a danno dei più deboli. È sbagliato perché, contro ogni ideale cristiano si ispira a dottrine di matrice materialistica, esalta la potenza e la forza, incita alla violenza. Sono argomenti ai quali il cattolico Mattei nato povero, ma desideroso di riscatto, è profondamente sensibile. Nelle serate a casa dell'uno o dell'altro, il maestro parla a lungo e l'allievo ascolta e assimila, curioso e attento. E a poco a poco il maestro fornisce all'allievo anche una completa e organica teoria sociale, economica e quindi politica, che si richiama alla dottrina sociale della Chiesa, all'enciclica Rerum novarum di papa Leone XIII e ai principi più radicali del Partito popolare di don Luigi Sturzo (il quale però, ironia della storia, diventerà uno dei più agguerriti nemici dell'Eni e di Mattei, quali più deprecabili esempi dello statalismo in economia). Ma Boldrini riesce a stimolare la particolare sensibilità di Mattei coniugando il solidarismo con il patriottismo: sogna un'Italia democratica impegnata in un grande sforzo di sviluppo economico, la «Grande Proletaria» finalmente redenta dalla miseria. Uno sviluppo, però, alimentato non dal grande capitale ma dall'iniziativa di piccoli proprietari coltivatori diretti nelle campagne, artigiani e piccoli imprenditori nelle città, magari organizzati e riuniti in consorzi e cooperative. La crescita di un'impresa non ha senso se non crea sviluppo per la collettività e per il paese. Termini come capitale e mercato, 48
sono quasi delle parolacce per definire realtà che, se proprio sono inevitabili, vanno limitate e controllate il più possibile. Boldrini e i suoi amici della sinistra cattolica lombarda sognano un'Italia postfascista il cui sviluppo faccia sostanzialmente a meno di quel capitalismo gretto, egoista, conservatore, arido e ingeneroso che, a loro parere, fino ad allora aveva governato l'economia nazionale, e che in realtà consideravano l'unica forma di capitalismo possibile, del quale il fascismo era uno sbocco e una variante. Perciò è indispensabile il controllo politico dell'economia da parte dello Stato, giacché gli automatismi del mercato producono inevitabilmente ingiustizie: l'impresa pubblica, quindi, deve avere un ruolo centrale e preminente. La finalità suprema dell'attività economica, che comunque non può essere esente dal rispetto delle leggi morali, non è l'accumulazione o l'arricchimento del singolo (il profitto è poco meno di una inevitabile necessità «fisiologica»), ma consiste nel dare lavoro, lavoro per tutti perché il lavoro è lo strumento primario della redenzione sociale e quindi della dignità dell'esistenza. Insomma, il lavoro è la salvezza in questo mondo così come il Verbo cristiano è la salvezza dell'anima. Negli anni insanguinati della guerra e della Resistenza queste idee verranno rielaborate, sviluppate e infine, nel 1943, alla vigilia della caduta del fascismo, sistematizzate in un vero e proprio manifesto politico nel cosiddetto «Codice di Camaldoli», ispirato da uomini come Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira ed Ezio Vanoni. Sono le idee di quel movimento cristiano- sociale che, esclusi i riferimenti alla fede e alla Chiesa, non erano molto diverse da quelle dei comunisti, ed erano probabilmente più radicali di quelle di molti socialisti di allora. Ma a Milano, in particolare i primi anni, Mattei soprattutto lavora sodo; anche se non trascura il suo sport preferito, la pesca, si scopre appassionato di teatro teatro leggero naturalmente, operette e varietà - e si conferma molto interessato alle ragazze. Lavora con grande impegno e ancora una volta il successo arriva. Altre industrie tedesche contigue al suo settore mer49 ceologico gli offrono rappresentanze. Si tratta di aziende qualificate e i suoi clienti sono prevalentemente imprenditori, industrie e commercianti: soldi e prestigio tornano presto a farsi vedere. Gli viene chiesto di viaggiare in prima classe, di scendere in buoni alberghi e la cosa non gli garba tanto, spese del genere gli sembrano soldi sprecati mentre lui ha una famiglia da mantenere. Comunque si fa notare e dopo pochi mesi la Lowenthal, un'altra importante industria tedesca produttrice di macchine e servizi per l'industria conciaria che si sta affacciando sul mercato italiano, gli offre la rappresentanza generale per l'Italia: il balzo in avanti è enorme, non è più uno dei tanti piazzisti della Max Meyer ma il rappresentante per tutto il territorio del Regno di una primaria azienda. Mattei allarga dunque gli orizzonti dei suoi affari e delle sue conoscenze, viaggia molto, in lungo e in largo per l'Italia, conosce dirigenti industriali e imprenditori, sviluppa le sue già marcate attitudini imprenditoriali. Guadagna molto bene: 1500 lire al mese, un generoso rimborso spese a piè di lista e un premio annuo di produzione. Alla fine del 1930 lo raggiunge anche il fratello Umberto, quasi diciassettenne, che aveva terminato gli studi all'Istituto tecnico industriale di Matelica. Tre dei cinque fratelli Mattei, dunque, sono ormai a Milano: Maria si occupa della casa e di accudire i fratelli, Umberto cerca un lavoro suo e intanto dà una mano ad Enrico, il quale, ricorda la sorella, «era sempre in viaggio, e quando tornava per il fine settimana dava a noi fratelli i soldi per andare al cinema ... ma noi abbiamo sempre sospettato che lo facesse per avere la casa libera e ricevere qualche ragazza». Nel giro di poche stagioni, dunque, si è fatto un nome nel suo ramo, ha messo insieme un discreto gruzzolo, ha conosciuto l'Italia, le sue città, i suoi problemi. E tante ragazze, sua principale occupazione nel tempo libero dopo la pesca, s'intende. Sì perché, in barba al suo atteggiamento severo e alla reputazione di austerità, a Mattei le donne sono sempre piaciute molto; e non se l'è mai fatte mancare. Un aspetto della sua personalità, questo, rimasto sempre
pudicamente in ombra. 50 Ben presto ha piena coscienza delle sue capacità imprenditoriali, sa che può farcela e viene di nuovo preso dal gusto della sfida, come quando da ragazzino fuggì a Roma con l'amico Fabiani, o quando accettò di venire a Milano solo con un po'"di soldi e una lettera di presentazione. Nel '31, perciò, decide di mettersi in proprio ma senza lasciare, almeno per il momento, la Lowenthal: ama le sfide ma non è un temerario. Ha 24 anni e ne sono passati poco più di due dal suo arrivo nel capoluogo lombardo. Investe i suoi risparmi nell'affitto di un capannone a Greco, periferia nordest della città, e nell'acquisto, dopo lunghe ricerche, di una caldaia usata e delle altre apparecchiature necessarie per mettere in piedi un laboratorio per la produzione di solforicinati e solfonati per l'industria conciaria, prodotti ausiliari e vernici. Conosce il mercato, conosce i prodotti, ricorda gli insegnamenti e i consigli ricevuti a Matelica dai suoi amici operai della Fabretti dei fratelli Fiore, conosce i fornitori più convenienti e importa componenti dalla Norvegia. Ha con sé appena tre operai. Ma non è un salto nel buio e pensa a coprirsi le spalle con altre rappresentanze: della Sapici, Società Anonima per l'Industria Chimica Italiana, per l'Europa e il Medio Oriente; in esclusiva per l'Italia della Chemac, produttrice di lacche cellulosiche, smalti e prodotti affini; si occupa del collocamento di macchine per l'industria conciaria e, sempre nello stesso settore, ha un bel giro di clienti come consulente tecnico. Queste rappresentanze e questi incarichi, oltre a costituire una rete di sicurezza mentre comincia la sua avventura imprenditoriale, che va subito benissimo, arricchiscono continuamente le sue competenze tecniche e ampliano le sue conoscenze. Gli affari, insomma, non potrebbero andar meglio, tanto che il 30 gennaio 1932 Mattei trasferisce definitivamente la sua residenza da Matelica a Milano, giacché ormai è evidente che la sfida è vinta e che la scelta di emigrare nella metropoli è ormai irreversibile. Ma gli affari vanno talmente bene che deve lasciare qualcuno dei suoi tanti, troppi incarichi. Anche perché nelle sue attività si stanno creando delle incompatibilità, dei conflitti di interessi. Decide perciò di dimettersi dalla Lowenthal. La 51 lettera di dimissioni è un documento importante per capire come stia venendo su il giovanotto: è infatti un piccolo capolavoro di abilità diplomatica e sensibilità politica ma, al tempo stesso, di franchezza. Ma è anche un testo nel quale Mattei mostra di aver imparato a conoscersi; a prendere atto, cioè, del suo carattere, delle sue motivazioni, delle sue spinte emotive. Sono veramente dolente di questa mia decisione per il trattamento di favore e le infinite cortesie ricevute ma oggi la mia opera non è più necessaria alla Vostra ditta perché la Vostra rappresentanza principale Schill & Selacher è stata molto bene introdotta e si è fatta conoscere nella conceria; tanto si può dire senza ombra di pretesa che oggi sul mercato italiano è al primo posto nei confronti delle altre case concorrenti. E qui finisce la mia opera come avevo preveduto due anni fa e cioè, come ebbi allora a dire, il giorno che la Casa sarebbe stata [sic!] ben introdotta io me ne sarei andato. Oggi questo lavoro può essere seguitato bene anche da personale non specializzato, perché le difficoltà dell'inizio sono state sorpassate e i prodotti sono ormai conosciuti da tutte le industrie conciarie. Oggi con il lavoro normale io non provo più nessuna soddisfazione morale, perché a differenza di tutti gli altri io sento il bisogno dell'ostacolo e di far valere in un certo qual modo la mia opera, perché altrimenti finisco con l'ammalarmi, come già lo sono tisicamente e anche moralmente e in modo accentuato in questi ultimi giorni. Credetemi, nelle mie condizioni attuali di salute, io non potrei esservi che di peso, perché non ho più la volontà che avevo nei tempi trascorsi. E siccome da voi, signori, sono sempre stato trattato troppo bene, io non posso permettere questo e preferisco andarmene. In altre parole: grazie di tutto, me ne vado perché, avendo io fatto un ottimo lavoro, non avete più bisogno di me. E poi, siccome sono un irrequieto e cerco sempre nuove sfide, con voi non mi diverto più.
Il piccolissimo imprenditore Mattei fa dunque i suoi primi passi autonomi su un mercato che già conosce ma che continua ad esplorare e studiare, cercando soprattutto di capire in quali ambiti la competizione potrebbe essere per lui più facile, quali nicchie di mercato ha a disposizione per vincere la sua battaglia. Sa, ad esempio, che il settore degli oli e grassi speciali per industrie conciarie e tessili, per pelliccerie e zuccherifici è quasi interamente dominato da industrie straniere: c'è spazio, quindi, per un produttore italiano che riesca ad essere competitivo sui costi e sui tempi di consegna. 52 Capisce che è lì che bisogna puntare e non esita: investe tutti i residui risparmi, si fa prestare del denaro anche da alcuni parenti, raschia il fondo del barile e spicca un altro grande balzo in avanti: nel 1934 apre in via Tartini, a Dergano, nella periferia industriale a nordovest di Milano, verso la Bovisa, la I. C.L., Industria Chimica Lombarda, azienda specializzata nella produzione e nella commercializzazione di vernici, oli, grassi e saponi speciali per le industrie conciarie, tessili, metalmeccaniche e saccarifere. Prodotti scelti anche perché hanno il vantaggio di richiedere lavorazioni semplici, con basso impiego di manodopera, e veloci, che possono essere completate in due o tre giorni: questo consente di produrre sulla base degli ordinativi, quindi senza eccessivo immobilizzo di capitali e grandi scorte di magazzino. Dunque, riduzione dei costi e consegne veloci. Assomiglia e anticipa -ma molto più in piccolo, s'intende - il vantaggio che avrà l'industria giapponese negli anni Settanta e Ottanta inventando il cosiddetto just in tinte, cioè produrre sulla base degli ordini, produrre per consegnare, con pochi immobilizzi e poco magazzino. Siccome questa ed altre sue intuizioni sono giuste, e siccome i settori industriali ai quali sono destinati i suoi prodotti sono in forte espansione, il successo è istantaneo. Lo aiutano anche la poca consistenza della chimica fine italiana e la sua conoscenza delle innovazioni tecnologiche della chimica tedesca. Continua ad assumere operai, è costretto a cambiare sede ed a spostare uffici e stabilimento un po'"più in là, sempre in via Giuseppe Tartini. Il fratello Umberto lavora con lui a tempo pieno, è il suo braccio destro in azienda mentre Enrico, occupandosi più dei rapporti commerciali, viaggia molto. In seguito, Mattei ricorderà con nostalgica gratitudine i nomi delle prime aziende che gli hanno accordato fiducia fin dagli esordi della sua I. C.L.: Masciardi, Standard Oil, Shell, Azienda Trasporti Lombarda, Costruzioni Meccaniche Baranzini. Anche questa battaglia è vinta, anzi stravinta: il fatturato cresce vertiginosamente: nel '34 è di 296.000 lire, nel '36 sale a 1.368.000, nel '38 arriva 2.640.000 lire. Prima dei trent'anni Enrico Mattei è un uomo ricco, un uomo che si è «fatto da sé»: un 53 caso quasi unico in un paese che in quell'epoca non era certo una fucina di imprenditorialità. È ricco, ma non sperpera. Com'era prevedibile, pensa prima di tutto alla famiglia, che a Matelica sistema in una casa ampia, centralissima e prestigiosa: deve essere ben chiaro per tutti che ce l'ha fatta. Sempre nella zona compra altri immobili e alcuni poderi che si riveleranno ben presto degli ottimi affari - da allora, a chi gli chiedeva consigli di investimenti sicuri risponderà sempre: «Comprate terreni, la terra è comunque l'unica sicurezza». Mamma Angela può chiudere la sua botteguccia - anche se lei avrebbe preferito continuare ad occuparsene, ma per Enrico quell'attività non era più «adeguata» alla madre di un affermato industriale di Milano. Nel frattempo Mattei cerca di aver ragione di un altro forte rimpianto, suo e di suo padre: gli studi interrotti, non aver preso almeno un diploma. Riprende gli studi di ragioneria. Si munisce anche di un «Phonoglotta», un sistema allora considerato molto innovativo per apprendere le lingue con dischi e grammofono. Vuole imparare il francese, in quegli anni considerata ancora la vera lingua internazionale, e passa molte sere a casa a scrivere sotto dettatura e a ripetere le frasi ascoltate al grammofono. Ma non è un secchione, tutt'altro: e dunque se la gode anche, giacché se lo può
permettere, concedendosi gli svaghi e i lussi semplici di chi è nato povero, ma con l'avidità di chi dalla miseria si è riscattato. Gli piace andare spesso a cena fuori, frequenta ristoranti costosi, ama la situazione conviviale, la tavolata di amici, il buon umore dello stare insieme a tavola. Non è un grande buongustaio, ma è un'ottima forchetta: da quando è a Milano inizia la giornata facendo colazione con due uova al guscio cotte tre minuti, è convinto che gli diano una grande energia per tutta la giornata. Ama la carne ai ferri poco cotta, quasi cruda. Ma apprezza anche del buon pesce bollito - spesso si fa cuocere quello che pesca condito solo con un po'"d'olio. Beve poco, non ama il vino e non se ne intende, in questo contravvenendo alla sua conclamata marchigianità. E poi varietà, teatro, operette. 54 Ma, come abbiamo già detto, soprattutto gli piacciono le ragazze. Anche per questo va spesso a ballare e frequenta i night- club. Le conquiste non sono difficili per un bell'uomo come lui, simpatico, molto cortese e galante, con tanto denaro a disposizione, accuratamente vestito con abiti di sartoria, che fuma sigarette esotiche con il bocchino d'oro, con quell'aria un po'"provinciale che lo rende ancora più amabile. Le donne non gli mancheranno mai. A quell'epoca a Milano furoreggiavano gli spettacoli di varietà e di operetta, dei quali il più popolare e rappresentato è Al Cavallino Bianco di Ralph Benatzky, molto amato per le sue coreografie sontuose e, per quei tempi, sfacciatamente moderne, che anticipavano nella grandiosità certe commedie musicali americane degli anni Quaranta. Uno spettacolo molto apprezzato anche da Mattei, soprattutto per le tante bellissime ballerine austriache, tutte alte, bionde, occhi azzurri. L'intraprendente e ricco giovanotto di provincia riesce a conquistarsi il privilegio di frequentarne qualcuna dopo lo spettacolo, come facevano a Parigi i figli di papà della Belle Epoque; non c'è solo l'obiettivo della conquista ma anche un bel po'"di vanità maschile, gli fa piacere farsi vedere in giro con queste bellezze internazionali. Ma ama frequentare più di tutte Margherita Maria Paulas, detta Greta, viennese. È particolarmente bella, di una bellezza molto vistosa; bionda, occhi azzurri, molto alta. Ma diversamente dalle altre ragazze della famosa compagnia Schwarz frequentate da Mattei, Greta è una conversatrice tranquilla e piacevole e ha un buon carattere: semplice, molto dolce, ma anche solido e tenace. Enrico se ne innamora e decide che è arrivato il momento di sposarsi: ormai ha quasi 30 anni. Com'era facile prevedere - e come, in effetti, Enrico aveva previsto - alla sua famiglia la ragazza non garba molto. Negli anni dell'ascesa impetuosa del loro primogenito, papà Antonio e mamma Angela avevano sognato per lui un matrimonio importante con una «figlia di famiglia» dal bel nome, possibilmente di Matelica, per conquistare definitivamente quel rango che a loro ormai spettava in paese; ma poteva andar bene perfino una ragazza di Milano, purché di buona famiglia, di una fa55 miglia importante. E invece, «quell'austriaca ... una ballerina ... così appariscente, non se l'aspettavano» - ricorda Maria. Ma certo non si potevano opporre, giacché «il vero capofamiglia ormai era lui, Enrico». Ed Enrico era innamorato di Greta e amerà sempre sua moglie, con tenerezza; le sarà sempre devoto ma non fedele, non reprimerà mai la sua natura di donnaiolo: per la sua formazione maschilista le molte «scappatelle» extraconiugali, in fondo, erano peccatucci veniali. La fedeltà in amore non è tra i valori appresi da ragazzo. Il matrimonio è celebrato a Vienna all'inizio della primavera del 1936. A Vienna e non a Matelica, e anche di questo in casa Mattei non si faranno mai una ragione. Dopo il viaggio di nozze, comunque, Enrico fa una brevissima apparizione prima ad Acqualagna e poi a Matelica per presentare la sposa alle comunità che lo hanno visto nascere e crescere. Un avvenimento memorabile per quei paesi, come la visita di un grande personaggio, come il ritorno di una specie di «zio d'America» più giovane e meno remoto, ma reso ancora più affascinante dall'esotica presenza di quella bellissima moglie viennese. Ecco come ricorda quell'evento Ovidio Luccarini, sindaco di Acqualagna dal 1960 al 1995, che vi assistette da bambino: «Una sera di
luglio del 1936, verso fine mese, era il 25, in piazza, sotto a dove era la vecchia caserma, c'era e c'è ancora il Caffè Centrale: io ero un ragazzino, avevo undici anni. Arriva questo Mattei in macchina: a quei tempi le macchine qui erano rare e lui arriva con la moglie, in viaggio di nozze. Poi doveva andare a Matelica. Mi ricordo che dicevano tutti: "Quello è il figlio di Mattei, del brigadiere Mattei, quello che ha preso il brigante Musolino"». Molto dolce e comprensiva, molto riservata e solida, parsimoniosa ai limiti dell'avarizia: così Maria Mattei ricorda la cognata. Anche negli anni in cui è la moglie di uno degli uomini più potenti del paese, e quando gli impegni ufficiali la portano alla Scala di Milano o all'Opera di Roma con capi di Stato e di governo, ministri e ambasciatori, Greta evita di rivolgersi a grandi stilisti o di frequentare negozi di lusso: preferisce continuare a servirsi sempre dalle stesse sartine. 56 Ma da quel matrimonio Mattei non avrà figli. È questo il suo più grande cruccio, il più doloroso rimpianto della sua vita. Ben presto, infatti, Greta rimane incinta ma la gravidanza si presenta difficile fin dall'inizio: al quinto mese nasce un maschietto che non sopravvive che poche ore. Comincia così la via crucis da uno specialista all'altro e la sentenza era sempre la stessa: Greta non avrebbe più potuto avere figli. Questo condizionerà molto la vita di Mattei, nelle piccole grandi scelte esistenziali. Quando, negli anni Cinquanta, da presidente dell'Eni comincia a passare gran parte del suo tempo a Roma, non mette mai su casa, preferendo vivere in albergo. E alla povera Greta che se ne lamenta perché vorrebbe avere almeno una casa di cui occuparsi risponde che non vuole darle del lavoro in più, che sono molto più liberi così. In realtà non concepisce una casa senza bambini. Per la stessa ragione non riuscirà mai ad accumulare del denaro per sé: «Per lasciarlo a chi, alla mia morte?» spiega con amarezza e sarcasmo. «E poi a me non manca nulla.» Greta, invece, non la pensa così e riesce a mettere insieme un discreto patrimonio che saprà conservare e far fruttare. E questo stato d'animo, questa mancanza di un riferimento esistenziale esterno e di un senso oggettivo della vita, che un figlio avrebbe potuto dargli, è probabilmente fra le motivazioni che lo spingeranno, quando le vicende della vita e della storia gliene daranno l'occasione, ad occuparsi, lui imprenditore di successo, dell'interesse pubblico, del futuro del paese. Capitolo Quinto LA SCOPERTA DELLA POLITICA Mattei, lo abbiamo già detto, è sempre stato un nazionalista populista. In primo luogo per formazione familiare: il padre carabiniere ed eroe per caso, le letture edificanti imposte da nonna Ester, il clima della provincia italiana, dell"«Italietta» di quei primi decenni del Ventesimo secolo. Giorgio Ruffolo, uno dei più stretti collaboratori di Mattei patron dell'Eni, dirà che quel nazionalismo «era fatto in casa, era di origine familiare». Col fascismo, quindi, Mattei inevitabilmente simpatizza fin dai tempi di Matelica: ha una cultura politica rozza, semplicistica e superficiale e il fascismo risponde a tutte le sue domande. Il fascicolo della polizia politica, intitolato ad «Enrico Mattei» e conservato all'Archivio Centrale dello Stato, contiene dei documenti del 12 marzo 1934 in cui si parla di «un certo Mattei» che arriva a Roma da Milano per andare al ministero delle Corporazioni a chiedere un permesso. Secondo il rapporto di un informatore quel giovane è «un buon fascista», che avrebbe aspettato quattro giorni all'Hotel Lago Maggiore per essere ricevuto al ministero, senza tuttavia riuscire ad ottenere udienza. Il rapporto precisa che si tratta proprio di Enrico Mattei, via Perugino 27, Milano; «lo stesso della Ditta Enrico Mattei» (non è ancora la I. C.L.). L'identificazione è approssimativa - secondo la tradizione delle polizie segrete italiane - ma sufficientemente certa.
In un documento successivo, del 3 giugno 1934, si parla del «proprietario della Ditta Mattei (produzione oli e grassi), sita in via Roberto Cozzi 14», come di «un giovane attivo ed intelligente, fascista e squadrista ...» (abitante in viale Abruzzi, secondo la prefettura di Milano). Qui gli indirizzi sono un po' 58 stravaganti e raccolti chissà come, ma è chiaro che si tratta ancora del nostro Mattei, per il quale la definizione di «squadrista» sembra francamente esagerata, ispirata forse da un eccesso di zelo del benevolo redattore del rapporto, preoccupato di tranquillizzare definitivamente il destinatario. Da questo episodio si può comunque dedurre che il Mattei degli anni milanesi, al di là dei propri convincimenti politici, ha interesse a dare di sé l'immagine del buon fascista, tranquillamente allineato alle posizioni del regime. È una scelta quasi obbligata, in quegli anni, per un imprenditore esordiente ed ambizioso come lui. Ma la massima e più convinta adesione al regime di Mussolini arriva, come per la grande maggioranza degli italiani, con l'impresa d'Etiopia, nella quale riesce anche a intravedere una possibilità d'affari. La campagna d'Abissinia, infatti, si porta dietro le sanzioni economiche imposte all'Italia per rappresaglia dalle potenze democratiche e l'autarchia come risposta propagandistica del regime. Mattei teme che vengano a mancargli dei prodotti, molti dei quali di importazione, necessari alle lavorazioni della sua Industria Chimica Lombarda. La propaganda fascista però presenta il Mar Rosso come un nuovo «Mare nostrum», e le risorse economiche naturali del Corno d'Africa come un tesoro, un'immensa cornucopia ora finalmente a disposizione della laboriosità e creatività degli italiani. Perciò nel maggio del 1936 Mattei manda suo fratello Umberto a Massaua, porto eritreo sul Mar Rosso, alla ricerca di grassi di animali marini o di oli vegetali da piante africane utilizzabili per la sua fabbrica e dei quali aveva sentito parlare. Ha presentato al ministero delle Corporazioni un progetto per la creazione di una flottiglia da pesca e di uno stabilimento per il primo trattamento del pescato, chiedendo una concessione per la pesca industriale in Eritrea. Spera di ottenere dalla pesca di squali e delfini i grassi che gli servono. Il ministero sembra ben disposto, ma poi la lavorazione e la conservazione del pesce appaiono difficili. Il progetto, forse anche per l'opposizione di altri operatori italiani del settore già presenti nel Mar Rosso, viene insabbiato. La missione prosegue, ma si rivela un fallimento: Umberto, certo anche per incompe- 59 tenza specifica, non trova nulla di quello che cerca e dopo sedici mesi torna a Milano. Un fallimento senza alcuna conseguenza pratica però, giacché in barba alle «inique sanzioni», come le definiva la propaganda fascista, sostanzialmente aggirate dalla maggior parte dei nostri partner commerciali e quindi prive di effetti significativi sull'intera economia italiana, gli affari di Mattei vanno di bene in meglio. Le materie prime in qualche modo arrivano alla I. C.L., che conquista sempre nuove quote di un mercato per altro in espansione, grazie al sempre maggior uso che gli italiani fanno dei pellami nell'abbigliamento e nell'arredamento. E poi sono arrivati due nuovi soci, le ricche famiglie Alfieri e Noli. I primi dispongono anche di una bella riserva di caccia nell'Oltrepò pavese, che Enrico e Umberto frequentano volentieri e assiduamente, facendosi spesso fotografare con i padroni di casa mentre esibiscono carnieri stracolmi, dozzine di lepri, pernici e quaglie. Ma per Enrico la caccia è solo un occasionale surrogato della pesca. «Vado matto per le trote» racconta una sera a cena «ma prima di tutto per me vengono i salmoni. Forse perché mi porto dentro il loro stesso bisogno di tornare.» E infatti tutte le volte che può torna a Matelica. Adora passare lunghe ore a tavola con la famiglia e i rari amici invitati a gustare i pranzi accuratamente e amorosamente preparati da mamma Angela, con la quale poi fa interminabili chiacchierate, fitte fitte e interdette a chiunque altro. Però ama molto anche farsi vedere in giro con lente e interminabili passeggiate serali e tiene a far capire chi è diventato facendo acquisti importanti, operazioni immobiliari di rilievo, ottimi colpi generalmente segnalati e preparati dalla mamma, sempre attenta al mercato e dalla quale Mattei ha ereditato l'acuto senso degli affari.
Quando arriva da Milano, generalmente non ha da fare altro che dare un'occhiata al rustico o al terreno e poi firmare l'atto di compravendita, a tutto il resto ha già pensato Angela. Alla fine degli anni Trenta, alla vigilia della guerra, Mattei è titolare a Milano di un'importante e solida industria chimica in forte espansione, ma ha anche le spalle ben coperte a Matelica, dove è proprietario di uno dei più bei palazzi del centro, 60 di una villa ottocentesca, di alcuni rustici nelle campagne circostanti e di circa trecento ettari di terreni. Ma non è tipo da limitarsi a comprare e basta, Mattei, lasciando le cose come le trova, solo per il gusto di possederle e di diventare uno dei maggiori proprietari di immobili della zona o per la soddisfazione di sistemare i genitori nel bel palazzo Grassetti, ricco di stucchi preziosi, grandi saloni dai soffitti a volta, pieno di tele e mobili antichi. A lui piace intervenire, fare cambiamenti e migliorie provocando, come è inevitabile in un piccolo centro di provincia, invidie, chiacchiere, azioni legali che lo lasciano comunque del tutto indifferente: e così trasforma vecchi cascinali in moderne fattorie modello, brulli gerbidi in frutteti, vecchie stalle cadenti in efficienti e lindi impianti per l'allevamento del bestiame, tra i primi meccanizzati in quelle zone. Opera scassi profondi, disturba la quiete piuttosto retrograda della provincia marchigiana. Pensa all'agricoltura moderna e industrializzata come a un'opportunità per il suo futuro, quando vorrà tornare alla sua terra. Le schizzinose (e invidiose) élite locali non riescono più a trattenere l'indignazione quando Mattei decide di intervenire anche su palazzo Grassetti, la prestigiosa residenza comprata per i suoi genitori, ristrutturandone alcune parti, dotandolo di moderni servizi igienici e di bagni. Lo scandalo esplode e i notabili - quelli che fra qualche anno lo imploreranno di entrare nel loro Circolo dal quale ora si ostinano ad escluderlo - alzano in coro la voce: chi crede di essere questo nuovo ricco che da bambino per andare a fare la pipì doveva attraversare l'orto? Dopo il matrimonio, Enrico e Greta si trasferiscono in una nuova grande e bella casa in piazza Carnaro, oggi piazza della Repubblica, nello stesso stabile in cui abitano i Boldrini, con i quali i rapporti sono sempre più stretti. D'altra parte, già in via del Perugino le due famiglie erano vicine: era stato infatti Marcello Boldrini a procurare, grazie alla maggiore conoscenza di Milano, prima l'uno poi l'altro alloggio al suo concittadino. Questa seconda abitazione è più adeguata allo status sociale raggiunto da Mattei, anche grazie al rapporto con il suo concittadino: Boldrini gli presenta i suoi amici imprenditori e intellet61 tuali, ma lo porta anche dal suo sarto, dal suo camiciaio, dai suoi antiquari e mercanti d'arte. E proprio in quella casa, dove vivono anche il fratello Umberto e le sorelle Maria e Esterina, alla vigilia della guerra Mattei ospita in lunghe serate di conversazioni intense e appassionate Amintore Fanfani, Ezio Vanoni, Enrico Falck, Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira, Agostino Gemelli e tanti altri intellettuali della sinistra cattolica lombarda e amici di Marcello Boldrini, docenti dell'Università Cattolica o provenienti da altre città, Bologna e Roma in primo luogo. È ormai chiaro che l'Italia sta per entrare in guerra, ma non è affatto chiaro come andrà a finire. Anche tra gli antifascisti, di questi tempi, in molti sono convinti di una rapida vittoria dell'Asse. Che fare, dunque? Come comportarsi nei confronti del conflitto imminente e del regime, mai così forte come in quei mesi? D'altra parte Mattei, accanto a queste considerazioni teoriche, è costretto a farne anche di molto pratiche, esercizio che, dato il suo pragmatismo caratteriale, gli riesce molto bene. Per prima cosa, infatti, deve tenere conto della sua azienda. La I. C.L. è ormai diventata una media industria molto dinamica, molto redditizia e di una certa importanza anche dal punto di vista militare; infatti è un buon fornitore dell'esercito. Intanto però l'avida curiosità, l'irrequieta voglia di conoscenza di Mattei, tanto stimolate negli ultimi anni dal rapporto con Boldrini e i suoi amici che lo arricchiscono ma anche acuiscono i suoi complessi d'inferiorità culturale, lo
spingono, come già detto, ad iscriversi all'università, alla Cattolica naturalmente. E per inevitabile effetto dei discorsi e delle sue frequentazioni di quei tempi, la facoltà scelta non può essere che Scienze politiche, nonostante abbia, e continuerà sempre ad avere, una grande ammirazione per gli ingegneri. Se riuscisse a laurearsi, anche l'ultimo dei sogni che papà Antonio aveva fatto sul suo primogenito diventerebbe finalmente realtà. Cresce anche la sua passione per la pittura del Novecento: compra Carrà, Sironi, Tosi, Casorati, Rosai, Tome. E spesso, dimostrando un fiuto straordinario, compra quando gli autori non sono ancora famosi e costosi. È un altro dei benefici effetti della frequentazione di casa Boldrini. Infatti, se a stimolarlo e 62 guidarlo negli acquisti sono il suo gusto istintivo - grossolanamente educato quando dipingeva letti nella fabbrichetta di Matelica - e il suo spiccato senso degli affari, tuttavia decisivi sono i consigli dell'amico e concittadino, che vanta dei pittori fra i suoi avi, ma soprattutto le segnalazioni di Renata Boldrini, moglie di Marcello, pittrice dilettante e acuta esperta d'arte. Mattei mette così insieme una delle più interessanti collezioni private di arte contemporanea dei suoi tempi. In tutto una quarantina di tele che, dopo la morte di Greta, avvenuta a Roma il 27 febbraio 2000, saranno vendute all'incanto a Milano, per incarico degli eredi dalla casa d'aste internazionale Christie's il 30 maggio del 2000. Cinque giorni prima la stessa casa d'aste aveva messo in vendita a Roma la non meno pregiata collezione di gioielli. Capitolo Sesto IL COMANDANTE PARTIGIANO Quando scoppia la guerra Mattei, che a suo tempo aveva fatto solo sei mesi di naja, non viene chiamato alle armi, come quasi tutti gli imprenditori, i dirigenti e i dipendenti di industrie fornitrici delle forze armate o comunque utili allo sforzo bellico. I Mattei si sono da poco trasferiti in una casa ancora più grande e più bella, in via Fatebenefratelli, nella quale Enrico, pur non avendola acquistata, investe molto denaro e molte cure: vuole che diventi una sorta di circolo, di cenacolo dove Boldrini e i suoi amici possano riunirsi e discutere. E così avviene, quasi tutte le sere, in un ambiente lussuoso e confortevole. Ecco come Orio Giacchi, giurista docente all'Università Cattolica, uno degli amici di Boldrini, ricorda una visita nella nuova casa di Mattei, col quale era anche in rapporti professionali: «Fui sbalordito dall'opulenza di quell'abitazione: bar nel salone, camerieri in giacca bianca, autista in divisa con gambali. Mi spiegò che le sue fortune erano di marca austriaca. Si riferiva al fatto che in quel paese aveva scoperto sia un brevetto chimico che gli aveva permesso di far fortuna sia la moglie Greta, alla quale era legatissimo». Durante quelle serate Mattei è sempre più attento e sensibile agli argomenti e alle tesi di quel circolo di intellettuali cattolici: gli anni delle simpatie, sincere o opportunistiche, per il fascismo sono ormai lontani, anche se resta in lui quella particolare forma di nazionalismo intriso di populismo che non lo abbandonerà mai e che, d'altra parte, è conciliabilissimo con il patriottismo «cristiano e sociale» dei suoi amici. Di costoro, ben presto anche i meno pessimisti si convincono che la guerra sarà lunga, che il suo esito sarà disastroso per il pae64 se e che di conseguenza il regime non potrà sopravvivere al conflitto. Bisogna dunque prepararsi al dopo: immaginare, pensare e progettare la nuova Italia. E in questo periodo i rapporti personali fra Mattei e Boldrini sono ormai strettissimi, le vicende drammatiche della guerra saldano indissolubilmente un'amicizia già forte: «... un ciclo di anni è rimasto nell'ombra» ricorda Boldrini «ed è noto solo a me e a pochissimi altri. Esso è della massima importanza, perché ha costituito per lui la svolta decisiva nella formazione sociale e politica. Parlo del periodo
1940-1944 quando vivemmo assieme, quasi isolati, mentre maturavano le sventure della patria». Una convivenza che, se inizialmente era assiduità e consuetudine, diventerà reale, effettiva all'inizio del 1944 - Mattei aveva già abbandonato il lussuoso appartamento di via Fatebenefratelli - quando la casa di Boldrini fu requisita dai tedeschi: «Le nostre due famiglie si riunirono nell'appartamento di Umberto e Maria Mattei e praticamente ci segregammo dal mondo». Intanto però la guerra rende sempre più difficili anche gli approvvigionamenti di materie prime necessarie per portare avanti l'attività industriale della I. C.L., che è costretta a rallentare la produzione. Poi cominciano le interruzioni, sempre più frequenti e sempre più lunghe. C'è di mezzo anche la volontà di Mattei di non contribuire allo sforzo bellico, di non servire una cattiva causa, come racconteranno poi molti suoi amici a cominciare dallo stesso Boldrini? È possibile. Ma è certo che egli non abbia ecceduto in zelo, non si sia impegnato più di tanto a superare i problemi che imponevano le sempre più frequenti fermate. I terribili bombardamenti angloamericani di Milano del 1942-43 non danneggiano né la fabbrica né i beni personali di Mattei, ma al momento della caduta del fascismo e dell'arresto di Mussolini, il 25 luglio del 1943, l'attività della I. C.L. è di fatto ferma da tempo anche se Mattei simula che la fabbrica sia ancora in attività, continuando a pagare gli stipendi agli operai. Evita così che lo stabilimento gli venga requisito ed utilizzato per altre necessità belliche e, soprattutto, che i dipendenti, risultando disoccupati, siano arruolati e mandati a combattere. La situazione diventa ancora più complicata do65 po' l'8 settembre, l'armistizio con gli Alleati e la nascita della Repubblica sociale mussoliniana al Nord occupato dai tedeschi. Si sforza di non far cadere in mani naziste le materie prime e i lavorati ancora giacenti in magazzino e necessari per simulare l'attività produttiva e insieme di non contribuire allo sforzo bellico. Intanto alla Cattolica l'attività di Boldrini ha assunto da tempo, ben prima della caduta del fascismo, i caratteri di una vera e propria opera di cospirazione politica. Si moltiplicano gli incontri e le riunioni con colleghi, discepoli, amici, visitatori: Dossetti, La Pira, Padovani, Malvestiti, Fanfani, Giuseppe Lazzari, don Franco Costa, Enrico Falck, don Carlo Colombo, Sofia Vanni Revigli, Pino Glisenti e tanti altri ormai sono al lavoro per mettere a punto un vero e proprio progetto politico di lotta al fascismo prima e quindi di ricostruzione del paese, sempre sulle basi ideologiche cristiano- sociali e cattolico- democratiche proprie di quel gruppo e di un certo cattolicesimo lombardo, in alcuni con marcate venature anticapitalistiche e antiocciden- tali, come nel caso di Dossetti, La Pira ed altri, talvolta perfino filocomuniste. D'altra parte, quell'impianto teorico era già stato messo addirittura nero su bianco. Il 18 luglio del 1943, si riuniscono nell'eremo di Camaldoli molti rappresentanti del Movimento Laureati. È un'associazione nata nove anni prima per continuare a tenere insieme gli ex aderenti alla Fuci, la federazione degli universitari cattolici, una volta usciti dagli atenei ed entrati nella vita professionale. Il Movimento divenne inevitabilmente, sotto l'occhiuta attenzione del regime, luogo di dibattito politico, con un orientamento fondato sulla «dottrina sociale della Chiesa», costituendo col tempo il terreno di coltura di quella che sarebbe diventata la sinistra democristiana (ma anche di molti cattolici confluiti nel Pci). Quando quei giovani professionisti, docenti e studiosi cattolici si convocano in quell'eremo, ufficialmente per discutere sulla «vita familiare, civica, economica e internazionale», hanno ormai la netta percezione che la fine del fascismo (e della guerra) sia imminente - il secondo giorno dei lavori vengono informati che Roma è stata bombardata - e che bisogna cominciare a dise66 gnare l'Italia del futuro. A Camaldoli ci sono anche Giulio Andreotti, Vittore Branca, Giuseppe Capogrossi, Guido Gonella, Giorgio La Pira, Pasquale Saraceno, Paolo Emilio Taviani, Ezio Vanoni, Amintore Fanfani, Aldo Moro e molti altri i cui nomi ricorreranno spesso nella storia della Dc e della Prima Repubblica. In una settimana di intenso lavoro stendono quel documento, chiamato «Codice di Camaldoli»
- alludendo ai preziosi testi compilati a mano dai monaci in quell'eremo -che ispirerà la politica della sinistra democristiana e di gran parte della Dc nell'Assemblea costituente prima e al governo dopo: intervento dello Stato in economia, assistenzialismo, meridionalismo, una certa diffidenza verso il mercato, il liberismo e l'Occidente capitalistico, con conseguenti simpatie per il Terzo mondo e forti tentazioni neutralistiche. Quella riunione di Camaldoli si conclude il 24 luglio. Il giorno dopo il re fa arrestare Mussolini. Ma la guerra durerà ancora due anni. Mattei, da parte sua, ormai è convintissimo. Respira quelle idee da quando ha cominciato a frequentare Boldrini a Milano. Ha fatto definitivamente la sua scelta antifascista già prima dell'ingresso dell'Italia in guerra e ha capito almeno dal 1942 che il conflitto è perso, che il paese ne uscirà in ginocchio e che il regime, che comunque va combattuto e abbattuto, non ha futuro. «Enrico ... teneva d'occhio l'orologio» racconta Boldrini «per non perdere nessuno degli appuntamenti di Radio Londra. Egli segnava poi su una grande carta geografica gli arretramenti inarrestabili degli eserciti impegnati nella disastrosa campagna di Russia ... I discorsi e le discussioni erano tutti orientati sulle nostre aspirazioni di allora: propositi radicali di riforma per il giorno in cui fascisti e tedeschi se ne sarebbero andati.» «Con noi fratelli» racconta Maria «non parlava mai di politica ma in quei giorni ripeteva continuamente che ormai la guerra era persa, che il fascismo era condannato e che bisognava prepararsi a costruire un'Italia più giusta e più libera. In quel periodo era particolarmente irrequieto, più del normale, quasi agitato. Era come se temesse che potesse accadere qualcosa senza di lui.» 67 Ma Mattei è un pragmatico, un uomo d'azione che alle lunghe teorizzazioni, ai «discorsi e ai dibattiti» preferisce l'iniziativa, i fatti; tanto più che l'inattività forzata della sua fabbrica gli lascia molto tempo libero, condizione alla quale non è abituato e non riesce a adattarsi. Perciò già dalla fine del '42 cerca di entrare in contatto con le strutture politiche organizzate e attive dell'antifascismo. Ma non è una cosa facile: i gruppi clandestini sono comprensibilmente molto diffidenti, soprattutto nei confronti di un personaggio come Mattei che in passato ha apertamente simpatizzato per il fascismo. D'altra parte, alle riunioni degli amici di Boldrini, alle quali continua a partecipare, incontra sempre più spesso personaggi che diventeranno esponenti della futura Democrazia cristiana e che imparano a fidarsi di lui. A questo punto è necessario un accreditamento a livello nazionale, perciò nel maggio del '43 riesce finalmente ad andare a Roma con una lettera di presentazione di Boldrini per Giuseppe Spataro, esponente di primo piano del vecchio Partito popolare e che ora sta lavorando nella clandestinità alla sua ricostruzione, alla nascita cioè della futura Dc. Spesso in Italia, qualche richiamo di campanile è utile per conquistare la fiducia dell'interlocutore almeno quanto le referenze personali. «Mattei» ricorda infatti Spataro «mi disse di aver frequentato l'Istituto tecnico di Vasto, mia città natale, che risiedeva a Milano e che voleva svolgere attività antifascista. Lo accreditai presso gli esponenti della Dc di Milano.» Mattei aveva effettivamente frequentato le scuole di Vasto quando il padre era stato trasferito a Casalbordino e quel piccolo riferimento anagrafico, abilmente utilizzato, contribuisce ad aprirgli le porte della nascente Democrazia cristiana. Comincia così un'esperienza, una fase nuova della vita di Mattei: l'impegno attivo e ai massimi livelli nella Resistenza, un impegno che si rivelerà più lungo e aspro di quanto tutti si aspettassero, a cominciare dallo stesso Mattei, giudicando da come ne parlava con i fratelli: «Fra pochi mesi sarà tutto finito e dovremo rimboccarci le maniche». I mesi invece saranno molti, quasi due anni che lo cambieranno profondamente, durante i quali farà amicizie nuove e significative che non ab68 Mattei bandonerà più, creando una solidarietà, uno spirito di corpo forte e profondo quanto gli altri suoi sentimenti basilari, l'amor di patria e l'attaccamento alla
famiglia, al quale farà spesso ricorso con la massima fiducia negli anni del successo e del potere. La maggior parte delle persone delle quali più si fiderà e che più spesso chiamerà accanto a sé per incarichi della massima fiducia saranno i compagni di quegli anni. Nell'estate del 1943 Enrico Mattei si trova a Matelica con Marcello Boldrini. È lì che il 25 luglio vengono raggiunti dalla notizia della rimozione e dell'arresto di Mussolini, sostituito come capo del governo da Pietro Badoglio. Ai due amici, come d'altra parte a tutti gli italiani in quelle ore, sembra che per la fine del conflitto fosse ormai questione di giorni, nonostante l'Eiar, l'emittente radiofonica di Stato, continui a ripetere un comunicato ufficiale che, dando notizia dell'accaduto, concludeva con le parole: «La guerra continua». A tutti sembra una precisazione puramente formale in attesa che il nuovo governo avvii trattative di pace. E in effetti 45 giorni dopo, l'8 settembre, la radio dà notizia della firma dell'armistizio con i governi alleati. In quel mese e mezzo le truppe tedesche presenti in Italia non sono certo rimaste in paziente e passiva attesa degli eventi: si sono rafforzate, hanno occupato posizioni più favorevoli. Dall'altra parte, di fronte a questi movimenti e prevedendo i futuri sviluppi degli eventi militari, si vanno organizzando sulle montagne i primi gruppi di partigiani. All'annuncio tragicamente confuso e ambiguo dell'armistizio, l'esercito italiano, sfiduciato e senza ordini chiari - «... rispondere agli attacchi da qualunque parte provengano» - si dissolve. Il re e il governo lasciano Roma per mettersi in salvo a Brindisi. È la pagina più nera della storia d'Italia. In quel clima molti passano direttamente e spesso inevitabilmente nelle file della Resistenza che si organizza in vista dello scontro con gli ex alleati. I tedeschi, infatti, occupano militarmente le zone del paese non ancora raggiunte dagli Alleati, cioè buona parte della Penisola, dove hanno costituito lo stato fantoccio della Repubblica sociale italiana, alla testa del quale hanno messo Mussolini, ormai tragico simulacro di se 69 stesso, fatto liberare dall'amico Hitler. La resistenza al fascismo dunque diventa ora apertamente guerra di liberazione dall'occupazione germanica. Il 18 settembre arriva a Matelica un reparto delle SS. In quella zona le prime formazioni partigiane si erano organizzate subito dopo l'armistizio sulle alture intorno alla città, soprattutto nella zona di Roti, una frazione alle falde del Monte San Vicino, e sulle montagne del Gemmo. Racconta Giuseppe Baldini, insegnante, sindaco di Matelica dal 1962 al 1964, allora ventitreenne comandante partigiano in quella zona: «Io comandavo un gruppo apolitico, il cui simbolo era il Tricolore, che, dopo l'8 settembre fece parte del Comitato di Liberazione Nazionale. Il gruppo operava nell'area di Matelica: zona sicura per i giovani,* gli sbandati, i prigionieri politici, i prigionieri alleati. C'erano slavi fuggiti dai campi di concentramento, militari inglesi, soldati negri (i cosiddetti «dumbatt») che erano stati rinchiusi in un campo presso Macerata e liberati da me e da altri del nostro gruppo. Mattei venne in rapporto con me perché ... venne in aiuto con armi che aveva racimolato ...». Nella zona di Roti infatti erano confluiti una trentina di uomini fra inglesi e slavi prigionieri di guerra liberati dai partigiani e una quindicina di italiani. I britannici erano comandati dal capitano della Raf Antony Pyne, che era stato fatto prigioniero nel '40 dopo un attcrraggio di fortuna in Sicilia. Gli slavi erano agli ordini del tenente Kacic. Il Cln aveva nominato Baldini, anzi il tenente Baldini, comandante del gruppo italiano. Tutte le formazioni operanti nell'area del Monte San Vicino facevano parte della V Brigata Garibaldi, al comando del colonnello Corradi. I reparti dunque cominciavano a strutturarsi, c'era un primo schema organizzativo, c'era anche tanta volontà di combattere e di riscattarsi. Quello che mancava, e non era un dettaglio secondario, erano le armi. Cominciano perciò le requisizioni nelle caserme circostanti ancora in funzione o nelle vecchie caserme abbandonate. Generalmente si tratta di pezzi di vecchia costru* Giovani che volevano evitare l'arruolamento forzato o la deportazione da parte dei tedeschi. [Tutte le note a piè di pagina sono a cura dell'Autore.]
70 Mattei zione un po'"malandati, ma per cominciare vanno bene. Le riunioni del Cln della zona, del quale naturalmente Marcello Boldrini faceva parte fin dalla costituzione, avvenivano quasi sempre nella canonica del parroco di Braccano, una frazione di Matelica, don Enrico Pocognoni. Quel prete verrà scoperto, catturato dai tedeschi e fucilato insieme ad altri partigiani il 24 marzo 1944. Mattei, naturalmente, prende subito contatto col Cln locale e raggiunge rapidamente la formazione partigiana in montagna. L'accoglienza che gli viene riservata non è di quelle che è lecito aspettarsi in questi casi: nei suoi nuovi compagni egli coglie un chiaro - e comprensibile - atteggiamento di cautela e freddezza, come spesso accade in ambienti di tipo militare nei confronti dei neofiti, dei pivelli, delle «burbe». In questo caso, però, c'è un ulteriore motivo di diffidenza ben più serio e concreto: in primo luogo la conversione antifascista relativamente recente - le trascorse convinzioni politiche di Mattei, di cui non aveva mai fatto mistero, sono ben note a Matelica e dintorni - e poi la sua completa inesperienza militare (la maggior parte dei comandanti partigiani sono soldati regolari e sono stati in guerra: in fondo Mattei appare ai loro occhi come un imboscato; e lo è). Il nostro ne soffre molto, permaloso e sensibile com'è. Ma non se ne lagna, neppure con Boldrini, che d'altra parte non ha rapporti diretti con le formazioni combattenti. Reagisce anzi nell'unico modo che conosce: con un impegno orgoglioso e testardo per dimostrare con i fatti che non solo ci si può fidare di lui, ma che la sua opera è indispensabile. Impegno che, naturalmente, date la sua formazione professionale e le sue attitudini, riesce a rivolgere efficacemente non sugli aspetti militari dell'attività partigiana ma su quelli logistici e organizzativi: procura e trasporta armi e munizioni, vettovagliamenti e medicinali, viveri e indumenti, carte topografiche, attrezzature, tabacco. Per questa sua attività si muove molto, gira per le montagne della zona, prende contatto con molte persone, arruola sbandati: stabilisce quindi dei collegamenti regolari, creando una sua rete, rozza e approssimativa ma efficace, di informatori - spesso si tratta di parroci e 71 sacrestani. Utilizzando sapientemente questa sua «rete personale» riesce ad avere informazioni sui movimenti del nemico, prima dei «militari» tanto diffidenti verso di lui. In questo modo conquista rapidamente la piena fiducia e l'ammirazione dei suoi compagni, ma comincia anche a destare sospetti a Matelica. In un piccolo centro, si sa, ci si conosce tutti e si finisce per sapere ogni cosa di ciascuno: a nessuno perciò possono più sfuggire i suoi strani orari, le assenze prolungate, i suoi rientri all'alba infangato e malconcio, i lunghi incontri con gente sconosciuta. Ci vuole poco per tirare le somme e capire di che natura siano i nuovi impegni di Mattei. La sua attività clandestina è diventata ormai un segreto di Pulcinella ed egli comincia ben presto a provare la sgradevolissima sensazione di essere osservato, seguito, controllato e che ormai sta rischiando la pelle. Inizia dunque la stagione dei travestimenti, dei nascondigli, dei depistaggi: pochi come lui conoscono quelle zone, non gli è difficile sottrarsi a pedinamenti e controlli. E prende anche ad usare nomi di battaglia, come già facevano altri capi partigiani. Il primo che sceglie è «Marconi»: con questo pseudonimo svolgerà tutto il primo periodo della sua attività clandestina, nelle Marche e in Lombardia, ma poi ne utilizzerà anche altri come «Este», «Monti» e, più raramente, «Leone». La scelta di questi nomi ha motivazioni diverse, a volte affettive a volte pratiche: la sua amatissima nonna materna si chiama Ester Marconi, da qui i primi due pseudonimi. Le sue camicie sono tutte fatte su misura e siglate E. M., così come la sua biancheria: in caso di arresto o di perquisizione anche il nome «Monti» dunque sarebbe andato benissimo, quando per qualche motivo non fosse possibile od opportuno usarne uno dei primi due. Infine «Leone», utilizzato raramente: niente di più che una civetteria, un retorico (e forse poco opportuno) riferimento alle sue presunte virtù di combattente. La notte del 27 novembre avviene l'episodio che fa definitivamente capire a Mattei
che ormai a Matelica è completamente «bruciato», che insistere nel restare in quella zona avrebbe inevitabilmente portato all'arresto da parte dei nazifascisti. 72 Mattei Qualcuno lo ha visto rientrare furtivamente in casa, a palazzo Grassetti, abbigliato come un contadino, trascinando un carretto con un carico apparentemente di legname o di qualcosa del genere, nascosto da tela di sacco e stracci: un'immagine decisamente sospetta e poco credibile, tanto che poco dopo a casa dei Mattei si presentano SS e soldati repubblichini che stavano perlustrando la zona. Quel carro trascinato dal partigiano «Marconi» travestito da contadino contiene in realtà una ventina di fucili appena trafugati da un'armeria e che erano stati frettolosamente scaricati nel cortile. Con straordinario coraggio e sangue freddo, Maria trattiene il più possibile i nazifascisti sulla soglia di casa mentre Enrico, aiutato da due amici, copre in fretta e furia il pericolosissimo carico con della sabbia che era stata accumulata in un angolo del cortile per dei lavori di muratura. Fa appena in tempo a lasciare la casa prima che vi irrompano i militari, che prendono a perquisirne ogni angolo, arrivando a frugare anche in edifici vicini, perfino nel monastero della Beata Mattia. Non sospettano neppure che quel cumulo di sabbia nel cortile di palazzo Grassetti nasconda delle armi, che nei giorni successivi verranno distribuite a soldati italiani sbandati che vanno a raggiungere le formazioni partigiane. Qualche dubbio che le cose quella notte siano andate davvero così, per la verità, lo esprime persino lo stesso Boldrini, che comunque non era presente. Ma così la raccontano diversi amici di Mattei, a cominciare da Italo Pietra e da Marcello Colitti. Fatto sta che proprio quella notte fu arrestato Giuseppe Baldini e pochi giorni dopo il federale di Macerata, Federzoni, irrompe a Matelica con reparti di soldati della Wehrmacht e della Guardia repubblicana alla caccia di cittadini che collaborano con i partigiani. Non serviva altro per convincere Mattei che ormai l'aria da quelle parti per lui è diventata irrespirabile. Oltretutto teme rappresaglie sulla sua famiglia e in particolare su suo padre. Decide di tornare al Nord, a Milano, in Lombardia, nelle zone che conosce meglio dopo Matelica e dove sa che potrà impegnarsi di più, giacché le forze della Resistenza sono più strutturate e attive. Non vuole però interrompere i collegamenti con le 73 Marche, sia per continuare ad avere notizie dei suoi, sia per conservare una certa influenza in quell'area. Quest'ultima considerazione dimostra che Mattei comincia a vedere la politica nel suo futuro: le lunghe e assidue frequentazioni di Boldrini e dei suoi amici, i primi impegni nella lotta di liberazione hanno acceso in lui un nuovo interesse e lo hanno infatti ormai definitivamente orientato nella direzione di un impegno politico a tempo pieno. Negli ultimi mesi del 1943 se ne sta a Milano, chiuso in casa con i suoi fratelli e i Boldrini. Per mantenere i contatti con le formazioni marchigiane, a parte le sue rare e troppo pericolose visite, si servirà di una «staffetta». Questa sua competenza geografica più ampia, gli stretti rapporti con i quadri politici cattolico- democratici intenti ormai a costituire la futura Democrazia cristiana, le sue straordinarie capacità organizzative unite allo sperimentato pragmatismo fanno presto di lui il vero coordinatore delle formazioni partigiane cattoliche dell'Alta Italia. Intanto organizza una formazione attiva nella zona della vecchia riserva di caccia che frequentava nei suoi anni milanesi, a Sant'Eusebio, lungo il torrente Ardivestra, nell'Oltrepò pavese, quasi in Piemonte. Era, a quei tempi, una valletta appartata e di non facile accesso, coperta da una fitta boscaglia, percorsa solo dalla strada che attraversa Sant'Eusebio e da pochi sentieri, fuori dunque dalle grandi vie di comunicazione ma non lontana dall'incrocio fra le due importanti direttrici Alessandria- Piacenza e Milano- Genova. Insomma una zona strategicamente di grande interesse: in particolare controllando il segmento Voghera- Casteggio si creano molte opportunità di agguati a reparti nemici in movimento, opportunità che
Mattei bada bene di non farsi sfuggire. Anche perché, com'era prevedibile, prima di passare all'azione sa organizzarsi rapidamente, aiutato dal fedelissimo Sgorbini che lo ospita e che conosce bene quelle zone. Creano dunque una serie di nascondigli nei boschi, allestiscono postazioni in caverna, predispongono riserve alimentari in vista di lunghi periodi invernali di isolamento, sotterrando damigiane sigillate piene di farina di grano e di mais e perfino qualche bottiglia di vino. Intanto va avanti col reclutamento: avvicina la gente della 74 Mattei valle, vecchi compagni delle battute di caccia, giovani disertori e sbandati; in quelle condizioni non è un problema per lui convincerli ad entrare nelle formazioni ribelli. E si copre le spalle: per evitare di restare isolato nell'eventualità di interruzione dei collegamenti con Milano, prende contatto con il Cln di Voghera, in particolare con Gandini e Degradi. Una sera se la vede brutta. È in casa di Sgorbini, con altri amici a chiacchierare intorno alla stufa sorseggiando l'ultimo bicchiere di vino quando bussano imperiosamente e insistentemente alla porta. Entra con decisione, quasi irrompendo, un uomo dall'espressione dura e aspra. È in divisa da tenente colonnello degli alpini della Rsi, alla testa di un piccolo reparto e si guarda intorno con aria circospetta e rapace. Dopo pochi istanti di incertezza Mattei riconosce in quell'ufficiale repubblichino l'Alfieri, il vecchio compagno di battute di caccia degli anni milanesi, invecchiato e trasformato dalla guerra, oltre che nell'espressione, anche nel carattere; l'uomo, cioè, che a quell'epoca disponeva proprio di quella riserva dove Mattei aveva scelto di organizzare la sua banda partigiana. Ora, perso l'atteggiamento gioioso e gaudente di allora, in quella stessa riserva Alfieri non dava più la caccia a lepri e fagiani ma ai ribelli che la infestavano e, conoscendo alla perfezione la zona, intendeva far base proprio a Sant'Eusebio. I due dunque si riconoscono e prendono a chiacchierare dei bei tempi. Mattei bada bene a non tradirsi e nonostante l'Alfieri ogni tanto la butti in politica, riporta sempre la conversazione sui ricordi di caccia degli anni passati. Ma inevitabilmente si arriva a parlare della guerra: Alfieri si mostra carico di rabbia e di rancore, il nostro capisce che non può reggere a lungo il confronto ravvicinato con una persona che lo conosce e che probabilmente già si sta chiedendo da che parte egli stia. Rischia, insomma, di trovarsi nella stessa situazione in cui era a Matelica, perciò, anche per non mettere a rischio i compagni e il lavoro svolto fino ad allora, il giorno dopo parte per Milano. Pochi mesi dopo, Alfieri cadrà a Pietragavina, non lontano dall'Ardivestra. Da allora Mattei, con i nomi di battaglia di «Este», utilizzato per le funzioni politiche, e «Monti», adottato nelle operazioni 75 militari, continua a muoversi fra Milano e l'Oltrepò, riparando nella metropoli tutte le volte che la situazione in montagna si fa critica e mantenendo così i contatti con gli apparati politici e i gruppi dirigenti milanesi. Nella primavera del 1944 ormai la base di Mattei è di nuovo a Milano, dove praticamente vive con Marcello Boldrini, ormai pienamente impegnato nella costituzione della futura Democrazia cristiana. Svolge ancora un'intensa attività partigiana, torna spesso in Oltrepò, moltiplica le precauzioni: non dorme mai due notti di seguito nella stessa casa, ha le chiavi di cinque appartamenti di amici, evita di incontrare le stesse persone negli stessi luoghi. Ma intanto segue molto da vicino, anzi partecipa per quanto gli è possibile all'attività, questa tutta politica, di Boldrini, i cui rapporti con ambienti finanziari, imprenditoriali, accademici e politici di orientamento cattolico sono ormai intensi e continui. Boldrini è amico di Augusto De Gasperi, il fratello di Alcide, futuro primo presidente del Consiglio democristiano, tramite il quale vengono mantenuti costanti rapporti con Giuseppe Spataro, Orio Giacchi, Enrico Falck, rampollo della dinastia di industriali lombardi dell'acciaio, Giuseppe Dossetti, Amintore Fanfani, Ezio Vanoni. Mattei intuisce che se si vuol dare un senso costruttivo e un seguito politico alla vicenda partigiana che sta vivendo non deve perdere il contatto
diretto e personale con questa gente. Tutti pensano, si illudono che alla fine della guerra manchino pochi mesi se non settimane, perciò affrettano la preparazione del dopo, ciascuno secondo i rispettivi progetti, programmi, speranze e aspettative. Nel marzo del '44, in vista della liberazione di Roma, che avverrà il 6 giugno, mentre gli Alleati sbarcano in Normandia, e quindi del distacco della capitale dal Nord occupato dai tedeschi, Alcide De Gasperi e Giuseppe Spataro, d'accordo con Giovanni Gronchi - uno dei fondatori del Partito popolare di don Sturzo nel 1919 e sottosegretario del primo governo Mussolini, ora attivissimo nella costruzione del nuovo partito cattolico, sarà il primo presidente della Repubblica democristiano spediscono a Milano una lettera. Con quel messaggio 76 Mattei istituiscono una segreteria unica per l'Alta Italia, guidata da Pietro Mentasti con due vicesegretari, Achille Marazza e Orio Giacchi, e un comitato direttivo formato dai rappresentanti di tutte le regioni del Nord, ai quali poi si aggiungeranno un segretario amministrativo, Vittorio Giro, una rappresentante del movimento femminile, Laura Bianchini, e uno per le formazioni partigiane cattoliche, Enrico Mattei. La sede della segreteria è in viale di Porta Vercellina 1, nello studio del conte Pier Maria Annoni, che svolgeva un'attività commerciale che gli consentiva di coprire il viavai. Si tratta, dunque, di una vera e propria struttura clandestina di partito, della futura Democrazia cristiana, e Mattei ne entra a far parte a pieno titolo come dirigente, soprattutto grazie all'interessamento di Orio Giacchi, che era stato anche consulente legale della sua azienda, e di Spataro, che aveva conosciuto l'anno prima a Roma su presentazione di Boldrini. E che progetti ormai apertamente un suo futuro politico lo dimostra il fatto che è egli stesso a candidarsi per quella posizione, come racconta Giacchi: «Mattei arrivò nel mio studio, in via Dante, senza preavviso e mi disse che si rivolgeva a me come dirigente democristiano. Cercai di negare ma fui zittito. Ricordo bene le sue parole: "Sono italiano ma anche cattolico, vorrei menar le mani in uno schieramento cattolico". Lo rimandai dicendo che ne avrei parlato con chi di dovere». Ricordi forse un po'"appannati dalla nostalgia e dalla retorica, ma che comunque dimostrano che le idee di questo energico trentottenne marchigiano sul proprio futuro sono invece chiarissime. Intanto si rimette a studiare e con l'aiuto di Boldrini riesce finalmente ad ottenere, insieme ad Umberto, il diploma di ragioniere. È difficile credere che gli impegni di questi mesi gli lascino il tempo per studiare, attività che non gli è mai piaciuta molto. È più probabile che la conquista di quell'agognato titolo sia resa possibile dalle condizioni di disarmo della scuola, come di ogni altra struttura dello Stato in quei mesi, e forse anche da qualche provvidenziale intervento dell'amico Boldrini, molto influente negli ambienti scolastici, il quale infatti racconta: «Enrico e Umberto, ai quali fra i miei antichi allievi avevamo procurato dei ripetitori, ritornarono giovanilI 77 mente agli studi». Probabilmente non riesce ad immaginare che un dirigente democristiano, imprenditore, comandante partigiano non sia neppure diplomato. Poi i due fratelli si iscrivono alla facoltà di Scienze politiche alla Cattolica. Dove insegna Boldrini. Non riuscirono a laurearsi, ma risulteranno iscritti per tutto il tempo della Resistenza. Si fa sempre più stretto il legame con Giacchi e con Falck, amico personale di De Gasperi e nella cui casa nell'ottobre del 1942 è stata fondata la Democrazia cristiana. Incontra ancora Spataro. Mentasti e Marazza lo stimano. Ai «politici» di lui piace soprattutto che non sia un tecnico militare, un puro combattente ma che abbia anche grandi capacità organizzative e un certo naturale intuito politico, sebbene ancora un po'"grossolano. Tanta stima e la sua rete di rapporti continuano a produrre effetti: nel marzo del 1944 Giacchi gli affida il compito di rappresentare la Democrazia cristiana nel comando militare Alta Italia, trasformato poi, a partire dal 10 giugno, nel Comando generale per l'Italia occupata del Corpo Volontari della Libertà, in sostanza il braccio militare del Comitato di Liberazione Nazionale per l'Alta Italia (Clnai) con sede a Milano. Mattei viene dunque a trovarsi nel punto di articolazione fra le attività militari
e quelle politiche della Resistenza, una posizione prestigiosa ma pericolosa: infatti sostituisce Luigi Bi- gnotti, un anziano ufficiale molto pratico di esplosivi ma senza esperienza politica e perciò spesso affiancato in quell'incarico provvisorio da Augusto De Gasperi. Ma Bignotti, che il 6 luglio sarà catturato, a sua volta aveva preso il posto di Galileo Verce- si, arrestato il 7 marzo e fucilato a Fossoli il 12 luglio. Giacchi, che al momento della visita di Mattei nel suo studio in via Dante ha già il problema di trovare qualcuno che ricopra quel ruolo, dopo averne parlato con Mentasti, Marazza e Falck, decide di presentare Mattei a Mario Ferrari- Aggradi, uno dei protagonisti della Resistenza lombarda, che ne dà questa valutazione: «Probabilmente non ha visioni di alta politica ma è una personalità forte avvezza a funzioni di guida e di organizzazione, ha un gran senso di concretezza e un grande slancio; può portare la carica, la vis che tanto desideriamo». In effetti in quella posizione ai cattolici serve una persona78 Mattei lità forte, sicura di sé, ai limiti dell'arroganza perché, come racconta Giacchi, nome di battaglia «Oriani», a quell'epoca «i partigiani cristiani erano sì e no duemila e il rischio politico che la Resistenza diventasse esclusivo patrimonio dei comunisti era grande». Perciò «decidemmo di metterlo alla prova ... Passarono alcuni giorni e quando si presentò gli offrii il posto di Vercesi, comandante delle nostre bande, facendogli presente che il suo predecessore era stato fucilato. Non ne seppi più nulla per una dozzina di giorni, e francamente pensai di averlo scoraggiato. Invece si presentò per dirmi che ne aveva discusso con sua moglie e che erano d'accordo. Fu secco come sempre: "Non abbiamo figli e possiamo affrontare il rischio"». Sembra, per la verità, che la pur remissiva e dolce Greta abbia fatto molta resistenza prima di accettare una prospettiva tanto pericolosa e dagli sbocchi per lei incomprensibili. Ma per Mattei questa è una scelta decisiva e radicale, una scelta di vita. Il suo futuro, ormai ne è definitivamente convinto, sarà la politica. Tanto convinto da accettare anche di rischiarci la pelle e da abbandonare qualsiasi altro impegno. Della sua fabbrica milanese già da tempo si occupa il fratello Umberto, al quale ora vengono passate formalmente le consegne: da questo momento di fatto la I. C.L. diventa l'azienda di Umberto ed è tuttora in attività gestita dai suoi eredi. È infatti evidente che dovrà assumere il suo nuovo impegno a tempo pieno per stare alla pari con le altre personalità che compongono il comando generale: militari di carriera di grande esperienza, combattenti formatisi nella lotta partigiana, leader politici forgiati nelle carceri fasciste e al confino, intellettuali di prestigio. Con la sua non ancora smagliante reputazione e il suo inadeguato curriculum politico- militare, Mattei deve tener testa a uomini carichi di prestigio e di valore. Figure come il generale Raffaele Cadorna (una dinastia di generali sui libri di storia: il nonno a Porta Pia, il padre a Caporetto) che per ordine degli Alleati e del governo di Roma assumerà il comando del Cvl. E come i due vicecomandanti: Luigi Longo, massimo dirigente comunista dopo Palmiro Togliatti ancora in Urss, a capo delle agguerritissime Brigate Garibaldi, già leggendario ispettore generale delle Brigate internazionali dei volontari antifranchisti nella guerra di Spagna; e Ferruccio Parri, volontario pluridecorato nella prima guerra mondiale, finito in galera per il suo antifascismo, intransigente, colto e prestigioso leader del Partito d'Azione. Ma anche personaggi come il maggiore Mario Argenton, rappresentante del Partito liberale, e il capitano Giovanni Battista Stucchi, sopravvissuti alla terribile campagna di Russia, i colonnelli Vittorio Palombo e Aldo Beolchini, grandi esperti di cose militari. Col liberale Argenton, il democristiano Mattei è solo «membro aggiunto» del comando: socialcomunisti e azionisti vogliono mantenere una supremazia anche formale. In queste condizioni, dunque, in questo ambiente a lui ancora abbastanza estraneo, quando non ostile, Mattei deve riuscire a far valere le ragioni delle formazioni
democristiane, la cui consistenza numerica e il cui impegno militare fino a quel momento non erano certo gli argomenti più convincenti a sua disposizione. Riesce invece a far valere con efficacia la forza e l'impegno dei parroci, soprattutto di quelli di campagna e delle periferie urbane, dei quartieri operai, apertamente impegnati a sostegno morale e materiale della Resistenza e sicuri punti di riferimento dell'opinione pubblica: è un argomento molto forte a sua disposizione quando gli viene contestata l'esiguità numerica delle formazioni cattoliche - in realtà meno esigue di quanto agli altri facesse comodo sostenere - e capisce che in futuro la rete delle parrocchie sarebbe diventata un decisivo strumento per la costruzione di un consenso alla Dc. Tutti i capi democristiani infatti hanno ben chiaro che i comunisti, con le loro strutture ben sperimentate e con il sostegno dell'Unione Sovietica, stanno egemonizzando la lotta partigiana e quindi avranno buon gioco ad egemonizzare la situazione politica in cui verrà a trovarsi l'Italia al termine di quella lotta: bisogna quindi poter contare su una struttura organizzativa alternativa alla agguerrita macchina del Pci. Quale meglio delle parrocchie? Mattei capisce dunque che il rapporto col basso clero va creato subito anche perché potrà tornargli personalmente utile per far crescere il suo peso all'interno della Dc. Il ruolo politico- militare delle formazioni partigiane di sini80 stra è comunque largamente predominante: ai comunisti delle Brigate Garibaldi si affiancavano i socialisti delle Matteotti e gli azionisti di Giustizia e Libertà. Mattei cerca di controbilanciare sforzandosi di attirare nell'orbita democristiana le molte formazioni autonome, centriste o apartitiche sorte più o meno spontaneamente qua e là magari ad opera di militari sbandati, reduci, badogliani o monarchici assistiti da ex prigionieri britannici o da agenti alleati. Fazzoletti rossi al collo dei partigiani di sinistra, fazzoletti verdi per i cattolici: uno sforzo per distinguere bene le identità politiche, che corrisponde alle tensioni subito fortissime sia nel comando generale sia sul campo e nelle zone operative fra rappresentanti delle diverse fazioni politiche; in particolare fra democristiani e comunisti. Il dissenso, evidentemente, riguarda il futuro politico dell'Italia. Per il Pci dalla Resistenza non può che nascere, magari dopo un'inevitabile guerra civile, una democrazia popolare sul modello dell'Unione Sovietica. Democristiani e centristi, sebbene con sfumature diverse, considerano questa prospettiva disastrosa e vogliono che l'Italia resti legata alle democrazie occidentali. Inevitabilmente due visioni politiche e strategiche così radicalmente diverse creano tensioni e polemiche anche sui modi e sui fini concreti e quotidiani della lotta. La quale, secondo i comunisti, deve essere il più possibile «di massa», impostata col massimo rigore ideologico e nella più rigida disciplina, condotta con la massima durezza nei confronti del nemico, di qualsiasi nemico (spesso senza distinguere fra nemico e avversario politico). Per democristiani e liberali, invece, pur nel rispetto della disciplina e della lealtà necessarie, non si possono dimenticare i valori di umanità e pietà, distinguendo fra combattenti e popolazione civile, mantenendo un rapporto costante con la società. Da qui lo scambio continuo di accuse: da destra a sinistra di settarismo, estremismo e terrorismo, soprattutto per le azioni che provocano le rappresaglie sulla popolazione civile; da sinistra a destra di attendismo opportunista, moderatismo e ambiguità. In questa situazione Mattei riesce a cavarsela egregiamente, non facendosi mai coinvolgere in scontri e risse, mantenendo 81 sempre la calma e ribadendo in ogni occasione la necessità di far prevalere le esigenze della guerra, dell'unità di impegno e della lotta comune sulle divisioni di parte, lavorando molto come al solito, facendo crescere giorno dopo giorno il peso delle formazioni democristiane. Ma forse anche stavolta la ragione principale del successo sta nella sua capacità di conquistare la fiducia e la stima dei suoi interlocutori, di tutti, indipendentemente dall'appartenenza politica e dal livello culturale, nonostante i gravi limiti della sua formazione. Fra i componenti del comando, infatti, tutti lo apprezzano e si fidano di lui; tutti tranne, come
riferisce Pietra, «un certo ingegner Bignotti», quell'ufficiale democristiano che, avendo svolto pro tempore le funzioni che poi formalmente vengono affidate a Mattei, è carico di rancore verso colui che, a suo parere, è solo un «intruso», incapace e inaffidabile. L'esempio più illuminante di questa sua attitudine naturale a conquistare gli uomini è dato forse dal rapporto con Luigi Longo. Nonostante l'appartenenza politica lo collochi in quell'area che più tardi si chiamerà «sinistra democristiana» di cui fanno parte uomini disponibili al dialogo col Pci, a cominciare da Dossetti, Mattei è apertamente e decisamente anticomunista, senza compromessi e cedimenti, neppure quando per contingenti motivi politici o di affari si trovava a trattare con dei comunisti. Anzi, la sua missione in quel comando consiste principalmente nel contrastare la volontà e grande capacità di egemonia di quel partito. Eppure - e forse proprio per questo - il rapporto col «comunistissimo» Longo (sarà segretario generale del Pci dopo Togliatti dal 1964 al 1972), partendo dalla forte diffidenza e dal contrasto iniziali, cresce e si trasforma prima in rispetto poi in stima quindi addirittura in simpatia, fino a diventare una vera amicizia, solida e duratura. Inizialmente Longo ammira in Mattei soprattutto la sua straordinaria capacità di raccogliere denaro per finanziare la lotta clandestina lavorando ai fianchi la borghesia e gli imprenditori lombardi, e di convincere a cooperare con la Resistenza stuoli di parroci, madri superiore, padri priori e abati: «Sa utilizzare benissimo le sue relazioni con industriali e preti». E poco importa a Longo se per far questo Mattei si serve soprattutto 82 Mattei sa generalizia si decisero le dell'Italia affidala al Corpo Volontari della Libertà». E questo il livello di disponibilità e fiducia a cui Mattei è riuscito a porzione, facendosene in un certo senso garante, destina, Mattei viene affiancato da una vecchia conoscenza rado qualcuno della sua famiglia era azionista o amministraore con imprenditori come i Pirelli (Alberto in particolare), i Citterio, i Guzzi e molti altri più piccoli; alcuni forse solo desiderosi di mantenere buoni rapporti con questi grand, e di mette si in buona luce con i probabili futuri leader. Mattei, da parte sua, non dispone certo di un così cospicuo e vantaggioso patrimonio di relazioni, ci mette pero tutta la sua tenacia e in traprendenza e la sua grande capacità di piacere e convincere. Insieme i due diventano presto una poderosa macchina per soldi. Ben presto tutti al comando generale convengono che questa capacità di procurare e gestire denaro insieme al grande senso dell'organizzazione, è l'attitudine di Mattei che con83 viene valorizzare e sfruttare. Perciò - prima informalmente poi, verso la fine della guerra, ufficialmente - viene incaricato di amministrare gli ingenti fondi raccolti. Di fatto, dunque Mattei è il tesoriere della Resistenza e lo fa con scrupolosità e pignoleria: rilascia e pretende sempre ricevute, chiede e conserva pezze d'appoggio e giustificativi, registra tutto al centesimo. Per il suo amico comunista Luigi Longo, in quel ruolo «era preciso, perfino pignolo. Aveva la mania di conservare tutte le ricevute delle somme che forniva alle formazioni operanti. Era il tesoriere del Cvl, onesto, scrupoloso, imparziale. Nessuna impresa o iniziativa lo spaventava». Alla fine del '44 nel comando generale Mattei è nominato «vicecapo di stato maggiore addetto all'intendenza». Quindi deve trovare finanziamenti privati, ricevere e gestire quelli provenienti dal governo di Roma e dagli Alleati, ma anche procurare armi, approvvigionamenti e basi operative oltre a tenere i collegamenti con gli angloamericani. Nel clima epico di quei mesi, quando la cosa più importante sembrava costruire e accreditare di sé un'immagine di combattente, possibilmente eroico, non molti capi
militari della Resistenza avrebbero accettato un incarico di carattere amministrativo con l'entusiasmo e lo zelo con cui Mattei si getta nella nuova missione. Il fatto è che, con il suo pragmatismo e la sua smaliziata concretezza, si rende conto benissimo che i nuovi compiti gli attribuiscono potere reale e grande influenza sull'attività del comando. Per di più gli facilitano l'attività di reclutamento per riequilibrare, per quanto possibile, il peso militare e politico delle formazioni comuniste. Impegno, questo, nel quale in parte riesce e pure abbastanza in fretta: già verso la fine del '44, infatti, le formazioni democristiane contano all'incirca trentamila uomini sparsi in Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia Romagna e Toscana, inquadrate nelle Brigate del Popolo, nelle divisioni Alfredo Di Dio, nelle Brigate Julia e Osoppo, nei gruppi della Brianza, della Valtellina, del Piacentino, di Parma, di Modena e Reggio Emilia. «Le sue formazioni» racconta Montanelli «contavano duemila aderenti quando ne prese il comando, trentamila alla vigilia della Liberazione, più di quarantamila il 25 aprile.» 84 Se gli anni Venti avevano forgiato il Mattei lavoratore e nel decennio successivo si era formato l'imprenditore, nei mesi della Resistenza, in quell'impegno pericoloso, massacrante ed esaltante nasce il Mattei capo, trascinatore di uomini, capace di trovare sempre le motivazioni e le spinte psicologiche e ideali giuste per ottenere il massimo da chi sceglie di seguirlo. Durante la guerra come negli anni dell'Agip e dell'Eni, essi sanno, sentono che «il Capo» ha la massima considerazione per le loro vite, per il loro impegno e per le loro capacità, che è pronto a difendere con una generosità e un'impulsività a volte persino eccessive e fuori luogo. Il capo partigiano del Monferrato Giuseppe Brusasca racconta questo episodio avvenuto a Milano: «Una sera dell'autunno del 1944, mentre il Comitato esecutivo della Dc per l'Alta Italia era riunito in un locale di via Morozzo della Rocca, presenti Mentasti, Marazza, Bo, Fiocchi, Augusto De Gasperi, l'architetto Zanchetta delegato della Lombardia, vi sopravvenne come una furia Enrico Mattei, che accusò Zanchetta di essere stato, negli anni del Comitato lombardo, colpevole, per cattiva organizzazione, della morte di alcuni partigiani caduti nelle mani dei tedeschi. Zanchetta» prosegue Brusasca «rimase annichilito dalla veemenza dell'accusa, riuscendo appena a balbettare che non ne sapeva niente. Seguirono attimi di angoscioso silenzio di fronte alla constatazione della nostra tremenda responsabilità verso coloro che si battevano per la nostra causa e per le popolazioni sulle quali pendeva la minaccia delle più dure rappresaglie. Poi, finalmente calmatosi e con le lacrime agli occhi, Mattei spiegò il suo attacco agli amici della Lombardia col dovere, che egli sentiva profondamente, di evitare ogni inutile sacrificio di vite umane in quella lotta per la libertà». Capitolo Settimo IL CAPO POLITICO Mattei sa benissimo che un'attività tanto intensa e così esposta, in una città soggetta a strettissimi controlli com'era Milano in quegli anni, zeppa di SS e di poliziotti fascisti, comporta pericoli crescenti. Ne parla spesso con la sua Greta, che ascolta in silenzio: «Prima o poi mi beccano», le dice, come per prepararla. E infatti lo «beccano». Ma riesce a fuggire senza essere identificato, senza che i fascisti si rendano conto di aver messo le mani su un pezzo grosso della lotta partigiana. Probabilmente anche grazie al fatto di essere un «ultimo arrivato» dell'antifascismo, semisconosciuto alle polizie del regime. Ma grazie soprattutto alla confusione astutamente creata dall'uso di diversi nomi di battaglia. La Repubblica sociale, la cosiddetta Repubblica di Salò, ha istituito un reparto politico speciale per la sicurezza del governo fascista, al comando del famigerato e abile commissario Saletta. Nell'autunno del 1944 questo reparto è scatenato alla ricerca dei capi ribelli. L'ordine è di vendicare a tutti costi l'uccisione di due
giovani militi delle Brigate nere, avventatamente uccisi, nonostante gli inviti del comando ad una maggiore cautela, da una formazione di Gap (Gruppi di azione patriottica) operante nella pianura tra Milano e Corno e guidata dal giovanissimo comunista varesino Renato Morandi. Il 26 ottobre, molto probabilmente grazie alla «soffiata» di un informatore, Saletta e i suoi uomini fanno irruzione in un ufficio di viale di Porta Vercellina a Milano, mentre vi si sta svolgendo una riunione molto importante e particolarmente affollata. Quello infatti non è un ufficio qualunque, dove per caso quel giorno si riuniscono dei dissidenti qualsiasi, ma è niente86 dimeno che la sede del gruppo dirigente della Dc per l'Alta Italia, di cui è segretario Pietro Mentasti. Il bottino degli sbirri fascisti è perciò particolarmente cospicuo: vengono arrestate più di una trentina di persone, tutti dirigenti democristiani, prevalentemente lombardi e piemontesi, fra cui Mattei e Pier Maria Armoni, titolare dell'ufficio nel quale si svolgeva la riunione, Giorgio Balladore Pallieri, professore di Diritto internazionale che sarà collaboratore di Mattei all'Eni, Mario Ferrari- Aggradi, Pietro Mentasti (alias ingegner Mauri), Falck e Zanchetta. Un'operazione dovuta alla «soffiata» di un informatore, dicevamo. Pare anzi che in realtà si tratti di un'informatrice, vicinissima al gruppo dei dirigenti democristiani e quindi documentatissima sulla loro attività: la segretaria dello stesso Annoni, la quale poco dopo finirà addirittura per sposare sfacciatamente il commissario Saletta; se non è una prova è quanto meno un indizio molto pesante. Qualche mese più tardi, comunque, il poliziotto viene ucciso dai partigiani. Stando a quello che racconta Italo Mattei, è lo stesso Enrico ad ordinare che lo sbirro venga giustiziato. Se davvero le cose sono andate in questo modo, si spiega la reticenza dimostrata da Mattei nel dare spiegazioni più dettagliate su certi episodi di quegli anni, come questo appena raccontato. Una reticenza manifestata persino davanti ai giudici di Lucca che lo chiameranno a testimoniare in un processo del dopoguerra su oscuri episodi della Resistenza. Il trattamento riservato dalla polizia repubblichina ai capi antifascisti catturati è particolarmente duro, a conferma della tesi che il Saletta sa di aver tra le mani prede molto grosse e che quindi non è arrivato per caso a quell'ufficio di viale di Porta Vercellina. Il momento peggiore è quello in cui i prigionieri vengono sottoposti al crudele rito della finta fucilazione, appena dopo la cattura, per piegare subito la loro tenuta emotiva. Poi vengono portati tutti a Corno nella caserma di San Donnino adibita a carcere. Più tardi Mattei è trasferito nella ex palestra Mariani, dove vengono raccolti i «politici» più ostici. Le accuse della polizia politica repubblichina contro i prigionieri sono gravi e documentate anche dalla grande quantità di materiale raccolto negli uffici di viale di Porta Vercellina. Da 87 quei documenti risultano con sufficiente chiarezza, anche grazie allo zelo e alla pignoleria dell"«intendente» Mattei, i piani politico- militari e i mezzi a disposizione della Dc dell'Alta Italia. Saletta capisce presto che i personaggi più importanti sono Mattei e Mentasti, i quali però, benché torchiati a dovere, se la cavano riuscendo a dire solo poche cose, per di più false o di secondaria importanza. Saletta è certo che Mattei non è altri che «Monti», il capo delle formazioni militari democristiane, ma da lui vuole sapere chi si nasconda dietro quell'altro nome di battaglia che in quei mesi ha sentito insistentemente circolare, «Marconi», certamente un altro membro, ricercatissimo, del Clnai. Non lo sfiora neppure l'idea che «Monti» e «Marconi» siano la stessa persona e siccome col procedere degli interrogatori tutta la faccenda si ingarbuglia sempre di più e si confondono persino quelle poche sicurezze che aveva, finisce per dubitare anche che Mattei sia «Monti». D'altra parte, i prigionieri, pienamente consapevoli del loro ruolo, del peso anche psicologico che la loro cattura può avere sull'impegno politico e militare della lotta partigiana e soprattutto delle formazioni cattoliche, progettano l'evasione
fin dal primo giorno di prigionia. In particolare i due capi Mentasti e Mattei, sebbene reclusi separatamente nella palestra Mariani, sanno entrambi di avere il dovere di evadere per primi. Il 3 dicembre 1944 evade Mattei. Quando era stato arrestato, una guardia che faceva il doppio gioco aveva tempestivamente informato suo fratello Umberto, il quale per prima cosa si era affrettato a distruggere documenti più o meno compromettenti e ad abbandonare il suo alloggio rendendosi irreperibile. Subito dopo si era impegnato nell'organizzazione dell'evasione di Enrico, del quale in quest'occasione si rivelano utilissimi gli ottimi rapporti col clero «di base», preti e suore. La fuga infatti è organizzata da alcuni religiosi con l'aiuto di una famiglia amica, quella dei Corbetta che per un colpo di fortuna abitavano a due passi dalla palestra- prigione. Per prima cosa occorre la collaborazione di una guardia: a procurarla è il prevosto di Sant'Orsola, monsignor Carlo Castelli, che frequenta assiduamente quel carcere politico per dare assistenza 88 religiosa ai detenuti e per celebrare messa tutte le domeniche. Conosce perciò uno per uno tutti i prigionieri e tutte le guardie e sa che, tra queste, alcune sono disposte a collaborare ma senza esporsi: perché ormai è chiaro a tutti come andrà a finire la guerra e molti cercano di procurarsi delle benemerenze presso i futuri vincitori. La scelta cade su Giuseppe Spadafora che sembra più affidabile di altri. I collegamenti con gli organizzatori esterni dell'evasione li assicura la suora vincenziana Cecilia Vajani, che si occupa dell'assistenza materiale ai detenuti e svolge le funzioni di portalettere della prigione. Ma alla fuga collaborano anche i partigiani della divisione Valtoce, grazie all'impegno di Rino Pachetti (che all'Eni diventerà responsabile della vigilanza personale di Mattei), l'economo dell'orfanotrofio maschile della zona Della Vigna e un altro religioso impegnato nell'insegnamento, Secondo Borgnino, detto «fratel Alfonso». Il piano di evasione in fondo è semplice, quasi ingenuo, anche perché il livello di sicurezza del carcere non richiede un impegno particolare. Una sera, durante il cambio della guardia, Mattei provoca un cortocircuito all'impianto elettrico collegando due fili (a quell'epoca i fili della luce erano tutti esterni) facendo piombare la prigione nel buio. Poco prima lo Spadafora gli aveva aperto la porta della cella. Il prigioniero dunque esce e percorre i corridoi a memoria (nei giorni precedenti si è esercitato contando i passi). Una volta all'aperto non rimane che scavalcare il muro di cinta. Racconta Ferrari- Aggradi: «[Mattei] buttò l'impermeabile sopra i frammenti e le sbarre appuntite della cinta esterna, si issò a forza di braccia e si calò dall'altra parte. Rimase tutta la notte nascosto in una nicchia e solo all'alba cercò di raggiungere la stazione. Incappò invece nella caserma delle Brigate nere. La sentinella gli intimò l'altolà. Mattei con grande sangue freddo si avvicinò alla guardia e chiese con disinvoltura la strada per la stazione. Il militare gliela indicò e Mattei tornò a Milano dove riprese il suo posto». In realtà, trovandosi a Corno, prima di rientrare a Milano Mattei fa una cosa molto più facile e saggia: passa in Svizzera, il cui confine corre a pochi chilometri dalla città, dove si ferma 89 qualche giorno, aspettando che si esaurisca la prima rabbiosa reazione dei suoi ex carcerieri. Quanto a Mentasti, fugge qualche tempo dopo, il 16 gennaio 1945, con un piano in realtà ancora più banale di quello predisposto per fare evadere Mattei. Riesce a farsi ricoverare all'ospedale Sant'Anna e da qui, con uno stratagemma qualsiasi, a fuggire per rifugiarsi anche lui qualche giorno in Svizzera. All'operazione collaborano la sorella Rosetta e Edgardo Sogno, intrepido capo partigiano, liberale monarchico, che nella Resistenza si guadagna la medaglia d'oro al valor militare e l'odio dei comunisti. Quando finalmente torna a Milano, Mattei è costretto a starsene qualche giorno a letto: scavalcando il muro della prigione comasca si è procurato una slogatura ad una caviglia che fino ad ora non ha potuto tenere a riposo. Intanto però riprende i contatti col suo comando e viene informato delle novità che i suoi compagni
chiamano «la svolta», cioè la completa riorganizzazione della struttura. Dal 3 novembre il generale Cadorna è formalmente il comandante in capo del Corpo Volontari della Libertà, Longo e Parri sono i suoi vice. Al suo rientro, come abbiamo già detto, Mattei è vicecapo di stato maggiore addetto all'intendenza. Un incarico non particolarmente esaltante in tempi eroici come questi, ma è stato lo stesso Mattei a richiederlo al momento della suddivisione dei compiti, ispirato dal suo disarmante pragmatismo: «Sono un ragioniere, a me potete affidare l'amministrazione e la cassa visto che nessuno di voi le ha chieste». Il carattere approssimativamente epico di queste vicende stimola però in Mattei quella sua particolare e ingenua forma di narcisismo che si manifesta in esplicita richiesta di riconoscimenti e di considerazione e che segnerà tutta la sua vicenda politico- imprenditoriale. Il capo partigiano Fermo Solari, che lo aveva temporaneamente preceduto nella gestione della tesoreria, riporta in un suo libro di memorie il racconto fatto al comando da Mattei circa la sua fuga dal carcere di Corno. Le lodi, le congratulazioni, le espressioni di ammirazione che riceve alla fine lo gratificano ma non gli bastano e arriva a la90 Mattò. mentarsi piuttosto spudoratamente del fatto che nessuno proponga per lui una decorazione al valore. Toccherà al suo amico Longo ricordargli la dimensione corretta delle cose: parlando pacatamente, nell'imbarazzo generale, gli ricorda quanti compagni ogni giorno perdono la vita nella lotta di liberazione e quanti, una volta fatti prigionieri, non possono contare su una struttura che ne organizzi la fuga. E conclude con un consiglio: certi argomenti è meglio non sollevarli in pubblico e sarà bene non parlarne neppure alla fine della guerra. Consiglio che Mattei seguirà solo in parte, perché non perderà occasione per ricordare, direttamente o indirettamente, in occasioni pubbliche o private i meriti acquisiti durante la lotta partigiana. Anche Edgardo Sogno conferma nei suoi ricordi questo tratto autocelebrativo del carattere di Mattei: «Verso la fine di una seduta del comando, "Este" annunciò la fuga di Mentasti e descrisse minutamente la sua preparazione e il suo svolgimento. Non dissi nulla perché sentivo lui e anche me sull'orlo del ridicolo. Quando la seduta finì lo chiamai in un angolo e gli dissi: "Guarda che ieri sera a prendere Mentasti ci sono andato io" - "Davvero?", disse. Era un po'"imbarazzato». A Mattei capiterà spesso di fare affermazioni apparentemente ciniche e spregiudicate ma in realtà incaute e perfino ingenue, che perciò verranno usate contro di lui. Quando, ad esempio, succede a Solari nella responsabilità della tesoreria e nell'amministrazione dei fondi del Cvl, un amico gli rimprovera di aver accettato, anzi richiesto un incarico che appare politicamente di secondaria importanza, vista la consistenza che le formazioni democristiane, di cui Mattei è il rappresentante nel comando, avevano ormai assunto nella guerra di liberazione. La risposta è piuttosto brutale: «Tu non capisci niente, chi ha in mano i soldi comanda». Una banalità, in fondo, una battuta da bar, che però sarà usata sia contro di lui sia in suo favore, per dimostrare ora il suo cinismo ora il suo pragmatismo. Contrapposte strumentalizzazioni delle sue battute: gli capiterà spesso. Apparentemente però quel suo amico non ha tutti i torti. È vero infatti che, almeno finché durano le operazioni militari con il conseguente clima epico, avere le chiavi della cassa non 91 dà particolare prestigio e peso politico - tanto che molte decisioni strategiche vengono prese senza consultare il tesoriere -e anzi procurano un mare di grane e qualche inevitabile sospetto. In quegli ultimi esaltanti e concitati giorni di guerra per le mani di Mattei passano somme ingentissime, con le procedure e le registrazioni inevitabilmente approssimative e sommarie imposte da quelle condizioni di emergenza. Ci sono i fondi fatti arrivare dagli Alleati attraverso le banche o attraverso la Svizzera, ci sono quelli raccolti, prevalentemente dallo stesso Mattei, presso i privati e ci sono le somme - molto esigue - mandate dal governo di Roma. Tuttavia, anche nei momenti di più forte competizione, polemica o addirittura di scontro fra i partiti del Cln, prima e dopo la fine della guerra,
mai nessuno mette in dubbio la sostanziale correttezza amministrativa e contabile di Mattei e persino la sua lealtà nella ripartizione dei fondi fra le diverse componenti politiche. D'altra parte, nei mesi della Resistenza Mattei riesce comunque a conquistare un ruolo politico importante, prima all'interno della Dc e di conseguenza nel comando generale. Al momento della sua cooptazione in questa struttura, infatti, dominano incontrastati Longo e Parri. Un'egemonia dovuta al loro prestigio personale e al loro intransigente antifascismo, iniziato molto prima dell'8 settembre 1943 e pagato carissimo con la galera e l'esilio. Ma soprattutto, e in particolare per quanto riguarda Longo, è dovuta all'entità delle loro forze in campo, decine di volte superiori a quelle dei cattolici. Ma poi, nel giro di pochi mesi, il tenace impegno di Mattei riesce a riequilibrare la situazione, grazie alla vasta e caparbia campagna di reclutamento e proselitismo, al coinvolgimento del clero, all'annessione delle molte formazioni badogliane, moderate, apartitiche disperse sul territorio. Gira per tutto il Nord Italia, nelle campagne, nelle valli, nelle cascine e nelle parrocchie, coinvolge gruppi isolati, quelli sorti spontaneamente, e quelli che chiamava i «cattolici in ordine sparso», fa leva sul moderatismo e sull'anticomunismo. Lavora molto ma riesce così a dare forza militare alla presenza democristiana nella Resistenza: le «Brigate del popolo» e le altre formazioni cattoliche sono presto una consistente realtà, tanto che la rivalità e la polemica con i comunisti 92 Mattei vengono alla luce del sole e diventano permanenti, prefigurando gli equilibri politici del dopoguerra. È evidente che questi risultati accrescono enormemente il prestigio e l'autorità di Mattei all'interno della Dc: è merito suo infatti se il partito cattolico può finalmente tener testa al Pci. Perciò l'incarico di tesoriere del Cvl non ridimensiona certo il suo potere; anzi, a quello politico- militare, aggiunge quello finanziario. È in questi mesi di febbrili attività che Mattei incontra in una chiesa di Milano dalle parti di corso Buenos Aires il ventitreenne comandante «Alberto», alias Eugenio Cefis: i due non si allontaneranno più e il loro rapporto sarà sempre complesso, pieno di luci e ombre. Cefis sarà il vice di Mattei all'Eni e dopo la sua morte il suo successore. Diversamente da tutti gli altri collaboratori di Mattei, Cefis subirà sempre molto poco il fascino del capo, che perciò proverà nei suoi confronti un misto di rispetto e fastidio. Cefis è vicecomandante della divisione Valtoce (spesso queste definizioni militari - brigata, divisione, ecc. - sono quanto meno esagerate, a volte si tratta solo di pochi intraprendenti tenuti insieme dalla buona volontà) fondata in Val d'Ossola da due cattolici integralisti, i fratelli Alfredo e Antonio Di Dio, come «formazione apolitica», addirittura come «Opera pia». Giorgio Bocca, anch'egli partigiano in Val d'Ossola, dà del Cefis di quei mesi questa descrizione: «Come vicecomandante Eugenio Cefis (Alberto) è per natura attento ai problemi del fare e dell'organizzare. Il padre è un industriale di Treviglio. Lui è stato all'Accademia militare di Modena, è ufficiale effettivo. Borghese e militare, ma senza compiacimenti retorici. Difeso dal suo pragmatismo, forse già capace di vedere in grande. È sposato, la moglie sta a Lesa e gli dà un figlio durante il periodo partigiano. È il vero cervello organizzativo della "Valtoce" e tiene i collegamenti con il comando unificato di Milano. Così conosce Enrico Mattei». Come si vede, i due erano fatti per intendersi. Dopo la morte di Alfredo Di Dio, sarà lui a guidare la difesa della «repubblica dell'Ossola». Ecco come Cefis racconta l'incontro: «Nel primo colloquio che ebbi con lui mi offrì tutto quello che poteva servire, ma io, siccome avevo già tutto, ero la persona sbagliata ... Nell'Alta Italia operavano allora, in concorrenza tra loro, diverse strutture di intelligence: francesi, inglesi, badogliane, persino jugoslave. Arrivavano talvolta anche a forme cruente di lotta tra loro. A un certo punto gli americani si stancarono, mandarono una missione di controllo, la missione Chrysler ... Si
piazzarono sul Mottarone e proprio lì sotto c'ero io con la mia formazione. Lavoravamo insieme per risolvere i loro problemi quotidiani ed in cambio avevamo di tutto». Sempre in questi mesi Mattei stringe rapporti di amicizia con il vice di «Alberto», Albertino Marcora, che diventerà uno dei suoi più vicini fiduciari politici, con Rino Pachetti, che sarà un comandante della Valtoce e poi sua futura fedelissima guardia del corpo, con Piero Sassinisi, comandante della Puecher, con Italo Somaglino, comandante della Rabellotti, con Alfonso Marvelli, comandante della Alto Milanese. Tutte amicizie che non si esauriranno con la fine della guerra, alle quali nella sua futura attività Mattei ricorrerà spesso per incarichi di fiducia. Saranno molti gli ex partigiani fra i suoi collaboratori e fra i dipendenti delle aziende che dirigerà. Negli ultimi mesi di guerra Mattei, come la maggior parte degli italiani, non ha le idee ben chiare su come andranno le cose dopo. Non è affatto certo che prevarranno i moderati: ha conosciuto i comunisti, la loro determinazione e la loro durezza, e li sente parlare di rivoluzione. Decide di non sbilanciarsi troppo, se è costretto a prendere posizione lo fa senza accanimento, lasciando sempre qualche apertura. Il 22 febbraio 1945, nell'imminenza della battaglia finale, il comando discute su come organizzare le formazioni da far convergere su Milano. Cadorna, come tutti i moderati, teme sbocchi incontrollati della prevista insurrezione, teme che possa trasformarsi in rivoluzione. Propone perciò di istituire un corpo di ispettori che affianchino i comandanti partigiani durante la discesa verso la città. Naturalmente Longo si oppone con forza, il liberale Argenton teme invece che gli ispettori possano tramutarsi in un vantaggio per i comandanti. Mattei si tiene cautamente su una posizione analoga. Solari è il più duro nell'opporsi al progetto, dicendo apertamente che il contrasto è politico. Cadorna decide allora di fare il duro, picchia un pugno sul tavolo e ur94 Mattei la: «Sono io che presiedo». «Tu non presiedi un cazzo», è la brutale risposta di Solari. Cadorna si alza di scatto e pallido come un cencio se ne va. Lo seguono Argenton, il socialista Mosna e infine, quasi controvoglia, Mattei. Il quale, in realtà, non riuscirà mai ad avere un buon rapporto con Cadorna, nonostante appartengano entrambi all'area moderata. Paradossalmente, come già visto, lo ha invece ottimo col comunista Longo. Col primo, di estrazione aristocratica, non ci sarà mai amicizia; col secondo, come lui di umili origini, l'amicizia sarà invece tanto profonda da non essere intaccata neppure nei lunghi difficili anni della guerra fredda e del durissimo scontro politico- ideologico. Come ricorda Pietra, questa differenza è impietosamente evidenziata dai due rispettivi discorsi in morte di Mattei. Franco e freddo quello di Cadorna: «Nel manifestare la mia ammirazione per la sua splendente carriera, ritengo tuttavia di poter aggiungere che l'eccesso di potere nelle mani di una sola persona, per quanto capace, può costituire un pericolo per quelle libere istituzioni che Enrico Mattei concorse con noi a stabilire». Lungo, caloroso e denso di memorie e di complicità, invece, il discorso di Longo, che arrivò a rievocare «con piacere» che «nella riunione, avvenuta verso la metà dell'aprile del '45, in cui i membri del Cvl discussero la sorte dei gerarchi fascisti, Mattei fu dalla parte di chi chiedeva giustizia sommaria, mentre Cadorna aveva proposto di consegnare Mussolini e i suoi collaboratori agli Alleati, o per lo meno di sottoporli a processo. Mattei disse chiaro e tondo che Mussolini e gli altri, nel caso fossero stati catturati dai partigiani, dovevano essere passati per le armi sul posto della cattura». Insomma, quasi una rivendicazione dell'intransigenza e del radicalismo dell'amico, nonostante fosse un democristiano. D'altra parte, ricordando Mattei sulle pagine del quotidiano del Pci «L'Unità», Longo scriverà con affettuosa franchezza: «Siamo stati legati da una fraterna amicizia che anche negli anni successivi non è stata interrotta dall'alternarsi delle vicende politiche». Da questa «fraterna amicizia» con Longo discenderanno poi gli ottimi rapporti di Mattei con i comandanti delle formazioni partigiane comuniste e, dopo la guerra, con molti esponenti del Pci. 95
Il 25 aprile Milano è liberata, la guerra è finita, la resa dei tedeschi in Italia verrà firmata quattro giorni dopo. Mussolini verrà catturato il 27 e ucciso il 28. Il 5 maggio si celebra la liberazione con una grande sfilata di formazioni partigiane nelle strade di Milano, in testa marciano affiancati sei uomini del Cln: Mario Argenton, Giovanni Battista Stucchi, Ferruccio Parri, Raffaele Cadorna, Luigi Longo ed Enrico Mattei; in un'immagine che li consacrerà per la storia come i capi vittoriosi della guerra di liberazione. Nel frattempo però Mattei non si crogiola nella gioia per la vittoria e la pace riconquistata. È impegnato infatti su due fronti. Quello politico: dare il massimo risalto alla partecipazione dei democristiani alla Resistenza e alla consistenza delle formazioni cattoliche. Quello contabile: chiudere i conti economici del Cvl e versare il saldo alla Banca d'Italia. Il 29 maggio registra il versamento di 130.000 lire, nella sede del Cvl, in via del Carmine al drappello dei tredici partigiani che nella notte fra il 26 e il 27 aprile, per ordine di Cadorna, andarono a Dongo, sul lago di Corno, col colonnello «Valerio», nome di battaglia di Walter Audisio, addetto al comando generale del Cvl, per giustiziare il Duce. Secondo l'ipotesi più accreditata, soprattutto dal Pci, sarebbe stato «Valerio» a uccidere Mussolini; altre fonti attendibili, a cominciare da Massimo Caprara a lungo segretario di Togliatti, fanno altri nomi. Il principale responsabile dell'esecuzione senza processo di Mussolini, fu comunque Longo, che, come abbiamo visto, non perse occasione per ricordare che Mattei non mosse un dito per evitarla e in seguito non ebbe mai da recriminare. Alla vicenda dell'uccisione del Duce è strettamente collegata la storia del cosiddetto «oro di Dongo», di quel tesoro, cioè, fatto di metalli preziosi, valori e documenti, che Mussolini e i suoi cercavano di trafugare nella loro fuga verso la Svizzera. Anche in questo caso ci sono versioni discordanti: secondo i comunisti, che ebbero il completo controllo di tutta quell'operazione, sarebbe stato tutto consegnato alla Banca d'Italia. Altre versioni, accreditate e ormai in maggioranza, sostengono che quel tesoro fu in gran parte disperso soprattutto ad opera degli uomini che avevano catturato Mussolini e poi quasi interamente recuperato da emissari comunisti, anche a prezzo di assassinii e violenze. Bisognava, infatti, secondo queste versioni, far sparire certi documenti compromettenti per il Pci e per gli Alleati, mentre oro e valori sarebbero serviti per avviare l'attività politica del partito. Negli anni del dopoguerra intorno a questa tormentata e tuttora irrisolta vicenda si scatenano polemiche violentissime, si susseguono inchieste giornalistiche, si celebrano processi che coinvolgono come testimone Mattei. Il quale ha così modo di dimostrare ufficialmente e una volta per tutte la sua correttezza amministrativa e la sua scrupolosità contabile. Ma non chiarisce affatto, nonostante la sua posizione centrale in questa storia, la sorte di quel tesoro. Così come non dice mai, e neppure dà mai l'impressione, di credere alla versione ufficiale del Pci. Chiamato a deporre come ex intendente del Cvl nel famoso processo di Padova nel 1957, Mattei infatti se la cava così: «Io ho tutta la contabilità del periodo clandestino ed è un vero miracolo se sono riuscito a conservare intera questa documentazione, dove si può rilevare che esistono ricevute anche per piccole spese di 45 lire. La contabilità parte dal 4 dicembre 1944 e la esibisco, conti e ricevute in copia fotostatica. Effettivamente ognuno di questi documenti costituiva una condanna a morte ed era pericoloso conservarli. Ma io, ripeto, per un vero miracolo sono riuscito a conservare tutto». Il presidente gli chiede: «Ma lei conosce i valori della colonna Mussolini?». La risposta è piuttosto elusiva: «... Del tesoro mi sono pervenute solo 160 sterline, regolarmente versate in banca e 100 milioni dei beni ammassati a Corno: e ciò attraverso il Clnai». In altre parole: io posso parlare solo per quello che mi hanno consegnato, del resto non so nulla. Probabilmente pensa che un «resto» esistesse, fosse cospicuo e forse ha anche qualche idea su dove sia finito. Se dopo la fuga dal carcere di Corno la sua richiesta di una decorazione era stata considerata poco meno che sfacciata, per Mattei la medaglia arriva alla fine della guerra, e a dargliela non sono i suoi compagni di lotta partigiana ma gli Alleati.
Il generale Mark Wayne Clark, comandante del 15° gruppo di armate, cioè delle forze alleate in Italia, gli conferisce una delle 97 più prestigiose decorazioni americane, la Bronze Star. La motivazione è molto lusinghiera ma la parte che più piace ad un decorato tanto vanitoso e con una così forte autostima è certamente quella che esalta la sua «sorprendente abilità e il suo talento, unitamente a grande lealtà ed eroismo». La guerra per Mattei è davvero finita. Per qualche tempo ancora si occupa solo della commissione incaricata di attribuire le ricompense al valore e dell'Ufficio stralcio del Cvl. Ma i mesi della Resistenza lasciano un segno profondo e incancellabile nella personalità di Mattei, dando un senso concreto e positivo al suo patriottismo e al suo senso della famiglia e della comunità. Sono stati una «lezione di storia» scritta personalmente, a rischio della pelle e col suo sudore. Gli lasciano in eredità delle convinzioni politiche insieme all'appartenenza ad un movimento politico attivo e ben definito, ma soprattutto un complesso di relazioni e di amicizie che dureranno tutta la vita, alle quali resterà sempre generosamente fedele e delle quali saprà anche servirsi con abilità. Ora, dunque, lo aspetta la politica: subito il gruppo dirigente della Dc lo fa entrare nella Consulta nazionale del partito. Intanto, però, senza che neppure lo sappia, è già cominciata tutta un'altra storia, un'altra avventura che lo accompagnerà per il resto della sua vita e che farà di lui uno degli italiani più potenti del Novecento. Il 28 aprile 1945, appena tre giorni dopo la fine della guerra, nelle ore in cui viene ucciso Mussolini, la Commissione centrale per l'economia, per intervento di Ferrari- Aggradi e su indicazione del presidente Cesare Merzagora, lo nomina commissario straordinario dell'Agip del Nord Italia. Capitolo Ottavo LIQUIDARE L'AGIP La chiamavano anche «Associazione Gerarchi In Pensione» oppure «Azienda Generale Infortunati Politici»: l'Agip, Azienda generale italiana petroli, aveva sempre goduto di una pessima reputazione. Costituita il 16 maggio del 1926 in ottemperanza al Regio Decreto del 3 aprile dello stesso anno, fortemente voluta dal ministro delle Finanze Giuseppe Volpi di Misurata e dal suo collega dell'Economia nazionale Giuseppe Belluzzo, finisce presto per essere considerata, a torto, un carrozzone inefficiente, polveroso e sostanzialmente inutile, dove, secondo le sarcastiche denominazioni ricavate dalla sigla, trovavano rifugio, poltrone e stipendi vecchi arnesi dismessi del partito fascista e personalità politiche cadute in disgrazia. Insomma una sorta di cimitero degli elefanti del regime. Una pessima reputazione in gran parte immeritata, perché, come vedremo, quell'azienda di Stato è riuscita quanto meno a formare e custodire professionalità e competenze di ottimo livello. In realtà, quando convincono Mussolini a costituire l'Agip, Volpi e Belluzzo hanno visto giusto, con una lungimiranza non frequente fra i ministri del Duce. Soprattutto Volpi ha intuito, in anni in cui il carbone è la principale fonte di energia e in presenza dell'impennata dei consumi nel decennio successivo alla prima guerra mondiale, che quella materia prima è una risorsa molto limitata e che il petrolio perciò diventerà sempre più importante. In modo particolare per l'Italia che comunque non dispone neppure di carbone. La storia della ricerca industriale del petrolio comincia negli Stati Uniti il 29 agosto del 1859, quando in Pennsylvania zampilla il primo pozzo per la produzione commerciale perforato 99 dal mitico Edwin Laurentin Drake, pioniere nell'adottare la tecnica dei pozzi artesiani. Un gruppo di lungimiranti finanzieri, capeggiati da un giovane intraprendente ragioniere di nome David Rockefeller, capisce il valore industriale di quel rivoluzionario metodo e crea una società che salirà presto all'apice del nascente firmamento petrolifero mondiale. Naturalmente anche altri paesi si lanciano nella ricerca e in Italia il primo pozzo perforato con sistemi non artigianali è a Tocco da Casauria, in provincia di Pescara, appena cinque anni dopo quello di Drake.
Date le molte e vistose manifestazioni di olio e gas disseminate lungo la Penisola, l'Italia è infatti tra i primi paesi al mondo a sviluppare la ricerca petrolifera, limitata però a episodi locali, con piccole compagnie operanti in un ambito regionale o poco più. Ben altre sono le possibilità di paesi come la Gran Bretagna, con grandi tradizioni industriali, ingenti risorse finanziarie e vasti imperi coloniali a disposizione: con la D'Arcy (che diventerà Bp, British Petroleum) opera in Iran e con la anglo- olandese Shell in Iraq e Penisola arabica. Ed è proprio questa la prima grande compagnia straniera ad interessarsi all'Italia, nel 1921. Le diffidenze degli ambienti politici e la mancanza di un quadro legislativo preciso la convincono, però, ad abbandonare la piazza prima ancora di fare una qualsiasi proposta al governo di Roma. Nel 1924 scoppia un clamoroso caso politico- economico, il cosiddetto «affare Sinclair», che scuote profondamente il paese, rendendo ancora più difficili i già incerti rapporti fra politica e petrolio. La Sinclair è una media compagnia americana molto chiacchierata, spesso nel mirino delle severe autorità antitrust per la sua aggressività che talvolta rasenta l'illegalità. Si interessa all'Italia e, con l'aiuto dell'Ambasciata italiana di Washington, prende contatto col ministero dell'Economia nazionale che, a sorpresa, nel marzo del '24 annuncia di averle concesso un permesso di ricerca su 40.000 chilometri quadrati in due blocchi comprendenti vaste estensioni della Sicilia e dell'Emilia. L'accordo, della durata di 50 anni, prevede la costituzione di una società operatrice di cui lo Stato italiano detiene il 40% e due consiglieri d'amministrazione su sette. I costi delle ricer100 che sono tutti a carico della Sinclair, che può ritirarsi a determinate scadenze. All'Italia andrà il 25% degli utili e sono previste agevolazioni fiscali per tutte le operazioni petrolifere. Non essendoci ancora una legge che regoli la materia, la concessione viene assegnata con decreto legge, che il parlamento avrebbe dovuto ratificare entro 60 giorni. Una nota governativa di accompagnamento del decreto spiega che la decisione è stata presa per «l'incapacità dell'industria petrolifera italiana a compiere ricerche approfondite e l'irrinunciabile esigenza dello Stato di risolvere l'incognita della presenza di petrolio nel nostro sottosuolo». La notizia suscita un clamore probabilmente inatteso in un momento già di grande instabilità. Il fascismo è al governo da poco più di un anno e mezzo, il suo potere non è consolidato e l'opposizione è ancora molto aggressiva. I due suoi leader più brillanti, il socialista Giacomo Matteotti e il popolare don Luigi Sturzo attaccano con durezza l'operazione, giudicandola contraria agli interessi nazionali, criticando la scelta di affidare a compagnie straniere la ricerca di petrolio in Italia e definendo la Sinclair inaffidabile per la sua pessima reputazione. Matteotti parla apertamente di una possibile opera di corruzione dei politici italiani da parte degli americani: il 12 giugno del '24 è previsto un suo discorso alla Camera su questo argomento, nell'ambito del dibattito sulla trasformazione in legge del decreto. Due giorni prima, il 10 giugno, mentre esce dalla sua casa romana sul Lungotevere viene rapito e assassinato da sicari fascisti. Si dice subito che fra i motivi dell'assassinio ci sia la cosiddetta «pista petrolifera», ipotesi che però non sarà mai approfondità. Per niente intimidito, don Sturzo attacca con una serie di articoli in cui indica, come unica via per l'indipendenza energetica, la creazione di una compagnia di Stato. In sostanza quello che tra due anni sarà l'Agip. D'altra parte - stranezze delle vicende politiche italiane -sarà proprio Sturzo negli anni Cinquanta il più agguerrito fra i tanti oppositori dell'Eni di Mattei (ma più dello strapotere personale di quest'ultimo che dell'ente petrolifero di Stato). 101 Volpi e Belluzzo, dunque, hanno ormai il terreno spianato. Senza un intervento deciso e coraggioso, la già forte dipendenza dell'Italia dall'estero per gli approvvigionamenti energetici crescerebbe sempre più in futuro. Ma ci sono anche argomenti politici: la ricerca e la produzione del petrolio possono essere un
importante strumento per le ambizioni espansionistiche della politica estera fascista. Potrebbe infatti agevolare la penetrazione degli interessi italiani nell'area balcanico- danubiana ed est- europea, considerata allora una delle più ricche di petrolio, non essendo ancora noti i giacimenti del Medio Oriente. Proprio Volpi e Giovanni Agnelli, col sostegno finanziario della Banca Commerciale Italiana, hanno avviato ricerche in Romania, ricerche fino ad allora tanto costose quanto infruttuose. Nel 1925 la produzione mondiale di petrolio è di 140 milioni di tonnellate (quasi 4 miliardi di tonnellate nel 2000), di cui ben il 70% estratti negli Stati Uniti (meno del 20% nel 2000). Il resto viene quasi tutto da Unione Sovietica e Messico. Quarta la Romania con appena 2 milioni di tonnellate di greggio. Gli altri grandi produttori dei decenni successivi come i paesi del Medio Oriente, quelli bagnati dal Mare del Nord, il Venezuela, l'Indonesia, ecc. sono ancora molto in là da venire. Creata dunque come società per azioni di cui lo Stato controlla l'intero capitale di 100 milioni di lire (il 60% al Tesoro, il 20% all'Ina e altrettanto alle Assicurazioni Sociali), l'Agip ha il compito istituzionale di impegnarsi nelle ricerche petrolifere in Italia e all'estero, ma nasce con una tara congenita, con una ambiguità d'origine che indurrà non solo i più maligni a dubitare dell'effettiva utilità dell'azienda: l'ombra della compenetrazione fra gli interessi pubblici e quelli di alcuni gruppi privati. Tanto per cominciare, per il primo biennio la presidenza è affidata ad Ettore Conti, un imprenditore elettrico. Con lui, tuttavia, l'Agip si impegna subito in ricerche sia in Italia, su tutto il territorio nazionale, sia all'estero. Rileva le attività rumene di Volpi e della Fiat: e qui siamo di fronte ad un potenziale conflitto di interessi - il ministro che vende ad una società pubblica, da lui voluta, un'azienda a cui egli è direttamente interessato -, ma 102 anche a un'operazione tipicamente italiana di cessione allo Stato di un'attività privata in perdita. D'altra parte fin da quei primi vagiti, l'Agip mostra una congenita propensione al monopolio: in una lettera alla presidenza dell'azienda, il ministro Belluzzo rivela tranquillamente di «mantenere in sospeso da circa due anni decine e decine di domande di permessi per ricerche petrolifere, accantonate di proposito per dare a codesta azienda la preferenza ove intendesse chiedere la facoltà di indagine». Forse senza questo «accantonamento di proposito» la storia della produzione di gas e petrolio in Italia avrebbe potuto essere diversa. Il secondo presidente, Alfredo Giarratana, impegna l'azienda anche in ricerche in Iraq e conclude un accordo con l'Unione Sovietica per la distribuzione di prodotti petroliferi sul mercato italiano. L'accordo viene duramente osteggiato dalle filiali italiane dell'americana Standard Oil (successivamente Esso) e Royal DutchShell e infine revocato: è una quasi profetica anticipazione di ben più aspri scontri che negli anni Cinquanta l'Eni di Mattei sosterrà con le maggiori multinazionali del petrolio, le cosiddette Sette Sorelle. D'altra parte le ricerche petrolifere sono sempre state costosissime e, soprattutto in quegli anni, dall'esito molto incerto. Spesso l'Agip deve abbandonare per mancanza di risorse finanziarie, come nel caso del consorzio internazionale iracheno, da cui nel '35 è costretta ad uscire perché la guerra d'Etiopia non la mette in grado di sostenere l'investimento necessario. Ben presto l'ambizione principale dell'Agip, la vera ragione per la quale era stata creata, ritagliarsi cioè uno spazio autonomo nel mercato mondiale degli idrocarburi, si risolve in un completo fallimento. Il paese deve prendere realisticamente atto della sua dipendenza dall'estero per quanto riguarda prodotti derivati dalla raffinazione degli idrocarburi: benzina, oli combustibili, lubrificanti. Frattanto, per facilitare la gestione e il controllo delle ricerche sul territorio italiano, nel 1927, un anno dopo la nascita dell'Agip, era stata varata una «legge mineraria» in base alla quale il sottosuolo nazionale viene dichiarato di proprietà dello Stato, mentre l'esercizio dell'attività mineraria è sottoposto ad autorizzazione governativa. 103
L'intenzione del governo era quella di rilasciare il maggior numero di concessioni in modo da disseminare l'Italia di squadre alla ricerca di petrolio. In effetti varie (ma non molte) società private italiane e straniere avviano perforazioni e sondaggi un po'"qua un po'"là, quasi a casaccio e senza impegnarsi molto: i risultati sono piuttosto mediocri. Le attività di ricerca ed estrazione, insomma, sono assolutamente deludenti. Se si vuol ridurre la dipendenza dall'estero, dunque, meglio concentrarsi sulla raffinazione. Perciò, tenendo fede alla tradizione protezionistica dell'industria italiana, nel 1933 viene varata una legge che tutela le raffinerie nazionali. Tre anni dopo l'Agip può dunque assumere il coordinamento di una serie di operazioni, investimenti e progetti destinati a privilegiare il settore della raffinazione lungo la dorsale adriatica. I principali flussi di rifornimento del greggio, infatti, continuano a provenire dall'Est: Russia, Romania e Albania. Avendo privilegiato l'estrazione, fino alla metà degli anni Trenta la raffinazione come attività industriale è stata trascurata, quindi è produttivamente inadeguata e tecnologicamente arretrata. Per di più i due poli principali sono in mano a compagnie straniere: la Royal Dutch- Shell a La Spezia e la Socony Vacuum a Napoli. Alcuni gruppi italiani dispongono di pochi impianti vecchiotti e modesti, tutti nel Nord Adriatico: l'Agip a Fiume, la Fiat a Trieste, Volpi a Porto Marghera. Nel '36 anche quest'ultimo impianto, di proprietà del ministro che si è battuto per creare l'Agip, viene acquistato proprio dall'azienda petrolifera di Stato: evidentemente a quei tempi il problema del conflitto d'interessi non era neppure possibile sollevarlo. Ma ormai siamo in piena «autarchia», la campagna indetta dal regime per raggiungere l'autosufficienza economica nazionale evidentemente impossibile. È la risposta, velleitaria e propagandistica, alle «sanzioni», al blocco economico internazionale proclamato dalla Società delle Nazioni (la fallimentare e impotente Onu di allora) per «punire» l'Italia per la guerra d'Abissinia. È chiaro comunque che se ora si punta sulla raffinazione è necessario anche investire ed impegnarsi per realizzare impianti nuovi e più efficienti. In quello stesso 1936, infatti, l'Agip si accorda con la Montecatini, allora la più grande indu104 stria chimica italiana, per creare l"«Azienda nazionale idrogenazione carburi» (Anic). La cui prima e velleitaria missione, in clima di piena autarchia, è di ricavare benzina dall'idrogenazione delle ligniti del Valdarno. Quindi, più realisticamente, di realizzare due grandi e moderne raffinerie a ciclo integrale, a Bari e a Livorno, per la lavorazione del petrolio di provenienza albanese. Si tratta di un greggio di pessima qualità per la cui estrazione è stata creata pochi mesi prima l'Azienda italiana petroli albanesi, controllata anch'essa dall'Agip, con il contributo finanziario delle Ferrovie dello Stato. In breve viene anche realizzata una rete di stazioni di rifornimento che permette all'Agip di possedere il 28,9% della distribuzione, seguita dalla Shell e dalla Esso. Nonostante le velleità autarchiche, dunque, il piano di ricerche petrolifere non può essere affrontato col necessario impegno finanziario e tecnologico, mancano le risorse finanziarie, sono inadeguati gli strumenti e le conoscenze tecniche. Il greggio estratto in Albania si rivelerà presto un pessimo affare: di una qualità talmente cattiva da rendere comunque eccessivi i costi di estrazione. Da tempo si spera nel sottosuolo della Libia. Ardito Desio, il grande esploratore che nel 1954 conquisterà la vetta hima- laiana del K2, la seconda più alta del mondo, ha scoperto il petrolio libico per caso, scavando alla ricerca dell'acqua. Ma quello più superficiale è di pessima qualità, tanto che la sua coltivazione non sembra conveniente. Per diversi anni, comunque, l'attività di ricerca nel deserto della colonia nordafricana era stata resa praticamente impossibile dalla guerriglia anti- italiana, sconfitta la quale, solo nel 1939 Agip e Fiat avviano finalmente l'operazione Petrolibia, coinvolgendo anche una società americana, una vecchia conoscenza desiderosa di risarcimento, la famosa Sinclair, che disponeva di
tecnologie particolarmente efficaci. Ci penserà la guerra ad interrompere l'attività di ricerca proprio quando il petrolio era più necessario. D'altra parte i giacimenti libici sono a grande profondità, tanto da rendere a quei tempi l'estrazione impossibile o esageratamente costosa. 105 Nel 1938, Agip e Fiat si associano ancora una volta per creare la Società italiana carburanti sintetici: l'ideologia autarchica ha evidentemente indotto qualcuno a credere che sia possibile ed economicamente valido realizzare benzina sintetica. Il risultato è assolutamente fallimentare. Anche sul fronte petrolchimico, inoltre, le cose vanito male. La produzione dell'Anic resta molto al di sotto delle aspettative e l'impianto di Livorno finirà per essere smantellato dagli occupanti tedeschi. Insomma, dopo un decennio di attività, l'Agip, benché contenga professionalità di primo piano, si rivela un baraccone di Stato del tutto inadeguato agli scopi per i quali era stato creato, condizionato dalla politica e dalla burocrazia delle Corporazioni. Sembra dunque meritare pienamente quelle sarcastiche e spregiative definizioni da carrozzone di regime. Complessivamente la produzione petrolifera italiana negli anni Trenta non andò mai oltre le 10.000 tonnellate all'anno. Poco, pochissimo anche per quegli anni in cui la motorizzazione di massa era ancora lontana. Nel 1940, allo scoppio del conflitto mondiale, il governo requisisce le imprese appartenenti a soggetti di paesi in guerra con l'Italia. L'incarico di sequestrare le società petrolifere americane e britanniche operanti sul territorio italiano viene dato all'Agip. Questa volta il governo resiste alle pretese della Fiat che si dà da fare per prendere il controllo della Standard Oil e della Shell. Nell'Italia occupata dai tedeschi, il 6 dicembre del 1943, il ministero dell'Economia corporativa sostituisce gli organi sociali con un commissario, l'ingegner Carlo Zanmatti, ex direttore della divisione ricerca, e con un vicecommissario, Bruno Maz- zaggio. Zanmatti è un tecnico e un manager di straordinario valore. All'Agip dal 1927, ha lavorato a lungo in Iraq con la Mossul Oil Company. Con la sua squadra di tecnici appassionati, piccola e senza mezzi ma agguerrita e ricca di competenze, insiste nel privilegiare l'attività di ricerca soprattutto in Italia. Profeta inascoltato, Zanmatti è considerato dagli incompetenti politici e burocrati, che ormai da tempo hanno il controllo dell'azienda, alla stregua di un fastidioso monomaniaco. 106 Frattanto l'Agip vive in un clima di autentico marasma amministrativo, dovuto in parte alle vicende della guerra ma anche, se non soprattutto, all'impostazione politico- burocratica della gestione. Il 25 gennaio del 1944, l'assemblea straordinaria dei soci trasferisce a Milano la sede sociale, lasciando a Roma un ufficio stralcio. Dopo qualche mese, nell'ottobre del '44, nonostante il caos gestionale e grazie solo alla pertinacia e all'abilità di Zanmatti e dei suoi uomini, accade qualcosa la cui importanza per il futuro dell'Agip verrà pienamente apprezzata solo tra un anno. Il pozzo numero 1 di Caviaga, nel Lodigiano, scavato con molte difficoltà e senza mezzi finanziari, rivela un cospicuo giacimento di metano. I segnali sono chiari, le relazioni parlano di «alcuni decimetri di sabbie impregnate di gas con tracce di gasolina». È un successo dovuto alla competenza tecnologica e alla testardaggine di quei tecnici, che nell'ultimo anno di guerra si erano raccolti a Ossago Lodigiano dove, in condizioni di totale abbandono psicologico e materiale, operavano solo grazie ad una straordinaria volontà e fede nelle proprie convinzioni. Nel 1938 sono riusciti ad imporre l'esplorazione sistematica dei diversi bacini petroliferi disponibili adottando tecnologie modernissime: due «gruppi sismici» americani, già ampiamente collaudati in Medio Oriente, che sondano il sottosuolo attraverso analisi di tipo sismologico. Per utilizzare i gruppi sismici vengono in Italia due tecnici statunitensi che si appassioneranno al loro lavoro e stabiliranno rapporti di amicizia e stima con i colleghi dell'Agip al punto da rientrare in patria malvolentieri, nell'ottobre del 1940, e dopo insistenti richiami del loro governo, quattro mesi dopo l'entrata in guerra
dell'Italia. A Zanmatti, in realtà, il gas interessa poco: la sua esistenza nel sottosuolo padano è scontata, da secoli i contadini lombardi ed emiliani conoscono e interpretano con superstizioni e leggende il fenomeno dei fuochi fatui che ne segnala la presenza. Zanmatti vuole trovare il petrolio, a tutti i costi, e il metano spesso anticipa la presenza contigua di giacimenti petroliferi: perciò considera comunque quell'evento un successo. Tecnici e maestranze, tuttavia, hanno appena il tempo di gioire per la promettente scoperta che subito si decide di tene107 re segreta la notizia, registrandola solo in un rapporto riservatissimo, e di chiudere il pozzo per evitare che se ne impossessino i tedeschi. Non sanno, quegli uomini, che così hanno garantito la sopravvivenza dell'Agip. Quella decisione, inoltre, servirà a Zanmatti per difendersi dalle accuse di aver servito il fascismo e la Repubblica sociale. Gli americani, comunque, che quando si tratta di affari hanno sempre un'ottima memoria, non hanno dimenticato quel certo interesse manifestato da più parti nel decennio precedente per le potenzialità del sottosuolo italiano. Nell'estate del 1944 alcuni fiduciari di compagnie petrolifere statunitensi arrivano in Italia al seguito delle truppe alleate. Tra di essi c'è anche Elmer J. Thomas, un geologo considerato uno dei maggiori specialisti al mondo, se non il maggiore, nelle tecniche della ricerca petrolifera. Non è la prima volta che Thomas mette piede in Italia. In un precedente soggiorno, fra il 1930 e il 1933, aveva compiuto uno studio molto approfondito sulle potenzialità minerarie della Pianura padana, della costa adriatica e della Sicilia. In seguito a queste ispezioni aveva chiesto al governo italiano permessi di ricerca per conto del petroliere Richard Mellon. Ma i veti dell'Agip e la politica economica nazionalista e protezionistica del fascismo bloccarono quelle richieste. In questo secondo soggiorno italiano, le cose stanno molto diversamente: Thomas è qui da vincitore e ha accesso a tutti gli uffici e tutti i cassetti, può studiare la documentazione completa degli studi effettuati dall'Agip, dalla squadra di Zanmatti, nella Pianura padana; può mettere le mani sui documenti riservati custoditi negli archivi centrali dell'azienda di Stato relativi a 15 anni di ricerche e su quelli conservati dal ministero dell'Agricoltura. Probabilmente ha avuto informazioni anche dai suoi connazionali che hanno assistito i tecnici dell'Agip nell'impiego dei «gruppi sismici» fra il '38 e il '40. Da tutto questo materiale non riceve che conferme delle sue valutazioni di dieci anni prima. D'altra parte, Thomas ricorda benissimo che allora il principale oppositore all'avvio delle ricerche nel sottosuolo italiano 108 fu l'Agip. Perciò si dà un gran da fare con il comando delle truppe di occupazione affinché premano sul debolissimo governo di Roma, il governo di un paese vinto e occupato, per ottenere una rapida liquidazione dell'Agip, unico concreto ostacolo ad un futuro intervento massiccio delle compagnie americane in Italia. La richiesta, peraltro, è del tutto in linea con la politica di ampio sfoltimento degli enti e aziende statali già avviata dai ministeri romani. Ma le cose non sono così facili: gran parte degli apparati politici e burocratici italiani si oppongono, secondo una linea di continuità della politica statalista e protezionistica tipica di gran parte della storia economica italiana. Risultato: l'Agip, come tanti altri enti e aziende di Stato, almeno per il momento, sopravvive. Anzi, per rafforzare questa scelta, nel febbraio del 1945, viene ricostituito nella Roma ormai liberata un consiglio d'amministrazione che cancella il trasferimento dell'azienda a Milano. Ne fanno parte come presidente il senatore Arnaldo Petretti, già direttore generale per l'industria del ministero delle Corporazioni, senatore del Regno e governatore civile dell'Africa Orientale Italiana, l'avvocato Gino Bolaffi, un consigliere di Stato proveniente anch'egli dall'apparato ministeriale, altri funzionari e dirigenti di ministeri. Anche queste
scelte sono la conferma di un'impostazione integralmente burocratica, nella quale il povero ingegner Zanmatti, autentica mosca bianca quanto a competenze e impegno, non può certo trovare grandi gratificazioni. Ma gli americani non mollano, su una completa liberalizzazione che permetta l'inserimento delle loro compagnie sul mercato italiano non sembrano proprio intenzionati a fare sconti. Già il 22 marzo 1945, cioè più di un mese prima della fine della guerra, Joseph C. Grew, facente funzioni di segretario di Stato americano, aveva esercitato notevoli pressioni sul governo di Roma affinché la facesse finita con lo «svantaggioso» sistema del controllo governativo delle aziende petrolifere. «La partecipazione del governo italiano agli affari petroliferi» aveva scritto all'ambasciatore a Roma Alexander C. Kirk «creerebbe una posizione concorrenziale tale da offrire al governo la continua tentazione di ricorrere alle pratiche arbitra109 rie che caratterizzarono la condotta delle società petrolifere governative durante il fascismo. Il ripetersi di tale situazione sarebbe svantaggioso per i consumatori italiani e nocivo alle relazioni commerciali italoamericane. Qualora, dopo la guerra, il governo dovesse mantenere un interesse nell'Agip e nell'Anic, a questi organismi non dovrebbe essere consentito di ricorrere alle arbitrarie pratiche cui essi si sono lasciati andare in passato.» Vale a dire: in nessun modo si deve impedire ai privati e agli stranieri di operare sul mercato italiano come è avvenuto negli anni scorsi. Alla fine della guerra, oltre all'attività di ricerca vera e propria, l'Agip controlla aziende come l'Anic e la Snam (la Società nazionale metanodotti, fondata nel 1941) e compartecipa all'Ente Minerario. Già da qualche settimana prima del 25 aprile, la Commissione centrale per l'economia del Clnai presieduta da Cesare Merzagora si riunisce a Milano per decidere la sorte delle aziende e degli enti economici controllati dallo Stato e tutti ancora controllati da uomini in qualche modo compromessi con il fascismo. Quando è il momento di decidere delì'Agip, la commissione non sa proprio a chi rivolgersi. Fra gli uomini della Resistenza, esperti in cose petrolifere non ce ne sono. D'altra parte, il generale orientamento liberista, energicamente suggerito dagli Alleati, porta verso lo smantellamento della maggior parte di quelli che sono considerati, forse un po'"indiscriminatamente, dei carrozzoni di regime, strumenti dello statalismo burocratico fascista. A Ferrari- Aggradi viene in mente che Mattei possiede una fabbrica per la lavorazione di oli e solventi industriali. Assolutamente niente a che fare con gli oli minerali e gli idrocarburi in generale, ma di questi tempi e in mancanza di altri candidati più competenti non è proprio il caso di sottilizzare. Il 28 aprile Merzagora, su indicazione di Ferrari- Aggradi, propone alla commissione, che approva, il nome di Mattei per l'incarico di commissario straordinario liquidatore delì'Agip. Merzagora non conosce Mattei, sa solo che è un capo partigiano e un imprenditore di successo: e tanto basta. 110 Il 16 giugno Charles Poletti, l'ufficiale americano responsabile dell'amministrazione militare alleata, ratifica la nomina. Gli interessa molto poco il nome della persona scelta. Quello che sta a cuore a Poletti, e che lo induce ad accettare senza tante storie la scelta fatta dalla commissione, è la chiara indicazione di chiudere l'Agip al più presto. È questa l'unica cosa che interessa agli Alleati. Capitolo Nono CAVIAGA A Mattei, però quella designazione non va affatto a genio. «Non mi entusiasma
entrare in una bottega per tirare giù la saracinesca», avrebbe replicato a FerrariAggradi che lo informava dell'incarico che gli veniva affidato, aspettandosi probabilmente una reazione di gratitudine. Mattei è deluso e offeso, vive quella vicenda come una grave ferita inferta al suo narcisismo. Definisce quell'incarico «secondario e senza avvenire». A chi gli chiede perché abbia accettato un incarico così irrilevante risponde, con il suo consueto sarcasmo, che è l'unico modo per avere a disposizione una macchina con autista per andare a Roma alle riunioni del Consiglio nazionale della Dc: il primo, al quale partecipa come capo partigiano, si svolge dal 31 luglio al 3 agosto 1945. Teme addirittura, non senza qualche ragione, che si tratti di una manovra per togliere di mezzo un democristiano privo di pedigree, che nei mesi della Resistenza aveva accumulato troppo potere per la sua storia e le sue capacità, e rimettere al suo posto un parvenu della politica. In realtà Mattei aveva in mente la presidenza del Comitato oli e grassi, una struttura permanente, un organismo di vigilanza e non un'azienda da liquidare. Oltre tutto, molto più vicina dell'Agip alle competenze del proprietario dell'I. C.L. Grazie alla sua ormai consolidata autorevolezza politica, comunque, riesce a far affidare quell'incarico al fratello Umberto. Inoltre ottiene anche che l'amico Vincenzo Cazzaniga, conosciuto a Milano nel '44 durante l'attività clandestina, abbia lo stesso incarico al Comitato oli minerali carburanti e succedanei. Il progetto di Mattei è chiaro: una volta liquidata l'Agip, e il più rapidamente possibile, conta di assumere uno degli inca112 richi momentaneamente affidati al fratello e all'amico - se non tutti e due. Non prende infatti neppure in considerazione la possibilità che la sua presenza nell'azienda petrolifera di Stato possa avere un futuro. Prima si riesce a «tirare giù la saracinesca», meglio è. In queste settimane molto concitate, in cui gli orientamenti politici sbandano paurosamente da un giorno all'altro, con governi dei quali fanno parte ministri comunisti e democristiani, socialisti e liberali, quindi senza una chiara linea programmatica, non sono chiare neppure le idee sul futuro del petrolio e degli approvvigionamenti energetici dell'Italia. I primi due presidenti del Consiglio del dopoguerra, prima Ivanoe Bonomi poi Ferruccio Parri e il ministro degli Esteri Alcide De Gasperi mostrano di avere molto a cuore gli interessi nazionali in questo campo, mentre le strutture burocratiche dei ministeri dell'Industria e del Tesoro manifestano attendismo, probabilmente per vedere come finirà la partita politica in corso. Per il momento è chiaro che la maggior parte degli uomini provenienti dalla Resistenza considera l'Agip un'azienda inutile, eredità del fascismo e del suo statalismo autarchico, capace solo di bruciare risorse: le ricerche compiute nei 18 anni di attività sono costate allo Stato 352 milioni di lire senza la contropartita di qualche risultato apprezzabile. Per quegli uomini, indipendentemente dalle loro idee politiche, l'Agip va chiusa o almeno fortemente ridimensionata. Come, d'altra parte, si sta già facendo per imprese affini, come l'Azienda Ligniti, l'Azienda Carboni, la Carbosarda e altre. I vertici dell'Agip, dal canto loro, sembrano preoccupati solo di salvare la poltrona in qualche modo. Consapevoli della loro debolezza politica, cercano di mettere a punto un piano che faccia sopravvivere l'azienda, evitando quindi di portarla in rotta di collisione con le indicazioni degli Alleati, gli orientamenti liberisti di una parte del governo (Dc e liberali) e l'ostilità politica per un vertice aziendale compromesso col fascismo da parte dell'opposizione (comunisti e socialisti). Gli organi societari ordinari, rinnovati da un paio di mesi, sono rimasti a Roma, mentre Milano è di fatto una sede operativa. Il presidente Arnaldo Petretti teme, con qualche buon 113 motivo, che se dovesse essere costretto ad abbandonare quella poltrona, per lui sarebbe difficilissimo trovarne un'altra. Perciò già il 20 aprile 1945 fa approvare una relazione in cui si dichiara «che l'Agip ha esaurito le sue funzioni di ricerca, che hanno dimostrato che l'Italia non dispone di proprie risorse nel campo
degli idrocarburi e propone di lasciare future ricerche alle società private, italiane o straniere, queste ultime certamente più esperte delle italiane nel settore, con cui in ogni caso è necessario stipulare accordi in considerazione del fatto che le strutture petrolifere sono state fortemente danneggiate dalla guerra e alienare tutto il rimanente materiale». In altre parole: noi non ci occupiamo più della ricerca e lasciamo che la facciano i privati, stranieri in primo luogo; in cambio lasciate che l'Agip sopravviva occupandosi del resto: raffinazione, distribuzione e partecipazioni in società del settore petrolchimico. Gli Alleati non sembrano disposti a lasciare in piedi nulla di quel residuo di statalismo fascista. Nel Centro- sud della Penisola già opera come unica struttura di distribuzione dei carburanti un Comitato Italiano Petroli (Cip), istituito su richiesta -ma in quelle condizioni sarebbe meglio parlare di ordine - della sezione petrolifera del Quartier generale alleato. Il 12 maggio i colonnelli americani King ed Hershenson dispongono che il Cip sia anche al Nord l'unico distributore dei prodotti petroliferi - per altro interamente importati dagli Alleati. In questo modo l'Agip è completamente tagliata fuori da ogni attività. Il 15 maggio il ministro del Tesoro Marcello Soleri, particolarmente sensibile alle pressioni americane, scrive al ministro dell'Industria Gronchi: «Le attuali condizioni del bilancio ... hanno indotto questo ministero a sottoporre ad un attento esame la questione delle ricerche petrolifere per conto dello Stato ... Poiché i risultati sono decisamente sfavorevoli ... ritiene questo ministero che sia da sospendere ogni iniziativa tendente a nuovi programmi di ricerche petrolifere ... Conseguentemente dovrebbero iniziarsi subito le operazioni per la liquidazione della gestione ... e a tal uopo il ministro invita: 1) a dare in concessione a società o privati i cantieri attivi sotto congruo corrispettivo a favore dell'erario; 2) a chiudere gli altri cantieri che non hanno 114 mai dato risultati apprezzabili». La richiesta è chiarissima, tanto da sembrare un ordine: cedere ai privati eventuali attività per fare cassa, chiudere tutto il resto. Una richiesta che, se accolta, significherebbe la liquidazione dell'Agip. Gronchi, invece, che da giovane è stato sindacalista e ha fondato con don Sturzo il Partito popolare, ora è un democristiano di sinistra, di quelli che si riconoscono nel «Codice di Camaldoli»: da parte sua quindi nessuna ostilità ideologica alla presenza dello Stato in economia. Anzi, tutt'altro. Perciò, trasmettendo la lettera di Soleri all'Agip, cioè a Mattei, la accompagna con una sua nota con la quale chiede di «fornire una dettagliata relazione sull'argomento prima di prendere una qualsiasi decisione». Insomma, prima di chiudere bottega, guardiamo bene cosa c'è dentro e poi comunque pensiamoci due volte. La reazione di Mattei è spazientita e scoraggiata, manifestata con una tipica espressione popolare matelicese: «Buona notte, Gesù, che l'olio è caro». Come dire: qui le cose vanno per le lunghe, non si conclude nulla. Ma per il momento non può fare altro che aderire alle disposizioni del governo. Quattro giorni dopo Gronchi incontra Mattei a Milano, dove è andato per presiedere alcune riunioni della Commissione economica del Clnai. I due si piacciono, sono fatti per intendersi, hanno molte cose in comune, a cominciare da quel certo nazional- populismo e da quella diffidenza verso il capitalismo tipici della sinistra cattolica. Ma in comune hanno anche l'ambizione, il narcisismo e un certo autoritarismo paternalistico. Mattei, che non ha ancora le idee chiare sul destino dell'Agip e non ha ancora deciso come muoversi, spiega il ritardo nell'aderire alle richieste di Soleri ed alla sostanza del suo mandato, cioè lo smantellamento dell'azienda, con gli stessi argomenti addotti da Gronchi. Il quale a questo punto, sentendosi spalleggiato, fa notare a Mattei che la partita sugli indirizzi economici generali è tutt'altro che chiusa. È inutile correre a Roma con richieste o proposte, meglio dire sempre di sì e fare quello che si vuole. Il governo Bonomi è debolissimo, ha i giorni contati e la situazione generale non potrà che dare più potere alle forze di sinistra, per loro natura contrarie a chiude-
115 re o cedere ai privati aziende di Stato. È un altro invito a prendere tempo. Un invito al quale Mattei aderisce volentieri. Perché vuol chiarirsi le idee e soprattutto perché non va a Matelica da molto tempo ed è arrivato il momento di tornare ad abbracciare la famiglia e gli amici. Ed è anche il momento di mostrare loro il suo nuovo ruolo, di Enrico Mattei capo della Resistenza, dirigente della Dc, personalità politica emergente: si presenta perciò nella sua cittadina con alcuni pezzi grossi del Comando generale del Clnai, ai quali però, racconta Pietra, fa una raccomandazione: «A casa mia, quando c'è mio padre evitate di parlare del re. Se vi capitasse di dirne male, ne soffrirebbe troppo. E poi mi farebbe una testa così». Mattei sa benissimo che un carabiniere, un militare dell'Arma, che si definisce «nei secoli fedele», non viene mai meno al suo giuramento al re. Specialmente se è un testone come suo padre. Dopo la brevissima parentesi domestica, Mattei non può più tergiversare. Ormai è necessario che si occupi davvero dell'A- gip. Quell'incarico, comunque, è provvisorio, perciò si è sistemato, senza stipendio e senza segretaria, in un modestissimo ufficietto in via Moscova, a Milano, insieme ad un pugno di tecnici ansiosi di conoscere il loro destino e frustrati dalla nomina politica di uno sconosciuto incompetente ragionier Mattei al posto del loro stimatissimo ingegner Zanmatti. Racconta Pietra che in quei giorni si costituisce a Milano, negli uffici della Falck di corso Matteotti, la Fondazione solidarietà nazionale, col compito di dare un aiuto concreto e immediato per la sopravvivenza quotidiana e il ritorno a casa alle centinaia di migliaia di profughi, reduci, partigiani. Il presidente della Fondazione è Parri, ne fanno parte, fra gli altri - naturalmente tutti senza stipendio e senza rimborso spese - Enrico Falck ed Ezio Vigorelli. Un giorno Falck e Pietra vanno da Mattei per chiedergli un contributo e tornano stupefatti per il contrasto fra la modestia della sede nella quale sono stati ricevuti e la generosità dell'offerta. È molto probabile che Mattei abbia attinto alle proprie tasche per fare bella figura ed acquisire meriti con Parri e Falck: la sua idea fissa resta la politica. 116 Comincia dunque, ma con una certa prudenza, a sfoltire e a tagliare i costi dell'Agip: licenzia molti ricercatori, avvia trattative con alcune compagnie americane per la vendita degli impianti. A questo punto, però, si insospettisce. La cifra che gli americani gli offrono per delle attrezzature ormai vecchie e malfunzionanti, 250 milioni di lire, gli sembra eccessiva. Per di più, nel frattempo, piovono sulla sua scrivania centinaia di richieste di permessi di ricerca per zone adiacenti a quelle in cui l'Agip ha trovato il metano, mentre sempre più frequenti si fanno le visite di tecnici stranieri ai siti nei quali l'azienda sta ancora operando. Intanto Zanmatti e i suoi tecnici, che rappresentano la componente più aziendalista e integralista dell'Agip, non se ne stanno con le mani in mano ad aspettare il loro licenziamento e la chiusura dell'azienda. Lavorano quotidianamente Mattei ai fianchi. Soprattutto Zanmatti gli prospetta ogni giorno - spesso esagerando, a volte addirittura mentendo - nuove possibili scoperte, gli parla dei molti impieghi del metano, gli spiega che quasi sempre dove c'è gas c'è petrolio, fa di tutto per convincerlo delle grandi potenzialità del sottosuolo padano. Perché lasciare tutto questo agli stranieri e ai privati? - è la implicita domanda finale. Dapprima Mattei diffida di Zanmatti. I loro primi rapporti nell'ufficio di via Moscova sono sgradevoli e rovinati dai pregiudizi, in un'atmosfera carica di ostilità e diffidenza. Prima di ricevere quell'ingegnere di mezza età che chiede insistentemente di parlargli, Mattei gli fa fare alcuni giorni di anticamera: è convinto che voglia solo trattare al meglio le condizioni delle sue dimissioni e vuol farlo arrivare stremato alla trattativa. Le cose, però, non sono così semplici. I primi dieci minuti di colloquio sono carichi di tensione: Mattei aggredisce subito Zanmatti accusandolo di essere stato un fascista, nominato commissario dal governo di Salò, di aver collaborato con i tedeschi. L'ingegnere
reagisce con calma e dignità: «Io sono un tecnico della ricerca petrolifera, non un politico; e conosco molto bene il mio mestiere, e per questo vorrei essere valutato. Quanto ai tedeschi, sappia solo che nei mesi dell'occupa117 zione ho fatto di tutto perché non traessero vantaggio dal nostro lavoro: e posso facilmente dimostrarglielo». Questo atteggiamento disorienta Mattei, che ben presto si rende conto di non avere di fronte il remissivo burocrate opportunista che credeva, ma un manager di qualità, competente e orgoglioso del lavoro svolto e della propria professionalità (con una tradizione familiare: suo fratello si era distinto nelle ricerche Agip in Iraq negli anni Venti); un dirigente costretto per anni ad operare con Scarsissimi mezzi ma risultati ugualmente buoni, che si vede licenziare da un incompetente solo per ragioni politiche. I due in realtà sono fatti per intendersi: dopo i primi burrascosi incontri, col tempo Mattei impara ad apprezzare la competenza, la serietà, la determinazione, la lealtà e perfino il patriottismo di Zanmatti, che ha a cuore solo il salvataggio dell'azienda nella quale ha lavorato per tanti anni e che è convinto possa essere uno strumento importante per la rinascita del paese. Perciò, col passare dei giorni, Zanmatti ottiene sempre più ascolto dal suo nuovo e diffidente capo. È anche probabile che l'ingegnere, il quale oltre che un tecnico molto competente in ricerca petrolifera è anche una vecchia volpe e un profondo conoscitore dell'animo umano, abbia capito subito il suo interlocutore, abbia intuito che le sue vere ambizioni sono politiche e perciò riesca ad usare con lui gli argomenti giusti. È probabile che, con la necessaria cautela, gli parli delle cospicue risorse finanziarie che possono derivare dal successo -che dà per certo - nella ricerca di gas e petrolio e del peso politico che quel successo (e quelle risorse) assicurerebbero. Tutti questi nuovi elementi di valutazione, dunque, inducono il commissario straordinario Mattei a rinviare continuamente le trattative per la liquidazione dell'Agip, aderendo all'invito del ministro dell'Industria Gronchi: prima di chiudere l'Agip, bisogna saperne e capirne di più. Una sera, uscendo dall'ufficio si avvia con Pietra lungo la via Moscova. Arrivato davanti alla fontana di San Francesco, intorno alla quale giocano dei bambini, interrompe il suo interlocutore, che sta parlando di politica, e dice: «I bambini rompono i giocattoli per vedere cosa c'è dentro, ma io sono un 118 Mattei uomo con la testa sul collo e i piedi per terra. Voglio vedere cosa c'è dentro l'Agip prima di romperla. Voglio capire se, ristrutturata e rilanciata può servire al paese» (e alle mie ambizioni politiche: ma questo non lo dice o, quanto meno, Pietra non lo riferisce). Intanto però dal governo vengono sempre più insistenti e perentorie richieste di chiudere rapidamente l'Agip. I vertici della società, che risiedono a Roma, aderiscono quasi con entusiasmo alle richieste del ministro Soleri: il 29 maggio il consiglio d'amministrazione si dichiara d'accordo sul trasferimento ai privati dell'attività di ricerca, chiusura dei cantieri e immagazzinaggio del materiale petrolifero già prodotto. Intanto però nomina una commissione con l'incarico di esaminare il problema: un modo per eludere le responsabilità e non decidere. A questo punto, per la prima volta Mattei non ubbidisce, non liquida l'azienda e, anzi, si fa consegnare dall'amico Vincenzo Cazzaniga il piano completo degli impianti petroliferi, dei depositi, delle raffinerie e dei punti di distribuzione dell'Italia del Nord. Quando sarà presidente dell'Eni dirà: «Se non avessi disobbedito tutto questo non ci sarebbe». La facile profezia di Gronchi, la caduta del governo Bonomi e la sua sostituzione con uno più orientato a sinistra, si avvera verso la fine del giugno '45. Il nuovo esecutivo, del quale, come nel precedente, fanno parte anche comunisti e socialisti, è presieduto da Parri, che è uomo di sinistra, ma i ministri Gronchi e Soleri restano al loro posto. Le cose, dunque, sembrano stare come prima. E invece, a cambiare completamente il quadro della situazione interviene, circa un mese dopo,
la morte improvvisa di Soleri, un liberale classico e conservatore illuminato, stroncato dal superlavoro di quelle concitate e confuse settimane. Per Mattei, sempre più convinto che l'Agip non sia da liquidare, è il segnale che ormai è il momento di fare punto e a capo. Va a parlarne con Parri, che della questione sa molto poco, se non quello che gli aveva riferito Soleri, e che non se la sente neppure di sconfessare il consiglio d'amministrazione della società, di nomina governativa. D'altra parte, del suo amico partigiano Mattei, col quale ha sempre avuto ottimi rapporti, Parri si fida forse più che dei suoi ministri. In119 somma, non sa che pesci pigliare: perciò prende tempo, cerca di saperne di più e chiede a Mattei di preparargli una relazione. I ministeri del Tesoro e dell'Industria insediano l'ennesima commissione che, secondo la tradizione italiana, serve solo a non decidere. A Soleri succede Federico Ricci, che subito conferma le scelte del suo predecessore con maggiore decisione, anche perché vuol cogliere ogni occasione per far affluire un po'"di denaro fresco nelle casse dello Stato ormai completamente vuote. Intanto Mattei, che per Parri vuole preparare una relazione convincente, si immerge per giorni nello studio di scartoffie d'archivio e documenti dell'Agip. Il lavoro è quasi completo quando si imbatte in una relazione del giugno 1944 che attira la sua attenzione perché è classificata come «Riservatissima». Il documento parla della scoperta di un importante e promettente giacimento di metano a Caviaga. «Feci un salto sulla sedia» racconterà in seguito Mattei. Infatti intuisce subito di avere per le mani qualcosa di finalmente decisivo. Chiama Zanmatti per avere chiarimenti. L'ingegnere capisce al volo che è finalmente la volta buona per spazzare via le ultime incertezze di Mattei - che in realtà non aspetta altro - e calca la mano: racconta che il pozzo di Caviaga ha rivelato subito grandissime potenzialità, ma che è stato immediatamente chiuso per evitare che cadesse in mano ai tedeschi: «Glielo avevo detto che avevamo fatto di tutto per evitare che i tedeschi si appropriassero delle nostre scoperte». È fatta: Mattei a questo punto ha la certezza documentata che nel sottosuolo italiano c'è qualcosa di buono e che perciò l'Agip deve sopravvivere per non lasciare queste risorse, decisive per la ricostruzione del paese, agli stranieri e ai privati. In un'intervista televisiva del 1958 a Ugo Zatterin, Mattei, accreditandosene in parte il merito, spiegherà il valore politico e strategico di quella scoperta: «Erano stati trovati piccolissimi giacimenti superficiali ... ma prima di liquidare questo importante campo per cui lo Stato aveva speso notevoli somme nel passato, io feci seguitare la ricerca nelle zone considerate più promettenti. In mezzo ad un'ostilità generale, perché si diceva, anche allora, che noi stavamo sperperando denaro 120 Mattei pubblico, arrivammo nel '46 al primo pozzo produttivo di Ca- viaga: e il metano uscì fluente, rivelando una grande ricchezza al paese. Nello spazio di un mese furono presentate circa 300 domande di concessioni, che coprivano tre volte tutta la Val padana; ripetendo la corsa all'oro, ci fu anche allora una grande corsa per l'accaparramento delle concessioni nella Val padana ... alle nostre ricerche non credeva nessuno ... e a mano a mano che noi andavamo avanti la polemica aumentava di intensità perché sempre più erano gli interessi toccati». È un saggio di come Mattei presenterà d'ora in poi il suo ruolo: scopritore e valorizzatore delle potenzialità energetiche del sottosuolo italiano e difensore degli interessi nazionali dall'assalto e dalla voracità di privati e stranieri. La decisione è presa: ignorare gli ordini provenienti da Roma di liquidare l'Agip, ma anzi impegnarsi nel suo rilancio riprendendo le perforazioni a Caviaga e le prospezioni nella Pianura padana. Ne parla con gli amici, primo fra tutti Boldrini, che lo incoraggiano e gli assicurano anche un certo appoggio politico: capiscono che l'Agip potrebbe diventare il primo e più importante strumento di intervento dello Stato nell'economia e che comunque è bene lasciare fuori i capitali privati e gli stranieri da un'attività tanto importante per il paese come l'approvvigionamento energetico. È evidente che per realizzare questo piano è indispensabile la collaborazione di Zanmat- ti, il cui passato politico ormai non
ha più alcuna importanza in presenza di un grande progetto comune, salvare e rilanciare l'Agip, e col quale ormai si è creata perfino una buona intesa sul piano umano. L'ingegnere lo informa dello stato generale delle ricerche, che è piuttosto deludente: dei 350 pozzi scavati, pochi lasciavano prevedere possibilità di sfruttamento. In compenso i risultati del pozzo numero 1 di Caviaga, la quantità e la qualità del metano e del petrolio che se ne ricava sono fortemente incoraggianti. Le continue conversazioni con Zanmatti, le molte interminabili riunioni con i geologi e gli esperti minerari lo incoraggiano: è su Caviaga che bisogna puntare. Perciò è necessario ricostruire orgoglio aziendale, entusiasmo e motivazioni, tornare a infon121 dere nel personale ormai rassegnato ad un'atmosfera liquida- toria, fiducia nel futuro e passione per il lavoro. Per fare questo, Mattei gira per gli uffici, visita i cantieri, parla con impiegati e operai, ascolta volentieri i loro racconti, le storie dei pozzi. Quella che segue con maggior interesse, naturalmente, è la storia di Caviaga. Viene così a sapere, ad esempio, che i lavoratori di quel sito conoscevano bene i partigiani della zona, sapevano che certe notti raggiungevano il cantiere e facevano provvista di petrolio. I fusti erano nascosti sotto cumuli di sabbia o di terra e zolle d'erba perché i tedeschi non dovevano sapere nulla degli ultimi ritrovamenti. Con una «nota riservata» del 12 luglio, il Servizio studi dell'Agip fa il punto sulle ricerche compiute in diverse zone della Pianura padana: sul Piacentino, sul Parmense e sul Polesine le valutazioni sono impietosamente negative. Molto positive, quasi entusiastiche sono invece le speranze sulla struttura del Lodigiano: la presenza di petrolio, oltre che quella nota di metano, è ormai accertata. Resta da chiarire solo l'entità del giacimento. Mattei però sapeva che prima o poi sarebbe arrivata la reazione di Roma: del governo e dei vertici societari dell'azienda. E infatti arrivò prestissimo. Il primo a reagire fu il presidente del consiglio d'amministrazione Petretti, che in quella stessa estate insedia una commissione di esperti coordinati da Luigi Gerbella, funzionario del ministero dell'Industria apertamente ostile a Mattei: recentemente aveva definito la sua politica mineraria «irreale e totalmente priva di prospettive». Ebbene, perfino un organismo così evidentemente prevenuto non può che raccomandare di andare avanti con l'attività nel Lodigiano e di chiudere tutto il resto. Si tratta, in buona sostanza, di un avallo alle scelte di Mattei e di una sconfitta di Petretti e degli apparati burocratici romani. Il 31 luglio 1945 si apre a Roma la prima Assemblea nazionale della Dc. Mattei, come ex comandante delle formazioni partigiane del partito, vi ha un posto d'onore. Immediatamente si schiera con la sinistra, firmando insieme a Dossetti e Gronchi una mozione particolarmente dura contro i monopoli privati e apertamente favorevole all'intervento dello Stato nel 122 capitale delle imprese e delle banche. Intanto però comincia già a provare fastidio per certe dinamiche della democrazia e della vita dei partiti: «Qui i delegati passano più tempo a complottare nei corridoi che in aula a sentire e fare proposte politiche», lamenta deluso durante una colazione in una trattoria di via Ripetta con la moglie Greta, Cefis e pochi altri amici del tempo della Resistenza. Tuttavia il rapporto con la politica è per lui irrinunciabile, per dar corso ai suoi progetti e assecondare le sue ambizioni. Fra l'estate e l'autunno di quell'anno, infatti, Mattei e i suoi amici, Gronchi e Vanoni per primi, esercitano una pressione continua su Parri e i suoi ministri perché sanciscano definitivamente che l'Agip è una risorsa per il paese e quindi deve essere rilanciata. Ottengono un primo risultato: il governo annulla le direttive di Soleri e questo consente di riprendere le perforazioni a Cavia- ga. Il pozzo numero 1 però si rivela molto meno produttivo di quanto si sperasse: questa prima delusione, tuttavia, non scoraggia Mattei e Zanmatti, che anzi decidono di intensificare gli scavi nella zona. Ma per
farlo servono soldi e le casse dell'azienda sono vuote da tempo: la dotazione di 60 milioni stanziata dal precedente ministero del Tesoro per liquidare l'azienda era stata arbitrariamente - ma potremmo dire illegalmente - utilizzata ed esaurita per portare avanti i lavori già avviati e per la gestione ordinaria, protratta più del previsto. Mattei chiede aiuto all'amico ministro dell'Industria Gronchi, che dispone un'assegnazione cospicua. Ma quel denaro non arriva, bloccato dal Tesoro, comprensibilmente indispettito per l'impiego arbitrario fatto dei fondi stanziati in precedenza. A Mattei non resta che rivolgersi ai privati, memore dell'attività svolta ai tempi della guerra partigiana: in cambio di capitali concede quote dell'azienda e compartecipazione ai risultati. Ma evidentemente l'offerta non appare molto invitante giacché, almeno inizialmente, Mattei non riesce a rastrellare molto. Il suo ruolo all'interno dell'Agip, invece, si consolida: il 4 ottobre viene cooptato nel consiglio d'amministrazione con delega a rappresentare l'azienda nei rapporti con autorità ed enti pubblici e privati del Nord. Di ricerche non si fa cenno. Dal verbale della seduta risulta che il presidente Petretti spende poche e gelide parole per in- 123 vitare Mattei «a cooperare nel ripiegamento dell'organizzazione aziendale», mentre il professor Mario Giacomo Levi, anch'egli appena cooptato nel consiglio d'amministrazione, insiste perché le ricerche non vengano abbandonate. Mattei tace, incassa e non replica: ha capito che in questo clima di generale incertezza dei poteri conviene tergiversare e agire in silenzio secondo le proprie convinzioni. E poi sa di avere le spalle politicamente coperte. Qualche giorno dopo, il 17 ottobre, scrive alla commissione economica del Clnai per dimettersi dalla carica di commissario straordinario dell'Agip. Probabilmente, se dipendesse solo da lui, ne farebbe a meno, senza alcuno scrupolo per il cumulo delle cariche, se non altro per avere maggiore autonomia nella gestione dell'azienda. Ma è Parri a consigliargli le dimissioni e dell'appoggio del presidente del Consiglio Mattei sa di aver bisogno. Fatto sta che il presidente della commissione, Merzagora, gli risponde ringraziandolo per «l'intelligente opera svolta» e la «rinuncia agli emolumenti». La corrente favorevole alla liquidazione dell'Agip, però, non demorde e persegue la strategia dello strangolamento finanziario. In quell'ottobre del 1945 l'azienda ha ormai l'acqua alla gola, senza l'arrivo di denaro fresco il proposito di proseguire con le ricerche e gli scavi è pura velleità. Mattei decide di rivolgersi al più importante istituto bancario del paese, la Banca Commerciale Italiana, per chiedere un prestito. Va a parlarne con l'amministratore delegato Raffaele Mattioli, manager di formazione liberale, spregiudicatamente progressista e libero da ogni remora. L'incontro non può cominciare peggio, rischiando spesso di trasformarsi in rissa, giacché l'unica cosa che i due hanno in comune è il carattere irruente; per il resto è difficile trovare due persone tanto diverse tra loro. Mattioli, infatti, è un banchiere molto particolare: uomo di estrazione altoborghese, di raffinata educazione e grande cultura, conversatore elegante, ha una vasta esperienza internazionale e una profonda conoscenza del mondo politico, intellettuale e imprenditoriale italiano, in particolare della grande borghesia lombarda. È amico di artisti, di letterati e di filosofi: di Benedetto Croce è addirit124 tura editore, essendo patron della prestigiosa e raffinata casa editrice Ricciardi, che molto ha pubblicato del filosofo e critico abruzzese. Può essere considerato il precursore del mecenatismo imprenditoriale e bancario contemporaneo. Dell'ufficio studi della sua banca ha fatto un'attivissima fucina di intellettuali (nei seguenti anni sarà preso a modello da imprenditori come Adriano Olivetti e dallo stesso Mattei). Politicamente è di orientamento liberale progressista. Insomma, cosa può avere in comune con un uomo simile un provinciale dalle incerte letture, figlio di un carabiniere e che a mala pena ha strappato un diploma di ragioniere? Apparentemente nulla. Anche durante quell'incontro nei sontuosi e austeri uffici di piazza della Scala a Milano, come sempre quando sente di trovarsi in una situazione di palese inferiorità sociale e culturale, Mattei, abbandonandosi allo spirito di rivalsa, diventa aggressivo. Batte cassa con durezza e determinazione, mostrando quasi di
sentirsi in diritto, come ex comandante partigiano e dirigente di un'azienda di Stato, di ottenere un trattamento di riguardo da parte di un banchiere che, in fondo, era in quella posizione anche negli anni del fascismo. In realtà sta bluffando spudoratamente: sa benissimo, come tutti gli uomini d'affari milanesi e soprattutto come tutti i capi del Clnai, che la Banca Commerciale è stata nell'ultimo decennio del fascismo generoso rifugio e riferimento sicuro per intellettuali e professionisti invisi al regime. Come non può non sapere della missione compiuta a Washington nel 1944 per conto del governo Bonomi da Mattioli ed Enrico Cuccia (che nei seguenti 50 anni sarà con la «sua» Mediobanca il rispettatissimo regista della finanza italiana) per procurare all'Italia sconfitta la benevolenza economica degli Stati Uniti. D'altra parte a Mattioli, di primo acchito, il suo interlocutore non piace affatto, gli sembra un politicante piuttosto rozzo, che con l'Agip, vecchio carrozzone di regime, insegue gli stessi fallimentari sogni di autarchica grandezza del fascismo. E glielo dice, e aggiunge: «Che garanzie può offrire per un'azienda che il ministro ha già deciso di liquidare?» «E che garanzia può offrirmi lei?» risponde offeso Mattei. «Lei che era a 125 questo posto sotto il fascismo e sotto la Repubblica sociale? Che garanzie può offrirmi?» Siamo ad un passo dalla rissa. A questo punto Mattei nota sulla scrivania del suo ospite una strana collezione: somarelli, ciuchi di ogni foggia, materiale ed epoca. Improvvisamente la tensione si smorza e la curiosità ha il sopravvento: «Li raccolgo» spiega un po'"polemicamente il banchiere «perché amo l'asinelio, è il simbolo del lavoro tenace e paziente, dell'intelligenza silenziosa». Da qui al discorso sull'Italia contadina il passo è breve. A questo punto, Mattei scopre che Mattioli è originario di Vasto. Non si lascia sfuggire l'occasione e racconta che in quella cittadina è andato a scuola, che anche suo padre carabiniere è abruzzese, racconta perfino la storia della cattura del brigante Musolino; e poi che è amico carissimo di Spataro, di Vasto anche lui. Queste puerili manifestazioni di campanilismo provinciale forse infastidiscono Mattioli; ma anche lo inteneriscono, gli fanno capire di avere a che fare con un uomo schietto e volitivo, deciso ad ottenere quello di cui ha bisogno. Cambia il clima nello studio di piazza della Scala e cambia il tono della conversazione, ancora di più quando si parla dell'amicizia con Parri e Falck, persone che il banchiere stima moltissimo. Ma il successo arriva quando Mattei, avendo ormai capito il suo interlocutore, gli parla di Caviaga, del gas e del petrolio, della bravura dei tecnici con cui lavora e finalmente assesta il colpo decisivo: «Dottor Mattioli, credo tanto nel futuro dell'Agip da essere disposto a dare come garanzia del finanziamento tutti i miei beni personali». Era quello che il banchiere voleva sentirsi dire, la prova della buona fede del suo interlocutore. L'affare si fa, i soldi arriveranno e quei due uomini così diversi diventeranno buoni amici. D'altra parte, a ben vedere, erano fatti per intendersi. Avevano in comune persino certe visioni politiche, certe spinte neutraliste: Mattioli, ad esempio, nell'immediato dopoguerra, come già detto, in una lettera a Togliatti propose, come terapia per lo sviluppo italiano, quasi un'alleanza economica fra Italia e Unione Sovietica. Mattei percorrerà quella strada quando, da presidente dell'Eni, firmerà molti accordi con Mosca. 126 Con l'apertura immediata di una linea di credito comincia una collaborazione destinata a svilupparsi nei seguenti anni grazie anche ad un ottimo consiglio di Mattioli: «Se l'Agip farà l'accordo con Montecatini per la fornitura di metano, potrà passare alla Commerciale per garanzia il contratto e le relative fatture». Con questa operazione, basata sulla collaborazione con un'azienda che diventerà la sua grande nemica italiana, Mattei riuscirà a disporre di risorse finanziarie ingenti. Ma fin dal '45 altre banche come Italcasse e Imi, rassicurate dall'esempio della Commerciale, gli concederanno dei finanziamenti. Forte di questo successo, Mattei riesce a far convocare un'assemblea straordinaria dell'Agip che il 31 ottobre lo nomina vicepresidente accanto a Bolaffi, concludendo così formalmente la fase di commissariamento dell'azienda. Può sembrare una nuova
sconfitta per il «partito della liquidazione», ma per il vertice romano dell'azienda non è che un contentino in attesa del colpo di grazia. Infatti, con il suo attivismo, Mattei si mette sempre più in evidenza e si attira l'ostilità anche di molti industriali privati, della destra politica, della burocrazia ministeriale romana. Ma ormai è chiaro che questa situazione si può risolvere solo con una battaglia combattuta a livello politico, perché lo scontro fra liberisti e statalisti è apertamente in atto nel paese e anche all'interno della Dc e va molto al di là del futuro dell'Agip. Alla fine del '45 il nuovo ministro del Tesoro Federico Ricci ribadisce ancora una volta l'indicazione di cedere ai privati le attrezzature per la ricerca petrolifera. Mattei torna alla carica con Parri e Gronchi, enfatizza i modesti risultati di Caviaga e riesce ad ottenere dal Consiglio dei ministri uno stanziamento di 600 milioni di lire. A stabilire i termini, le condizioni e le modalità dell'utilizzo, insieme a Mattei, sarà il suo amico ministro dell'Industria. Un altro bel colpo, e giusto in tempo perché il 10 dicembre del 1945 Parri è sostituito dal democristiano Alcide De Gasperi, un centrista che all'interno del suo partito si colloca in una posizione equidistante da liberali e statalisti. Su un altro fronte, intanto, bisogna fare i conti con l'attiva e determinata ostilità degli Stati Uniti, che ormai mettono apertamente la que127 stione petrolifera al centro dei loro interessi. L'8 dicembre del 1944 Harold L. Ickes, segretario degli Interni e capo della Petroleum Administration for War (PAW), dichiara ad un convegno sulla politica estera a Chicago che «gli Stati Uniti vogliono assicurarsi i più ampi rifornimenti possibili e il più a lungo possibile ... Le forme nelle quali l'accesso e lo sfruttamento devono realizzarsi consistono nell'esclusione dei governi in ogni fase ... che possa essere gestita dall'industria». Da tempo Ickes, che nel dicembre del 1943 aveva scritto un articolo dall'esauriente titolo Il petrolio sta scarseggiando, sosteneva in ogni sede, con scritti e discorsi la «necessità vitale» di garantire agli Stati Uniti l'accesso a tutto il petrolio necessario al paese per il proprio benessere e la propria sicurezza. T. Orchard Lisle, direttore di The Oil Forum, sostiene che la Società Petrolifera Italiana (Spi), di cui la Standard New Jersey controlla il 41% del capitale, prima della guerra ha raggiunto in Italia una produzione molto maggiore di quella dell'Agip e che «la progressiva nazionalizzazione dell'intero settore dell'industria petrolifera in Italia sarebbe dannosa per i capitali investiti ... Gli Usa intendono ritirare l'assistenza finanziaria per lo sviluppo petrolifero in ogni paese che nazionalizzi la propria industria del petrolio». In effetti l'Agip non riuscirà ad ottenere neppure un dollaro dallo European Recovery Program (Erp), il cosiddetto Piano Marshall, varato il 5 giugno del 1947 per finanziare la ricostruzione in Europa. È evidente che queste decise prese di posizione degli americani hanno una forte influenza sui politici italiani: l'effetto è un progressivo indebolimento di Mattei. Se è vero che i guai non vengono mai da soli, è ancora più vero che i nemici si fanno arditi e aggressivi se ti vedono più vulnerabile. E così il 3 gennaio del 1946 piomba sul capo di Mattei una tegola micidiale che rischia di stroncare definitivamente la sua carriera imprenditoriale e politica. L'Avvocatura dello Stato, sulla base di un rapporto della Guardia di Finanza di Camerino trasmesso l'8 luglio 1945, chiede alla commissione provinciale - sezione avocazione profitti di regime - il sequestro di tutti i beni di Mattei e della moglie «al fine di avo128 care i profitti derivanti dall'attività politica o dal favore dei gerarchi fascisti». L'accusa infamante, insomma, è di aver realizzato arricchimenti illeciti grazie a favori ottenuti dal fascismo. Quanto basterebbe per ridurlo praticamente in
miseria, togliergli l'Agip, infangare la sua immagine di capo della Resistenza, bruciare ogni possibilità di carriera politica. Mattei piomba nell'angoscia, è ossessionato dai dubbi, diffida di tutti: chi può aver architettato una trama così perfida? I nemici di Roma, gli invidiosi di Matelica, gli stranieri e i privati che vogliono la fine dell'Agip? Forse tutti costoro insieme o chissà chi altri. «Un concittadino» riferisce Mattei nella sua memoria difensiva «mi avrebbe sentito dichiarare che io sarei riuscito ad ottenere, durante la campagna d'Etiopia, un'importante fornitura di oli combustibili speciali per tutta l'aviazione operante; avrei anche ottenuto un'importante ordinazione di materiale adatto per il sollevamento delle navi silurate nel porto di Taranto.» Questo il tenore delle accuse. Alle quali l'accusato risponde con una dettagliatissima relazione che descrive minuziosamente la sua vicenda imprenditoriale dal 1923 alla fine della guerra, mettendo sistematicamente in relazione l'acquisto delle sue proprietà con il buon andamento della sua azienda milanese. Riesce a reggere il colpo, come racconterà poi, grazie al sostegno della dolce e solidissima Greta e di «pochi amici fedeli». È probabile gli siano rimasti a fianco in quel frangente e che lo abbiano assistito in quel difficile lavoro di autodifesa amici come Boldrini e l'avvocato Giacchi. Un'autodifesa tanto efficace che il provvedimento viene infine revocato, anche perché quel cumulo di accuse non è sorretto da alcuna prova convincente. Sono state settimane terribili, ma una cosa ora è ben chiara a Mattei: è entrato in un gioco pesante, nel quale tutti i colpi sono consentiti e deve guardarsi bene le spalle. Nel marzo del '46 dal pozzo numero 2 di Caviaga esce dell'ottimo metano. È la conferma definitiva delle promesse fatte negli anni scorsi dal sottosuolo del Lodigiano; un evento che scatena l'eccitazione degli osservatori americani che si preci129 pitano nella zona interessata, ma che mette finalmente Gronchi in condizione di erogare - con un decreto del 17 maggio -il finanziamento di 600 milioni di lire già stanziato, e che chiude momentaneamente la bocca a Petretti, il quale appena qualche giorno prima si era rivolto al ministero dell'Industria per sostenere che «ogni intervento sulle ricerche minerarie deve essere, per il momento almeno, lasciato alla privata iniziativa, anche se alimentata da capitale straniero». Si può andare avanti, dunque, grazie soprattutto a quei 600 milioni, che permetteranno di aprire altri pozzi: Ripalta, Piadena, Corneglia- no Laudense, Bordolano. Dal 24 al 27 aprile si svolge a Roma il primo Congresso della Democrazia cristiana. I lavori sono organizzati su quattro relazioni: di Guido Gonella, Alcide De Gasperi, Attilio Piccioni ed Enrico Mattei al quale è affidata la relazione d'apertura: «Apporto delle forze partigiane democristiane alla guerra di Liberazione». È chiaro che gli organizzatori intendono così collegare direttamente la nascita della Dc alla Resistenza, ancora una volta per non lasciare ai comunisti il vantaggio politico derivante dell'egemonia di quell'esperienza. Mattei ce la mette tutta e forse calca un po'"la mano sui numeri quando descrive l'impegno militare del partito nella Resistenza: 65.000 uomini, saliti a 80.000 dopo l'insurrezione, inquadrati in 181 brigate, 1976 caduti, 2439 feriti. Sono cifre esagerate: secondo altre valutazioni i democristiani impegnati nella lotta partigiana non sarebbero stati più di 20.000, molti dei quali comparsi dopo il 25 aprile. In realtà, a causa del suo potenziale propagandistico, il dibattito sull'entità della partecipazione alla guerra di liberazione non è mai stato concluso in maniera convincente. Al suo debutto politico, comunque, Mattei non fa una gran bella figura. Come oratore è impacciato, fa un largo uso di frasi scolastiche e banali, di luoghi comuni, di espressioni retoriche ed enfatiche. È facile capire, soprattutto per una platea tanto smaliziata, che egli dispone di una cultura dozzinale, che è timido e non è avvezzo a parlare in pubblico. Ma il suo intervento, con il suo richiamo al patriottismo di partito, con l'esaltazione dell'impegno eroico dei suoi uomini e perfino con la semplicità e la spontaneità del linguaggio fa il gioco dei 130
suoi amici Gronchi, Dossetti, La Pira, Taviani, Boldrini, Spata- ro, portando subito il dibattito sul terreno più caro alla sinistra. Perciò, nonostante tutto, in quel congresso Mattei ottiene un ulteriore riconoscimento del suo ruolo di primo piano nella Dc ed entra a far parte a pieno titolo, e non più solo come ex capo partigiano, del Consiglio nazionale del partito. Ha anche rinsaldato i rapporti con i suoi amici della sinistra, i quali hanno ben chiaro che intorno alla vicenda dell'Agip si gioca il futuro dell'intervento dello Stato in economia, a loro tanto caro, e sono perciò decisi a sostenerla. Politicamente rafforzato, galvanizzato dal successo del pozzo numero 2 di Caviaga, Mattei raddoppia l'impegno nell'azienda. Ma il 5 luglio gli arriva un'altra batosta: in un rapporto ai ministeri dell'Industria e del Tesoro, la Ragioneria dello Stato compone un quadro nerissimo della situazione industriale e finanziaria dell'Agip, concludendo che «... si imporrebbe un provvedimento che metta fine all'attuale stato di cose e liberasse l'erario di un onere che nulla giustifica». Intanto le buone notizie che vengono da Caviaga non fanno che allertare il fronte avverso, anche perché diversi studi, come quelli della Esso e della Gulf, attribuiscono al mercato italiano straordinarie possibilità di crescita. Agli americani e ai politici liberisti si affiancano grandi potentati economici italiani direttamente interessati alla privatizzazione del settore, come la Edison di Giorgio Valerio, in posizione dominante sul mercato italiano dell'energia elettrica allora non ancora nazionalizzato, e la Montecatini, prima industria chimica e petrolchimica nazionale. Saranno due nemici storici di Mattei. Ma lo scontro ha anche un sempre più marcato carattere ideologico: liberisti contro statalisti. Da una parte i sostenitori delle capacità regolatrici del mercato diffidenti dell'inettitudine del potere pubblico, dall'altra i fiduciosi nel potere perequativo dello Stato ostili all'ingordigia dei privati. Mattei perciò diventa un simbolo per i suoi nemici prima che per gli amici: il simbolo dell'invadente inefficienza dello Stato pasticcione e sprecone che soffoca l'iniziativa privata. Ormai gli americani ne fanno anche una questione di principio, voglio- 131 no dare all'economia italiana un'impostazione decisamente liberista e perciò considerano Mattei politicamente pericoloso e non fanno mistero di ostacolarlo, agendo anche sul piano politico e diplomatico. In un discorso all'Università di Pittsburg, il capo della Petroleum Division del dipartimento di Stato John A. Loftus afferma l'esigenza di un'espansione «secondo i principi liberali e della libera concorrenza nel mercato internazionale del petrolio in modo che le risorse provenienti dall'estero siano disponibili per venire incontro alle necessità degli Stati Uniti». Secondo Loftus è tassativa «l'eliminazione delle restrizioni politiche e commerciali sullo sviluppo libero e competitivo delle risorse petrolifere ovunque reperite». Negli stessi termini si esprime l'assistente del segretario di Stato, Spruille Broder, che nel bollettino ufficiale del suo ministero, il «Department of State Bulletin», scrive senza mezzi termini: «L'iniziativa privata costituisce il mezzo realmente efficace per lo sviluppo». Questa linea politica ha le sue radici nell'ideologia fondante degli Stati Uniti, ma si spiega anche concretamente con questi dati: nel 1940 gli Usa producevano il 63% del petrolio mondiale (dai tre produttori del Medio Oriente, Iran, Iraq, Arabia Saudita, veniva solo il 5%); nel 1946, dopo il terribile sforzo bellico, mentre l'economia Usa ripartiva a tutta forza e si metteva in moto la ricostruzione dell'Europa, gli americani erano diventati importatori netti di petrolio. Una situazione capovolta in pochi anni, creando anche, secondo Washington, seri problemi di sicurezza nazionale. In pratica però tutto questo si traduce in pressioni sul governo italiano perché rilasci concessioni per la ricerca nel sottosuolo alle grandi multinazionali americane e alle società italiane loro alleate, escludendo dal mercato l'Agip e ogni altra azienda statale. Ma forse è un po'"troppo tardi, giacché proprio il fenomeno che più ingolosisce gli osservatori statunitensi diventa il migliore argomento a favore di Mattei. I pozzi di Caviaga, infatti, danno finalmente i risultati che da anni Zan- matti e i suoi aspettavano fiduciosamente: il metano esce con una pressione di 150 atmosfere in ragione di 50.000 metri cubi al giorno.
Il giacimento scoperto è il più vasto di quelli trovati 132 fino ad allora in Italia. Ma la cosa più importante è che il metano si è formato in una struttura geologica che nella Pianura padana è molto frequente. È quindi ragionevole aspettarsi a breve scadenza molti altri ritrovamenti di analoga importanza. In presenza di questi fatti nuovi sarebbe stato politicamente inaccettabile lasciare ai privati, italiani o stranieri, i risultati di un lavoro fatto e pagato da un'azienda di Stato: ormai era questo l'argomento più forte a disposizione di Mattei, che si affretta ad impiegare i fondi ottenuti dal governo per rinnovare le sonde e le altre attrezzature e per avviare subito nuove perforazioni. Nel frattempo i vertici romani dell'Agip, dando praticamente per scontata la messa fuori gioco dell'azienda, hanno aperto gli archivi ai geologi della Shell, della Standard Oil, della Gulf, della Sinclair Oil e di altre compagnie che hanno facoltà di consultare documenti, prendere appunti, fare sopralluoghi: sono informazioni che valgono cifre enormi ottenute gratuitamente, stando alle dichiarazioni degli stessi tecnici delle compagnie così generosamente gratificate. Naturalmente subito dopo piovono a decine dalle stesse società domande di concessioni per ricerche in vaste zone della Pianura padana. Il 2 giugno del 1946 gli italiani vanno a votare per un referendum istituzionale che mette fine alla monarchia dando inizio alla Repubblica, e per eleggere l'Assemblea costituente. Resistendo alle pressanti offerte dei suoi amici democristiani, Mattei rifiuta la candidatura: si è appassionato a questa nuova avventura e per il momento non vuole farsene distogliere. Il 13 luglio De Gasperi vara il suo secondo governo e va alla Conferenza di pace di Parigi dove, come rappresentante di un paese vinto e umiliato, pronuncia di fronte ad un'assemblea apertamente ostile un discorso memorabile per equilibrio e dignità, al termine del quale, nel più gelido silenzio, solo il rappresentante degli Stati Uniti, il segretario di Stato James Byrnes, si alza per andare a stringergli la mano. A settembre la situazione economica sembra precipitare; in pratica nelle casse dello Stato non c'è più una lira. Il ministro del Tesoro, il liberale Epicarmo Corbino, viene costretto alle dimissioni dalle durissime manifestazioni di piazza organiz133 zate dai partiti della sinistra, che pure avevano ministri in quel governo, e sostituito con il democristiano Giovan Battista Bertone che istituisce una commissione tecnico- amministrativa con lo scopo di analizzare la gestione e la situazione economico- industriale delle aziende a partecipazione statale: l'obiettivo, segnalare al parlamento quali debbano essere salvate e potenziate e quali liquidate o vendute a privati. Nella relazione conclusiva si parla dell'Agip in termini molto critici: le quantità di gas trovate non giustificano i finanziamenti ricevuti e neppure la prosecuzione della ricerca. E in effetti in quelle settimane i pozzi 3 e 4 di Caviaga davano pessimi risultati: praticamente solo acqua. Non resta dunque, secondo la commissione, che chiudere il settore minerario dell'Agip e semmai concentrarsi sulla distribuzione. Mattei si allarma e si precipita a Roma dal suo amico Gronchi. Questa prospettiva viene invece accolta con entusiasmo, com'era prevedibile, da Petretti e dal consiglio d'amministrazione, tanto che verso la fine dell'anno addirittura arrivano ad abolire la carica di vicepresidente ricoperta da Mattei, evidentemente considerato ormai fuori gioco. Ma stavolta la mossa è eccessiva e incauta, e interviene De Gasperi per bloccarla, probabilmente su sollecitazione di Gronchi. Il 17 febbraio del 1947, Bertone presiede una riunione interministeriale per decidere sulla ristrutturazione dell'Agip. Le indicazioni della commissione tecnico- amministrativa vengono accettate integralmente: il settore ricerche verrà quindi liquidato e le concessioni verranno cedute alle compagnie italiane o straniere che ne faranno richiesta. Restano i diritti acquisiti su Caviaga, ma è categoricamente escluso ogni ulteriore finanziamento. Stavolta la vittoria di Petretti e dei nemici di Mattei sembra certa e completa: «Nel 1947 il consiglio d'amministrazione fu invitato a ratificare una relazione del suo presidente»
racconta il consigliere Vincenzo Maria Romanelli «che annunciava la decisione dell'azienda di sospendere le ricerche di idrocarburi in Italia. Le ragioni addotte per giustificare tale decisione erano di ordine economico (la determinazione del governo di non finanziare nuove ricerche petrolifere), tecnico (magro bilancio dei 25 anni di ricerche dell'Agip) 134 e politico (opportunità di abbandonare il campo all'iniziativa privata italiana e straniera, mettendo a disposizione il materiale di studio accumulato dall'azienda di Stato). La proposta fu approvata». In quella stessa seduta fu approvata anche un'altra proposta di Petretti, la nomina a direttore generale di quel Luigi Gerbella, funzionario del ministero dell'Industria, che, come abbiamo già visto, considerava la politica di Mattei «irreale e priva di serie prospettive». Fino ad ora Mattei è stato costretto sulla difensiva, in attesa del momento opportuno per tentare una reazione. E quel momento arriva quando, col suo intuito da «animale politico» poco colto ma molto intelligente, percepisce prima di altri che la situazione politica sta cambiando radicalmente. Nel gennaio del '47 De Gasperi va negli Stati Uniti a chiedere aiuto per fronteggiare la gravissima crisi economica che sta portando il paese letteralmente alla fame. Mattei è il primo a capire, grazie anche ai suoi canali informativi privilegiati, che per ottenere quell'aiuto De Gasperi deve imprimere alla politica italiana una decisa svolta anticomunista: portare le sinistre fuori dall'area di governo. Infatti, appena tornato in Italia, il presidente del Consiglio si dimette per formare il suo terzo governo nel quale i comunisti sono fortemente ridimensionati per preparare la loro esclusione. È una scelta difficile e rischiosa. Molti temono una possibile insurrezione armata e la maggior parte dei militanti del Pci la desiderano, nei paesi dell'Europa orientale i comunisti si stanno impadronendo del potere con la forza. Giulio Andreotti, allora ventottenne sottosegretario di De Gasperi, così ricorda le tensioni di quelle ore: «Durante i primi quattro mesi del 1947 la maggioranza dei dirigenti dc aveva richiesto a gran voce una rottura immediata e definitiva col Pci. Ma quando, fra la fine di aprile e gli inizi di maggio, ci si rese conto che De Gasperi aveva imboccato appunto una simile strada, il coraggio di molti venne meno: il loro timore, non ingiustificato, era non tanto di dover fronteggiare un tentativo di colpo di stato quanto un'ondata di disordini... Il risultato fu che al momento della scelta definitiva De Gasperi si trovò quasi solo: una volta che ai primi di maggio lo andai a trovare nel suo studio, 135 la sua disperazione per le incertezze del partito era tale che, lo ricordo benissimo, ad un certo punto smise di parlare e, appoggiato con la fronte contro lo stipite di una finestra, rimase a lungo in silenzio. Quando si voltò di nuovo verso di me, mi accorsi che aveva gli occhi pieni di lacrime». Mattei, anche a causa del suo intimo anticomunismo, è tra i pochi che fanno quadrato attorno a De Gasperi. Forte della sua indiscussa reputazione di capo partigiano, si muove con largo anticipo e grande impegno: dimostrando ancora una volta le sue straordinarie capacità organizzative, prepara la rottura dell'unità d'azione nell'Anpi (Associazione nazionale partigiani d'Italia), allora ancora molto influente, una rottura che sarà preliminare alla completa estromissione delle sinistre dal governo. Petretti, considerando la svolta filoamericana un ulteriore fattore a suo vantaggio, accelera il progetto di cedere ai privati le ricerche dell'Agip. Dà incarico a Gerbella, direttore generale dal 19 aprile, di prendere contatto con Edison, il più agguerrito nemico italiano, insieme alla Montecatini, dell'azienda di Stato. Da tempo, infatti, Piero Ferrario, presidente del grande gruppo milanese, e soprattutto Alberto Pirelli, uno dei maggiori e più influenti azionisti, puntavano sulla privatizzazione del promettente settore idrocarburi per ampliare e diversificare l'attività della loro azienda. La trattativa è affidata all'abile e potentissimo direttore generale Giorgio Valerio, assistito dall'avvocato Enrico Marchesano, un amico fidato di Edison più che un consulente, amministratore delegato della Ras, vicepresidente dell'Assicuratrice italiana, ma soprattutto
ascoltato consigliere economico del presidente del Consiglio De Gasperi, quindi possibile garante dell'operazione nei confronti del governo. Valerio incontra Gerbella il 30 aprile con due progetti alternativi in tasca: il primo, obiettivo minimo, prevede la costituzione di una società di ricerche petrolifere con proprietà divisa in parti uguali tra Agip e Edison; il secondo, più ambizioso, consiste nella creazione di una azienda la cui proprietà sia divisa al 50% fra Edison ed Agip da una parte e la società Metano dall'altra, quest'ultima società a sua volta al 50% di Edison. È evidente che il controllo della produzione italiana di idrocarburi passerebbe così di fatto a Valerio. 136 La già forte intesa fra Valerio e Marchesano viene ora rafforzata da un preciso accordo in base al quale, se andrà in porto il secondo progetto, Marchesano riceverà una quota della nuova società, evidentemente come pagamento del lavoro di consulenza e di intermediazione. Le prime reazioni di Petretti e Gerbella sono positive. Mattei appare fuori gioco, ormai è un semplice consigliere: il 9 maggio ha dato le dimissioni da vicepresidente e l'assemblea del 28 maggio delibera il ritorno alla vicepresidenza unica. Perfino Gronchi sembra prendere le distanze rilasciando agli stranieri concessioni di ricerca che nega a Mattei. Valerio, ormai sicuro del fatto suo, concorda con Ferrario e Pirelli le procedure amministrative per concludere l'affare Agip. Per di più, il 13 maggio De Gasperi scioglie il suo terzo governo per escludere del tutto e definitivamente la sinistra: inizia perciò una fase di incertezza politica, con i falliti tentativi di Nitti e Orlando di formare il nuovo esecutivo, fase che lascia Mattei scoperto anche su quel fronte. La mattina del 31 maggio 1947 Valerio va alla sede dell'Agip dove incontra Gerbella per sottoporgli il testo dell'accordo. In una seconda riunione nel pomeriggio, Petretti ratifica l'intesa preliminare. È fatta, l'Agip è, almeno sulla carta, privatizzata. In quello stesso giorno nasce il quarto governo De Gasperi, senza comunisti e con un orientamento economico marcatamente liberista: Luigi Einaudi vicepresidente e ministro del Bilancio, Giuseppe Pella alle Finanze, Cesare Merzagora al Commercio estero. Ma De Gasperi istituisce anche un inedito «comitato consultivo economico» presieduto da Ezio Vanoni, che presto verrà considerato «l'economista del presidente». Valtellinese, tipico esponente della sinistra cattolica lombarda, Vanoni ha studiato a Pavia nel rinomato collegio Ghisleri, dove è stato dirigente degli studenti socialisti, schedato e sorvegliato dalla polizia. Ha un'ottima reputazione accademica come teorico interdisciplinare di Scienza delle finanze e Diritto finanziario. È devoto amico di Boldrini fin dal 1925, quando questi faceva parte della commissione che gli concesse una borsa di perfezionamento per l'Università Cattolica, ed è uno degli autori del «Codice di Camaldoli». È un sostenitore, dun- 137 que, della presenza forte dello Stato in economia; anzi, teorizza l'economia come scienza della felicità per il massimo numero possibile di esseri umani. Durante la Resistenza ha fatto parte della Dc lombarda. In coerenza con la sua formazione politica, sarà il padre di un indirizzo di pianificazione economica quasi di tipo socialista nell'Italia repubblicana. Per Mattei è una meravigliosa notizia, un incredibile colpo di fortuna: ha fin dal 1945, quando lo ha conosciuto in casa Boldrini, ottimi rapporti con Vanoni che già col governo Parri si era speso per difendere l'Agip come azienda pubblica. Basta poco perciò per convincerlo: bisogna bloccare l'accordo preliminare con Edison. Vanoni, spalleggiato da Gronchi, esercita una pressione fortissima su De Gasperi, che d'altra parte non dimentica l'operazione di scissione dell'Anpi condotta da Mattei. E l'obiettivo è raggiunto. La scelta di De Gasperi, un democristiano centrista di formazione liberale, può sembrare un po'"troppo condiscendente verso la sinistra del suo partito. In realtà, allontanando i socialcomunisti dal governo, lo statista trentino ha bisogno di dimostrare un volto interclassista e popolare della sua politica. In un aspro clima internazionale di «guerra fredda», mentre fra l'Europa occidentale e l'Europa orientale occupata dalle truppe sovietiche cala quella che Winston Churchill
chiamerà la «cortina di ferro», si avvicinano le elezioni politiche decisive per il futuro dell'Italia: il 18 aprile del 1948 il paese dovrà scegliere fra un regime di sinistra a egemonia comunista con inevitabile assorbimento nell'orbita sovietica, e un governo di centro basato sulla Dc che assicuri la permanenza dell'Italia nel sistema occidentale e l'aiuto degli Stati Uniti. È una resa dei conti, una scelta di campo definitiva che gran parte dei democristiani, i liberali e tutti gli altri centristi chiedono da tempo. Per vincere quella battaglia, De Gasperi, che ha già il consenso della borghesia del Nord, ha la necessità di non allontanare i ceti popolari. Ha bisogno, insomma, di «coprirsi a sinistra», come si dice nel gergo politico. Perciò, ad esempio, se la politica economica è strettamente nelle mani del rigoroso liberale liberista e deflazionista Einaudi, quella anomala commissione presieduta da un uomo di sinistra come Vanoni serve a 138 questo scopo di «copertura». E per la stessa ragione Mattei, leggendario capo partigiano, riconosciuto organizzatore della Resistenza cattolica, è l'uomo più idoneo alla battaglia anticomunista, cominciando con intaccare l'egemonia del Pci nella contabilità dei meriti nella guerra di Liberazione. In questa fase, insomma, Mattei partigiano e anticomunista, democristiano e populista, fa molto comodo a De Gasperi che quindi non esita a dargli ciò che vuole: l'Agip. In poche ore, dunque, Mattei ha capovolto la situazione: ha vinto la sua battaglia, ha stretto un sodalizio d'acciaio con Vanoni, ha pienamente recuperato l'amicizia di Gronchi ed è in ottimi rapporti con De Gasperi. Ora è più forte che mai. La sua posizione però ha una caratteristica particolare: è strettamente collegata al potere politico e in una certa misura dipende da esso. E la prima prefigurazione del rapporto tra aziende pubbliche e politica che caratterizzerà tutta la Prima Repubblica. È una situazione che alla lunga può rivelarsi difficile per chiunque, ma soprattutto per Mattei è insostenibile qualsiasi condizione subalterna. Inoltre i suoi nemici, Edison, Montecatini e dietro di loro Confindustria, nei rapporti con la stampa, con la burocrazia e con i partiti dispongono di libertà di movimento e di fondi che possono gestire con la massima autonomia. «Devo mettermi al più presto nelle stesse condizioni» pensa Mattei. «Devo poter disporre di forti somme di cui non devo dar conto ad alcuno: solo così non sarò io a dipendere dai politici ma, viceversa, i partiti da me. Nell'interesse dell'azienda devo potermi battere ad armi pari con i miei nemici.» Rievoca la sua esperienza partigiana, ricorda che la lotta clandestina aveva continuamente bisogno di ideali e di eroismo ma anche di denaro, tanto denaro: e dì questo lui allora si occupava, di procurare denaro per combattere, e se ne occupava con tanto impegno e successo da diventare rapidamente il comandante dei partigiani cattolici e uno dei più prestigiosi capi della Resistenza. Ora per i partiti, evidentemente, le cose non possono stare in modo molto diverso: anche i partiti per la loro organizzazione e le loro battaglie hanno bisogno di sol139 di, «e se sarò io a procurarglieli» pensa «ricaverò potere e prestigio anche nel sistema politico, a tutto vantaggio dell'Agip». Per molti sta qui l'inizio del rapporto distorto e patologico fra politica, partiti e aziende di Stato (ma ben presto anche private) nella Prima Repubblica. Per costoro sarebbe dunque Enrico Mattei il padre della «corruzione sistematica» italiana, esplosa nel 1992 col fenomeno giudiziario che i media hanno chiamato «Tangentopoli». Vedremo in che modo si sviluppa il rapporto tra le aziende di Mattei e i partiti. Ma probabilmente sarebbe comunque andata così com'è andata in un sistema, come quello italiano, nel quale tante decisioni vitali per le aziende, di Stato o private, dipendevano dalla politica e dalla pubblica amministrazione: cioè dai partiti. In un sistema, cioè, che, liberato dal fascismo, non ha avuto la forza ed il coraggio di liberarsi dallo statalismo fascista, ma lo ha sostituito con quello dei partiti democratici. Serve tanto denaro, dunque. Ma dove trovarlo? Da tempo Mattei ha capito che il
metano, ed eventualmente il petrolio, possono fornirne molto, moltissimo. Il problema è, semmai, poterne disporre liberamente. La strada c'è, ed è quella della gestione dei prezzi. «In fondo» pensa Mattei «se da imprenditore privato ho dovuto tener conto solo dei costi e degli utili, ad un'azienda di Stato è certamente consentito di compilare i listini anche sulla base di considerazioni politiche ed etiche.» Secondo il figlio del carabiniere e il discepolo di Boldrini, lo Stato non ha come obiettivo il profitto ma il bene comune. Il prezzo del metano, dunque, di cui Mattei sa di avere a questo punto praticamente il monopolio, non può essere calcolato solo in base ai costi di produzione e distribuzione, decisamente bassi. Per ragioni geografiche, infatti, per insufficienza delle infrastrutture per la distribuzione, (metanodotti) e per limiti reali di disponibilità, il gas non può essere venduto a tutte le industrie, sarebbe quindi ingiusto mettere quelle che lo ricevono, tutte nella Pianura padana, in condizioni di notevole vantaggio sulle altre, fornendo loro una fonte energetica molto più economica. In questo modo si darebbe un vantaggio, anzi un privilegio ulteriore alle industrie del Nord. L'Agip, dunque, venderà il metano ad un prezzo equiparabile a quello delle altre fonti 140 energetiche, generalmente di importazione come il carbone o il gasolio, per non avvantaggiare chi è in condizioni di riceverlo. Secondo Mattei «è una questione di equità». Certo, in un sistema di libero mercato, considerazioni moralistiche di questo tipo per determinare il prezzo «equo» di un'importante materia prima possono sembrare strampalate, piuttosto ipocrite e forse anche dannose. Per esempio: come la mettiamo con le industrie straniere concorrenti di quelle italiane, che dispongono di combustibili a bassissimo costo? Alzando il prezzo del gas per tutte si penalizzano, rispetto a loro, quelle italiane. E poi, non sarebbe comunque un beneficio per il sistema industriale nazionale se anche solo una parte di esso disponesse di energia a basso costo? Non si instaurerebbe così un regime di concorrenza tra le diverse fonti di energia? Ma questi sono quesiti che si pongono in un regime di mercato, mentre gran parte del sistema politico ed economico italiano resisteva tenacemente al tentativo di liberare il paese da uno dei più radicati lasciti del fascismo, lo statalismo burocratico. Scelte come queste compiute da Mattei sul prezzo del metano sono privilegi consentiti solo a chi detiene una condizione di sostanziale monopolio, pubblico o privato, anche se quello dell'Agip non era ancora stato formalizzato. Inoltre, trattandosi di un monopolio di natura «politica», non possono che essere politici gli argomenti utilizzati da Mattei per avvantaggiarsi della sua posizione. Il programma della sinistra cattolica, statalista e dirigista, alla quale fa riferimento, le idee apprese da Boldrini e dai suoi amici e poi riversate nel «Codice di Camaldoli» gli forniscono sufficienti motivazioni ideologiche che uomini come Gronchi e Vanoni accettano di buon grado. Certo, con queste premesse una così forte plusvalenza dovrebbe andare a beneficio della collettività, cioè allo Stato. «Ma» riflette Mattei «se resta all'Agip, azienda di proprietà dello Stato, e viene utilizzata nell'interesse dell'azienda, i conti ideologici tornano.» Questa disinvolta teoria viene elaborata in forma scientifica da Luigi Faleschini, professore di Statistica, allievo di Boldrini e maestro di Ciriaco De Mita all'Università Cattolica di Mila- 141 no. Nel luglio del 1962, in una famosa inchiesta molto critica verso Mattei, Indro Montanelli scriverà sul «Corriere della Sera» che «una merce che costandogli 5 lire al metro cubo egli rivende a 12 lire», rende un profitto stimato dagli esperti tra i 25 e i 40 miliardi di lire all'anno. Nasce così quella «rendita metanifera» che gli consentirà di creare un flusso di finanziamento ai partiti. I quali come contropartita gli daranno sempre maggiore autonomia di gestione: col tempo il capo prima dell'A- gip e poi dell'Eni godrà di una libertà di movimento nel decidere investimenti e acquisizioni, nella politica dei prezzi, nelle relazioni interne e internazionali superiore a quella di molti imprenditori privati; i quali, come
minimo, devono rispondere al proprio consiglio d'amministrazione e agli azionisti. Le aziende dirette da Mattei saranno sempre più aziende pubbliche gestite con criteri padronali, più che privatistici. Quindi può finanziare chi vuole e corrompere chi vuole. Ancora Montanelli: «Si sa, per esempio, che egli finanzia in toto il partito democristiano; ma si mormora che in parte ne finanzi anche degli altri, e non soltanto di sinistra, come qualcuno crede». Con un congresso nel novembre del 1947, dunque, la Dc di De Gasperi lancia una campagna elettorale marcatamente anticomunista, che ha un carattere di scelta storica, confermata a dicembre a livello di governo dall'ingresso di liberali e repubblicani nella coalizione. Il compito di Mattei è quello di spaccare l'Anpi sottraendo gli ex partigiani cattolici, i liberali e gli altri centristi all'associazione egemonizzata dal Pci. Ancora una volta, anche in questa occasione, Mattei dimostra la sua grande capacità di lavoro e soprattutto le sue straordinarie doti organizzative, preparando rapidamente e in ogni dettaglio la scissione che avverrà nel congresso che il vertice comunista dell'Anpi convoca, con evidenti scopi elettorali, a fine febbraio del '48, cioè a poche settimane dalle elezioni, come il «primo congresso della Resistenza». È un evento che assume subito una forte rilevanza politica. Mattei non partecipa personalmente, ma guida le operazioni dall'esterno. Doveva essere, nelle intenzioni dei promotori, una prova di forza del movimento partigiano a sostegno del «Fronte democratico 142 popolare», l'alleanza elettorale di sinistra egemonizzata dal Pci; diventa invece una clamorosa occasione politica di denuncia dell'Anpi come organizzazione paramilitare del Pci da parte di alcuni noti comandanti partigiani. Tra questi c'è anche il comandante delle formazioni «Di Dio», Eugenio Ce- fis, che entrerà nel direttivo della Federazione Volontari della Libertà (Fvl) che si va costituendo nei corridoi mentre nell'aula del congresso infuria lo scontro. I lavori si concludono, tra grandi clamori, scambi di insulti e di accuse, con l'uscita dall'associazione dei democristiani, dei liberali, dei militari autonomi e dei monarchici. Non parteciperanno al corteo dell'Anpi che chiuderà i lavori del congresso. Ora se, nella prossima battaglia elettorale, il Fronte popolare, l'alleanza di sinistra a egemonia comunista e che ha per simbolo il volto di Garibaldi, può contare sull'appoggio e sul prestigio dell'Anpi («fazzoletti rossi»), la Dc di De Gasperi può esibire le personalità raccolte nel neonato Fvl («fazzoletti verdi»): «La Resistenza non è solo rossa», era uno dei loro slogan. L'artefice di un'operazione così importante, il personaggio che forse più di tutti in quel momento rappresentava la scelta anticomunista, e popolare insieme, della Dc non può non impegnarsi personalmente in elezioni drammatiche come quelle del 18 aprile 1948. Mattei è candidato della Dc per la Camera dei deputati nel collegio 4 Milano- Pavia. Conduce, in un clima generale di aspra contrapposizione nel quale molti intravedono il rischio di una guerra civile, una campagna elettorale dai toni accesi, talvolta perfino violenti e minacciosi. Ai «fazzoletti verdi», Mattei impartisce pubblicamente disposizioni precise di durissima contrapposizione al Pci: «Sorvegliare nelle fabbriche e negli uffici ogni nucleo della disobbedienza, sorvegliare e segnalare le fonti di finanziamento dell'avversario, opporsi all'avvelenamento sistematico delle coscienze, ostacolare la scalata comunista ai posti di comando e di responsabilità». Non si risparmia: batte senza sosta soprattutto il Pavese, enfatizzando il carattere «cristiano» del suo impegno politico. Il 10 aprile rende omaggio «in rappresentanza del generale Cadorna» (anche lui sarà eletto nelle liste della Dc) al partigia143 no Ernesto Mandelli, uno dei fondatori dell'Associazione partigiani cristiani. Commemorandolo, il giorno dopo in chiesa ne esalta lo spirito cristiano. Il 12 aprile tiene un comizio in piazza Duomo a Milano. Alla fine il suo personale risultato elettorale non è brillantissimo: risulta penultimo dei 18 democristiani eletti nel suo collegio, con appena 13.483 voti. D'altra parte, quella che negli anni della Resistenza sembrava la sua grande e
appassionante scoperta, la politica, ora è a poco a poco passata in secondo piano rispetto al suo nuovo, grandioso, visionario progetto: fare dell'Agip lo strumento per dare all'Italia l'indipendenza energetica e a se stesso un grande ruolo storico. Ha ormai ben chiaro che quell'azienda può fare di lui un uomo straordinariamente potente, molto più di un seggio alla Camera. Ora per questo obiettivo, può combattere le sue battaglie anche dallo scanno di Montecitorio. Capitolo Decimo CASSAFORTE SNAM Il triennio di presidenza di Petretti scade proprio dopo le elezioni del 18 aprile, sicché, per riprendere il controllo dell'A- gip, Mattei non ha bisogno di colpi di scena. Gli basta aspettare e intanto agire dalla sua posizione di vicepresidente, mentre Petretti si fa da parte e gli lascia il comando reale dell'azienda. Ora il primo obiettivo di Mattei è quello di ottenere l'esclusiva dello sfruttamento della Val padana, che egli chiama «la cassaforte italiana aperta». Vuole evitare che arrivino a sfruttarla anche i privati e, con la loro superiorità finanziaria e tecnologica, le compagnie straniere, americane soprattutto. Da parte di costoro, infatti, le pressioni sul governo sono fortissime, quindi sfruttamento misto del territorio da parte di società pubbliche e private, italiane e straniere. Sicché il 17 maggio una commissione istituita dal Consiglio superiore delle miniere, proprio per studiare il problema delle ricerche petrolifere e di aggiornare la vecchia legge mineraria del 1927, conclude i lavori con una sua proposta: suddividere la valle del Po in poche vastissime concessioni, lasciandone quasi un terzo, 1.106.100 ettari, all'Agip e il resto tra i dieci principali richiedenti. Tra questi, alla Spi (Società petrolifera italiana) vengono assegnati 976.400 ettari, alla Sirci, un consorzio di sessanta piccoli produttori del delta padano, 462.000 ettari. Superfici minori vanno alla Montecatini, alla italoamericana Ricerche Produzioni Petroli, alla Edison, alla Sin, al Gruppo Kotlenko, alla Società per la produzione di cellulosa, alla Mar- zotto e al Gruppo finanziario Zincone. A conti fatti, in termini percentuali la «cassaforte» padana risulta così ripartita: il 33,1% all'Agip e il 34,3% agli americani, 145 ai quali non solo va la fetta più grossa ma anche la più appetibile dal punto di vista della qualità dei giacimenti. Ai privati italiani, infine, va il 32,6% a sua volta così suddiviso: 12% alla Edison e alla Montecatini, 15 ai metanieri del Polesine, il resto ai più piccoli. È chiaro che si tratta di una soluzione molto lontana dalle ambizioni monopolistiche di Mattei, che perciò si prepara a contrastarla con la massima determinazione. Così il quotidiano britannico «Manchester Guardian» descrive la condizione di strapotere nella quale si trovavano allora le compagnie petrolifere americane in Italia: «Già subito dopo la guerra la Gulf Oil e la Standard Oil N. J. si erano spartita l'Italia in zone di influenza: alla Gulf andò la Sicilia e alla Standard il Nord e il Centro- nord. Nel 1947 la Standard aveva chiesto l'esclusiva delle ricerche su quasi tutta la Val padana (40.000 km quadrati) e nel 1948 fa presentare dal Consiglio superiore delle miniere un disegno di legge col quale otterrebbe tutti gli idrocarburi che riuscisse ad estrarre, pagando una royalty dell'8 percento sul prodotto lordo: per i primi dieci anni i concessionari sarebbero stati esentati da tale pagamento». Sulla base delle conoscenze che abbiamo oggi del mercato petrolifero, è evidente che si trattava di condizioni di spudorato favore, in base alle quali l'Italia prostrata di quegli anni era trattata, anzi sfruttata quasi come una colonia. Ma questo articolo del quotidiano inglese dimostra anche, se ve ne fosse bisogno, quale influenza, quali pressioni potessero esercitare a Roma le compagnie americane. Mattei, comunque, aiutato anche da una reazione d'orgoglio di molti politici
italiani, a cominciare da Gronchi e Vanoni, riesce a bloccare questa proposta. Deve però dimostrare che l'Agip è in grado di fare di meglio. Perciò decide l'immediato e intensivo sviluppo dei giacimenti aperti, l'esplorazione «a tappeto» della Val padana e il rinnovamento degli impianti di ricerca. Negli ultimi tempi della sua presidenza, Petretti era riuscito ad ottenere uno stanziamento di 490 milioni di lire. Servivano per pagare le sempre crescenti spese del personale in tempi di inflazione galoppante, ma furono utilizzate anche per iniziare le perforazioni in una zona che i 146 Mattei tecnici indicavano come molto promettente: Cortemaggiore, nell'Oltrepò piacentino. Ora bisogna andare avanti. Occorrono subito dieci nuove sonde di fabbricazione americana, ma mancano i soldi, quelle macchine costano più di 200.000 dollari l'una. Per di più in questi anni non è facile importare dagli Stati Uniti apparecchiature di quel genere. Mattei prova allora col Piano Marshall (Erp), ma non ottiene nulla: le lobby della Standard e della Gulf riescono ad evitare che, servendosi degli aiuti economici americani, l'Agip mandi all'aria i loro progetti sulla Val padana. E poi comunque a Washington sono fermamente contrari a sostenere l'industria di Stato con i fondi Erp. Non resta che ricorrere ai soliti metodi italiani, arrangiarsi e servirsi delle conoscenze. L'ingegner Zanmatti, che in tutti questi mesi è rimasto sempre lealmente fedele a Mattei anche quando sembrava ormai fuori gioco, conosce un certo Prini De Angelis, un uomo d'affari che ha rapporti di lavoro con gli Stati Uniti e che riesce a procurare le prime sonde a condizioni piuttosto vantaggiose. Si può cominciare a lavorare. Poco dopo, Mattei vola in America per andare a pescare in Alaska: si ferma qualche giorno a New York dove trova le persone giuste per aprire un ufficio di rappresentanza, acquistare macchinari e seguire attentamente lo sviluppo tecnologico. Arriva il momento del rinnovo dei vertici dell'Agip. Il 10 giugno 1948 l'assemblea vota per rinnovare il consiglio d'amministrazione. I politici amici di Mattei gli chiedono di non stravincere, di non dare l'impressione di voler fare dell'azienda una cosa sua. Perciò, per salvare le apparenze, Mattei si limita a conservare la sua vecchia vicepresidenza; ma al posto dell'ultranemico Petretti, fa eleggere presidente il superamico Boldrini, che gli garantisce la massima copertura politica e la massima libertà d'azione. Per sé, però, Mattei tiene, oltre ai pieni poteri operativi sull'Agip, la presidenza della Snam. Un ruolo forse meno prestigioso ma molto importante, visto che per il momento i pozzi in attività forniscono quasi esclusivamente metano. Ma soprattutto perché Mattei aveva cambiato completamente atteggiamento nei confronti del gas naturale. 147 Fin dall'autunno del 1945 i geologi dell'Agip avevano inviato ai vertici dell'azienda delle relazioni per dimostrare che il gas naturale era sempre più richiesto per usi industriali e domestici anche in paesi produttori di petrolio come gli Stati Uniti, il Kansas in particolare. Queste relazioni, scrupolosamente documentate e ricche di dati, com'era costume di quei tecnici, capitano quasi per caso fra le mani di Mattei, che ne rimane folgorato. Cresciuto nel mito del petrolio, mai avrebbe pensato che gente che praticamente camminava sul greggio si impegnasse e investisse tanto per estrarre, trasportare e vendere gas. Ecco la strada: massima valorizzazione del gas per finanziare le ricerche del petrolio. Il mitico pozzo numero 1 di Caviaga si trova in una località che forse è eccessivo definire un paese, un luogo che la storia e la geografia sembrano destinare senza alternative all'agricoltura: sei grandi cascine separate da vasti prati solcati da rogge; un'osteria e due botteghe ai piedi di un campanile. Niente di più. Ebbene, da quando lì è sgorgato il gas Caviaga ha perso, senza rimpianto, la pace di un tempo. Sul sagrato della chiesa e nell'osteria non si parla di carote e mais ma di pozzi e perforazioni, non ci si informa sul prezzo del latte ma su quello del metano che «deve arrivare fino a Milano». Solo qualche vecchio contadino, quasi per dovere di ruolo, dice di rimpiangere l'uggiosa pace di un tempo. «Il fatto è che Caviaga non è nel Kansas» lamenta Mattei, ormai determinato a sfruttare al massimo le opportunità che gli offre il metano ma pienamente
consapevole dei limiti entro i quali deve lavorare: la sconfortante penuria dei mezzi finanziari e tecnologici e l'inestricabile vischiosa burocrazia dei permessi e delle licenze, dei timbri e dei bolli. Per quanto riguarda l'endemica scarsezza dei mezzi, Mattei conta fideisticamente «sull'ingegnosità e sulla tipica arte di arrangiarsi di noi italiani». E in effetti l'abilità e l'abnegazione degli uomini di Zanmatti, finalmente galvanizzati, dopo anni di frustrazioni, da tanto entusiasmo e da tanta risolutezza, lo confortano in questa sua convinzione. Nell'Agip e nella Snam, insieme alla corroborante certezza di avere finalmente un vero capo, si crea così un clima di pionieristica eccitazione e di di148 sinvolta sicurezza nei propri mezzi che fa giustizia una volta per tutte della loro immagine di polverose, inefficienti e parassitane eredità del fascismo. Rapidamente, anzi, in anni in cui la disoccupazione era alle stelle, le due aziende conquistano la fama di poter dare lavoro a tanta gente, anche al di là delle loro possibilità reali. Mattei è subissato dalle richieste di un posto. Racconta Pietra: «Si sparge la voce; comincia la grande voce delle raccomandazioni. Scrive la mamma; scrivono i parenti; scrivono i conterranei, gli amici d'infanzia, i compagni di scuola e di caserma; scrivono i colleghi, i conoscenti, i clienti degli anni Trenta; scrivono i compagni della Resistenza; scrivono i pezzi grossi, i portaborse, i sindaci, gli assessori, i consiglieri comunali, i segretari di federazione della Dc; scrivono i parroci, i quadri di Azione cattolica, le madri delle Figlie di Maria. Mattei sta al gioco e anche in questo caso la sua arma migliore è la calma. Accoglie con benevolenza le raccomandazioni; si industria per esaudire le preghiere e le tramuta in un affare redditizio. Quella delle assunzioni è un'arma che può servire a consolidare gli appoggi politici, all'esterno, e a scegliere personale omogeneo, riconoscente, acceso da patriottismo aziendale». Questo comportamento, naturalmente, gli attira critiche di clientelismo e accuse di compiere favoritismi politici. «Piovono da sinistra» racconta Pietra «attacchi contro quelle assunzioni, contro l'onnipotenza del vicepresidente che vaglia personalmente, uno ad uno, gli aspiranti, che privilegia le segnalazioni delle parrocchie, della Dc, delle Acli, che preferisce gli ex carabinieri. Le accuse di clientelismo, di campanilismo, di settarismo sono fondate; come è fondata la feroce battuta sulla Snam ridotta ad acronimo di "Siamo nati a Matelica".» E in effetti tra i dirigenti e i quadri delle aziende guidate da Mattei molti sono, oltre agli ex partigiani ed ex carabinieri, i matelicesi. Un esempio per tutti: Raffaele Girotti, che sarà il terzo presidente dell'Eni dopo Mattei e Cefis e che da pensionato tornerà a Matelica per ritirarsi nella sua bella tenuta agricola a produrre dell'ottimo vino. Ma bisogna anche ammettere che Mattei sa ricavare il meglio da quei «raccomandati», i quali dal momento dell'assunzione 149 diventano suoi fedelissimi, pronti a gettarsi nelle fiamme per lui. Un giorno nel Caffè Centrale di Matelica un suo vecchio compagno di lavoro della conceria gli presenta suo figlio che ha bisogno di una raccomandazione per essere assunto in banca. Mattei guarda il ragazzo e improvvisamente gli chiede: «Perché mai vuoi andare in banca? Perché non vieni a lavorare in una delle aziende dove lavoro io? All'Agip c'è molto da fare, ed è molto ma molto meglio che in banca». Quel ragazzo, Giuseppe Acqualagna, diventerà uno di coloro che, dopo molti anni, saranno i rispettatissimi «pionieri Agip». Egidio Egidi è un giovane ingegnere di Matelica che lavora in un ufficio del Genio civile a Macerata, con cui Agip e Snam hanno rapporti quotidiani: è stato segnalato a Mattei e ha un'esperienza professionale molto utile per risolvere i problemi burocratici legati alle ricerche geologiche. Lo raggiunge una convocazione telegrafica nella sede romana dell'Agip, in via del Tritone 181. Racconta: «Mi introducono nell'ufficio di Mattei, che non perde tempo in preamboli. Sono presenti Boldrini e Zanmatti. "Tu sai che sto facendo grandi cose in Val padana" mi dice "dove i geologi mi assicurano esserci molto petrolio e metano, tanto è vero che le compagnie petrolifere americane vorrebbero metterci le zampe. Tu andrai lassù ad
imparare questo mestiere. Sia chiaro che non ti assumo ma ti do solo una borsa di studio; ti darò pochi soldi, tanto non hai bisogno di niente perché devi pensare solo a lavorare; e poi ci sono le mense aziendali. Ti terrò d'occhio e se non vai bene ti caccio via." Lungi dal pensare che forse anch'io avevo qualcosa da dire, aggiunge: "Lunedì prossimo presentati a Corte- maggiore: lì ti diranno cosa devi fare". Non mi resta che dire "sissignore" e preparare le valige». Egidi diventerà presidente dell'Agip e poi dell'Eni. L'entusiasmo era tanto che, come accade in questi casi, persino le difficoltà inorgoglivano e galvanizzavano. Ricorda Raffaele Girotti, un altro che viene da Matelica: «Nei primi uffici della Snam, a Milano, in via Lazzaro Papi, si disegnava per terra, per mancanza di tavoli». Frattanto la sua nuova posizione di deputato, insieme ai meriti acquisiti durante la recente durissima e vittoriosa cam150 Mattei pagna elettorale, continuano a rafforzare Mattei anche sul piano politico. Nell'estate del 1948 una gravissima crisi quasi insurrezionale colpisce l'Italia. Il 14 luglio uno squilibrato di estrema destra, Antonio Pallante, spara quattro colpi di pistola al segretario del Pci, Palmiro Togliatti, mentre esce da Montecitorio. Seguono giornate terribili, viene proclamato lo sciopero generale, si arriva a un passo dall'insurrezione armata. Quasi tutti gli ex partigiani ma anche ex fascisti, monarchici, reduci da fronti di guerra, sono ancora armati: i comunisti in attesa dell'insurrezione, gli anticomunisti per reagire a questo temuto evento. Nell'estate del 1948, insomma, mezza Italia è pronta alla guerra civile. L'organizzazione dei partigiani cristiani, di cui Mattei era ancora il capo riconosciuto, non era da meno. Probabilmente proprio in quei mesi fu messa in cantiere una struttura militare clandestina permanente collegata alla Nato («StayBehind») pronta «dietro le linee» a contrastare in ogni momento un evento rivoluzionario e ad organizzare la resistenza in caso di invasione da parte sovietica. Durante una infuocata seduta alla Camera, il comunista Giuseppe Di Vittorio, segretario della Cgil, il sindacato allora ancora unico ma controllato dal Pci e a un passo dalla scissione, attribuisce ai soli comunisti il merito di aver liberato l'Italia dal fascismo. Mattei, sempre investito del compito storico e politico di ricordare il ruolo svolto dalle formazioni cattoliche nella guerra di liberazione, reagisce urlando: «Basta con questa storia, non l'avete fatta solo voi la Resistenza». Scoppia un putiferio, una vera e propria rissa e la seduta viene sospesa dal presidente della Camera Gronchi. Superata quella drammatica crisi, il 20 settembre, durante una riunione presieduta da Taviani, presenti, fra gli altri, Mattei, Ferrari- Aggradi e Marcora, si arriva alla decisione che sia ormai più prudente disarmare i democristiani. Taviani propone di consegnare le armi all'esercito. Mattei nel suo intervento osserva che mentre le Forze Armate sono ben attestate sul versante orientale, a occidente le difese sono sguarnite, e non è detto che il nemico possa venire solo da Est. Sono i primi sintomi di un incipiente neutralismo, parente del nazionalismo, 151 di cui nei seguenti anni darà segni ben più marcati. Ad ogni modo, come racconta Taviani, si decide di consegnare le armi ai carabinieri, tenendo solo le pistole, quasi per ricordo, ma denunciandole regolarmente. Anche in quella terribile estate, dunque, alla vigilia di una fase cruciale della vicenda dell'Agip, Mattei sa giocare con impegno e coraggio la carta di un ruolo che lo conferma figura centrale e decisiva per la Dc. Zanmatti ora è finalmente felice: ha per la prima volta un capo che lo stima, lo valorizza, e gli copre le spalle assumendosi tutte le responsabilità. E, come aveva promesso, i risultati arrivano, il gas sgorga dal sottosuolo padano - anche se tuttora sogna il momento in cui vedrà zampillare copioso il petrolio. «Benissimo, ora, però, bisogna cominciare a venderlo, tutto questo metano», replica il pragmatico Mattei, cominciando a reagire agli stimoli della sua ancora vigile coscienza imprenditoriale. Ormai ha deciso, almeno per ora, di puntare sul metano. Spera nel petrolio ma punta sul gas. È una scelta che anticipa di una trentina
d'anni altri paesi anche più ricchi di fonti energetiche alternative. In effetti si tratta di 348 tonnellate al giorno che presto, con le nuove produzioni supereranno il mezzo milione. Il mercato potenziale sul quale conta Mattei è quello delle piccole, medie e grandi industrie della Pianura padana. È a queste 12.000 imprese che bisogna far arrivare il gas minerale con una rete di metanodotti. Si comincia collegando Caviaga con l'area a più alta concentrazione industriale, quella, non lontana, di Sesto San Giovanni. Anche questa operazione sembra a molti temeraria e fallimentare. In quegli anni, quando i petrolieri, durante le loro ricerche, trovano del metano al di fuori dei loro paesi d'origine, non si danno neppure la pena di estrado, a causa della pratica impossibilità di trasportarlo, come invece si può fare col petrolio, impiegando, a seconda delle zone di estrazione, navi o autobotti o oleodotti. L'unica possibilità di trasporto del metano è il gasdotto, per la cui costruzione servono investimenti cospicui e a lungo termine, non giustificati dal prezzo dei pro152 Mattei dotti petroliferi concorrenti e dalla durata dei contratti di estrazione, per di più all'estero e con un mercato geograficamente circoscritto: i primi e più probabili acquirenti non potrebbero essere che nel paese di estrazione o nei paesi vicini. Mattei, invece, aveva intuito (o aveva voluto credere ad ogni costo) che in un paese povero di risorse energetiche come l'Italia, il metano del nostro sottosuolo, con un potere calorico tre volte superiore a quello del gas di città, poteva risultare conveniente per determinati usi industriali o domestici. Si tratta di portarlo nelle grandi città industriali del Nord, lontane abbastanza da rendere necessaria la costruzione di metanodotti, ma anche abbastanza vicine da richiedere, in questi primi e difficili anni, investimenti relativamente limitati. Perciò per Mattei parlare della rete gas ed essere informato del suo avanzamento diventa presto quasi una mania. «Quanti chilometri abbiamo fatto?» è la domanda quasi giornaliera agli ingegneri della Snam. E i chilometri aumentano di anno in anno: nel 1948 sono appena 257, quattro anni dopo sono già 2000, 6003 nel 1962, anno della morte di Mattei che in pochi anni distese una rete di tubi su tutta la Pianura padana, la Sicilia e parte dell'Italia centrale. «Non ci vuol niente a disegnare i metanodotti sulla carta» racconterà più avanti «i guai veri cominciano quando si va fuori per passare all'esecuzione, per mettere giù i tubi.» Infatti i proprietari dei terreni non sono tenuti per legge, come altrove, a concedere il passaggio per il manufatto. Perciò non rimane che aprire una miriade di estenuanti trattative con migliaia di persone (spesso i terreni appartengono a famiglie numerose e litigiose) sempre interessate a tirarla per le lunghe, a fare le preziose, ad approfittare dello stato di necessità e di urgenza dei tecnici della Snam. Da parte loro, le amministrazioni comunali devono far rispettare piani regolatori, ordinanze, regolamenti. Se si vuole stare al gioco delle norme, dunque, non resta altra strada che inoltrare centinaia, migliaia di domande destinate a lentissimi interminabili e inutili giri dell'oca burocratica da una stanza all'altra, da una scrivania all'altra. Presto Mattei capisce che, se vuole andare avanti, deve osare quello che nell'Italia della carta bollata, nessun altro osereb- 153 be: ignorare del tutto la burocrazia, fare come se permessi, regolamenti, ordinanze, divieti, bolli e timbri non esistessero e avanzare con le sue condotte sulla base del principio «cosa fatta capo ha» e secondo le necessità della Snam: «Se nasceranno dei problemi, a risolverli penseremo dopo; mi assumo io tutte le responsabilità», ripete determinato e rassicurante ai suoi uomini, pensando magari anche di servirsi del suo prestigio di capo partigiano, parlamentare ed esponente di primo piano della Dc. Figlio di un carabiniere, uomo d'ordine e politicamente moderato, Mattei presidente della Snam semplicemente ignora la legge: in seguito si farà vanto di aver trasgredito a 8000 ordinanze. «Se non lo avessi fatto non saremmo mai riusciti a portare il gas alle industrie e nelle città.» La cosa funziona così: dopo le ricognizioni del terreno e le analisi delle mappe
catastali per accertare la situazione di fatto e di diritto, entrano rapidamente in azione i tecnici di speciali «pattuglie volanti» armate di ruspe e martelli pneumatici. Lo scavo avviene generalmente di notte dimodoché al mattino i lavori siano tanto avanti da rendere praticamente inutili le proteste di proprietari e amministratori. In effetti, fatti gli scavi, posati i tubi e ricoperto di terra il tutto - il che può avvenire anche nel giro di poche ore - non si può dire che rimangano tracce che diano nell'occhio e che danneggino in qualche modo il fondo. Certo, i proprietari non ne hanno ricavato alcun vantaggio e se in qualche caso qualcuno fa la voce grossa, Mattei si fa vivo di persona sul posto, si scusa per le squadre che hanno «agito erroneamente» o «contravvenendo alle istruzioni; ma adesso disfare tutto sarebbe un peccato e non servirebbe a nulla». Nei casi più difficili un indennizzo «per il disturbo» conclude la vertenza. Questo spregiudicato modo di procedere vale anche quando si tratta di passare sotto una ferrovia o una strada: anche le amministrazioni pubbliche vengono messe di fronte al fatto compiuto. È esemplare il blitz di Cremona, raccontato da Marcello Boldrini: «Un giorno, il metanodotto arriva alle porte di quella città. Che fare? Un passo ufficiale presso il sindaco per chiedere il permesso di attraversamento? Bisognerà attendere la delibera del Consiglio comunale, l'ordinanza della prefettu154 Mattei ra, l'autorizzazione ministeriale ... ci vorranno mesi, se non anni. Mattei non esita. Poco dopo la mezzanotte arriva alla periferia con trecento operai armati di vanghe e picconi. Mentre la gente dorme Cremona viene attraversata, il più silenziosamente possibile, da una lunga trincea fiancheggiata da mucchi di terra nei quali i cittadini inciampano uscendo di casa all'alba. In poche ore la città risuona di proteste assordanti. Accorre il sindaco, trafelato e furioso. "Vi prego di scusarmi" replica Mattei "i miei uomini hanno commesso un imperdonabile errore di percorso. Ora darò gli ordini perché i lavori vengano immediatamente sospesi." Prospettiva imbarazzante, rimedio peggiore del danno per il selciato delle vie e per la circolazione. Al sindaco non rimane che rincorrere Mattei per supplicarlo disperato: "Mettete i vostri tubi, ricoprite la trincea in giornata e andate al diavolo"». È inevitabile che, agendo in questo modo, Mattei attiri su di sé e sull'Agip attenzioni poco benevole. Molti giornali, soprattutto quelli più vicini alle posizioni della Confindustria, cominciano ad affilare le armi della polemica, parlando di «impreparazione e dilettantismo nelle ricerche petrolifere». Una domenica il parroco di Caviaga, don Costantino Coltica, tuona dal pulpito contro «l'invadenza dell'Agiperia», che stravolge i ritmi, il carattere e la cultura cristiana del borgo della Bassa lombarda. La predica solleva inevitabilmente un gran polverone in paese, ma viene ampiamente raccolta ed enfatizzata dalla stampa. Mattei risponde come sa, accattivandosi il parroco e la sua comunità con un dono: «Un paese come Caviaga, che è modello di vita cristiana, e che corre sulla bocca di tutti facendo dono di gas alle città, non può rassegnarsi al silenzio del campanile. Le vecchie campane, requisite in tempo di guerra, sono finite chissà dove; ma l'Agip si fa avanti offrendo due belle campane nuove». Dopo la solenne cerimonia della consegna e della consacrazione delle campane, nessuno parla più di «Agiperia» e don Costantino Coltica diventa uno dei più fedeli ed entusiasti sostenitori di Mattei. Nel 1949 la partita politica della sopravvivenza dell'Agip di fatto è vinta da tempo, ma formalmente è ancora aperta. Il mi- 155 nistro dell'Industria, il socialdemocratico Ivan Matteo Lombardo, accoglie i suggerimenti della commissione del 1948 e presenta al Consiglio dei ministri un progetto che porta la data del 22 aprile 1949, in base al quale, «essendo lo stato privo degli immensi capitali necessari ad un vasto lavoro di ricerca e di estrazione, prospetta disposizioni atte a invogliare il capitale italiano e straniero». In realtà Lombardo può essere considerato un filoamericano. Aveva avviato, prima del 18 aprile 1948, la scissione socialista, quando i socialdemocratici filocci- dentali decisero di uscire dal Psi di Nenni filocomunista e addirittura stalinista. Era stato incaricato di una missione
economica negli Usa durante la grave crisi economica del maggio 1947 e aveva buoni rapporti con ambienti politici, industriali e finanziari americani. L'iniziativa di Lombardo, dunque, può essere considerata un tentativo di riaprire il mercato petrolifero italiano alle compagnie Usa, ma è troppo tardi. Dopo il prezioso contributo alla battaglia del 18 aprile, Mattei si sente piuttosto sicuro e si muove con autorevolezza nelle stanze e nei corridoi della politica: reagisce subito ma con la calma di chi sa di avere comunque la vittoria in tasca. Vanoni persuade De Gasperi a inviare il progetto di Lombardo al Cir (Comitato interministeriale per la ricostruzione) per fargli fare uno di quegli inconcludenti giri di scrivanie che non arrivano da nessuna parte. E infatti di quel progetto non si saprà più nulla. Per contrastarlo, l'onorevole Mattei era iscritto a parlare nella seduta della Camera del 23 aprile, ma all'ultimo momento rinuncia a prendere la parola: evidentemente aveva ricevuto tranquillizzanti garanzie di insabbiamento. «Sarebbe assurdo fermarci ora» ripete ai suoi amici politici. E non ha tutti i torti, la produzione cresce di giorno in giorno: se nel '46 si estraevano 12 milioni di metri cubi di metano, nel '49 si superano i 106 milioni e l'incremento è esponenziale: nel 1950, con oltre 300 milioni di metri cubi, si supererà la produzione totale di tutti gli altri operatori (molti piccoli produttori del Polesine) che presto, costretti ad estrarre a costi più elevati, soccomberanno. Nel 1953 sarà di 2000 milioni. Ai pozzi di Caviaga e Ripalta e agli altri minori si è aggiunto quello di 156 Mattei Cortemaggiore. L'Agip si è assunta direttamente la vendita del gas per usi industriali e ormai ha raggiunto una sufficiente autonomia finanziaria anche ai fini dello sviluppo dell'azienda: «Ormai possiamo farcela da soli», ripeteva in quei mesi Mattei ai suoi uomini, mentre il suo peso politico all'interno della Dc cresceva. Come abbiamo visto, la politica dei prezzi gli consente una fin troppo autonoma gestione di ampi margini. Dopo la feroce battaglia elettorale del 1948 i partiti hanno capito che le loro attività diventeranno sempre più costose. Il Pci può contare, oltre che su una solida ed efficiente organizzazione, sui finanziamenti provenienti dall'Unione Sovietica. Il sostegno di ambienti politici ed economici americani ai partiti filoccidentali si concretizza solo in occasione delle elezioni. L'autonomia finanziaria di un'azienda di Stato, così strettamente collegata alla politica e con crescente liquidità a disposizione non può non fare gola ai partiti di governo, e soprattutto alla Dc, il partito di Mattei, il quale ormai gestisce quell'azienda come un padrone, lasciando intenzionalmente intravedere future opportunità di finanziamenti occulti. Intanto, però, le imprese private non demordono. La Confindustria accusa l'Agip di non aver ancora trovato una goccia di petrolio ed è di quello, soprattutto di quello che l'Italia ha bisogno. Carlo Faina, amministratore delegato della Montecatini e presidente dell'Associazione mineraria italiana, tenta di far rientrare dalla finestra quelle compagnie americane che Mattei aveva cacciato dalla porta: proponendo, in sostanza, di affidare la distribuzione dei carburanti delle raffinerie Anic proprio a quella Standard Oil che dal '47 chiede insistentemente al governo italiano una concessione di ricerca ed estrazione sull'intera Pianura padana. In altre parole, l'Agip avrebbe dovuto concedere alla concorrenza la vendita dei propri prodotti. Un'ipotesi francamente inaccettabile. Mattei capisce che è arrivato il momento di assestare il colpo decisivo per chiudere la partita e ottenere quella condizione di monopolio di fatto a cui aspira. Lo fa il 13 giugno 1949 al giacimento di Cortemaggiore, a poche decine di chilometri da 157 Milano. Per quel giorno ha organizzato una visita ufficiale di Ezio Vanoni, il suo più fedele ed influente alleato politico. È un evento annunciato con grande enfasi, al quale sono presenti gli inviati dei giornali più importanti. Ed ecco il colpo di scena: alla presenza di Vanoni e dei giornalisti, da uno di quei pozzi dai quali fino ad allora era sgorgato solo metano, il pozzo numero 1, prende improvvisamente a zampillare il petrolio. Meraviglia e stupore dei presenti, a nessuno dei quali,
forse, viene il dubbio che un avvenimento così smaccatamente teatrale, una coincidenza tanto straordinaria possa essere il risultato di un'attenta regia. Tanto meno ai giornalisti che, indipendentemente dalla linea politica delle rispettive testate, stanno al gioco con entusiasmo: «Scoperti in Val padana vasti giacimenti di petrolio» titolerà il «Corriere d'Informazione», edizione pomeridiana del «Corriere della Sera». E il quotidiano di via Solferino: «L'Italia ha vinto la battaglia del petrolio. Un giacimento di 40 chilometri quadrati scoperto presso Piacenza: può dare il 40% di benzina». Sotto questo titolo il servizio del capocronista Ferruccio Lanfranchi, legato a Mattei fin dai tempi della Resistenza, è gonfio di orgoglio patriottico: «Il petrolio italiano è una realtà, lo abbiamo visto erompere, vaporizzato, a una potenza di 160 atmosfere, su per le travature della torre metallica del pozzo numero 1 di Cortemaggiore. È un petrolio molto denso, che può dare un'alta percentuale di benzina, dal 30 al 40%». E poi: «Metano e petrolio costituiscono per il nostro paese una ricchezza che può essere valutata in migliaia di miliardi. Il petrolio dovrà naturalmente essere raffinato, e le raffinerie sorgeranno nella zona petrolifera, d'intesa tra l'Agip e l'Azienda nazionale idrogenazione combustibili [Anic]. Ma sarà Milano che darà i mezzi per lo sfruttamento di questa grande risorsa che Iddio ha voluto rivelare all'Italia». «Non è vero» scriverà molti anni dopo Giorgio Bocca «a Cortemaggiore è stata trovata solo una bolla che si esaurirà in poche settimane.» Come sostiene nel suo libro L'arma del petrolio, Leonardo Maugeri, studioso di relazioni internazionali e storico, diventato poi direttore per le relazioni istituzionali e internazionali dell'Eni, «di fatto l'avvenimento, probabilmente confezionato con astuzia, consentì a Mattei l'avvio di una 158 propaganda tesa a convincere la psicologia collettiva italiana che la Val padana avesse giacimenti smisurati di petrolio, a ispirare fiducia nel miracolo possibile dell'indipendenza energetica, e a creare quindi un consenso di opinione pubblica tale da costringere i politici a non lasciare ai privati, italiani o stranieri, la gestione di un bene così importante per lo sviluppo dell'intera nazione. Di questa operazione fece parte anche l'idea del nome assegnato alla benzina distribuita dall'Agip, la "Supercortemaggiore", reclamizzata come "la potente benzina italiana", quando in effetti solo una piccola parte di essa proveniva dai giacimenti italiani, mentre la stragrande maggioranza (più del 90%) era fornita da compagnie straniere». In effetti lo slogan «Supercortemaggiore, la potente benzina italiana» è rimasto impresso nella memoria di quanti, negli anni Cinquanta, hanno assistito e partecipato alla tumultuosa motorizzazione di massa del paese e a quella prodigiosa crescita economica che prese il nome di «miracolo italiano». Uno slogan da allora associato a quella grandiosa, epocale trasformazione sociale e di costume, quasi una mutazione antropologica dell'Italia da paese «prevalentemente agricolo», come veniva ancora definita nei libri scolastici in quegli anni, in potenza industriale. Ma anche uno slogan, nel quale si ritrova l"«ideologia di Mattei», che mescola l'ansia di riscatto ed emancipazione dell'Italia del dopoguerra, il suo nazionalismo populista e quel «sentimento di defraudazione» personale e nazionale di cui parla Paul H. Frankel, esperto di questioni petrolifere e per un certo tempo consulente di Mattei. Nel libro Petrolio e potere, una storia della vicenda politico- industriale di Mattei, Frankel infatti usa il termine resentment, ma con quel significato di defraudazione. Come tutti i nati poveri e gli emigrati, Mattei non sopporta lo stereotipo dell'italiano straccione ma buono, mangiaspaghetti e mandolinaro, estroso ma inconcludente: un luogo comune che gli procura veri e propri attacchi d'ira e rappresenta uno dei più potenti stimoli della sua voglia di riscatto. L'evento di Cortemaggiore segna l'inizio di un nuovo corso dei rapporti fra Mattei e la politica e un nuovo modo di essere della politica italiana: «... è probabile» scrive Maugeri «che 159 proprio in questa fase Mattei iniziasse a utilizzare i fondi neri ricavati dal metano ... per accrescere i potenziali di ricerca e di immagine dell'Agip, al
riparo da controlli e da verifiche di vario genere; secondo molte ricostruzioni, egli destinò parte di queste risorse finanziarie all'acquisizione di consenso politico». In altre parole: Mattei comincia a pagare politici e giornalisti. Il suo lavoro di corruttore comincia così e così comincia la storia della corruzione politica (o, se si preferisce, del finanziamento occulto dei partiti) nell'Italia repubblicana. Il colpo propagandistico, comunque, è pienamente riuscito e vale la pena di sfruttarlo fino in fondo, senza paura di esagerare. Intervistato dall'agenzia di stampa Ansa, Mattei dichiara che «i giacimenti individuati dall'azienda di Stato, a coronamento delle sue ricerche, sono di un'importanza tale da produrre una profonda trasformazione dell'economia del paese, sia per quello che riguarda il metano come combustibile che andrà a sostituire completamente il carbone e la nafta adoperati attualmente in Italia, ad un prezzo che sarà inferiore a quello del combustibile internazionale, sia per il petrolio, perché il giacimento di Cortemaggiore è di un'importanza rilevantissima. Ogni pozzo produce da due a tre vagoni di petrolio al giorno e nel giacimento possono essere installati, data la sua vastità, numerosi pozzi. Il giacimento di Cortemaggiore è lungo 12 chilometri e largo 4 ed è ricchissimo di petrolio e metano. Ad esso ne vanno aggiunti altri due nelle località di Ri- palta e Caviaga, oltre ad altri tre individuati nel Cremonese, il che denuncia un susseguirsi di giacimenti in tutta la Val padana. Di tali giacimenti sarebbe difficile oggi calcolare il valore che indubbiamente assurge a entità rilevantissima per ogni giacimento». Le cose, purtroppo, non stanno così, lo sappiamo. E forse lo sa anche Mattei: la «potente benzina italiana» proverrà quasi tutta dalla Anglo- Iranian. Ma a lui interessa solo che politici e opinione pubblica si convincano che la pianura del Po galleggia su un tesoro, un mare di oro nero tutto italiano che sarebbe delittuoso condividere con le compagnie straniere. Il giorno dopo all'intervista a Mattei, Boldrini, presidente dell'Agip, in una sua dichiarazione all'Ansa afferma che la 160 scoperta «turba grossi interessi» e che questo spiega «le polemiche, le critiche e talvolta anche alcune reazioni». In quelle stesse ore si svolge a Padova un importante convegno al quale partecipano tecnici ed imprenditori del settore metanifero e petrolifero. Il rappresentante della Standard Oil, Ralph Bol- ton, sta concludendo il suo intervento nel quale ha appena annunciato l'intenzione della sua compagnia di investire in Italia fino a 4 milioni di dollari se il governo non «cederà al monopolio» preteso dall'Agip. D'un tratto nessuno lo ascolta più: come una bomba è arrivata la notizia del petrolio di Cor- temaggiore. Non si parla d'altro, le profferte di Bolton appaiono ora fuori luogo, quasi ridicole e sono accantonate. La Borsa impazzisce. La pubblicazione degli articoli su Cor- temaggiore scatena una folle corsa all'acquisto di qualsiasi titolo collegato al settore petrolifero. Le azioni Anic, che il 13 giugno avevano chiuso a 970 lire, in cinque giorni arrivano a quasi 1500 lire, un incremento straordinario per il piccolo, pigro e anemico mercato di quei tempi. Nell'euforia generale, il ministro Lombardo tenta di ridimensionare l'episodio: ha capito benissimo dove si va a parare, che la strada imboccata porta dritto dritto al monopolio dell'Agip. Perciò il 18 giugno, in un documentato intervento alla Camera, spiega che, nella migliore delle ipotesi, il petrolio scoperto in quel di Piacenza assicurerà al massimo il 2% del fabbisogno nazionale per il prossimo triennio. Tutte le azioni che tanto avevano guadagnato in quei giorni crollano tornando in poche ore ai valori di partenza. Ma già il giorno prima qualcuno aveva cominciato a vendere pacchetti di quei titoli. Inevitabile l'esplosione di polemiche e accuse, soprattutto fra giornali. Il settimanale «Tempo» di Milano accusa il «Corriere» di «irresponsabile battage pubblicitario». L"«Avanti!», organo del Psi, il 23 giugno punta il dito verso via Solferino: «Cortemaggiore è guarita dalla febbre del petrolio. Il grafico della malattia corrisponde al grafico della Borsa. Chi ha venduto titoli Anic il giorno 17 giugno?». Ci sono gli estremi, secondo il quotidiano socialista, perché il procuratore generale della Repubblica
spicchi mandato di cattura «contro il giornalista Ferruccio Lanfranchi e il direttore del "Corriere"» Gu- 161 glielmo Emanuel. I quali immediatamente rispondono insieme a Mattei e a Boldrini querelando il direttore responsabile dell"«Avanti!». La bagarre non si placa, rinfocolata anzi dal fondato sospetto che l'avventurosa gestione della vicenda abbia consentito qualche spregiudicata operazione in Borsa, al rialzo prima e al ribasso dopo. Il ministro Lombardo torna sull'argomento il 30 giugno al Senato, ripetendo in sostanza quello che aveva già detto alla Camera. A questo punto Mattei è costretto a scendere personalmente in campo con un'intervista sul «Corriere della Sera», nella quale afferma con la consueta enfasi demagogica che «il popolo italiano attende fiducioso che attorno alle calunniose insinuazioni di speculazioni borsistiche la magistratura dica l'ultima parola». La vicenda giudiziaria si trascinerà fino al 1951, quando il tribunale di Milano ordinerà l'archiviazione. «Ci procurammo una denuncia per aggiotaggio» racconta Mattei «quantunque fosse noto a tutti che i titoli delle aziende di Stato non esistevano in Borsa.» In realtà l'Anic, di cui Agip è azionista di maggioranza, è una società quotata, e comunque la speculazione ha coinvolto non le «aziende di Stato» quanto le società collegate al settore petrolifero. È però certo che Mattei non partecipa all'operazione speculativa, della quale forse non è neppure al corrente. Al massimo può essersene servito per comprare la benevolenza di qualche giornalista e di qualche politico. Da molti anni è un uomo ricco, uno dei più ricchi in quello che resta il suo universo emotivo e familiare, Matelica; per di più di una ricchezza solida, basata prevalentemente su beni immobiliari, oltre che sull'azienda chimica ancora di sua proprietà. Quella della sicurezza economica è ormai per lui una battaglia vinta da tempo: ora è interessato al potere, quindi del denaro si serve solo per acquisire potere. D'altra parte, indipendentemente dalle polemiche e dalle accuse, «il popolo italiano» al quale si rivolge Mattei, cioè l'opinione pubblica, in fondo vuole credere al «prodigio di Cor- temaggiore», vuole credere alla favola moderna del petrolio italiano perché è più bello crederci. Perché a questo punto è anche giusto sperare, mentre si lavora per la ricostruzione, in quel futuro di prosperità e di progresso inseguito da secoli e 162 che sembra finalmente possibile. Perciò sul piano propagandistico, e quindi politico, la battaglia di Mattei è comunque vinta. Difatti poche settimane dopo lo shock di Cortemaggiore, il Cir propone di accantonare il progetto di legge Lombardo. La reazione americana, naturalmente, è durissima e arrivano i primi minacciosi avvertimenti. Il 16 luglio del 1949 il «New York Times» riferisce che «i circoli ufficiali degli Stati Uniti affermano che una decisione da parte del governo italiano di stabilire un monopolio nel campo del petrolio, metterebbe in pericolo l'intero accordo per la cooperazione economica fra Usa e Italia del 28 giugno 1948». Una minaccia piuttosto grave per un paese che non può assolutamente fare a meno dell'aiuto economico americano. Mentre inizia quella che fu chiamata la «guerra fredda», cioè il confronto politico e militare, ma non guerreggiato, fra il blocco occidentale e quello comunista, che in Italia si traduce nello scontro durissimo fra partiti centristi di governo e sinistre, Mattei viene a trovarsi in una posizione anomala. Governativo, democristiano, antiamericano, statalista e nazionalista: la sinistra dc lo appoggia, ma la destra del partito lo combatte insieme ai liberali e ai socialdemocratici. Pci e socialisti lo attaccano come democristiano e per il suo anticomunismo, ma lo sostengono nella sua battaglia contro le compagnie americane, la Edison, la Montecatini e la Confindustria; così come, a destra, i neofascisti del Msi apprezzano il suo nazionalismo statalista. Quella di Mattei, insomma, è una scomoda posizione di frontiera, difficile da definire e da mantenere ma che gli consente una grande libertà di manovra che egli saprà molto astutamente sfruttare, con una disinvoltura che spesso gli procura la definizione di «corsaro». «Questi industriali che tanto mi combattono però il mio metano se lo comprano»
commenta intanto il presidente della Snam osservando che ormai il 75% di tutto il gas consumato è utilizzato dalle industrie, il 9% va alla produzione termoelettrica e solo il 16% ad usi domestici e all'autotrazione. Il metano era apprezzato non solo per il prezzo nonostante tutto conveniente a parità di potere energetico, ma anche perché assicurava una combustione pulita, importantissima in molte 163 lavorazioni. «Quando il nostro gas arrivò a Sassuolo, patria delle piastrelle» racconta Giovanni Bini, un ingegnere «pioniere» della Snam «le fabbriche che si trovavano sulla sponda del fiume Secchia dove erano arrivate le nostre condotte producevano piastrelle più belle, senza detriti di combustione e a più basso costo. Risultato: in breve le aziende che si trovavano sulla sponda opposta e che non riuscirono a trasferirsi non ressero la concorrenza e fallirono.» Il 30 luglio 1949 si riunisce a Fiuggi il Consiglio nazionale della Dc. Per Mattei e i suoi amici è arrivato il momento di giocare a carte scoperte, di parlare apertamente di monopolio. Ci pensa Vanoni che tiene la relazione economica in cui afferma con certezza che il petrolio in Val padana esiste, che le ricerche hanno confermato le previsioni, che i modesti mezzi statali sono sufficienti alla ricerca e all'estrazione e che gli interessi privati nel settore sono contrari agli interessi generali del paese: «Il metano e il petrolio garantiscono rendite di posizione che possono essere eccezionali. Può lo Stato essere indifferente al fatto che gruppi privati possono incassare guadagni ... di decine di miliardi?». Naturalmente interviene anche Mattei, che sostiene l'urgenza di «impedire il costituirsi di pericolosi monopoli* e di far avocare allo Stato e quindi alla collettività le rendite e i profitti della gestione». Dunque il solito arsenale ideologico della sinistra democristiana: anticapitalismo, pregiudizio etico verso il profitto, statalismo. D'altra parte, già nella riunione del comitato regionale lombardo del 23 luglio era stato approvato un ordine del giorno che chiedeva alla segreteria del partito che l'esercizio e lo sfruttamento della ricchezza della Pianura padana fossero riservati allo Stato, concludendo che «la Dc può dare un grande e concreto esempio di applicazione del suo programma di difesa degli interessi della collettività contro gli interessi capitalistici». Un linguaggio che in quegli anni avrebbero potuto tranquillamente usare i comunisti. Perciò, conclude Vanoni davanti al parlamentino del suo * Privati, evidentemente. 164 partito, nell'interesse della collettività è necessario che il governo intervenga subito per riservare «allo Stato le ricerche su tutto il resto del paese». Grazie anche al duro e tenace lavoro di persuasione di Mattei e dei suoi amici, fra cui lo stesso segretario del partito Ta- viani, la proposta, un'autentica dichiarazione di statalismo protezionista, è approvata a grande maggioranza con una risoluzione che chiede l'esclusiva per l'Agip delle ricerche in Val padana e di respingere le richieste della Standard Oil, della Shell, della Edison, della Montecatini e degli altri privati. Per tutto l'autunno di quell'anno su questi temi fu combattuta una dura battaglia politica in parlamento e nel governo. Le posizioni di Mattei avevano il sostegno anche dei socialdemocratici, dei socialisti e dei comunisti mentre erano avversate dalle correnti più liberali del suo stesso partito e dalle organizzazioni degli imprenditori. Il 26 novembre del 1949 la potentissima Associazione Industriale Lombarda confuta con durezza gli argomenti di Mattei e dei suoi sostenitori, contesta i risultati ottenuti dall'Agip e denuncia il carattere sostanzialmente monopolista dell'azienda di Stato che fin dalla sua nascita, ventidue anni prima, ha di fatto impedito ai privati la ricerca e la produzione di idrocarburi. Ora il monopolio anche formale non potrà non imporre prezzi alti, anche perché l'Agip non dispone dei colossali mezzi finanziari necessari per perforare un'area tanto vasta. A sostegno delle loro tesi gli industriali portano argomenti economici, geologici e perfino politici, citando, ad esempio, il ministro Lombardo che così si era espresso un mese prima alla Camera: «A parer mio nel decorso ventennio, l'Ente statale ha ritardato, per una errata politica monopolizzatrice, il ritmo di sviluppo delle ricerche e delle coltivazioni». Ma l'argomento più ricorrente in
quella riunione è ideologico: «L'arrembaggio e il parassitismo costituiscono il tarlo roditore della gestione pubblica dell'industria». Intanto però a Mattei non mancano le gratificazioni private: il 21 novembre del 1949 il Consiglio comunale di Matelica delibera di conferirgli la cittadinanza onoraria, che però, nonostante le sue frequenti visite alla famiglia, gli verrà «consegnata» solo nel 1953 - ancora molti, nella cittadina marchigiana, 165 arricciano il naso a sentir nominare «il figlio del maresciallo dei carabinieri», figuriamoci poi dargli un'onorificenza. Il figlio adottivo di Matelica ringrazia comunque con prodigalità: 300.000 lire per la sistemazione degli spogliatoi del campo sportivo - «ai miei tempi non c'erano neanche le docce», dirà - ma soprattutto il completo progetto per l'impianto e l'esercizio di distribuzione del gas da parte della Metano Città di cui è presidente. La spesa ammonta a ben 60 milioni di lire. La dura battaglia politica naturalmente è manna per i giornali italiani, i cui editori, oltre tutto, hanno spesso interessi diretti, economici o politici, nella vicenda petrolifera. Infatti spesso la stampa, soprattutto quella del Nord generalmente controllata dagli industriali, si mostra ostile all'Agip. E Mattei ne soffre, ha l'impressione che «i giornali confindustriali», trascurino i suoi successi ed esagerino le difficoltà. Una sera a Roma, durante una cena con alcuni amici sulla terrazza dell'Hotel Eden, dove viveva con la moglie Greta, la conversazione cade sulla vicina Villa Malta, presa in considerazione come possibile sede di rappresentanza dell'Agip. Uno degli ospiti racconta a Mattei che quella villa è stata rifugio del principe von Bulow, ambasciatore di Germania a Roma e cancelliere del Reich ai tempi di Guglielmo II. «Persona di grande intelligenza, cultura e senso dell'umorismo» racconta ancora l'informatissimo commensale. «Pensi che aveva il vezzo di raccogliere in un volume le caricature che gli erano dedicate dalla stampa. E più erano cattive, più gli piacevano e con civetteria sublime mostrava il volume ai suoi ospiti.» Mattei ha una folgorazione: «Questa sì che è un'idea. Noi faremo con i ritagli dei giornali ciò che von Bulow ha fatto con le caricature. Ma non ci accontenteremo di tenere il volume chiuso in uno scaffale; ne tireremo decine di migliaia di copie che distribuiremo gratis, come i volantini pubblicitari. La gente potrà mettere a paragone le critiche e i risultati. Sarà la migliore pubblicità; sarà la nostra vendetta democratica: e il bello è che la insegna un principe». Una splendida idea, straordinariamente moderna, ma per il momento tutto finisce lì a quell'intuizione. Gli tornerà in men166 te qualche anno dopo, in un altro periodo di grande contrapposizione politica, nel 1956. «È arrivato il momento di mostrare alla gente cos'è la grande battaglia cartacea del metano, gli attacchi furibondi contro l'azienda di Stato, mostrare di che pasta sono fatti i nostri critici.» Sarà così dato alle stampe il primo volume di Oro Nero, «documentario della campagna di stampa contro l'azienda petrolifera di Stato» a partire dal 1949. L'ultimo volume, il trentaseiesimo, sarà pubblicato nel 1963, poco tempo dopo la morte di Mattei, con una prefazione commemorativa di Marcello Boldrini. Ma intanto il fronte dei privati vince un'importante battaglia in Sicilia: l'Assemblea regionale, grazie allo statuto di forte autonomia, vara il 20 marzo del 1950 una legge mineraria -il parlamento nazionale tarderà ancora tre anni prima di darne una all'intero paese. È una legge fortemente liberista, grazie alla quale in Sicilia qualsiasi privato può chiedere e ottenere la concessione per cercare il petrolio e sfruttarne le fonti, su un territorio fino a 100.000 ettari e per la durata di 30 anni. I lavori devono cominciare entro 3 anni dal rilascio della concessione. Il canone va dal 4 al 20% del valore del materiale estratto. In base a questa legge le prime concessioni sono rilasciate a Elmer Thomas della Gulf Oil. Giorgio Bocca, a lungo giornalista del «Giorno», fondato da Mattei nel '56, descriverà Thomas «un trafficante texano che aveva come socio in affari il principe
Nicola Pignatelli di Aragona; i due andavano insieme a Palazzo dei Normanni, sede della Regione siciliana, il principe vestito da Caraceni, Thomas con un fez rosso in testa perché diceva di essersi fatto musulmano». Nel 1953 la Gulf Italia, appositamente costituita, trova il petrolio, abbondante e di buona qualità: per due anni vengono estratte un milione e mezzo di tonnellate all'anno. Quell'area, che nel '60 sarà ceduta all'Agip, produce ancora. Mattei è spaventato da questo pericolosissimo precedente e passa al contrattacco. Appena un mese dopo l'approvazione della legge mineraria siciliana riesce a portare De Gasperi in visita a Cortemaggiore. L'evento è ben preparato: le maestranze, senza distinzione di appartenenza politica o sindacale, scandiscono tutte gli stessi slogan, si comportano come un or- 167 ganismo compatto e unitario, dando al capo del governo un'impressione di grande forza ed entusiasmo: inneggiano a Mattei, rivendicano i successi, il lavoro fatto e quello ancora da fare, mettono in guardia contro la «rapacità» dei privati e degli stranieri. Mattei parla con rispetto ma con fierezza e fermezza: «Tutti i lavoratori dell'Agip chiedono una legge che affidi all'azienda di Stato il compito di esplorare le strutture sepolte di idrocarburi nella valle del Po, col compito di farle emergere e destinare il contenuto a beneficio di tutti, e non di una parte soltanto della collettività nazionale». Ma non esagera, non mostra arroganza, trova il tono giusto contemperando patriottismo con interessi aziendali e lealtà politica: «Noi tutti abbiamo fiducia nella giusta ed equa soluzione che vorrà adottare il governo». In quel clima e di fronte a quella sapiente manifestazione di forza, De Gasperi non può fare altro che stare al gioco, assecondare le richieste: «Vogliamo che questa impresa non sia, come tante altre, più o meno lecitamente rivolta ad accrescere la ricchezza di imprenditori privati o di azionisti». Nel maggio del '50 il governo presenta un disegno di legge che istituisce l'Ente Nazionale Idrocarburi (Eni) a cui è concessa l'esclusiva della ricerca in Val padana. La completa vittoria di Mattei, però, è ancora lontana, le resistenze al monopolio restano fortissime e la legge sarà approvata solo tre anni dopo. Intanto, però, le raffinerie nascono come funghi qua e là per la Penisola. I privati e gli stranieri, per resistere al monopolio e restare sul mercato decidono di moltiplicare la capacità di raffinazione in Italia: dai 3,2 milioni di tonnellate nel '48 passa ai 7 del '51. Si fanno le ossa petrolieri come Moratti, Garrone e Monti. Entrano in produzione gli impianti dell'Api a Falconara, della Sarpom a Trecate, della Condor Shell a Rho, della Sa- rom a Ravenna, della Rasiom ad Augusta. Spesso la costruzione di queste mostruose cattedrali del petrolio avviene al prezzo di spaventose devastazioni del paesaggio, in cambio di un impiego di mano d'opera relativamente basso: un albergo ad Augusta sulla splendida costa fra Catania e Siracusa, avrebbe dato più lavoro, salvato l'ambiente e forse creato maggiore ricchezza. Ma in quegli anni l'industrializzazione 168 Mattò. era considerata, a sinistra forse più che a destra, un totem al quale sacrificare qualsiasi altro valore e ogni considerazione di opportunità. Nel 1950 si svolge a Roma, in Campidoglio, il congresso della Fivi, la Federazione italiana volontari della libertà che raggruppa gli ex partigiani democristiani, liberali, monarchici e moderati in genere. Sono lontani i giorni tempestosi del 1948, con una infuocata campagna elettorale, l'attentato a Togliatti, la scissione sindacale, i rischi di guerra civile. Ma lo scontro politico non si è placato. Il Pci e i suoi alleati socialisti (Pietro Nenni allora era in ottimi rapporti con Stalin, che forse si fidava più di lui che di Togliatti) sono sempre molto aggressivi. La situazione generale è tutt'altro che stabilizzata. «Se i comunisti contano sulla loro quinta colonna» dice Mattei ai «suoi» Fazzoletti verdi «devono sapere che noi saremo la quarta ... Gli antichi partigiani sono pronti a dare una mano alle forze dell'ordine per mantenere la patria e la libertà.» È una esplicita dichiarazione di disponibilità anche allo scontro militare, se necessario, facendo evidentemente affidamento su quella struttura clandestina di «Stay- Behind» collegata all'Alleanza atlantica e che prenderà il nome convenzionale di Gladio,
della cui esistenza, anche in certi interventi di Mattei, si erano avuti i primi segnali proprio nel '48. Mattei dunque ha finanziato Gladio? «Non lo si può affermare con certezza. È certo, comunque, che ha sostenuto le associazioni di ex partigiani anticomunisti che a Gladio hanno contribuito», spiega Raffaele Morini, partigiano democristiano pavese che fra i 15 e i 16 anni fece la guerra di Liberazione al fianco di Mattei e divenne poi dirigente della Fivi e direttore del giornale dei partigiani cristiani «Mondo Libero». Negli anni dell'Eni fra gli uomini della guardia del corpo di Mattei ci sarà anche un «gladiatore», Giulio Pauer. La battaglia per l'Agip, però, non è solo politica. È anche industriale e tecnologica. Mattei sa benissimo che presto la competizione si trasferirà su questo terreno e sa che questo aspetto della sua attività di manager sarà uno dei principali oggetti di critica e di polemica dei suoi nemici. Per mettere mano all'am169 modernamento dell'azienda, Mattei si serve delle risorse finanziarie provenienti dal metano ma anche di un controllato indebitamento e dell'entusiasmo e della competenza di Zan- matti e dei suoi ingegneri. Dal 1948 ha completamente rinnovato gli impianti e le attrezzature per la ricerca, la perforazione e l'estrazione. Ha allestito laboratori modernissimi al servizio dei tecnici in ogni fase produttiva. Ha dato molta importanza all'addestramento delle nuove maestranze, quasi tutte provenienti da altri settori. Ha programmato e riorganizzato la produzione in modo da poter procedere contemporaneamente allo sfruttamento dei giacimenti e all'esplorazione con le tecnologie sismiche che avevano permesso la scoperta di Caviaga. Comincia ad introdurre tecniche americane, allora considerate rivoluzionarie e spesso guardate con italico scetticismo, di valutazione e di definizione delle funzioni e di valutazione del lavoro: job description e job evaluation. Con questi nuovi procedimenti, nel 1949 l'Agip perfora 14.000 metri e l'anno successivo quattro volte tanto, scoprendo molti nuovi giacimenti metaniferi. Al pozzo di Cortemag- giore, che eroga 100.000 metri cubi di gas al giorno, si affiancano quelli di Conegliano, Pontenure, Bardolano, Correggio e Ravenna, che complessivamente producono tre miliardi e mezzo di metri cubi. Ormai l'apertura di un nuovo campo metanifero non è accettata con malcelata delusione, come un ripiego di cui bisogna accontentarsi, come accadeva fino a poco tempo fa, quando il vero oggetto del desiderio era il petrolio. Ora il gas si vende e porta in cassa soldi che servono a finanziare lo sviluppo dell'azienda. A condizione, naturalmente, che insieme alla produzione cresca la rete di distribuzione. Fin dal '48 le industrie della Bergamasca sono collegate con Caviaga. Nel '49 è completato il gasdotto Caviaga- Sesto San Giovanni- Milano. Dai primi mesi del '50 i lavori di sviluppo della rete di metanodotti diventano addirittura frenetici, aumentando anche la portata delle condutture esistenti. Infatti, se nel '48 vengono posati 257 chilometri di tubi, l'anno seguente la rete è di 373 chilometri, nel '50 si passa a 706, nel '51 a 1268, nel '52 a 2064; mentre aumenta anche il diametro, cioè la portata, dei tubi: da 170 121 millimetri fino a 179. L'incremento dell'erogazione (e del fatturato) è perciò esponenziale: negli stessi anni da 20 milioni di metri cubi a 1 miliardo e 200 milioni. Alla fine del '52 sono approvvigionate di gas naturale Milano, Pavia, Novara, Varese, Bergamo, Lecco, Cremona, Brescia, Parma, Reggio Emilia, Torino, Verona, Mantova, Vicenza, Modena, Bologna e moltissimi centri minori. In questi anni il 90% del metano è consumato da imprese industriali, sostituendo le fonti di calore tradizionali: carbone, gasolio e, soprattutto, la costosissima energia elettrica. La prima importante industria a collegarsi con la rete Snam per utilizzare il metano è un'industria alimentare, la Polenghi Lombardo. Come sempre, a fare la parte del leone sono poche grosse industrie: appena più del 3% degli utenti, infatti, consumano oltre la metà della produzione totale. È perciò inevitabile che i più grandi fra i consumatori di metano aspirino alla concessione per diventare «autoproduttori», cioè per produrre in proprio il combustibile
necessario a far andare avanti la fabbrica. È un buon argomento a favore delle tesi stataliste e monopoliste di Mattei. Gli imprenditori privati del Nord, ribatte infatti il vicepresidente dell'Agip, finirebbero così per avere a disposizione energia a basso costo in un'area già industrializzata che perciò sarebbe ulteriormente avvantaggiata rispetto al Sud, mentre solo lo Stato, solo un'azienda di Stato, può avere interesse a portare o cercare nuove fonti energetiche come il gas anche nel Mezzogiorno per incentivarne l'industrializzazione . In realtà l'offerta di metano, almeno nei primi anni, è ben più alta della domanda. Ma questo non è un problema per un venditore nato come Mattei: per qualche mese, infatti, si assiste al fenomeno, per quei tempi molto singolare e osservato con curiosità e spesso con sarcasmo dalla stampa internazionale ma che oggi non desterebbe alcuna meraviglia, di inserzioni pubblicitarie sui giornali e di rappresentanti della Snam che offrivano metano alle industrie. C'è poi il problema, tutt'altro che secondario, di stabilire il prezzo di vendita di questo gas. Secondo Mattei, lo abbiamo già visto, il metodo classico, costo di produzione più costo di 171 distribuzione più margine di guadagno, non è praticabile da un'azienda di Stato creata invocando interessi generali e finalità sociali: il metano risulterebbe il combustibile di gran lunga più conveniente, dando un enorme vantaggio competitivo alle imprese che per la loro collocazione vengono raggiunte dalla rete Snam, rispetto alle altre costrette ad utilizzare combustibili tradizionali. Non resta altro da fare, dunque, che mantenere il prezzo al livello del più diffuso di questi combustibili, l'olio minerale. È quello che in realtà Mattei già fa fin dal 1947, vinta la battaglia politica contro lo smantellamento dell'Agip. Nonostante questa maggiorazione «politica» del prezzo, tuttavia, il metano mantiene una sua convenienza: riduzione dei costi di produzione e migliore qualità dei prodotti finiti grazie alla mancanza di residui della combustione. Il più convincente argomento di vendita utilizzato da Mattei è questo: sostituendo la nafta con il metano si può ottenere un risparmio che va dal 15 al 30%, se il combustibile rimpiazzato dal gas è il carbone l'economia può arrivare fino al 50%. Ma il vero problema, che presto dimostrerà anche una forte valenza politica, è un altro: chi beneficerà di quella che Mattei e Boldrini ora chiamano pudicamente, e un po'"ipocritamente, «rendita naturale» e dalla quale si è voluto escludere il più legittimo destinatario, cioè il consumatore? La risposta è implicita nella motivazione di questa scelta: la «rendita naturale» deriva da quella che, sempre secondo Mattei e Boldrini e in base alla teoria di Luigi Faleschini, è una «tassa di perequazione», quindi il destinatario non può essere che la stessa struttura pubblica che la genera, cioè l'Agip. In realtà questi criteri di definizione del prezzo di vendita del metano, più «politici» che industriali, lasciano a chi li stabilisce, e cioè a Mattei, una enorme discrezionalità nel definire le risorse finanziarie dell'Agip e quindi un'altrettanto grande autonomia nella loro gestione. Mattei avrà a disposizione una crescente quantità di denaro che utilizzerà nei suoi rapporti con i partiti, in particolare col suo partito, la Dc. Cosa che fa già da qualche anno, da quando ha cominciato a vendere il metano. 172 Mattei Secondo uno studio di Fulvio Bellini e Alessandro Previdi, ripreso da Giorgio Galli, «il metano di Caviaga costava a bocca di pozzo dai 70 centesimi a una lira al metro cubo, il trasporto incideva per altri 60-80 centesimi. Mattei lo vendeva ad un prezzo oscillante fra le 8 e le 12 lire al metro cubo, con un profitto del 300-500%. Nel periodo 1948-1951 l'Agip realizzò con il metano utili per circa 20 miliardi di lire». Dow Votaw nel suo libro del 1965, Il cane a sei zampe. Mattei e l'Eni. Saggio sul potere, fa un calcolo diverso ma la sostanza della situazione non cambia: nel 1948 l'Agip avrebbe ricavato dalla vendita del metano 280 milioni di lire, nel '49 un miliardo e 60 milioni, nel '50 tre miliardi e 50 milioni, nel '51 sette miliardi e 270 milioni, per un totale nel quadriennio di oltre 11 miliardi e mezzo. Nel 1952, anno precedente alla istituzione dell'Eni, secondo Votaw il gas avrebbe portato
nelle casse dell'Agip più di 12 miliardi di lire. Tutti gli autori di studi come questi, mentre sostengono che «gran parte di questi utili» (non tutti, quindi) sono reinvestiti nell'attività aziendale, ammettono anche che è difficile stabilire su quali margini effettivamente Mattei lavorasse. La verità è che i ricarichi sul prezzo del gas minerale erano tali da permettere al patron dell'Àgip le più disinvolte operazioni finanziarie, come storni di cassa, costituzione di fondi neri, finanziamenti occulti. Nell'ottobre del 1950 prende fuoco il pozzo 18 di Cortemag- giore. Non è il primo incidente di questo genere, le condizioni di sicurezza in cui si lavora in questi anni pionieristici ed entusiasmanti, sono piuttosto approssimative, quello che conta di più è la produzione. Ma quell'incendio, particolarmente drammatico, grandioso e spettacolare, rimane nella storia e nella memoria dei «pionieri» dell'azienda. Anche quell'incidente diventa pretesto per la polemica sul ruolo dell'azienda petrolifera di Stato: «Hanno affrontato l'incidente con prontezza e competenza» scrive con sarcasmo il quotidiano economico- finanziario organo della Confindustria «Il Sole». «Infatti hanno inviato un cablogramma a Mr Miron Kinley, Oklahoma, specialista in spegnimenti di pozzi e Mr Kinley è già al lavoro ... Ma gli americani telegrafano a Mr Kinley una volta 173 ogni mille pozzi, mentre a quelli dell'Agip ... su quaranta pozzi ne sono già saltati quattro.» In occasione di questi incidenti, effettivamente un po'"troppo frequenti, gli attacchi non vengono solo da destra. Quando prende fuoco il pozzo 14, il quotidiano del Pci «L'Unità» riferisce che tanta gente ha abbandonato le case nei paraggi dell'incendio e che gli operai addetti al pozzo non nascondono di essere stati costretti a lavorare con materiale vecchio e malridotto. Tuttavia Mattei, almeno nei primi casi, riesce a trasformare anche questi incidenti in occasioni propagandistiche in suo favore, perché se tanti pozzi prendono fuoco «vuol dire che nel nostro sottosuolo c'è qualcosa di buono» e che bisogna investire di più per ammodernare gli impianti ed aumentare la sicurezza. Il 1° dicembre, infine, salta il pozzo 21 di Cortemaggiore. Ricorda Giovanni Bini: «Mia moglie ed io tornavamo a Milano in treno da Roma, dove eravamo stati per il Giubileo del 1950. Era notte e già molti chilometri prima di Piacenza si vedeva a nord l'orizzonte illuminato da una luce sinistra. Quando fummo all'altezza di Cortemaggiore vedemmo l'incendio del pozzo: uno spettacolo grandioso e terrificante. Un'unica gigantesca fiamma si avventava verso il cielo con la potenza cieca di un evento naturale. Superava i 100 metri di altezza. Una visione apocalittica, indimenticabile. Non sapevo ancora che quattro mesi dopo sarei entrato a far parte proprio della Snam». Il pozzo 21 brucia per settimane senza che gli uomini di Mattei riescano ad aver ragione dell'incendio. Dopo dieci giorni e dieci notti di lavoro febbrile, con le più moderne attrezzature fatte arrivare urgentemente dagli Stati Uniti, anche Mr Kinley è costretto ad arrendersi. Lo fa con un telegramma: «Sorry, mister Mattei. Fatto il possibile. Questa volta non si può. Penso che lei ha nuovo Vesuvio». L'italiano è approssimativo e la metafora del Vesuvio completamente fuori luogo, giacché il vulcano, pur attivo, da anni ha rinunciato a manifestare la propria attività, mentre il pozzo 21 continua imperterrito a bruciare. Mattei ormai, giorno dopo giorno, è al centro di un tiro incrociato sempre più impietoso e violento. Gli piovono addosso da tutte le parti accuse pesanti di faciloneria, in174 Mattei competenza, pressappochismo, sperpero di denaro pubblico. Fra i politici l'unico che gli resta accanto e gli manifesta concreta solidarietà è il suo amico Vanoni, che però lo avverte senza remore che a Roma in molti seguono la vicenda di quell'incendio aspettando che il pozzo 21 finisca per «bruciare» anche Mattei con la sua arroganza e il suo avventurismo. Ma lì dove ha fallito la tecnologia e la professionalità made in Usa riescono la genialità, la tenacia e il «dilettantismo» italiani. Qualcuno, rimasto sconosciuto, dei tecnici da settimane impegnati allo spasimo in quella che passerà alla storia dell'Agip come «la battaglia del 21», ha un'idea: scavare un altro pozzo ad un
centinaio di metri da quello che brucia, scendere di 1000 metri circa, poi andare in diagonale fino alla base dell'eruzione, che si trova a 1500 metri, in modo da scaricare il metano dal secondo pozzo. Mattei ci sta: «Proviamo anche questa, non abbiamo niente da perdere». Si lavora con la forza della disperazione. A scavo ultimato la fiamma comincia a deperire, e rapidamente si placa fino ad estinguersi. La battaglia è durata 66 giorni. Mattei ha ora buon gioco a ritorcere contro i suoi nemici le accuse maramaldesche che gli erano state scagliate addosso, dando a questa rivincita la massima enfasi propagandistica: «I tecnici dell'Agip sono di altissimo livello» afferma «sopperendo con la genialità e lo spirito di sacrificio alle carenze tecnologiche. E infine l'incendio del pozzo 21 ha dimostrato una volta per tutte che il sottosuolo padano è una cassaforte aperta». Per più di due mesi quella battaglia è stata seguita con passione dall'opinione pubblica. Nessuna campagna pubblicitaria, neppure la più costosa, avrebbe avuto la stessa efficacia per convincere gli italiani dell'esistenza e della potenza del metano di casa nostra. Da quel momento l'Agip non ha più bisogno di promuovere la diffusione del gas minerale. La domanda supera abbondantemente l'offerta, la costruzione di metanodotti non riesce ad accontentare le richieste dell'utenza. «Ormai il gas va via come il pane», racconta Mattei a Pietra. Anche il clima politico è più favorevole a Mattei. Le posizioni stataliste e antiliberiste diventano sempre più forti nella 175 Dc, la cui componente di sinistra, quella più vicina al patron dell'Agip, acquista un peso sempre più rilevante nel partito. In un convegno di giuristi cattolici, nella primavera del 1951, Dossetti si scaglia contro il liberismo e il «corporativismo affaristico» esortando a non aver paura di usare lo Stato, «comunità e bene comune», per riformare la società. L'unico a tentare di resistere a questa onda di piena statalista è un altro democristiano, un democristiano molto particolare e atipico, il fondatore del Partito popolare, don Luigi Sturzo, siciliano di Caltagirone, che nel '50, come abbiamo visto, aveva fatto approvare con un consenso quasi unanime dall'Assemblea regionale siciliana una legge petrolifera di segno opposto, marcatamente liberista e aperta alla concorrenza anche straniera. Qualche critica arriva anche da sinistra, da Parri, ad esempio. Solo al suo compagno di lotta partigiana Mattei evita di rispondere, altrimenti ne ha per tutti, con abili interventi alla Camera o con articoli sui giornali. In uno in particolare, sul «Corriere della Sera», sentendosi ormai abbastanza forte, assume una posizione decisa, quasi ultimativa anche nei confronti del governo: «Il sottosuolo padano è una cassaforte aperta» scrive riprendendo uno slogan che gli è caro. «Io mi sono assunto le mie responsabilità, fin dal 1945 ... Oggi spetta al governo prendere le sue decisioni sulla questione del petrolio.» Queste vittorie di Mattei, politiche e d'immagine, non possono certamente bastare per fermare le ambizioni delle compagnie americane. Ralph P. Bolton, rappresentante in Italia della Standard Oil Company of New Jersey, la futura Esso, che dopo anni di studi era convinta delle forti potenzialità petrolifere dell'area, fa subito conoscere al governo di Roma la propria determinazione a partecipare alle ricerche in Val padana, esercitando una sensibile azione di lobby. Il 5 marzo Bolton scrive a De Gasperi lamentandosi, con toni persino vagamente minacciosi, dello «sfavorevole atteggiamento del governo* verso l'industria privata», come dimostrano le domande di proroga e di permessi inoltrate dal 1946 e rimaste senza risposta, mentre «risulta che la validità dei permessi di ricerca • Il ministro dell'Industria è Giuseppe Togni. 176 Mattei Agip in Val padana sia stata recentemente prorogata ... questo viene considerato dagli azionisti americani come una vera e propria discriminazione non consentita dal trattato di amicizia e di commercio stipulato ... fra i governi italiano e americano, costringendoli a chiedere tutela e appoggio alle autorità di Washington». Nel 1947 la Standard New Jersey arriverà a chiedere una concessione per tutta la Pianura padana.
A rendere possibili aspettative e pressioni così forti, e talvolta indubbiamente arroganti, è la mancanza di regole chiare e precise su tutta la materia petrolifera. Se ne parla da tempo, ma non si è fatto ancora nulla. Mattei, che più di tutti ha bisogno di un quadro normativo ben definito per mettere al sicuro la «sua» Agip, continua a premere sui politici a lui più vicini. Finalmente nel luglio del 1951 i ministri Togni, Pella e Vanoni presentano tre disegni di legge per dare una regolamentazione organica alla ricerca petrolifera e alle attività connesse. Il primo disciplina la ricerca e la coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi. Il secondo mette ordine nella costruzione e nell'esercizio degli oleodotti. Il disegno di legge più importante è il terzo, del quale non a caso è autore Vanoni, il politico più vicino a Mattei: riguarda l'istituzione dell'Ente Nazionale Idrocarburi, definendone compiti e attribuzioni. Rappresenta il futuro del petrolio italiano e di Mattei, che pensa di essere finalmente a due passi da questo nuovo e decisivo traguardo: pur conoscendo i tempi della politica italiana, non immagina che ci vorranno ancora due anni prima che l'Eni veda effettivamente la luce. È ormai indispensabile, spiega Vanoni nella relazione che accompagna il disegno di legge, coordinare gli interventi dello Stato in materia petrolifera, dopo decenni di provvedimenti dettati dalle necessità del momento, col risultato di una sovrapposizione di competenze e di interferenze d'azione. Bisogna perciò creare un «coordinamento sul piano nazionale delle società e degli enti disciplinati e un loro riassetto per rami economici omogenei». Ma quello che più sta a cuore a Mattei è che all'Eni si concede l'esclusiva per la ricerca e lo sfruttamento degli idrocarburi nella Pianura padana e su una larga fascia della costa adriatica. 177 L'ufficio di presidenza della Camera assegna il disegno di legge Vanoni alla decima commissione, che lo esamina in sede referente, cioè per discuterne i contenuti. Quindi, per la stesura definitiva da portare in aula, il provvedimento passa ad una sottocommissione di nove membri, della quale fa parte anche l'onorevole Mattei. Il dubbio che la sua presenza in quella commissione sia inopportuna non lo sfiora neppure. Nella relazione conclusiva il monopolio viene naturalmente definito «necessario intervento moderatore dello Stato rivolto a tutelare l'interesse generale». In sostanza la legge non fa altro, come accadrà spesso in Italia nei decenni successivi, che normare una situazione di fatto. Monopolio in Val padana, dunque, e ricerca libera altrove, senza precludere allo Stato, cioè all'Eni, la possibilità di intervenire ovunque. L'Eni sarà un ente di diritto pubblico raggruppante tutte le partecipazioni dello Stato nel settore petrolifero e con due esclusive, quella per la ricerca e l'estrazione in Val padana e quella per la costruzione e l'esercizio di condotte per il trasporto di idrocarburi liquidi e gassosi, cioè oleodotti e metanodotti. Per assolvere a questi compiti, che in realtà sono dei privilegi, all'Eni la legge attribuisce un fondo di 30 miliardi, per metà in beni mobili e immobili dello Stato, per il resto in denaro liquido da versarsi in quattro rate annuali. L'ente comunque è autorizzato a procurarsi ulteriori finanziamenti emettendo obbligazioni che saranno completamente esenti da imposte o tasse. Il dibattito in commissione è molto ampio, la riscrittura del testo impegnativa e laboriosa; ma in aula, alla Camera dei deputati, tutto è fin troppo tranquillo, non vi sono interventi di rilievo, quasi non c'è dibattito, come se si desse l'esito per scontato. L'opposizione infatti svolge un ruolo più formale che sostanziale, anche perché una grande maggioranza, quasi tutto il centro e quasi tutta la sinistra, è favorevole alla legge. Perfino le pressioni dei grandi gruppi industriali come Montecatini, Falck, Edison e Standard Oil sembrano più finalizzate ad ottenere qualche concessione o contropartita che a mettere in discussione il principio del monopolio di Stato, col quale anzi sembrano ben disposti a convivere. È un comportamento opportunistico a cui la grande industria italiana resterà 178 fedele per i prossimi decenni, accettando in cambio protezioni e sovvenzioni.
Le poche coscienze liberali evidentemente non si rendono conto che dalle ceneri dello statalismo fascista sta nascendo la più potente e incontrollabile entità statalista dell'Italia repubblicana, la madre del sempiterno capitalismo di Stato italiano, ma anche di quell'inestricabile commistione fra economia e politica che esploderà nel 1992 con le inchieste di «Mani Pulite». L'unico che continua a levare inascoltati e quasi patetici ammonimenti in questo senso resta don Sturzo, che aspetta al varco la legge dal suo scanno di senatore. La Camera approva definitivamente il provvedimento l'8 luglio del 1952, un anno dopo la sua presentazione, con 269 voti favorevoli, 53 contrari e 65 astenuti fra cui i comunisti. Mattei è raggiante ma scalpita, secondo lui «le cose vanno troppo per le lunghe». Il 12 luglio il testo passa al Senato. L'esame in commissione comincia in autunno e anche qui il dibattito è approfondito. Al rientro dalle vacanze natalizie, il 10 gennaio del 1953, va all'esame la relazione di minoranza presentata dal senatore Luigi Sturzo, durissima contro la legge che istituisce l'Eni. Per il fondatore del Partito popolare è semplicemente una battaglia di libertà: «Parlo, scrivo, combatto perché ho difeso e difenderò finché avrò fiato la libertà. Questa posizione mi porta alla critica di quel che, secondo me, è un indebito predominio dello Stato sulla collettività; un dannoso vincolo legale o legalizzato al quale per prepotenza o per ignoranza, è sottoposto il cittadino italiano. Ecco perché combatto tutti gli enti statali e parastatali che abbondano di privilegi, abusano del potere economico e delle protezioni politiche, invadono con sempre crescente ritmo l'ambito dell'iniziativa privata, preparando ed attuando una specie di socialismo di Stato, o di statalismo sociale che dir si voglia». Il fondatore del partito dei cattolici in tema di libertà economiche, ma anche di autonomie locali e in generale di difesa dall'invadenza dello Stato, sostiene ormai posizioni che nulla hanno in comune con quelle della Dc, sempre più statalista e centralista. Per don Sturzo alla perdita della libertà economica segue 179 fatalmente la perdita della effettiva libertà politica, giacché il parlamento finisce per abdicare alla burocrazia, ai sindacati, agli enti economici che avrebbero formato la struttura del nuovo Stato. Sturzo si scaglia contro Mattei, indicandolo come l'esempio più rappresentativo di quella mentalità che ha rinunciato alla libertà economica, una mentalità che si era formata agli inizi del secolo, favorita dal clima della prima guerra mondiale e che poi con il fascismo era giunta alla piena maturazione: «Il fascismo, che come dittatura era un monopolio politico, come indirizzo favoriva tutti i monopoli economici piccoli e grandi purché portassero l'emblema del littorio». Quello che più preoccupa Sturzo è il carattere giuridico dell'Eni che, come ente di diritto pubblico, viene «posto al di sopra delle imprese similari di carattere privato, in un settore tipicamente industriale commerciale»; ma anche la sua natura monopolistica in un'attività dai confini indefiniti e dai collegamenti pervasivi. Teme - e i fatti gli daranno ragione - che si ripeta quello che sta accadendo con l'Iti, che costituito dal fascismo nel '33 per far fronte alla crisi del sistema bancario e industriale, è andato rapidamente espandendo la sua presenza diventando una vera e propria holding conglomerata di Stato. Il dissenso di Sturzo in realtà preoccupa pochissimo Mattei, che prima di allora non ha avuto rapporti con quel sacerdote e che considera il «suo» partito quello di De Gasperi, Gronchi, Vanoni. Quest'ultimo, in particolare, si va rafforzando sempre di più, tanto da essere considerato il ministro più potente, tanto da insidiare lo stesso presidente del Consiglio. Oltre a Sturzo, che fino alla fine resterà indomabile nemico politico e ideologico dell'Eni, pochissimi altri ingaggiano una vera battaglia contro la nascita dell'ente di Stato. Fra questi, da posizioni rigorosamente liberiste, il senatore Pasquale Jan- naccone, per il quale gli enti statali sono come tumori, che i quando sono maligni tendono a riprodursi in ogni parte del corpo. Ma soprattutto, per l'anziano economista è da dimostrare che la ricerca e la
coltivazione di idrocarburi da parte dello Stato portino ad una maggiore produzione a minori costi. E profetizzava: «L'Agip è un monopolio della Democrazia cristiana, perciò domani lo sarà l'Erti». 180 Com'è prevedibile, Vanoni più di chiunque altro si impegna apertamente e con energia a favore dell'istituzione dell'Eni: «Limitatissimi gruppi» spiegherà qualche tempo dopo «avrebbero potuto intervenire in Italia in questo settore, per cui l'alternativa non era tra iniziativa privata e monopolio pubblico, quanto piuttosto ... fra monopolio privato e monopolio pubblico». In parlamento il ministro pronuncia un vero e proprio apologo dello Stato monopolista, quasi tracciando le linee di quell'ideologia statalista con cui la Dc, pur cambiando alleati, governerà l'economia italiana nei decenni successivi. Diversamente da come hanno fatto alla Camera, comunisti e socialisti stavolta votano contro. E non perché siano contrari alla creazione di un ente monopolista di Stato; anzi, tutt'altro. In realtà hanno capito che sta nascendo un potentissimo centro di potere e di finanziamento della Dc, e che essi rischiano di esserne tagliati fuori. Sanno che il loro voto contrario non ne impedirà la nascita, alla quale restano favorevoli, ma vogliono dare un forte segnale politico contro «un Eni tutto democristiano»: preferirebbero una prima forma di spartizione o, come si dirà più tardi, di «lottizzazione». La gestazione e la nascita dell'Eni vengono seguite con un allarme forse eccessivo e con aperta ostilità negli Stati Uniti. Non tanto negli ambienti politici quanto in certi circoli economico- finanziari particolarmente sensibili agli interessi dei petrolieri. Capitolo Undicesimo FINALMENTE ENI L'Ente Nazionale Idrocarburi (Eni) nasce con la legge istituti- ì va del 10 febbraio 1953, numero 136. Nell'Eni vengono riorganizzate tutte le partecipazioni statali nel settore degli idrocarburi: Agip, Snam, Anic, Stanic, Romsa, Ente nazionale metano e altre. Gli sono affidati in esclusiva, e quindi di fatto nazionalizzati, la ricerca e lo sfruttamento delle risorse petrolifere della Val padana. Da parte dello Stato gli viene assegnato un fondo di dotazione di 15 miliardi di lire nei primi 4 anni; la «dote» di partenza, quella erogata per il 1953, è di 30 miliardi, di cui 15 in contanti e 15 in immobili. Mattei ha ora a disposizione uno strumento formidabile, con le protezioni e l'autorevolezza dell'ente pubblico insieme all'autonomia e la libertà di movimento della holding industriale privata che può agire direttamente, non solo attraverso le sue società operative: dispone per legge di un fondo di dotazione, può emettere obbligazioni per reperire capitali, si autofinanzia con il metano. Una vera potenza economica strettamente connessa alla politica. Mattei mette subito mano all'organizzazione aziendale della neonata compagnia, per farne un'entità ben identificata e strutturata, funzionale ed efficiente, non una semplice holding ma, come ama dire, «una macchina da guerra». Per farlo si affida ad una grande società di consulenza aziendale americana: anche in futuro non esiterà a rivolgersi ai «nemici» americani quando avrà bisogno delle loro competenze o dei loro dollari. Il capo del personale, come molti altri dirigenti in quei primi anni di vita dell'Eni, è il generale Palombi, un uomo della Resi182 stenza, fidatissimo. Altri ex partigiani verranno impiegati nei servizi di sicurezza e controspionaggio del gruppo. Per la vigilanza e la sua tutela personale, Mattei si servirà di ex carabinieri. Un forte impegno Mattei mette nella scelta dei collaboratori, dimostrando una grande capacità nel valutare gli uomini e uno straordinario fiuto da talent scout: li vuole, e li trova, giovani, ricchi di talento, con capacità fuori del comune, moti- vatissimi, disponibili fino alla dedizione. Ne cercherà continuamente, fino alla fine: «Quando li trovo» racconterà al presidente della Fiat Vittorio Valletta
«li assumo anche se non ne ho bisogno, perché quando ne hai bisogno non li trovi». In dieci anni ne formerà centinaia: diventeranno alti dirigenti del gruppo o di altre aziende pubbliche, ma anche private. E poi grandi manager di Stato, studiosi di rango, esponenti politici. La ricerca comincia con «normali inserzioni sui giornali italiani, a cui seguono delle prove scritte e dei colloqui che Mattei conduceva personalmente. Così fui assunto io per l'ufficio studi. Cominciai scrivendo discorsi per Mattei», racconta ad esempio Marcello Colitti: sarà direttore della programmazione e dello sviluppo dell'Eni e al vertice di alcune delle più importanti aziende del gruppo. I tecnici, gli ingegneri li mandava negli Stati Uniti per almeno sei mesi a frequentare corsi di specializzazione. Più tardi l'Eni pubblica inserzioni anche su giornali stranieri, soprattutto americani: «Dobbiamo far tornare a casa i nostri ragazzi più in gamba», dice Mattei; ma è anche un espediente per mostrare all'estero il dinamismo dell'Eni e dell'Italia, con un moto d'orgoglio aziendale e nazionale. Gioacchino Albanese, ad esempio, si trova negli Stati Uniti, dove ha frequentato dei corsi postlaurea in prestigiose università, quando legge l'annuncio dell'Eni. Verrà assunto per una struttura esterna, un ufficio studi diretto da Franco Archibugi che non doveva apparire collegato al gruppo petrolifero, per studiare particolari situazioni del Terzo mondo: in realtà aveva il compito di stabilire rapporti con paesi produttori di greggio o comunque interessanti per la politica estera autonoma e parallela che l'Eni va sviluppando. Terrà rapporti praticamente clandestini con la Repubblica Centrafricana, la Nigeria, il183 Kenia e la Tanzania. Porterà i più importanti leader africani alla «corte» di Mattei, che li riceverà come un capo di Stato. Un altro canale di reclutamento è quello dei rapporti nati durante la Resistenza. Franco Briatico era nel Bresciano con le Fiamme verdi, formazione partigiana di estrazione militare e non politica. In quel periodo conobbe Mattei. Anche Briatico è di formazione cattolica, ama gli studi economici e dopo la guerra vuol fare il giornalista. Come Mattei è convinto che, assumendo una dimensione internazionale, l'Italia potrà diventare una grande potenza economica. Viene assunto nel giornale della Dc, «Il Popolo», poi nella piemontese «Gazzetta del Popolo», per passare quindi all'ufficio studi di Edison, diretto da un altro Mattei, Franco. Questa esperienza con il «nemico» lo rende ancora più interessante agli occhi del suo futuro capo: dal '54, dunque, si occuperà delle relazioni esterne dell'Eni diventando uno stretto collaboratore del presidente e perciò, come racconta, una «vittima della domenica», forse la più vessata. Infatti, quando non va a pescare, il capo lo convoca in qualsiasi ora nel suo appartamento romano all'Hotel Eden. Le stanze sono sempre in grande disordine, se compare Greta, sempre accompagnata dal cane Pierino, sgrida regolarmente il marito: «Come fai a ricevere gli ospiti in questo disordine?». Mattei resta impassibile. A quel punto arriva l'invito a cena, un invito che non si può rifiutare. E la domenica è completamente rovinata. Mattei va a scovare collaboratori anche nei ranghi degli apparati burocratici con cui ha a che fare. Di Egidio Egidi, giovane ingegnere del Genio civile di Macerata abbiamo già detto. Giorgio Fuà, poco più che trentenne, è già considerato un grande economista. Anch'egli marchigiano, anzi anconetano, in più cresciuto alla «corte» di un altro grande imprenditore dalla forte sensibilità sociale e straordinario scopritore di talenti, cacciatore e allevatore di intellettuali, Adriano Olivetti. «Ho conosciuto il marchigiano Mattei tramite un altro marchigiano, Marcello Boldrini» racconta Fuà. «Nel '54 lavoravo a Ginevra e volevo rientrare in Italia. Fulmineo Mattei mi fece preparare un contratto. In quegli anni assunsi all'Ufficio studi economici dell'Eni giovanissimi uomini come Cassese, Pedo184 ne, Spaventa, Ruffolo, Colitti, Leon, Magini, Bruni, Paretti, Forte ...» Crea un centro studi per sviluppare ad Ancona un polo universitario con l'Istao (Istituto Adriano Olivetti): punta sulla finalità sociale dell'impresa e sulla figura dell'imprenditore come leader, capo di uomini, proprio secondo le teorie di
Olivetti. Lascerà l'Eni nel '59, ma resterà consulente di Mattei fino alla fine. Quello di Leonardo Sinisgalli è un caso singolarissimo: è un genio della matematica, ma è anche un poeta: un geniale matematico- poeta, dunque. È stato il brillantissimo studente che Enrico Fermi avrebbe voluto con sé, fra i «ragazzi di via Pani- sperna» a studiare l'energia che scaturisce dall'atomo, ma nel '38 va a lavorare con Adriano Olivetti. Mattei lo chiama all'A- gip nel 1958 perché si occupi di pubblicità. Dunque: un genio della matematica, che è anche un poeta, viene assunto da un petroliere perché gli faccia da pubblicitario. Sembra un'idea assurda, ma è una dimostrazione della straordinaria capacità di Mattei di trovare soluzioni anomale e spregiudicate oltreché di grande efficacia. Sinisgalli infatti è un pubblicitario di straordinaria creatività: viaggia molto, sta in mezzo alla gente, vuole sentire con le sue orecchie cosa si dice del «cane a sei zampe». Al Cairo, per seguire il Congresso e la Mostra del petrolio arabo non ci va con un ingegnere o un geologo ma con un altro grande poeta, Giuseppe Ungaretti, nato ad Alessandria d'Egitto: «Mi ha dato tante idee e tanti spunti interessanti», spiegherà. Un'altra storia molto particolare è quella di Mario Pirani. È comunista, responsabile delle pagine economiche del quotidiano del partito, «L'Unità». La sua crisi politica comincia nel '56 con la rivolta d'Ungheria e si trascina fino al '59, quando Mattei gli offre di lavorare nel suo staff. Gli fa quindi una proposta entusiasmante: andare a Tunisi a fare, in sostanza, dietro la copertura di un ufficio stampa, l'ambasciatore dell'Eni in Nord Africa. In particolare deve intrattenere rapporti con la nascente Algeria libera nella prospettiva di un grande accordo per portare in Europa il gas del Sahara algerino e per estrarre petrolio da quel ricchissimo deserto. Nel '61 sarà accreditato come «fiduciario» presso il Gpra, il Governo provvisorio alge- 185 rino. L'Eni gli fornisce vere e proprie credenziali, come se fosse un ambasciatore autentico: documenti di accredito in una cartella foderata di marocchino verde. A Tunisi, Pirani vive in una bella villa, Dar Jasmina (Casa dei gelsomini) a Gammarth, sul mare oltre Cartagine: riceve, organizza cene e feste, conduce un'intensa vita di rappresentanza. È perciò comprensibile che ricordi quell'esperienza, come «bellissima». Durò poco più di un anno, dal 1961 al 1962. Di «ambasciate» dell'Eni nel mondo ce n'erano altre: a Beirut, Washington, Buenos Aires. In quest'ultima andrà Pirani dopo aver lasciato Tunisi, sostituendo Giorgio Ruffolo. Anche Ruffolo è un economista, lavora all'Oece, a Parigi, dove un giorno incontra Fuà, capo dell'Ufficio studi economici dell'Eni. È un incontro informale, interessante sul piano umano e culturale, fra intellettuali che simpatizzano. Tutto sembra finire lì, ma dopo qualche settimana Ruffolo viene precipitosamente convocato all'Hotel Georges Quinto: Mattei gli fa qualche domanda sull'Oece, mostrando però poco interesse per le risposte. Passa poi inspiegabilmente a parlargli a lungo dell'Eni e della situazione petrolifera internazionale, infervorandosi. Ruffolo non capisce il perché. Passa un altro mese e viene convocato a Roma, dove il generale Palombi gli offre di lavorare all'Eni. Ruffolo, che pure è rimasto impressionato dalla personalità di Mattei, non ha alcuna intenzione di lasciare Parigi e risponde con un cortese «no, grazie». Palombi non si arrende: «Mi dica lei allora la cifra, l'incarico e le condizioni a cui accetterebbe». Ruffolo spara una richiesta assurda, spropositata, per avere la certezza che gliela respingano. «Mi dia qualche minuto», risponde invece il capo del personale. Torna dopo meno di un'ora: «L'Ingegnere dice che dobbiamo assumerla». Ruffolo entra nella squadra come vice di Fuà, poi sarà capo dell'Ufficio studi economici e relazioni esterne e svolgerà molte missioni all'estero. Lavora come un mulo, anche durante il fine settimana: «Ti capisco» commenta Mattei quando lo incontra in ufficio «cosa te ne fai sennò dei sabati? Ti annoi». Ma soprattutto diventa uno dei collaboratori più stretti del capo, col quale si sviluppa un'intesa fortissima. Ruffolo è un socialista di sinistra, molto critico verso il modello capitali186 Mattei
sta, crede in una funzione dirigista e programmatrice dello Stato esercitata anche attraverso le imprese pubbliche: nell'Eni vede un laboratorio, un percorso di sperimentazione di queste teorie. È soprattutto nei suoi rapporti con gli uomini, dai più stretti collaboratori fino ai fattorini e agli addetti ai distributori, che Mattei dimostra di essere un grande leader. Ha la straordinaria capacità di fornire a chiunque una motivazione forte, un formidabile senso della missione. Con Mattei non si lavora per lo stipendio ma per adempiere ad una missione, consapevoli tutti di partecipare ad un grande progetto: assicurare l'indipendenza energetica al paese; dare all'Italia, che sta lavorando duro per risorgere dalle rovine della guerra, tutta la forza necessaria. Un fine superiore che può motivare chiunque, agendo sulle leve del patriottismo, dell'economia, della socialità, della politica. E per di più Mattei, come tutti i grandi capi, dà istintivamente in ogni momento ai suoi uomini l'impressione di sapere esattamente cosa bisogna fare e dove bisogna andare, anche quando non è vero. Per controbilanciare il prevedibile strapotere di Mattei sul nuovo ente, il legislatore ha conferito tutti i poteri ad una Giunta esecutiva, la quale a sua volta dà al presidente le deleghe che ritiene opportuno: fino alla sua morte Mattei ebbe una delega sostanzialmente totalitaria. Il 4 marzo del '53, prima di essere nominato presidente dell'Eni, nomina della quale dunque è certo, Mattei si dimette da deputato. Lo fa in ossequio alla «legge sulle incompatibilità parlamentari» appena promulgata proprio contro Mattei ed altri esponenti della sempre più potente sinistra Dc, sindaci di grandi città o manager di aziende pubbliche. Se volesse, egli potrebbe aggirare anche quella legge. Di lasciare la Camera, in effetti, parla da tempo con Boldrini: «Appena riusciamo a vincere anche questa partita dell'Eni smetto di fare il deputato, non si può tenere il piede in due scarpe così impegnative; e poi non è più necessario». Ha ragione, non è più necessario. Siamo alla vigilia di importanti elezioni politiche, i suoi amici Gronchi e Vanoni lo Famiglia Mattei: il padre Antonio, maresciallo dei carabinieri, divenne famoso per la fortunosa cattura del brigante Musolino. Una foto di Enrico Mattei scattata negli anni Trenta. 5 maggio 1945: i capi del Comitato di Liberazione Nazionale sfilano a Milano. Da sinistra a destra, Giovanni Battista Stucchi, Ferruccio Parri, Raffaele Cadorna, Luigi Longo ed Enrico Mattei (allora con i baffi). (Foto Olycom/ Publifoto) Metanopoli, 12 aprile 1956. Mattei inaugura la prima parte della «cittadella della Snam» alle porte di Milano, realizzando così il sogno di attuare in Italia quello che aveva visto fare negli Stati Uniti dai maggiori gruppi industriali: una «grande casa» per l'azienda considerata «una grande famiglia». Per di più, nel suo caso, si trattava di un'azienda pubblica e questo, ai suoi occhi, ne rendeva la realizzazione ancora più significativa. Mattei in visita a uno stabilimento dell Agip nella seconda metà degli anni Cinquanta. \ L'arrivo all'aeroporto di Rabat nel 1958: il presidente dell'Eni si reca nella capitale del Marocco per incontrare re Mohammed Quinto, uno dei principali interlocutori della sua politica «terzomondista». Sotto: Mattei a colloquio con il sovrano, Mattei e Giorgio La Pira a una manifestazione di ex partigiani nel 1958. Il rapporto tra il fondatore dell'Eni e il «sindaco santo» di Firenze fu strettissimo.
I due personaggi rappresentavano le due facce della sinistra democristiana: quella efficientista, manageriale e tesa allo sviluppo il primo; quella idealista, dossettiana e pauperista il secondo. Li univa lo statalismo e il «terzomondismo» antiamericano. 25 aprile 1960: Enrico Mattei durante un comizio commemorativo in piazza del Duomo a Milano. (Foto Olycom/ Publifoto) Aleksej Kossighin, vicepresidente dell'Unione Sovietica, in visita in Italia nel giugno del I960, è accolto all'aeroporto milanese di Linate: in ottobre verrà firmato a Mosca il più importante accordo di collaborazione economica fra Urss e Italia, dal quale l'Eni trarrà i maggiori benefici. Mattei riceve a Matelica il benvenuto da una bambina dell"«Istituto Lega delle suore della Sacra Famiglia», in occasione di una delle sue frequenti visite. Mattei finanziava molto generosamente l'istituto con le sue risorse personali, impegnandosi poi a trovare un posto di lavoro alle ragazze in un'azienda dell'Eni. Dopo una conferenza stampa al Grand Hotel di Roma, Mattei conversa con alcuni giornalisti stranieri. Mattei all'aeroporto di Roma Ciampino. Nella primavera del 1961 Mattei visita la centrale nucleare dell'Agip in costruzione a Foce Verde, presso Latina: era convinto che l'indipendenza energetica dell'Italia Passasse anche attraverso il nucleare. La centrale sarà inaugurata nel 1962, Pochi giorni dopo la morte di Mattei e chiusa nel 1987 26 ottobre 1962: Mattei in Sicilia da Finalmente Erti 187 vorrebbero ricandidare per rievocare suo tramite, come nel 1948, il legame della Dc con la Resistenza. E anche perché ormai per l'opinione pubblica egli è un uomo di successo, uno dei protagonisti di questi febbrili anni della ricostruzione del paese. Ma Mattei, sempre consigliato da Boldrini, capisce che per fare politica, per influire sui partiti non ha più bisogno di un seggio in parlamento: ha a sua disposizione l'Eni, uno strumento finanziariamente e politicamente formidabile ed un apparato industriale in grande espansione, che sta diventando anche una cospicua riserva di posti di lavoro e quindi di clientele e di consenso elettorale. Con queste leve è facile agire dall'esterno sul sistema politico italiano, fondato su partiti molto strutturati, con sedi, funzionari e giornali, e quindi molto costosi; un sistema basato su un meccanismo elettorale proporzionale, cioè particolarmente sensibile ai rapporti clientelari. Naturalmente non ha nessuna intenzione di mettere in crisi il suo rapporto con la Dc, dal quale sa che dipendono in gran parte il futuro dell'Eni e il suo. Vuole anzi rafforzare il suo peso all'interno del partito. Dalle elezioni del 7 giugno 1953 la Dc esce fortemente ridimensionata. È una vera batosta per il partito, anche se mantiene la maggioranza relativa, e soprattutto per De Gasperi che aveva proposto l'adozione di un premio di maggioranza per assicurare stabilità ai governi. Una legge elettorale contro la quale il Pci, temendo di perdere parte del suo potere di interdizione e condizionamento dall'esterno della maggioranza, aveva scatenato una battaglia forsennata, la famosa campagna contro la cosiddetta «legge truffa». La batosta fa capire a tutti che nella Dc bisogna cambiare aria, rinnovare. De Gasperi viene accantonato piuttosto brutalmente: ammalato, morirà un anno dopo, il 19 agosto 1954. Al governo lo sostituisce Pella, uomo di orientamento liberale e
conservatore. Boldrini convince Mattei ad impegnarsi per contrastare questo che considera «un pericoloso riflusso verso destra». Mattei ancora una volta, come sempre quando ha bisogno di attingere nuove energie politiche, ricorre ai suoi ex compagni partigiani. Tutti concordano sulla necessità di fare qualcosa, di scuotere la Dc dal suo immobilismo. In particola188 Mattei re, Eugenio Cefis sprona Mattei all'impegno: è il suo più stretto collaboratore e ha una specie di delega a intrattenere i rapporti con il mondo politico, in particolare nei suoi risvolti più delicati, come la gestione dei fondi riservati. Si decide di cominciare con una grande manifestazione di ex partigiani cattolici a Milano: un successo, tanto che in quella stessa occasione Mattei convoca per il 27 settembre 1953 una riunione, un convegno a Belgirate per raccogliere le idee e programmare altre iniziative più apertamente politiche. A Bei- girate perché, spiega Marcora, «dietro queste montagne c'erano i partigiani dell'Ossola. Le brigate cristiane di Alfredo Di Dio». A quella riunione partecipa buona parte della sinistra dc, si decide di pubblicare un periodico che si faccia portatore delle idee e delle ambizioni di uomini come De Mita, Cossiga, Galloni, Granelli, Marcora, Misasi, Bassetti, Magri, Ripamonti, Rognoni, Sanza, Sullo e molti altri giovani cresciuti politicamente nelle università e nell'Azione cattolica, intenzionati a rimpiazzare la generazione prefascista che aveva dominato la scena politica italiana ancora in quei primi anni del dopoguerra. La rivista si chiamerà «La Base» e darà il nome anche alla corrente politica che intorno ad essa si va organizzando con rapidità, efficienza e notevole disponibilità di mezzi, essendo finanziata dall'Eni di Mattei che ne impegna alla guida l'amico Vanoni. La corrente ha come programma «la lotta contro i monopoli» (quelli privati naturalmente, essendo quello dell'Eni fuori discussione). Dunque un ente pubblico finanzia apparentemente una formazione politica all'interno del principale partito di governo. La cosa è subito nota a tutti, ma scandalizza molto meno di quanto dovrebbe. Principalmente per due ragioni: perché la corrente di «Base» è considerata decisamente minoritaria nella Dc, dunque poco fastidiosa in realtà, benché piccola, è numericamente determinante e politicamente influente ma soprattutto perché da tempo Mattei fa fluire finanziamenti e favori a tutte le componenti interne della Dc e a tutti i partiti, compresi quelli d'opposizione. Insomma, grazie al sapiente e disinvolto uso dei finanziamenti, Mattei ha ora una grande influenza sul partito di mag189 gioranza relativa. D'ora in poi nella Dc senza il suo consenso non si potrà decidere chi sarà il segretario politico, chi il presidente del Consiglio, e addirittura chi il presidente della Repubblica. Ma quando serve, è in grado di farsi ascoltare anche dagli altri partiti, compresi quelli d'opposizione, di destra e di sinistra. Questo rapporto tanto spregiudicato e strumentale con la politica, Mattei lo spiega con la più cinica e la più citata delle sue battute: «Per me i partiti sono come dei taxi, li prendo, mi faccio portare dove voglio e alla fine della corsa pago e scendo». Mattei potrà trarre il massimo vantaggio politico dalla sua spregiudicatezza e dalla grande disponibilità di mezzi grazie anche alla endemica instabilità del sistema politico italiano. Dopo l'uscita di scena di De Gasperi e anche per effetto del sistema elettorale proporzionale (che De Gasperi, come abbiamo visto, aveva tentato di correggere con la cosiddetta «legge truffa»), la Dc è diventata una federazione di correnti, spesso litigiose, delle quali anche la più piccola può risultare determinante nella formazione di alleanze e maggioranze. Altrettanto avviene per i partiti. Le coalizioni di governo sono dunque condizionate dai veti e dai ricatti delle forze minori. Manovrando con abilità in questo quadro di instabilità, Mattei non solo riuscirà a stare sempre a galla, ma a padroneggiare la scena politica. La sua minuscola, ma dinamica e agguerrita corrente di «Base» gli sarà a questo scopo della massima utilità.
Intanto il quadro dei rapporti internazionali va complicandosi. Il 7 febbraio del 1953, appena tre giorni prima della nascita ufficiale dell'Eni, viene nominata ambasciatore degli Stati Uniti a Roma la signora Claire Boothe Luce, moglie del magnate della stampa Henry Luce, editore e fondatore di influenti settimanali come «Time», «Life» e «Fortune», un caro amico e forte sostenitore del nuovo presidente americano, il repubblicano Dwight Eisenhower, l'ex comandante delle forze armate alleate in Europa durante la guerra. Con i suoi prestigiosi giornali, Henry Luce ha sostenuto la corsa verso la Casa Bianca del suo amico, il quale una volta eletto ricambia; secondo lo spoil system, il legittimo sistema 190 americano della spartizione del potere, nomina sua moglie ambasciatore in Italia. Ma con i suoi giornali mister Luce è soprattutto un forte sostenitore degli interessi economici degli Stati Uniti nel mondo e in particolare, in questo momento, degli interessi petroliferi, considerati quelli dalle prospettive più critiche. La stampa controllata da Luce diventerà perciò cassa di risonanza dei nemici dell'Eni, mentre la missione principale del nuovo ambasciatore sembra il più duro contrasto all'iniziativa di Mattei. Ed è un compito che la signora Claire svolge molto bene. Bella, brillante, amante della mondanità, è soprattutto aspramente anticomunista, determinata e aggressiva, tanto da arrivare a scavalcare in durezza le stesse posizioni del suo governo, finendo per rappresentare, presso l'opinione pubblica italiana, l'amministrazione Eisenhower più intransigente di quanto in realtà non sia. In effetti l'Eni è ancora troppo piccola cosa per valere i buoni rapporti con l'Italia, che tuttavia la signora Luce descrive come un paese di «accomodamenti, sacro egoismo e "si salvi chi può"». In lei il presidente dell'Eni ha un nuovo inflessibile nemico: «Ma perché quella donna ce l'ha tanto con me?» si chiede Mattei facendo l'ingenuo e mettendo la questione su un piano personale. Sa benissimo, invece, che già con l'Agip ha cominciato a muoversi, con la delicatezza di un rinoceronte in un negozio di ceramiche; in un ambiente nel quale da decenni agiscono colossali interessi finanziari, politici e strategici. E presto capisce anche, col suo straordinario intuito per i rapporti di potere, che avere nemici tanto formidabili, muoversi in contrasto con forze così potenti e terribili comporta dei pericoli, ma anche un vantaggio: non può che rafforzarlo all'interno delle vicende politiche italiane e, sul mercato internazionale, presso i paesi produttori, emergenti ed ex coloniali, generalmente animati da un forte sentimento antioccidentale. In un certo senso, dunque, Mattei non ha alcun interesse a ridimensionare i contrasti o a presentarli come meno aspri. Semmai è più vero il contrario. Scrive Leonardo Maugeri, il più intelligente e accurato storico e analista delle vicende petrolifere italiane, diventato poi 191 direttore delle relazioni istituzionali e internazionali dell'Eni: «Molti sono i miti e le leggende che col passare del tempo sono assurti a certezze incontrovertibili: dal ruolo oppressivo e demoniaco delle grandi multinazionali del petrolio alla ormai tradizionale accusa di sfruttamento dei paesi produttori, dall'atteggiamento di complicità del governo americano in tutte le azioni volte al controllo delle fonti di greggio alla sistematica esclusione dei petrolieri indipendenti da ogni significativa presenza in zone delicate per la sicurezza internazionale. Fu proprio su questo tipo di accuse che Mattei costruì il proprio spazio nel mondo petrolifero assumendovi un ruolo destabilizzante. Tuttavia, alla luce dei documenti d'archivio oggi disponibili, le accuse in questione appaiono quanto meno superficiali, quando non del tutto infondate, così come appaiono profondamente diversi i contenuti dell'azione di Mattei in rapporto alle Sette Sorelle e al governo americano».* E allora conviene ricostruire rapidamente la storia del tormentato rapporto fra potere politico, equilibri internazionali e petrolio, che diventa fattore decisivo per le strategie delle grandi potenze solamente a partire dalla seconda guerra mondiale. In precedenza è la Gran Bretagna che intuisce per prima e con largo anticipo il ruolo decisivo che questa materia prima avrebbe avuto. Nel 1914,
all'immediata vigilia della prima guerra mondiale, Winston Churchill, allora Lord dell'Ammiragliato, capisce che per mantenere il controllo dei mari, contrastato dalla crescente aggressività tedesca, la marina britannica deve puntare sul petrolio. Perciò, mentre le navi di tutte le altre flotte vanno ancora a vapore, spinte da energia ricavata dal carbone, riesce a imporre, con una lungimiranza che sa di azzardo, la rapida conversione al petrolio della marina di Sua Maestà. Londra può contare dall'inizio del secolo su vasti giacimenti persiani della Apoc, Anglo Persian Oil Company, di proprietà privata ma interamente britannica e che diventerà la * Leonardo Maugeri, L'arma del petrolio. Questione petrolifera globale, guerra fredda e politica italiana nella vicenda di Enrico Mattei, Loggia dè Lanzi, Firenze, 1994. 192 Mattei Aioc, Anglo Iranian Oil Company. Churchill convince il governo a comprarne la maggioranza del pacchetto azionario, per controllarne l'attività. In questi anni comunque il petrolio, sebbene i paesi produttori siano ancora pochi, è un bene largamente disponibile, in rapporto alla domanda molto limitata. I più grandi produttori (e consumatori) del mondo sono gli Stati Uniti. Perciò, con l'eccezione della Anglo Persian e della anglo- olandese Royal Dutch Sheli (poi semplicemente Shell), le maggiori compagnie petrolifere del mondo sono americane, in gran parte nate dal ceppo della mitica Standard Oil di John D. Rockefeller. Il governo di Washington, perciò, non ha alcun motivo di considerare la questione petrolifera un problema strategico: non essendo in generale un problema. Impensabile poi che si muovesse nel senso di un controllo statale del greggio, dato l'intrinseco e congenito carattere liberista e antistatalista dell'economia americana. L'abbondanza di materia prima in un regime di forte competitività permette all'industria petrolifera americana un rapido e impetuoso sviluppo tecnologico, organizzativo e finanziario che, alla vigilia della seconda guerra mondiale, nessun altro settore industriale può vantare, tanto che, durante il conflitto, nonostante la forte crescita della domanda, il 90% del greggio consumato dagli Stati Uniti, per usi militari e civili, è di provenienza domestica. Gli interessi petroliferi degli Usa fuori dai confini sono limitati al «cortile di casa», come amano dire gli isolazionisti, cioè al continente americano: Caraibi, Messico e Venezuela. D'altra parte, nel 1940 l'area mediorientale, dove i paesi produttori per ora sono solo Iran, Iraq e Arabia Saudita, sebbene destinata a diventare la maggiore fornitrice di petrolio del mondo, dà appena il 5% della produzione mondiale contro il 63% di provenienza statunitense. Dopo la guerra, cambia tutto, a cominciare dal ruolo degli Usa nel mondo. Già nel dicembre del 1943 Harold Ickes, direttore della Paw, Petroleum Administration for War, ha scritto, come già visto, il famoso articolo dal titolo profetico: Il petrolio sta scarseggiando. Le nuove responsabilità strategiche su scala planetaria e la crescita esponenziale della domanda fanno ca193 pire a Washington di non poter contare a lungo sull'autosufficienza petrolifera. E infatti per la prima volta nel 1948 gli Usa importano più petrolio di quanto ne esportino. Intanto il mondo si divide in due blocchi, quello democratico capitalista occidentale (con gli Stati Uniti) e quello comunista (con l'Urss): il pericolo di un nuovo conflitto planetario e il moltiplicarsi di guerre locali e parziali, come quella in Corea, continuano a far crescere la domanda di greggio. È in questi anni che un complicato quanto arbitrario e oggettivamente iniquo sistema di prezzi in vigore, fa nascere il fondato sospetto che le compagnie operanti in Medio Oriente ottengano profitti esageratamente più alti delle altre. In sostanza, su un listino prefissato si caricava un sovrapprezzo eccessivo in relazione alla distanza delle zone di estrazione dal Golfo del Messico preso come zona di riferimento. È il sistema Fob («Free on board»). Il montante nazionalismo arabo trova in questo ottimi argomenti per lanciare alle compagnie occidentali accuse di sfruttamento imperialista.
L'Arabia Saudita è la prima a reagire concretamente: minaccia di ritirare le concessioni alla Aramco (Arabian American Oil Company), costituita dalle massime compagnie americane e che guadagna tre volte la somma versata al governo di Riyadh a titolo di royalties. Col risultato, ancora più perverso, che il fisco americano finisce così per incassare in tasse pagate dalla Aramco più di quanto guadagni il paese produttore. La trattativa è lunga e tortuosa, ma dopo lo scoppio della guerra di Corea, Washington, temendo un allargamento del conflitto col conseguente rischio di trovarsi a corto di carburante, spinge l'Aramco ad accordarsi con i sauditi sulla base di un contratto già sperimentato nel 1943 col Venezuela. È il contratto fifty- fifty: 50% degli utili al paese produttore, 50% alla compagnia estrattrice. D'altra parte in questa direzione, proprio in Arabia Saudita, si stava muovendo uno spregiudicato produttore indipendente, diventato poi una star della finanza internazionale, Paul Getty. L'Aramco è costretta ad accogliere il «pressante invito» del governo. L'accordo verrà firmato alla vigilia di San Silvestro del 1950, e prevede un ulteriore vantaggio per il produttore: si 194 basa sui cosiddetti «prezzi teorici» o «di listino» prefissati, sui quali si calcolano royalties e tasse: quindi non influenzati da sconti o ribassi praticati dalla compagnia; contano solo le quantità estratte. Il governo americano ci rimette qualcosa, ma lo considera un aiuto finanziario a Riyadh, un contributo alla stabilizzazione di quell'area. Anche perché, come previsto, la formula si estende rapidamente a tutto il Medio Oriente. Negli anni successivi verrà criminalizzata dalla polemica politica come un metodo di «sfruttamento imperialista» dei paesi produttori. In realtà assicurava loro una rendita stabile, congrua e al riparo dalle fluttuazioni del mercato che erano a carico delle compagnie petrolifere. Si era però così verificato anche un importantissimo precedente, assolutamente inedito nell'iperliberista mercato petrolifero: l'intervento del governo; teso, se non a determinare i prezzi, almeno a stabilire il metodo per determinarli. L'Iran si trova in una situazione analoga a quella dell'Arabia Saudita, con la Anglo Iranian Oil Company il cui azionista di maggioranza, come abbiamo visto, è il governo britannico. La compagnia però gode della massima autonomia gestionale, perché così l'aveva voluta Churchill, e si oppone ad applicare il fifty- fifty, nonostante le forti pressioni in questo senso di Washington su Londra. La guerra di Corea rende molto importante per gli Usa il petrolio iraniano, anche per la posizione geografica delle zone di estrazione e raffinazione. Nel '50 l'Iran produce il 40% del greggio mediorientale in gran parte raffinato negli impianti di Abadan, i più grandi del mondo. Sul paese regna il giovane e debole scià Mohammed Reza Palhavi. È salito sul Trono del Pavone a vent'anni, dopo che il padre Ciro, fondatore della brevissima dinastia, è stato costretto ad abdicare. Lo scià vuole spingere il paese verso una radicale e forzata modernizzazione e occidentalizzazione. Una politica contro la quale agitano le piazze due potenti forze destabilizzatrici: il fondamentalismo islamico e il partito comunista Tudeh, strettamente legato a Mosca, da sempre interessata ad uno sbocco sui «mari caldi» e ora, ovviamente, anche al petrolio. Di questa instabilità si avvantaggia il montante movimento nazionalista di Mohammed Hidayat detto 195 Mossadeq, che con un golpe si impadronisce del potere e il 1° maggio 1951 nazionalizza il petrolio, sostituendo la Aioc con la Nioc, National Iranian Oil Company, di proprietà dello Stato. Lo scià fugge in esilio in Italia. Per reagire a questa nazionalizzazione, che consideravano un pericolosissimo precedente, le grandi compagnie petrolifere pongono un embargo al petrolio proveniente dalle concessioni della Aioc. La produzione di greggio iraniano crolla, passando dai 245 milioni di barili del '50 agli 8 del '52. Un tracollo che spinge l'intera economia del paese verso il disastro. A questo punto Mossadeq, con l'acqua alla gola, fa un'altra mossa azzardata: si allea con i comunisti del Tudeh. Per Washington diventa concreto il rischio di una penetrazione sovietica in Iran. Pericolo contro il quale reagisce facendo organizzare dalla Cia un colpo di Stato
passato alla storia come «operazione Aiax», che il 19 giugno del 1953 mette fine all'esperienza di Mossadeq. L'Iran passa gradualmente dalla sfera d'influenza di Londra, che si era dimostrata inaffidabile, a quella degli Stati Uniti. Dopo lunghe e complesse trattative la nuova amministrazione guidata dal presidente Eisenhower lascia la proprietà del petrolio iraniano alla Nioc, ma la lavorazione e la commercializzazione vengono affidate ad un consorzio, detto il «Consorzio di Abadan», in cui la Aioc ha solo il 40% mentre il resto è diviso fra le cinque maggiori compagnie americane, la Shell, la Cfp (Compagnie Francaise des Pétroles). Un gruppo di compagnie indipendenti riesce a farsi ammettere in un secondo tempo ricorrendo alla normativa antitrust, dopo aver accusato il consorzio di posizione dominante. Associate nella Irico, otterranno complessivamente il 5%. A questo punto Mattei, che fino ad ora se ne è stato buono, forse sperando di potersi inserire (o di essere chiamato) in un secondo momento, si sente arbitrariamente escluso e decide di giocare la parte di Davide contro Golia. A far scattare la reazione sono probabilmente anche il suo complesso d'inferiorità e il famoso «sentimento di defraudazione» di cui parla Frankel, certamente ingigantiti dal comportamento delle grandi compagnie dalle quali si sente guardato dall'alto in basso. L'Eni è nata da pochi mesi, Mattei non sa ancora che sul mercato inter196 Mattei nazionale lo status di un petroliere si misura dalla sua produzione: egli ha il triplice torto di essere un piccolissimo produttore, di rappresentare un'azienda di Stato e di operare in un paese consumatore; di essere cioè un «petroliere senza petrolio». È questo atteggiamento, più che il rifiuto, a far infuriare Mattei che, identificando sé e l'Eni con l'Italia, lo considera un umiliante affronto alla nazione. In realtà pare che egli non abbia mai fatto esplicita richiesta di adesione al Consorzio di Abadan, infatti nessuno fu in grado di provare il contrario. Indro Montanelli, nella famosa inchiesta su Mattei, ferocissima e documentata, pubblicata sul «Corriere della Sera» tre mesi prima della sua morte (13,14,15 e 16 luglio 1962), scrive: «... sono in grado di smentire categoricamente che Mattei abbia avanzato quella richiesta. Egli non venne respinto». Sarebbe la conferma che il presidente dell'Eni aveva deciso di interpretare la parte della vittima delle multinazionali per accrescere il suo ruolo e il consenso politico del quale aveva tanto bisogno. Il 18 giugno del 1953, appena quattro mesi dopo la nascita dell'Eni, al Grand Hotel di Roma si svolge una riunione riservata di rappresentanti delle grandi compagnie: ci sono Hol- man e Cazzaniga per la Esso, Escoffier per la Shell, Cantini per la Mobil, Pignatelli per la Gulf. All'ordine del giorno c'è la situazione del mercato petrolifero in Italia. Mattei però è convinto, ed è opinione diffusa che i convenuti decidano di finanziare una campagna di stampa e politica contro l'Eni. Il giorno dopo, durante una conferenza stampa, Holman afferma che «è necessario aprire l'esplorazione della Val padana alla libera iniziativa italiana e straniera». Insomma, denuncia Mattei, il cartello che non mi vuole nel consorzio iraniano pretende di entrare nelle zone che lo Stato ci ha concesso in Italia. Le tesi di Holman sono riprese con grande risalto dal quotidiano finanziario americano «Wall Street Journal» e dalle riviste «Time», «Newsweek» e «Fortune». Secondo «Time», «agli occhi degli uomini d'affari americani che si sforzano di intrecciare rapporti con la Penisola, il signor Mattei è il migliore e il più netto esempio di ciò che non va nell'economia italiana». Mattei però non rinuncia a cercare la trattativa. Va a New 197 York per incontrare personalmente Holman e dal presidente della Esso, che lo tratta con freddezza, si sente formulare la teoria secondo la quale «i petrolieri vengono classificati a seconda della quantità di petrolio prodotto e non in rapporto alle loro ambizioni e alle loro teorie». Tornato in Italia, secondo il racconto di Boldrini, così Mattei descrive la propria frustrazione e il crescente rancore verso gli Stati Uniti: «Gli americani da
giovane mi hanno fatto ridere con le loro torte in faccia; ora mi fanno piangere con le porte in faccia». Alla rabbiosa ricerca di una rivincita, ordina ai suoi una forte accelerazione delle ricerche che da molto tempo l'Agip svolge in Somalia, ma che non daranno alcun risultato. Con la soluzione della crisi iraniana irrompono sul mercato enormi quantità di greggio. Le compagnie che Washington ha praticamente obbligato a partecipare al consorzio, si vedono costrette a ridurre i rifornimenti da altre zone più convenienti. Questa storia, quindi, per loro è tutt'altro che un buon affare, ma devono accettare una scelta di natura esclusivamente politica imposta da Washington: rilanciando la produzione di greggio iraniano, Eisenhower spera di tenere Teheran lontana dall'influenza sovietica. Ancora una volta, dunque, il governo degli Stati Uniti interviene apertamente, svolgendo un insolito ruolo regolatore, se non addirittura dirigista, nelle vicende petrolifere. E lo fa per ragioni prevalentemente politico- strategiche. Perciò ora le grandi compagnie possono di fatto rivendicare un ruolo, quasi una delega del governo nelle vicende petrolifere internazionali. D'altra parte, tutta la vicenda iraniana mette in pessima luce la politica petrolifera americana. In particolare l'intervento della Cia con l"«operazione Aiax» darà buoni argomenti per rappresentare quella politica e l'azione delle grandi compagnie come animate da volontà imperialista e di sfruttamento dei paesi produttori, pronte a qualsiasi intrigo e complotto. Ed è innegabile e inquietante la coincidenza di interessi fra i massimi responsabili di questa politica e quelli delle compagnie. Qualche esempio: il segretario di Stato John Foster Dulles proviene dalla società di avvocati che cura gli interessi della fami198 Mattei glia Rockefeller; il sottosegretario di Stato per il Medio Oriente, McGhee, è stato egli stesso petroliere e possiede il pacchetto di maggioranza della principale azienda di consulenza petrolifera; il responsabile della Cia in Iran, Kermit Roosevelt, diventerà vicepresidente della Mobil; Hoover è stato presidente della Union Oil Company. Si tratta spesso di collegamenti dovuti più alle competenze che ad ambigui coinvolgimenti personali, ma è francamente difficile evitare il sospetto e quindi la strumentalizzazione polemica. Tanto è vero che Mattei, che fino ad ora si è praticamente disinteressato di politica estera, lancia la sua sfida alle Sette Sorelle proprio sull'onda del forte moto di ostilità suscitato dalla vicenda iraniana, ricavandone il massimo vantaggio propagandistico. Anzi, secondo alcuni è proprio Mattei che comincia a chiamare così quelle sette chiacchieratissime grandi compagnie, contro le quali, non a caso, già nel dicembre del 1949 la Commissione federale per il commercio, l'antitrust degli Usa, indaga sull'ipotesi dell'esistenza di un cartello. In effetti i nomi di Standard Oil New Jersey (Esso), Anglo Iranian Oil Company (Aioc e poi Bp), Socony Vacuum (Mobil), Standard Oil of California (Socal poi Chevron), Texas Oil Company (Texaco), Gulf Oil Company (Gulf) e Royal Dutch- Sheli (Shell) compaiono regolarmente in tutti gli affari petroliferi. Queste compagnie, legate da intrecci societari e interessi comuni in tutto il mondo, sembrano aver creato un monopolio internazionale. Nel '51 i risultati dell'inchiesta confermano pienamente questa tesi, provocando un clamoroso scandalo internazionale che impressiona molto Mattei, dandogli la conferma definitiva di quello che fino ad ora poteva apparire solo un suo pregiudizio politico: l'arroganza e la prepotenza delle multinazionali americane. Nel '52 parte un procedimento penale contro le compagnie del cartello con l'accusa di aver violato lo Sherman Act, l'inflessibile legge antitrust americana che a suo tempo aveva colpito John Rockefeller. In realtà molte delle accuse appaiono oggi «piuttosto imprecise quando non del tutto sbagliate», sostiene Maugeri, soprattutto a causa della scarsa conoscenza di un settore con una tecnologia e un know- how del tutto innova199 tivi, estremamente complesso sul piano industriale, e finanziariamente molto impegnativo e rischioso, al quale è perciò quanto meno arbitrario applicare
parametri validi per altri settori. In particolare le accuse di monopolio e sfruttamento, che Mattei tanto avrebbe utilizzato, e «che tanta fortuna avrebbero avuto in seguito, dovevano fare i conti» prosegue Maugeri «con questa complessa realtà ... Sarebbero stati in grado gli arretrati paesi petroliferi di valorizzare le nude risorse del loro suolo senza l'apporto del know- how e dei capitali stranieri, ovvero dei macroapparati delle multinazionali? La risposta è senza dubbio negativa». D'altra parte il clima della guerra fredda spinge molte personalità politiche e vasti apparati dell'amministrazione a schierarsi acriticamente dalla parte delle multinazionali del petrolio. Lo scontro, dunque, diventa politico, col risultato che, nel passaggio di consegne alla Casa Bianca da Truman ad Eisenhower, il procedimento da penale viene trasformato in civile, anche per l'intervento esplicito del potentissimo Consiglio nazionale per la sicurezza. Ancora una volta il petrolio dimostra la sua forte valenza strategica e le compagnie si confermano perciò strumenti della politica estera americana, un ruolo di cui spesso abusano sfacciatamente. Pietra racconta che una notte fu svegliato di soprassalto da una telefonata di Mattei: «Senti, senti un po'"questo brano» e comincia a leggere come un attore consumato: «Il prezzo del petrolio non dipende pienamente e nemmeno principalmente dal normale gioco della domanda e dell'offerta. La domanda di petrolio è forte e crescente, ma il consumatore si trova in posizione straordinariamente debole nell'operazione di acquisto, perché può troppo facilmente diventare un compratore "forzato" ad un prezzo artificiale. Due gigantesche compagnie, una per emisfero, stanno in posizione predominante. Nel Nuovo Mondo c'è la Standard Oil, nel Vecchio Mondo la grande combinazione di Shell e Royal Dutch, con tutte le sue branche sussidiarie e dipendenti. Questa gente fa i suoi affari con grande efficienza e la sua politica - a che giova ignorarlo? - è realizzare il controllo dei giacimenti e dei mezzi di rifornimento e quindi regolare la produzione e il prezzo del merca200 Mattei to». Pausa ad effetto... risata: «Sai di chi è questo brano? È di Winston Churchill. È tratto da un discorso pronunciato il 7 giugno 1914 alla Camera dei Comuni per caldeggiare l'entrata dell'Ammiragliato nella Anglo- Iranian». A Mattei sembra la conferma che lo strapotere delle multinazionali è reale e che la risposta non può essere che un'azienda di Stato, come l'Eni. Il fatto che siano passati 40 anni e che la situazione della produzione e dei consumi sia radicalmente diversa gli sembra assolutamente irrilevante. Il 17 novembre 1953 gli operai degli stabilimenti Pignone di Firenze occupano la fabbrica, che produce tubi e turbine. La società, la cui maggioranza è del gruppo Marinotti (Snia Viscosa), ha annunciato la chiusura e spedito un migliaio di lettere di licenziamento. Per la città, in una situazione economica critica e afflitta da un alto tasso di disoccupazione, è un shock, una crisi gravissima. Da due anni sindaco di Firenze è Giorgio La Pira, democristiano di sinistra legatissimo ad un altro toscano, l'aretino Fanfani. La Pira è un cattolico alla Maritain, profondamente credente fino al misticismo, che vive da anacoreta e che perciò passerà alla storia come «il sindaco santo». In politica è apertamente anticapitalista e terzomondista ed è amico di Mattei come tanti altri esponenti della sinistra dc; come Mattei si è da poco dimesso da deputato per la «legge sulle incompatibilità parlamentari». Per prima cosa La Pira ha rivolto un appello drammatico e pressante al parlamento e al governo, ottenendo per l'azienda in crisi un finanziamento di quattro miliardi di lire. Una boccata d'ossigeno che rinvia, ma non risolve il problema. La vicenda della Pignone diventa un caso nazionale, seguito con apprensione dall'opinione pubblica e con opposti sentimenti da imprenditori e sindacati, inevitabile occasione di scontro ideologico e politico. L'occupazione della fabbrica rappresenta la fase più drammatica della crisi. Fanfani, ministro degli Interni, è vicino a La Pira e si dà un gran daffare, col suo noto attivismo e senza paura di esorbitare dalle proprie competenze. Con un gesto clamoroso e piuttosto demagogico ha ritirato il passaporto a Franco Marinotti per evitare che si allontani e perché si impegni nella risoluzione della
201 vertenza. Un giorno telefona a La Pira: «Stamane ho parlato con Ferrari- Aggradi* per una eventuale gestione della Pignone, poi ho parlato con Vanoni** e con Mattei». È lui a suggerire al suo amico sindaco la possibile soluzione: convincere il presidente dell'Eni a prendersi l'agonizzante azienda fiorentina. E ci sarebbe già un assenso di massima, fa capire Fanfani. La Pira non indugia un minuto, prende il telefono e chiama a sua volta Mattei. «Prendermi la Pignone, ma sei pazzo? Quella fabbrica è in condizioni disperate, è una responsabilità terribile. E poi che c'entra col petrolio? No, niente da fare, non se ne parla proprio. E poi, scusa, chi ti ha fatto venire in mente un'idea così assurda?» Con disarmante candore e serena sicurezza La Pira risponde: «La Madonna, stanotte mi è comparsa in sogno e mi ha annunciato che tu avevi il compito di salvare la Pignone». Mattei ammutolisce, sbigottito. Dopo un lungo silenzio riesce a replicare solo con un «ci devo pensare, ti richiamo». Alla telefonata assiste il ventisettenne Giorgio Ruffolo, giovane brillantissimo intellettuale socialista che ha cominciato a frequentare Mattei, del quale diventerà, come abbiamo detto, uno dei più stretti collaboratori. «Noi non fabbrichiamo tubi, ma come faccio a dirgli di no? ci sono centinaia di famiglie disperate. E oltre che un amico Giorgio è un sant'uomo. Quella storia della Madonna, poi, non mi fa ridere, tutt'altro. Mi spinge a riflettere, a pensarci bene perché vuol dire che è un uomo profondamente angustiato. Ma ho le mani legate dallo statuto dell'Eni che mi impone di occuparmi solo di idrocarburi.» Ma, come ormai sappiamo, leggi, regolamenti e statuti non sono mai stati un grande ostacolo per Mattei. Oltre a Fanfani, De Gasperi, Gronchi e Vanoni lo spingono a risolvere la crisi: dunque si sente sicuro, le spalle politicamente coperte e, ancora una volta, aggira disinvoltamente la legge. Il giorno dopo dice a Ruffolo: «Ci ho pensato bene, per produrre e distribuire idrocarburi l'Eni ha bisogno di tubi, sonde, serbatoi ... ed è certamente meglio se ce li costruiamo da noi invece di comprarli all'estero. Perciò lo statuto non è un ostacolo all'acqui* Sottosegretario al Bilancio del governo Pella. ** Ministro delle Finanze. 202 Mattei sto della Pignone». Ancora una volta con un atto di forza Mattei aggira la legge. Le trattative con la Snia cominciano subito. Il 4 gennaio del 1954 cessa l'occupazione della fabbrica. Il 13 l'accordo è raggiunto: l'Eni acquista il 60% dell'azienda, il 40% resta alla Snia. Nasce la Nuova Pignone col programma di produrre tubazioni per la Snam, apparecchiature per condotte e pozzi petroliferi, bombole per gas. Comincia così la lunga storia dei salvataggi di imprese private in crisi da parte dello Stato, la storia del cosiddetto «sistema delle partecipazioni statali», di quel capitalismo di Stato all'italiana che è arrivato ad occuparsi di panettoni e tessuti, carta e alluminio, miniere e telecomunicazioni. Fin dal 1933 il fascismo, per fronteggiare la grave crisi industriale finanziaria di quegli anni, aveva creato l'Iri per gestire gran parte del sistema bancario e qualche grande industria: l'impegno a riprivatizzare al più presto non fu mai rispettato. Con l'espansionismo dell'Eni di Mattei e con il rilancio dell'Iri, grazie anche alle teorie della sinistra, compresa quella Dc, sulla necessità di un controllo dello Stato sull'economia, lo statalismo dell'Italia democratica si dimostra ben più determinato di quello fascista. Il sistema delle partecipazioni statali, di cui Mattei è il più intraprendente paladino, arriverà a mettere più del 60% dell'economia nazionale sotto il controllo della politica, cioè dei partiti, contribuendo in maniera determinante all'enorme indebitamento dello Stato, alla ipertrofia del clientelismo politico, a rendere sistematici il finanziamento illecito dei partiti e dunque la corruzione. Verso la fine degli anni Ottanta comincerà il lento, faticoso e contrastato smantellamento del sistema. Ad imporlo saranno prima l'ormai insopportabile indebitamento dello Stato, poi la necessità di adeguare l'economia italiana ai parametri richiesti dall'Unione Europea. Nei decenni precedenti, molte imprese come
la Pignone sono state «salvate» dall'intervento dell'Eni o dell'Iri, ma a costi altissimi per la collettività, costi che in molti casi avrebbero permesso, in un'economia autenticamente di mercato, la nascita di nuove imprese e di nuovi posti di lavoro. Intanto nel vuoto lasciato nella Dc da De Gasperi e dalla 203 sua politica si sta facendo strada una nuova generazione di protagonisti, coetanei di Mattei, prevalentemente di sinistra, ex dossettiani, quelli della «Base», Gronchi, i sindacalisti della Cisì. Hanno un preciso progetto politico: portare al governo i socialisti per «correggere il capitalismo e contemperare il mercato nel senso di una maggiore giustizia sociale e di uno sviluppo più equo». Il leader, l'esponente più rappresentativo di questa nuova linea è Amintore Fanfani, che dopo aver vinto con la sua corrente «Iniziativa Democratica» il congresso di Napoli (2630 giugno 1954), sta impadronendosi, sezione dopo sezione, di tutto il partito, proprio mentre capo del governo è il più ruvido e più anticomunista degli uomini della destra dc: Mario Sceiba. A tutta l'operazione, Mattei, nonostante sia il «padrone» della corrente di «Base», collabora attivamente: per affinità ideologica e perché legato a quegli uomini e alle loro idee fin da prima della guerra, dall'epoca delle lunghe serate nella casa milanese di Boldrini e poi nei mesi della Resistenza. Il suo peso politico, dunque, cresce continuamente, grazie ai suoi rapporti personali e alle disponibilità finanziarie, ma anche perché, soprattutto dopo il grande bluff di Cortemaggiore, nell'opinione pubblica si ingigantisce quello che già si chiama «il mito di Mattei», la cui figura ormai rappresenta tisicamente «l'Italia che ce la fa», che si scrolla di dosso secoli di miseria, emarginazione, umiliazione. Il 5 novembre 1953 il prestigioso Politecnico di Torino gli conferisce la laurea honoris causa in ingegneria mineraria. Ne è commosso quasi fino alle lacrime: per un uomo che solo da adulto e nelle particolari condizioni dovute alla guerra ha strappato un diploma di ragioniere, il titolo di ingegnere, col quale da questo momento si farà chiamare, è un traguardo che ha del miracoloso. Tanto più che la sua ammirazione per gli ingegneri è sempre stata sconfinata. Con i governi De Gasperi, Mattei aveva un rapporto fluido e facile, ma un ruolo ben circoscritto: poteva fare politica solo marginalmente e solo nell'interesse delle aziende che gli erano state affidate. Un ruolo sempre accettato di buon grado. Per anni De Gasperi seppe di avere in Mattei un subalterno 204 Mattei intelligente, affidabile e costante. E anche ubbidiente, tranne una volta: quando gli fece dire da suo fratello Augusto di chiudere quel fastidioso foglio di corrente che era diventato «La Base». Andreotti, allora stretto collaboratore di De Gasperi, ricorda che il periodico continuò ad uscire con l'ipocrita motivazione di salvaguardare la politica e l'insegnamento del presidente del Consiglio. Con l'uscita di scena di De Gasperi Mattei è disorientato, «senza una politica», come dice Pietra. Non ha riferimenti precisi e sicuri. Certo, ci sono Vanoni, Fanfani e Gronchi, ma non sono ancora abbastanza forti perché nel partito di maggioranza è in corso una battaglia feroce per la conquista della supremazia. Mattei è al primo posto tra coloro che, alla guida di enti di Stato, devono assicurare alimenti alla Dc. Ma quale Dc? Lo scontro è tra un'ala centrista, tendenzialmente liberale, più vicina alla Confindustria, che si considera legittima erede di De Gasperi e che quindi pretende fedeltà da chi era fedele al leader trentino, e un'ala di sinistra, statalista, più vicina ai sindacati, che parla di programmazione e dialogo con i socialisti e nella quale si trovano tutti gli amici di Mattei e a cui fa riferimento «La Base». La scelta dunque è molto difficile. Meglio non schierarsi. D'altra parte è lui che ha il coltello dalla parte del manico, il manico dei finanziamenti. Perciò allarga anche il fronte delle amicizie e delle coperture. Con alcuni uomini del Pci, a cominciare da Longo, i rapporti sono stati sempre buoni, nonostante il suo acceso anticomunismo. Finalmente riesce ad agganciare anche i socialisti, considerati più vicini alla sua grande nemica
Montecatini, in particolare il potente vicesegretario Rodolfo Morandi. La lotta all'interno della Dc si risolve, momentaneamente, come abbiamo visto, al congresso che si tiene a Napoli nel giugno del 1954. Mattei non partecipa, preferisce non esporsi personalmente: manda il più brillante e politicamente abile dei suo collaboratori, Eugenio Cefis. Tra le linee che si confrontano a quel congresso, la più innovativa è quella di Vanoni, che propone una stagione di grandi riforme, nazionalizzazioni, valorizzazioni e difesa delle aziende pubbliche, programmazione dell'economia, apertura verso le sinistre democratiche, 205 socialisti compresi: il cosiddetto «schema Vanoni», preparato con la collaborazione delle aziende a partecipazione statale e intellettuali della sinistra cattolica, in particolare di Boldrini. Vince Vanoni, vince la sinistra dc, che da quel momento verrà chiamata «La Base», dal nome del foglio finanziato da Mattei. È una dimostrazione del ruolo assunto nel partito di maggioranza dal presidente dell'Eni, che ormai può condizionare anche la scelta del segretario. I candidati più forti sono Fanfani e Gronchi. Mattei decide di appoggiare Fanfani, che vuole fare delle partecipazioni statali e dell'Eni in particolare i principali strumenti della politica economica della Dc (oltre che del suo rafforzamento clientelare ed elettorale). Una politica definita della «terza via»: non lotta al capitalismo ma programmazione e presenza dello Stato nell'economia per incrementare lo sviluppo, contrastare i monopoli (privati, beninteso), combattere ingiustizie e sperequazioni, intervenire là dove l'iniziativa privata non ha convenienza, controllare direttamente le attività dei servizi pubblici e i settori strategici per la vita della nazione. Scegliendo Fanfani per la segreteria della Dc, Mattei apre una linea di credito in favore di Gronchi. A suo tempo, fra non molto, il saldo sarà cospicuo. L'alleanza, anzi la perfetta intesa politica tra Mattei e Fanfani, che durerà a lungo ed è sotto gli occhi di tutti, allarma le ormai sparute schiere liberali e antistataliste. Allarma soprattutto gli imprenditori, i quali temono, per prima cosa, che una troppo generosa politica salariale delle imprese pubbliche inneschi una rincorsa che andrebbe a discapito degli investimenti. Ma temono anche la concorrenza di aziende politicamente privilegiate e dalle indefinite risorse finanziarie e che lo Stato imprenditore si allarghi sempre di più, diventando sempre più invadente. Non sanno ancora che il sistema delle partecipazioni statali presto diventerà per loro una straordinaria scappatoia: la possibilità di cedere, col ricatto occupazionale, aziende che essi non sono più in grado di gestire (o che non vogliono più gestire). Infatti, rotto con la Pignone il muro dei limiti statutari, l'Eni di Mattei non avrà più freni, se non quelli della propria discrezionalità, nell'acquisire decine e decine di aziende di ogni ti206 Mattei po', in ogni settore merceologico, arrivando ad assumere anche partecipazioni minoritarie. Comincia con iniziative marginali e coerenti con la ragione sociale: con la Sam (Società autonoma raffinerie novaresi) per la produzione di oli lubrificanti industriali e per motori; con la Stei, insieme a Edison, Montecatini, Falck e Aem (l'Azienda elettrica municipale di Milano) per la gestione di una centrale termoelettrica alimentata a metano; con l'acquisto della Società resine Bircam da parte dell'Anic entra nella produzione di oggetti in plastica; con la Snia crea Duana, per produrre nylon. L'elenco si allunga, l'oggetto delle operazioni va diversificandosi sempre di più. Con gli anni la holding Eni diventerà una vastissima conglomerata con interessi che spaziano, ben al di là degli idrocarburi, dal carbone all'energia nucleare, dalla metallurgia ai tessuti, dagli alberghi all'informazione. In questo sfrenato espansionismo di Mattei qualcuno ha visto un disegno strategico. In realtà le forze che lo spingono sono due: l'ambizione di far diventare sempre più grande e potente la sua creatura e la necessità di compiacere il potere politico - magari risolvendo un problema sociale - per conservarne la protezione. Non è certo necessario costruire alberghi o
fabbricare tessuti per assicurare gli approvvigionamenti energetici al paese. A metà degli anni Cinquanta Mattei è uno degli uomini più potenti d'Italia. Per qualcuno già il più potente. Sempre meno imprenditore puro, ammesso che lo sia mai stato, sempre più uomo politico. La sua influenza sulle vicende politiche lo mette al riparo da ogni interessamento o ingerenza da parte di organi dello Stato, della magistratura amministrativa e di quella ordinaria. Le sue risorse finanziarie gli danno un'autonomia sconfinata. Gli utili della vendita del metano crescono in modo esponenziale: con un margine di 7 lire a metro cubo, nel 1953, anno della nascita dell'Eni, essi ammontano a un miliardo di lire; nel 1961, un anno prima della morte di Mattei, a 46 miliardi, complessivamente a 300 miliardi fra il '53 e il '61. Ma nei bilanci presentati allo Stato espone solo una parte di questi utili: ad esempio, nel '61 denuncia 6 miliardi e 200 milioni invece di 46. Le aziende dell'Eni creano una loro associazione imprendi207 toriale e non aderiscono alla Confindustria, nella quale Mattei vede organizzate le imprese dei suoi avversari. E in effetti praticamente tutta la stampa italiana, di proprietà di industriali, è schierata apertamente contro di lui e non esita a impegnare in vere e proprie campagne le firme più prestigiose, come Indro Montanelli e l'omonimo Enrico Mattei. Sul versante politico i suoi nemici restano la destra politica, Msi, monarchici e liberali, la destra interna della Dc (Pella, Gava, Andreotti) e una parte dell'alto clero. Ma per ora l'Eni è un'azienda petrolifera che produce metano e non petrolio. Mattei ne è consapevole, ma non rassegnato: «Ne troveremo tanto di petrolio» ripete ai suoi e lo troveremo in Italia. Intanto, però, dobbiamo prepararci bene a venderlo: bene, cominceremo col vendere quello degli altri». Subito dopo la guerra il Cip (Comitato italiano petroli), istituito dalle forze d'occupazione per liberalizzare il mercato dei carburanti, ha assegnato la maggior parte degli impianti di distribuzione a Shell, Esso e Bp. All'Agip restano le briciole, il 10%. Ma la Bp ha più petrolio di quanto possa venderne. Mattei, dunque, mette mano alla realizzazione di una grande rete di distribuzione. In barba alle sue modestissime origini provinciali e alla sua precaria formazione da autodidatta, Mattei è un imprenditore istintivamente moderno, anzi un grande anticipatore, come di rado ne nascono in Italia. Si porta dentro un innato e fortissimo senso del marketing, termine di cui naturalmente ignorava l'esistenza come chiunque in quegli anni fuori dai paesi anglosassoni. Crede molto nella forza del marchio: e il marchio ce l'ha già, fortissimo, «Supercortemaggiore». Crede nell'efficacia e nella potenza emotiva, più che razionale, di uno slogan: ed anche questo ce l'ha già, efficacissimo e coinvolgente, «La potente benzina italiana», anche se quella che venderà non solo non è di Cortemaggiore, ma non è neppure italiana. Ma non importa, c'è l'italianità, il senso della potenza, un messaggio neppure sottinteso di riscatto ed emancipazione. E c'è anche un fortunatissimo logo: il cane a sei zampe che guarda indietro sputando fuoco, evocando un senso di forza e di affidabilità. Tutto quello di cui ha bisogno in questi anni un'Italia frustrata, ma ansiosa di risollevarsi e di tornare a credere in se stessa. 208 Mattei Mattei sa che l'orgoglio e lo sciovinismo del consumatore non bastano: per battere l'agguerritissima concorrenza i suoi distributori devono dare molto di più delle miserabili pompe, sporche, malconce e rare del paese preindustriale nel quale l'Agip era nata. Infatti hanno come minimo un piccolo bar, dei gabinetti e un telefono pubblico. Presto si aggiungeranno dei piccoli empori di articoli utili all'automobilista. Distribuiscono omaggi e oggetti promozionali, dalla cartina stradale al portachiavi, dall'adesivo turistico alla cartolina. Gli addetti dovevano vestire sempre l'uniforme aziendale, essere cortesi, pulire sempre il parabrezza della vettura. Presto creerà anche una rete di ispettori per curare la qualità del servizio, ma sono leggendarie le sue visite senza preavviso in questa o quella stazione. Per prima cosa andava ad ispezionare i gabinetti: «Devono essere lindi da poterci mangiare dentro», intimava al personale terrorizzato.
Arriveranno poi anche i ristoranti e le officine per l'assistenza essenziale, i punti di lavaggio, in qualche caso perfino la bottega del barbiere. Infine addirittura gli alberghi: il primo lo inaugurerà personalmente e con grande clamore pubblicitario a Cortina d'Ampezzo, rivendicando all'Eni il merito e quasi il compito istituzionale di incrementare il turismo in Italia, giacché i limiti statutari sono stati sbriciolati da tempo. Mattei anticipa quasi tutti in Europa con questa concezione dell'impianto di distribuzione inteso come «stazione multiservizio» e «di pieno confort». Ma, come egli stesso ammette, non è una sua creazione: «Nei miei viaggi negli Stati Uniti ho visto queste stazioni di servizio che sembrano delle città, dei luna park, dove è divertente fermarsi anche se hai il serbatoio pieno. Quando ho visto la prima ho pensato che prima o poi avrei fatto anche in Italia qualcosa del genere, anzi di meglio». Spesso queste stazioni sorgono lì dove le città non sono ancora arrivate ma, grazie al boom demografico e all'immigrazione, presto arriveranno; oppure lungo strade secondarie che diventeranno importanti. L'Agip, per riservarsi la possibilità di ampliare gli impianti, preferisce acquistare aree piuttosto vaste che rapidamente moltiplicano il loro valore. Il patrimonio immobiliare e fondiario dell'Agip cresce rapidamente e in 209 pochi anni diventa colossale. Ancora una volta lo straordinario fiuto di Mattei per l'investimento immobiliare ha dato ottimi frutti. D'altra parte il presidente dell'Eni segue personalmente, passo dopo passo, giorno per giorno lo sviluppo del down- stream, cioè della parte finale del «flusso produttivo»: la realizzazione della rete di vendita dell'Agip, di cui cumula le cariche di amministratore delegato e direttore generale, caso unico fra tutte le società del gruppo, a dimostrazione dell'importanza che attribuisce all'azienda madre dell'Eni. Ma in America, dove Mattei li ha scoperti innamorandosene, quei distributori che gli apparivano fantasmagorici si trovano generalmente lungo le autostrade, vere autostrade e non quelle «strade riservate alle automobili» costruite in Italia dal fascismo per pochi chilometri, su un'unica corsia, da Napoli a Pompei o da Milano verso i laghi. Mattei sa da tempo che per vendere benzina bisogna incentivare l'uso dell'automobile e pensa anche, come Ford qualche decennio prima negli Usa, che l'industrializzazione del paese non può che passare attraverso la motorizzazione di massa. Per questo sono indispensabili le autostrade. Come lui la pensano molti imprenditori, a cominciare dal presidente della Fiat, Vittorio Valletta, e dai Pirelli; ma anche molti politici della Dc e in generale dei partiti di centro, convinti anche che una delle cause dell'arretratezza del Mezzogiorno sia l'inadeguatezza dei collegamenti con la parte più sviluppata del paese e con l'Europa. Già nel 1952, quindi prima della nascita dell'Eni, Mattei aveva concepito l'idea di «una grande autostrada dorsale, che percorra l'Italia da Nord a Sud, da Milano a Napoli», incaricando un gruppo di ingegneri di preparare un progetto di massima. A quei tempi erano in molti a pensarci. Due anni dopo, nel 1954, Mattei e Valletta si incontrano. A metterli in contatto è un amico di entrambi, naturalmente interessato al progetto: il banchiere Raffaele Mattioli della Banca Commerciale Italiana, il primo a dare veramente credito a Mattei e alla sua Agip. È un rapporto, dunque, che nasce direttamente con la benedizione del Sancta sanctorum della finanza milanese. I due, apparentemente così diversi, in realtà sono fatti per intendersi e piacersi. Infatti la simpatia fra il capo della più im210 Mattei portante industria privata italiana e il profeta fondatore delle partecipazioni statali è immediata e dà subito il massimo risultato possibile: presto si arriverà alla costituzione della Sisa (Società italiana strade e autostrade) con la partecipazione di Agip, Fiat, Pirelli e Italcementi per la costruzione della Milano- Napoli, l'Autostrada del Sole, la madre della rete autostradale italiana: i lavori partiranno il 19 maggio 1956 da San Donato Milanese, dove Mattei pochi giorni prima, il 12 aprile, ha inaugurato Metanopoli.
«Se gli stranieri vengono a vendere benzina a casa nostra, noi andiamo venderla a casa loro»: in base a questo capzioso principio di reciprocità, Mattei comincia a costruire grandi stazioni di servizio in Germania, Austria, Francia e Svizzera; paesi che, a onor del vero, poco lo disturbano nella sua attività di petroliere. In realtà l'idea è quella di conquistare la clientela dei potenziali turisti. In effetti tenta anche di realizzare una raffineria dalle parti di Londra per andare a vendere anche in Gran Bretagna, a casa della Bp, ma gli vengono frapposti un'infinità di ostacoli: «Quello che mi ha fatto infuriare» racconterà qualche tempo dopo «è che il nostro governo abbia poi concesso senza battere ciglio all'inglese Bp di impiantare una raffineria vicino a Torino». Nei primi anni di vita dell'Eni, comunque, è ancora dal metano che viene la certezza della rendita. Perciò già nel 1954 decide l'ingresso in grande stile nel mercato del consumo domestico. Se per l'uso industriale il problema della distribuzione non può essere risolto che con l'espansione della rete di gasdotti, l'impiego domestico, la distribuzione nelle città e nelle campagne italiane permette una soluzione più semplice: la bombola consegnata a domicilio, utilizzata dai molti distributori italiani e stranieri operanti sul territorio nazionale. Mattei, cioè l'Agip, ha però bisogno di distinguersi subito dai concorrenti come Liquigas e Pibigas: vuole farsi immediatamente riconoscere per sfondare subito sul mercato. Non ha tempi lunghi a disposizione e non può accontentarsi di una posizione mediocre. Adotta perciò lo stesso elementare modello di marketing utilizzato per la benzina: crea il marchio Agipgas, 211 forte in partenza grazie al «prefisso» Agip, e lo associa allo slogan «Il gas liquido del sottosuolo italiano», che evoca quello fortunatissimo della benzina. Ma questa volta, almeno per i primi tempi, non si tratta di un bluff, quel metano viene davvero dal sottosuolo italiano. Naturalmente muove anche la leva del prezzo, abbassandolo del 12%; ma soprattutto capisce che l'ostacolo principale alla crescita di questo mercato è la cauzione sulle bombole che di consuetudine si chiede al consumatore: un deposito non trascurabile per l'utente e che per il distributore rappresenta anche una rendita finanziaria. Mattei, con uno di quei suoi non rari colpi di genialità e coraggio, abolisce la cauzione. Il successo è folgorante: Agipgas conquista rapidamente un milione di clienti, il 25% del mercato del «combustibile della povera gente», come lo chiama lo stesso Mattei, ispirato dalla consueta vena demagogica. La concorrenza grida al dumping, forse non a torto, ma è costretta a adeguarsi o a mollare. Di fronte ad un successo così clamoroso la rete di vendita, galvanizzata, chiede con forza l'acquisto immediato di un altro milione di bombole, nella certezza di poter rapidamente raddoppiare la quota di mercato così rapidamente conquistata. Mattei, però, imprevedibilmente si oppone: «La nostra produzione di gas non riuscirebbe a tener dietro ad un'espansione così forte della domanda; saremmo costretti ad acquistare gas da altri produttori, forse in perdita. L'Agip deve guadagnare, non fare della statistica: non basta conquistare quote di mercato, dobbiamo essere forti su tutta la linea, dalla ricerca alla produzione alla vendita». Tuttavia, di fronte ad un'espansione così tumultuosa del mercato del consumo domestico, Mattei cerca nuovi alleati e nuove sponde. Comincia proprio dalla sua terra, dalle Marche. Conosce da tempo un personaggio che gli somiglia molto, un imprenditore la cui storia ha molti aspetti in comune con la sua: Aristide Merloni. È nato ad Albacina, una frazione di Fabriano a pochi chilometri da Matelica, nove anni prima di Mattei. Dopo la prima guerra mondiale, con un diploma di perito industriale in tasca, va a cercare lavoro in Piemonte. Fa il disegnatore alla ditta Buroni di Pinerolo. Cattolico intensa212 Mattei mente praticante e con un debole per la politica, partecipa alla fondazione del Partito popolare di Luigi Sturzo. Alla Buroni lavora duro e bene e in appena sei anni diventa direttore generale dell'azienda nella quale era entrato come
disegnatore. Ma, come tutti i marchigiani, è legatissimo alla sua famiglia e alla sua terra: nel 1930 torna ad Albacina per fare il grande salto, da manager a imprenditore, aprendo una fabbrica di bilance a bascula. Il successo è immediato e nel '36 costruisce un nuovo stabilimento a Fabriano; è uno dei più dinamici imprenditori di quegli anni, il più ammirato dai marchigiani. Nel 1943 viene chiamato a fare il presidente della Cassa di Risparmio di Fabriano. Dopo la guerra si impegna nella Dc: nel '51 viene eletto sindaco di Fabriano. Sarà rieletto nel '56 e dal '58 per tre volte i marchigiani lo eleggeranno senatore. Come Mattei e come la maggior parte dei self- made men, Merloni ha il dono di un intuito fuori del comune: sente e legge dei successi del suo conterraneo nella ricerca e nella produzione del metano, capisce che quella piccola rivoluzione energetica non potrà non coinvolgere anche i consumi domestici: nel '53 decide perciò di diversificare la produzione della sua fabbrica e si mette a produrre anche bombole per gas liquido e prende contatto con Mattei per entrare nel business del metano per uso domestico. I due si conoscono dagli anni Venti: non sono proprio amici ma, anche a prescindere dalla indissolubile solidarietà marchigiana e dalla comune militanza politica, si stimano e si rispettano. Mattei, come abbiamo visto, non ha un gran bisogno di bombole, teme che la produzione di gas non riesca a tener dietro alla domanda, ma vuole coinvolgere Merloni. Gli propone perciò di costruire una fabbrica di serbatoi per stazioni di servizio, garantendogli l'assorbimento della produzione. A una condizione però: che lo stabilimento venga realizzato a Matelica. L'accordo sembra fatto, quando sulla scrivania di Mattei piomba del tutto imprevista la vicenda Pignone. Sarà necessariamente la fabbrica fiorentina a produrre i serbatoi per l'Agip. Merloni, avvertito per tempo, torna fulmineo all'idea iniziale e converte lo stabilimento di Matelica, già in costruzione, alla produzione di bombole. Mattei non vuole dare l'impres213 sione di abbandonarlo e gli passa subito un ordine di 70.000 bombole, che consente l'avvio della produzione e qualche mese di lavoro. Esaurito quell'unico ordine dell'Agip, però, lo stabilimento di Matelica entra rapidamente in crisi, anche perché gli altri clienti potenziali, come Liquigas e Pibigas, respingono le sue offerte, convinti che il loro più pericoloso concorrente, Mattei, sia in realtà socio di Merloni. Ma fortunatamente c'è sempre qualcuno che, per anticonformismo o per interesse, non accetta di stare a questo tipo di giochi. Stavolta è la Ultragas del forlivese Giuseppe Ricci a violare l'embargo, allettato da un prezzo interessante e forse su invito dello stesso Mattei, deciso a non abbandonare Merloni in cattive acque. Dopo una visita allo stabilimento di Matelica, Ricci firma un ordine di 150.000 bombole, una commessa che significa 6 mesi di lavoro assicurato e un cospicuo anticipo. Rotto l'isolamento, arrivano gli altri clienti. La Merloni è salva. Dopo questa vicenda i rapporti fra i due grandi marchigiani restano buoni, anche per ragioni politiche, ma sul piano imprenditoriale ciascuno andrà per la sua strada. Capitolo Dodicesimo UN «GIORNO» PER FARE POLITICA L'ostilità di Mattei verso le Sette Sorelle è dovuta anche alle evidenti difficoltà che già dal 1953, cioè nei primi mesi di vita dell'Eni, incontra la campagna «petrolio italiano», allorché il parlamento non si decide a varare una nuova legge petrolifera che gli dia, come egli spera, mano libera su tutto il territorio nazionale. Non resta altro da fare che andare a cercare petrolio all'estero. Nel 1953 la Somalia ha dato risultati molto deludenti. Mattei si rivolge allora verso il paese del Medio Oriente che in questo momento più di altri gli appare retto da un regime progressista e stabile, l'Egitto, il cui leader, il rais Gamal Abdel Nasser, mostra anche accesi sentimenti anticolonialisti e an- tioccidentali,
che per il presidente dell'Eni in un certo senso costituiscono un motivo d'interesse in più. I due s'incontrano verso la fine del 1954, in occasione di una gara internazionale indetta dallo Stato egiziano per un oleodotto Suez- Il Cairo. Si intendono immediatamente, non possono non piacersi, percependosi a vicenda come ribelli e lottatori. Nasser, alla testa del movimento dei «giovani ufficiali», ha cacciato con un golpe il filoccidentale re Faruk, instaurando un regime ispirato ai principi del partito Baath, fondato in Siria nel 1940 da Michel Aflaq e da Salah el- Din el- Bitar: nazionalismo, panarabismo e socialismo (e un forte antisemitismo con qualche ispirazione nazista e fascista). Un personaggio e un programma che non possono non suscitare la simpatia di Mattei. L'Egitto di Nasser diventerà la più importante testa di ponte per la penetrazione sovietica in Medio Oriente. È un incontro molto importante, questo fra il raìs e il capo 215 dell'Eni, soprattutto perché da questa intesa personale immediata scaturisce un accordo petrolifero il cui schema rappresenterà il modello dell'azione internazionale di Mattei per i seguenti anni. Nel maggio del 1955 l'Eni acquista una quota azionaria della International Egyptian Oil Company (Ieoc). Questa partecipazione gli permette, nel 1957, di diventare azionista di maggioranza (51%) della Compagnie Orientale des Pétroles d'Egypte (Cope) con gli egiziani al 49%. Nel 1960 l'assetto azionario diventerà stabile con partecipazioni paritarie. L'Eni anticiperà tutte le spese d'investimento assumendosene il rischio. Se le ricerche daranno esito positivo l'Egitto verserà la metà delle spese d'investimento anticipate dall'Eni, diventandone partner tecnico. Di conseguenza i profitti della vendita del petrolio saranno divisi al 50% fra Egitto ed Eni, che però dovrà versare metà dei suoi profitti in tasse. È lo schema impropriamente chiamato 75-25, per contrapporlo al fifty- fifty. Lo Stato produttore non è più solo un concessionario ma partecipa alla gestione, e questo gratifica molto il suo nazionalismo. Così però rinuncia alla sicura rendita del 50-50 e si espone alle regole del profitto e del mercato. Questo ridimensiona molto la validità della proposta di Mattei, ma in anni di consumi inesorabilmente crescenti a nessuno può venire in mente questa obiezione. Nel luglio del 1956, alla vigilia della gravissima crisi di Suez, si inaugura la grande raffineria del Cairo, costruita per conto del governo egiziano da un consorzio italiano a cui partecipano diverse società dell'Eni. Alla presenza di Mattei, Nasser tiene un discorso in cui parla dei problemi legati al progetto della grande diga di Assuan, sul Nilo. Il giorno dopo, mentre prepara i bagagli, Mattei chiede a Renzo Cola, uno dei suoi più stretti e preziosi collaboratori, che previsioni si fanno per la costruzione di quella diga. Cola gli parla di possibili finanziamenti sovietici. «E se proponessimo a Nasser di aiutarlo noi?», ribatte Mattei. Cola prudentemente non replica. La buona intenzione si mostrerà inattuabile, anche per ragioni finanziarie, ma è un sintorno della pressione anche psicologica a cui il presidente dell'Eni sottopone il raìs. Nel novembre del 1954 è scoppiata la rivolta antifrancese in 216 Mattei Algeria e Mattei, sempre per impulso personale e calcolo strategico insieme, si schiera con la lotta anticoloniale. I finanziamenti a favore del Fin (Front de Liberation Nationale) sono inizialmente modesti, ma l'appoggio politico è importante: col tempo gli algerini lo considereranno un amico sicuro, verso il quale sanno di dover essere riconoscenti. I francesi, invece, lo tengono d'occhio con crescente ostilità. Un'ostilità che non verrà meno, anzi crescerà anche quando, dopo l'arrivo nel 1958 del generale De Gaulle al potere, l'Algeria otterrà nel 1962 l'indipendenza. Allora, anzi, all'inimicizia del governo di Parigi si aggiungeranno l'odio e il desiderio di vendetta dell'Oas, Organisation de l'Armée Secrète, la feroce organizzazione terroristica francese, formata da ex militari ed ex coloni (i pieds- noirs) contrari fino alla fine all'abbandono della colonia più amata. Come molti aspetti delle vicende di Mattei, anche questa dei rapporti con il Fin ha
alimentato aneddoti e leggende alla cui creazione il devoto staff del presidente non era estraneo. Nel Natale del 1958, narra uno di questi aneddoti, Mattei, di ritorno da un viaggio in Cina, rimane bloccato dal maltempo in una cittadina siberiana. La stessa sorte capita ad un algerino che, non adeguatamente vestito, batteva i denti dal freddo. Mattei gli offre parte dei propri abiti per coprirsi meglio e gli porta in camera dei cibi caldi. L'uomo si presentò, commosso e riconoscente: era Ben Yussef Ben Khedda, uno dei massimi dirigenti del Fln, sarà anche capo del governo provvisorio algerino. Secondo la leggenda, il rapporto con l'Eni sarebbe cominciato così. In effetti era già avviato da tempo e in base ad un preciso calcolo politico di Mattei, sebbene fondato su convinzioni profonde. Con questa interessata buona disposizione verso i paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, Mattei comincia anche a dare uno sbocco concreto alle montanti tendenze neutraliste della sinistra dc. D'altra parte non ha ancora un vero e proprio contenzioso aperto con gli Stati Uniti: in realtà chiede solo un riconoscimento formale e un trattamento paritario con le Sette Sorelle. Fa di tutto per superare il complesso d'inferiorità di operatore marginale, appartenente ad un paese frustrato. Perciò nel gennaio del 1955 va negli Usa, ma dai suoi incontri con 217 esponenti politici ed economici non ottiene alcuna soddisfazione, neppure formale. Ci tornerà dopo pochi mesi, a maggio, e il suo stato d'animo sarà completamente diverso: l'ambasciatore italiano a Washington, Egidio Ortona, noterà «chiare inflessioni di insofferenza nei riguardi degli americani». Nella primavera dello stesso anno, scaduto il settennato del liberale Luigi Einaudi, il primo e forse il migliore presidente della Repubblica, il mondo politico si prepara all'elezione del suo successore. I candidati della Dc e della coalizione centrista che governa il paese sono due: Merzagora e Gronchi. Mattei ha ottimi rapporti personali e politici con entrambi e a tutti e due deve della riconoscenza. Il primo ha avuto un ruolo decisivo nella sua nomina a commissario dell'Agip, nella primavera del '45; il secondo, dal '48 presidente della Camera e ministro dell'Industria nel primo governo De Gasperi, lo ha sempre sostenuto, anche se con qualche momento d'incertezza, prima nella battaglia per la salvezza dell'Agip e poi in quella per la costituzione dell'Eni. Tutti sanno che Mattei può influenzare il voto per l'elezione del capo dello Stato. Il suo potere clientelare e le sue grandi risorse finanziarie, i finanziamenti elargiti al partito (ma non solo) fanno sì che il suo parere sia ascoltatissimo nella Democrazia cristiana, in particolare dalla sinistra di «Base». Si dice addirittura che sia in grado di controllare direttamente il voto di un certo numero di parlamentari - non solo di quella corrente e non solo della Dc. Perciò deve stare molto attento a muoversi nella direzione giusta, a dare una mano al vincitore e non al perdente, se non vorrà poi trovarsi contro il nuovo presidente della Repubblica e la maggioranza che lo ha eletto. La scelta dunque è difficile, ma può essere evitata. Mattei non impiega molto tempo a decidere. Con Gronchi sa di avere un debito di riconoscenza più cospicuo: se Merzagora lo ha solo indicato come commissario dell'Agip, peraltro su segnalazione di personalità della sinistra dc, Gronchi lo ha sostenuto in tutti questi anni. D'altra parte Merzagora, in quanto massone, non è gradito alle gerarchie cattoliche, con cui Mattei vuol mantenere buoni rapporti. Inoltre, sebbene eletto nelle liste della Dc, è un liberale, dunque niente affatto 218 Mattei apprezzato dalla sinistra democristiana, della quale invece Gronchi, oltre tutto di estrazione sindacale, è sempre stato un esponente di primo piano. Ma, paradossalmente, Merzagora è il candidato del segretario della Dc Fanfani, uomo di sinistra ma antagonista storico di Gronchi. Altro elemento di distinzione non secondario: Merzagora era gradito agli Stati Uniti, che vedevano invece Gronchi come il fumo negli occhi, considerandolo un pericoloso statalista amico dei socialisti e dei comunisti - e in effetti nel '47 si era opposto apertamente alla decisione di De Gasperi, su richiesta americana, di estrometterli dal governo. A
Mattei, poi, piaceva molto anche il nazionalismo populista di Gronchi, tanto che Giuseppe Saragat lo ribattezzò «il Peron di Pontedera». Infine Mattei, che si vanta di pagare sempre i suoi debiti, si sente in dovere di controbilanciare la scelta fatta al recente congresso di Napoli, dove fra Gronchi e Fanfani per la segreteria della Dc ha appoggiato il secondo. Stavolta, dunque, tocca a Gronchi. Fanfani non potrà volergliene. E Boldrini è d'accordo. La scelta è fatta. Nonostante anche la destra abbia votato per lui, il messaggio presidenziale di Gronchi suonerà marcatamente di sinistra: esorterà ad un forte controllo delle «grandi concentrazioni di ricchezza», e delle «posizioni monopolistiche», dando ampio spazio di manovra all'iniziativa pubblica in economia. Queste posizioni, espresse dalla massima carica dello Stato, daranno a Mattei uno sfondo politico di piena legittimazione anche istituzionale dell'attività dell'Eni e delle partecipazioni statali in generale. La signora Luce, considerando le posizioni filoneutraliste di Gronchi un pericolo per la Nato e attribuendo a Mattei la responsabilità di quell'elezione, irrigidisce la sua posizione di ostilità verso l'Eni e il suo fondatore. Gli ultimi avvenimenti politici hanno mostrato all'opinione pubblica, ormai senza ipocrisie e infingimenti, che Mattei è il vero e proprio «padrone» della sinistra di «Base», con un potere determinante all'interno della Dc, e hanno inorgoglito, forse un po'"troppo, alcuni esponenti, i più giovani ed entusiasti, di quella componente democristiana. Molti di loro, soprat219 tutto in Lombardia, dove la corrente ha il suo massimo sostegno, ormai manifestano posizioni decisamente radicali e si lasciano andare a dichiarazioni che l'elettorato moderato della Dc e la maggior parte del clero e delle gerarchie ecclesiastiche giudicano quanto meno inquietanti. «Questi parlano come dei comunisti» sbotta una volta lo stesso Mattei con Marcora «bisogna fare in modo che si calmino.» Era la reazione ad un episodio molto sgradevole e preoccupante: durante un'udienza concessa ad Eugenio Cefis, l'arcivescovo di Milano, il cardinale Giovanni Battista Montini, pur considerato un «progressista», muove una critica piuttosto aspra, com'era nel carattere del futuro papa Paolo VI, al ruolo politico di Mattei, «quasi con toni da scomunica» riferirà l'ex partigiano al suo capo, forse calcando un po'"la mano. Per il presidente dell'Eni è un campanello d'allarme, seguono giorni di inquietudine e affannosi tentativi di ricucire, correggere l'immagine che gli ultimi avvenimenti politici hanno prodotto: non si può permettere di avere contro personalità della gerarchia ecclesiastica tanto autorevoli e influenti. Incarica perciò Marcora di «raffreddare i bollenti spiriti» all'interno della corrente di «Base» e si sforza di ricostruire la sua immagine di politico moderato. I buoni rapporti con Montini verranno ripristinati con l'adesione al «Comitato nuove chiese per la Lombardia», creato e presieduto dal cardinale. Una partecipazione tanto entusiasta e finanziariamente generosa da portare Mattei a fare il vicepresidente del comitato. Le sue non sono preoccupazioni eccessive: in questo periodo ha bisogno del massimo sostegno politico. L'operazione «petrolio italiano», lanciata da Cortemaggiore con grande clamore mediatico, va male. Il greggio estratto dai pozzi padani è poco e di cattiva qualità. Ormai da un paio d'anni gli attacchi dei suoi nemici si fanno sempre più feroci: «Mattei non è capace di trovare il petrolio». Ora si trova ad affrontare situazioni nuove e ancora più difficili che mettono apertamente in discussione le sue capacità e la sua credibilità di manager pubblico: perfino la concorrenza in casa, ad esempio; e per di più una concorrenza vincente. Proprio nel 1955 scoppia, infatti, il cosiddetto «caso Ragusa». Da tempo la Gulf, una delle 220 Mattei Sette Sorelle, effettua ricerche nei dintorni di questa città siciliana, finalmente con ottimi risultati: la scoperta di un giacimento che consente alla compagnia americana la previsione di produrre nel 1955 più di 100.000 tonnellate di greggio, con forti incrementi per gli anni successivi. Il presidente della Regione
siciliana, Francesco Restivo, esalta il significato economico dell'evento: «Il rinvenimento di così importanti ricchezze è destinato a trasformare la vita dei siciliani» - le cose poi, come sappiamo, non andranno così. Ma il più entusiasta è don Sturzo, per almeno due buone ragioni: perché è siciliano e perché considera così finalmente dimostrata senza possibilità di dubbio la validità della sua radicale avversione al monopolio di Mattei. La concorrenza, anche straniera, non può che portare benefici. Invitato alla cerimonia di inaugurazione del pozzo, Sturzo risponde con un telegramma dai toni inequivocabili: «Sono presente avendo atteso per otto anni questo giorno». Otto anni dal 1947, quando l'Agip di Mattei ottenne di fatto l'esclusiva per la Pianura padana. Il successo della Gulf è stato reso possibile dalla legge petrolifera che la Regione siciliana, grazie alla sua forte autonomia, ha varato il 20 maggio 1950: una normativa molto liberista, anche grazie al contributo determinante dato da Sturzo alla sua preparazione. La maggiore beneficiarla della legge è la Gulf, presente sull'isola fin dal 1948, alla quale nel 1953 vengono attribuite aree di esplorazione per più di 3000 chilometri quadrati su un totale di 10.000 previsti dalle concessioni. Alla distribuzione delle aree partecipano altre compagnie straniere, come Pacific Western, MacMillan, D'Arey Exploration e italiane come Edison e Snia. All'Eni, nell'anno della sua costituzione, di quei 10.000 chilometri quadrati vanno appena 50. Mattei teme che il successo di una così potente competitrice americana sfondi ogni resistenza protezionistica e apra le porte alla concorrenza straniera anche in Val padana. Si rende anche conto che ora la Gulf può allargare il campo delle sue attività in Italia alla raffinazione e alla distribuzione, l'area fino ad ora più redditizia per l'Agip. È la stessa ragion d'essere dell'Eni che viene messa nei fatti in discussione. Cerca perciò in tutti i modi di recuperare terreno proprio là dove ha subito 221 uno smacco così bruciante, aumentando il suo peso politico e il suo prestigio in Sicilia. È un'operazione rischiosa e forse non del tutto adatta ad una personalità come quella di Mattei. I contatti col mondo politico siciliano comportano inevitabilmente rapporti, anche indiretti e inconsapevoli con ambienti mafiosi, molto sensibili agli argomenti di gruppi di pressione statunitensi. Sull'isola, inoltre, la politica ha modalità e codici di comportamento molto diversi da quelli ai quali Mattei è abituato. Col potentissimo presidente della Regione Restivo, ad esempio, il rapporto è difficile. Benché venga chiamato «il De Gasperi siciliano» si tratta di un conservatore proveniente da una famiglia della grande borghesia palermitana che rappresenta il mondo dei notabili e il loro modo di fare politica. Per lui la Dc deve farsi portatrice dei valori della borghesia moderata e deve allearsi con le forze di destra per un programma sostanzialmente immobilista. Non a caso è cresciuto all'ombra dell'influente arcivescovo di Palermo, il cardinale Ernesto Ruffini che arriva a manifestare aperto apprezzamento per il regime falangista spagnolo di Francisco Franco. In questo clima i giovani alfieri del rinnovamento della Dc siciliana sono Giovanni Gioia e Salvo Lima, che, nella rovente polemica politica degli anni Settanta e Ottanta, gli avversari della Dc descriveranno come contigui alla mafia. Nei suoi primi circospetti e un po'"maldestri sondaggi palermitani, Mattei si mostra amico di tutti e largheggia in promesse. Si serve di intermediari e faccendieri locali, in particolare Graziano Verzotto e Vito Guarrasi. Il primo è un ex partigiano, il tipo di collaboratore preferito da Mattei. Negli ultimi mesi di guerra, appena ventenne, nome di battaglia «Bartali», è condannato a morte dalle formazioni comuniste che operano nel Padovano e che lo considerano un traditore per dei malintesi nati dalla liberazione di alcuni prigionieri dei tedeschi. Si mette agli ordini del comandante generale dei partigiani cattolici, col quale entra in contatto tramite l'avvocato Gavino Sabadin, esponente della Dc clandestina e rappresentante del Clnai nel Triveneto.
Assunto all'Agip nel 1950, Verzotto è uno dei tanti «amici 222 Mattei partigiani» che Mattei tiene con sé per impiegarli nei compiti più delicati. A Milano si occupa delle vendite del metano, poi a Roma, dove in realtà è stato chiamato dalla Dc, di «relazioni pubbliche», cioè politiche. Proprio nel '55 è ancora la Dc di Fanfani e Rumor che lo manda in Sicilia, come commissario del partito a Siracusa. Mattei non si fa sfuggire l'occasione e gli affida l'incarico di curare le pubbliche relazioni dell'Eni sull'isola. Guarrasi, invece, è molto più profondamente immerso nella realtà siciliana. È un avvocato di Palermo, di quelli che preferiscono il profilo basso, la discrezione, apparire poco. Ha le mani in pasta un po'"dovunque e ha a che fare con molti dei grandi misteri siciliani di quegli anni. Diventa consulente dell'Eni. È imparentato con Enrico Cuccia. I due, pur non essendosi frequentati, hanno molte cose in comune, a cominciare dal carattere riservatissimo. Tanto impegno, però, in Sicilia non produce grandi effetti. L'influenza politica di Mattei, in quell'ambiente tanto diverso e particolare, resta quasi irrilevante. Migliori risultati arriveranno dal lavoro più strettamente petrolifero: nonostante la relativa esiguità delle concessioni ottenute dall'Eni, le sonde troveranno il petrolio a Gela. Mattei cerca di valorizzare al massimo l'evento sul piano propagandistico e in parte ci riesce. Ma è un altro mezzo bluff, perché è subito chiaro ai suoi tecnici che la quantità e la qualità di quel greggio sono molto inferiori a quelle del prodotto che la Gulf fa sgorgare a Ragusa. Resta intatto, invece, il peso politico di Mattei a Roma. Il 12 aprile 1956 Antonio Segni, presidente del Consiglio, visita Metanopoli. Alle porte di Milano, fra San Donato e San Giuliano Milanese, Mattei ha messo mano alla costruzione di quella che col tempo diventerà una vera e propria città: torri di acciaio e cristallo per gli uffici, palazzine e villette nel verde per i dipendenti, scuole, stadi, piscine, palestre e centri sportivi modernissimi, una bella chiesa dedicata a Santa Barbara, eletta patrona dell'Eni, con affreschi di Tomè e Cascella, grandi spazi verdi, grandi viali alberati, strade intitolate ai momenti e ai personaggi più importanti per la storia dell'ente come via Caviaga o via Alcide De Gasperi o via Ezio Vanoni. Mattei aveva molto ammirato le grandi realizzazioni urbanistiche compiute dal fasci223 smo: Littoria (poi Latina), la bonifica dell'Agro Pontino, Gui- donia. Poi aveva visto o saputo di qualcosa del genere in America, ad opera di grandi industrie come la Ford. Ma soprattutto sviluppava e adattava ai tempi l'idea di «socialità imprenditoriale» che all'inizio del secolo aveva visto sorgere in Lombardia i «villaggi operai» lombardi, come Crespi d'Adda, dichiarato dall'Unesco «patrimonio dell'umanità». Per Mattei Metanopoli rappresenta la realizzazione concreta della sua concezione dell'impresa pubblica come «comunità», «grande famiglia» attenta a tutte le esigenze di carattere sociale e alla qualità della vita dei suoi membri e alla loro emancipazione dai bisogni. Uffici funzionali e confortevoli, con aria condizionata, il ponte radio che collega qualsiasi telefono interno a tutte le sedi del gruppo, le mense aziendali: cose normali oggi, straordinariamente innovative allora. Una grande famiglia che deve pensare, dunque, anche al tempo libero e alle vacanze: ecco perciò i molti impianti sportivi e i grandi centri vacanze in montagna, a Borca di Cadore, e al mare, a Pugnochiuso nel Gargano. Addirittura un'agenzia di viaggi e tour operator. Gli stessi criteri verranno più tardi adottati per la nuova grande sede centrale dell'Eni a Roma, il grattacielo di cristallo (voleva che assomigliasse a quello delle Nazioni Unite a New York) sul laghetto del quartiere Eur. Insomma, c'è la concezione dell'impresa che considera il profitto non il fine ma un mezzo per realizzare finalità sociali. Come gli avevano insegnato Boldrini e i suoi amici. Segni visita, dunque, quel poco che di Metanopoli è già realizzato, guarda i
disegni e i progetti di sviluppo che gli vengono mostrati, si complimenta e si compiace di tutto quello che vede. Poi, parlando ai dirigenti del gruppo, dà una notizia che aveva già comunicato personalmente al diretto interessato: la riconferma di Mattei, il cui incarico è in scadenza, alla presidenza dell'Eni. «Noi continueremo in questa attività statale» annuncia Segni a Metanopoli «che serve ad equilibrare il potere dei grandi monopoli. Lo Stato non può lasciarsi sopraffare da forze economiche accentratrici.» Il linguaggio è sempre gonfio di enfasi anticapitalistica e di retorica statalista: toni ormai abituali per gli uomini della sinistra democristiana. 224 Mattei Si tratta, in realtà, di una decisione scontata: Mattei è troppo importante per la Dc e per le sue correnti di sinistra in particolare; quella da lui direttamente controllata e finanziata è minoritaria ma decisiva, soprattutto in questa fase politica in cui il partito di maggioranza muove i primi timidi passi verso la cosiddetta «apertura a sinistra», quell'incontro con i socialisti che lo stesso Nenni aveva prefigurato durante il congresso del Psi di Torino del marzo 1955. Pur fra mille contraddizioni e smentite, ammiccando ad un Psi comunque ancora restio e legato ai comunisti da un inguaribile complesso d'inferiorità, i democristiani cominciano ad ipotizzare coalizioni di centrosinistra. Mattei fa da battistrada, e non potrebbe essere diversamente. Parallelamente alla lunga marcia verso il centrosinistra, la Dc sembra puntare ad una subdola forma di neutralismo strisciante, o almeno verso la scelta di un ruolo dell'Italia molto più autonomo all'interno dell'Alleanza atlantica, quasi verso una posizione di neutralità, secondo una politica estera ipocritamente chiamata «neoatlantismo». È una linea ispirata dal nazionalismo filomediterraneo e filoarabo di Gronchi. Preparata dall'internazionalismo ecumenico e dall'integralismo pacifista di La Pira, Alimentata dall'antiamericanismo e dall'anticapitalismo di molte organizzazioni cattoliche. Concretamente sostenuta, infine, dal nazional- populismo e dalla diplomazia economica di Mattei. Il quale soprattutto per questa ragione frequentava e finanziava generosamente gli incontri internazionali organizzati a Firenze da La Pira: dal 1952 i «Convegni per la pace e la civiltà cristiana» e dal 1957 i «Colloqui Mediterranei», dedicati, in chiave dichiaratamente anticolonialista ma in realtà antioccidentale, ai paesi del Medio Oriente, del Terzo mondo e alle ex colonie, una vetrina ambita per i loro leader. Erano dunque ottime occasioni per Mattei, all'affannosa ricerca di rapporti utili in quelle aree, per scavalcare i veti delle Sette Sorelle, e di nuovi paesi dove andare a cercare del greggio, visto il sostanziale fallimento della campagna per il «petrolio italiano». 225 «Un giornale, ecco cosa ci vorrebbe, un giornale ... », continua a ripetere Mattei - parafrasando inconsapevolmente il sarcasmo sconsolato di Mario Missiroli, che è stato direttore di diversi quotidiani fino al «Corriere della Sera» - tutte le volte che si sente attaccato da quelli che considera, indifferentemente, «gli organi dei monopoli privati», si tratti del quotidiano di via Solferino, del «Tempo» di Milano o del «Corriere Lombardo», senza distinzione di proprietà, caratteristiche editoriali, stile giornalistico. È un'esigenza che sente da anni, fin dai tempi dei laceranti dibattiti sulle leggi in materia di petrolio. Ma ormai gli attacchi arrivano da tutte le parti, le campagne di stampa organizzate da settori dell'industria privata italiana e straniera si susseguono a ritmo sempre più serrato. L'arma della pubblicità, che pure Mattei usa spregiudicatamente, dandola ai giornali «amici» e negandola ai «nemici», gli viene ritorta contro, denunciata, giustamente, come mezzo di pressione. L'unico a sostenerlo con interventi appassionati e disinteressati è Ernesto Rossi sul settimanale «Il Mondo» di Mario Pannunzio. Non può bastare. Gli manca un giornale per difendersi, per replicare, ma anche, e forse soprattutto, per consolidare il suo potere in Italia e per dare
forza alla sua politica estera. Il 21 aprile 1956, compare nelle edicole un nuovo e rivoluzionario quotidiano a diffusione nazionale pubblicato a Milano: «Il Giorno». Sono passati appena nove giorni dall'inaugurazione di Metanopoli, altra sua «grande opera», e Mattei ha finalmente il suo giornale. Per tre anni non ne ammetterà mai la proprietà, che formalmente è di due società nelle quali né lui né l'Eni compaiono. A prendere l'iniziativa, apparentemente furono un brillante, inquieto e creativo giornalista del «Corriere della Sera», Gaetano Baldacci, e un singolare editore, Cino Del Duca. Emigrato giovanissimo in Francia negli anni Trenta anche per ragioni politiche - era comunista - dopo essere stato condannato al confino a Vallo della Lucania, Del Duca riesce a diventare il re della stampa «rosa» e popolare d'Oltralpe - i giornali delle sue Editions Mondiales vendono milioni di copie - e ora vuole rientrare in Italia ma, ripete spesso, «dalla porta princi226 Mattei pale», cioè con un'iniziativa di prestigio. Riuscirà a replicare con l'Editrice Universo i successi francesi, ma intanto è affascinato dal suo futuro socio, al quale molte cose lo uniscono. Come Mattei è un antifascista, è rimasto anzi uomo di sinistra: «La mia letteratura» dice «è quella del cuore, e il cuore sta a sinistra». Come Mattei, ha realizzato un piccolo impero partendo da zero. Ma, soprattutto, come Mattei è marchigiano. Ancora una volta la marchigianità premia. Baldacci da tempo si sente soffocare nei corridoi di via Solferino. Il giornale è prestigioso ma paludato, ingessato nella difesa dei valori e degli interessi della borghesia lombarda, profondamente conservatore: «pantofolaio», così lo definivano ormai in molti. Alla lunga intollerabile per un progressista di idee socialiste come Baldacci. Il giornalista è convinto che ormai il mercato milanese sia pronto a fare da base per un quotidiano alternativo, spregiudicato, agile, brillante, progressista e popolare ma non becero, pensato per i giovani e le donne, fasce ancora lontane dalla lettura dei giornali. Da anni ha pronto il progetto e una sera al bar di un albergo di Parigi ne parla con un collega del «Corriere», Luigi Campolonghi. Sarà lui a metterlo in contatto con Cino Del Duca, disposto a fare, pur partecipando finanziariamente, l'editore «di copertura». Intanto Mattei sta pensando alla creazione di un settimanale: ne parla da tempo, si consiglia con amici democristiani e socialisti, consulta personalità della cultura come il critico letterario di idee socialdemocratiche Ezio Vigorelli. Molti gli consigliano di pensare ad un quotidiano, strumento politicamente più efficace. Si rivolge anche a Leo Longanesi, un bor- ghesone brillante, colto e raffinato; scrittore, pittore e editore, dai trascorsi fascisti, autore negli anni Trenta di un «decalogo fascista» e del motto, inconsapevolmente profetico, «la patria si serve anche facendo la guardia ad un bidone di benzina». Nel '50 ha fondato il battagliero settimanale di destra «Il Borghese» e, nonostante le profonde differenze politiche, Mattei lo ha frequentato per qualche anno. Longanesi ha le idee chiare e in pochi giorni mette a punto il progetto di un quotidiano molto innovativo, bello e vivace. È amico di Baldacci e probabilmente parla di lui a Mattei. 227 Pochi giorni dopo, una sera a Parigi, ad una mostra di Orfeo Tamburi, Mattei incontra Baldacci. Lo conosce da tempo, lo ha in simpatia come persona e lo apprezza come grande fir- f ma del «Corriere». Gliene hanno sempre detto un gran bene il capo dell'ufficio stampa dell'Agip, Montelugnoli e lo stesso Longanesi. Lo trova pieno di entusiasmo, di idee, di progetti | che gli sembrano addirittura rivoluzionari. Per ore quella sera e per tutto il giorno seguente parlano ininterrottamente e con'esaltante entusiasmo del giornale da fare. Confrontano le rispettive idee, mettono insieme i progetti di Longanesi e di Baldacci, piuttosto simili tra loro. Teoricamente tutto è deciso, poi si comincia a parlare di soldi. Come sempre in questi casi la trattativa è lunga e complessa e sfiora spesso la rottura. Il problema è quello della suddivisione delle quote. Baldacci procura un'alternativa a
Del Duca, Oreste Cacciabue, uomo d'affari milanese. Ma alla fine, anche con i buoni uffici dell'ambasciatore italiano a Parigi Pietro Quaroni, si trova l'accordo con Del Duca; Cacciabue resta nella compagine. È fatta. Baldacci lascia il «Corriere» e mette insieme un primo gruppo di valentissimi colleghi: Giuseppe Trevisani, Pietrino Bianchi, Paolo Murialdi, Claudio Rastelli, Umberto Segre, Giancarlo Fusco ed altri. Ma soprattutto Angelo Rozzoni, ex ragazzo di Salò, braccio operativo del direttore, straordinario «uomo- macchina», che per 25 anni si farà carico della confezione e della realizzazione del giornale. Non è difficile comporre la squadra: la voglia di un quotidiano che rompa col conformismo della stampa italiana è forte e diffusa. La tentazione dell'avventura è irresistibile. Gli stipendi proposti, ottimi. Giorgio Bocca, che più tardi sarà chiamato a far parte della redazione, la ricorda come «la nostra compagnia di ventura, metà ex partigiani al seguito di Italo Pietra metà ex repubblichini venuti con Angelo Rozzoni nella sfida che ogni giornalista italiano allora sognava, al "Corriere della Sera", all'onnipotente giornale di via Solferino, dei Crespi* cutunat che nel loro palazzo di corso Venezia avevano alle pareti i Raffaello e i Canaletto e uno scalone che solo al Quirinale». * Allora proprietari del quotidiano. 228 Mattei Mattei invece è nato povero e colleziona pittori contemporanei: l'intenzione, dunque, è di mandare in edicola un quotidiano «popolare- intelligente», orientato verso i nuovi ceti sociali e quella sinistra moderata che non si riconosce nella linea del «Corriere». Baldacci adotta e integra il progetto di Longa- nesi. Il quotidiano da lui fondato è straordinariamente innovativo come formato, più agile, su 8 colonne anziché 9, nella grafica e nell'incisività della titolazione secondo lo stile dei ta- bloid inglesi (il modello è il «Daily Express») e nei contenuti, con articoli brevi e leggibili che cominciano sempre con la notizia, commenti stringati e accessibili, l'articolo di fondo sostituito da una breve «Situazione», niente «politichese», largo uso della fotografia (presto arriverà il colore), molte e ampie inchieste, rubriche personalizzate. Abolisce clamorosamente la «terza pagina», paludata tradizione di tutti i quotidiani italiani, ed è il primo a pubblicare una sezione di economia e finanza. E poi l'inserto rotocalco, con molta attenzione non conformista alla cultura e agli spettacoli, il supplemento del giovedì per i ragazzi con i fumetti di Jacovitti, una pagina per la donna con la moda raccontata e disegnata da Maria Pezzi. Inizialmente, «Il Giorno» esce anche con un'edizione pomeridiana, secondo il modello «France Soir» del «giornale continuo». Fin dall'inizio la linea politica è chiara: «Il Giorno» punta dichiaratamente alla collaborazione fra democristiani e socialisti, al centrosinistra dunque. Naturalmente difende l'intervento pubblico nell'economia, si contrappone al potere della Confindustria. Sul piano internazionale è apertamente anticolonialista e terzomondista, corteggiando quei paesi africani e asiatici e i relativi movimenti di liberazione nazionale che possono diventare interessanti per le strategie petrolifere dell'Eni. Insomma una rivoluzione per i lettori, uno shock per il compiaciuto e autoreferenziale mondo dell'informazione, un ulteriore motivo di allarme per certi ambienti economici e politici. La prima risposta del mercato è buona, ma non entusiasmante: 100.000 copie di tiratura per le due edizioni. Ma la tendenza è alla crescita e, soprattutto, il peso politico di uno strumento tanto innovativo è subito notevole. Ed è questo che 229 più interessa a Mattei. Perciò al quotidiano vengono attribuiti mezzi finanziari a volontà e la diffusione viene sostenuta da una campagna pubblicitaria senza precedenti. L'Italia è tappezzata da manifesti con un omino in pigiama che spalanca una finestra e si affaccia sul «Giorno». I risultati comunque non sono tranquillizzanti. I conti vanno male dall'inizio. I costi sono alti. Il personale giornalistico e tipografico gode di un trattamento
molto vantaggioso. La diffusione nazionale, necessaria per fare davvero concorrenza al «Corriere», è costosissima. La gestione diretta della pubblicità non dà i risultati sperati. Anche perché molti gruppi industriali ostili attuano un evidente boicottaggio. La caccia alla vera proprietà del nuovo giornale comincia ancora prima del suo debutto. Molti parlano di Mattei, ma nessuno è in grado di portare le prove. Formalmente l'editore risulta essere Del Duca, con la maggioranza della Società Editrice Lombarda, costituita a Milano il 27 settembre 1955. L'impegno di Mattei è prevalente e cospicuo ma celato dietro nomi di copertura. Intanto però i costi crescenti raffreddano l'entusiasmo di Del Duca: il suo potere decisionale è nullo, la sua quota di partecipazione, sebbene minoritaria, va in fumo: «Quello che teme di più» spiega Mattei a Pietra «è di essere coinvolto in un fallimento. Li conosco i marchigiani, se gli do delle garanzie resta». Non è così semplice: in pochi mesi l'editore perde più di mezzo miliardo di lire. Ormai è chiaro: se non vuole lasciarci le penne mettendo a rischio anche la sua prospera impresa editoriale francese di «stampa rosa», deve disfarsi del «Giorno». Lo fa nell'estate del '56, quando il quotidiano, per cominciare a risparmiare, decide di rinunciare all'edizione del pomeriggio. Corre insistente la voce che il giornale sia ormai tutto di Mattei e che il patrimonio sociale della Editrice Lombarda, subentrata alla Società Editrice Lombarda di Del Duca, comprenda, oltre alla proprietà della testata, 134 ettari di terreno a San Donato Milanese, pagato poco e destinato ad un fortissimo incremento di valore per l'espansione della città, per la costruzione, in corso, del quartiere di Metanopoli, per la nascita dell'Autostrada del Sole che da qui sta per partire. 230 Mattei I nemici di Mattei non perdono l'occasione: il segretario del Partito liberale Giovanni Malagodi definisce «Il Giorno» «una mantenuta di Stato da 1000 miliardi». Don Sturzo chiede, con l'abituale veemenza polemica, che l'Eni venga allo scoperto. Interrogazioni e interpellanze parlamentari si susseguono mentre la concorrenza, il «Corriere» più di tutti, insiste con molta enfasi sulla questione. Mattei riesce tuttavia ad eludere, come già detto, almeno per tre anni il problema della proprietà. È evidente, però, che il gioco a rimpiattino non può reggere a lungo, soprattutto se il giornale resta quella macchina mangiasoldi che è dall'inizio. Perciò il 12 maggio del 1959 il ministro delle Partecipazioni statali, Ferrari- Aggradi, dichiara in Senato, rispondendo a critiche durissime soprattutto di Sturzo, che «Il Giorno» è stato acquistato dalla società Sofid, Società finanziaria idrocarburi, 49% dell'Eni, altrettanto dell'Iri, che cederà progressivamente la propria quota, e 2% del ministero stesso. La testata era stata conferita alla nuova proprietà in gran segreto appena sei giorni prima. «Ora» confida Sturzo a Gabriele De Rosa «sono indotto a porre al governo un'altra domanda: chi paga il deficit del quotidiano?» Domanda pertinente, che gli avversari di Mattei e dell'Eni porranno per molti anni a venire. Dopo le ammissioni del ministro, comunque, tutti sanno finalmente a chi indirizzare raccomandazioni e proteste: a Mattei. Nell'estate del '59 «Il Giorno» raggiunge le 150.000 copie, quando il «Corriere» ne vende 350.000 e «La Stampa» 230.000. Dunque è tra i maggiori quotidiani nazionali. Per di più è il giornale dei ceti più dinamici, ha un grande peso politico ed è letto e temuto da gran parte della classe dirigente. E tanto a Mattei basta, anche se, secondo l'organo del Pli, «La Tribuna», dopo appena quattro mesi dall'inizio delle pubblicazioni il deficit di gestione ha raggiunto i 1400 miliardi di lire. «Le aziende dell'Eni» contrattacca Mattei costretto ad uscire allo scoperto «sono strutture privatistiche, pagano le tasse e non sono uffici statali. Io credo perciò che abbiano il diritto di comportarsi come tutte le altre aziende private con cui sono in diretta o indiretta concorrenza. Ci sono grossi complessi industriali che posseggono possenti organismi giornalistici e cia231
scuno fa la sua politica. Anche l'industria statale ha diritto di avere un portavoce che spieghi al pubblico ciò che è stato fatto e ciò che si farà. Perché dovrebbe accontentarsi dei resoconti che compaiono sui giornali i quali sono suoi avversari?» È una concezione brutale e mercantile del ruolo della stampa come «portavoce» di interessi, rivendicata apertamente e pubblicamente con disarmante franchezza. D'altra parte, è con questo stile che Mattei si serve del giornale anche nei suoi rapporti politici. Dice al segretario del Psi Nenni: «Ho fatto per lei quello che nessuno ha mai fatto: un quotidiano». E a Fanfani: «Professore, questo giornale è anche il tuo». E a Gronchi: «Giovanni, da questo giornale non dovrai mai temere attacchi». E in effetti, nonostante il taglio popolare, il rapporto fra «Il Giorno» e la politica è sempre più stretto. Il 31 dicembre di quello stesso 1959 Mattei licenzia Baldacci. Il direttore fondatore del quotidiano milanese è personaggio geniale, creativo, spregiudicato, più giornalista che gestore. Perciò disordinato, anarcoide e ingovernabile. Certamente ha parte della responsabilità del deficit. Per di più ha dato fastidio a molti, in particolare per come ha trattato il recente congresso di Firenze della Dc da cui esce sconfitto Fanfani. Ma soprattutto ha il torto di essere entrato in rotta di collisione col presidente del Consiglio Segni, che ha chiesto la sua testa a Mattei. Il quale, per sostituire Baldacci, si rivolge ad uno degli amici più fidati, Italo Pietra: «Sei l'unico che può prendere quella direzione senza che io perda la faccia». Pietra accetta. Dal 1° gennaio 1960 è il nuovo direttore del «Giorno». Nato a Godiasco, nel Pavese, ufficiale degli alpini e poi del Sim (Servizio informazioni militari), Italo Pietra era stato in Africa per conto del servizio fino all'arrivo degli Alleati nel novembre del 1942. Tornato in Italia, di idee socialiste, dopo l'8 settembre 1943 partecipò alla Resistenza, diventando comandante delle formazioni dell'Oltrepò pavese col nome di battaglia «Edoardo». Mattei lo aveva conosciuto nelle giornate euforiche che seguirono il 25 aprile, quando il Clnai tentava di fare un quadro completo e attendibile della situazione militare. Aderì al Psi e al Psdi con incarichi dirigenziali, ma intanto era riuscito finalmente ad assecondare la sua vera vocazione, diventando giornalista, inviato del «Corriere della Sera» e dell"«Illustrazione Italiana». Quando nacque «Il Giorno», Mattei ricordando i suoi trascorsi africani e spionistici, lo aveva scelto come corrispondente da Algeri: in realtà era una specie di rappresentante dell'Eni presso il Fln, un garante di buoni rapporti con il futuro governo algerino. Quando gli fu offerta la direzione del quotidiano, era iscritto al Psi. Pietra conosce molto bene Mattei e sa che del suo giornale più di tutto gli interessa il peso politico e l'autorevolezza. Ne rafforza perciò la redazione con inviati e articolisti di qualità come Giorgio Bocca, Enzo Forcella, Alberto Arbasino, Pietro Citati. Per sviluppare le pagine dedicate alla cultura, al già ricco schieramento di collaboratori aggiunge alcuni scrittori innovativi come Carlo Emilio Gadda, Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino, Giorgio Manganelli. Gli inserti da tre (ragazzi, donne e domenicale) diventano cinque (televisione e motori, con grande anticipazione), aprendo quel processo che fu chiamato di «settimanalizzazione» dei quotidiani italiani. Infine avvia le edizioni locali per la Lombardia e il Milanese, che resteranno a lungo il punto di forza del giornale. Alle iniziative editoriali del «Giorno», la concorrenza non può non reagire. Questi sono perciò anni di grande innovazione e risveglio della stampa italiana. Il merito va senz'altro a due grandi direttori come Baldacci e Pietra e ai loro entusiasti collaboratori, ma anche allo stesso Mattei, uomo di precaria cultura e rare letture, che però partecipando a quasi tutte le decisioni che riguardano il «suo» giornale, dimostra anche in questo caso un'intelligenza fuori del comune e una straordinaria sensibilità nel percepire lo spirito dei tempi e le aspirazioni e i gusti del pubblico, riuscendo a realizzare un prodotto editoriale, il quotidiano di qualità e popolare insieme, considerato impossibile. Tutto questo però, bisogna ricordarlo, al costo di un crescente dissesto finanziario. Perché se è vero che le
tirature superano le 200.000 copie, arrivando talvolta a sfiorare le 300.000, per contro il deficit aumenta dai due ai tre miliardi di lire annuì. Se grazie ai molti supplementi le vendite aumentano mediamente del 10%, il passivo cresce del 30%. Tanto però non basta a fermare le ambizioni editoriali di Mattei, sempre più impegnato a difendersi dagli attacchi senza quartiere del più grande quotidiano italiano. Progetta di stampare nella capitale un'edizione romana del «Giorno» -non esistono ancora tecniche di teletrasmissione. Stavolta le proteste della concorrenza, le accuse di dumping sono durissime e l'ambizioso progetto, anche per oggettive difficoltà tecniche, viene rinviato. Intanto però l'Eni prende il controllo dell'Agi (Agenzia giornalistica Italia). L'8 giugno 1959, don Sturzo, che morirà esattamente due mesi dopo, considera la situazione del giornale talmente grave da fargli dire di voler «far mettere sotto processo Mattei». Il deficit crescente e le polemiche mai sopite inducono infine Mattei a tentare segretamente di vendere «Il Giorno», mantenendone però il controllo. Ci prova e quasi ci riesce con Andrea Rizzoli, che da anni progetta un grande quotidiano na- zional- popolare da un milione di copie: è già pronta la testata, «Oggi», e i direttori delle edizioni di Milano e Roma, Gianni Granzotto e Gaetano Afeltra. Racconta Rizzoli, intervistato nel 1970 da Guido Gerosa: «Fu Enrico Mattei a propormi l'acquisto del "Giorno". Ma l'accordo non si fece perché lui voleva la maggioranza e invece la maggioranza la volevo io. Poi stavamo quasi per accordarci, quando morì». Se «Il Giorno» rappresenta per l'informazione italiana una piccola ma feconda rivoluzione, un nuovo giornale non poteva trovare momento migliore per esordire nelle edicole, un periodo più ricco di eventi, colpi di scena, stravolgimenti: il 1956, un anno che verrà presto definito «indimenticabile», denso di avvenimenti decisivi e drammatici che influenzeranno fortemente la politica internazionale e di conseguenza quella nazionale e le vicende petrolifere. Al XX Congresso del Partito comunista dell'Unione Sovietica il nuovo segretario generale Nikita Krusciov presenta lo storico «rapporto segreto sui crimini di Stalin», attribuiti non al totalitarismo comunista ma a una deviazione, al «culto della personalità». Il documento verrà pubblicato integralmente il 25 aprile dal «New York Times». Il blocco comunista subisce 234 Mattei violenti contraccolpi: dopo dure proteste in Polonia e nella Germania Est (allora DDR), in autunno l'Ungheria insorge ma i carri armati sovietici soffocano nel sangue la rivolta. In Italia questi fatti lacerano la sinistra: il Pci resta fedele a Mosca, mentre i socialisti di Nenni si muovono sempre più decisamente sulla strada dell'autonomia. Questo rende meno remota la prospettiva di un incontro fra democristiani e socialisti per un'alleanza di centrosinistra. Nell"«indimenticabile '56» anche il Medio Oriente, la più ricca area petrolifera del pianeta, ribolle e sembra esplodere. Il leader egiziano Nasser, protetto dall'Urss, nazionalizza il Canale di Suez, che considera la principale risorsa del paese e fino ad allora controllato e gestito da britannici e francesi. Dopo estenuanti inutili trattative e un paio di altrettanto inutili conferenze internazionali, Londra e Parigi, approfittando anche della contemporanea rivolta ungherese che poteva far supporre una «distrazione» dell'Unione Sovietica, prima annunciano e poi attuano un'azione militare per riappropriarsi del canale, anticipate da Israele che invade il Sinai. E una delle più pericolose crisi internazionali del dopoguerra. Le pressioni degli Stati Uniti che temono la destabilizzazione di tutto il Medio Oriente, dell'Unione Sovietica tutt'altro che «distratta» dai fatti d'Ungheria, e della comunità internazionale costringeranno Francia, Gran Bretagna e Israele a ritirarsi. La cosiddetta «guerra di Suez» è l'ultimo episodio, fuori tempo massimo, della «politica delle cannoniere» da potenze coloniali di Parigi e Londra, che devono rassegnarsi realisticamente al loro nuovo status di potenze di secondo piano sullo scenario internazionale. In particolare in Medio Oriente, dove Mattei, grazie anche alla sua reputazione anticolonialista e agli ottimi rapporti con Nasser, ha ora
ancora maggiori opportunità di iniziativa. Opportunità che non si lascerà sfuggire. Ma sul piano personale per il presidente dell'Eni quell'anno comincia malissimo. Il 16 febbraio muore Ezio Vanoni, stroncato da un infarto in Senato dopo essere intervenuto nel dibattito sul bilancio dello Stato e sulle dimissioni di Silvio Gava da 235 ministro del Tesoro, date «per divergenze tecniche». In realtà Gava, della destra dc, protestava contro gli aumenti salariali concessi ai dipendenti pubblici con dubbia copertura finanziaria e chiedeva una politica di rigore. Vanoni ne aveva approfittato per illustrare gli sviluppi del suo cosiddetto «schema», un vero e proprio manifesto di politica economica dirigista e keynesiana. Per Mattei la morte di Vanoni è una perdita gravissima. Il politico valtellinese era l'amico più caro. Più ancora di Boldrini, il maestro di strategia e di tattica, il Pigmalione politico, la guida che col suo statalismo ideologico aveva definitivamente legittimato il ruolo dell'Eni, il protettore più franco, determinato e affidabile. Se Boldrini lo aveva «svezzato», Vanoni gli aveva insegnato a «stare al mondo» della politica. Mattei ne sentiva fortissimo l'ascendente e l'autorevolezza: «Era una delle due persone, tra quelle che trattavo col tu, e molte erano davvero potenti, alle quali non ho mai osato rispondere male». Questo fa pensare - ed è così - che con le altre, da Cadorna a Parri, da Fanfani a Gronchi, si sia permesso anche di reagire in malo modo; certamente non con il gelido De Gasperi, al quale proprio non riusciva a dare del tu. L'altra persona a cui non aveva mai risposto male era la madre, la prima grande guida esistenziale, morta anche lei da poche settimane. Il giorno dei funerali, durante il corteo verso il cimitero di Matelica, mentre la banda suona la marcia funebre di Chopin, Mattei piange a dirotto come un bambino e senza pudore. Telefonava alla madre almeno due volte alla settimana, andava a visitarla almeno una volta al mese. Quelle poche ore passate con lei, spesso parlando fitto fitto in disparte, gli erano di grande conforto: «Un ricostituente per lo spirito», così le definiva. Per la famiglia, ma soprattutto per la madre, farà costruire la più bella cappella funebre del cimitero di Matelica, accanto a quella dei Roversi ma un po'"più grande, arricchita con sculture di artisti illustri come Arnaldo Pomodoro. Angela Galvani vi avrà il posto d'onore. Prima la madre poi Vanoni: due perdite irrimediabili, due colpi durissimi, a breve distanza l'uno dall'altro, che lo fanno barcollare: Mattei si sente improvvisamente solo, privo di 236 Mattei ogni sostegno e guida, senza un punto di riferimento. Chi gli è stato vicino in quelle ore ricorda che cominciava a perdere fiducia in se stesso: «Se ho tanto bisogno di altri vuol dire che non valgo molto». La stessa sera dei funerali di Vanoni corre da Giulio Andreotti, da molti allora considerato il legittimo erede di De Gasperi. «Le offro un bel cane da tenere al guinzaglio, è un purosangue dei cani, ha addirittura sei zampe, ma non può fare a meno di una guida.» Andreotti tace sornione, fingendo di non capire. Mattei diventa più esplicito, al limite della brutalità: «Perduto Vanoni, il gran problema è questo: se uno come me non ha un solido rampino politico è a terra». Andreotti si schermisce con la consueta dose di ironia: «Guardi che io ho poca dimestichezza con i cani; da ragazzo abitavo in una casa senza giardino, c'era ben altro da pensare che ai cani». E inevitabile arriva la staffilata politica: «E poi lei ha un ruolo così importante in una corrente, la "Base", che è già un rispettabile rampino e che sta a sinistra, molto lontano da me». Questa, secondo Andreotti, la cinica e supponente replica di Mattei: «Quelli, li faccio cambiare io in quattro e quattr'otto». Ma non c'è niente da fare: «Il guinzaglio è fuori discussione. E lei non ha bisogno del mio appoggio per le buone cose che intende fare. Al momento buono, tutte le persone oneste e obiettive le daranno una mano». Insomma, picche. Ma perché Mattei, sentendosi politicamente «orfano», si rivolge proprio ad
Andreotti, considerato uomo di destra e dunque così lontano dalle sue posizioni? I due a malapena si conoscono, sono diversissimi per storia, formazione, cultura e temperamento, come possono intendersi e collaborare? La scelta è puramente funzionale: Mattei ha visto all'opera il giovane sottosegretario di De Gasperi, efficiente, instancabile, prezioso, fedelissimo. Ne conosce l'intelligenza e la spregiudicatezza, sa che ha amicizie in tutti i partiti, agganci in tutti i ministeri e i palazzi del potere romano, che è fortemente collegato con le organizzazioni cattoliche, con l'alta burocrazia e con il Vaticano. Ne ha ammirato, durante la durissima battaglia per l'elezione di Gronchi al Quirinale, la grande capacità di parlare con tutti, mediare continuamente, organizzare le 237 forze, cercare alleanze ovunque, senza preclusioni: prudente, abile, sicuro di sé, navigatissimo, privo di emozioni apparenti. In realtà, Mattei vorrebbe possedere queste capacità ed è proprio il «no grazie» di Andreotti che lo convince a fare a meno di una guida permanente, a muoversi da solo e senza preclusioni; come sa fare Andreotti, appunto. Non sarà più «l'uomo di...» ma sarà lui a gestire «i suoi uomini». In fondo, può sempre contare sull'amicizia di Gronchi, Fanfani, Segni e sulla «sua» corrente di «Base»: tutto sommato, non poco. A volte, come gli rimprovera Pietra, peccherà forse di ingenuità, vantandosi un po'"troppo della sua abilità nel compiere certe manovre e certe operazioni. Ma è una civetteria comune a molti uomini di potere. In queste condizioni di spirito e di potere, Mattei segue il VI Congresso della Dc, che si svolge a Trento dal 14 al 18 ottobre del 1956, poco prima della rivolta ungherese. È presente solo come invitato e si fa vedere pochissimo. Nonostante la perdita di Vanoni, politicamente è tutt'altro che indebolito. L'alleanza stretta con Fanfani, leader del partito e dell'altra corrente di sinistra «Forze Nuove», è solida. L'aretino è ostico, ombroso ma energico e affidabile. Mattei si è impegnato per il suo rafforzamento e lo fa anche al Congresso, ad esempio chiedendo a Marcora, in quel momento su posizioni ostili alla segreteria, di non partecipare ai lavori. Marcora naturalmente obbedisce. La «Base» si asterrà nella votazione in Consiglio nazionale per la rielezione di Fanfani, ma lo farà solo per spirito di bandiera. Nella sua relazione, il segretario del partito mostra apertamente in quanta considerazione tenga Mattei e l'Eni indicando addirittura come «primo problema per l'ulteriore progresso economico all'Italia e all'Europa quello dell'energia». «La nostra situazione nell'ultimo decennio è migliorata» aggiunge Fanfani «anche grazie ai ritrovamenti e alle utilizzazioni metanifere che i privati e soprattutto l'ente statale hanno compiuto ... La Democrazia cristiana chiede pertanto che la legge sugli idrocarburi venga approvata ...» Ma le indicazioni di Fanfani vanno ben oltre l'ambito degli idrocarburi, abbracciando tutto il settore dell'energia. Il segretario della Dc si riferisce in particolare all'energia elettrica, allo238 Mattei ra ancora in mano ai privati e la cui nazionalizzazione la sinistra chiede da tempo. Le concessioni ai privati stanno per scadere ed è quindi il momento giusto per chiedere «una politica che favorisca gli utenti... con il ricorso all'attività pubblica». In effetti Mattei ha già pronto un progetto di trasformazione dell'Eni in Ene, Ente nazionale per l'energia: sarà sufficiente «passare ad esso, man mano che scadranno, le concessioni in corso per la produzione di energia». In quella direzione si muove da tempo: ad esempio, ha il 20% di una grande centrale termoelettrica, la ex Stei di Tavazzano, alle porte di Milano, prima centrale europea alimentata a metano; intanto sta facendo i primi passi per arrivare alla costruzione di centrali nucleari. L'Ene, però, non diventerà mai realtà, anche per la sorda ma tenace opposizione di quanti, politici e imprenditori, temono la nascita di un «mostro economico» potentissimo, un Moloch in grado di controllare, attraverso l'intera produzione d'energia, tutta l'economia italiana. In molti, anche tra i
democristiani, considerano Mattei già troppo potente. E poi ai partiti, in particolare alla Dc, fa gola l'idea di avere a disposizione un'altra azienda pubblica, con relative poltrone e risorse finanziarie da spartire. La nazionalizzazione dell'energia elettrica avverrà, perciò, in un altro ente di Stato, ben distinto dall'Eni, anche per quanto riguarda il controllo politico: l'Enel. La Dc comunque è sempre più convinta che il potere politico (cioè i partiti) debba prevalere su quello economico; che in particolare alcuni settori strategici, come l'energia, non possano essere lasciati solo alle regole del mercato, «in balìa dei monopoli» o del «liberismo selvaggio» come andava di moda dire. È la teoria che col tempo metterà lo Stato (cioè i partiti) in condizioni di controllare direttamente più del 60% dell'economia italiana, portando alle estreme conseguenze la «lottizzazione», cioè la spartizione politica delle aziende pubbliche, e creando le fonti e i canali per il finanziamento illecito dei partiti, per il sistema delle «tangenti» e della corruzione diffusa. A cui poi si adegueranno anche le imprese private. È la genesi di «Tangentopoli». Poche settimane dopo, il 22 dicembre, con legge numero 1189 vie239 ne istituito il ministero delle Partecipazioni statali, lo strumento politicoamministrativo dell'intervento dello Stato in economia. È, benché postuma, l'ultima creatura di Vanoni, che da tempo ne invocava la nascita. A Mattei quest'idea del suo amico non era mai andata a genio, non gli piaceva affatto la prospettiva di dover dar conto ad un ministro. Ma presto capisce che le cose andranno esattamente nel senso opposto: e cioè sarà lui, in pratica, a designare quel ministro, che di fatto sull'Eni non avrà alcun potere. Il controllore, in pratica, sarà nominato dal controllato. E anche per mettere in chiaro quali siano i veri rapporti di forza, mentre il ministero si sistema in una modesta palazzina di via Flavia, l'Eni costruisce grattacieli per i suoi centri direzionali a Roma Eur e a San Donato Milanese. D'altra parte anche gli industriali privati hanno sempre esercitato un'influenza non trascurabile nella nomina di ministri economici, ma a questa crescente ingordigia della politica, la Confindustria reagisce più ideologicamente che concretamente. In realtà gli imprenditori privati che potranno essere più direttamente colpiti si ripromettono di alzare i prezzi delle future nazionalizzazioni. Intanto un po'"tutti cominciano a chiedere protezioni, sovvenzioni, privilegi, condizioni di favore. Altri intravedono la possibilità di cedere vantaggiosamente allo Stato, per evitarne la chiusura, aziende ormai scomode; giustificando col ricatto occupazionale uno slogan che avrà grande fortuna negli anni seguenti: «Privatizzazione dei profitti, nazionalizzazione delle perdite». A molti di loro, infine, semplicemente fa comodo, secondo un'antica tradizione italiana, evitare di misurarsi sul mercato ad armi pari. Finalmente l'1l gennaio del 1957 il parlamento approva la legge che, sostituendo la vecchia e ormai inadeguata normativa d'epoca fascista, disciplina le ricerche di idrocarburi. È la legge che Mattei chiede con insistenza da tanto tempo. Prevede che sul territorio nazionale, escluse le isole e le aree già concesse all'Eni, possano essere dati permessi di ricerca e, nei casi di ritrovamento, concessioni di coltivazione in fasce limitate, riservandone una parte allo Stato. I permessi di ricerca possono essere concessi ai richiedenti con particolari procedu240 Mattei re di assegnazione; dalle quali, però, è esentato l'Eni, che può ottenere le concessioni per decreto ministeriale. Per Mattei è un successo. Infatti la concorrenza delle multinazionali del petrolio è sempre fortissima e preponderante nel settore della raffinazione e in quello della distribuzione. Le americane Esso, Mobil, Gulf, Chevron e Amoco insieme alle europee Bp, Shell e Petro- fina non lasciano molto spazio all'Eni. La nuova legge non solo ribadisce il monopolio dell'ente di Stato su ricerca ed estrazione in Val padana ma, anzi, ne rafforza enormemente la posizione, riservandogli di fatto il monopolio del metano
in Italia. D'altra parte, proprio in quel periodo due fatti nuovi rafforzano la posizione dell'Eni e di Mattei. Il primo, nel 1956, è, come abbiamo visto, il ritrovamento del petrolio in Sicilia, nella piana di Gela. Poco prima il greggio era sgorgato anche in provincia di Pescara e in qualche località del Sud. In realtà si tratta di giacimenti di «moderati quantitativi bituminosi», come anticipa una relazione, e di lavorazione antieconomica. La loro scoperta, però, torna molto comoda a Mattei dal punto di vista propagandistico, perché, in vista della legge, contrasta la rinnovata iniziativa dei privati per l'aggiudicazione delle concessioni. Nel merito della qualità del greggio non si entra. Il secondo, e forse più importante avvenimento è la legge per il Mezzogiorno, la numero 674 del 1957, che all'Eni chiede di fare molto per il Sud. E Mattei risponde, sia perché è particolarmente sensibile alla questione meridionale, sia per accentuare il ruolo «sociale» dell'Eni, istituzionalizzandolo e rafforzandone la posizione politica. D'altra parte, già nel 1955 aveva cominciato ad interessarsi intensamente al Sud, alla Sicilia in particolare, per rispondere al ritrovamento del petrolio della Gulf a Ragusa. Prepara un generoso programma quinquennale secondo il quale dal '57 al '61 ben il 65% dei nuovi investimenti dell'Eni andrà al Sud. Un flusso enorme di denaro per la realizzazione di impianti petrolchimici, centrali termoelettriche e raffinerie che sfruttino il petrolio di Gela e una linea di lavorazione e produzione di una vasta gamma di prodotti chimici, sempre in quella città. La maggior parte di questi progetti saranno in effetti realizzati. L'impianto di Gela sarà poi 241 ulteriormente arricchito dal metano che l'Agip troverà a Gagliano Castelferrato, consentendo una linea di fertilizzanti. Altri investimenti sono previsti per una fabbrica di apparecchiature elettroniche della Pignone Sud a Bari, per la coltivazione di giacimenti di gas naturale a Ferrandina e per attività esplorative in Basilicata (che daranno buoni esiti) e ancora in Sicilia. In questi anni la sensibilità per i problemi ambientali è praticamente nulla. L'attenzione è tutta ed esclusivamente concentrata sullo sviluppo, solo industriale, e sulla creazione di posti di lavoro, solo nell'industria. A loro volta, i posti di lavoro producono voti. Solo questo conta. Da tali iniziative dell'Eni, come di altri gruppi industriali, traggono perciò origine alcuni dei più devastanti scempi ambientali che si sono abbattuti sul Sud e in particolare sulla Sicilia. Mattei è tra i primi a convincersi che il futuro della produzione di energia elettrica stia nel nucleare. Dare l'autonomia energetica al paese: ormai si è convinto di essere investito da questa missione storica. Perciò intuisce, da quell'imprenditore istintivo che è, che questa autonomia possa essere data, più ancora che dal petrolio, dall'uranio, se non altro perché la competizione internazionale per il controllo di questo minerale non è feroce quanto quella scatenata per l'oro nero. Ma soprattutto Mattei ha ben chiaro che il petrolio è un bene limitato, destinato ad esaurirsi e a costare sempre di più (sebbene quelli siano anni di continui ribassi) anche per ragioni geopolitiche; ed è convinto che l'unica alternativa realistica sia l'uranio. Nasce dunque l'Agip Nucleare, che inizia la ricerca del minerale in Italia e all'estero. Si comincia con una cinquantina di studiosi e tecnici. Entro quattro anni saranno 300, prima addestrati all'estero, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, poi nel centro di San Donato Milanese. Intanto si cerca l'uranio: se ne trova nella Bergamasca e in Canada. Ormai può partire la costruzione della prima centrale nucleare italiana, a Foce Verde, presso Latina, realizzata con tecnologia britannica. Sarà inaugurata nel 1962, poco dopo la morte di Mattei, e chiusa nell'87 in seguito ad un referendum che impose al paese la rinuncia al nucleare. 242 Mattei Intanto comincia a produrre importanti effetti l'attività della lobby politica che Mattei ha messo al lavoro in Sicilia per superare le condizioni di svantaggio in
cui è venuto a trovarsi l'Eni. Il 5 agosto 1957 la legge regionale numero 51 istituisce la Sofis, Società finanziaria siciliana: una specie di Iri regionale con la funzione di dare impulso all'industrializzazione della Sicilia. In realtà diventerà presto un baraccone di sottogoverno e clientelare. È una decisione che provoca diffidenze, polemiche e divisioni, anche all'interno dell'organizzazione degli industriali privati. La struttura centrale è decisamente ostile: per la Confindustria del duro Angelo Costa si tratta dell'ennesima scelta dirigista, statalista e assistenziale, si privilegia l'economia pubblica a svantaggio di quella privata. Sicindustria, l'Associazione degli imprenditori siciliani, è invece favorevole. Anzi, al vertice della Sofis è destinato addirittura l'ex presidente di Sicindustria, Domenico La Cavera, brillante e spregiudicato professionista della Palermo bene, che in età matura sposerà la bellissima attrice Eleonora Rossi Drago. In ottimi rapporti con Mattei, La Cavera è il principale promotore della Sofis: da tempo chiede strumenti per favorire gli imprenditori siciliani contro il «colonialismo» degli industriali del Nord, invocando perciò apertamente l'intervento massiccio degli enti economici pubblici. La più forte opposizione alla Sofis e a La Cavera viene anche stavolta dal sicilianissimo e antistatalista don Sturzo, che va al nocciolo della vicenda, denunciando la finanziaria come il cavallo di Troia di Mattei. Sul «Giornale d'Italia» del 20 giugno scrive: «La nomina del presidente della Sicindustria non va approvata ... per i suoi rapporti con l'onorevole Mattei, i cui metodi politici ed economici apertamente combatto». La Cavera apre immediatamente una trattativa con l'Eni per una maggiore presenza sull'isola: Mattei ottiene il dimezzamento delle royalties da pagare alla Regione per lo sfruttamento dei giacimenti, assicurando in cambio un cospicuo investimento da realizzare a Gela. Ma questa vicenda si intreccia con quella che passerà alla storia della politica italiana come «milazzismo». Gran parte della Dc siciliana è ostile all'impostazione «autoritaria» di 243 Fanfani. In aperta rivolta contro il segretario del partito, Silvio Milazzo, un vecchio «popolare» amico di don Sturzo, appoggiato dal cardinale Ruffini, con fama di uomo coerente e probo, forma nell'ottobre del 1958 un governo regionale composto da notabili democristiani ed appoggiato dalla sinistra fino al Pci e dalla destra fino al Msi. È un clamoroso scandalo politico nazionale. Appena eletto, Milazzo nomina il suo amico La Cavera direttore generale della Sofis e concede all'Eni vaste aree di ricerca sull'isola con royalties. Queste scelte, insieme ad altri indizi, inducono Fanfani, ma non solo lui, a sospettare che Mattei abbia giocato un ruolo decisivo nell"«operazione Milazzo», anche per conto di Gronchi, eterno rivale «a sinistra» di Fanfani. Un ruolo che certo ha avuto, se non direttamente il presidente dell'Eni, il suo stretto collaboratore Vito Guarrasi, al quale l'Eni affiderà la gestione del «Piano quinquennale per la Sicilia», una posizione di grande potere e con notevoli risorse finanziarie a disposizione. Fanfani ha un carattere molto spigoloso e diffidente, ma i suoi sospetti su Mattei non appaiono del tutto infondati. Da quel momento i rapporti tra i due non saranno più buoni come prima. Sebbene siano passati quattro anni, Mattei non si è mai rassegnato a quella che lui considera «l'esclusione dal Consorzio di Abadan». Perciò ha mantenuto i contatti con quel paese anche dopo la soluzione della crisi. In questi primi mesi del 1957 la trattativa sembra arrivare ad una stretta. Fa la spola fra Roma e Teheran l'avvocato Pietro Sette, ex ufficiale dei carabinieri, esperto di diritto internazionale, uomo della Resistenza. Mattei dunque ha diverse buone ragioni per riporre in lui la massima fiducia. È stato anche un buon calciatore, terzino del Bari, la squadra della sua città. «Lei è un buon diplomatico» scherza Mattei «anche perché non ha la rozzezza che usava quando giocava al calcio ed era considerato uno "scarpone".» Diventerà presidente dell'altra grande holding di Stato, l'Iri. Nei suoi viaggi a Teheran lo affianca il dottor Jacoboni, uomo abile, prudente, fidato, con grande esperienza nelle più delicate trattative internazionali.
244 Mattei L'azione dei due abili «ambasciatori» di Mattei ha buon gioco, perché lo scià sta cautamente cercando di crearsi un'alternativa al Consorzio, o quanto meno di non dipendere completamente da esso. Di riscattarsi dall'immagine, interna e internazionale, di «protetto dalla Cia» e «servo delle Sette Sorelle». Il primo risultato di questa pressante azione diplomatica, infatti, è la visita di una delegazione iraniana in Italia, per offrire petrolio in cambio di beni strumentali e tecnologie. Ma Mattei ha ben altro in mente e molto di più da proporre: un contratto analogo a quello messo a punto con Nasser e impropriamente detto 75-25. Vuole giocarsi la carta della cosiddetta «formula Eni». Presenta informalmente la «rivoluzionaria» proposta agli ospiti che, nonostante la doverosa prudenza e discrezione, danno evidenti segni di entusiasmo. Reazioni incoraggianti arrivano poi anche da Teheran. Insomma, l'affare si fa; la firma dell'accordo è prevista per il 14 marzo a Teheran, tuttavia si pensa bene di farla precedere da una visita dello scià in Italia. Oltre che per le ragioni di affari, Mattei è eccitatissimo all'idea di incontrare un imperatore. Ne parla per giorni con la moglie Greta che invece è terrorizzata e lo implora di essere esentata dal partecipare agli incontri ufficiali. Affida l'imperiale ospite alle sapienti cure di un aristocratico friulano, Alvise Savorgnan di Brazzà, responsabile dell'ufficio pubbliche relazioni, detto «il Conte», grande uomo di mondo, straordinario intrattenitore e brillante diplomatico naturale (un suo avo naturalizzato francese aveva esplorato, per conto di Parigi, Gabon e Congo lasciando il nome a Brazzaville). Lo troveremo spesso accanto a Mattei nelle trattative e nelle operazioni di carattere internazionale, non solo nel ruolo di interprete ma anche come referente del Sifar, i servizi segreti di allora. Per sottrarre il giovane monarca ai politici e tenerlo così meglio sotto controllo, Mattei fa in modo che stia a Roma il meno possibile. «Mi raccomando» dice a Brazzà «lo faccia divertire, lo porti in giro, a Napoli, a Capri, sullo yacht che mi presta Rizzoli. Porti a bordo la migliore società napoletana. La principessa Shan che accompagna lo scià, deve essere trattata con ogni possibile riguardo (scandisce strizzando l'occhio). Poi lo 245 porti a Milano, dobbiamo dare un pranzo magnifico, grandioso, con tutti i principi.» «Ma presidente» ribatte Brazzà «a Milano principi ce ne sono pochi, sono tutti a Roma.» «Va bene, allora li porti da Roma.» Ma da tempo Mattei cova un'idea ancora più temeraria di un trasferimento in massa di principi da Roma a Milano. Per suggellare l'alleanza con lo scià, pensa di dargli in moglie una Savoia, alla maniera delle grandi case regnanti d'altri tempi, anche se i Savoia non regnano più in Italia. I suoi più stretti collaboratori, rigorosamente repubblicani, sono ideologicamente contrari, a cominciare da Pirani e Ruffolo, personalmente costernati. Ma lui insiste, anche perché ha già ottenuto una disponibilità di massima da parte della diplomazia iraniana. Come dimostra il racconto di Brazzà, che un bel giorno, prima del viaggio in Italia dello scià, è avvicinato da May Bud, ambasciatore iraniano a Roma, che lo prega di compiere una missione delicatissima e assolutamente fuori dall'ordinario: sondare informalmente Umberto di Savoia. «Mattei è assente» ricorda il nobile friulano «allora mi consulto con Cefis e prendo l'aereo per Lisbona. A Cascais* Umberto mi accoglie con la consueta gentilezza, pur avendogli io detto che non sono monarchico. Gli faccio l'ambasciata di cui sono incaricato, aspettandomi una reazione di sorpresa e negativa. E invece niente di tutto questo: solo più avanti saprò che aveva avuto un colloquio con Mattei tre mesi prima a Madrid e che quindi si aspetta un passo del genere. "La mano di Gabriella per sua maestà lo scià? Innanzi tutto ringrazi l'Imperatore per l'onore che ci fa, ma sono un sovrano cattolico, non posso promettere nulla senza l'assenso papale: ma se Sua Santità mi desse il suo benestare, io non mi opporrei certo." E la principessa? "Non sarebbe la prima volta che un Savoia si sacrifica per l'Italia." Esita un attimo e si corregge prontamente: "Non sta a me dirlo. Comunque, lei che è veneto conosce il precedente
di Caterina Cornaro Anche lei, per ragion di Stato, ebbe a sposare un infedele".» Non se ne farà nulla, ammesso che quel matrimonio fosse possibile per ragioni religiose, che alla povera Gabriella andas* Cittadina portoghese dove Umberto viveva in esilio. 246 Mattei se a genio Reza Palhavi e che avesse voglia di convertirsi all'Isiam e di vivere a Teheran. Pietra si chiede se «fu Maria José, la risoluta moglie di Umberto, a puntare i piedi o fu il papa, ostile a Mattei». Tuttavia, in seguito a questo tentativo, il figlio di Umberto, Vittorio Emanuele, collaborerà a lungo con l'Eni e poi con altre aziende non solo italiane, per affari iraniani. Questo episodio è forse l'esempio più indicativo della spregiudicatezza di cui Mattei è capace quando punta ad un obiettivo importante. Ma anche senza nozze regali, alla conclusione dell'affare si arriva lo stesso. Il 14 marzo 1957 a Teheran l'Agip Mineraria e la Nioc (National Iranian Oil Company) firmano un accordo, che il parlamento iraniano ratificherà l'8 settembre, secondo la «formula Eni»: i due contraenti creeranno una società paritetica la Société Irano- Italienne des Pétroles (Sirip); l'Iran percepirà il 50% degli utili della Sirip a titolo di prelievo fiscale e il 50% degli utili al netto delle tasse. Il paese produttore, dunque, incassa complessivamente il 75% dei profitti della società, il restante 25% andrà all'Agip. Inoltre tutte le spese iniziali di ricerca e investimento saranno a carico della compagnia italiana; dopo l'eventuale scoperta di giacimenti petroliferi il governo iraniano coprirà metà di quelle spese, subentrando solo così in tutti i suoi diritti. In sé l'operazione è di dimensioni modeste: la Sirip ha diritto di ricerca su tre aree per un totale di 22.900 chilometri quadrati. Ma Mattei fa in modo che i mezzi d'informazione ne diano conto col massimo clamore, in Italia ma anche all'estero: «Spero che sia un esempio per i "piccoli" e un avvertimento per i "grandi"», e dopo pochi giorni già propone accordi analoghi ad altri partner, a cominciare dalla Libia. Si scatena un pandemonio internazionale. Molti analisti americani e britannici, infatti, sono convinti che una rottura così clamorosa e traumatica del sistema fifty- fifty possa addirittura mettere in pericolo la stabilità del Medio Oriente e quindi gli approvvigionamenti petroliferi da quell'area. D'altra parte già dopo l'abbandono da parte Aramco di quella formula, la Standard New Jersey aveva parlato di «una ritirata senza fine», esprimendo così i timori delle multinazionali. Nel caso della Sirip, a spaventare le Sette Sorelle e i rispettivi go247 verni non è tanto la meno vantaggiosa ripartizione degli utili quanto la partecipazione del paese produttore al processo industriale e commerciale, introducendo possibilità di rivendicazioni nazionalistiche e pericolosi elementi di controllo sulle quantità da estrarre, fattore di grande importanza strategica. Naturalmente Washington non è stata a guardare: ha seguito tutta la vicenda il vice di Foster Dulles, Christian Herter, che ha esercitato pressioni dirette e personali sullo scià, descrivendo l'accordo come pericoloso per la stabilità del Medio Oriente e quindi in grado di agevolare la penetrazione sovietica nell'area. D'altra parte tutti i paesi produttori, di fronte a questa novità, drizzano le orecchie e ne seguono gli sviluppi con grandissima attenzione. Anche se «nella sostanza» scrive Votaw «le formule non sono molto diverse. Mattei si impegna a versare il 75% dei profitti ma è esentato dal pagamento di bonus che quasi invariabilmente accompagnano altri accordi, e l'Eni non aveva bisogno di finanziare migliorie, autostrade, costruzione di case, scuole e altre attività, spesso parte delle obbligazioni dei concessionari. Naturalmente le società petrolifere sapevano tutto questo, ma temevano di essere messe sotto pressione perché adottassero la formula 75-25 in aggiunta a tutti gli altri impegni». Il risultato è che, subito dopo la firma, la diplomazia americana si dà un gran da fare per scongiurare la ratifica parlamentare dell'accordo, esercitando forti pressioni sul governo italiano, e mostrando di considerare Mattei il vero
ispiratore, se non il «padrone» della politica estera italiana: un'impressione molto ben fondata. Ma ormai le cose sono andate troppo avanti. Inoltre l'accordo arriva appena due mesi dopo la nuova legge sugli idrocarburi che dà all'Eni una posizione di egemonia in Italia. Mai come ora, dunque, Mattei appare forte e vincente. In realtà, scrive Maugeri, questi successi «rappresentano la facciata ingannevole di una strategia condotta ai limiti del possibile, che non sarebbe stata sostenibile senza clamorosi risultati. Solo il tempo, quindi, ne avrebbe squarciato il velo». Anche la Sirip, in effetti, non avrà grande fortuna sul piano produttivo, non estrarrà quantitativi tali da turbare il mercato 248 Mattei internazionale e proporzionati al clamore suscitato dall'accordo. Ma il successo politico e di immagine è indiscutibile. Mattei è definitivamente proiettato a livello internazionale, anche se è più odiato e temuto che rispettato. Se l'accordo 75-25 non era oggettivamente una rivoluzione ma solo una pericolosa innovazione, non c'è dubbio che la concorrenzialità dell'Eni agli occhi delle grandi compagnie multinazionali era molto aumentata. Nel settembre del 1957, per celebrare la ratifica dell'accordo da parte del parlamento iraniano, si svolge una visita italiana a Teheran al massimo livello, guidata dal presidente della Repubblica Gronchi. A Mattei gli iraniani dedicano un'intera serata con una sontuosissima festa. «È la rivincita di Abadan» commenta Mattei. Con questo accordo, per il suo potenziale destabilizzante Mattei si crea molti nemici, soprattutto fra le grandi multinazionali del petrolio. Ma suscita anche molto interesse e si attira molte nuove simpatie, fra i paesi produttori di petrolio e fra quei «terzomondisti» che vedono nella formula proposta dall'Eni uno strumento di emancipazione per i paesi produttori di materie prime. Nuovi amici perciò Mattei se ne fa in Unione Sovietica e nel blocco socialista, in America Latina, in Africa. Particolarmente preziosa è l'ammirazione del re del Marocco, indipendente dalla Francia da appena un anno, Mohammed quinto, un moderato non ostile all'Occidente, che è anche un grande capo religioso, rappresentante di una corrente musulmana aperta e tollerante, frequentatore degli incontri internazionali organizzati da La Pira, col quale ha ottimi rapporti personali. Sarà questa preziosa ed autorevole amicizia (che comunque non gli impedirà di mantenere contatti, tramite Pietra, anche con l'opposizione marxista rappresentata da Ben Barka) ad aprirgli le porte dei paesi africani che in quegli anni andavano, uno dopo l'altro, riscattandosi dal colonialismo. Oltre all'egiziano Nasser, il tunisino Burghiba, l'algerino Ben Bella, il gha- niano "Nkruma: sono alcuni dei leader della decolonizzazione e dell'indipendenza nazionale africana che stabiliranno con Mattei rapporti almeno cordiali, basati su una profonda intesa politica. 249 Racconta Giuseppe Accorinti, uno dei «ragazzi di Mattei» cresciuto fino a diventare amministratore delegato dell'Agip, che quando, nell'autunno 1956, durante il conflitto di Suez, Nasser fa affondare nel Canale navi piene di cemento affinché sia ben chiaro che l'interruzione di quella via d'acqua, vitale per l'Europa, durerà a lungo, l'unico esponente occidentale avvertito per tempo dal rais è Mattei. Il presidente dell'Eni lo convince, a sua volta, a informare il ministro degli Esteri Gaetano Martino: quello italiano è quindi l'unico governo occidentale informato per tempo del blocco del canale. Tutti gli altri, compresi inglesi e francesi, lo sapranno a cose fatte. Non a caso pochi mesi dopo, il 9 febbraio 1957, Mattei, che ormai ha sposato apertamente la causa del nasserismo, firma una prima intesa per lo sfruttamento dei campi di El Belaym, nel Sinai. Dopo l'Egitto è la volta della Libia. Da tempo molti notabili del regime di re Idris lanciano segnali di simpatia per l'Italia e di interesse per la politica petrolifera dell'Eni. Mattei, però, è indeciso: conosce, certo, l'aneddoto della accidentale scoperta del petrolio libico fatta da Ardito Desio mentre cerca acqua
nel deserto. Più concretamente, sa che negli archivi dell'Agip si trovano voluminosi faldoni in cui si dà conto del lavoro svolto dai tecnici italiani con esiti interessanti. «Lo scatolone di sabbia»: così gli italiani chiamavano a quei tempi la loro colonia nordafricana, mostrando nessuna fiducia nelle sue risorse naturali. E in effetti le perforazioni compiute fra il '39 e il '40, e poi interrotte dalla guerra, avevano avvalorato quello scetticismo. Ma questi esiti poco incoraggianti, spiega Accorinti, «erano dovuti al fatto che purtroppo noi cercavamo il petrolio con vecchie sonde che i tedeschi avevano dato all'Italia a titolo di riparazioni dei danni di guerra dopo il primo conflitto mondiale, poco potenti e poco idonee alla struttura geologica del sottosuolo libico. Infatti, subito dopo la seconda guerra mondiale, e proprio sulla base degli studi dell'Agip e con l'utilizzo di modernissime torri di perforazione, gli americani - la prima fu la Mobil cominciarono a trovarne un po'"dappertutto, in quello che dimostrava così di essere tutt'altro che uno scatolone di sabbia, greggio di buona qualità». Intanto i francesi scoprono il petrolio in Algeria, a Edjele, 250 Mattei in mezzo al Sahara, quasi al confine libico, e più a sud, ad Hassi Messaud. Mattei si convince che tutta la fascia desertica nordafricana, quella che va dal Mar Rosso all'Atlantico è ricca di petrolio. Perciò si muove contemporaneamente in Libia e in Marocco. Nella ex colonia italiana la maggior parte dei campi petroliferi sono in mano a compagnie degli Stati Uniti (nel 1957 sono 17, molte delle quali piccole indipendenti) che però, secondo i libici, li sfruttano molto poco, considerandoli spesso delle riserve di quelli già in produzione, a costi più bassi, in Medio Oriente. Perciò il governo di Tripoli, ignorando le pressioni americane, è orientato a dare altre concessioni a chi è disposto a sfruttarle subito, pagando le relative royalties. Tanto più che la legge petrolifera libica del 1955 si prefiggeva di creare una situazione di forte competitività fra più soggetti. Mattei, italiano ma anticolonialista, sembra un partner ideale. E infatti il 25 marzo 1957, appena nove giorni dopo l'accordo con la Nioc, incontra a Tripoli il primo ministro Mustafà Ben Halim. L'intesa viene raggiunta facilmente: all'Eni vengono concessi 27.000 chilometri quadrati nel Fezzan, presso il confine algerino. Naturalmente secondo la formula 75-25. A Mattei sembra finalmente di essere riuscito a rompere quello che considera un «accerchiamento», di non essere più il «petroliere senza petrolio». Ma le cose si complicano in fretta. Da tempo è in corso in Nord Africa e Medio Oriente una missione coordinata da John D. Jernegan, incaricato d'affari dell'Ambasciata Usa a Roma, esperto in problemi petroliferi e futuro ambasciatore ad Algeri, della quale fa parte anche John P. Richards, alto funzionario del dipartimento di Stato. È una missione con finalità politiche e strategiche generali, che quindi si occupa anche di petrolio, ma non solo. Fatto sta che arriva a Tripoli poco dopo la firma dell'accordo con l'Eni. Nel giro di qualche mese l'ambasciatore libico a Roma fa sapere a Mattei che il parlamento non ratificherà quel contratto. Pochi giorni prima, re Idris aveva licenziato il premier Ben Halim che ne era stato il fautore. «Ha ceduto ai dollari e alle minacce. Ora facciamo cadere anche i governi stranieri, stiamo diventando davvero importanti», è il commento sarcastico e amaro di 251 Mattei, al quale la successione dei fatti appare tutt'altro che casuale. Per lui questa vicenda è la prova definitiva e inconfutabile della campagna di ostilità e di boicottaggio scatenata dagli Stati Uniti e dalle Sette Sorelle, in particolare dopo l'adozione della «destabilizzante» formula 75-25. Ne sarà ancora più convinto dopo che la concessione che era stata accordata all'Agip verrà trasferita ad una compagnia americana collegata alla Texaco, la American Overseas Petroleum. Al termine dell'intricata vicenda 11 società americane e due inglesi si divideranno le ricerche in Libia.
Anche in questa occasione Mattei, considerandosi una vittima dell'arroganza americana, sembra non rendersi conto che le diplomazie di tutti i grandi paesi industriali sono impegnate nel sostenere le imprese nazionali all'estero. Dovrebbe semmai rammaricarsi della completa mancanza di appoggio da parte della diplomazia italiana, sempre poco sensibile ai problemi economici e del tutto inadeguata a sostenere la competizione internazionale delle nostre industrie. D'altra parte, a Roma e nelle cancellerie di mezzo mondo, tutti sono convinti che la politica estera italiana ormai la faccia l'Eni, tenendo conto solo dei propri interessi: una ragione di più per deresponsabilizzare la diplomazia ufficiale ed esimerla dal fornire il sostegno dovuto. Si arriva addirittura a casi di alti dirigenti del ministero degli Esteri che «lavoravano per la concorrenza», come il segretario generale Alberto Rossi Longhi, che, racconta Maugeri, invita Londra a non dimostrare alcuna disponibilità verso Mattei. La risposta del governo italiano alle reazioni americane per l'accordo Agip- Nioc, poi, è quanto meno sconcertante: con l'ambasciatore James David Zellerbach, che da pochi mesi ha sostituito la signora Luce, il presidente del Consiglio Segni arriva a mostrarsi irritato per le iniziative di Mattei, confessando di non saperne mai nulla, se non a cose fatte. Quindi incarica il ministro delle Partecipazioni statali Giovanni Togni, nemico giurato di Mattei, di spiegare all'ambasciatore americano come stavano le cose. «Togni» riferirà fra l'altro Zellerbach al segretario di Stato Dulles «... ha affermato che Mattei ha erogato contributi finanziari a tutti i partiti importanti, alla maggior parte dei leader politici e a molti esponenti della stampa e perciò ha 252 Mattei un certo grado di controllo su tutti i partiti...» In sostanza il governo si chiama fuori dalle iniziative di una grande impresa di proprietà dello Stato. È la quasi incredibile dimostrazione della debolezza della politica italiana. Da questa debolezza discende la forza di Mattei, impensabile in qualsiasi altra democrazia compiuta. D'altra parte, per l'Eni esistevano possibilità di manovra anche nel campo occidentale. Racconta Accorinti: «Sono rimasto assai sorpreso quando [ho letto] un rapporto del settembre 1957 del dipartimento di Stato Usa, allora classificato secret, relativo ad una riunione svoltasi alla Casa Bianca con il presidente Eisenhower - ricordiamo: un repubblicano conservatore anticomunista - e il segretario di Stato Foster Dulles, ai quali i massimi rappresentanti delle società americane Texaco, Chevron, Mobil, Standard of Indiana e Gulf erano andati a chiedere formalmente un intervento del governo degli Stati Uniti su quello italiano per fermare l'azione dell'Eni di Mattei che, dicevano loro, determinava conseguenze molto dannose per la politica degli Stati Uniti e delle società petrolifere Usa. In particolare si lamentavano espressamente del fatto che avesse scardinato il sistema fifty- fifty, che avesse acquistato il petrolio dell'Unione Sovietica scambiandolo anche con materiale strategico, che negoziasse con gli arabi, che si muovesse con grande libertà e spregiudicatezza a tutto campo, che vendesse la benzina in Italia al prezzo più basso del continente europeo, ecc». «La risposta che ebbero» prosegue Accorinti «fu sorprendente, certamente per loro e per la loro amica ambasciatrice Luce, ma credo proprio che si sarebbe sorpreso assai anche Mattei che, finché visse, non aveva mai sospettato che l'atteggiamento di Eisenhower fosse così negativo per i suoi avversari e così positivo per lui. Infatti Eisenhower e Dulles sostennero che il fifty- fifty era un problema delle società petrolifere e non certo del governo federale degli Stati Uniti, e che il profilo dell'uomo che compra al meglio, che si muove a tutto campo, che parla con gli arabi con i quali gli americani avevano difficoltà di rapporto, era quello tipico di quei manager che piacciono negli Usa. Perciò nessun intervento!» fare politica 253 Davvero Mattei si sarebbe meravigliato a sentire quella risposta, come crede Accorinti? In realtà, i vertici della politica americana, pur avendo indirettamente attribuito
alle compagnie petrolifere, come abbiamo visto, delle responsabilità strategiche e di politica internazionale, non deflettono mai dalla loro posizione di massimo rispetto, almeno formale, per le regole della concorrenza e del mercato. L'episodio raccontato da Accorinti non è isolato: diverse volte la Casa Bianca o il dipartimento di Stato rispediscono al mittente le lamentele e le richieste di protezione dei competitori dell'Eni; mostrando talvolta perfino - come in questo caso - qualche simpatia per Mattei. Il quale non può essere del tutto all'oscuro di questo cauto comportamento dei vertici Usa. Probabilmente, dunque, calca la mano nel mostrarsi vittima della «prepotenza» americana, enfatizzando certi comportamenti, senza distinguere fra le Sette Sorelle e il presidente degli Stati Uniti. Questo atteggiamento da vittima e ribelle assieme - certo, dovuto anche al suo temperamento -oltre a procurargli, come già detto, molte simpatie nel Terzo mondo, fra i paesi emergenti e nel blocco comunista, lo rafforza anche sulla scena politica italiana, conferendogli un'aureola da combattente per gli interessi del paese, rendendolo perciò praticamente intoccabile. Comunque, fino ad ora i risultati concreti di una politica tanto aggressiva e autonoma sono scarsi, il «petrolio italiano» è sempre troppo poco e la stampa e i politici ostili non perdono occasione per farlo notare. Mattei si sente assediato e carica i toni e gli atteggiamenti rivendicativi. In un'intervista rilasciata a Paul Hoffman del «New York Times» il 6 gennaio 1958, dichiara che «gli americani hanno fatto una brutta cosa all'Italia, escludendola da ogni attività in Libia. Ma si sbagliano se credono di poter così fiaccare la nostra volontà di ricercare fonti di energia al più basso prezzo possibile. Sia ben chiaro che noi afferreremo ogni opportunità che si presenterà. La domanda di idrocarburi in Italia è in costante aumento e non sarà certamente l'ostilità di ben individuati interessi ad impedire al nostro popolo di raggiungere un sempre maggiore grado di indipendenza economica». 254 Mattei Un linguaggio, come si vede, sempre più minaccioso e demagogico. Più che come il capo di una grande impresa pubblica occidentale, Mattei parla come il leader politico di un paese del Terzo mondo. La conseguenza è che in Italia «gli attacchi contro di lui si fanno sempre più forti e cambiano registro» racconta Pietra. «Lo si accusa di sventolare la bandiera dei popoli in rivolta contro lo sfruttamento capitalistico, di essere la bestia nera dell'Europa e il nemico dell'America, di speculare sul risentimento arabo, di aspirare al ruolo di leader del neutralismo occidentale.» Nel 1958, in seguito ad un colpo di Stato, in Iraq viene abbattuta la monarchia e proclamata la Repubblica di ispirazione baathista. Il ministro per gli Affari petroliferi, Mohammed Salam, si mette in contatto con l'Eni per invitarlo a partecipare alla creazione di un'azienda petrolifera di Stato. L'Iraq Petroleum Company lo viene a sapere e il governo di Londra si mette subito al lavoro: preme su Roma e su Bagdad per evitare l'accordo. Che infatti non si farà. Mattei comunque allarga il sistema delle relazioni con i paesi del Terzo mondo, in Africa in particolare, dove crescenti sono il suo potere e il suo prestigio presso i governi locali. Offre a tutti aiuti in materiali e tecnologie, assistenza tecnica e scambi commerciali: dove non può essere pagato in petrolio, ottiene di costruire impianti di raffinazione e reti di distribuzione, lavori che non esita a realizzare anche sottocosto. Un metodo spregiudicato che si rivelerà ottimo per far conoscere al mondo le straordinarie capacità dei tecnici della Snam e dell'Agip. Il cane a sei zampe diventa rapidamente popolare anche in Africa. È esemplare il caso della grande raffineria costruita in Giordania, nei pressi della capitale Amman. Anche il moderato e filoccidentale re Hussein, come il sovrano del Marocco, vuol dare qualche segnale di indipendenza economica ai suoi amici di Londra e Washington. D'altra parte l'Eni presenta un'offerta tanto bassa da non temere concorrenza e infatti soffia l'affare all'americana Procon e all'anglo- olandese Coprimo. Mattei ottiene l'appalto ma è accusato, dalla stampa ostile e dai concorrenti battuti, di aver fatto un pessimo affare, di
fare politica 255 sprecare denaro pubblico per ragioni di prestigio, di non stare alle regole del mercato, di non saper costruire raffinerie. Certamente il lavoro di Amman è in perdita, ma, spiega ai suoi, «è un investimento promozionale, è un modo per farci conoscere, per far sapere al mondo quanto siamo bravi». E ci riesce, perché in pochi anni l'Eni di Mattei costruirà metanodotti, raffinerie e reti di distribuzione in Pakistan, India, Argentina, Brasile, Arabia Saudita, Svizzera, Polonia, Jugoslavia, Unione Sovietica, Romania, Cecoslovacchia, Cina, Grecia, Bulgaria e Libia. Ma l'impresa più significativa, anche perché realizzata nel cuore dell'Europa, resta l'oleodotto Genova Pegli- Ingol- stadt, nonostante i ritardi e il parziale insuccesso. Alla fine degli anni Cinquanta la rete di sedi e uffici di rappresentanza dell'Eni è considerata più efficiente e funzionale della nostra diplomazia. Un imprenditore, un ricercatore o un giornalista in viaggio in uno di quei paesi, sa di poter contare più sull'ufficio dell'Eni, dal quale certamente riceverà la massima assistenza, che sull'Ambasciata italiana. Ma intanto cresce il rancore di Mattei verso gli Stati Uniti, diventando sempre di più una vertenza personale fra lui e gli Usa. In due successive occasioni dice ad Accorinti: «Stai attento agli americani, non ti fidare degli americani ... pensa, pur conoscendo gli ottimi rapporti che abbiamo con gli algerini (diceva quasi sempre noi e non io e non era un pluralis majesta- tis ma esprimeva la sua convinzione di interpretare la volontà di tutta la gente che, lavorando all'Eni, combatteva la sua stessa battaglia) hanno avuto il coraggio di venire a propormi di fare, dal confine della Tunisia verso l'Algeria, un pozzo di perforazione deviato orizzontalmente per andare a rubare il greggio che gli algerini hanno scoperto proprio sul confine: non ti fidare mai di loro». Chi siano questi «americani» che gli avrebbero fatto questa proposta, non si sa. Ma è evidente che per Mattei gli «americani» sono tutti uguali: petrolieri, intermediari, politici. Questa accesa ostilità contribuirà col tempo a fare di lui un mito anche per quella sinistra comunista che tanto lo aveva combattuto da vivo. E loro, gli yankees, come reagiscono? I politici con una freddezza che rasenta il disinteresse, alla quale il governo italiano 256 Mattei talvolta replica con eccesso di zelo, almeno stando ai ricordi dell'ambasciatore Ortona. In occasione del suo primo viaggio a Washington come ministro degli Esteri, nel 1957, Pella «giunge perfino a dire che avrebbe intenzione di dichiarare a Foster Dulles che il governo ha deciso di prescrivere a Mattei di non prendere alcuna iniziativa senza previa consultazione e autorizzazione del governo stesso». Nel gennaio del 1958, con l'intenzione di approfondire il tema del dissidio fra Eni e compagnie americane, quello che Ortona chiama lo «scabroso tema Mattei», l'ambasciatore Manlio Brosio, su istruzioni di Pella, chiede insistentemente e inutilmente un colloquio a Foster Dulles. Riesce solo ad incontrare Christian Herter, quel sottosegretario di Stato che ha seguito personalmente la vicenda iraniana e che da allora non aveva mai perso di vista Mattei e l'Eni. Nella conversazione con Herter, Brosio si rende conto che per Washington lo «scabroso tema Mattei» è diventato un problema politico: le tensioni con le compagnie petrolifere americane, che con il loro efficace lavoro di lobby possono certamente influenzare il governo degli Stati Uniti, e il modo in cui questo interpreta l'accordo iraniano e i rapporti dell'Eni con i paesi del Medio Oriente possono produrre serie conseguenze ai rapporti fra gli Usa e l'Italia. Brosio, come Ortona, è un diplomatico di rigorosa fede atlantica (nel 1964 sarà nominato segretario generale della Nato) e non può accettare questo rischio. Propone, perciò, contatti di carattere esplorativo tra una persona di fiducia delle compagnie e del governo americano ed un rappresentante del governo italiano. Herter, da buon repubblicano conservatore e liberista, quasi si scandalizza: il governo non può intervenire in questioni di concorrenza commerciale, e avanza il sospetto che Mattei scarichi sulle presunte macchinazioni delle Sette Sorelle le difficoltà finanziarie e produttive dell'Eni. Comunque valuterà la proposta. Dopo
due mesi la risposta è negativa: il dipartimento di Stato non intende promuovere un contatto a livello governativo su un problema di carattere commerciale. In giugno Ortona incontra Mattei a Roma. Lo trova «trionfante» per i risultati ottenuti in Iran, Marocco ed Egitto e lo invita a 257 trovare forme di «collaborazione triangolare», lavorando cioè con un paese «terzo» in società con gli americani. Mattei, d'impeto, risponde di sì, senz'altro, purché «con reciproco rispetto». Ortona passa allora la proposta all'ambasciatore americano Zellerbach, prospettando l'opportunità politica di avviare almeno un'intesa con l'Eni. La risposta è un no immediato, accompagnato da aspre considerazioni su Mattei. «Ciò che più mi colpisce» commenta Ortona «è la premeditazione di evitare la conciliazione, del che Mattei non può non avere sentore.» Gli americani, insomma, non si fidano di Mattei, che certamente ne ha «sentore», tanto che si sta rivolgendo a Mosca. In realtà contatti informali ed indiretti con le grandi multinazionali Mattei ne ha spesso, com'è naturale. Ma sempre senza esiti soddisfacenti. Le compagnie sono disposte a dargli il petrolio di cui ha tanto bisogno, ma Mattei vuole partecipare a tutto il processo produttivo, non vuole comprare il greggio ai prezzi che gli verrebbero imposti. La filiera petrolifera è molto più redditizia se si arriva alla distribuzione controllando la coltivazione del greggio e la sua raffinazione. Perciò tutte le compagnie mirano all'intero processo produttivo integrato. D'altra parte, se l'Eni ha il compito «istituzionale» di assicurare all'Italia autonomia nel settore energetico, deve poter disporre di greggio al prezzo più basso possibile. Che non è certo quello richiesto dalle Sette Sorelle. Comunque, alla fine degli anni Cinquanta le grandi compagnie hanno più greggio di quanto riescano a venderne sotto forma di prodotti, in più sul mercato si affacciano nuovi produttori, mentre l'Italia stava diventando un grande consumatore: «Perciò prima o poi» sperava Mattei «le multinazionali avranno bisogno di accordarsi con me». Nel 1958 ottiene un buon contratto con il Marocco. L'operazione è molto agevolata dal fatto che il re Mohammed Quinto è amico di La Pira e frequentatore dei suoi incontri internazionali, mentre presidente del Consiglio e ministro degli Esteri è Fanfani, anch'egli amico di La Pira e alleato di Mattei - di amicizia in questo caso non si può parlare. Si tratta di una cospicua concessione nel bacino sahariano del Tindouf - per la quale concorrono molte compagnie internazionali -, di un appalto per la costruzione di una grande raffineria a Mohamme258 Mattei dia, dell'allestimento di una rete di distribuzione dell'Agip in Marocco, e dell'ammissione di giovani marocchini alla Scuola di studi superiori sugli idrocarburi, appena creata a Metanopoli per formare tecnici petroliferi provenienti dai paesi produttori; diventerà un benefit apprezzatissimo e molto utile per creare un clima di «scambio alla pari». Nella primavera del '58 Mohammed Quinto visita Metanopoli. In ottobre Gronchi, Fanfani e Mattei contraccambiano. Sono accolti con grandi onori nella favolosa reggia dell'ultimo discendente del Profeta. Alla principessa Laila, Mattei - che da grande comunicatore e affabulatore ha una storiella pronta per ogni situazione racconta che l'idea della scuola internazionale gli è stata data da un portabagagli, tempo prima, a Tangeri: «Sentendo che ero italiano, si è affrettato a dirmi che aveva passato qualche anno a Torino e che si sentiva legato all'Italia dai ricordi della scuola, dei compagni, dei gusti di allora». Se l'aneddoto è inventato di sana pianta, è autentico nella rappresentazione delle intenzioni del capo dell'Eni: con quella scuola spera di tenere legati all'Italia e all'Eni i giovani che si formeranno a Metanopoli. Ma, ricorda Pietra, verso la fine della serata tanta disinvoltura scompare lasciando il posto all'imbarazzo e al disagio: Mattei non è uomo da ricevimenti in regge da «Mille e una notte»: si sente impacciato nello smoking bianco: «Sembro un cameriere» bisbiglia «anzi, sembro il protagonista di Casablanca». In quei giorni in Marocco, grazie a Pietra, si consolida anche il rapporto con Ben
Barka, che è ancora presidente dell'Assemblea consultiva ma che presto, come capo dell'opposizione, sarà costretto all'esilio. Da tempo Mattei pensa alla Cina: è certo che diventerà prima un grande produttore e poi anche un grande consumatore di idrocarburi. È una straordinaria intuizione, essendo in quegli anni quel gigantesco paese completamente isolato nel suo sogno di «costruzione del comunismo» e ignorato (apparentemente) da americani ed europei. Non fa parte neppure delle Nazioni Unite, ci vorrà più di un quarto di secolo perché venga formalmente accettato come un grande protagonista della politica internazionale. 259 Mattei sente il bisogno di dare motivazioni alte, di carattere etico, politico e storico, alle sue intenzioni imprenditoriali (ma basterebbe l'acutezza di certe sue intuizioni, come questa di puntare sulla Cina). Perciò racconta ai suoi collaboratori come la prima ispirazione gli sia venuta «una sera a cena con Giorgio La Pira, davanti a un piatto di fagioli». Il «sindaco santo» di Firenze gli spiega che la funzione principale della politica deve essere il mantenimento della pace, la quale non può essere efficacemente difesa se non con una politica planetaria (globale, si sarebbe detto qualche decennio dopo). Ma allora, come si può fare politica e dunque preservare la pace ignorando la Cina? Pietra racconta che un giorno Mattei gli avrebbe fatto questo discorso: «Da bambino, ad Acqualagna, mia nonna Ester mi fece leggere sul "Corriere dei Piccoli" la storia in versi di Cristoforo Colombo che, a forza di pensarci su, sentenzia: "Se la Terra ha forma sferica - Ci deve essere l'America". Allora ridevo di quei versi; adesso rido degli americani che, chiamati dalle guerre suicide dell'Europa al ruolo di superpotenza numero uno, pretendono di fare una politica planetaria senza la Cina, il paese numero uno per popolazione». Divagazione molto ideologica e con la consueta venatura di rancore misto a compatimento per gli americani, ma che conferma il valore quasi profetico dell'intuizione di Mattei sul futuro ruolo della Cina. La gestazione dell'accordo con i cinesi è lunga e complessa. Mattei, scottato da troppe delusioni, si muove con prudenza e circospezione. I suoi primi colloqui orientativi sono con uomini di sinistra, che più di altri hanno informazioni sul misterioso gigante asiatico: il senatore comunista Eugenio Reale e il socialista Dino Gentili, vecchia conoscenza del 1945, brillante uomo d'affari. Sul versante cinese i primi approcci li affida a Giuseppe Regis, rappresentante del Pci a Pechino. I preliminari di un ipotetico accordo, vengono discussi in Svizzera dal responsabile commerciale dell'Eni, Giuseppe Ratti, con il rappresentante commerciale cinese a Berna, Kao Shang- lin. Infine Boldrini, in qualità di vicepresidente dell'Eni, viene ricevuto dall'ambasciatore. Finalmente, certo di esservi ben visto, Mattei organizza una missione a Pechino nel dicembre del 1958. Della delegazione 260 Mattei fanno parte Girotti, Ratti e altri alti dirigenti dell'Eni. Incontra il maresciallo Chen Yi, responsabile cinese per il settore degli idrocarburi e dell'energia. È accolto con grandi onori, festeggiato «come un nuovo Marco Polo», del quale retoricamente si evoca spesso la figura. La conclusione della missione non è esaltante: l'Eni riesce a strappare solo un contratto per la fornitura di 100.000 tonnellate di fertilizzanti prodotti dallo stabilimento di Ravenna. È poca cosa ma è un inizio. Il quotidiano economico «Il Sole» titola sarcasticamente: Un re a Pechino. Il sarcasmo si riferisce anche al fatto che Mattei non riesce a farsi ricevere dai massimi dirigenti del regime, né da Mao Tse- tung né da Chou En- lai. Forse sperava anche di mettere a segno un clamoroso colpo «politico». Conoscendo la sua suscettibilità è probabile che questa freddezza cinese lo abbia irritato. Ed è anche probabile che sia questa la ragione per la quale non andrà a Pechino nell'ottobre del 1959, invitato per le celebrazioni del decennale della Repubblica popolare cinese. Lo rappresenteranno Cefis e Ratti.
Nel frattempo Mattei tenta anche una parziale rivincita dello smacco libico. Fonda una società che non appare un'emanazione dell'Eni, la Cori (Compagnia ricerche idrocarburi) che richiede concessioni in Cirenaica. Ma il quotidiano «Il Sole 24 Ore», secondo Pietra imbeccato da Edison e Montecatini, si affretta a rendere noto che dietro a quella sigla si cela in realtà l'Eni. Per il periodico «L'Industria Lombarda» «il regno di Idris vede come fumo negli occhi i rivoluzionari nasseriani che invece tanto piacciono a Mattei». Le rivelazioni non ottengono l'effetto forse desiderato, perché sono riprese dai giornali libici con poco interesse. Mattei, attraverso la Cori, ottiene la concessione. Dopo la morte della madre, Mattei evita di andare a Mateli- ca. Lo fa quando è strettamente necessario, per senso del dovere verso la comunità nella quale è cresciuto e per rivedere gli amici. Per lui è ormai insopportabile tornare nella bella casa, comprata per sua madre e poi arredata e abbellita con tanto 261 amore e senza economia, ora vuota e triste. Ma il 16 dicembre 1957 non può mancare: nella cittadina marchigiana si inaugura il nuovo acquedotto comunale e nella vicina Acqualagna la «Scuola materna Angela Galvani Mattei - Istituto piccole ancelle del Sacro Cuore». Due opere realizzate nelle due cittadine grazie al generoso intervento del loro figlio più illustre e potente. La scuola è la stessa, ammodernata e ristrutturata, che per anni era stata diretta da nonna Ester, ora intitolata a mamma Angela. Fino alla fine potrà contare sulla generosità di Mattei, che durante la cerimonia e a contatto con i bambini, è visibilmente commosso, quasi non riesce a parlare. Naturalmente torna a Matelica anche nell'anniversario della morte della madre: in quelle occasioni visita immancabilmente un convitto femminile, un altro che da anni sostiene finanziariamente, l"«Istituto Lega delle suore della Sacra Famiglia», ospitato nel palazzo Fidanza e perciò familiarmente chiamato «Istituto Fidanza». Ospita bambine e ragazze provenienti da famiglie bisognose. Molte di loro all'uscita dal convitto frequentano, su «paterna indicazione» del Benefattore, corsi di stenodattilografia con la certezza di essere assunte all'Eni. Tanta affettuosa attenzione per Matelica suscita inevitabilmente la gelosia della cittadina natale, Acqualagna, che si sente un po'"trascurata. Una competizione che continuerà a lungo anche dopo la morte di Mattei. In quegli anni Acqualagna chiede lavoro. I suoi amministratori fanno lunghe anticamere davanti all'ufficio di Mattei per ottenere l'installazione di qualche stabilimento sul loro territorio. I risultati, però, sono deludenti, tanto che a volte le reazioni della gente verso il «compaesano ingrato» sono dure e rabbiose, placate solo dagli interventi del parroco o del sindaco. Acqualagna chiede fabbriche, Mattei offre scuole, considerando la formazione più importante del «posto»: una concezione allora quasi rivoluzionaria. Dona, ad esempio, un terreno per costruire la tanto attesa scuola media. Troppo poco, la gente vuole posti di lavoro. Il complesso della «madre naturale» trascurata proprio dal suo figlio più fortunato a favore della «madre adottiva», Acqualagna non se lo scrollerà più di dosso. 262 Mattei La «campagna di Sicilia» non va bene. Il greggio trovato dopo costose ricerche è poco e scadente. Gli impegni nella costruzione degli stabilimenti, come quello di Gela, comportano estenuanti rapporti con la burocrazia e i poteri locali e arrembaggi da parte delle clientele. I rapporti politici, con alleati sempre più esigenti e avversari sempre più intransigenti, diventano di giorno in giorno più difficili. «Più di una volta» confesserà Mattei «sono stato sul punto di mollare tutto. Solo la mia testa dura, il rispetto della parola data e l'esistenza di un piano quinquennale me lo hanno impedito.» In questi anni l'impegno finanziario è notevole: l'Eni ha anche aperto il fronte della petrolchimica, sfidando i privati su un terreno sul quale pensavano di potersi muovere senza dover affrontare la concorrenza di un ente di Stato. Una scelta, come racconta Cefis, diventato frattanto il suo vice, dettata soprattutto dai rapporti con i partiti: «Per avere l'appoggio politico bisognava creare
occupazione. I politici dicevano: "Avete voluto i fondi di dotazione? Adesso tirate fuori i posti di lavoro". Da qui certe avventure, come la Pignone e la Lanerossi. Da qui la decisione di fare la chimica». È uno scontro durissimo, che vede l'Eni partire in grave svantaggio. I privati, infatti, stanno ottenendo ottimi successi sul piano tecnologico, scientifico e dell'innovazione di prodotto. La Montecatini in particolare, con l'invenzione del polipropilene, il «Moplen», dalle enormi potenzialità industriali, che segna l'inizio dell'era della plastica, cioè del suo impiego generalizzato nel largo consumo, e che farà guadagnare il premio Nobel al suo inventore Giulio Natta. Sono i risultati di una competizione durissima, di una battaglia senza esclusione di colpi proprio fra i due giganti nemici dell'Eni di Mattei iniziata nei primi anni Cinquanta quando la Edison di Giorgio Valerio aveva deciso di scalzare l'egemonia della Montecatini di Carlo Faina nella chimica. La lotta è andata avanti con colossali investimenti da tutte e due le parti: se la Edison costruiva a Porto Marghera uno stabilimento per fertilizzanti, la Montecatini rispondeva a Ferrara con un colossale impianto per la fabbricazione di materie plastiche. Per sostenere quest'impegno, Mattei stavolta ha la faccia to263 sta di chiedere aiuto - tecnologico, finanziario e di know how -agli americani. I quali, al motto di «business is business», pur di mettere in difficoltà gli altri due protagonisti della scena chimica italiana, glielo accordano: Union Carbide e Philips Petroleum lo affiancano sul piano industriale mentre Bank of America gli presta 4 milioni di dollari. È uno scontro che condizionerà fino agli anni Ottanta e Novanta le vicende della chimica italiana, portandola alla sua emarginazione sui mercati internazionali lungo un percorso disseminato di azzardi, sperperi, fallimenti, corruzione e tragedie personali. Al termine di questo percorso c'è la vicenda Enimont, ambizioso e ambiguo tentativo di superamento, mettendo insieme i due poli, della competizione pubblico- privati cominciata con Mattei. Una vicenda che finirà in tragedia nel 1993 con l'inchiesta giudiziaria «Mani Pulite», la fine della Prima Repubblica, i suicidi di due protagonisti di quell'operazione, Raul Gardini nella sua residenza milanese e Gabriele Cagliari nel carcere di San Vittore. Ultimo presidente, il secondo, dell'Eni ente pubblico, che proprio in questi anni di dura competizione sta iniziando come tecnico la sua carriera nel gruppo petrolifero. Nato nel segno dei rapporti perversi tra affari e politica, del finanziamento illecito dei partiti e della lottizzazione politica, il gruppo petrolifero, fatto salvo il suo straordinario patrimonio di risorse professionali, si trascinerà quella tara fino alla tragedia che segna l'inizio della sua graduale privatizzazione e la fine di un'industria chimica italiana in grado di competere con i colossi internazionali. L'avventura chimica dell'Eni inizia con la produzione di fertilizzanti azotati, gomma sintetica e materie plastiche negli stabilimenti Anic di Ravenna. All'inizio degli anni Sessanta produzioni dello stesso tipo verranno avviate a Gela e a Pisticci, in Basilicata. Anche sul terreno della petrolchimica Mattei ammette solo di vincere. Perciò attua una politica commerciale molto aggressiva, praticando ribassi del 15-20% sui prezzi correnti. È del 1958 l'accordo con Federconsorzi, grazie all'ottimo rapporto col suo capo Leonida Mizzi, in base al quale l'Eni venderà ai coltivatori solfato e nitrato di ammonio a 264 Mattei prezzi inferiori del 15% a quelli di mercato. La concorrenza privata, Edison e Montecatini ma anche gli stranieri come Ici, lancia contro l'Eni durissime e motivate accuse di dumping, di vendere sottocosto. Ma è costretta a adeguare i listini. Mattei si dice soddisfatto: «Abbiamo ottenuto i risultati che un'azienda pubblica deve assicurare al paese: produzione di massa e prezzi bassi». Le cose non sono così semplici, perché la rincorsa alla riduzione dei prezzi è devastante. Soprattutto Montecatini, nonostante i successi industriali, finisce per trovarsi in
gravi difficoltà. L'amministratore delegato Carlo Faina, quando lo scontro sarà nella sua fase più acuta, nel 1961, dichiarerà senza tanti complimenti che «Mattei spara bordate da tutte le parti e a noi sembra che spesso queste bordate le spari alla cieca». Porta l'esempio dei prezzi dei fertilizzanti, che nella rincorsa al ribasso vengono ridotti del 70%: «Una pazzia. È ovvio che così si lavora in perdita. Solo che noi ci rimettiamo, come società privata, i nostri soldi, per combattere la concorrenza di un avversario che rischia e perde egualmente denaro, ma nostro, dei contribuenti». La sfida si estende alla gomma. Essendo l'Anic l'azienda petrolchimica del gruppo Eni che produce gomma sintetica, è inevitabile che si pensi ad utilizzarla per la fabbricazione di pneumatici. Mattei progetta naturalmente di farlo in proprio in un primo tempo solo in via sperimentale, realizzando un apposito stabilimento. Del proposito viene a conoscenza la Pirelli, unico grande produttore italiano di pneumatici, la quale teme di trovarsi nelle condizioni di Montecatini o di Edison, che protestano contro i privilegi di cui godrebbe il «concorrente di Stato». Alberto Pirelli, il rispettatissimo gentiluomo dell'industria lombarda, sceglie però una strategia diversa: per ragioni caratteriali e di stile personale, per attenzione nei riguardi di Mattei, conosciuto fin dai tempi della Resistenza, e per l'antica consuetudine di buoni rapporti con lo Stato, tipica della grande industria italiana, preferisce adottare il fair play. Chiede un colloquio al presidente dell'Eni telefonando personalmente alla sua segretaria. Superato qualche impaccio iniziale - i due sono troppo diversi e provengono da mondi troppo lontani per capirsi subito - l'incontro procede sui binari della franchezza e 265 delle buone maniere. Pirelli chiede a Mattei di rinunciare all'operazione, se l'Anic vuole sperimentare la sua gomma nella produzione di pneumatici può farlo con la Pirelli, che offre la massima collaborazione. In ogni caso, aggiunge il vecchio industriale milanese, giocando fino in fondo la carta dell'eleganza e della signorilità, l'Eni può agire come meglio crede, potendo sempre contare sull'esperienza dei tecnici della Pirelli. È uno stile, una raffinata tecnica alla quale il parvenu Mattei non è avvezzo e non è in grado di opporre resistenza: l'Anic rinuncia alla sua fabbrica di pneumatici, ma solo «per riguardo a lui», ad Alberto Pirelli, ammette Mattei, che comunque ha capito che l'avventura sarebbe inutilmente rischiosa. Quell'impianto in realtà non è necessario. Ma c'è dell'altro: per la prima volta l'industria privata ha chiesto udienza a quella pubblica, trattando da pari a pari e con rispetto. E poi per il ruvido matelicese, con tutti i suoi complessi da emarginato, lo charme del «principe degli industriali lombardi» è più forte di qualsiasi argomento economico. Pochi mesi dopo, colpito da una grave paresi, Alberto Pirelli cederà la sua poltrona al figlio Leopoldo. In questo stesso periodo Mattei incontra Gianni Agnelli. Non è ancora il carismatico Avvocato, della Fiat si occupa tuttavia, con mano salda, e lo farà fino al 1966, il duro Valletta. Forse è per questa ragione che il presidente dell'Eni non subisce il fascino dell'erede designato. D'altra parte l'incontro è privo di importanza; Agnelli, allora più noto alle cronache mondane che a quelle politicoeconomiche, vuole parlare di un'esposizione internazionale del lavoro che si sta allestendo a Torino con il suo patrocinio. Nessuno dei due interlocutori, in realtà, è particolarmente interessato all'argomento, rapidamente liquidato. La scintilla dell'intesa scatta quando riescono a trovare un interesse comune: gli aeroplani. Ciascuno parla del proprio e tutto finisce lì. Mattei continuerà a considerare, con rispetto e ammirazione, Valletta il vero capo della Fiat. La rinuncia alla fabbrica di pneumatici resta un caso isolato nella storia dell'Eni che, a parte la chimica, sviluppa una lunghissima serie di attività di ogni genere che poco o nulla hanno 266 Mattei a che vedere con la sua legge istitutiva e col petrolio. «Attraverso questa o quella società affiliata» scrive ad esempio Dow Vo- taw «l'Eni ha svolto e svolge
le più diverse attività: costruzione di motel e di autostrade, fabbricazione di prodotti chimici, di saponi, di fertilizzanti, di macchinari, di strumenti, produzione e distribuzione di energia elettrica, ricerche, applicazioni tecnologiche, costruzioni industriali in appalto, attività editoriali, produzione di energia nucleare e ricerche nucleari, fabbricazione di tubi in acciaio, di cemento, di nerofumo, investimenti a lungo termine e perfino attività scolastiche, per ricordarne solo alcune. Di recente l'Eni ha acquistato la Lanerossi, un grosso lanificio nel Veneto, allo scopo, secondo Mattei, di trovare uno sbocco per le fibre sintetiche che verranno prodotte nei campi di metano di Ferrandina, nell'Italia meridionale. Secondo i nemici di Mattei «scopo dell'acquisto sarebbe stato mettere le mani su 17.000 dipendenti della Lanerossi nel distretto di un uomo politico democristiano che Mattei non controllava ancora.» Votaw si riferisce probabilmente a Mariano Rumor e in effetti è tortuoso il nesso fra la legge istitutiva dell'Eni e la proprietà di un lanificio. Ma si sa, Mattei ha sempre piegato leggi, regolamenti e norme alle sue necessità. Naturalmente con l'alibi del «fin di bene» o del «superiore interesse pubblico». Figurarsi adesso che da molti è considerato l'uomo più potente d'Italia. E infatti le critiche si fanno sempre più flebili. Il 19 settembre del 1957, riferisce Gabriele De Rosa, lo storico cattolico amico e confidente di don Sturzo, il fondatore del Partito popolare è «profondamente angustiato per la politica di Mattei e per l'uso che fa del denaro». «Ha comprato tutti» dice il sacerdote «anche il "Corriere". Missiroli mi ha detto che non può attaccare Mattei perché i Crespi ricevono dall'Eni mezzo miliardo all'anno di pubblicità. Ma è tutta la situazione politica italiana che mi preoccupa. Non se ne può più, siamo a un punto incredibile. Parlerò al Senato, dirò tutto quello che so dell'Eni e che Dio mi aiuti.» D'altra parte, chi mai avrebbe potuto porre dei limiti al suo espansionismo? Certamente non la politica, non il governo o il partito di maggioranza, di cui Mattei è considerato una specie di padrone occulto. Dopo le elezioni del maggio 1958, il 267 buon successo della Dc (il 42,4% dei voti) consente a Fanfani di accentrare nelle sue mani presidenza del Consiglio dei ministri, ministero degli Esteri e segreteria del partito. Una anomala concentrazione di potere che fa scandalo, scatena rancori, invidie, gelosie, timori e polemiche violentissime dalla destra politica ed economica, ma anche a sinistra e perfino all'interno della Dc. Ma tanta ostilità è dovuta anche al fatto che il secondo governo Fanfani, retto da una coalizione fra democristiani e socialdemocratici con l'appoggio dei repubblicani, è dichiaratamente un ulteriore passo verso l'alleanza con i socialisti, verso il centrosinistra. Nei pochi mesi di vita di questo suo governo, Fanfani dimostra un attivismo straordinario, quasi frenetico. In particolare come ministro degli Esteri, portando avanti la politica di apertura ai paesi del Terzo mondo ed emergenti, più che in chiave neutralista e antioccidentale, come strada per dare finalmente un ruolo di primo piano all'Italia sulla scena internazionale. Contemporaneamente, però, cerca di rassicurare in tutti i modi gli Stati Uniti sulla fedeltà atlantica dell'Italia. Riuscendoci, tanto che al dipartimento di Stato è considerato «un buon amico degli Stati Uniti». Approfittando di questo credito, Fanfani si adopera presso l'amministrazione Eisenhower affinché Mattei venga finalmente ammesso nel club dei grandi petrolieri e gli vengano concesse le forniture di cui ha tanto bisogno. Non ottiene nulla: i sospetti suscitati dalle aperture del presidente dell'Eni agli arabi più filosovietici, e da una sua certa politica di dialogo e collaborazione con Mosca sono più forti della fiducia in Fanfani. E non è bastato neppure il diverso clima creato dal cambio della guardia all'Ambasciata americana di Roma. Alla fine del 1956, infatti, l'intransigente signora Luce aveva annunciato le sue dimissioni «per ragioni di salute», dopo un misterioso avvelenamento che sarebbe stato provocato... dall'intonaco (sic!) della sua residenza di Villa Taverna. Tuttavia, nella lettera
ad Eisenhower, l'ambasciatore sembra aver finalmente superato ogni diffidenza verso l'Italia: «In nessuna parte del mondo» scrive «gli Stati Uniti hanno un'alleata più volenterosa e leale». Ma forse vuol solo far apprezzare il lavoro svolto a Roma. La 268 sostituirà James David Zellerbach, molto più flessibile della Luce e meno affetto da pregiudizi ideologici. Molti cominciano a considerare addirittura pericoloso per la democrazia l'asse Fanfani- Mattei, che, nonostante le diffidenze provocate dall"«operazione Milazzo», come si vede regge ancora. In particolare, il potere di Mattei è guardato, in Italia e all'estero, quasi con apprensione. Proprio in quel periodo, nel novembre del 1958 per il settimanale «Times» è una sorta di principe rinascimentale; la rivista americana «Harper's» l'aveva già definito, come già detto, «Italy's new Cesar». Gli attacchi, le imboscate politiche e i trabocchetti parlamentari costringono alfine Fanfani a lasciare Palazzo Chigi, il 29 gennaio del 1959. In parte è una reazione d'orgoglio dovuta al pessimo carattere dell'uomo, che però gioca fino in fondo la carta dell'uscita sdegnosa dalla scena, anche nella certezza di essere richiamato in mancanza di adeguati successori. Perciò due giorni dopo si dimette anche dalla segreteria del partito, del quale è convinto di avere comunque il controllo. A Mattei queste manovre bizantine non vanno a genio, le considera giochini pericolosi, controproducenti e, in fondo, manifestazioni di viltà: «Guarda che gente ambiziosa e senza carattere!» commenta con Pietra. «Noi siamo qui a lottare e loro vanno a bere Chianti.» Fanfani è toscano ma di Arezzo, che non è zona di Chianti. Nella sostanza, però, ha ragione Mattei, il gioco è pericoloso. Infatti Gronchi, grande antagonista di Fanfani, si guarda bene dal richiamarlo a formare il governo e dà invece l'incarico a Segni, leader della neonata corrente democristiana dei «dorotei», una formazione politicamente pragmatica fino al cinismo e di difficile collocazione, nata per contrastare lo strapotere di Fanfani, finalizzata esclusivamente alla gestione del partito -cosa che farà fino al suo scioglimento - anche attraverso la presa sugli enti, come l'Eni e l'Iri, che controllano e distribuiscono risorse pubbliche. Alla segreteria della Dc viene chiamato Aldo Moro. Mattei ora deve dunque manovrare nel triangolo Gronchi- Fanfani- Segni. Non è facile. I dorotei lo attaccano da destra e da sinistra. Gli rimproverano di usare le risorse dell'Eni per 269 spingere a sinistra la politica italiana e «Il Giorno», finanziato col denaro dei contribuenti, per influenzare l'opinione pubblica preparandola al centrosinistra, come dice il presidente del gruppo parlamentare democristiano Luigi Gui al Consiglio nazionale del 14 marzo: dando così a quella formula «un valore assoluto, bruciando i vascelli alle spalle del partito, ciò che significherebbe diventare prigionieri del Psi». Ma lo accusano anche di non fare abbastanza per il Mezzogiorno. In realtà vogliono sottrargli il controllo totale ed esclusivo dell'ente per accedere alle sue risorse, da utilizzare per finanziare le strutture di partito, premiare le clientele con posti di lavoro e di potere, accrescere il consenso: dal capitalismo di Stato come ideologia antiliberista si sta passando allo Stato assistenziale. Contemporaneamente contro l'Eni parte una poderosa campagna di stampa, che ha come principale protagonista il quotidiano romano «Il Tempo» di Renato Angiolillo, a cui risponde colpo su colpo il direttore del «Giorno», Baldacci: «Dietro l'operazione non c'è infatti solo il cartello,* ma ci sono anche uomini politici italiani». E cita Pella. In questo clima avvelenato Segni si presenta in parlamento con un programma moderato, ben diverso da quello di Fanfani: vi si parla, con molta cautela, di armonizzazione fra iniziativa privata e impresa pubblica.
D'altra parte Mattei, il cui secondo mandato alla presidenza dell'Eni sta per scadere, si è ormai convinto che le formule politiche sono indifferenti: «Sono i politici ad aver bisogno di me» dice «e non viceversa». Meglio perciò evitare di legarsi troppo strettamente a questo o a quello, ma barcamenarsi il più possibile cercando, o dando l'impressione, di accontentare tutti. Così fa anche con gli emergenti e già potenti dorotei, riprendendo cautamente le distanze da Fanfani. È proprio in situazioni delicate, in congiunture difficili come questa che Mattei mostra di essere un grandissimo comunicatore, per di più del tutto istintivo e autodidatta. Per rafforzarsi, prima dell'eventuale scontro, si concentra infatti sull'immagi* Cartello dei petrolieri privati, che secondo Baldacci avrebbero offerto ad Angiolillo un miliardo di lire in pubblicità per scatenare la campagna contro l'Eni. 270 ne, nazionale e internazionale, sua e dell'Eni. Propone al grande regista Joris Ivens la realizzazione di un film dal titolo che sembra un'orgogliosa rivendicazione: L'Italia non è un paese povero. Vuole un documento che mostri al mondo intero il nuovo volto del paese e di conseguenza i meriti dell'Eni. «Non sopporto più» dice al regista «di avere a che fare con stranieri che ci trattano come dei poveracci. E poi basta, non è più così, bisogna farglielo capire.» Certo, c'è anche il solito complesso d'inferiorità. Comunque Ivens, uomo di sinistra, accetta con entusiasmo: «Perché no? Il capitalismo di Stato, dopotutto, va contro il monopolio americano». Un impegno anche ideologico, dunque: va in Lucania e in Sicilia, a Marghera e a Ravenna, percorre la Penisola in lungo e in largo. Il commento al film, che sarà visto più all'estero che da noi, è di Alberto Moravia e Corrado Sofia. Firenze, 27 ottobre del 1959. Il VII Congresso della Democrazia cristiana si apre con la commemorazione del più risoluto, nobile e disinteressato avversario di Mattei, don Sturzo, morto l'8 agosto, fondatore del Partito popolare, emarginato nella Dc. La maggioranza del Consiglio nazionale va ai dorotei, una vittoria di misura «a cui» come ricorda Pietra «contribuirà molto il denaro fatto scorrere da Mattei, attraverso un deputato di Bari, impiegato dell'Eni, Vincenzo Russo». Nel suo spregiudicato gioco di equilibri e contrappesi, tuttavia, Mattei si copre le spalle schierando la «Base» e «Il Giorno» con Fanfani. Questo eccesso di tatticismo, però, costerà la poltrona al direttore del quotidiano milanese, di cui Segni chiede perentoriamente la testa. Come abbiamo già detto, sarà il fidatissimo e abile Pietra a prendere il posto di Baldacci. Gli attacchi da parte dorotea cessano. Mattei ottiene la riconferma alla presidenza dell'Eni per altri tre anni. In quei mesi è cominciata a Gela la realizzazione del più grande complesso industriale dell'isola. Comprendente uno stabilimento petrolchimico, una raffineria e una centrale termoelettrica: sono impiegati 3000 lavoratori, che a opera completata diventeranno 5000. Sono momenti di grandi promesse ed esaltanti speranze nel futuro della Sicilia, sentimenti su cui Mattei fonda gran parte del suo potere politico. Capitolo Tredicesimo A MOSCA, A MOSCA! Gli anni Cinquanta si chiudono con uno degli eventi più importanti nella vicenda di Mattei e nella storia dell'Eni: il 22 dicembre 1959 arriva dall'Iran la notizia che le trivelle dell'Agip hanno trovato il petrolio. In realtà, il primo carico di greggio iraniano sarà in Italia solo il 20 marzo del 1961, con una petroliera che attraccherà al porto di Bari. Tuttavia, è il primo vero successo all'estero, dell'Eni e dell'Italia, nel campo delle ricerche petrolifere. Ma, in realtà, come per la campagna del «petrolio italiano», anche le ambiziose iniziative in Medio
Oriente - in Iran come più tardi in Libia - si risolveranno in uno smacco, portando al ritrovamento di scarse quantità mentre, in concessioni più vicine, medie e piccole compagnie avranno ben altra fortuna. Mattei, comunque, non aspettava altro: vuole informare al più presto l'opinione pubblica internazionale e con la massima enfasi: vuole ripetere, moltiplicato per mille, il clamoroso annuncio di Cortemaggiore. Anche perché è convinto che stavolta non si tratti di un bluff. Sembrano non esserne altrettanto certi, invece, al ministero delle Partecipazioni statali, che, forse proprio ricordando gli effetti alla lunga controproducenti di quel famoso azzardo, consigliano di non dare la notizia prima di aver accertato l'entità e la qualità del giacimento. Quasi contemporaneamente Mattei riceve una lettera dal ministro Ferrari- Aggradi che lo invita, per evitare un eccessivo cumulo di cariche, a rinunciare a qualcuna delle innumerevoli direzioni generali e presidenze di società controllate dall'Eni. È evidente che qualcosa non va, che qualcosa è cambiato nei rapporti col potere politico: «Ecco, Ferrari- Aggradi mi tra272 disce». In realtà è avvenuto che la sconfitta di Fanfani, alla quale Mattei non è stato del tutto estraneo o quanto meno non si è opposto, segna, per il momento, il tramonto di una linea politica della quale proprio il presidente dell'Eni è considerato la punta di lancia. La sua eccessiva disinvoltura politica e il suo indifferentismo ideologico non gli permettono di capire che ormai anche a lui viene attribuita una precisa collocazione sulla scacchiera del potere. Con gli alti e bassi, i vantaggi e i rischi conseguenti. Crede di essere un battitore libero, ma gli altri non lo considerano tale. Anzi, lo considerano troppo potente e, più che rispettarlo, lo temono. Alla fine degli anni Cinquanta, dunque, quando massimo è il suo prestigio, aggressivo e agguerrito come mai prima appare lo schieramento dei suoi nemici interni e internazionali, industriali e politici, palesi e occulti. D'altra parte non mancano certo gli argomenti per criticarlo. Nato per «combattere i monopoli del capitale privato», secondo gli slogan in voga in quegli anni, l'Eni è diventato il più pesante, protetto e impenetrabile dei monopoli pubblici; tanto poco trasparente da non poter essere neppure considerato veramente pubblico. La conduzione dell'ente, poi, viene considerata dissennata. Le scelte dei dipendenti e del manager sono troppo spesso subordinate a considerazioni politiche e clientelari. La crescita è confusa, disordinata, le acquisizioni sembrano dettate da pura volontà di potenza e da febbre espansionistica, senza adeguate valutazioni industriali ed economiche. L'Agip si ostina a cercare greggio in mezzo mondo e non lo trova quasi mai. Mattei è il «petroliere senza petrolio». L'accusa più grave è che l"«Eni distrugge ricchezza». In effetti alla fine del decennio l'indebitamento del gruppo si avvicina pericolosamente ai 1000 miliardi di lire, una somma spaventosa in quegli anni. A tutto questo va aggiunto il danno provocato alla politica estera del paese: il deterioramento dei rapporti con i principali alleati, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, provocato dalla lotta contro le Sette Sorelle e dal sostegno ai movimenti anticoloniali e di liberazione nazionale, le accuse di neutralismo - che però dovrebbero coinvolgere almeno anche Gronchi e buona parte della Dc. 273 Intanto iniziano a Genova i lavori di costruzione dell'oleodotto dell'Europa centrale, che alimenterà le raffinerie della Val padana, della Svizzera e della Germania. È un'opera colossale, uno dei molti segnali che l'Italia sta radicalmente cambiando. Il 25 maggio 1959 una inchiesta del quotidiano britannico «Daily Mail» concludeva che «il livello di efficienza e di prosperità del potenziale produttivo dell'Italia costituisce uno dei miracoli economici del continente europeo». L'11 gennaio 1960 l'accreditatissimo quotidiano finanziario londinese «Financial Times» proclama la lira italiana «migliore valuta dell'anno». È il segnale ufficiale, anche a livello internazionale, che l'economia italiana è esplosa: la produzione, i consumi, il reddito pro capite, l'occupazione sono ormai paragonabili - ma non
ancora assimilabili - a quelli dei maggiori paesi industriali. Se appena dieci anni prima i libri di scuola definivano l'economia italiana «prevalentemente agricola», ora la classificano come «industriale avanzata». Insomma, è il boom, o «miracolo italiano»: così passerà alla storia quel periodo di crescita entusiastica e tumultuosa che porterà in pochi anni il paese fuori dalla sua secolare miseria, pur accentuando le differenze fra il Nord sempre più ricco e il Sud sempre più in ritardo. Milioni di famiglie lasceranno le campagne meridionali per andare ad affollare le periferie delle città industriali del Settentrione. In pochi anni il paese cambierà radicalmente. Per molti, soprattutto in quegli anni, il «miracolo economico» è anche dovuto, oltre che ai bassi salari, alla politica energetica di Mattei e ai costi relativamente bassi dei prodotti dell'Eni: in particolare, all'impiego del metano come fonte di energia. Nessuno però è in grado di immaginare come sarebbero andate le cose, come sarebbero stati quei prezzi in condizioni di mercato veramente libero e aperto, non condizionato dalla posizione privilegiata, se non monopolistica, dell'Eni. Intanto però, anche per effetto delle nuove tensioni sociali che queste trasformazioni producono, la situazione politica si complica. Il 24 marzo Segni si dimette, ma Gronchi dà ancora a lui l'incarico di formare il nuovo governo. Mattei, sottoposto ad un fuoco di critiche e di attacchi senza precedenti, cerca di ricomporre i suoi rapporti col potere poli274 Mattei tico. Va a visitare Segni nella sua casa romana di via Sallustia- na. Il presidente incaricato lo tratta «con affetto quasi paterno», come racconterà a Pietra lo stesso Mattei, che dice anche di aver parlato a Segni della necessità di «svolta verso le cose nuove», un invito ad un passo verso il centrosinistra. Naturalmente assicura il suo appoggio al tentativo di Segni che annuisce, sorride e infine saluta il visitatore posandogli amichevolmente una mano sulla spalla sinistra. Pochi giorni dopo va a trovare il segretario della Dc Aldo Moro a piazza del Gesù. In questo caso il colloquio è molto più freddo anche se formalmente cordiale e riguardoso. Moro non è personaggio particolarmente espansivo e vivace. Mattei gli dice all'incirca le stesse cose che ha detto a Segni ma stavolta ottiene solo un cortese ascolto. L'uomo politico barese, introverso, riflessivo e apparentemente poco interessato ai temi economici, non è molto sensibile agli argomenti e alle motivazioni che muovono Mattei. Ma gli sviluppi per la formazione del nuovo governo prenderanno una piega molto diversa e, alle prime apparenze, inaspettatamente molto più favorevole a Mattei. Il tentativo di Segni non riesce e Gronchi dà l'incarico a colui che tutti considerano il suo pupillo politico, ma che è anche compaesano del presidente dell'Eni: Ferdinando Tambroni, nato a Matelica. Mattei è entusiasta, meglio di così non poteva andare: conta sulla notoria solidarietà fra marchigiani, e matelicesi in particolare. Certo non può immaginare che quell'incarico porterà ad una delle vicende più drammatiche nella storia della Repubblica. Tambroni, intelligente, intraprendente e ambiziosissimo, è un personaggio molto complesso e ambiguo. Ha fatto parte della milizia fascista, è riuscito poi abilmente a «riciclarsi» nella Dc, anzi nella sinistra del partito. Divenuto ministro degli Interni nel luglio '55 col governo Segni, è stato probabilmente uno dei maggiori responsabili dell'inizio della schedatura generalizzata di politici, sindacalisti, giornalisti e altre categorie di uomini pubblici. Un lavoro, secondo un documento della Cia reso noto da Ferruccio Parri, iniziato «alla buona» da Sceiba ma che nel periodo di Tambroni fu molto sviluppato e molA Mosca, a Mosca! 275 to ben organizzato, diventando sistematico. Il materiale prodotto da Tambroni verrà ereditato dal Sifar, i servizi segreti del generale De Lorenzo, accusato di aver progettato nel 1964 un colpo di Stato. Il nuovo governo, non riuscendo a trovare una maggioranza centrista, sarà formato solo da democristiani e avrà l'appoggio della destra, di monarchici e postfascisti
del Msi. Una rottura traumatica sulla strada del centrosinistra e dell'apertura ai socialisti: le reazioni di Pci e Psi saranno infatti durissime. Secondo molti osservatori e a distanza di tanti anni, dando a Tambroni l'incarico di formare il governo, Gronchi, che pure era esponente della sinistra dc, dimostrò di non aver mai avuto simpatia per i socialisti (ormai i più grandi avversari di Mattei) ancora troppo legati al Pci. Assecondava le spinte di quanti consideravano un governo con il Psi pericoloso per l'economia del paese, per la sua politica estera e la sua fedeltà all'Alleanza atlantica, per gli equilibri sociali e l'ordine pubblico. Ed erano molti a pensarla così, anche tra i democristiani, in Vaticano e tra i vescovi, negli ambienti industriali, al dipartimento di Stato e all'Ambasciata degli Stati Uniti. Gran parte della stampa si faceva portavoce di queste ansie. In fondo, qualcosa del genere era stato sperimentato in Sicilia - spesso considerata una specie di laboratorio politico - con l'operazione Milazzo», alla quale, secondo molti osservatori, Mattei non era del tutto estraneo. Una sera di aprile del 1960 un ministro di Tambroni telefona a Pietra: al presidente del Consiglio appena incaricato non è piaciuto un titolo dedicatogli dal «Giorno», è opportuno prendere dei provvedimenti. Il governo non ha ancora ottenuto la maggioranza; anzi, è in grave affanno per metterla insieme -tanto che accetterà i voti dell'estrema destra - e già non tollera le critiche della stampa. Due giorni dopo Mattei accompagna il direttore del «suo» giornale a Palazzo Chigi. Tambroni va subito al sodo: è intollerabile che lo attacchi proprio il giornale dell'Eni, ente che risponde al governo. «Lei» dice rivolgendosi direttamente a Pietra «deve capire che "Il Giorno" deve essere obiettivo.» E generalmente gli uomini di potere per «obiettivo» intendono «dalla parte mia». In grande imbarazzo, Pietra non 276 Mattei sa come reagire, anche se il suo primo impulso sarebbe di andar via sbattendo la porta. Seguono minuti di gelo. Interviene Mattei, per uscire dall'imbarazzo: dice che di solito «Il Giorno» gli sembra obiettivo ed equilibrato, ma che, comunque, una tanto autorevole esortazione all'obiettività va senz'altro accolta e tenuta ben presente. Il tono è ammiccante, come per dire: «Tranquillo, fra marchigiani ci intendiamo». A Tambroni sembra che i due abbiano capito l'antifona e dopo poche cordialità di circostanza li congeda. Stringe la mano a Pietra e abbraccia Mattei, parlando dell'amatissima Matelica e del cimitero dove riposano i loro cari. In ascensore Pietra continua a tacere, evidentemente contrariato e nervoso: il suo editore avrebbe dovuto essere più intransigente di fronte ad una così pesante ingerenza politica. Mattei tenta un'imbarazzata e tortuosa spiegazione del suo comportamento: «È un brutto imbroglio. Non voglio essere il primo a parlare, ci vuole senso della misura. Con questo governo quell'uomo non ha orizzonti, certo, ma è ancora in grado di colpire duro». Pochi giorni dopo, il 27 aprile, l'Università di Camerino gli conferisce la laurea honoris causa in chimica per «alti meriti acquisiti dall'ingegner Enrico Mattei nel campo della petrolchimica, sia per l'aspetto industriale che per l'incremento agli studi e ricerche nell'ambito di questa disciplina e per il contributo dato al progresso scientifico economico e tecnico del Paese». Come sempre in queste occasioni, Mattei è entusiasta e commosso - si commuove sempre più spesso, viene ormai considerato uno dalla lacrima facile. Dopo la cerimonia va a Matelica a visitare le sue «figliocce», le ragazzine dell'Istituto «Fidanza», alle quali regala il gigantesco torrone che la ditta Bettacchi di Camerino ha appositamente preparato per lui in occasione della nuova laurea. Verso l'estate la situazione politica precipita. I missini, probabilmente per forzare i tempi di una loro piena «riabilitazione politica», per dimostrare di essere ormai un partito come tutti gli altri, scelgono come sede del loro imminente congresso Genova, città medaglia d'oro della Resistenza e una delle più «rosse» d'Italia. I lavori congressuali dovrebbero iniziare 277 il 2 luglio. I partiti di sinistra e i sindacati, soprattutto la Cgil, insorgono; le figure più rappresentative della guerra di liberazione protestano vivacemente
contro questa scelta che appare loro una «provocazione». I portuali genovesi, i mitici camalli, danno il via ad una serie di scioperi e manifestazioni che si propagheranno rapidamente in tutta Italia, da Palermo a Milano. Mattei, il «comandante Mattei», capo dei partigiani cattolici, manca all'appello. È in grande imbarazzo, si defila, non prende posizione. Non può andare contro Tambroni. Cerca di stare all'estero il più possibile. Alla fine di giugno è a Vienna, accompagnato da Pietra e da Giorgio Bocca. Sono scesi all'Hotel Imperiai che in quei giorni ospita anche il leader sovietico Krusciov in visita ufficiale nella capitale austriaca. Nei saloni affollati di personaggi del seguito e uomini della sicurezza, nessuno nota un ometto di mezza età, dalla carnagione molto chiara, in doppiopetto blu, disorientato e infastidito che in tanto trambusto nessuno si interessi a lui. E a buon diritto, giacché non è un qualsiasi ospite dell'albergo, ma niente di meno che un re. Si tratta infatti di sua maestà Mah- renda, re del Nepal, reincarnazione di Visnù. Pietra fa per caso la sua conoscenza e lo presenta a Mattei. Il monarca himalaia- no è contento che finalmente qualcuno si interessi a lui, il presidente dell'Eni è estasiato all'idea di trovarsi a fare quattro chiacchiere con un re al bar di un albergo. L'ultimo monarca che ha incontrato è stato lo scià Reza Pahlavi, col quale, però, c'erano anche motivi d'affari. In questo caso è una chiacchierata in libertà senza secondi fini. Racconta a Mahrenda quanto gli piaccia pescare trote o salmoni ai piedi delle montagne e gli promette che un giorno andrà a pesca nel Kashmir o in Nepal. Bocca assiste in disparte. Mahrenda parla con passione del suo paese, di come sia difficile passare autonomamente da un feudalesimo arcaico alla modernità per una piccola nazione d'alta montagna, pressata da tre dei paesi più grandi e popolosi del mondo, Cina, India e Russia, a un passo da una polveriera di nome Kashmir conteso fra Pakistan e India; delle resistenze dell'aristocrazia a rinunciare ai tanti privilegi, del conservatorismo diffuso anche nei ceti più poveri. 278 Mattei Del Nepal, Mattei sa pochissimo, è stanco e si è fatto molto tardi. Ma la situazione bizzarra nella quale si trova, la sua insaziabile curiosità e la sua plebea passione per il sangue blu lo tengono sveglio. La grande capacità di sintesi, di andare al punto lo portano ad assimilare, un po'"arbitrariamente, i problemi del piccolo regno asiatico a quelli dei paesi in lotta per la liberazione nazionale e l'emancipazione economica. In un francese approssimativo impartisce al regale interlocutore una lezione di politica internazionale e di demagogia. Gli spiega che i paesi piccoli e medi sono tutti come il Nepal rispetto alle grandi potenze: «Certo, i loro problemi sono diversissimi, ma richiedono la stessa strada, la strada delle cose nuove e della volontà popolare; la strada necessaria al Nepal che non può andare avanti vendendo trote ai turisti, cime inviolate agli alpinisti, pezzi di pagode agli antiquari». A questo punto il re, un po'"disorientato, è raggiunto dalla regina e la coppia reale si accomiata per andare a teatro. I due italiani escono a passeggiare nella città di notte. La stanchezza è passata, Mattei ha una gran voglia di chiacchierare, eccitato dagli «insegnamenti della giornata»: il piccolo re malinconico e solo in un angolo di un bar, lo sconosciuto paese lontano schiacciato fra le grandi potenze all'esterno e i grandi privilegi all'interno. Attraversando i grandiosi cortili semibui della Hofburg, il quartiere sede della vecchia corte imperiale asburgica, Mattei si lascia andare ad un'altra lezione, stavolta a beneficio di Pietra: «Per prima cosa, capire i tempi. Cos'era, al confronto del potentissimo impero governato da questa grandiosa reggia, con i suoi eserciti e le sue grandi ricchezze, il piccolo Piemonte, con i suoi castellucci di mattoni e le sue casse semivuote? Eppure ha vinto il Piemonte, perché la strada che percorreva era la strada del secolo, la strada della libertà e del popolo. Ecco, al giorno d'oggi mettersi contro i paesi del Terzo mondo in lotta per l'indipendenza significa non capire il Risorgimento visto dalla Hofburg». Una lezione di storicismo alla buona, di determinismo storico elementare. Non è chiaro se la politica estera di Mattei discenda da questi convincimenti o viceversa.
Pietra lo riporta sul contingente, ogni giorno più preoccu279 pante. Dall'Italia arrivano notizie di scioperi e manifestazioni che la polizia reprime con una durezza crescente. «Sì, ma adesso in Italia come ce la caviamo? Perfino Rossi considera provocatoria la scelta di Genova come sede del congresso missino. E non parlo di Ernesto Rossi, che, com'è naturale, sta con Parri e Pertini: parlo di Paolo, l'esponente socialdemocratico, un modello di moderazione illuminata.» Mattei, ricondotto al suo pragmatismo, si ferma, guarda per terra e risponde lentamente: «Stavolta le cose erano confuse fin dall'inizio. Non c'erano idee chiare né sull'obiettivo dell'operazione né sulle alleanze necessarie. Tambroni prima si è montato la testa, poi l'ha perduta sentendo vacillare il governo e si è fatto prendere la mano dal Msi. Nella mia condizione ho fatto molto, evitando di prendere posizione e di scendere in campo. Me la faranno pagare se il governo avrà vita lunga, ma ci credo poco». In effetti l'Italia è sconvolta da un'ondata di manifestazioni violente, organizzate ed egemonizzate da Pci e Cgil, e dalla durissima repressione della polizia e dei carabinieri. Le forze di polizia ormai sparano sulla folla, i carabinieri caricano anche con reparti a cavallo, come a Porta San Paolo a Roma, luogo simbolo perché lì è iniziata la resistenza nella capitale: la carica è guidata dal capitano Raimondo D'Inzeo, famosissimo campione olimpionico di equitazione. Genova è in stato d'assedio, barricate nelle strade e manifestanti armati. All'ultimo momento il congresso del Msi viene rinviato per evidenti ragioni di ordine pubblico. La protesta, però, va avanti: ormai ha come oggetto direttamente il governo Tambroni, accusato perfino di intenzioni golpiste. In pochi giorni fra i manifestanti si contano una decina di morti a Reggio Emilia, Palermo, Licata e Catania, e decine di feriti. La Cgil proclama lo sciopero generale. Il paese sembra sull'orlo della guerra civile, a poche settimane da un evento fortemente voluto e accuratamente preparato come le Olimpiadi di Roma, che cominceranno a fine agosto. Mattei non può più defilarsi e l'8 luglio, proprio quando gli scontri di piazza sono al culmine, ad un livello quasi insurrezionale, scrive una lunga lettera a Tambroni esprimendogli 280 Mattei solidarietà e lodando «l'energica e opportuna azione svolta in difesa dello Stato». Non è chiaro se un gesto tanto intempestivo e imprudente sia dettato dalla solidarietà fra matelicesi, da un legalismo da figlio di carabiniere, dal mai sopito anticomunismo (suo e di gran parte dei partigiani «bianchi»), da una insufficiente percezione della situazione, o da una temeraria scommessa sulla sopravvivenza di un governo già in agonia. In ogni caso la mossa di Mattei è fuori tempo. Quello stesso giorno Cesare Merzagora, presidente del Senato, propone una sorta di armistizio fra lo Stato e la piazza: 15 giorni di tregua con il ritiro in caserma delle forze di polizia e la sospensione delle manifestazioni. È un modo, di dubbia correttezza istituzionale, per uscire dalla situazione preinsurrezionale nella quale era precipitato il paese. La sinistra è favorevole, la destra contraria, la Dc ha delle riserve: a molti appare come una resa alla piazza. Ma la proposta passa ed è chiaro a tutti che indirettamente rappresenta anche una sorta di benservito per il governo. Il 10 luglio 1960 Mattei e Pietra sono ancora insieme, stavolta a Cortina, per una colazione con il leader tunisino Burghi- ba. Si parla naturalmente anche della situazione algerina. Il giornalista riporta l'impressione che il suo capo sia più tranquillo di quella sera a Vienna, pochi giorni prima dei fatti di Genova: è sicuro di sé, anche se un po'"amareggiato per come stanno andando le cose: «Ora per un po'"faranno ponti d'oro a Tambroni, la sua sorte è segnata. Stavolta non sono stato tra gli uomini di punta, ma avrei messo in gioco cose troppo importanti, al di là della mia persona. Mi sono limitato a seguire la linea della Dc». In realtà i democristiani, divisi in tante correnti, hanno avuto una condotta
ambigua e confusa, mentre Mattei ha preso posizione all'ultimo momento, una posizione perdente, sostenendo il governo, considerato amico fin dall'inizio. Per portare consensi al neonato gabinetto Tambroni (ma soprattutto alla temeraria politica energetica dell'Eni in una fase critica) Mattei a fine marzo aveva abbassato il prezzo della benzina, del gasolio e dei fertilizzanti. La concorrenza fu coA Mosca, a Mosca! 281 stretta a adeguarsi. Un altro ribasso l'Agip lo farà scattare in agosto, in piena stagione turistica e alla vigilia delle Olimpiadi romane. Questi tagli ai listini, al di là delle diverse motivazioni politiche, per l'Eni non sono un grande sforzo, giacché in questi mesi i prezzi del greggio continuano a scendere. È un fenomeno che viene da lontano. Fin dall'inizio degli anni Cinquanta il mercato petrolifero era stato caratterizzato da una sovrapproduzione crescente. Sul finire del decennio l'amministrazione Eisenhower, preoccupata dalla grave dipendenza energetica degli Usa dall'estero, per ragioni strategiche ma anche di bilancia commerciale introduce un sistema di «quote», contingentando le importazioni e provocando un terremoto tariffario che fa crollare i prezzi di riferimento. Intanto enormi giacimenti sono stati scoperti in Africa settentrionale, in Libia e Algeria in particolare. La nuova ondata di petrolio che si abbatte sul mercato costringe prima la Bp (ex Anglo- Iranian Oil Co.) poi la più grande delle Sette Sorelle, la Standard New Jersey (Esso in Italia) ad abbassare il prezzo del greggio del 10-14%, portandolo intorno a 1,80 dollari al barile. Le altre furono costrette a adeguarsi. A rimetterci, dunque, sono i paesi produttori. Ormai è chiaro che per salvaguardare i loro redditi devono organizzarsi, unirsi in un «cartello», superando le tradizionali diffidenze e rivalità. Ci aveva provato Nasser ma le divisioni, le gelosie tra i paesi arabi e il rifiuto dell'atteggiamento egemonico del raìs egiziano avevano fatto fallire il tentativo. Lo stesso Mattei aveva vanamente cercato di porsi come punto di riferimento per un'operazione di questo tipo. Finalmente, di fronte all'ultimo sconvolgente shock dei prezzi, ci riescono due protagonisti del mercato: il ministro venezuelano delle Miniere e idrocarburi Juan Pablo Perez Alfonzo e il capo della Direzione per gli affari petroliferi dell'Arabia Saudita Abdullah Tariki. Quest'ultimo è un nazionalista intelligente e spregiudicato, grande nemico delle multinazionali del petrolio nonostante abbia studiato negli Stati Uniti e sia cresciuto professionalmente alla Texaco. È uno dei tanti dirigenti dei paesi produttori formatisi a spese delle compagnie americane. Queste infatti elargiscono 282 Mattei generosi contributi sociali, per la realizzazione di infrastnitture e per la formazione dei tecnici. L'obiettivo, che non raggiungeranno, è combattere l'immagine di «sanguisughe colonialiste» e «sfruttatrici del Terzo mondo» costruita per loro dalla propaganda e dalla vulgata avversaria. D'altra parte, qualcosa del genere farà anche Mattei, con l'Istituto Superiore Idrocarburi di San Donato da dove passeranno molti dei futuri dirigenti delle società petrolifere del Terzo e Quarto mondo. Alfonzo e Tariki, dunque, hanno ben chiaro che a controllare prezzi e quantità devono essere i produttori, se vogliono salvaguardare la redditività del loro patrimonio. Dopo mesi di estenuanti, confuse e rocambolesche trattative, il 14 settembre a Bagdad, per iniziativa di Venezuela, Arabia Saudita, Iraq e Iran nasce l'Opec, Organization of Petroleum Exporting Countries. Primo obiettivo: rivedere il sistema «fifty- fifty» per passare almeno ad un 40-60% dei profitti a vantaggio del produttore. Ci vorranno anni prima che questo organismo riesca ad ottenere qualche concreto risultato, ma intanto le grandi compagnie occidentali devono fare i conti con un forte e permaloso antagonista in più. Mattei coglie subito il senso della novità e cerca di giocarla a proprio vantaggio: pochi giorni dopo la nascita dell'Opec, ad un congresso internazionale degli idrocarburi a Piacenza accusa le Sette Sorelle di attuare una «politica miope e tardocolonialista». Mattei è in affanno nel seguire un'evoluzione così convulsa del mercato proprio
mentre in Italia la situazione precipita verso sviluppi che non gli sono chiari, il cui controllo potrebbe sfuggirgli. Una sola cosa è evidente: ormai tutti vogliono liberarsi di Tambroni, che infatti si dimette il 19 luglio. La Dc ha deciso: per recuperare il consenso popolare, per non lasciare il Psi in balìa dei comunisti, per isolare il Pci che si è dimostrato pericolosamente padrone della piazza, non resta che «aprire a sinistra», allearsi con i socialisti di Nenni, varare finalmente un governo di centrosinistra. L'incarico non potrà essere dato che a Fanfani, che da anni si muove in questa direzione. Mattei è il primo a capire che questa è ormai l'unica strada 283 percorribile, ancora una volta anche grazie ai consigli di Boldrini e di Pietra. Sa che i punti più caratterizzanti del programma di un governo di centrosinistra saranno due: programmazione economica e nazionalizzazione dell'energia elettrica. Due punti ai quali, per ragioni diverse, tiene moltissimo. Stavolta, perciò, rompe ogni indugio e incontra direttamente Nenni. L'intesa è piena e comprende, com'è ormai abbastanza «normale», anche un impegno di finanziamento al partito. Mattei concorda di dare al Psi un «aiuto fisso, mensile, diretto, incondizionato». Ad ogni scadenza, racconta Pietra, partirà da Roma un esponente della segreteria socialista, inizialmente Pio De Berti Gambini, che incontrerà a Milano un amico personale di Mattei; questi gli consegnerà un bel pacco col quale il fiduciario di Nenni farà ritorno in via del Corso a Roma. Negli anni successivi le erogazioni avverranno con modalità meno primitive. Il 26 luglio Fanfani ottiene la fiducia, i socialisti si astengono: il processo di «apertura a sinistra» sarà lungo, bisognerà aspettare il 1962 per avere il primo governo di centrosinistra, anche quello presieduto da Fanfani, e il 1964 perché il Psi entri a far parte organicamente, con suoi ministri, del governo, il primo presieduto da Moro. In passato ci sono state ombre nei rapporti tra Fanfani e Mattei, ma i due sono troppo necessari l'uno all'altro per non ristabilire immediatamente ottime relazioni. Hanno, fra l'altro, un ambizioso progetto comune, che vogliono realizzare rapidamente: la costituzione dell"«Ente per l'energia», che coordini la ricerca, la produzione e la distribuzione di ogni forma di energia. Una concentrazione di potere che, come abbiamo detto, molti considerano mostruosa e pericolosa per la democrazia. Anche in questi giorni di gestazione del primo centrosinistra, Mattei riesce a muoversi sulla scena da protagonista, facendo rapidamente dimenticare l'inconsueto basso profilo e le imbarazzanti sbandate dei mesi scorsi. Ormai è considerato da tutti una specie di demiurgo, di «motore esterno» della politica italiana. Durante le convulse trattative per la formazione del governo Tambroni circolava, ad esempio, questa barzelletta: un tale confida ad un amico di conoscere la lista dei mini284 Mattei stri. «Ma come hai fatto?», chiede l'amico. «Me li ha detti il benzinaio del distributore Agip dove vado a fare rifornimento.» Quando, nel febbraio del '60, Gronchi va in visita ufficiale in Unione Sovietica accompagnato da Mattei, gira questa battuta: «Gronchi ha fatto una grande impressione in Russia: è arrivato con una troika trainata da un cane a sei zampe». In settembre si svolgono a Roma i diciassettesimi giochi olimpici; tutta la segnaletica che porta agli impianti è contrassegnata dal marchio dell'Agip: sui giornali compaiono vignette in cui, nel logo dei giochi, la lupa capitolina che sovrasta gli anelli olimpici viene sostituita dal cane a sei zampe. Intanto però grandi cambiamenti si preparano anche sulla scena mondiale. Tutto sembra andare «verso sinistra», nella direzione presa dalla politica italiana. Da due anni è papa Angelo Roncalli, Giovanni XXIII, che sta profondamente rinnovando la Chiesa in senso progressista. L'8 novembre 1960 il quarantatreenne senatore democratico John Fitzgerald Ken- nedy, cattolico di origini irlandesi, proveniente da una ricchissima famiglia di Boston, è eletto, più giovane presidente degli Stati Uniti, con un programma di forte impegno sociale e progressista: «la nuova
frontiera». Mattei ne è entusiasta, guardando a quel cambiamento attraverso le lenti dei suoi crescenti problemi e delle sue ossessioni: «Aveva ragione Vanoni. Non c'è un'America sola, non c'è soltanto l'America delle Sette Sorelle. Ci sono due Americhe, e una è giovane. Se le cose cambieranno laggiù, cambieranno anche qua all'Ambasciata. Washington non ci vedrà più attraverso gli occhiali della vecchia diplomazia, amica delle Sette Sorelle e dei loro alleati italiani». Le cose non andranno esattamente così. Mattei si riferisce evidentemente all'ostilità della signora Luce. Tuttavia anche dopo di lei, anche con l'arrivo a Roma di Frederick Reinhardt, la diplomazia americana rimane diffidente, sul piano politico verso il centrosinistra, considerato un pericolo per la fedeltà atlantica dell'Italia, e sul piano economico verso l'Eni e ogni altro monopolio di Stato. Non ha mai capito, Mattei, che l'ostilità degli Stati Uniti verso di lui non è personale e non è dettata solo e neppure principalmente da motivi di interesse. È prima di tutto una diffidenza di princi285 pio o, se si preferisce, ideologica. L"«ideologia americana» non può accettare alcuna forma di monopolio, sia esso privato o, a maggior ragione, pubblico. D'altra parte, appena arrivato alla Casa Bianca, Kennedy, forse per rassicurare il vecchio establishment conservatore, in parte contraddicendo le promesse elettorali di una «nuova frontiera», sceglie i principali collaboratori fra i rappresentanti della grande industria e della finanza, lasciando in ombra quell'intellighenzia democratica che lo aveva portato al successo. Ancora una volta, perciò, deludendo le aspettative di Mattei, le multinazionali del petrolio potevano godere di credito e ascolto presso l'amministrazione americana. Ma presto gli uomini di Kennedy dimostreranno almeno una disponibilità al dialogo. Resta il fatto che per gli apparati di Washington, Mattei non è solo un nemico - di modeste dimensioni, peraltro - delle grandi compagnie petrolifere americane. Non è quello il problema. Ciò che disturba è la sua politica. È considerato la «levatrice» del centrosinistra in Italia, è un elemento destabilizzante nel Terzo mondo, finanzia movimenti generalmente filosovietici, è a favore del riconoscimento della Cina, è amico di leader nemici degli Stati Uniti come l'egiziano Nasser e il marocchino Ben Barka, manifesta inquietanti tendenze neutraliste. D'altra parte, l'attivismo terzomondista di Mattei porta a qualche risultato, anche se di petrolio se ne vede ancora poco: nel '59 l'Eni, come abbiamo visto, ottiene un'importante concessione in Cirenaica. Poi vaste aree di ricerca e coltivazione in Sudan. Nel '60 Mattei va in Tunisia per incontrare personalmente il presidente Burghiba. Il governo vuole realizzare una grande raffineria per la quale ha già un'offerta della Esso. La proposta dell'Eni è certamente più interessante: un grande investimento al 50% con lo Stato tunisino su tutta la filiera: ricerca, raffinazione, distribuzione. A Burghiba l'idea piace molto «ma» obietta «il problema è il greggio». «Stia tranquillo, presidente, non è il greggio che manca» replica Mattei. «In questo momento ci sono tanti paesi che cercano sbocchi per il loro petrolio. Il mondo è pieno di petrolio, semmai ci sono problemi di sovrapproduzione. E poi forse un giorno avremo il nostro pe286 Mattei trolio.» L'anno successivo, nel '61, otterrà una concessione di 11.000 chilometri quadrati nel Sahara tunisino, originariamente riservata alla Mobil e a un gruppo francese. Primo scontro fra l'Eni e ifrancesi, titolerà «Le Monde»: «Dopo essere stato in concorrenza con gli Usa ... ora Mattei sfida la Francia in Tunisia. Dopo l'Egitto, il Marocco e la Libia, l'Eni sembra voler penetrare in tutta l'Africa mediterranea». La raffineria di Biserta comincerà a produrre regolarmente poco più di due anni dopo, a pochi mesi dalla morte di Mattei, mentre l'Agip ha già realizzato una trentina di stazioni di servizio. E arriverà anche il greggio tunisino, nel '64, dal giacimento di El Borma. Nel '62 la bandiera gialla col nero cane a sei zampe sventolerà anche in Nigeria, dove l'Agip strapperà alla concorrenza una notevole concessione.
Ma ciò che, dell'intraprendenza di Mattei, più allarma l'amministrazione americana sono i rapporti con l'Urss. Fra il 1955 e il 1960 i sovietici scoprono vasti giacimenti nell'area degli Urali e del Volga. La produzione di greggio raddoppia rapidamente, permettendo a Mosca di lanciare una grande offensiva di politica petrolifera in primo luogo verso l'Europa occidentale. A Washington e negli ambienti della Nato si ha la sensazione che l'obiettivo sia destabilizzare il sistema energetico internazionale, con le conseguenze economiche e politiche che è facile immaginare. Il primo paese ad accettare le offerte di Mosca è la neutrale Svezia, nel 1955. Tre anni dopo, l'Italia. Anzi l'Eni: petrolio in cambio di gomma sintetica dell'Anic. L'accordo viene rinnovato l'anno successivo: l'Urss diventa fornitrice del 16% del fabbisogno italiano di greggio. Su questa strada Mattei è incoraggiato da La Pira e dalla sinistra democristiana; oltreché, naturalmente, dal Pci. Ma è spinto anche da un'oggettiva e stringente necessità: i giacimenti di cui in questi anni dispone l'Eni non producono più di quattro milioni di tonnellate, mentre il paese ne ha bisogno di almeno ventiquattro milioni. Negli anni più aspri della guerra fredda, dunque, l'Eni dà un notevole contributo all'esportazione in Europa del petrolio sovietico: che, per di più, batte la concorrenza in flagrante dumping, praticando prezzi sfacciatamente «politici», il 20287 30% al di sotto di quelli praticati al Fob del Golfo del Messico. Mosca è interessata, più che al profitto, alla penetrazione e alla presenza su quei mercati e, di conseguenza, su quelli dei paesi in via di sviluppo. Oltre che, naturalmente, ai risvolti politici, strategici e propagandistici di questa azione, evidenti se si pensa che nello stesso periodo l'Urss vende il suo petrolio al prezzo di 3,1 dollari al barile ai paesi comunisti satelliti e a 1,87 ai paesi occidentali. Mosca, inoltre, come abbiamo visto, accetta in pagamento non solo i sempre graditissimi dollari ma, in prevalenza, forme di «cambio merci»: un incentivo ulteriore per i clienti occidentali, che così possono piazzare parte della loro produzione industriale, ma anche una preoccupazione in più per gli Stati Uniti che temono, spesso non a torto, il potenziale uso strategico- militare di parte di queste forniture. Nel giugno del 1960 passa da Roma Aleksej Kossighin, vicepresidente dell'Urss: Mosca è disposta a trattare un'ulteriore fornitura di greggio. Mattei lo invita a Metanopoli dove viene accolto con tutti gli onori. Il più importante accordo italosovietico, stavolta quinquennale e del valore di 200 milioni di dollari, è firmato in ottobre. L'Italia diventa il maggiore importatore occidentale di greggio sovietico. Quell'intesa, però, era stata preparata con molto clamore e grande enfasi dalla visita di Gronchi e Mattei in Urss avvenuta, come abbiamo visto, dal 5 all'11 febbraio del '60. Ormai il presidente della Repubblica fa coincidere la sua azione diplomatica, di chiaro indirizzo neutralista, con quella parallela (e autonoma) del suo amico Mattei. Quel viaggio, perciò, è fortemente osteggiato dai settori più «atlantisti» della politica e dell'economia - liberali, repubblicani, parte della Dc, Confindustria - per i contenuti politici dichiaratamente favorevoli alla «distensione internazionale», di fatto neutralisti. Una visita, però, rovinata dalle inopinate aggressioni verbali di Krusciov, che fanno sfiorare l'incidente diplomatico, portando abbondante acqua al mulino di chi tanto l'aveva criticata. Politicamente, dunque, un fallimento per Gronchi. Ma quello che conta, per Mattei, sono gli accordi economici, per i quali non c'è alcun problema, in particolare per quanto riguarda 288 Mattei le forniture di petrolio: greggio in cambio di gomma sintetica dell'Anic e tubi di acciaio della Finsider (Iri), anticipando di 15 anni le transazioni abituali negli anni Settanta, petrolio contro merci, chiamate proprio barter, baratto, e che apriranno ad aziende private come Fiat e Pirelli i mercati dell'Est europeo. Per
l'Eni questa operazione comporterà un risparmio del 40% rispetto ai prezzi praticati dalle compagnie occidentali, oltre al guadagno dovuto al «cambio merci». Questi risparmi permetteranno a Mattei quei ribassi dei prezzi al dettaglio di marzo e agosto 1960 che faranno dei prodotti petroliferi italiani i meno cari in Europa. Anche in questa occasione gli aspetti tecnici dell'accordo sono opera del responsabile commerciale dell'Eni Giuseppe Ratti, che ha come controparte il presidente della Sojuzneftex- port, Ivan Gurov. Ratti era stato assunto da Mattei nel 1955 dopo un breve colloquio, com'era sua abitudine, anche perché conosceva bene il russo: fin da allora, dunque, il presidente dell'Eni pensava all'Urss. Una parte nell'operazione ha avuto anche il presidente della Fiat, Valletta: non solo per gli ottimi rapporti che intrattiene con Mattei (più volte tenterà di metterlo in buona luce con gli americani), ma anche perché il gruppo torinese è molto interessato al disgelo economico fra Italia e Urss. Racconta Pietro Savanetti, uomo della Fiat a Mosca: «Essendo particolarmente amico del presidente dell'Eni, conosciuto durante il periodo partigiano, trasmettevo anche a lui dal 1955 in avanti, per sensibilizzarlo e appoggiato in questo dal professor Valletta, le mie impressioni sull'Urss e sull'importanza che l'acquisto da parte dell'Eni di oli grezzi sovietici avrebbe avuto per tutta l'industria italiana, al fine di creare mezzi di pagamento per acquisti in Italia da parte dell'Urss». Per rimediare agli insuccessi di gran parte delle sue ricerche, dunque, l'Eni ha un bisogno crescente del greggio sovietico: sul totale delle importazioni italiane di petrolio, quello sovietico, che era il 2% nel '55, diventa il 20% nel '60 e diventerà il 22% nel '61: un livello oggettivamente preoccupante dal punto di vista strategico e politico. Nello stesso periodo le importazioni europee di greggio sovietico quadruplicano. 289 È inevitabile che questa sempre maggiore dipendenza italiana dal petrolio russo inquieti gli Stati Uniti: temono che si possa creare un clima favorevole all'azione politica del Pri, ma soprattutto che il blocco comunista ne ricavi vantaggi strategici dall'interscambio. È vero, ad esempio, che, anche per effetto degli accordi con l'Eni, Mosca incrementa la flotta petrolifera e mercantile e accresce la rete di oleodotti dall'Asia centrale all'Europa occidentale, rifornendo di petrolio anche zone militari. Per l'economia italiana, il risultato complessivo di questa azione di Mattei va al di là del capitolo energetico. In pieno clima da guerra fredda, l'Eni fa da battistrada per tutta l'industria italiana in Unione Sovietica. Già nel 1961 Valletta, che tanto ha sostenuto Mattei nella sua «campagna di Russia», firma a Mosca un contratto per la fornitura da parte della Fiat di trattori e per la costruzione in Russia di una fabbrica di automobili e trattori: si chiamerà Togliattigrad. La Fincantieri, dell'altra grande holding di Stato Iri, offre all'Urss addirittura una fornitura di navi, fornitura che sarà bloccata dal governo per il suo carattere potenzialmente militare; tuttavia nel 1962 verranno ugualmente prodotte nei cantieri navali italiani sei navi cisterna per la flotta sovietica. Il governo italiano, per le pressioni esercitate da Mattei, sarà l'unico, tra quelli occidentali, ad opporsi apertamente alla richiesta americana, partita dal National Petroleum Council, di limitare le importazioni di greggio dall'Urss. D'altra parte, gli effetti negativi di questa politica «trasgressiva» di Mattei si faranno sentire a lungo. All'Agip, in base alle norme Nato, non sarà consentita fino al 1978 la partecipazione a gare di fornitura per i reparti americani in Italia perché ha greggio che proviene o «potrebbe provenire» dall'Urss. Il Consiglio Nazionale per la Sicurezza degli Stati Uniti arriva a considerare le iniziative dell'Italia in campo petrolifero pericolose quanto il comunismo. L'esplicito appoggio politico e finanziario dell'Eni al Fln algerino, inoltre, procura l'aperta ostilità del governo e della stampa francesi (oltre che l'odio e il desiderio di vendetta dei terroristi dell'Oas). L'Eni assicurava i «passaggi» in Europa
290 agli esponenti del Fln, aveva cominciato a formare tecnici algerini nella sua Scuola di studi superiori sugli idrocarburi di San Donato e a predisporre per il futuro governo di Algeri programmi energetici e di sfruttamento del Sahara. L'ambasciatore di Parigi a Roma Gaston Palewski dirà al suo collega americano di ritenere Mattei «il singolo individuo più potente in Italia», con l'evidente intenzione di metterlo in cattiva luce. Il 20 maggio del 1961 comincia a Evian una lunga e tormentata trattativa francoalgerina per arrivare all'armistizio, all'indipendenza dell'Algeria e poi ad una cooperazione fra i due paesi. De Gaulle è determinato a conservare il controllo del Sahara, cassaforte petrolifera dei francesi: «Il petrolio è la Francia e unicamente la Francia». Gli algerini non molleranno, anche in base alle informazioni sulle risorse minerarie di quei territori contenute nei dossier preparati per loro dall'Eni. L'Ambasciata francese a Roma protesterà col ministro degli Esteri Segni contro «l'attività dell'Eni che ostacola le trattative in corso tra francesi e algerini». Nel frattempo all'Eni è stato offerto di partecipare ad un consorzio sahariano con compagnie americane, inglesi e francesi. Mattei rifiuta, forse sperando in un ruolo più importante e autonomo. Capitolo Quattordicesimo PACE CON LE SETTE SORELLE La conseguenza di questo tentativo di affermarsi in modo aggressivo e di questa intensa e spregiudicata attività internazionale è che, se prima le campagne della stampa ostile riguardavano la gestione finanziaria e il clientelismo dell'ente, ora si accusa Mattei di fare una sua «personale» politica estera del tutto autonoma, infischiandosene del governo. Ad esempio, riprendendo servizi del settimanale di destra «Il Borghese» sui rapporti col leader jugoslavo Tito, che concederà permessi di ricerca in Croazia, di cui il governo viene a sapere solo a cose fatte, Claire Sterling sul «Reporter» descrive un «Mattei condottiero», capitano di ventura, concludendo che «questo capo di un ente statale esercita troppo potere sullo Stato». Il 12 novembre 1960, quattro giorni dopo l'elezione di Ken- nedy che Mattei aveva salutato con tanto entusiasmo, il «New York Times» dà la misura del persistente malumore degli ambienti politici ed economici americani: con un articolo di inconsueta durezza accusa l'Italia di aver allentato i legami con gli alleati a causa del contratto con l'Urss firmato il mese prima. Quello che più preoccupa, ormai, è l'influenza che un elemento destabilizzante come Mattei ha sulla politica italiana. Ci si chiede, e non solo negli Stati Uniti, dove il presidente dell'Eni, evidentemente considerato l'italiano più potente, stia spingendo il paese. Molti diplomatici, a cominciare dall'ambasciatore Brosio a Washington, si lamentano con Roma, ma talvolta anche direttamente con Mattei e i suoi collaboratori, di essere regolarmente scavalcati dall'Eni tutte le volte che c'è di mezzo qual292 cosa che abbia anche indirettamente a che fare col petrolio. In realtà, sostiene Ratti, Mattei ostenta insofferenza ad ogni freno in politica estera quasi per civetteria, come manifestazione di potere e autonomia, ma sa bene di poter contare su un'intesa preliminare o su un tacito assenso del governo, in un «intelligente gioco delle parti». Ma forse, tenendo conto del potere che il presidente dell'Eni esercita sui partiti, in particolare sulla Dc, più che di tacito assenso si tratta di acquiescenza e subalternità. Intanto però Mattei non trascura occasione per cercare un'intesa con le Sette Sorelle. Dopo lunghi preliminari, nel marzo del 1960, all'Hotel de Paris di Montecarlo incontra per una segretissima colazione - organizzata grazie alla mediazione di Diego Guicciardi, presidente della Shell Italia e di Nicola Pignatelli della Gulf - Arnold Hofland, uno dei massimi dirigenti della Royal Dutch
Shell e delegato anche delle altre compagnie. Hofland, olandese, è il responsabile per l'Europa meridionale della sua compagnia. È un osso durissimo che prova per Mattei una particolare antipatia. Parla italiano perché, dopo aver fatto la campagna d'Italia con l'Ottava Armata, si è fermato per qualche tempo nella Penisola. «Non so se parla bene la nostra lingua» ironizzerà Mattei dopo l'incontro, dall'esito disastroso, «perché io gli ho sentito dire solo dei no.» Nel corso di un'intervista che concederà alla Rai il 12 aprile 1961, Mattei racconterà di aver fatto vari tentativi di avvicinare le grandi compagnie multinazionali «per ottenere pari dignità». Ricorderà, con qualche alterazione dei fatti (forse voluta), lo schiaffo ricevuto durante quella colazione a Montecarlo, paragonando l'Eni a un gattino affamato e spaurito e le Sette Sorelle ad un branco di cani feroci e aggressivi. All'incontro all'Hotel de Paris al quale partecipa anche il giovane ingegnere Nicola Melodia, allora suo stretto collaboratore, Mattei non fa che ripetere le sue richieste di sempre. Chiede di entrare anche con una piccola quota, 2-3%, nel consorzio del Golfo Persico: la risposta è no. Parla del progetto dell'Eni di costruire una grande raffineria in Tunisia, a Biserta: l'uomo della Shell gli risponde brusco di toglierselo dalla testa perché quell'impianto lo faranno loro. Allora Mattei chiede di .
293 averne almeno il 30-50%: ancora no. E no anche alla richiesta di partecipare alla realizzazione dell'oleodotto Genova Pegli- Ingolstadt. Quasi come un contentino, Hofland alla fine offre un'ipotesi di associazione commerciale: è pur sempre una concessione alle richieste di Mattei, il quale però a quel punto, racconta Accorinti, estrae l'agenda sulla quale aveva elencato i punti da trattare in quell'incontro, cancella con un solo tratto di penna tutta la pagina e dice calmo: «Penso che a questo punto non abbiamo più niente da dirci: lei ricorderà per un pezzo questa cena». L'incontro di Montecarlo è uno di quegli episodi che contribuiranno a creare molte leggende sulla storia dei rapporti fra Mattei e le Sette Sorelle; soprattutto dopo la rappresentazione che ne darà Francesco Rosi nel film Il caso Mattei, del 1972. Il fondatore dell'Eni vi è tratteggiato con una forte caratterizzazione ideologica, come un tribuno scalmanato, una specie di Che Guevara mediterraneo e petrolifero. Il suo interlocutore olandese, per contro, è un corpulento e aggressivo campione di prepotenza e sfrontatezza. Un Mattei- Davide, difensore degli interessi dei paesi poveri e sfruttati, in lotta contro sette voraci Golia e contro l'impero dell'arroganza e del profitto. Quasi tutti i collaboratori di Mattei, nel protagonista di quel film non riconosceranno il loro capo, che non è certo un capopopolo, un trascinatore di masse; afflitto, anzi, da una timidezza angosciosa che ne fa, tra l'altro, un pessimo oratore, impacciato e banale. D'altra parte Mattei stesso dà molta enfasi a questi contrasti anche, come abbiamo detto, per ragioni strumentali, per calcolo politico. In realtà si tratterebbe di normali schermaglie commerciali, dure ma non insolite in un ambiente impietoso come quello petrolifero, se non fossero inasprite dalla pertinacia con I cui il capo dell'Eni chiede un riconoscimento e dall'ostinazione con cui i suoi interlocutori glielo negano, accusandolo di avanzare delle pretese immotivate, senza offrire alcuna contropartita, e di non fare proposte chiare. L'intransigenza delle compagnie britanniche, la anglo- olandese Shell e la British Petroleum (Bp), ha anche una chiara copertura governativa. Gli ambienti politici e diplomatici del Regno Unito, infatti, considerano l'azione dell'Eni pericolosa 294 Mattei e destabilizzante in uno scacchiere, quello mediorientale, che a Londra è sempre stato particolarmente a cuore. L'ambasciatore della Gran Bretagna a Roma, sir Ashley Clarke, mostra una grande disponibilità verso Mattei, del quale sembra comprendere le posizioni e ammirare le capacità: esercita perciò notevoli pressioni sul governo di sua Maestà, esponendosi anche a critiche e sospetti. Ma senza
risultati concreti. Il Foreign Office resta molto diffidente verso quello che anche in documenti ufficiali e analisi chiama il «Matteismo» e si rifiuta di entrare in questioni che considera di stretta pertinenza delle compagnie. Una certa formale disponibilità britannica verso Mattei e il governo italiano (in questa fase il presidente del Consiglio Fanfani interviene anche personalmente in favore dell'Eni) è dovuta solo al fatto che Londra sta trattando il suo ingresso nel Mercato Comune Europeo e non vuole irritare Roma. Ma lasciando la trattativa in mano alle compagnie nessun accordo è possibile. D'altra parte ai competitori dell'Eni non mancano concreti motivi di allarme, dovuto soprattutto alla sovrapproduzione: nel 1960 la Esso (Standard Oil of New Jersey) riduce unilateralmente il prezzo del greggio; mentre in Italia perde quote di mercato dopo l'arrivo del petrolio russo, tanto che, adducendo motivazioni di carattere politico- strategico, rifiuta di raffinare il petrolio di provenienza russa negli impianti della Sta- nic di cui è proprietaria al 50% con l'Agip: la questione finisce in tribunale e sarà risolta amichevolmente pochi giorni prima della morte di Mattei. Il capo dell'Eni, dunque, insiste per avere accesso a condizioni favorevoli alle principali fonti di approvvigionamento, per essere ammesso al «club dei grandi». Ai quali, però, nel frattempo fa di tutto per dare fastidio e creare problemi. Con l'oleodotto Genova Pegli- Ingolstadt, lungo più di mille chilometri, dalla Liguria alla Baviera, di cui sta per iniziare la costruzione, l'Eni rifornirà tre grandi raffinerie che si accinge a costruire: ad Aigle in Svizzera e a Ingolstadt e Stoccarda in Germania. Lungo il percorso verranno realizzati grandi impianti di distribuzione, alberghi, ristoranti. Potrà far arrivare il petrolio sovietico da Genova ai paesi del Centro Europa: una 295 prospettiva che ad americani e britannici non può piacere. Per superare i complessi problemi politico- burocratici di un progetto internazionale tanto ambizioso, Mattei si serve della collaborazione di un consulente d'affari, Hjlmar H. G. Schacht, già ministro dell'Economia del Terzo Reich di Hitler (nella scelta di un bravo collaboratore il vecchio capo partigiano non aveva pregiudizi politici), molto utile nei rapporti con la Germania come lo era già stato nella vicenda iraniana. Tuttavia, l'oleodotto sarà completato solo nel 1966, con tre anni di ritardo, per intoppi burocratici e tecnici con la Svizzera, dovuti all'insufficiente preparazione con cui l'Eni aveva affrontato un'operazione tanto complessa. L'avrà vinta la concorrenza, che per ritorsione realizza molto più rapidamente un'opera parallela. Dopo l'ingresso di Kennedy alla Casa Bianca, nonostante la rigidità sostanziale dell'apparato, i politici nuovi arrivati danno qualche segnale di maggiore disponibilità al dialogo con Mattei. Restano invece forti le diffidenze nei confronti dell'apertura a sinistra verso cui sembra marciare la politica italiana col pieno sostegno del capo dell'Eni. Il nuovo segretario di Stato Dean Rusk ha ereditato la convinzione che i socialisti non si siano ancora completamente sottratti all'influenza del Pci. Il presidente incarica Arthur Schlesinger, suo consigliere particolare, e McGeorge Bundy di seguire attentamente e direttamente le cose italiane, anche indipendentemente dal dipartimento di Stato e dall'Ambasciata di Roma. Schlesinger, un progressista favorevole all'apertura al Psi, manda in Italia Averell Harriman, consigliere per la politica estera, per illustrare gli indirizzi della nuova amministrazione alle massime cariche istituzionali, ma anche per farsi un quadro della situazione italiana. Riferendo a Washington, quando accenna a Mattei, Harriman non potrebbe essere più severo: «Gli accertamenti e gli sperperi dell'intervento pubblico nuocciono all'espansione economica del paese. Se la gestione delle industrie pubbliche continuerà ad essere lasciata priva di controlli, esse potranno cadere sotto il dominio di speculazioni personali, com'è successo all'Eni con Mattei. Diventando nei
296 Mattei fatti monopoli privati appoggiati dall'autorità dello Stato e dalle sue risorse, ma utilizzati da avventurieri come Mattei per promuovere il proprio dominio personale». Secondo Vincenzo Cazzaniga, presidente della Esso Italia ma, come già detto, amico di Mattei dai tempi della Resistenza, il capo dell'Eni avrebbe fatto arrivare ad Harriman per vie informali una lunga lettera nella quale, riassumendo le proprie ragioni, chiede di potergliele esporre personalmente. Non si spiegherebbe altrimenti il fatto che Mattei, considerato la pecora nera per l'Ambasciata Usa a Roma e perfino per i funzionari più aperturisti del dipartimento di Stato, sia riuscito ad inserirsi nella ristrettissima agenda di colloqui romani dell'inviato americano: Gronchi, Fanfani, Saragat, Segni... e Mattei. Una circostanza che indica anche quanto gli americani lo considerino rilevante nel panorama politico italiano. Il 10 marzo del 1961, lo stesso giorno in cui Frederick Reinhardt è designato nuovo ambasciatore in Italia, Harriman e Mattei si incontrano e parlano per due ore all'Hotel Excelsior di Roma. Nella ricostruzione di Pietra, l'approccio del presidente dell'Eni, accompagnato dall'immancabile Savorgnan di Brazzà in funzione di interprete, è tanto diretto e appassionato da apparire aggressivo: «Le Sette Sorelle si comportano in maniera gretta verso di noi e miope verso i paesi produttori- esportatori». «Può essere più preciso?», replica Harriman, a sua volta assistito dall'addetto militare dell'Ambasciata Usa, Vernon Wal- ters. «Le parlo come italiano: noi siamo e vogliamo rimanere fedeli all'Occidente. Ma perché ciò possa accadere dobbiamo essere trattati da amici e alleati - e cioè alla pari - non solo in teoria o nelle questioni militari, ma anche sul piano economico.» «E per quanto riguarda il suo settore?» «Finora le Sette Sorelle non ci hanno mai dato la possibilità di collaborare alla pari, aggrappate come ostriche ai loro incredibili profitti. Lo sa lei a quanto ammontano questi profitti? Il costo di produzione del greggio va dal 12 al 20% del prezzo, il 40-45% va in royalties, altrettanto dunque rimane di profitto: non le pare che sia un po'"troppo nel mondo d'oggi? Se è vero, come è vero, che il colonialismo è finito, bisogna attuare una politica di maggiore collabo297 razione con i produttori. Se non lo faremo subito e bene noi occidentali, lo faranno gli altri... L'Africa pullula di russi, di polacchi, di cecoslovacchi, di cinesi. Se i governi e le grandi industrie occidentali non capiranno ciò, l'Africa guarderà altrove. E l'Asia e l'America Latina faranno lo stesso.» Harriman si rivolge a Brazzà con una battuta, per sdrammatizzare, commentando con un po'"di ironia tanta retorica terzomondista: «Il suo capo è un vero Robin Hood». E subito incalza Mattei a bruciapelo: «Già, e questo suo contratto per il greggio sovietico? È una breccia nel nostro fronte». Su questo punto Mattei è particolarmente agguerrito: spiega che ormai molti paesi occidentali, a cominciare dalla Germania, importano dall'Urss più petrolio dell'Italia. E poi: «È una conseguenza dell'atteggiamento del cartello. Ci hanno chiesto 140 milioni di dollari. Ho interpellato i sovietici che per lo stesso contratto ne hanno chiesti 100! Cosa dovevo fare?». E si gioca tutte le carte che ha a disposizione: «Lei dice che io ho aperto una breccia sul fronte dell'Occidente, io invece dico che posso aprire una grande prospettiva. Sarete certamente informati dei crescenti attriti fra Mosca e Pechino. La cosa naturalmente vi fa piacere ma andate avanti per la vostra strada come se niente fosse. Continuate a far finta di non vedere la Cina. Se, come pare, Mosca ritira i suoi tecnici, quali saranno le vostre reazioni? L'Italia non ha colonie e non ha nemici nel Terzo mondo; può perciò diventare la punta avanzata della politica di cooperazione con la Cina. Se volessi polemizzare direi che proprio voi, tanto preoccupati per i miei acquisti di petrolio sovietico, ignorando i problemi della Cina la spingete verso l'Urss». Infine Mattei fa capire che, se potesse incontrare Kennedy, la nuova amministrazione americana si farebbe un'idea più chiara e meno ostile su di lui e sulla politica dell'Eni.
Nei suoi rapporti sulla missione romana e negli incontri con Kennedy, Harriman si dice convinto che in Italia non ci siano alternative realistiche al centrosinistra. Bisogna incoraggiare il processo, già molto avanzato, di emancipazione dei socialisti dal Pci. Persistendo nella tradizionale posizione di chiusura a sinistra si danneggerebbero gli interessi americani e si ricaccerebbe il Psi in braccio ai comunisti. Riferisce al presidente del298 Mattei l'incontro con Mattei, della sua linea di difesa sulla spinosa questione del petrolio sovietico e delle sue idee di apertura alla Cina per allontanarla dall'Urss. La relazione redatta da Ver- non Walters, pur nella forma di un freddo ed equilibrato verbale, è invece decisamente favorevole al capo dell'Eni, quasi comprensiva delle sue motivazioni. Schlesinger condivide e sottoscrive le analisi di Harriman, anche per quanto riguarda Mattei: incarica James E. King di approfondire il quadro italiano con un giro più ampio e meno istituzionale di colloqui romani. All'interno dell'amministrazione Kennedy si rafforza la convinzione che tocchi agli americani compiere un primo prudente passo per tentare una riconciliazione con un uomo tanto influente sulla politica italiana. Invitarlo negli Usa e addirittura fargli incontrare il presidente, come vorrebbe Mattei, è assolutamente prematuro. Gli si potrebbe offrire al massimo di fare un viaggio «tecnico», non ufficiale, per avere colloqui anche con personalità politiche ma non di primo piano. La proposta verrà fatta arrivare, ma Mattei la respingerà anche con una certa irritazione: «Non ho bisogno del loro permesso per andare a Washington a parlare con qualche deputato». Secondo Giovanni Lolli - direttore della Banca Nazionale del Lavoro negli Usa e grande amico di Mattei per il quale svolge spesso incarichi confidenziali e riservati - proprio in quei primi mesi del 1961 in cui gli americani lanciano segnali di disgelo, il capo dell'Eni attraversa forse la più acuta fase di antiamericanismo della sua vicenda. Tanto che, secondo un rapporto dell'Ambasciata britannica con cui Lolli era in contatto, «il sentimento antiamericano di Mattei era così forte che [Lolli] temeva potesse essere molto pericoloso: in altre parole, che Mattei potesse fare qualcosa di stupido». Forse anche perché ha saputo che un gruppo di studio sul petrolio sovietico creato in seno alla Nato ha protestato presso il governo italiano per gli accordi dell'Eni. A Roma, King non incontra Mattei ma sente parlare di lui ovunque, trovando conferme a voci e teorie che già conosceva: «Il suo nome e la sua presenza campeggiano dietro ogni discorso, nessuno può visitare l'Italia senza accorgersi ben 299 presto dell'esistenza di Mattei. È opinione diffusa che egli abbia un effettivo controllo sul governo finanziandone i sostenitori con grande prodigalità». Anche la Cia, in vista dei colloqui di Fanfani e Segni con Ken- nedy il 12 e 13 giugno, redige un rapporto che mette bene in luce gli stretti legami fra Mattei e il presidente del Consiglio, e la portata anche politica del contratto con l'Urss. In occasione di quella visita dei governanti italiani a Washington, la Casa Bianca non si mostrerà ostile all'ipotesi di un governo di centrosinistra. La Cia probabilmente ha interpellato anche il generale De Lorenzo, capo del Sifar, i servizi segreti italiani, intento a compilare fascicoli su tutti i protagonisti della vicenda italiana, il quale definisce preoccupante l"«interventismo» di Mattei nei complessi e tortuosi giochi della instabile scena politica. Eppure, più che la sua combattività e intraprendenza sullo scenario internazionale, più che la sua furiosa battaglia contro le Sette Sorelle e la sua capacità di «ricatto» e destabilizzazione, sarà proprio questo suo potere (lecito e illecito) di intervento e pressione sulle vicende politiche italiane ad aprirgli la strada della trattativa con gli americani, ansiosi di tranquillizzare lo scenario italiano alla vigilia di un evento storico al quale non intendevano più opporsi: la nascita del primo governo di centrosinistra, il 22 febbraio 1962, presieduto da Fanfani. Il processo di apertura dell'amministrazione americana alle richieste di Mattei
sarà comunque lento e prudente, seguendo i tempi e le evoluzioni della politica italiana. Durerà quasi un anno, anche a causa dello scontro fra le due linee: quella tradizionale ostile ad ogni concessione, e quella più possibilista e «comprensiva» rappresentata da Schlesinger. Il 17 marzo 1962 si tiene al dipartimento di Stato una riunione alla quale partecipano i principali esperti di cose italiane e di affari petroliferi: fra gli altri George McGhee, già sottosegretario di Stato per il Medio Oriente ai tempi della vicenda Aramco, il sottosegretario di Stato George Ball, l'ambasciatore Reinhardt e Arthur Schlesinger. All'ordine del giorno: Mattei. Una settimana prima a Roma la Camera aveva accordato la fiducia al governo di centrosinistra. Saranno soprattutto Schlesinger e Reinhardt a spingere ver300 Mattei so l'intesa: l'amministrazione Usa interverrà sulle compagnie americane per indurle ad un accordo con l'Eni, il quale a sua volta garantirà, in sostanza, una generica armonizzazione del sistema di suddivisione degli utili con i produttori (sistema da tempo andato in crisi) e lealtà commerciale con le (ex) concorrenti; oltre a una progressiva riduzione delle importazioni di greggio sovietico. L'aggressività di Mattei rischia però di far saltare tutto. L'approvazione dell'accordo da parte del segretario di Stato Rusk era prevista per il 5 aprile. Il giorno prima il «New York Times» pubblica un'intervista rilasciata da Mattei a Cyrus Sulzberger, un columnist che da Parigi si occupa molto anche di cose italiane (nel '59 aveva duramente attaccato Fanfani), considerato vicino al dipartimento di Stato. Quell'intervista contiene affermazioni tanto dirompenti da apparire provocatorie e far pensare che il capo dell'Eni voglia affondare ogni possibilità di accordo: «L'Italia ha dovuto fare questo esperimento di apertura a sinistra. È solo il principio ... Personalmente sono contro la Nato e per il neutralismo. Noi italiani non abbiamo niente da guadagnare dalla Nato. Io sono antiamericano. Noi italiani dobbiamo lavorare qui. Dopo aver esportato per tanto tempo lavoratori alla disperata, dobbiamo esportare i prodotti del nostro lavoro. Voi continuate a cercare di tenerci fuori dai mercati esteri. La vostra politica è guidata dalle compagnie petrolifere. Sono d'accordo con Krusciov quando afferma che le compagnie petrolifere guidano la politica americana». In realtà, quando dava queste incredibili risposte alle domande dell'autorevolissimo e temuto giornalista, Mattei non sapeva ancora delle decisioni prese dal dipartimento di Stato. D'altra parte, quelle dichiarazioni erano così violentemente dirompenti da apparire paradossali, se non una provocazione o un modo per essere ascoltati. Un segnale, insomma, di debolezza e smarrimento o addirittura di disperazione. Forse è per questo che, saggiamente, Rusk le ignora e approva ugualmente l'ipotesi di accordo, preferendo ricordare le dichiarazioni di fedeltà all'Occidente e di anticomunismo fatte da Mattei ad Harriman appena l'anno prima. Il 19 aprile William Stott, vicepresidente esecutivo della Es301 so, incontra McGhee che lo informa delle decisioni prese dal dipartimento di Stato. Stott è uno dei più flessibili dirigenti delle Sette Sorelle e con Mattei ha discreti rapporti. Accetta dunque di avviare una trattativa con l'Eni per creare «armonia fra le compagnie petrolifere occidentali» al fine di «contenere» la strategia sovietica. Il 22 maggio Mattei e George Ball si incontrano a Roma. Il presidente dell'Eni stavolta gioca con prudenza le sue carte, pur ribadendo le sue posizioni, e fa un'ottima impressione all'interlocutore americano. Nel frattempo l'ambasciatore Reinhardt, che più di altri ha capito certe sfumature del carattere di Mattei, consiglia anche qualche forma di apertura politica: «Considerando il problema psicologico della [sua] personalità, accordargli qualche riconoscimento sarebbe un utile primo passo, nella convinzione che questo potrebbe facilitare gli sforzi da parte delle nostre compagnie petrolifere nel raggiungere un certo accordo con lui, o almeno mitigare il suo senso ferito dell'io in modo tale da minimizzare future polemiche». In sostanza propone un viaggio ufficiale del
presidente dell'Eni negli Stati Uniti. Fra Mattei e Usa - e quindi fra Eni e le Sette Sorelle - è finalmente tempo di pace. Poco dopo Mattei incarica Ratti di trattare con la Esso un accordo di notevoli dimensioni: 10 milioni di tonnellate di greggio di provenienza libica. Intanto il dipartimento di Stato sta organizzando un viaggio in grande stile di Mattei negli Stati Uniti: il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Carlo Russo ne è già stato informato: conferenza ad Harvard, laurea ad honorem alla Stanford University, incontro con Kennedy. Dunque, finalmente il riconoscimento anche formale e prestigioso, al quale Mattei teneva moltissimo. Gli americani avevano capito bene anche la psicologia del personaggio e ben volentieri glielo accordavano. Quel viaggio, però, non avverrà mai. Mattei morirà prima. Proprio nell'estate in cui matura l'accordo, tuttavia, il capo dell'Eni, è ancora oggetto di attacchi particolarmente aspri. I più duri provengono dalle pagine del «Corriere della Sera». Il 20 agosto sul quotidiano milanese, e contemporaneamente sul «New York Times», appare un articolo di quello stesso Sulzber302 Mattei ger che in aprile aveva pubblicato quella devastante intervista. «L'Italia» così comincia «è un paese ricco di paradossi. La sua burocrazia comprende ancor oggi funzionari coloniali, di colonie perdute da lungo tempo. Nella sua aristocrazia vi sono comunisti militanti e due pretendenti all'antico trono di Bisanzio, uno dei quali si guadagna la vita facendo il clown. Ma di tutte le anomalie visibili la più curiosa e significativa è la posizione di Enrico Mattei, capo del trust nazionale del carburante, funzionario di Stato che virtualmente controlla lo Stato. Mattei è un uomo affascinante, ricco di talento organizzativo, appassionato della pesca; e può vantare uno splendido stato di servizio di partigiano in tempo di guerra. Orgoglioso e brillante, egli è afflitto da un complesso d'inferiorità e dall'odio per le compagnie petrolifere occidentali, che si è tradotto in una particolare antipatia per gli Stati Uniti e l'Alleanza atlantica.» Come abbiamo visto, le cose non stanno più esattamente così. Nello stesso periodo Montanelli pubblica, sempre sul «Corriere», quei famosi quattro articoli, più volte citati, di durissimo attacco alla figura e all'opera di Mattei, che risponderà con una lunga lettera pubblicata il 27 luglio. Il dipartimento di Stato tiene tanto all'accordo in gestazione, da chiedere all'ambasciatore a Roma di intervenire presso le sedi italiane della Esso e della Mobil per accertare che non ci sia il loro zampino in quell'improvviso ritorno di fiamma da parte della stampa ostile. Le due compagnie si dichiarano del tutto estranee alla nuova campagna giornalistica. L'accordo fra Esso ed Eni è praticamente pronto. Il 22 luglio, il segretario particolare di Gronchi, Emo Sparisci, incontra personalmente e riservatamente Mattei per dargli una brutta notizia: secondo informazioni arrivate direttamente al Quirinale dai servizi segreti, l'Oas è stata incaricata da «gente che paga molto bene» di convincere Mattei a partecipare ad un pool per il petrolio sahariano; evidentemente rinunciando ad ogni iniziativa autonoma in quell'area. E i metodi usati dall'Oas sono notoriamente molto convincenti. Una settimana dopo è direttamente l'Oas che dalla Spagna prende contatto con Mattei. In una lettera gli comunica che, a causa della sua «attività antifrancese» svolta in Algeria, e in 303 particolare nel Sahara, «ha il piacere di comunicare le decisioni prese in una riunione segreta a Parigi: sono considerati come ostaggi e condannati a morte il commendatore Enrico Mattei e tutti i membri della sua famiglia (moglie, figli ecc.)». L'esecuzione comunque è «sospesa» in attesa di verificare il comportamento del «condannato». Questo riferimento ai figli, tuttavia, fa dubitare quanto meno del livello di preparazione dell'Oas riguardo a Mattei, confermando la sensazione
che l'organizzazione fosse ridotta ormai ad una banda di disperati killer a pagamento a disposizione dei più ottusamente tenaci interessi francesi in Algeria. La condanna a morte viene confermata in Francia da un bollettino clandestino. Mattei non sottovaluta queste minacce, non le considera il delirio di mitomani. Soprattutto lo inquieta la convergenza di critiche strumentali, attacchi, avvertimenti e minacce provenienti da direzioni diverse. Questa, almeno, è la sua angosciosa sensazione. Anche perché quel 1962 era cominciato con minacciosi presagi. Il 2 gennaio il presidente del Consiglio Fanfani parte per una visita ufficiale in Marocco col ministro degli Esteri Segni. Mattei deve raggiungerli per l'inaugurazione della raffineria dell'Agip a Mohammedia. Ma all'ultimo momento sospende il viaggio: lo hanno informato che è stato trovato un cacciavite nella «presa d'aria» di un motore. Durante un giro di prova il pilota ha sentito un rumore sospetto: a uno dei reattori è stato fissato un cacciavite con del nastro adesivo che in volo, col calore, sarebbe bruciato lasciando entrare l'attrezzo nel motore. L'Eni informa subito l'opinione pubblica che un corpo estraneo aveva danneggiato il reattore e avrebbe potuto provocare un'esplosione. Mattei rinuncia al viaggio. Questo episodio, sempre raccontato in modo lacunoso, tecnicamente confuso e talvolta anche tendenzioso, verrà considerato, da chi crede alla teoria del complotto e dell'attentato, una sorta di «ultimo avvertimento», soprattutto nell'inchiesta di Fulvio Bellini pubblicata in tre puntate nel marzo 1963 sul settimanale «Secolo XX» diretto dal neofascista Giorgio Pisanò, dal titolo quanto mai esplicito: Mattei è stato assassinato; o nel volume del 1970, L'assassinio di Enrico Mattei, autori lo 304 Mattei stesso Bellini e Alessandro Previdi. Le inchieste giudiziarie seguite alla morte di Mattei ridimensioneranno molto l'ipotesi del complotto. Racconta infatti Pietra: «L'episodio risponde solo in parte a verità ed è stato travisato dal Bellini in quanto, secondo la deposizione del comandante Ferdinando Bignardi, anch'egli pilota personale di Mattei, si trattò della dimenticanza di un meccanico che aveva partecipato alla messa a punto dell'apparecchio. Ha precisato il Bignardi che allorché si accinse a provare il velivolo a terra dopo la messa a punto, una delle turbine, appena avviata, espulse il cacciavite;* che la collocazione dell'arnese non poteva portare pericolose conseguenze, poiché il cacciavite sarebbe stato comunque proiettato con l'azionamento della turbina; che per quel giorno era previsto solo un volo di prova e che Mattei avrebbe dovuto volare il giorno successivo». Fatto sta che, di questo episodio, l'Eni diffonde l'interpretazione più inquietante e allarmistica. Certo non per superficialità: più probabilmente per rafforzare, in un momento particolarmente critico, l'immagine di Mattei accerchiato e minacciato da molti potenti nemici senza scrupoli. Anche la lettera minatoria dell'Oas viene resa pubblica, probabilmente per le stesse ragioni. Mattei risponde con un'intervista a Gilles Martinet, condirettore del prestigioso settimanale di sinistra «Nouvel Observateur», grande amico dell'Italia e futuro ambasciatore a Roma. Suis- je un ennemi de la Trance? è il titolo dell'articolo. «C'è per lo meno un caso» dice Martinet «in cui i ministri del generale De Gaulle e quelli che chiamiamo gli ultras trovano un linguaggio comune: quando parlano di lei...» «La verità» risponde Mattei mettendo il dito nella piaga «è che mi si rimprovera soprattutto di non aver accettato di stabilirmi nel Sahara al fianco delle compagnie francesi, inglesi e americane. Offerte in tal senso sono state fatte a più riprese. Ho sempre rifiutato una concessione. Non desidero che i miei tecnici si trovino un giorno nella necessità di lavorare sotto la protezione di mitra. Con la guerra * Il cacciavite quindi doveva trovarsi nel tubo di getto del motore e non nella presa d'aria. 305 l'Italia ha perduto le sue colonie. Certuni pensano che sia stata una sventura: è
in realtà un immenso vantaggio. È perché non abbiamo più colonie che siamo ben accolti in Iran, nella Repubblica Araba Unita, in Tunisia, in Marocco, nel Ghana. Non vedo perché dovremmo compromettere questa posizione associandoci in un'operazione che, tutti lo ammettono, non potrà essere attuata sotto la sua forma attuale. Quando la guerra d'Algeria sarà finita, vedrò quello che sarà opportuno fare.» Al rifiuto, dunque, com'è sua abitudine, dà motivazioni ideologiche: anticolonialismo, amore per la libertà, ecc. In realtà continua a sperare che gli ottimi rapporti costruiti nel tempo con Algeri gli aprano le porte di un accordo autonomo per lo sfruttamento del Sahara. Francesco Forte, futuro presidente dell'Eni, assunto venticinquenne nel 1955 per l'ufficio studi, nel settembre del 1962 è un dirigente del gruppo: «... mi era stato comunicato che Mattei stava preparando un grande accordo con l'Algeria il quale, accanto a importanti forniture e iniziative nel settore degli idrocarburi, avrebbe dovuto includere un rapporto globale di cooperazione economica fra Italia e Algeria in molti campi ... A me si chiedeva di collaborare per la parte finanziaria. Dovevo "tenermi pronto" perché mi avrebbero avvertito del giorno in cui si sarebbe dovuti partire per l'Algeria per la firma dell'accordo». Forte non farà quel viaggio per il quale era stato preavvertito: Mattei morirà un mese dopo. La piena indipendenza della ex colonia francese, però, impone una svolta: l'organismo misto per le risorse sahariane, appena creato, apre le porte alla collaborazione con l'Italia, grazie all'interessamento del ministro algerino per l'Energia, in buoni rapporti con Pirani e del rappresentante francese Claude Cheysson, futuro ministro degli Esteri, e naturalmente con l'indispensabile assenso di De Gaulle. A Parigi, infatti, che sta impegnando in quell'area la sua azienda petrolifera pubblica (prima Erap poi Elf), fa ora comodo la copertura politica dell'Eni, con la sua immagine anticoloniale e terzomondista. Nei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, il recente e sanguinoso passato colonialista non è un buon lasciapassare per la Francia. 306 Mattei L'accordo prevede lo sfruttamento comune del metano sahariano, la costruzione di un grande gasdotto dall'Algeria all'Italia attraverso la Spagna e la Francia, la partecipazione dell'Agip alle ricerche petrolifere in quell'area e la costruzione di una raffineria. Quando muore Mattei, le trattative sono a buon punto. Poi, però, si arenano. Alla fine dell'estate del 1962, dunque, Mattei sta per firmare accordi di pace con americani e francesi, che a lungo sono stati i suoi principali nemici. Qualche indiscrezione comincia a filtrare: nell'autunno del 1962 incontra il giornalista Luigi Barzini che gli chiede conferma di voci che circolano a proposito di un accordo con la Esso. Mattei si schermisce, non nega: «È una sorpresa, non posso dire altro». Alcuni suoi stretti collaboratori, a cominciare da Pietra, pensano che queste due parallele riappacificazioni non siano indipendenti l'una dall'altra; che le due trattative, anzi, ad un certo punto si siano incrociate. Pensano, cioè, che gli americani desiderosi di arrivare ad un'intesa abbiano indotto i francesi a cooptare l'Eni nel consorzio sahariano e che l'accordo con gli americani sia stato facilitato dal fatto che Mattei si presentava con l'offerta francese in tasca. In realtà il desiderio dell'amministrazione Kennedy di arrivare ad un'intesa nasce da un più ampio disegno politico- strategico, dalla necessità degli americani di avere buoni rapporti con colui che considerano il padre- padrone del centrosinistra destinato a governare l'Italia. Ma la maggiore flessibilità e disponibilità mostrata in questi mesi da Mattei a trattare sia con gli americani sia con i francesi ha anche motivazioni spietatamente oggettive: la situazione finanziaria dell'Eni. Nel 1962 l'ente dà lavoro a 55.700 persone, investe 209 miliardi fatturandone 357, possiede 15 petroliere e guadagna ufficialmente 6 miliardi, ma in realtà probabilmente più di 50. Ebbene, l'indebitamento di questo colosso, del tutto inconsueto per le dimensioni dell'economia italiana di quegli anni è ufficialmente di oltre 700 miliardi di lire (ma verosimilmente il suo ammontare reale è ben più alto) con
almeno 50 miliardi annuì di interessi passivi. Un'esposizione così pesante ormai allarma il sistema bancario e impone al governatore della Banca d'Italia Guido Carli - che non ha mai 307 stimato Mattei, considerandolo «confuso e velleitario» - un taglio dei fidi al gruppo, e a peggiorare le cose ci si mette il Comitato interministeriale del credito che nega all'Eni l'autorizzazione ad emettere nuovi prestiti obbligazionari. Il 29 ottobre, il giorno dopo la morte di Mattei, viene diffusa una nota secondo la quale il presidente dell'Eni stava per incontrare a Milano David Rockefeller, presidente della Chase Manhattan Bank e influente azionista della Esso. L'incontro evidentemente rientrava nell'accordo che si andava concludendo ed è probabile che riguardasse la situazione finanziaria dell'ente: Mattei sperava, grazie alla nuova intesa, di ottenere anche un'apertura di credito dalle banche più direttamente coinvolte. Con la sua ormai sperimentata capacità di comunicatore avrebbe certamente dato un rilievo straordinario alla «pace» con americani e francesi: l'avrebbe presentata come una sua clamorosa vittoria. Il sistema del credito certamente ne sarebbe stato condizionato. Nonostante la gravissima situazione finanziaria, l'espansionismo dell'Eni non conosce freni, soprattutto al Sud, spinto dalle ragioni elettorali e clientelari dei partiti ai quali Mattei non può dire di no. Il 1962 è l'anno della massima attività nel Mezzogiorno. Viene avviata, come già detto, la costruzione di un grande stabilimento petrolchimico a Pisticci, in Basilicata. A Bari e a Vibo Valentia sorgono stabilimenti meccanici. Il ritrovamento di giacimenti metaniferi in Abruzzo, Basilicata e Sicilia impone la costruzione di nuove reti di metanodotti per raggiungere i centri di consumo. A Foggia inizia la costruzione di un nuovo stabilimento della Lanerossi, acquisita appena l'anno prima, mentre, sempre nel '62, l'Eni assume partecipazioni in molte imprese tessili e di abbigliamento in crisi, rilevando non solo aziende private ma perfino quelle già nelle mani di altri gruppi pubblici. A Gela sta per entrare in produzione il gigantesco impianto petrolchimico. Il complesso nasce su proposta di Mattei, sollecitato da Milazzo, e la trattativa è stata condotta dall'avvocato Guarrasi per conto della Regione siciliana e da Cefis per l'Eni. Ecco come Mario Farinella, inviato del quotidiano filocomunista «L'Ora», racconta l'evento: «Soltanto la geniale intuizione 308 Mattei e l'audacia di Mattei poteva concepire e portare a compimento questa fantastica città di ferro e di acciaio sulle sponde aride e sabbiose che guardano il mare africano». L'esaltazione epica, l'entusiasmo apologetico mostrano bene quanto consenso, soprattutto a sinistra, procurasse a Mattei il suo espansionismo, in particolare al Sud. È proprio la pericolosa combinazione di questi tre processi -l'aggravarsi della situazione finanziaria, l'acuirsi del conflitto con le grandi compagnie multinazionali e l'espansionismo senza freni - ad indurre Eugenio Cefis a lasciare il gruppo nel gennaio del 1961. Attento ai conti, e non particolarmente sensibile alle motivazioni ideologiche e politiche di tanti altri collaboratori di Mattei, Cefis è convinto che l'Eni sia su una bruttissima china. Ma da quell'orecchio Mattei non ci sente, non può sentirci, vincolato com'è dalla natura «politica» del gruppo. L'amicizia fra i due, però, nata durante la Resistenza, non può venir meno con quelle dimissioni. I loro rapporti continuano, anche se non sono mai stati particolarmente affettuosi e intensi. A Mattei il suo vice appare un freddo calcolatore, più sensibile ai ragionamenti e ai conti che agli ideali: con lui, politicamente vicino a Fanfani, non si sente mai del tutto a proprio agio. D'altra parte l'ex ufficiale friulano ed ex comandante partigiano della Valtoce è, fra i collaboratori di Mattei, quello che meno ne subisce il fascino. Si limita ad ammirarlo e ad ubbidirgli. Quando non gli è più possibile, se ne va. D'altra parte, Mattei non dimentica mai che quella da lui fondata è un'impresa
essenzialmente «politica». In quei mesi la situazione politica italiana è molto fluida, in rapida evoluzione. Il 6 giugno, terminato il settennato di Gronchi, viene eletto presidente della Repubblica Antonio Segni. È una scelta di bilanciamento e scambio politico all'interno della Dc: mentre nasce il centrosinistra presieduto da Fanfani, al Quirinale va il capo della corrente centrista dei dorotei. Pietra racconta di essersi imbattuto pochi giorni dopo, a Roma, in Mattei che, valigetta in mano, va a trovare Gronchi perché, dice con un sorrisetto quasi di compatimento, «sembra inconsolabile, sperava nella rielezione». In realtà il capo del309 l'Eni è nervoso: l'ultima battaglia per il Quirinale lo ha messo in difficoltà ancora più che quella del '55. Se allora aveva dovuto scegliere fra due amici, Gronchi e Merzagora, stavolta gli amici in lizza sono tre: Gronchi, ormai mollato anche dalla sinistra dc dopo la vicenda Tambroni; Segni, il meno «amico», candidato del segretario del partito Moro, ed eventualmente Fanfani, come terzo incomodo in posizione di attesa. Mattei ha motivi di riconoscenza verso tutti e tre, ma in un primo momento aveva deciso di appoggiare Gronchi. Quando capisce come gira il vento, però, preferisce abbandonare la partita. Lascia Roma spiegando ai suoi: «Parto, mi piego alla necessità, perché se rimanessi danneggerei l'Eni». Infatti non è proprio il momento più opportuno per cercarsi guai politici. A pochi mesi dalla scadenza del suo mandato, percepisce che la situazione va evolvendo, che qualcuno conta su un suo indebolimento. Rivelatrice è una nota del Sismi del 28 marzo 1962: «Nel quadro del nuovo corso politico nazionale, l'on. Giuseppe Saragat ha inviato un rapporto al Bureau dell'Internazionale Socialista sulla situazione politica generale italiana. Nel contesto del rapporto è detto che, non appena il governo di centrosinistra si sarà consolidato, sarà normalizzata la gestione dell'Eni attraverso il ridimensionamento delle sue pretese autonomistiche dai controlli effettivi dello Stato e la sostituzione del suo presidente, ingegner Enrico Mattei. Sulla sostituzione di Mattei, il leader socialdemocratico sostiene di esser d'accordo con il presidente del Consiglio, on. Fanfani, il quale sarebbe propenso a bloccare l'appoggio che a Mattei discende dalla segreteria dc e dal Quirinale. Una delle condizioni necessarie per estromettere Mattei dalla presidenza dell'Eni, secondo Saragat, sarebbe rappresentata dalla non rielezione del presidente Gronchi». D'altra parte, il centrosinistra da lui tanto caldeggiato, ora che è realizzato può finire per rendere il suo potere meno «necessario», anzi ingombrante. I due punti più caratterizzanti e innovativi del programma politico del centrosinistra, la programmazione dell'economia e la nazionalizzazione dell'energia elettrica, potrebbero finire per indebolire Mattei. La programmazione può creare vincoli ad un'autonomia considerata 310 Mattei ormai una imbarazzante anomalia. Quanto alla creazione di un ente unico per tutte le fonti di energia (Ene) che egli sperava di far nascere come sviluppo dell'Eni, come si è visto, non se ne farà nulla: la politica ha capito che darebbe un potere esorbitante ad un ente (e ad un uomo) che ne ha già troppo; meglio dividere, separare, meglio creare nuovi e diversi circuiti clientelari e di possibile finanziamento dei partiti: nascerà l'Enel, ben distinto dall'Eni e di questo spesso concorrente e antagonista. Il 25 ottobre 1962, tre giorni prima della sua morte, il «Financial Times» pubblica un articolo dal titolo: Will signor Mattei have to go?, il signor Mattei dovrà andarsene? «L'ironia della situazione ... è che egli non potrà adattarsi all'economia pianificata decisa dall'attuale governo di centrosinistra. Egli è ora accusato di autocrazia e alcuni ... affermano che è ormai necessario rimpiazzarlo con un esecutore più docile.» È di queste settimane l'ultima visita a Matelica, con un intervento alle celebrazioni del centenario della «Società operaia di mutuo soccorso» di cui è
presidente onorario. Intanto ha completato un lungo e complesso lavoro di ristrutturazione e riorganizzazione dell'Eni. Anche stavolta si è servito di una società di consulenza di prestigio internazionale, la Booz Allen. Una cinquantina di persone ha indagato per mesi nel gruppo e poi ha proposto dei cambiamenti radicali. La ristrutturazione ha integrato meglio le attività, specializzando e facendo crescere società come Snam (trasporto dei carburanti), Nuova Pignone (impiantistica e attrezzature) e Saipem (perforazione). «Diede al gruppo» racconterà Cefis in un'intervista al «Corriere della Sera» «un'organizzazione di prim'ordine ... La Fiat e l'Olivetti a quel tempo se la sognavano.» Così può presentarsi sul mercato offrendo sistemi integrati di distribuzione e raffinazione, facendosi carico di gran parte dei costi di progettazione. Contemporaneamente, a cavallo del 1960, l'ente dà un fortissimo impulso alle sue attività estere di raffinazione soprattutto in Africa con impianti in Marocco, Ghana, Tanganika, Tunisia e Congo, e di distribuzione con un'imponente rete di punti di vendita col marchio Agip, prevalentemente in Euro311 pa e Africa, spesso accordandosi con imprenditori locali. In Gran Bretagna, ad esempio, si allea con il re della ristorazione e dell'industria alberghiera, l'italo- inglese Charles Forte per realizzare 70 modernissime stazioni di servizio e progetta una grande raffineria a Conway, nel Galles. È generalmente considerato anche il promotore di un'intesa fra Urss e India per la fornitura di greggio a quest'ultima, con cui l'Eni ha un accordo per la costruzione di raffinerie. In queste operazioni Mattei dimostra una straordinaria attenzione all'immagine, un'inconsueta, per i suoi tempi, sensibilità e predisposizione naturale al marketing, inimmaginabile nella maggior parte degli imprenditori privati suoi contemporanei. Anche in questo è un grande anticipatore. Nel luglio del 1962 Montanelli scrive che «l'esempio di Mattei ci mostra questo spettacolo: un governo, un parlamento ed una burocrazia impotenti di fronte ad un funzionario che, potendo essere revocato ogni tre anni, nomina invece il ministro che dovrebbe controllarlo, impone un suo monopolio al di sopra di quelli che dovrebbe combattere, tratta direttamente coi governi stranieri e detta una sua politica estera spesso in contraddizione con quella dello Stato. Ognuno tragga le conclusioni che vuole», perché lui, le sue le ha già tratte: «In nessun paese occidentale credo che non siano più accadute cose simili dalla fine del feudalesimo». «Mattei» aggiunge però Montanelli «è un imprenditore d'altissimo bordo. Possiede non solo tutte le qualità, ma persino i difetti del grande costruttore: l'introversione, la mancanza di calore umano, la malinconia puritana, la tendenza monomaniaca a concentrare tutte le proprie facoltà sull'essenziale, la certezza quasi mistica di una missione da compiere, la capacità di mentire credendo nelle bugie e perfino commuovendosene.» Ma della gigantesca quantità di denaro mossa dall'Eni, non una lira finisce nelle sue tasche. A tal proposito, continua Montanelli, «verrebbe da aggiungere "purtroppo!", perché se così fosse tutto risulterebbe semplificato: avremmo soltanto un ladro in più, fra tanti che ce ne sono. Ma Mattei è onesto. Non ritira nemmeno il suo stipendio perché lo devolve in beneficenza». 312 Mattei Come vive, dunque, che esistenza conduce quest'italiano così anomalo, che l'opinione pubblica internazionale accredita di un potere enorme e incontrollabile, perciò tanto temuto e criticato, ma anche tanto rispettato e ammirato? Paradossalmente, proprio in questi anni di lotte ciclopiche, di grande impegno anche psicologico e di forte tensione, quando i suoi problemi hanno ormai caratteristiche globali e i suoi orizzonti sono planetari, Mattei vive nelle condizioni di massima semplicità. Il lusso e il denaro, come ammette anche il suo nemico Montanelli, non sono mai stati per lui un fine, pur apprezzandoli e sapendone godere i benefici. Li ha sempre considerati utili soprattutto, se non
solo, come manifestazioni del prestigio e strumenti del potere. Della I. C.L., la sua piccola azienda chimica, ormai minuscola a confronto alle dimensioni nelle quali si muove Mattei, praticamente non sa più nulla: se ne occupa il fratello Umberto. Vive molto in ufficio, fra Milano e Roma. Quando si trova a Milano non abita più nel lussuoso appartamento di via Fate- benefrateili, che pure ha mantenuto. Utilizza la foresteria di Metanopoli, al tredicesimo piano del mitico «1° palazzo uffici», il «covo dei veterani»; oppure, quando sarà costruito a San Donato, un appartamento del primo Motel Agip quasi come marchio dell'Eni all'inizio dei lavori per l'Autostrada del Sole. Nella capitale non ha casa, sta con la moglie in un minuscolo appartamentino all'Eden, un albergo non lussuoso in via Ludovisi, vicino a via Veneto: un salottino, una camera da letto per lui e Greta, una per Boldrini, quando viene a Roma. In così poco spazio non può regnare l'ordine: sedie e tavoli sono pieni di scartafacci, di libri, di cornici. Quadri sono appoggiati per terra contro le pareti, in attesa di decidere se acquistarli. In giro scodinzola Pierino, il cagnolino di Greta. Chi va a trovarlo si meraviglia di tanta semplicità: «Vive come un poveretto», è il commento di Angelo Rizzoli dopo una visita. Greta non è contenta di vivere così, ma non se ne lamenta: «Che ce ne facciamo di una casa?» le ripete lui, con una nota di rimpianto «non abbiamo figli, siamo sempre in giro ... un pensiero in meno, anche per te». Argomenti di chi ha scarsa dimestichezza con la psicologia femminile, ma Greta, dolce e 313 remissiva, finge di essere d'accordo. Solo verso la fine riuscirà ad avere un appartamentino per sé a Roma, ma suo marito continuerà a vivere all'Eden. Mattei in realtà interpreta questa sobrietà da grande manager francescano anche con una certa dose di snobismo e demagogia, com'è suo costume. Quasi con intenzioni didascaliche, dimostrative. Attribuendosi, ad esempio, una retribuzione inferiore a quella degli alti dirigenti dell'Eni. L'unico lusso che si concede è l'uso dell'aereo aziendale per andare a pescare o per altri scopi personali. Volare gli piace. Fuori del lavoro, la pesca al salmone o alla trota rimane la sua principale passione. «Mi raccomando, scriva che per Mattei il petrolio è un hobby, il suo vero lavoro è la pesca», dirà ad un giornalista. Ha una casetta modesta ma comoda nella valle di Anterselva, sulle Dolomiti, a 10 chilometri da Brunico, a due passi dal confine austriaco, appena sotto si trova il pittoresco laghetto di Anterselva. Quando può, si fa portare lì con l'aereo aziendale, a volte facendosi raggiungere al più vicino aeroporto dal fratello Umberto. Pesca nel lago oppure, indossando alti stivaloni di gomma, in qualche torrente della zona. «È l'unico modo in cui riesco a non pensare ai miei affanni» confida. «Se, arrivato ad Anterselva, l'acqua è troppo torbida per pescare si fa riportare subito a Roma o a Milano», racconta Umberto: un giochino costoso, certo, ma, appunto, era il suo unico lusso. A volte va a pescare in Scozia, nelle Highlands, o in Islanda. Dopo le battute di pesca gli piacciono i grandi pranzi, le tavolate con gli amici, a parlare liberamente e a millantare avventure di pesca o di donne: in quelle occasioni riaffiora quanto resta della sua natura semplice di provinciale. Tra i suoi compagni pescatori il preferito è un vecchio amico, Vincenzo Cazzaniga. Un lombardo esuberante e generoso, un «venditore nato», lo definisce Cefis, «capace di sostenere qualunque tesi e la posizione contraria». È il tipo che si è fatto da solo, con una volontà di ferro, non può non piacere a Mattei: ha cominciato a lavorare come fattorino alla Bedford Italia studiando di sera finché riesce a laurerarsi alla Bocconi. A 31 anni era al vertice della società. È stato Mattei a volerlo a capo del «Comitato oli minerali carburanti e succedanei», nel '45. Ora è presidente 314 Mattei della Esso Italia, la capofila delle Sette Sorelle, perciò forzatamente avversario. Ma l'amicizia è rimasta: «Il nostro rapporto va a giornate», spiega Mattei: a seconda, cioè, che si incontrino come vecchi compagni o come capi di aziende in durissima competizione. E perciò, se hanno litigato furiosamente fino al venerdì,
il sabato vanno a pescare insieme, passano ore a chiacchierare davanti al caminetto. Mattei lo sfotte chiamandolo «cardinale», Cazzaniga replica dandogli del «comandante», e spesso gli regala dei formaggi di Soncino di cui sa che il suo amico è ghiotto. Nell'ufficio di Roma, all'ultimo piano del palazzo di cristallo e cemento che ha fatto costruire sul laghetto dell'Eur, ruota un pool di segretarie: non vuole tenerne una sua, fissa. Diversa è la situazione a Milano, dove la potentissima Fiorenza Giacobbe è intoccabile, anche per ragioni affettive. Della gestione della foresteria di Metanopoli - tre lussuosi appartamenti -dell'intrattenimento degli ospiti, grandi manager internazionali, ministri e uomini di Stato provenienti da ogni angolo del mondo si occupa Maria Mattei: amabile «padrona di casa», abilissima nell'organizzare pranzi e cene, nell'accompagnare gli ospiti alla Scala o a visitare il Cenacolo vinciano, a pranzare al Savini o a fare acquisti. La vicenda di Maria chiarisce bene i rapporti che Enrico aveva con i fratelli: ispirati ad un paternalismo autoritario, talvolta fino alla prepotenza. Aveva costretto la sorella a sposare un conoscente che a lui piaceva, ma che lei descrive come «un donnaiolo inaffidabile dalla vita disordinata». «Ci separammo presto» racconta «ma in Italia non era ancora stato introdotto il divorzio e non potei risposarmi: furono 25 anni di infelicità.» Dopo molte insistenze il fratello la lascia andare a Londra per imparare l'inglese: «Ero sola, non avevo un mestiere, volevo rendermi indipendente». Lavora da infermiera e studia: ha la stessa testardaggine e la stessa tempra di Enrico, che passa a trovarla quando va a pescare in Scozia. Rientrata in Italia, Maria non vuole tornare a Milano, «mi ricordava anni di infelicità. Pregai Girotti, nostro compaesano di convincere Enrico a farmi stare a Roma». Niente da fare, il fratello- padrone ha già deciso: Maria deve occuparsi della fo315 resteria di Metanopoli, ci tiene molto, è importantissimo per i rapporti della presidenza con ospiti di riguardo. Maria ubbidisce. Quando potrà finalmente divorziare si risposerà con un magistrato della Corte dei conti, «un uomo straordinario, buonissimo, un vero signore». E avrà una figlia, Giorgia. Le visite di Mattei a Matelica dopo la morte della madre si vanno diradando. Il 4 febbraio del 1962 gli viene conferita l'ultima delle lauree ad honorem. Stavolta a laurearlo è l'Università di Urbino. Non può evitare perciò una visita alla vicina Acqualagna: calorosissimi i festeggiamenti riservatigli dalla sua città natale, ma anche energica la richiesta di rimuovere gli ostacoli per l'installazione di una fabbrica. Quanto a Italo, il più piccolo, ha preferito invece restarsene a Matelica, dove, in modo più organizzato e professionale, prosegue nell'attività che svolgeva mamma Angela: gestisce -con il consenso se non su espresso incarico del fratello maggiore - un ufficio di selezione e reclutamento del personale, privato e parallelo a quello dell'Eni. Ad Italo arrivano le raccomandazioni di notabili, esponenti politici e gerarchie ecclesiastiche della zona, segnalazioni che vengono vagliate e poi girate all'ente di Stato. Che regolarmente procede alle assunzioni. L'attività di Italo contribuirà molto ad alzare oltre ogni ragionevole misura la quota di marchigiani fra i dipendenti del gruppo. Insomma, a Mattei non viene in mente neppure la possibilità che i suoi fratelli (e sua moglie) possano avere progetti, aspirazioni o desideri propri, diversi da quanto egli ha deciso per loro. La moglie e i più stretti collaboratori ricordano che negli ultimi tempi, mentre tratta con americani e francesi e si susseguono atteggiamenti ostili, intimidazioni e minacce, Mattei appare turbato, talvolta perfino angosciato. Sul lavoro comunque si sforza di mostrarsi sempre fiducioso, determinato e di buon umore. Mal sopporta la vigilanza personale, ultimamente molto rafforzata, e ne scherza con il vecchio amico partigiano Rino Pachetti, capo della sua scorta, che ha dovuto insistere molto per aumentare le misure di sicurezza.
316 Mattei Durante l'inchiesta giudiziaria per la morte di suo marito, Greta racconterà di averlo sentito piangere di notte, a lungo, in silenzio. Da tempo, quando viaggia per lavoro, si muove con i due aerei aziendali gemelli, due Morane Saulnier 760, bireattori di fabbricazione francese, lasciando imprecisato fino all'ultimo momento quale dei due aerei userà, l'orario di partenza e la destinazione, spesso modificandola in volo. Tecniche per depistare eventuali malintenzionati. D'altra parte, negli ultimi mesi, il Kgb, il servizio segreto sovietico, lo ha messo in guardia più di una volta. Verso la metà di ottobre, un paio di settimane prima dell'ultimo viaggio di Mattei, Leonid Kolosov, ex corrispondente da Roma delle «Izvestija» e agente del Kgb, gli consiglia di stare molto attento perché la sua vita è in pericolo. Ma a qualcuno questo avvertimento sembra più che altro una «provocazione». Nel pomeriggio del 17 ottobre, il giornalista Sam Waagenar, che da qualche giorno gli sta alle calcagna approfittando dei momenti liberi e dei trasferimenti di Mattei per intervistarlo, viene chiamato dalla segreteria della presidenza dell'Eni: «L'Ingegnere l'aspetta domani mattina in ufficio a Roma». L'indomani Mattei gli spiega che deve fare un viaggio in Sicilia: «Dovrei starmene a Roma, ci sono tante cose da fare, ma lì c'è gente che vuole una fabbrica». A Gagliano Castelferrato, un piccolo centro agricolo ad una cinquantina di chilometri da Enna, uno dei tanti poverissimi paesi della Sicilia interna, è stata scoperta una vena di metano. La popolazione vuol trarre vantaggio da questa insperata manna sotterranea. Manifesta, fa richieste assurde, come quella che il gas venga tutto utilizzato in zona, o come quella del sindaco che chiede che al personale dell'Eni sia imposto di risiedere a Gagliano, mentre lui si permette il lusso di abitare a Catania; ma anche molto più ragionevoli: investimenti e posti di lavoro. Mattei parte dunque in compagnia di Waagenar, a bordo di uno dei due Morane, pilotato dal fidatissimo comandante della flotta Snam, Irnerio Bertuzzi. Sull'isola per due giorni svolge soprattutto attività di relazioni: visita gli impianti di Gela, pranza nella mensa aziendale, parla il più pos317 sibile con operai e tecnici. Non si fa sfuggire un paio di occasioni per fare un po'"di demagogia meridionalista: depreca ad alta voce che alla mensa dello stabilimento di Ravenna si mangi meglio e che sente in giro troppi dipendenti dall'accento non siciliano. Vuol fare da guida al suo ospite nel museo di Gela, ma deve aspettare che lo aprano. A Palermo partecipa ad una riunione con deputati regionali e una delegazione di Gagliano, durante la quale parla per due ore. «Gli ho promesso una fabbrica di scarpe»: così, tornando all'aeroporto, sintetizza il suo intervento al giornalista che l'accompagna. Ma evidentemente quella promessa fatta a Palermo non basta. Qualche giorno dopo il rientro a Roma, il 25 ottobre, Italo Mattei è nell'ufficio del fratello quando arriva una telefonata di Verzotto da Catania. Meglio tornare al più presto in Sicilia, ma stavolta bisogna andare a Gagliano, perché la gente è nervosa, parla di barricate, vuol essere rassicurata da una visita personale di Mattei. Quelle promesse le vuole sentire dalla sua voce. Si potrebbe approfittare della prevista cerimonia di inaugurazione del metanodotto. «E a questo punto anche mio fratello diventa nervoso», ricorda Italo. Un nervosismo dovuto all'accavallarsi di situazioni difficili, all'indebolimento politico seguito alla nascita del governo di centrosinistra, all'ansia di arrivare perciò al più presto all'accordo con americani e francesi. Proprio quella mattina il «Financial Times» ha pubblicato quell'inquietante articolo intitolato Will signor Mattei have to go? A Londra, gli fanno sapere i consulenti finanziari dell'Eni, le voci di una sua sostituzione sono insistenti. Non ci sarebbe proprio tempo per un altro viaggio in Sicilia. Le trattative con la Esso, quelle per l'Algeria, fra pochi giorni, il 6 novembre, c'è da andare ad Algeri per concludere l'accordo ... Insomma, c'è ben altro a cui pensare. In quella stessa tumultuosa mattinata c'è posto anche per una lunga telefonata con Gianni Agnelli: Mattei protesta per la cessione da parte del gruppo Fiat, che vuol
abbandonare la distribuzione di carburanti, di 700 punti vendita e di due grossi depositi costieri. Acquirente è l'odiata Gulf. Quasi un affronto per l'Eni. L'Avvocato però fa presente che l'accordo è 318 Mattei già concluso e che il prezzo pattuito è di ben 15 miliardi di lire. Mattei cerca di cavarsela elegantemente: «Gli accordi si possono sempre mandare a monte e comunque non saranno 15 miliardi a dividere la Fiat dall'Eni». Il 26 ottobre, dunque, Mattei torna in Sicilia. Più tardi la moglie Greta ricorderà che, salutandola, aggiunse: «Può anche darsi che io non torni». Una frase sottovalutata al momento ma che poi assumerà il valore di una tragica premonizione. L'aereo, ai comandi c'è sempre Bertuzzi, atterra su un campo di fortuna a Ponte Ulivo, fra Gela e Niscemi. Il capo dell'Eni visita lo stabilimento dell'Anic quasi terminato, presiede alcune riunioni, partecipa a un pranzo in suo onore. Verzotto non c'è, impegnato, come segretario regionale della Dc, in una serie di riunioni politiche; ma si danno appuntamento per il 2 novembre a Milano. A fare gli onori di casa ci sono il presidente della Regione, il democristiano Giuseppe D'Angelo, col quale dopo Vaiiate Milazzo è rimasta un po'"di ruggine, e il vicepresidente Salvatore Corallo, del Psiup (i socialisti filocomunisti usciti dal Psi con la nascita del governo di centrosinistra). Da Ponte Ulivo, l'aereo riparte per una breve puntata all'aeroporto palermitano di Boccadifalco per prendere a bordo Verzotto, che deve andare a Siracusa per la sua riunione, D'Angelo e Corallo. Durante la sosta Mattei si apparta in una saletta per una riunione. Secondo voci convergenti, ma che non possono avere alcuna conferma, avrebbe incontrato un rappresentante di Muammar Gheddafi che sta preparando il colpo di Stato per deporre re Idris di Libia, con il quale Mattei ha un conto aperto dall'epoca del contratto annullato a favore degli inglesi. Al libico sarebbe stata consegnata una valigetta piena di dollari. Per tornare, Bertuzzi è costretto anche ad uno scalo tecnico a Punta Raisi, dove si rifornisce di cherosene, esaurito a Boccadifalco. Atterrato a Ponte Ulivo, Mattei sollecita Bertuzzi a portare Verzotto all'aeroporto catanese di Fontanarossa, dove potrà trascorrere la notte, giacché non riuscirebbe a rientrare prima che faccia buio: la pista di Ponte Ulivo non ha illuminazione e può essere utilizzata solo di giorno. E poi non è sicura: si parla di raffiche d'arma da fuoco sparate a casaccio da quel319 le parti nelle notti precedenti. «Se ne stia a Catania» ordina al pilota «e prepari il piano di volo su Roma o Milano per il primo pomeriggio. Lo aggiorni poi a partire dalle 15, in funzione del ritardo che eventualmente porterò.» Le solite alternative e incertezze per depistare. Per la stessa ragione, come fa spesso, viaggia con due Morane identici. Mattei alloggia al Motel Agip di Gela. Dopo aver dato le ultime disposizioni a Bertuzzi telefona a qualcuno a Milano per dirgli che vuole incontrarlo per parlare di cose algerine, magari l'indomani sera appena rientrato o il giorno dopo, andando a Sannazzaro dè Burgondi, nel Pavese, per una cerimonia alla raffineria. Secondo un'altra versione è Mattei a ricevere la telefonata, con una richiesta pressante di un incontro. Comunque deve essere a Milano entro la sera del 27. Cena con D'Angelo, Corallo e con due alti dirigenti dell'Eni che lo hanno seguito con un altro aereo, un De Havilland: sono il direttore generale dell'Anic, Angelo Fornara, e Luigi Fa- leschini, il professore di statistica amico di Boldrini e ideologo della «rendita metanifera». Ci sono anche alcuni funzionari locali del gruppo e un giovane giornalista americano: William McHale, corrispondente da Roma di «Time» e «Life». Ha raggiunto Mattei in Sicilia per intervistarlo, in vista dell'imminente accordo con la maggiore delle Sette Sorelle. Bertuzzi va a prendere Verzotto, che tiene un comizio elettorale in teatro. Partono per Catania, dove arrivano alle 22,46. Ad aspettarli all'aeroporto di Fontanarossa c'è un cugino di Verzotto, Gualtiero Nicotra, presidente della Camera di commercio. Parlano dell'Alis, la compagnia aerea nata per iniziativa di Nicotra e che Bertuzzi
sta per andare a dirigere. Dopo la mezzanotte si ritira nella sua camera all'Hotel Excelsior. Mattei e i suoi commensali, invece, si trattengono a lungo a tavola a chiacchierare dopo la cena al Motel Agip di Gela. La mattina del giorno dopo a Gagliano è un trionfale bagno di folla. Tutti vogliono toccare, abbracciare, implorare Mattei, farsi fotografare con lui. La solita scorta comandata da Rino Pachetti non c'è, lasciata a casa dallo stesso Mattei, che da qualche settimana ha preferito alleggerire quell'ingombrante servizio. L'accoglienza è degna di un capo di Stato: c'è la ban320 Mattei da che suona l'inno nazionale e la Canzone del Piave, pioggia di coriandoli sul corteo che attraversa il paese mentre le campane suonano a distesa, finestre imbandierate e giochi pirotecnici, scolaresche col grembiulino ai lati delle strade. Mattei è commosso, dal balcone di un palazzotto della piazza centrale improvvisa un discorso, anticipandolo dalle 15 alle 10: è un impasto di vecchie emozioni, nuovi progetti e la retorica populista di sempre. «Amici miei, tutto quello che è stato trovato qui è della Sicilia, e il nostro sforzo è stato fatto per la Sicilia e per voi... Non portiamo via il metano, il metano rimane in Sicilia.» «Ero povero come voi, noi dell'Eni ci impegneremo fino in fondo per far lavorare i vostri uomini che prima erano costretti a recarsi all'estero.» Promette la costruzione di una raffineria che darà lavoro a 400 persone. «Onorevole» chiede un'anziana donna prendendogli la mano «posso far tornare a casa i miei figli?» Con le lacrime agli occhi, Mattei annuisce. L'imprevisto anticipo della manifestazione dal primo pomeriggio alla mattinata è un elemento molto utilizzato da chi sostiene che la morte di Mattei sia dovuta ad un attentato e ad un complotto. Conclusa la cerimonia, rapido trasferimento con l'elicottero dell'Eni a Nicosia per la colazione e poi a Fontanarossa. Intanto Bertuzzi è andato con l'aereo a Ponte Ulivo per caricare i bagagli ed è tornato a Catania. D'Angelo è all'aeroporto a salutare Mattei che gli propone di andare a Milano insieme a lui. «Non posso» è la risposta «domattina devo essere ad Augusta per l'inaugurazione di un settore della raffineria Ra- siom. Ci sarà anche Cazzaniga.» D'altra parte Cazzaniga, Moratti ed altri petrolieri privati italiani in quelle ore erano proprio a Catania, riuniti per un incontro di lavoro in una sala dell'Excelsior. Alle 16,57 di sabato 27 ottobre 1962, il Morane Saulnier 760 decolla da Fontanarossa per Linate. Oltre al pilota Bertuzzi, su quell'aereo viaggiano Mattei e McHale. Le condizioni meteo sconsiglierebbero il viaggio. In quota c'è molta turbolenza e sulla Pianura padana il tempo è pessimo: vento, pioggia, ridotta visibilità. Mattei non ama il pericolo e non gli piace essere «sbattuto di qua e di là come in una 321 vecchia corriera». Ma Bertuzzi lo rassicura, sembra aver fretta di rientrare. L'aereo ha più di tre ore di autonomia, il tempo di volo previsto è di 2 ore e 10 minuti. In realtà il piano di volo originario prevede l'atterraggio a Roma, dove Mattei dovrebbe incontrare il suo vice Raffaele Girotti. All'ultimo momento, però, cambia il programma, come succede spesso, anche per ragioni di sicurezza: si va direttamente a Milano. Capitolo Quindicesimo DA CUBA A BASCAPÈ «Ci aspetta un autunno caldo»: chissà quante volte, in quell'ottobre 1962, Mattei avrà ripensato a questa profetica e misteriosa frase che Aleksej Kossighin, primo vicepresidente del Consiglio dei ministri sovietico, aveva pronunciato il 23 giugno durante la colazione in occasione della visita privata in Italia su invito
dell'Eni. Quella battuta lo aveva colpito: verso sera, visitando un nuovo quartiere di Metanopoli, ne aveva parlato con Pietra, chiedendogliene con insistenza un'interpretazione. Due giorni dopo Mattei telefonerà all'amico giornalista per chiedergli di nuovo se avesse riflettuto su quella frase «che non riesco a togliermi dalla mente: chissà perché ha fatto quell'accenno all'autunno caldo». Quando, verso la fine di ottobre, la crisi per i missili sovietici a Cuba precipiterà il mondo ad un passo dall'apocalisse nucleare, Mattei crede di capire: ecco cosa voleva dire Kossighin con quell'accenno all"«autunno caldo»; dunque a Mosca sapevano come sarebbe andata... In quello stesso giugno Raul Castro, fratello di Fidel, e Che Guevara, vanno a Mosca per trattare la sistemazione di missili a Cuba. Il 24 agosto John McCone, un milionario repubblicano messo dal superdemocratico Kennedy a capo della Cia, prima di partire per il viaggio di nozze in Costa Azzurra avverte il suo presidente che, in base alle segnalazioni di alcuni esuli cubani e dei servizi segreti francesi, a Cuba sta succedendo qualcosa di poco chiaro e allarmante. Al suo ritorno scopre con inquietudine che la Casa Bianca si è accontentata di generiche assicurazioni dell'ambasciatore sovietico a Washington Dobrynin. Finalmente il 14 ottobre due ricognitori d'alta quota U2 sorvo323 lano Cuba e tornano con un repertorio fotografico che dimostra senza ombra di dubbio la presenza di rampe missilistiche sull'isola. Si ordina il silenzio assoluto per avere il tempo di studiare una reazione e consultarsi con gli alleati. Intanto le ricognizioni continuano accertando che le basi sono una decina, con quattro rampe di missili ciascuna, una trentina di razzi già montati e migliaia di soldati e tecnici sovietici. Kennedy ordina il blocco navale di Cuba. Ormai il mondo sa e trattiene il fiato. Nella notte fra il 27 e il 28 ottobre, mentre i bombardieri americani carichi di armi nucleari sono già in volo, un fitto scambio di messaggi fra Kennedy e Krusciov: i sovietici si dicono disposti a smantellare le basi cubane se gli Stati Uniti ritireranno i missili intercontinentali Jupiter dalla Turchia. Washington, che aveva già programmato di smontare quelle rampe in Anatolia, chiede a sua volta il ritiro dei razzi sovietici da Cuba sotto controllo dell'O- nu in cambio della rimozione del blocco e della promessa di non attaccare l'isola; ma se entro 24 ore non arriverà una risposta positiva partiranno le azioni militari. Verso mezzanotte, Kennedy conclude l'ultima riunione del comitato di crisi: «A questo punto può essere la guerra o la pace». A pochi minuti dalla scadenza dell'ultimatum arriva un lungo messaggio di Krusciov che preannuncia il ritiro dei missili da Cuba. Se, come sembra, l'obiettivo di questa temeraria partita a poker intrapresa da Mosca era quello di rimuovere i razzi americani in Turchia, il mondo ha corso un rischio inutile, quella rimozione era già prevista e la partita si è chiusa a favore degli Stati Uniti. Se invece, come sosterrà 25 anni dopo Sergo Mikojan, figlio dell'ex presidente del Soviet Supremo, l'obiettivo di Mosca era impedire un'invasione dell'isola che Washington aveva programmato dopo la figuraccia della Baia dei Porci, allora l'unico a guadagnarci è stato Fidel Castro. Sabato 27 ottobre 1962. La pace è salva, il mondo ha evitato l'olocausto nucleare. Mattei ha seguito la crisi con apprensione. Un'apprensione particolare dovuta anche alla sua particolarissima posizione: ai rapporti dell'Eni con l'Urss e all'imminenza dell'accordo con la Esso e del viaggio in Usa. Racconta Maria: «Pochi giorni prima del suo viaggio in Sicilia mi aveva 324 i chiamato in ufficio, cosa stranissima perché non lo faceva mai, tanto che, temendo un rimprovero, mi fermai sulla porta. "Entra, siediti, devo raccontarti una cosa" mi disse facendomi accomodare accanto a sé sul divano. Mi meravigliai molto, perché non mi faceva mai confidenze, non aveva mai un atteggiamento confidenziale con me, soprattutto in ufficio. Mi rivelò che era stato invitato negli Stati Uniti per un incontro con Kennedy. Era orgogliosissimo ed entusiasta dell'invito e continuava a ripeterlo».
Mattei, dunque, spera fortissimamente nella pace ma teme che la crisi di Cuba possa compromettere tutto. Spera, teme, ma non saprà mai com'è andata a finire. Da quattro ore, infatti, Mattei è morto. Il suo aereo è precipitato nei campi di Bascapè, frazione di Landriano, fra Pavia e Lodi. Quella sera pioveva a dirotto su tutta la Pianura padana, acqua a scrosci con forti raffiche di vento, un tempo da lupi. Il bireattore Morane Saulnier 760, sigla ISnap proveniente da Catania, raggiunta Voghera a 9000 piedi (oltre 2950 metri), alle 18,50 si mette in contatto con la torre di controllo dell'aeroporto milanese di Linate per passare all'avvicinamento strumentale. Ai comandi c'è sempre il comandante Irnerio Bertuzzi, primo pilota della flotta Snam. Bertuzzi è espertissimo pilota di guerra pluridecorato, due medaglie d'argento e una di bronzo: è stato sugli aerosiluranti S79, poi nella Repubblica sociale (uno dei non pochi repubblichini assunti dal partigiano Mattei). Prima di andare all'Eni, ha fatto una lunga esperienza da pilota civile dell'Alitalia. Complessivamente ha al suo attivo 11.236 ore di volo, di cui 625 sui Morane della Snam, con 754 attcrraggi a Linate. Ha 43 anni, è sposato e ha due figli. Fra pochi giorni dovrà andare negli Stati Uniti per ritirare un nuovo velivolo della Lockheed acquistato per la flotta dell'Eni. Ha già informato Mattei che probabilmente subito dopo lascerà l'Eni per andare a dirigere l'Alis, società aerea costituita a Catania con Camera di commercio e Banco di Sicilia. Insomma, è considerato affidabilissimo, anche se, secondo alcuni veterani della Snam, come l'ingegner Bini, «Bertuzzi era un po'"guascone, un po'"pazzo, con una grande considera325 zione della propria abilità di pilota; amava rischiare e non aveva alcun senso del pericolo». In quel periodo, inoltre, non era sereno. Tra i suoi effetti personali, dopo l'incidente, verrà trovato un diario che racconta la storia di una tormentata relazione extraconiugale con una dipendente dell'Alitalia: furiose crisi di gelosia, travolgenti ore di passione, momenti di tenerezza, infine l'angosciosa prospettiva di un addio. Gli investigatori troveranno la donna, che dirà di aver incontrato Ber- tuzzi a Catania il giorno stesso della sciagura, un saluto struggente prima della partenza. Per questa ragione, forse, il pilota sembrava aver tanta fretta di partire? E in quali condizioni psicologiche ed emotive si è messo ai comandi? L'aereo è partito da Fontanarossa alle 16,57. Alle 18,50, sulla verticale di Voghera, si mette in contatto con Linate, dà la sua sigla e si prepara all'attcrraggio. La torre di controllo dello scalo milanese comunica le condizioni meteo al suolo: «Temperatura 9 gradi centigradi, visibilità 600 metri, pioggia, vento a raffiche di direzione variabile». C'è appena stato un forte temporale. «Scendo a 2000 piedi. Sono in virata base.» Alle 18,56 la torre dà l'ok per l'atterraggio: «Possibile attcrraggio diretto». «Eventualmente ...». Alle 18,56 e 30 secondi il controllo chiede: «Quando vi presenterete?». Bertuzzi: «Fra due minuti, un minuto e mezzo circa». Sta compiendo la manovra d'atterraggio. «Alfa Papa* a 2000 e riporterà lasciando il radiofaro»: sono le 18,57 e 10 secondi quando la torre riceve chiara e forte la risposta di Irnerio Bertuzzi. Poi silenzio. Chiamate insistenti della torre, nessuna risposta. Viene dato l'allarme, scatta l'emergenza. Sono i carabinieri di Landriano ad informare dopo un quarto d'ora che «alcuni contadini della zona fanno sapere che un aereo sarebbe precipitato presso Bascapè». Alle porte d'uscita di Linate aspetta l'autista di Mattei con Ottavio Rapetti, una delle guardie del corpo comandate da Rino Pachetti. Si tormenta le mani, non si dà pace. Pochi giorni prima era andato a pescare con l'Ingegnere che gli aveva detto: «Cosa vieni a fare tu in Sicilia? Ci vediamo sabato a Milano, quando torno». Nel* AP, ultime due lettere della sigla dell'aereo nell'alfabeto fonetico internazionale. 326 Mattei
l'ufficio di Metanopoli aspetta il capo la segretaria Fiorenza Giacobbe. Alle telefonate che riceve dai carabinieri conferma che sull'aereo c'è l'ingegner Mattei. Comincia un vorticoso giro di comunicazioni fra Milano, Roma, Pavia. In quel grigio sabato sera autunnale, i palazzi della capitale sono semi vuoti. Alle 19,30 una telefonata dal posto di polizia dell'aeroporto di Linate arriva al ministero della Difesa. Il ministro Andreotti è il primo del governo ad avere la notizia. Informa immediatamente il presidente della Repubblica Segni. Il presidente del Consiglio Fanfani viene informato dal ministro degli Interni Taviani. Le telescriventi delle agenzie di stampa impazziscono. La notizia arriva come una bomba nelle redazioni dei quotidiani nell'ora di punta. Partono precipitosamente cronisti, inviati, corrispondenti, fotografi: «Dove diavolo è questo posto, dov'è Bascapè». L'impostazione data alle pagine viene completamente sconvolta, bisogna rifare tutti i «menabò». C'è poco tempo alla «chiusura» in tipografia. Perfino il terribile braccio di ferro fra Usa e Urss per Cuba, perfino il rischio della terza guerra mondiale sembra passare in secondo piano. Decine di automobili, molte vengono da San Donato, si precipitano nel Pavese alla ricerca angosciosa della finora sconosciuta Bascapè. Sotto la pioggia scrosciante, fra rogge e marcite, in un reticolo di stradine strettissime e sentieri coperti dall'acqua, è solo un susseguirsi di campi tutti uguali, fitti pioppeti e qualche cascina. Ecco Landriano e 4 chilometri dopo finalmente Bascapè. Appena fuori dal paese, a destra di un viottolo sterrato, la cascina Albaredo. Qualche decina di metri più in là, quanto rimane visibile dell'aereo, ma i resti sono sparsi in un raggio di 500 metri. Tutta l'area è piantonata dai carabinieri che tengono lontani i curiosi. Da Milano arrivano decine di giornalisti, fotografi, gli operatori della Rai. Ci sono i pompieri e alcune ambulanze. Si cerca in silenzio, nel fango: resti umani e rottami ovunque. Ora si sa che a bordo del velivolo c'erano Mattei, che volava accanto al pilota Bertuzzi e, dietro, il giornalista americano McHale. Più tardi arriva il magistrato di turno, Edgardo Santachiara. Poche ore dopo, la mattina del 28 ottobre, il dottor Renato Ga327 ribaldi, assistente presso l'Istituto di medicina legale dell'Università di Pavia, aiutato da Giovanni Trolli, del centro sanitario dell'Eni, inizia l'elencazione e la classificazione dei resti anatomici - in tutto 40-50 chili - attribuendoli, per quanto possibile, alle tre vittime e sistemandoli di conseguenza in tre casse. La fede matrimoniale consente il riconoscimento della mano sinistra di Mattei. Il piede sinistro del giornalista americano viene identificato grazie ad un callo medicato. Altri brandelli dei corpi potranno essere esaminati dopo un paio di giorni, essendo rimasti attaccati a parti dell'aereo finite, al pari di un motore, più di un metro sotto terra. La sera del 27 ottobre Greta Mattei, a Roma, è andata al cinema con una coppia di amici, i coniugi Jacoponi. Rientrata all'Hotel Eden nota nell'atrio un'animazione insolita per quell'ora. Le si avvicina un funzionario dell'Eni. Greta ha una prima terribile intuizione. «Signora, l'ingegnere ha avuto un incidente, potrebbe essere grave ...» Lei tace, alza la testa, stringe le palpebre come a voler respingere un'immagine terribile, sussurra un «grazie» e va verso l'ascensore. Italo Mattei è in Chianti per una partita di caccia. In piena notte fra il 27 e il 28 viene svegliato in albergo. Anche per lui una pietosa quanto inutile mezza bugia: Enrico ha avuto un incidente automobilistico, è ferito, ricoverato in ospedale a Pavia. Italo non ha dubbi: «Lo hanno ammazzato, lo sapevo, lo hanno ammazzato». Non smetterà mai di affermare con forza questa convinzione. A Mattei vengono dedicati solenni funerali di Stato nella chiesa del Gesù, a Roma, storico tempio dei gesuiti, accanto alla sede della Democrazia cristiana. Sono presenti tutte le più alte personalità delle istituzioni, della politica, dell'economia, della cultura. Il primo ad arrivare, con largo anticipo, quasi all'alba, è La Pira: l'espressione sconvolta dal dolore e dalla lunga notte insonne passata in preghiera. Entra in chiesa a capo chino, si inginocchia in un angolo e riprende a pregare con la testa fra le mani.
Dopo i funerali i resti sono portati a Metanopoli dove si allestisce una camera ardente: «La sfilata di amici, dipendenti, politici, uomini d'affari, giornalisti era interminabile» ricorda 328 Mattei Maria, avvertita sabato sera mentre era a letto con l'influenza. «Venne anche il cardinale Montini, arcivescovo di Milano e futuro pontefice: era molto amico di Enrico.» Tanto che, per ricordarlo, diventato papa Paolo VI, farà dedicare a sant'Enrico la chiesa di Bolgiano di Metanopoli. La presidenza dell'Eni viene assunta da Boldrini. Ma Boldrini, per giorni inebetito dal dolore, è un intellettuale; va affiancato da un vero manager che conosca bene il gruppo. Alla vicepresidenza viene perciò richiamato Cefis. Al di là delle sue indubbie capacità professionali, la sua amicizia col capo del governo, Fanfani, ha certamente avuto importanza in questa scelta. Dopo pochi mesi, Cefis assumerà la presidenza dell'Eni. Nella tarda serata del 27 ottobre Mauro De Mauro, giornalista del quotidiano di Palermo «L'Ora», collaboratore del «Giorno» e dell'Agenzia Giornalistica Italia, tutti e due dell'Eni, è a cena in un ristorante della capitale siciliana con Francesco Restivo, quando apprende della sciagura di Bascapè. Salta in macchina e ormai albeggia quando arriva a Gagliano. Raccoglie impressioni e testimonianze, riempie un quaderno di appunti, si procura le registrazioni dei discorsi ufficiali di quel 27 mattina. Quando, otto anni dopo, nel luglio del 1970, il regista Francesco Rosi gli chiede di collaborare alla sceneggiatura del film su Mattei, va a ripescare tutto quel materiale. Nota solo allora che la manifestazione prevista per il pomeriggio è stata anticipata al mattino, con una decisione presa la sera del 26 dopo la «misteriosa» telefonata arrivata a Mattei da Milano. De Mauro intravede il colpo giornalistico: passa giornate a rileggere i suoi vecchi appunti e i ritagli di giornali dell'epoca, ad ascoltare e riascoltare ossessivamente quelle registrazioni. Infine si convince di aver trovato la verità. A Mattei sarebbero state tese tre trappole. La prima: lo attirano in Sicilia alimentando la protesta di Gagliano. La seconda: si fa apparire insicura la pista di Gela con quelle raffiche sparate a casaccio in modo da far spostare per la notte l'aereo a Catania. Terza trappola: con queste variazioni di programma, la colazione a Nicosia, i caffè e i convenevoli dell'ultimo momento, c'è stato tutto il tempo e le occasioni per intervenire sull'aereo e mano329 metterlo. De Mauro è convinto che a Gagliano ci sia stata una grande concitazione per anticipare al mattino la manifestazione. Perché? La risposta sarebbe nel discorso di D'Angelo: «Il tempo è breve. L'amico Mattei deve essere a Milano nelle prime ore del pomeriggio». De Mauro è così entusiasticamente convinto della sua tesi che ne parla in giro, agli amici. Il 13 settembre del 1970 rivela ad un collega, Lucio Galluzzo dell'Ansa, che «ha in mano una cosa tanto grossa da far tremare l'Italia». Per verificare la ricostruzione, ha sentito una dozzina di personaggi, fra cui D'Angelo, Verzotto e Guarrasi. Il 16 settembre lo rapiscono mentre esce di casa. I familiari per primi mettono in relazione la scomparsa col caso Mattei. Durante le indagini la figlia Tunia fa mettere a verbale che il padre le ha confidato in gran segreto uno scoop: «Si riferiva a tre persone a conoscenza dell'esatto orario di arrivo e partenza di Mattei, a tre falsi o veri carabinieri, e a tre nomi di cui oggi riesco a ricordare solo il titolo di uno: presidente ma non riferito a Mattei». La famiglia ritrova il vecchio quaderno. Mancano due pagine, strappate. Mancano due anche dei fogli numerati, trovati dai colleghi in un cassetto della sua scrivania, di appunti sulle interviste fatte dal giornalista sulla giornata di Gagliano. Nasce il sospetto, sostiene Pietra, che quelle due pagine, quei due fogli contenessero particolari della giornata e motivi dell"«anticipo», tali da dare a De Mauro
l'impressione di aver fatto il grande scoop. Non se ne saprà mai nulla di più. Come per tanti altri delitti siciliani, sulla scomparsa di De Mauro non si farà mai completa luce, ma fin dall'inizio viene considerata un delitto di mafia collegato al caso Mattei. Il 6 marzo 2003 il quotidiano «La Stampa» pubblica in esclusiva e in anteprima le conclusioni dell'inchiesta del sostituto procuratore di Pavia, Vincenzo Calia, sulla morte di Mattei. Dalla sera della tragedia di Bascapè sono passati 40 anni, 4 mesi e 7 giorni. Se ci si chiede dopo quanto tempo la cronaca diventi storia, bisogna anche interrogarsi sul senso di un procedimento giudiziario per fatti accaduti quarant'anni prima. 330 Mattei Quella di Calia, che chiede l'archiviazione del procedimento, è solo l'ultima di molte inchieste, amministrative, di parte e giudiziarie - senza contare quelle, innumerevoli, personali e giornalistiche - che hanno tentato invano di fare chiarezza su quello che viene considerato il primo dei «grandi misteri italiani». Si comincia la stessa sera della sciagura, quando il ministro della Difesa Giulio Andreotti nomina una commissione incaricata dell'inchiesta amministrativa. La commissione è composta da 11 persone, 8 militari e tre civili, e presieduta dal generale di squadra aerea Ercole Salvi, comandante della prima Regione aerea, quella del Nord Italia, che ha il comando a Milano. Ne dà notizia l'agenzia Ansa con un lancio delle 23,53. In realtà i lavori di quest'organismo saranno poi diretti dal generale Giuseppe Casero. Per una delle tante stranezze riservate dal destino a questa vicenda, fra qualche anno Casero sposerà la vedova di Mattei, Greta Paulas: un matrimonio che non avrà fortuna - forse non poteva averne. L'ufficiale, fra l'altro, nel 1970 risulterà coinvolto nel grottesco progetto di golpe ordito da Junio Valerio Borghese. Nel 1981, infine, il suo nome comparirà nell'elenco degli aderenti alla loggia massonica deviata P2 di Licio Gelli. Insomma, un personaggio irrequieto e molto discutibile. La commissione si installa a Linate. Qualcuno fa notare che è priva di un perito balistico. L'inchiesta è rapida, viene archiviata dopo appena quattro mesi. Le conclusioni, raccolte in 46 pagine, sostengono la tesi dell'incidente causato dalla concomitanza di fattori tecnici e delle condizioni psicofisiche del pilota. L'aereo era in perfette condizioni, Bertuzzi aveva grande esperienza professionale, dunque può essere stato un suo malore o la grande stanchezza unita ad una particolare condizione di stress a provocare il disastro. «L'incidente» recita la relazione «è da attribuire alla perdita di controllo in spirale destra. Non è stato possibile accertare le cause che hanno determinato tale perdita di controllo.» «L'aereo è precipitato integro, poi a contatto con il suolo è esploso.» Esclusa dunque l'ipotesi del sabotaggio e dell'esplosione in volo. Anzi, la relazione chiarisce esplicitamente che nessuna traccia di esplosivo è stata trovata sui resti delle vittime. 331 In particolare, per ragioni sconosciute, l'aereo ha tentato di imboccare il «sentiero di discesa» del radiofaro di Carpiano, uno dei due beacons (radiofari) del sistema ILS (Instrumental Landing System) di atterraggio strumentale, a 6000 piedi, quota di ben 4000 piedi più alta di quella prescritta. Nella successiva manovra di aggiustamento per perdere rapidamente quota, descrivendo un cosiddetto «biscotto», una sorta di ellisse, Bertuzzi ha stretto troppo la virata e l'aereo è andato in stallo. Sembra, quest'ultimo, un errore assai grossolano per un pilota tanto esperto. Ma la relazione ipotizza che a causa del maltempo si sia formato del ghiaccio sulle ali e quindi lo stallo sia avvenuto molto prima del prevedibile. Inevitabilmente, fra quanti avevano seguito le vicende di Mattei, all'interno dell'Eni come nell'opinione pubblica, si formano due partiti: la fazione dell'incidente e quella dell'attentato, dell'esplosione in volo. È una divisione che - al di là delle inchieste che, come abbiamo visto, non conducono ad alcuna certezza - si basa prevalentemente su convincimenti aprioristici e sostanzialmente
politici e ideologici. D'altra parte, lo stesso pubblico ministero pavese, Calia, chiedendo l'archiviazione del caso ammette di aver formulato un'ipotesi - com'è normale per un Pm - ma di non poter provare ciò che afferma di aver «capito» - e questo è già meno normale - e cioè che Mattei fu assassinato, vittima di un complotto «italiano» e che il suo aereo fu «abbattuto dolosamente». Dopo l'inchiesta amministrativa, ad esempio, i sostenitori del sabotaggio replicano con una prima tesi suggestiva ma approssimativa e tutta da dimostrare: nell'ogiva di coda, dove si trova una delle luci di posizione, facilmente apribile per controlli e manutenzione, sarebbe stata sistemata e collegata all'impianto elettrico una piccola quantità di plastico, più o meno 50 grammi. Con l'accensione delle luci sarebbe avvenuta l'esplosione che avrebbe reciso i cavi di comando dei piani di coda, impedendo le manovre in virata e provocando la caduta «a vite». Assurdo - replicano i teorici dell'incidente - in quel caso l'esplosione sarebbe avvenuta poco dopo il decollo, quando il pilota, all'imbrunire, ha acceso le luci di posizione. Nel 1963 anche la Snam, proprietaria del Morane, conduce 332 Mattei una sua inchiesta privata. Le indagini successive non ne acquisiranno i risultati. Il 4 settembre la Snam chiede alla procura di Pavia di poter «ritirare i rottami dell'aereo». Il procuratore acconsente e quasi tre anni dopo, il 31 luglio 1966, viene restituita alla società dell'Eni una cassa contenente alcune parti dell'aereo. Questi rottami vengono fusi. Il 28 settembre del 1963, Italo Mattei, il più tenace nel sostenere la teoria dell'attentato, presenta alla magistratura una denuncia contro ignoti, per omicidio plurimo, «per aver cagionato, sabotandolo con mezzi fraudolenti nei congegni meccanici, la caduta e la distruzione al suolo dell'aeromobile Morane Saulnier». La procura di Pavia si mette al lavoro. L'istruttoria si conclude il 7 febbraio del 1966 con un «non luogo a procedere» conformemente all'inchiesta amministrativa. Per il sostituto procuratore Edgardo Santachiara non c'è alcun dubbio su almeno questi cinque punti: i due reattori erano perfettamente funzionanti quando l'aereo andò in stallo; l'incidente si verificò «repentinamente» in seguito ad una improvvisa spirale a destra del velivolo, sfuggito al controllo del pilota; l'aereo arrivò al suolo assolutamente integro; non avvenne alcuno scoppio in volo; aerofreni e carrello d'atterraggio erano ancora retratti. Questo però, secondo Santachiara, non permette di escludere sabotaggio di altro genere, di tipo meccanico come la manomissione di un congegno, l'introduzione di un corpo estraneo, sostanze chimiche destinate ad agire sul pilota. Insomma, secondo Santachiara si possono escludere alcune ipotetiche cause del disastro ma non si arriva a identificare quelle che effettivamente lo hanno provocato. D'altra parte lo stesso Bertuzzi, che il giorno prima è andato a dormire dopo la mezzanotte a conclusione di una giornata faticosa e con diverse ore di volo, tre decolli e tre atterraggi, fino a Milano pilota in condizioni pessime. Inoltre, per evitare le perturbazioni che si susseguono lungo la rotta, quasi tutto il volo avviene ad una quota superiore ai 2950 metri, al limite di pressurizzazione - e quindi di ossigenazione - consentito per quell'aereo. E poi c'è quella storia tormentosa con la dipendente dell'Alitalia: Santachiara riesce a identificarla e scopre, come abbiamo detto, che i due 333 si sono visti a Catania il giorno stesso della sciagura. Insomma, tutti questi elementi, insieme all'impiegabile circostanza che l'aereo arriva al radiofaro di Linate a 6000 piedi, ben 4000 piedi più alto della quota che permette di imboccare il «sentiero di discesa», secondo il magistrato possono far pensare che Bertuzzi fosse molto stanco e poco lucido mentre si accingeva all'atterraggio. Ed è proprio Santachiara a ridimensionare l'episodio del cacciavite. Il 7 febbraio 1966 il pubblico ministero Antonino Borghese conclude di «non doversi procedere perché i fatti non sussistono». È stato un incidente, la responsabilità è del pilota. Esclusa ogni ipotesi di esplosione. Così risulta sui registri del
Tribunale. «Perché ignoti gli autori del fatto» secondo il testo della sentenza, che ha vagato a lungo, per anni, da una procura all'altra. «Forse nient'altro che un errore del cancelliere», ipotizza Pietra. Una delle tante stranezze di questo caso. La prima testimonianza, quella dell'agricoltore Mario Ronchi viene quindi cancellata. Ronchi, che abita nella cascina Al- baredo, la sera della sciagura racconta ai giornalisti del «Corriere della Sera» «di aver visto una palla di fuoco in cielo e, comunque, delle fiamme per aria». I cronisti Fabio Mantica e Arnaldo Giuliani raccolgono queste dichiarazioni e le riportano al loro capo Franco Di Bella, che scrive il servizio. Sentiti poi dal magistrato, confermano questa versione. Il 29 ottobre, invece, interrogato formalmente dal maresciallo Augusto Pelosi, comandante della stazione dei carabinieri di Landriano, Ronchi dichiara di non aver visto e sentito nulla di quanto gli attribuisce il «Corriere». Sono stati i giornalisti a forzarlo per fargli dire quelle cose. Il giorno dopo ripete questa stessa versione alla commissione ministeriale: ha solo «visto l'aereo precipitare». Però, descrizioni che fanno pensare ad un'esplosione in aria Ronchi le ha fatte anche al cronista della Rai Bruno Ambrosi. Dichiarazioni che vanno in onda nel Tg del 28 ottobre. Ma 35 anni dopo, andando a cercare quelle registrazioni negli archivi della Rai di Milano per le ultime indagini sul caso, si scopre che sono scomparsi quei pochi secondi di audio in cui Ronchi allude a un'esplosione: il nastro è stato tagliato e sostituito 334 Mattei con un tratto non magnetico (allora per la Tv immagini e suoni venivano registrati su due supporti diversi: su pellicola le prime, su nastro magnetico i secondi). E si scopre anche che quel documento non era mai stato utilizzato per confermare le dichiarazioni di Ronchi al «Corriere». Qualcosa del genere, un analogo stranissimo «incidente tecnico» si verifica per un'altra intervista ad un'abitante della cascina, Margherita Maroni, sentita dal cronista della Rai Elio Sparano. Borghese non solo teorizza che lo «stato di insicurezza sentimentale, di agitazione passionale» del pilota possa aver «influito sulla causazione [sic!] dell'evento», ma si occupa anche di contestare molte delle affermazioni e delle ipotesi - le definisce «sconcertanti asserzioni» - fatte da Bellini, come, ad esempio, la sua versione dell'episodio del cacciavite. Soprattutto ne rigetta l'ipotesi principale: infatti quella «secondo cui un ordigno esplosivo fu collocato negli organi del carrello fra le 15 e le 15,25 da tre sicari è stata smentita oltre che dalle ... considerazioni dei periti, dalle deposizioni dei brigadieri di Ps Salvatore La Porta e Giuseppe Castorino incaricati del servizio di sorveglianza ...». La tesi di Bellini, con i successivi aggiustamenti, è quella su cui si basano tutti i sostenitori del complotto e del sabotaggio. In sintesi: si riesce ad allontanare Bertuzzi, dei sicari sistemano dell'esplosivo dalle parti del carrello, collegato ai comandi di quest'ultimo in modo da esplodere quando il carrello fuoriesce per fase di atterraggio. La telefonata con un misterioso personaggio di Milano la sera prima, con l'invito pressante a rientrare a Milano entro le 8 di sera, è servita a far anticipare la partenza - e quindi la cerimonia a Gagliano - in modo da poterne definire con relativa certezza l'orario, conoscendo l'abitudine di Mattei di cambiare programma fino all'ultimo momento. Il personaggio della telefonata, dunque, doveva essere ben conosciuto dalla vittima. Questa tesi, plausibile e possibile, non sarà mai dimostrata con certezza assoluta. Di fatto, gli argomenti più forti a favore della tesi dell'attentato sono proprio la grande quantità di stranezze, incongruenze, omissioni, possibili depistaggi, inammissibili trascuratezze in335 vestigative. Ma mai si arriverà a spiegare con inconfutabile chiarezza, prescindendo dai convincimenti personali, come l'aereo sarebbe esploso e chi avrebbe ordito l'attentato e perché. La manovalanza che avrebbe realizzato l'attentato, secondo questo «partito»,
sarebbe mafiosa. I mandanti? La Cia, le Sette Sorelle, il terrorismo francese dell'Oas. In realtà, come sostengono anche molti dei più stretti collaboratori di Mattei, a cominciare da Mario Pirani, proprio in quei giorni veniva meno il «movente» dei petrolieri americani e dei terroristi francesi. Con i primi era stato praticamente raggiunto un accordo importante, che a giorni sarebbe stato solennemente ratificato con la visita di Mattei a Kennedy. I secondi erano ridotti ad una banda di disperati killer a pagamento dopo che la questione algerina era risolta e anche con Parigi era stato trovato un accomodamento per lo sfruttamento delle risorse sahariane. Ma forse la mafia, o una parte di essa, ha fatto tutto da sola, irritata per essere stata esclusa - o perché i suoi «amici» erano stati esclusi - dalle iniziative politiche ed economiche che Mattei sta conducendo in Sicilia, a cominciare dall'operazione Milazzo. È un'altra ipotesi; anche se, quando la mafia regola i suoi conti, generalmente lo fa in modo clamoroso ed esplicito, senza nascondere la mano, perché sia di lezione. Dunque? Qualcuno mette in relazione la fine del fondatore dell'Eni con la gravissima crisi di Cuba. Il 27 ottobre 1962 si vivono ore cruciali e decisive: il mondo è a un passo dalla guerra. Washington ha bisogno di serrare le file dei suoi alleati. Mattei è considerato amico dei sovietici, il capo del «partito neutralista» ha fatto recentemente gravi dichiarazioni anti- Nato. Ed è anche il patron del centrosinistra: se, di fronte a un conflitto, volesse portare l'Italia su posizioni di neutralità, ci riuscirebbe. E comunque meglio dare un «avvertimento» alla politica italiana. La Cia, dunque, avrebbe chiesto alla mafia di fare quel «lavoretto» per ragioni di politica internazionale. Anche questa, naturalmente, è solo un'ipotesi, indimostrata e indimostrabile. E, come le altre, con qualche punto debole: ad esempio, perché la Cia avrebbe avuto bisogno di passare attraverso la mafia? Ma soprattutto, perché Mattei avrebbe voluto spingere l'Italia fuori dalla Nato proprio adesso che final336 Mattei mente aveva ottenuto il tanto agognato riconoscimento dagli americani? Senza contare che la presenza di basi aeree e missilistiche in Italia - a cominciare da quelle degli Jupiter in Puglia contestate da Mosca e che verranno smantellate dopo la crisi - di fatto non avrebbe consentito alcuna neutralità dell'ultimo momento. Non c'era il tempo di tirarsi indietro. Nel settembre del 1970 il rapimento «mafioso» di De Mauro mentre collabora alla sceneggiatura del film di Rosi sulla vita di Mattei rafforza i convincimenti di quanti credono che a Ba- scapè si sia compiuto un attentato. La polemica, che è anche scontro politico, riparte. Il 12 novembre il settimanale «Panorama» pubblica un servizio di Gian Luigi Melega intitolato Chi ha ucciso Mattei?: «Tutto lascia credere che il giornalista Mauro De Mauro sia stato rapito per quel che aveva scoperto sulla morte del presidente dell'Eni». Il settimanale di destra «Il Borghese» risponde tre giorni dopo con il titolo Nessuno uccise il presidente dell'Eni: «Tutte le fandonie di cui oggi si parla erano già state confutate nel '66 dalla magistratura, con una sentenza che nessuno ha osato contestare». L'inchiesta viene formalmente archiviata a Pavia il 14 giugno 1974 con la motivazione di «non doversi procedere contro ignoti perché il fatto non sussiste», facendo così cadere anche la denuncia di Italo che aveva fatto riaprire le indagini. I giudici accettano le conclusioni della commissione d'inchiesta, credono all'incidente che sarebbe stato causato da un improvviso malore del pilota. Ma nei plumbei e insanguinati anni Settanta, un caso con tante implicazioni politiche, economiche, sociali e internazionali e tanto stimolante per l'informazione non poteva essere dimenticato. Perciò qualunque ipotesi per motivare l'attentato sembra degna di considerazione, l'elenco dei possibili mandanti si allunga: si aggiungono il Kgb, servizio segreto sovietico, la P2, Gladio, «intrecci» fra mafia, massoneria e servizi segreti deviati. Col passare degli anni, i giornalisti e i magistrati più sensibili a storie di intrighi e complotti, veri o presunti, non esitano a mettere la morte di Mattei in relazione con i casi più clamorosi che via via si presentano. Solo ipotesi e per di più sempre più intricate, che non danno alcun contributo alla
soluzione. 337 Michele Pantaleone, scrittore esperto di mafia ed ex deputato regionale, si appassiona tanto alla vicenda da impegnarsi in lunghe e costose indagini personali. «Il 27 ottobre 1962 all'aeroporto non c'era alcun servizio d'ordine e il personale addetto ai servizi di fatica era stato prelevato dalla stazione ferroviaria. Scoprii anche che i quattro portabagagli che quel giorno erano all'aeroporto, poco tempo dopo avevano avuto una fortuna improvvisa, al punto da gestire un grande albergo a Coventry, in Inghilterra.» Sospettò subito il coinvolgimento di Cosa Nostra ma «ogni [sua] affermazione suonò come la denuncia di un folle». A parlargli dei quattro facchini sarebbe stato un non meglio identificato «altissimo personaggio» che «[gli] disse anche che qualche giorno prima era arrivato a Catania da Tangeri su uno yacht un gangster di Trapani, il siculo- americano Calogero Minacori. Aveva dormito in case private e non s'era fatto registrare negli alberghi». Nel maggio del 1963 Pantaleone va in Inghilterra alla ricerca dei quattro portabagagli. Chiede inutilmente l'appoggio dell'Ambasciata italiana. Un giorno un tale, chiamandolo per nome e cognome gli chiede: «Dottor Michele Pantaleone, che fa qui?». Rispose che cercava quattro catanesi. «Non è posto per lei. Meglio che se ne torni a Palermo, per il suo bene.» E a Palermo, racconta, passeggiando in viale della Libertà un camioncino sembra volerlo investire. Riesce a schivarlo all'ultimo momento avvertito dalle grida di una donna. Non trova un giornale disposto a pubblicare la sua inchiesta, ma nel libro Il sasso in bocca collega la morte di Mattei con la presenza in Sicilia di un boss di Cosa Nostra, Carlo Marcello. «Non è un'ipotesi, è una certezza.» Secondo Pantaleone, Marcello, capo di una famiglia di New Orleans, «nell'ottobre del '62 prese parte ad un convegno segreto a Tunisi, organizzato da petrolieri americani. Dopo il convegno, con un certo Badalamenti, Marcello passò da Tunisi ad Algeri, da qui a Madrid e quindi a Catania. Carlo Marcello era a Catania due giorni prima della morte di Mattei». È impressionante la quantità e la varietà di intrecci che il caso Mattei permette di ipotizzare, tutti piuttosto generici, spesso tortuosi, talvolta fantasiosi e comunque privi di una con338 Mattei vincente verificabilità finale. Come pure è impressionante il numero dei soggetti considerati «interessati» alla eliminazione di Mattei: mai come in questo caso l'ingannevole principio del cui prodest? consente troppe risposte per essere utilizzato. Finché, a complicare ulteriormente le cose e forse anche ad intorbidare le acque non arrivano i «pentiti», i collaboratori di giustizia. Il 27 luglio 1993 Gaetano Iannì, uno dei capi della «Stidda», organizzazione parallela alla mafia, racconta ai magistrati di aver saputo che a «uccidere» Mattei erano stati uomini della «famiglia» di Giuseppe Di Cristina, pagati da «alcuni americani» non meglio identificati, in seguito ad un accordo con Cosa Nostra. Il 29 aprile 1994 arrivano le dichiarazioni del più famoso e accreditato dei «pentiti» di mafia, Tom maso Buscetta: «Il primo delitto eccellente di carattere politico ordinato dalla Commissione di Cosa Nostra ... fu quello del presidente dell'Eni Enrico Mattei ... secondo quanto mi riferirono personalmente Greco Salvatore Chicchiteddu e La Barbera Salvatore. L'indicazione giunse da Cosa Nostra americana ... che chiese questo favore nell'interesse sostanziale delle maggiori compagnie petrolifere americane ... Si pensò di simulare un incidente aereo». Anche Buscetta attribuisce a Di Cristina l'organizzazione dell'attentato. Dai pentiti mai arrivano dichiarazioni basate su esperienze dirette; riportano sempre per sentito dire da altri, e spesso si tratta di «altri» non raggiungibili. Soprattutto non producono mai alcun elemento di riscontro. A volte sono fin troppo approssimative, se non fantasiose. «Don Masino» Buscetta, ad esempio, riferisce di una partita di caccia che Di Cristina avrebbe organizzato in una riserva privata dalle parti di Catania per allontanare Mattei «appassionato cacciatore». «Durante
questa battuta di caccia l'aereo privato di Mattei venne manomesso o vi fu occultato qualche ordigno esplosivo a tempo - non ho mai saputo nulla di preciso a riguardo.» È evidente che forse Buscetta ha fatto confusione: Mattei era un appassionato pescatore e non un «appassionato cacciatore» - anche se da giovane era stato talvolta a caccia. Ma soprattutto è facilmente verificabile che nel fitto succedersi di 339 impegni di quelle ore siciliane fra il 26 e il 27 ottobre 1962 non c'è stata e non poteva esserci alcuna partita di caccia. Insomma, le dichiarazioni di Iannì e Buscetta non hanno alcuna attendibilità, eppure il 20 settembre 1994, ricevuto l'estratto delle dichiarazioni di Iannì, la procura di Pavia riapre le indagini. Nei mesi successivi arriveranno le dichiarazioni dello stesso tenore di altri due pentiti: Salvatore Riggio e Gaspare Mutolo. Nel giugno dell'anno successivo i magistrati di Venezia e della procura militare di Padova mandano alla Commissione parlamentare d'inchiesta su Terrorismo e Stragi, la cosiddetta Commissione Stragi, un dossier che riferisce di «presunti legami fra la struttura clandestina Gladio e il caso Mattei». Per il capo della procura pavese, Giuseppe Bruno, essendo «emersi elementi in contrasto con le inchieste precedenti», è necessario riesumare le salme. Il 21 giugno i pochi resti attribuiti a Mattei vengono disseppelliti dalla bella cappella di famiglia nel cimitero di Matelica e portati all'Istituto di Scienze medico- forensi di Torino. Pochi giorni dopo, il 14 luglio 1995, il sostituto procuratore Vincenzo Calia riapre formalmente il caso. Tanto basta perché riprenda la ridda di dichiarazioni e ricordi. L'ex senatore missino Giorgio Pisanò, relatore di minoranza della Commissione parlamentare antimafia del 1976, in un'intervista al «Corriere della Sera» dice che «già allora documentai che Mattei era stato ucciso da una bomba collocata nel carrello del velivolo ed esplosa al momento dell'atterraggio. Nella relazione indicai un intreccio, politico- mafioso che, attraverso un notabile dc, ... l'avvocato V. G. e i capimafia Genco Russo e Giuseppe Ca- telani, indusse il boss Giuseppe Di Cristina a piazzare l'ordigno. Poi anche Di Cristina è stato ammazzato come il giornalista De Mauro che indagava su quella storia». Già nel marzo del 1963, come già detto, il settimanale «Secolo XX», diretto da Pisanò, aveva pubblicato l'inchiesta in tre puntate di Bellini dal titolo Mattei è stato assassinato. I magistrati pavesi a questo punto sentono anche i principali referenti siciliani di Mattei. Graziano Verzotto non crede a una 340 Mattei parola di quanto ha raccontato Buscetta: «... per capire la morte di Mattei occorre capire l'operazione Anic- Gela, ovvero la nascita di tale stabilimento petrolchimico ideata e avviata da Cefis e Guarrasi - responsabile del Piano di sviluppo siciliano -nel periodo del governo regionale di Silvio Milazzo ...». Esclude che la morte del capo dell'Eni potesse far comodo alle Sette Sorelle o all'Oas. «Mattei... finanziando l'operazione Milazzo in Sicilia avrebbe toccato nel vivo i cavalli di razza e i potentati di allora ... il delitto odora di... giuochini politici interni.» Per Montanelli, Verzotto, che una volta diventato presidente dell'Ems, l'Ente minerario siciliano, era entrato in contrasto con Mattei, non è attendibile. Per alcuni magistrati come Alberto di Pisa, del pool antimafia di Giovanni Falcone poi sostituto procuratore di Palermo, la deposizione di Verzotto «va presa con beneficio d'inventario ... potrebbe essere un tentativo di depistaggio ...». Fatto sta che ormai ha preso corpo la pista del complotto italiano. Calia dà subito un'impostazione molto tecnico- scientifica all'inchiesta: indagini chimiche, metallografiche e frattografi- che ora sono possibili con metodi e strumenti impensabili negli anni Sessanta. Vengono affidate a periti di altissimo livello: il professor Carlo Torre, medico legale dell'Università di Torino;
l'ingegnere Donato Firrao, docente di chimica nello stesso ateneo; il capitano dei carabinieri Giovanni De Logu e l'esperto in esplosivi della Marina militare Giovanni Brandimarte. Viene coinvolto anche il Ris di Parma, il Reparto investigazioni scientifiche dei carabinieri. Il 21 giugno 1995, come visto, erano state riesumate le salme di Mattei e Bertuzzi. Il lavoro su pochi resti umani disseppelliti dopo tanto tempo e sui frammenti di metallo rimastivi conficcati è di una delicatezza e complessità folle. Ma i periti e le tecnologie impiegati sono quanto di meglio si possa trovare, gli stessi utilizzati per i più clamorosi casi di cronaca nera e giudiziaria di questi anni. Vengono riprese anche le testimonianze di Ronchi e della Moroni, che la notte della sciagura avevano parlato ai giornalisti di «una palla di fuoco» e di «stelle filanti» nel cielo di Bascapè. L'unica richiesta di rinvio a giudizio di tutta questa vicenda colpisce proprio il povero 341 Ronchi, accusato di favoreggiamento in omicidio aggravato plurimo e false dichiarazioni. Dopo quasi 40 anni di inchieste sulla morte di Mattei, è il solo per il quale viene chiesto un processo. Le dichiarazioni dei «pentiti» di mafia, orientate verso la pista «americana», invece, non convincono la magistratura pavese, che le confuta servendosi delle testimonianze di Mario Pirani - «Erano ormai superate le ragioni di contrasto fra l'Eni e le cosiddette Sette Sorelle» - con cui concorda Giuseppe Restelli, capo del personale all'epoca. Una posizione un po'"paradossale, un'autentica virata di bordo da parte del Pm, visto che l'inchiesta è stata riaperta proprio sulla base delle dichiarazioni dei «pentiti». Ora, invece, appare sempre più chiaramente orientata verso il «complotto italiano». Il 5 novembre 1997 la procura di Pavia rende ufficiale l'esistenza di esplosivo a bordo dell'aereo, tenendo conto anche delle perizie fatte fare negli anni scorsi dai parenti. In tutto questo tempo, infatti, i fratelli di Enrico Mattei, Umberto ma soprattutto Italo, e alcuni nipoti, Angelo e Rosangela, non hanno mai mollato la presa. Non hanno perso occasione per riproporre il caso, per segnalare nuovi elementi. Rosangela, ad esempio, racconterà ad un cronista del «Corriere della Sera» che suo zio Italo aveva raccolto sul luogo del disastro un pezzo di stabilizzatore, che aveva tenuto a lungo nascosto nel sottoscala di casa per timore di qualcuno e che infine aveva consegnato a Calia. L'inchiesta pavese, naturalmente, ha di nuovo attirato l'attenzione dei mezzi d'informazione sul caso, in realtà mai completamente abbandonato. Come spesso accade in Italia per le inchieste giudiziarie con forte valenza politica, ai giornali arrivano indiscrezioni e anticipazioni. È chiaro da tempo che Calia batte una «pista italiana», ma ora si comincia a fare dei nomi, nomi di personaggi indicati come «interessati» alla eliminazione di Mattei: si parla di Fanfani, si parla di Cefis, si parla di Guarrasi. Moventi? Anche questi, molti; forse troppi: rottura dell'accordo politico con Fanfani per la storia del petrolio russo e conseguente minaccia di passare dalla parte di Moro, se non addirittura di passare personalmente alla politi342 Mattei ca con tutto il suo incomparabile patrimonio di carisma e di consenso. Poi le vicende siciliane legate all'affare Milazzo; le resistenze di ambienti democristiani sull'imminente rinnovo del mandato all'Eni; un'autonomia di Mattei diventata, con la nascita del centrosinistra, politicamente pericolosa; un potere di controllo sul «suo» centrosinistra ormai insopportabile... Si potrebbe andare avanti, anche se si fa fatica ad accettare che non esistessero soluzioni diverse dall'assassinio per risolvere il «problema Mattei». A meno che non si volesse anche metterlo definitivamente a tacere. Il 20 gennaio 2001 il quotidiano «La Stampa» pubblica un servizio intitolato Mattei, un delitto italiano, basato sulle dichiarazioni di Verzotto. Una settimana dopo, intervistato da Pasquale Chessa per «Panorama», gli risponde Nico Perrone, uno storico che ha lavorato nello staff centrale di Mattei alle dipendenze di Renzo
Cola e autore di diverse opere sulla vicenda del fondatore dell'Eni: «Attribuire il complotto per la morte di Mattei ad Amintore Fanfani» dice Perrone «mi sembra una trovata per fare reclame all'inchiesta del procuratore Calia. È vero il contrario: gli americani erano molto preoccupati del fatto che la politica di Mattei, attraverso Fanfani, suo principale referente, fosse arrivata al potere nella Dc e nel governo». Perrone crede al complotto internazionale, anzi «americano» - anche per lui l'Oas era «ormai liquidata». Un complotto, però, collegato non al conflitto con le Sette Sorelle ma alla crisi di Cuba: si colpisce il più potente dei «neutralisti» italiani per evitare defezioni dell'Italia e compattare l'Alleanza atlantica. I dubbi di Perrone nascono quando, dopo la sciagura di Ba- scapè, all'Eni arriva una lettera su carta intestata della società costruttrice dell'aereo. Nel messaggio si indicano come possibile causa del disastro alcuni difetti intrinseci a quel modello. Strana ammissione spontanea di responsabilità da parte di un costruttore. Da una ricerca dell'ufficio legale dell'Eni risulta che quella lettera non è mai stata spedita dalla Morane, la carta intestata era autentica, la firma no. «All'esito dell'indagine deve ritenersi in primo luogo acquisita la prova che l'aereo a bordo del quale viaggiavano Enrico 343 Mattei, William McHale e Irnerio Bertuzzi venne dolosamente abbattuto nel cielo di Bascapè la sera del 27 ottobre 1962.» Così scrive Calia nelle sue conclusioni: «dolosamente abbattuto». Infatti «è inequivocabilmente provato» che il Morane «precipitò a seguito di un'esplosione limitata, non distruttiva verificatasi all'interno del velivolo ... di una carica equivalente a circa 100 grammi di Compound B in un ambiente confinato, quale quello della cabina dell'aereo ... verosimilmente sistemata dietro il cruscotto». Ma allora, se l'esplosione è stata «limitata, non distruttiva» e «in ambiente confinato», effettivamente Ronchi potrebbe non aver visto la «palla di fuoco». Ad ogni modo i periti affermano «con ragionevole certezza» che l'esplosione avvenne durante il volo e non per l'impatto al suolo. Calia è convinto che non solo la morte di De Mauro - per il cui caso ha trasmesso alla procura di Palermo gli elementi raccolti - ma anche quelle dei piloti Marino e Irnerio Loretti e forse altre ancora sono collegate alla fine di Mattei. La mattina del 14 agosto 1969 il De Havilland con a bordo Marino Loretti e il figlio Irnerio precipita, pochi minuti dopo il decollo, nelle campagne di Sassoce Acquacetosa di Marino, uno dei Castelli romani. I due muoiono sul colpo. Calia è convinto che il velivolo sia stato sabotato aggiungendo acqua nel serbatoio in modo da bloccare il motore pochi minuti dopo il decollo. Si voleva eliminare Marino Loretti, sostiene il Pm, possibile nuovo testimone chiave nell'inchiesta Mattei. Infatti, pochi mesi prima, il Loretti aveva scritto a Italo Mattei di essere pronto a dire cose importanti sulla tragedia di Bascapè. Loretti era un dipendente dell'Eni, uno dei motoristi che si occupavano dei Morane della Snam, grande amico di Bertuzzi, tanto che aveva chiamato il figlio con lo stesso nome del pilota. Nella primavera del 1962 fu trasferito in Marocco: gli venivano attribuite delle responsabilità - a quanto pare mai dimostrate - su un guasto al velivolo del presidente. Tornò in Italia solo dopo la morte di Mattei. Qualche anno dopo creò un'aziendina di trasporti aerei acquistando il De Havilland della Snam col quale, come appena detto, precipitò, insieme al 344 figlio. A distanza di 34 anni, Calia chiede, senza successo, alla procura di Velletri di riaprire il fascicolo su quel fatto. «Ma le prove orali, documentali e logiche raccolte (tra le quali non vanno trascurate quelle acquisite indagando incidentalmente sulla scomparsa di Mauro De Mauro), pur avendo consentito di delineare il contesto all'interno del quale maturò il delitto, non permettono l'individuazione degli esecutori materiali né, per quanto concerne i mandanti, possono condurre oltre i sospetti e le illazioni, che non sono in grado di giustificare non solo richieste di giudizio, ma anche
iscrizioni sul registro degli indagati o a protrarre ulteriormente le investigazioni.» Si conosce il peccato, dunque, ma non il peccatore. Sebbene, secondo Calia, i peccatori siano molti e si sappia da dove vengono e cosa vogliono: «L'esecuzione dell'attentato viene decisa e pianificata con largo anticipo, probabilmente quando fu certo che Enrico Mattei, nonostante gli aspri attacchi e le ripetute minacce, non avrebbe lasciato spontaneamente la presidenza dell'ente petrolifero di Stato». Non una vendetta, dunque, o una lezione per qualcun altro, ma la inderogabile necessità di avvicendamento al vertice dell'Eni. «La programmazione e l'esecuzione dell'attentato furono complesse e comportarono, quanto meno a livello di collaborazione di copertura, il coinvolgimento di uomini inseriti nello stesso ente petrolifero e negli organi di sicurezza dello Stato con responsabilità non di secondo piano.» Dunque, secondo Calia ci sono di mezzo dirigenti dell'Eni e servizi segreti. Inchiesta archiviata, dunque, con una sola certezza dichiarata: Mattei è morto in seguito ad un attentato. Tutto il resto sono solo ipotesi. Il primo dei grandi misteri italiani resta tale. Oggi Bascapè è un grazioso e ordinato borgo agricolo: con quell'aria compunta e di austero benessere tipica dei centri contadini padani. Anche qui si notano molti immigrati, indiani o cingalesi, particolarmente abili nell'allevamento del bestiame. Se chiedete a un nativo abbastanza anziano da ricordare, dov'è il punto in cui cadde l'aereo di Mattei, quasi non vi lasciano finire la frase e vi rispondono con cortesia ma un po' 345 infastiditi. Appena fuori del paese si lascia la stretta strada asfaltata e, sempre costeggiando una roggia, si imbocca un sentiero sterrato. Dopo pochi metri un cartello intima: «Strada senza uscita - Proprietà privata». In fondo al sentiero un inatteso boschetto di alberi ad alto fusto, un boschetto quadrato che cinge il luogo della tragedia di quel 27 ottobre 1962. Dopo un cancelletto, sempre chiuso con una catena, una sorta di grande valvola da metanodotto - tubi, giunti, manopole - alta come un uomo, svolge con diligente modestia l'incarico di ricordare l'opera di Mattei. All'interno un altro recinto di blocchi di ghiaia e cemento intorno ad una lapide che ricorda la tragedia. Il tutto appare, se non abbandonato, un po'"trascurato, dimenticato. Anche all'interno dell'Eni la figura del fondatore ormai appare quanto meno trascurata. Dimenticarla non è possibile, ma è come se si volesse mettere da parte un antenato di cui, pur riconoscenti, ci si vergogna un po'. Te ne parlano volentieri solo i più vecchi, quelli che l'hanno conosciuto, che hanno lavorato con lui. Sono sempre meno, generalmente raccolti in associazioni di veterani. Gli altri, i più giovani, danno l'impressione come di vergognarsi di un antenato forse mitico ma ormai un po'"imbarazzante, inadeguato alla nuova realtà del gruppo e all'immagine che vuol dare di sé. L'Eni oggi è un gigante multinazionale: la quinta o la sesta compagnia petrolifera del mondo. Una delle poche grandi realtà industriali italiane di rango internazionale. Ormai semiprivatizzata, non è più un"«azienda pubblica», cioè di proprietà dello Stato, ma si avvia a diventare una public company all'americana, cioè con un azionariato largamente diffuso. Per quanto visionaria fosse la sua concezione dell'Eni, Mattei non avrebbe mai immaginato di arrivare a tanto. Comunque, non ne ebbe il tempo. Se altri, passando attraverso vicende, battaglie e crisi di dimensioni epocali, ci sono arrivati lo devono a quello che Mattei riuscì a fare, nel bene e nel male, nei primi dieci anni di vita dell'Ente nazionale idrocarburi. NOTA BIBLIOGRAFICA E FONTI Quando ho messo mano a questa biografia, sapevo che su Enrico Mattei avevano scritto in molti: storici, esperti di economia e di politica, persone a lui vicine
o suoi collaboratori, giornalisti, osservatori del costume, ricercatori, firme celebri e presunti testimoni dei fatti. La «bibliografia» su Mattei, dunque, non mancava di certo. Quasi tutto il materiale disponibile, tuttavia, verteva sul personaggio pubblico e sul «mistero» della sua morte. Insomma sul cosiddetto «caso Mattei» o «giallo Mattei». Su questo terreno, infatti, ci si può più agevolmente esercitare in valutazioni o strumentalizzazioni politiche e più facilmente ci si può schierare. Quasi nessuno ha posto l'accento semplicemente e in primo luogo sull'uomo. La vicenda umana di Mattei, invece, a me sembrava particolarmente interessante e utile a capire meglio la sua storia di uomo pubblico. Il fondatore dell'Eni è stato un personaggio unico e complesso, perciò andava raccontato nella sua unica complessità. Per avvicinarmi al Mattei «privato», molto utili sono stati i ricordi, raccolti in forme diverse, di Italo Pietra e Marcello Boldrini, di alcuni suoi stretti collaboratori all'Agip e all'Eni, dei matelicesi che l'hanno conosciuto, delle interviste che Egizia Marzocco ha realizzato per conto della città di Matelica e della Fondazione Enrico Mattei. Importanti sono state le interviste che hanno cortesemente accettato di rilasciarmi Maria Mattei, Marcello Colitti, Giuseppe Accorinti, Giorgio Ruffolo, Mario Pirani, Raffaele Morini, alcuni «veterani» dell'Eni come Giovanni Bini, Francesco Guidi e altri, citati nel testo, che lo hanno conosciuto o che con lui hanno lavorato. A tutti loro, e in particolare a Maria Mattei, devo un sincero ringraziamento. Così come devo ringraziare la città di Matelica, a cominciare dal suo sindaco Patrizio Gagliardi per la preziosissima, indispensabile e intelligente collaborazione che ha voluto concedermi. Di particolare utilità sono stati lavori come quello di Sergio Terranova per la storia di Mattei nella Dc, la raccolta di scritti e i discorsi di Mattei curata da Antonio Trecciola, le approfondite ricerche di Nico Perrone e Leonardo Maugeri per i rapporti fra Mattei, le Sette Sorelle e gli americani, e in generale sulle vicende petrolifere di quegli anni. 348 Mattei Sterminata, poi, è la produzione giornalistica, italiana e internazionale. Tanto da rendere praticamente impossibile una razionale elencazione anche solo parziale. Non si può omettere di citare, tuttavia, gli importantissimi, storici articoli di Indro Montanelli, pubblicati sul «Corriere della Sera» nel luglio del 1962, tre mesi prima della morte di Mattei. Numerosissimi anche gli atti di convegni, giornate di studio, conferenze. Interessante la consultazione degli atti parlamentari che riguardano l'attività politica di Mattei, il dibattito dopo la sua morte, la lunga battaglia per la costituzione dell'Eni e per la relativa legislazione successiva. Notevole e di particolare interesse il materiale audiovisivo: dal famoso film di Francesco Rosi del 1972, Il caso Mattei, interpretato da Gian Maria Volontè, a quello di Joris Ivens, L'Italia non è un paese povero (1960), commissionato a scopi propagandistici dallo stesso presidente dell'Eni, fino al documentario Tv di Bernhard Pfletschinger e Claus Breden- brock, Processo al silenzio. Il mistero della morte di Mattei, mai trasmesso per intero da una rete nazionale italiana. Molte informazioni utili, infine, sono reperibili sulla Rete, in genere nei siti di carattere storico o politico e in particolare in misteriditalia. com, diretto da Marco Provvisionato, nella sezione casomattei. Consultando tutto questo materiale, spesso ci si imbatte in lavori che sembrano ispirati dall'intento di dimostrare una tesi o da un orientamento politico, come talvolta si deduce già solo dai titoli. Bisogna ammettere che, occupandosi di Mattei, non è facile evitare questo rischio, date le caratteristiche del personaggio, fatto per dividere, del periodo in cui ha vissuto, regolato da contrapposizioni politiche, e di ciò di cui si è occupato, il petrolio, causa tra le prime di molti conflitti della nostra epoca.
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Ben Kedda, Ben Yussef, 216 Beolchini, Aldo, 79 Bertone, Giovan Battista, 133 Bertuzzi, Irnerio, 316, 318-321, 324-326, 330-334, 340, 342-343 Bianchi, Augusto Guido, 7 Bianchi, Pietrino, 227 Bianchini, Laura, 76 Bignardi, Ferdinando, 304 Bignotti, Luigi, 77, 81 Bini, Giovanni, 163, 173, 324 Bocca, Giorgio, 92, 157, 166, 227, 232, 277 Bolaffi, Gino, 108, 126 Boldrini, famiglia, 22, 60, 64, 73 Boldrini, Marcello, 22, 45-48,60-68,70,72, 75-77, 82, 120, 128, 130, 136, 139-140, 146, 149, 153, 159, 161, 166, 171, 183, 186-187, 197, 203, 205, 218, 223, 235, 259,283,312,319,328 Boldrini, Renata, 62 Bonomi, Ivanoe, 112 Bolton, Ralph P., 160, 175 Borghese, Antonino, 333-334 Borghese, Junio Valerio, 330 Borgnino, Secondo, 88 Branca, Vittore, 66 Brandimarte, Giovanni, 340 Briatico, Franco, 183 Broder, Spruille, 131 Brosio, Manlio, 256, 291 Bruno, Giuseppe, 339 Brusasca, Giuseppe, 84 Bud, May, 245 Bulow, Bernhard von, 165 Bundy, McGeorge, 295 Burghiba, Habib ibn Ali, 248, 280,285 Buscetta, Tom maso, 338-340 Byrnes, James, 132 352 Mattei Cacciabile, Oreste, 227 Cadorna, Raffaele, 78 Cadorna, Raffaele, 78, 81, 89, 93-95, 142, 235 Cadorna, Luigi, 78 Cagliari, Gabriele, 263 Calia, Vincenzo, 329-331, 339-344 Calvino, Italo, 237 Camagna, Biagio, 7 Campolonghi, Luigi, 226 Capogrossi, Giuseppe, 66 Caprara, Massimo, 95 Carli, Guido, 306 Carrà, Carlo, 61 Cascella, Michele, 222 Casero, Giuseppe, 330 Casorati, Felice, 61 Cassese, Sabino, 183 Castelli, Carlo, 87-88 Castorino, Giuseppe, 334 Castro, Fidel, 322-323 Castro, Raul, 322 Catelani, Giuseppe, 339 Cazzaniga, Vincenzo, 111-112, 118, 196, 296, 313-314,320 Cefis, Eugenio, 92-93, 122, 142, 148, 188, 204, 219, 245, 260, 262, 307-308, 310, 313, 328, 340-341 Chessa, Pasquale, 342 Cheysson, Claude, 305 Chiarini Scolari, Rosa, 82 Chopin, Fryderyk, 235 Chou En- lai, 260 Churchill, Winston, 137, 191-192, 194, 200 Citati, Pietro, 232 Citterio, famiglia, 82 Clark, Mark Wayne, 96 Clarke, sir Ashley, 294 Cola, Renzo, 215, 342 Colitti, Marcello, 72, 182,184 Colombo, Carlo, 65 Colombo, Cristoforo, 259 Coltica, Costantino, 154 Conti, Ettore, 101 Corallo, Salvatore, 318-319 Corbetta, famiglia, 101 Corbino, Epicarmo, 132 Cornare,
Caterina, 245 Corradi, colonnello, 69 Cossiga, Francesco, 188 Costa, Angelo, 242 Costa, Franco, 65 Crespi, famiglia, 227, 266 Croce, Benedetto, 123-124 Cuccia, Enrico, 124, 222 De A De Amicis, Edmondo, 15 D'Angelo, Giuseppe, 318-320, 329 De Bellis, brigadiere, 9 De Berti Gambini, Pio, 283 De Gasperi, Alcide, 75, 77,112, 126,129, 132-138, 141-142, 155, 166-167, 175, 179,187,189, 201-204, 218,235-236 De Gasperi, Augusto, 75, 77, 84, 204 De Gaulle, Charles, 216,290,304-305 Del Duca, Cino, 225-227,229 De Logu, Giovanni, 340 De Lorenzo, Giovanni, 275,299 De Marchi, Emilio, 15 De Mauro, Mauro, 328-329, 336,339,344 De Mauro, Tunia, 329 De Mita, Ciriaco, 140,188 De Rosa, Gabriele, 230,266 Desio, Ardito, 101, 249 Di Bella, Franco, 333 Di Cristina, Giuseppe, 338-339 Di Dio, Alfredo, 92,188 Di Dio, Antonio, 92 D'Inzeo, Raimondo, 279 Di Pisa, Alberto, 340 Di Vittorio, Giuseppe, 150 Dobrynin, Anatolij, 322 Dossetti, Giuseppe, 46, 48, 61, 65, 75, 81, 121,130,175 Drake, Edwin Laurentin, 99 Dulles, John Foster, 197,247,251-252,256 Egidi, Egidio, 149,183 Einaudi, Luigi, 136-137,217 Eisenhower, Dwight, 189, 195, 197, 199, 252-253,267 Emanuel, Guglielmo, 160-161 Fabiani, Gaetano, 26-28, 31-34,50 Faina, Carlo, 156,262, 264 Falck, Enrico, 46, 61, 65, 75, 77, 82, 86, 115,125 Ìndice dei nomi 353 Falcone, Giovanni, 340 Faleschini, Luigi, 140,171,319 Fanfani, Amintore, 46, 61, 65-66, 75, 200-201, 203-205, 218, 222, 231, 235, 237, 243, 257-258, 267-270, 272, 282-283, 294, 296, 299-300, 303, 308-309, 326, 328,341342 Farinella, Mario, 307 Faruk, re d'Egitto, 214 Feliziani, Domenico, 5 Fermi, Enrico, 184 Ferrante, Tito, 18 Ferrari- Aggradi, Mario, 77, 86, 88, 97, 109, 111, 150, 201,230,271-272 Ferrano, Piero, 135-136 Filastò, Giuseppe, 6 Filastò, Mariangela, 6 Fiore, famiglia, 42,44,50 Fiore, Antonio, 29,36 Fiore, Giacomo, 35 Fiore, Giovanni, 35 Fiore, Lina, 30
Fiore, Vito, 35 Firrao, Donato, 340 Forcella, Enzo, 232 Ford, Henry, 209 Fornara, Angelo, 319 Forte, Charles, 311 Forte, Francesco, 184,305 Franco Bahamonde, Francisco, 221 Frankel, Paul H., 158,195 Fuà, Giorgio, 43,183,185 Fusco, Giancarlo, 227 Gadda, Carlo Emilio, 232 Galli, Giorgio, 158 Galloni, Giovanni, 188 Galluzzo, Lucio, 329 Gardini, Raul, 263 Garibaldi, Renato, 326-327 Gava, Silvio, 207,234-235 Gelli, Licio, 330 Gemelli, Agostino, 46,69 Gentili, Dino, 259 Gerbella, Luigi, 121,134-136 Gerosa, Guido, 233 Gheddafi, Muammar, 318 Giacchi, Orio, 46,63, 7578,128 Giacobbe, Fiorenza, 3-4,314,326 Giarratana, Alfredo, 102 Gioia, Giovanni, 221 Giolitti, Giovanni, 6,9 Giovanni XXIII (Angelo Roncalli), papa, 284 Giro, Vittorio, 76 Girotti, famiglia, 22 Girotti, Raffaele, 148-149,260,314,321 Giuliani, Arnaldo, 333 Glisenti, Pino, 65 Gonella, Guido, 66, 129 Granelli, Luigi, 188 Granzotto, Gianni, 233 Greco, Salvatore, 338 Grew, Joseph C, 108 Gronchi, Giovanni, 75, 113-114, 117-118, 121-122,126,129-130,133,136-138,140, 145,150,179,186,201,203-205,217-218, 224, 231, 235-237, 243, 248, 258, 268, 272275,284,287,296,302,308-309 Guarrasi, Vito, 221-222, 243, 307, 329, 340-341 Guevara de la Serna, Ernesto detto «Che», 322 Guglielmo II, imperatore di Germania e re di Prussia, 165 Gui, Luigi, 269 Guicciardi, Diego, 292 Gurov, Ivan, 288 Guzzi, famiglia, 82 Harriman, Averell, 295-298,300 Hershenson, colonnello, 113 Herter, Christian, 247,256 Hitler, Adolf, 69,295 Hoffman, Paul, 253 Hofland, Arnold, 292-293 Hussein, re di Giordania, 254 Iannì, Gaetano, 338-339 Ickes, Harold L., 127,192 Idris I, re di Libia, 249-250,260,318 Ivens, Joris, 270 Jannaccone, Pasquale, 179 Jernegan, John D., 250 Kacic, tenente, 69 Kao Shang- lin, 259 354 Mattei Kennedy, John Fitzgerald, 284-285, 291, 295,297-299,301,322-324,335 King, colonnello, 113 King, James E., 298 Kinley, Miron, 172-173 Kirk, Alexander C, 108 Kolosov, Leonid, 316 Kossighin, Aleksej, 287,322 Krusciov, Nikita, 233,287,300,323 La Barbera, Salvatore, 338 La Cavera, Domenico, 242-243
Laila, principessa del Marocco, 258 La Mora, prefetto, 69 Lanfranchi, Ferruccio, 157,160-161 La Pira, Giorgio, 46,48,61,65-66,200-201, 224,248,257,259,286,327 La Porta, Salvatore, 334 La Serra, Antonio, 5 Lazzati, Giuseppe, 65 Leone XIII (Vincenzo Gioacchino Pecci), papa, 47 Levero, 9 Longo, Luigi, 78,81,83, 89-91,93-95,204 Lima, Salvo, 221 Lippi, Carolina, 18 Lisle, T. Orchard, 127 Loftus, John A., 131 Lolli, Giovanni, 298 Lombardo, Ivan Matteo, 154-155, 160161,164 Longanesi, Leo, 226-228 Luccarini, Ovidio, 55 Luce, Claire Booth, 189-190, 218,251252, 267-268,284 Luce, Henry, 189-190 Mahrenda, re del Nepal, 277-278 Malagodi, Giovanni, 230 Mandelli, Emesto, 143 Manganelli, Giorgio, 232 Mantica, Fabio, 333 Mao Tse- tung, 260 Marazza, Achille, 76-77, 84 Marcello, Carlo, 337 Marchesano, Enrico, 135-136 Marconi, Ester, 11,14-18,24,38,40,57,71, 259,261 Marcora, Giovanni detto «Albertino», 93,150,188,219,237 Maria José, regina d'Italia, 246 Marinotti, Franco, 200 Maroni, Margherita, 334, 340 Maritain, Jacques, 200 Martinet, Gilles, 304 Martino, Gaetano, 249 Marvelli, Alfonso, 93 Mattei, famiglia, 20,67,73,315 Mattei, Angela (nata Galvani), 11-18, 2022, 24, 29, 33-34, 37-38, 53-54, 59-60, 148,235,260-261,315 Mattei, Angelo, 341 Mattei, Antonio, 3, 5, 8-12, 15-22, 24-27, 33-35,37,39-40,44,53-55,57,60-61,72, 115,124-125,139,153,165 Mattei, Ester detta «Esterina», 13,17, 23, 61 Mattei, Franco, 188 Mattei, Enrico, 207 Mattei, Greta (nata Paulas), 54-56,60,62, 63, 78, 85, 122, 127-128, 165, 244, 312313,315-316,318,327,330 Mattei, Italo, 13,19, 23, 86, 315, 317, 327, 332,336,341 Mattei, Maria, 13-14,17,19,23-24,35,42, 44, 49, 55, 61, 64, 66, 72, 314-315, 323324,327-328 Mattei, Rosangela, 341 Mattei, Umberto, 13,19,23,49,52,58-59, 61,64, 76-78,87,111-112,312-313,341 Matteotti, Giacomo, 100 Mattioli, Raffaele, 123-126,209-210 Mazzaggio, Bruno, 105 Maugeri, Leonardo, 157-158, 190, 198199,247,251 McCone, John, 322 McGhee, George, 198,299 McHale, William, 319-320,326327,342 Melega, Gian Luigi, 336 Mellon, Richard, 107 Melodia, Nicola, 292 Mentasti, Pietro, 76-77,84,86-87,89-90 Mentasti, Rosetta, 89 Merloni, Aristide, 211-213 Merzagora, Cesare, 97,109,123,136,217218,280,309 Mikojan, Anastas, 323 Mikojan, Sergo, 323 Milazzo, Silvio, 243,307,340 Indice dei nomi 355 Minacori, Calogero, 337 Misasi, Riccardo, 188
Missiroli, Mario, 225,266 Mizzi, Leonida, 263 Mohammed V, re del Marocco, 248, 254, 257-258 Montanelli, Indro, 46, 83, 141, 196, 207, 302,311-312,340 Monti, Attilio, 167 Montini, Giovanni Battista, v. Paolo VI, papa Morandi, Renato, 85 Morandi, Rodolfo, 204 Moravia, Alberto (pseud. di Alberto Pincherle), 270 Moratti, Angelo, 167,320 Morini, Raffaele, 168 Moro, Aldo, 66,268, 274,283,309,341 Mossadeq (soprannome di Mohammed Hidayat), 194-195 Murialdi, Paolo, 227 Musolino, Giuseppe (padre), 6 Musolino, Giuseppe, 3-10, 12,16, 27, 33, 55,125 Musolino, Joe, 7 Mussolini, Benito, 58, 64, 66, 68-69, 95, 97-98 Mutolo, Gaspare, 339 Narsete, 11 Nasser, Gamal Abdel, 214-215, 234, 244, 248-249,281,285 Natta, Giulio, 262 Nenni, Pietro, 155,168,224,231,234,282283 "Nkruma, Kwame, 248 Nicotra, Gualtiero, 319 Nitti, Francesco Saverio, 136 Noli, famiglia, 59 Olivetti, Adriano, 124,183-184 Orlando, Vittorio Emanuele, 137 Ortona, Egidio, 217, 256-257 Pachetti, Rino, 88, 93, 315, 316???, 319, 325 Palewski, Gaston, 290 Pallante, Antonio, 150 Palombi, generale, 181,185 Palombo, Vittorio, 79 Pannunzio, Mario, 225 Pantaleone, Michele, 327 Paolo VI (Giovanni Battista Montini), papa, 219, 328 Parri, Ferruccio, 79, 89, 91, 95, 112, 115, 118-119,112-123,125-126,175,235,274, 279 Pascoli, Giovanni, 7 Pasolini, Pier Paolo, 232 Pauer, Giulio, 158 Paulas, Margherita Maria detta «Greta», v. Mattei, Greta Pella, Giuseppe, 136,176,187,207,256,269 Pelosi, Augusto, 333 Pérez Alfonzo, Juan Pablo, 281-282 Perrone, Nico, 342 Pertini, Sandro, 279 Petretti, Arnaldo, 108, 112113, 121-122, 129,133-136,144-146 Pezzi, Maria, 228 Piccioni, Attilio, 129 Pietra, Italo, 15-16, 27, 72, 81, 94, 115, 117-118, 148, 174, 199, 204, 227, 229, 231-232, 237, 246, 248, 254, 258-260, 268, 270, 274-280, 283, 296, 304, 308, 322,329,333 Pietrangeli, Anna Maria, 38 Pietrangeli, Luigi, 38 Pignatelli di Aragona, Nicola, 166,196,292 Pio XII (Eugenio Pacelli), papa, 246 Pirandello, Luigi, 10 Pirani, Mario, 184-185,245, 305,335,341 Pirelli, famiglia, 82,209 Pirelli, Alberto, 82,135136,264-265 Pirelli, Leopoldo, 265 Pisano, Giorgio, 303, 339 Pocognoni, Enrico, 70 Poletti, Charles, 110 Pomodoro, Arnaldo, 235 Previdi, Alessandro, 172, 304 Pyne, Antony, 69 Quaroni, Pietro, 227 Ragnetti, Nerina, 18,24 Rapetti, Ottavio, 325 Rastelli, Claudio, 227 Ratti, Giuseppe, 259-260,288,292,301 356 Mattei
Reale, Eugenio, 259 Regis, Giuseppe, 259 Reinhardt, Frederick, 284,296,299,301-302 Restelli, Giuseppe, 341 Restivo, Francesco, 220-221, 328 Reza Pahlavi, Ciro, scià dell'Iran, 194 Reza Pahlavi, Mohammed, scià dell'Iran, 194-195,244-247,277 Ricci, Federico, 119,126 Ricci, Giuseppe, 213 Richards, John R, 250 Riggio, Salvatore, 339 Rizzoli, Andrea, 233,244 Rizzoli, Angelo, 312 Rockefeller, famiglia, 197 Rockefeller, David, 99, 307 Rockefeller, John D., 192,198 Rognoni, Virginio, 188 Romanelli, Vincenzo Maria, 133 Ronchi, Mario, 333-334,340-341 Roosevelt, Kermit, 198 Rosi, Francesco, 293, 328, 336 Rossi, Emesto, 225, 279 Rossi, Paolo, 279 Rossi Drago, Eleonora, 242 Ruffini, Ernesto, 221,243 Ruffolo, Giorgio, 57,184-186, 201,245 Rumor, Mariano, 222,266 Rusk, Dean, 295,300 Russo, Carlo, 301 Russo, Genco, 339 Russo, Vincenzo, 270 Sabadin, Gavino, 221 Salam, Mohammed, 254 Salvi, Ettore, 330 Santachiaro, Edgardo, 326, 332-333 Saraceno, Pasquale, 66 Saragat, Giuseppe, 218,296,309 Sassinisi, Piero, 93 Savanetti, Pietro, 288 Savoia, Gabriella di, 245-246 Savoia, Vittorio Emanuele di, 246 Savorgnan di Brazzà, Alvise, 244-245, 296-297 Sceiba, Mario, 203, 274 Schacht, Hjlmar H. G., 295 Schlesinger, Arthur, 295,298-299 Scuriatti, Cesare, 25-26,30,34 Segni, Antonio, 222-223, 231, 237, 251, 268-270, 273-274, 290, 296, 299, 303, 308-309,326 Segre, Umberto, 227 Sette, Pietro, 243 Sinisgalli, Leonardo, 184 Sironi, Mario, 61 Sparisci, Emo, 302 Spaventa, Luigi, 184 Sofia, Corrado, 270 Sogno, Edgardo, 89-90 Solari, Fermo, 89-90,93-94 Soleri, Marcelle 113-114,118119,122 Somaglini, Italo, 93 Spadafora, Giuseppe, 88 Sparano, Elio, 334 Spataro, Giuseppe, 46, 67, 75-77,125,130 Stalin (pseud. di Iosif Visarionovic Dzugasvili), 168,233 Sterling, Claire, 291 Stott, William, 300-301 Stucchi, Giovanni Battista (Giobatta), 79, 95 Sturzo, Luigi, 47, 75, 100, 114, 175, 178179, 212, 220, 230, 233, 242-243, 266, 270 Sulzberger, Cyrus, 300-302 Tambroni, Ferdinando, 274-277, 279-280, 282 Tamburi, Orfeo, 227 Tariki, Abdullah, 281-282 Taviani, Paolo Emilio, 66, 130, 150151, 164,326 Thomas, Elmer, 166 Thomas, Elmer J., 107 Tito (pseud. di Josip Broz), 291 Togliatti, Palmiro, 78,81,95,125,150,168 Togni, Giovanni, 176, 251 Tomè, Narciso, 61,222 Torre, Carlo, 340 Tosi, Arturo, 61 Totila, re dei Goti, 11 Trevisani, Giuseppe, 227 Trolli, Giovanni, 327 Truman, Henry Spencer, 199 Umberto I, re d'Italia, 6,15,245-246 Ungaretti, Giuseppe, 184 Indice dei nomi 357 Vajani, Cecilia, 88 Valerio, Giorgio, 130,136-138,140,262 Valletta, Vittorio, 5,182,209, 265, 288 Vanni Revigli, Sofia, 65 Vanoni, Ezio, 14,48,61,66,75,122,136-137, 145,155,157,163-164,174,176,179-180, 186,188,201,204-205,234-237,239,284 Vercesi, Galileo, 77-78 Verzotto, Graziano,
221, 317-319, 329, 340, 342 Vigorelli, Ezio, 115,226 Vittorio Emanuele III, re d'Italia, 11, 15, 66,68 Volpi di Misurata, Giuseppe, 98,101,103 Votaw, Dow, 172, 247, 266 Zanmatti, Carlo, 105-108, 115-117, 119120,122,131,146-147,149,151,169 Zatterin, Ugo, 119 Zellerman, James David, 251, 257, 268 Zoccali, Vincenzo, 6-7 Waagenar, Sam, 316-317 Walters, Vernon, 296-298 Yi Chen, 260