Luchino Visconti. La macchina e le muse 8874700571, 9788874700578

Figura emblematica del Novecento europeo, tra i padri fondatori del neorealismo, Luchino Visconti spicca nel panorama de

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Luchino Visconti. La macchina e le muse
 8874700571, 9788874700578

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quaderni del D@MS di Torino 11

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© 2008, Pagina soc. coop., Bari

Questo volume è pubblicato con il contributo del Dipartimento di Discipline Artistiche, Musicali e dello Spettacolo dell’Università degli Studi di Torino e con il contributo del

Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma rivolgersi a: Edizioni di Pagina via dei Mille 205 - 70126 Bari tel. e fax 080 5586585 http://www.paginasc.it e-mail: [email protected]

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a cura di Federica Mazzocchi

Università degli Studi di Torino Dipartimento di Discipline Artistiche, Musicali e dello Spettacolo

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Luchino Visconti, la macchina e le muse

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È vietata la riproduzione, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

L’Editore è a disposizione di tutti i proprietari di diritti sulle immagini riprodotte nel caso in cui non si fosse riusciti a reperirli per chiedere debita autorizzazione.

Proprietà letteraria riservata Pagina soc. coop. - Bari Finito di stampare nel marzo 2008 da Corpo 16 s.n.c. - Bari per conto di Pagina soc. coop. ISBN

978-88-7470-057-8

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Indice

Prefazione

VII

Cinema Gianni Rondolino La scenografia come regia nell’opera di Luchino Visconti

3

Dominique Budor La mise en abyme in Senso, ovvero il dialogo fra le arti

13

Stefano Della Casa Il segreto di Luchino Visconti

29

Marco Pistoia Rocco e i suoi fratelli: questioni di drammaturgia

35

Esther Castagné Ombra e luce in Rocco e i suoi fratelli

47

Maria Letizia Bellocchio Otello di Visconti. Un viaggio a ritroso da Verdi a Shakespeare a Giraldi Cinthio

69

Musica Paolo Gallarati Musica e regia: l’interpretazione scenica della partitura teatrale

93

Ernesto Napolitano Morte a Venezia. Mahler preso in mezzo

115

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vi

Indice

Roberto Calabretto Nino Rota e il cinema di Luchino Visconti. Il lavoro di un sapiente artigiano

127

Febo Guizzi La “presa indiretta”: le origini dell’etnofonia siciliana e lo «scenario sonoro fittizio» in La terra trema

159

Letteratura Arturo Mazzarella La saga del commediante. Visconti e la décadence

183

Paola Trivero Da Remigio Ruz a Franz Mahler: considerazioni intorno a Senso

193

Dario Cecchetti Visconti legge Proust. La sceneggiatura della Recherche

213

Federica Villa Giorgio Bassani e le occasioni letterarie per Luchino Visconti. Qualche appunto preliminare

239

Teatro Claudio Meldolesi Fu quasi il nostro Stanislavskij. 2: dagli esordi intuì possibile per via attorale lo stesso Nuovo teatro

259

Federica Mazzocchi Visconti e il teatro. Note sullo stile

271

Indice dei nomi

285

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Prefazione

Figura emblematica del Novecento europeo, fra i padri fondatori del neorealismo, Luchino Visconti spicca nel panorama del secondo dopoguerra per la complessità degli esiti artistici e per la sterminata quantità di suggestioni, piste e percorsi che solcano la sua opera cinematografica e teatrale. Allo stesso tempo, egli pone il suo patrimonio culturale in costante relazione con l’impegno civile e con la necessità di riflettere da uomo libero sugli interrogativi e le incognite del suo tempo. Il volume che qui si presenta nasce dal convegno di studi Luchino Visconti, la macchina e le muse (26-28 ottobre 2006) che il DAMS dell’Università di Torino ha voluto dedicare al grande regista di cinema, teatro, opera e balletto, nel centenario della nascita e nel trentennale della morte. Le giornate torinesi hanno scelto un’ottica interdisciplinare, necessaria per un autore che, come pochi altri, ha saputo sperimentare tutte le forme spettacolari, coniugando, nel suo vastissimo orizzonte, gli ambiti più diversi, dalla storia al mito, dalla letteratura all’arte, alla musica. Le sezioni Cinema, Musica, Letteratura e Teatro – scelte per articolare il volume, scompaginando l’ordine originario degli interventi – sono una piccola forzatura, che ha il pregio di una maggiore funzionalità di lettura, ma forse il difetto di chiudere i singoli contributi all’interno di un recinto tematico che li rappresenta solo in parte. Caratteristica del simposio, infatti, è stata proprio quella di far emergere una pluralità di sguardi critici e di prospettive, attraverso un dialogo tra studiosi di diversi ambiti, i quali, saltando i tradizionali confini disciplinari, hanno saputo esaltare la natura “prismatica” del lavoro di Visconti, in cui le arti

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viii

Prefazione

tradizionali nutrono la nuova arte tecnologica del cinema, così come il culto del passato e della storia è ponte per riflettere sulla contemporaneità. Torino, 2 novembre 2007 F. M.

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Cinema

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Gianni Rondolino*

La scenografia come regia nell’opera di Luchino Visconti

LA HOFBURGER STRASSE VIENNA. ESTERNO. GIORNO.

Nel vialetto centrale della Hofburger Strasse, Elisa Perrier, una donnetta minuta, dagli occhi piccoli, i lineamenti acuti, vestita col tipico abito delle “bonnes” svizzere, rivolta fuori campo, con un guinzaglio in mano, chiama: PERRIER: “Gyp! Ryp! Andiamo”. Due piccoli cani stanno facendo pipì contro un albero. Al richiamo della Perrier i due cani si muovono. La donna attraversa la strada, entra per la porta a tamburo di un grande edificio sul quale spicca la scritta BRISTOL. HALL HOTEL BRISTOL VIENNA. INTERNO. GIORNO. Nell’interno è tutto un affaccendarsi di facchini, fattorini, ai quali il portiere gallonato, dal suo banco, impartisce qualche ordine. La Perrier attraversa la hall incrociando un viaggiatore e una viaggiatrice, che usciti dal bureau, sono diretti, con il facchino che ne porta le valigie, verso l’ascensore. La Perrier sale lo scalone. Anche qui camerieri, liftiers e clienti che vanno e vengono. La Perrier giunge al primo pianerottolo e si dirige lungo il corridoio. CORRIDOIO PRIMO PIANO HOTEL BRISTOL. INTERNO. GIORNO. La Perrier, coi due cani, percorre il corridoio a passetti brevi. In direzione opposta alla sua avanza un facchino, nella abituale tenuta mattutina, che si china a raccogliere le calzature deposte davanti alle porte. Una cameriera esce da una stanza e incrocia la Perrier. Ha tra le braccia delle lenzuola. Rivolge alla Perrier un sorriso. CAMERIERA: “Bonjour, mademoiselle!”, PERRIER: “Bonjour”. La cameriera esce di campo, mentre la Perrier continua per un breve tratto fermandosi davanti a una porta su cui spicca in rilievo il numero 186. Senza bussare la Perrier entra.

Così comincia la sceneggiatura del Processo di Maria Tarnowska che Luchino Visconti, con la collaborazione di Michelangelo Anto* Università di Torino.

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Gianni Rondolino

nioni, Guido Piovene e Antonio Pietrangeli, scrisse presumibilmente tra la fine del 1945 e i primi mesi del 19461. Un inizio che indica molto chiaramente un modo di introdurre, in un film, ambiente e personaggi, l’atmosfera in cui si svolge l’azione, il tipo e il carattere della rappresentazione scenica. Un modo (prettamente viscontiano) in cui l’aspetto scenografico (in senso lato) diventa il punto focale del racconto: in cui, in altre parole, la scenografia diventa regia. Perché non v’è dubbio che la sequenza d’apertura del Processo di Maria Tarnowska, che rimase allo stadio di progetto, è una sorta di concentrato scenico di quanto avverrà dopo. E poiché il film, stando alla sceneggiatura dettagliata, era costruito su flashbacks che di fatto riportavano l’azione nei luoghi già visti, con personaggi già noti, il carattere che Visconti gli avrebbe impresso doveva essere chiaro sin dalla prima scena: la cameriera personale di Maria Tarnowska, i suoi cagnolini, l’albergo Bristol di Vienna, la camera 186 (che si sarebbe vista subito dopo), l’andirivieni di un hotel di lusso: insomma i riflessi “scenografici” della personalità della protagonista, la sua presentazione indiretta attraverso una serie di elementi fortemente connotativi. D’altronde Visconti, in quel periodo, tornava al cinema (se il progetto della Tarnowska e altri coevi fossero andati in porto) dopo una intensa e originale attività teatrale, in cui la scenografia, intesa come arredamento del palcoscenico e costumi degli attori, costituiva il fulcro drammatico dell’azione teatrale, e di cui spesso egli stesso era artefice. Le scenografie dei Parenti terribili e della Macchina da scrivere di Jean Cocteau, andati in scena al Teatro Eliseo di Roma rispettivamente il 30 gennaio e il 2 ottobre 1945, erano sue. E sua fu anche quella di Adamo di Marcel Achard, andato in scena al Teatro Quirino di Roma il 30 ottobre di quell’anno. Per tacere degli altri spettacoli teatrali da lui diretti fra il 1945 e il 1946, da Quinta colonna di Ernest Hemingway ad Antigone di Jean Anouilh, da A porte chiuse di Jean-Paul Sartre a La via del tabacco di John Kirkland (dal 1

Cfr. M. Antonioni, A. Pietrangeli, G. Piovene, L. Visconti, Il processo di Maria Tarnowska. Una sceneggiatura inedita, Museo Nazionale del Cinema-Il Castoro, Milano 2006, pp. 73-4.

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La scenografia come regia nell’opera di Luchino Visconti

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romanzo di Erskine Caldwell), al Matrimonio di Figaro di Beaumarchais, in cui la regia era strettamente connessa con la disposizione degli oggetti e dei personaggi sulla scena, cioè, in altri termini, con la scenografia. Perché, fra le innovazioni apportate da Visconti alla pratica teatrale italiana, sostanzialmente dominata dalla presenza dell’attore-mattatore, ci fu anche e soprattutto quella di coordinare, appunto registicamente e scenograficamente, l’azione degli attori: non solo la voce (la parola) e i gesti, ma anche i movimenti, gli sguardi, i rapporti interpersonali, il loro agire in uno spazio predeterminato, in relazione con gli oggetti (mobili, quadri, specchi, soprammobili, tappeti, tende ecc.) che arredavano il palcoscenico. Che il suo gusto d’arredatore fosse noto, anche in campo teatrale, è cosa risaputa. Non solo ovviamente nell’ambito personale della propria casa, o nella vita mondana che conduceva; ma proprio nel suo lavoro, ancora in fieri, di teatrante. Il suo contributo alle recite familiari che si allestivano in casa Visconti è documentato, come documentata è la sua partecipazione attiva all’allestimento, in qualità di arredatore scenografo, della Moglie saggia di Goldoni, messa in scena al Teatro Eden di Milano il 28 dicembre 1928 dalla Compagnia del Teatro d’Arte finanziata dal padre, diretta da Gian Capo e formata da Lamberto Picasso, Camillo Pilotto, Nicola Pescatori e Andreina Pagnani. Ma più importanti furono i suoi lavori teatrali degli anni seguenti. Nel 1936 curò la messinscena (la scenografia) di Carità mondana di Giannino Antona Traversi con la Compagnia del Teatro di Milano diretta da Romano Calò, che debuttò al Teatro Sociale di Como il 20 ottobre 1936 e si trasferì al Teatro Manzoni di Milano il 28 ottobre, con buon successo, tanto che Renato Simoni sul “Corriere della Sera”2 poteva scrivere: «Bellissima la scena, che fu applaudita all’aprirsi del sipario». Poco dopo curò, con la medesima Compagnia, la messinscena del Dolce aloe di Jay Mallory, che debuttò al Teatro Manzoni di Milano il 5 novembre 1936, e Renato Simoni, sempre sul “Corriere”3, scrisse: «Assai bella, piena di buon 2 3

Cfr. “Corriere della Sera”, 29 ottobre 1936. Cfr. “Corriere della Sera”, 6 novembre 1936.

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gusto e di sagaci e pittoresche invenzioni la messa in scena di Luchino Visconti». Insomma, senza entrare nel merito delle sue regie teatrali e del suo contributo fondamentale alla determinazione o alla creazione delle scenografie (anche per il film Ossessione, girato nel 1942, la cui scenografia e il cui arredamento erano di Gino Franzi e i costumi di Maria De Matteis, ma del quale non è possibile negare l’impronta “scenografica” viscontiana), non v’è dubbio che il lavoro di regista, per lui, non poteva prescindere da quello di scenografo, proprio nel senso di uno stretto legame fra la caratterizzazione dei personaggi e l’ambiente in cui agiscono: o meglio, di una derivazione di quei caratteri direttamente dall’ambiente, centro motore dell’azione scenica e luogo dei conflitti drammatici. Come se solo attraverso gli oggetti, intesi in senso lato, si potesse dar vita a personaggi autentici, credibili, vivi sul palcoscenico e sullo schermo. Oggetti che, opportunamente disposti nello spazio, ne delimitavano i confini e ne evidenziavano le caratteristiche ambientali, in modo tale da “costringere” gli attori-personaggi a stabilire con essi dei rapporti e, di conseguenza, a inserirsi attivamente nella scena e a dominarla. A questo proposito c’è una preziosa testimonianza di Michelangelo Antonioni rilasciata a Lietta Tornabuoni4. Lui, Piovene e Pietrangeli stavano lavorando alla sceneggiatura del Processo di Maria Tarnowska. Ricorda Antonioni: Un giorno dovevamo sceneggiare appunto la Tarnowska al Des Bains, e i camerieri che le servivano la prima colazione. Luchino disse: avanti, secondo voi cosa c’è sul vassoio? E io: nessuno può saperlo meglio di te, Luchino. Questa è una scena che devi scrivere tu. Scrisse dodici pagine. Solo un mitteleuropeo aristocratico come lui poteva indicare le porcellane, i toast, il burro e il coltellino da burro, le marmellate, il fiore, gli argenti che c’erano sul vassoio. È sempre stato un grande arredatore. Ma in quel caso tanta meticolosità era essenziale, se sbagliavi gli oggetti sul vassoio sbagliavi il film. 4

p. 7.

Cfr. Album Visconti, a cura di C. d’Amico de Carvalho, Sonzogno, Milano 1978,

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La scenografia come regia nell’opera di Luchino Visconti

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Nella sceneggiatura conservata non c’è questa scena (non ci sono le «dodici pagine» di Visconti); ma il ricordo di Antonioni, al di là della correttezza della citazione, è sintomatico. La descrizione minuziosa dell’ambiente diventa fondamentale: la sua realizzazione filmica ne consacra la funzionalità drammaturgica. Non soltanto ovviamente nel caso della Tarnowska, che non si fece, ma soprattutto nella maggior parte dei film di Visconti, d’ambiente sia storico sia contemporaneo. E non si tratta, a ben guardare, semplicemente di “arredamento”: Visconti non fu solo, come ricorda Antonioni, un «grande arredatore». Nel teatro e nel cinema fu in primo luogo un “grande regista”, in tanto grande in quanto seppe utilizzare l’arredamento, più in generale la scenografia, come costante della messa in scena. Quasi fosse incapace di dirigere un attore, o meglio di creare un personaggio, al di fuori di una serie di coordinate spaziali, solo su fondo neutro, privo di riferimenti scenografici. In quel suo articolo famoso, Cinema antropomorfico, che apparve nel 1943 sulla rivista “Cinema”5, è vero che parla dell’attore come unico centro drammatico del film, e dice: «L’esperienza fatta mi ha soprattutto insegnato che il peso dell’essere umano, la sua presenza, è la sola “cosa” che veramente colmi il fotogramma»; ma sottolinea poi che «l’ambiente è da lui creato, dalla sua vivente presenza, e che dalle passioni che lo agitano questo acquista verità e rilievo»; e conclude: «Il più umile gesto dell’uomo, il suo passo, le sue esitazioni e i suoi impulsi da soli danno poesia e vibrazioni alle cose che li circondano e nelle quali si inquadrano». Quasi a sottolineare che l’ambiente senza l’uomo non ha senso (scrive infatti: «anche la sua momentanea assenza dal rettangolo luminoso ricondurrà ogni cosa a un aspetto di non animata natura»), ma anche l’uomo senza l’ambiente che lo circonda rischia di essere privo di una dimensione esistenziale essenziale. In altre parole, c’è nella sua concezione teatrale e cinematografica una stretta interrelazione fra attore-personaggio e ambiente-scena: una interrelazione che conferisce al primo uno spessore drammatico indispensabile alla riuscita della rappre5

Cfr. L. Visconti, Cinema antropomorfico, in “Cinema”, VIII, nn. 173-174, 1943, pp. 108-9.

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sentazione (cinematografica e/o teatrale) e al secondo una funzione drammaturgica altrettanto essenziale. Detta così, l’affermazione potrebbe sembrare scontata, banale. È fin troppo facile ricordare che, nella maggior parte dei casi, tanto il palcoscenico quanto lo schermo mostrano attori che si muovono in un luogo predeterminato, personaggi che agiscono in un ambiente definito. Ma in Visconti (e in altri registi come lui attenti alla complessità della realtà rappresentata, alla dinamica interna della recitazione, all’interrelazione fra i personaggi e l’ambiente) sembra che il “mettere in scena” un dramma significhi appunto dargli una dimensione “scenica”, collocarlo non tanto su uno sfondo, quanto piuttosto entro un luogo “scenografico”. Di qui l’uso di una regia (cioè, nel cinema, di una strumentazione tecnica fatta di differenti obbiettivi, di movimenti di macchina, di diversi tipi di montaggio ecc.) che adotti la scenografia non solo come semplice ambientazione, arredamento funzionale, ma piuttosto come autentico luogo dell’azione, punto focale che dà alla rappresentazione (e di conseguenza alla narrazione) il suo significato. E se è vero, come è stato ricordato, che è l’attore a conferire all’ambiente il suo significato drammatico, è altrettanto vero che sarà quest’ultimo a permettere al primo di affermarsi come personaggio. A questo punto occorrerebbe entrare nel vivo dell’opera teatrale e cinematografica di Visconti, soffermarsi su questo o quello spettacolo, su questo o quel film, analizzarne la forma alla luce di quanto si è detto sulla interrelazione fra regia e scenografia. Ma ovviamente il discorso si farebbe troppo lungo. Tuttavia qualche esempio può essere fatto. Prendiamo Parenti terribili, la sua prima vera regia teatrale. Citato da Gerardo Guerrieri nel Catalogo della mostra Visconti: il teatro6, allestita presso il Teatro Municipale di Reggio Emilia nel 1977, Giorgio De Lullo, che aveva assistito alla prima dello spettacolo, ricordava:

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Cfr. Visconti: il teatro, Catalogo della mostra, a cura di C. d’Amico de Carvalho, Reggio Emilia 1977, p. 33.

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La scenografia come regia nell’opera di Luchino Visconti

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È come se improvvisamente avessero spazzato via polveri, mobili vecchi, ciarpami, finte eleganze, ferri battuti, mielosità. Improvvisamente questa scena illuminata violentemente, poi buia, i capelli di Andreina [Pagnani] che si capiva che erano tinti, senza trucco, io abituato a vederla sempre bella, un po’ smancerosa, brava, insomma bella ed elegante, tutta ben truccata: improvvisamente buttata in questo mondo violento, sgradevole, dove dopo cinque minuti ti dimenticavi di stare a teatro o stavi a teatro per essere strangolato da quello che vedevi, e che vedevi? Un letto, un bagno illuminato, una coperta sfatta, un comodino con la luce con sopra un fazzoletto in modo che la luce fosse tenue [...].

Sembra una scena di Ossessione, con Clara Calamai al posto della Pagnani, la stanza da letto squallida, disadorna, sopra la trattoria, al posto dell’interno borghese, sfatto, disordinato. È una scelta scenografica che diventa una scelta stilistica, consentendo agli attoripersonaggi di muoversi con naturalezza (e realismo) guidati dall’occhio indagatore di Visconti, regista-scenografo estremamente rigoroso, per il quale gli oggetti sono fondamentali non solo per la resa ambientale dello spettacolo (sia esso teatrale o cinematografico), ma anche e soprattutto per dare ai personaggi una dimensione spaziale autentica, un luogo scenico in cui possano vivere la loro vita fittizia, che diventa reale nel momento stesso in cui si muovono in quell’ambiente con naturalezza e verosimiglianza. Prendiamo, all’opposto, La terra trema, il film realizzato fra il 1947 e il 1948, ispirato ai Malavoglia di Giovanni Verga, opportunamente aggiornato nella storia, nell’ambiente, nei personaggi. A prima vista potrebbe apparire, come a molti apparve allora, un ottimo esempio di neorealismo, con attori non professionisti, luoghi naturali, dialetto del posto, dialoghi improvvisati, girato fuori dei teatri di posa. Invece è, come d’altronde tutti i film di Visconti (in gran parte anche Bellissima, che più risente dell’influenza di Cesare Zavattini e del neorealismo cinematografico), un’opera in cui la regia è strettamente connessa con la scenografia. Nel senso che, dovendo scegliere i luoghi delle riprese e soprattutto le forme della rappresentazione, Visconti si è preoccupato di strutturare il set in modo da potervi collocare gli attori e farli agire in rapporto all’ambiente, opportuna-

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Gianni Rondolino

mente modificato in base alle esigenze della macchina da presa (anch’essa disposta secondo un disegno statico e dinamico predeterminato, ovvero determinato al momento della realizzazione del film). Un metodo di lavoro ben diverso da quello normalmente usato dai registi neorealisti, a cominciare ovviamente da Roberto Rossellini. Basterebbe, al riguardo, studiare i Quaderni dei raccordi e i Diari di Francesco Rosi7, che della Terra trema fu, insieme a Franco Zeffirelli, assistente alla regia, per cogliere la meticolosità “scenografica” con cui Visconti procedette nella costruzione delle inquadrature e delle sequenze del film. Valga, per tutte, una citazione di Vito Zagarrio che, in un suo saggio8, si è soffermato con dovizia di particolari sulla regia del film: Ad esempio, se esiste, come ci pare di aver dimostrato, un’estetica della “quinta”, esiste anche un’estetica della “porta”, se non dello “stipite”: le porte infatti, le finestre, le nicchie, aiutano a delimitare lo spazio, a isolarne blocchi entro cui, spesso, operano i personaggi in azioni distinte ma simultanee; sulle porte sono appoggiati sempre i protagonisti, usate come fondali di una scenografia teatrale; le porte aprono sovente su altre porte, in una fuga prospettica, come un gioco di scatole cinesi; i volumi cubici, gli spazi vuoti costituiscono a volte delle sub-inquadrature, dei sub-fotogrammi; le “inquadrature”, infine, comprendono e rivelano di tanto in tanto dei veri e propri quadri (composizioni formali di tipo pittorico o vere e proprie citazioni).

Si potrebbe continuare con altri esempi, tratti dalle sue molte regie teatrali, cinematografiche, liriche: tali e tanti essendo i casi in cui l’uso della scenografia, nel più ampio significato del termine, si configura come l’elemento centrale della messinscena. E la messinscena, tanto teatrale quanto filmica, significa per Visconti il nucleo centrale della rappresentazione, il luogo drammaturgico in cui gli attori7 I Quaderni dei raccordi di Francesco Rosi, unitamente ai Diari, sono conservati presso la Cinémathèque Française. Un’ampia scelta di suoi disegni relativi a La terra trema sono pubblicati in La terra trema di Luchino Visconti. Analisi di un capolavoro, a cura di L. Micciché, Lindau, Torino 1993. 8 Cfr. V. Zagarrio, Le “quinte” della storia: riflessioni sulla regia, in Micciché (a cura di), La terra trema di Luchino Visconti, cit., p. 134.

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La scenografia come regia nell’opera di Luchino Visconti

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personaggi, muovendosi, prendono vita. Di qui l’importanza di studiare i rapporti che sono sempre intercorsi, da Ossessione a L’innocente, passando per altri film e spettacoli teatrali, fra scenografia e regia all’interno della messinscena. Senza trascurare il fatto che, in alcuni film e in molti spettacoli teatrali, di prosa e lirici, il suo contributo come scenografo fu tutt’altro che trascurabile. Ci basti ricordare che, in teatro, egli curò personalmente, oltre a quelle ricordate, le seguenti scenografie: La locandiera di Goldoni (1952), Il crogiuolo di Arthur Miller (1955), Contessina Giulia di Strindberg (1957), L’impresario delle Smirne di Goldoni (1957), Don Carlo di Verdi (1958), con Mario Chiari, Deux sur la balançoire di William Gibson (1958), Il duca d’Alba di Donizetti (1959), con Filippo Sanjust, L’Arialda di Testori (1960), Dommage qu’elle soit une p... di John Ford (1961), Salomé di Strauss (1961), Il diavolo in giardino di Visconti, Sanjust ed Enrico Medioli (1963), con Sanjust, La traviata di Verdi (1963), Le nozze di Figaro di Mozart (1964), con Sanjust, Il giardino dei ciliegi di Cechov (1965), con Ferdinando Scarfiotti, Don Carlo di Verdi (1965), Falstaff di Verdi (1966), con Scarfiotti, Der Rosenkavalier di Strauss (1966), con Scarfiotti, La monaca di Monza di Testori (1967), Simon Boccanegra di Verdi (1969), con Scarfiotti. Per quanto riguarda il cinema, la stretta collaborazione con Mario Garbuglia come scenografo e Piero Tosi come costumista, oltre ad altre più saltuarie collaborazioni, significa una sorta di interazione fra le ragioni delle sue messinscene e le ragioni loro, indica cioè un rapporto fra Visconti regista-autore e i suoi stretti collaboratori che gli consentì di muoversi fra le scenografie e i costumi con quella naturalezza che gli era indispensabile per dare ai suoi personaggi una dimensione autentica, vera e vitale. Basterebbe citare Le notti bianche, Rocco e i suoi fratelli, Il lavoro, Il Gattopardo, Vaghe stelle dell’Orsa, Gruppo di famiglia in un interno, L’innocente. E non dimenticare ovviamente Bellissima (scenografo Gianni Polidori), Senso (scenografo Ottavio Scotti), La caduta degli dei (scenografo Pasquale Romano), Morte a Venezia (scenografo Scarfiotti), Ludwig (scenografi Mario Chiari e Mario Scisci). In conclusione, si può dire che esiste un modello di regia scenografica, in cui i due termini, il sostantivo e l’aggettivo, possono esse-

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Gianni Rondolino

re intercambiabili. Un modello che Visconti ha fatto proprio, o meglio ha contribuito a definire nelle sue differenti formulazioni artistiche. Un modello che è riscontrabile, a diversi livelli tecnici ed estetici, in tutta la sua opera teatrale e cinematografica.

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Dominique Budor*

La mise en abyme in Senso, ovvero il dialogo fra le arti

Mise en abyme. Scegliere questo termine per identificare specifici funzionamenti formali nei film di Visconti richiede alcune precisazioni, data l’origine araldica, pittorica e poi letteraria della denominazione, prima della sua applicazione ad altre arti, quando, ad esempio e per riferirci al cinema, Christian Metz scrisse il suo famoso articolo sulla «construction en abyme» in 8½1. Il procedimento, si sa, fu definito da André Gide nel lontano 1893: «j’aime assez qu’en une œuvre d’art on retrouve ainsi transposé, à l’échelle des personnages, le sujet même de cette œuvre. Rien ne l’éclaire mieux et n’établit plus sûrement toutes les proportions de l’ensemble»2. Come si delinea ora l’uso della nozione? Si rivela inutile per il nostro proposito il resoconto delle ulteriori accezioni nella storia della critica – da Magny a Genette e poi a Dällenbach –, perché riguarda essenzialmente la struttura del testo letterario3. Si possono ormai ritenere ammesse le differenziazioni tra la mise en abyme e altre forme di replica dell’opera dentro l’opera, che qui però saranno comunque elencate in quanto nel caso di Visconti – la cui opera appare globalmente retta da una logica speculare – tali modulazioni si rivelano essenziali. Conviene dunque in questa sede menzionare l’esplicita duplicazione: per riflesso (quando Aschenbach, artificialmente ringiova* Université Sorbonne Nouvelle – Paris III. 1 C. Metz, La construction «en abyme» dans Huit et demi de Fellini, in Id., Essais sur la signification au cinéma, I, Klincksieck, Paris 1978, pp. 223-8. 2 A. Gide, Journal 1889-1939, Gallimard, Paris 1948, p. 41. 3 La definizione di Gide servì da fonte problematica nel saggio che, dopo il Nouveau Roman, rinnovò gli studi teorici sull’argomento: cfr. L. Dällenbach, Le récit spéculaire. Essai sur la mise en abyme, Seuil, Paris 1977, pp. 15-31.

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Dominique Budor

nito dal barbiere, si guarda nello specchio, in Morte a Venezia, rullo 12-363, mezzo primo piano e primo piano), oppure per ricomposizione attraverso un gioco di prospettiva (Mahler a braccia incrociate dietro il velo del baldacchino e riflesso dalla specchiera nella camera da letto di Livia ad Aldeno, in Senso, rullo 7 del continuity778 e ss., piano americano); la doppia immagine serve per lo più a palesare i livelli della personalità, quella manifesta e quella più profonda, e le conseguenti interrogazioni sull’identità. Si evochi anche il seguente riferimento: è risaputo come nella scena del bacio di Franz e Livia ad Aldeno, la gestuale ripeta quella del Bacio di Francesco Hayez per opporre, nella percezione dello spettatore avvertito, pulsione erotica e sentimento patriottico. Si noti inoltre la seguente contrapposizione: quando Franz alza lentamente il velo di Livia per baciarla nell’alloggio degli ufficiali austriaci (rullo 4-410) e, in presenza di Clara, glielo strappa nell’appartamento di Verona (rullo 13-1481), lo spettatore – in base alla sua memoria visiva – misura il dolore e l’umiliazione della contessa nel momento in cui scopre la squallida fine del suo sogno d’amore. O ancora la miniaturizzazione che sottolinea la debolezza del personaggio: in Ludwig, mentre il capitano Durkeim racconta la resa della truppa e, parlando del principe Otto, allude al malessere di Ludwig stesso, Ludwig seduto è visto riflesso simultaneamente in due specchi, ma con scala dei piani diversa (scena 38, da figura intera a mezzo primo piano). Ad ogni modo, stabilita la dovuta differenza formale, appare obsoleto, poiché legato alle condizioni di apparizione testuale del procedimento, il carattere limitativo di certi criteri della Charte promulgata dalla critica e, in particolare, l’esigenza che la mise en abyme comporti una rappresentazione della creazione in atto, ove operi una retroazione dello scritto e della storia narrata sullo scrittore nel momento in cui scrive (il caso di Paludes di Gide appunto). Indispensabile e sufficiente a fondare la ripresa aperta del termine mise en abyme e a porne in risalto l’uso viscontiano, mi sembra l’insistenza di Gide sulla mutua costruzione dell’opera contenitrice e dell’opera en abyme. Su questa scia, mi propongo di analizzare come il regista, superando in un’articolazione originale le barriere tra i sistemi di segni, adoperi il procedimento per definire la specificità

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La mise en abyme in Senso, ovvero il dialogo fra le arti

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di ogni arte e tracciare, nel dialogo tra le arti, la sua poetica. Per la necessità di un rigoroso taglio teorico e malgrado l’inevitabile limitazione a pochi casi, questa relazione dovrebbe – e, difatti, venne inizialmente progettata così – sottoporre a esame il dialogo intersegnico, iscritto dentro l’immagine filmica, quando implica la mise en abyme di arti diverse, e quindi per esempio la lirica: una scena del Trovatore sul palcoscenico del Teatro La Fenice durante i titoli di testa e la prima scena di Senso, 1954; la pittura: nel Gattopardo, del 1963 (sequenza 20, scena 5), quando la visualizzazione del quadro di Greuze La Mort du Juste contemplato dal principe di Salina introduce la percezione del tempo interiore tramite la costruzione narrativa e il lavoro della macchina da presa sul «dettaglio», nel senso che Daniel Arasse dà a questo termine4; la musica: quando, in Vaghe stelle dell’Orsa (1965), il trittico di César Franck – Prélude, choral et fugue – viene sottratto alla sua funzione emotiva di colonna sonora per diventare ciò che Michel Chion chiama una «plaque tournante spatio-temporelle»5. In questa sede ho concentrato l’analisi della mise en abyme sulla scena del Trovatore inserita in Senso. Questa scena, che è un’aggiunta rispetto al testo fonte di Camillo Boito, non costituisce solo, nel film compiuto, la peripezia iniziale che, assumendo una funzione logico-causale, mette in moto la fabula: riveste una funzione caratterizzante rispetto ai personaggi e costituisce una forza strutturante quanto al significato complessivo del film. Per di più, le polemiche che Senso scatenò sul preteso «decadentismo» o «barocchismo» del

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D. Arasse, Le détail. Pour une histoire rapprochée de la peinture, Flammarion, Paris 1996 (I ed. 1992), p. 11: «La langue italienne différencie ce qui est un particolare de ce qui est un dettaglio. Enfouie dans l’emploi du seul mot détail, cette première distinction est fondamentale. Le détail-particolare est une petite partie d’une figure, d’un objet ou d’un ensemble. [...] Tout serait plus simple – et ce livre sans objet – si le détail n’était aussi, inévitablement, dettaglio, c’est-à-dire le résultat ou la trace de l’action de celui qui “fait le détail” – qu’il s’agisse du peintre ou du spectateur». 5 M. Chion, L’audio-vision, Nathan, Paris 1990, p. 72. Cfr. anche l’ampia analisi dell’uso viscontiano della musica di Franck in S. Liandrat-Guigues, Les images du temps dans “Vaghe stelle dell’Orsa” de Luchino Visconti, Presses de la Sorbonne Nouvelle, Paris 1995, pp. 135-67.

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Dominique Budor

regista – il film, è vero, esce proprio nel momento in cui si registrano la crisi e/o la morte del neorealismo: i convegni di Parma nel 1953 e di Varese nel 1954, la polemica a proposito di Metello nel 1955 –, così come la relazione speculare che lega Senso all’ulteriore Gattopardo rispetto alla questione risorgimentale conferiscono a questa scena un valore particolare nella definizione dell’estetica viscontiana. Nondimeno, e per evitare ogni contenutismo derivato dalla pur necessaria attenzione rivolta ai dati ideologici, occorre subito indicare che il rapporto tra cinema e teatro lirico in Senso sfugge totalmente all’ormai vecchio discorso di André Bazin – ma non affatto vecchio e fortemente vigente nel 1956 quando il film fu presentato in Francia – sul teatro come arte della convenzione (in maniera più netta ancora nel caso del teatro lirico) e sul cinema come arte del reale6. In Visconti regista cinematografico, il contratto di fruizione con lo spettatore è chiaro quanto alla nozione di “spettacolo”: il dialogo che si stabilisce tra il contenitore-film e il contenuto-teatro lirico è, dichiaratamente, quello che lega due modalità diverse della rappresentazione; e il reale è solo, fuori dal film, quello dello spettatore che assiste alla proiezione di Senso nella sala di cinema. Semmai, il confronto tra le due forme spettacolari va riferito a una riflessione personale di Visconti sul rapporto tra regia per il film e regia per il teatro lirico – due attività artistiche entrambe e contemporaneamente praticate da lui – con, all’interno di questa autoanalisi, la consapevolezza dei dati legati all’evoluzione storica delle tradizioni sceniche e dipendenti dalle facoltà di ricezione del pubblico. Questa scena, dunque, focalizza l’attenzione sui termini di un dialogo che l’artista, al di là della trasmissione di un messaggio allo spettatore, stabilisce tra sé e sé. È quindi una pietra miliare nella storia della scrittura filmica di Visconti. In Senso, l’inserimento della rappresentazione teatrale dentro la rappresentazione filmica non è un dato immediato, bensì il risultato di un travagliato processo che durò più di un anno. L’analisi delle fonti e dei documenti genetici permette una prima percezione 6

Cfr. A. Bazin, Théâtre et cinéma, in “Esprit”, giugno-agosto 1951; ora riprodotto in Id., Qu’est-ce que le cinéma?, Les Éditions du Cerf, Paris 2002, pp. 129-78.

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La mise en abyme in Senso, ovvero il dialogo fra le arti

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dell’intento di Visconti riguardo a questa scena intitolata Teatro La Fenice7. Nella «storiella vana» scritta da Boito, le circostanze del primo incontro tra la contessa Livia e Remigio Ruz non sono precisate e la conquista, che avviene nella «sirena» in cui la donna sta facendo il bagno nuda, situa l’amore e il tradimento dalla parte della cruda sensualità: il rapporto tra ambiente storico e vicenda individuale, seppur presente, rimane rarefatto. Il riassunto della prima sceneggiatura – sceneggiatura fiume intitolata Senso –, invece, insiste subito sull’occupazione austriaca dopo Custoza, sulla fierezza dei civili di fronte agli stranieri e sulla coscienza storica di Ussoni: il nucleo dell’intreccio è, nel reparto donne dell’ospedale, il momento in cui Ussoni riconosce la cugina, ricoverata in stato di choc (scena 5). Nel racconto di Livia malata all’interlocutore Ussoni, sotto il segno dunque di una duplice memoria, melodrammatica ed epica (a partire dalla scena 8), l’incontro tra la contessa e il tenente austriaco Weil viene previsto solo come scena 12 e inserito sotto forma di flashback con il titolo «Complesso Teatro La Fenice. Interno notte». Va notato che la sceneggiatura prevede un «continuo rapporto tra la situazione sul palco [l’intervento di Livia presso l’ufficiale sfidato dal suo cugino] e quella del melodramma che si sta svolgendo [il finale del terzo atto e l’inizio del quarto atto del Trovatore, ossia l’appello alle armi]». Il rapporto, però, non deve limitarsi al parallelismo storico tra due epoche e due tirannidi, bensì concernere tanto la tipologia dei personaggi quanto la sfasatura tra impegno patriottico e passione: «Livia accenna alle smanie degli “eroi” dell’opera, ed è turbata dallo sguardo di Hans». Le virgolette della sceneggiatura sono una spia del dissenso manifestato dagli autori della sceneggiatura rispetto alla percezione ottocentesca (sono in cinque a collaborare e non è ricavabile con esattezza quale sia stato il ruolo di ognuno in quella fase del lavoro8): in7 Cfr. Senso, a cura di G. B. Cavallaro, Cappelli, Bologna 1977 (I ed. 1955). Le successive frasi citate si trovano a p. 44. 8 Ivi, p. 10; dice Suso Cecchi d’Amico: «Consegnato questo soggetto-trattamento passammo alla fase di sceneggiatura. A questo punto, oltre Bassani, che Visconti ed io

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dicano comunque il legame semantico, oltre che funzionale, tra il personaggio del film e quelli dell’opera messa en abyme. In seguito, nella seconda sceneggiatura, intitolata Uragano d’estate, che risulta dalla collaborazione tra i soli Visconti e d’Amico, la scena viene anticipata: «6. Complesso Teatro La Fenice. Interno notte. Il Trovatore. Manrico canta “Di quella pira”. Poi come 12 sceneggiatura precedente»9. L’aggiunta del riferimento alla romanza corrisponderà, nel continuity, all’accentuazione del parallelismo tra la storia narrata sul palcoscenico (Manrico si precipita a salvare Azucena dal rogo) e lo svolgimento della trama nel film (l’appello alla liberazione dal giogo austriaco): un carrello a destra sul tenore che avanza fino alla ribalta è seguito da una panoramica a destra che scopre gli ufficiali austriaci e gli spettatori civili. Innestandosi sull’azione teatrale, l’azione filmica la ripete – la ripetizione significa similitudine e differenza insieme – e la prolunga: l’appello alla libertà, racchiuso nei limiti spaziali del palcoscenico, travalica la quarta parete in un “effetto di reale” che investe la sala. Ovviamente, occorre ribadire che ciò che viene prodotto da questo procedimento di scrittura è un “effetto di reale” e non è mai una “impressione di realtà”: ma, all’interno della duplice rappresentazione, il plot sembra diventare “Storia”. È, però, sin dall’inizio, un’effettuazione della Storia marcata da un rischio di scacco: perché Ussoni, inquadrato in mezzo campo lungo, avanza proprio quando il coro degli armati canta «All’armi!» (il grido è ripetuto undici volte nel coro), sicché lo spettatore di Senso – in base a quello che sa del mancato tentativo dell’ufficiale spagnolo nel XV secolo rappresentato nel Trovatore – sarà portato ad anticipare il fallimento dell’azione patriottica dei Veneziani nella “realtà” del 1866. Così come, nella “distanza” (usiamo l’accezione brechtiana del termine) che si stabilisce tra le temporalità diverse della finzione lirica e della finzione filmica, questo stesso spettatore può trovare l’occasione critica di una riflessione sul fallimenavevamo richiesto, entrarono a far parte delle riunioni di prima sceneggiatura Giorgio Prosperi e Carlo Alianello che ci furono proposti dalla Lux». Dopo aver descritto la funzione di consulente storico svolta da Alianello, la d’Amico conclude che il lavoro fu compiuto a due: «fra Visconti e me». 9 Ivi, p. 61.

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to storico trasferibile fino all’epoca contemporanea: e Visconti stesso ha spiegato la possibilità di una doppia lettura del film, riferibile sia al 1866 (una guerra fatta male, da una classe dominante e senza il sostegno del popolo) sia al 1954 (il popolo ridotto al silenzio dall’egemonia politica della Democrazia cristiana). La mise en abyme, che attraverso il cinema rivisita l’opera lirica, diventa così l’occasione di un rapporto dialettico: dimostra quanto sia possibile innestare un linguaggio del presente anche su un’arte che, per quanto possa essere ritenuta “tradizionale” e “convenzionale”, rimane densa della cultura di un popolo. Rivela anche l’importanza del contributo di Visconti all’ammodernamento del teatro lirico nel Novecento e, nel 1954, ricollega Senso alla volontà unitaria della poetica di Visconti, che si manifesterà quando, nel dicembre del 1954, egli realizzerà per il Teatro alla Scala la sua prima regia lirica (La vestale di Spontini) e quando si cimenterà per la prima volta con l’opera di Verdi (La traviata, interpretata da Maria Meneghini Callas, nel 1955 e nel 1956). Tornerò in seguito sull’argomento. Nel continuity (quando la tensione creativa è volta principalmente verso il doppiaggio e dunque verso gli elementi sonori) e a film girato, si amplifica l’articolazione tra i diversi sistemi espressivi. Visconti, si sa, aveva una grande competenza musicale10. Ne nacque, nelle regie per il teatro lirico, un grande rispetto del “testo” (libretto e musica): spendeva ore nello studiare le partiture insieme al direttore d’orchestra – va ricordata la testimonianza di Carlo Maria Giulini che documenta il rigore del lavoro su Verdi; aveva specifiche esigenze riguardo alla disponibilità dell’orchestra e dei cantanti per delle prove sul palcoscenico stesso – si pensi al suo rifiuto di certe proposte che non consentivano tale preparazione11. Ora, in 10 Basti ricordare che, in giovinezza, Visconti studiò il violoncello col maestro De Paolis, teoria musicale, solfeggio e armonia con il professor Perlasca e che, in età matura, si mantennero intatti la sua conoscenza delle opere e il suo orecchio. Si veda, per esempio, tra le numerose testimonianze dei suoi collaboratori musicali, quella di Franco Mannino del 16 ottobre 1979, a Torino, durante una conversazione con Gianni Rondolino. Cfr. G. Rondolino, Luchino Visconti, UTET, Torino 2006, pp. 11, 584. 11 Cfr., per tutti questi dati: Visconti e il suo lavoro, a cura di C. d’Amico de Carvalho, Electa, Milano 1981 e C. d’Amico de Carvalho, Viscontiana. Luchino Visconti e il melodramma verdiano, Mazzotta, Milano 2002.

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Senso, Visconti, da grande conoscitore di lirica12, ricupera un uso d’obbligo per i tenori di forza nel cantare il verso «O teco almeno corro a morir»: quel Do sovracuto detto “di petto” e interpolato tra le strofe che, in realtà, nel Trovatore, non è parte integrante della pagina di Manrico (tenore lirico)13. Il dato significativo, allora, è la scelta fatta dal regista di strappare l’esecuzione della cabaletta ottocentesca al convenzionale, inopportuno e magari anche volgare effetto musicale: l’abbinamento codice sonoro (il rito)/codice filmico (il carrello a destra) le conferisce un significato altro. La voce del cantante e il movimento di macchina uniscono tempo e spazio in un medesimo allungamento del ritmo che, collegando lirica e cinema, sposta il funzionamento del discorso filmico in una direzione metafilmica: serve così da commento alle due arti e – forse – restituisce al regista quel minimo di libertà che, nella musica, solo i tempi consentono. Infine, la definitiva collocazione della scena Teatro La Fenice come scena 1, trovata solo durante la lavorazione al film e registrata nel continuity dialogues, e l’inserimento nello spazio del teatro della ribellione che originariamente si svolgeva in piazza, palesano l’importanza che riveste l’esordio. Inoltre, scomparso nel film girato un episodio previsto dalle prime sceneggiature – quel finale a due nella cella della fortezza che rivisitava la scena 2 dell’atto quarto del Trovatore –, la costruzione diventa lineare. Quando poi il «commento musicale» della sinfonia n. 7 in Mi maggiore di Anton Bruckner insiste sulla decadenza («E un intero mondo sparirà. Quello a cui apparteniamo tu ed io», dice Franz a Livia nella sequenza di Verona, rullo 141542), il film si struttura da dramma in musica; e le azioni si organizzano secondo un inesorabile processo di degradazione in quattro fasi: innamoramento, amore, tradimento, morte. La cadenza in quattro 12 Gli Erba, cioè la famiglia materna di Luchino, erano tra i principali mecenati che finanziavano la Scala e avevano il loro palco proprio sull’orchestra. «Io sono cresciuto tra i palcoscenici», affermò Visconti (citato in L’ultimo Visconti, a cura di C. Costantini, SugarCo, Milano 1976, p. 38). 13 Quel Do sopra il rigo divenne d’obbligo dopo la prestazione “eroica” del tenore francese Gilbert Duprez nella parte di Arnold (nel Guglielmo Tell di Rossini, 1837).

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“atti” diventa allora uguale a quella del Trovatore, ovvero del melodramma che, secondo una testimonianza di Franco Zeffirelli, suggerì a Visconti nel 1952 la prima idea di Senso. Le scene del Trovatore inserite all’inizio del film valgono in questo caso da epigrafe: la sequenza Teatro La Fenice – anche se l’illuminazione è dovuta a Robert Krasker, cioè al fotografo che, fra i tre operatori del film, si dimostrò più attento all’esposizione e alla resa tecnica del colore e meno sensibile all’atmosfera della scena14 – proietta su tutta la storia il segno della morte15. Perciò le inquadrature applicate con valore simbolico al melodramma “contenuto” vengono ripetute per il melodramma “contenitore”. Basterà, tra tanti possibili, allegare un solo esempio: l’angolazione dall’alto che annuncia la disfatta del casto amore (quando Leonora esce di campo dopo la prima parte della romanza) e la morte dell’eroe (mentre Manrico viene circondato dai suoi fidi per prepararsi a combattere, il coro canta: «Eccone presti a pugnar / o teco o teco a morir») è ripresa nella sequenza di Aldeno per suggerire la prossima separazione di Livia e Franz o, in altre parole, la disfatta della passione sensuale della donna e la fucilazione dell’eroe degradato. Si noti, però, che l’intenso legame semantico fra Il trovatore e il film non mira a creare nello spettatore del film un’emozione di tipo empatico, bensì ad aprire la distanza critica che fonda la percezione di un’idea. Giacché il melodramma teatrale scelto a fondamento del film, e che corrisponde all’emozione personale di Visconti – «La mia epigrafe potrebbe essere: Cechov, Shakespeare e Verdi», dichiarava Visconti nel 196416–, genera un’emozione di tipo didattico. E se, nel 1953, il lavoro di Visconti sulla novella di Boito, insieme a Suso Cecchi 14

Cfr. Cavallaro (a cura di), Senso, cit., pp. 202-3: il fotografo più attento a ritrarre l’atmosfera della scena e gli stati d’animo dei personaggi era invece G. R. Aldo (pseudonimo di Aldo Graziati). L’operatore alla macchina era Giuseppe Rotunno. 15 Occorre ricordare la risposta di Verdi quando, nel 1853, i critici avevano lamentato gli aspetti violenti e sinistri della trama del Trovatore: «Dicono che quest’opera sia troppo triste e che vi siano troppe morti. Ma infine nella vita tutto è morte! Cosa esiste?». Lettera di Verdi alla contessa Maffei, citata in C. Osborne, Tutte le opere di Verdi, trad. it. di G. Tintori, Mursia, Milano 1975, p. 241. 16 Intervista a Luchino Visconti, a cura di Sylvie Marion (1964), in Leggere Visconti, a cura di G. Callegari e N. Lodato, Amministrazione Provinciale di Pavia, Pavia 1976, p. 103.

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d’Amico e Giorgio Bassani, rimane connesso al suo interesse per il grande romanzo ottocentesco (La Chartreuse de Parme e Guerre et paix echeggiano in Senso), la riflessione di Visconti sul teatro musicale si riallaccia all’ispirazione di Verdi stesso che, scrivendo contemporaneamente le due partiture, termina La traviata (creata alla Fenice il 6 marzo 1853) solo poche settimane dopo la prima del Trovatore (il 19 gennaio 1853). Il «Viva Verdi» gridato dalla sala, in questa prima scena di Senso, vale dunque non solo come anelito all’Unità (l’anagramma ben noto sul nome del compositore), ma anche come interiorizzazione dell’azione storica nel lirismo bassoromantico delle passioni, come affermazione dello stretto legame tra privato e politico (il motivo porterà fino a La caduta degli dei del 1969 e a Ludwig del 1973). Tale caratterizzazione dei personaggi come eroi decaduti viene confermata dalle repliche, quando, alla fine della sequenza, Livia tenta di dissuadere Franz dal duello con Ussoni («Ma sì, a me [l’opera] piace molto. / Non mi piace quando si svolgono fuori scena... / [...] né che ci si possa comportare come un eroe da melodramma»). Il melodramma è quindi accettato (e rivisitato) in funzione non decorativa, ma drammatica e ideologica, a conferma di un mondo in sfacelo: «Verdi e il melodramma italiano sono stati il mio primo amore. Quasi sempre la mia opera emana qualche tanfo di melodramma. Mi è stato rimproverato, ma per me è piuttosto un complimento»17. Fondare lo sguardo sulla storia del Risorgimento nel melodramma significa, in Senso, rifiutarsi di liquidare il mondo dei miti, nel senso moderno (barthesiano) della parola. Non implica in Visconti una regressione ideologica, ma la fedeltà al mondo poetico dell’epoca ritratta e a una componente tuttora attiva della sua cultura: ragione per cui accanto all’importanza creativa concessa all’ispirazione verdiana si aggiungono molte suggestioni pittoriche (fra tante altre: il romanticismo di Hayez e il realismo dei Macchiaioli fiorentini). Lo storicismo critico di Visconti mira a ritrovare la sensibilità ottocentesca e la precisa cura nella scelta di ogni minimo particolare degli ambienti, arredi, costumi ecc. compone una scenografia spettacola17

Luchino Visconti in “La table ronde”, maggio 1960; ora citato in A. Bencivenni, Luchino Visconti, La Nuova Italia, Firenze 1982, p. 8.

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re, e per niente appariscente, dotata di una funzione spirituale che, spesso, approfondisce i dati e i significati della trama. Teatralizzare (melodrammatizzare) la storia risorgimentale, lungi dall’essere una mancanza di realismo da parte del regista (si sa quante volte egli dovette subire questa accusa!), costituisce insomma una diagnosi storica su una forma di aspirazione all’eroismo che distrae da quello che si chiama “realtà” e porta allo scacco storico (si noti che Ussoni, nel momento di andare a combattere, afferma: «non ho paura di essere retorico»). Denota, inoltre, la volontà di insistere su quanto, in ogni fase storica nuova, permane della cultura del passato: la via interpretativa che condurrà al Gattopardo è aperta. La chiarificazione di poetica che nasce dall’integrazione dell’opera lirica nel film porta anche a capire le risposte di Visconti per difendere l’integrità della sua opera di fronte ai tagli richiesti dalla produzione18 prima che il film andasse in doppiaggio. I tagli accettati con relativa facilità da Visconti furono solo quelli di matrice letteraria oppure le scene d’azione. Risulta particolarmente interessante, invece, il rifiuto di tagliare circa quindici metri nella sequenza Teatro La Fenice. Di fronte alla richiesta del 13 aprile 1954, poi ripetuta il 1° giugno dopo la presentazione del film a Venezia («Al rientro di Livia nel palco tagliare ancora parte dell’azione dei cantanti sul palcoscenico»), è un argomento apparentemente tecnico – il rispetto integrale dei tempi della partitura verdiana tra l’alzata di sipario e l’inizio dell’aria a solo di Leonora nell’atto quarto – a servire da schermo per difendere ciò che è, in realtà, una scelta narrativa e formale densa di significati. Visconti risponde: «L’azione dei cantanti è infatti legata all’alzata di sipario vista nello specchio con Livia in campo, e dal piano Franz e Livia con Leonora di fondo durante il dialogo dei due protagonisti»19. Se lo specchio, come in tanti altri casi nella filmografia del regista, permette di non far coincidere il punto di vista dello spettatore con il punto di vista di un per18 Visconti subì, da parte della produzione e delle autorità politiche, pressioni censorie che miravano a proporre un prodotto commercialmente e ideologicamente accettabile dal pubblico medio. 19 Cavallaro (a cura di), Senso, cit., pp. 197-201.

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sonaggio, l’inquadratura delimita un campo nel campo e, duplicando lo spazio, scava il tempo. Livia che si guarda nello specchio del palco mentre si alza il sipario per l’atto quarto o che, seduta in primo piano, tenta di convincere Franz a rinunciare al duello, mentre sul palcoscenico Leonora canta la sua angoscia e il suo amore, è, nello sguardo dello spettatore del film, assimilata all’attrice: solo che la doppia natura cantante/personaggio diventa la spia della personalità radicalmente scissa di Livia. Se, certo, la mise en abyme del teatro ad apertura del film riassume molte ragioni compositive di matrice autobiografica (la passione per l’opera del giovane Luchino, la suggestione raccontata da Zeffirelli, il pensiero dominante della morte...), conviene comunque esaminare anche l’effetto programmato di questa teatralizzazione iniziale nella ricezione del film. La volontà di Visconti – messa in atto sin dalle sue prime regie teatrali (si pensi agli arredi e alle illuminazioni dei Parenti terribili al Teatro Eliseo nel 1945) – di «smuovere il pubblico, smuovere le acque»20 esige di colpire sin dal levarsi del sipario. Ma in Senso non si tratta di costringere lo spettatore allo choc di un tema “dinamitardo” o di scene realistiche: l’intento è di provocare in esso un’attività ermeneutica che, senza contrastare il “piacere” estetico, apra ad una riflessione più ampia. Quello che i primi fotogrammi del film proclamano, in un’immagine stratificata che vale da manifesto poetico, è il carattere unitario dell’intento artistico: dopo il fondu nero d’apertura, appare in campo lunghissimo il palcoscenico della Fenice dove si svolge l’atto terzo del Trovatore e, sulle immagini della rappresentazione lirica, si susseguono in sovraimpressione i titoli di testa in dissolvenza incrociata. Il teatro si presenta tramite il suo simbolo maggiore, il sipario di velluto rosso con le dorature della passamaneria, che afferma il rito sociale e le modalità della fruizione spettatoriale. Dice Visconti: L’opera, quando ero ragazzo, era lo spettacolo per antonomasia. Andare all’opera era ancora come essere immersi nell’Ottocento. Per me, 20

Cfr. Il teatro di Visconti (scritti di Gerardo Guerrieri), a cura di S. Geraci, Officina Edizioni, Roma 2006, pp. 28, 44.

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il sipario della Scala, tremolante prima dell’inizio dello spettacolo, il preludiare degli strumentisti, rappresentavano l’anticipazione di ogni piacere. Avevamo il palco proprio sull’orchestra: stavo lì in ansia per la curiosità di sapere quello che sarebbe accaduto una volta tirata la tela. Quel piacere, devo dire, il cinema non riesce a supplirlo. Non mi piace tornare a vedere un film che ho già visto: Il trovatore invece l’ho visto e sentito tantissime volte.

Il piacere del bambino, legato alla sorpresa della trama, è stato ovviamente sostituito, in base alla cultura musicale dell’adulto, dal piacere legato alla variazione nell’interpretazione e al carattere effimero e irripetibile dello spettacolo teatrale. Quanto al cinema, che si innesta sulla rappresentazione operistica, esso si presenta tramite le indicazioni della sua fabbricazione artigianale e collettiva (i titoli) e l’insistenza sui codici filmici. Partecipa così della concezione viscontiana di una natura peculiare del cinema: Cinema, teatro, lirica: io direi che è sempre lo stesso lavoro. Malgrado l’enorme diversità dei mezzi usati. Il problema di far vivere uno spettacolo è sempre uguale. C’è più indipendenza e libertà nel cinema, ovviamente, e nel cinema il discorso diventa sempre molto personale: si è molto più autori facendo un film, anche se si tratta di un film di derivazione letteraria. Ma bisogna anche dire che il cinema non è mai arte. È un lavoro artigianale, qualche volta di prim’ordine, più spesso di secondo o di terz’ordine. Prendiamo un film che io amo moltissimo, Monsieur Verdoux di Chaplin: è il prodotto di un geniale uomo di cinema, tuttavia resta inevitabilmente condizionato dal fatto tecnico. Anche il mio secondo lavoro cinematografico, La terra trema, è certo un film importante. Purtroppo, è solo un film. È anche un prezioso documento, certo, ma troppo legato a degli elementi strumentali per essere un assoluto prodotto artistico. Un’opera d’arte figurativa, oppure un poema, questi sono fatti assolutamente artistici, perché non sono mai condizionati da nulla21.

Come dunque si esprime l’autore-artigiano? Il film inizia, da “tea21

L. Visconti, La mia carriera teatrale, in “L’Europeo”, nn. 13-14, 1966; ora raccolto in Callegari, Lodato (a cura di), Leggere Visconti, cit., p. 62.

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tro filmato”, con l’adottare il punto di vista dello spettatore che siede in platea (ripresa frontale con, visibili, la fossa dell’orchestra e la buca del suggeritore)22. Viene così restituita allo spettatore del film la percezione della staticità che, nell’Ottocento e fino all’ammodernamento degli anni Cinquanta – ad opera di Visconti e di Strehler –, era la regola di funzionamento del palcoscenico lirico: quando i dati spaziali non erano presi in considerazione e si limitavano per lo più a qualche minima indicazione per la collocazione dei cori o dei cantanti davanti al fondale dipinto, quando la gestualità degli attori era ridotta a qualche gesto convenzionale e agli spostamenti resi indispensabili dal libretto. La convenzionalità attorale del soprano e del tenore diventa, allora, un segno di verità storica (o storicistica) che ricollega l’intento espressivo agli inizi del realismo del regista: da ciò la frequente evocazione del legame tra Ossessione e Senso, pertinente se non usata in chiave contenutistica ed emotiva, bensì come caratterizzazione stilistica. E, soprattutto, la ricostruzione del melodramma ottocentesco (inevitabilmente inventata anche se accuratamente documentata) vale, per Visconti stesso come pure per lo spettatore colto e preparato, da controfigura per far percepire la modernità del lavoro registico di Visconti nel teatro lirico: quando, con La vestale (1954) e La traviata (1955), Visconti seppe – al di là dello choc che costituì per il pubblico la scoperta della sensibilità tragica oltre che del temperamento vocale della Callas – imporre un modello di integrazione efficace tra gli elementi drammatici (testo, spettacolo) e quelli musicali23. La dichiarazione su cosa sia per Visconti una regia nuova per la lirica nasce anche dalla contrapposizione fra tradizione e modernità che la mise en abyme inscena24. 22

Il film è tutto retto da un sistema di focalizzazione esterna, con cinque soli esempi di focalizzazione interna, tre per Livia e due per Franz. 23 Per via di questo suo valore relativo alla concezione dello spettacolo, e non solo di natura ideologica, si capisce perché lo scandalo generato dal film (si consideri l’assenza delle autorità alla presentazione ufficiale e le pressioni sulla giuria durante la Mostra di Venezia) risultò uguale per le due ulteriori messinscene liriche (si vedano le accese polemiche all’apertura della stagione della Scala). Cfr. Rondolino, Luchino Visconti, cit., capp. VII e VIII. 24 Ovviamente, pur tenendo conto delle variazioni dovute all’evoluzione cronologica di una poetica personale e dell’orizzonte di attesa degli spettatori, risulterebbe mol-

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Gli ulteriori spostamenti della macchina da presa, cambiamenti di punto di vista e di angolazione acquisiscono perciò un rilievo maggiore; definiscono il cinema come arte visiva del movimento, senza nondimeno estraniarlo dal teatro: la sovraimpressione non è affatto un espediente per conferire ai titoli qualche narratività, ma un riassunto della congenialità tra i due mezzi, seppur colti entrambi nella loro specificità. Va di nuovo citata l’affermazione di Visconti: «cinema, teatro, lirica: io direi che è sempre lo stesso lavoro [...]. Il problema di far vivere uno spettacolo è sempre uguale». Ora, «far vivere» non significa solo creare, ma anche destinare l’arte. Perciò, tramite la panoramica che, travalicando la quarta parete del teatro all’italiana, porta dal palcoscenico alla sala dove si trova il pubblico en abyme, viene palesata la separazione iscritta nello schermo per il pubblico reale: viene dunque manifestata, otticamente, la problematica della «distanza dallo spettatore»25 per via della quale si differenziano ancora teatro e cinema. Concludendo, in modo provvisorio (perché la profondità dell’opus di Visconti e il mare di saggi critici sull’artista costringono alla massima prudenza!), mi pare che l’analisi della mise en abyme permetta nondimeno di capire come, a partire da un’idea prima che egli sviluppa e matura (la tonalità mutuata dal melodramma), Visconti realizzi, con un metodo concreto e un esigente impegno, Senso. L’arte vi nasce da una specie di artigianato collettivo e non gerarchico, in cui ogni minimo elemento conta perché partecipa della costruzione globale del significato (da cui le «mille lire per ogni cannonata» di cui si lagnava uno dei produttori). E si può, in proposito, ricordare la definizione che il regista diede del proprio lavoro per Senso: «le film est là, presque complet, dans son allure définitive et spectaculaire. C’est un film auquel nous avons tous, indistinctement, apporté notre ferveur convaincue, nos capacités individuelles, notre sincère effort d’artisans consciencieux. Ce serait ça, le “style”. Le réto interessante confrontare questa scena di Senso con l’ulteriore interpretazione viscontiana per Il trovatore, cioè le due regie del 1964: quella del Bol’&oj (direzione Gianandrea Gavazzeni) e quella del Covent Garden (direzione Carlo Maria Giulini). 25 Cfr. Cinema e teatro, a cura di G. Calendoli, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1957, p. 349.

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sultat d’une méthode de travail»26. L’intersezione tra melodramma e film ha consentito una ricostruzione insieme filologica e critica dell’Ottocento, che vale da interpretazione politica del periodo e da bilancio dell’arte coeva, e che si rivela, inoltre, atta a far sorgere una riflessione sul presente. Il film è diventato come un crogiolo di realismo critico e di piacere estetico. L’arte (le style) ha la concretezza e la tecnicità dell’artigianato, e in ciò si rivela la sua essenzialità. Ma la definizione della poetica filmica di Visconti per mezzo del congiungimento con un’altra arte significa anche, da parte dell’autore, la volontà di trovare un principio di coerenza in seno alle differenze. Non si tratta tuttavia, come nell’estetica romantica, filosofica o umanistica contestata da Adorno, di operare una pseudosintesi delle arti che approdi all’Arte (il concetto invariabile di arte)27. La mise en abyme viscontiana afferma una capacità delle arti a dialogare tramite le loro forme diverse – diverse ma senza nessuna estraneità – e, in base alle loro corrispondenze, ad aprire lo spazio dell’intelletto al di là dell’emozione. Ugualmente visivi, teatro e cinema sono separati dal modo dissimile in cui creano per lo spettatore immagini dello spazio e del tempo. Allora, forse, si capisce perché Visconti fu simultaneamente, e con lo stesso impegno, regista di teatro e di cinema, ma rifiutò sempre di fissare, ossia imprigionare, l’effimera emozione del teatro. Si spiega anche perché egli fu un commentatore relativamente parco delle proprie creazioni: i film – riproducibili, come teorizzato da Benjamin, e quindi sempre a disposizione del pubblico – sono la sua globale dichiarazione di poetica, una dichiarazione di poetica in atto.

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L.Visconti, Question de style, in “Cinema”, n. 136, giugno 1954. Adorno critica, anche per ragioni ideologiche, il presupposto che porta alla sintesi delle arti, dandogli il nome di «pseudomorphose». Cfr. L’Art et les arts (1967), in Th. W. Adorno, L’Art et les arts, par J. Lauxerois, Desclée de Brouwer, Paris 2002, pp. 43-74. 27

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Stefano Della Casa*

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Il segreto di Luchino Visconti

La mia relazione sarà molto meno dotta e molto più circostanziata di quelle che mi hanno preceduto e che mi seguiranno. Un espediente facile è il titolo, nel senso che “il segreto di Visconti” in realtà non esiste. Non ci sono segreti da raccontare sulla vicenda cinematografica, personale, umana di un regista che è tra i più conosciuti in Italia e nel mondo, sul quale sono stati scritti molti saggi, sono stati realizzati montaggi, interviste, elaborazioni, approfondimenti e tutto quanto si possa pensare di fare su ogni singolo film così come sull’opera omnia. Tuttavia, l’idea che Visconti avesse un segreto mi è venuta in mente leggendo un articolo apparso sul “Giornale d’Italia” il 25 settembre 1975, intitolato In guardia Giannini!: Volgono al termine le lezioni di scherma per Giancarlo Giannini, protagonista de L’innocente, il nuovo film che Luchino Visconti, ormai completamente ristabilito dalla rottura del femore, ha tratto dall’omonimo romanzo di D’Annunzio. Il maestro d’armi Enzo Musumeci Greco è contento del suo allievo, infatti dice: “Giannini è particolarmente dotato per la scherma. Sia ben chiaro – assicura poi – che non lo dico per piaggeria, ma perché ho riscontrato nell’attore delle doti non comuni da ginnasta”.

Il duello che Giannini dovrà fare è ambientato nel 1890; si tratta dunque per il maestro Musumeci Greco di impostare il suo celebre allievo nell’arte di usare l’arma secondo le tecniche del tempo. * Film Commission del Piemonte.

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Il maestro Musumeci Greco conobbe Visconti nel 1939, sul set di Tosca, quando il regista era assistente di Jean Renoir. In seguito collaborò con il regista in un lavoro teatrale con Rina Morelli. «Enzo – gli disse Visconti dandogli la sceneggiatura riguardante le scene di scherma – questo è davvero affar tuo». Da allora iniziarono le lezioni con Giannini, come abbiamo visto, e l’attore diede molto con la sua allegria e la sua vitalità, venendone ripagato con la disciplina. Del resto Musumeci Greco e Giannini già si conoscevano per aver partecipato, l’uno come maestro d’armi l’altro come interprete, al film di Marcello Fondato A mezzanotte va la ronda del piacere (1975), circostanza per cui il maestro fa notare la disinvoltura con la quale attori guidati da lui si scambiavano sonori ceffoni e sgambetti senza farsi neppure un graffio, fino a cadere da divani, poltrone e cigli di fossati rimanendo incolumi. L’articolo citato si presta subito ad alcune considerazioni. Innanzitutto, Visconti si era forse ristabilito dalla rottura del femore ma, com’è noto, non visse poi molto a lungo dopo l’uscita di questo articolo; il fatto che si fosse «completamente ristabilito», dunque, letto oggi, suona quasi sinistro. La seconda considerazione riguarda i «sonori ceffoni» che gli attori si prendono e per i quali Musumeci Greco era famoso. Su questo l’articolo è quasi completamente inesatto, anche considerando il fatto che i «sonori ceffoni» non li prendevano gli attori ma le controfigure. In particolare, una controfigura che prendeva abitualmente «sonori ceffoni» – la stessa peraltro che prende gli schiaffi al posto di Monica Vitti in Amore mio aiutami (1969) – è poi diventata famosissima come cantante: Fiorella Mannoia, che appartiene a una famiglia di cascatori del cinema italiano e che, da allora, rifiuta qualsiasi intervista su questo argomento. Un’altra inesattezza dell’articolo riguarda il fatto che Giancarlo Giannini tirasse di spada nel film. In realtà, per quasi tutto il film Giancarlo Giannini non tira mai di spada e, se si guarda con attenzione L’innocente (1976), si nota che i primi piani sono montati su campi lunghi in cui, giocando sul fatto che la scherma si pratica mascherati, a prendere il suo posto era una persona con un fisico com-

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pletamente diverso: il figlio del maestro Musumeci Greco, Renzo, che attualmente fa egli stesso il maestro d’armi. Da un’intervista realizzata con Musumeci Greco, che ha esordito nel cinema nel 1936 e ha continuato a lavorarci fino al 1992, anno della propria morte, la questione della controfigura risulta essere uno dei maggiori motivi di rinvio sine die dei tempi di lavorazione del film L’innocente, perché Visconti non voleva che ci fosse una controfigura, voleva che Giannini e gli altri interpreti fossero loro stessi a tirare di spada. Solo a un certo punto si arrese sul fatto che altre persone prestassero il proprio corpo e le proprie movenze schermistiche al posto degli attori “titolari”. E Musumeci Greco fornì anche una spiegazione di ciò: pare che, in realtà, Visconti odiasse le controfigure per un motivo personale. Il regista possedeva una bellissima villa sulla via Salaria, dove visse per lungo tempo con Helmut Berger, il quale usava un cameriere come controfigura di se stesso per allontanarsi da un’uscita secondaria e sfuggire alla “reclusione” che Visconti gli imponeva nella vita privata. Visconti, accortosene, sviluppò una idiosincrasia personale per chi prestava il proprio corpo ad altri. Del resto, il documentario di Giorgio Treves mostra quanto il rapporto con Helmut Berger sia stato fondamentale per le scelte, anche artistiche, compiute negli ultimi anni da Luchino Visconti. A permanere come interrogativo, anche per quanto riguarda tale aspetto, è la questione relativa alle scene d’azione presenti nei film in costume firmati da Luchino Visconti: essenzialmente Senso (1954), ma anche altri film in cui si ricostruiscono situazioni nelle quali si vedono scene in movimento, persone che combattono, che sparano (come avviene anche nel Gattopardo, 1963), coreografie di singoli attori o d’insieme, per grandi masse. Era un’altra caratteristica che piaceva molto a Visconti ed era “intrinseca” alle ricostruzioni dei suoi film in costume, una componente fondamentale: costituiva un grande impegno dal punto di vista produttivo, ma anche dal punto di vista delle scelte interne alla sua attività, della sua concezione del set di un film. La costruzione delle scene di massa di Visconti differiva completamente da quella condotta nella maggior parte dei film in costume

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italiani, dato che in Italia riguardo alle scene in costume sostanzialmente ci sono sempre state due scuole. Una di queste derivava il proprio essere dalla librettistica d’opera: l’ambientazione in costume era il valore aggiunto che si dava al film, nel quale non si prevedeva nessun momento d’azione e nessuna scena collettiva, ma si preferiva ricorrere a sovrimpressioni o a racconti di persone che narravano battaglie o duelli avvenuti, accennando solo brevemente a cosa poteva essere accaduto nel frattempo. L’esempio migliore di questo tipo di film è un grande successo commerciale ormai completamente dimenticato: Genoveffa di Brabante del 1946, film abbastanza curioso girato da Primo Zeglio, specializzato nei film in costume, nel quale tra l’altro si prendeva una coppia celebre del cinema neorealista come Gar Moore ed Harriet White, tra gli interpreti principali di Paisà (uscito quello stesso anno), e li si faceva diventare cavaliere e damigella del Medioevo. In quel film, che è comunque un film di cappa e spada, ma in cui non c’è una sola scena di duello, Primo Zeglio si vantava di aver costruito un’intera scena di caduta da cavallo senza il cavallo, riuscendo cioè a far cadere Gar Moore da un cavallo che non c’era. In un’epoca senza computer, questo richiedeva anche un certo virtuosismo tecnico... Lo stesso anno uscì un altro film di cappa e spada fatto in maniera completamente diversa: Aquila nera di Riccardo Freda, che invece aveva un gran numero di comparse, che erano poi i carabinieri a cavallo dell’epoca; tra questi c’erano anche i fratelli D’Inzeo, diventati poi famosi come cavallerizzi e agenti di forza pubblica, nonché il padre di Daniele Gaglianone. Era un film in cui l’azione era molto “all’americana”: tutta in esterni, al Castello di Odescalchi sul Lago di Bracciano, con una grande visualità e una scelta di ritmo narrativo molto concreta, la stessa scelta che faceva per esempio Alessandro Blasetti in molti suoi film in costume – come Un’avventura di Salvator Rosa (1939) –, in cui utilizzava molto queste scene d’azione. La cosa curiosa di Visconti è che, in realtà, se non fosse decisamente superiore come resa artistica ai due registi appena citati, ne potrebbe costituire esattamente il punto d’incontro: nella costruzio-

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ne delle scene di movimento, da un lato fa grande attenzione al fatto che si salvaguardino comunque i primi piani, la recitazione, i volti e la costruzione d’insieme, per cui al centro di tutto ci sono comunque l’attore, i costumi, la visualità della scena; dall’altro ama molto – e lo dimostra per esempio nel ballo del Gattopardo – l’abbondanza di comparse, la possibilità di fare grandi scene di massa che riempiano l’occhio e creino quel “meraviglioso” intorno a cui costruire la narrazione cinematografica. Questo stare tra i due estremi opposti della cinematografia italiana in costume, quella che si rifaceva alla librettistica d’opera e quella che invece si rifaceva al grande cinema d’azione americano, è una ulteriore peculiarità di Visconti e può essere a sua volta considerata un suo segreto. Credo che, come si nota in alcune scelte di cast dei suoi film, il suo ragionare da grande regista e da autore di forte personalità, con precise idiosincrasie e una forte capacità contrattuale per potersi imporre al produttore di turno, si sposasse con la sua capacità di recepire quanto veniva fatto anche nel cinema più corrivo, d’azione, popolare. Echi di questo aspetto sono molto presenti, anche in tanta parte del suo melodramma. Come ultimo segreto di Luchino Visconti vorrei ricordare come il critico Lorenzo Pellizzari, che stimo molto, tempo fa pubblicò per Longanesi un bellissimo libro, intitolato Fotoromanzo e andato esaurito, nel quale compaiono due inquadrature prese da due film diversi girati nello stesso anno: in una c’è Alida Valli in Senso, stupenda e statuaria nel suo vestito e con sullo sfondo tutti gli oggetti presi dal vero – il che, com’è noto, costituì una precisa scelta da parte di Visconti nei suoi film, a proposito della quale sono stati scritti volumi di aneddotica anche dispregiativa nei suoi confronti, perché esigeva profumo vero, fiori veri..., piccoli tic sui quali molti ironizzavano; l’altra inquadratura ritrae invece Gaby André, madre di Carole André, nonché grande attrice del cinema francese e italiano di quegli anni, in un film di Raffaello Matarazzo che si intitola Giuseppe Verdi (1953), biografia del noto compositore lirico, peraltro molto caro anche a Visconti. Le due inquadrature sono assolutamente uguali: il taglio è esattamente lo stesso; fa impressione poi che entrambi i film abbiano un grosso punto di riferimento nell’opera liri-

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ca. La critica d’epoca, naturalmente, non solo non ebbe la stessa visione, ma nemmeno lo stesso rispetto per i due registi, che sono diversissimi tra di loro, e anche di diverso valore, ma che ebbero un trattamento assolutamente asimmetrico rispetto alla semplice soglia di attenzione prestata. Questa identità di veduta e del modo di inquadrare la donna protagonista del film, la donna in costume, la donna dentro l’opera lirica, è un altro piccolo sintomo del fatto che fra i segreti di Visconti ci fosse quello di prestare molta più attenzione di quanto si pensasse alla grande produzione del cinema popolare italiano, che in realtà ha avuto un rapporto col cinema d’autore molto più forte e significativo di quanto si creda. Ho citato prima il fatto che due interpreti di Paisà facessero contemporaneamente mostra di sé anche in abiti medioevali in film di cappa e spada, ma di esempi di questo tipo se ne potrebbero fare tantissimi, in quasi tutti i campi e con quasi tutti i nomi del nostro cinema: nemmeno Visconti sfugge a tale aspetto e questo suo segreto, a mio modesto avviso, lo rende ancora più simpatico.

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Rocco e i suoi fratelli: questioni di drammaturgia

1. Premessa: sulla strada di “Rocco” Questo contributo costituisce una tappa di un work in progress sull’opera cinematografica di Visconti a cui da anni sto lavorando. Limitatamente a Rocco e i suoi fratelli ho svolto analisi (edite o ancora inedite)1 in altre direzioni, mentre in questa sede ho voluto esplorare alcune delle molte e complesse “questioni drammaturgiche” che il film suscita. Senso (1954) costituisce per più aspetti un’opera emblematica nella filmo-teatrografia viscontiana, in quel momento giunta ad annoverare tutte le forme di regia alle quali il regista si è dedicato (cinema, teatro di prosa, teatro musicale): è il primo film a colori e il primo film storico di Visconti, ma, soprattutto, è il più evidente esempio, fino a quel momento, della messa in sintesi dei suoi maggiori interessi e delle sue principali attitudini formali e artistiche. Teatro e musica, melodramma e pittura sono fatti sapientemente confluire in quella che nel Novecento è stata la “forma delle forme”, ossia il cinema. Tutt’oggi opera paradigmatica e possibile chiave d’accesso privilegiata per penetrare nell’universo viscontiano, Senso fu seguito da un film che attua una possibile svolta o, per lo meno, si pone come un’altra possibile deriva (secondo una costante attitudine del * Università di Salerno. 1 In proposito rimando a La “televisione” di Visconti, in “Drammaturgia” (numero monografico dedicato a Visconti a cura di S. Bernardi), 7, 2000, pp. 37-52; l’altra analisi alla quale mi riferisco riguarda l’organizzazione dello spazio nel film, tema della mia conferenza dal titolo Lo spazio urbano in “Rocco e i suoi fratelli”, tenuta nel 2005 presso l’Accademia di Francia (Roma).

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regista, capace com’era di girare film per più versi assai differenti fra di loro): alludo ovviamente a Le notti bianche (1957) e alla sua dimensione di piccolo film, tutto girato in studio, privo di scene di massa, intimista e, di nuovo, in bianco e nero; ma anche primo diretto confronto cinematografico – per Visconti – con uno dei “suoi” autori, Dostoevskij. Una sorta di piccolo concerto, quasi un’opera da camera, dopo la “sinfonia” per grande orchestra (Senso), che è forse meglio definibile come un melodramma operistico in forma di film (ossia non un film-opera, ma un “oggetto” che solo un completo artista di spettacolo quale Visconti ha potuto creare). Al tempo delle Notti bianche l’attività registica di Visconti è quanto mai operosa e quando – nel corso del 1958 – il regista comincia a pensare a un nuovo film, certe regie teatrali (Uno sguardo dal ponte e Veglia la mia casa, Angelo, entrambe del 1958) sembrano portarlo sempre più verso la messa in scena di più o meno grandi storie famigliari, del resto già più volte affrontate – nel cinema con La terra trema (1948) e a teatro con le regie cechoviane (e non solo, se si pensa almeno al Cocteau di Parenti terribili, al Tennessee Williams di Un tram che si chiama desiderio e, perfino, al Giacosa di Come le foglie, con la storia della rovina della famiglia Rosani). Ma quel che diventerà Rocco e i suoi fratelli assume un ruolo e una valenza per certi versi inediti nell’opera del regista, a partire dall’idea che esso debba essere – secondo le stesse intenzioni di Visconti – un “grande romanzo cinematografico”. Visconti riteneva il melodramma musicale2 la forma più ampia e completa di spettacolo, ma credo avesse ben compreso almeno tre cose: la prima, che questa forma era divenuta – nel corso dell’Ottocento – l’equivalente moderno della tragedia antica, ossia la forma par excellence possibile nella mutazione storica di una società sempre più desacralizzata; la seconda, che un suo imprescindibile connotato popolare poteva essere, nel Novecento, recuperato dal cinema; la terza, che proprio il cinema poteva essere la forma più 2 Le osservazioni di Visconti al riguardo sono contenute nel suo Vent’anni di teatro, uscito originariamente nel 1966 come numero doppio dell’“Europeo”, e oggi sono leggibili, ad esempio, come apparati del volume di L. Micciché, Luchino Visconti. Un profilo critico, Marsilio, Venezia 1996, pp. 108-23.

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ampia e “completa” di spettacolo, nonché quella più capace – almeno nel Novecento – di coniugare “alto” e “basso”3 – come già a suo modo il melodramma –, termini assai importanti nella poetica viscontiana e sui quali tornerò. Ecco perché Senso può svolgere una funzione paradigmatica, che a mio parere di fatto svolse, portando Visconti ad affrontare altre sfide. Con Le notti bianche la sfida era stata – in particolare, e per usare più o meno l’espressione dello stesso regista – quella di valicare i confini del neorealismo, porre un deciso freno a cascami ricorrenti, nonché a una fin troppo abusata “mitologia” del neorealismo, elementi peraltro complessi sui quali non si può, in questa sede, discettare. Tuttavia, è necessario fare almeno un richiamo alla componente etica o, meglio, a quel connubio di etica e di estetica che aveva senz’altro costituito il quid del neorealismo – e in particolare delle sue espressioni cinematografiche più alte, fra le quali La terra trema –, connubio che a Visconti doveva apparire, alla metà degli anni Cinquanta, slabbrato nelle sue componenti “originarie”. Con Rocco la sfida sembra essere quella di trovare un equivalente cinematografico della “forma-romanzo”, ossia dimostrare che il cinema può ambire a elaborare – anche sul piano drammaturgiconarrativo – una forma complessa quanto quella letteraria. Altri registi – ad esempio Antonioni – avevano provato un’operazione simile, ma con altri intenti, pressoché scevri da interessi “narrativi” in senso stretto: ossia avevano tentato di far “dire” alle loro inquadrature e di far assumere ad esse lo stesso spessore, anche di tipo introspettivo, che un romanziere – soprattutto se coevo, ad esempio Joyce – riuscisse a ottenere con quella che, mutatis mutandis, era pur sempre una “forma-romanzo”. A Visconti, come per più versi a Kubrick, la “trama” in senso canonico, come esito di vari elementi (da una solida struttura narrativa al profondo disegno dei personaggi), 3

Sul rapporto, ben poco indagato, tra “alto” e “basso” in Visconti mi permetto di rimandare alle osservazioni che ho proposto in Sublimi abissi. “Alto” e “basso” nel cinema di Visconti: idee per una scrittura, in La trama del tempo. Reti di saperi, autonomie culturali, tradizioni. Studi in onore di Sergio Bertelli, a cura di R. Mancini, Carocci, Roma 2005, pp. 227-33.

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e dunque come struttura che deve dare solidità, interessava molto, tanto che Visconti e Kubrick sono, ciascuno a suo modo, fra i grandi creatori di forme cinematografiche, coloro che più hanno sentito l’esigenza di affidarsi a un pre-testo letterario, di tipo diverso, ma evidentemente segno di un legame profondo con la forma più complessa – anteriore al cinema – di combinazione tra “narrativo” e “visivo”.

2. Verso una forma complessa La struttura che il film assume è quella di una storia che si sviluppa nel corso di alcuni anni – all’incirca cinque, tra il 1955 e il 1960, come ricaviamo dalle indicazioni poste sulla sceneggiatura, ma non dal film –, suddivisa in cinque “episodi”, che possono corrispondere ad altrettanti capitoli di un romanzo o ai cinque atti classici di una tragedia – forma che il film peraltro tocca, assieme al prediletto melodramma. Propongo di chiamare i cinque episodi in cui il film è suddiviso – che come noto si aprono, ciascuno, con il nome dei singoli fratelli Parondi, secondo un iter biografico che va dal più grande, Vincenzo, al più piccolo, Luca – cinque “blocchi-sequenza”, ossia macro-sequenze nelle quali si dipanano i complessi rapporti tra tutti i personaggi principali e le loro articolate vicissitudini. Blocchisequenza che di volta in volta sembrano incentrarsi su uno dei fratelli, ma che mettono in relazione il personaggio di partenza con tutti gli altri fino a far assumere a Rocco e Simone il ruolo di protagonisti principali, nonché termini di confronto di una serie di conflitti, personali e no, resi ancora più acuti dalla presenza, letteralmente in mezzo a loro, di Nadia. Attraverso il confronto-conflitto tra Rocco e Simone è come se i vari dualismi, le varie dicotomie su cui il film è costruito – fra le altre son da citare almeno quelle città/campagna, Nord/Sud, aggregazione/disgregazione, integrazione/alienazione, amore/odio, buio/luce, interiorità/esteriorità, maschile/femminile, ambiente/personaggio – trovassero una confluenza sia narrativa sia legata alla logica dei personaggi, che divengono in tal modo il motore grazie al quale e attraverso il quale tali dicotomie possono essere

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agite ed espresse. Rocco e Simone costituiscono dunque i motori del contenuto narrativo (e non solo) dei cinque blocchi-sequenza, ciascuno dei quali si articola poi in varie micro-sequenze, ossia le varie e più o meno piccole scene che lo cadenzano e segmentano. Questa forma che – almeno in generale – il film assume è in realtà l’esito di più scritture, di molteplici redazioni della sceneggiatura, nonché di un soggetto di partenza che differiva non poco dal progetto finale4. Se è vero che quando Visconti inizia a parlare del film alla fedele Suso Cecchi d’Amico le dice che egli sta pensando alla storia di una famiglia composta da una madre e cinque fratelli – «cinque come le dita di una mano» –, una storia che, per lo più, si ponga come ideale pendant a quella della Terra trema – dal mare alla città, dal Sud al Nord, da un’Italia post-bellica e ancora contadina a un’Italia in marcia verso l’industrializzazione; se tutto ciò è vero, è altresì vero che appunti autografi del regista parlano anche d’altro. Ad esempio della storia di una ragazza – donde un possibile titolo per il film, La ragazza e la città – che avrebbe potuto essere o una giovane popolana con ambizioni di escalation sociale oppure una rampolla dell’aristocrazia veneziana – tale Olghina de Robilant – che ambisce a una carriera da mannequin e ogni sera si offre a un uomo diverso. Ispirato, a detta dello stesso regista – soprattutto come spirito di rappresentazione di un mondo –, al Cazotte di Le diable amoureux, questo iniziale soggetto vede nella figura della ragazza un incrocio tra alcune caratteristiche della protagonista del bellissimo racconto-soggetto (non realizzato) Marcia nuziale, scritto da Visconti e da Cecchi d’Amico nel 1952, e alcune caratteristiche che nel film assume il personaggio di Nadia, alla quale resterà legato, nella forma finale del film, un importante aspetto, insito nel legame tra Nadia e la città e, più in particolare, nell’essere entrambe – soprattutto per Simone – segni di attrazione e a un tempo di perdizione. Milano con le sue luci, le insegne dei negozi (si pensi all’incipit del film e agli sguardi stupiti e pieni di attrazione di Simone sul tram), le grandi strade e i palazzi, finiti o in costruzione, e Nadia con 4

Le varie redazioni della sceneggiatura sono consultabili nella cartella sul film depositata presso il Fondo Luchino Visconti, Fondazione Istituto Gramsci, Roma.

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la sua sensualità, la sua vivacità e la sua ambiguità sono i primi e – insieme al denaro – i più forti elementi di attrazione per Simone, tentacoli dai quali sarà assalito e vinto. Un’altra figura chiave per il destino di Simone (personaggio che peraltro Visconti concepisce fin dall’inizio del progetto come un Apollo), Morini, è a sua volta l’esito di un personaggio che inizialmente non ha questo nome (in una versione della sceneggiatura assume quello di Moretti e con caratteristiche alquanto diverse) e che diviene progressivamente il manager che poi compare nel film, attraverso una serie di variazioni legate, tuttavia, all’ancor più losco personaggio di Lomazzo (che, come tale, scompare nella redazione finale), artefice di festini e di bische clandestine dove circolano droga, soldi, squillo e perfino strip tease maschili, a uno dei quali doveva essere costretto anche Simone. Variazioni meno rilevanti – almeno allo stato attuale dei controlli fatti in merito – sembra subire Rocco, che fin dall’inizio assume nella mente di Visconti la funzione di “eroe positivo” e di “eroe mite”, secondo il modello del My&kin dell’Idiota di Dostoevskij, sebbene egli finisca per avere anche tratti assimilabili a Rogo=in, ad esempio per la componente rabbiosa che sfoga soprattutto attraverso la pratica di boxeur. Anche sul versante delle fonti – dirette e indirette – il discorso è assai variegato e complesso, come in parte osserveremo, notando tuttavia fin da ora che il modello – fondamentale – dostoevskiano è assimilato e giostrato da Visconti con grande e consapevole profondità, ben oltre gli elementi, comunque importanti e “necessari”, di superficie. Il principio sostanzialmente “binario”, “duale” e conflittuale, sul quale la struttura drammaturgica del film poggia – costruito in particolare intorno agli assi Rocco/Simone, Rocco/Nadia, Simone/Nadia, Simone/Morini –, è motore portante delle numerose scene-madre e messa in atto del modello – archetipico – tragico nel suo moderno e “inevitabile” innesto sulla forma melodrammatica. Anche in tale direzione, mi pare, il modello dostoevskiano è pienamente assimilato e fatto proprio (si pensi, infatti, alle relazioni My&kin/Rogo=in e al ruolo svolto da Nastas’ja Filippovna nell’Idiota o al rapporto tra Dmitrij e Aleksej Karamazov e alla figura di Gru&en’ka nei Fratelli Karamazov, quali assi portan-

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ti del confronto-conflitto tra personaggi in funzione della struttura narrativa). All’interno di questa struttura portante costituita dai dualismi è poi particolarmente rilevante la forma attraverso cui Visconti rende la complessità e l’ambiguità dei personaggi principali, anche grazie a un meccanismo di interscambio e/o rovesciamento di tratti: si è detto che Simone è concepito come un Apollo, ma di fatto è Rocco a essere investito maggiormente di tratti apollinei, nella sua ricerca dell’equilibrio e dell’armonia, nonché negli stessi tratti fisiognomici dell’attore che lo interpreta (“impersona”). Al contrario, Simone si rivela appieno quale espressione del dionisiaco5, nella sua sete di piacere e di denaro e nella sua furia destabilizzante e, infine, omicida. Tra i due personaggi cardine viene così ad instaurarsi una sorta di dialettica tra armonia e caos, tra principio di realtà e principio di piacere, tra salvazione e perdizione, fino all’apice costituito dalla splendida sequenza che, in montaggio parallelo e alternato – apoteosi del modello griffithiano –, mostra nel confronto diretto il trionfo di Rocco (ottenuto subendo sofferenze e ferite corporali) e la caduta di Simone. Ma, anche in questo caso, non tutto è come appare in superficie, dal momento che la vittoria di Rocco è l’esito di un sacrificio e la sconfitta di Simone è vissuta da Rocco come una condanna che egli avrebbe voluto fino all’ultimo evitare, al punto da essere letteralmente compartecipe della caduta dell’angelo ribelle (la scena-madre con i due fratelli avvinghiati nella comune disperazione). E anche nella componente sacrificale Rocco sembra rimandare all’uso pluristratificato delle metafore legate al Cristo disseminate in vario modo nell’Idiota di Dostoevskij. Come ha ben osservato Antonella d’Amelia6, occupandosi del rapporto tra immagini pittoriche e disegno della trama e dei personaggi in Dostoevskij, nell’opera del grande russo – e non solo nell’Idiota – numerose sono le 5 Sulla presenza del “dionisiaco” nel Visconti di Morte a Venezia e, in particolare, su Thomas Mann, ha pagine illuminanti M. Fusillo, Il dio ibrido. Dioniso e le “Baccanti” nel Novecento, il Mulino, Bologna 2006, pp. 184-203. 6 A. d’Amelia, Il museo immaginario di Dostoevskij, in Scritture dell’immagine. Percorsi figurativi della parola, a cura di A. d’Amelia, F. de Giovanni, L. Perrone Capano, Liguori, Napoli 2007, pp. 147-62.

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immagini, che acquistano valenza metaforica, del Cristo, così come assai puntuali sono i riferimenti al rapporto tra bellezza e peccato nell’ambito del tema della donna perduta in quanto peccatrice (si pensi ai possibili confronti tra la Nastas’ja del grande scrittore e la Nadia del regista). L’ambigua e misteriosa bellezza di Nadia è espressione esemplare del suo carattere duale, insito nell’essere sospesa – un po’ come Simone – tra il vizio e la virtù, ossia tra Simone e Rocco. La complessa polifonia viscontiana e il principio di trasmigrazione di alcuni tratti di un personaggio in un altro fanno sì che il tema del sacrificio investa soprattutto Rocco e Nadia, quest’ultima anche in senso visivo, nell’inquadratura che la coglie con le braccia aperte come un Cristo in croce durante il suo omicidio.

3. La questione delle fonti e dei modelli Al di là dell’uso specifico che Visconti fa di fonti e modelli, diretti e indiretti – discorso ampio che richiederebbe ulteriori approfondimenti –, ci preme in questa sede definire la complessa e articolata, nonché sincretica – come sempre in Visconti – compresenza di più fonti e modelli, soffermandoci su quelli di tipo sostanzialmente letterario (e talora teatrale) e ricordando soltanto che altrettanto complessi risultano quelli di tipo visivo. Si è accennato all’incidenza di Dostoevskij, sulla quale hanno fornito osservazioni penetranti Jurij Lotman e Yuri Tsivian, osservando complessivamente che «Visconti è come se leggesse la realtà italiana a lui contemporanea alla luce del mondo artistico dostoevskiano»7, nonché sottolineando il carattere intrinsecamente cinematografico della trama letteraria dello scrittore, assai «ricca di convergenze interne – di “scogli di situazioni” –»8. Ne consegue che la “letterarietà” del cinema di Visconti – e in particolare di Rocco e i suoi fratelli – non è tout court “letteraria”, bensì legata a un certo tipo di “letterarietà romanzesca”, e in particolare a quella dostoevskiana, tanto che il profondo e consapevole 7

J. M. Lotman, Y. Tsivian, Dialogo con lo schermo, traduzione e cura di S. Burini, A. Niero, postfazione di S. Burini, Moretti & Vitali, Bergamo 2001, p. 186. 8 Ivi, p. 190.

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ricorrervi fa sì che il regista riesca a rendere pienamente cinematografica la forma-romanzo, innestata in codici riccamente e “specificamente” cinematografici (si pensi, ad esempio, al complesso montaggio del film, all’uso dei primi piani e, in generale, ai complessi movimenti di macchina). Accanto a questo fondamentale modello, un altro scrittore assai importante nella poetica viscontiana, Thomas Mann, costituisce, in particolare attraverso Giuseppe e i suoi fratelli, un richiamo che probabilmente suggerisce a Visconti tre elementi: la riscrittura romanzesca e novecentesca di temi e personaggi biblici, la forma di saga di un nucleo famigliare (così come più tardi, nella Caduta degli dei del 1969, sarà la saga dei Buddenbrook a ispirarlo), il tema del sacrificio dell’eroe (ancorché nell’inversione anagrafica tra fratelli). Nello stesso tempo anche l’imprescindibile modello verghiano – che aveva costituito a suo modo un nucleo della Terra trema – torna soprattutto come possibilità di alimentare ancora – su quell’esempio – il tema dei “vinti”, nonché la “strada maestra italiana” verso il recupero della dimensione tragica innestata sulla forma-romanzo. Per lo più, Visconti sembra rivelarsi “verghiano” anche nell’idea di una rappresentazione del mondo attraverso lo sguardo – rivolto volta per volta in alcuni suoi film – sulle varie classi sociali, da quelle popolane a quelle borghesi e nobili. Un tema importante che emerge nel film, legato alla condizione melanconica e al senso di nostalgia, è probabilmente da mettersi in particolare relazione con l’universo cechoviano, come noto assai caro al regista, mentre sostanzialmente nuovo e più legato all’umore e al contesto temporale del film è l’ausilio di alcuni racconti di Giovanni Testori (dal Ponte della Ghisolfa), ossia il secondo scrittore che in ordine di tempo entra, a suo modo, nel progetto finale del film, dopo che Vasco Pratolini aveva preso parte alla prima redazione del soggetto e della sceneggiatura. Ma fonti e modelli non si esauriscono qui, si parva licet: fondamentalmente di impianto melodrammatico, il film lo è, tuttavia, nell’accezione alla quale abbiamo già accennato, ossia quella che vede una trascolorazione del tragico antico nel moderno côté melodrammatico. Nello stesso tempo, un impianto tragico ancora in senso classico – o quantomeno di recupero del modello antico – il film lo

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conserva: ad esempio nel possibile richiamo dei cinque episodi al modello dei cinque atti, nonché nell’idea che la famiglia sia essenzialmente ghenos, nucleo forte di sangue e di solidarietà (con la parziale eccezione di Ciro verso Simone) e con una madre di stampo arcaico (per lo più interpretata da un’attrice greca e adusa a ruoli da tragedia greca). Tant’è che nei modelli più immediatamente mimetici e coevi, “contestuali” – costituiti dai racconti di Testori, ma anche dalle ricerche sul campo operate da Visconti e dai suoi collaboratori, nonché da ricerche svolte sulla pubblicistica intorno al mondo della boxe e dell’emigrazione dal Sud al Nord (ad esempio attraverso i testi di Scotellaro e di de Martino) e forse anche con una certa attenzione alla diffusione di rotocalchi e fotoromanzi –, questo sostrato mimetico, pur necessario e importante, è “survoltato” da uno sguardo e da un atteggiamento – tipicamente viscontiani – che sposta l’attenzione dal particolare al generale e dal basso mimetico all’alto “generalizzante”, in modo tale da diventare paradigmatico, esemplare. A questa articolata e complessa serie di fonti e modelli dobbiamo sempre far corrispondere da parte di Visconti il connotato di profonda e singolare appropriazione di una serie di “mondi” – alla stregua di quanto osservato da Lotman e Tsivian rispetto al solo rapporto Visconti/Dostoevskij. La complessa, talora sfuggente, ricchezza dell’universo viscontiano – uno dei più ermetici della storia del cinema, ha scritto Serge Daney9 – è infatti l’esito straordinario di questa capacità di far propri molteplici riferimenti – e certo non solo letterari –, al punto che il senso profondo dei suoi film finisce sempre per stare più fuori che dentro la rappresentazione, anche per l’inganno che essa crea nel suo essere comunque legata a un principio di caratterizzazione in senso storico e realistico. E che la sua capacità di giostrare fonti e modelli plurimi sia di rara maestria e complessità lo dimostra, in Rocco, a un livello quanto mai paradigmatico, la sequenza dell’uccisione di Nadia, sulla quale si sono fatti rife9

Le considerazioni di Daney sul cinema di Visconti sono riprese da S. LiandratGuigues, Le couchant et l’aurore. Sur le cinéma de Luchino Visconti, Méridiens Klincksieck, Paris 1999, pp. 18 ss.

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rimenti – opportuni – alla morte di Carmen, ma che ritengo più vicina – come articolazione della scena – alla morte della fidanzata di Woyzeck, per mano dello stesso, nell’omonimo dramma di Büchner e, in particolare, nella trasposizione fattane da Alban Berg (si pensi, nel film e in Berg, allo spazio lacustre e alla conseguente funzione simbolica dell’acqua)10. Ma non è finita: il senso di terrore e la conseguente ossessione di Simone per il sangue che gli ha macchiato – “indelebilmente” – il cappotto e il suo stesso corpo sono di matrice squisitamente shakespeariana, e nel gioco di scambi fra caratteri assunti dai vari personaggi, nel corso del film, egli finisce per essere equiparabile all’analoga ossessione sanguinaria di Lady Macbeth. Ed è anche in questo momento – apice narrativo, e non solo, del film – che Visconti coniuga ancora una volta tragedia e melodramma, ovvero, e al di là di più o meno precisi riferimenti, Shakespeare e Verdi, in ultima istanza i suoi più “fedeli” numi tutelari.

10

In Büchner la scena si svolge con la città in lontananza, di sera; al riguardo si veda: Woyzeck, a cura di H. Dorowin, trad. di C. Magris, Marsilio, Venezia 1988, pp. 105-7.

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Esther Castagné*

Ombra e luce in Rocco e i suoi fratelli

Visconti realizzò Rocco e i suoi fratelli nel 1960, subito dopo Le notti bianche (1957), tratto dall’opera omonima di Dostoevskij, e prima della sua collaborazione al film corale Boccaccio’70 (1962), con il suo sketch Il lavoro, ispirato ancora una volta ad un’opera letteraria, ossia al racconto Au bord du lit di Maupassant. Questo per quanto riguarda il cinema. In quanto alle altre attività del regista durante questo stesso periodo, possiamo ricordare che mise in scena a teatro nel 1958 Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller, Veglia la mia casa, Angelo di Ketti Frings, Deux sur la balançoire di William Gibson, con Annie Girardot e Jean Marais; nel 1960 L’Arialda di Giovanni Testori, nel 1961 Dommage qu’elle soit une putain di John Ford, con Alain Delon e Romy Schneider. Allo stesso tempo montò all’opera, tra gli altri, Don Carlo e Macbeth di Verdi nel 1958. Questo elenco non esaustivo ci permette già di vedere come le collaborazioni e le diverse fonti d’ispirazione si mescolano e si ritrovano in più opere in modo chiaro ed esplicito o in modo sottostante – come, per esempio, il paragone che possiamo stabilire tra L’idiota di Dostoevskij e Rocco, ovvero tra il personaggio di Rocco modellato su quello di My&kin e quello di Simone modellato su quello di Rogo=in, così come il parallelo tra Rocco-Simone-Nadia da una parte e My&kin-Rogo=in-Nastas’ja dall’altra. Quest’ispirazione, senza mai apparire chiaramente, traspare più volte lungo il film, in particolare attraverso l’aspetto fisico dei protagonisti, descritto da Dostoevskij nelle prime pagine del romanzo, che si rivela sin dall’inizio * Université Sorbonne Nouvelle – Paris III.

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Esther Castagné

del film, quando i fratelli Parondi scendono dal treno, e con l’uccisione di Nastas’ja-Nadia da parte di Rogo=in-Simone. Infine, dal breve elenco possiamo notare una certa continuità, o addirittura fedeltà nelle collaborazioni con i nomi di Girardot, Delon o Testori che vengono – e verranno – ripetuti varie volte lungo la carriera del Visconti. Il film, come è noto, narra la vicenda di una povera famiglia del Sud: una madre con i suoi cinque figli trasferitisi a Milano dopo la morte del padre, per raggiungere il fratello maggiore (Vincenzo) e con la speranza di trovare lavoro e fortuna al Nord, o comunque con la speranza di sfuggire alla malasorte della loro terra. Ma tutto ciò si rivelerà un sogno e ben presto si accorgeranno che la realtà sociale è molto diversa da come l’avevano immaginata, soprattutto per gli immigrati del Sud, considerati in queste ricche città industriali come semplici maleducati «terroni»1. La boxe, cioè lo sport, darà loro – per lo meno a Simone e in un certo senso a Rocco – la possibilità di guadagnarsi “un posto al sole”, per citare il film hollywoodiano del 1951 A Place in the Sun di George Stevens con Montgomery Clift ed Elisabeth Taylor, che però non ha né la stessa dinamica né le stesse radici, in quanto si tratta della società americana e del mito del self-made-man e non del tentativo, spesso fallito, di superare la frontiera invisibile Nord/Sud – questione fondamentale per l’Italia che affronta questo film di Visconti, insieme a quella del potente legame alla propria terra e alle origini. Ma anche questo “potere” acquisito tramite il pugilato sarà illusorio ed effimero. Contemporaneamente, l’amore dei due fratelli per la stessa donna, Nadia, interpretata da Annie Girardot, precipiterà la dissoluzio1 L. Visconti, Rocco e i suoi fratelli (1960, 165’), 1’23’’44’’’: «Ecco! Io sto a perdere tempo con questi quattro buffoni. [...] Sacchi de patate, ecco quello che sono! Sacchi de patate! Bella figura che faccio domani: porto un sacco de merda! [...] Non sanno far niente [...]. Ma basta, ho chiuso. Basta, basta, basta e basta! Voglio pugili veri, gente seria, non i meridionali. Hanno ragione i milanesi: terroni siete! Non sapete far niente! Per me è chiuso». A causa delle evidenti differenze tra il dialogo definitivo del film e quello edito, qui e nelle note successive sono citate le battute del film e non la sceneggiatura pubblicata: L. Visconti, Rocco e i suoi fratelli, a cura di G. Aristarco, G. Carancini, Cappelli, Bologna 1960.

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Ombra e luce in Rocco e i suoi fratelli

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ne, il disgregamento o, si potrebbe dire, quasi l’implosione della famiglia, già indebolita dal suo trasferimento; infatti, l’ambiente estraneo e le difficoltà ad inserirsi espongono maggiormente la famiglia alla possibilità di una crisi. Inoltre, e concludo qui questo breve riassunto, noteremo che la storia della famiglia e le vicende sentimentali dei protagonisti, ossia la parte “realistica” del film, vengono costantemente legate al percorso sportivo di Simone e Rocco, come se il ring diventasse una specie di scena parallela a quella della vita e del mondo reale, reale all’interno della rappresentazione stessa, ovviamente. Così sembra funzioni lungo tutto il film questo gioco di specchi tra sport e realtà, tra ring e vita, tra lotta per vincere e lotta per vivere, gioco di echi che culmina con la sequenza finale in montaggio alternato che analizzeremo più avanti. Cercherò quindi di mostrare i giochi di luce e di ombra dal punto di vista metaforico, giochi che a volte generano effetti di ombra e di luce a livello cinematografico o, più esattamente, a livello fotografico. Vedremo, tramite vari esempi, come esistono questi giochi tanto in senso figurato quanto in senso letterale. Ne nascerà una riflessione sul bene e sul male, sulle loro ambiguità, alla quale si aggiungerà una riflessione sul sacrificio e sul senso di colpa. Cercheremo, inoltre, di collegare questa riflessione ai numerosi riferimenti e rimandi (biblici, letterari, storici, sociali) che attraversano il film senza però che vi sia mai un corrispettivo totale. Rocco e i suoi fratelli non è un vero e proprio adattamento, benché sia ispirato al Ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori – citato nei titoli di testa – e anche a Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann, ma si tratta più di prestiti sparsi che di un vero adattamento. In Rocco i richiami sono vari, ma riguardano piuttosto qualche elemento o tema specifico, qualche particolare e non certo l’insieme. Visconti evoca nel film il problema sociale dell’immigrazione nel Nord industriale dei contadini del Sud, detti in modo dispregiativo “terroni”, e conduce anche una riflessione quasi umanistica sui “danni” che può causare una bontà troppo grande, un carattere, un atteggiamento da “santo” – come quello di Rocco – in un mondo imperfetto come il nostro mondo umano, terrestre, così come mo-

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stra tutta l’ambivalenza e la complessità di un personaggio a priori negativo come quello di Simone. Analizzerò questa alternanza ombra/luce mediante alcuni esempi che, spero, mi permetteranno di mostrare come Visconti metta in rilievo tramite le sfumature del bianco e nero e attraverso una luminosità più o meno forte, dunque tramite l’immagine, le zone d’ombra e di luce, di cattiveria e di bontà che dormono in ciascuno di noi e che la convivenza tra complesse individualità – circondate a loro volta da un mondo complesso e non necessariamente benevolo – può ulteriormente far peggiorare. Comincerò questo mio studio con l’analisi della Milano sognata paragonata alla Milano effettiva in cui vive la famiglia Parondi. Il contrasto assai grande tra questi due aspetti della stessa città appare sin dall’inizio: infatti, la Milano che attraversa in autobus la famiglia Parondi, subito dopo esser scesa dal treno, è una Milano ricca e vistosa, quella delle vetrine lussuose e scintillanti del centro. E benché la scoprano, affascinati, di notte, essa è talmente luminosa che «sembra il giorno», come nota d’altronde Simone («Guarda. Guarda che vetrine. Che luce! Sembra il giorno!»2). La città appare loro come l’avevano immaginata, forse anche più bella. È una città da sogno che promette loro felicità e fortuna. Però la stessa identica città si tramuta subito dopo (o quasi, cioè l’indomani mattina, dopo che il fidanzamento di Vincenzo con Ginetta è stato rotto) in una città grigia, nebbiosa e poco accogliente. Una città ostile, come dimostra simbolicamente il cancello chiuso che separa la famiglia Parondi dalla portiera milanese quando arrivano, e che la donna tarda ad aprire: un cancello ripreso in primo piano – che occupa la totalità dello schermo – che raffigura sia la loro diversità e l’impossibilità per loro di far parte di questo mondo (saranno sempre considerati come immigrati), sia la gabbia in cui vivono – la gabbia famigliare che li condurrà alla tragica fine. Ed è questa la città in cui vivranno, che scopriamo con il loro arrivo nella nuova casa, ovvero un edificio squallido, un palazzo enorme e scalcinato, in cui gli affitti costano poco e in cui risiedono perciò la maggior parte degli immigrati del Sud, visti come selvaggi 2

Ivi, 0’04’’59’’’.

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dalla popolazione milanese. Lungo tutto il film sono numerose le battute sulla bestialità, la mancanza di educazione e la povertà vergognosa dei nativi del Sud, che stanno in paesi talmente a Sud che non si sa nemmeno dove siano esattamente, da qualche parte vicino all’Africa, come testimonia questo scambio di battute pronunciate con tanto disprezzo nella voce: VICINA: Mamma mia! L’ha vista che roba! PORTIERA: Africa!... VICINA: Ma da dove veniranno? PORTIERA: Lucania. VICINA: Lucania? E dov’è questa Lucania? Mai sentita. PORTIERA: Giù, giù, giù, in fondo. VICINA (contemporaneamente): Ma dovevano venire proprio qui? Ah! Capito...!3

Insomma non sono per niente accolti bene, non sono i benvenuti e glielo fanno capire. Però, da quanto si capisce da ciò che dirà poi la madre, Rosaria – prima nella sua lettera a Rocco, ch’egli riceve quando sta facendo il militare, poi a Ciro, quando si confiderà con lui dopo che ha scoperto la presenza di Nadia a casa loro –, questa freddezza, questa ostilità di Milano e dei suoi abitanti è sempre meglio della durezza della terra d’origine, che offre loro solo povertà e morte. Nel primo caso, sentiamo fuori campo (illustrata da due flashbacks) la voce affettuosa di Rosaria raccontare a Rocco come sono cambiate le cose dalla sua partenza; spiega che grazie ai successi di Simone – e dei suoi figli – adesso per strada la gente la chiama «Signora» («Tutti nel vicinato ci conoscono perché Simone ha vinto all’incontro di Genova e mo’ tutti mi dicono “Signora”»4). Lo stupore e la soddisfazione, l’allegria che provoca quest’appellattivo in Rosaria – in quanto è la prova del suo successo e della sua rispettabilità – è enorme e commovente, perché dimostra (quasi inconsciamente) qual è stata l’esistenza di questa donna e anche qual è stato 3 4

Ivi, 0’15’’35’’’. Ivi, 1’11’’49’’’.

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il suo modo di realizzarsi, la sua “rivelazione”, direbbe il mendicante nell’Elettra di Giraudoux. Rosaria si è dedicata, quasi sacrificata ai suoi figli, ed è logico che siano loro la cosa più importante della sua vita come anche che siano loro a metterla “in luce” se così si può dire. Rosaria è sempre rimasta nell’ombra ed è solo grazie al successo di Simone – e poi a quello di Rocco e, in un certo senso, anche a quello di Ciro – che comincia ad esistere per gli altri; il che spiega anche dal punto di vista psicologico, quasi psicanalitico, come lei compensi questa sua assenza o piuttosto inesistenza sociale con un’influenza e una presenza esagerata nella vita dei figli, che soffoca con il suo eccesso d’amore e la sua possessività. L’altro momento in cui viene evidenziato questo contrasto tra la Milano immaginata, idealizzata (anzi “ideata”) e quella reale (o realistica), dura, malvagia, si svolge nell’appartamento della famiglia dopo che Nadia è tornata, suo malgrado, con Simone. Ciro trova sua madre disperata che gli spiega cosa aveva sognato per i suoi figli, cosa si era immaginata, e che cerca di capire perché la realtà è tanto diversa da quanto avrebbe voluto, da quanto aveva sognato. ROSARIA: Ciro, figlio mio [...]. Aaah! dimane, dimane, ma che vuoi ch’accada dimane? Sarà la stessa cosa! Oh Ciro, dimme, dimme cuore mio, dimme, dimme: è colpa mia se sta succedendo tutto questo? È colpa mia se ho voluto portare i figli miei belli, grandi e forti in città perché s’arricchissero e non si dannassero su quella terra ingrata come o’ padre loro che è morto mille volte prima di chiudere l’occhi per sempre. CIRO: Non hai niente da rimproverarti, Ma’. Niente. ROSARIA: Tuo padre non si è mai potuto staccare da quella terra. Ma io, io! Aah! Per tutti i venticinque anni che sono stata con lui non ho pensato che a questo: partire, partire, partire, partire! L’ho voluto per Vincenzo, per Simone, per Rocco, per te, per voi tutti! Niente era assai bello: la terra, il mondo intero mi sembrava piccolo. A un certo momento mi pareva di toccare il cielo con le mani. La gente per la via mi chiamava “signora”. Signora! A me! Signora, in una grande città come questa qua e tutto per rispetto ai figli miei. E mo’ nun so quello che è successo. Rocco se n’è andato da casa e pare come uno che

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gli hanno fatto il mal’occhio e Simone, Simone mio, Simone si è pigliato una puttana!5

Questo “monologo”, questa specie di confessione della madre permette ancora una volta di vedere l’abisso che separa il sogno dalla realtà. La Milano delle belle vetrine e la Milano dei sobborghi poveri dove bisogna lottare per vivere e trovarsi un posto. Accanto a questa riflessione sulla difficoltà per gli immigrati del Sud ad inserirsi in questo Nord ostile – ostile in ogni senso, per la gente, l’accoglienza, il clima –, Visconti narra le vicende diciamo “sentimentali”, per semplificare, nella misura in cui sono i sentimenti (e segnatamente l’amore, o forse dovrei dire la passione, e i sentimenti ad esso legati: gelosia, rabbia, disperazione) il motore dell’azione. Sono essi a farla andare avanti. Queste vicende sentimentali di Simone e Rocco permettono, inoltre, di svelare quant’è diverso il modo di reagire di questi due personaggi antitetici. Il loro amore per Nadia è indubbiamente sincero e si può anche pensare che l’amore provato da Simone sia più forte di quello provato da Rocco, ma semplicemente perché Simone è più umano di Rocco, e pertanto più debole di lui. Perciò, per lo spettatore, è forse più facile capire Simone che percepire la forza di Rocco, comprendere le sue motivazioni senza considerarle egoiste e/o insensibili. Visconti, quindi, propone due personaggi del tutto diversi e sempre più opposti con l’avanzare del film. Il destino di questi due fratelli si articola attorno alla figura di Nadia, allo stesso tempo malafemmina e vittima innocente ed immolata. Cercheremo ora di mostrare, attraverso qualche esempio, che le zone di ombra e di luce oscillano constantemente. Niente è più fluttuante e ambiguo del bene e del male e, in questo, il film di Visconti è tutto tranne che manicheo. Gli esempi scelti permetteranno di vedere l’evoluzione di ciascuno di questi tre personaggi (Rocco, Simone, Nadia) e di presentarne tutta la complessità a partire da questa riflessione su bene e male, amore e odio, svelando, come già detto, quanto l’uso di luci e illuminazioni e le diverse variazioni di in5

Ivi, 1’58’’24’’’.

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tensità luminosa o cromatica a livello fotografico possono influire sul significato diegetico. Prima di tutto – e vorrei qui precisare che ho scelto gli esempi in ordine cronologico affinché sia chiara l’evoluzione dei personaggi, anche se ogni esempio mi permetterà di far riferimento ad altri elementi sparsi lungo il film, o di ribadire un tema, un richiamo o un’influenza che mi sembra importante segnalare – vorrei analizzare i primi due episodi che indicano per Simone l’“inizio della fine”, ovvero l’inizio della sua discesa agli Inferi: sono i due episodi che si svolgono in tintoria – e non a caso Rocco, il santo, il puro, l’angelico, lavora in una tintoria (blanchisserie in francese), simbolo di biancore, ovviamente, di pulito, d’innocenza, e anche ambiente molto femminile, per contrasto con la palestra e le sale di combattimento, universi del tutto maschili, addiritura maschilisti –, in cui Simone compie i primi due reati: il furto della camicia e poi quello della spilla. In queste due scene il trattamento della luce è particolarmente accurato e significativo. Nel primo caso, osserviamo un gioco di illuminazione doppiato da un gioco di messa in scena. La tenda del camerino in cui si trova Simone permette a Visconti di dividere il campo, cioè l’immagine, in due parti e di modificare, a seconda della posizione della tenda (ossia della sua apertura o chiusura), la posizione della macchina da presa. Lo spettatore dopo aver osservato il furto – messo in rilievo dal crescendo della musica – viene rinchiuso nel camerino con Simone: cambiamento di punto di vista ottico che viene ottenuto sia con il movimento della tenda sia con il cambiamento di inquadratura (piano medio → primo piano) e di luce (luci del negozio → camerino buio). Così prendiamo parte a questa prima “mancanza” di Simone, o forse la seconda, perché la prima era stata quella di preferire una notte con Nadia ad una cena con Morini – ed amiche – dopo la prima vittoria, errore messo in luce a livello visivo dai lampeggiamenti della macchina di Morini in direzione di Simone e Nadia che s’incamminano sulla strada abbracciati (e si potrebbe anche aggiungere che s’incamminano sulla strada del loro destino). Qui risiede il primo avvertimento di quella che sarà la sorte di Simone. Il secondo reato conferma questo presentimento: Simone viene

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per restituire la camicia e ruba la spilla della padrona della tintoria dopo averla sedotta. Il contesto in cui si svolge la scena (di notte, dopo la chiusura del negozio, nel buio) ci fa pensare (a noi spettatori) che il secondo furto è stato premeditato o, per lo meno, che le intenzioni di Simone non fossero del tutto oneste, pulite. In questa scena di seduzione ipocrita o almeno interessata, la luce, o piuttosto l’assenza di luce, colpisce molto. L’unico elemento luminoso, brillante, anzi scintillante, è la spilla di diamanti rubata da Simone, ma, contrariamente a ciò che succedeva nella prima scena, il furto non è rappresentato esplicitamente, e tuttavia la chiusura della sequenza sulla mano di Simone che scivola verso il gioiello conferisce alla scena una forza ancora più grande, segnatamente al piano visivo. Tutta la scena si svolge nell’oscurità; la finta rabbia della padrona, che preannuncia (involontariamente) la sua debolezza, si oppone al riso – forzato, ipocrita, animalesco, e anche nervoso – di Simone, riso che richiama quello di Franz Mahler in Senso, anche se in tutt’altro contesto. In entrambi i casi, è un riso feroce che simboleggia il potere di questi due uomini su queste donne più anziane di loro e chiaramente indebolite dall’amore o dal desiderio che provano, potere di cui essi approffittano consapevolmente. Così assistiamo alla “caduta” di Simone: i suoi reati e i suoi cambiamenti vengono messi in risalto dagli effetti di luce e di ombra – l’ambiente è sempre più cupo –, dalla musica e infine dalla gestualità, dal portamento dell’attore, che a poco a poco modifica il suo modo di reggersi, di muoversi, di camminare fino a diventare fisicamente una specie di relitto stralunato e disincarnato. Questo per quanto riguarda le premesse della rovina di Simone – e quindi uno dei lati più oscuri del film. Per quanto riguarda invece la storia d’amore di Rocco e Nadia, che si svolge più o meno a metà del film e che costituisce l’unico passo positivo e solare dell’opera, cominceremo con lo studiare il loro primo vero incontro. Ma prima, come appena accennato, sottolineamo che il periodo del loro amore viene composto esclusivamente di sequenze luminose e solari, dalla lettura della lettera di sua madre a Rocco, poco prima dell’incontro fortuito con Nadia, fino allo stupro che chiude definitivamente questo unico periodo di felicità: incontro, battesimo, tram.

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L’unica eccezione visiva in mezzo a questa luminosità generalizzata è la sequenza dell’allenamento in palestra (luogo chiuso, luce abbagliante), durante la quale il dolce chiarore è temporaneamente abbandonato per una luce violenta che contrasta con le sfumature delle scene tra i due innamorati. L’incontro fortuito tra Rocco e Nadia segna l’inizio del loro amore: è il primo vero incontro ed è determinante per il seguito della storia. Tutti e due sono lontani dal loro ambiente naturale e abituale ed escono entrambi da un luogo chiuso (esercito/carcere), oppressivo e con regole severe. Inoltre sono lontani dal posto in cui si sono conosciuti (e dunque da Simone) e lontani dalle solite preoccupazioni, non hanno più riferimenti precisi. Sono liberi, lontano da tutto e da tutti. In questa scena del bar, dove nasce il loro amore, o per lo meno quello di Nadia per Rocco, osserviamo un effetto di luce ed ombra originale e inedito: sono gli occhiali da sole di Nadia ed il modo in cui li usa a svelare i sentimenti o, accontentiamoci di dire, le sensazioni che prova. Oltre al fatto che questo gioco svela i suoi stati d’animo, svela anche, in senso letterale, il personaggio e, specificamente, i suoi occhi, il suo sguardo. In effetti, Nadia comincia a togliersi gli occhiali mentre Rocco sta parlando e questo gesto mostra la sua commozione. Ad un tratto cioè si accorge di Rocco, della sua esistenza, della sua bontà; egli comincia ad esistere ai suoi occhi, mentre invece, fino a quel punto, l’aveva trattato con leggerezza. Ricordiamo la scena in macchina quando Rocco si presenta al posto di Simone e Nadia gli restituisce il gioiello rubato, oppure l’inizio della sequenza al bar, in cui Nadia lo prende un po’ in giro6. Qui invece si accorge della dolcezza di Rocco, della sua sensibilità, della nostalgia del proprio paese, e rimane colpita. 6 Ivi, 1’13’’08’’’: «NADIA (ironica): Ma cosa fai qui così conciato? / ROCCO: Faccio il servizio militare. / NADIA: Questo l’avevo capito; e quanto tempo è? / ROCCO: Ho già fatto quattordici mesi. / NADIA: Oh! guarda che combinazione, anch’io press’a poco, in questa stessa città (ride) [...]. Offro io, tamberla! [...] (seria). Proprio non avevi ca-

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ROCCO: No, no, tenevo un amico al paese, anzi più di uno, ragazzi della mia età, ma poveri come tu non te lo puoi credere. E allora un giorno gli dettero l’illusione di avere un pezzetto di terra da zappare. Ma una terra che ti spezzava le braccia per tirarci qualche cosa, e ci voleva una mezza giornata a piedi per arrivarci. E così, una bella volta, questi cristiani si ribellarono, ma gli misero le manette e li portarono al carcere, a Matera, Potenza. Che ci vuoi fare, cose del mio paese. NADIA: Sì, capisco. Per questo scappate tutti su al Nord? ROCCO: Io se avessi potuto rimanevo là. NADIA: Perché? Milano non ti piace? ROCCO: Sì, ma è laggiù al paese che avessimo av’ i mezzi per campa’ meglio. Là dove siamo nati, dove siamo cresciuti. Io penso che non riesco a trovarmi in una grande città e questo perché io non ci sono né nato né cresciuto. Parlo di me, ma penso pure ai miei parenti, ai fratelli, ai paesani. Tanti riescono ad abituarsi, ad ambientarsi subito, perfino a provare gli stessi desideri che provano gli altri. Io no. Ma penso pure che non sia giusto che sia così. A me piacerebbe desiderare un automobile, per esempio, ma solo dopo aver desiderato e ottenuto tutto quello che viene prima, voglio dire un lavoro sicuro, fisso, una casa e la sicurezza di aver da mangiare tutti i giorni7.

Inoltre, il gesto di togliersi gli occhiali, prima abbozzato, è poi compiuto al secondo intervento di Rocco, quando parla appunto delle radici, delle origini, della propria terra. Infatti, a questo punto Nadia si toglie del tutto gli occhiali da sole, e quindi neri, coprenti. Questo gesto simboleggia la sua fiducia o per lo meno il suo smascherarsi: non si protegge più, non cerca più di lottare. Gli occhiali da sole, finché li indossa, la rendono forte o almeno inaccessibile, perché la nascondono e quindi la proteggono. Dal momento in cui se li toglie, si espone all’altro, pur sapendo che questo gesto, questo darsi, la potrà far soffrire, ma sapendo anche che è l’unico modo per “salvarsi” – se si vuole restare all’interno di una lettura cristiana. Rocco diventa un appoggio, una specie di angelo custode, come gli pito? Eh sì! tredici mesi e otto giorni. [...] Ehi! Ehi! Sveglia! (ride) Ti fa tanto effetto vedere una che è stata dentro?». 7 Ivi, 1’15’’15’’’.

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dice nella sequenza di separazione al Duomo di Milano8. La speranza e l’ottimismo di Rocco la confortano, e grazie a questi – e quindi grazie all’amore di Rocco – potrà ricominciare da capo una nuova vita di cui non dovrà vergognarsi. Grazie a Rocco, Nadia accede a una certa purezza e a una vera sincerità che non esistevano prima di quest’episodio della sua vita e che non esisteranno dopo. Nel resto del film, Nadia è sempre sulla difensiva, pronta a colpire per non essere ferita. Avvertiamo sempre questo sarcasmo, questa causticità disperata che la spingono a ridere – nervosamente – per impedirsi di piangere. Durante tutto il tempo dell’amore, una specie di parentesi miracolosa, Nadia non si mostra più, invece, dura e sardonica come prima e come dopo. Infine, e concludo qui per quanto riguarda questa sequenza del bar, così ricca dal punto di vista simbolico – notando che ritroveremo la stessa identica lacrima che scivola sul viso di Nadia su quello di Rocco, durante la sequenza del Duomo al momento della loro separazione –, la sequenza del bar si chiude sulle loro mani congiunte o, piuttosto, con un primo piano della mano di Rocco che viene a coprire affettuosamente quella di Nadia, accarrezzandola. Questo annuncia già la loro storia d’amore, che verrà poi sviluppata nella sequenza del tram composta esclusivamente di piani medi e primi piani sulla coppia abbracciata, tutti legati da dissolvenze, il che dà un’impressione di durata a livello diegetico, ma anche di dolcezza, di naturalezza, perché non c’è più la rottura che provoca il cut, ossia il raccordo. Quindi queste dissolvenze, che accadono in una sequenza molto luminosa, vengono a sottolineare e tradurre l’importanza del sentimento e, più specificamente, dell’amore durante questo brano, mentre i cuts, invece, sono numerosissimi nel resto del film, appunto perché conferiscono una sensazione di brutalità e di rottura. Ma veniamo ora alla sequenza più cupa e più scura (addiritura 8 Ivi, 1’45’’49’’’: «NADIA: Tu mi hai teso la mano. Mi hai convinto che la vita che facevo era mostruosa, ho imparato a volerti bene. E adesso per la vigliaccheria di un mascalzone che ha voluto umiliarmi davanti a te per ridurci al suo stesso livello, improvvisamente niente più è vero. Quello che ieri era bello e giusto diventa una colpa oggi».

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oscurata) del film, tanto a livello visivo quanto a livello simbolico: quella dello stupro. La sequenza si apre con la sconfitta di Simone sul ring, poi continua con la provocazione di Ivo e poi al bar – molto illuminato, con luci abbaglianti –, dove Simone e gli amici aspettano prima di andare a cogliere gli amanti che si sono appartati nella notte fredda e oscura. Tutto questo percorso permette di rendere ancora più forte e più simbolico lo stupro. Vediamo crescere a poco a poco la gelosia di Simone, aumentata dal furore di essere stato ingannato, dal furore di aver sbagliato e di esser stato tradito, sia dalla sua donna sia dal fratello. Simone cerca fino all’ultimo minuto di non “aprire gli occhi”, non vuole crederci, e nello stesso modo in cui ha appena girato le spalle alla luce del ring, le gira alla verità fino al momento in cui vede suo fratello con Nadia. E si vendica su Nadia non solo della sconfitta personale e sentimentale, ma anche della sconfitta sul ring. Qui, invece di “gettare la spugna”9 e di accettare l’amore ricambiato di suo fratello per Nadia, distrugge tutto. Diventa ancora più bestiale e malvagio di quanto si sarebbe potuto immaginare. Certo, è posseduto dalla gelosia che moltiplica le sue forze, ma sa anche di poter vincere facilmente. Nadia è debole e lui ne approffitta. Inoltre, i suoi compagni imbroglioni (la banda di Ivo) sono qui per fermare Rocco, per impedirgli di aiutare Nadia e di opporsi a suo fratello. Lo costringono a guardare. Questi modi fanno di Simone un essere ancora più vile e disprezzabile. Si comporta come un vigliacco, perde in questa scena tutta la sua dignità, o quel poco che ne rimaneva: e qui appare nuovamente il gioco speculare tra ring e vita che scorre lungo tutto il film. Visconti crea un perpetuo andirivieni tra ring e “realtà”, tra ciò che accade sul ring e ciò che accade nella vita privata dei personaggi, sia attraverso un meccanismo di compensazione (stupro), sia attraverso un parallelismo espresso mediante il montaggio alternato (uccisione di Nadia); e forse possiamo 9

Ivi, 1’28’’11’’’: «SIMONE (esausto): Non ce la faccio più! Getta la spugna! / ALLENA(arrabiato): Non mollare, scemo! / SIMONE: Getta la spugna! / ALLENATORE: Non mollare. / SIMONE: Non ne posso più [...]. Non ce la faccio [...]. Getta la spugna. / ALLENATORE: Continua. / SIMONE: Non ce la faccio più». TORE

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dire che il ring funzioni come la scena di teatro in Senso. Sembra quasi che ci sia un gioco di specchi tra ring e vita, gioco di specchi fedele o invertito, come, per esempio, con la morte di Nadia che coincide con la vittoria di Rocco. La quasi totale oscurità durante la sequenza dello stupro contrasta con la luce abbagliante del bar e immerge lo spettatore nelle tenebre. Visconti ha voluto insistere sulla durezza dell’atto. La maggior parte delle rare illuminazioni sono dirette agli sguardi dei personaggi e il loro posto nello spazio è determinante e simbolico. Se la luce è proiettata sulla coppia quando vengono sorpresi, vediamo che lo stupro si svolge nell’angolo più tetro dello schermo. Notiamo che l’importanza dello sguardo di Rocco e degli scambi di sguardi è fondamentale in questa scena: i piani sullo sguardo di Rocco sembrano indicare che solo quel che vede in quel momento gli permetterà di aprire gli occhi – a modo suo –, il che condurrà alla sconfitta di tutti e tre i protagonisti. Per via di questa “rivelazione”, Rocco sacrificherà Nadia: penserà di aver finalmente compreso l’importanza e l’“immensità” dell’amore di Simone per Nadia, ma contemporaneamente quest’episodio farà sì che da questo momento in poi sembrerà «di aver visto il diavolo»10. La bestialità di Simone provocherà in Rocco una repulsione talmente forte da sviluppare in lui un odio fino ad allora sconosciuto, come verrà esplicitato in seguito11. Rocco grida il nome del fratello, poi tace come fosse colpito dall’orrore e finalmente piange, forse per cercare di purificarsi; si copre gli occhi come se non volesse più vedere, come se volesse dimenticare. In questo momento Nadia torna verso di lui, che non riesce più a rivolgerle la parola. E notiamo qui che, dopo lo stupro, i tre personaggi si girano di spalle come se fossero annientati. Non hanno più visi; non riescono più a guardarsi, tranne Nadia 10

Ivi: «On croirait qu’il a vu le diable» («Pare che gli abbiano fatto il malocchio»). Ivi, 1’55’’18’’’: «ROCCO: Vedi, Ciro, per me è stata facile questa vittoria, perché non era più lui che tenevo dinanzi. Era come se mi stessi battendo con qualcun altro, qualcuno che muoveva tutto il mio odio, tutto questo odio che avevo accumulato dentro di me senza neanche saperlo. È una brutta cosa; tu non puoi sapere quant’è brutta». 11

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che tende, invano, la mano a Rocco. Infatti, anche quando Nadia cerca di ristabilire una relazione umana, Rocco è incapace di rispondere, di tornare alla sua esistenza. Dopo la partenza di Nadia, egli rimane zitto, senza parola. È come annientato e si batte con Simone solo perché ci è costretto, anche se avrebbe voluto scappare da questo nuovo reato, cioè la violenta lite fraterna, che sancisce la crisi del legame famigliare. Da allora in poi Rocco e Simone non sono più in contatto, non sono più legati dall’affetto fraterno e, soprattutto, non s’incontreranno più fino alla sequenza finale e più tragica (sembra infatti una scena da tragedia greca), quando Simone torna a casa dopo aver ucciso Nadia. La sequenza dello stupro si chiude, dopo la lite dei fratelli ormai nemici, con l’arrivo di Rocco, simile ad un’ombra, a casa di Vincenzo e Ginetta. Sembra un vero e proprio fantasma, nega che gli sia successo qualcosa e subito sviene. Viene poi la sequenza del Duomo, molto chiara ma di un chiarore livido, che contrasta sia con l’oscurità della sequenza precedente (quella dello stupro), sia con la solarità e la luminosità delle sequenze relative alla storia d’amore di Rocco e Nadia. Questa sequenza segna la fine dell’amore tra Rocco e Nadia o, più precisamente, della loro relazione, e segna anche il loro ultimo incontro, come tra l’altro annunciato da Rocco («Non ci vedremo più, Nadia»). La sequenza è molto interessante a livello simbolico, non solo perché i protagonisti si trovano in mezzo «alle madonne e ai santi», come dirà poi Nadia – includendo forse tra questi Rocco stesso –, ma anche per la teatralità della scena e per la sua dimensione cristiana che preannuncia quella dell’uccisione; e d’altronde possiamo vedere, in un certo senso, queste due scene come esemplari antitetici dello stesso sacrificio (la rinuncia a Nadia) da parte dei due fratelli. Appare in questa scena anche il senso di colpa e l’idea dell’espiazione della colpa, della necessità di pagare per i propri errori. Inoltre, come ho appena detto, compare il concetto di sacrificio, e contemporaneamente quello di pentimento, e il tema tanto caro a Visconti del “troppo tardi”. Rocco sacrifica il suo amore e Nadia stessa a suo fratello.

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Esther Castagné

ROCCO: Tutti e due siamo colpevoli, e io piu di te. Tu devi tornare con Simone. NADIA: Che cosa dici? ROCCO: Simone ha bisogno di te, non tiene che te. NADIA: Già, Simone ha bisogno di me, sì. Sì, questo lo so, e allora anch’io però conto qualcosa, no Rocco, e allora dimmi che cosa vuoi fare? ROCCO: Solo tu lo puoi aiutare Simone. NADIA: Sei pazzo, pazzo! ROCCO: Abbiamo creduto di poter cominciare insieme una nuova vita senza pensare al male che facevamo agli altri. NADIA: Se avessi voglia di sentire una predica andrei giù in chiesa. Ti amo, Rocco, ti amo. E anche tu mi ami. Che ne faremo di tutto questo amore? Perché mi tormenti così? ROCCO: Non ci vedremo più, Nadia. NADIA: No, no, non è possibile. Non è possibile, Rocco. Ma se è questo che vuoi, ti giuro te ne pentirai, te ne pentirai e sarà tardi. Ti odio, ti odio, ti odio, ti odio!12

Nadia diventa vittima, allo stesso tempo, della bontà di Rocco e della malvagità di Simone, secondo un rapporto causale molto semplice che spinge Rocco a cercare di salvare suo fratello. Nadia cerca di salvarsi, cioè di lottare, di difendersi e di convincere Rocco, ma capisce anche che egli non cederà. Rocco le volta le spalle fino al momento in cui le annuncia che non si vedranno più. Questo brevissimo scambio di sguardi è subito interrotto perché Rocco non ha più la forza di sostenere lo sguardo – supplicante e disperato – di Nadia. Rocco quindi gira la testa (contrariamente a ciò che era accaduto nella sequenza del loro incontro al bar, in cui l’aveva fissata per tutta la scena), e qui gli sfugge una lacrima (la stessa lacrima – anche se con una valenza un po’ diversa – versata da Nadia nella sequenza del bar). Questo è l’unico sentimento, l’unico segno di vita e di umanità espresso da Rocco, che ormai sembra una statua. C’è qui un aspetto meccanico nella recitazione di Delon. Sembra che Rocco reciti e che questo suo tono pacato si opponga alla passione straziante di Nadia, che si deduce sia dalla sua agitazione sia dalle sue suppliche e dichia12

Ivi, 1’46’’16’’’.

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razioni d’amore («Ho imparato a volerti bene [...]. Ti amo, Rocco, ti amo»), che si capovolgono in minacce e dichiarazioni di odio («Ti odio, ti odio, ti odio, ti odio!») prima di fuggire, sempre più sconvolta. Solo in questo momento Rocco si gira, ma la lascia andare, come se fosse più spaventato dalla minaccia che gli ha lanciato che dalla sua partenza e dal suo addio. Seguono un’inquadratura dal basso e poi una ripresa panoramica dall’alto quasi totale: due campi lunghi che accrescono l’impressione di chiusura, di carcerazione, di soffocamento della scena successiva (interno notte, bar Poker, mondo della notte, malavita, oscurità: chiusura in un inferno, nel buio). Prima di concludere con la magistrale sequenza in montaggio alternato del combattimento di Rocco e della morte di Nadia, vorrei analizzare brevemente il ruolo simbolico del personaggio negativo di Morini attraverso la scena del suo ultimo confronto con Simone. Ho scelto quest’esempio per via dell’uso della luce che viene fatto da Visconti. Infatti, l’assenza di luce (che sembra quasi consustanziale al personaggio di Morini) diventa qui quasi allegorica. Morini è sin dall’inizio un personaggio fosco, ambiguo, una sorta di “tentatore”, all’origine della caduta di Simone e di tutte le sue disgrazie. Simone diventa in un certo senso il mantenuto di Morini13, che non sa resistergli. Inoltre, questo fatto mette implicitamente in luce l’omosessualità di Morini, chiamata «debolezza» – e anche quella potenziale di Simone, che è giunto ad un tale punto di abbrutimento che sarebbe disposto a tutto pur di guadagnare qualche soldo. Il personaggio di Morini offre tutto a Simone, che ne approffitta, ma si tratta di regali «avvelenati». Morini è colui che porta Simone da Cerri, colui che gli dà il denaro di cui ha bisogno per mantenere Nadia e distruggersi, fino alla scena in cui, finalmente, il relitto che Simone è diventato chiede a Morini di andare a casa sua dove finirà col derubarlo. Però ciò che finisce col furto dei soldi di Morini, inizia con un commercio di tutt’altra natura, anche se questo è sempre sottinteso, come lo è l’ambiguità del legame fraterno tra Rocco e Simone. 13

Ivi, 2’13’’19’’’: «MORINI: È quasi un anno che vostro fratello vive speculando sulla mia debolezza».

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Esther Castagné

SIMONE: Una sigaretta? [...] MORINI: Va meglio? SIMONE: Quando starò lontano da qui. MORINI: Eh sì! È fifa, lo so. Un bel giorno uno s’accorge che i pugni fanno male e siccome uno ci tiene al suo bel profilo... Allora dove andiamo? SIMONE: Hai detto a casa tua, no? MORINI: Sono sempre stato sicuro che un giorno saresti stato tu a domandarlo. Quanto? CAMERIERE: Duecento lire, signore. MORINI: Se non sbaglio vedo che ti sta tornando il coraggio. SIMONE: Finisce che s’impara. (Dissolvenza. Casa di Morini. Interno notte) MORINI: Ecco questa è casa mia, ti piace? Entra, entra, non aver paura. È la prima volta, vero, che vieni qui? Eccola là: più tranquillo? (rumore di bicchieri e bottiglie) Siediti. SIMONE: Mi servono soldi, eppure molti. MORINI: Eh, l’avevo capito sai. Del resto non è la prima volta, vero? Ah! il campione! Io te l’avevo predetto però. Lo sapevo che finivi così. Quando penso al giorno che ti ho visto alla Lombarda per la prima volta... Un Apollo, un vero Apollo. Ma è chiuso per te. Come pugile sei finito, e come uomo solo uno come me può ancora provare un certo interesse per quel rottame che sei diventato. SIMONE: Mi servono soldi. MORINI: Per darli alle puttane. Ah! Una buona idea sì, una bella maniera per salvare la faccia. SIMONE: Posso bere? MORINI: Puoi scolartela tutta se vuoi, tanto non devi più fare il peso. E poi vuoi che ti dica quello che penso: mi fai schifo! SIMONE: Vai a finire? Adesso basta, questo non me lo devi dire. Hai capito! Basta!14

D’altronde, tutta la scena in casa di Morini si svolge al buio. L’unica fonte di luce – o quasi – è quella del televisore acceso dove un canale sta trasmettendo immagini di quadri celebri, fra cui Marte e Venere di Botticelli. Il decadimento di Simone lo conduce ad accet14

Ivi, 2’04’’04’’’.

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Ombra e luce in Rocco e i suoi fratelli

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tare ciò che l’«Apollo» conosciuto da Morini non avrebbe mai accettato, ovvero di recarsi a casa di Morini e forse di prostituirsi. L’ambiguità del patto che li unisce rimane in effetti molto forte. Tutta questa scena risiede nell’ambiguità e nel sottinteso. Capiamo che Simone è arrivato ad un punto di degrado da cui non potrà mai più risollevarsi. Accanto a questo, c’è sempre, in filigrana, il discorso sull’omosessualità di Morini che diventa potenzialmente effettiva, discorso messo in risalto dai giochi di sguardi e segnatamente dai primi piani sullo sguardo di Morini. Il suo sguardo, carico di desiderio, sempre rivolto al pugile, ha finalmente l’occasione di concretizzarsi, anche se rimarrà sempre il dubbio. La scena è molto dura per via di questo degrado totale di Simone e anche per via della sua ambiguità nei confronti di Morini. Perciò, quando Morini spegne il televisore, e quindi la luce, mettendo fine alla sequenza, possiamo leggere questa dissolvenza al nero come un velo pudico che impedisce di svelare i fatti, pur sottolineando il carattere equivoco del loro commercio. D’altronde quel che succede veramente non importa molto, ci importa piuttosto aver visto e capito il desiderio di Morini per Simone e la complessità del loro rapporto. Importano le conseguenze (furto di una somma notevole di denaro e denuncia di Morini) e importa, inoltre, il fatto che questa sequenza offra a Visconti la possibilità di giocare col connotato allegorico delle immagini televisive per suggerirci la relazione di Morini e Simone o, per lo meno, l’omosessualità ovvia di Morini e quella latente di Simone. Infine analizzo la sequenza in montaggio alternato che sigilla i destini dei tre protagonisti, cioè da una parte la vittoria di Rocco sul ring e dall’altra l’uccisione di Nadia da parte di Simone. Visivamente, questa sequenza è interessante tanto sul piano della costruzione, cioè del montaggio, quanto sul piano dell’illuminazione e dei contrasti e somiglianze che possiamo osservare tra i due ambienti. La sequenza propone un’opposizione tra Rocco e Simone, che comincia con la lite tra Simone e Ciro, lite che si conclude con la solitudine di Simone, abbandonato dai fratelli. Simone è solo e non può più pretendere solidarietà fraterna, mentre Rocco, invece, viene accolto dai paparazzi e dalla folla prima del combattimento.

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Esther Castagné

C’è quindi, e ciò fino alla fine, questo contrasto tra declino e solitudine totale di Simone e successo di Rocco. E ciò appare anche attraverso le sfumature della pellicola: grigio nebbioso e squallido dell’Idroscalo opposto alla luce abbagliante del ring. Dal canto loro, i dialoghi presentano simmetrie15 e permettono il raccordo sonoro tra le due sequenze. Inoltre, notiamo la dimensione sacrificale della morte di Nadia che raggiunge qui l’acme (braccia in croce) e richiama la scena del Duomo in cui Rocco aveva già, simbolicamente, sacrificato Nadia. Tra l’altro, come nella sequenza del Duomo, le illuminazioni della sequenza dell’Idroscalo sono diffuse: anche qui c’è tanta nebbia, e se le sfumature sono più cupe (bianco, grigio scuro qui, bianco, grigio chiaro al Duomo), l’atmosfera è pressappoco la stessa, benché sia ovviamente ancora più torbida e minacciosa in quest’ultima sequenza. L’uccisione inflitta da Rocco era morale e sentimentale, quella inflitta da Simone è carnale, corporea, ma in entrambi i casi ritroviamo la donna come ostacolo al legame fraterno. Infatti, è la morte di Nadia che permetterà ai due fratelli di ritrovarsi – uniti nella tragedia –, mentre la loro compiutezza verrà messa in rilievo a livello visivo tramite i contrasti dei loro vestiti (bianco/nero; maglietta/cappotto) e il loro stretto contatto (rimangono abbracciati per tutta la scena). Ed è solo questo sacrificio, la morte di un’innocente, che permetterà il ritorno alla calma; una calma più che relativa, va da sé. «Tutto è finito adesso» dice Rocco e segue, immediatamente dopo, la prima sequenza luminosa (sequenza conclusiva) dopo quelle che hanno composto l’amore di Nadia e Rocco. Questo sacrificio è doppio in un certo senso, perché uccidendo Nadia anche Simone si uccide; e forse triplice, perché Rocco si era già sacrificato per suo fratello accettando di combattere per Cerri e di firmare con lui un contratto decennale per pagare il debito di Simone, come ricordano i manifesti o, piuttosto, la prima pagina del quotidiano affissa sui muri della città, dove si legge l’annuncio della vittoria 15

Ivi, 2’26’’31’’’: «CERRI (a Rocco, sala di combattimento, interno notte): Copriti! Copriti! / SIMONE (a Nadia, esterno notte nebbiosissimo): Copriti, copriti, che fa freddo».

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Ombra e luce in Rocco e i suoi fratelli

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di Rocco a grossi titoli e soprattutto la foto di Rocco, che Luca accarezza mentre si allontana. Benché Simone torni a casa di sua madre perché non ha nessun altro posto dove rifugiarsi, solo lì può trovare affetto e comprensione, nella persona di Rocco (e anche di sua madre). Infatti, l’amore di Rocco è più forte di tutto: è un amore inconsapevole, allo stesso tempo santo e criminoso; in fondo, è un amore omosessuale e incestuoso, che però non sa di esserlo. E in questo risiede l’ambiguità del personaggio di Rocco, la cui bontà è in realtà un male devastante. Si nota il continuo oscillare tra il bene e il male, le ambivalenze che impediscono il lieto fine e, soprattutto, la nostalgia, espressa in particolare dalla canzone del film. È quindi l’uccisione di Nadia a rendere possibile sia il ritorno di Simone a casa – in una scena che esalta tanto la potenza e l’ambivalenza del rapporto fraterno che lega Simone e Rocco quanto gli aspetti da tragedia antica di questo film –, sia (e soprattutto) il ritorno alla calma, alla luce, alla speranza, rappresentata da Luca, l’ultimo e più giovane dei cinque fratelli. Torna il sole e vediamo Luca che si allontana giocosamente su questa strada, che sembra non finire mai, simbolo di speranza, aperta su un futuro più sereno, mentre riprende il malinconico tema musicale “bello paese mio” che annuncia un ormai possibile ritorno al paese.

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Maria Letizia Bellocchio*

Otello di Visconti. Un viaggio a ritroso da Verdi a Shakespeare a Giraldi Cinthio

1. Otello dal carcere di San Gregorio Fra le carte inedite dell’Archivio “Visconti”, conservate presso la Fondazione Istituto Gramsci, si trova un progetto cinematografico non realizzato dal titolo “Progetto d’un OTELLO per la regia di Luchino Visconti”1, che è l’antecedente diretto del soggetto Otello. Il Moro di Venezia, scritto dal regista con Antonio Pietrangeli2. Nato probabilmente in seguito ad alcune conversazioni tra Luchino Visconti e Jean Renoir negli anni Trenta, accantonato per l’e* Università di Siena (sede di Arezzo). 1 Il documento inedito, donato alla Fondazione da Luigi Filippo d’Amico il 29 ottobre del 1993, è catalogato come “Integrazioni a cura della Fondazione Istituto Gramsci – Donazioni di privati – Luigi Filippo d’Amico 1.1”. Viene pubblicato per la prima volta nell’Appendice della mia tesi di Dottorato, Visconti e Shakespeare. Regie, progetti, riscritture teatrali e cinematografiche, scritta sotto la guida della professoressa Laura Caretti e discussa il 3 luglio del 2007 presso il Dipartimento di Letterature e Scienze dei Linguaggi dell’Università degli Studi di Siena (sede di Arezzo). Poiché presso la Fondazione non ci sono altri documenti legati al progetto, tutte le informazioni che seguono sono ricavate dal progetto stesso in cui Visconti figura in terza persona. 2 A. Pietrangeli, L. Visconti, Otello. Il Moro di Venezia, in Lampi d’estate e altri progetti, a cura di A. Maraldi, Il Ponte Vecchio, Cesena 1997, pp. 47-54. Sotto il titolo e il nome degli autori si legge: «ispirato alla novella di G. B. Giraldi-Cinthio e al dramma di W. Shakespeare». Sia il progetto che il soggetto non riportano la data. Il volume raccoglie una serie di progetti cinematografici, conservati nell’Archivio “Pietrangeli” presso il Centro Cinema Città di Cesena, che il curatore, Antonio Maraldi, data tra il 1946 e il 1951. Poiché, come spiego nel corso del saggio, daterei il progetto al 1944 e considerando le analogie tra il soggetto e la sceneggiatura Il processo di Maria Tarnowska del 1946, sarei propensa a indicare come data del soggetto il 1945-46. Ho contattato Antonio Maraldi per sapere cosa ne pensasse e mi ha confermato che è molto probabile che sia proprio del biennio 1945-46.

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Maria Letizia Bellocchio

splosione della guerra, ripreso nel 1944, durante la prigionia del regista nel carcere di San Gregorio3, il progetto consiste di dieci cartelle dattiloscritte in cui un suo assistente, sinteticamente, descrive come sarebbero dovuti essere il trattamento, i luoghi (interni ed esterni), i collaboratori, i costumi, le musiche e gli attori del film. La datazione sembra verosimile poiché alcuni attori indicati nell’ipotetico casting avevano già collaborato con Visconti in Ossessione (1943), come Dhia Cristiani (Anita) e Massimo Girotti (Gino), o faranno parte del suo gruppo teatrale a partire dal 1945, come Mariella Lotti e Rina Morelli; tutti, comunque, esordiscono a teatro o sul grande schermo tra gli anni Trenta e Quaranta, da Claude Dauphin a Massimo Serato, da Roldano Lupi a Evi Maltagliati, da Maria Denis a Jacqueline Laurent e Anna Magnani. Inoltre, le problematiche connesse alla scelta delle locations fanno pensare che la lavorazione al film dovesse iniziare nell’immediato dopoguerra; viene, infatti, indicata chiaramente la necessità di «un posto non toccato dalla guerra, ove ci sia energia elettrica non razionata, ove vi sia abbastanza attività commerciale per trovare i pochi metri cubi di legname, quel po’ di gesso, mano d’opera e materiali necessari alle costruzioni»4. Insomma, tutti quei piccoli comforts a cui Visconti dovrà rinunciare durante la realizzazione della Terra trema (1948). Per i costumi pensa a Veniero Colasanti, che «ben conosce le attuali difficoltà per la ricerca e l’acquisto delle materie prime e si rende conto quindi della necessità di riutilizzare stoffe di costumi esistenti». Infine, un’edizione francese del quarto volume delle opere complete di Shakespeare, sulla cui apriporta è scritto a matita «Luchino 3

Il carcere di San Gregorio è l’ultima tappa dell’azione antifascista di Visconti che viene arrestato il 15 aprile del 1944 e portato alla Pensione Jaccarino, sede del gruppo di Pietro Koch. È poi trasferito nel carcere di San Gregorio, dove resta fino all’arrivo degli americani a Roma (4 giugno). La sua permanenza, sotto il nome di Alfredo Guidi, trascorre in relativa tranquillità in quanto molti si muovono per aiutarlo: riceve denaro, cibi, saltuarie visite della sorella Uberta e libri. Oltre a Shakespeare legge Julien Green, Diderot e Ricordi del Teatro libero di Antoine. Cfr. G. Rondolino, Luchino Visconti, UTET, Torino 2003, pp. 137-43. 4 Questa e le citazioni successive, ove non diversamente indicato, sono tratte da “Progetto d’un OTELLO per la regia di Luchino Visconti”, cit. (i sottolineati sono di Visconti).

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Otello di Visconti

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Prigione di S. Gregorio al Celio maggio-giugno 1944»5, confermerebbe l’interesse di Visconti per l’opera del grande drammaturgo durante la prigionia, a cui seguiranno i tanto discussi spettacoli teatrali Rosalinda (Roma, Teatro Eliseo, 26 novembre 1948) e Troilo e Cressida (Firenze, Giardino di Boboli, 21 giugno 1949). Il volume, infatti, oltre a Othello raccoglie Mesure pour mesure, Comme il vous plaira, Le conte d’hiver e Troilus et Cressida. Mentre la presenza di numerose sottolineature, sia nella Notice sur Othello che precede la tragedia, sia nei primi tre atti della tragedia stessa, avvalorerebbe l’ipotesi che Visconti stesse lavorando proprio sull’Otello nel 1944. Infatti, nell’agosto del 1946, intervistato sul Processo di Maria Tarnowska, Visconti dichiara: Le mie aspirazioni cinematografiche rimarranno per un pezzo solamente desideri per la cattiva volontà dei produttori. Perciò sono stati rimandati sine die i progetti riguardanti Maria Tarnowska [...] e un certo altro film che da parecchio tempo ho in animo di realizzare. Si tratta di un Otello, ispirato più dalla novella che dalla tragedia shakespeariana, che vorrei girare a Ischia con un autentico africano come protagonista maschile e la Lotti in veste di Desdemona. Ma per ora, ripeto, tutto è solo allo stato intenzionale6.

Il progetto scritto nel 1944 viene ripreso nel dopoguerra e tradotto nel soggetto Otello. Il Moro di Venezia da Visconti e Pietrangeli. Nonostante i punti di contatto tra i due testi siano tanti e tali da escludere ogni dubbio sulla loro complementarietà, le differenze permettono di stabilire con ragionevole certezza che l’idea di un 5

Si tratta di W. Shakespeare, Œuvres complètes de Shakespeare, trad. de M. Guizot, Librairie Garnier Frères, Paris [s.d.]. Il volume fa parte della Biblioteca Visconti, conservata presso la Fondazione Istituto Gramsci, dove si trovano anche altre edizioni sia di Otello che delle opere di Shakespeare in italiano, inglese e francese. In particolare, di Otello è conservata un’altra versione francese del 1943 e la traduzione italiana di Paola Ojetti del 1949. 6 Da G. Carancini, Le buone intenzioni: Luchino Visconti dirigerà un gruppo teatrale (ma pensa a Maria Tarnowska), in “Fotogrammi”, n. 4, 25 agosto 1946 (corsivo mio). La citazione è riportata anche in M. Antonioni, A. Pietrangeli, G. Piovene, L. Visconti, Il processo di Maria Tarnowska. Una sceneggiatura inedita, Museo Nazionale del Cinema-Il Castoro, Milano 2006, p. 28. IV,

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Maria Letizia Bellocchio

film tratto da Otello, come quella della contaminazione tra la tragedia e la novella di Giraldi Cinthio siano di Visconti, mentre la struttura del soggetto – peraltro molto vicina a quella della sceneggiatura del Processo di Maria Tarnowska, alla cui stesura partecipò anche Pietrangeli – nasca dalla collaborazione tra i due cineasti.

2. Shakespeare, Giraldi e Arrigo Boito Le sottolineature presenti sulla Notice sur Othello riguardano le varianti del testo shakespeariano rispetto alla prima fonte della tragedia, ovvero la settima novella della terza deca degli Ecatommithi di Giovan Battista Giraldi Cinthio (1565)7. Secondo il progetto, infatti, il film dovrebbe attingere non solo all’Othello (1604) di Shakespeare e al libretto scritto da Arrigo Boito per Verdi (1887), ma anche alla novella di Giraldi, in cui sono già presenti gli snodi principali della vicenda. Diversamente dal testo shakespeariano, nell’ipotesto l’unico personaggio dotato di un nome proprio è Disdemona, che diventerà poi Desdemona, mentre gli altri vengono designati dal loro grado militare: Otello è il Capitano (o anche il Moro), Iago l’Alfiero, Cassio il Capo di squadra. Quando non è il grado militare è lo status a designarli, come nel caso di Emilia, che è la moglie dell’Alfiero, e di Bianca, che è una ricamatrice. Se Shakespeare, oltre a inventare i nomi dei personaggi, rielabora liberamente la novella per portarla sul palcoscenico, Visconti compie per il grande schermo il percorso inverso: utilizza tutti e tre i testi (Shakespeare, Boito, Giraldi), privilegiando le soluzioni di Giraldi che giudica più cinematografiche: Il treatment deve utilizzare oltre a tutto il tradizionale materiale shakespeariano (quello noto al grande pubblico e poi passato di peso sul libretto fatto da Boito per la musica di Verdi) anche quello della “Fonte” di Shakespeare, la novella cinquecentesca italiana di G. B. Giraldi Cinthio, che, nella sua forma narrativa, contiene elementi cinema7

Sulle fonti della tragedia di Shakespeare, si veda G. Melchiori, Shakespeare, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 472-84.

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Otello di Visconti

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tografici più sviluppati, sacrificati poi da Shakespeare e dai suoi successori per condensare l’azione nella forma teatrale.

Passa quindi a elencare gli elementi cinematografici della novella: 1. In Iago sono riassunti i caratteri del Roderigo e Iago shakespeariani: cioè anche l’Alfiero è innamorato di Desdemona. 2. Il famoso mouchoir [...]8 viene [da Iago] rubato e messo nel letto di Cassio: Cassio tenta di restituirlo a Desdemona, ma è scoperto dalla propria amante Bianca9 e da Otello. 3. Iago e Otello decidono e concertano insieme la morte di Desdemona, ma è Iago ad uccidere materialmente l’infelice (con una calza piena di rena) e a far crollare il soffitto della stanza in modo che la morte appaia dovuta a disgrazia10. 4. Più tardi però Otello, scoperta attraverso i confronti con Cassio, Emilia e Bianca la verità delle trame e dei movimenti di Iago, lo uccide dopo un drammatico inseguimento nella zona desertica dell’isola di Cipro ecc.

Come nella novella, Visconti vorrebbe condensare in un unico personaggio Iago e Roderigo, secondo una formula che ritroveremo spesso nel suo cinema: basti ricordare, per restare in ambito shakespeariano, che nella Caduta degli dei (1969), la cui fonte primaria è Macbeth, il personaggio di Herbert (Umberto Orsini) presenta alcuni tratti del Macduff shakespeariano (la strage della sua famiglia) e altri di Banquo (riappare come uno spettro durante la tetra cena presieduta da Friederich)11, mentre quello di Aschenbach (Helmut 8

Salto un inciso dove si trova un’imprecisione: «il famoso monchoir [sic!], tessuto espressamente da Emilia, moglie di Iago». In realtà, il fazzoletto o mouchoir non viene tessuto da Emilia né nella novella né nella tragedia, ma da una Sibilla. Otello lo riceve dalla propria madre e, in seguito, lo dona a Desdemona. 9 In realtà è scoperto solo da Otello. 10 Nella novella, entrambi fanno crollare il soffitto e decidono di uccidere anche il Capo di squadra. Il Moro affida l’assassinio all’Alfiero che, durante la notte, attacca l’ignaro e gli taglia la coscia destra, ma è costretto a fuggire perché la vittima inizia a urlare. Molte persone giungono in suo soccorso e lo salvano, anche se perderà la gamba. 11 Nella Caduta degli dei i ruoli di Macduff e Banquo sono rispettivamente imper-

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Maria Letizia Bellocchio

Griem) condensa le tre streghe. L’Alfiero di Giraldi è meno ambiguo e machiavellico di quello di Shakespeare, poiché la sua perfidia non è immotivata ma nasce da una ragione concreta: l’amore per Disdemona che, non ricambiato, si trasforma in odio. Solo in seguito alle intercessioni di Disdemona presso il Moro in favore del Capo di squadra, l’Alfiero decide di usare il generoso interessamento della donna per scatenare prima i sospetti e poi la gelosia di Otello. Anche la posizione di sua moglie è diversa da quella dell’Emilia shakespeariana. È infatti l’Alfiero stesso a rubare il fazzoletto, che lascia poi in casa di Cassio, dove il Moro lo vede mentre una ricamatrice (Bianca) lo sta copiando12. Questa “prova oculare”, la stessa di Shakespeare, convince il Moro dell’infedeltà della moglie e lo porta a progettare con l’Alfiero un vero e proprio delitto perfetto: l’Alfiero ucciderà Disdemona con una calza piena di sabbia, in modo da non lasciarle alcun segno di aggressione sul corpo, e poi, per far sembrare la morte accidentale, con l’aiuto di Otello le farà precipitare addosso il soffitto della stanza. Questi primi tre punti ripristinano alcune soluzioni narrative di Giraldi all’interno dell’Othello shakespeariano e modificano i rapporti fra i personaggi. Attingendo a piene mani alla novella, Visconti semplifica e rende più concrete le pulsioni che muovono i personaggi all’azione. Questo metodo dice molto sul modo di Visconti di adattare per lo schermo le fonti letterarie o teatrali, che vengono semplificate e condensate secondo l’insegnamento del melodramma verdiano e attraverso la contaminazione con fonti secondarie. Il quarto punto, ovvero l’inseguimento e l’assassinio di Iago da parte di Otello nella zona desertica di Cipro, è un’invenzione tutta viscontiana. Non appartiene né a Giraldi né a Boito, tantomeno a Shakespeare13, ma rispecchia l’immaginario di Visconti e, forse, ansonati da Herbert e da Konstantin, anche se Herbert ingloba alcune caratteristiche di entrambi i personaggi. 12 Nel testo di Shakespeare (III, 3) e in quello di Boito (II, 4) è invece Emilia che raccoglie il fazzoletto e poi lo consegna a Iago, che lo lascia nell’alloggio di Cassio. 13 Nella novella, dopo la morte “accidentale” di Disdemona, il Moro impazzisce e inizia a odiare l’Alfiero, che convince il Capo di squadra a seguirlo a Venezia dove gli racconta la sua versione dei fatti: il Moro ha ucciso Disdemona e tagliato la sua gam-

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ticipa il corpo a corpo tra Rocco e Simone presente in Rocco e i suoi fratelli (1960), in cui, seppur in un contesto diversissimo, agiscono gli stessi ingredienti. Non mi riferisco soltanto all’intrecciarsi di semplicità, passione, gelosia e follia, ma anche al displacement geografico (Cipro come Milano) che rende i personaggi incapaci di decodificare la realtà, da cui il loro carattere tragico. Inoltre, secondo Agostino Lombardo, Otello rappresenta l’archetipo del personaggio tragico moderno, l’eroe che cade perché non è in grado di leggere e quindi conoscere il mondo14. Ma questa è anche una delle caratteristiche maggiori degli antieroi di Visconti, a partire da Gino e Giovanna di Ossessione. Seguendo il libretto di Boito, che non solo conosceva bene, ma che più volte fu sul punto di mettere in scena15, il regista elimina il primo atto della tragedia, rinunciando a Venezia e scegliendo Cipro come unica ambientazione. L’azione, come nell’opera verdiana, è tutta condensata in Cipro: è un dramma essenzialmente “coloniale”: una tragedia della gelosia quale ancor oggi e sempre potrebbe avvenire in un clima ardente tra indiviba perché credeva che avesse una relazione con la moglie. Il Capo di squadra denuncia il Moro alla Signoria, portando l’Alfiero come testimone. I signori veneziani decidono quindi di condurre il Moro a Venezia per farlo confessare, ma, nonostante le torture, egli nega tutto e viene condannato all’esilio, dove è ucciso dai parenti di Disdemona. Solo dopo la morte dell’Alfiero, la moglie chiarirà la vicenda. 14 Cfr. A. Lombardo, L’eroe tragico moderno. Faust, Amleto, Otello, Donzelli, Roma 1996. Se, infatti, Doctor Faustus (1590) di Marlowe e Amleto (1600-01) di Shakespeare rendono l’eroe un intellettuale e strutturano l’azione tragica sulla necessità di conoscere e quindi di distinguere tra apparenza e verità, Otello rappresenta il primo personaggio tragico, in quanto la sua caduta è determinata dal non saper vedere correttamente ciò che lo circonda, dal non distinguere il presente dal passato, dallo scambiare l’inganno per la verità. Il suo smarrimento è quello dell’uomo moderno incapace di comprendere quelle trasformazioni che caratterizzano l’epoca shakespeariana, prima fra tutte il passaggio dal Medioevo al Rinascimento. E di questa crisi saranno metafora tutte le tragedie che seguiranno Othello, da King Lear a Macbeth, da Antony and Cleopatra a Coriolanus, in cui la caduta e la morte degli eroi deriva sempre dalla loro cecità, diversamente da Titus Andronicus (1593-94) o da Romeo and Juliet (1596-97), dove è determinata da cause indipendenti dalla loro volontà e dalla loro interpretazione del mondo. 15 Dalla corrispondenza di Luchino Visconti, conservata presso la Fondazione Istituto Gramsci, risulta che il regista fu più volte tentato dal mettere in scena Otello di Verdi.

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dui di diversa razza esasperati da una sensualità fisiologicamente eccitata ma socialmente repressa.

Qui, come in altri punti del progetto, si insiste sul clima ardente, sul caldo opprimente, come correlativo oggettivo della passione, o meglio come una delle cause principali del cortocircuito che altera fino a sconvolgere i rapporti fra i personaggi, elemento che si ritrova poi nello Straniero (1967), tratto dal romanzo di Camus. Un film che [...] ha per protagonisti le passioni umane e la natura: l’amore e la gelosia, il sangue e il caldo. La fotografia, le ombre dovute ai dispositivi contro il caldo ecc. aggiungeranno all’emozione. Il caldo opprimente riduce al minimo gli indumenti che i personaggi indossano [corsivi miei].

Per rappresentare Cipro Visconti intende utilizzare un posto di mare, paese o isola, dell’Italia meridionale. La scelta degli esterni, del paesaggio in cui si sviluppa l’azione sembra centrale per la riuscita del film: l’insieme delle abitazioni in fondo è sempre visto da lontano: una serie di cubi bianchissimi, magari agglomerati su un’alta roccia, sotto lo scintillante e tenerissimo cielo mediterraneo16. Non occorre un vero e proprio castello nel senso tradizionale e cinematografico della parola: la fortezza o meglio il fortino di Cipro è una 16 A confermare le affinità tra questo progetto e Rocco e i suoi fratelli c’è una foto scattata durante i sopraluoghi realizzati per il film del 1960 che ritrae un paesaggio analogo: si tratta di un campo lungo che mostra una serie di cubi bianchi affastellati uno sull’altro. Il film, infatti, doveva iniziare nel paese di origine della famiglia Parondi. Documentato dalla sceneggiatura, ma mai girato per ragioni economiche, il prologo doveva essere ambientato in Lucania, doveva mostrare la casa dei protagonisti e il funerale del padre. Secondo Visconti sarebbe stato funzionale a chiarire l’indole dei personaggi (cfr. l’intervista a Visconti pubblicata su “Schermi”, 28 dicembre 1960, e anche in Leggere Visconti, a cura di G. Callegari, N. Lodato, Amministrazione Provinciale di Pavia, Pavia 1976, p. 84). Come per Otello, anche per Rocco Visconti rinuncia alla prima parte e condensa l’azione nel primo caso a Cipro, nel secondo a Milano.

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delle costruzioni costiere contro i barbareschi di cui l’Italia è cosparsa: la “residenza” di Otello deve ricordare il più possibile, pur nella linea architettonica classica, un bungalow coloniale ecc.

Se per gli esterni Visconti intende utilizzare i luoghi naturali della costa mediterranea, gli interni, capannoni all’aperto, vanno costruiti in loco, in modo che abbiano lo sfondo naturale del mare e che si possa entrare e uscire agilmente. Si tratta degli spazi in cui si svolgono le scene principali: la camera di Desdemona, due stanze della residenza di Otello (l’ingresso e lo studio), la casa di Iago, due stanze del fortino all’interno di torrioni, dove risiede Cassio, e l’osteria. L’arredamento, semplice ed essenziale, da un lato deve ricordare «la sobrietà quasi scheletrica degli interni di un quadro di Piero della Francesca»; dall’altro deve essere adatto al luogo di mare e stabilire una continuità con gli esterni, con la roccia e il caldo17. Anche i costumi dovrebbero essere semplici e ridotti al minimo proprio per il clima: «bisognerà sentire il mare vicino, la frequenza del bagnarsi, l’imminente spogliarsi. Non bisogna dimenticare però che la zona è malarica e mefitica e che, in certe ore, all’aperto si indossano allora fantastici copricapi/zanzariere». Questi eleganti copricapi rimandano all’abilità di scenografo e costumista di Visconti che, come Orson Welles18, spesso fornisce attraverso un oggetto o un arredo una delle chiavi di lettura del testo. I «copricapi/zanzariere» avrebbero probabilmente suggerito l’immagine della rete intessuta da Iago nella quale tutti i personaggi, compreso l’ideatore, si trovano intrappolati. L’opera di Verdi è funzionale non solo a condensare l’azione in un unico spazio, Cipro, ma anche il tempo della novella di Giraldi, nella quale si allude a un lungo periodo veneziano di Disdemona e del Moro. Come Senso o altri film di Visconti, anche questo avrebbe quindi adottato la struttura del melodramma verdiano in quattro 17

Cfr. il rapporto natura-cultura nei film shakespeariani di Welles in A. Bazin, Orson Welles, Les Éditions du Cerf, Paris 1972; trad. it. di E. Dagrada, Orson Welles, GS Editrice, Santhià (VC) 2000, pp. 89-94. 18 Penso soprattutto alla gabbia in cui viene intrappolato Iago e a tutte le grate del suo Othello (1952).

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atti. Per le musiche, invece, il regista preferirebbe non utilizzare quelle dell’opera, ma altre scritte appositamente per il film che non trascurino «il carattere coloniale e orientale dell’atmosfera in cui si svolge l’azione».

3. Gli attori e i personaggi È in questo habitat che si muovono i personaggi dei quali il progetto delinea la giovinezza, l’ambizione, la provenienza e il milieu di appartenenza: elementi che, inseriti nel contesto di Cipro, porteranno all’esplosione di una situazione apparentemente tranquilla e alla disgregazione dei rapporti. Da un lato una serie di giovani che accettano di buon grado il trasferimento da Venezia a Cipro, perché intravedono possibili avanzamenti di carriera; dall’altro un contesto nuovo e inesplorato da cui emergono, anche a causa di un clima cocente, tutte le contraddizioni sociali e culturali insite in questa microsocietà. Otello è l’esponente dell’aristocrazia locale, giovane e intelligente, militarmente fedele e valoroso, che la repubblica veneta non ha avuto difficoltà a confermare come “residente”: Iago, Cassio [...] sono giovani ufficiali che in attesa di raggiungere un grado remunerativo nell’esercito metropolitano, fanno in colonia i primi passi della loro carriera: naturalmente esuberanti e fatalmente invidiosi e rivali; Desdemona, prodotto di un’aristocrazia ancora potente ma intimamente corrotta, la figlia del lord che ha sposato il boxeur negro campione del mondo, l’unica donna “di classe”, estremamente bella ed elegante, quasi inconsapevolmente civetta; Emilia, la tipica moglie borghese dell’ufficiale coloniale; Bianca, l’unica donna “bianca” che tutti possono possedere, di volta in volta contesa e disprezzata per nostalgia e disperazione ecc.

Nonostante la suggestiva immagine della figlia del lord che ha sposato il «boxeur negro» e contrariamente a quanto afferma nell’agosto del 1946 su “Fotogrammi”19, Visconti vorrebbe un arabo, 19

Si veda la precedente nota 6.

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longilineo ed elegante, come Otello20, secondo una lettura filologicamente corretta del periodo storico in cui è ambientata la vicenda: il 1570, anno del principale attacco dei Turchi contro l’isola di Cipro, che al tempo era una colonia veneziana. Preferirebbe un marocchino – sia egli un attore di professione, un campione sportivo o un musicista –, ma non disdegna l’idea di un attore italiano truccato, come Roldano Lupi21. Pensa a Mariella Lotti per una Desdemona nobile, bella e capricciosa. Iago e Cassio dovrebbero essere entrambi giovani e prestanti. Seguendo Giraldi22, Visconti contraddice una certa vulgata che ha sempre rappresentato Iago come un uomo tutt’altro che avvenente, tutto cervello e spesso più anziano di Otello; potrebbe essere Claude Dauphin, il futuro Leca di Casco d’oro (1953), o Massimo Serato. Cassio, forse Massimo Girotti, dovrebbe essere tentante per Desdemona e temibile per Iago come per Otello. Per le parti di Cassio, di Emilia e di Bianca servono attori di prim’ordine: Rina Morelli (ma anche Evi Maltagliati, Maria Denis o Dhia Cristiani) per Emilia, più anziana e più ricca di Iago, «egoista e bruttina»; Bianca, una giovane leggera, potrebbe essere di carnagione sia chiara (Jacqueline Laurent o Anna Magnani) sia scura23. Visconti rivela la capacità di visualizzare già in fase di progetto i 20

Sulle interpretazioni di Otello nell’Ottocento e nel Novecento, si veda L. Caretti, Otello e Desdemona in Uganda, in Culture e mutamento sociale, a cura di M. L. Meoni, Le Balse, Montepulciano (SI) 2002, pp. 137-50. Cfr. anche A. Busi, Otello in Italia, Adriatica, Bari 1973 e Il teatro del personaggio. Shakespeare sulla scena italiana dell’800, a cura di L. Caretti, Bulzoni, Roma 1979. 21 Forse scelto anche per la memorabile interpretazione in Gelosia (1943), tratto dal romanzo Il marchese di Roccaverdina di Luigi Capuana e diretto da Ferdinando Maria Poggioli. Gianni Rondolino parla di Louis Jouvet come interprete che, però, non è mai menzionato nei documenti che ho consultato. Cfr. Rondolino, Luchino Visconti, cit., p. 158. 22 Cfr. la novella di Giraldi Cinthio: «Aveva costui [Otello] nella compagnia un’alfiero di bellissima presenza, ma della più scelerata natura, che mai fosse uomo del mondo. Era questi molto caro al Moro, non avendo egli delle sue cattività notizia alcuna; perché quantunque egli fosse di vilissimo animo, copriva nondimeno coll’alte e superbe parole, colla sua presenza di modo la viltà ch’egli chiudea nel cuore, che si scopriva nella sembianza un Ettore, od uno Achille». 23 Poco prima nel progetto si legge che dovrebbe essere bianca (cfr. citazione precedente).

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volti dei suoi personaggi e di amalgamare attori cinematografici e teatrali sia al cinema che in teatro. È come se avesse in mente una compagnia ideale, dove protagonisti e comprimari hanno pari importanza. Emerge, però, una differenza relativa all’uso degli attori nei due media: un’attrice come Rina Morelli, per esempio, che nel teatro di Visconti interpreta ruoli da protagonista, anche indipendentemente dalla sua età e bellezza, nel cinema ha parti notevoli ma secondarie e sempre in accordo con il suo aspetto fisico. Se nell’Otello avrebbe dovuto interpretare Emilia, in Senso sarà la governante di Livia Serpieri (Alida Valli) e nel Gattopardo la moglie del principe di Salina (Burt Lancaster). Visconti disegna attraverso i personaggi femminili una struttura sociale diversa da quella proposta da Shakespeare: l’aristocrazia si identifica in Desdemona, la borghesia in Emilia, il popolo in Bianca. Innanzitutto il regista insiste sulla nobiltà di Desdemona, sia nel progetto che nel soggetto, proprio per differenziarla socialmente da Otello24. L’aristocrazia di Desdemona e la diversità degli incarnati pongono l’accento sul fatto che la scelta “rivoluzionaria” della donna la conduce inevitabilmente al sacrificio di se stessa. A questo si aggiunga che Emilia appartiene alla borghesia e ha sposato un uomo più giovane e meno abbiente di lei. Desdemona ed Emilia sono “superiori”, sia dal punto di vista sociale che economico, rispetto ai compagni, tradiscono la loro classe di appartenenza e vengono sconfitte. Secondo Guido Fink25, questo tema, a livelli diversi, ritorna spesso nella filmografia del primo Visconti (basti pensare a Giovanna e Gino o Livia e Franz), e non solo, perché con sfumature diverse è una delle caratteristiche che il regista aggiunge al Macbeth e alla Lady shakespeariani sia nel Macbeth 1967 che nella Caduta degli dei. Il complesso discorso di Fink è finalizzato a individuare la presenza e l’importanza dei temi melodrammatici nel cinema viscontiano e a debellare i più diffusi luoghi comuni sul ruolo del melodram24

Otello, come si è visto, è «l’esponente dell’aristocrazia locale», e non di quella veneziana. 25 G. Fink, «Conosca il sacrificio...»: Visconti fra cinema e melodramma, in Visconti: il cinema, a cura di A. Ferrero, Catalogo critico pubblicato dall’Ufficio Cinema del Comune di Modena, Modena 1977, pp. 84-97.

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ma nella sua opera. Qui mi preme sottolineare che ritrovare la stessa tematica in questo progetto sottolinea come Visconti sovrapponga motivi tipicamente verdiani all’opera di Shakespeare, secondo quella contaminazione continua che caratterizza i suoi adattamenti e rivelando la sua predisposizione nei confronti di due autori che tende ad assimilare.

4. Le passioni e la Storia Nel progetto si precisa che non si tratterà di un’attualizzazione della tragedia ma di un film in costume, anche se privo di quella grandiosità tipica dei film storici, ovvero «costose ricostruzioni scenografiche, battaglie navali, masse, armi, cavalli e tutto il consuetudinario orpello decorativo veneziano e cinquecentesco». In linea con il testo di Shakespeare e con quello di Boito, il film farà interagire le passioni che animano i personaggi con la natura del luogo, cercando di avvicinare alla sensibilità moderna, «fuori d’ogni eccesso e compiacimento decorativo, la sostanza umana ed eterna del dramma [e di] renderlo “possibile” ieri, come oggi come domani». Se le passioni rappresentate sono metastoriche, la scelta di Otello, come quella degli spettacoli teatrali shakespeariani del 1948-49, affonda le radici negli anni Quaranta e nella tragedia della guerra. Il rapporto con la contemporaneità è un altro dei tratti distintivi dell’opera del regista: basti pensare alla valenza che assumono I Malavoglia di Verga nella Terra trema o a quella del Risorgimento come rivoluzione mancata in Senso. Ma non si tratta mai di pura attualizzazione esteriore. Visconti ricostruisce scrupolosamente il contesto storico delle vicende, ponendole sempre in rapporto dialettico con il presente. Le passioni dei protagonisti di Otello riflettono anche una serie di contraddizioni rispetto alla norma vigente e rappresentano gli elementi di modernità già evidenti nell’opera di Shakespeare. Innanzitutto la coesistenza di individui di etnie diverse: i veneziani vengono comandati da un Moro, un generale dalla pelle scura che ha anche sposato la bella e bianca Desdemona, contraddizione che nella tragedia viene rimarcata dall’insistita antitesi tra bianco e nero. Inoltre,

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la rivalità e l’invidia di Iago per Otello hanno una base economica evidente: «le forniture e il commercio tra colonia e madrepatria». La riduzione cinematografica dovrebbe usare questi elementi di modernità «per rappresentare lo sfondo psicologico e umano della tragedia», e inoltre non dovrebbe rinunciare a «notazioni più propriamente psicologiche, sensuali e morbose», quali, da un lato, i motivi delle lenzuola nuziali, del guardare Desdemona dormire, della violenza con cui Otello la colpisce davanti agli attoniti ambasciatori veneziani, del morboso isolamento in cui la tiene; dall’altro, l’irrazionalità della gelosia che crea prove a se stessa e rende l’uomo cieco di fronte alla realtà dei fatti. E non è un caso che Visconti pensasse per la sceneggiatura non solo a uno studioso shakespeariano, ma anche a Guido Piovene26, scrittore «particolarmente adatto allo studio di caratteri tortuosi e di situazioni morbide e morbose». L’interesse per le passioni è una costante del cinema di Visconti, a cui non basta, come sottolinea Nicola Badalucco27, delineare il carattere (la somma delle componenti esteriori del personaggio: aspetto, età, sesso, temperamento ecc.) e il tipo (la somma delle componenti sociali: classe, cultura, educazione ecc.). Diversamente dal cinema che si basa sulla mobilità delle situazioni e sulla predestinazione dei personaggi, dal cui incontro scaturisce il racconto, il cinema di Visconti muove dalla psicologia, che non è un dato fisso, come il tipo o il carattere, ma viene sottoposta a continui cambiamenti. Come ho cercato di sottolineare attraverso l’analisi del rapporto tra il testo primario e le fonti, e attraverso rimandi diretti ad altri film, in questo progetto si trovano già molti dei modi e dei temi che caratterizzano l’opera cinematografica di Visconti, non ultimi i binomi eros/thanatos e sesso/denaro. Non stupisce, quindi, rintraccia26 Autore, fra l’altro, di Lettere a una novizia e di una pièce, I falsi redentori, scritta appositamente per la Compagnia italiana di prosa diretta da Visconti. Inoltre, Piovene figura con Pietrangeli, Antonioni e Visconti come autore della sceneggiatura del 1946, Il processo di Maria Tarnowska, cit. 27 Cfr. N. Badalucco, Come si scrive una sceneggiatura, in “Cinema&Cinema”, n. 56, settembre-dicembre 1989, pp. 9-18; e anche Id., Film architettura in tre atti, in “Cinema Nuovo”, nn. 4-5, luglio-ottobre 1989, pp. 9-11.

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re una corrispondenza tra le parole del progetto scritto nel 1944 e quelle con cui Visconti descrive a Farley Granger Senso: L’idea di fare un film quasi storico non mi avrebbe convinto in modo assoluto se non avessi visto la possibilità di raccontare (immerso in un clima di eccezionalità come è quello di una guerra, di una qualsiasi guerra) una vicenda d’amore, una vicenda passionale e violenta come è quella che travolge i due protagonisti [...]. [...] la possibilità di guardare dentro le passioni umane senza ombra di convenzionalità e costruzioni di formule retoriche [...]. [...] io ho guardato soprattutto a ciò che mi interessava, cioè la vicenda passionale di due esseri umani nemici in teoria, perché in campi avversi, che vanno guardati in profondità e seguiti nei loro movimenti psicologici, nei loro tentennamenti fra il bene e il male con assoluta spregiudicatezza e sincerità. E il mio scopo è di farne i rappresentanti di due mondi in contrasto. Soprattutto, il risultato che mi preme di raggiungere è che questa vicenda sia altrettanto attuale, vera e appassionante che se si verificasse oggi sotto i nostri stessi occhi: fra un tenente di un esercito nemico e una donna di un paese occupato [...]28.

Nel progetto per un Otello cinematografico sono numerosi gli elementi che ritroveremo poi non solo in Senso ma anche in altre vicende viscontiane: in particolare l’interesse per la Storia e la sua rappresentazione, utilizzata come sfondo attivo in cui si muovono personaggi tragici o melodrammatici e subordinata alla dimensione soggettiva e all’indagine spesso impietosa delle loro psicologie. La «scena della Storia»29, quindi, non assume mai il ruolo di protagonista. Le passioni violente e contrastanti, quelle di personaggi che pur appartenendo a fronti avversi si amano, oppure si odiano pur condividendo lo stesso fronte, vengono acuite dalla contingenza di una guerra o dall’avvento di una dittatura, da cui traggono un carattere di eccezionalità. È proprio in questo clima, a cui si sovrappone 28

Dalla lettera di Visconti a Farley Granger, conservata presso l’Archivio “Visconti” e pubblicata su “la Repubblica”, 8 ottobre 2006. 29 Sul rapporto tra la Storia e i film di Visconti, si veda A. Costa, Visconti, Il Gattopardo e la scena storica, in Id., Immagine di un’immagine. Cinema e letteratura, UTET, Torino 1993, pp. 115-27.

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una passione assoluta, che l’interesse personale e quello collettivo si confondono, il male e il bene perdono i loro contorni e diventano indistinguibili per personaggi accecati dalla propria ossessione. Questo rapporto con la Storia, e in particolare con la guerra usata in chiave contrappuntistica rispetto alle passioni, viene ribadito e ampliato nel soggetto scritto da Visconti in collaborazione con Pietrangeli.

5. La trama di Iago in flashback Nel soggetto Otello. Il Moro di Venezia la storia di Giraldi, variamente “ricontaminata” attraverso Shakespeare e Boito, viene scomposta e rimontata in una prospettiva nuova: il presente della narrazione è a Venezia durante il processo contro Otello, mentre le vicende di Cipro vengono evocate dalle testimonianze. Il soggetto infatti si apre con la morte di Desdemona sulla quale precipita la trave dal soffitto, mentre una campana d’allarme, che segnala un attacco turco, mette in fuga la popolazione di Cipro. Soltanto due ombre si staccano dalla folla e si perdono nel buio: il racconto svelerà più avanti che quelle ombre appartengono a Otello e Iago. Sullo svolgimento dei fatti di quella notte insistono le domande che i giudici veneziani rivolgono al Moro. L’imputato nega ogni responsabilità, ma la famiglia di Desdemona lo accusa per difendere «le ragioni di una casta e la supremazia di una razza»30. Durante il processo la vicenda prende forma attraverso gli elementi forniti dalle accuse e dalla versione dei fatti riportata da Cassio. Il suo arrivo in tribunale è vissuto da Otello, che lo crede morto, come l’apparizione di un fantasma31. La sua deposizione innesca nella mente del Moro una serie di flashbacks che visualizzano anche i momenti a cui non aveva assistito, ovvero la trama di Iago che aveva screditato Cassio ai suoi occhi, lo aveva spinto a chiedere aiuto a Desdemona e gli 30 Questa e le citazioni successive, ove non indicato diversamente, sono tratte da Pietrangeli, Visconti, Otello. Il Moro di Venezia, cit., p. 48. 31 Esattamente come l’apparizione fantasmatica di Herbert al castello von Essenbeck durante la cena dei superstiti nella Caduta degli dei.

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aveva dato il fazzoletto affinché, restituendolo, potesse incontrarla di nuovo. Il racconto ha un effetto catartico su Otello, che finalmente confessa. E la sua confessione è una specie di accorato colloquio con Cassio, l’amico d’un tempo – l’unico sfogo che può ancora essere concesso alla sua disperazione. Così, come in un mosaico di cui finalmente si ricompongono i frammenti, i racconti di Otello e Cassio si completano, a restituire in tutti i suoi aspetti la storia di quella tragedia. E subito Desdemona, la sua bellezza, l’amore di Otello, Cipro, la guarnigione assediata, la guerra e le trame di Jago escono dal mondo dei fantasmi per prendere corpo: vincendo la lontananza del tempo e dei luoghi, irrompono in quella stanza con l’evidenza toccante della realtà (p. 50).

Come le tessere di un mosaico, i ricordi di entrambi concorrono a colmare i vuoti e le ambiguità del passato: l’amore, l’odio e la guerra si compenetrano. Una guerra che anima le calde giornate immerse nella noia, una guerra che non è solo quella contro i Turchi ma anche quella fatta di invidie e rivalità, che gli ufficiali combattono fra loro, mentre la «razza inferiore», gli abitanti di Cipro, lavorano nella puzza stagnante dei vicoli e muoiono di fame. Tuttavia, basta assumere il punto di vista di Otello e Desdemona e l’isola si trasforma in un luogo carico di romanticismo, dove i due giovani possono amarsi liberamente, lontani da ogni pregiudizio e inconsapevoli del destino che li attende. Su quell’orizzonte sgombro, un’ombra leggera era venuta un giorno a turbare lo spensierato fluire della passione. Un’ombra letta sul volto di Jago. Il primo dubbio, incerto e incredibile. Ma in fondo ad ogni uomo vive un terrore sacro della soverchia felicità. L’uomo felice è inviso agli dei (p. 51).

Accecato dalla gelosia, Otello crede a tutto ciò che Iago suggerisce, puntualmente confermato dal fazzoletto e dal malore che coglie Desdemona alla notizia della morte di Cassio. Da un lato, Iago, pur innamorato di Desdemona, riacquista tutta la perversità shakespeariana attestandosi come compiaciuto deus ex machina della vicenda:

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Iago è come l’artista, o meglio il regista, che dopo aver inventato l’intreccio assegna le parti e, secondo il metodo Stanislavskij, le fa rivivere ai propri personaggi. Ipocrita per la gioia di essere ipocrita, malvagio per piacere del male, Jago s’era compiaciuto della sua invenzione, e l’aveva attuata momento per momento con fertile fantasia, provando lo stesso godimento che prova un artista a creare la sua opera. Il suo senso di superiorità, la sua abilità, la sua intelligenza perversa erano riusciti a provocare e a smuovere negli altri i sentimenti più bassi, a scatenare le passioni più insane (p. 49).

Dall’altro, la guerra invade prepotentemente la scena. In camera da letto un “montaggio verticale” contrappone al linguaggio muto dei corpi degli sposi il fragore delle campane che segnalano l’attacco turco. Nella notte i rintocchi impazziti della campana d’allarme si spandono furiosi, dilagano dalla marina per le quiete stradette, s’ingolfano nelle piazze, rintronano cupi nella stanza di Desdemona. Ma Otello non sente. Alza un braccio, e con la calza piena di sabbia che tiene in mano vibra un colpo alla donna. Desdemona si appoggia sulla sponda del letto, senza un grido. Un secondo colpo l’abbatte riversa sul letto. Disperatamente, il suono della campana continua. I primi colpi dell’artiglieria turca squassano l’aria. Come spinta da una vampata, la finestra della camera si spalanca con violenza. Ora accanto a Otello è apparso Jago (p. 53).

Satana è giunto spalancando la finestra come il conte Orlok in Nosferatu (1922) e come Faust nel film omonimo di Murnau del 1926. Di fronte all’invocazione di Desdemona Iago strappa la calza dalle mani di Otello e la uccide con tanta voluttà che anche l’ingenuo Moro, senza afferrarne il senso, intuisce qualcosa che lo spinge a scagliarsi contro il complice, a inseguirlo e a finirlo. Questi ricordi allucinati spingono Otello a confessare anche il secondo delitto, poi rovina a terra morto davanti ai giudici: si è tolto la vita con un’arma che Cassio gli ha offerto. La guerra scandisce l’a-

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zione e si manifesta quasi sempre attraverso il suono, prefigurando per contrasto o echeggiando la follia di Otello. A ciò si aggiunga che il Moro e Cassio vengono presentati come due reduci, mentre i due veri protagonisti, Iago e Desdemona, rifulgono nei loro ricordi. I due amici hanno perso lo splendore di un tempo. Privato del comando e imprigionato, Otello è in preda alla sua follia, l’altro «è un rottame umano, segnato dalle esperienze più amare, un veterano che s’appoggia a un bastone» (p. 50). La presenza della guerra viene dilatata rispetto alle fonti e al progetto, assumendo un ruolo attivo nell’articolazione della vicenda. È infatti l’attacco turco a far crollare il soffitto. Uno scoppio più vicino degli altri scuote le vecchie mura della casa. Poi, con fragore, il soffitto della stanza si abbatte sul corpo di Desdemona, quasi a ricoprire pietosamente le tracce d’un assurdo delitto (p. 54).

Anche se non si fa riferimento esplicito alla Seconda guerra mondiale, come invece prevedevano altri progetti non realizzati del medesimo periodo32, l’esperienza del regista si traduce in scelte non solo politiche ma anche artistiche, contaminando la sua creazione. I personaggi di Shakespeare, Boito e Giraldi risentono profondamente delle vicende viste, ascoltate o vissute da Visconti negli anni Quaranta: la prigionia, le torture, gli attacchi militari. La guerra penetra nelle fonti letterarie e sconvolge i rapporti interpersonali, smascherando la fragilità delle convinzioni dei protagonisti, secondo un procedimento che Visconti adotta anche nelle prime regie teatrali. Luigi Squarzina, a proposito dei Parenti terribili (Roma, Teatro Eliseo, 30 gennaio 1945), scrive: Da quel giaciglio malato, da quei tappeti e tappezzerie che ovattavano le urla delle vittime di se stessi affiorava la mostruosità delle tortu-

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Penso ai progetti di argomento resistenziale, come Pensione Oltremare e l’adattamento del romanzo di Elio Vittorini Uomini e no. Cfr. Rondolino, Luchino Visconti, cit., pp. 151-64.

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Maria Letizia Bellocchio

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re di via Tasso, rischiate dal regista arrestato dai nazifascisti nell’aprile del 1944 e salvato dalle amicizie influenti della madre33.

Aggiungerei che quando Visconti mette in scena il testo di Cocteau, a Roma vige ancora il coprifuoco, mentre nell’Italia del Nord tedeschi e fascisti sferrano violente offensive contro i partigiani. Non stupisce quindi ritrovare anche nel soggetto di Otello, il cui progetto viene concepito proprio durante la prigionia, gli echi dei ricordi trasfigurati in situazioni diverse, ma che senz’altro avrebbero agito sulla memoria collettiva del pubblico, coinvolgendolo attivamente e sostanziando il testo adattato per lo schermo – come quelli allestiti per il palcoscenico – di una verità che supera la loro letterarietà e affonda le radici nel passato più recente, o addirittura nel presente. Le altre novità del soggetto sono relative ai personaggi e alla struttura del racconto. L’amicizia tra Otello e Cassio assume un ruolo nuovo e centrale, subordinando a sé gli altri personaggi. Da un lato Iago e Desdemona, come si è già detto, vivono soltanto nei loro ricordi, pur mantenendo una funzione essenziale. Dall’altro, scompaiono Emilia e Bianca che, invece, svolgono nel progetto un ruolo non marginale e per le quali Visconti pensa a grandi attrici come la Morelli o la Magnani. Il tema dell’amicizia maschile è stato ripetutamente trattato da Visconti, con risvolti drammatici e con un’evidente allusione omosessuale. Questi rapporti tra uomini sono spesso avvelenati da incomprensioni o da un vero o presunto tradimento: Gino e lo Spagnolo, Rocco e Simone, Friederich e Aschenbach, Ludwig e Wagner. Diversamente dai casi elencati, però, il rapporto tra Otello e Cassio diventa il vero motore dell’azione, imprimendo alla vicenda uno sviluppo inedito. Sebbene Othello resti ben riconoscibile, la concatenazione degli eventi assume una forma non riconducibile né a Shakespeare, né a Verdi, né a Giraldi. In quest’ultimo è già presente l’idea del processo a Venezia, ma chi rivela la verità è Emilia, e non Cassio. 33

L. Squarzina, Il romanzo della regia. Duecento anni di trionfi e sconfitte, Pacini Editore, Pisa 2005, p. 318.

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Otello di Visconti

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La struttura del racconto presenta numerose analogie con la sceneggiatura del Processo di Maria Tarnowska e con l’Othello di Welles, per il quale basti ricordare la sequenza iniziale che svela l’epilogo della tragedia34. Il progetto Tarnowska, come già l’episodio documentaristico diretto da Visconti in Giorni di gloria (1945)35, è incentrato sul processo. La sceneggiatura, secondo Veronica Pravadelli36, rappresenta cronologicamente e formalmente il punto intermedio tra Citizen Kane (1941) di Welles e Rashomon (1950) di Kurosawa. Come i due capolavori, anche la sceneggiatura procede attraverso flashbacks che rivelano le stesse vicende narrate da diversi punti di vista. Visconti e Pietrangeli in Otello. Il Moro di Venezia adottano la medesima tecnica narrativa con la differenza fondamentale che questo espediente non viene utilizzato per frantumare e relativizzare la verità, ma per ricomporla. Se le parole di Otello svelano a Cassio la causa della sua disgrazia, quelle dell’amico hanno su Otello un potere catartico: una sorta di rappresentazione nella rappresentazione. La successione dei ricordi dei protagonisti ricostruisce le dinamiche della vicenda senza lasciare molti dubbi ai giudici e al lettore.

34 Alla fine del 1946, Visconti decide che l’interprete della Tarnowska non può essere Isa Miranda e propone la parte a Clara Calamai. Il film che doveva essere prodotto dalla Lux di Alfredo Guarini, marito della Miranda, subisce ovvi rallentamenti. In una lettera, conservata presso l’Archivio “Visconti” (catalogata CR 014337), la Calamai suggerisce al regista di rivolgersi a Giuseppe Barattolo della Scalera Film in quanto sarebbe interessato al progetto Tarnowska. Non ho trovato documenti che testimonino del rapporto tra Barattolo e Visconti, ma mi pare almeno curioso che soltanto due anni dopo Orson Welles inizi la lavorazione di Othello, avvalendosi di una struttura narrativa molto simile a quella elaborata da Visconti e Pietrangeli, e lo faccia proprio con la Scalera. 35 E poi anche Ludwig (1973). 36 V. Pravadelli, Il processo di Maria Tarnowska: scenari psichici e innovazioni formali, in Antonioni, Pietrangeli, Piovene, Visconti, Il processo Maria Tarnowska. Una sceneggiatura inedita, cit., pp. 40-7.

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Musica

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Paolo Gallarati*

Musica e regia: l’interpretazione scenica della partitura teatrale

1. La regia operistica Il mio omaggio a Visconti regista d’opera sarà obbligatoriamente, in questa occasione, un tributo indiretto. Per ragioni anagrafiche, infatti, io non ho assistito a nessuno dei venti spettacoli che, dalla Vestale, rappresentata alla Scala nel 1954, alla famosa Manon Lescaut, vista a Spoleto nel 1973, rappresentano il contributo importantissimo dato da Visconti alla regia del teatro musicale. Potrei parlare solamente di alcune tarde riprese, come quelle del Don Carlo romano, o delle Nozze di Figaro: ma il mio discorso non sarebbe molto interessante perché se, a distanza di anni, rimangono quasi intatte le scene e i costumi originali, va però fatalmente perduto quel minuto lavoro di recitazione con cui Visconti rinnovò dall’interno il teatro musicale. Il mio discorso affronterà, quindi, alcuni problemi teorici che gli spettacoli di Visconti contribuirono a sollevare, aprendo nuove prospettive alla regia dell’opera lirica e restituendo vitalità scenica al genere più problematico, quel melodramma italiano dell’Ottocento che si riteneva ormai irrimediabilmente sclerotico e in grado di sopravvivere solo per la bravura dei cantanti e del direttore d’orchestra. Attraverso le recensioni del tempo è possibile sintetizzare alcune caratteristiche fondamentali che colpirono il pubblico degli spettacoli operistici di Visconti: rispetto per la musica, leggerezza di mano, naturalezza, realismo, consapevolezza culturale mai ostentata ma risolta in immediatezza di rappresentazione. Le cronache, oggi leggibili nell’antologia curata da Caterina d’Amico * Università di Torino.

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Paolo Gallarati

de Carvalho e Renzo Renzi1, ci ricordano che Visconti modulava magistralmente lo spettacolo nel contrasto tra azione e quadri fissi, lasciando immobile ciò che deve essere immobile ed evitando movimenti inutili; coglieva così, della drammaturgia musicale italiana, le variazioni di tempo, ossia la sua pulsazione interna che ne garantisce il principio vitale. Ciò che colpì gli spettatori2 fu l’ assunzione delle convenzioni sceniche, specie nell’impiego del coro, non come un ostacolo ma come momentanea delega alla musica di ogni responsabilità espressiva: la regia dell’Anna Bolena (Milano, 1957) mostrò che «la novità non era necessariamente prodotta dall’originalità dei singoli momenti, ma dal loro grado di relazione, e che le convenzioni ottocentesche potevano venire addirittura rivitalizzate dalla presenza d’un regista che le assumesse criticamente come oggetto della rappresentazione»3. Visconti lavorava dunque sulla musica, prima che sul libretto e sulle didascalie: condizione necessaria per le massime riuscite nel campo del teatro musicale, come ricordò Carlo Maria Giulini: Ho fatto l’opera in un periodo fortunato, quando avevo a disposizione voci straordinarie, pensiamo alla Callas, alla Tebaldi, a Corelli, a Bastianini; e c’erano registi altissimi, come Luchino Visconti. Inoltre avevamo tutto il tempo necessario per preparare i nostri spettacoli. Quando feci la Traviata alla Scala nel 1955, con la Callas e Visconti, prima di iniziare le prove, io, la Callas e Visconti abbiamo lavorato per due settimane solo su Violetta. Tutti i giorni ci chiudevamo in una stanza e si lavorava senza guardare mai l’orologio. Volevamo che il personaggio corrispondesse a ciò che voleva Verdi. Poi, abbiamo iniziato le prove e anche queste sono andate avanti senza barriere di tempo. Abbiamo ottenuto dei buoni risultati perché quell’allestimento viene ancora citato come un punto di riferimento. Allora si poteva lavorare in questo modo. Poi le cose sono cambiate. I registi hanno co1 Luchino Visconti. Il mio teatro, 2 voll., a cura di C. d’Amico de Carvalho, R. Renzi, Cappelli, Bologna 1979. 2 Cfr. F. d’Amico, Luchino Visconti e l’opera, in Viscontiana. Luchino Visconti e il melodramma verdiano, a cura di C. d’Amico de Carvalho, Mazzotta, Milano 2001. 3 G. Guccini, Direzione scenica e regia, in Storia dell’opera italiana, a cura di L. Bianconi, G. Pestelli, vol. V, Edt/Musica, Torino 1988, pp. 125-74.

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Musica e regia

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minciato a voler fare la “loro” Traviata, il “loro” Falstaff, il “loro” Don Giovanni, la “loro” Norma, dimenticando che queste opere hanno autori del calibro di Verdi, Mozart, Bellini; gli artisti non avevano tempo per provare: oberati da impegni in ogni parte del mondo, davano una disponibilità di pochi giorni per le prove, inoltre le loro voci apparivano logore e mortificate da una routine massacrante. No, in queste condizioni non è possibile fare l’opera, almeno per me e così con il melodramma ho rinunciato definitivamente4.

Le cause del “gran rifiuto” di Giulini erano chiare. Ma in che senso si può affermare che un regista vuol fare «la sua Traviata», «il suo Falstaff» «il suo Don Giovanni»? Forse che ogni spettacolo non è un’operazione soggettiva di interpretazione? Evidentemente Giulini alludeva ad un eccesso di libertà nei confronti del testo. Ma, come ha osservato Pierluigi Petrobelli5, è illusorio sostenere che vi siano due modi di mettere in scena l’opera: uno storico e oggettivo, basato sul rispetto delle didascalie e su documenti d’epoca, e un altro in cui il regista fa quello che vuole, ricreando liberamente ambientazione, scene e costumi. Anche uno spettacolo basato sui bozzetti originali è frutto di una scelta personale, senza contare che viene percepito, oggi, come soggettiva ricostruzione storica, cioè in modo del tutto diverso da come lo vedevano i contemporanei. La domanda, allora, va posta in questi termini: quali sono i limiti entro cui deve essere contenuta la messa in scena, in modo da conciliare fedeltà all’opera e modernità di soluzioni? Che cosa bisogna fare per rendere attuali i classici e rinnovare sul pubblico l’impressione di novità e freschezza che esercitavano sui loro contemporanei? Qual è il modo migliore che permette alla cultura del regista di interagire con la cultura dell’opera rappresentata in uno scambio vitale di energie poetiche e intellettuali? A teatro può accadere di tutto: allestimenti che trasportano l’opera in tempi e luoghi diversi possono essere più fedeli di altri, rispettosi dell’ambientazione origina4 L’intervista, pubblicata dalla rivista giapponese “Ongaku No Tomo”, è leggibile in italiano sul sito http://www.tonyassante.com/renzoallegri/giulini/indice.htm 5 P. Petrobelli, La regia dell’opera: lettura storica o interpretazione attuale?, in Enciclopedia della Musica, vol. IV, Einaudi, Torino 2004, pp. 951-5.

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ria; e viceversa, spettacoli cosiddetti tradizionali possono sembrare più nuovi, giovani e moderni di quelli basati sui logori luoghi comuni dell’avanguardia. Una bussola è quindi necessaria per evitare sbandamenti e avventure. La regia lirica ha un merito enorme: sviluppatasi impetuosamente dopo la Seconda guerra mondiale, ha rinnovato un tipo di teatro polveroso, stereotipo e finto, salvandolo dall’estinzione. Oggi, però, si rischia di disamorare il pubblico con elucubrazioni mentali e soluzioni visive incomprensibili o totalmente estranee al testo rappresentato. Non sono infrequenti i casi in cui lo spettacolo, se non viene preventivamente spiegato, diventa incomprensibile. Il che rappresenta, semplicemente, la morte del teatro. Davanti ad un vero e proprio enigma ci siamo trovati, per esempio, a Bayreuth nel 2004, dove, nel Parsifal del regista Christoph Schlingensief, la foresta è trasformata in una periferia metropolitana, con baracche, reti metalliche e filo spinato, scale, torrette e architetture antiche, nonché una specie di piscina in cui si sdraia una donna di colore, corpulenta e a seno nudo. Sarà per sottolineare l’universalità del messaggio wagneriano che i cavalieri del Graal sono indiani, arabi, frati, vescovi, gente in abito etnico, selvaggi dell’Africa nera con cappelli piumati, elmi, teste ricciolute tra cui, ad un certo punto, compare persino Napoleone? Nello stesso quartiere di periferia è ambientato il giardino di Klingsor, dove Kundry tenta di sedurre Parsifal tra un bucato steso di lenzuola insanguinate. Una vera ossessione sono, poi, le continue proiezioni su grande schermo di immagini astratte e figurative, e la presenza degli animali: durante il disvelamento del Graal, nel primo atto, è proiettata l’immagine gigantesca di una gallina e, nell’ultimo, quella di due conigli morti in via di putrefazione. Schlingensief dice di voler fare un discorso sulla morte. Che c’entra, allora, il branco di foche che passeggiano allegre, poco prima dell’incantesimo del Venerdì Santo? Chiudere gli occhi diventa quindi automatico, se si vuole godere la straordinaria esecuzione di Pierre Boulez e dei cantanti. Un altro caso emblematico per capire a qual punto di estraneità al testo può giungere l’interpretazione scenica della partitura teatra-

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Musica e regia

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le è quello del Flauto magico rappresentato a Salisburgo nel 2005. Nello spettacolo di Graham Vick (scenografo Paul Brown), che ha firmato in altri casi regie eccellenti, la prima scena si svolge in una camera da letto, forse per alludere a un sogno. La Regina della Notte, invece di arrivare dal cielo, spunta da sotto le lenzuola; Sarastro è vestito come un cacciatore delle Alpi, col fucile a tracolla; i tre geni, che la musica di Mozart lascia fluttuare leggerissimi, come creature dell’aria, sono personaggi della terra, vestiti da minatori con la pila sul casco. Perché, inoltre, tutto il secondo atto si svolge in una specie di caveau bancario, con tante cassette di sicurezza disposte sullo sfondo, e gente che continua a scavare (che cercano? oro?), mentre i sacerdoti sono seduti alle scrivanie, e Sarastro si aggira come il direttore della banca, severo e guardingo? L’elemento fiabesco, centrale nell’esecuzione di Riccardo Muti, è completamente abolito: la leggerezza fantasmagorica del Flauto magico è schiacciata sotto una proliferazione di simboli incomprensibile. Il pubblico si ribella e, cosa rarissima a Salisburgo, nel 2006 lo spettacolo viene sostituito con uno del tutto nuovo. I capolavori del teatro, e di quello musicale in particolare, offrono inesauribili spunti interpretativi, ma posseggono alcuni dati inoppugnabili su cui poggia l’intera costruzione musicale, narrativa e drammatica e di cui il regista deve tenere conto, rispettando i rapporti interni definiti dal libretto e, soprattutto, dalla partitura. Non si tratta di sostenere, qui, una vincolante adesione alla lettera del testo, ma di individuare quei pilastri portanti che permettono al testo stesso di acquistare significato, reggersi come struttura e vivere come forma organica. In una partitura teatrale gli snodi strutturali possono annidarsi ovunque: non solo nelle figure dei personaggi e nella natura delle situazioni, ma anche nella forma musicale, nelle ricorrenze ritmiche, melodiche, timbriche, nell’alternanza di momenti musicalmente più densi con altri più rarefatti; tutti elementi che il compositore dissemina attraverso il libretto, ricostruendone le proporzioni interne e conferendogli un significato imprevedibile. Alcuni di questi punti fermi sono facilissimi da cogliere perché espliciti; altri vanno snidati nell’intimità della forma musicale e richiedono, da parte del regista, una particolare sensibilità musicale.

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Paolo Gallarati

Facciamo un esempio. Rigoletto è gobbo. La sua deformità è l’immagine della scelleratezza, in contrapposizione con l’interiorità del padre, pieno d’amore. In questa duplicità di corpo e anima, esterno e interno, consiste l’essenza drammatica del personaggio. Non è necessario vestirlo da giullare, con il costume a bande colorate e i campanellini sul cappello; ma non si può eliminare l’immagine del corpo sofferente che, attraverso la musica, definisce l’identità stessa del personaggio con frasi musicali contorte, ritmi scazontici, oscurità timbriche e armoniche che avvolgono una figura barcollante e sofferente, un criminale eppure capace di amore. Il teatro può realizzare questa immagine con mezzi metaforici e allusivi, più efficaci, talvolta, della fedeltà letterale. Nel Nano di Zemlinsky, ad esempio, rappresentato a Torino nel 2001 con la regia di Annibal Arden, il nano era il tenore David Kübler, alto, sportivo e prestante, eppure capace di riprodurre in via metaforica, con le gambe legate, la gobba e l’atteggiamento in ginocchio, l’aspetto fisico del nano, ancor più impressionante, in quanto ottenuto rendendo visibile l’invisibile. L’essenza del personaggio d’opera è definita attraverso la musica. Il libretto di Cammarano potrebbe anche giustificare l’interpretazione vulgata di Azucena come vecchia zingara, brutta e sovreccitata, che si abbandona a gesti inconsulti, e ad una costante truculenza espressiva. Ma la musica di Verdi ritrae un personaggio diverso. La parte di Azucena è quasi sempre cantata piano, in un tono intimo e delicato, rotto solo qua e là da momentanei deliri. Suggerisce, quindi, una recitazione naturale, raccolta e controllata. Azucena compone splendide canzoni che tanto assomigliano a quelle di Manrico. L’amore per l’arte ne ha plasmato la personalità e quest’arte lei ha trasmesso al ragazzo: il legame con il figlio adottivo è quindi culturale e spirituale, un legame più forte del sangue. Nei suoi slanci istintivi Azucena dovrà quindi apparire sofferente ma nobile. Questo ci dice la musica. Trasportiamo pure Il trovatore dall’ambiente gitano del Quattrocento, che so io, in un accampamento di guerriglieri sudamericani: nulla andrà sciupato se Azucena, che ha perduto la madre e ucciso il figlio, sparandogli una pistolettata per errore, invece che bruciandolo nel fuoco, sarà pur sempre una creatura che, a monte e a valle, è stata tagliata fuori dalle sorgenti della vita.

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Il fuoco, però, ci deve essere: sarà magari un rogo di pneumatici usati, invece che di fascine, ma non può mancare. La fiamma è l’immagine concreta di un’ossessione interiore, di un fatto passato, ma anche la sintesi dei due principi fondamentali che animano la vita drammatica e musicale dell’opera: fissità e mobilità. Tutte le situazioni drammatiche e musicali del Trovatore sono fisse e mobili insieme, e il fuoco ne è la figura.

2. Gli oggetti e l’ambiente Molta importanza possono assumere alcuni oggetti. Nella Traviata, ad esempio, non si può rinunciare allo specchio che compare nel primo atto, quando Violetta scopre sul proprio volto dapprima un pallore presago, indi nell’ultimo, quando constata la trasformazione subita dalla propria immagine a causa della malattia. Non è indispensabile, si badi bene, la presenza dello specchio in quanto tale, ma è necessario fornire allo spettatore l’immagine dello specchiarsi, che si può ottenere anche con oggetti diversi, o con gesti allusivi, come, ad esempio, guardarsi il palmo della mano. Quello che è importante è preservare la funzione che gli oggetti assumono al di là della loro qualità specifica, che può andare dalla verosimiglianza alla più astratta stilizzazione. In ogni caso quel gesto deve esserci perché diventa, nel progetto verdiano, la figura teatrale, concreta, della memoria; riflette il dramma presente ma rimanda, per contrasto, alla bellezza passata; fa corpo, quindi, con l’esistenza stessa del personaggio, segnandone la parabola, dall’inizio alla fine dell’opera. Toglierlo, come ho visto fare, non solo rende incomprensibili i gesti di Violetta, ma elimina una fondamentale connotazione psicologica ed esistenziale della protagonista. Ci sono, dunque, nell’opera, punti di riferimento figurativi e narrativi assolutamente necessari. Se un legame essenziale può dunque mettere in relazione il personaggio con determinati oggetti, ancora più decisivo sarà il suo rapporto con l’ambiente. La musica, sotto questo aspetto, è molto più cogente del teatro di prosa: definisce le caratteristiche dei singoli luoghi e il rapporto di spazio, luminosità, tempo che li collega

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o li contrappone l’uno all’altro. Con troppa disinvoltura si trascura, ad esempio, la differenza tra interno ed esterno, solitamente indicata dal compositore con la massima chiarezza. Nel Don Carlo di Ronconi (Milano, 1977), Filippo II, invece di essere seduto alla scrivania, si aggirava in un sepolcreto. Veniva, così, distrutto quel senso di solitaria meditazione nello studio del re, evocata dalla filiforme melodia, dalla strumentazione cameristica, dall’effetto di prossima estinzione che il discorso musicale acquista, raffigurando con i suoni la consunzione delle candele che stanno per spegnersi, sulla scrivania del re, dopo la sua notte insonne, e gli suggeriscono pensieri di morte. Verdi allude, attraverso il suono, ad uno spazio concentrato e raccolto: ignorare questa indicazione significa snaturare l’essenza drammatica della scena. Allo stesso modo, nel Trovatore, è un errore trasportare in un interno l’aria di Leonora Tacea la notte e in un esterno la scena del carcere, come ha fatto Pier Luigi Pizzi al Maggio Fiorentino del 2003: nel primo caso, si tarpano le ali a una musica che suggerisce inequivocabilmente, con il suo volo melodico, l’espandersi del canto nell’aura notturna del giardino, illuminato dalla luna e che contrasta con l’ambiente pietroso e ferrigno della prima scena; nel secondo, si abolisce l’atmosfera di soffocante oppressione attraverso cui la musica ritrae la sensazione procurata dall’orrido carcere; la nostalgia di Azucena per la vita all’aria aperta e l’effetto nostalgico di «Ai nostri monti» vengono, in tal modo, completamente distrutti. Sono questi i veri errori che un regista può compiere, non la trasposizione dell’opera in epoche diverse da quelle indicate nel libretto. Nessuna elucubrazione interpretativa può giustificare, ad esempio, il fatto che Violetta muoia in un luogo diverso dalla propria camera da letto, carica di memorie e di oggetti legati al presente: il bicchiere d’acqua, il lume che arde, il camino acceso, lo specchio, squarcio della memoria che si apre su tutto un passato. Se si tolgono quegli oggetti, suggestivi come una natura morta, il senso di sofferenza fisica e spirituale in un ambiente privatissimo andrà delegato ad altro, pena la vanificazione di un aspetto essenziale della grande scena. Invece Cristina Comencini, a Firenze (2000), ambientò l’ultimo atto in un cortile d’inverno, con un albero scheletrito, in cui

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Musica e regia

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Violetta gironzolava, passando da una panchina all’altra, in vestaglia, incurante del freddo. Alberto Fassini (Torino, 2001) e lo scenografo Pierluigi Samaritani rispettano l’ambiente chiuso ma, chissà perché, fanno morire Violetta in una corsia d’ospedale, ignorando ciò che per Verdi era, evidentemente, importantissimo, vale a dire l’immagine dell’eroina agonizzante nel proprio letto, figura d’amore e di morte e motivo, come si sa, di straordinaria sorpresa presso il pubblico dell’Ottocento. Si trasporti pure quella camera in un grattacielo di Manhattan, o in qualsiasi altro tempo e luogo: ma se ne mantenga la funzione e il carattere. Talvolta registi e scenografi adottano la scena unica: una soluzione economica che da unità allo spettacolo. Bisogna però essere in grado di suggerire la differenza tra un luogo e l’altro, senza di cui lo spettacolo perde mordente, e diventa noioso. Si vedono, infatti, scene fisse così anonime che potrebbero andare bene per il Fidelio o per il Wozzeck, per il Don Carlo o per il Crepuscolo degli dei. Eppure, talvolta basta la presenza di pochi oggetti per suggerire, con la massima precisione, i diversi luoghi del dramma. Nel Don Giovanni di Peter Brook (Aix en Provence, 1998)6, ambientato ai nostri giorni, in abiti moderni, i diversi luoghi dell’azione sono resi in uno spazio vuoto, dove compaiono alternativamente qualche panca, alcuni sgabelli, un tavolino, transenne, qualche sedia, pertiche che discendono dall’alto. Eppure in virtù di un supremo virtuosismo evocativo, ogni ambiente diventa visibile. Il davanzale al quale s’affaccia Donna Elvira, ad esempio, nel terzetto del balcone, è un rettangolo di stoffa che scende dall’alto, in piena luce, al centro del palcoscenico. Protesa verso il pubblico, la ragazza scruta nella fossa dell’orchestra, come se lì fosse la strada da cui salgono le voci di Don Giovanni e Leporello. In realtà, i due beffardi ragazzi sono sul palco, poco discosti da lei ma, per loro, il balcone da cui proviene il canto di Elvira è un punto lontano, in alto, al fondo del teatro, e verso quell’orizzonte si protendono, gestico6

Per una descrizione dettagliata di questo spettacolo, cfr. P. Gallarati, Mozart e Shakespeare nel “Don Giovanni” di Peter Brook, in “Il Saggiatore Musicale”, VIII, 2001, 2, pp. 261-94.

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lando con enfasi. Questa scomposizione “cubista” della scena, in cui due piani, balcone e strada, sono ribaltati al proscenio, nasce dai procedimenti specifici della drammaturgia musicale; rende i personaggi lontani nella fuga degli sguardi che non s’incrociano, ma nel contempo esalta, con la vicinanza fisica, il contrasto degli affetti sovrapposti nella polifonia a tre voci: da un lato la strafottenza di Don Giovanni che si diverte alle spalle di Elvira, dall’altro l’ingenuità della donna innamorata. Nella regia di Brook, Mozart è presente in toto: i procedimenti tipici della drammaturgia musicale convivono con la naturalezza dell’espressione, la compresenza di gesto e psicologia, realismo e astrazione, serietà e gioco. Lo spettacolo di Brook è tanto semplice quanto efficace nel destare immagini che lo spettatore vede dentro di sé, a cominciare dalla scenografia. Nella scena del ballo bastano alcuni pali che scendono dall’alto per rendere l’immagine della sala a colonne, entro cui i movimenti dei personaggi costruiscono uno spazio labirintico che si coglie con impressionante precisione. Ancora una volta, è il labirinto interiore definito dalla musica di Mozart, con le tre danze sovrapposte, a materializzarsi in forme visibili. E lo spettacolo è insieme fedelissimo e libero nella attualizzazione della vicenda e nell’esaltazione del suo significato. Dunque portiamo pure il Don Giovanni dove vogliamo: in Spagna, nel Seicento, oppure in Africa, in Russia, ai nostri giorni, ma non limitiamoci a travestire l’opera in una generica modernizzazione. Quel che conta è renderla moderna, rispettando ciò che è eterno, vale a dire gli intimi rapporti della struttura musicale e narrativa. Nell’ultimo atto di Rigoletto, ad esempio, il regista e lo scenografo non possono trascurare l’articolazione dello spazio definita dal dramma e dalla musica che colloca i personaggi, contemporaneamente, all’interno e all’esterno dell’osteria di Sparafucile, in basso, a pianterreno, sul fienile, e usa effetti d’eco e di suoni in lontananza per contrapporre ciò che si vede con lo sfondo atmosferico da cui proviene il temporale: i suoni di natura, del lampo, del vento, del tuono, i rintocchi di campana che echeggiano di lontano, spalancano, oltre la scena, la profondità della notte. Analogamente, in Aida la continua presenza della musica dietro il palcoscenico realizza la presenza di ambienti che si prolungano a perdita d’occhio, co-

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me indicato nelle didascalie di Ghislanzoni; per non parlare dell’ultimo atto, con la visione contemporanea e sovrapposta del tempio e del suo sotterraneo. Si tratta, quindi, di forme simboliche dello spazio, che non è necessario tradurre in chiave realistica, ma che il compositore ha reso attraverso il potere evocativo della musica. Robert Carsen, per esempio, nelle Nozze di Figaro allestite a Genova 2004 insieme allo scenografo Charles Edwards, ha interiorizzato lo spazio labirintico del giardino mozartiano nell’immagine di un labirinto interiore: la notte è sullo sfondo con un cielo blu scuro; un sentiero di lumini accesi brilla nel buio, mentre una selva di manichini rende l’idea del giardino. Detto così, sembrerebbe assurdo; in realtà, il gioco degli equivoci, degli scambi di persone, dei personaggi che si nascondono osservando gli altri, riesce assai bene, e i manichini hanno, più delle piante, l’aspetto di presenze assorte, in sintonia con il mistero che si sprigiona dalla musica.

3. Il rapporto tra musica e scenografia Sta di fatto che il regista d’opera e il suo scenografo devono scegliere: o scene astratte oppure realistiche. Mescolare le due possibilità all’interno dello stesso spettacolo genera confusione. Lo hanno fatto Mario Martone e Sergio Tramonti nelle Nozze di Figaro rappresentate al San Carlo di Napoli nel marzo 2006: il risultato è un’incertezza che si riflette sull’intero spettacolo, e ne compromette la chiarezza e la tensione. Una terza via è la scenografia simbolica, ma non tutte le partiture vi si adattano. La linea che da Wagner arriva al primo Strauss e a Debussy la sopporta bene; resta la questione soggettiva del gusto. Vi lascio decidere se di buon gusto fossero i simboli che il regista Harry Kupfer ha impiegato nell’Elektra rappresentata alla Staatsoper di Vienna nel 1989: il fantasma di Agamennone sempre presente con la parte inferiore di un colosso di bronzo, due enormi gambe con stivali, e un piede appoggiato sulla sfera del mondo accanto ad una enorme testa mozza su cui si arrampicano i personaggi; le trame del destino materializzate nelle corde che

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penzolano dal colosso e che alla fine strangolano Elektra; l’ossessione del sangue resa dai quarti di macelleria che, all’inizio, ingombrano la scena e vengono raccolti in contenitori metallici dagli inservienti. Oltre all’articolazione dello spazio, il regista e lo scenografo trovano nella musica indicazioni precise circa le luci, i colori, i contrasti di ambienti, le ore del giorno, le stagioni, il paesaggio, il tipo di natura. Non si tratta, però, di riprodurre esattamente le didascalie; ma di coglierne, ancora una volta, l’essenza. La musica di Kát’a Kabanová scaturisce dal suono della lingua cèca; questa genera una melodia spezzata, frantumata, sillabata, che l’orchestra rispecchia, a sua volta, in un pullulare di temi, ritmi, colori, pronti a dissolversi in un gioco di intermittenze. Il mondo appare, così, pervaso da un animismo che rimanda alla presenza della natura, nel fluire del grande fiume che fa da spettatore alle vicende umane. Questo complesso di valori musicali, linguistici, poetici ha generato l’idea di Robert Carsen e Patrick Kinmonth, che pochi mesi fa hanno allagato d’acqua il palcoscenico della Scala. Mirabile trovata perché, sotto le luci continuamente variate, quello specchio d’acqua, attraversato da passerelle su cui camminano i personaggi, diventa una presenza viva: cambia colore, specchia le figure e le ombre, si agita quando una frotta di ragazze vestite di bianco lo attraversano, vi si tuffano, e saltano generando piccole onde, oppure rimane immobile, con la durezza di un lucido cristallo. Il legame tra musica di Janácek e spettacolo, personaggi e ambiente, individuo e natura si traduce, così, in una simbiosi indissolubile. Altre volte la scenografia è chiamata dalla musica a fare da semplice spettatrice: l’ambiente non è un personaggio che agisce, ma l’eco visiva del gusto, dell’atmosfera espressiva e della vita interiore dei personaggi. Maestro nell’individuare queste risonanze figurative è, naturalmente, Pier Luigi Pizzi. Un esempio per tutti: Morte a Venezia di Britten che inaugurò la stagione a Genova nel 1999. Lo spettacolo è mirabolante: costruzioni gigantesche, come lo spaccato dell’albergo a due piani, o il porticato delle Mercerie a grandezza naturale, s’innalzano e sprofondano, alternandosi a stupende vedute di Venezia in miniatura, gondole e imbarcazioni, San Marco visto di

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lontano, il tutto immerso in una luce grigia, col sole velato nel cielo nero, e un gruppo di cipressi color cenere che dal cimitero di Monaco, dove inizia l’avventura di Gustav von Aschenbach, migrano ovunque, come un retaggio della memoria e un presagio di morte. La scenografia possiede veri e propri poteri ermeneutici: essa può rivelare significati nascosti. La Madama Butterfly del regista Keita Asari, dello scenografo Ichiro Takada e della costumista Hanae Mori, rappresentata alla Scala nel 1990 e nuovamente nel febbraio 2007, svela la presenza di archetipi: la leggerezza, la luminosità, la trasparenza, la vaporosità, essenze di un mondo che il compositore non vide mai ma che intuì con sorprendente penetrazione. Ecco dunque, in una scena quasi nuda, le leggerissime architetture di legno e di carta attraversate dalla luce, i colori in dissolvenza, che nascono e rientrano nel grigio, i voli di rondini disegnati sullo sfondo, le nuvole che si avanzano, spettrali, come nere silhouettes su sfondi chiari, e così via. Finché Cio-Cio-San, inginocchiata al proscenio, nell’immobilità più assoluta, dopo essersi trafitta, apre un ventaglio rosso che si staglia sul suo kimono come una macchia di sangue, mentre i kuroko, o servi di scena del teatro giapponese, ritirano il lenzuolo che scopre il rosso scarlatto del pavimento. Quando la protagonista crolla, come fulminata, le luci si spengono di colpo. La musica di Puccini è riportata, così, ad un mondo di essenze che le conferiscono un significato veramente universale. Più che nel teatro di prosa, la scenografia, nel teatro musicale, è determinante per la riuscita dello spettacolo; anche perché, sovente, alleandosi con la musica, assorbe come una spugna gli umori poco limpidi della recitazione convenzionale, che non sempre il regista riesce a cancellare, perché tenacemente connaturata alla vecchia tradizione del teatro musicale ottocentesco in quanto spettacolo dominato dal cantante, che solo la presenza di un vero e proprio regista avrebbe sottratto, nel XX secolo, alla naturale propensione per un gestire stereotipato. Fondando lo spettacolo musicale sulla scenografia, si risparmia così il faticoso lavoro sugli attori: ben lo sanno, ad esempio, Pier Luigi Pizzi e Luca Ronconi che affidano sempre alle scene una funzione predominante, non sempre dedicando pari attenzione agli attori. Ma, quando lo fanno, lo spettacolo assu-

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me una pregnanza rara. Ricordo, tra le moltissime regie liriche di Ronconi, come particolarmente curata L’incoronazione di Poppea presentata a Firenze nel 2000. L’idea generale dello spettacolo è quella di rappresentare Roma come luogo eterno di macchinazioni e corruzioni politiche. Una parte dell’azione si svolge, quindi, in abiti moderni: il Valletto e la Damigella si strusciano in giubbotti e minigonne, i ragazzi di borgata giungono sulle loro motociclette, quattro automobili anni Cinquanta scendono dal soffitto a simulare un parcheggio metropolitano incastrato tra le rovine di Roma antica in un movimento continuo di colonne, enormi architetture, busti di antichi romani, troni e così via. Eppure, la scenografia, qui, non è tutto: l’uomo rimane al centro di questo macchinario sorprendente e vistoso. Il lavoro condotto dal regista sul gesto, sul canto, sulla parola, definisce, infatti, uno spaccato di vita che erompe dalla musica con luci e ombre, come in un quadro del Caravaggio. La scenografia, nel teatro d’opera, è quindi determinante per definire la riuscita o meno di uno spettacolo musicale. Non sto qui a ricordare quanto questo problema abbia occupato la mente dei teorici, sin dai primi decenni del Novecento, da Adolphe Appia a Gordon Craig. Lo stesso si può dire per i costumi, sulle cui caratteristiche di fondo – leggerezza o pesantezza, colori, tipi di stoffe o di metallo – la musica può fornire indicazioni precise. Il costume è legato al gestire, che la musica suggerisce in quanto proiezione fisica del sentimento e della psicologia. Un costume giusto può creare il personaggio, indipendentemente dal tipo di recitazione. Ricordo quelli, straordinari, disegnati da Luchino Visconti per il Don Carlo, diretto a Roma da Giulini nel 1965 e ripresentato di recente al Comunale di Firenze: il cappello nero che protegge, ma insieme pesa sul capo del tormentato re di Spagna, la cappa, bordata di visone, che avvolge la persona e l’animo raggelato di Elisabetta, il colore bianco dei cortei reali, l’incredibile audacia nel vestire di rosa il Marchese di Posa, traducendo, nella tinta luminosa e calda, un’immagine di signorile sprezzatura, che perfettamente s’addice a quel campione di libertà; tutte queste sfumature, le fogge, le stoffe, scolpiscono le varie figure, incidendole nella nostra memoria in modo indelebile. Leggendo la lettera di Filippo Sanjust, collaboratore di Visconti per

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i costumi del Don Carlo di Londra (1958), si capisce come l’incredibile attenzione ai minimi particolari del taglio, delle stoffe, dei gioielli e dei ricami, delle scarpe e dei cappelli, non era frutto di un calligrafismo fine a se stesso, ma funzione dell’effetto generale: «io seguo naturalmente tutte le prove – scriveva Sanjust – cercando di fare in modo che ogni dettaglio sia non solo curato, ma anche e soprattutto utile all’effetto d’insieme che tu desideri, per ogni singola scena»7.

4. Visualizzare la drammaturgia musicale Oltre al problema della scenografia e dei costumi, molto impegnativo, nel teatro d’opera, è il lavoro necessario per far recitare i cantanti come attori di prosa. È stata questa l’esigenza primaria che ha dato impulso alla regia operistica e ne ha determinato la straordinaria fioritura nella seconda metà del Novecento. Le premesse di questa palingenesi, nata dall’intento di rinnovare un tipo di spettacolo che stava naufragando nel grottesco, erano soprattutto nei paesi tedeschi: uomini di teatro come Alfred Roller, Ernst Lert, Max Reinhardt, Walter Felsenstein, Gustav Gründgens, per non citarne che alcuni, tracciarono la strada su cui si sarebbero avviati i protagonisti della regia operistica nella seconda metà del Novecento: Strehler, Visconti, Zeffirelli, Ronconi, Pizzi; Wieland Wagner, Günther Rennert, Herbert Graf, Peter Stein; Jean-Pierre Ponnelle, Antoine Vitez, Patrice Chéreau, Luc Bondy; Robert Wilson, Graham Vick, Jonathan Miller e così via. La musica d’opera suggerisce il gesto, e al regista non resta che estrarlo dalla partitura, realizzandolo insieme al direttore d’orchestra, senza la cui collaborazione lo spettacolo d’opera non potrà mai pervenire alla perfetta riuscita, anche se eliminare le convenzioni della recitazione operistica richiede, talvolta, una quantità di prove che non sempre i teatri possono programmare. Il vero problema del teatro lirico sta nel rendere credibile e naturale un’azione ritmata sul tempo della musica e sulla varietà cinema7

Luchino Visconti. Il mio teatro, cit., vol. II, p. 182.

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tografica delle inquadrature, attraverso cui la musica rappresenta il dramma. L’opera, sotto questo profilo, è molto più complessa del teatro recitato. Il tempo della musica non è quello della parola: oscilla dal realismo all’astrazione, dal dialogo cantato con la velocità del discorso parlato ai passi in cui l’azione si ferma; le parole sono ripetute o sovrapposte nell’intreccio della polifonia, che può scorrere lentamente o precipitare in una cascata frenetica. Che gesti richiedere, in questi casi, ai cantanti attori? Rispettare la convenzione o inventare una gestualità nuova, magari astratta, ma capace, proprio per questo, di cogliere, attraverso la musica, l’essenza della situazione? Nel modo di affrontare le relazioni di tempo si gioca la vera sfida del regista d’opera, tanto più ardua se ci si prefigge l’ideale della naturalezza. La messinscena dei dialoghi e dei monologhi che si svolgono in tempo reale non pone problemi: il modello del teatro di prosa è facilmente seguibile. Altra cosa è, invece, rendere i gesti dei brani in cui le parole vengono ripetute, e il tempo musicale si afferma nella sua autonomia, indipendentemente da quello del discorso verbale e dell’azione. Le soluzioni possono essere diverse, a seconda della natura del pezzo. Ad esempio, si può riempire la musica di gesti realistici, ma bisogna che siano credibili. Straordinari quelli che Peter Brook ha inventato nel Don Giovanni per la sortita di Donna Elvira. Invece di gironzolare, come fa di solito, sul palcoscenico, nell’atto di perlustrare le strade di Siviglia alla ricerca dell’innamorato traditore («Ah chi mi dice mai / quel barbaro dov’è?»), Elvira siede a un tavolino con un mazzo di carte con cui fa un solitario. Mentre canta, le scopre ad una ad una, cercando quella di Don Giovanni, finché la trova, la solleva dinanzi a sé e la guarda fissa, gridandole il suo furore («vo’ farne orrendo scempio, / gli vo’ cavare il cor»). Ma, quando riprende l’aria da capo, non gioca più: ora il suo sguardo si perde nel vuoto, le mani si congiungono, salgono alle tempie finché, come spossata, abbandona il capo sul tavolo, malinconica e sola. Leporello e Don Giovanni, appartati nell’ombra, osservano la scena e commentano con ironia. La forte gestualità dell’aria-terzetto è in tal modo resa visibile, ma nasce dall’intima natura musicale del pezzo,

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che ha il carattere di una meditazione privata, guardata dall’esterno da due osservatori. In altri casi come, ad esempio, nell’aria della contessa, all’inizio del secondo atto delle Nozze di Figaro, non c’è bisogno di far muovere l’attrice. L’aria, assolutamente statica, deve contrastare con il movimento del «farfallone amoroso», con cui Figaro ha concluso il primo atto, e sorprendere l’ascoltatore in un momento improvviso di lirica stupefazione. Questi pezzi non turbano minimamente un regista dotato di sensibilità musicale; egli sente che il movimento è nella musica, e sa che l’opera vive di questa alternanza tra gesto esteriore e moto interiore e che l’oscillazione continua tra movimento scenico e stasi non compromette la scorrevolezza dell’azione, perché il tempo della musica s’impossessa della nostra coscienza percettiva, facendoci dimenticare quello dell’orologio. Ma alcuni registi non capiscono la natura del teatro musicale e credono di eliminarne i presunti difetti, movimentando ciò che, invece, deve star fermo: così «arredano» l’aria della contessa con diversi gesti e presenze estranee di comparse, guastandone, in questo modo, l’assorta intimità. L’ossimoro di staticità drammatica e movimento musicale, caratteristico dell’opera, raggiunge talvolta, come sappiamo, effetti parossistici. Si pensi ai grandi concertati di Rossini, in cui proprio il contrasto tra la staticità della scena e la velocità della musica sprigiona un’enorme energia teatrale. Nel finale del primo atto del Barbiere di Siviglia (Salisburgo, 1968) Jean-Pierre Ponnelle rendeva in modo astratto e allusivo l’evocazione del «pesantissimo martello», facendo pendolare lentamente, col busto, l’intera massa corale, ferma sulle gambe. La figura scenica, nella sua discrezione, riusciva spiritosa e perfettamente compatibile con le caratteristiche drammatiche del concertato statico. In altri casi, però, si esagera nei movimenti perché la potenza teatrale di questo ossimoro tra staticità fisica e velocità musicale non viene compresa. A Pesaro, nel 1984, Dario Fo ha letteralmente sfigurato L’italiana in Algeri, trasformandola in un colossale balletto. Non c’è un momento, in questo spettacolo, in cui i personaggi stiano fermi, mentre, accanto a loro, ballonzolano mimi, sfilano comparse su tram-

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poli altissimi, passano scimmioni, cammelli, leoni, struzzi, zebre e così via. Tutto si muove, incessantemente: scende una grata dall’alto su cui si arrampicano i personaggi, passano ombre di giocolieri, portantine, baldacchini, attaccapanni pieni di abiti, manichini semoventi e volanti, paraventi, scale a pioli, lunghi pali, di cui uno si trasforma in un missile, palme che si allungano, aiuole che si spostano, vasi di fiori, nastri, enormi coccarde tricolori, trofei di bandiere, macchine fotografiche al lampo di magnesio, e ancora cavalletti, la nazionale italiana di calcio, quella di ciclismo, navi, barche, onde, uccelli, pesci e così via. La sfiducia nelle possibilità della drammaturgia musicale, in questo caso, è totale: il regista si affida all’ipertrofia scenografica e coreografica per movimentare ciò che invece è già in movimento nel discorso musicale, sempre in bilico tra realismo e astrazione. Distruggere questa continua oscillazione dall’azione esteriore a quella interiore significa uccidere il melodramma; realizzarla visivamente è, invece, la sfida più grande del regista d’opera. Ancora una volta devo far riferimento al Don Giovanni di Brook del 1998, modello per conto mio ineguagliato di realizzazione visiva della drammaturgia musicale, molto diverso da quello registrato in video quattro anni dopo, che è una pallida copia dell’originale. Nel sestetto del secondo atto, Leporello non cerca la porta, inesistente, da cui fuggire, ma rende l’immagine mentale di chi si nasconde, strisciando sotto una panca, con un gesto dedotto dal profilo musicale del suo motivo contorto. Poco dopo, durante le dolorose melodie di Anna e Ottavio, Donna Elvira, invece di star ferma in disparte, s’aggira sulla destra del palcoscenico, mimando il gesto di chi tasta cautamente le pareti di un locale buio per cercare di uscirne. Il muoversi a tentoni di Elvira rende l’immagine del luogo oscuro indicato nella didascalia, ma anche del labirinto fisico e spirituale che imprigiona il personaggio, col lento dipanarsi delle melodie cromatiche. Subito dopo, l’azione torna al realismo quando Leporello, minacciato di morte, chiede perdono agli altri, facendosi scudo con una panca. Tutto è insieme reale e immaginario, ciò che appare si rivela come essenza. Così, nel concertato finale del primo atto, sale a poco a poco un’energia demonica che Brook rende visibile: Leporello, Don

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Ottavio, Masetto, Donna Anna, Donna Elvira e Zerlina, uno accanto all’altro, sostengono orizzontalmente un palo, come fosse una sbarra dietro cui si proteggono. Don Giovanni, in atto di sfida, afferra il palo, lo solleva e, quando le dodici braccia si tendono in alto, nel vano tentativo di trattenerlo, lui abbandona la presa e scappa via, passando sotto la sbarra: questa cade, le tre donne precipitano a terra, travolte dal peso dell’oggetto divenuto insostenibile, come insostenibile è l’energia vitale di Don Giovanni, che sconvolge e schiaccia la loro vita. Brook l’ha resa visibile, e in ciò consiste, a parer mio, il massimo risultato che la messinscena del teatro musicale possa ottenere. L’opera italiana per numeri chiusi è molto più difficile da rendersi scenicamente del dramma musicale di tipo wagneriano, per il divario che la caratterizza tra tempo della rappresentazione e tempo rappresentato, nonché per il continuo mutamento delle inquadrature con cui la musica rappresenta il dramma, conferendogli una mobilità che la avvicina a quella del cinematografo. Le sonorità grandiose di orchestra e coro implicano la visione di grandi quadri collettivi; i momenti cameristici che isolano, anche all’interno delle scene di massa, nuclei di conversazioni private, suggeriscono effetti di primo piano (pensiamo, ad esempio, al finale di Un ballo in maschera). Il regista è chiamato a render visibili questi mutamenti di inquadratura. Persino il rapporto tra parole e musica può determinarli. In Mozart, ad esempio, questo gioco è molto vistoso: la cesellatura del verso e della parola nell’esattezza ritmico-prosodica della recitazione sembra inquadrare i personaggi in un campo medio. La deformazione ritmica o quantitativa della parola attraverso la musica suggerisce, invece, effetti di primo piano: quando il conte, nel secondo atto delle Nozze di Figaro, ebbro di collera, alludendo a Cherubino canta «mora mora», e allunga le sillabe in due interminabili semibrevi, è come se l’obiettivo si avvicinasse al suo volto, ingigantendone le fattezze e mostrandone, nelle dimensioni del grande schermo, gli occhi furenti e la fronte minacciosa. Laddove, invece, la prosodia è incanalata in una ritmica regolare e periodica, il punto di visione si allontana e Mozart inquadra in un totale l’intera sce-

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na dove i personaggi, rimpiccioliti, sono visti dall’alto, come pedine che si muovono sulla scacchiera dell’intrigo. Rendere visibili questi mutamenti di inquadratura, dal totale al primo piano, cioè modulare lo spettacolo in base ai ritmi e alle prospettive, vorrei dire, ottiche, attraverso cui la musica rappresenta l’azione, costituisce un’altra prova per il regista d’opera. Pochi la superano, perché essa presuppone un radicale rovesciamento di prospettiva: bisogna, cioè, plasmare la forma dello spettacolo non tanto in base al contenuto drammatico, ma alle forme del teatro musicale. E sono allora i casi, assai rari, degli allestimenti che si stampano nella nostra memoria con forza indelebile. A oltre quarant’anni di distanza rimane vivissimo il ricordo del Ratto dal Serraglio allestito da Strehler con le scene di Luciano Damiani a Salisburgo, nel 1964, indi ripreso per più di vent’anni in numerosi teatri europei. In questo capolavoro, il regista assumeva come base strutturale dello spettacolo l’alternanza tra dialogo parlato, recitativo secco, recitativo accompagnato, conversazione cantata, polifonia contemplativa, aria d’azione, aria lirica ecc. La varietà delle forme espressive, del tempo e dei gesti che ne conseguono, passando dalla musica alla recitazione parlata, si traduceva nel continuo spostamento dei personaggi dalla piena luce del palcoscenico al buio del proscenio, dove le figure umane diventavano ombre cinesi: la successione “artificiosa” di brani parlati e cantati si trasformava, così, in un magico rovesciamento della realtà nel gioco capace di cogliere l’essenza della fiaba mozartiana. Lo spettacolo sembrava, in tal modo, sbocciare dalla partitura con la naturalezza di un impulso organico e la drammaturgia a linea spezzata dell’opera in musica, invece di apparire come un ostacolo, si trasformava nel motivo principale della sua riuscita scenica. Molte considerazioni si potrebbero fare a questo proposito e altri temi si potrebbero illustrare se non fossimo costretti nei limiti di questa semplice comunicazione. La nostalgia di Giulini per il lavoro fatto con Visconti, e la sua delusione nei confronti della regia d’opera, seppure indebitamente generalizzata, derivava, evidentemente, dalla ribellione sacrosanta di chi, penetrando in profondità il significato delle forme musicali, constata in che misura possa essere

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ignorata la funzione essenziale della musica teatrale: quella di plasmare il teatro. Una ribellione che proviamo tutti, in modo pungente, davanti a certi spettacoli, come forte, però, è il nostro compiacimento quando il regista lascia sprigionare dalla musica la forza creativa che dà fisionomia ai personaggi, luce e colore alle scene e ai costumi, ritmo ai movimenti e ai gesti dell’azione; tutte cose che la regia operistica può esaltare in una simbiosi tra musica e spettacolo dall’effetto potentissimo e dall’impatto indelebile.

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Ernesto Napolitano*

Morte a Venezia. Mahler preso in mezzo

Mentre pensavo a un titolo per questa relazione, insieme a quello su cui è caduta infine la scelta (forse probabilmente per la sua impertinenza), mi si affacciava alla mente anche un possibile “Mahler a Venezia”, attratto dal gioco di sostituire la parola morte, che in Thomas Mann non concede dubbi su dove andrà a parare la vicenda, col nome dell’artista a cui essa sembra ispirarsi. Mahler a Venezia, sullo sfondo del film di Visconti, avrebbe dato un diverso spessore a quell’incontro con la città che nella vita del compositore non è stato certo un luogo d’elezione. A un primo soggiorno nel maggio del 1897, l’anno dopo la Terza sinfonia, non si legano ricordi del posto, ma della musica ascoltata: le due rappresentazioni della Bohème a cui assiste a un solo giorno di distanza, il 5 e il 6 del mese, poi archiviate da un giudizio folgorante: «Una sola battuta di Puccini vale più che tutto Leoncavallo». Nell’altra occasione di visita, le vacanze di Pasqua del 1900, l’attrazione per il canale della Giudecca è l’unica spia di un interesse appena più pronunciato per la città che a un altro Gustav, l’Aschenbach che vi arriva dal mare, dovrà invece apparire come la «più inverosimile del mondo»1. La Quinta sinfonia, con il suo Adagietto, sarà iniziata solo l’anno dopo. Alma, dedicataria segreta di quel canto, non è ancora comparsa all’orizzonte. Pochi cenni soltanto per ricordare quanto poco Mahler abbia assaporato, di Venezia, il genius loci. Del resto, quando nel 1911 Thomas Mann, in vacanza al Grand Hotel des Bains, incontra il quattordicenne polacco e ne rimane, come ricorda la moglie, profonda* Università di Torino. 1 Th. Mann, La morte a Venezia, trad. it. di A. Rho, Einaudi, Torino 2004, p. 55.

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mente affascinato, il suo pensiero corre spontaneamente a una musica di tutt’altra natura e scrive il saggio Sull’arte di Richard Wagner. Iniziazione alla morte e morire a Venezia – dal secondo atto del Tristano agli ultimi giorni a Palazzo Vendramin – fanno parte del privilegio con cui quell’arte e quella vicenda biografica si legano alla città lagunare. Ma arte e biografia di Wagner, appunto, e non di Mahler. Eppure, come già accennavo al principio, non vi sono dubbi sul fatto che proprio a Mahler stia pensando Thomas Mann, pochi mesi dopo il soggiorno veneziano, nell’iniziare Der Tod in Venedig: Nella concezione del mio racconto fu presente, all’inizio dell’estate del 1911, la notizia della morte di Gustav Mahler, che avevo potuto conoscere precedentemente a Monaco e la cui personalità struggentemente interiore aveva avuto su di me l’impressione più profonda2.

L’incontro a Monaco era avvenuto in occasione della prima esecuzione dell’Ottava sinfonia, il 12 settembre 1910. Ancora Katja, la moglie, ne ricorda il commento: «per la prima volta nella mia vita ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a un autentico grand’uomo». Non è soltanto il nome di battesimo ad evocare l’uomo che «incarna la volontà artistica più seria e più sacra del nostro tempo», come dirà in una lettera al compositore scritta nei giorni successivi. Anzi, con l’accenno al grand’uomo, con la sottolineatura di una volontà artistica seria e sacra, si creavano le condizioni perché anche a Mahler fosse possibile adattare l’immagine che nel racconto scolpisce il protagonista meglio di ogni altra: – Vedete, Aschenbach è sempre vissuto così, – e serrò forte a pugno le dita della mano sinistra: – mai così, – e lasciò comodamente penzolare la mano aperta dalla spalliera della sedia3.

Era la parte sana di Aschenbach, la parte con cui il Gustav presentato nei primi capitoli resisteva al dolore, contrastava la passio2 3

Ivi, p. XXI (Introduzione di Marino Freschi). Ivi, p. 25.

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ne, vinceva la debolezza fisica4. Ma la rievocazione mahleriana a cui accenna Thomas Mann non escludeva nemmeno l’immagine malata del protagonista, la parte fino a quel punto contrastata ma già da tempo assediata dalla crisi, il versante da cui affioreranno, complice il disfacimento della laguna, i germi della dissoluzione: è un Mahler descritto come «personalità intensa e divorante», in una lettera che riprende nel 1921 i termini di quella «personalità struggentemente interiore» con cui dieci anni prima ne aveva commentato la morte. Con questo, non voglio dire che una simile corrispondenza fra Mahler e le due anime di Aschenbach, la metà sana e la metà decadente, sia giusta; dovrebbe essere fin d’ora chiaro quante perplessità abbia al riguardo. Ma solo che tale corrispondenza esiste: segretamente nel racconto, in modo più palese nelle implicazioni biografiche ed emotive che ne costituiscono lo sfondo. Senza contare l’altro elemento di relazione, la descrizione fisica del personaggio: «di statura un po’ inferiore alla media, bruno, glabro [...] capelli molto folti e brizzolati sulle tempie [a incorniciare] una fronte alta [...] il ponticello d’oro delle lenti non cerchiate... le guance magre»5. Con lineamenti non lontani da quelli di un ritratto con cui Romain Rolland include Mahler in una leggendaria tipologia di «musicisti tedeschi, alla Schubert, che hanno un po’ del maestro di scuola e un po’ del pastore»; sottolineandone infine «l’aria ascetica, ironica e sconvolta»6. Lineamenti di un’antropologia, fisionomie inconfondibili, tutt’altro che sconosciute al Dirk Bogarde di Visconti. Queste considerazioni dovrebbero mostrarsi sufficienti a fugare 4

Cfr. ivi, p. 29. Ivi, p. 37. Un più tardo “ritratto mahleriano” di Thomas Mann ce lo restituirebbe con «il colletto bianco, una cravatta annodata […] gli occhiali cerchiati di corno dietro i quali [brillano] due occhi vividi e scuri un po’ infiammati […] sul viso un misto di purezza e morbidezza; il naso duro, le labbra dure, ma il mento morbido con la fossetta, e un’altra fossetta sulle guance; la fronte pallida e arcuata». Cinico e dialettico, questo professorino è il diavolo che Adrian Leverkühn incontra nel celebrato capitolo XXV del Doktor Faustus (trad. it. di E. Pocar, Mondadori, Milano 1968, p. 456). Ancora un intellettuale. Ma non è lui questa volta il musicista (sull’argomento, cfr. A. Cecchi, Adorno e la musica del Doktor Faustus, in “Civiltà musicale”, nn. 48-49, 2003, p. 109). 6 Cfr. H. De La Grange, Mahler, vol. II, Fayard, Paris 1983, pp. 672-3. 5

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ogni ipotesi di tradimento, nella trasformazione del protagonista al passaggio dalla pagina scritta allo schermo7. Che l’Aschenbach di Visconti non sia uno scrittore ma un musicista, è un modo per rendere manifesta una coincidenza poetica comunque confluita nel testo. Se d’infedeltà si tratta, è solo quella che preferisce mantenersi fedele alla sostanza piuttosto che alla lettera, giudicando superflua la mediazione che in Mann si compie fra l’emozione alla notizia della scomparsa di Mahler e la passione provata a Venezia per il bellissimo efebo; quel compromesso fra un dato esterno e l’esperienza autobiografica, che si risolve nel fare del protagonista sì uno scrittore, ma con i tratti di Gustav Mahler. Non è in questo che andremo a cercare, non dico il tradimento, ma ciò che segna la diversità del film rispetto al racconto. E in fondo non la cercheremo nemmeno nei numerosi flashbacks8, in quel gruppo di inserti che aprono squarci sulla vita del compositore o prestano lo sfondo di un dibattito estetico, sull’arte e sulla musica, con l’amico Alfried («coscienza critica», buona o cattiva che sia – dice Visconti – che in Mann non esiste), al malessere che si svolge sotto i nostri occhi. Per quanto il loro compito sia quello di dare nuova forma e sostanza alla trasformazione di Aschenbach da scrit7

Sulla ipotesi del tradimento, della «torsione», si sofferma U. Eco, Dire quasi la stessa cosa, Bompiani, Milano 2003, pp. 337-40. Secondo Eco, l’Aschenbach severo e classicheggiante di Mann diventa, fin dalle prime sequenze viscontiane, l’intellettuale segnato dai sintomi del declino, la cui fede apollinea, ancora limpida al principio del racconto, appare invece intorbidita dalle immagini della laguna. Dunque, per l’Aschenbach di Visconti, fin dall’inizio vittima predestinata del dionisiaco, come potrebbe assumere una funzione tragica «avvertire la sconfitta di Apollo ad opera di Dioniso?». Ma forse Eco sottovaluta sia il ruolo profetico delle figure demoniache che appaiono nella parte iniziale della novella (non ripresa nella versione filmica), sia, soprattutto, il fatto che anche nella circolarità del racconto il conflitto fra tensione apollinea e irruzione dionisiaca non sia una dialettica esterna, ma interna ai personaggi. Il Dioniso che sconfigge l’apollineo non viene da fuori, ma vive fin dal principio nella psicologia di Aschenbach. Qualcosa di analogo vale pure per l’immagine simbolica di Tadzio; già le prime apparizioni dell’efebo manniano suggeriscono oltre allo sfondo mitico in cui vive l’ideale della perfezione classica, anche quel sospetto di malattia da cui trapela il turbamento di un eros corruttore, di una bellezza prossima a disfarsi. 8 Si veda L. Micciché, Visconti e le sue ragioni, in Id., Morte a Venezia, Cappelli, Bologna 1971, pp. 84 ss.

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tore a musicista, sono forse le parti più deboli del film, in parte appesantite da un certo fare didascalico e spesso percepite come scarti visivi, dislivelli nel taglio della recitazione che interrompono il fluire narrativo senza aggiungere molto ai contenuti9. No, ciò che più di tutto allontana il film di Visconti dal racconto, è la musica di Mahler, è l’Adagietto della Quinta. Con la possibilità di una corrispondenza per la comune presenza invasiva, e una singolare sostituzione dei sensi, fra la musica, nel film, e gli odori nauseanti della città malata, nel racconto di Mann. Con i suoi cinque interventi10, quasi sempre lunghi, spesso impiegati in funzione di collegamento narrativo fra scene successive, la 9

Ciò non esclude l’interesse per una ricostruzione delle provenienze letterarie che si sono stratificate in quel gruppo di inserti, specie se derivate da altri materiali manniani. E qui a farla da padrone, a parte qualche importante ascendenza da Tonio Kröger (si veda il già citato volume di Micciché alle pp. 36-7), è il Doktor Faustus. In particolare, il già ricordato capitolo XXV, dal quale proviene l’episodio della clessidra, subito dopo il malore cardiaco di Aschenbach, e da cui nascono i tratti più spietati e implacabili di Alfried, al quale, in questo caso, spetterebbero le fattezze del diavolo. Non vi è certo lo spazio per soffermarsi su questo aspetto, ma vorrei suggerire almeno un altro aggancio possibile a quel capitolo: l’accordo in Do minore, a piena orchestra, con cui inizia la sequenza del clamoroso insuccesso subìto dal musicista Aschenbach. Nel dialogo del Doktor Faustus, Adrian Leverkühn, scettico di trovarsi al cospetto del demonio, lo apostrofa in questi termini: «Dov’è il tuo fortissimo in Do minore, il fortissimo tremolo degli archi, dei legni e dei tromboni che, spauracchio ingegnoso per il pubblico romantico, prorompe dal Fa diesis minore del burrone come tu prorompi dalla roccia?» (trad. it. cit., appena modificata, p. 437). È chiaro come qui l’allusione sia alla “scena della Gola del lupo” con cui si chiude il secondo atto del Freischütz. Ma è questo il punto: la presenza nel film di un accordo fortissimo di Do minore potrebbe pur essere una coincidenza, ma è solo un caso se la sceneggiatura descrive l’episodio con tratti da visione infernale, abitata da oscure presenze e grida di spiriti invisibili? Vi leggiamo infatti: «Come in un incubo: volti cattivi e ghignanti, grida, risate di scherno (frasi incomprensibili urlate in una strana lingua con le “u” strascicate)» (in Micciché, Morte a Venezia, cit., p. 229). 10 Uno dei quali, in trascrizione pianistica, si ascolta nel n. 66 della “sceneggiatura desunta” di Micciché: «Interno di una stanza». Dal momento che il brano viene suonato al pianoforte da Alfried, mentre la macchina da presa si sposta su Aschenbach intento a parlare, l’episodio segna l’ingresso dell’Adagietto nella struttura interna, diegetica, del racconto filmico. Ma è una musica dell’amico quella che Alfried sta suonando? La risposta, che in quel punto resta ancora sospesa, diventa affermativa poco dopo (n. 104), quando Alfried esegue al pianoforte, dichiarandolo esplicitamente come composizione dell’amico, un frammento proveniente dal finale della Quarta sinfonia di Mahler (l’episodio strumentale che prelude al Lied conclusivo).

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musica dell’Adagietto non ha soltanto il compito di definire il clima espressivo differente del film dal racconto, ma porta su di sé la responsabilità di scandire sia le durate temporali delle diverse sequenze, sia il complessivo scorrere del tempo. Una funzione inaugurale è già nella stupenda sequenza di apertura. Se è vero che per comprendere Venezia bisogna giungerci dal mare, mai tale verità si è rivelata come in questo caso. Stagnante, in un tempo lentissimo, la musica dell’Adagietto avvolge e dissolve l’acqua della laguna, le luci dell’alba, la coffa del battello; il campo lungo delle visioni pittoriche, Turner, Canaletto, Guardi; i primi piani di un Aschenbach imbacuccato e pallido in volto. Inaugurale è così anche la sintesi delle immagini che per questa via trapassano nella musica. E qui, questa sintesi parla di una stagnazione, di un’immobilità in anticipo sulla morte, di un’attesa che si satura alla malinconia proveniente, questa sì, dal genio del luogo. È la prima di quelle che potremmo chiamare le idee che si fanno strada nello spazio aperto dalla musica, fecondando le immagini, imponendosi alla narrazione. Si maintenant je demande ce que Mort à Venise de Visconti doit à Mort à Venise de Thomas Mann – ha scritto Alain Badiou – me voici aussitôt déporté dans la direction de la musique. [...] Visconti monte la visitation de [son] idée dans la brèche qu’une musique ouvre dans le visibile, au défaut de la prose, puisque là rien ne sera dit, rien ne sera textuel. Le mouvement soustrait le romanesque à la langue, et le retient dans une lisière mouvante entre musique et lieu11.

Non avrei forse parlato di breccia, visto che qui tutto si apre alla musica senza opporvi alcuna resistenza, ma l’osservazione è preziosa: il film segue il dettato della musica, non quello della prosa; inventa una forma narrativa che, mentre prende in prestito dalla musica il respiro denso e lungo del sinfonismo, tende assai meno alla sinfonia e molto di più al poema sinfonico. Il suo modo di evolvere relativizza ogni schema, indugia in andamenti rapsodico-improvvisativi, si ri11

A. Badiou, Petit manuel d’inesthétique, Seuil, Paris 1998, p. 123.

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piega nel rimando, sembra arrestarsi nella stasi contemplativa, sempre evitando la coerenza deduttiva di uno sviluppo lineare nel tempo. E risolve tutto questo secondo una pluralità di movimenti circolarmente raccolta in un movimento solo12. Una seconda sintesi d’idee si compie con un successivo intervento dell’Adagietto, da quando Aschenbach incrocia il viso di Tadzio in un corridoio dell’albergo poco prima della “falsa” partenza – «Addio, Tadzio... è stato troppo breve» – fino all’esterno del motoscafo che lo conduce alla stazione. In questo caso, la presenza ideale è quella della bellezza caduca, di una bellezza ostile e pericolosa, dalla quale, finché si è in tempo, è preferibile fuggire. Ma poco dopo, quando l’affare del baule costringe Aschenbach a rinviare la partenza, la musica di Mahler riprende il suo corso13 e il volto del protagonista, preso da un moto che non è solo di felicità ma soprattutto di rivalsa sul destino, si distende in un raro sorriso. Se ora mettiamo in corrispondenza fra loro i due momenti, come ci invita a fare il loro accomunarsi nella musica, non è difficile vedere in questa associazione la più profonda rivelazione del racconto. Il tema decadente della bellezza destinata a tramontare, inarrestabile fonte di dissoluzione spirituale, suona per altri versi come l’annuncio di una nuova vita, come sorgente di una forma rigenerata di conoscenza. Simile all’attrazione suscitata dalla bellezza del giovane polacco, anche la musica contiene una promessa e un inganno14. Non c’è lo spazio per citare tutti gli interventi dell’Adagietto, ma 12

Del resto è probabile che l’abitudine, oggi scomparsa, di eseguire l’Adagietto come una pagina a sé, svincolata dalla sinfonia a cui appartiene, abbia influito sulla sua scelta. 13 La prima entrata dell’Adagietto è al n. 174 e si interrompe al n. 177; il reingresso avviene al n. 189 (il riferimento è sempre alla “sceneggiatura desunta” ricavata da Micciché). 14 Un caso sorprendente di corrispondenza semantico-narrativa realizzata attraverso la musica è il Per Elisa che fa da trait d’union fra Tadzio e la prostituta Esmeralda (dal n. 235 al n. 246). Vi si potrebbe forse nascondere almeno uno spunto di quell’«eros ironico» di cui Micciché lamenta l’assenza, nel film, rispetto al racconto. Il brano per principianti, rievocato nella sua innocenza, passa per le dita altrettanto inesperte ed esitanti dei due oggetti del desiderio. Ma resta ambiguo, nel passaggio, se si tratti semplicemente di un collegamento per contrasto, oppure se, mentre una parte di quella innocenza si trasferisce da Tadzio a Esmeralda, qualcosa che si lega al peccato, alla colpa, alla vergogna non stia compiendo il percorso a ritroso.

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vorrei ricordare ancora l’ultimo. Per la fine di Aschenbach, non è una voce individuale ad intonare l’addio – la donna russa che canta la ninna-nanna di Mussorgskij – ma sono, coerentemente alla sostanza sonora non lirica ma poematica del film, gli archi e l’arpa della musica di Mahler. Come Isotta, Aschenbach muore in riva al mare. Anche la sua morte si direbbe avvenire per amore e non, prosaicamente, di colera. Mentre il mito manniano del «pallido e soave psicagogo» prende forma nell’incorporea silhouette di un Tadzio ripreso in campo lungo e controluce, e mentre Aschenbach compie un estremo sforzo per sollevarsi, l’Adagietto vive la sua ultima trasformazione, trasfigurandosi in un Liebestod, nella musica per una morte d’amore. In questo senso, aver parlato di Leitmotiv per l’invasiva presenza nel film della pagina mahleriana è stato, almeno in parte, cogliere nel segno. Come un Leitmotiv wagneriano, la musica dell’Adagietto deve acquistare ad ogni apparizione un senso diverso, deve investirsi di una nuova idea e ogni volta riemergere dalla fusione con altri frammenti del racconto, con altri gesti, sguardi, immagini; soprattutto con altri silenzi, veicolando un nuovo momento di rivelazione. Tutto questo, ma con radicale differenza dal Leitmotiv, rimanendo, com’è ovvio, sempre identica a se stessa. È un virtuosismo, un tour de force di rivisitazione estetica, ottenuto a costo di caricare sulle spalle dell’innocente pagina mahleriana una polivalenza semantica che certo non le appartiene. Lasciatemi fare un inciso: quando Visconti utilizza un altro brano di Mahler, questo sì predisposto per la sua oscurità a una prospettiva polisemantica, una simile presa diretta fra musica, immagini e racconto non si realizza e l’intervento musicale risulta tanto poco decifrabile quanto lo stesso oggetto musicale che impiega. Il Lied O Mensch!, quarto movimento della Terza sinfonia, su un testo poetico proveniente dallo Zarathustra, collega una quindicina d’inquadrature, dalle ultime immagini in cui la madre pulisce il volto di Tadzio sporco di sabbia fino al volteggiare del ragazzo fra le esili colonne dell’ingresso ai bagni15. Non mi è facile capire perché Visconti si 15

Dal n. 216 al n. 232.

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sia deciso per una musica così notturna, sacrale, oracolare, eppure dolcissima, difficile da decifrare anche in rapporto al testo. Farei solo delle supposizioni: forse per ricordare, nel momento più seducente della provocazione amorosa (la sequenza di Tadzio che entra in campo da sinistra e disegna sulla sabbia una diagonale verso la riva è fra le più belle del film), l’intreccio fra piacere e dolore contenuto nei versi di Nietzsche; oppure, nel desiderio di proiettare il turbamento e l’angoscia di Aschenbach nella solitudine cosmica di questo Canto di mezzanotte; o infine, ed è per me l’ipotesi più suggestiva, perché quel brano si ascolta nell’unico momento in cui il protagonista sembra coinvolto nell’atto, diciamo pure nel mistero, della creazione. Al centro del lungo episodio, Aschenbach, seduto sulla poltrona accanto a un tavolo, prende appunti sui suoi fogli pentagrammati. E qui, con le dovute traduzioni dall’Aschenbach scrittore al musicista, può giungere in soccorso quanto scrive Thomas Mann: «Mai egli aveva sentito più soavemente la voluttà della parola, mai aveva così ben compreso che Eros è nella parola, come sentiva e capiva adesso durante le ore pericolose e squisite in cui [...] ascoltando la musica della sua voce, componeva a immagine della bellezza di Tadzio»16. Questo eros che è nella parola, e per noi nella musica, ci permette di ritornare senza strappi all’Adagietto. Forse anche questa è una musica dell’eros, e tuttavia un eros senza artigli demoniaci, se è vero che, come raccontava Willem Mengelberg, direttore d’orchestra amico di Mahler, l’Adagietto sarebbe una dichiarazione d’amore rivolta ad Alma. Non ci sono ragioni per dubitarne, e nemmeno per crederci, anche se non trascureremo l’impressione che il clima amoroso di quella pagina rifletta musicalmente, in lontananza, sul secondo atto di Tristano e Isotta. Ciò che importa, è che a questa Rêverie, a questa Romanza senza parole, con il diminutivo del titolo a evocare una dimensione intima e raccolta, non si addice nessuna delle associazioni che abbiamo visto emergere dal film di Visconti. Comincerei col dire che l’atteggiarsi dell’Adagietto nell’immobilità e nella stagnazione non è affatto un annuncio di morte, ma ri16

Mann, La morte a Venezia, cit., p. 129.

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cerca di interiorità, rifugio in un tempo sospeso. A questo allude la vicinanza tematica col Lied Ich bin der Welt abhanden gekommen («Sono ormai perduto al mondo»), scritto su un testo di Rückert lo stesso anno in cui Mahler iniziava a comporre la Quinta sinfonia. Ma escludersi dal mondo, collocarsi al di fuori del frastuono mondano, non è per Mahler l’apertura a una deriva sconosciuta, come nel viaggio di Aschenbach, ma un immergersi in se stesso, un’aspirazione alla solitudine indispensabile al comporre. Altrettanto gli è estraneo il tema di una bellezza assoluta, estenuata e seduttiva, di una bellezza demoniaca coniugata alla morte, fatalmente votata a trascinare nella dissoluzione chiunque ne sia attratto; tema centrale nell’estetismo decadente del racconto e, in Visconti, con un’enfasi più spinta sulla malinconia dell’invecchiare. In Mahler il sentimento della bellezza, e in primo luogo della bellezza in comunione con l’amore, non conosce tentazioni decadenti, ma tiene ferma una meta morale. Non è un caso se, qualche anno dopo la Quinta, la dolcezza contemplativa dell’Adagietto sia destinata a trasformarsi completamente nella seconda parte dell’Ottava sinfonia, grazie al contatto con l’eterno femminino del finale secondo di Faust, nel principio di un eros come fonte di creazione spirituale. Per dire che non esiste alcun simpatizzare con la décadence in Mahler, ma la certezza, quanto meno fino a quella sinfonia, che la bellezza e l’amore possano diventare strumenti di una disciplina etica e situarsi al culmine di un percorso spirituale. Evocato dalle due versioni di Morte a Venezia, preso in mezzo fra Thomas Mann e Visconti, Mahler scivolerebbe in una china decadente. Rileggiamo cosa diceva Franco Mannino, direttore d’orchestra per le musiche del film e forse consulente musicale del regista: «Il rapporto Mahler Visconti era inevitabile per la stretta affinità fra le due personalità [...] nel campo creativo, un’analoga tendenza verso un decadentismo, sofferto al di là della loro sapiente cultura, perché vissuto attraverso una visione totale del disfacimento umano e culturale, che ci ha circondati in quest’ultimo secolo»17. 17

Si veda l’intervista a Lino Micciché, in Morte a Venezia, cit., p. 140.

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Confesso che mi è difficile credere a una tale affinità. Anche in Mahler c’è una piena coscienza della miseria e della insensatezza a cui è giunto l’universo civilizzato, l’umanità borghese a cui pensa Mannino (singolare diminutivo). Ma a differenza, poniamo di Aschenbach, Mahler non è per nulla un prodotto di quell’universo. Le sue radici identitarie, prima ancora estetiche che biografiche, non affondano nella stessa condizione borghese in cui si trova ad operare e a vivere. Esse vanno cercate in altri universi, nel rintracciare quanto resta ancora integro nella natura, nel solidarizzare con un mondo geograficamente, storicamente, politicamente periferico: un mondo abitato dagli ultimi e dagli sconfitti, non da professori di successo, peraltro così poco difesi dai loro scudi accademici. I resti musicali degradati, le voci banali e consunte confluite nei suoi Lieder e nelle sue Sinfonie, non sono tracce di una borghesia in dissolvimento, sintomi di una decadenza vissuta e sofferta; ma ciò che resta di quelle esistenze periferiche, di quei mondi da rievocare nell’intensità della creazione artistica, da conservare nell’istanza utopica di un futuro senza miseria. Ed è questa utopia, destinata a spegnersi solo nelle estreme composizioni, nel Lied von der Erde e nella Nona sinfonia, che lo tiene al riparo da ogni décadence. Inoltre, nemmeno il congedarsi dall’utopia di quegli ultimi lavori sarebbe sintomo di decadenza, indizio di simpatia con la morte; ma solo la consapevolezza di chi, ammaestrato dall’esperienza del dolore, ha ormai imparato a riconoscervi l’ultimo approdo dell’infelicità terrena. Per questo, anche una scelta da parte di Visconti che si fosse indirizzata verso una di quelle pagine tarde18, non si sarebbe posta al riparo da equivoci. Ammesso, senza concederlo, che il loro riflettere sulla morte le avrebbe rese più consone dell’Adagietto nell’accompagnare la disfatta di Aschenbach, ancora più estranea si sarebbe mostrata l’astratta rarefazione dei loro paesaggi, quel loro sospendersi in una via intermedia che non conosce il sentimento di una accettazione, ma nemmeno la percezione di una sconfitta.

18

Micciché suggeriva come esempio l’Adagio conclusivo della Nona: cfr. Visconti e le sue ragioni, cit., p. 81.

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Ernesto Napolitano

C’è tuttavia un ultimo aspetto. Non sarebbe giusto chiudere senza almeno ricordare un tratto in cui il lavoro di Visconti mostra una fedeltà a Mahler più profonda di ogni altra, quanto probabilmente inconsapevole. In un film in cui per lunghi passi quasi non si parla, gran parte di ciò che i personaggi si dicono, e ancora più di quello che non potrebbero dirsi, rimane consegnato ai loro sguardi. A questo tipo di comunicazione appartiene per intero il “colloquio” fra Aschenbach e Tadzio. Anche nella musica di Mahler, come ha osservato Adorno, ci sono lunghi sguardi19; forse anche nell’Adagietto, specie se è vera l’ipotesi di una sua dedica d’amore ad Alma. Lo sguardo malinconicamente amoroso di chi interroga, dubita, o «si volge indietro con sconfinata tenerezza». Vedrei come prova eloquente di un altro gesto malinconicamente amoroso, ma questa volta di Visconti, che nel film sia Tadzio, l’antica immagine della bellezza, a voltarsi indietro per rendere il suo sguardo ad Aschenbach. Anzi, nella scena infernale del campiello, senza nemmeno il controcampo di Aschenbach, ma solo volgendo la testa a quella macchina da presa che, insieme a noi, lo sta osservando.

19

Th. W. Adorno, Mahler, a cura e con introduzione di E. Napolitano, Einaudi, Torino 2005.

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Roberto Calabretto*

Nino Rota e il cinema di Luchino Visconti. Il lavoro di un sapiente artigiano

Eravamo già amici, avevamo comuni amici, lui è milanese come me e c’incontravamo. Ma non era mai sceso dall’Olimpo, aveva interesse quasi esclusivamente per la musica tedesca. Poi, però, ha fatto qualcosa per la Lux Film, con la quale ho lavorato anch’io quasi esclusivamente, nei primi tempi...

Con queste parole Nino Rota ricorda i suoi primi incontri con Luchino Visconti. Erano gli anni Cinquanta e da tempo egli lavorava alla Lux Film1, dove era ormai diventato il “musicista di fiducia” della Casa2. Dopo le collaborazioni con Matarazzo, Castellani, Lattuada, Soldati, Camerini e altri registi, nel 1953 era stato così chiamato da Luchino Visconti per Senso. Il regista, per questo film, in un primo tempo voleva servirsi della musica di uno dei maggiori rappresentanti della tradizione sinfonica tardo-ottocentesca da lui tanto amata: Johannes Brahms. In una seduta preliminare di lavoro aveva, pertanto, chiesto a Rota di suonargli la Sinfonia n. 3 e, ascoltan* Università di Udine. 1 Per quanto riguarda gli anni di Rota alla Lux Film, si veda R. Calabretto, Gatti, Rota e la musica Lux. La nascita delle colonne sonore d’autore, in Lux Film. Rassegna Internazionale Retrospettiva, a cura di A. Farassino, Il Castoro, Perugia 2000, pp. 89-101. 2 «Così, quando cominciai con la Lux nel ’42, non ero del tutto a digiuno di musica cinematografica. Mi diedero da musicare Giorno di nozze, una commedia brillante con Armando Falconi. Fui promosso. [...] Il lavoro mi piacque. Mi affidarono un altro film di Castellani, Sotto il sole di Roma, e Le miserie di Monsù Travet di Mario Soldati. Alla Lux finirono per considerarmi il loro musicista abituale» (G. Vergani, Intervista a Nino Rota, in Fra cinema e musica del Novecento: il caso di Nino Rota, a cura di F. Lombardi, Olschki, Firenze 2000, p. 3).

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do il primo tema del terzo movimento, si era rivolto a lui con la singolare richiesta di “allungare il tema”. “Caro, senti, io posso curare questo lavoro – rispose così Rota –, ma non posso fare delle aggiunte a una cosa di Brahms... Non si può manomettere...”. [...] Così abbiamo cercato qualcos’altro. E gli ho detto: “Guarda, se tu hai delle sequenze che durano venti minuti, devi trovare un autore che per venti minuti non ti cambia atmosfera: è Bruckner”. Così, è stata usata una sinfonia di Bruckner, e ho trovato il modo di “manometterla” – senza manometterla3 – perché la successione del pensiero dell’autore rimane sempre salva e riempie queste sequenze chilometrali... Così abbiamo fatto questo lavoro4.

Non sarà questa l’unica occasione in cui Rota farà “scendere dall’Olimpo” Visconti. Per Le notti bianche, infatti, egli scriverà appositamente una partitura, senza riferimenti o rifacimenti di pagine di repertorio, e così pure per Rocco e i suoi fratelli e per Il Gattopardo, dove Visconti gli chiederà espressamente una sinfonia che portasse il nome del film. Allora suonando, facendogli sentire vari temi – continua Rota nell’intervista parlando del Gattopardo –, perché io, poi, “imbroglio”, ho suonato un tema di una sinfonia che non avevo neanche mai scritta, ma che avevo fatto nel 1944-45... Era un mio ricordo di... proprio di... gioventù [sorride]. Una sinfonia, così, romantica...5. Basti dire che non l’avevo neanche mai scritta, tanto ero poco convinto, stilisticamente... Però era una di quelle cose che mi era riuscita. Gli ho suonato questo tema e lui: “Questo è il tema del Gattopardo”. Allora, ho detto, già che ci siamo vediamo se tutto questo tempo – il terzo – va bene per il film (la sinfonia era in quattro tempi), e alla fine Visconti ha detto che andava benissimo, quella sarebbe stata la Sinfonia del Gattopardo. Ecco, per dire... Sono andato al polo opposto. Prima ho 3

Singolare quest’espressione che rivela il tipico modus operandi di Rota. Colloquio con Nino Rota, in S. Miceli, Musica e cinema nella cultura del Novecento, Sansoni, Firenze 2000, pp. 462-3. 5 Ricorda giustamente Miceli che questa sinfonia, la Sinfonia sopra una canzone d’amore, nel catalogo Ricordi risulta datata 1947, mentre è stata eseguita nel 1972, sulla scia del successo cinematografico. 4

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“aggiustato” i classici, poi ho composto la musica apposta per il film, e alla fine sono andato a prendere le mie cose “classiche”, insomma, una musica preesistente. Ed è giusto, perché nel film di Visconti le scene hanno una durata “astratta”, non necessaria... È necessaria, direi, alla sua mentalità6.

Basterebbero queste poche parole per mettere in risalto, da un lato, l’importanza che Nino Rota ha avuto all’interno del cinema di Luchino Visconti e, dall’altro, la singolare modalità con cui si è realizzato questo rapporto di lavoro fra un regista notoriamente molto esigente nelle scelte musicali e un compositore tra i più rappresentativi del cinema italiano del secondo dopoguerra. Si è sempre detto, e sicuramente non a torto, che Visconti aveva delle grandi competenze musicali – «è un buon intenditore, uno che ha sempre ascoltato musica, e poi suonava il violoncello...»7, aveva sottolineato Rota nell’intervista – che lo portavano a padroneggiare con estrema disinvoltura i repertori del sinfonismo e del teatro d’opera della tradizione europea. Motivo per cui egli era il vero responsabile delle scelte musicali del suo cinema, dove assistiamo alla presenza di universi sonori di rara, se non unica, bellezza. Anche nei film a cui ha collaborato Rota8, le presenze riconducibili alla sensibilità del regista sono evidenti. In Senso, accanto alla Settima sinfonia di Bruckner, troviamo così una scena del Trovatore verdiano durante lo scorrimento dei titoli di testa che dà vita ad un vero e proprio capolavoro, «operato sul piano della scrittura, che rovescia il melodramma sulla realtà e lo proietta sulla scena della storia»9. Lo stesso regista, nel corso di una sua celebre dichiarazione, a proposito di Senso aveva detto: 6

Colloquio con Nino Rota, cit., pp. 463-4. Ivi, p. 463. 8 Li ricordiamo brevemente: Senso (1954), Le notti bianche (1957), Rocco e i suoi fratelli (1960), Il Gattopardo (1962), Il lavoro, terzo episodio di Boccaccio ’70 (1962). 9 L. De Giusti, I film di Luchino Visconti, Gremese editore, Roma 1990, p. 64. Dopo un’inquadratura frontale sul palcoscenico, la macchina da presa avanza fino al limite della ribalta dove Manrico canta Di quella pira. Sempre tenendo in campo il tenore, una panoramica scopre poi gli orchestrali, parte della platea, dei palchi e il pubblico popolare che gremisce il loggione. 7

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È un film romantico, vi traspare la vera vena dell’opera italiana... ci tengo molto. Anche nella vita esistono personaggi melodrammatici, come esistono in Sicilia pescatori analfabeti... Ho trasferito i sentimenti espressi dal Trovatore di Verdi dalla ribalta in una storia di guerra e di ribellione10.

Tutto il film si svolge, poi, come proseguendo questa scena iniziale, e il suo tragico epilogo, che porta alla fucilazione di Mahler, ha la stessa pregnanza del finale del Trovatore, quando tutte le premesse si risolvono in una folgorazione. Queste citazioni, che danno vita ad un gioco di rimandi dove le simmetrie spesso divengono molto complesse, si trovano quasi ovunque nella filmografia viscontiana e, sempre rimanendo nell’ambito delle pellicole musicate da Rota11, sono facilmente coglibili anche in Notti bianche, dove invece troviamo un momento da Il barbiere di Siviglia di Rossini durante la scena dell’Opera. Il duetto di Rosina e Figaro, con l’allusione alle celebri «due righe di biglietto» che Rosina dovrebbe indirizzare a Lindoro quale attestazione del suo amore, non è casuale e sembra rispecchiarsi nel racconto cinematografico, dal momento che una situazione simile verrà vissuta poco dopo dagli stessi protagonisti del film. Anche il finale di Roc10

Dichiarazione resa da Luchino Visconti in una conferenza stampa a Parigi il 26 gennaio 1956. 11 Non è il caso di sottolineare che simili situazioni ricorrono costantemente in tutto il cinema di Visconti. La romanza Di Provenza il mare il suol introduce così Ossessione, il cui finale è stato spesso paragonato a quello di Manon (cfr. A. Bencivenni, Luchino Visconti, Il Castoro, Milano 1994, p. 16), mentre l’aria Ah, non credea mirarti, dalla Sonnambula di Bellini, compare quale omaggio al compositore catanese in La terra trema. Bellissima inizia con la registrazione radiofonica dell’Elisir d’amore, scena quarta del secondo atto. Dopo le domande concitate del coro («Sarìa possibile? Possibilissimo. / Non è probabile. / Probabilissimo. / Ma come mai? / Ma donde il sai? / Chi te lo disse? chi è? dov’è»), l’annunciatore diffonde la notizia del concorso cinematografico e una folla di donne accorre al richiamo di Cinecittà. Appare finalmente il regista che fa il suo ingresso trionfale accompagnato dal “tema del ciarlatano”, ossia del dottor Dulcamara, colui che vende illusioni al suo pubblico. Anche in questo caso il film è introdotto operisticamente, assumendo delle tinte molto grottesche che ben mettono in risalto i falsi miti del cinema. Andrebbe inoltre citato l’Adagietto della Quinta sinfonia in Morte a Venezia, solo per citare alcuni luoghi musicali tra i più significativi del cinema di Visconti.

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co e i suoi fratelli, dove il delitto compiuto da Salvatore si alterna al tripudio della folla nei confronti di Rocco vincitore, è dichiaratamente melodrammatica e ricalca il finale della Carmen di Bizet, dove le minacce di Don José, il rifiuto di Carmen e la sua morte seguente si alternano all’esultanza della folla per la vittoria del toreador Escamillo. Accanto a queste situazioni, che hanno le caratteristiche dell’evidenza, questi film sono affollati da altre presenze diegetiche. Basti pensare al Lied schubertiano Der Lindenbaum, da Die Winterreise, cantato sommessamente in coro dagli ufficiali austriaci in Senso, il cui testo contiene degli evidenti rimandi alla storia di Livia; oppure all’aria Vi ravviso o luoghi ameni, da Sonnambula, che il garibaldino canta nel Gattopardo a casa del principe Salina. Anche le canzoni che troviamo in alcuni di questi film rivelano una costante della poetica viscontiana. Ecco allora Scusami, O’ Cangaceiro e Thirteen Women in Notti bianche, mentre in Rocco e i suoi fratelli troviamo echi di motivi popolari, come Bello paese mio. Non va poi dimenticata la presenza di rumori, come accade nel finale di Senso quando Livia vaga impazzita per le strade di Verona, che spesso danno vita ad un paesaggio sonoro molto ricco e articolato12. 12 Si pensi al paesaggio urbano di Rocco e i suoi fratelli e ad alcune situazioni in Notti bianche. Questi aspetti, fondamentali nella poetica viscontiana, sono stati parzialmente trascurati. Gaia Servadio, nella sua monografia dedicata al regista italiano, a proposito dello Straniero, parla di un singolare progetto di collaborazione con Luigi Nono e riporta questa notizia: «A Nono l’idea piacque e pensò di lavorare con Visconti all’intera colonna sonora. Riteneva che La terra trema fosse il miglior film di Visconti per la continua presenza del rumore del mare, che diventava così il protagonista. Per Lo straniero, Nono pensava di fare sia la musica che i suoni: il rumore della porta della cella che si apriva per l’ultima volta, quello dei passi che conducevano Meursault alla ghigliottina. Visconti e Nono dovevano dunque lavorare in stretta collaborazione, consultandosi durante tutte le fasi della sceneggiatura, in modo che la musica e i suoni fossero concepiti come un tutto unico, via via che si elaboravano i dialoghi. Visconti parve interessato e chiese a Nono di cominciare a lavorare sulla sequenza della prigione; ma dopo che il compositore gli ebbe mandato un nastro con la sua musica, il regista non si fece più vivo» (G. Servadio, Luchino Visconti, Mondadori, Milano 1980, pp. 309-10). Leonardo De Franceschi, nella sua monografia dedicata allo Straniero, sostiene che Suso Cecchi d’Amico reputa verisimile questa notizia (L. De Franceschi, Lo straniero, Biblioteca di Bianco & Nero, Roma 1999, p. 25). La scelta, ad ogni modo, cadde su Piero Piccioni e Lo straniero, è il caso di dirlo, ne fece le spese.

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Non ultimo, in questi film talvolta affiorano alcuni momenti che rivelano la straordinaria capacità con cui Visconti riesce a descrivere costumi musicali che appartengono all’età in cui il film è ambientato. Su tutti basti citare la scena dell’arrivo a Donnafugata, nel Gattopardo, quando la famiglia del principe Salina è accolta da una banda di paese che intona il Coro delle zingarelle della Traviata verdiana, mentre l’organista accompagna il suo ingresso in chiesa suonando Amami Alfredo. Una situazione che ritrae lo stato penoso della musica liturgica in Italia prima dell’uscita del Motu proprio, che porrà fine a simili consuetudini. Nel cinema di Visconti, pertanto, ci troviamo di fronte ad un complesso di situazioni musicali che, in analogia allo spiegamento di forze e alla sontuosità delle ricostruzioni ambientali, contribuisce a dar vita a quello che si potrebbe definire un processo di «immersione totale» (Miceli), per cui alla componente sonora è costantemente richiesta una complessità linguistico-culturale che si realizza in un continuo gioco di rimandi non sempre coglibili ad una prima visione.

1. Senso tra Verdi e Bruckner Premesso questo, ora però vorremmo considerare la musica del cinema di Visconti a partire da un’altra prospettiva, ossia dal lavoro di Nino Rota che, contrariamente a quello che talvolta è stato scritto, non è stato un semplice esecutore delle scelte del regista, ma piuttosto un suo vivace collaboratore che ha saputo dar vita ad un vero e proprio dialogo. Nel fare questo, prenderemo in analisi due film, Senso e Il Gattopardo, che ci permetteranno di cogliere il modus operandi di Rota sotto una particolare angolatura: quella del compositore che lavora su materiali musicali preesistenti riadattandoli e finalizzandoli al contesto cinematografico. In questo modo vorremmo anche rendere giustizia alla circostanza, veramente inspiegabile, per cui nei titoli di testa di Senso il nome di Nino Rota non compare13, dimenticando che la colonna sono13

Troviamo, invece: «Commento musicale: Anton Bruckner, Sinfonia n.7 in Mi mag-

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ra del film, sebbene non contenga una sola nota del musicista, è organizzata in modo tale da non far passare in secondo piano la mano sapiente dell’artigiano che ha organizzato e montato quella partitura cinematografica, rendendola ideale commento sonoro per questo atipico racconto filmico14. Come abbiamo già anticipato, la musica di Senso fa riferimento a Verdi, il cui Trovatore compare all’inizio del film, e a Bruckner, rivisitato in una delle sue sinfonie maggiormente note15. Molte ipotesi sono state avanzate per spiegare i perché di questa scelta. Assumendo i parametri che notoriamente hanno guidato la poetica di Visconti, molti hanno cercato le spiegazioni sulla base del parziale sincronismo temporale che intercorre fra la Settima sinfonia, scritta tra il 1881 e il 1883, e le vicende del film, ambientato nei momenti della Terza guerra d’Indipendenza. Altri, invece, hanno constatato che quest’opera fu concepita come marcia funebre in onore di Richard Wagner, la cui morte è espressamente citata nel secondo movimento. I temi lugubri che talvolta attraversano queste pagine potrebbero così essere interpretati come portatori delle atmosfere di morte che attraversano costantemente il racconto16. Più convincenti sono però le dichiarazioni offerte dallo stesso Rogiore. Orchestra Sinfonica della Radiotelevisione italiana diretta da Franco Ferrara». 14 Fernaldo Di Giammatteo, enunciando una lunga serie di incoerenze, che impedirebbero al film di essere “romanzo cinematografico”, giustamente scrive: «Il racconto procede per blocchi staccati, per accumulazione e non per progressione. [...] Nessuno dei congegni narrativi escogitati riesce a ricucire secondo logica drammatica il tessuto smagliato del film. [Senso, pertanto, è] il rovescio del “romanzo” di costruzione naturalista (o realista)» [F. Di Giammatteo, Il primo Visconti: la storia e gli eroi del male, in “Bianco e Nero” (La controversia Visconti), 9, 12, 1976, pp. 27, 34]. 15 Per quanto riguarda la musica di Senso ci sia consentito rinviare ad una nostra analisi, a cui ci siamo parzialmente rifatti in questo paragrafo. R. Calabretto, Luchino Visconti: Senso, musica di Nino Rota, in L’undicesima musa. Nino Rota e i suoi media, a cura di V. Rizzardi, CIDIM-RAI-ERI, Roma 2001, pp. 75-135. 16 Altri hanno interpretato la colonna sonora come il riflesso della personalità del regista. «Questo squilibrio [fra Verdi e Bruckner] non rimanda solo a una competenza differenziata dello spettatore italiano, che conosce probabilmente bene Verdi e poco o niente Bruckner, ma anche ad una scelta culturalmente differenziata propria del cinema di Visconti, sospeso fra due concezioni, una bassa e una alta, una popolare e una aristocratica, della cultura» (C. Cano, G. Cremonini, Cinema e Musica. Il racconto per sovrapposizioni, Vallecchi, Firenze 1995, p. 52).

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ta che, come abbiamo visto, ha giustificato questa scelta in termini esclusivamente musicali17. La Settima sinfonia di Bruckner, pertanto, sarebbe stata utilizzata per la lunghezza dei suoi movimenti, dei suoi temi, e per il grande respiro della sua forma: una serie di motivi che la predispongono in maniera molto efficace ad essere utilizzata cinematograficamente. In particolar modo, proprio la natura dei temi si presta ad una loro continua “manomissione”, per cui queste melodie possono essere unite, dopo essere state estrapolate dal loro contesto, e ricombinate in un gioco di trasposizioni mutevole. Si consideri, a titolo esemplificativo, la maniera con cui si presenta il tema del secondo movimento della sinfonia, Adagio. Sehr feierlich und sehr langsam, nel corso del film18.

A. Bruckner, Settima sinfonia. Adagio. Sehr feierlich und sehr langsam, bb. 1-7.

17 A simili conclusioni giunge anche Michel Chion, anche se attribuisce la scelta di Bruckner a Visconti e non a Rota. «Avec un instinct dramatique sûr, Visconti choisit pour son mélodrame Senso, les passages de la Septième Symphonie de Bruckner qui sont les plus opératiques: trémolos suspendus, explosion d’orchestre, et le thème de trois notes de l’Adagio... Mais le brucknérophile sera étonné de voir réalisateur couper à volonté dans la musique du maître autrichien, la traiter comme un pur matériau de montage et, sans vergogne, faire se succedér immédiatement des moments bien distincts et très éloignés les uns des autres dans la parition» (M. Chion, La musique au cinéma, Fayard, Paris 1995, p. 392). 18 Tutti gli esempi musicali riportati sono tratti da A. Bruckner, Symphonies nos. 4 and 7, in Full Score, edited by R. Haas for the International Bruckner Society, Dover Publications, New York 1990.

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A. Bruckner, Settima sinfonia. Adagio. Sehr feierlich und sehr langsam, bb. 93-97.

A. Bruckner, Settima sinfonia. Adagio. Sehr feierlich und sehr langsam, bb. 182-187.

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A. Bruckner, Settima sinfonia. Adagio. Sehr feierlich und sehr langsam, bb. 177-178.

Questa continua metamorfosi lo rende disponibile ad essere ripetutamente utilizzato nel corso del racconto, esaltando di volta in volta la propria significazione nei diversi contesti in cui compare. A conferma della vocazione della musica di Bruckner ad essere «manomessa senza essere manomessa», come Rota aveva giustamente detto nel corso dell’intervista con Sergio Miceli. Consideriamo brevemente, allora, i materiali musicali della Settima sinfonia che Rota utilizza nel corso del film. Il primo tema, tratto dall’Allegro moderato, è un semplice accordo arpeggiato sulla triade della tonica. Il tremolo iniziale degli archi, posto in apertura del brano, crea un senso di tensione che conferisce maggior individualità alla seguente esposizione.

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A. Bruckner, Settima sinfonia. Allegro moderato, bb. 1-22.

Questo tema inaugura la passione fra Livia e Franz nella famosa passeggiata notturna19. Accompagna, poi, le parole che Ussoni rivolge a Livia prima che la guerra inizi («L’Italia è in guerra... la nostra guerra... la nostra rivoluzione») e alcuni momenti del finale: il saluto di Livia a Franz dopo avergli consegnato i fiorini, la sua passeggiata nel porticato della villa di Aldeno e gli entusiasmi patriottici dei contadini. La sua funzione, da un punto di vista narrativo, risulta così essere contraddittoria, dal momento che entra a far parte della storia personale di Livia e di quella collettiva dei patrioti. Rovesciato e colto nello sviluppo, questo tema giunge ad assumere un aspetto imponente grazie alla sua strumentazione, dove primeg19

«Ponte e fondamenta Riello. Livia sale il ponte e giunta in cima si toglie il velo. Passi. Franz la segue come di nascosto lungo le fondamenta. Una panoramica a sinistra scopre un canale in tutta la sua lunghezza. Fondamenta Riello. Franz ha quasi raggiunto Livia. La donna si ferma e si volta» (Senso, a cura di G. B. Cavallaro, Cappelli, Bologna 1977, p. 92).

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giano gli ottoni all’interno di strutture ritmiche fortemente marcate. Non a caso, sotto queste vesti, accompagna le corse, disperate, di Livia verso Franz nel “finale del secondo atto”20 e all’inizio del terzo.

A. Bruckner, Settima sinfonia. Allegro moderato, bb. 233-242.

Il secondo tema viene utilizzato nel suo rovescio. Presentato dagli archi, ha un carattere d’intensa liricità. Accompagna il dono di Livia a Franz della ciocca di capelli e il seguente ritrovamento nella sua camera senza medaglione, la rivelazione di Laura, la comparsa di Franz ad Aldeno, l’arrivo di Livia a Verona e la sua denuncia finale al generale austriaco. Situazioni di abbandono, emotivamente tristi, o di riapparizioni fugaci e illusorie. 20 «La rampa della scala inquadrata dall’alto. Serpieri di spalle sta scendendo verso Laura che è in fondo. Si ferma un attimo come per chiederle qualche cosa e poi esce di campo. Dall’esterno Serpieri apre il portone e cerca con lo sguardo la moglie. Sembra averla avvistata. Si muove e la segue guardingo per una calle. Dal basso Livia percorre una rampa di scale che conduce ad un pianerottolo. Subito dopo Serpieri, non visto, la segue. Livia giunta sul pianerottolo, suona per tre volte ad una porta. Serpieri la raggiunge di corsa. Non appena Livia lo vede si addossa con le spalle alla parete. Livia: “Non c’era bisogno che tu mi seguissi... per spiarmi. Te l’avrei detto io stessa. Non voglio continuare a mentire... È vero: ho un amante! Lo amo! Voglio vivere con lui, capisci?”. Serpieri afferra la moglie per un braccio. Serpieri e Livia quasi di spalle. Si apre la porta e appare una donna. In fondo alla stanza scorgiamo Ussoni e un altro patriota. Donna: “Ah, Livia... finalmente! Ti aspettavamo, entra, entra!”. Ussoni viene incontro a Livia tenendole le mani. Ussoni: “Livia! Livia!... Che gioia, finalmente!”. Serpieri segue Livia. Serpieri: “Ah tu!... Non sapevo che fossi ritornato! Potevi anche avvertirmi!”. La donna chiude i battenti del portone. Serpieri, Livia e Ussoni. Livia è sfinita dall’emozione, si rifugia nelle braccia di Ussoni. Ussoni: “Livia...”» (ivi, pp. 118-9).

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A. Bruckner, Settima sinfonia. Allegro moderato, bb. 181-189.

Il terzo tema ha un carattere leggero e agile, destinato a crescere in intensità, e dalla forte coloratura di fanfara popolaresca. Non a caso, nel corso del film, figura una sola volta, quando Livia giunge a Verona con il calesse e sovrasta il brusio della città che sta vivendo le fasi della guerra.

A. Bruckner, Settima sinfonia. Allegro moderato, bb. 125-130.

Dal secondo movimento, Adagio. Sehr feierlich und sehr langsam, vengono utilizzati due temi. Il primo ha una strumentazione molto scura: il cromatismo e l’instabilità tonale, come abbiamo visto, lo rendono facilmente malleabile. Il tema è diviso in due parti: di colore cupo la prima, più solenne la seconda, affidata al caldo registro degli archi. Il tema in sé non presenta, quindi, un’identità definita, ma la trova di volta in volta nel decorso dell’azione. È per questo che si presta a svolgere le funzioni di adeguato commento sonoro ai diversi momenti della storia d’amore fra Livia e Franz. Connota, per-

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tanto, la passione torbida dei due amanti in tutta la sua fenomenologia: i cedimenti di Livia, le sue ricerche di Franz, i loro giorni ad Aldeno, la confessione finale di Franz e, soprattutto, la consegna dei fiorini dove, con molta enfasi, sottolinea la tragicità del tradimento, da parte di Livia, degli ideali in cui aveva creduto21.

A. Bruckner, Settima sinfonia. Adagio. Sehr feierlich und sehr langsam, bb. 1-7.

Il secondo tema si basa invece su un movimento cullante dei bassi, mentre i violini disegnano una melodia di commovente bellezza, «espressa nello spirito più autenticamente austriaco, tra mozartiano e schubertiano, ove si supera l’espressione morbida del “lullaby” tedesco»22. Contrariamente al primo, questo tema ha un’identità definita e non è suscettibile di sviluppi. Accompagna i momenti felici di Franz e Livia. Lo troviamo in tutta la sua lunghezza nella passeggiata notturna e nel momento del risveglio di Franz ad Aldeno tra le braccia di Livia. Compare, poi, in due situazioni simmetriche, ma dal significato opposto: quando Franz solleva il velo a Livia, prima 21 «Livia si stacca da Franz e va alla porta. Si volta, poi attraversa l’anticamera, apre una porta, poi un’altra. Franz le va dietro. [...] Livia ha estratto dallo scrigno una borsa piena di fiorini. Franz ne prende in mano alcuni. Franz: “Sono tuoi?”. Livia: “No, no!”. Franz: “Di tuo marito?”. Livia: “No, no!”. Franz: “Di chi allora?”. [...] Franz: “Vedi Livia io so che mi hai dato il cuore... e non soltanto il cuore”. Franz la stringe accanto a sé. Franz: “Accettandoli... io non mi sento colpevole... Mi sentirei colpevole non accettandoli... mi credi?”. Laura: “Signora contessa, signora contessa”» (ivi, pp. 172-3). 22 S. Martinotti, Anton Bruckner, Studio Tesi, Pordenone 1990, p. 188.

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di baciarla, e alla fine, quando lo strappa violentemente per insultarla23. La poesia del primo momento e la brutalità del secondo trovano, quindi, il medesimo tema, che, non avendo delle potenzialità per un suo sviluppo, viene praticamente ripetuto. Rota, per ovviare a questa incongruenza, rallenta molto la sua seconda comparsa, facendogli assumere delle tinte molto lugubri e tragiche che in sé non possiede.

A. Bruckner, Settima sinfonia. Adagio. Sehr feierlich und sehr langsam, bb. 37-42.

Rota si serve di questi temi finalizzandoli, di volta in volta e con dei cambiamenti, ai diversi contesti del racconto cinematografico. In una scena del film, la passeggiata notturna di Livia e Franz nelle calli di Venezia24, troviamo il secondo tema dell’Adagio con un piccolissimo accorgimento, per cui il suo ingresso viene anticipato di otto battute25. Questa scelta è efficace, in quanto garantisce un rac23 «Franz: “Cosa aspetti? Aiutala, idiota... [...]. Levale il velo, su, levale il cappello, i guanti! La contessa Serpieri è una signora! È una signora di classe, una signora importante! Non lo vedi?”. Franz viene avanti verso Livia. Franz: “Credevi che mi vantassi quando dicevo che una vera signora come la contessa Serpieri...”. Afferra bruscamente Livia e le strappa il velo» [Cavallaro (a cura di), Senso, cit., p. 188]. 24 La contessa Serpieri cerca di allontanarsi da Franz Mahler che però la segue a qualche passo di distanza, nonostante venga invitato a lasciarla sola. Livia prosegue ma, improvvisamente, si ferma spaventata per aver scorto il corpo di un soldato austriaco per terra. Franz si china su di lui, gli solleva il capo e riadagia dolcemente il cadavere a terra. Si ode il rumore cadenzato di passi di militari austriaci. Franz si leva in piedi e raggiunge Livia, la trascina dietro un archetto e la copre col velo. I soldati sollevano e portano via il corpo allontanandosi. Livia ringrazia Mahler. A questo punto inizia la musica. 25 La citazione dell’Adagio. Sehr feierlich und sehr langsam va ininterrottamente da b. 29 a b. 70.

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A. Bruckner, Settima sinfonia. Adagio. Sehr feierlich und sehr langsam, bb. 29-36, 37-42.

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cordo con la situazione precedente e prepara l’ingresso del secondo tema in modo più adeguato26. Inoltre, con un’operazione parimenti interessante, Rota riesce ad utilizzare cinematograficamente questi materiali con un altrettanto sapiente lavoro di montaggio musicale. Si consideri il “quarto atto del film”, nel momento in cui Livia parte in calesse da Aldeno per raggiungere Franz a Verona e ripensa alla lettera che Franz le aveva scritto. La citazione dell’Allegro moderato, con brevi e impercettibili stacchi, va dalla b. 193 alla b. 210; dalla b. 233 alla b. 248; dalla b. 103 alla b. 122 e, infine, dalla b. 123 alla b. 149. Seguiamo la sceneggiatura e la musica. Voce Livia: “Avevo con me la lettera che Franz mi aveva scritto... e continuavo a rileggerla, sebbene la sapessi a memoria: Livia adorata... [...]. Amami come sempre io ti amo”. Passaggio della carrozza per un tratto della strada nei pressi di Verona.

A. Bruckner, Settima sinfonia. Allegro moderato, bb. 190-198.

Livia si ripassa la faccia col fazzoletto. Entra molta polvere.

26 Inoltre, la coda del tema (bb. 31-36) viene preceduta dalle figurazioni dei violini primi, qui eseguite in «pp», e non «ff» come previsto nella partitura. Entra poi la nutrita sezione degli ottoni con le figurazioni cromatiche.

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Roberto Calabretto

A. Bruckner, Settima sinfonia. Allegro moderato, bb. 233-242.

Ma il pensiero del prossimo incontro le infonde coraggio e la fa sorridere di piacere. La carrozza si allontana lungo la strada. Brusio soldati. La porta di accesso a Verona. Davanti si affollano soldati austriaci, carri. La carrozza di Livia si avvia sotto il portico. Due soldati austriaci la fermano al posto di blocco.

A. Bruckner, Settima sinfonia. Allegro moderato, bb. 98-111.

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Nino Rota e il cinema di Luchino Visconti

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Ufficiale: “Ha un lasciapassare per poter entrare a Verona a questa ora? [...] Può passare. L’avverto però che stasera le strade di Verona non sono molto sicure per una signora”. Livia: “Grazie. Presto in via Santo Stefano 149. Vai cammina!... Cammina”27.

A. Bruckner, Settima sinfonia. Allegro moderato, bb. 119-130.

Operando in questo modo, Rota ancora una volta rivela le grandi doti di un compositore che sa destreggiarsi nelle complesse operazioni del montaggio musicale con molta abilità, e proprio per questo risulta essere un musicista dalla vocazione fortemente cinematografica. Nell’utilizzare la Settima sinfonia di Bruckner, egli spesso ritocca la strumentazione, oppure rallenta anche il tactus dei diversi temi per adeguarli maggiormente alle immagini. Altre volte, la ma27

Cavallaro (a cura di), Senso, cit., pp. 184-5.

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Roberto Calabretto

niera con cui essi vengono dipanati nel corso del racconto cinematografico serve a creare situazioni di continuità nei frequenti momenti di ellissi della narrazione filmica. Il tutto viene a creare una nuova partitura che, forse, dovrebbe essere attribuita a BrucknerRota.

2. I primi rulli del Gattopardo La musica per Il Gattopardo nasce da presupposti analoghi, anche se, come abbiamo visto, Rota in questo caso si serve di una propria composizione giovanile. Tralasciando le modalità di utilizzo di questo materiale, simili a quelle di Senso e pertanto già messe in risalto precedentemente, cercheremo ora di vedere come Rota rifunzionalizzi questa partitura rendendola una vera e propria musica da film. In questo ci sarà d’aiuto il suo quaderno di appunti, conservato presso l’Archivio “Nino Rota” della Fondazione “Giorgio Cini” di Venezia28, che il compositore ha scrupolosamente annotato obbedendo alla propria vocazione tipicamente artigianale29. Il quaderno è suddiviso in capitoli che contengono le descrizioni dei diversi rulli. Il primo, pertanto, riporta la musica composta per i titoli di testa del film30.

28 Colgo l’occasione per ringraziare l’Archivio “Nino Rota” della Fondazione “Giorgio Cini” di Venezia, che gentilmente mi ha permesso la consultazione e pubblicazione di questi materiali. 29 In queste pagine Rota riporta con precisione i tempi degli interventi musicali e le loro principali caratteristiche. Il metodo di lavoro, in questo caso singolare, consiste nel dedicare a ciascun rullo due pagine di appunti: nella prima vengono indicati i principali stacchi delle diverse sequenze, mentre la seconda serve a delineare con maggior cura tutti i dettagli musicali. Un simile modus operandi, anche se in contesti e con finalità differenti, ricorda quello del compositore per il teatro d’opera. A tal fine, si veda E. Surian, Nino Rota, compositore artigiano di musiche per film, in “Studi urbinati”, LXIII, 1990, pp. 381-96. 30 Nel prendere in esame alcuni momenti della partitura, abbiamo pertanto utilizzato questi appunti, integrandoli con nostri interventi e con alcune parti della sceneggiatura del film.

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13” 12½”31 42½” 50” circa

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Carrello da albero Carrello. Tema [del] Principe Statua. Tema [del] Principe

1’20” 1’34”

Carrello verso palazzo

1’50”

Tema [d’]amore

2’40” circa32

Voci rosario – Vento33

La musica dei titoli di testa, Allegro maestoso34, si articola in tre episodi che, secondo una tipica consuetudine da ouverture operistica, propongono alcuni temi che poi ritroveremo nel corso del film stesso. Il primo è a sua volta tripartito (A-B-A’) e contrappone una sezione con successioni accordali piuttosto statiche, enfatizzate da figurazioni puntate e solenni che ricordano le movenze del preludio operistico (bb. 1-7, 21-26), ad un’altra che invece è maggiormente animata da alcune figurazioni contrappuntistiche (bb. 8-20). Già a partire da questo primo episodio musicale si possono cogliere delle efficaci concordanze fra i cambi d’inquadratura e i segmenti musicali che, come rivela accortamente Sergio Miceli, «stanno a mostrare l’insolita attenzione riservata in fase di montaggio alla componente musicale»35. Il primo tema accompagna così la sequenza iniziale, dove i titoli di testa cominciano a scorrere sullo 31

Tutte le indicazioni cronometriche, ovviamente, sono quelle indicate da Rota negli appunti e possono non corrispondere a quelle effettive del film. 32 Poco sotto, invece, Rota precisa: «2’46”». 33 «73 metri (fine titoli?)», annota Rota a metà pagina. 34 Anch’essa conservata presso l’Archivio “Nino Rota” della Fondazione “Giorgio Cini” di Venezia. 35 S. Miceli, Le musiche del film. Una breve analisi, in Il Gattopardo, a cura di L. Micciché, Electa, Napoli 1996, p. 33.

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N. Rota, Il Gattopardo, n. 1. Allegro maestoso, bb. 1-24.

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sfondo di un cielo terso con le immagini della villa. Il secondo subentra ad uno stacco significativo – che, non a caso, Rota sottolinea negli appunti –, evidenziando la carrellata da sinistra verso destra dall’albero, con i rami in primo piano, da cui prende inizio la seconda sezione dell’episodio. La ripresa (bb. 21-26) entra nel prosieguo della carrellata, con la prima inquadratura della villa, e da un punto di vista musicale ripropone le prime battute con cui la musica era iniziata. Mentre prosegue la carrellata sui colli antistanti la villa, subentra il «Tema del Principe», secondo episodio, dapprima esposto dai corni, in seguito dall’oboe e dagli archi.

N. Rota, Il Gattopardo, n. 1. Allegro maestoso, bb. 25-42.

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È, questa, una tipica pagina dalle atmosfere tardo-ottocentesche: evidenti appaiono le sue reminiscenze brahmsiane, ritrovabili anche nell’utilizzo del corno nell’esposizione della melodia, che, a sua volta, deriva dal secondo tema del quarto movimento della Sinfonia sopra una canzone d’amore. Dopo un crescendo, con delle progressioni, Rota “prepara” l’ingresso del seguente tema con una “cascata” melodica dei legni.

N. Rota, Il Gattopardo, n. 1. Allegro maestoso, bb. 43-53.

Dopo il ponte di collegamento sull’immagine fissa del palazzo, subentra il «Tema d’Amore», terzo episodio, che accompagna una carrellata verso il palazzo stesso. Questo secondo tema appare subito contraddistinto da una marcata cantabilità, confermando la grande e nota vena melodica di Nino Rota; anch’esso deriva dal primo tema del terzo movimento della Sinfonia sopra una canzone d’amore.

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N. Rota, Il Gattopardo, n. 1. Allegro maestoso, bb. 54-66.

In maniera molto efficace, Rota conclude poi questa pagina citando le prime battute del secondo tema del terzo movimento della sinfonia, quasi fossero una coda del tema precedente. Il tema non è ben definito. In tal modo si rivela molto efficace nel chiudere l’ouverture e aprire, allo stesso tempo, la seguente scena. A questo punto “si alza il sipario” e il film, verrebbe da dire l’opera, inizia. Si crea una dissolvenza musicale, per cui il tema lentamente scompare per lasciare spazio alle voci del rosario recitato dai membri della famiglia del principe Salina36. Molto bella questa pri36 «Scena I. Salone villa Salina pressi di Palermo. Interno giorno. Brusio di voci che recitano le preghiere; più forte la voce del Principe che comanda il Rosario. [...] Voce del Principe: “Nunc et in hora mortis nostrae...”. Tutti: “Amen”. [...] Una delle porte viene socchiusa e nel salone entra scodinzolando il cane Bendicò, e un rumore di voci

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N. Rota, Il Gattopardo, n. 1. Allegro maestoso, bb. 67-74.

ma scena, dove le voci fuori campo scandiscono le litanie, quasi fossero un coro che precede l’ingresso dei solisti37. Parimenti efficaci i suoni della campana, molto funerei, che intercalano il brusio e l’eccitazione nata tra i contadini dopo che hanno scoperto il cadavere del soldato nel giardino. La musica ricompare nella terza scena, quando il principe e padre Pirrone in carozza stanno andando a Palermo38 e, ancora una volta, accompagna i dialoghi e il montaggio con grande precisione. agitate quanto mai inconsueto... [...] Voci più concitate dal giardino e dalle stanze adiacenti al salone. [...] Cameriere: “Perdoni Eccellenza. In giardino è stato trovato un ferito. È un soldato del quinto battaglione cacciatori. Ci sono disordini in città e dappertutto...”» (S. Cecchi d’Amico, Il Gattopardo, Cappelli, Bologna 1963, pp. 37-8). 37 Anche questa è una cifra musicale tipica di Visconti, che spesso si serve di simili “cori” per ottenere effetti molto suggestivi. Basti pensare alle sequenze nel porto dei pescatori siciliani nella Terra trema. 38 «Scena II. Carrozza del Principe. Interno notte. La carrozza del Principe scende al gran trotto la strada incassata fra le alte mura. [...] Nell’interno della carrozza siedono il Principe e Padre Pirrone. [...] Padre Pirrone: “Brutti tempi, Eccellenza”. [...] La carrozza si è fermata di colpo, interrompendo il discorso del Principe. Dietro i vetri dei finestrini appaiono smisurate baionette sotto l’oscillante luce di una lanterna. Si sentono voci confuse di uomo, con accenti napoletani e pugliesi. [...] Il soldato monta con un balzo a cassetta e la carrozza riparte. Sottufficiale: “Lasciatelo passare”» (Cecchi d’Amico, Il Gattopardo, cit., pp. 40-1).

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In questo caso, il quaderno di Rota presenta due pagine per la descrizione del rullo. La seconda sembra essere un approfondimento della precedente39. Il Gattopardo 2.1 0”. Interno carrozza. Prima frase [del] IV tempo con sviluppo. 21”. Est[erno] carrozza. Tema [del] Principe (tutto senza dialogo). 45”. Campanella suonata da P[adre] Pirrone. 51”. Militari. Legare con sviluppo [della] seconda frasetta. 1’12”. Bussa [alla] porta. Tema II [del] III tempo. 1’20”. Ribussa. Mariannina apre. 1’25”. «Principone mio...». Sensualità. Bacio. 1’35”. Lo fa entrare. Poi richiude [la] porta. 1’42”. Fine.

Il Gattopardo 2.2 0’-1’35”. Interno carrozza che è ripartita. Tema [del] Principe calmo ma viaggiante, nell’ultima parte sensualetto40. 8”. Dialogo Padre Pirrone. Segue dialogo. 22”-1’55”. Carrozza, bella con cavalli slombati, arriva in cortile (?)41. 25’-2’4”. Scende Padre Pirrone42. 2’12”. Riparte la carrozza mentre Padre Pirrone si avvia al convento. 2’20”. Suona [la] campanella [del] convento [e] poi entra. 49”-2’20”. Scena buia, con soldati nella via della Mariannina. Cambia. 1’9”-2’41”. [Il] Principe bussa [alla] porta [di] Mariannina. 1’20”-2’57”. Bussa ancora. 2’59”. Esce [una] donna. «Principone mio» e lo fa entrare. 1’40”-3’15”

39 Presenta, allo stesso tempo, i tempi di alcune sequenze musicali che poi Rota ha tagliato. Qui troviamo: «P. P. Principe - Padre Pirrone in carrozza. Pochissime battute. 35” Colpo [di] cannone. Dopo un poco più dialogo. 1’18” “Fermi, posto di blocco”. Dialogo» (Quaderno di appunti per Il Gattopardo, cit.). Rota, giustamente, si rende conto dell’inopportunità di “soffocare” il dialogo con interventi musicali eccessivi. Parimenti giustificata l’eliminazione del colpo di cannone. Questa sezione viene, quindi, eliminata e Rota annota un «da qui» con una freccia per indicare il punto da cui fa partire gli interventi musicali. 40 Stupisce questo lessico molto ricercato. È, forse, Rota intimorito dalla presenza di Visconti? 41 Il punto interrogativo è presente nell’originale. 42 In questo caso, Rota taglia «ed entra in chiesa».

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Seguiamo ora la sceneggiatura e la musica. Padre Pirrone si sente rassicurato e dice a mo’ di conclusione dei discorsi fatti finora: Padre Pirrone (con un sospiro): “Che bel paese sarebbe questo, Eccellenza se...”. Principe (interrompendo con un sorriso ironico): “Se non vi fossero tanti gesuiti”43.

In questo primo dialogo fra il principe e padre Pirrone, Rota utilizza la coda del primo tema del quarto movimento della sinfonia. Si tratta di una frase musicale molto scorrevole in sei ottavi che, come logica conseguenza, porta all’entrata del “Tema del Principe”, nel momento in cui padre Pirrone scende dalla carrozza.

N. Rota, Il Gattopardo, n. 2. Passeggiata notturna. Palermo, bb. 1-23. 43

Cecchi d’Amico, Il Gattopardo, cit., p. 42.

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Il Principe cammina per una strada malfamata della città. Anche qui passano dei soldati in completo equipaggiamento, ma si tratta di soldati furtivamente fuggiti dai reparti e che escono o entrano guardinghi nelle casette basse del quartiere equivoco. All’incrocio di due vicoli alcuni giovinastri litigano nelle tonalità basse dei siciliani arrabbiati44.

Con un significativo cambio di strumentazione, il tema scorrevole accompagna le immagini che vedono il principe avvicinarsi alla casa di Mariannina. Nel momento in cui bussa con decisione alla porta si ripresenta il terzo tema, che già avevamo ascoltato in chiusura dei titoli di testa, qui accompagnato sempre dal tema scorrevole e in sincrono. La “sensualità” di cui parla Rota viene evidenziata dall’ingresso del clarinetto con la comparsa di Mariannina. Un momento di silenzio, poi una ragazza dal volto sano di contadina, che contrasta non poco con il sottanino sgargiante e il corpetto vistoso da sgualdrina, apre la porta e grida con esagerato entusiasmo: Marianna: “Principone!”45.

L’intera partitura del film si muove seguendo queste movenze, ancora una volta offrendo un esempio di funzionalità musicale cinematografica di estremo interesse. La Sinfonia del Gattopardo, veramente tale è la musica composta da Rota per il film di Visconti, pur mantenendo il proprio “respiro” sinfonico riesce ad interagire con i dialoghi e le immagini del film con grande efficacia grazie al sapiente lavoro messo in atto da Rota.

44 45

Sempre la stessa predilezione di Visconti per la musicalità della lingua siciliana. Cecchi d’Amico, Il Gattopardo, cit., p. 43.

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Roberto Calabretto

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N. Rota, Il Gattopardo, n. 2. Passeggiata notturna. Palermo, bb. 65-85.

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3. Un lavoro con metro e forbici Rota, in definitiva, anche lavorando con Visconti si rivela un abilissimo musicista per il cinema, grazie al sapiente lavoro di “metro e forbici” che, proprio in quegli anni, tanto aveva irritato Ildebrando Pizzetti, suo maestro, e Goffredo Petrassi. Questi due compositori, tra i più rappresentativi dell’universo italiano del ventesimo secolo, in quegli anni avevano lamentato che il cinema pregiudicava la libertà di un musicista, costringendolo all’interno di tempi prestabiliti che negavano una qualsiasi forma di ispirazione. Nel 1964 Pizzetti aveva così dichiarato che il montaggio cinematografico inevitabilmente comprometteva la stessa possibilità della musica. Motivo per cui, a suo avviso, scrivere per il cinema era un’operazione impossibile. Ma il cinema ha le sue leggi, leggi ferree che non ammettono eccezioni, alle quali ho dovuto anche io assoggettarmi; e così, taglia di qua, misura di là, spostati a duecento chilometri di distanza, rinunzia a cinque battute oggi e dieci domani, dilata, riscrivi. No, non è possibile, almeno per me46.

In maniera analoga, anche Petrassi aveva dichiarato come il dover lavorare a confronto con il minutaggio fosse una costrizione insopportabile che privava il comporre di qualsiasi dignità artistica. In un’intervista a Enzo Restagno, concessa nel 1991, egli aveva detto che preparare la musica per delle immagini gli faceva un effetto di noia mortale. La limitazione del minutaggio: un minuto e otto secondi, due minuti e ventitré secondi, i tempi ti venivano imposti, non eri tu a sceglierli. E poi c’era la necessità di adattare la musica all’immagine con una corrispondenza intransigente [...]. Io non seguivo nessun sistema, perché era la prima volta che lavoravo per film d’immaginazione e non avevo ancora messo a punto un metodo47. 46 Parole di Ildebrando Pizzetti in M. Magaldi, Ildebrando Pizzetti non è tenero con il cinema, in “Rivista del cinematografo”, 9-10, settembre-ottobre 1964, p. 463. 47 G. Petrassi, Autoritratto. Intervista elaborata da Carla Vasio, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 51-2.

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Roberto Calabretto

Queste parole, rappresentative di una sostanziale incomprensione nei confronti delle funzioni della musica da film, e delle modalità del suo allestimento, rivelano, in definitiva, come la colonna sonora, negli intenti di Pizzetti e Petrassi, obbedisse a delle scelte molto distanti dalle esigenze delle immagini in movimento e fosse più vicina ai modelli del tradizionale poema sinfonico48. Allo stesso tempo, le esperienze fallimentari di tanti altri musicisti di estrazione colta che si sono confrontati con il cinema stanno a testimoniare come l’universo delle immagini in movimento non necessitasse, forse, del loro apporto, ma bensì di quello degli umili artigiani. Artigiani che, con il metro e le forbici, erano invece in grado di capire le reali e imprescindibili esigenze di un linguaggio che agli altri restava invece sconosciuto. Proprio Nino Rota in quegli anni saprà imporsi per l’indubbia bellezza e funzionalità delle sue partiture, dimostrando di saper coniugare le esigenze delle immagini in movimento con quelle della musica. Dal suo operato, e in particolar modo dal suo felicissimo sodalizio con alcuni registi come Luchino Visconti, si aprirà così un nuovo e interessante capitolo per la storia della musica da film italiana.

48 Non a caso, Pizzetti era solito trasformare le proprie partiture cinematografiche – “tollerate” nel proprio catalogo come cedimenti alle pressioni esercitate da amici – in suites sinfoniche.

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Febo Guizzi*

La “presa indiretta”: le origini dell’etnofonia siciliana e lo «scenario sonoro fittizio» in La terra trema

La terra trema è un film che racconta una storia; come disse Luchino Visconti a proposito di Rocco e i suoi fratelli – ma riferendosi anche alla Terra trema –, il suo intento nel film era di percorrere «soltanto la strada dell’indagine psicologica e della ricostruzione fedele d’un dramma umano»1. Non è dunque un film etno-antropologico, è ovvio; non è un documentario. Ma non ho dubbi, e qui vorrei dimostrare, che esso “contenga” anche un valore documentario: non mi riferisco all’inevitabile capacità di ogni opera dell’arte e dell’ingegno di documentare il processo creativo di cui essa è il prodotto materializzato; nemmeno al potere che appartiene ad ogni opera di svelare aspetti essenziali della personalità dell’autore, del suo stile, del suo rapporto con il mondo nel momento in cui essa fu realizzata. Il punto non riguarda solo queste ovvietà, dunque, ma soprattutto il modo in cui il film fu girato: elementi essenziali per comprenderne questo aspetto sono da un lato la qualità dello sguardo del Visconti dell’epoca e, dall’altro, l’apporto fondamentale fornito dai protagonisti, dai loro corpi, dalla loro lingua, dal loro sguardo reciprocamente scambiato nelle pieghe drammatiche della storia e collettivamente restituito verso l’autore e, per lui, alla macchina da presa. Un apporto culturalmente determinato, vista la provenienza degli attori e dato il modo complessivo di messa in atto del realismo viscontiano, che si riversa sulla * Università di Torino. 1 L. Visconti, Da Verga a Gramsci, in Visconti: il cinema, a cura di A. Ferrero, Ufficio Cinema del Comune di Modena, Modena 1977.

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Febo Guizzi

macchina da presa e sulla presa dei suoni, presa diretta avida di captare un ambiente sonoro complessivo densissimo e fortemente caratterizzante: quello proprio di Aci Trezza nello scorcio finale del 1947 e dei primi mesi del 1948, oggi per noi così lontano ma di certo per nulla prossimo, anche all’epoca della realizzazione del film, allo stesso Visconti e al mondo da cui egli proveniva. Questa densità e quella avidità contribuiscono in modo determinante a tracciare «la strada dell’indagine psicologica e della ricostruzione fedele d’un dramma umano»; la dimensione umana è delineata peculiarmente grazie alla sensazione di “bagno di verità”, alla quale contribuiscono la capacità suggestiva e il potere illusorio che i suoni, compresi quelli della parlata, possiedono e trasmettono in modo impareggiabile e che la presa diretta sa captare al meglio, relativamente parlando, magari proprio allo scopo di farne il supporto di un discorso indiretto, di un montaggio e di un intreccio sonori che sfruttino la suggestione e l’illusione ai fini del più raffinato congegno romanzesco. Il discorso sul film e sulla sua forza insieme etica e drammatica deve perciò considerare, contemporaneamente ma in modo disgiunto, la colonna sonora, intesa come parte non secondaria della costruzione dell’artificio drammatico da un lato, e, dall’altro, il “paesaggio sonoro” della realtà rappresentata, la trama dei suoni di un mondo e di una cultura forzati all’efficacia esemplare “documentaria”. In questo senso il sonoro della Terra trema, quello della presa diretta delle voci e dei canti dei pescatori di Trezza, è un duplice, apprezzabile documento: ci dice cioè della sensibilità di Visconti per la qualità della “sonosfera” del popolo e dell’abilità di Visconti stesso nel comporla ai fini narrativi2, ma ci dice anche cose preziose 2 Visconti ebbe a scrivere, prima della realizzazione della Terra trema, ma a proposito della sua lettura di Verga in vista della trasposizione cinematografica di opere dello scrittore siciliano, «non sembri strano che, parlando di una eventuale realizzazione cinematografica, io insista tanto su elementi quali il fragore del mare, il suono della voce di Rocco Spatu, o l’eco del rumore del carro di compare Alfio che non si ferma mai». L. Visconti, Tradizione e invenzione, in Leggere Visconti, a cura di G. Callegaro, N. Lodato, Arti Grafiche La Cittadella, Pieve del Cairo 1976, p. 19 (citato da N. Premuda, Luchino Visconti’s “Musicism”, in “International Review of the Aesthetics and Sociology of Music”, vol. 26, n. 2, December 1995, pp. 189-210: p. 198).

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La “presa indiretta”

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su quella sonosfera in quanto tale, o almeno in quanto leggibile, pur nella sua parzialità e nella sua funzionalità all’arbitrio creativo, quale reperto di una realtà storica, socialmente e culturalmente determinata, per la quale abbiamo grande curiosità proprio per la rarità, da vero documento d’archivio, che essa rappresenta. Eppure, nella storia della considerazione critica del film questi aspetti non si può dire che abbiano ricevuto adeguata attenzione: poco o nulla si è detto del paesaggio sonoro che si offriva alla selezione compositiva dei microfoni, poco si è scritto sulla colonna sonora del film. Su questo secondo aspetto, tra le cose più rilevanti prese in esame da critici e storici, spicca senza dubbio una questione che non riguarda direttamente, meno che mai analiticamente, la traccia sonora del film, ma che nondimeno influisce profondamente sulla considerazione del contributo complessivo che il suono (parlato degli attori, voce fuori campo, musica, suoni ambientali ecc.) conferisce alla fisionomia artistica e ideologica della Terra trema: è la questione del rapporto tra i dialoghi, e il parlato in genere, in dialetto trezzese, e il testo detto in italiano – da Mario Pisu, la cui dizione nulla concede alla leggera inflessione siciliana colta della lingua di Antonio Pietrangeli, autore del testo –, questione già definita con l’impegnativa categorizzazione di «dualismo linguistico»3 e radicalmente ripresa da Lisa Rosen nel suo saggio sulla voice over del film4. Secondo la Rosen, la voce fuori campo, lungi dall’essere un espediente pratico per una migliore comprensione della storia, compressa sotto l’ermetica cortina dei dialoghi incomprensibili, è un dispositivo estetico nelle mani dell’autore per intervenire in modo insostituibile nello sviluppo della storia, non solo 3

S. Parigi, Il dualismo linguistico [ne La terra trema], in La terra trema di Luchino Visconti. Analisi di un capolavoro, a cura di L. Micciché, Lindau, Torino 1993, pp. 141-64. Di grande utilità è la trascrizione del testo integrale della voce fuori campo operata dalla stessa Parigi in La versione integrale del commento parlato, in Micciché (a cura di), La terra trema di Luchino Visconti, cit., pp. 233-9. 4 L. Rosen, Sound and Temporality: Voice-over in Visconti’s “La Terra Trema”, in http://www.luchinovisconti.net/visconti_al/visconti_sound.htm. Purtroppo grava su parte consistente di questo dibattito l’annosa e poco utile, a mio avviso, questione sul “realismo” di Visconti, ovvero sul suo presunto “tradimento” del neorealismo o sulla congruenza di questa bandiera con la sostanza dello stile viscontiano.

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nell’intreccio dei fatti, ma nella loro gestione poetica, intensificando tensioni e conflitti, introducendo informazioni su elementi non spiegati dalla parte “visibile” della storia, insinuando moniti sul destino incombente o su esiti né previsti né voluti dall’interno della storia stessa: questa voce «plays with the time», non solo scomponendo piani temporali, ma sovrapponendo anche una temporalità storico-politico-morale “esterna” a quella della storia narrata; essa, sostiene la Rosen, [...] is an avant-garde device, distancing the spectator from the diegetic illusion, calling attention to the tension between socioeconomic groups and individual protagonists, ancient and modern time. This tension is the authorial statement.

E più avanti si sostiene che questa voce, nella sua articolazione formale, agisce al livello del suono, divenendo parte di quel mondo dell’oralità e del tempo dilatato, dominato dal passato e dalla memoria, di cui Visconti avrebbe subito il fascino: al punto da marcare, con il suo ritmo e la sua qualità formale, la sostanziale adesione dell’autore, nonostante la sua tensione politica verso il futuro, al mondo iterativo di figure, valori e destini bloccati in una temporalità incontrastabile dagli individui. Serie e profonde valutazioni, da prendere in considerazione con rispetto tanto più in quanto si basano su di un attento uso ermeneutico del ruolo dei suoni. Ma non del tutto convincenti: la contraddizione non è, o non è solamente e principalmente, quella tra l’attrazione per un sistema di vita arcaico da un lato – che è però organico al dominio di classe – e, dall’altro, quella per il credo politico che induce a condannare il sistema oppressivo che ingloba la “complicità fatale” degli oppressi: l’attrazione di Visconti per l’arcaico mondo popolare è principalmente una tensione romantica (aristocratico-borghese, in quanto tale) e borghese-aristocratica (estetizzante, in quanto tale) verso una condizione di passioni semplici e di forme codificate in termini etici, che prescinde in parte consistente dal dato “etnografico” sperimentato secondo un metodo scientifico e perciò depurato da pregiudiziali letterarie; quindi, se fosse anche vero che la “voce autorale”, per il fat-

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to di piegarsi nella sua forma a ripetere adesivamente il senso attribuito ai suoni del popolo e alla sua musica, sia – per questo e non per i contenuti di disincanto ideologico che pur essa veicola – davvero il marcatore dell’attenzione “politica” (da intendersi come partecipazione affettiva per il popolo disgraziato e per la sua temporalità, il suo senso del ritmo), lo sarebbe in fondo in modo viziato da un diffuso “pregiudizio dell’ignoranza” che assorbe la musica nella visione estranea e ingenua di un popolo fissato nel vuoto della subalternità sociale. Ciò che sfugge, insomma, anche ai migliori esegeti del film, anche a quelli come la Rosen che prendono in considerazione il suono, i ritmi, le forme musicali, come interpretanti dell’opera, è che la realtà musicale tradizionale incorporata nel film è un “dato” complesso e fortemente segnato da un’alterità che la colonna sonora ingloba senza nemmeno esserne davvero consapevole; questa primaria apertura alla voce “autentica”, tuttavia, è condizionata dall’ideologia viscontiana sulla natura e sulla qualità di quella stessa cultura popolare, di quel mondo dei suoni “altro” che pure la presa diretta ha raccolto e documentato. Vediamo da vicino qualche esempio, a partire da quello che forse merita la considerazione maggiore per essere emblematico nel contesto filmico e per essere reiterato direttamente all’inizio e alla fine del film: mi riferisco al canto che costituisce il tema degli incontri tra Mara e Nicola il muratore, il canto intonato da Janu, «ci avi u’ core cuntentu [...] ca sempri canta», come dice Mara, perché «Janu è carusu», sottolinea Nicola. Ciò che segue ne costituisce un abbozzo di trascrizione5: 5 La melodia e il testo trascritti sono certamente rivedibili, dal momento che l’ascolto della prima deve districarsi dai rumori di fondo e dalle voci che vi si sovrappongono, mentre il secondo è il risultato del mio tentativo di passare dall’ascolto alla trascrizione delle parole, senza documenti di riscontro: non essendo per nulla addentro alla lingua di Aci Trezza degli anni Quaranta – notoriamente ostica anche per i siciliani di altre zone – mi sono di fatto limitato a ricavare grumi di suoni sillabici corrispondenti all’andamento della melodia, per lo più senza riuscire a dare loro un senso accettabile. Nella trascrizione musicale mi sono invece attenuto il più possibile alla scrittura usata da Alberto Favara (si veda più avanti l’esempio di vicariota che riporto dal Corpus), soprattutto per rendere più evidente la stretta contiguità formale del canto di Janu con quelli trascritti dal musicologo siciliano.

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Nelle carte dell’Archivio “Visconti”, raccolte e conservate da Lino Micciché e oggi confluite in copia nel fascicolo 9 del fondo dedicato al regista collocato presso l’Istituto Gramsci, compare la scaletta dattiloscritta delle sequenze del progetto del più ampio film che poi si ridusse al solo «episodio del mare», redatta da Visconti probabilmente nell’ottobre 1947; qui, in testa al primo foglio a penna, egli annotò: «Titoli di testa – Canzone Muratore»6. Quindi possiamo pensare che Visconti volesse questo canto (plausibilmente quello poi utilizzato nella sequenza del dialogo tra Mara e Nicola) ad epigrafe sonora dell’intero episodio. Il che è già indicativo non solo del rilievo da lui attribuito al “cuore musicale” degli abitanti di Trezza, ma anche del fatto circostanziato che egli avesse in mente di usare a quello scopo un momento cantato attribuito alla spensieratezza di un giovane muratore; non sappiamo, tuttavia, se la canzone fosse stata già cantata a Visconti nel corso della sua ricognizione del maggio-giugno del ’47, o se fosse sua “generica” intenzione richiedere all’atto delle riprese che un canto di quel tipo fosse eseguito, venendo soddisfatto con l’esecuzione registrata nella colonna sonora del film. Già, ma quale “tipo di canto”? Dalla forma, dal testo e dal modo in cui è cantata, la melodia appare fortemente caratterizzata secondo i tratti distintivi del canto lirico basato su ottave di endecasillabi a rima alternata, con un attacco di regola segnato da un andamento ascendente, a volte con un salto di sesta o una progressione di due terze, seguito da uno sviluppo progressivamente discendente e moderatamente melismatico e da una cadenza spesso contraddistinta da un semitono di chiusura. Del modo in cui questo 6

Quando gli episodi erano tre: scaletta del progetto, in Micciché (a cura di), La terra trema di Luchino Visconti, cit., pp. 205-17: p. 205.

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impianto melodico plasma i testi in squarci lirici di grande libertà, il Tiby, si riferì a questo testo del Favara: Nelle nostre canzoni popolari, la composizione poetica, sotto l’influenza diretta della musica, si sviluppa in magnifiche strane forme speciali: una serie non interrotta di immagini che si legano tra di loro, al di fuori di ogni nesso logico, nella sensazione, come i suoni succedentisi di una melodia; un ordine ascendente dell’emozione presente verso le immagini lontane; una sintassi libera, che ha tutti i caratteri dell’improvvisazione; una grande ricchezza di parole arcaiche, nella cui scelta la sonorità ha una grande importanza; insomma una lingua vivente, in un continuo divenire, sotto l’alito creatore della musica7.

E scrisse, traducendo in chiave positiva l’enfasi di Favara: [...] quando l’esecutore ha dato al suo canto quella linea, soprattutto quando con una frase saliente, un’immagine balenante, un inciso melico caratteristico ha reso quel sentimento, ha trasmesso la sua commozione a chi lo ascolta, il suo compito è perfettamente raggiunto. Il resto sono rifiniture volute da una cultura superiore, estranea a quell’ambiente e a quegli uomini8.

E puntualizzò: [...] il testo poetico, considerato nel suo insieme, è come un materiale grezzo, che il cantore dispone sotto la melodia nel modo che più gli aggrada, onde fornire di sillabe i suoni e di un senso anche approssimativo il canto9.

Tra questi canti spicca il repertorio chiamato «alla vicariota», costituito dai canti di carcere così denominati dal nome dell’antico 7 A. Favara, Le melodie tradizionali di Val di Mazara, in Atti del III congresso internazionale di scienze storiche, Roma, 1-9 aprile 1903, Reale Accademia dei Lincei, Roma 1905, vol. VIII, p. 102. 8 O. Tiby, Il canto popolare siciliano. Studio introduttivo, in A. Favara, Corpus di musiche popolari siciliane, 2 voll., a cura di O. Tiby, Accademia di Scienze, Lettere e Arti, Palermo 1957, vol. I, pp. 2-113: p. 22. 9 Ivi, p. 23.

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carcere di Palermo, la Vicarìa. Qui di seguito riporto una delle tante trascrizioni di vicariote pubblicate nel Corpus di Favara (è il brano n. 468, a p. 264; è noto che il suo lavoro di raccolta si svolse senza l’ausilio di mezzi di registrazione meccanici del suono):

Credo che il confronto con la trascrizione del canto di Janu sopra proposta metta in luce con immediatezza le analogie formali tra i due brani. Di questi canti scrisse Roberto Leydi nel 1970: Quasi tutte le raccolte di canti popolari siciliani hanno una sezione dedicata ai canti di carcere (Vigo, Pitrè, Salomone-Marino, Favara ecc.) [ma] in realtà il canto di carcere o di mafia non ha caratteri formali distintivi, né di struttura metrica, né di impianto musicale. Rientra nel grande gruppo del canto lirico monostrofico siciliano e dalle altre forme si differenzia per i temi che tratta e per i sentimenti che esprime o rivela10.

Tra questi temi abbonda quello della nostalgia e dell’amore perduto, perciò le vicariote rappresentano una sorta di esperanto lirico siciliano, con alcuni tratti tipici, ma soprattutto con una larghissima diffusione, svincolata da legami stilistici e genetici locali: questo perché l’universo carcerario è segnato dalla paradossale commistione tra chiusura concentrazionaria e forte mobilità coatta da un istituto di pena a un altro. Per quanto concerne poi la conoscenza delle musiche di questo repertorio, nonostante l’attenzione tributatagli in tutti i testi dei principali folkloristi siciliani, fu solo il Corpus di musiche popolari siciliane di Alberto Favara a pubblicare nume10

Voce Canti di carcere, in R. Leydi, S. Mantovani, Dizionario della musica popolare europea, Bompiani, Milano 1970, p. 78.

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rosi esempi con trascrizione musicale. Ma il Corpus, ancorché composto nel periodo tra le due guerre, fu pubblicato postumo solo nel 1957, dieci anni dopo La terra trema. Pertanto né Visconti, né Ferrero, autore delle musiche composte per il film, né altri avrebbero potuto conoscerle, mentre la gran parte dei siciliani abituati a cantare secondo tradizione nel 1948 conosceva questi canti e sapeva ben denominarli come canti «alla vicariota». Le prime registrazioni di natura etnomusicologica di materiale sonoro autentico riferite alla Sicilia sono datate 1948, ma furono effettuate a Roma, negli studi RAI, da Giorgio Nataletti. Si tratta di tre soli brani (che costituiscono la raccolta n. 1 degli Archivi di Etnomusicologia conservati oggi presso l’Accademia di Santa Cecilia), non assimilabili ad alcuna delle musiche udibili nel film. Troppo poco, troppo tardi e troppo estranee alla materia viscontiana per pensare che siano servite per la produzione. Le prime registrazioni (anch’esse peraltro non eseguite sul campo ma in studio, a Palermo), effettuate in territorio siciliano, sono quelle della raccolta n. 17 del 1951-52. Sta di fatto che, tornando alle carte d’archivio, l’episodio del film caratterizzato dal canto del muratore è indicato, nella raccolta curata da Micciché, con la sigla A.V.L.M. (A/5 ALLA VICARIOTA)11. Dunque ecco un legame non equivoco tra la “generica” canzone del muratore e un preciso genere formalizzato e ben identificato da un nome, da “quel” nome, nella sua fisionomia. L’argomentazione ricavabile da questo indizio non costituisce certo una “prova”, ma è sufficiente a suggerire una ragionevole ricostruzione congetturale della non casualità dell’uso di quel termine riferito a uno o più canti effettivamente racchiusi nel film: possiamo arguire che Visconti volesse una “vicariota”, sapendo che cosa questo termine indicasse, e che ne avesse già a disposizione, o si preparasse a raccoglierne, diverse versioni cantate. Non è molto, come indizio; ma a corredo dei precisi caratteri di emissione della voce, di cura linguistica, di pathos dell’esecuzione, rilevabili nelle belle esecuzioni racchiuse nella colonna sonora, que11

I documenti e le loro fonti, in Micciché (a cura di), La terra trema di Luchino Visconti, cit., p. 259.

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sto dato esterno, secondo me, basta e avanza per sorreggere l’ipotesi di un prelievo microfonico in tempo reale e in presa diretta, durante le riprese, di canti eseguiti da trezzesi (forse gli stessi protagonisti del film, forse anche, ma mi pare meno probabile, altri paesani chiamati a fornire comunque sul set la prestazione sonora in cui erano specialisti)12. Un analogo riscontro – anche per un’argomentazione parzialmente a contrario per quanto riguarda gli strumenti – può essere fatto con le altre sequenze in cui il canto, i richiami o i suoni strumentali (le campane, l’armonica a bocca, il clarinetto; degli interventi di questi due ultimi strumenti si dovrebbe dire nel merito di alcune loro peculiarità) saturano la parte sonora del racconto con precisi caratteri di integrazione (pur in presenza del montaggio filmico) con il parlato dei dialoghi, con i suoni ambientali, persino con la non raffinata (per limiti tecnici dell’epoca) dislocazione spaziale delle sorgenti sonore. Non abbiamo altri titoli, altre indicazioni scritturali, ma è evidente che così come le voci, anche i suoni “ambientali”, dei segnali, dei richiami, del lavoro e sul lavoro, sono espressione diretta dell’etnofonia trezzese; lo sono di certo le canzoni, mentre lo sono molto meno le musiche strumentali da intrattenimento o da ballo, che non vanno oltre stereotipi da repertorio popolaresco o «della fascia artigiana», per usare una definizione carpitelliana, sia nella presenza che nel modo dell’esecuzione: mentre i brani eseguiti sui rispettivi strumenti sono frutto di sovrapposizioni, peraltro ben motivate, di Visconti e di Ferrero13. Quanto poi i protagonisti del film 12 Franco Mannino, per la verità, parla della colonna sonora della Terra trema come del risultato di musiche scelte e coordinate da Visconti e Willy Ferrero, alternate a «quelle create da Visconti attraverso quei dialoghi serrati, coronati da concertati che possiamo definire operistici nelle scene di massa dei pescatori»; accenna anche a «musiche di repertorio» (F. Mannino, Visconti e la musica, Akademos & Lim, Lucca 1994, pp. 18-9). Non sappiamo se in questa opera di selezione di musiche già disponibili – come si intende con l’espressione “di repertorio” – vi potessero essere anche registrazioni di canti popolari in dialetto trezzese o siciliano: di certo non potevano derivare da inesistenti registrazioni sul campo, al massimo possiamo ipotizzare che fossero reperibili nei cataloghi di dischi a 78 giri, dove da decenni si pubblicavano repertori dialettali; ma è solo un’ipotesi tutta da verificare. 13 L’armonica a bocca e il clarinetto, pur essendo entrambi contestualizzati come

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fossero pienamente organici alla più generale cultura tradizionale dei suoni della Sicilia è dimostrato, secondo me, da una scena che a prima vista può sembrare neutra o non significativa: mi riferisco al discorso che ’Ntoni, seduto nella barca, indirizza ai familiari per esporre con l’enfasi e la solennità necessarie il suo progetto di riscatto dalla tirannia economica dei grossisti; alternando il discorso con colpi ritmicamente inferti al legno della barca, egli manifesta un crescendo drammatico che lo porta presto ad abbandonare il registro elementi interni alla storia, visibili e individuabili nella scena pervasa dai rispettivi suoni, producono in realtà musiche che è dubbio potessero davvero far parte della cultura popolare di Aci Trezza. Il clarinetto ha volutamente un’aria da strumento suonato da un dilettante, con un misto di asprezze, di salti e di filature di voce, che si vorrebbe perciò riferibile nello stile a tradizioni locali, comunque «extra colte»; compare due volte, e nella seconda, suonato da Zi’ Nunzio all’interno dell’euforica scena della salatura del pesce, esegue un frammento che Don Salvatore riconosce come melodia belliniana; ne parla la Gastel Chiarelli, ma con alcune imprecisioni, la principale è quella di scambiarlo per un flauto: «Soltanto in una scena Visconti ricorre al melodramma, e con una citazione precisa che trova rispondenza esatta nel suo contrapporsi all’immagine: è una citazione musicale, ma anche soprattutto letteraria, legata alle parole del libretto composto da Felice Romani per l’opera La sonnambula di Vincenzo Bellini, non a caso opera di un musicista siciliano. L’aria, nel film intonata da un flauto, nell’opera affidata alla voce di Amina, risuona durante la scena della salatura delle acciughe, uno dei momenti in cui i Valastro sono e si sentono “vincitori” e possono guardare al futuro con occhi fiduciosi e con nuovo coraggio. Essa dice “Ah non credea mirarti, sì presto estinto fiore, passasti al par d’amore che un giorno sol durò...”. L’obiettivo si perde a contemplare i visi felici ed esaltati [...] mentre la musica, intonata da un suonatore senza ambizioni, incerta, frammentata, s’insinua tra i volti e le risa annunciando la precarietà di quella stessa gioia [...]. L’Aria di Bellini acquista qui la statura di un personaggio indecifrabile e inquietante, pur nella sua malinconica dolcezza» (C. Gastel Chiarelli, Musica e memoria nell’arte di Luchino Visconti, Archinto, Milano 1997, pp. 106-7). All’armonica invece è affidato un ruolo più difficile da comprendere, come rileva Callisto Cosulich: «La manipolazione più clamorosa rimane però quella in La terra trema, dove il regista non esita a tradurre uno Studio di Chopin per armonica a bocca, che, nella fattispecie, viene suonata da un pescatore di Aci Trezza in preda all’ubriachezza. Detto per inciso, è lo stesso Studio che negli anni a venire sarà trasformato in una canzonetta il cui verso iniziale suona: “È triste il mio cuor...”. In altri momenti dello stesso film (che nei titoli di testa annuncia “Musica scelta e coordinata da Luchino Visconti e Willy Ferrero”) motivi del folklore siciliano subiscono il trattamento inverso, vengono cioè affidati a una compagine orchestrale di tutto rispetto» (C. Cosulich, Decadente e progressista. Luchino Visconti e la musica, in “Amadeus”, VII, n. 3, 64, marzo 1995, pp. 48-51: p. 50). Lo Studio chopiniano è il n. 3, op. 10. L’aria di Amina è nel terzo atto della Sonnambula.

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espressivo e il profilo paramelodico della parlata ordinaria, per attingere al tono epico-drammatico. Eccone un tentativo di trascrizione descrittiva musicale e grafica di un frammento:

Legno percosso U viristûvu tutti ala paren d’a’ arrero commu se cumminar’ i cosi. [nn]

Picchi vuliti cuntinuari a fare sfuttiri tur’e munde

all’årenìa’ e cumpagnie?

Spettro secondo la trasformata di Fourier del discorso di ’Ntoni

Questo passaggio, dettato dalla sceneggiatura (ancorché inesistente nella forma “classica”) e ovviamente richiesto dalla regia, è tuttavia realizzato da Antonio Arcidiacono, l’attore che interpreta ’Ntoni, facendo ricorso, consapevolmente o no poco importa, al modo inconfondibile dell’emissione e all’artificio della scansione ritmica propri dell’epica orale, rappresentata principalmente (ma non esclusivamente) in Sicilia dalla tradizione dei cuntastorie, i grandi depositari del mestiere del racconto dell’epopea dei paladini che si servivano solo di un tavolo di legno, il loro palco, di un bastone che era di volta in volta strumento ritmico, spada rutilante, bacchetta deittica ecc., e della loro straordinaria, in tutti i sensi, cifra voca-

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La “presa indiretta”

le del recitativo giocato tra parlato e cantato con una sapienza al tempo stesso straniante e capace di intensi effetti spettacolari. Questa che segue è la trascrizione di un frammento del cuntu del celebre contastorie Roberto Genovese, registrato da Alan Lomax e Diego Carpitella a Palermo nel luglio del 1954: 1

Co_me Gu_nu di Ma_go

2

3

4

nza [ve]_de dov’er’ Or__la- ndo di__gri__gna i de-

5

6

nti e do_ve be___ste-

7

mmia la sua so-

8

9

rt’ap_pel____la- [ndo-lo...]

Il testo: «Come Gano di Mago- / nza [ve]de dov’era Orla- / ndo digrigna i de- / nti e dove lo beste- / mmia la sua so- / rte appellando- / lo tratro- / ne e vigliacco / come...» [La scala graduata sopra il pentagramma indica il tempo in secondi. Ringrazio Ilario Meandri per l’apporto in questa e nella precedente trascrizione].

Per un’altra rappresentazione del meccanismo ritmico-espressivo della retorica epica siciliana di tradizione orale, si veda qui di seguito il frammento del cuntu di un altro grande contastorie, Peppino Celano: si tratta della trascrizione realizzata da Roberto Leydi14 di un passaggio del combattimento tra Orlando e Rinaldo, da lui registrata a Palermo nell’ottobre del 1963:

14

R. Leydi, L’altra musica, Ricordi-Giunti, Milano-Firenze 1991, p. 142.

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Sia ben chiaro che non intendo presumere né che vi sia un rapporto diretto, di filiazione, tra l’appello di ’Ntoni e lo stile epico dei contastorie, né che quest’ultimo di per sé costituisca l’unica matrice di una tale modalità ritmico-recitativa: in realtà sappiamo che quella dei contastorie siciliani (simile a quella dei loro omologhi veneziani) costituisce la forma più marcata e sapiente di una più generale cifra epica che, soprattutto nei momenti di grande tensione drammatica, assume un andamento concitato regolato dalla serrata organizzazione ritmica dei versi e dall’emissione fortemente “straniata” del registro narrativo, che arriva anche a spezzare deliberatamente le parole alla fine del verso, per accentuare il primato del ritmo: se ne possono rintracciare esempi in varie fonti di genere diverso, anche se manca in gran parte una documentazione diretta ed esplicita di una tale tecnica; il più rappresentativo di tali esempi è costituito dal Combattimento di Tancredi e Clorinda di Monteverdi, a proposito del quale Leydi ha messo in luce le «possibili “coincidenze” fra lo stile dei contastorie (come attestati dalla pratica siciliana, l’unica che conosciamo nella sua realtà stilistica e strutturale) e il discorso “concitato” di Monteverdi nel Combattimento di Tancredi e Clorinda (“Non schivar, non parar non pur ritrarsi ecc.”)»15. Questa cauta indicazione credo possa valere anche per il nostro caso: emerge dal parlato di ’Ntoni una “coincidenza” tra il suo discorso concitato e lo stile dei contastorie, ed entrambi possono essere legittimamente ricondotti ad una comune modalità enfatica del registro oratorio, profondamente radicata nella tradizione orale non solo siciliana e che possiamo far risalire, alla luce delle ricerche di Milman Parry e di John Lord, sino all’epica omerica. Del resto, prima ancora di considerare le convergenze formali nell’andamento ritmico-agogico, basta assaporare la solenne apertura del discorso di ’Ntoni («tanti e tanti anni / e mmagari seculi // aumo ’uto tutti l’occhi chiusi • // magari i patri e i patri d’i nostri patri // non ci vereru chiù chiaru •») per riandare immediatamente alle altezze dell’epica classica. Il che, ai fini del discorso che qui si tenta di 15

R. Leydi, Monteverdi, il Tasso e il contastorie, in “I quaderni della Civica Scuola di Musica di Milano”, nn. 4-5, ottobre 1981, pp. 13-8.

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fare, costituisce un solido indizio di come gli attori della Terra trema fossero capaci di contribuire al realismo del film mettendo in gioco la loro più coerente appartenenza alla dimensione di un’oralità popolare fortemente formalizzata e pienamente immersa in una cultura dei suoni, anch’essa solidamente strutturata16. Nel dicembre del 1952 Ernesto de Martino, in un breve articolo comparso su “Filmcritica”, esprimeva un giudizio «da studioso di tradizioni popolari e di folklore» sul cinema neorealista italiano17; questo pronunciamento extra moenia da parte del grande etnoantropologo era giustificato dal fatto che quel cinema aveva messo il popolo al centro delle storie raccontate, proprio in quanto il popolo, soprattutto meridionale, spesso fatto di contadini, appariva come il protagonista del mondo reale scrutato dagli autori di numerosi film. Per de Martino il realismo consisteva nella passione verso un più ampio e profondo umanesimo, che includa nella sua attiva comprensione soprattutto il mondo degli oppressi, gli strati subalterni o strumentali della nostra società, o, come dice Zavattini, il mondo dei poveri18. 16

Analoga osservazione fa Noemi Premuda (Luchino Visconti’s “Musicism”, cit., pp. 189-210: p. 198) a proposito di due altri momenti del film: il primo è la narrazione da parte di Lucia alla sorellina della fiaba «of the prince who takes her far away. The time results in ternary (3/8) and the intervals are very close (2nd minor and 3rd minor)»; l’altro è il richiamo del piccolo calafato «who crosses the road just before the end of the film. His cues reveal the completeness of an authentic musical phrase. Rhythm and melody result and evolve completely in order with the schemes of the harmonic compositions. The time is perfectly binary (4/4); the intervals are not wide and the child’s voice trills on ut with a superior mordent like the southern singers (stornellatori). Altogether these 14 measures make up an irregular period, where the constant results in the theme between the 6th and the 9th bar, repeated exactly in the following 5 measures». Credo che anche questi due esempi possano essere ricondotti a precisi processi di formalizzazione tradizionale (che comunque la Premuda non individua); di certo è apprezzabile l’identificazione di caratteri inequivocabilmente legati all’oralità: in particolare, la fisionomia prettamente musicale connaturata in quel contesto culturale alle espressioni del registro narrativo e a quelle dei segnali, come mostrano le trascrizioni proposte in appendice del saggio dell’autrice, le quali peraltro divergono dalle nostre per una maggiore aderenza a modi trascrittivi «non etnomusicologici». 17 E. de Martino, Realismo e folklore nel cinema italiano, in “Filmcritica”, III, n. 19, dicembre 1952, pp. 183-5. 18 Ivi, p. 183.

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A sua volta, il cinema realista è il commento lirico (commento lirico e non propaganda immediata!), in termini di sequenze cinematografiche, a questo fermento attuale della nostra vita culturale19.

L’attenzione verso questo rapporto dell’arte cinematografica con il mondo degli esclusi e degli oppressi non lo forzò a mere valutazioni di carattere sociologico o a bilanci di natura esclusivamente politica: i termini adottati – «passione», «umanesimo», «attiva comprensione», «commento lirico e non propaganda» – parlano chiaramente della consapevolezza della centralità del dato soggettivo e dell’elaborazione poetica, e dunque dell’obbligo di non confondere i piani e le rispettive linee guida. Tuttavia de Martino si mostrò obbligato a criticare il modo in cui «questo fermento della vita culturale» italiana veniva di fatto attuato nei concreti prodotti cinematografici: ciò avveniva, secondo lui, il più delle volte in modo discutibile, in particolare quando gli autori si dedicavano, invece che alle classi popolari delle città o alla piccola borghesia cittadina, al mondo dei contadini o dei pescatori, soprattutto meridionale. Il suo rilievo critico investiva «la superficialità con cui ordinariamente viene affrontato il mondo culturale degli strati più arretrati del mondo popolare italiano». La ribellione non nasce nella concretezza di un mondo arcaico e nel tempo stesso modernissimo, ma matura e infine esplode in uno scenario fittizio, in cui qualche compiacimento decadente tiene il luogo di una attenta penetrazione del mondo culturale popolare20.

Questa definizione di «scenario fittizio», così ispida nei confronti di un cinema e di una corrente di pensiero tanto impegnati nel confronto con la realtà, è sfumata ma non del tutto evitata anche verso La terra trema, che pure costituisce per de Martino un’eccezione, per l’intensità, di questo sforzo di penetrazione: 19 20

Ibid. Ivi, p. 184.

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anche in questo film gli aspetti più impegnativi della ideologia arcaica popolare appaiono trascurati: il vecchio padre muore senza lamento funebre, il tema della ideologia popolare della tempesta non trova soluzioni cinematografiche adeguate21.

E altro ancora. Questo giudizio oggi è molto lontano dalla qualità e dai contenuti del nostro sguardo problematico; è un giudizio, tra l’altro, che si riconnette, pur con la sua marcata discendenza da una competenza specialistica di grande peso, all’annosa e datata querelle attorno al realismo, al neorealismo più volte “smascherato”, da “destra” e da “sinistra”, nella sua dipendenza da schemi letterari o nella sua chiusura entro un orizzonte “estetizzante” di matrice piccolo-borghese, fatalista e cinico, retorico e disfattista, naturalistico e paternalista. Decadente, in particolare, nel caso di Visconti, costantemente impiccato, come è noto, a questa corda valutativa. Mi pare tuttavia che questa contiguità non significhi identificazione con quella materia oggi stantia, ma che all’epoca in cui de Martino scriveva era in pieno rigoglio. Ciò che difetta al cinema neorealista, e a La terra trema in particolare, non è da lui individuato né nell’ortodossia ideologica né nella considerazione politically correct delle vie di riscatto dalla subalternità e dall’oppressione; le carenze riguardano la materia stessa di cui è fatta la realtà culturale del popolo, la complessa qualità e lo spessore degli strumenti che l’alterità ha elaborato a difesa della sua presenza nel mondo. È questo, al di là della sua rilevanza ai fini della comprensione del film, non si può negare che sia vero in parte non trascurabile. Semmai qui preme più fortemente un altro pregiudizio, che è quello in base al quale ci si attende dal film una sorta di “solidità” saggistica e informata, da documentario appena rivestito da panni narrativi e letterari; pregiudizio che riguarda anche la natura del documentario come “genere” o forma linguistica, da cui si pretende una valenza esclusiva e indiscutibile di obiettività e di rigore scientifico. Stringendo ancora di più e riflettendo sulla sostanza della posizione di de Martino, che è 21

Ibid.

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in verità meno estrema, risalta la sua esplicita aspettativa che l’autore sia sì capace di strutturare il racconto, come deve, in termini di commento lirico, di elaborazione poetica, ma agendo su di una materia acquisita sul piano del documento e come tale presa a fondamento della stessa capacità di esporre l’intreccio senza commistioni ideologiche immotivate o senza debolezze “irrealistiche”. Oggi la nostra sensibilità e l’acqua passata sotto i ponti delle scienze umane ci consentono di guardare con distacco a questa pretesa di un primato del documento antropologico. Sappiamo, cioè, che anche in sua assenza è proponibile, proprio per la possibile profondità del lavoro artistico, un apporto antropologico fornito dallo sguardo dell’autore dell’opera; e sappiamo anche che il lavoro dell’antropologo è ineluttabilmente connesso alla sua attività interpretativa, la quale, in altri termini, consiste nella consapevole e non solo implicita utilizzazione dello sguardo sulle cose e sui fatti che è anche e contemporaneamente sguardo su di sé; in questa chiave, lavoro artistico e lavoro antropologico possono avere un solido terreno comune, che non può legittimare mere dissoluzioni di una delle due pratiche nell’altra, ma può scovare tratti “tipici” di una nei risvolti meno scontati dell’altra22: se dunque nella Terra trema c’è all’opera un’antropologia viscontiana e prima ancora verghiana, essa si basa sulla selezione narrativa e drammatica degli elementi storici, culturali e formali che servono allo scopo. Non se ne conoscevano altri, in quel frangente storico, ma comunque non servivano o sarebbero serviti a fare altro che non l’opera che noi conosciamo. Oggi l’antropologo sa riconoscere all’artista, soprattutto a quello attivo in un passato prossimo, la capacità e il diritto di pronunciarsi sul terreno dell’interpretazione dei fenomeni culturali, anche in assenza di un apparato investigativo e metodologico che è proprio della condotta scientifica specialistica. L’antropologia culturale lo sa, e lo sa 22

Su tali questioni si vedano i molteplici apporti di Clifford Geertz, soprattutto in C. Geertz, Interpretazioni di culture, il Mulino, Bologna 1988 (ed. or. The Interpretation of Cultures, Basic Books, New York 1973) e Id., Antropologia interpretativa, il Mulino, Bologna 1988 (ed. or. Local Knowledge. Further Essays in Interpretative Anthropology, Basic Books, New York 1977).

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riconoscere a maggior ragione dopo essere passata attraverso le strettoie del decostruzionismo e della sovversione post-moderna degli scenari strutturati della conoscenza scientifica delle scienze umane e sociali. E dopo aver subito la radicale messa in discussione del suo statuto di obiettività, ricondotto – per l’antropologia non meno che per le discipline storiche – a narrazione, a variante di genere della produzione letteraria. Ma anche dopo essere riuscita, almeno in parte, a non cadere nelle trappole dell’«operazione-acquasporca», o quanto meno a sopravvivere a cotanta furia autocritica, avendo evitato di smaltire come rifiuti tutti gli incolpevoli e robusti bambini che nell’acqua limpida dell’osservazione, della documentazione e della filologia nuotano sani e felici, ancorché, a volte, sporchi. Detto questo, possiamo con più tranquillità considerare l’esistenza e la legittimità di un’antropologia viscontiana e contemporaneamente riconoscere che è peraltro vero che nella Terra trema lo scenario del mondo popolare è altrettanto fittizio nei contenuti culturali, nell’apparato ideologico che motiva i protagonisti, almeno quanto è insistita e “filologica” l’attenzione al dettaglio ambientale, ai segni della subordinazione sociale, al colore di comportamenti ricondotti alle origini di classe e di territorio: in questo cinema è forte la connotazione della subalternità dei personaggi, ma è nel contempo debole la denotazione dell’alterità del loro mondo culturale. Alterità culturale di cui gli intellettuali, con poche eccezioni, erano e sono ancora largamente all’oscuro. Torniamo dunque alla tanto problematizzata voce fuori campo del film23: essa questa contraddizione si porta dietro e, nello stesso tempo, sfrutta ai fini della confezione della storia e del bilanciamento dei suoi piani, spesso contraddittori. E contribuisce in modo determinante a riproporre un’inveterata trappola ideologica borghese: il popolo protagonista è intrinsecamente debole, poiché le sue risorse sono costituite dalla capacità di soffrire, in altri termini “la pazienza”, e dalla capacità irrefrenabile di esprimere l’anelito verso la felicità negata, “la speranza” quindi. O, nelle storie dei vinti, che assumono una piega gramsciana, se non addirittura leninista, queste stesse risorse cedono il 23

Si veda la precedente nota 2.

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passo al loro rovesciamento: l’insofferenza e la disperazione, destinate ad essere punite dalla spietata realtà dell’oppressione e dall’invalicabile rapporto di forze. Compassione manzoniana, dunque, e distacco verghiano si confondono in una stessa prospettiva che è, per Visconti, quella dell’inevitabile disgregazione, poi da lui stesso ricondotta con piena adesione (almeno ideale) all’analisi gramsciana della società del Mezzogiorno. Su questo piano ideologico si muove la pur apprezzabile, nella sua discrezione, musica composta da Willy Ferrero, che emerge in una quindicina di brevi interventi nella storia: possiamo dire che essa sta ai suoni della presa diretta, per quanto totalmente riassorbiti nel flusso narrativo del film, come la voce fuori campo sta ai dialoghi, come la voce di Mario Pisu sta alla fonazione straordinaria dei trezzesi e il testo di Pietrangeli sta alla sostanza letteraria verghiana dei contenuti dei dialoghi: come è stato detto acutamente da Francesco Casetti, la voice over, «con il suo tono didascalico, sembra ricreare una dimensione comunicativa di tipo extradiegetico»24. E tanto vale per l’orchestra di Ferrero, di volta in volta inquieta o ammonitrice dall’esterno, accorata o possibilista, sospensiva o rassegnata: ma sempre ridondante, come una sorta di ammortizzatore morale che scatti nelle emergenze della “vera” narrazione. Scrisse Visconti a proposito del suo approccio alla materia del film: A ben guardare, però, anche nella Terra trema io ho cercato di mettere a fuoco, come fonte e ragione di tutto lo svolgimento drammatico, un conflitto economico. La chiave di volta degli stati d’animo, delle psicologie e dei conflitti, è dunque per me prevalentemente sociale, anche se le conclusioni a cui giungo sono soltanto umane e riguardano concretamente gli individui singoli. Il lievito. Però, il sangue che scorre nella storia è intriso di passione civile, di problematica sociale25.

Ma anche l’impianto drammatico, il trattamento del tema centra24

F. Casetti, Per un’analisi testuale, in Micciché (a cura di), La terra trema di Luchino Visconti, cit., pp. 99-115: p. 108. 25 Visconti, Da Verga a Gramsci, cit.

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le del dramma, quello della sconfitta, e dunque il “commento lirico” o l’elaborazione poetica nel senso demartiniano, sono dichiarati da Visconti in modo determinato dalla necessità politico-ideale: Il tema della sconfitta, della irrisione, da parte della società, dei più generosi impulsi individuali, è un tema moderno quant’altri mai. Vi sono tuttavia almeno due modi di trattarlo. Vi è un modo estetico e compiaciuto che io non esito a definire asociale, anzi antisociale. V’è un modo, invece, che esamina le condizioni della sconfitta nel quadro delle difficoltà imposte dall’ordine costituito e che tanto più si arricchisce di speranza e di energia quanto più fa emergere dalla rappresentazione artistica il volto reale dell’ostacolo e il rovescio luminoso di una diversa prospettiva. Verga arrestava il suo processo inventivo e analitico alla prima fase di questo metodo. Il mio tentativo è stato quello di estrarre dalle radici stesse del metodo verghiano le ragioni prime del dramma e di presentare al culmine dello sfacelo (nella Terra trema: il dissesto economico della famiglia Valastro; in Rocco: la frana morale nel momento di maggiore assestamento economico) un personaggio che chiaramente, quasi didascalicamente (non ho paura della parola), le mettesse in chiaro26.

Questo dunque è il nodo: il fatto che la realizzazione formale e drammaturgico-narrativa della tensione verso la realtà e verso i protagonisti umani delle contraddizioni del “vero” sociale sia capace di esiti poietici di grande efficacia e durabilità – sino a poter largamente prescindere dalla questione della correttezza politica e dai dosaggi rispettivi tra ingredienti realistici e ideologici – non elimina la questione del bagaglio culturale degli autori, né delegittima la verifica del grado di conoscenza o di equivoca riduzione a stereotipi, da parte loro, della realtà del popolo, dell’alterità della sua visione del mondo, dell’autonomia dei suoi modi di fondazione della soggettività e di formalizzazione delle sue esperienze di vita. L’antropologia viscontiana è dunque didascalica, politicamente 26

Ibid.

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catartica, ideologicamente “a programma”; nell’immediatezza dei suoi intenti storicamente determinata. Ma non è altrettanto inquinata nella prospettiva lunga, di fronte al nostro sguardo ormai fortemente e forzatamente éloigné, per usare un’espressione di Claude Lévi-Strauss. Qui riemerge sia sul piano della suggestione poetica che su quello dell’informazione descrittiva una verità di fondo che prescinde dal verismo, una realtà palpabile che trascende realismo e neorealismo. A generarla è forse la contiguità “spirituale” con l’alterità messa in scena e perciò rimaneggiata, ma anche, nei momenti migliori, valorizzata per sensibilità artistica e simpatia morale. Diventa parte del discorso autorale e se ne giova, ma al tempo stesso mantiene una sua incomprimibile autonomia. E l’“etnomusicologia viscontiana” della Terra trema non solo si guadagna il non trascurabile primato di aver fornito le prime registrazioni sul campo di musiche popolari siciliane, ma proprio nell’elaborazione poetica che costruisce, elaborando i dati ai fini della narrazione, il paesaggio sonoro di Aci Trezza nel 1948 come «scenario sonoro fittizio» mostra di saper divenire una sorta di nobile “antropologia della musica viscontiana”, implicita e forse persino inconsapevole, ma non per questo meno strettamente al servizio del compito di conoscere la musica nella cultura.

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Letteratura

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Arturo Mazzarella*

La saga del commediante. Visconti e la décadence

Visconti e la decadenza costituiscono oramai un binomio quasi inscindibile, un’assonanza purtroppo obbligata: rientrando in quell’ampio repertorio di luoghi comuni coniati dalla vocazione impressionistica di una critica e di una storiografia – letteraria quanto cinematografica – suggestionata da una sensitività di maniera, piuttosto che da una tensione problematica. Per verificare la tenuta di questo binomio si rivela del tutto sterile il tentativo di sottoporre a una circostanziata analisi critica l’antica e desueta categoria di “decadenza”. È certo più produttivo accantonarla definitivamente, senza rimpianti e nostalgie, per sostituirla con un concetto simile solo nella sua articolazione fonica: la décadence. Basta poco per accorgersi che i termini del problema cambiano decisamente. Non potrebbe essere altrimenti, una volta che fremiti e languori impressionistici finalmente si dissipano a favore di un lessico critico di sicuro più attrezzato. Tale si rivela, ad esempio, quel campo semantico dell’artificialità perlustrato capillarmente da Nietzsche nel suo strenuo corpo a corpo con la décadence (soprattutto nei suoi ultimi scritti: dal Caso Wagner e dal Crepuscolo degli idoli all’Anticristo, Ecce homo, Nietzsche contra Wagner e ai Frammenti postumi 1888-1889). Un corpo a corpo aspro e irriducibile, nel quale rimane invischiato, da protagonista, anche Visconti. Dopo tutti i suoi grandi auctores: dopo Wagner, Thomas Mann, D’Annunzio. Dopo il loro “eroico” naufragio sugli scogli di un’utopia formale assoluta, di un’assoluta idolatria dell’artificio. Ab-soluta: sciolta, * Università di Roma Tre.

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emancipata, cioè, da qualsiasi legame che non coincida con il titanico nichilismo di cui è imbevuto un progetto del genere. Come non dare ragione a Nietzsche, interprete ancora insuperato delle aporie che si annidano nell’arte moderna? L’involucro dorato nel quale, dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, l’artista avvolge i propri contenuti non è una sorta di valore formale aggiunto, ma – molto più radicalmente – l’epicentro problematico intorno a cui ruota l’arte moderna. Arte sedotta, stregata dagli effetti soggioganti che la propria potenza formale – mai così evidente, in tutti gli ambiti dell’esperienza estetica – sembra assicurare, e, insieme, sfibrata, avvelenata dalla corrosione nichilista indelebilmente impressa nel progetto di “estetizzazione” della vita. Dopo le indimenticabili, quanto fraintese, pagine di Kierkegaard, la figura dell’esteta (di Johannes il seduttore e, soprattutto, del Don Giovanni di Mozart) torna a manifestare, attraverso la riflessione di Nietzsche, la propria fisionomia tragica, il proprio profilo quasi spettrale. È un’impronta che conserverà sempre, che da ora in poi costituirà il suo connotato precipuo. Nietzsche trova la conferma definitiva nell’itinerario percorso da una tra le più luminose stelle polari del suo passato, in seguito drasticamente abbandonata: quel Richard Wagner ben presto diventato – secondo Nietzsche – vittima della potenza trascinante delle sue stesse combinazioni sonore. Non c’è nulla da meravigliarsi, è il paradosso di cui si alimenta la décadence, che nel Caso Wagner riceve una tra le sue formulazioni più incisive: Da che cosa è caratterizzata ogni décadence letteraria? Dal fatto che la vita non risiede più nel tutto. La parola diventa sovrana e spicca un salto fuori dalla frase, la frase usurpa e offusca il senso della pagina, la pagina prende vita a spese del tutto – il tutto non è più tutto.

Fin qui Nietzsche si limita a parafrasare la definizione di décadence offerta da Paul Bourget. Ma, ovviamente, non può limitarsi a ricalcare gli schemi psico-stilistici attraverso cui Bourget assimila, in ambito letterario, la tendenza verso la micrologia formale a un inequivocabile sintomo di “decadenza”. Nel giro di poche battute si la-

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La saga del commediante

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scia dietro le spalle, con uno scatto prepotente, qualsiasi condizionamento puramente stilistico per esaminare le laceranti contraddizioni che innervano quella sovranità della forma sottolineata da Bourget: Ma questa – prosegue Nietzsche – è l’allegoria di ogni stile della décadence. [...] La vita, la uguale vitalità, la vibrazione e l’esuberanza della vita compressa negli organismi più piccoli, e il resto povero di vita. Ovunque paralisi, pena, irrigidimento oppure inimicizia e caos: entrambe le cose sempre più balzano agli occhi, quanto più elevate sono le forme della organizzazione verso cui si ascende. Il tutto non vive generalmente più: è giustapposto, calcolato, posticcio, un prodotto artificiale.

L’apparente esuberanza di vita nasconde – sapientemente occultata – una povertà, uno svuotamento dell’esistenza medesima. La forma, lavorata, cesellata con dedizione incrollabile, si avvita come sbarre di una prigione dalla quale è impossibile, per l’artista, riuscire a evadere, spezzando la tautologica riproposizione di un’artificialità tanto calcolata quanto paralizzante. Ecco le antinomie che Nietzsche scorge al fondo della décadence, riepilogate da Wagner con la nitida evidenza che solo un paradigma ideale restituisce. Nietzsche, infatti, non ha alcuna difficoltà ad attribuire al suo antico “maestro” «l’importanza di uno scopritore e innovatore di prim’ordine», il quale – sono parole tratte ancora dal Caso Wagner – «ha aumentato smisuratamente la possibilità di linguaggio della musica». Solo che questa magia sonora agisce come un veleno che corrode, distrugge la vita: proprio mentre vorrebbe comprenderla, raffigurarla con perfetta aderenza nei suoi trasalimenti impercettibili, nelle sue analogie più fluide e sfuggenti. Siamo ben oltre un problema squisitamente estetico. Siamo nel cuore del conflitto che caratterizza l’essenza della cultura moderna. Così si esprime un altro dei suoi imprescindibili interpreti: Georg Simmel, autore nel 1918 di un saggio che porta il titolo, non a caso, di Conflitto della cultura moderna. La vita continuamente spezza, nel suo vorticoso fluire, il rigido cerchio di forme che tentano di afferrarla, di trasporla in un ordine precostituito – osseva Simmel –,

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ma, a sua volta, essa stessa «è indissolubilmente vincolata alla necessità di diventare reale solo in forma del suo opposto, il che vuol dire in una forma». Ha pienamente ragione Nietzsche, allora: la forma che meglio di ogni altra è in grado di rappresentare un conflitto del genere è la maschera calata sul volto del “commediante”. L’unico personaggio che sembra muoversi con disinvolta leggerezza tra antinomie così aspre e insidiose. L’unico personaggio in grado di assumere tutte le forme: manipolandole, intrecciandole, lasciandole scivolare l’una dopo l’altra. Peccato, però, che nel gioco di travestimenti rutilanti e fantasiosi gli manchi l’ultima, decisiva consapevolezza: quella che gli permette di smascherare la propria mendacità, di esibire la sfrontata artificialità che impregna ogni suo gesto. Se gli appartenesse anche la sovrana capacità di irridere e destituire di senso gli effetti mimetici indotti dai propri travestimenti, il commediante diventerebbe senza dubbio l’icona esemplare della modernità: la figura in grado di aderire completamente alla costellazione di conflitti messi in luce sia da Nietzsche sia da Simmel. Purtroppo gli manca quest’ultimo guizzo. Gli rimarrà sempre estraneo il duende – direbbe García Lorca con la sua espressione intraducibile, quanto insostituibile –, l’ispirazione tragica che lo muove. Come tutti i grandi commedianti, anche Wagner è animato da uno strenuo antagonismo nei confronti dell’artificialità da lui scoperta quale risorsa inesauribile del linguaggio artistico: da un lato, è intento ad applicarla nelle sue fibre intime, con una progressione martellante; d’altro canto, però, si dimostra incapace di accordare all’artificio una piena legittimità estetica, di riconoscerlo come un destino inaggirabile che il linguaggio artistico della modernità è costretto a incrociare al culmine del suo dispiegamento. Ecco la contraddizione nella quale – secondo Nietzsche – rimangono impigliati, senza accorgersene, Wagner e l’intera cultura della décadence. Una volta teorizzato e sperimentato nell’ampia gamma delle sue modalità linguistiche, l’artificio viene ripresentato all’insegna della tradizionale «volontà di verità» (Wille zur Wahrheit), della intramontabile autenticità che avvolge il linguaggio artistico: così potente da inglobare nei vaticini del Poeta anche la simulazione, scaltra e raffi-

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La saga del commediante

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nata, alla quale ricorre il commediante. Un altro passo del Caso Wagner è illuminante a tal riguardo: Wagner ha quasi scoperto quale magia possa essere esercitata perfino con una musica decomposta e, per così dire, elementare. La sua coscienza di ciò giunge a qualcosa d’inquietante, così come vi giunge il suo istinto di non ritenere affatto necessaria la superiore normatività, lo stile. L’elementare è sufficiente – suono, movimento, colore, insomma la sensualità della musica. Wagner non fa mai i suoi calcoli da musicista, sulla base di una qualsiasi conoscenza di musicista: egli vuole l’effetto, non vuole altro che l’effetto. E conosce ciò su cui deve agire! [...] Si è commedianti per il fatto che si ha il vantaggio di una sola cognizione che il resto degli uomini non ha: quel che deve agire come vero non può essere vero. Questo principio [...] contiene l’intera psicologia del commediante, e contiene altresì – senza la minima ombra di dubbio – la sua morale. La musica di Wagner non è mai vera.

Proprio così: «Quel che deve agire come vero non può essere vero», se è il risultato di una riflessione attenta e calibrata in ogni suo passaggio; se è l’espressione di una costruzione artificiale. Il doloroso disincanto nietzscheano non consente giustificazioni di alcun tipo: non c’è altra “redenzione” per l’artificialità che la sua esibizione esplicita, anche spudorata. Ogni verità, infatti, è il risultato di una costruzione artificiale, perché non ammetterlo? Perché significherebbe avallare la degradazione dell’artista, lo svuotamento delle sue prerogative divine, del suo consolidato potere demiurgico. È un’operazione alla quale Wagner e i tanti décadents dell’epoca si oppongono fermamente, difendendo un’aura antica e desueta: Nietzsche non si stanca di sottolinearlo. Come, nel corso della sua continua, sistematica delegittimazione del modello estetico proposto da Wagner, non si stanca di ripetere, paradossalmente – lo afferma nella Prefazione al Caso Wagner –, «comprendo perfettamente un musicista che oggi dica: “Odio Wagner, ma non sopporto più alcun’altra musica”. Ma comprenderei anche un filosofo che dichiarasse: “Wagner riassume la modernità. Non c’è niente da fare, si deve cominciare con l’essere wagneriani...”».

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Arturo Mazzarella

L’ambiguità di Nietzsche nei confronti della décadence non potrebbe essere maggiore. Tensione critica e proiezione empatica si saldano in un nodo indissolubile. Non si guarisce mai in modo definitivo dalla décadence – continua a ripetere Nietzsche con ossessività implacabile –, si può solo convivere con le sue malie, con i suoi effetti venefici. Essi, oramai, appartengono all’evoluzione fisiologica, e dunque irreversibile, dell’arte moderna. Senza i travestimenti del commediante, senza il suo inesauribile guardaroba di maschere, come si potrebbero portare alla luce le correspondances – secondo il lessico di Baudelaire – più impalpabili, la rete di analogie che sfuggono all’occhio assuefatto dalle convenzioni? Maschere e travestimenti sono impregnati, infatti, alla stregua di gran parte dei dispositivi artificiali, di una plasticità linguistica dalla quale né il poeta né il musicista possono più prescindere. Ne è pienamente convinto anche Visconti, soprattutto a partire dalla fine degli anni Sessanta, quando comincia a mostrare i presupposti impliciti sui quali si era fino ad allora fondato il proprio rapporto con il cinema. A questa sorta di esperienza meta-linguistica sono interamente dedicati i suoi ultimi cinque film: La caduta degli dei (1969), Morte a Venezia (1971), Ludwig (1973), Gruppo di famiglia in un interno (1974), L’innocente (1976). Sono tutti film che ruotano in vario modo intorno alla costellazione della décadence. Film che smascherano la frastagliata fenomenologia dell’artificialità estetica, proprio mentre ne attestano l’insopprimibile necessità. Nessuno, infatti, all’altezza di questo spaccato cronologico, conosce meglio di Visconti – grazie anche alla sua attività teatrale e operistica – la forza prodigiosa, e insieme dannata, del travestimento, dell’artificio. Un intreccio, questo tra prodigio e dannazione, la cui inestricabilità, nei film appena richiamati, viene da Visconti prepotentemente evidenziata: quasi per rimarcarne una volta per tutte la profonda tragicità. Tragico, quanto insopprimibile “mediatore” – lo definirebbe René Girard in un’opera ingiustamente dimenticata quale Menzogna romantica e verità romanzesca – di ogni segmento dell’intreccio, si dimostra, nella Caduta degli dei, Martin, il capostipite di questa perversa e, al tempo stesso, dolente saga del commediante, affidata

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La saga del commediante

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da Visconti al proprio ineluttabile crepuscolo: Götterdämmerung, appunto, nell’accezione wagneriana del termine, ripreso, nella sua letteralità, come sottotitolo originario del film. Crepuscolo, tramonto non solo di un’intera dinastia, ma del dispositivo scenico assunto a stile privilegiato di vita. Il commediante, nell’autodistruzione accanitamente perseguita, celebra il proprio trionfo, si trasfigura nell’unico personaggio davvero immortale. Esce dalla storia, dal tempo (come Martin, capace di trasformare finanche la sua adesione al nazismo nell’inizio di una nuova farsa, o Friederich e Sofia, costretti al suicidio dalla rovinosa pulsione nichilista che li anima), per sopravvivere nella memoria; per insediarsi eroicamente in quello spazio fantasmatico che, da sempre, costituisce il prolungamento naturale della rappresentazione scenica. Dal trionfale crepuscolo a un tramonto esangue e dimesso la distanza è meno lunga di quanto possa sembrare. Lo conferma Morte a Venezia. Rispetto alla Caduta degli dei, Visconti, nella sua rivisitazione della décadence, ha compiuto un ulteriore passo in avanti. Ha ritirato qualsiasi alibi eroico ai commedianti messi in scena. Gustav von Aschenbach, il protagonista del film, appare l’icona grottesca e patetica del principio stesso del travestimento. Lo scintillio scenografico che avvolgeva in un involucro dorato (ma imbevuto di micidiali veleni) Senso e Il Gattopardo sembra consegnato a un remoto passato, evocato solo per contrasto: per svelare il lutto indelebile impresso in ogni maschera; per ricordare – se qualcuno non lo avesse sempre presente – la distanza insormontabile che separa il commediante dalla vita autentica, dall’immediatezza piena e avvolgente dell’hic et nunc tratteggiato, come polarità opposta all’esperienza estetica moderna, da Walter Benjamin nell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. “Qui e ora” – hic et nunc, appunto – non avviene nulla nell’esistenza di Aschenbach, votata al differimento continuo del desiderio che il ricorso sistematico al travestimento ineliminabilmente comporta. “Qui e ora” è concesso unicamente lasciarsi morire: con il trucco disfatto, con il languore e l’impotenza scolpiti sul volto di Aschenbach nella scena finale del film. Solo la morte – una volta sbarazzatisi, come suggerisce Visconti, della compassata ironia a cui ricorre Thomas Mann per uno dei suoi ir-

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Arturo Mazzarella

rinunciabili contraccolpi difensivi – può riscattare, e ribaltare in una testimonianza autentica, la grottesca clownerie di Aschenbach. Ora Visconti, dopo Morte a Venezia, può anche fare a meno del crepuscolo, della gloriosa Dämmerung. Può proiettare i suoi fantasmi sullo sfondo dell’oscurità più tetra (nella quale già affondavano vari scorci di tre film precedenti, per molti aspetti decisivi: Ossessione, Rocco e i suoi fratelli, Vaghe stelle dell’Orsa...). È quanto avviene in Ludwig, terzo e ultimo episodio della cosiddetta “trilogia tedesca”. L’ambito della décadence, in questa rielaborazione volutamente ridondante della storia di Ludwig II di Baviera, si è ulteriormente ampliato, e complicato. Il commediante è riuscito ancora una volta a presentarsi con maschere e costumi imprevedibili. Non si traveste più, come Martin nella Caduta degli dei, per dissimulare le patologie di un’identità vacillante, per arginare una paralizzante impotenza; o, come accade sempre nello stesso film a Friederich e Sofia, per fronteggiare le dislocazioni e le metamorfosi di un potere che continua a rivelarsi inafferrabile. Questa volta ci si traveste per il motivo opposto: per eludere gli assordanti richiami che provengono dal potere, dalla mitografia del principio di sovranità. Impersonato da Ludwig nella sua integrale destituzione. Egli si sottrae all’esercizio del potere perché riconosce interamente – alla stregua di Carl Schmitt nella Teologia politica o di Walter Benjamin nel Dramma barocco tedesco – l’artificialità che lo permea, la tragica infondatezza su cui poggia. Ma gli mancano sia il cristallino disincanto di Schmitt sia le u-topiche – nel senso etimologico del termine – «accensioni» di Benjamin. Abbacinato dal potere soggiogante dei valori ideali (proprio quelli perseguiti con dedizione incondizionata dagli “esteti” kierkegaardiani), Ludwig non riesce a manovrare congegni e dispositivi artificiali. Riesce unicamente a trasfigurarli, attraverso una sorta di redenzione demiurgica, in una forma di espressione comunque autentica: in una nuova Verità. Siamo di fronte al medesimo itinerario percorso dagli altri commedianti messi in scena da Visconti. C’è una differenza, però: il commediante, a questo punto, ha perso del tutto la sua hybris originaria. Proprio come Ludwig nella parte finale del film, si rivela un manichino svuotato di ogni forza; incapace di ammiccare, di se-ducere:

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La saga del commediante

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sempre più simile a una silhouette che si muove, attonita e impotente, nelle stanze regali della prigione edificata da lui stesso, metro dopo metro. La claustrofilia gelosamente coltivata da Ludwig non si estingue con le sequenze del film. Possiede un seguito inaspettato. Si rivelano, infatti, una prigione non solo le stanze regali in cui si aggira Ludwig, ma anche quelle, meno sfarzose, nelle quali si muove il professore, protagonista di Gruppo di famiglia in un interno (un personaggio, non a caso, ispirato a uno dei massimi interpreti della décadence, Mario Praz, l’autore della Carne, la morte e il diavolo). Oramai, dopo questo film – rendiconto complessivo della paralisi indotta da un’estetica dell’artificio che si incunea in ogni piega dell’esistenza –, tutto è pronto per la resa finale del commediante, per la sua auto-dissoluzione, la quale non può che essere affidata, ovviamente, a uno sprezzante coup de théâtre: esemplarmente siglato, nell’Innocente, dal suicidio di Tullio Hermil. La parabola artistica di Visconti si è conclusa, lasciando aperto l’intero arco di problemi con cui si è misurata nel corso degli ultimi film. Lasciando sospesi, soprattutto, i conti con la décadence: con la saga di commedianti che la popolano. Anche quando l’ultimo commediante, Tullio Hermil – ancora più versatile, nei suoi travestimenti, del personaggio creato da D’Annunzio –, sta per sparire la saga che lo ha visto protagonista non si è certo esaurita. Prosegue attraverso un altro commediante, astuto e spregiudicato per eccellenza: il regista, appunto. La sua abilità è tale da non avere bisogno di maschere. Riesce a recitare senza travestimenti, mostrando con naturalezza la propria costitutiva artificialità. Per Visconti, autentica, vera fino in fondo, avrebbe detto di sicuro Nietzsche.

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Paola Trivero*

Da Remigio Ruz a Franz Mahler: considerazioni intorno a Senso

Nella novella Senso di Camillo Boito, la contessa Livia Serpieri, rievocando l’inizio della sua travolgente liaison con un tenente austriaco, confessa, immediatamente, qualcosa di non gradito per lei nel bellissimo amante: «Ora ecco in qual modo principiò la mia terribile passione per l’Alcide, per l’Adone in assisa bianca, il quale si chiamava con un nome che non m’andava a’ versi – Remigio»1. E il cognome verrà menzionato solamente all’avviarsi dello squallido disinganno, quando Livia andrà a Verona in cerca dell’amato, di cui non ha più notizie: «Sta qui il tenente Remigio Ruz?», si informa il «ragazzaccio» che l’accompagna2. E sarà Livia a pronunciare personalmente nome e cognome allorché si presenta al generale Hauptmann – il comandante di Remigio – per denunciare la diserzione del tenente, favorita da un falso attestato di malattia pagato da lei. Livia formula nome e cognome del tanto amato, avendolo colto in flagrante tradimento; Livia ha deciso di condannarlo a morte per vendicarsi dell’infedeltà subita; Livia è passata dall’amore all’«esecrazione»3. Apro con due frammenti del racconto di Boito perché vorrei mettere a fuoco certi passaggi dalla novella al film di Luchino Visconti per individuare dei dettagli evolutivi/involutivi caratterizzanti i protagonisti e i comprimari, con la scontata consapevolezza che, pur * Università di Torino. 1 C. Boito, Senso, in Narratori settentrionali dell’Ottocento, a cura di F. Portinari, UTET, Torino 1970, p. 741. 2 Ivi, p. 759. 3 Così nel testo: «In quel punto il cuore mi si rivoltò dentro: l’amore era diventato esecrazione» (ivi, p. 762).

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Paola Trivero

trattandosi di generi differenti, l’elemento letterario è particolarmente, e notoriamente, fondante per Visconti, con il risultato che il sistema comparatistico viene utilizzato per l’intera sua opera e che, soprattutto, la diade letteratura-cinema è stata, ed è, oggetto di autorevoli analisi. E la citazione del nome si attaglia subito alla figurazione del giovane ufficiale asburgico: il nome e poi il cognome già qualificano negativamente l’ufficiale; il nome e il cognome già parlano per lui. Ebbene, quel nominativo Remigio Ruz quanto si raffina passando dal testo narrativo al testo filmico: nella prima sceneggiatura cambia in Hans Weil per divenire, dalla seconda e nel continuity, Franz Mahler4. Potere del nome: a fronte di un Remigio che non «andava a’ versi» alla voluttuosa Livia spicca il classicissimo, e sonoramente forte, Franz; a fronte del monosillabo Ruz, quasi un onomatopeico indizio di rozzezza, si staglia Mahler, omonimo del musicista, e note sono le correlazioni Visconti-Mahler (penso, ovviamente, a Morte a Venezia). Forse non è casuale che la dizione «Mahler» echeggi nella barcaccia del Teatro La Fenice, dove i conti Serpieri, gli alti ufficiali austriaci con dame al seguito, assistono alla rappresentazione del Trovatore: la dizione Franz Mahler, rimbalzante sulle bocche dei gallonati e blasonati astanti della barcaccia, suona sin dalle prime sequenze del film sottilmente e inquietantemente seduttiva. Ma altri sono i segnali negativi svelati, per «l’Adone in assisa bianca», dalla Livia di Boito. Leggiamoli: Due sole volte e per un solo istante l’avrei bramato diverso. Passavamo un giorno lungo una fondamenta che guarda la cinta dell’Arsenale [...]. Correvano e saltavano sulla fondamenta, la quale dalla parte del canale non aveva nessun riparo, dieci o dodici monelli vociando a squarciagola. Ve n’erano di piccini e di grandetti. Uno dei piccoli, quasi nudo, grassotto, con i riccioletti biondi, che gli coronavano la 4

Per il riferimento alle sceneggiature mi servo del volume Senso, a cura di G. B. Cavallaro, Cappelli, Bologna 1955. Nel volume sono pubblicati, oltre al continuity (sceneggiatura e dialoghi per il doppiaggio), i sunti delle prime due sceneggiature, la riedizione della novella (con postille per il passaggio dal testo di Boito al film) e un ricco materiale fotografico e iconografico, intertestualmente allestito.

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Da Remigio Ruz a Franz Mahler

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faccia rosea e paffutella, faceva un chiasso da indemoniato, dando scappellotti, pizzicando i compagni e poi scappando via come un fulmine. Mi fermai a guardare, mentre Remigio mi raccontava le sue grandezze passate. A un tratto quel diavoletto di bimbo, non potendo in una corsa precipitosa fermare il piede al ciglio della fondamenta, volò nel canale. S’udì uno strido ed un tonfo, poi subito intronarono l’aria le grida di tutti quanti i ragazzi e di tutte quante le donne [...]; ma in quel clamore dominava lo strillo acuto, disperato, straziante della giovane madre, che, slanciatasi ai piedi di Remigio, unico uomo presente a quella scena, urlava: – Me lo salvi, per carità, me lo salvi! – Remigio, freddo, ghiacciato, rispose alla donna: – Non so nuotare. – Intanto uno dei fanciulli più grandi s’era buttato in acqua, aveva pigliato per i ricci biondi il piccino e lo aveva tirato alla riva. Fu un attimo. Lo stridìo si mutò in applauso frenetico [...]. Remigio con uno strappo violento mi cavò dalla folla. L’altra volta che un poco il mio amante mi spiacque fu per questa cagione. S’era fatto udire nel caffè Quadri, ciarlando in tedesco a voce alta con alcuni impiegati tirolesi, a dir male dei Veneziani. Un signore, che stava in un canto, s’alzò di sbalzo e, piantandosi di contro a lui, che era in uniforme, gridò: – Vigliacco d’un militare – e gli buttò in faccia tre o quattro de’ suoi biglietti da visita. Ne nacque un parapiglia. Il dì seguente i padrini dovevano combinare il duello; ma Remigio, avendo notato che il suo avversario era piccolo, mingherlino e gracilissimo, rifiutò la pistola, rifiutò la spada e, benché la scelta delle armi spettasse allo sfidato, volle ad ogni costo la sciabola, sicuro com’egli era della forza del proprio braccio. Il Veneziano si piegò alla prepotenza; ma, prima del duello, era già in carcere, e a Remigio veniva trasmesso l’ordine di andare immediatamente ad una nuova destinazione in Croazia5.

Il secondo episodio avvalora la viltà del personaggio, in precedenza dichiarata da Livia: «Non aveva mai avuto occasione di trovarsi in guerra; non amava i duelli, anzi due ufficialetti mi raccontarono una sera che, piuttosto di battersi, aveva più volte ingoiato atrocissimi insulti»6. Dimostrazioni di codardia che avranno un ruo5 6

Boito, Senso, cit., pp. 745-7. Ivi, p. 740.

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Paola Trivero

lo nelle sequenze dello scontro tra Franz Mahler e il marchese Roberto Ussoni, il cugino di Livia. Il primo episodio riferito è oltremodo significativo del bieco cinismo di Remigio Ruz e tanto più sintomatico essendo Remigio un abilissimo, ed esibizionistico, nuotatore. Sono le sue audaci evoluzioni ad eccitare il desiderio di Livia, e il loro primo incontro si concretizza nelle acque veneziane: In acqua era un eroe: saltava dall’alto a capo fitto, ripescava una bottiglia sul fondo, usciva dal recinto attraversando di sotto lo spazio dei camerini. Avrei dato non so che cosa per poterlo vedere, tanto m’attraevano l’agilità e la forza. Una mattina [...], udii fuori un romore come di persona, la quale nuotasse rapidamente. L’acqua si agitò, la ondulazione fresca mi fece correre un brivido per le membra, e da uno dei larghi fori tra il suolo e le pareti entrò improvvisamente nella Sirena un uomo. Non gridai, non ebbi paura. Mi parve fatto di marmo, tanto era candido e bello; ma il suo ampio torace si agitava per il respiro profondo, e i suoi occhi celesti brillavano, e dai capelli biondi cadevano gocciole come pioggia di lucenti perle. Ritto in piedi, mezzo velato dall’acqua ancora tremolante, alzò le braccia muscolose e morbide: pareva che ringraziasse i numi e dicesse: “Finalmente!”. Così principiò la nostra relazione; e d’allora in poi lo vidi ogni giorno [...]7.

Nel film, il principio della relazione tra Livia e Franz è molto più sublimato, non per ovvi fattori legati alla censura, quanto per l’iniziale figurazione della contessa Serpieri. Vediamo dunque su quale Livia lavorarono Luchino e gli altri sceneggiatori, ripassando rapidamente le scansioni della novella. Senso. Dallo scartafaccio segreto della contessa Livia. Secondo il tradizionalissimo espediente del diario, custode segreto di arcani altrimenti non confessabili, la protagonista affida allo scartafaccio la memoria dell’esperienza passionale vissuta sedici anni addietro, ripercorrendo le fasi salienti di una storia d’amore e morte e, contemporaneamente, registrando l’evolversi dell’odierna realtà, contrad7

Ivi, pp. 741-2.

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Da Remigio Ruz a Franz Mahler

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distinta dall’insistente presenza di un nuovo spasimante, l’«avvocatino Gino». Così, nello scartafaccio, è sempre qualificato o meglio dequalificato, grazie all’uso di un diminutivo in accezione svalutante, l’ultimo corteggiatore che alla fine, comunque, diverrà l’amante di Livia. Il tutto giocato secondo un alternarsi tra presente e passato, suddiviso in sei sezioni. L’incipit che avvia la confessione è recentissimo. «Ieri nel [suo] salotto giallo», Livia aveva accolto freddamente la spasmodica dichiarazione dell’«avvocatino Gino», poiché intenta a verificare allo specchio la propria bellezza: «[...] mentre il povero giovane mi si gettava ai piedi, io ritta, impassibile, mi guardavo nello specchio. Esaminavo il mio volto per trovarmi una ruga». Il responso dello specchio è esaltante, e Livia si abbandona alla narcisistica descrizione di un volto e di un portamento che paiono inattaccabili (una sorta di ritratto alla Dorian Gray, come è stato giustamente evidenziato)8. L’idolatrico appagamento di sé (l’io di Livia domina, incontrastato, lo scartafaccio) porta la protagonista a rivelare l’età con una specie di riluttanza: «Trentanove anni!... tremo nello scrivere questa orribile cifra». Trema per l’inesorabilità del tempo, che potrà intaccare una bellezza apparentemente inalterabile: non a caso Livia, prima di entrare nel vivo del racconto, è costretta ad ammettere come a vent’anni vi fosse nei suoi occhi «una fiamma, che ora purtroppo si va smorzando»9. Livia ha deciso di raccontarsi mettendo a nudo l’inquietudine «che rode la [sua] anima» e che si alterna alla 8

Ivi, p. 735. Ecco il ritratto che la contessa offre di sé: «La mia fronte, su cui scherzano i riccioletti, è liscia e tersa come quella di una bimba; a’ lati delle mie ampie narici, al di sopra delle mie labbra un po’ grosse e rosse, non si vede una grinza. Non ho mai scoperto un filo bianco ne’ lunghi capelli, i quali, sciolti, cadono in belle onde lucide, neri più dell’inchiostro, sulle mie spalle candide» (ibid.). Per il rimando a Dorian Gray cfr. M. Dillon Wanke, Da Boito a Visconti, in Camillo Boito e il sistema delle arti. Dallo storicismo ottocentesco al melodramma cinematografico di Luchino Visconti, Atti degli Incontri di studio promossi dall’Accademia di Brera, a cura di G. Agosti, C. Mangione, Il Poligrafo, Milano 2002, p. 128. E Matilde Dillon Wanke ricorre al romanzo di Wilde anche per il tenente austriaco: «Il tenente Remigio possiede lo stesso misterioso fascino negativo che sarà di Dorian Gray» (Ead., Introduzione a C. Boito, Senso e altri racconti, Mondadori, Milano 1994, p. XXXI). 9 Boito, Senso, cit., p. 737.

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Paola Trivero

«presunzione della [sua] bellezza», non ottenendo «altro conforto» se non dallo specchio (e il gioco dello specchio viene variamente recuperato nel film); Livia riconsidera «i casi di sedici anni addietro, ai quali [va] ripensando con acre voluttà»10. Nel luglio del 1865, Livia si è «spontaneamente» unita al conte Serpieri, «che avrebbe potuto essere [suo] nonno» – e dell’allora sessantaduenne marito offre un profilo fisico e morale sgradevole –, al solo scopo d’essere ricca, titolata e indipendente; autonomia dal consorte di cui ancora al presente si compiace: «[...] mi lascia spendere quanto voglio e fare quel che mi piace»11. Ed è a Venezia, durante il viaggio di nozze, che viene ammaliata dalla prestanza fisica del giovane ufficiale austriaco e, parimenti, viene soggiogata dalla sua dissolutezza: «Forte, bello, perverso, vile, mi piacque»12. Livia gestisce abilmente la relazione con l’ufficiale e lo incontra non solo in segreto, ma in pubblico, con l’inconsapevole connivenza del marito che, avendo «preso a volergli bene, lo invitava sovente»13. La memoria di Livia è focalizzata sul perverso fascino di Remigio. Remigio «ogni tanto» chiede denaro a Livia. Remigio manca a un appuntamento e la contessa, avendolo infruttuosamente cercato nei suoi alloggiamenti, si rende conto dell’intensità del proprio legame: «Compresi allora che il tenente Remigio era la mia vita. Il sangue mi si gelò [...]. Ero gelosa fino alla pazzia; avrei potuto diventare all’occasione gelosa fino al delitto»14. Preannuncio del tragico finale e condizione di folle schiavitù, molto interessante, che attanaglia la Livia viscontiana. Ed è in questa sezione (la terza) dello scartafaccio 10

Ivi, p. 736. Ivi, pp. 736-7. 12 Ivi, p. 740. Ecco la prima descrizione del tenente: «Alla dissolutezza sbadata, univa, per quanto i suoi stessi amici affermavano, una così cinica immoralità di principî, che niente gli pareva rispettabile in questo mondo, salvo il codice penale e il regolamento militare. Oltre a ciò era veramente bellissimo e straordinariamente vigoroso: un misto di Adone e di Alcide [...]. La testa piantata superbamente sul collo robusto; le spalle non erano quadre e massiccie, ma scendevano giù con grazia; il corpo muscoloso, stretto nella divisa bianca dell’ufficiale austriaco, s’indovinava tutto, e rammentava le statue romane dei gladiatori» (ivi, p. 739). 13 Ivi, p. 742. 14 Ivi, pp. 744-5. 11

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Da Remigio Ruz a Franz Mahler

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che Livia rievoca i due esempi di viltà, sopra riportati. Per quanto concerne l’esito del secondo, Remigio evita sì il duello (mentre lo sfidante viene incarcerato, recupero viscontiano convogliato sull’esilio di Roberto Ussoni), ma non la pesante sanzione disciplinare: dovrà essere trasferito in Croazia. Disperata, Livia muove ogni pedina per trattenere presso di sé l’amante e, grazie all’intervento del consorte, riesce a farlo trasferire a Trento, dove con il conte si appresta a rientrare al termine del viaggio di nozze. Tuttavia la Terza guerra d’Indipendenza (1866) è alle porte. Livia parla di «vaghe voci di guerra», poiché il suo pensiero dominante è Remigio e teme per lui trasferito, nel frattempo, a Verona. Livia indugia sulla sofferenza dell’assenza che la porta ad ammalarsi; Livia esplicita, senza mezzi termini, l’avversione al conflitto risorgimentale, precipua causa della lontananza da Remigio: Quei preparativi mi riempivano di paure fantastiche. L’Italia voleva passare a fil di spada tutti quanti gli Austriaci; Garibaldi, con le sue orde di demonii rossi, voleva scannare tutti quelli che gli sarebbero capitati in mano: si presagiva un’ecatombe. Avevo le furie in corpo: da Verona in sei settimane m’erano capitate quattro lettere sole15.

Il rancore per la guerra risorgimentale non è indotto da una sintonia politica di Livia con quella del marito, legato agli austriaci, bensì è da intendersi come insopportabile causa di una separazione da Remigio. Livia ribadisce, più avanti, un personale sprezzo nei confronti degli eventi patriottici: Vivevo quasi nella solitudine. Già la mia società s’era andata via via restringendo, poiché le famiglie nobili trentine, avverse alle opinioni politiche del conte, avevano da un pezzo lasciato con bel garbo lui e me affatto in disparte [...]. La mia relazione col tenente Remigio, conosciuta da tutti, eccetto che da mio marito, aveva accresciuto il mio isolamento, il quale, del resto, m’era gradito, anzi necessario16. 15 16

Ivi, pp. 748-9. Ivi, pp. 754-5.

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L’angosciante ansietà di Livia si placa allorché Remigio un giorno, all’alba, entra furtivamente nella stanza della contessa, con la complicità della cameriera, e le chiede, senza falsi preamboli, «duemilacinquecento fiorini» per essere dichiarato «inabile», sottraendosi così all’obbligo di combattere. Remigio esige denaro: se Livia non lo ha gli consegni dei gioielli. Livia cede e dallo scrigno estrae «un fornimento intiero di brillanti» e un «mucchietto» di «napoleoni d’oro», non omettendo un inguaribile narcisismo: «Mi piangeva il cuore. Il diadema specialmente mi stava tanto bene»17. Subito dopo si avvicendano i più cruciali, i più negativamente crudeli casi della storia di Livia. Questi i segnali maggiormente emblematici. La lettera: Remigio invia a Livia una lettera di cui, inizialmente, la giovane donna ben valuta il cinismo, poiché l’amante non si perita, ottenuto l’esonero, di esprimere il disprezzo per il conflitto risorgimentale («Dunque non ti dar pensiero di nulla. Io leggerò le notizie della guerra fumando; e quanti più Italiani e Austriaci se ne andranno all’inferno tanto più ci avrò gusto»). Cinismo poi interpretato, a seguito di reiterate letture, come un atto di «magnanimo inganno». Livia ipotizza un Remigio sul campo di battaglia, un Remigio fintamente spregevole per non procurarle ansia18. Il viaggio in carrozza: Livia parte da Trento per raggiungere a Verona l’amato, per averne notizie. Un viaggio contrassegnato dalle tangibili testimonianze della disfatta di Custoza guardate da Livia «come in una lanterna magica e velat[e] dal suo stato d’animo»19. Il tradimento: non vista, Livia assiste agli scherzi amorosi tra Remigio e una «ragazza». Non vista, Livia ascolta il dialogo tra l’«uomo» e la sua compagna. Ora, nello svelamento, Remigio viene declassato e dalle esaltanti comparazioni mitologiche si passa al lapidario lemma «uomo»; Remigio non è degno d’essere citato neppu17

Ivi, pp. 750-2. Ivi, pp. 753-4. 19 Dillon Wanke, Introduzione, cit., p. XXXIV. Dillon Wanke così commenta la rievocazione di Livia: «La percezione è confusa e assurda e indica una sconcertante assenza di consapevolezza storica» (ibid.). 18

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Da Remigio Ruz a Franz Mahler

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re con il nome20. La scena provoca la repentina metamorfosi dell’amore in «esecrazione». Livia, ribollente d’ira, si rifugia in una «modesta bottega da caffè», dove ode i poco edificanti commenti di alcuni ufficiali su Remigio e sulla «Messalina» che lo mantiene e le loro aperte allusioni alla pena inflitta ai disertori. Tradita da Remigio, Livia è pronta a ricambiare con una moneta ben più pesante21. La delazione: Livia si presenta al generale Hauptmann e, suscitando il disprezzo dell’alto ufficiale, denuncia la diserzione di Remigio Ruz (ribadisco che Livia pronuncia, personalmente, il cognome soltanto quando decide la condanna a morte di Remigio). La fucilazione: Livia assiste all’esecuzione, quasi smaniando di macabro erotismo vedendo gli estremi fremiti di Remigio22. Livia non si pente della vilissima azione commessa, al contrario la considera «un difficile dovere compiuto»23. Livia sigla lo scartafaccio rientrando nel presente. Via qualsiasi accenno all’ignobile vendetta, bensì il trionfante autocompiacimento della vittoria conseguita dalla bellezza di una donna trentanovenne a discapito di una «bamboccia» diciottenne che l’«avvocatino» si apprestava a sposare (secondo quanto la contessa annota nella quarta sezione dello scartafaccio)24. Per l’«avvocatino Gino» è stato suf20

Nel riportare tutto il dialogo tra Remigio e la giovane prostituta, per sette volte Livia verga la parola «uomo» (Boito, Senso, cit., pp. 760-1). 21 Ivi, pp. 762-5. 22 «[...] mi accorsi che Remigio era nudo fino alla cintura, e quelle braccia, quelle spalle, quel collo, tutte quelle membra, che avevo tanto amato, m’abbagliarono. Mi volò nella fantasia l’immagine del mio amante, quando a Venezia, nella Sirena, pieno d’ardore e di gioia, m’aveva stretta per la prima volta fra le sue braccia d’acciaio» (ivi, p. 769). 23 La convinzione di aver compiuto «un difficile dovere» scaturisce in Livia anche dal fatto che vede colei con cui Remigio la tradiva slanciarsi «sul torace ancora palpitante e bianco più del marmo» del morto. Tale vista rinnova lo «sdegno» e, parimenti, «la dignità e la forza» (ibid.). 24 Nella quarta sezione del diario, Livia, registrando il presente, è «disgustata» dalla incostanza degli uomini: l’innamoratissimo «avvocatino Gino prende moglie»; l’«avvocatino Gino» dà la preferenza a «una scioccherella di diciotto anni», a «una scipita con due mele ingranate per guance, le mani corte, grasse e rosse, i piedi da stalliere e un’aria impertinentina da santerella, che consola». Livia vive la notizia (trasmessale dalla cameriera) come una sferzante umiliazione, come un’onta all’alto concetto che ha di sé: «E l’uomo il quale piglia una tale bamboccia ha osato amarmi e dirmelo! Sento le brace sul viso...» (ivi, pp. 747-8).

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ficiente un cenno: «Bastò una riga: Venite, faremo la pace, perché capitasse a precipizio. Ha piantato quella bamboccia della sua sposa una settimana innanzi al giorno destinato pel matrimonio». Nessuna tormentosa remora, l’antico amante riemerge unicamente a comparatistico livello di emblema sensuale: l’«avvocatino Gino» «va ripetendo ogni tanto, stringendo[la] quasi con la vigoria del tenente Remigio: – Livia, sei un angelo!»25. L’incipit dello scartafaccio si apre, per quanto concerne l’«avvocatino», con Sperate e si chiude con Venite, sempre indirizzato all’«avvocatino»; pertanto: il salotto giallo con lo specchio e l’ultima liaison sono la cornice e la circostanza che inquadrano la passata liaison d’amore e morte. Senso aderisce, notoriamente, ai canoni poetici della Scapigliatura; si valutino in proposito le antinomiche valenze della passione di Livia: «[...] la perfetta virtù mi sarebbe apparsa scipita e sprezzabile al paragone de’ suoi vizi; la sua mancanza di fede, di onestà, di delicatezza, di ritegno mi sembrava il segno di una vigoria arcana, ma potente, sotto alla quale ero lieta, ero orgogliosa di piegarmi da schiava. Quanto più il suo cuore appariva basso, tanto più il suo corpo splendeva bello»26. Se le antinomie sentimentali di Livia, pur in contesti diversi, possono far pensare a quelle che mettono in atto Giorgio e Fosca, nel romanzo Fosca di Iginio Tarchetti, occorre sottolineare che i due personaggi femminili sono, a loro volta, dicotomici: Livia non è «vittima della nevrosi», ma un’«avventuriera spregiudicata»27 (ne è prova già l’anticonformistica scelta di un marito di comodo). Senso è stato vagliato e avvalorato dalla critica letteraria, mentre più problematica, quando non addirittura sbrigativa, risulta invece, nei confronti del testo, la posizione degli storici e degli studiosi del cinema, i quali dal testo non possono, comunque, prescindere per un’analisi del film28. Tra i tanti interventi voglio rammentare come 25

Ivi, p. 770. Ivi, p. 745. 27 Dillon Wanke, Introduzione, cit., p. XXX. 28 Nel fiorire degli interventi sul testo di Boito, rimando all’Introduzione a Narratori settentrionali dell’Ottocento, cit., di Folco Portinari (dal volume sono tratte le presenti 26

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Gianni Rondolino, dagli appunti appena rilevati, abbia viceversa scandagliato la relazione film-novella evidenziando, per il racconto, la ricca presenza di «spunti melodrammatici» e, parimenti, abbia messo in luce come «Visconti e la d’Amico trassero gli elementi di base per costruire una storia e tratteggiare dei personaggi che, attraverso la loro passione e i loro complessi rapporti umani e sociali, illuminassero un’intera società, un intero periodo storico»29. Vorrei pertanto, come detto in apertura, fermare l’attenzione su alcuni dettagli relativi al nesso novella-film, con un occhio alle sceneggiature precedenti la definitiva, appoggiandomi alla testimonianza di Suso Cecchi d’Amico, la sceneggiatrice per eccellenza di Luchino Visconti. L’idea di trarre un film dalla novella la si deve a una riedizione dei racconti di Camillo Boito curata da Giorgio Bassani, che collaborò alla sceneggiatura unitamente a Carlo Alianello e Giorgio Prosperi; per i dialoghi, invece, nella versione inglese, è bene ricordare i nomi di Paul Bowles e di Tennessee Williams30. Suso lesse Senso e, sebcitazioni della novella), e specificamente alle pagine relative a Senso, per il quale il critico evidenzia i sintomi di un «romanzo naturalista in nuce» e la «presenza ormai prossima di D’Annunzio» (p. 50), e alla già citata Introduzione di Matilde Dillon Wanke. Per un raffronto tra novella e film rinvio a Dillon Wanke, Da Boito a Visconti, cit., pp. 123-30. Per la critica filmica ricordo che nella sua silloge (cfr. nota 4), risalente a un cinquantennio fa, G. B. Cavallaro, pur analizzando il passaggio dal testo di Boito alla prima sceneggiatura, liquida la novella come «tutt’altro che felice» (Senso, cit., p. 53), e più recentemente Lino Micciché, ferma restando la sua analisi sul film viscontiano, ha parlato (nel capitolo dedicato a Senso) di ispirazione a «una novella di Boito» (L. Micciché, Luchino Visconti. Un profilo critico, Marsilio, Venezia 2002, II ed., p. 29). 29 G. Rondolino, Visconti, UTET, Torino 1981, p. 295. Ma l’intero capitolo su Senso è da leggersi per la ricchezza interpretativa e per le informazioni sulla realizzazione del film. 30 Cfr. Scrivere con gli occhi. Lo sceneggiatore come cineasta. Il cinema di Suso Cecchi d’Amico, Edizioni Falsopiano, Alessandria 2002, pp. 20-1. Sulla collaborazione di Paul Bowles e di Tennessee Williams, per i dialoghi dei due protagonisti, si veda anche Cavallaro (a cura di), Senso, cit., p. 95. E, a proposito dei dialoghi, voglio far notare come alcuni vengono ripresi fedelmente dalla novella, al pari di certe situazioni: quando Livia cerca infruttuosamente Franz nei suoi alloggiamenti, e vuol sapere dove sia, l’attendente, malignamente, risponde che potrebbe essere dalla «Kati o dalla Nena», così come il soldato della novella (cfr. Boito, Senso, cit., p. 745); nel film, la cameriera Laura, nella villa di Aldeno, collabora a celare la presenza di Franz e, pur con diversa azione, nella novella, la cameriera di Livia fa entrare Remigio nelle stanze della contessa; infine, a parte

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bene trovasse la novella «antipatica», la giudicò «assai intrigante» e la sottopose a Luchino, «che si entusiasmò». All’epoca Suso e Luchino stavano lavorando a un’altra sceneggiatura per la casa produttrice Lux, sceneggiatura che il presidente, l’eclettico industriale Riccardo Gualino, bocciò, non per i costi ma per motivi di censura, assicurando che ne avrebbe promossa un’altra, da loro avanzata. E in effetti accettò di finanziare la proposta di Visconti e di Cecchi d’Amico su Senso. Ciò che coinvolse Luchino (Suso usa il verbo «incantare») fu il viaggio in carrozza, attraverso i campi di battaglia, compiuto da Livia per raggiungere l’amante. Ma, paradossalmente, quelle scene non furono mai girate, poiché Cecchi d’Amico confessa, apertamente, di aver sbagliato «le lunghezze»: Gualino pose il veto, in quanto «il budget era stato ampiamente superato»31. Gualino, inoltre, chiese di mutare titolo, e la seconda sceneggiatura recita Uragano d’estate, poi fu Senso (1954). Suso, se da un lato dichiara il film «assai diverso dalla novella, anche se non sembra», dall’altro, relativamente al rapporto testo-film, specifica: «Qui si aprirebbe un discorso un po’ complicato sul criterio con cui per immagini si possa dare il sapore, l’ambiente e gli elementi che ti hanno colpito in un testo, senza riprodurre una sorta di illustrazione, come si fa per i fumetti. Per Senso, pur differenziandosi parecchio, l’opera cinematografica rispecchia quella letteraria»32. il frangente della lettera, molto significativo è l’incontro di Livia con il generale Hauptmann. Nel film viene ripreso, pressoché integralmente, il dialogo tra Livia e il generale, il quale riconosce nel gesto della delazione la vendetta di un’amante tradita. Egualmente, per la scena tra Livia e il generale, nel film vengono riproposti come voci di sottofondo i dialoghi che, nella novella, avvenivano tra l’alto ufficiale e le sue due bambine: non a caso, nel film, prima dell’accusa lanciata a Livia, Hauptmann chiude una porta sul cui sfondo si staglia una tavola apparecchiata, indicativa di un ambiente familiare. 31 S. Cecchi d’Amico, Storie di cinema (e d’altro) raccontate a Margherita d’Amico, Bompiani, Milano 2002, pp. 105-6. Di e su Gualino, imprenditore e mecenate (fondò a Torino il Teatro di Torino, dove, dal 1925 al 1931, furono ospiti compagnie teatrali europee d’avanguardia), che subì il confino durante il fascismo, segnalo le recenti pubblicazioni: R. Gualino, Frammenti di vita, introduzione di A. D’Orsi, Aragno, Torino 2007; Id., Tim e Tom in America, disegni di F. Gentilini, nota introduttiva di A. Casoli (in Appendice due lettere di Emilio Cecchi), Aragno, Torino 2007; P. F. Gasparetto, Sogni e soldi. Vita di Riccardo Gualino, Aragno, Torino 2007. 32 Cecchi d’Amico, Storie di cinema (e d’altro), cit., pp. 106-7.

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Tento ora di scoprire tali rispecchiamenti e differenziazioni. E per i rispecchiamenti mi pare che a volte Visconti compia un’operazione di riscrittura letteraria, se mi è concesso dir così per un testo filmico. Inizio dall’utilizzo dello specchio. Ho individuato, per la novella, nel giallo salotto con lo specchio e nella storia dell’«avvocatino Gino» una specie di cornice in cui si incastona la storia di Livia e Remigio. Ebbene, nella prima sceneggiatura – data per scontata la cassatura dell’«avvocatino»: tempi filmici a parte, il corteggiatore boitiano del presente di Livia, l’«avvocatino», non sarebbe compatibile con la figurazione della coppia viscontiana Livia-Franz – una parvenza di raccordo alla trama d’amore e morte è appannaggio del personaggio di Roberto Ussoni: nella corsia di un ospedale di Verona, Roberto ritrova una donna «accusata di essere una spia austriaca. Fu ricoverata tre mesi prima in stato di choc». La donna è Livia, che a Roberto incomincia «a raccontare, con voce di pianto» la sua tragica vicenda33. E la sceneggiatura prevede, in chiusura, Roberto accanto a Livia. La seconda sceneggiatura (intitolata Uragano d’estate) si apre con la fucilazione di Franz Mahler: «Sotto i titoli, un rullio di tamburi che cresce lentamente. Alla fine dei titoli una scarica di fucileria, poi un grido lunghissimo di donna». La donna è Livia che, subito dopo, dà principio alla rievocazione. La ripetizione della scena, alla fine, faceva sì che l’esecuzione incastonasse l’intero evento34. Se le due situazioni, incipitarie e conclusive (maggior partecipazione di Roberto Ussoni, fucilazione di Franz), vengono eliminate, sussiste la forte simbologia dello specchio, nel quale la Livia di Boito idolatra la propria bellezza. Ne sono conferma talune inquadrature clou del film. Brevemente le ripasso. Livia, nella barcaccia della Fenice, in attesa dell’entrata di Franz Mahler, conversa con il generale austriaco, osservando mondanamente allo specchio la compiutezza della sua fulgida acconciatura e sfiorando con le mani guantate l’ampia scollatura dell’abito da sera. Livia è sicura di sé; Livia è la rispettabile contessa Serpieri dalle 33 34

Cavallaro (a cura di), Senso, cit., pp. 57-8. Ivi, pp. 81, 91.

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esplicite simpatie patriottiche (si rammenti la mossa intensamente significativa di Livia quando si pone al seno il mazzolino tricolore, lanciatole da Roberto). Livia, nella camera d’affitto dove segretamente incontra l’amante, si taglia una ciocca di capelli e la chiude nel medaglione per farne dono a Franz: lo specchio riflette non il volto, bensì il gesto del braccio. Nella villa di Aldeno, Livia parla con Franz, che è appena penetrato segretamente nelle sue stanze. Livia è davanti allo specchio. Ma, attenzione: nello specchio è riflesso Franz (Franz è di lato sulla sinistra), poi variamente, tranne l’inquadratura iniziale che riprende Livia di profilo in preda all’angoscia per aver visto l’amante, è sempre il giovane ad essere riflesso. Un segno tangibile del profondo cambiamento di Livia; Livia ha come abiurato al suo fascino: nello specchio si riflette Franz e non Livia. Non a caso Franz dice a Livia: «Io sono più giovane di te, contessa Serpieri...»35. È l’avvenenza di Franz Mahler a dominare. Abbiamo, per la versione cinematografica, delle fotografie che mostrano Livia allo specchio nelle sue camere ad Aldeno, inquadrature che poi furono eliminate. Lo specchio del salotto giallo viene ripreso, ma non è appannaggio di una inalterabile Livia (la quale sembrerebbe mimare, involontariamente, la matrigna di Biancaneve che interroga lo specchio delle “sue brame”, al fine di sapere chi sia la “più bella del reame”), piuttosto ne accompagna l’inarrestabile declino. Egualmente, un altro dettaglio della novella viene inserito nella prima sceneggiatura, per scomparire nella versione definitiva, e alludo allo storico caffè Quadri di Venezia. Nelle precedenti sceneggiature, anteriormente alle notissime e analizzate scene all’interno del Teatro La Fenice, scene da cui è decollata la linea di lettura del film in chiave melodrammatica (e sulla quale, di conseguenza, non intervengo), ne erano previste alcune in campo aperto. Nella prima sceneggiatura, anzi, vi erano i tangibili segni, in una piazza semideserta, della manifestazione patriottica; 35

Ivi, p. 147.

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nella seconda, il racconto di Livia si apriva sull’ambiente intorno al caffè Quadri, dove si concretizzava la figura di uno splendido Franz Mahler e poi si dava il via alla manifestazione. Insomma, i luoghi e, soprattutto, il caffè Quadri potevano riagganciarsi al testo narrativo: in Boito, la sfida scansata da Remigio viene lanciata proprio al caffè Quadri. Ancora leggeri tocchi nelle precedenti sceneggiature ci rimandano al racconto. Nella prima, Livia, dopo la passeggiata notturna con Hans, al braccio del consorte incontrava il tenente e lo rivedeva di sfuggita al caffè: risvolti larvati dei pubblici convegni di Livia e del marito con Remigio. E, a proposito del conte Serpieri, includo pochi riscontri su di lui. Nella prima sceneggiatura, con un chiaro riferimento a Boito, il conte si chiama Camillo: perché, infatti, fra tanti nomi a disposizione, scegliere Camillo? Ma, diversamente dalla novella, Serpieri (l’attore Heinz Moog) appare nel film non del tutto spregevole. In Boito è palesemente denigrato dalla moglie e non certo per le sue simpatie politiche, anzi: è grazie alle aderenze del consorte che Livia armeggia a favore di Remigio. Livia disprezza il marito per la rozzezza fisica e morale (egli passeggia, in piazza San Marco, orgoglioso di esibire la bellissima sposa, eppure occhieggia le giovani di facili costumi), mentre riconosce la libertà finanziaria e sentimentale concessale. Nel film, Serpieri ha un moto di gelosia (mai accennata nel testo) e spia Livia, allorché essa si reca in campo San Geremia 349, illudendosi di trovarvi Franz: in realtà «quella persona» che l’ha mandata a cercare è Roberto Ussoni. Ed è in favore di Roberto che Livia ribatte decisa al marito, il quale vorrebbe impedirle di scendere nel ridotto della Fenice: «Tanto lo sai che io faccio quello che voglio». Un «faccio quello che voglio» molto più dignitoso, per il momento, dell’indipendenza esibita dalla contessa boitiana. E i maneggi della contessa boitiana, presso il coniuge, in aiuto di Remigio, si nobilitano nella richiesta della contessa viscontiana quando chiede al marito un aiuto in favore dell’arrestato Roberto. Aiuto immediatamente negato, anche se in seguito Serpieri, valutata la piega degli

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eventi, prende le distanze dal governo austriaco e lo dichiara a Roberto36. E allora due parole su Roberto Ussoni (Massimo Girotti). L’inserimento del cugino potrebbe essere stato suggerito dalla rapida reminiscenza fatta, nella prima sezione della novella, di un «bel giovane» di Livia innamorato e da lei respinto e arruolatosi (dopo un’immancabile tentativo di suicidio) nelle file dei patrioti37. Ussoni è stato letto come una sorta di «amante-asessuato della contessa»38, e se i passaggi dal progetto di partenza al film lo hanno penalizzato, egli incarna il prototipo dell’eroe risorgimentale. Di lui una giusta lettura la offre Franz: «Mi sembra il tipo nato apposta per sacrificarsi per qualche nobile causa!». E Roberto stesso, figuralmente retorico, dice di sé: «Non ho paura di essere retorico...»39. Roberto esordisce nel film avanzando fra le bianche assise degli ufficiali austriaci. Vi è una forte contrapposizione tra il bianco che ricopre i corpi degli invasori e il nero che riveste i patrioti. Grazie alla complicità dell’uniforme si invertono i valori tradizionali: l’eroe positivo è in nero, l’eroe negativo in bianco. E mi soffermo ora sul lavoro eseguito per trasformare Remigio in Franz Mahler (Farley Granger). Nello scartafaccio, Livia evidenzia subito l’invaghimento per «l’Adone in assisa bianca» e ne esalta la scultorea bianchezza del corpo: ebbene, con tutto il dovuto rispetto, anche Visconti si è come sottilmente invaghito della bianca assisa, che è sintomatica, per lui, di un mondo in disfacimento. In una lunga lettera, molto proficua per entrare nelle dinamiche del film, indirizzata all’attore Farley Granger – e, per inciso, ricordo che Visconti aveva pensato, per il protagoni36

Con l’evolversi degli eventi politici, Serpieri muta atteggiamento e dice a Roberto di non voler accettare le cariche offertegli, «con molta insistenza», dal Comando austriaco, di sentirsi legato a Venezia e che ben sa, qualsiasi sia l’esito della guerra, che la città passerà al governo italiano (cfr. ivi, p. 141). 37 Boito, Senso, cit., p. 738. 38 Micciché, Luchino Visconti, cit., p. 30. 39 Franz emette il giudizio su Roberto rivolgendosi a Livia, non appena il cugino è partito per l’esilio. La frase di Roberto è rivolta a Livia, quando la giovane donna, illudendosi di esser stata cercata da Franz, ritrova il cugino in campo San Geremia [Cavallaro (a cura di), Senso, cit., pp. 119, 143].

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sta, a Marlon Brando, che fu giudicato all’epoca poco vendibile in Europa –, Luchino tratteggia il futuro Franz Mahler (nella lettera il personaggio è ancora Hans Weil): Chi è infatti il tenente Hans Weil? È un ufficiale di un esercito occupante. E personalmente egli è il coccolo della bella società venezianaaustriaca, e del suo stesso ambiente militare. Un vero enfant du siècle come lo avrebbe descritto De Musset [sic]. L’espressione più avanzata del “dandysmo”, il rappresentante della raffinatezza aristocratica degli austriaci, padroni di mezza Europa, eleganti, scettici, belli, mondani, sicuri di se stessi e sprezzanti del resto dell’umanità, buoni soldati, ma per tradizione anziché per convinzione, e libertini senza scrupoli, smangiati dalla Schlamperei caratteristica della loro natura byroniana, baudelairiana, estremamente conseguenti e coerenti sino alla morte40.

E, per la sottolineatura del futuro Franz, «coccolo della bella società veneziana-austriaca», faccio notare come nel film il generale austriaco, nella scena ambientata nella barcaccia, asserisca che «tutte le signore di Venezia parlano di lui», e come, galantemente, ribatta a Livia, desiderosa di conoscere l’ufficiale: «Contessa, questo è un favore che lei non dovrebbe chiedere a un suo ammiratore. Il tenente Mahler è un rivale troppo pericoloso!». L’assisa bianca è imprescindibile dal personaggio. Si pensi all’inquadratura di Franz che, ricevuto il denaro per corrompere il medico, «fugge via svolazzando nel suo bianco mantello» (secondo la recita della didascalia41). L’inquadratura è emblematica di tutte le scene ambientate nella villa di Aldeno, tra Franz e Livia, e le chiude in perfetta sintonia con il primo apparire di Franz. Livia, avvertita dalla cameriera Laura (Rina Morelli) che qualcuno si è introdotto sul balcone, si alza, e la panoramica mostra un mantello scultoreamente drappeggiato e non il viso di chi lo indossa; il viso è celato dalla tenda anch’essa drappeggiata. Tutta l’esaltazione, nella novella, della bianca e plastica bellezza di Remigio (non si dimentichi40 41

La lettera è stata pubblicata sulla “Repubblica”, 8 ottobre 2006. Cavallaro (a cura di), Senso, cit., p. 171.

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no i rapporti di Camillo Boito con le belle arti) confluisce nella bianca assisa di Franz. Inoltre, sempre nelle scene di Aldeno, Franz, pur affermando di aver camminato e non aver dormito per tre giorni, è perfetto nella sua divisa, una divisa che pare appena uscita dalla sartoria dei costumi. Franz è sbarbato. Invece, raggiunto da Livia dopo la diserzione, Franz sottolinea di non sbarbarsi e non lavarsi da giorni; Franz ha smesso la bianca assisa; Franz è in vestaglia e, dettaglio non trascurabile, calza le pantofole, anzi è in ciabatte. Franz mette in risalto il suo nuovo essere, un essere che azzera il fascinoso passato della bianca assisa: «non sono più un ufficiale adesso... e neppure un gentiluomo... Sono un disertore ubriaco. Che puzza! Da far schifo! Di vigliaccheria e di vizio!»42. Se la prima sceneggiatura immaginava un Hans che rifiutava di presentare la domanda di grazia e affrontava la fucilazione con «uno sguardo di sfida» (condizione leggibile nella lettera di Visconti), nel film viene recuperata la viltà del Remigio di Boito: Franz viene spinto verso il luogo dell’esecuzione col calcio del fucile43. A parte questo particolare, Visconti investe molto in Franz innalzandolo negativamente e costruendo per lui un contesto culturale e sociale di grande raffinatezza, quasi realizzasse una riscrittura letteraria della novella. Se il Remigio di Boito legge Dumas (lo confessa a Livia nella lettera inviata da Verona), il Franz di Visconti cita Heine, durante il perdersi notturno tra le calli veneziane con Livia: «È il giorno del giudizio! [...] e non ci curiamo di niente, né di paradiso né di inferno»44. 42

Ivi, p. 186. Ovviamente, ho qui riportato solamente le battute di Franz, tralasciando le didascalie relative alla gestualità tesa a evidenziare l’intensità delle parole pronunciate e la conseguente reazione di Livia. 43 Per la prima sceneggiatura, cfr. ivi, p. 71. Nella lettera Visconti scrive: «Hans Weil dimostrerà come muore un perfetto dandy, un angelo spodestato» (“la Repubblica”, 8 ottobre 2006). 44 Nel colloquio notturno Livia, alla domanda di Franz se le piacciono i versi di Heine, risponde con un «No». Ma quando, dopo quattro giorni, si recherà a cercare Franz nel suo alloggiamento questi ripeterà, alzandole lentamente il velo e dandole un breve bacio: «Non ci curiamo di paradiso e di inferno». E alla citazione fa seguito un «breve bacio». Livia è vinta [Cavallaro (a cura di), Senso, cit., pp. 123, 128].

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Viceversa, le variazioni operate su Livia Serpieri accentuano la negatività della contessa e ne sbilanciano l’iniziale perfettibilità. Livia Serpieri in Boito è coscientemente corrotta e orgogliosa delle proprie scelte. In Visconti, esordisce patriottica e onestissima (al termine della passeggiata notturna con Franz chiosa di sé: «come avevo potuto [...] io, una donna italiana [...] che non aveva mai commesso leggerezze»). Nella novella Livia consegna a Remigio, per evitargli l’andata in guerra, i gioielli personali; nel film Livia sacrifica, per la salvezza dell’amante, la somma destinata alla causa patriottica. Nel racconto Livia, non vista, assiste al tradimento dell’amante. Nel film Livia viene oltraggiata da Franz che la coinvolge in una teatralissima, e melodrammatica, scena con la fanciulla prezzolata per fargli compagnia. La giovane forse non casualmente si chiama Clara (Marcella Mariani), e non certamente per richiamare alla memoria la Clara del romanzo Fosca, la bella fanciulla Clara antinomica di Fosca; nel film la giovane si chiama Clara al fine di decantarne la dorata giovinezza a fronte di una Livia, lei sì, quasi “fosca”. Franz rimarca spietatamente la giovinezza di Clara in faccia a Livia. Per Livia, la didascalia avverte: «Il volto di Livia appare in tutto il suo disperato dolore. L’umiliazione, la stanchezza, la cocente delusione l’hanno invecchiata di molti anni. E una donna non più bella, vinta»45. Una sconfitta e un lento scendere nel gorgo della schiavitù sensuale, e del tradimento, evidenziati dagli abiti che, via via, Alida Valli indossa. Nella barcaccia della Fenice è in scuro, ed è uno scuro radioso: le gemme sparse tra la superba treccia della acconciatura sembrano porla in alto, fissarla in un firmamento di ideali ai quali crede, o crede di credere. A Verona, nell’alloggio di Franz, è in un abbigliamento scuro, ma in nuances di lugubri tonalità annunciatrici del tragico finale. All’interno del Teatro La Fenice Livia si muove con armoniosa sicurezza, rivelando la grazia del corpo sotto il raffinato abito; in casa di Franz, a Verona, i movimenti sono scomposti e, inquadrata di spalle e con ripresa in campo lungo, la figura è sommersa dentro le funeree vesti che (così pure nell’inquadra45

Ivi, p. 189.

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tura finale) si gonfiano quasi a comporre una sorta di arredo mortuario su un corpo sfatto dal dolore. Come la Livia di Boito, la Livia di Visconti (donna un tempo onesta) infrange la bienséance aristocratica andando agli alloggiamenti di Franz: per la Livia di Boito si tratta di un gesto di sfida; per la Livia di Visconti il gesto, al contrario, è l’indizio dell’annientamento fisico e morale. Il perdersi di Livia in Visconti lo si legge, appunto, dagli abiti. Da riccamente adorni a sobriamente lineari, gli abiti della contessa Serpieri parlano per lei. Trascorsi quattro giorni dalla notturna passeggiata, Livia corre da Franz in tonalità grigio perla; mentre, ormai infruttuosamente ricercandolo, lo scuro prende il sopravvento. Valutiamo la mise che indossa per recarsi all’Arsenale, dove apprende che Franz è stato trasferito. Rispetto ai precedenti, l’abito scuro è meno adorno di gale (in particolare sul dietro della gonna), l’abito che ancora sinuosamente modella la vita svela la sofferenza di Livia, sofferenza concretizzata dallo strascico che lambisce la strada stancamente. Livia giunge veloce all’Arsenale e se ne allontana fiaccata, per poi riprendere vigore illudendosi che «quella persona» che l’ha mandata a cercare sia Franz. La gestualità che Visconti affida ad Alida Valli è fortemente in sintonia con l’insieme del costume. Penso, soprattutto, alle scene ambientate nella casa in campo San Geremia, con Roberto Ussoni, scene in cui si coniugano le dicotomiche aspettative dei due personaggi. Roberto accoglie Livia esultante di spirito patriottico, Livia «sfinita dall’emozione» (così la didascalia) reclina il capo sulla spalla del cugino46. Il volto quasi non si intravede sotto il velo nero ricamato e appuntato tra i fiori del cappello, fiori in squisite sfumature lilla che già sanno di morte. Livia, sulla spalla di Roberto, reclina il capo come un uccello ferito. Nulla importano le fervide dichiarazioni del cugino, Livia non riuscirà più a rialzare il capo.

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Ivi, p. 141.

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Dario Cecchetti*

Visconti legge Proust. La sceneggiatura della Recherche

Se vi è produzione filmica che si nutre di letteratura, quella di Luchino Visconti lo è quant’altra mai, come d’altronde è stato messo in evidenza nel corso del presente volume: dal Cain ispiratore di Ossessione al D’Annunzio de L’innocente, quella di Visconti è una parabola che percorre testi letterari, culminando negli esiti di Senso e di Morte a Venezia e passando per una rivisitazione e modernizzazione qual è quella delle Notti bianche dostoevskiane1. Anche in film la cui fonte non è direttamente un romanzo o una novella, la “letterarietà” è spesso fortissima, si pensi a Vaghe stelle dell’Orsa (1965), a La caduta degli dei (1969), a Ludwig (1973) o a Gruppo di famiglia in un interno (1974)2, ma anche a opere fatte rientrare, discutibilmente, nell’alveo del neorealismo3. Sempre, comunque, cifra di rilettura è la prospettiva decadente, intendendo quest’ultimo termine, beninteso, non come collocazione storiografica, ma come segno del * Università di Torino. 1 In ordine cronologico i film di Visconti che traggono diretta ispirazione da un’opera letteraria, o ne vogliono essere illustrazione, sono Ossessione (1943), da Il postino suona sempre due volte di James M. Cain, La terra trema (1948), da I Malavoglia di Verga, Senso (1954), dalla novella di Camillo Boito, Le notti bianche (1957), dal racconto di Dostoevskij, Il lavoro (1962, episodio di Boccaccio ’70), dalla novella Au bord du lit di Maupassant, Il Gattopardo (1963), dal romanzo di Tomasi di Lampedusa, Lo straniero (1967), dal romanzo di Camus, Morte a Venezia (1971), dal racconto di Thomas Mann, L’innocente (1976), dal romanzo di D’Annunzio. 2 Si tratta di film non ispirati ad un’unica opera letteraria, ma in cui si sovrappongono reminiscenze plurime di testi letterari diversi: cfr. L. Micciché, Luchino Visconti. Un profilo critico, Marsilio, Venezia 2002 (II ed.), pp. 85-8. 3 Per la connotazione del neorealismo viscontiano, cfr. L. Micciché, Visconti e il neorealismo, Marsilio, Venezia 2006 (III ed.).

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Dario Cecchetti

perpetuarsi e ravvivarsi di un gusto fin de siècle rinverdito dalle intermittenze psicologiche della modernità. Tale cifra pertanto, se permette di spostare lo sguardo filmico nella direzione di una costante dell’opera viscontiana – il senso della fine, dell’estenuazione soprattutto, di una realtà cui peraltro si è legati da un profondo senso di appartenenza –, non è di per sé connessa a una particolare cinematograficità dell’opera letteraria riletta o rivisitata. Nessuno degli autori che sottostanno alla filmografia viscontiana può essere considerato natura ipsa sua eminentemente cinematografico. Non ha avuto invece una trascrizione filmica da parte di Visconti un autore, Marcel Proust, che per la sua specificità (una deformazione dell’elemento temporale, soprattutto, e una costruzione narrativa governata sia dal frammentarsi della coscienza che dal ricomporsi delle immagini frammentate della memoria) sembra anticipare le scansioni diegetiche della narrazione cinematografica4. Nell’anacronia, infatti, della Recherche, nell’uso di complesse e sottili forme di analessi e di prolessi come mezzo per alterare la struttura temporale del racconto, Genette vede l’essenza e anche la novità dell’opera proustiana: L’importanza del racconto “anacronico” nella Recherche du temps perdu è legata evidentemente al carattere retrospettivamente sintetico del racconto proustiano, completamente presente a se stesso, in ogni momento, nello spirito del narratore che – dal giorno in cui, in una sorta di estasi, ne ha avvertito il significato unificante – non smette mai di reggerne contemporaneamente tutte le fila, di coglierne al tempo stesso tutti i luoghi e tutti i momenti, fra i quali egli è costantemente in grado di stabilire una molteplicità di relazioni “telescopiche”: ubiquità spaziale, ma anche temporale, “onnitemporalità” perfettamente illustrata dalla pagina del Temps retrouvé dove, davanti a Mademoi4 Nella vastissima bibliografia proustiana consigliamo, come sostegno al nostro discorso, M. Bongiovanni Bertini, Guida a Proust, Mondadori, Milano 1981 e la nitida sintesi su Proust contenuta in R. Ceserani, L. De Federicis, Il materiale e l’immaginario, VIII. La società industriale avanzata, Loescher, Torino 1983, pp. 1172-86.

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Visconti legge Proust

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selle de Saint-Loup, il protagonista ricostruisce in un lampo la “rete di ricordi” concatenati in cui si è trasformata la sua vita, e che è in procinto di diventare la trama della sua opera5.

L’ubiquità spaziale e temporale, l’“onnitemporalità”, la ritessitura incessante della rete dei ricordi che Genette sottolinea nella Recherche, sembrerebbero essere elementi che possono trovare felice trasposizione cinematografica in quei procedimenti che vengono spesso usati nella narrazione filmica per sospendere e frantumare la continuità temporale del racconto (ci riferiamo anche, ma non soltanto, alla tecnica abusata e banalizzata del flashback). Il fatto che la narrazione si muova con grande libertà avanti e indietro nel tempo e il fatto che sia compito del lettore (il quale, per quanto concerne la Recherche, anticipa veramente la funzione che sarà dello spettatore cinematografico) costruirsi la griglia per ricollocare gli accadimenti nella loro giusta successione favorirebbero in maniera precipua il passaggio dalla pagina scritta alla pagina filmica. Occorre dire che negli anni Cinquanta-Sessanta, col fenomeno della nouvelle vague (cinematografico) e con quello del nouveau roman (letterario) – associati anche sotto l’etichetta significativa di école du regard (sguardo che vede e non commenta, sguardo tecnico da cinepresa, anche quando si tratti di scrittura narrativa) –, la sperimentazione filmica è contigua a quella della pagina scritta al punto che si teorizza l’equivalenza e la commutabilità dei due codici, commutabilità evidenziata nello stretto lavorare in simbiosi di romanzieri e registi, che esplicano spesso individualmente le due attività della scrittura e della regia (valga come esempio di collaborazione nel doppio sperimentalismo quella di Alain Robbe-Grillet e di Alain Resnais in L’année dernière à Marienbad, del 1961, grande esercizio non solo di stile ma di ricerca sul tempo e sulla memoria). Nei romanzi e film dell’école (messa in dubbio in quanto “scuola” dagli stessi autori che consideriamo capifila), «la rappresentazione dello spazio prevale sulla successione logico-cronologica; il tempo è parcellizzato in fra5

G. Genette, Figures III, Seuil, Paris 1972 (trad. it. di L. Zecchi, Einaudi, Torino 1976, pp. 126-7).

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Dario Cecchetti

zioni, corrispondenti agli attimi in cui emerge alla vista un gesto, un dettaglio; lo spazio stesso è circoscritto ed è suddiviso nella serie che può essere illimitata degli aspetti particolari»6. Eredi proustiani, dunque, nel loro approccio alla dimensione temporale, anche se talvolta, ma non sempre, dalla Recherche li separa il venir meno della soggettività e «una visività e un descrittivismo che eguagliano persone e cose, in quanto sono sparite le gerarchie di valore che inevitabilmente la soggettività istituisce mediante i sentimenti e le opinioni, le preferenze e le scelte, i commenti e i giudizi»7; come pure una ricerca retorica di quello che potremmo definire “atticismo” formale contrapposto all’“asianesimo” proustiano, per quanto poi, sul piano stesso della scrittura, il nouveau roman sia accomunato allo sperimentalismo della Recherche da un costante virtuosismo intellettualistico. Ci si può quindi interrogare sugli esiti fallimentari delle mises en écran dei testi di Proust o sulle mancate realizzazioni di progetti non certo velleitaristici, dato l’impegno e l’accanimento con cui sono stati perseguiti. Le pellicole che vogliono essere una lettura filmica dell’opera sono, a mia conoscenza, due. Nel 1983, Volker Schlöndorff (un regista, peraltro, a cui si debbono pregevoli trascrizioni cinematografiche di testi letterari8) realizza un film da quel romanzo nel romanzo che è la sezione del primo volume della Recherche consacrata a Un amour de Swann9, valendosi di sceneggiatori illustri, quali Peter Brook e Jean-Claude Carrière. Malgrado alcuni spunti interessanti, concernenti soprattutto un’evocazione ambientale in cui la contrapposizione sociale – borghesia vs aristocrazia – si evidenzia nella rappresentazione dell’oggetto materiale (abiti, mobilia, bibelots), la chiave di lettura naturalista e l’assenza totale di metaforicità 6

Cfr. R. Ceserani, L. De Federicis, Il materiale e l’immaginario, IX. La ricerca letteraria e la contemporaneità, Loescher, Torino 1988, pp. 619-20. 7 Cfr. ivi, p. 620. 8 Ricordiamo almeno I turbamenti del giovane Törless (Der junge Törless, RFT-Francia, 1965), dal romanzo di Musil; Il caso di Katharina Blum (Die verlorene Ehre der Katharina Blum, RFT, 1975), dal romanzo di Böll; Il tamburo di latta (Die Blechtrommel, RFT-Francia-Jugoslavia-Polonia, 1979), dal romanzo di Grass. 9 Un amore di Swann (Un amour de Swann, Francia-RFT, 1983).

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porta a degli esiti deludenti: a volte sfioranti il ridicolo, come nel passo in cui Swann (un Jeremy Irons peraltro attore di grande finezza interpretativa), mosso dal desiderio di ritrovare nell’opera d’arte i tratti della persona amata, con una concretizzazione del tutto estranea al testo proustiano, pone, fisicamente, a raffronto con la riproduzione delle Figlie di Jetro di Botticelli l’amata Odette (un’Ornella Muti che non potrebbe essere di corporeità meno botticelliana)10. A volte addirittura la scelta naturalistica introduce addizioni grossolanamente incongruenti rispetto al testo letterario, come nella rappresentazione grottesca, in un primo piano sullo schermo, di un rapporto sessuale cui Swann si sottopone. Così come grossolana è la presenza scenica di Alain Delon nel ruolo chiave di Charlus, un Alain Delon che costruisce veristicamente il suo personaggio, ma con un verismo volgare (la natura di homme-femme del barone è suggerita essenzialmente dall’abuso di belletto) che non ricorda di certo il Delon diretto da Visconti in memorabili interpretazioni (Rocco e i suoi fratelli, Il Gattopardo, o, a teatro, Dommage qu’elle soit un p...). Nel 1999, Raúl Ruiz11, regista epigono dei surrealisti e che si vuole d’avanguardia, uso a manierismi pirandelliani, fa un altro tentati10

È un esempio tipico del procedere di Schlöndorff, che tende a esternare nell’immagine concreta quello che in Proust è intimo fantasticare, come nel nostro caso: «Swann avait toujours eu ce goût particulier d’aimer à retrouver dans la peinture des maîtres non pas seulement les caractères généraux de la réalité qui nous entoure, mais ce qui semble au contraire le moins susceptible de généralité, les traits individuels des visages que nous connaissons [...]. Il la regardait; un fragment de la fresque apparaissait dans son visage et dans son corps, que dès lors il chercha toujours à y retrouver, soit qu’il fût auprès d’Odette, soit qu’il pensât seulement à elle [...]. Swann se reprocha d’avoir méconnu le prix d’un être qui eût paru adorable au grand Sandro, et il se félicita que le plaisir qu’il avait à voir Odette trouvât une justification dans sa propre culture esthétique» [M. Proust, À la recherche du temps perdu, édition publiée sous la direction de J.-Y. Tadié, Gallimard, Paris 1987-89, vol. I, pp. 219-20 (Du côté de chez Swann, II. Un amour de Swann)]. 11 Anche Ruiz è regista portato alla trascrizione letteraria. Ricordiamo Le tre corone del marinaio (Les trois couronnes du matelot, Francia, 1982), ispirato a Melville, a Borges e alle Mille e una notte; La ville des pirates (Francia, 1983), vagamente ispirato alla storia di Peter Pan; Tre vite e una sola morte (Trois vies et une seule mort, Francia-Portogallo, 1996), antologia di storie, di cui una ispirata al Wakefield di Hawthorne; Figlio

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vo di resa filmica dell’opera proustiana12, da taluni considerata la migliore riuscita dei film ispirati alla Recherche, e si concentra sull’ultimo volume della serie, Le temps retrouvé, intorno a cui vuole programmaticamente costruire una riflessione critica, come pare suggerire l’invenzione iniziale che ci rappresenta, nel primo dopoguerra, Marcel Proust (Marcello Mazzarella) morente, intento a finire il suo libro e a “ricordare” gli amori con Odette (Emmanuelle Béart) e con Albertine (Chiara Mastroianni). Questa impostazione di recupero mnemonico del passato più che interpretazione fedele del Temps retrouvé, finisce col ridursi a una specie di sommario – quasi a un “bignami” scolastico dell’intera opera – con la riproposizione di passi canonici, quale quello della madeleine, con un affastellamento di spunti, episodi e luoghi topici, che risulta assai confuso a chi non abbia fatto un’attenta lettura preliminare della Recherche nella sua completezza. Molto più interessanti – e indicativi di un approccio meditato alla Recherche, se non addirittura di un’empatheia profonda – sono i progetti abortiti, attestati però dalle sceneggiature che noi possediamo. Anche in questo caso sono due: quella che Luchino Visconti appresta insieme a Suso Cecchi d’Amico13, a partire dal 1969, e quella che Harold Pinter prepara per Joseph Losey14, nel 1972-73. In realtà si tratta di due momenti di un unico progetto della produttrice francese Nicole Stéphane, detentrice dal 1965 dei diritti cinematografici della Recherche15. Essa stringe un accordo con Visconti che lavora aldi due madri (Fils de deux mères ou Comédie de l’innocence, Francia, 2000), trasposizione del romanzo di Bontempelli. 12 Il tempo ritrovato (Le temps retrouvé, Francia-Italia-Portogallo, 1999). 13 S. Cecchi d’Amico, L. Visconti, Alla ricerca del tempo perduto. Sceneggiatura dall’opera di Marcel Proust, introduzione di G. Raboni, Mondadori, Milano 1986. La sceneggiatura reca in calce la data Roma, 22 marzo 1971 (ivi, p. 192). 14 H. Pinter, The Proust Screenplay. À la Recherche du Temps Perdu, Grove Press, New York 1977 (con la collaborazione di J. Losey e B. Bray); trad. it. di E. Nissim, M. T. Petruzzi, Proust. Una sceneggiatura. Alla ricerca del tempo perduto, Einaudi, Torino 2005 (V ed.) (a questa traduzione si fa riferimento). 15 In un recente volume di Florence Colombani (Proust – Visconti. Histoire d’une affinité elective, Éditions Philippe Rey, Paris 2006) non si analizza la sceneggiatura proustiana di Visconti, ma si ripercorrono gli elementi “proustiani” presenti nell’intera ope-

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l’impresa proustiana dal 1969 al gennaio del 1972, quando stanco dei ritardi della Stéphane, dovuti a difficoltà economiche, si accinge alla lavorazione di Ludwig. Nicole Stéphane, ritenuto sciolto il contratto si rivolge a Joseph Losey e commissiona ad Harold Pinter una nuova sceneggiatura, cui il commediografo inglese lavora durante il 1972, terminandola agli inizi del 197316. Sempre per ragioni finanziarie, neppure con Losey la produzione realizzerà il film17. Per quanto concerne Visconti, il progetto «lo affascina e spaventa», al dire di Suso Cecchi d’Amico che inizia da sola la sceneggiatura per poi lavorare insieme al regista, nel 1970, sulla prima stesura18. Gianni Rondolino si sofferma sull’amore incondizionato per Proust in una fondamentale biografia-monografia su Visconti, di cui riunisce l’ultima produzione sotto il titolo significativo Sotto il segno ra cinematografica del regista. In questo saggio possiamo, tuttavia, ritrovare alcune informazioni e documenti sul progetto concernente la Recherche, come questo significativo propos di Nicole Stéphane alla stessa Colombani: «C’est une somme de coïncidences. La nièce de Proust, Suzy Mantes-Proust, était une grande amie de ma mère, on avait des rencontres comme ça, très amicales et naturelles... et j’ai eu les droits. Tout le monde a trouvé ça impensable, on a vu comme une trahison de vouloir toucher à la Recherche. J’ai demandé à certains réalisateurs connus: Truffaut, Resnais, et même Rivette... Ils ont tous refusés. Le premier auquel j’avais pensé, parce qu’il était “montable” sur le plan financier, c’était René Clément, une erreur absolument manifeste. Et puis je me suis dit, évidemment, c’est Visconti qu’il me faut» (ivi, p. 15). Cfr. anche J. Pavans, Proust au cinéma: mission impossible?, in “Synopsis. La revue du scénario”, 3, 1999, pp. 85-8, e P. Kravanja, Visconti, lecteur de Proust, Portaparole, Roma 2004. 16 Cfr. G. Rondolino, Luchino Visconti, UTET, Torino 2006 (I ed. 1981), pp. 474-80. 17 Scrive Pinter nel 1978: «Cercammo poi di trovare i soldi per fare il film. Fino ad ora il film non è stato realizzato» (Pinter, The Proust Screenplay, trad. it. cit., p. 186). 18 Scrive Suso Cecchi d’Amico: «Questo progetto affascinava e spaventava allo stesso tempo Visconti, che aveva per Proust – studiato e ammirato fin dalla prima giovinezza – una vera idolatria. [...] Quando nel 1969 Nicole Stéphane gli fece l’offerta concreta di portare sullo schermo la Recherche, Visconti non si sentì di rifiutare. Se non avesse accettato lui, il film sarebbe stato comunque realizzato da un altro. E Visconti sapeva che non c’era regista al mondo che poteva mettersi in quell’impresa con la passione e l’umiltà che ci avrebbe messo lui stesso. Rifiutò le sceneggiature che erano state già fatte scrivere, e ci mettemmo insieme a studiare l’impostazione di un racconto che rispettasse quanto più possibile il testo. Scelta l’impostazione Visconti mi lasciò lavorare da sola, mentre lui portava a termine La caduta degli dei e realizzava Morte a Venezia. Nel 1970 lavorammo insieme sulla prima stesura della sceneggiatura che io avevo intanto scritto, e consegnammo la stesura definitiva che fu accettata dalla produzione» (Cecchi d’Amico, Visconti, Alla ricerca del tempo perduto, cit., p. 11).

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di Marcel Proust19. Sottolinea infatti Rondolino, a proposito dell’attività registica viscontiana nel suo complesso: [...] non era difficile, a ben guardare i film di Visconti e certe sue messinscene teatrali, rintracciarvi in questo o quel personaggio e soprattutto in questo o quell’ambiente, così puntigliosamente e amorevolmente rappresentato in mille particolari necessari, la grande lezione proustiana. Nelle opere della maturità, quelle più autobiografiche e memoriali – basti pensare al Gattopardo e al gran ballo in casa Ponteleone –, questa lezione si faceva ancor più evidente, diventava quasi una ragione di vita e d’arte, in base alla quale la regia, cinematografica o teatrale, andava strutturata20.

E a proposito dell’accettazione del progetto proustiano, ancora Rondolino ne evidenzia l’effetto catalizzatore sull’impegno artistico di Visconti: Nella piena maturità, in un periodo della vita che vedeva Visconti cercare le ragioni più vere della propria esistenza, ritornare sui luoghi sentimentali e affettivi del proprio passato, ripercorrere il proprio lavoro artistico quasi con rimpianto, sebbene continuamente stimolato a fare, a riprendere i discorsi interrotti, l’incontro diretto con Proust poteva significare un grande esame di coscienza etico ed estetico. Ma poteva anche essere una sfida, il tentativo di dare forma concreta, di visualizzare dei personaggi che vivevano in larga misura nella memoria; e in questa visualizzazione mettere troppo di se stesso, confessarsi in pubblico, molto di più di quanto non avesse fatto in certi suoi film recenti21.

Per certo, Visconti, «affascinato e spaventato», si pone in atteggiamento di umiltà di fronte all’opera proustiana, di cui riconosce una perfezione che comporta il massimo rispetto, da parte dell’eventuale trascrittore, nei confronti della storia e del linguaggio, sottolineando sul piano programmatico che nulla bisogna aggiungere 19

Cfr. Rondolino, Luchino Visconti, cit., pp. 473-529. Ivi, pp. 473-4. 21 Ivi, p. 474. 20

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alle scene, perfette, e nulla aggiungere o modificare quanto a un linguaggio considerato essenziale: Un film sull’opera di Proust non può essere che proustiano. Cioè non deve necessariamente seguire lo sviluppo logico e cronologico della storia, ma imporsi lo sconvolgimento e il ribaltamento dei tempi. E non può nemmeno comprendere tutta l’opera, ma limitarsi ad una parte di essa, che però la evochi e la illustri. La scelta cade su Sodome et Gomorrhe, cioè sulle storie parallele di quattro personaggi: Albertine e Marcel, Charlus e Morel [...]. Il film non può essere una serie di illustrazioni, ma deve proporsi un fine proprio, di spettacolo: il che si può ottenere lasciando al Narratore, Marcel, l’evocazione di vari fatti, anche minimi, che ci daranno infine – quando ogni pezzo del mosaico sarà a posto – le due tragedie: quella di Albertine e quella di Charlus. Tutte e due riflettenti il dramma personale del Narratore [...]. Circa le scene che potranno animarla [la storia], nulla bisogna aggiungere a quelle, perfette e numerose, che sono nella Recherche. Nemmeno il dialogo proustiano richiede mutamenti o aggiunte: è già essenziale22.

Abbiamo detto in apertura come nella Recherche si possano trovare elementi “cinematografici”, se non addirittura una struttura di fondo “cinematografica”, quella appunto di una genettiana onnitemporalità. Abbiamo anche suggerito come i romanzieri-registi dell’école du regard – da considerarsi eredi di Proust proprio nel loro approccio alla dimensione temporale – accolgano alcuni di quelli che erano gli spunti più innovatori dello sperimentalismo proustiano. Ora Visconti, accingendosi alla trasposizione filmica della Recherche, si pone anzitutto il problema di quale sia la specificità di questo testo e della necessità di una resa fedele («un film sull’opera di Proust non può essere che proustiano»). Specificità che, come tutti, egli individua nello «sconvolgimento e ribaltamento dei tempi» e nel «non seguire lo sviluppo logico e cronologico della storia». Preoccupato di non ridurre il film a una «serie di illustrazioni», pen22

In una proposta, scritta da Visconti con Ennio Flaiano, datata 4 marzo 1969, riportata ivi, pp. 476-7.

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sa di evidenziare il ruolo del Narratore – questo pure, d’altronde, elemento centrale della struttura della Recherche. Per evitare di imprimere un carattere “illustrativo” alla sua trasposizione – ed anche probabilmente per evitare il carattere di confusionarietà che sarà proprio, ad esempio, del film di Ruiz – ,Visconti fa la scelta di una riduzione del testo, o meglio di privilegiare uno dei sette romanzi, Sodome et Gomorrhe, attraverso cui, come nota un sottile conoscitore di Proust quale Giovanni Raboni, leggere tutta la Recherche, cercando e mettendo allo scoperto, in tutta l’opera, le radici, i tentacoli di Sodome et Gomorrhe, eleggendo Charlus a protagonista assoluto, a vittima trionfante e dispotica dell’intera narrazione, facendo dell’omosessualità, dell’amore omosessuale, del desiderio omosessuale, della gelosia omosessuale, l’unico formidabile motore che fa girare e accendersi di luci volta a volta esaltanti e sinistre l’immenso planetario della Recherche23.

Così, l’intrecciarsi complesso di vicende che, nei sette romanzi, compongono un quadro amplissimo di storie che si strutturano specularmente con tutta una serie di rimandi e corrispondenze, viene ridotto a «due tragedie: quella di Albertine e quella di Charlus», in funzione del dramma personale del Narratore. Sull’esigenza, d’altronde, di trovare un “centro” della Recherche e di lavorare su quello ritorna ancora Visconti in un’intervista del 1971, quando la sceneggiatura è ormai definita in maniera compiuta: Tutti noi che amiamo Proust sappiamo che la Recherche è un mondo perfetto, concluso, a cui nulla può essere aggiunto e io non pretendo esaurirne i temi con il mio film. Per affrontare il lavoro bisogna che uno si tolga il complesso e guardi semplicemente al contenuto del romanzo. In fondo non è diverso da un romanzo di Balzac: è la descrizione di una società, quella francese, che si muta e trasforma tra il 1890 e la Prima guerra mondiale, con fatti ben precisi, episodi e personaggi estremamente approfonditi. Lasciamo da parte per il momento le 23

G. Raboni, Introduzione a Cecchi d’Amico, Visconti, Alla ricerca del tempo perduto, cit., p. 9.

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Visconti legge Proust

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considerazioni dello scrittore sul significato del tempo e della memoria. Prendiamo il centro del romanzo, Sodoma e Gomorra per intenderci, e preoccupiamoci di raccontare quello, naturalmente tenendo presente il resto. Per fare un film bisogna raccontare dei fatti e lì dentro ce ne sono moltissimi, che abbiamo sempre accettato senza valutarli fino in fondo, impastati in tutto quello che è il proustianismo24.

Le considerazioni qui introdotte sono estremamente significative della progettazione viscontiana. Oltre al fatto che Visconti ribadisce il suo intento di compiere una selezione all’interno degli orizzonti sconfinati della Recherche – pur volendo trascrivere filmicamente il nucleo prescelto «tenendo presente il resto», leggendo cioè, come dice Raboni, “tutta” la Recherche attraverso Sodome et Gomorrhe –, è interessante notare, da un lato, la prospettiva letteraria in cui viene situata l’opera proustiana, dall’altro, ciò che di essenziale per la specificità proustiana il regista intende tralasciare nelle sue scelte di fondo. Anzitutto, l’approccio di genere alla Recherche appare diversissimo dalla lettura fatta dagli sperimentalisti dell’epoca, quelli per intenderci del nouveau roman e della nouvelle vague, da noi già citati. Da questi ultimi Visconti si differenzia per un’insopprimibile gusto della narrazione tradizionale: «[...] bisogna che uno [...] guardi semplicemente al contenuto del romanzo. In fondo non è diverso da un romanzo di Balzac: è la descrizione di una società [...]». Il che significa per certo un primato attribuito alla “storia” e alla modalità del racconto. Addirittura – e qui le scelte operate da Visconti distinguono la sua sceneggiatura dai successivi tentativi di trascrizione (tranne forse da quello naturalistico di Schlöndorff) – si dichiara la volontà di trascurare la grande tematica del tempo e della memoria: «Lasciamo da parte per il momento le considerazioni dello scrittore sul significato del tempo e della memoria». Ben diversamente, e con evidente desiderio di polemizzare con Visconti, Pinter (d’accordo con Losey) riassumerà alcuni anni dopo la sua sceneggiatura del 1972-73, sceneggiatura, peraltro, che pren24

XLVII,

Dichiarazioni di Visconti in un’intervista a Giuliana Bianchi, in “Il Dramma”, 3, marzo 1971, pp. 55-8, riportate in Rondolino, Luchino Visconti, cit., p. 475.

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deva in qualche modo la relève di quella del regista italiano. Scrive Pinter nel 1978 (lamentando anche che i soldi per fare il film non si siano ancora trovati): Per tre mesi lessi ogni giorno À la recherche du temps perdu. Mentre leggevo, presi centinaia di appunti, ma alla fine mi ritrovai molto perplesso sul come affrontare un compito così enorme. L’unica cosa della quale ero sicuro era che sarebbe stato sbagliato cercare di fare un film concentrandosi su uno o due volumi, tipo La prisonnière o Sodome et Gomorrhe. Se ciò non doveva essere assolutamente fatto, si sarebbe dovuto cercare di distillare l’intera opera, di incorporare i temi principali del libro in un insieme unico. Su questo Joe [Losey] e Barbara [Bray] erano d’accordo. Decidemmo che l’architettura del film dovesse basarsi su due principî primari e contrastanti: uno, un movimento, essenzialmente narrativo, verso la disillusione, e l’altro, più intermittente, verso la rivelazione, che crescesse verso un punto in cui il tempo perduto è ritrovato e fissato per sempre nell’arte. Proust scrisse per primo Du côté de chez Swann e per secondo Le temps retrouvé, l’ultimo volume. In seguito scrisse gli altri. Ci sembrò fondamentale la relazione tra il primo e l’ultimo volume. L’intera opera è, per così dire, contenuta nell’ultimo volume. Quando Marcel, in Le temps retrouvé, dice che ora è in grado di iniziare il suo lavoro, lo ha già scritto. Noi abbiamo appena finito di leggerlo. In qualche maniera questa idea fondamentale doveva essere ritrovata in un’altra forma. Sapevamo che non avremmo potuto in alcun senso competere col libro. Ma avremmo potuto essergli fedeli? Sarebbe ora troppo lungo spiegare nei dettagli come e perché prendemmo la serie di decisioni, inclusa l’eliminazione di personaggi, rivelate dalla sceneggiatura. Esse ci erano imposte dalla struttura precedentemente fissata. Sviluppammo un piano di lavoro e sulla base di questo io mi immersi completamente. Il soggetto era il Tempo. In Le temps retrouvé Marcel, sui quarant’anni, sente la campanella della sua infanzia. La sua infanzia, per lungo tempo dimenticata, è improvvisamente presente in lui, ma la sua consapevolezza di sé come bambino, la sua memoria di questa esperienza è più reale, più intensa dell’esperienza stessa25. 25

Pinter, The Proust Screenplay, trad. it. cit., pp. 185-6.

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L’attacco polemico è evidente, e verte proprio su quella che è stata la scelta di fondo di Visconti, quella di selezionare, ritagliare all’interno della Recherche un nucleo forte, puntare essenzialmente su uno o due dei sette romanzi. «L’unica cosa della quale ero sicuro – sottolinea con decisione Pinter nell’intento di giustificare le sue scelte – era che sarebbe stato sbagliato cercare di fare un film concentrandosi su uno o due volumi» (e i due volumi cui fa riferimento sono La prisonnière e Sodome et Gomorrhe, quelli che si imperniano sulle «due tragedie» – di Albertine e di Charlus – su cui Visconti costruisce la sceneggiatura). Pinter dichiara di fondare il copione non su due “storie”, ma su quelli che chiama «principî primari e contrastanti» e che dovrebbero essere i supporti architettonici del film: «uno, un movimento, essenzialmente narrativo, verso la disillusione, e l’altro, più intermittente, verso la rivelazione». In realtà, la sceneggiatura viscontiana non è axée unicamente su Sodome et Gomorrhe e La prisonnière: a parte il fatto della fortissima presenza di Le temps retrouvé, riconosciamo alcuni fili che si dipanano seguendo la scansione generale della Recherche a partire da À l’ombre des jeunes filles en fleur (la sola grande assenza è quella di Du côté de chez Swann). Soprattutto vengono, nella sceneggiatura, trascritti momenti della narrazione che servono a delineare l’evoluzione di Marcel, l’io-narrante, che, ricostruita attraverso il duplice rapporto con Charlus e con Albertine, è rappresentata nelle sue componenti emozionali maladives, in particolare mediante l’evocazione del rapporto con la nonna e con la madre. Un solo esempio: la sceneggiatura di Visconti si apre con il racconto del primo viaggio a Balbec (À l’ombre des jeunes filles en fleur), e una sequenza (n. 3) evoca la nonna intenta ad aiutare Marcel affaticato a spogliarsi26; più avanti, ove si racconta di un secondo soggiorno a Balbec (Sodome et Gomorrhe), in un’altra sequenza (n. 39) Marcel rivive l’esperienza precedente:

26

Cfr. Proust, À la recherche du temps perdu, cit., vol. II, p. 29 (À l’ombre des jeunes filles en fleur, II. Noms de pays: le pays).

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Bouleversement de toute ma personne. Dès la première nuit, comme je souffrais d’une crise de fatigue cardiaque, tâchant de dompter ma souffrance, je me baissai avec lenteur et prudence pour me déchausser. Mais à peine eus-je touché le premier bouton de ma bottine, ma poitrine s’enfla, remplie d’une présence inconnue, divine, des sanglots me secouèrent, des larmes ruisselèrent de mes yeux27. 39. [...] Vestito come la sera del primo arrivo a Balbec, Marcel si distende sul letto. Poi, respirando con una certa fatica e senza scendere dal letto, Marcel si rialza e si curva per sganciare i bottoni degli stivaletti. Di colpo si ferma nel gesto, come preso da un affanno ancora più forte, e si guarda intorno smarrito, frugando nelle ombre della stanza, con gli occhi pieni di lacrime28.

Si tratta, d’altra parte, di uno dei loci che servono ad illustrare quella teoria delle intermittences du cœur che Visconti intende ricuperare nella sua trasposizione filmica, con la necessità pertanto d’instaurare delle corrispondenze di tempi lunghi mediante il collegamento di parti distanti della Recherche. Se Visconti insiste sul fatto che «un film sull’opera di Proust non può essere che proustiano», anche Pinter avverte l’esigenza – e nello stesso tempo la difficoltà – della fedeltà all’opera trasposta («Sapevamo che non avremmo potuto in alcun senso competere col libro. Ma avremmo potuto essergli fedeli?»). La fedeltà, data evidentemente la complessità dell’opera, comporta che l’intera Recherche venga in qualche modo inglobata nella sceneggiatura – anzi «distillata», per usare il termine di Pinter –, cercando di «incorporare i temi principali del libro in un insieme unico». Noi non sappiamo come Losey avrebbe realizzato questo piano: certamente il desiderio di globalità espresso dalla sceneggiatura di Pinter – sceneggiatura peraltro eccellente, almeno sulla carta – aveva i suoi rischi, il rischio soprattutto di risultare, come si è già detto a proposito del film di Ruiz, un repertorio confuso e schematico della Recherche. In effetti, Pinter stesso se ne rende conto, se, malgrado le sue aspirazioni al27 28

Ivi, vol. III, pp. 152-3 (Sodome et Gomorrhe, II, I). Cecchi d’Amico, Visconti, Alla ricerca del tempo perduto, cit., p. 79.

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la globalità, sembra anch’egli isolare, per l’importanza, due romanzi della silloge, Du côté de chez Swann e Le temps retrouvé, il primo e l’ultimo, la cui relazione gli sembra fondamentale: addirittura ritiene che «l’intera opera è, per così dire, contenuta nell’ultimo volume». Volendo comunque individuare un centro coagulante per il suo lavoro, Pinter costruisce la sua sceneggiatura sul problema del tempo e sulle scansioni temporali. «Il soggetto era il Tempo», egli dichiara, sottolineando l’angolatura unificatrice che dovrebbe evitare l’eccessiva dispersione di una trama che pare sfuggire in molteplici direzioni. Ora, non è che Visconti lasci cadere questa tematica. Basta considerare la sequenza conclusiva della sua sceneggiatura (n. 107) per rendersi conto che suo intento è concludere il film in modo “proustiano” – oserei dire, veramente à la manière de –, creando una rapida successione di corrispondenze, simmetrie e, soprattutto, sovrapposizioni temporali e mnemoniche, al fine di evocare quell’elemento portante della Recherche che è la struttura ciclica: 107. Camera di Marcel – interno – alba – e camera di Marcel bambino a Combray – interno – notte. Nella camera di Marcel la luce è ancora accesa. Marcel è a letto e regge sulle ginocchia una tavoletta su cui sono ammucchiati dei foglietti. Marcel è pallidissimo, ha gli occhi cerchiati, lo sguardo fisso. La scrittura minuta che ricopre i fogli si tramuta nella delicata tessitura che formano le foglie degli alberi contro un cielo chiaro: gli alberi di Combray. Si sente in lontananza il suono del Tema di Vinteuil, per violino. In immagini pastose, pallide, alcune immagini di Combray. Per i sentieri di campagna, un bimbetto (di spalle) cammina lentamente. Il sentiero si trasforma nella scala che conduce al piano superiore della casa abitata dalla famiglia di Marcel. Dal giardino arriva attenuato il suono di una conversazione e il bambino, in camicia da notte, aspetta seduto sul letto... la madre, che verrà a dargli il bacio della buonanotte. La madre bacia il bambino che si distende affondando la testa nel cuscino. La madre esce. Marcel soffia e spegne la candela sul tavolo da notte. Un cuscino di piume, rigonfio, bianchissimo. La testa del bambino sembra affondarci dentro. Una macchia che si annulla nel bianco.

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La campanella del cancello del giardino di Combray. Su questo suono, a poco a poco, la voce di: MARCEL (in un sussurro): Per molti anni sono andato a letto presto la sera. A volte, appena spenta la candela, mi si chiudevano gli occhi e non facevo neppure in tempo a dire a me stesso: “Mi sto addormentando”29.

Sembra quasi che Visconti, evidenziando in una sequenza riassuntiva il “ritrovamento” del tempo perduto, voglia terminare il film con un omaggio a tanti loci illustri della Recherche che sono ignorati dalla sceneggiatura, come quello della madeleine, divenuto nella vulgata mediatica e scolastica icona-simbolo dell’intera opera. O che voglia far slittare nel finale, in rapide immagini di sintesi, quella sovrapposizione fra mondo dell’infanzia ed età adulta con cui si apre la Recherche, e che tanto spazio (e tanto significato) ha nel primo volume da lui trascurato. La sceneggiatura viscontiana, in effetti, lascia cadere moltissimo della Recherche, addirittura la vicenda (e i nomi) di Swann e Odette, cui le letture di scuola e la diffusione quale romanzo autonomo (Un amour de Swann) avevano conferito quasi una coincidenza tout court con l’opera proustiana in ciò che essa poteva avere di essenziale. Il fatto è che la scelta di Charlus quale protagonista primario concentra l’attenzione sulla definizione progressiva e dolente di un’identità autobiografica – del tipo Charlus c’est moi30 –, riproponente quella sovrapposizione Visconti/personaggio che nello stesso periodo si ritrova nell’Aschenbach di Morte a Venezia. Ciò sarà evidente se si raffronta la sceneggiatura di Cecchi d’Amico e Visconti non solo con il testo della Recherche, ma anche con la trascrizione di Pinter per Losey. Limitiamoci ad analizzare in parallelo due sequenze (cfr. Appendice): la n. 8 di Visconti e la n. 129 di Pinter. Si tratta del primo tête à tête di Marcel con Charlus. Siamo a Balbec, è sera inoltrata, Marcel sente bussare alla porta della sua camera d’albergo, il barone en29 30

Ivi, pp. 191-2. Così Raboni, Introduzione, cit., p. 9.

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tra nella stanza per offrire in lettura un libro di Bergotte (Anatole France), s’instaura una breve conversazione che nelle sceneggiature unifica due interventi situati nel testo di Proust alla distanza di un giorno. Proust è esplicito nell’evidenziare la componente erotica dei due incontri, che culminano nel pizzicotto che Charlus dà sul collo nudo di Marcel. Ora, mentre Pinter lascia, nell’episodio, cadere ogni allusione sessuale (che poteva, è vero, essere ricuperata dai movimenti filmici), Visconti non solo è fedele alla lettera del romanzo (alcune battute sono traduzione fedele di quel dialogo che egli, come si è visto, considera “essenziale”), ma accentua o aggiunge elementi che sottolineano il voyeurismo della situazione. Così, mentre nel romanzo Marcel non si è ancora svestito per coricarsi quando Charlus entra nella sua camera, la sceneggiatura viscontiana mette in evidenza come egli si sia già coricato (e quindi spogliato) e come a un certo punto «scenda dal letto e s’infili la vestaglia», compiendo movimenti, dunque, che permettono al regista di creare una rete di rapporti ambigui fra i due personaggi. E sullo sfondo di questi movimenti il pizzicotto che crea il contatto fisico ha certamente una valenza più erotica dello stesso gesto compiuto, nel testo proustiano, sullo sfondo della spiaggia mondana. Infine, la breve annotazione sul comportamento di Charlus («Il marchait de long en large dans la chambre, regardant un objet, en soulevant un autre») è ampliata nella sceneggiatura, che insiste sul dispiegamento, caro a Visconti, degli oggetti accarezzati dalla macchina da presa («Il barone si è avvicinato a una mensola e osserva i libri e gli oggetti che vi sono posati. Accende e spegne una lampada da terra, osserva di sfuggita (per poi tornare a osservarlo) l’accappatoio e il costume da bagno di Marcel posati su una sedia», corsivo nostro). E il commento ironico di Charlus sul cattivo gusto del costume da bagno di Marcel, che nella pagina della Recherche è semplice connotazione del dandysmo del barone, viene, nella sceneggiatura, preceduto dall’indagine voyeuristica sui capi intimi abbandonati nel chiuso della stanza da letto, con un netto risvolto feticistico. Sono, queste, osservazioni scarne sulle modalità di lettura della Recherche da parte della sceneggiatura viscontiana, e non certo esaurienti, neppure in minima parte. Ben più ampio dovrebbe es-

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sere il raffronto puntuale e, soprattutto, la valutazione delle parti omesse. In realtà, l’approccio a Proust (il nostro giudizio si deve basare – è bene ricordarlo – non su un’opera filmica realizzata, ma soltanto su una sceneggiatura, testo che qualsiasi regista dotato di personalità modifica in itinere, con addizioni, omissioni, accentuazioni, con una visualità, insomma, interpretativa), fortemente coerente e tendente all’unificazione, risente di due componenti di fondo della poetica di Visconti. Semplificando al massimo, da un lato la tendenza al realismo come rappresentazione della vita sociale, dall’altro una tendenza all’esistenzialismo come rappresentazione della vita interiore. È Visconti stesso che, a proposito del suo Gattopardo, introduce un doppio riferimento a Verga e a Proust – le due “ossessioni” del suo immaginario – coll’intento di definire la sua poetica. Vale forse la pena di citare le considerazioni fatte a proposito del romanzo di Tomasi di Lampedusa, perché forse ci permettono di comprendere meglio la prospettiva di lettura e la volontà di assimilazione anche del testo proustiano: Qualcuno ha anche scritto, spostando su un piano più serio e nobile l’alternativa cui accennavi, che del Gattopardo mi avrebbe affascinato soprattutto il momento della “memoria” e della “premonizione”, dello struggente rifugiarsi nel passato e dei presentimenti oscuri, inconfessati, irrazionali d’una catastrofe non bene identificata; e che pertanto mi sarei mosso in una chiave più vicina a quella di Marcel Proust che a quella, poniamo, di Giovanni Verga. Se una tale contrapposizione mira a collocare Proust tra i romanzieri negatori del rapporto tra vita interiore e vita sociale, e Verga tra quelli che ridurrebbero tutto alla sola dimensione dei fatti positivi, rifiuto anche questa alternativa come falsa e deformante. Se invece qualcuno dicesse che in Lampedusa i modi particolari di affrontare i temi della vita sociale e dell’esistenza che furono del realismo verghiano e della “memoria” di Proust trovano un loro punto di incontro e di sutura, mi dichiarerei d’accordo con lui. È sotto questa suggestione che ho riletto il romanzo mille volte, e che ho realizzato il film. Sarebbe la mia ambizione più sentita quella di aver fatto ricordare in Tancredi e Angelica, la notte del ballo in casa Ponteleone, Odette e Swann, e in don Calogero Sedara nei suoi rapporti coi cittadini e nella notte del Plebiscito, Mastro don Gesualdo. E in tutta la pesante coltre funebre che grava sui per-

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sonaggi del film, sin da quando la lapide del “Se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi” è stata dettata, lo stesso senso di morte e di amore-odio verso un mondo destinato a perire tra splendori abbaglianti, che Lampedusa ha certo assimilato sia dalla immortale intuizione verghiana del fato dei siciliani, sia dalle luci e dalle ombre della Recherche du temps perdu31.

Visconti rifiuta la definizione di un Proust che sia «negatore del rapporto tra vita interiore e vita sociale». Per quanto concerne Il Gattopardo, egli lo considera «punto di incontro e di sutura», in cui trovano fusione «i modi particolari di affrontare i temi della vita sociale e dell’esistenza che furono del realismo verghiano e della “memoria” di Proust». Ed è da Verga e Proust che egli ritiene possa venire assimilato da parte di uno scrittore (ma anche da parte di un autore quale un regista, narratore a pieno titolo) «lo stesso senso di morte e di amore-odio verso un mondo destinato a perire tra splendori abbaglianti». Rivendica, dunque, un realismo (e un proustismo) sui generis, ove il recupero ad opera della memoria sia ricostruzione concreta e minuziosa (dell’oggetto materiale come delle intermittences du cœur), ove il senso del disfacimento si accompagni al senso del perdurare, ove la banalità, per non dire la futilità, del transeunte divenga segno tragico dell’esistenza. Poniamo, pertanto, come conclusione della nostra breve – e per certo incompleta – disamina queste considerazioni su di un’opera non di Proust, ma che Visconti vuole proustiana, per evidenziare una concezione del narrare che fa della sceneggiatura della Recherche, ahimè mai realizzata filmicamente, un vero saggio interpretativo dell’immenso romanzo.

31 Da un dialogo di Visconti e Antonello Trombadori sul Gattopardo, pubblicato in Il film “Il Gattopardo” e la regia di Luchino Visconti, a cura di S. Cecchi d’Amico, Cappelli, Bologna 1963, pp. 23-30, ripubblicato in Leggere Visconti, a cura di G. Callegari e N. Lodato, Amministrazione Provinciale di Pavia, Pavia 1976, pp. 94-7.

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Appendice PROUST Je tardai encore quelques instants, puis m’en allai, et fus bien étonné quand un peu après, ayant entendu frapper à la porte de ma chambre et ayant demandé qui était là, j’entendis la voix de M. de Charlus qui disait d’un ton sec: «C’est Charlus. Puis-je entrer, monsieur? Monsieur, repritil du même ton une fois qu’il eut refermé la porte, mon neveu racontait tout à l’heure que vous étiez un peu ennuyé avant de vous endormir, et d’autre part que vous admiriez les livres de Bergotte. Comme j’en ai dans ma malle un que vous ne connaissez probablement pas, je vous l’apporte pour vous aider à passer ces moments où vous ne vous sentez pas heureux». Je remerciai M. de Charlus avec émotion et lui dis que j’avais au contraire eu peur que ce que Saint-Loup lui avait dit de mon malaise à l’approche de la nuit, m’eût fait paraître à ses yeux plus stupide encore que je n’étais. «Mais non, répondit-il avec un accent plus doux. Vous n’avez peutêtre pas de mérite personnel, si peu d’êtres en ont! Mais, pour un temps du moins, vous avez la jeunesse et c’est toujours une séduction. D’ailleurs, monsieur, la plus grande des sottises, c’est de trouver ridicules ou blâmables les sentiments qu’on n’éprouve pas. J’aime la nuit et vous me dites que vous la redoutez; j’aime sentir les roses et j’ai un ami à qui leur odeur donne la fièvre. Croyez-vous que je pense pour cela qu’il vaut moins que moi? Je m’efforce de tout comprendre et je me garde de rien condamner. En somme, ne vous plaignez pas trop, je ne dirai pas que ces tristesses ne sont pas pénibles, je sais ce qu’on peut souffrir pour des choses que les autres ne comprendraient pas. Mais du moins vous avez bien placé votre affection dans votre grand-mère. Vous la voyez beaucoup. Et puis c’est une tendresse permise, je veux dire une tendresse payée de retour. Il y en a tant dont on ne peut pas dire cela!». Il marchait de long en large dans la chambre, regardant un objet, en soulevant un autre. J’avais l’impression qu’il avait quelque chose à m’annoncer et ne trouvait pas en quels termes le faire. «J’ai un autre volume de Bergotte ici, je vais vous le chercher», ajoutat-il, et il sonna. Un groom vint au bout d’un moment. «Allez me chercher votre maître d’hôtel. Il n’y a que lui ici qui soit capable de faire une commission intelligemment, dit M. de Charlus avec hauteur. – Monsieur Aimé, monsieur? demanda le groom. – Je ne sais pas son nom, mais si, je

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me rappelle que je l’ai entendu appeler Aimé. Allez vite, je suis pressé. – Il va être tout de suite ici, monsieur, je l’ai justement vu en bas», répondit le groom qui voulait avoir l’air au courant. Un certain temps se passa. Le groom revint. «Monsieur, M. Aimé est couché. Mais je peux faire la commission. – Non, vous n’avez qu’à le faire lever. – Monsieur, je ne peux pas, il ne couche pas là. – Alors, laissez nous tranquilles. – Mais, monsieur, dis-je, le groom parti, vous êtes trop bon, un seul volume de Bergotte me suffira. – C’est ce qui me semble, après tout». M. de Charlus marchait. Quelques minutes se passèrent ainsi, puis, après quelques instants d’hésitation et se reprenant à plusieurs fois, il pivota sur lui-même et de sa voix redevenue cinglante, il me jeta: «Bonsoir, monsieur» et partit. Après tous les sentiments élevés que je lui avais entendu exprimer ce soir-là, le lendemain qui était le jour de son départ, sur la plage, dans la matinée, au moment où j’allais prendre mom bain, comme M. de Charlus s’était approché de moi pour m’avertir que ma grand-mère m’attendait aussitôt que je serais sorti de l’eau, je fus bien étonné de l’entendre me dire, en me pinçant le cou, avec une familiarité et un rire vulgaire: «Mais on s’en fiche bien de sa vieille grand-mère, hein? petite fripouille! – Comment, monsieur, je l’adore! – Monsieur, me dit-il en s’éloignant d’un pas, et avec un air glacial, vous êtes encore jeune, vous devriez en profiter pour apprendre deux choses: la première c’est de vous abstenir d’exprimer des sentiments trop naturels pour n’être pas sous-entendus; la seconde c’est de ne pas partir en guerre pour répondre aux choses qu’on vous dit avant d’avoir pénétré leur signification. Si vous aviez pris cette précaution, il y a un instant, vous vous seriez évité d’avoir l’air de parler à tort et à travers comme un sourd et d’ajouter par là un second ridicule à celui d’avoir des ancres brodées sur votre costume de bain. Je vous ai prêté un livre de Bergotte dont j’ai besoin. Faites-le moi rapporter dans une heure par ce maître d’hôtel au prénom risible et mal porté, qui je suppose, n’est pas couché à cette heure-ci. Vous me faites apercevoir que je vous ai parlé trop tôt hier soir des seductions de la jeunesse, je vous aurais rendu meilleur service en vous signalant son étourderie, ses inconséquences et son incompréhension. J’espère, monsieur, que cette petite douche ne vous sera pas moins salutaire que votre bain. Mais ne restez pas ainsi immobile, car vous pourriez prendre froid. Bonsoir, monsieur»32. 32

Proust, À la recherche du temps perdu, cit., vol. II, pp. 124-6 (À l’ombre des jeunes filles en fleur, II. Noms de pays: le pays).

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CECCHI D’AMICO/VISCONTI 8. Camera di Marcel al Grand Hôtel di Balbec – interno – notte. È notte. Marcel si è addormentato lasciando accesa la lampada sul comodino. Si sentono bussare tre colpi. Istintivamente Marcel si solleva a sedere sul letto e fa per bussare a sua volta contro la parete, ma il gesto rimane sospeso. Chi bussa è alla porta, e ai colpi segue una voce ben distinta, secca. VOCE F. C. BARONE DE CHARLUS: Sono Charlus. Posso entrare? Senza aspettare risposta il barone de Charlus apre la porta ed entra. Marcel è piuttosto imbarazzato e sorpreso. Charlus porge un libro a Marcel, come se gli desse un’elemosina fatta a malincuore. BARONE DE CHARLUS: Signore. Poco fa avete detto che, prima di addormentarvi, vi sentite un po’ inquieto, e, d’altra parte, che vi piacciono molto i libri di Bergotte. Ne ho uno che probabilmente non conoscete, e ve l’ho portato per aiutarvi a superare quei momenti di disagio. MARCEL (con slancio sincero): Vi ringrazio. Capisco di avervi annoiato col racconto dei miei malesseri. Vi domando scusa... Il barone non ha l’aria di ascoltare. Né d’altro canto sembra avere l’intenzione di uscire dalla stanza. Il barone si è avvicinato a una mensola e osserva i libri e gli oggetti che vi sono posati. Accende e spegne una lampada da terra, osserva di sfuggita (per poi tornare a osservarlo) l’accappatoio e il costume da bagno di Marcel posati su una sedia. MARCEL (facendosi coraggio): Sono rimasto sorpreso questa sera, di vedere che la signora de Villeparisis non aveva l’aria di aspettare la vostra visita. Voi ricordate, vero, di avermi invitato... Volete, vi prego, spiegare che siete stato voi... Mi rendo conto di apparire ancora più stupido di quel che sono. Ma non vorrei essere sembrato un intruso... Il barone continua sempre a non avere l’aria di ascoltare e a guardarsi intorno nella stanza. Finché interrompe con impazienza:

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BARONE DE CHARLUS: Forse non avete doti eccezionali. Non lo so. Sono tanto pochi quelli che ne hanno! Ma per un po’ di tempo avrete almeno la giovinezza, che è sempre una seduzione. Il barone de Charlus cammina su e giù per la stanza, poi si ferma e riprende il volume che ha posato sul letto. BARONE DE CHARLUS: Ho con me un altro volume di Bergotte, mando a prendervelo. Prima che Marcel abbia avuto il tempo di protestare il barone de Charlus ha suonato più volte il campanello. Quasi subito accorre il groom che presta servizio al piano. Ha l’aria di essere stato svegliato di soprassalto. BARONE DE CHARLUS: Andatemi a chiamare il concierge. È l’unico qui che sia capace di fare una commissione con intelligenza. GROOM: Desidera il signor Aimé? BARONE DE CHARLUS: Non so come si chiama. Ma sì, ricordo di averlo sentito chiamare Aimé. Presto, andate, ho fretta. GROOM: Signore, il signor Aimé è andato a letto. Ma posso fare io la commissione. BARONE DE CHARLUS: No. Fatelo alzare. GROOM: Non posso, signore, non dorme in albergo. BARONE DE CHARLUS (irritato): E allora lasciateci in pace. Marcel è sempre più imbarazzato da tanta sollecitudine. Scende dal letto e s’infila la vestaglia mentre il groom esce precipitosamente dalla camera. MARCEL: Ma, signore, siete troppo buono... questo volume di Bergotte mi basta... BARONE DE CHARLUS (sempre nervoso): Pare anche a me. Il barone va a spegnere la lampada alta che poco prima ha acceso, poi spento e riacceso. BARONE nonna.

DE

CHARLUS: Domani parto presto. I miei ossequi a vostra

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Dario Cecchetti

D’improvviso il barone de Charlus si avvicina a Marcel e, dandogli un pizzicotto sul collo, dice, con un tono di voce che sorprende Marcel più di tutto il precedente comportamento stravagante del barone: BARONE DE CHARLUS: Ma ce ne freghiamo della vecchia nonna, eh?, canaglietta! MARCEL: Che dite, signore: io l’adoro! Il barone ha ripreso la sua aria distante e glaciale. Si allontana da Marcel avviandosi verso la porta. BARONE DE CHARLUS: Siete ancora giovane e dovreste approfittarne per imparare due cose. Primo: astenervi dall’esprimere sentimenti troppo naturali per non essere sottintesi. Secondo: evitate di partire lancia in resta per rispondere alle cose che vi dicono, prima di averne inteso il significato. Questa precauzione vi avrebbe risparmiato poco fa di aver l’aria di parlare a sproposito... come un sordo... e di aggiungere un secondo elemento di ridicolo alle ancore che vedo ricamate sul costume da bagno. E il barone indica con disprezzo gli indumenti marini posati sul piano della sedia e che poco prima ha osservato. BARONE DE CHARLUS: Mi farete riportare il mio volume di Bergotte da quel concierge dal nome risibile e assai mal portato... Voglio sperare che non starà a letto per tutta la vita. Mi rendo conto di avervi parlato troppo presto delle seduzioni della giovinezza. Vi avrei reso un miglior servigio segnalandovene la storditaggine, le incoerenze e le incomprensioni. Buonasera, signore. E il barone esce dalla camera chiudendosi con un colpo secco la porta alle spalle33.

33

Cecchi d’Amico, Visconti, Alla ricerca del tempo perduto, cit., pp. 24-6.

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Visconti legge Proust

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PINTER 129. Interno – camera da letto di Marcel – albergo – notte. Marcel è solo nella stanza, si sente bussare. MARCEL: Chi è? CHARLUS: Sono Charlus. Posso entrare? (Marcel apre la porta. Entra Charlus con un libro in mano). Mio nipote mi ha detto che lei si sente spesso depresso, prima di coricarsi, che ha qualche difficoltà a prender sonno, e che è un ammiratore delle opere di Anatole France. Si dà il caso che io abbia con me uno dei suoi romanzi. Ho pensato che le avrebbe fatto piacere leggerlo, che questo potrebbe aiutarla a rilassarsi. MARCEL: Molto gentile da parte sua. Grazie. Ma lei giudicherà questi miei... stati d’animo... la sera... molto stupidi. CHARLUS: No, perché? Lei, forse, non ha alcun particolare merito personale. Ben pochi ne hanno. Ma lei, almeno per un certo tempo, possiede il dono della gioventù e questo è sempre una cosa deliziosa. E poi, con molta saggezza, ha riposto il suo affetto in sua nonna. Un affetto più che legittimo, un affetto, intendo dire, che viene ripagato. E questo è uno stato di cose assai raro (Charlus passeggia avanti e indietro per la stanza, pensieroso). Ho un altro volume di Anatole France in camera mia. Glielo farò avere. Charlus si ferma. Restano in piedi silenziosi. MARCEL: Non si disturbi, la prego. Un volume basterà. CHARLUS: Proprio quel che pensavo (un altro silenzio. Charlus improvvisamente). Buona notte. Esce dalla stanza34.

34

Pinter, The Proust Screenplay, trad. it. cit., pp. 50-1.

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Federica Villa*

Giorgio Bassani e le occasioni letterarie per Luchino Visconti. Qualche appunto preliminare “I morti da poco sono più vicini a noi, e appunto per questo gli vogliamo più bene. Gli etruschi, vedi, è tanto tempo che sono morti” – e di nuovo stava raccontando una favola –, “che è come se non siano mai vissuti, come se siano sempre stati morti”. G. Bassani, Il giardino dei Finzi Contini

1. Bassani e Visconti si incontrano Giorgio Bassani e il cinema italiano del secondo dopoguerra intrattengono molte relazioni. Lo scrittore ferrarese, che dona il proprio corpo all’immagine filmica ne Le ragazze di Piazza di Spagna (1952) di Luciano Emmer, interpretando il professore che racconta le tre modiste, in un quasi altro se stesso, si dedica al cinema, grazie anche alla vicinanza dell’amico Mario Soldati, per tutto l’arco degli anni Cinquanta1, fino a donare, questa volta la voce, a Orson Welles nell’episodio La ricotta di Pier Paolo Pasolini (1963). Questo decennio, così inquieto per il nostro cinema, così irrisolto per certi versi, ma comunque così dichiaratamente esposto ad una cultura popolare innervata su un sistema mediale in via di integrazione, trova Giorgio Bassani propenso a cogliere le molte possibilità di sperimentarsi in una scrittura a metà strada tra cinema e letteratura. L’idea che fornire opera d’ingegno al cinema sia «una cosa che serve», una necessità quasi per «uscire da sé», per liberarsi dalle angustie di una scrittura sofferta nella solitudine del proprio * Università di Torino. 1 Una primissima ricognizione dell’operato cinematografico di Giorgio Bassani nell’arco degli anni Cinquanta è presente in F. Villa, “Il cinema è quasi sempre una cosa che serve”. La materia del cinema nell’opera di Giorgio Bassani, in Il corpo del film, a cura di G. Carluccio, F. Villa, Carocci, Roma 2006. Inoltre per il lavoro con Mario Soldati si può vedere il recente volume di E. Morreale, Mario Soldati. La carriera di un libertino, Le Mani, Recco 2006.

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Federica Villa

fare, si trova pressoché in tutti gli scritti bassaniani che commentano l’apprendistato e la dedizione al lavoro di sceneggiatore2. Ma Giorgio Bassani non è solo lo sceneggiatore di una dozzina di film di quegli anni. Lo scrittore è innanzitutto un ottimo segugio in cerca di opere letterarie da restituire al cinema in quanto arte della visione. Cerca e trova ciò che più è predisposto ad essere passato al cinema, ciò che nell’immagine trova giusta dimora. In questa opera di scopritore di scrittura per la visione, Bassani intercetta la traiettoria di Luchino Visconti per ben quattro volte. Elenchiamole. Prima occasione di incontro: nel 1945 Giorgio Bassani raccoglie cinque novelle di Camillo Boito e stila la Prefazione a Il maestro di setticlavio, edito da Colombo a Roma3. Tra queste novelle, un ruolo fondamentale è ricoperto da Senso. Seconda occasione: nel 1946 Bassani traduce per l’editore Bompiani Il postino suona sempre due volte di James Mallahan Cain. Tre anni prima, a Ferrara, era uscito Ossessione. Terza occasione: nel 1958 ha inizio per Bassani quella passione irrefrenabile per la scrittura di Giuseppe Tomasi di Lampedusa che lo porterà a Palermo sulle tracce dello scrittore scomparso prematuramente, con il manoscritto del Gattopardo in stato di necessaria pubblicazione. Questa avverrà per Feltrinelli, con una lunga prefazione di Bassani4. Quarta occasione: nel 1965 Luchino Visconti vince il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia per Vaghe stelle dell’Orsa. Vie2 Bassani compare come sceneggiatore accreditato per i seguenti titoli: Le avventure di Mandrin (Mario Soldati, 1951), La provinciale (Mario Soldati, 1952), La mano dello straniero (Mario Soldati, 1953), gli episodi Pigreco e Il paraninfo in Villa Borghese (Gianni Franciolini, 1953), Casa d’altri in Tempi nostri (Alessandro Blasetti, 1954), Il ventaglino (Mario Soldati) in Questa è la vita (1954), La donna del fiume (Mario Soldati, 1954), La romana (Luigi Zampa, 1954), Senso (Luchino Visconti, 1954), Il prigioniero della montagna (Luis Trenker, 1955). 3 Prefazione a C. Boito, Il maestro di setticlavio, Colombo, Roma 1945. Il volume viene recensito su “La Nuova Europa”, 3 giugno 1945, con il titolo Racconti di Camillo Boito. 4 G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano 1958, pp. 7-13. Tre anni più tardi Bassani scrive la Prefazione a G. Tomasi di Lampedusa, Racconti, Feltrinelli, Milano 1961, pp. 7-13; poi ripubblicata in Le parole preparate e altri scritti di letteratura, Einaudi, Torino 1966, con il titolo I racconti di Lampedusa, pp. 175-80.

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Giorgio Bassani e le occasioni letterarie per Luchino Visconti

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ne rintracciato un elevato grado di somiglianza con l’intreccio del Giardino dei Finzi Contini, edito nel 1962. In questa sede approfondiremo la prima e la terza occasione di incontro tra Bassani e Visconti, sfiorando solo la seconda.

2. La costruzione e la distanza. Intorno a Senso La Prefazione a Il maestro di setticlavio è composta da sei parti. La quarta, la più estesa, è dedicata a Senso. Analizzandone la struttura si nota come Bassani abbia tripartito le proprie considerazioni su Senso in modo organico e coerente: ad una prima parte schiettamente introduttiva, che prende in considerazione complessivamente le opere di Camillo Boito per definirne lo stile di scrittura e per elogiarne «l’intelligenza lucida e precisa» e «il gusto acuto (un po’ francese) del chiaro e del distinto»5, segue una sinossi della storiella vana equivalente al montaggio di frammenti, sostanzialmente lunghe citazioni, del testo di Boito, in un precisissimo lavoro di taglia e incolla, ricucito da interessanti passaggi bassaniani. Chiude un acuto commento sulla costruzione del racconto in rapporto alla messa in scena del personaggio della contessa Livia Serpieri. Come si sa la sensibilità e la politica editoriale di Bassani hanno sempre privilegiato autori a volte marginali o marginalizzati, minori, o cosiddetti secondari. Per queste figure, lo scrittore ferrarese è stato sempre capace di definire importanza e innovatività in relazione al panorama letterario del nostro paese. Per Bassani, dunque, Camillo Boito è innanzitutto uno dei più colti architetti della sua epoca, e questo emerge nella costruzione dei suoi racconti, «nel senso sempre molto esatto ed elegante delle proporzioni». Questa logica della misura attribuita a Boito passa, in un certo senso, nella Prefazione di Bassani, laddove il nostro ricuce le citazioni, naturalmente nella prima persona della contessa, scelte tra i passaggi dove più forte è il tormento sentimentale, più sconvolgente la passione, più ar5

Si veda l’edizione più recente: G. Bassani, Prefazione al “Maestro di setticlavio”, in Opere (Di là dal cuore), Mondadori, Milano 1998, pp. 1007-13 (quarta parte).

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Federica Villa

dente il ricordo. Ebbene il lavoro di cucitura che Bassani compie è matematico, l’esercizio di ricomporre i frammenti viene determinato da un’opera di raffreddamento della materia, seguendo una procedura di attribuzione di motivazioni, spiegazioni deterministiche dell’accaduto, con momenti di stringente razionalità sul dove, sul quando e sul perché degli eventi. Bassani si fa un po’ Boito, in sua assenza. Guarda a distanza la materia del suo scrivere, ne prende le misure, si separa da essa, come dietro una lastra, la guarda, senza lasciarsi coinvolgere, ma in un preciso lavoro di costruzione. Leggiamo direttamente dalla Prefazione: Nella voce cinica e delusa, che articola con la sensibile volubilità delle sue inflessioni tutto il racconto, si cela, imparziale e impassibile, ma partecipe di un superiore mondo morale, l’artista che domina e giudica perfettamente la propria materia. Appunto il linguaggio che lui, l’artista, mette in bocca alla donna, a volte appassionato e lirico, a volte basso, triviale, sempre influenzato da una memoria tenace come la tortura di una ferita mal chiusa, celebra il limite che egli ha frapposto consapevolmente tra il mondo della sua fantasia e il suo superiore distacco di poeta6.

Il linguaggio, dunque, seppur attraverso la prima persona di Livia, è testimonianza celebrativa del “limite”, del confine, della frattura che deve, in un certo senso, imporre il poeta tra sé e il mondo da lui creato. Un diaframma che il linguaggio impone e fa osservare in un rituale perpetuo. Questo rito della parola usata e scritta come forma di distanza dalla materia è irrinunciabile tanto per Boito quanto per Bassani. Passiamo ora al terzo polo in gioco, Senso di Luchino Visconti. È fatto noto il coinvolgimento di Bassani nell’impresa di sceneggiatura. Un facile confronto tra la biografia viscontiana e le carte ferraresi, in relazione a questa occasione, ci dice che alla fine del 1952 Visconti e Suso Cecchi d’Amico lavorano al progetto di Marcia nuziale, che dovrà poi essere abbandonato per motivi di censura. Tuttavia Gualino insiste con i due per ottenere un nuovo progetto che 6

Ivi, p. 1013 (corsivi miei).

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Giorgio Bassani e le occasioni letterarie per Luchino Visconti

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sappia unire alto livello artistico e buon successo commerciale. Tra le cinque idee che vengono presentate alla Lux Film c’è la novella di Boito, che la d’Amico ha letto, appunto, nella piccola raccolta curata da Bassani e ricorda anche di averne discusso con lo scrittore stesso. Nel frattempo, però, Bassani ha già proposto al produttore Nicolò Theodoli di fare una riduzione cinematografica della novella in questione, e questi ha acquistato i diritti letterari, pensando di trarne un film da affidare alla regia di Mario Soldati. Visconti e la d’Amico si rivolgono così a Theodoli e a Soldati, si accertano che il progetto non sia più di loro interesse e prendono contatti con Bassani, che si trova così a collaborare alla stesura di sceneggiatura insieme a Giorgio Prosperi e Carlo Alianello, in qualità di consulente storico, e a Tennessee Williams e Paul Bowles, per la traduzione dei dialoghi in inglese7. Anche se Bassani viene per tutto l’iter di elaborazione della sceneggiatura progressivamente marginalizzato con il ruolo di «difensore d’ufficio del racconto di Boito»8, ciò che lo scrittore sostiene come elemento ineliminabile della scrittura letteraria sembra puntualmente ritornare nella sceneggiatura, ovvero il rispetto di Boito non tanto nella storia da adattare al cinema, ma nel modo di avvicinarsi alle cose, nel tipo di sguardo da adottare su di esse, in quel limite da celebrare, con l’eleganza delle proporzioni, attraverso il linguaggio. Non si vuole qui ripercorrere il lungo, acceso e noto dibattito apparso sulle pagine di “Cinema Nuovo” intorno a Senso e al passaggio che il film, secondo Guido Aristarco, segna tra neorealismo e realismo critico, tra cronaca e storia, tra documento e racconto. Solo sottolineare che ciò che resta di Boito, che viene strenuamente difeso e, in un certo senso, arricchito e valorizzato da Visconti, proprio a partire dalla scrittura della novella e grazie alle indicazioni bassaniane, coincide in effetti con la lucida consapevolezza di offrire una grande costruzione d’assieme, sia a livello narrativo che a li7

Intorno alla sceneggiatura del film si veda Senso, a cura di G. B. Cavallaro, Cappelli, Bologna 1955, che illustra le diverse fasi di elaborazione, e quindi come si passò, abortita l’idea di intitolarlo Custoza, da Uragano d’estate a Senso. 8 G. Fink, Una lastra invisibile: Bassani e il cinema, in Giorgio Bassani: lo scrittore e i suoi testi, a cura di A. Gagliardi, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1988, p. 55.

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Federica Villa

vello di messa in scena, e con la necessaria posizione distanziata dell’autore, che diviene osservatore del proprio mondo. Queste due caratteristiche tengono insieme Boito, Bassani e Visconti. Sono la ragione di questo primo incontro. Cerchiamo di motivarle. Per quanto riguarda la premura viscontiana nel sovraesporre l’idea di costruzione d’assieme come elemento costitutivo di Senso spesso si è detto proprio a partire da quel famoso dibattito apparso su “Cinema Nuovo”. La cultura figurativa che Visconti travasa nel film, la perizia nel riquadrare le immagini con stipiti di porte e di finestre, in uno sfondamento prospettico dell’inquadratura, il rincorrere immagini duplicate in specchi, in proscenio e sfondo, sono elementi che dall’apertura al Teatro La Fenice si sparpagliano in tutto il film. La costruzione, come eleganza, misura e proporzione delle cose, sta anche nella composizione quadripartita, per questo melodrammatica, della storia, così come nelle singole inquadrature così volitive nella scelta della porzione di realtà da ritagliare e da dettagliare9. Facciamo un esempio e pensiamo alle immagini di Venezia. E in questa direzione ci permettiamo di intervallare questo nostro percorso di lettura degli incontri tra Visconti e Bassani con un frammento tratto, questa volta, dalla raccolta di scritti bassaniani Di là dal cuore, dedicato alla rappresentazione di Venezia nella letteratura10. Si legge: E Venezia, l’afa notturna e voluttuosa dei suoi canali, che cosa è se non il compiacente scenario per un turista adolescente e irresponsabile [...].

E oltre: Il carattere turistico, dunque necessariamente visivo, o se si vuole, voyeuristico, è proprio di quasi tutta la letteratura su Venezia11. 9 A riguardo si veda l’analisi di G. Tinazzi, Un melodramma in abisso, in Il cinema di Luchino Visconti, a cura di V. Pravadelli, Marsilio, Venezia 2000, pp. 145-56. 10 G. Bassani, Le parole preparate: considerazioni sul tema di Venezia nella letteratura, La Consulta di Verona, Verona 1965, quindi come testo eponimo di Le parole preparate, datato 1964, e il titolo Le parole preparate. (Considerazioni sul tema di Venezia nella letteratura). Ora si legge in G. Bassani, Le parole preparate, in Opere, cit., pp. 1178-201. 11 Ivi, p. 1183.

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Giorgio Bassani e le occasioni letterarie per Luchino Visconti

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Venezia per Bassani è letterariamente “luogo da vedere”, scenario allestito, eterna messa in scena, oggetto di “vedutismo”. Uno spazio che necessita lo sguardo ondivago dell’adolescente, totalmente libero e perlustrativo, che passeggia senza meta precisa ma guidato unicamente dal desiderio di vedere sempre più. La meta viene esperita ogni qual volta si manifesta una rivelazione per lo sguardo. Così Bassani pensa a Venezia, luogo a lui caro, nella letteratura. Così lo scrittore sembra leggerlo anche nelle pagine di Boito, e così a noi viene restituito dalle immagini viscontiane. In questo passaparola, quello che ci sembra maggiormente rilevante è come la scrittura prediletta da Bassani per raffigurare i luoghi, in questo caso quel luogo che è Venezia, consuoni con la scrittura per immagini del film. Una veduta, un ritaglio netto del reale operato dal posizionamento di uno sguardo che, nel suo girovagare, di tanto in tanto si fissa, si mette nella posa di chi vuole unicamente ammirare. A questo proposito non è certo una forzatura convocare anche la prima pagina della Passeggiata prima di cena, famosa per essere una delle più lucide dichiarazioni di stile per quanto concerne la narrativa bassaniana. Il passo più volte studiato è il seguente: Ancora oggi non è difficile, frugando in certe bottegucce di Ferrara, mettere le mani su cartoline vecchie di almeno cinquant’anni. Sono vedute ingiallite dal tempo, macchiate di umidità [...]. La cartolina, dicevamo, è tratta da una fotografia; e, come tale, essa dà conto, oltre che dell’aspetto di corso Giovecca verso la fine del secolo, della vita che, nell’attimo in cui il fotografo fece scattare l’obbiettivo, si svolgeva per tutto lo sviluppo del corso12.

Ecco, la cartolina. Bassani compone e mette in fila cartoline di luoghi. Laddove la cartolina, a differenza della fotografia dalla quale deriva, perde progressivamente la soggettività dell’autore-fotografo per reclamarne quella dell’osservatore-destinatario sulla cosa da vedere. Si instaura, cioè, un tipo di sguardo particolare che, in virtù della porzione di realtà ritagliata, incorniciata, chiama in causa, quasi in12

G. Bassani, La passeggiata prima di cena, in Opere, cit., p. 1618.

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terpella un soggetto preposto a guardare, ammirare e riconoscere il luogo. Ora, raccogliendo queste due ultime suggestioni – lo sguardo su Venezia e lo sguardo sulla cartolina –, ci troviamo di nuovo a definire una prossimità tra Bassani e Visconti nel segno di Senso. Le fila di palchi e di loggioni che compongono le immagini del Teatro La Fenice, la visione del e dal palco della contessa Livia Serpieri, così come il suo attraversamento dei portici e delle calli in una Venezia notturna, fino all’approdo in prossimità del pozzo, rappresentano momenti di (e)stasi della visione: la macchina da presa si posiziona, si fissa, definendo una perfetta costruzione figurativa, quindi ritaglia, stacca quella porzione e, facendo questo, sprigiona lo sguardo dell’osservatore, che, interpellato da una così accentuata perfetta fissità sulle cose, non può far altro che ammirare. Pensiamo anche al percorso di Livia fino al campo del Ghetto, in cima alla scala si volta, per controllare di non essere seguita, ma è proprio quel voltarsi che spinge l’inseguitore ad arrivare fino a lì per guardare, per osservare. Queste sospensioni dedicate allo sguardo come necessità ci fanno pensare a quell’idea di cartolina cara a Bassani: inquadrature su Venezia che da fotografie diventano cartoline, ovvero lasciano progressivamente lo sguardo che le ha generate e, in virtù della loro beltà incorniciata, assumono su di sé lo sguardo dell’osservatore. Come cartoline, cartoline di Venezia oltretutto, queste immagini nascono per essere guardate, ammirate e raccolte da un destinatario. Si diceva della costruzione e della distanza. In effetti l’incanto che la novella di Boito esercita su Bassani e su Visconti e che, in un certo senso, costituisce la prossimità delle due scritture sta proprio nel lavoro ossessivo sulla limitatezza del visibile in relazione all’esercizio del punto di vista: prediligere cartoline che staccano porzioni di reale a brani significa, altresì, lasciare fortemente qualcosa al fuori campo. In questo Bassani trova perfetta sintonia con il cinema, proprio perché l’idea stessa di dover limitare una parte comporta un processo di evocazione del tutto, di ciò che non si può vedere, che non si può più vedere, ma solo ricordare. Ma questo percorso che dalla limitatezza dell’immagine conduce al racconto della memoria rappresenta un’altra possibilità di confronto con la scrittura viscontiana, soprattutto intorno al Gattopardo.

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Giorgio Bassani e le occasioni letterarie per Luchino Visconti

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3. Intermezzo. Tradurre il paesaggio. Nota su Ossessione Prima di passare all’incontro con l’opera di Tomasi di Lampedusa, concediamoci un piccolo intermezzo a proposito di Ossessione. Ebbene sappiamo che Jean Renoir diede a Visconti una traduzione francese del romanzo di James Mallahan Cain Il postino suona sempre due volte per farne eventualmente un film, dato che né lui né Julien Duvivier, al quale era stato offerto, erano interessati al progetto. Nel 1939, tuttavia, Pierre Chenal ne aveva ricavato Le dernier tournant, secondo i moduli caratteristici del cinema francese di allora, un film modesto che, a quanto sembra, Visconti aveva visto13. In Italia la copia dell’edizione originale del romanzo di Cain si trovava allora nelle mani di Bassani, che stava pensando, più che lavorando, alla traduzione. Visconti incaricò, dunque, Giuseppe De Santis di andare a Ferrara per chiedere a Bassani di poter visionare l’originale. Come nota di accompagnamento al testo, Bassani scrive14: Carissimo, in visione ti consegno l’originale. Penso di continuo alla traduzione, ma trovo difficile e per questo stimolo infinito tradurre il paesaggio, cercare di vederlo in italiano. Cerco tra i miei luoghi gli scenari adatti alla storia, per carpirne dettagli, atmosfere. Ti farò sapere cosa trovo, ma tu dammi notizie. Buon lavoro a te e agli altri. Tuo Giorgio.

«Tradurre il paesaggio». Così Bassani si esprime di fronte al percorso di rivisitazione del romanzo di Cain. Non solo perché deve af13

Confermato anche in G. Rondolino, Luchino Visconti, UTET, Torino 2006, p. 113. Importante sulla genesi di Ossessione la ricostruzione di L. Micciché, La ragione e lo sguardo. Saggi e note sul cinema, Lerici, Cosenza 1979, pp. 97-105, che riprende Id., Per una rilettura di Ossessione, in Visconti: il cinema, Catalogo a cura di A. Ferrero, Comune di Modena, Modena 1977, pp. 147-52 (qui si trova l’analisi dei rapporti tra film e romanzo di Cain). 14 Decifrazione del testo autografo sul biglietto d’accompagnamento al libro di Cain, conservato presso la Biblioteca dello scrittore, Fondazione “Giorgio Bassani”, Codigoro. Menzionato dallo stesso De Santis anche durante la Tavola rotonda di Fiano l’11 luglio 1976, organizzata da Massimo Mida Puccini.

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Federica Villa

frontare quel processo di italianizzazione, chiaro anche a Visconti e utile per «contrabbandare un’opera, almeno nelle intenzioni, profondamente antifascista»15, ma perché deve innanzitutto, cercando i luoghi, definirne le immagini. Per questo Ferrara e dintorni diventano spazi congeniali allo scrittore per vedere in italiano il romanzo e, per Visconti, luoghi esemplari per le proprie locations, al punto da corrispondere ad una sorta di «caparbietà toponomastica»16. Il senso del luogo pervade, infatti, tutto il film, grande rilievo viene attribuito al paesaggio, inteso non già come anonimo sfondo dell’azione, ma autentico luogo scenico per la rappresentazione di un conflitto drammatico, che vede la campagna e la città, le case e le strade, gli oggetti domestici e i rumori quotidiani quali elementi fondamentali del dramma, parti integranti di un discorso che, più che sui fatti, si appunta sui luoghi e le situazioni17.

E su questi luoghi si adagia uno sguardo freddo e rigoroso. Quella lucidità, maturata dal distacco, che è propria anche dell’opera bassaniana, quel frapporre una lastra di vetro tra sé e il proprio mondo, quel perenne osservare da un punto di vista escluso/esclusivo e non più partecipe e non più coinvolto. E così anche per Ossessione di Visconti «tutto accade nel distacco “oggettivo” d’una rappresentazione lucida e razionale. Ciò vale per la bassa pianura padana, per la strada desolata, per le vie e le piazze di Ferrara e di Ancona»18. 15

Sul processo di italianizzazione si veda Rondolino, Luchino Visconti, cit., pp. 119 ss. Ma anche l’importante G. Aristarco, Il postino di Cain diventò italiano, in “Cinema Nuovo”, dicembre 1953, n. 24, p. 348. Ricordiamo che la versione scritta della sceneggiatura compare come Ossessione. Film di Luchino Visconti, in “Teatro Scenario”, luglio 1953, nn. 13-14, pp. 25-49. 16 Ancora sull’importanza del paesaggio in Ossessione è costruita parte dell’analisi di L. Quaresima, Ossessione. Il teatro dei rapporti, in Pravadelli (a cura di), Il cinema di Luchino Visconti, cit., pp. 37-52, in particolare pp. 46-7. In relazione a questo incontro tra Bassani e Visconti, tramite la persona di De Santis, è impossibile non fare riferimento anche a G. De Santis, Per un paesaggio italiano, in “Cinema”, aprile 1941, n. 116, p. 262; Id., Il linguaggio dei rapporti, in “Cinema”, dicembre 1941, n. 132, p. 388. 17 Rondolino, Luchino Visconti, cit., p. 126. 18 Ivi, p. 128. Scrive anche Antonio Pietrangeli: «La realtà entrò bruciante nel nostro

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Giorgio Bassani e le occasioni letterarie per Luchino Visconti

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Il film di Visconti diventa per Bassani una tappa fondamentale nel percorso di traduzione del romanzo, che si completerà tre anni dopo l’uscita del film. Nelle immagini lo scrittore vede quello che sta cercando e che precedentemente aveva suggerito all’amico De Santis come piccola indicazione. Le immagini materializzano la sua ricerca di traduzione del paesaggio, quel paesaggio troppo affettivamente familiare e per questo da tenere distante. Il film, come annunciato dal “Corriere Padano” il 16 maggio 1943 – «Da domani all’Apollo l’attesissimo film realizzato a Ferrara Ossessione con Massimo Girotti, Clara Calamai, Juan de Landa»19 –, uscì contemporaneamente, in città, anche al Teatro Verdi, ma come è noto venne ritirato pochi giorni dopo, il 21 maggio, per riapparire il 7 giugno20. Non è possibile sapere dove Bassani vide per la prima volta le immagini che stava cercando, dove la sua traduzione trovò immediata corrispondenza, dove apparve ai suoi occhi separata, tramite l’inquadratura, quella «pianura ferrarese con la sua malinconia grossa, umida, infinita, che la raccoglie in un guscio di terrestre calore»21.

4. Il vizio di Micòl. Intorno a Il Gattopardo Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, come è noto, ha avuto una storia editoriale particolarmente complicata a causa della prematura scomparsa dell’autore. In questa storia parte fondacinema. [...] Ferrara e le sue piazze e le sue strade brulicanti, Ancona e la fiera di San Ciriaco, il Po con i greti sabbiosi: un paesaggio solcato da una rete di strade polverose» (Panoramica sul cinema italiano, Il Ponte Vecchio, Cesena 1995, p. 34). 19 Sulla proiezione di Ossessione a Ferrara si vedano i seguenti numeri del “Corriere Padano”: 16, 18, 22 e 23 maggio 1943; 5, 6, 8 e 15 giugno 1943. La recensione di Guido Aristarco è pubblicata l’8 giugno del 1943. Questi numeri sono raccolti in A. Folli, Vent’anni di cultura ferrarese: 1925-1945. Antologia del “Corriere Padano”, Pàtron, Bologna 1980, vol. II. 20 Ricordiamo che il visto di censura preventiva del Ministero della Cultura popolare è datato 26 gennaio 1942. 21 E. Villa, Il cinematografo e l’idea di popolo, in “Primi Piani”, III, gennaio 1943, n. 1, pp. 13-5.

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Federica Villa

mentale ha avuto Giorgio Bassani. Non si vuole ripercorrere l’intera vicenda che dalla prima stesura a mano, raccolta in quaderni e prodotta tra il 1955 e il 1956, arriva sino alla collazione operata da Bassani a Palermo nel maggio del 1958, tra la (prima) stesura dattiloscritta, ad opera di Francesco Orlando e suddivisa in sei parti (1957), la ricopiatura autografa in otto parti dell’anno successivo e il dattiloscritto concernente la parte del ballo, fatto redigere dalla moglie di Tomasi dopo l’improvvisa morte del congiunto22. Scegliamo qui di restare solo nei confini della bella Prefazione che Bassani scrisse per la pubblicazione Feltrinelli (uscita l’11 novembre 1958) e, come quelle pagine indicano, ritorniamo indietro all’estate del 1954, al convegno svoltosi a San Pellegrino Terme, quando Bassani vide per la prima volta Tomasi, che in quell’occasione accompagnava il cugino Lucio Piccolo, il quale, presentato da Eugenio Montale, faceva la sua entrata nel salone letterario del Kursaal. Si legge in quella Prefazione: Fu Lucio Piccolo stesso a dichiarare nome e titolo del cugino: Giuseppe Tomasi, principe di Lampedusa. Era un signore alto, corpulento, taciturno: pallido, in volto, del pallore grigiastro dei meridionali di pelle scura. Dal pastrano accuratamente abbottonato, dalla tesa del cappello calata sugli occhi, dalla mazza nodosa a cui, camminando, si appoggiava pesantemente, uno lo avrebbe preso a prima vista, che so?, per un generale a riposo o qualcosa di simile. Era più anziano di Lucio Piccolo, come ho detto: ormai verso i sessanta. Passeggiava a fianco del cugino lungo i vialetti che circondavano il Kursaal, o assisteva, nella sala interna del Kursaal, ai lavori del convegno, silenzioso sempre, sempre con la medesima piega amara sulle labbra. Quando gli fui presentato, si limitò a inchinarsi brevemente senza dire un parola23.

Ricorda Gioacchino Lanza Tomasi che, quando Lampedusa aveva cominciato a scrivere il suo romanzo, gli confidò: «saranno ven22 Per una chiara e sintetica ricostruzione si vedano le note stilate da Gioacchino Lanza Tomasi nel settembre del 1969, che fanno da Premessa all’edizione conforme al manoscritto del 1957, pubblicata da Feltrinelli nel febbraio 2004, pp. 9-19. 23 Prefazione a Il Gattopardo, ora raccolta in Opere, cit., p. 1157.

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Giorgio Bassani e le occasioni letterarie per Luchino Visconti

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tiquattr’ore della vita del mio bisnonno il giorno dello sbarco di Garibaldi»24. D’altro canto la moglie, la baronessa Alessandra WolffStomersee, scriveva in una lettera a Bassani: Venticinque anni fa mi annunziò che intendeva fare un romanzo storico, ambientato in Sicilia all’epoca dello sbarco di Garibaldi a Marsala, e imperniato sulla figura del suo bisnonno paterno, Giulio di Lampedusa, astronomo. [...] Ci pensava continuamente, ma non si decideva mai a cominciare. Alla fine, scritte le prime pagine, aveva proceduto di gran lena. Andava a lavorare al Circolo Bellini. Usciva di casa la mattina presto, e non rientrava che verso le tre [...]25.

Ecco, nella figura del principe di Salina c’è questa tensione al passato, questo pensiero ad una persona cara scomparsa, questo ritratto segnato dalla memoria. La morte dell’autore del Gattopardo mette Bassani in una condizione simile, fissando la propria Prefazione in un ritratto composto dal ricordo, e la figura che ne emerge si disegna sui contorni del principe, e quindi, di rimando, su quella del bisnonno paterno. Poi arriva Luchino Visconti a proporre il proprio ritratto di Don Fabrizio. Anche nell’apparire cinematografico, in una sorta di ecolalìa di immagini di persona, quello che emerge, al di là di un’evidente somiglianza che raccoglie anche quella «piega amara sulle labbra», è la composizione di un ritratto appartenente al passato e per questo definibile solo attraverso un percorso memoriale. Bassani non partecipò alla sceneggiatura del Gattopardo. Ma Visconti si trovò a dover ricorrere di nuovo al nostro scrittore. Attraverso Suso Cecchi d’Amico cercò infatti di accedere alla mole di materiale che Bassani aveva raccolto, grazie anche alla baronessa Wolff-Stomersee, non certo per un desiderio di restare stretto all’originale letterario, quanto piuttosto per recuperare quello strano percorso di gestazione del romanzo, quel procedere ora lentamen24

Lanza Tomasi, Premessa, cit., p. 11. Lettera datata 22 aprile 1948: qualche stralcio viene riportato anche nella Prefazione, cit., pp. 7-13. 25

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Federica Villa

te ora a scatti improvvisi, che lasciò al Gattopardo quell’imparagonabile «fragranza dell’appena incompiuto»26. Ebbene, Bassani per Visconti rappresentava, con le sue carte, la possibilità di recuperare quel percorso creativo, quella scrittura matura perché arrivata sul finire di una vita, ma allo stesso tempo imprecisa come può esserlo un’opera prima (e in questo caso ultima), quel procedere nostalgico per un tempo irrimediabilmente perduto per poi tentare di recuperarlo negli ultimi trenta mesi, quasi tutto d’un fiato. Dunque, ancora un’occasione letteraria che pone a confronto due scritture. Qui i termini dell’accostamento ci sembrano essere da una parte la dimensione memoriale, dall’altra, ma fortemente collegata, l’esperienza del confine (ultimo). Facciamo solo qualche annotazione sul tema della memoria per Bassani per capire meglio l’incontro con Visconti sul terreno del Gattopardo. L’esercizio della memoria nell’opera di Ferrara è presente in modo ossessivo e duplice è la sua declinazione. Fare memoria significa da una parte rimembrare, cioè guardare all’indietro – il vizio di Micòl –, guardare il presente trascolorandolo immediatamente in passato, andare a vedere le tombe, tornare ai morti. Ricordiamo le parole di Micòl Finzi Contini rivolte al narratore: Come mi capiva! La mia ansia che il presente diventasse “subito” passato perché potessi amarlo e vagheggiarlo a mio agio era anche la sua, tale e quale. Era il “nostro” vizio, questo: d’andare avanti con le teste sempre voltate all’indietro. Non era così?27

Dall’altra, memoria significa reminiscenza di sé, cioè ricordare come si è stati un tempo, quando si faceva parte della realtà guardata e che ora, al di là della «lastra di vetro», «dentro le mura», «dietro la porta», oltre le «mura di cinta del giardino», non si è più, perché ci si è accorti di essere o si è divenuti irrimediabilmente altra cosa. In sostanza, dunque, significa avviare un percorso di conoscen26

Lanza Tomasi, Premessa, cit., p. 19. G. Bassani, Il giardino dei Finzi Contini, Einaudi, Torino 1962, ora in Opere, cit., p. 345. 27

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Giorgio Bassani e le occasioni letterarie per Luchino Visconti

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za di sé. Non si vuole certo esaurire qui l’importanza che la memoria assume nell’opera bassaniana, semmai da qui si vuole partire per suggerire come «il ritratto del passato», sia quello del bisnonno Giulio di Lampedusa, sia quello di Tomasi a San Pellegrino Terme, sia quello del principe Fabrizio/Burt Lancaster rappresentino tutti momenti celebrativi della memoria, in quanto si costruiscono sulla relazione con figure che si sono accomiatate dalla vita o sono prossime a farlo, a scomparire per sempre. I percorsi di lettura del Gattopardo viscontiano sono molteplici, e non è nostra cura passarli qui in rassegna28. Solo evocarne i tratti che in buona parte ritornano in questo nostro procedere nella zona di mezzo tra due scritture. Se da una parte, infatti, si insiste sulla figura cardine del principe come «struttura portante dell’intera rappresentazione» filmica, e si è portati a leggere il passaggio dal romanzo al film proprio come una forma di radicalizzazione di questa centralità, sottolineata dall’irrompere dello sguardo principesco in soggettiva, dall’altra la proposta di mettere in relazione le scelte viscontiane con le mosse della Recherche proustiana è stata sin da subito una linea interpretativa molto battuta. Ricordiamo che lo stesso Visconti pone il proprio lavoro come “sutura” tra realismo verghiano e memoria proustiana: È sotto questa suggestione che ho riletto il romanzo le mille volte, e che ho realizzato il film. Sarebbe la mia ambizione più sentita quella di aver fatto ricordare in Tancredi e Angelica la notte del ballo in casa Ponteleone, Odette e Swann, e in don Calogero Sedara nei suoi rapporti coi cittadini e nella notte del Plebiscito, Mastro don Gesualdo. E in tutta la pesante coltre funebre che grava sui personaggi del film, sin da quando la lapide del “Se vogliamo che tutto rimanga 28 Si vedano le molte analisi raccolte in Il Gattopardo, a cura di L. Micciché, Centro Sperimentale di Cinematografia-Electa, Napoli 1996; in particolare, sul rapporto romanzo/film si legga il saggio di Micciché qui raccolto dal titolo Il Principe e il Conte, che lavora sulla questione delle soggettive del personaggio. Naturalmente, lettura preliminare è l’articolo Visconti spiega perché scelse “Il Gattopardo”, in “Paese Sera”, 19 aprile 1963. Mentre per la genesi del film si rimanda a Il film “Il Gattopardo” e la regia di Luchino Visconti, a cura di S. Cecchi d’Amico, Cappelli, Bologna 1963.

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Federica Villa

com’è bisogna che tutto cambi” è stata dettata, lo stesso senso di morte e di amore-odio verso un mondo destinato a perire tra splendori abbaglianti, che Lampedusa ha certo assimilato sia dalla immortale intuizione verghiana del fato dei siciliani, sia dalle luci e dalle ombre della Recherche du temps perdu29.

Di nuovo, l’ossessivo rapportarsi al passato con un atteggiamento estremo di recupero è sottolineato anche dalla tensione al restauro che Visconti e Garbuglia mettono nel ripristinare gli spazi e gli edifici che riempiono il film: «il restauro delle strutture architettoniche del passato come ricomposizione di un’immagine che non ha finito di parlare, modo di far parlare nel presente il passato»; e ancora: per Visconti si tratta cioè di produrre una copia perfetta del passato, di organizzare un processo di riproduzione, di ripetizione del reale storico ormai dissolto e deteriorato, di realizzare la copia esatta dell’originale che è perduto e ora può apparire soltanto nei fantasmi di un’immaginazione determinata (ossia accuratamente documentata)30.

Il principe di Salina, in Tomasi fino alla morte e in Visconti fino alla soglia dell’invocazione alla Stella, disegna intorno a sé, come perno unico, una geografia di reminiscenze, di pietre perfettamente restaurate, di nostalgia dello stato puro. Una dimensione memoriale, quindi, chiaramente legata al sentimento del confine, del limite. Come il narratore Bassani si deve porre a distanza, appunto, per guardare l’“odiosamata” Ferrara e i suoi personaggi, così Tomasi e Visconti sentono forte la necessità di porre un diaframma, che la memoria esprime in tempo verbale o in forma dello sguardo, tra sé e il mondo che configurano. Ma questo stare lontani, perché altrimenti troppo vicini, troppo simili, troppo 29

Dichiarazioni di Visconti ad Antonello Trombadori in Cecchi d’Amico (a cura di), Il film “Il Gattopardo”, cit., pp. 23-30. 30 Tutta l’analisi di Paolo Bertetto va in questa direzione (e oltre): cfr. P. Bertetto, Il simulacro e la figurazione. Strategia di messa in scena, in Pravadelli (a cura di), Il cinema di Luchino Visconti, cit., pp. 205-6.

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Giorgio Bassani e le occasioni letterarie per Luchino Visconti

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uguali, diventa, quasi all’opposto, una sorta di confessione, di espressione di sé, un momento di autocoscienza. Il tema dell’uguaglianza e dell’alterità, definibile solo in base al segno di demarcazione che il confine tra presente e passato, tra vita e morte può porre, sta alla base della fascinazione che Il Gattopardo, nella figura del suo autore, ha esercitato su Bassani. «Era un signore alto e corpulento [...]». Era, appunto. La sottrazione di Tomasi di Lampedusa, il suo ridefinirsi come alterità, così come accaduto al bisnonno dello scrittore, e come «sta per avvenire» al principe di Salina di Visconti, sono segni tangibili, e qui aggiungiamo qualcosa solo con un cenno, di una forma autobiografica della scrittura, che «celebra il limite», proprio perché scrittura, tra il mondo poetico e il suo artefice. Non solo dunque il limite come sentimento pervasivo nella scrittura – scrittura di fantasmi e di morti –, ma anche, forse soprattutto, come natura autobiografica della scrittura stessa, che perpetua in un rituale continuo il distacco dell’autore dal suo mondo, scrittura che nell’atto di compiersi fa morire un po’ l’uno e un po’ l’altro. Da qui Bassani e Visconti trovano una corrispondenza forte, che va oltre le occasioni letterarie che li hanno fatti incontrare. La scrittura, letteraria e cinematografica, è, torniamo a dire, esperita come limite, confine tra sé e la rappresentazione. E proprio questo confine permette di definirsi, di dichiararsi, di conoscersi. Lo scrittore ferrarese, come sappiamo, ha sentito come necessaria la propria “parentesi cinematografica”, proprio perché il cinema gli offriva due cose in una. Fare immagini per lo schermo significava poter guardare all’indietro, quel vizio dell’amore, verso una vita sottratta alla vitalità nel momento inevitabilmente passato della ripresa. Le immagini, sebbene in movimento, rappresentano cosa morta, tomba di una realtà trascorsa, di un altrove ormai remoto. Il cinema rende sacra questa perdita perché permette il costante esercizio della memoria: guardare significa far rivivere. E la seconda cosa, di nuovo (come sempre per questo scrittore) apparentemente contraria alla prima, che tanto legò Bassani al cinema e gli fece incontrare e apprezzare Visconti, sta nella possibilità che l’immagine cinematografica ha di porsi al di là della vita che anima lo schermo, dalla parte di chi non agisce ma guarda e, nel puro guardare, cerca sé.

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Teatro

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Claudio Meldolesi*

Fu quasi il nostro Stanislavskij. 2: dagli esordi intuì possibile per via attorale lo stesso Nuovo teatro

Vi devo due spiegazioni a monte, ma non sostanziali come conviene che siano quelle introduttive in teatro. E appunto con un tono da prologo vorrei cominciare chiarendo perché ho cambiato il titolo stesso che alcuni di voi hanno letto nel programma1. L’ho essenzializzato attorno al rapporto del Visconti giovane con il Nuovo teatro perché volevo trasmettere da subito un segno di differenza dalle recensioni innumerevoli che questo fare viscontiano ha conosciuto in chiave morbosa. A tale aggettivo sono stati attribuiti infatti i significati più pesanti negli ultimi quarant’anni; laddove esso – come Roberto Alonge ben sa – per i recensori e i pubblici viscontiani aveva voluto solo dire segnato da scabrosità rese esplicite oltre l’usanza, nonché da una soggettività aperta al non dicibile; tanto che, verosimilmente per mostrarsi ben accompagnato, quel Visconti allestì Dommage qu’elle soit une putain di John Ford, a Parigi, subito dopo la “scandalosa” Arialda di Testori: fu il solo elisabettiano da lui allestito, a parte il teatro di Shakespeare. Dal canto suo, più semplicemente, l’altra spiegazione riguarda il “2” che campeggia nel titolo. Nel concreto, una precedente richiesta di “Ariel” di contribuire al suo numero viscontiano ha comportato che dovessi soddisfarla insieme alla vostra; e poiché i voli di quel personaggio eponimo hanno in me prevalso sulla tentazione arlecchinesca di servire “due padroni” con un testo solo, ho optato per un unico flusso saggistico in due parti: incoraggiato dalla * Università di Bologna. 1 Il titolo originario dell’intervento era Come Visconti, da fondatore della regia italiana, ha nutrito anche il Nuovo teatro [N.d.C.].

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Claudio Meldolesi

proposta di Barbina (l’ottimo direttore di quella rivista) di limitarmi a dire della prima fase in re e, quindi, dalla possibilità di volgere questo contributo anche a verifiche e sviluppi del precedente2. Cosa certo dovuta al Visconti che fondò dall’intimo la nostra regia opponendo particolare resistenza alla logica del fare spettacoli comunque: tanto che ne diresse molto pochi per quei tempi, e che pure madama Teoria è ora pronta per entrare in scena e orientare questo approccio torinese, nei limiti in cui saprò esserne portatore e voi contribuirete rielaborando ciascuno a suo modo quanto sta per emergere – magari tenendo conto del fatto che in quella prima parte del presente contributo si è detto di Visconti come artefice della regia detta da chi parla “a spettacolo unico”, in quanto riguarda i registi che creano spettacoli come se fossero capitoli di una o pochissime opere d’insieme. Cosa riscontrabile pure in Eduardo e Orazio Costa: realizzatori anch’essi, non a caso, di messinscene immediatamente artistiche – più mediate essendo le prospettive d’arte degli altri due primi filoni della nostra regia. A proposito dei quali va aggiunto che le stesse denominazioni ad essi attribuite, di “regia critica” e di “regia d’orchestrazione stilistica”, fanno cogliere una minore disponibilità a diretti espressivismi. In questo quadro Visconti pervenne a esplicitazioni distintive di una base romanzesca3, incline a impennate liriche, propria anche di Eduardo e Costa. È bene comunque ripensare insieme questi tre maestri, dato che le reciproche distanze fecero mondo, e per contrasti fra una Bellezza, una Socialità e una Fede le reciproche interiorità volgevano a inopinati incontri di scena.

1. Una tendenza complessa Per consentire alla vista di adeguarsi al nostro territorio, qui parleremo anzitutto della prima discontinuità conosciuta dal teatro di Vi2

Il primo contributo è uscito su “Ariel”, nn. 1-3, 2007, con il titolo Fu quasi il nostro Stanislavskij. Conquiste iniziali di un’altra arte della memoria. 3 Ma a questa era predisposto fin da giovanili, non scontati coinvolgimenti.

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Fu quasi il nostro Stanislavskij

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sconti, nella stagione 1960-61: tempo preparatorio contestualmente per lo Strehler dell’imprevista, possente Vita di Galileo brechtiana. Allora con modestia (pur relativa) Visconti realizzò appunto L’Arialda, avviandone l’autore, Testori, alla scelta di naturalizzarsi nella vita teatrale, mentre Ronconi ne fu avvicinato alla scelta della regia più che dall’avvento successivo della neoavanguardia: furono anni di svolte quelli, culminati nella rivelatrice tournée europea del Living Theatre, in ogni senso. Strehler aveva avuto la consacrazione del Berliner, e con quella prova entusiasmò vari registi tedeschi e francesi che s’interrogavano su come uscire dal brechtismo, senza rinunciare appunto a Brecht4: Stein, in particolare, si sarebbe domandato perché mai avesse poi interrotto la ricerca risolutiva del Galileo. Visconti allora iniziò a preferire al teatro degli attori quello dei cantanti e soprattutto il cinema, in cui più naturalmente agiva da autore. Ma anche tale orientamento risulta oggi problematico, per il consenso già da lui raggiunto come guida del suddetto filone della nostra regia, dato che Costa ed Eduardo erano più attratti dalla dimensione pedagogica che da quella realizzatasi nell’“unicità”. Luchino Visconti, infatti, agì all’opposto intensificando i suoi impegni artistici, e dovette trattarsi di uno sviluppo a lungo meditato: giunse persino a realizzare come “azione coreografica” la sua solitaria commedia Mario e il mago, da Thomas Mann, con musiche di Franco Mannino; e per lo stesso compositore scrisse con altri Il diavolo in giardino, ancora quale commedia. Corse anche così per lui il tempo dell’Arialda verso Rocco e i suoi fratelli, in attesa del Gattopardo filmato e della Traviata del Festival di Spoleto nonché della Salomè di Richard Strauss da Oscar Wilde. Di qui la nostra prima conclusione, basata sul fatto che Visconti era un creatore poco sensibile alle opportunità esterne, nate al di fuori dei suoi scavi mentali. Ciò che dicevamo lo fa ricordare necessitato così a inusuali quanto ammirate realizzazioni di tutte le forme spettacolari (rivista compresa) e, inoltre, in rapporto con le vie artistiche degli attori. Si ha 4

Non era infatti una via percorribile da altri quella che stava portando Fassbinder a bruciare nel suo cinema la fedeltà a questo maestro.

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Claudio Meldolesi

infatti qualche ragione di supporre che Visconti, pervenuto a una particolare identificazione con la Morelli e Stoppa, si proiettasse nel loro divenire di spettacolo in spettacolo. Poteva perciò dirigerli soprattutto trasmettendo il tono guida della singola interpretazione e solo contrastando le reazioni tradizionaliste. Mentre per mera supposizione si è indotti a ripensarlo regista in cerca di bellezze oscure in dialettica con quegli attori alter ego che divenivano emblemi del suo teatro. Capitò qualcosa del genere anche a Bergman, il regista europeo più in sintonia con Visconti, che però usava valorizzare di più le sintonie innescate dal lavoro di scena. E, non a caso, parliamo dei maggiori registi teatrali giunti a dominare da maestri le sempre più ardue diversificazioni del creare filmico. Certo, erano anche distanti, ma non più dei nuovi maestri riunitisi già “sotto il tetto stanislavskiano”; e appunto Stanislavskij nella nostra visione incarna l’ascendente di questa vicenda. Visconti avviò d’intuito in Italia la prima devozione per lui; così nel ’52 riprodusse, con la documentazione disponibile, la storica messinscena stanislavskiana di Tre sorelle, non senza verifiche dei ritorni preconsci realizzati al Teatro d’Arte sul dettato di Cechov, come poi incoraggiò la traduzione di Guerrieri del Lavoro dell’attore, apparsa nel 1956 per Laterza, e pervenne finanche a corrispondenti viraggi prospettando l’ultima serie dei suoi allestimenti di drammi statunitensi. Così, dopo la scoperta costiana di Copeau, tutto ciò fu decisivo per la nostra apertura alla regia storica – fermo restando che per chi scrive è stata maieutica l’informazione avuta da Alessandro d’Amico su tali Tre sorelle. Visconti le ripropose come se pure la regia stanislavskiana fosse testo, rivelandosi così; ed è dato imparare tanto ancora dalle sue spericolatezze: anche al di là del suo vissuto stesso. Si percepiscono nelle sue novità in tal senso persino antiche ombre: di fatto, egli mirava a risvegli d’immaginazione sorgiva anche in abiti contemporanei; e provvisoriamente divenne portatore di un lavoro paradigmatico per lo stesso teatro italiano in cerca di attualità.

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Fu quasi il nostro Stanislavskij

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2. Ogni vero teatro gli è debitore o quasi Quanto abbiamo accennato su Stanislavskij, quale suo maestro implicito, basta a farci capire che il nostro regista non creava da aristocratico, come affermato dalla vulgata, ma operando sul suo essere tale alle prove, secondo le particolarità dell’incontro scena-testo; e in tal senso torna in mente un’idea chiave di Barba: che in ogni recitante maturo restano attivi caratteri imprevedibili del primo incontro con la scena: per quel suo svelare rivelandosi carico di richiami percepibili come personali. Infatti è anzitutto intimo il nesso che porta a divenire altro per potersi rimanifestare al pubblico; e ciò sembra riguardarci, anche se nel nostro caso si tratta di cogliere il fenomeno nell’esperienza di un regista attore altro: giunto a conferire sostanza scenica alle più varie dinamiche relazionali nonché a parti di romanzo, per specificazione dei personaggi, come a immagini della pittura barocca. Ché Visconti pure rilanciò il Gestus della grande arte ottocentesca verso questa. Parliamo di predisposizioni che il regista poi giunse a valorizzare, essendosi in lui naturalizzate quali veicoli di pregnanti immediatezze, e che pure lo alimentavano come un retroterra capace di arricchimenti: quasi fosse anche un autore, alla Jouvet. Si direbbe che un prius interartistico quindi, in senso istituzionale, lo portasse a misurarsi con problematiche proprie alla preistoria della sua prassi; sicché quell’affidarsi a Stanislavskij appare ancor più necessario, anche se egli non lo seguì sempre: la sua regia non supponeva precorrimenti di Shakespeare e Molière come dei Riccoboni o di Lessing, laddove il fondatore aveva ritenuto questa genealogia essenziale, benché dispersa per mancanza di un “sistema”, delle sue “solide basi”; evidentemente Visconti prese da lui quanto gli necessitava come creatore, con l’aggiunta di alcuni orientamenti: ad esempio, da subito mirò a sviluppi artistici per blocchi di spettacoli, ognuno dotato di sistematicità. Ora, isoliamo dalle sintonie d’impronta artistica due fondamenti concreti e culturalmente orientativi. Dal Lavoro dell’attore si è colpiti perché anche Visconti poteva indurre gli attori a liberi proseguimenti di scavo mentale in rapporto a personaggi, magari con il solo

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Claudio Meldolesi

ausilio di corrispondenze cechoviane. Ma lo Stanislavskij della Mia vita nell’arte fa supporre Visconti in rapporto con più suoi episodi, spesso qualificati dal Circo e dall’Opera; per non dire delle smentite della realtà ai tentativi propri ad ambedue di fusione con la vita teatrale, che si direbbe fossero negati dal bisogno di raddoppiamento di cui parlavamo. Donde, però, le loro ammirate scoperte dell’infinitudine delle risorse teatrali in quanto diverse e connesse imprevedibilmente con quelle esistenziali; mentre dal divenire degli ultimi paragrafi si è portati a intravedere l’anello dei collegamenti più viscontiani, finché si legge di un contrasto tipico con chi recita e basta, col suo credersi “unico re e signore” dello spazio teatrale: Nel campo della creazione interiore dell’attore le cose stanno in maniera del tutto diversa. Qui tutto è affidato al talento, all’intuizione e nella stragrande maggioranza dei casi predomina il cieco dilettantismo. Le leggi della creazione dell’attore non sono state studiate e molti considerano questo studio superfluo e persino dannoso5.

A partire da spartiacque indiscutibili come questi, si direbbe che il maestro russo guidasse il nostro a scoprire la centralità dell’azione fondata anche dall’interno. Mentre il secondo era favorito nel reagire dall’aver conosciuto in Francia una concorde effervescenza spettacolare, seppure da giovane cineasta. Ma fino al termine è per noi orientativa la lettura della Mia vita nell’arte: Quanto più grande è il talento [nell’attore] tanto maggiori sono l’elaborazione e la tecnica che esso esige [...]. Mi si spieghi perché il violinista deve ogni giorno per ore fare esercizi6.

Visconti infatti si pensava anche violinista, per necessità, laddove per nascita uno stradivari era per lui, in tal senso, Memo Benassi: che trattò a volte da dilapidatore della formazione avuta dalla Duse, pur potendo farsi in scena sublime. Sicché, al di qua del suo tono aggressivo, si direbbe che tale giudizio lo rivelasse in diretto rap5 6

K. S. Stanislavskij, La mia vita nell’arte, Einaudi, Torino 1963, pp. 488-99. Ibid. Se ne veda l’intero paragrafo da cui è tratta la citazione: I risultati e il futuro.

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Fu quasi il nostro Stanislavskij

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porto con la soggettività attorale, come appunto il maestro russo. Tanto che quella insofferenza non ci risulta storicamente qualificabile come “demiurgica”. Spesso appare così, ma al fondo tale apparenza fu motivata da un energico bisogno rigenerativo, che oggi fa persino vedere in Visconti un promotore indiretto di istanze del Nuovo teatro. Parere questo che può sorprendere, perché i nostri gruppi non lo hanno contemplato fra i maestri, per la dissolvenza incrociata che si determinò fra il suo abbandono delle scene recitate nel ’73 e la decisiva decantazione del nostro teatro di ricerca. Proviamo allora a schematizzare, con quelli già emersi, anche altri fattori interattivi: tanto che ad essi soprattutto Ronconi avrebbe dato diretto sviluppo. 1. Da artista motivato a una più rigorosa e consapevole realizzazione della regia italiana, Visconti si rifece a Stanislavskij tornando alle sue dinamiche duplicatrici delle azioni e promuovendo la conoscenza del suo metodo psico-fisico. Nel concreto, tutto fa supporre che guardasse al Teatro d’Arte di Mosca come a un esempio assoluto per tante organiche aperture al vero dall’intimo. 2. La sua stessa passione per la varietà delle scritture avvalora l’importanza da lui attribuita all’energia generatrice di Stanislavskij, che intanto Guerrieri gli andava rivelando capace di esiti sempre nuovi. 3. Rimase esterno alla prospettiva dei teatri stabili per il prevalere in essi dei rischi di una razionalizzazione estranea alla cultura scenica, la quale invece lo portò a scoprire – in assenza di notizie sui precedenti della regia storica – che certi attori originali della tradizione erano aperti alla novità registica. 4. Per primo conferì al visivo una presenza non subalterna al testo e in disequilibrio attivo con lo sviluppo scenico, per cui coinvolse nelle sue imprese pittori diversamente lontani dal suo sentire, come Dalí e Morandi, ma oscuramente per lui provocatori. 5. Laddove da artista di vocazione romanzesca usava coniugare ogni dettaglio, mentre le climax drammatiche stesse erano da lui tenute aperte. 6. Già considerava la memoria policentrica e, quindi, regolatrice delle circolarità dello sviluppo spettacolare in scena e nella sala.

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Claudio Meldolesi

7. Parliamo di un teatro come lo stanislavskiano, che restò animato nel tempo dagli stessi recitanti e che veniva riunito come una comunità di realizzatori di meraviglie. In tal senso era diretto come quello di Eduardo. 8. Più di Eduardo, però, Visconti ricorreva a stimoli maligni e, talvolta, a mortificazioni. 9. E intanto nutriva anche interesse per i teatri dilettanti creati dai lavoratori a Roma. 10. La politica secondo lui doveva sapersi porre in gara con l’arte, e ciò valeva anche per l’Opera e il Cinema.

3. Un interartistico creatore di quasi-avanguardia dalle tradizioni Insomma, esistevano più Luchino Visconti già a teatro, ma uniti a monte: la loro prassi scenica aveva preso a decantarsi in un giovane cineasta nonché frequentatore di tutti gli spettacoli, perché in cerca dell’opera “in-esistente”; per cui già nei suoi iniziali Parenti terribili di Cocteau (così detti dal traduttore) aveva saputo sintetizzare l’antiborghesismo del film neorealista e ricordi personali di un maledetto carcere: anche per questo aveva struccato le attrici e adottato azioni vere, un po’ filmiche e un po’ antiteatraliste; mentre poi, tentate più vie e fatto recitare anche in siciliano un testo di Arthur Miller, finì per ritirarsi dopo aver provocato il conservatorismo inglese, introiettato dallo stesso rinnovatore Pinter: col realizzare Tanto tempo fa in forme di drammaturgia registica che indussero l’autore a denunciarlo per appropriazione di un suo dramma. Ma ora, in ragione del fatto che abbiamo già riflettuto per “Ariel” sul Visconti delle prime regie e del rapporto con il metodo stanislavskiano, sembra opportuno riprendere questi nostri richiami da quegli approdi. In sintesi, il nostro regista si mise in condizioni di coniugare con istanze di Stanislavskij i propri sviluppi di bellezza e provocazione; cosa che però il suo teatro delle memorie riuscì a realizzare irregolarmente. Si direbbe infatti che per questo rimanesse irrisolto un suo progetto, pur solo intuibile: quello di affiancare ai

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grandi spettacoli rimanifestazioni di teatro immediato, di persone non altre dagli spettatori. Ma fu evidentemente il suo cinema a sussumerlo fra la fantasia di Rosalinda, il suo primo Shakespeare, il tragico di Tre sorelle e la quotidianità opposta del goldoniano Impresario delle Smirne. E una volta tanto non si trattò di uno “spreco”7 del teatro italiano, anche se si rimpiange la mancata, piena realizzazione di tale prospettiva, nell’intimo romanzesca: forse stimolata da impulsi dialettici alla novità del Living. Non a caso, in quegli esiti può cogliersi nell’imprevisto un fattore unificante. Anche in senso implicito c’è molto teatro nel cinema viscontiano; e se ciò ulteriormente rimandava alla matrice filmica del teatro dei Parenti terribili, questa analisi del rapporto fra le due arti potrebbe svilupparsi ancora di qui: alla luce del bisogno di disequilibri originari proprio al Visconti delle angosce extrastoriche e di filtrata socialità. Mentre quelli erano tali da far supporre che traesse dall’elaborazione dei corrispondenti rifiuti da romanzo una struttura orientativa in virtuale rapporto con l’operosità stanislavskiana, ancora. Ciò sembra fondativo per tornare allo studio di Visconti: creando nessi fra l’inesauribilità di particolari conflitti drammatici e, appunto, il contrasto teatro-cinema o quello fra esprit aristocratico e richiamo della socialità, nonché fra romanzo e impulso lirico; e se egli mise in campo mediazioni musicali per volgere in sviluppi formali le corrispondenti incandescenze – non dovette abbandonare l’Opera anche per questo –, si direbbe che di qui si decantasse la sua differenza da Stanislavskij: Visconti si radicò nel barocco, così, prendendo silenziosamente a esprimersi da “romanziere” o privilegiando drammi di antico e nuovo classicismo; e gli specialisti del suo vissuto, come Geraci, sanno bene che non si trattava di una differenza da poco. Per chi scrive, essa nasceva anche da un’oggettiva sfiducia nella drammaturgia contemporanea in sé, non contraddetta dalla messinscena del Seduttore di Fabbri: ma avendolo Testori incoraggiato a questo sviluppo per eccezione. Ignoriamo se fosse a lui presente la questione della crisi o fine del 7

Cfr. l’asse analitico di C. Meldolesi, Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate del teatro italiano, Bulzoni, Roma 1987.

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Claudio Meldolesi

dramma; la corrispondenza con essa di assai diffusi impulsi poco consapevoli sembra però sufficiente per indurre a considerare Visconti oggettivamente partecipe di tale problematica, date quelle sue reticenze nei confronti dei nuovi testi della drammaturgia europea, prima che per il suo antibrechtismo. Visconti operò da realizzatore di drammi per linee interne, anche se poi la vocazione di narratore lo portava a esplicitarle lungo il divenire di personaggi ed eventi: a ciò volgeva gli sviluppi del preconscio che usò anche lui innescare, agendo fra testo e fatti. E appunto da maestro in coniugazioni poteva anche sfidare ardue resistenze degli ordinari decorsi espositivi da lui solo in apparenza riproposti. Perché Visconti non usava tirarsi indietro, come d’uso, di fronte alle difficoltà dell’adeguamento scenico, fino a disorientarne la logica: ciò lo disponeva a creare per singolari evidenze, spesso in rapporto euristico con le complessità mentali e/o sociali sollecitate dagli spettacoli. Così, il “fu quasi” del nostro titolo rimanda agli esiti di questa minore organicità e a quel precoce abbandono del teatro recitato. Di fatto, Visconti non occupa il posto di Stanislavskij nella nostra storia teatrale perché solo in senso indiretto favorì la rivelazione di nuovi registi guida; ma i suoi spettacoli di riferimento in genere furono i più ricchi e tese a isolarsi dall’habitat teatrale abbandonandolo periodicamente anche per proteggere i suoi stessi trionfi. Non sarebbe altrimenti riuscito a creare la sua avanguardia dalle tradizioni. Comunque, se anche Stanislavskij si dedicò all’Opera, Visconti realizzò un diverso rapporto fra le arti dello spettacolo che andava esercitando, fino a fare di quella drammatica una continua presenza implicita nelle altre: disponendola a nutrire il cinema stesso, ma per lo più tenendola sullo sfondo, appunto, quale risorsa romanzesca. Le tipologie che Visconti più esercitò corrispondevano anzitutto a sue diverse disposizioni; non a caso, questa prima fase del suo teatro si chiuse con perfetta circolarità: come se egli avesse programmato di dare poi campo alla parte di sé già emersa con l’apprendistato cinematografico e i primi film. E che ciò rientrasse in una decantazione a lui necessaria risulta da almeno due elementi, che dal cinema era uscito come artista eccezionalmente risolto e che a tea-

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Fu quasi il nostro Stanislavskij

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tro non affrontò classici che lo avrebbero condizionato, come lo Shakespeare dei capolavori: l’Oreste alfieriano stesso fu da lui spiazzato nelle consequenzialità tragiche tramite approcci settecentisti; e anche all’Opera l’oscurità con cui si misurava dovette sgorgare dalla scena e dal suo sentire drammatico8.

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Ciò rimanda al suo rapporto con la musica in genere; mentre nel suo cinema già furono così rivelatrici Le notti bianche del 1957.

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Federica Mazzocchi*

Visconti e il teatro. Note sullo stile

La storia del teatro di prosa di Luchino Visconti nasce ufficialmente nel 1945 e si ferma al 1973, articolandosi attraverso più di quaranta spettacoli1. L’ampio arco temporale e la qualità degli allestimenti scoraggiano un’eventuale carrellata, mentre più utile, in questa sede, mi pare far emergere qualche tratto caratteristico dello stile teatrale di Visconti e della sua prassi scenica. Preferisco parlare di prassi, e non di metodo, poiché il regista, fin dalle prime interviste, prende le distanze dalla possibilità di un metodo Visconti, senz’altro per timore di semplificazioni e di banalizzazioni. Quando dichiara, già dal 1946, «rifiuto di avere un “metodo” e di parlarne»2, esprime tanto l’estraneità verso rassicuranti “ricette”, quanto la necessità che, in arte, ciascuno sia solo davanti alla difficoltà di aprire una strada al proprio talento3. Riflettendo sul suo lavoro, soprattutto nella corrispondenza privata, lo definisce

* Università di Torino. 1 Anche se si conoscono precedenti, benché sporadiche, prove come scenografo e come autore di messinscena, il 1945 è da ritenersi l’anno dell’autentico debutto di Visconti nel teatro di prosa con I parenti terribili di Cocteau. Per maggiori informazioni, mi permetto di rimandare alla mia cronologia in “Ariel”, nn. 1-3, gennaio-dicembre, 2007, in particolare alle pp. 23-5. 2 L’intervista, non firmata, compare in “Maschere: lo spettacolo in Italia e nel mondo”, Roma, 15 gennaio 1946, oggi ripubblicata, a cura di L. Borgia, in “Ariel”, nn. 1-3, 2007, pp. 228-9. 3 Diversamente da altri grandi maestri del teatro di regia, Visconti è poco attratto da una dimensione pedagogica al di fuori della propria cerchia ristretta di attori e collaboratori. Per Visconti, il teatro non si spiega e non si insegna, semplicemente si fa, si impara lavorando, guardando gli altri.

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Federica Mazzocchi

«una pratica atroce»4, intendendo quella fatica spaventosa di rimettere continuamente in discussione le proprie scoperte. All’indomani dell’uscita del film Morte a Venezia, Visconti scrive all’attrice Lilla Brignone, parafrasando Gustav Mahler: «Una battuta del mio Aschenbach dice: “Io credo che l’artista sia come un cacciatore che si muove nell’oscurità. Non sa se colpisce e che cosa colpisce”. Si potrebbe benissimo applicare a me, a tutti coloro che lavorano alla ricerca di qualcosa di valido, in Arte, di vivo, di producente in senso morale»5. Dunque, per Visconti «non esiste un criterio in assoluto», ma «ci sono i “testi” o, meglio, i pretesti da riconfermare vivissimo e attuale il teatro e la sua posizione»6. Il regista sollecita a pensare il proprio mestiere non come esercizio intellettualistico, magari anche raffinatissimo, non come esecuzione di certezze e principi sanciti a priori, ma come un fare che si trasforma e che si adatta nel rapporto con i propri oggetti e i propri scopi, e che si traduce necessariamente in gesto etico: «Io, col mio mestiere di regista, collaboro insieme al trovarobe, insieme al personale dell’attrezzeria: in maniera, si capisce, piuttosto pratica e, infine, morale»7. Questo rifiuto del metodo è, a mio avviso, l’altra faccia dell’estrema riluttanza di Visconti a parlare pubblicamente del proprio lavoro teatrale. L’accostamento che, in questo volume, Claudio Meldolesi propone tra Visconti e Stanislavskij, assolutamente stimolante e pienamente condivisibile, mi trova perplessa su un unico punto. Com’è noto, il maestro russo ha steso pagine e pagine di appunti, note di regia, esercizi per gli attori, lasciando in eredità alle generazioni successive un patrimonio straordinario di cultura teatrale. Visconti, invece, non mi pare abbia colto sino in fondo l’importanza di proteggere e far durare il suo teatro. Ne ha parlato e scritto mol4 Lettera di Visconti a Mario Ferrero, senza data, pubblicata in “L’Illustrazione italiana”, n. 10, aprile-maggio, 1983, pp. 24-5, con il titolo redazionale Pagare di se stessi. 5 Luchino Visconti, lettera manoscritta a Lilla Brignone, 8 marzo 1971, Fondo Brignone (Biblioteca-Museo dell’Attore di Genova); la sottolineatura è di Visconti. 6 Intervista in “Maschere: lo spettacolo in Italia e nel mondo”, Roma, 15 gennaio 1946. 7 Ibid.

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Visconti e il teatro

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to poco, lasciandolo esposto alle ingiurie del tempo. Eduardo De Filippo, Carmelo Bene e diversi altri hanno usato il mezzo televisivo anche per permanere nella memoria di chi c’era e per rivelarsi agli occhi di chi non c’era; allo stesso modo, per Giorgio Strehler il Piccolo Teatro è stato senz’altro «teatro d’arte per tutti», ma non è stato meno importante quale luogo in cui le sue creazioni teatrali potessero trovare un solido riparo. Al silenzio di Visconti corrisponde il silenzio del suo gruppo: Morelli, Stoppa, Valli... Solo Gerardo Guerrieri tenta una monografia dal titolo Visconti outsider, ma che rimane allo stadio di frammento e non vedrà mai la luce. Questo silenzio – di Visconti e dei “viscontiani” – è allora una fra le possibili cause per cui, dopo la sua morte, il suo teatro è stato lentamente dimenticato. Lasciamo ora tale questione e torniamo indietro, tentando di far emergere non, dunque, un metodo, quanto qualcuna di quelle costanti compositive e di quelle specificità di lavoro che ne hanno caratterizzato la scena teatrale. Visconti è celebre per l’azione di rinnovamento che ha imposto sui palcoscenici del dopoguerra: nella scelta dei testi, nella routine teatrale, pretendendo disciplina e tempi lunghi per le prove, nel modo di dirigere, trasformare e “reinventare” gli attori, nella creazione di potenti immagini scenografiche. Tuttavia, la qualità che non invecchia, che non si “normalizza” e che non viene superata dai progressi della scena teatrale contemporanea è il modo che aveva Visconti di progettare gli allestimenti secondo quello che potremmo chiamare un principio di molteplicità, sicché i suoi spettacoli, appaiono macchine estremamente complesse, ricche di piste, di sentieri interni, di significati plurimi e di stratificazioni. La vicenda che si snoda in scena ha un suo preciso percorso, ma entra in rapporto con una cascata di immagini, associazioni e riferimenti che continuamente la arricchiscono e la dilatano8. È con una pluralità consapevolmente costruita dal regista: «Fin dalla prima lettura – dichiara Visconti – il regista de8 Suzanne Liandrat-Guiges, nel suo pregevole saggio Il tramonto e l’aurora. Sul cinema di Luchino Visconti, Schena, Bari 2002, ha esplorato nel cinema questo modo di lavorare del regista. Si veda anche l’intervento di Marco Pistoia nel presente volume.

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Federica Mazzocchi

ve avere in sé tutte le reazioni del personaggio e del pubblico: deve sentire lo spettacolo come una cuoca e come un granduca, deve essere insieme straccione e piccolo-borghese, con varie “coscienze”, quindi»9. Italo Calvino apre l’ultima delle sue Lezioni americane, dedicata appunto alla molteplicità, sotto il segno di Gadda e del suo Pasticciaccio, opera che rivela il «romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo»10. Questa «rete che lega ogni cosa è anche il tema di Proust»11, grande autore di riferimento per Visconti, che a sua volta è regista dalla cultura enciclopedica, estesa in diverse direzioni, dall’arte alla musica alla letteratura. Il rapporto Gadda-Visconti – anzi, il mancato rapporto tra i due – è stato messo a fuoco da Claudio Meldolesi, che indica proprio in questo appuntamento non realizzato una delle occasioni sprecate del teatro italiano, per parafrasare il titolo di un suo celebre libro. Che cosa condividevano? Un’idea di creazione che Meldolesi definisce scrittura da palinsesto12, nel senso etimologico che rimanda al gesto di raschiare la cartapecora per ricoprirla di una nuova scrittura. Una scrittura, dunque, «sovrapposta ad altra sullo stesso foglio»13, in un gioco seducente di intermittenze, di apparizioni e sparizioni, un’idea di rappresentazione come complessità, come trama di rimandi dove, direbbe ancora Calvino, «la presenza simultanea degli elementi più eterogenei» concorre «a determinare ogni evento»14. Questi sotto-testi che si trasformano in immagini e in azioni sceniche, questi “correlativi visivi”, come li chiama Gerardo Guerrieri15, 9

Intervista in “Maschere: lo spettacolo in Italia e nel mondo”, Roma, 15 gennaio 1946. 10 I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano 1993, p. 116. 11 Ivi, pp. 115-6. 12 C. Meldolesi, Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate del teatro italiano, Bulzoni, Roma 1987, p. 187. 13 Ivi, p. 183. 14 Cfr. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 116. 15 G. Guerrieri, Visconti e Gassman a confronto, in Id., Il teatro di Visconti. Scritti di Gerardo Guerrieri, a cura di S. Geraci, Officina Edizioni, Roma 2006, p. 80.

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spesso sorprendenti e apparentemente non logici, si originano sempre dal testo, perché – come Strehler, come Castri, come Nekrosius – la creatività di Visconti si accende sempre nell’incontro con la pagina, in cui entra tutta la sua sterminata cultura. È una scrittura seconda, realizzata con lo strumento della regia, che interviene raramente a sforbiciare il testo, il quale scorre per tutta la sua estensione, ma che, sfruttando i vuoti del testo, lo fa reagire mettendolo in rapporto con altri contenuti, altre possibilità. La locandiera è l’esempio forse più celebre di questo modo di lavorare di Visconti, un esempio che costituisce uno spartiacque nella storia delle messinscene goldoniane (ancora oggi Castri e Ronconi hanno tenuto presente questa Locandiera di cinquant’anni fa16) e che ha orientato gli studi critici sul commediografo17. Lo spettacolo è una presa di distanza radicale dalla tradizione goldoniana: nell’immagine scenografica che mette in rapporto gli interni settecenteschi di Longhi con il Novecento delle nature morte di Morandi, nel rallentare un ritmo che perde quell’andamento a minuetto considerato necessario per recitare Goldoni, nel restituire ai personaggi realismo, come ha ben visto Roland Barthes18, psicologie complesse e chiaroscurate che si traducono in precise azioni fisiche, nell’immettere nella partitura degli attori sollecitazioni raccolte altrove, sicché in controluce si intuiscono le silhouettes di Manon e Des 16

Quando, nella seconda metà degli anni Novanta, Castri mette in scena La trilogia della villeggiatura, si ispira all’esempio viscontiano e strehleriano per il rilancio di ciò che egli chiama «il grande realismo della scrittura goldoniana» (Massimo Castri intervistato da Sergio Ragni, in La trilogia della villeggiatura, programma dello spettacolo, Teatro Stabile dell’Umbria e Teatro Metastasio di Prato, Perugia 1996). Nel 2002, Luca Ronconi dichiara: «Io credo che il Goldoni fondamentale non sia stato tanto l’Arlecchino di Strehler quanto piuttosto La locandiera messa in scena da Visconti. Probabilmente fu quello il più eclatante degli esempi di messa in scena goldoniani [...]. C’era una forza di immagine visiva per quell’epoca sconcertante, tant’è vero che lo spettacolo non ebbe un successo immediato. Fu uno spettacolo La locandiera che piano piano guadagnò in considerazione». Intervista a Luca Ronconi, in G. Tabanelli, Il teatro in televisione. Regia e registi: dalle prime trasmissioni in diretta all’alta definizione, RAI-ERI, Roma 2002, p. 267. 17 Cfr. R. Alonge, “La locandiera” 1952, il regista sale in cattedra, in “Ariel”, nn. 1-3, 2007, pp. 311-8. 18 R. Barthes, La locandiera, in Id., Sul teatro, Meltemi, Roma 2002, pp. 185-7.

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Grieux, si riconoscono gesti di Violetta e Alfredo della Traviata, nel lavoro dell’attrice entrano frammenti da Le relazioni pericolose... La locandiera diviene, dunque, uno spettacolo pieno di risonanze con un finale che non cessa, ancora oggi, di stupire. In luogo di una chiusa sorridente che compone i conflitti, la Mirandolina di Visconti allontana gli ospiti dalla locanda e caccia anche il novello sposo dalla sua stanza-stireria: vuole rimanere sola, fra i bianchi abbaglianti delle tovaglie e delle lenzuola. Rimane sola e riprende il lavoro. Enigmatica e lontana, anche Mirandolina non sfugge al destino dei personaggi femminili viscontiani, in urto con il maschile e condannate alla solitudine. A tutta prima sembrerebbe una forzatura e l’eroina del teatro comico parrebbe in cattiva compagnia accanto alle Blanche Dubois o alle Livie Serpieri. Ma è stato un grande studioso di Goldoni come Mario Baratto a segnalare, dal punto di vista drammaturgico, la solitudine di Mirandolina, poiché la sua superiorità intellettuale è tale da innalzarla, ma insieme, appunto, isolarla19. Una Locandiera, dunque, fedelissima al dettato goldoniano e insieme tutta dentro la poetica viscontiana e la sua galleria di ritratti femminili. Mirandolina è Rina Morelli, attrice che reca in sé tutta la storia del teatro di Visconti, poiché gli è accanto sin dal debutto nel 1945, e sempre in ruoli di protagonista. «Mi ricordo Rina Morelli che era un’ammirevole anche se discutibile Mirandolina», dice Luca Ronconi20. Perché discutibile? Morelli è il suggello definitivo a uno spettacolo già di per sé ricchissimo ed è una scelta apparentemente molto rischiosa, perché lontana anni luce dalle Mirandoline avvenenti che la tradizione ci ha consegnato e che un certo teatro del dopoguerra ha ribadito. L’attrice, infatti, non possedeva quelle immediate attrattive di fascino fisico considerate necessarie per recitare il personaggio, in particolare negli anni Cinquanta. Era piccola, magra, e soprattutto aveva quasi quarantacinque anni. Anche la Duse aveva recitato La locandiera, tuttavia la sua Mirandolina non 19

Cfr. M. Baratto, Nota sulla “Locandiera”, in Id., La letteratura teatrale del Settecento in Italia (Studi e letture su Carlo Goldoni), Neri Pozza, Vicenza 1985, p. 133. 20 Intervista a Luca Ronconi, in Tabanelli, Il teatro in televisione, cit., p. 267.

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usciva da solchi già noti, perché tutta risolta in quel «brio, brio, brio» che la grande attrice raccomandava ai suoi attori in una famosa lettera. Eppure è proprio la Duse uno dei probabili modelli ideali per Visconti. Non la Duse-Mirandolina, ma la Duse-Ellida dai capelli bianchi che aveva visto giovanetto, nel 1921, insieme a sua madre nella Donna del mare di Ibsen. La sensualità che quell’attrice ormai anziana sapeva creare è uno choc per Visconti, un’impressione – come lui stesso ha dichiarato – definitiva21. Probabilmente è anche grazie a questa impressione che nasce il triangolo amoroso costituito da una donna matura contesa da due giovani (qui sono Mastroianni-Ripafratta e De Lullo-Fabrizio) che troviamo anche in altri spettacoli decisivi di questo periodo, come ha scritto Siro Ferrone22. L’accenno alla Donna del mare di Ibsen mi permette di segnalare un’altra peculiarità della regia viscontiana, sempre nell’ottica della molteplicità e della trama di rimandi che fonda il suo lavoro. Come è noto, Strehler amava dirigere più e più volte gli stessi testi. Era il suo modo per continuare a sondarli e insieme creare una comunicazione con gli spettatori basata sulla ricorrenza di opere chiave. Visconti, invece, non riallestisce mai23, piuttosto ritorna insistentemente su alcune immagini che sposta, ricolloca, rielabora (lo nota, in ambito cinematografico, anche la Liandrat-Guiges). Sarebbe interessante compilare delle “concordanze” viscontiane, non sulla base di parole ricorrenti, ma sulla base appunto di immagini, che trasmigrano dal teatro al cinema, all’opera, al balletto. Pensiamo, per esempio, al gesto di Nadia in Rocco e i suoi fratelli che apre le braccia a Simone, il suo assassino, gesto che ricorda la crocifissione e per tale motivo inizialmente oggetto di censura. La forza di questo ge21

Cfr. Luchino Visconti intervistato da Giovanni Calendoli, in “Il Giorno”, 3 ottobre 1958, cito da M. Schino, Il teatro di Eleonora Duse, il Mulino, Bologna 1992, p. 383. Sulla sensualità della Duse, si vedano le note della Schino (ivi, pp. 384-5). 22 Cfr. S. Ferrone, “La locandiera” di Goldoni secondo Visconti, in Carlo Goldoni. 1793-1993, Atti del convegno del bicentenario, Venezia, 11-13 aprile 1994, a cura di C. Alberti e G. Pizzamiglio, Regione del Veneto, Venezia 1995, pp. 357-67. 23 La locandiera parigina del 1956 non costituisce un’eccezione, poiché è di fatto una ripresa pressoché inalterata dello spettacolo del 1952.

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Federica Mazzocchi

sto era stata, per così dire, già testata da Visconti nel secondo atto della sua grande Traviata scaligera del 1955, quando agli insulti di Alfredo, Violetta-Callas replicava aprendo le braccia, come per offrirsi in sacrificio24. Il gesto ritorna poi nel balletto Maratona di danza del 1957. Le braccia spalancate sono quelle di Jean, povero danzatore costretto dal bisogno a partecipare a una massacrante gara di ballo25. Il tema viscontiano del denaro e del corpo sfruttato, prostituito, lega i tre personaggi: «Come una macabra marionetta irrigidita, il campione è lì, immobilizzato», recita il libretto scritto dal regista, finché, «come se improvvisamente le sue membra si sciogliessero, crolla a terra, liquefatto, disintegrato. E la coppa d’argento rotola lontano da lui»26. Oltre a queste persistenze figurali che passano di personaggio in personaggio – come le immagini folgoranti dei grandi attori ottocenteschi27 – anche i testi, annunciati e poi non realizzati, non vengono certo accantonati da Visconti, che di fatto li mette in scena incastonandone frammenti entro altre regie (anche al cinema Visconti procede nello stesso modo: «I soggetti non portati a termine – scrive la Liandrat-Guiges – non sono mai totalmente assenti dalle realizzazioni concrete»28). I testi teatrali, non realizzati ma che si “intravedono” in altri spettacoli, fanno sì che si instauri un tempo multiplo, in cui il presente, cioè lo spettacolo, è anche passato che ritorna, cioè quell’antico spettacolo da farsi e poi non fatto, che si percepisce come una pulsazione segreta. Il nome di Ibsen si segnala fin dal 1946, quando Visconti annuncia L’anitra selvatica, con la Morelli nel ruolo della bambina suicida. Poi il progetto cade, forse anche per banali esigenze di cartellone, perché Ibsen, in quegli anni, è messo in scena già da Costa, da Streh24 Si veda la foto di scena in Viscontiana. Luchino Visconti e il melodramma verdiano, Catalogo della mostra, Parma, Palazzo Pigorini, 24 novembre 2001-13 gennaio 2002, a cura di C. d’Amico de Carvalho, Mazzotta, Milano 2001, p. 72. 25 Si veda la foto di scena in Luchino Visconti. Il mio teatro, a cura di C. d’Amico de Carvalho, R. Renzi, Cappelli, Bologna 1979, vol. II, p. 165. 26 L. Visconti, Maratona di danza, copione, p. 18 (Fondo Visconti, Istituto Gramsci di Roma, BL2-000607). 27 L’idea è di Guerrieri, Visconti e Gassman a confronto, cit., p. 80. 28 Liandrat-Guiges, Il tramonto e l’aurora, cit., p. 30.

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ler e da Squarzina. Quasi trent’anni dopo, Aldo Trionfo propone a Visconti un Ibsen (forse Casa di bambola) per lo Stabile di Torino da dirigersi nel novembre del 197329, ma, a causa delle cattive condizioni di salute del regista, Ibsen finirà per non fare mai parte ufficialmente della sua teatrografia. Come potesse essere un Ibsen viscontiano è difficile dirlo, se non emergono ulteriori documenti. Tuttavia, La donna del mare recitata dalla Duse ci può offrire una possibile pista a partire da quell’indelebile impressione di intensità e di violenza che lo aveva turbato da fanciullo: «Quando ascoltai Eleonora Duse – dichiara Visconti nel 1958, anno in cui dirige lo spettacolo celebrativo Immagini e tempi di Eleonora Duse – compresi per la prima volta come tra tutti noi che eravamo in platea e la scena potesse anche non esistere un diaframma. Provavo l’impressione, assurda e reale, di ascoltare, non visto, dietro una porta, di essere capitato in casa d’altri e di scoprire improvvisamente i terribili segreti quotidiani di una famiglia sconosciuta»30. È in un certo senso l’impressione intensa e violenta degli spettatori dei Parenti terribili, diretti da Visconti nel 1945, nel ricordo di Giorgio De Lullo: «Dopo cinque minuti ti dimenticavi di stare a teatro o stavi a teatro per essere strangolato da quello che vedevi»31. Probabilmente un Ibsen viscontiano avrebbe guardato in questa direzione. In ogni caso, gli echi e i rimandi ibseniani nel lavoro di Visconti si intrecciano intorno a luoghi chiave (la soffitta come spazio di morte o di regressione) e a motivi ossessivi, soprattutto quello della morte dei fanciulli, stritolati dall’indifferenza o dalla malvagità degli adulti, che ritorna instancabilmente nei due autori32. 29

Lo attesta la lettera dattiloscritta di Nuccio Messina a Visconti, datata 9 agosto 1973 (prot. n. 19/232). Fondo Visconti, Istituto Gramsci di Roma (CR – 014798). 30 Luchino Visconti intervistato da Giovanni Calendoli, in “Il Giorno”, 3 ottobre 1958, cito da Schino, Il teatro di Eleonora Duse, cit., p. 383. 31 Giorgio De Lullo citato in G. Guerrieri, Luchino Visconti: l’esordio teatrale, in Id., Il teatro di Visconti, cit., p. 27. 32 Il tema (che è anche dostoevskiano, come ricorda Guerrieri: «Peccato che non abbia fatto I demoni di Dostoevskij, ne parlava sempre [...]. Mimava il gesto della bambina che si impicca», in G. Guerrieri, Luchino o la mossa del cavallo, in Id., Il teatro di Visconti, cit., p. 54) è evidente almeno in Appunti su un fatto di cronaca (1951), Marcia

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Federica Mazzocchi

Questi segreti lampeggiamenti permettono di leggere i suoi spettacoli «secondo tagli estremamente mobili»33, scrive la LiandratGuiges, e di creare un continuo gioco di piani fra immagini passate e future, oggettive e virtuali, visibili e nascoste. È ancora il caso di Pirandello, autore che per altro Visconti non amava molto. Nel 1964 dichiara: «La cosa che maggiormente posso desiderare di realizzare in un prossimo futuro è una regia dei Sei personaggi in cerca d’autore, l’opera più bella di Pirandello. Ma la farei soltanto con Annie Girardot e ci vorrà quindi del tempo»34. L’attrice lavora diverse volte con Visconti a teatro e al cinema35, ma il suo ruolo più celebre è senz’altro quello già citato della prostituta Nadia in Rocco e i suoi fratelli. Il film è del 1960 e in questi anni la possibilità di un Pirandello viscontiano sembra prendere corpo, ma in seguito cade. E qui cogliamo il tipico gesto viscontiano: enuclea dai Sei personaggi ciò che gli interessa, cioè la figura della creatura caduta, del corpo comprato e venduto. Il misero scantinato in cui vivono i fratelli Parondi risuona delle risate della donna, che vi entra per la prima volta come un turbine d’aria: strana, ambigua, discinta, Nadia è il fulcro delle sbalordite occhiate incrociate dei giovani, così come la figliastra riempiva il nudo palcoscenico con le sue risate. Ugualmente, un gioco di ombre dietro la porta a vetri introduce nel salotto di Morini, con il divano – quasi una “greppina” di Madama Pace –, dove intuiamo si consumi lo scambio omosessuale tra il manager e Simone, ex promessa della boxe finito a prostituirsi. Non si tratta di citazioni letterali, non si tratta di immissioni “meccaniche”, ma di sottotesti, intuiti eppure sfuggenti, in una perenne dialettica nuziale (1952), Medea (1953), Il trovatore (1964), L’innocente (1976), così come in Ibsen ne troviamo numerose variazioni, dal bambino-libro dato alle fiamme in Hedda Gabler, allo strano incidente-suicidio del piccolo Eyolf nel dramma omonimo, alla misteriosa fine dei gemelli nel Costruttore Solness. 33 Liandrat-Guiges, Il tramonto e l’aurora, cit., pp. 32-3. 34 Luchino Visconti intervistato da Sylvie Marion, in “Le Nouvel Observateur”, 24 dicembre 1964, citato in Leggere Visconti, a cura di G. Callegari e N. Lodato, Amministrazione Provinciale di Pavia, Pavia 1976, p. 103. 35 A teatro, la Girardot interpreta Deux sur la balançoire di Gibson (1958), Après la chute di Miller (1965); al cinema, oltre a Rocco, La strega bruciata viva (1967).

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Visconti e il teatro

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fra superficie e profondità. Queste intermittenze, pronte a scomparire e a permanere nella memoria a livello subliminale, sono un’altra forma di quella provocazione dello spettatore per cui Visconti era famoso.

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Indice dei nomi

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Achard M., 4. Adorno Th. W., 28 e n, 126 e n. Agosti G., 197n. Aldo G. R., 21n. Alianello C., 18n, 203, 243. Alberti C., 277. Alonge R., 259, 275n. André C., 33. André G., 33. Anouilh J., 4. Antoine A., 70n. Antona Traversi G., 5. Antonioni M., 4n, 6-7, 37, 71n, 82n, 89n. Appia A., 106. Arasse D., 15 e n. Arcidiacono A., 170. Arden A., 98. Aristarco G., 48n, 243, 248n, 249n. Asari K., 105. Badalucco N., 82 e n. Badiou A., 120n. Baratto M., 276 e n. Barattolo G., 89n. Barba E., 263. Barbina A., 260. Barthes R., 275 e n.

Bassani G., 22, 203, 239 e n, 240 e n, 241 e n, 242, 243, 244 e n, 245 e n, 246-7, 248n, 249-51, 252 e n, 254-5. Baudelaire Ch., 188. Bazin A., 16 e n, 77n. Béart E., 218. Beaumarchais P.-A. C., 5. Bellini V., 130n, 169n. Benassi M., 264. Bencivenni A., 22n, 130n. Bene C., 273. Benjamin W., 28, 189-90. Berg A., 45. Berger H., 31. Bergman I., 262. Bergotte (Anatole France), 229. Bernardi S., 35n. Bertetto P., 254n. Bianchi G., 223n. Bianconi L., 94n. Blasetti A., 32, 240n. Bogarde D., 117. Boito A., 72, 74 e n, 75, 81, 84, 87. Boito C., 15, 17, 21, 193 e n, 194 e n, 195n, 197n, 201n, 202n, 203 e n, 205, 207, 208n, 210-2, 213n, 240 e n, 241-6. Böll H., 216n.

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286 Bondy L., 107. Bongiovanni Bertini M., 214n. Bontempelli M., 218n. Borges J. L., 217n. Borgia L., 271n. Botticelli A., 64, 217. Boulez P., 96. Bourget P., 184-85. Bowles P., 203 e n, 243. Brahms J., 127. Brando M., 209. Bray B., 218n. Brignone L., 272 e n. Britten B. E., 104. Brook P., 101-2, 108, 110-1, 216. Brown P., 97. Bruckner A., 20, 129, 133, 134 e n, 135-46. Büchner G., 45 e n. Burini S., 42n. Busi A., 79n. Cain J. M., 213 e n, 240, 247 e n. Calabretto R., 127n, 133n. Calamai C., 9, 89n, 249. Caldwell E., 5. Calendoli G., 27n, 277n, 279n. Callas M., 19, 26, 278. Callegari G., 21n, 25n, 76n, 231n, 280n. Calò R., 5. Calvino I., 274 e n. Camerini M., 127. Cammarano S., 98. Camus A., 76, 213n. Canaletto, 120. Cano C., 133n. Capo G., 5. Capuana L., 79n.

Indice dei nomi

Carancini G., 48n, 71n. Caravaggio, 106. Caretti L., 69n, 79n. Carluccio G., 239n. Carpitella D., 171. Carrière J.-C., 216. Carsen R., 103-4. Casetti F., 178 e n. Casoli A., 204n. Castellani R., 127 e n. Castri M., 275 e n. Cavallaro G. B., 17n, 21n, 23n, 194n, 203n, 205n, 208n, 209n, 210n, 243n. Cazotte J., 39. Cecchi A., 117. Cecchi d’Amico S., 17n, 18 e n, 21, 39, 131n, 152n, 154n, 155n, 203, 204 e n, 218 e n, 219 e n, 222n, 226n, 228, 231n, 236n, 242-3, 251, 253n, 254n. Cecchi E., 204n. Cechov A. P., 11, 21, 262. Celano P., 171. Ceserani R., 214n, 216n. Chenal P., 247. Chéreau P., 107. Chiari M., 11. Chion M., 15 e n, 134n. Clift M., 48. Cocteau J., 4, 36, 88, 266, 271n. Colasanti V., 70. Colombani F., 218n, 219n. Comencini C., 100. Copeau J., 262. Costa A., 83n. Costa O., 260-1, 278. Costantini C., 20n. Cosulich C., 169n.

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Indice dei nomi

Craig G., 106. Cremonini G., 133n. Cristiani D., 70, 79. Dagrada E., 77n. Dalí S., 265. Dällenbach L., 13 e n. d’Amelia A., 41 e n. Damiani L., 112. d’Amico A., 262. d’Amico de Carvalho C., 6n, 8n, 19n, 93, 94 e n, 278n. d’Amico L. F., 69n. d’Amico F., 94n. Daney S., 44 e n. D’Annunzio G., 183, 191, 213 e n. Dauphin C., 70, 79. Debussy C., 103. De Federicis L., 214n, 216n. De Filippo E., 260-1, 266, 273. De Franceschi L., 131n. de Giovanni F., 41n. De Giusti L., 129n. De La Grange H., 117n. Delon A., 47-8, 62, 217. De Lullo G., 8, 277, 279 e n. de Martino E., 44, 173 e n, 174-5. De Matteis M., 6. Denis M., 70, 79. De Paolis, 19n. De Santis G., 247 e n, 248n, 249. Diderot D., 70n. Di Giammatteo F., 133n. Dillon Wanke M., 197n, 200n, 202n, 203n. D’Inzeo P., 32. D’Inzeo R., 32. Donizetti G., 11. Dorowin H., 45n.

D’Orsi A., 204n. Dostoevskij F. M., 36, 40-2, 44, 47, 213n, 279n. Dumas A., 210. Duprez G., 20n. Duse E., 264, 276, 277 e n, 279. Duvivier J., 247. Eco U., 118n. Edwards Ch., 103. Emmer L., 239. Fabbri D., 267. Farassino A., 127n. Fassbinder R. W., 261n. Fassini A., 101. Favara A., 163n, 165 e n, 166. Felsenstein W., 107. Ferrero A., 80n, 159n, 247n. Ferrero M., 272n. Ferrero W., 167, 168 e n, 178, 247n, 272n. Ferrone S., 277 e n. Fink G., 80 e n, 243n. Flaiano E., 221n. Fo D., 109. Folli A., 249n. Fondato M., 30. Ford J., 11, 47, 259. Fourier J. B. J., 170. Franck C., 15 e n. Franciolini G., 240n. Franzi G., 6. Freda R., 32. Freschi M., 116n. Frings K., 47. Fusillo M., 41n. Gadda C. E., 274.

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288 Gaglianone D., 32. Gallarati P., 101n. Garbuglia M., 11, 254. García Lorca F., 186. Gasparetto P. F., 204n. Gastel Chiarelli C., 169n. Gavazzeni G., 27n. Geertz C., 176n. Genette G., 13, 214, 215 e n. Genovese R., 171. Gentilini F., 204n. Geraci S., 24n, 267, 274n. Ghislanzoni A., 103. Giacosa G., 36. Giannini G., 29-31. Gibson W., 11, 47, 280n. Gide A., 13 e n, 14. Giraldi Cinthio G. B., 69n, 72, 74, 77, 79 e n, 84, 87-8. Girard R., 188. Girardot A., 47-8, 280 e n. Giraudoux J., 52. Girotti M., 70, 79, 208, 249. Giulini C. M., 19, 27n, 94-5, 106, 112. Goldoni C., 5, 11, 275-6. Graf H., 107. Granger F., 83 e n, 208. Grass G., 216n. Greuze J.-B., 15. Green J., 70n. Griem H., 73-4. Gründgens G., 107. Gualino R., 204 e n, 242. Guardi F., 120. Guarini A., 89n. Guccini G., 94n. Guerrieri G., 8, 262, 265, 273, 274 e n, 278n, 279n.

Indice dei nomi

Guizot M., 71n. Hawthorne N., 217n. Hayez F., 14, 22. Heine H., 210 e n. Hemingway E., 4. Ibsen H., 277-80, 280n. Irons J., 217. Janácek L., 104. Jouvet L., 79n, 263. Joyce J., 37. Kierkegaard S., 184. Kinmonth P., 104. Kirkland J., 4. Koch P., 70n. Krasker R., 21. Kravanja P., 219n. Kübler D., 98. Kubrick S., 37-8. Kupfer H., 103. Kurosawa A., 89. Lancaster B., 80, 253. Lanza Tomasi G., 250 e n, 251n, 252n. Lattuada A., 127. Laurent J., 70, 79. Lauxerois J., 28n. Lert E., 107. Lessing G. E., 263. Lévi-Strauss C., 180. Leydi R., 166 e n, 171 e n, 172 e n. Liandrat-Guigues S., 15n, 44n, 273n, 277, 278 e n, 280 e n. Lodato N., 21n, 25n, 76n, 160n, 231n, 280n.

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Indice dei nomi

Lomax A., 171. Lombardi F., 127n. Lombardo A., 75 e n. Longhi P., 275. Lord J., 172. Losey J., 218 e n, 219, 223, 226, 228. Lotman J. M., 42 e n, 44. Lotti M., 70, 79. Lupi R., 70, 79. Maffei C., 21n. Magaldi M., 157n. Magnani A., 70, 79, 88. Magny C.-E., 13. Magris C., 45n. Mahler G., 115-8, 119 e n, 121-6, 194, 272. Mallory J., 5. Maltagliati E., 70, 79. Mancini R., 37n. Mangione C., 197n. Mann Th., 41n, 43, 49, 115 e n, 116, 117 e n, 118 e n, 119, 123 e n, 124, 183, 189, 213n, 261. Mannino F., 19n, 124-5, 168n, 261. Mannoia F., 30. Mantovani S., 166n. Marais J., 47. Maraldi A., 69n. Mariani M., 211. Marion S., 21n, 280n. Marlowe C., 75n. Martinotti S., 140n. Martone M., 103. Mastroianni C., 218. Mastroianni M., 277. Matarazzo R., 33, 127. Maupassant G. de, 47, 213n. Mazzarella M., 218.

Meandri I., 171. Medioli E., 11. Melchiori G., 72n. Meldolesi C., 267n, 272, 274 e n. Melville H., 217n. Mengelberg W., 123. Meoni M. L., 79n. Messina N., 279n. Metz C., 13 e n. Micciché L., 10n, 36n, 118n, 119n, 121n, 124n, 125n, 147n, 161n, 164 e n, 167 e n, 178n, 203n, 208n, 213n, 247n, 253n. Miceli S., 128n, 132, 136, 147 e n. Mida Puccini M., 247n. Miller A., 11, 47, 266, 280n. Miller J., 107. Miranda I., 89n. Molière, 263. Montale E., 250. Monteverdi C., 172. Moog H., 207. Moore G., 32. Morandi G., 265, 275. Morelli R., 30, 70, 79-80, 88, 209, 262, 273, 276, 278. Mori H., 105. Morreale E., 239n. Mozart W. A., 11, 95, 97, 102, 111. Murnau F. W., 86. Musil A., 216n. Mussorgskij M., 122. Musumeci Greco E., 29-31. Musumeci Greco R., 31. Muti O., 217. Muti R., 97. Napolitano E., 126n. Nataletti G., 167.

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290 Nekrosius E., 275. Niero A., 42n. Nietzsche F. W., 123, 183-8, 191. Nissim E., 218n. Nono L., 131n. Ojetti P., 71n. Orlando F., 250. Orsini U., 73. Osborne C., 21n. Pagnani A., 5, 9. Parigi S., 161n. Parry M., 172. Pasolini P. P., 239. Pavans J., 219n. Pellizzari L., 33. Perlasca, 19n. Pescatori N., 5. Pestelli G., 94n. Perrone Capano L., 41n. Petrassi G., 157 e n, 158. Petrobelli P., 95 e n. Petruzzi T., 218n. Picasso L., 5. Piccioni P., 131n. Piccolo L., 250. Pietrangeli A., 4 e n, 6, 69 e n, 71 e n, 72, 82n, 84 e n, 89 e n, 161, 178, 248n. Pilotto C., 5. Pinter H., 218 e n, 219 e n, 223, 224 e n, 225-9, 237n, 266. Piovene G., 4 e n, 6, 71n, 82 e n, 89n. Pirandello L., 280. Pistoia M., 273n. Pisu M., 161, 178. Pizzamiglio G., 277n.

Indice dei nomi

Pizzetti I., 157 e n, 158 e n. Pizzi P. L., 100, 104-5, 107. Pocar E., 117. Poggioli F. M., 79n. Polidori G., 11. Ponnelle J.-P., 107, 109. Portinari F., 193n, 202n. Pratolini V., 43. Pravadelli V., 89 e n, 244n, 248n, 254n. Praz M., 191. Premuda N., 160n, 173n. Prosperi G., 18n, 203, 243. Proust M., 214 e n, 216, 217n, 219, 221-2, 224, 225n, 229-31, 233n. Puccini G., 105. Quaresima L., 248n. Raboni G., 218n, 222 e n, 223, 228n. Ragni S., 275n. Reinhardt M., 107. Rennert G., 107. Renoir J., 30, 69, 247. Renzi R., 94 e n, 278n. Resnais A., 215. Restagno E., 157. Rho A., 115n. Riccoboni L., 263. Rizzardi V., 133n. Robbe-Grillet A., 215. Rolland R., 117. Roller A., 107. Romano P., 11. Ronconi L., 100, 105-7, 261, 265, 275 e n, 276 e n. Rondolino G., 19n, 26n, 70n, 79n, 87n, 203 e n, 219 e n, 220 e n, 223n, 247n, 248n.

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Indice dei nomi

Rosen L., 161 e n, 162-3. Rosi F., 10 e n. Rossellini R., 10. Rossini G., 20n, 109, 130. Rota N., 127 e n, 128 e n, 129, 132, 134n, 136, 141, 143, 145, 146 e n, 147n, 148-52, 153 e n, 154-8. Rotunno G., 21n. Rückert F., 124. Ruiz R., 217 e n, 222, 226. Samaritani P., 101. Sanjust F., 11, 106-7. Sartre J.-P., 4. Scarfiotti F., 11. Schino M., 277n, 279n. Schlingensief C., 96. Schlöndorff V., 216, 217n, 223. Schmitt C., 190. Schneider R., 47. Scisci M., 11. Scotellaro R., 44. Scotti O., 11. Serato M., 70, 79. Servadio G., 131n. Shakespeare W., 45, 70 e n, 71n, 72 e n, 74 e n, 75n, 80-1, 84, 87-8, 259, 263, 267, 269. Simmel G., 185-6. Simoni R., 5. Soldati M., 127, 239 e n, 240n, 243. Spontini G. L. P., 19. Squarzina L., 87, 88n, 279. Stanislavskij K. S., 86, 262-3, 264 e n, 265-8, 272. Stein P., 107, 261. Stéphane N., 218, 219 e n. Stevens G., 48. Stoppa P., 262, 273.

291 Strauss R., 11, 103, 261. Strehler G., 26, 107, 112, 261, 273, 275 e n, 277-8. Strindberg A., 11. Surian E., 146n. Tadié J.-Y., 217n. Takada I., 105. Tarchetti I. U., 202. Taylor E., 48. Testori G., 11, 43-4, 47-9, 259, 261, 267. Theodoli N., 243. Tiby O., 165 e n. Tinazzi G., 244n. Tintori G., 21n. Tomasi di Lampedusa G., 213n, 230, 240 e n, 247, 249-50, 253-5. Tornabuoni L., 6. Tosi P., 11. Tramonti S., 103. Trenker L., 240n. Treves G., 31. Trionfo A., 279. Trombadori A., 231n, 254n. Tsivian Y., 42 e n, 44. Turner W., 120. Valli A., 33, 80, 211-2, 273. Verdi G., 11, 19, 21n, 22, 45, 47, 72, 75n, 77, 88, 95, 98, 100-1, 133. Verga G., 9, 81, 160n, 213n, 230-1. Vergani G., 127n. Vick G., 97, 107. Villa E., 249n. Villa F., 239n. Vitez A., 107. Vitti M., 30. Vittorini E., 87n.

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292 Wagner R., 103, 116, 133, 183-7. Wagner W., 107. Welles O., 77 e n, 89 e n, 239. White H., 32. Wilde O., 197n, 261. Williams T., 36, 203 e n, 243. Wilson R., 107. Wolff-Stomersee A., 251.

Indice dei nomi

Zagarrio V., 10 e n. Zampa L., 240n. Zavattini C., 9. Zeffirelli F., 10, 21, 24, 107. Zeglio P., 32. Zemlinsky A. von, 98.

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