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Italian Pages 131 [74] Year 1995
Alessandro Bencivenni (1954), diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia, ha collaborato alle riviste «Bianco & Nero» e «Cinemasessanta» e al Dizionario universale del cinema degli Editori Riuniti. Regista di cortometraggi e sceneggiatore di numerosi film, fra gli altri ha pubblicato: Peter Greenaway. Il cinema delle idee (2000), Hayao Miyazaki. Il dio dell’anime (2005), Ricordare sognare sceneggiare. Pensiero creativo e scrittura cinetelevisiva (2009). Il Castoro Cinema n. 98 © 1999 Editrice Il Castoro srl viale Abruzzi 72 20131 Milano [email protected] www.castoro-on-line.it Edizione digitale: 2013 www.ridigito.it In copertina: Il Gattopardo ISBN 978-88-8033-714-0
Alessandro Bencivenni
Luchino Visconti
Luchino Visconti
lo, Luchino Visconti
Origini Sì, è vero, io provenivo da una famiglia ricca, ma mio padre, pur essendo un aristocratico, non era né stupido, né incolto. Amava la musica il teatro, l’arte. Noi eravamo sette fratelli, ma la famiglia è venuta su molto bene. Mio padre ci ha educati severamente, duramente, ma ci ha aiutati ad apprezzare le cose che contavano, appunto la musica, il teatro, l’arte. Io sono cresciuto tra i palcoscenici. A Milano, nella nostra casa di via Cerva, avevamo un piccolo teatro, e poi c’era la Scala. Allora la Scala era una specie di teatro privato, che veniva tenuto dai mecenati. Dapprima lo sovvenzionava mio nonno e poi mio zio. Mia madre era una borghese. Una Erba. La sua famiglia vendeva medicinali. Erano venuti dal nulla, avevano cominciato a vendere i medicinali al minuto, lungo le strade. Mia madre amava molto la vita mondana, i grandi balli, le feste sfarzose, ma amava anche i figli, amava anche lei la musica, il teatro. È lei che si occupava quotidianamente della nostra educazione. È lei che mi fece prendere lezioni di violoncello. Non siamo stati abbandonati a noi stessi, non siamo stati abituati a condurre una vita frivola e vuota, come tanti aristocratici… (in L’ultimo Visconti, a cura di Costanzo Costantini, Milano 1976, p. 38). Teatro e romanzo L’opera, quando ero ragazzo, era lo spettacolo per antonomasia. Andare all’opera era ancora come essere immersi nell’Ottocento. Per me, il sipario della Scala, tremolante prima dell’inizio dello spettacolo, il preludiare degli strumentisti, rappresentavano l’anticipazione di ogni piacere. Avevamo il palco proprio sull’orchestra: stavo li in ansia per la curiosità di sapere quello che sarebbe accaduto una volta tirata la tela. Quel piacere, devo dire, il cinema non riesce a supplirlo. Non mi piace tornare a vedere un film che ho già visto: Il trovatore l’ho invece visto e sentito tantissime volte. È quel che mi succede con i romanzi (in «La Stampa», 13 giugno 1972). È una gioia, certe volte, finir di girare e sapere di poter correre a casa a leggere un libro. Della lettura non posso fare a meno: è uno stimolo continuo. D’altronde, ogni film che ho fatto aveva alle spalle un libro. Ossessione aveva dietro di sé i romanzi americani che durante la guerra si leggevano di straforo. La terra trema era Verga, I Malavoglia. Saltiamo Bellissima, che invece nacque da un soggetto cinematografico puro e semplice. Senso era il racconto di Camillo Boito. Rocco e i suoi fratelli veniva dai racconti di Giovanni Testori, cui avevo mescolato L’idiota di Dostoevskij. Il Gattopardo era Il Gattopardo. Dietro Vaghe stelle dell’Orsa c’era l’Elettra. Lo straniero era Camus. In La caduta degli dei ho messo insieme Dostoevskij, Mann e le letture che avevo fatto sul nazismo, prima fra tutte la Storia di Shirer. Fino a Morte a Venezia, e fino al Ludwig che sto terminando, dove c’è il mondo wagneriano visto attraverso le sue componenti culturali, non sono mai riuscito a sottrarmi alla letteratura (ibidem). Cinema e teatro Ecco quella che, secondo me, è una grande differenza fra la regia teatrale e la regia cinematografica: un dramma di Čechov, una commedia di Ibsen, una tragedia di Shakespeare si presentano al regista in una forma che è compiuta, intoccabile. Bisogna darne la realizzazione spettacolare sul palcoscenico, cercando naturalmente di avere il massimo rispetto per un testo che abbiamo scelto noi stessi e che quindi, indubitabilmente, amiamo. Un testo cinematografico, prima della sua definitiva realizzazione sulla pellicola, non ha mai riscosso (almeno da parte mia) un tale rispetto
per cui mi sentissi intimidito. Molte volte una sceneggiatura è stata da me completamente capovolta: capovolta perché la realtà davanti alla quale mi trovavo girando, era assolutamente diversa da quella precedentemente concepita al tavolino (in Cinema e teatro, a cura di Giovanni Calendoli, Roma 1957, p. 349). Mi interessa soprattutto lavorare con esseri umani, cercare nel fondo di un’anima la verità che essa tenta di esprimere: quella dell’autore, quella dei personaggi, degli attori che li interpretano, del pubblico. È per questo che mi è indifferente curare una regia teatrale o cinematografica. Non dipende dalla mia scelta il passaggio da una forma di espressione all’altra. Prendo ciò che viene. Resta inteso, comunque, che il cinema è una creazione. Il teatro soltanto un’interpretazione. Vi viene fornito un testo scritto in modo definitivo. Nel cinema, invece, bisogna inventare tutto. Da questo punto di vista, è più appassionante. Ma in ogni caso, l’essenziale del lavoro consiste nelle relazioni che si stabiliscono con gli individui (in «Cinema Nuovo», n. 173, gennaio 1965). Cavalli e attori L’esperienza fatta mi ha soprattutto insegnato che il peso dell’essere umano, la sua presenza è la sola “cosa” che veramente colmi il fotogramma, che l’ambiente è da lui creato, dalla sua vivente presenza, e che dalle passioni che lo agitano questo acquista verità e rilievo; mentre anche la sua momentanea assenza dal rettangolo luminoso ricondurrà ogni cosa a un aspetto di non animata natura (Cinema antropomorfico, in «Cinema», n. 173-174, settembre-ottobre 1943). Non credo che esistano grandi differenze fra la recitazione teatrale e quella cinematografica. Ma diverso è il mezzo e diversa è la distanza dallo spettatore. Evidentemente certi elementi hanno un rilievo o non l’hanno a seconda che siano su un palcoscenico o su uno schermo. Le differenze fra la recitazione di un attore cinematografico e la recitazione di un attore teatrale dunque sono più nel testo, nella materia che si affronta con quegli attori (in Cinema e teatro cit.). Prima di far del cinema io ho avuto una scuderia. E in fondo gli attori che cosa sono? Dei purosangue. Nervosi, sensibilissimi. Che vanno blanditi o strapazzati a seconda dei momenti… (in «L’Europeo», 21 novembre 1974). Critica e pubblico Mi è capitato spesso di stupirmi per certe reazioni favorevoli e qualche volta entusiastiche di certi pubblici di fronte a opere cinematografiche palesemente scadenti. Eppure anche in questi casi, in cui sarebbe stato abbastanza facile incolpare il pubblico di insensibilità o di incultura o di pigrizia mentale, mi sono trovato a disapprovare piuttosto coloro che avevano confezionato un prodotto scadente e deprimente. Questo dimostra chiaramente che importanza io dia al pubblico, a questa entità fluida, misteriosa, composita che è la ragione prima di ogni nostro lavoro (in «Cinema», n. 85, maggio 1952). Per quanto riguarda la critica cinematografica, l’ho tenuta nel giusto conto all’inizio della carriera, soprattutto due o tre critici… Aristarco, e Barbaro, Sacchi. Alcuni, quando ho cominciato, mi hanno veramente aiutato, sostenuto, criticandomi in un senso che per me era educativo, e mi sono stati molto utili. Ultimamente no: bado molto meno alle critiche, anche perché a un certo momento ci si fa la pelle dura e ci si preoccupa meno di certe cose. Bisogna sempre essere convinti che ciò che facciamo era quanto di meglio si poteva fare, che la nostra coscienza sia perfettamente tranquilla (in «Cinema Nuovo», n. 180, marzo-aprile 1966). Realismo e decadentismo Corre voce che mettendo in scena Rosalinda (o Come vi piace) di Shakespeare, io abbia abbandonato il neorealismo… Mi perdonino coloro che hanno simpatia per questa terminologia
imprecisa: che cosa vuol dire “neorealismo”? Nel cinema questo termine è servito a definire le idee che ispirano la recente “scuola italiana”. Ha raccolto uomini, artisti che credevano che la poesia nascesse dalla realtà. Era un punto di partenza. Mi sembra che cominci a diventare una assurda etichetta che ci si è attaccata come un tatuaggio e che invece di designare un metodo, un momento, diventa una limitazione totale, una regola. Abbiamo già bisogno di sostegni? Ma i sostegni non servono ai pigri o a quelli che perdono facilmente l’equilibrio? (in «Rinascita», n. 12, dicembre 1948). Ho realizzato Le notti bianche perché sono convinto della necessità di battere una strada ben diversa da quella che il cinema italiano sta oggi percorrendo. Mi è sembrato cioè che il neorealismo italiano fosse diventato in questi ultimi tempi una formula trasformata in condanna. Con Le notti bianche ho voluto dimostrare che certi confini erano valicabili, senza per questo rinnegare niente (…) Anche attraverso la scenografia ho voluto raggiungere non un’atmosfera di irrealtà, ma una realtà ricreata, mediata, rielaborata. Ho voluto, cioè, operare un netto distacco dalla realtà documentaria, precisa, proponendomi una decisa rottura con il carattere abituale del cinema italiano di oggi (in «Cinema Nuovo», n. 114-115, settembre 1957). Io parlo più di realismo, che di neorealismo. Noi dobbiamo porci in una attitudine morale di fronte agli avvenimenti, alla vita: in un atteggiamento, insomma, che ci consenta di vedere con occhio limpido, critico, la società cosi come è oggi, e raccontare fatti che di questa società sono parte. Neorealismo fu un termine inventato allora, poiché uscivamo da quel cinema che sai, e avevamo bisogno di novità. Ma abbiamo trattato i temi che ci si consentiva di trattare da quell’angolo visuale che è stato sempre tipico di un artista realista (in «Mondo Nuovo», n. 9, febbraio 1960). Quante volte si è parlato di me come di un “decadente”. Ma io ho della “decadenza” un’opinione molto alta, come l’aveva Thomas Mann per esempio. Sono imbevuto di questo spirito: Mann era un decadente di cultura tedesca, io di formazione italiana. Quello che mi ha sempre interessato è l’analisi di una società malata (in «Avant-scène du Cinéma», n. 159, giugno 1975). Cinema della crudeltà È vero, a me interessano sempre le situazioni estreme, i momenti in cui una tensione abnorme rivela la verità degli esseri umani; amo affrontare i personaggi e la materia del racconto con durezza, con aggressività. C’era crudeltà e violenza in Ossessione più che in qualsiasi altro mio fllm; ce n’era in Senso; non ce n’era in Rocco e i suoi fratelli, perché li violenza e crudeltà erano completamente dominate dalla storia, da circostanze eccezionali. Quanto al sadismo, forse soltanto nella messinscena del Crogiuolo e in quella di Peccato che sia una sgualdrina c’era vero sadismo: crudeltà fisica, voglio dire. Altrimenti, molto più spesso nei miei film c’è crudeltà morale, sadismo morale o estetico: come in Bellissima o in Il lavoro di Boccaccio ’70. E questa è, naturalmente, la forma più violenta e crudele. Questo interesse in me è molto vivo (in «Sipario», n. 230, giugno 1965). Fede politica e religiosa Sono stato educato cattolicamente. Non sono un baciapile, no certo. Non sono cattolico nel senso osservante. Ma credo in Dio. Credo in un’entità, o in qualcosa fuori di noi o che è dentro di noi, in noi stessi. Credo in una forza misteriosa più grande dell’individuo. Ma non è da escludere che l’individuo sia altrettanto grande di quella forza. In altri termini, non ho la concezione del Dio cattolico. Credo perché se non si credesse sarebbe inutile vivere (in L’ultimo Visconti, cit., p. 34). Sin dalla Resistenza ho cominciato a legarmi con amici comunisti. Sin da allora sono stato comunista. Le mie idee al riguardo non sono mai cambiate. Anche ora sono dalla parte del partito comunista. In verità non sempre, non sempre sempre. Qualche volta posso anche discutere le posizioni del partito. Ma in generale sono dalla sua parte (ibidem, p. 37).
Malattia e morte Né la vecchiaia né la malattia hanno piegato la mia voglia di vivere e di fare. Io mi sento fresco per altri dieci film, non uno… Film, teatro, musical… Io voglio affrontare tutto, tutto. Con passione, sa. Perché bisogna sempre bruciare di passione, quando s’affronta qualcosa. E d’altronde siamo qui per questo: per bruciare finché la morte, che è l’ultimo atto della vita, non completi l’opera trasformandoci in cenere… (in «L’Europeo», n. 21, novembre 1974). Epigrafe Stendhal avrebbe voluto che si incidesse sulla sua tomba questa epigrafe: «Adorava Cimarosa, Mozart e Shakespeare». Allo stesso modo vorrei che si scrivesse sulla mia: «Adorava Shakespeare, Čechov e Verdi». Verdi e il melodramma italiano sono stati il mio primo amore. Quasi sempre la mia opera emana qualche tanfo di melodramma, sia nei fllm che nelle regie teatrali. Mi è stato rimproverato, ma per me è piuttosto un complimento (in «La Table ronde», maggio 1960).
Visconti, i film (e il teatro)
Prime esperienze: Ossessione 2 novembre 1906. Luchino Visconti nasce il giorno dei morti: prima manifestazione del suo spirito contraddittorio, come nota lui stesso in alcune pagine giovanili. Mentre viene al mondo, il sipario della Scala si alza per una ennesima “prima” della Traviata. La vita di famiglia è profondamente legata a quella del teatro milanese. I Visconti ne sono tradizionalmente i principali “palchettisti”: ossia finanziatori e organizzatori privati. La sera, quando la luce elettrica si abbassa nel loro palazzo di via Cerva, è per i Visconti il segno che hanno acceso le luci alla Scala. Quello dell’Opera è un culto in cui si fondono l’amore per l’arte, la tradizione familiare, il prestigio sociale. Il padre di Luchino, il duca Giuseppe Visconti di Modrone, discende da una aristocrazia laica, antiasburgica, tradizionalmente appassionata di melodramma. Ama esibirsi in casa come baritono dilettante, accompagnato al piano dalla moglie Carla Erba, erede di una famiglia di piccoli commercianti arricchitisi con l’industria farmaceutica. Anche lei è amante della musica e della vita mondana: è parente di Giulio Ricordi, e il suo salotto è frequentato da Puccini e da Toscanini. Luchino eredita queste passioni: frequenta fin da bambino il palco di famiglia alla Scala; si dedica, adolescente, allo studio del violoncello. Il duca, appassionato di teatro, scrive e allestisce spettacoli privati. A imitazione del padre, Luchino organizza e dirige recite con amici. Più tardi, quando il duca finanzia la Compagnia del Teatro d’Arte di Milano, Luchino si improvvisa arredatore di uno spettacolo. La famiglia ha sul giovane Luchino un influsso fondamentale. Nei suoi film ricorrerà la figura odiamata di una madre forte e possessiva, e la morte di un padre starà spesso all’origine dell’intreccio: sarebbe fin troppo facile in questo cercare gli indizi del consueto triangolo edipico. La decadenza della famiglia e la crisi del patriarcato saranno comunque i suoi temi prediletti. È evidente in ciò l’influsso di motivi autobiografici: «forse tutti i miei film» dirà «ne nascondono uno solo; il mio vero film, quello che non ho mai realizzato, è la storia dei Visconti di ieri e di oggi». La sua adolescenza è irrequieta, scappa più volte di casa e dal collegio. Cattivo studente, si rivela però un accanito lettore. L’amore per le grandi costruzioni narrative e il gusto dell’intreccio diventano la base della sua formazione culturale: li ritroveremo via via nelle ascendenze letterarie di tutti i suoi film. A vent’anni, viene arruolato nella scuola di cavalleria di Pinerolo. Assorbe la passione per i cavalli e, al suo ritorno a Milano, organizza una scuderia modello, coronata da numerose vittorie. In seguito, paragonerà la sua esperienza di allevatore di purosangue al suo lavoro con gli attori di “razza”. Ama viaggiare: è attratto specialmente dall’ambiente colto, bizzarro e cosmopolita di Parigi. Qui conosce, tra gli altri, Gide, Bernstein e Cocteau, i cui testi porterà poi sulla scena. Nel frattempo si interessa anche di cinema: compra una cinepresa e comincia a girare, a Milano, un film amatoriale: il dramma di un giovane, diviso tra l’amore per un’adolescente, una prostituta e una donna ideale. Quest’ultimo ruolo lo fa interpretare a sua cognata, Niki Arrivabene. La vita sentimentale di Visconti è segnata da conflitti drammatici: da un lato, si innamora della cognata; dall’altro, allaccia relazioni omosessuali. Nel ’35 conosce una giovane aristocratica austriaca, Irma Windisch-Gratz, detta Pupe, e sembra prossimo al matrimonio. Il fidanzamento è rotto, ma lascia una profonda impronta nella sua memoria. Molti anni dopo, tutti questi elementi (l’amore “impossibile”, la passione omosessuale, l’ipotesi sfumata di un matrimonio “normalizzatore”) torneranno, deformati poeticamente, nel Ludwig: rispecchiandosi nel dramma del re e nel suo amore idealizzato per l’imperatrice d’Austria.
La passione del cinema si è fatta intanto urgenza espressiva. Visconti scrive soggetti e contatta il produttore Gabriel Pascal per un adattamento dal racconto di Flaubert, Novembre. Nel ’36, l’amica Coco Chanel gli presenta Jean Renoir; e Visconti diventa assistente e costumista per Une partie de campagne. Il contatto con il gruppo di Renoir, tutto vicino al partito comunista francese e al Fronte Popolare, modifica le sue vedute politiche; l’esperienza cinematografica lo distoglie dagli ozi di aristocratico. Al suo rientro in Italia, disegna scene e costumi per alcuni allestimenti teatrali; nel ’38, visita gli studi di Hollywood. L’anno seguente è segnato da un trauma doloroso: la morte della madre, cui era molto legato. Lo raggiunge nel lutto l’offerta di Renoir di collaborare a un film da girarsi a Roma, La Tosca. Ma lo scoppio della guerra costringe Renoir a rimpatriare. Porta a termine il film il suo assistente Carl Koch, e Visconti lo coadiuva, stabilendosi definitivamente nella capitale. A casa di Koch, conosce Dario Puccini e Giuseppe De Santis e, tramite loro, altri intellettuali antifascisti: Barbaro, Alicata, Ingrao. Si rinnova cosi l’esperienza democratica parigina. Il gruppo fa capo alla rivista «Cinema», che, sebbene controllata dal regime, offre lo spiraglio per un velato dissenso culturale. Visconti vi fa apparire nel ’41 un articolo intitolato Cadaveri, in cui denuncia in tono grottesco la fossilizzazione del cinema italiano. Con gli amici del gruppo «Cinema» elabora numerosi progetti, tra cui una riduzione di L’amante di Gramigna di Verga, che viene bocciato dalla censura fascista. Ripiega allora su Il postino suona sempre due volte: un romanzo di Cain, propostogli in traduzione francese da Renoir. Ne scrive un libero adattamento con Alicata, Puccini e De Santis, intitolato Palude, che ottiene il visto di censura. Il novero dei collaboratori si allarga: al film collaborano, più o meno attivamente, anche Ingrao, Pietrangeli, Solaroli, Serandrei, Alberto Moravia. Il nuovo ambiente di militanti e di intellettuali segna uno stacco con le origini sociali e familiari di Visconti. Quasi a siglarlo, vengono la morte del padre e, di li a poco, quella del fratello Guido, caduto per il regime a El Alamein. Per produrre il film, Visconti è costretto a vendere i gioielli della madre: ed è un nuovo segno di rottura con il passato. Le riprese cominciano il 15 giugno del ’42 con la Magnani nel ruolo della protagonista. Ma quando l’attrice rivela di essere in stato interessante, si rende necessario sostituirla con Clara Calamai. Cambia intanto anche il titolo del film: nasce Ossessione. Un disoccupato, Gino Costa (Massimo Girotti), si ferma in un casolare lungo il Po. Qui l’anziano Bragana (Juan De Landa) gestisce uno spaccio con la giovane moglie Giovanna (Clara Calamai). La donna si innamora del vagabondo e, quando questi si rimette in viaggio, con un pretesto lo fa richiamare. Gino a sua volta fa allontanare con un trucco il Bragana e diviene l’amante di Giovanna. Il marito non sospetta di nulla e anzi offre a Gino una sistemazione. Gino non sopporta la situazione e invita Giovanna a fuggire con lui; al suo rifiuto, parte da solo per Ancona. Durante il viaggio fa amicizia con un girovago detto lo Spagnolo (Elio Marcuzzo), che gli propone di unirsi a lui. Un giorno, il Bragana arriva ad Ancona con la moglie per esibirsi in un concorso come baritono dilettante; incontra Gino e lo invita a tornare con loro. Gino e Giovanna decidono di simulare un incidente stradale per liberarsi di lui. Il piano riesce, ma insospettisce la polizia. I rapporti tra Gino e Giovanna diventano tesi dopo il delitto. I due amanti si recano a Ferrara: qui Giovanna intasca l’assicurazione sulla vita del marito. Gino, credendosi strumentalizzato per interesse, lascia Giovanna per una ballerina, Anita (Dhia Cristiani). Quando Giovanna gli rivela d’essere incinta, i due si riconciliano e tentano la fuga. Ma la loro macchina finisce fuori strada: Giovanna muore nell’incidente, e Gino è raggiunto dalla polizia.
Il riferimento alla letteratura americana possiede in quegli anni un significato di contestazione verso la cultura dominante: si pensi al “mito” americano di Pavese o di Vittorini. Tuttavia, il suo influsso resta superficiale in Ossessione. Il romanzo di Cain funge più che altro da canovaccio per Visconti e i suoi collaboratori. Pur seguendone grosso modo la struttura e i dialoghi, essi ne modificano il
senso. Trascurano il plot poliziesco e accentuano invece le notazioni naturalistiche, il cupo romanticismo e il senso del fato. Più che il romanzo nero, il punto di riferimento è il cinema francese. Visconti ha visto a Parigi il primo adattamento del romanzo: Le dernier tournant di Pierre Chenal (1939) e, soprattutto, ha portato con sé l’influenza di Renoir. Il dattiloscritto del romanzo, che Renoir gli ha passato in versione francese, assume un significato simbolico: Visconti lo legge effettivamente “in francese”. Trasferisce cioè sul greto del Po e nei panni stracciati di Gino i paesaggi sfumati e gli eroi miserabili e sconfitti cari alla corrente del “realismo poetico”. La romanza «Di Provenza il mare e il suol», che introduce il film, sembra indicarne la provenienza culturale. Ciò nulla toglie, ovviamente, alla originalité di Ossessione. Realizzato in un periodo di crisi del fascismo, segna la rottura con i due generi tipici del cinema di regime: l’irrealtà patinata dei “telefoni bianchi” e la retorica trionfalistica del film storico. La descrizione dei rapporti familiari e sociali appare inedita e scandalosa; cosi come la stessa fisionomia dei personaggi e degli ambienti, che rifuggono dai fondali lussuosi e dai sorrisi smaglianti. I collaboratori di Visconti (e qualcuno di essi ancora diffidava di questo aristocratico con l ’hobby del cinema) hanno presto la sensazione di partecipare a un film profondamente innovatore. Visionato il materiale, il montatore Mario Serandrei sente il bisogno di coniare un nuovo aggettivo per definirlo. In uno storico biglietto, scrive al regista: «Non so come potrei definire questo tipo di cinema se non con l’appellativo di “neo-realistico”». Più tardi, Pietrangeli ribadisce questa definizione descrivendo il sapore di verità che sprigiona fin dalle prime sequenze del film: «Lungo una strada nazionale, da un camion in cammino, vediamo, al di là del parabrezza, la “bassa”: la pianura ferrarese. Lentamente, il Po si riannoda alla strada attraverso la piana fertile e, sotto la luce del sole pomeridiano, si sente come unico rumore fra la campagna e il cielo, quello monotono del motore (…). Ma poi, davanti a un distributore di benzina che si leva lungo la strada come un segnale di frontiera, la lunga carrellata alla Renoir si arresta. E di colpo, con una stupenda rottura lirica, la macchina da presa si solleva a inquadrare il regale ingresso nella storia del cinema di un personaggio nuovo: un personaggio nostro, un personaggio ancora senza volto; con una maglia strappata sulla pelle bruciata dal sole, col passo indolenzito di chi si sgranchisce le gambe per aver dormito a lungo su un autotreno. Come un cane randagio, ma con il gusto dell’avventura, questo personaggio entra nella vicenda. Non ha ancora un nome. Vogliamo battezzare noi stessi il Gino di Ossessione? Chiamiamolo, se volete, il neorealismo italiano» (in «Revue du cinéma», 13 maggio 1948). Mai battesimo è stato più appropriato e, insieme, più equivoco. Se infatti si attribuisce al termine “neorealismo” il significato di una “cronaca” della realtà, l’apparizione di Gino è piuttosto la sua perfetta antitesi. Seguiamo la sua entrata in scena. Il vagabondo è dunque apparso accoccolato nel camion, il viso nascosto dal cappello. Lo vediamo, di spalle, scendere dal camion senza replicare ai camionisti e al Bragana, che lo hanno sorpreso. Quindi, un movimento di gru veramente “regale” scopre al di là del camion un luminoso spiazzo ai margini della strada e mostra lo sconosciuto che si dirige verso lo spaccio. Partendo dall’insegna della trattoria, una nuova gru inquadra la porta del casolare e l’entrata dello sconosciuto. All’interno, alcuni avventori; qualcuno strimpella al piano l’“Andante” della Traviata. La macchina da presa segue i passi del vagabondo, assai malmesso e senza neppure le calze ai piedi, che avanza verso il bancone. Dietro una tenda socchiusa, si intravede dondolare pigramente una gamba femminile. Lo sconosciuto, sempre di spalle, entra in campo e si rivolge alla donna. Vediamo il viso di lei che si solleva a guardarlo, intensamente. Solo allora, in controcampo, un veloce carrello si avvicina al volto dell’uomo. La sua apparizione ha forse un sapore di realtà per quel viso abbronzato e quegli abiti malmessi, cari agli esegeti neorealisti; ma soprattutto, ritardata com’è fino all’ultimo dal regista, acquista l’alone misterioso e romantico del mito. Del protagonista, non conosciamo ancora né il nome, Gino, né il cognome, Costa (che apprenderemo solo all’ultima inquadratura del film). Ne ignoriamo dunque l’identità, la
destinazione, il passato. Ma, in un semplice campo-controcampo, è detta la fatalità del suo incontro con Giovanna. Comincia cosi una storia di delitto e di passione, torbida, sensuale, esasperata. In che senso può considerarsi “neorealistica”? L’equivoco, se c’è, nasce dal considerare come qualcosa di omogeneo la cosiddetta “scuola” del neorealismo. Vi confluiscono invece interessi, poetiche, tradizioni culturali e ideologiche le più disparate: è improponibile qualsiasi semplificazione. L’eterogeneo gruppo dei collaboratori di Ossessione (cineasti, letterati, dirigenti della lotta antifascista, aggregati soprattutto in nome di una nuova posizione morale nei confronti della realtà) ne rispecchia tutte le contraddizioni: e, in questo senso, l’enigmatico Gino ne risulta il simbolo appropriato. Le divergenze di gusto tra Visconti e gli altri cineasti del gruppo già si manifestano con quest’esordio. Alicata rimane perplesso per ciò che di «sfatto» e di «sovraccarico» trova nella realizzazione di Visconti. Si raccomanda «che tagli assolutamente il finale sulla strada, col corpo di lei sfigurato». Vale a dire, una delle scene più belle del film, ma certo più vicina al finale della Manon che non ai valori positivi della «verità italiana», quale poteva concepirla il direttore clandestino di «l’Unità». Ossessione resta tuttavia un film “politico”. Nelle intenzioni degli autori, Gino doveva essere il simbolo stesso della libertà. E ancora oggi, nonostante i sottintesi dovuti al controllo del regime, il film trasmette un senso d’aspettazione di tempi nuovi. In esso coesistono, in modo forse ingenuo ma indubbiamente sincero, istanze materialistiche e aspettative romantiche; l’attesa del nuovo e la critica del vecchio ordine. Attraverso la descrizione realistica della vita di provincia, emerge il ritratto di quello squallido modello di esistenza piccolo-borghese rappresentato dal fascismo. Nel film non si allude mai al regime; né alcun indizio ci informa che la guerra è in atto. Tuttavia, una serie di meschini personaggi minori (il prete, il controllore, i funzionari di polizia, l’ometto che a Ferrara informa Gino dell’indirizzo delle prostitute) rispecchiano una mentalità che è, in senso lato, fascismo. Lo stesso Bragana ne è un simbolo: non di autorità, ma di mediocrità. È quel che si dice un “brav’uomo”: il suo atteggiamento verso Gino è improntato a cordialità e simpatia. Ma ciò nulla toglie a quei tratti ripugnanti che “giustificano” la sua uccisione: l’egoismo, il paternalismo, il maschilismo, il razzismo. Cioè le caratteristiche tipiche dell’uomo medio, che sono state il fondamento e l’eredità del ventennio. Poiché non attacca direttamente il regime, il film è tollerato dalle gerarchie. Ma provoca significativamente il risentimento dell’«Italietta». Mussolini in persona ne autorizza la distribuzione; eppure i prefetti e i vescovi, di loro autonoma iniziativa, effettuano un capillare boicottaggio in tutto il paese. Il film è sequestrato o mutilato, o appare in versioni arbitrariamente rimontate. I risultati di questo caos si vedono ancora; circolano copie incomplete, differenti da quella ricostruita nel ’58 dallo stesso autore per mezzo di un controtipo, dopo il definitivo smarrimento del negativo originale. L’antifascismo di Ossessione riguarda, dunque, anzitutto la qualità della vita. L’arrivo del vagabondo dà a Giovanna l’illusione di poter sfuggire alla sua condizione di avvilimento. Ma il loro sogno di “fuga” individuale e di ricomposizione del nucleo familiare con la nascita di un bambino, si risolve – come sempre avverrà in Visconti – in una sconfitta. In questo senso, toccava al personaggio dello Spagnolo aprire per Gino una diversa prospettiva di vita: sostituendo alla passione individuale quella politico-sociale. In realtà, i suoi sforzi per distogliere Gino da Giovanna, più che un incitamento all’“impegno”, risultano uno sfogo della gelosia. Nelle intenzioni, questo personaggio doveva essere un proletario che aveva combattuto in Spagna contro i franchisti e che tornava in Italia per propagandare le idee antifasciste. Nei risultati, la sua amicizia con Gino appare piuttosto una relazione omosessuale. L’equivoco è significativo: in un momento di entusiasmo ideologico e di lotta al conformismo, il regista attribuisce alla omosessualità un significato contestatore, assimilandola inconsciamente al personaggio che vuole essere il portatore dei valori positivi. Mentre in seguito il tema della omosessualità sarà sempre assimilato, nei suoi film, a quello
della “colpa” e della “caduta”. L’altro personaggio, simmetrico a quello dello Spagnolo, che funge da simbolo di una possibile alternativa al triangolo familiare-edipico, è quello della ballerina-prostituta Anita. Anche in questo caso, è un personaggio in qualche modo emarginato socialmente a essere portatore di valori “positivi”. Pur inserendolo per altro verso in un cliché (quello ottocentesco della prostituta gentile: la «traviata»), Visconti compone con Anita un delicato ritratto femminile, risolvendo con molta misura i toni patetici e le situazioni da melodramma: come quando la ragazza si espone all’umiliazione e allo scandalo, pur di favorire la fuga del protagonista. Visconti ricorre alle grandi passioni del melodramma per irridere un’«Italietta» apatica e chiassosa che degrada i sentimenti a caricatura. Questo è particolarmente evidente nella scena del concorso lirico, quando il regista contrappone il colloquio dei protagonisti al duetto d’amore tra Gilda e il duca di Mantova nel Rigoletto: mentre in Gino e Giovanna si riaccende la passione, una coppia ripugnante e grottesca, costituita da un ragazzo allampanato e da una vecchia zoppa, si esibisce nell’«Ah, inseparabile d’Amore il Dio/Stringeva, o vergine, tuo fato al mio!». L’influsso del melodramma spinge Visconti ad anteporre l’intensità delle situazioni alla risaputa progressione dell’intreccio, le atmosfere agli avvenimenti. Il risultato è l’esatto opposto di quello squilibrio enfatico che spesso si assimila, in senso spregiativo, al termine «melodramma». Il film procede infatti per ellissi, trascurando di mostrare i “fatti”, per indagarne invece premesse e conseguenze: lo conferma la sua stessa struttura, divisa in due parti perfettamente simmetriche, che fanno perno su un delitto che non si vede. Le illusioni, la fuga impossibile nel sogno: è ciò che il regista esprime con maggiore efficacia e partecipazione. I campi lunghi di Gino e dello Spagnolo che contemplano il mare dal piazzale di San Ciriaco, o di Gino e Giovanna che si abbracciano sul greto sabbioso del Po, sono tra le immagini più belle di Ossessione. Luminose e ampie, contraddicono il tono generale del film, che predilige gli ambienti ristretti, le ombre e i chiaroscuri, le atmosfere cupe e gravide di presentimenti. Il tema della delusione e della sconfitta rimarrà costante in tutti i successivi film di Visconti. Ma, nel clima di speranza e di attesa di questi anni, egli sarà portato a dare a tali sentimenti un fondamento letterario e ideologico, invocando a modello per i suoi ritratti di “vinti” il «pessimismo della ragione» di Antonio Gramsci e i romanzi a sfondo sociale di Giovanni Verga. La terra trema Fin dal 1940-41, Visconti aveva in animo un adattamento di I Malavoglia. Ai suoi occhi di lombardo, l’epopea verghiana era lo spiraglio su un mondo misterioso e “titanico”. Lo avevano colpito in particolare gli elementi musicali del libro: quasi il segreto di un suo possibile adattamento: «la potenza e la suggestione del romanzo verghiano appaiono tutte poggiare sul suo intimo e musicale ritmo; e la chiave di una realizzazione cinematografica di I Malavoglia è forse tutta qui, cioè nel tentare di risentire e di cogliere la magia di quel ritmo, di quella vaga bramosia dell’ignoto, di quell’accorgersi che non si sta bene e che si potrebbe star meglio (…). Un ritmo che dà il tono nostalgico e fatale dell’antica tragedia a questa umile vicenda della vita d’ogni giorno, a questa storia fatta apparentemente di scarti, di rifiuti, di cose senza importanza…». (in Stile italiano nel cinema, Milano 1941). Innamoratosi del romanzo, Visconti ne aveva acquistato i diritti e si era procurato un’opzione anche sulle novelle Jeli ilpastore e L’amante di Gramigna. La sua passione era condivisa dagli amici del gruppo «Cinema». In contrapposizione ai fautori del cinema “puro” – ossia esente da influenze letterarie – essi indicavano, come modello per un nuovo realismo cinematografico, la grande tradizione letteraria del romanzo ottocentesco. L’opera di Verga, in particolare, era considerata un esempio di «arte rivoluzionaria», fonte di ispirazione per soggetti privi di falsità e di retorica. Questo entusiasmo contrastava con l’indifferenza dell’ambiente accademico. E sarà forse l’interesse
dei cineasti a stimolare finalmente anche la critica letteraria: proprio nel periodo che va da Ossessione a La terra trema, sarebbero apparsi due saggi di Natalino Sapegno e Gaetano Trombatore a segnare l’inizio della rivalutazione di Verga e del verismo. Gli anni della guerra e della Resistenza vedono Visconti e il gruppo «Cinema» impegnati nella lotta politica; ma Verga continua a essere per loro un punto di riferimento. Nel dicembre del ’42, poco dopo la fine delle riprese di Ossessione, Alicata è arrestato per attività antifascista: in carcere, lavora alla sceneggiatura di I Malavoglia. Visconti entra in contatto con i partigiani; nasconde nella sua villa romana alcuni perseguitati politici; tenta, dopo l’8 settembre, l’attraversamento del fronte; aiuta soldati alleati a sfuggire alla cattura. Rientrato a Roma sotto falso nome, è scoperto in possesso di armi e tradotto alla Pensione Jaccarino, famigerata per le sevizie degli aguzzini fascisti guidati da Pietro Koch. Fortunosamente, trova rifugio nell’ospedale-carcere di San Gregorio fino all’arrivo degli anglo-americani. Dopo la Liberazione, filma per conto dell’esercito alleato il processo contro l’ex questore di Roma Pietro Caruso e il suo aiutante Occhetto; quindi, la fucilazione di Caruso, del delatore Scarpato e dello stesso Pietro Koch. Si trova casualmente presente anche al linciaggio dell’ex direttore di Regina Coeli, Carretta. Queste drammatiche sequenze sono montate da Serandrei e De Santis nel documentario Giorni di gloria (1945): una testimonianza sulla lotta partigiana, che si avvale di documenti girati a più mani in varie parti d’Italia. Prendendo spunto dalla sua esperienza, Visconti scrive con Mario Chiari, Rinaldo Ricci e Franco Ferri il trattamento di Pensione Oltremare: la storia della presa di coscienza di un uomo imprigionato e condannato a morte dai fascisti. Sul tema della lotta partigiana progetta anche un altro film, Furore. Ma nessuna delle idee di questo periodo viene realizzata: i soggetti politici suscitano diffidenza, e la soppressione del contributo di Stato alla cinematografia accresce la difficoltà di trovare produttori disponibili. Dal ’45 al ’47 Visconti si dedica con febbrile entusiasmo all’attività teatrale. Dirige, in tre anni, undici allestimenti, rinnovando l’obsoleto repertorio italiano con testi di autori francesi e americani contemporanei: Cocteau, Anouilh, Sartre, Hemingway, Caldwell, Tennessee Williams. Incorre nella censura per l’Adamo di Achard, che porta sulla scena il tema dell’omosessualità. Rilegge un classico vietato dal fascismo, Il matrimonio di Figaro di Beaumarchais, sottolineandone gli elementi di satira sociale. Grazie al teatro, entra in contatto con la sceneggiatrice Suso Cecchi d’Amico e con il fotografo francese G.R. Aldo, i quali daranno un contributo fondamentale alla sua futura attività cinematografica. Intanto, la Sicilia di Verga continua a esercitare il suo richiamo. Per il teatro, Visconti ha in mente la Cavalleria rusticana. Per il cinema, un documentario in tre parti sulla condizione dei lavoratori nell’isola. Il primo episodio della trilogia riguarda la lotta di un pescatore e della sua famiglia contro i ricatti dei grossisti di pesce; il secondo, il tentativo di un gruppo di minatori di gestire in cooperativa una miniera abbandonata; il terzo, l’occupazione delle terre incolte da parte dei braccianti. Il film si dovrebbe concludere con la vittoria dei contadini, sostenuti dall’aiuto degli altri lavoratori. Una galoppata finale lungo le terre strappate ai latifondisti dà il titolo alla trilogia: la terra trema sotto l’impeto dei cavalli al galoppo. È nuovamente una suggestione musicale ad accendere la fantasia viscontiana. Dietro il fragore degli zoccoli si ode un’eco verdiana: il «Sento l’orma dei passi spietati» del Ballo in maschera. Nel novembre del ’47, Visconti parte per la Sicilia con una piccola troupe di esordienti e un esiguo finanziamento della società Artea di Alfredo Guarini, avallato dal Partito Comunista. Ben presto, i fondi finiscono: il regista sopperisce inizialmente alle spese con mezzi propri quindi trova appoggio in Salvo D’Angelo, direttore dell’Universalia. Ma il progetto deve essere limitato al primo episodio, quello del mare: se ne ampliano le dimensioni, se ne accentua il rapporto con I Malavoglia. Stanco dei soprusi dei grossisti, il giovane ’Ntoni Valastro invita i pescatori di Aci Trezza a
ribellarsi. Nascono tumulti, alcuni pescatori sono arrestati; ma poi, gli stessi grossisti li fanno rilasciare, non potendo fare a meno del loro lavoro. ’Ntoni convince allora la famiglia a mettersi in proprio, ipotecando la casa. Un’eccezionale pesca di acciughe sembra aiutare i Valastro. Ma, più tardi, in una tempesta, perdono la barca. Stretti dal bisogno, debbono vendere le acciughe ai grossisti a un prezzo irrisorio e, non potendo riscattare l’ipoteca, perdono anche la casa. Il dissesto economico porta la famiglia allo sfascio: ’Ntoni, non trovando lavoro, si consola in osteria; la sua ragazza, Nedda, lo lascia; suo fratello Cola abbandona il paese e diventa contrabbandiere; il nonno muore; la sorella maggiore, Mara, vede sfumare il suo matrimonio, quella minore, Lucia, viene “disonorata” dal maresciallo della Finanza Don Salvatore. In più, ’Ntoni è odiato da tutti: dai grossisti, che assaporano la vendetta; dagli invidiosi, che gioiscono del suo sogno sfumato. Alla fine si rassegna a riprendere il mare, con i fratelli più piccoli, sulle barche dei grossisti. Ma, sebbene sconfitto, appare consapevole della necessità che il suo tentativo individuale divenga patrimonio di lotta comune.
L’esperienza della guerra e della Resistenza ha inciso profondamente sull’atteggiamento ideologico di Visconti. Al fascino per le passioni primitive e “titaniche”, che aveva caratterizzato il suo primo accostamento alla Sicilia di Verga, si unisce ora la ricerca delle ragioni storiche, economiche e sociali della questione meridionale. Il regista intende mostrare la sconfitta di ’Ntoni come una tappa verso la conquista di una nuova coscienza sociale. Rivede il pessimismo, il distacco analitico, l’amaro sarcasmo di Verga, alla luce di una diversa consapevolezza storica, in armonia con quella espressa nel frattempo da Antonio Gramsci. Per la verità, l’ipotesi di un influsso diretto di Gramsci in La terra trema si può facilmente contestare. Lo ha fatto a mie spese Lino Micciché nel suo Visconti e il Neorealismo (Marsilio, Venezia 1990, p. 81) ricordando come la pubblicazione dei Quaderni dal carcere sia posteriore alla realizzazione del film. Ma sarà lo stesso Visconti, con il senno di poi, a leggere il suo film in un’ottica gramsciana: «Interessato come sono ai motivi profondi che turbano e rendono inquieta, ansiosa del nuovo, l’esistenza degli italiani, ho sempre visto nella questione meridionale una delle fonti principali della mia ispirazione. Devo precisare che in un primo tempo mi sono accostato a questa questione, posso dire anzi di averla scoperta, per una via puramente letteraria: i romanzi di Verga. Ciò accadeva nel 1940-41 mentre preparavo Ossessione. (… ) Poi venne la guerra, con la guerra la Resistenza e con la Resistenza la scoperta, per un intellettuale della mia formazione, di tutti i problemi italiani come problemi di struttura sociale oltre che di orientamento culturale, spirituale e morale. (…) La chiave mitica in cui fino a quel momento avevo gustato Verga, non mi fu più sufficiente. Sentii impellente il bisogno di scoprire quali fossero le basi storiche, economiche e sociali, sulle quali era cresciuto il dramma meridionale e fu soprattutto con la lettura illuminante di Gramsci che mi fu consentito il possesso di una verità che attende ancora d’essere decisamente affrontata e risolta. (… ) Mi si potrà chiedere perché nei miei film di ispirazione meridionale io mi sia addentrato in drammi psicologici, sulla linea costante della rappresentazione del tema verghiano del fallimento, dei «vinti» insomma. Cercherò di rispondere a questa osservazione. Un film nasce da una condizione generale di cultura. Non potevo partire, volendomi accostare alla tematica meridionale, che dal più alto livello artistico raggiunto sulla base di tale contenuto: Verga. A ben guardare, però, anche in La terra trema io ho cercato di mettere a fuoco, come fonte e ragione di tutto lo svolgimento drammatico, un conflitto economico». (L. Visconti, Oltre il fato dei Malavoglia, «Vie Nuove», 22 ottobre 1960). Sta di fatto, insomma, che a posteriori Visconti ha voluto inserire La terra trema nella stessa atmosfera culturale del meridionalismo di Vittorini e di Gramsci. Tesi legittimata dall’aver trasformato, nel suo film, la lotta dei Malavoglia contro il fato in quella degli sfruttati contro gli sfruttatori. L’«attaccamento allo scoglio» è interpretato come una posizione dinamica e non come fatalistica
rassegnazione: «Pi tuttu ’u munnu l’acqua è salata… Comu niscemu fora ’i faragghiuni, ’a rema ’nni sferra! Cola, tènilu sempri n’i sintimenti; iè ccà, c’àmu a luttari! (In tutto il mondo l’acqua è salata… Quando usciamo oltre i faraglioni, la corrente ci travolge! Tienilo sempre in mente Cola: è qui che dobbiamo lottare!)», dice ’Ntoni al fratello che vuole emigrare. E, a differenza del protagonista del romanzo, resta ad Aci Trezza. Una affermazione del diritto a combattere e a progredire all’interno del proprio ambiente, che tornerà in Rocco e i suoi fratelli. Anche il problema della lingua è affrontato secondo una nuova prospettiva ideologica. In I Malavoglia, Verga aveva assorbito e tradotto le espressioni dialettali nella lingua letteraria. Il suo intento era una sorta di oggettività linguistica, che corrispondeva al principio verista di non prendere direttamente partito negli avvenimenti descritti e di rappresentare la realtà senza passione. Visconti, invece, ha fatto esprimere i pescatori di Aci Trezza direttamente nella loro lingua. I dialoghi – benché impostati sulla falsariga di quelli verghiani – sono stati ottenuti esponendone il contenuto ai pescatori e lasciando che essi ne restituissero liberamente il senso in dialetto catanese. La ragione prima è stata certamente estetica: il fascino e la musicalità di una lingua misteriosa e arcaica. Ma ha assunto subito un significato polemico: «la lingua italiana non è in Sicilia la lingua dei poveri», commenta la didascalia iniziale del film. Infatti, gli unici personaggi a parlare in lingua sono il clandestino che spinge Cola al contrabbando e i funzionari che pignorano la casa del nespolo: un italiano infido e burocratico, usato come strumento di raggiro e di sopraffazione. La straordinaria espressività dei dialoghi è uno dei motivi di fascino del film, anche se l’incomprensibilità del dialetto ha indotto Visconti a inserire fuori campo un brutto commento esplicativo. Se da un lato La terra trema carica di volontà il pessimismo verghiano, dall’altro ridimensiona i facili entusiasmi ideologici. Mutato rispetto alle intenzioni appare, fra l’altro, il ritmo del film. Il progetto iniziale della trilogia era influenzato dal cinema rivoluzionario sovietico e prevedeva il montaggio alternato dei tre episodi, che sarebbero confluiti nella vittoria finale dei contadini sui latifondisti. L’episodio del mare, cosi com’è stato realizzato, conserva l’influenza d’origine (per esempio, nella composizione di certe inquadrature), ma, a differenza dei sovietici, Visconti riduce al minimo il découpage e gli interventi di montaggio. Le inquadrature sono lunghe, lente, spesso immobili. Anziché un ritmo epico-narrativo, il regista ne persegue uno descrittivo-psicologico, che scandisce «le opere e i giorni» della famiglia Valastro e il lento crescere del desiderio di cambiamento. Cosi, più netto emerge il tema della caduta delle illusioni: anziché l’epopea vittoriosa di una classe, il film ritrae la sconfitta e la dissoluzione di una famiglia. Questo contrasto fra ottimismo e pessimismo, fra volontà e rassegnazione, si rivela non già un limite, ma una conquista espressiva. Rispecchia infatti il contrasto fra l’immobilismo atavico del Meridione e il bisogno di rinnovamento. Il regista ha illuminato quei contrasti che, fin dall’inizio, lo avevano colpito nella realtà siciliana e che gli sembravano estendersi dalle passioni individuali alle forze stesse della natura: è quanto esprime, nel film, l’amore fra Nicola e Mara, fatto al tempo stesso di passione e di riserbo; o l’umore misterioso del mare, che passa dalla calma al furore della tempesta. In armonia con questa realtà sconcertante, Visconti ha sottolineato il contrasto tra la immobilità ieratica delle composizioni plastiche e la drammaticità delle passioni interiori, tra i momenti privati della vita domestica e quelli sociali della lotta e del lavoro. La stessa indefinibile essenza di La terra trema, che non è in sostanza né un film né un documentario, testimonia l’influsso di una realtà contraddittoria. Proprio per questa sua ibrida natura, Visconti non ha mai considerato La terra trema un vero e proprio adattamento di I Malavoglia; anzi, a distanza di anni, ancora si proponeva di trarre un film da questo romanzo. Ancora sentiva inappagate le suggestioni musicali che lo avevano incantato alla prima lettura: il fragore incessante del mare, il canto incosciente e beato di Rocco Spatu, l’eco instancabile del carro di compare Alfio. Tuttavia, anche in La terra trema le suggestioni musicali sorreggono la struttura del film; e, per Visconti, musicalità significa soprattutto melodramma.
Un’esplicita citazione in questo senso è l’aria «Ah, non credea mirarti» di La sonnambula, eseguita al flauto di zio Nunzio durante la salatura delle acciughe: un omaggio al catanese Vincenzo Bellini. All’epoca del suo primo approccio verghiano, il regista indicava nella musicalità del romanzo lo strumento per sollevare le umili vicende della vita quotidiana a dignità tragica. Nel film, è stato osservato, drappeggia i pescatori nei loro cenci come eroi da opera lirica. Quest’aura mitica che sostiene le intenzioni ideologiche è la sua vera “firma” d’autore. Come scrisse Bazin all’uscita del film (in «Esprit», dicembre 1948), in La terra trema «Visconti ha cercato, e incontestabilmente ottenuto, una sintesi paradossale di realismo e di estetismo». Bellissima Presentato al festival di Venezia, La terra trema attira gli insulti del pubblico benpensante, urtato dalla rappresentazione della realtà popolare. Il fantastico e sontuoso allestimento teatrale di Rosalinda scatena, invece, le accuse dei neorealisti ortodossi. Insofferente delle categorie in cui si pretende di rinchiuderlo, il regista replica vivacemente dalle pagine di «Rinascita» (dicembre 1948), ironizzando sui «neorealisti più realisti del re» e sull’ottusità di chi vuole mettere etichette e confini alla libertà creativa. Dopo l’insuccesso commerciale di La terra trema, che non conosce quasi distribuzione, Visconti incontra difficoltà a realizzare nuovi progetti. Si arenano quelli di Cronache di poveri amanti e di La carrozza del Santissimo Sacramento: film che verranno poi girati, con altre sceneggiature, da Lizzani e da Renoir. Continua invece la sua attività teatrale, sulla duplice strada della rivisitazione dei classici e della proposta di autori inediti per il pubblico italiano: Shakespeare e Alfieri da un lato, Tennessee Williams e Arthur Miller dall’altro. Il ritorno al cinema avviene nel 1951 con un breve documentario: Appunti per un fatto di cronaca. È un periodo in cui si discute molto di giornalismo cinematografico. Riccardo Ghione e Marco Ferreri danno vita a «Documento mensile», una sorta di “terza pagina” filmata cui sono chiamati a collaborare sia registi che uomini di cultura indotti a esprimersi con il mezzo cinematografico in via del tutto eccezionale. Aderiscono all’iniziativa cineasti, scrittori, poeti, pittori: De Sica, Antonioni, Moravia, Levi, Sinisgalli, Guttuso. Per il loro articolo, Visconti e Pratolini (autore del commento) prendono spunto da un recente fatto di cronaca: lo stupro e l’uccisione della piccola Annarella Bracci, e cercano i presupposti del delitto nell’abbandono e nella disgregazione sociale del quartiere popolare di Primavalle. Il documentario non ottiene il visto di censura. Sarà proiettato a Parigi due anni più tardi e, in seguito, andrà smarrito (di recente ne è stata rintracciata una copia alla Cinémathèque royale di Bruxelles). Nello stesso periodo, il produttore Salvo D’Angelo propone a Visconti un film con la Magnani. Il soggetto, di Cesare Zavattini, non gli è molto congeniale, ma gli offre importanti possibilità: ristabilire il contatto con il pubblico, costruire un film su un personaggio, lavorare con una attrice straordinaria. La sua mentalità di regista teatrale lo rende incline a rielaborare liberamente un testo “dato”. Con questo atteggiamento, affronta il soggetto di Bellissima. Il regista Alessandro Blasetti cerca una bambina per un film. Accorre a Cinecittà una folla di madri, tra cui la popolana Maddalena Cecconi (Anna Magnani) con la figlia Maria. Maddalena fa tutti i sacrifici possibili pur di pagare alla figlia il fotografo, la maestra di recitazione e di ballo, la sarta, il parrucchiere. Litiga con il marito Spartaco (Gastone Renzelli), che si oppone ai suoi desideri. E consegna tutti i risparmi a un piccolo truffatore che la circuisce, Alberto Annovazzi (Walter Chiari), nella speranza che possa favorire la figlia. La bambina viene ammessa al provino, e Maddalena riesce a sbirciare la proiezione. Vede allora sullo schermo la figlia in lacrime e, nella saletta, i “cinematografari” che si sbellicano dalle risate. Indignata e umiliata, Maddalena si rende conto delle sue ambizioni sbagliate e, quando la figlia viene effettivamente prescelta, rifiuta di firmare il contratto e si riconcilia con il marito.
Del soggetto di Zavattini, assunto come semplice pretesto, Visconti modifica l’ambientazione, i dialoghi, la struttura. E anche quando ne rispetta il tema principale – la critica dell’industria cinematografica come «fabbrica di sogni» – lo fa in modo tutto viscontiano: prendendo spunto dal melodramma. Si comincia infatti con una registrazione radiofonica di L’elisir d’amore. Argomento della scena (atto II, sc. 4) è il concitato diffondersi di una notizia tra le donne del coro: « – Saria possibile? – Possibilissimo./– Non è probabile. – Probabilissimo./– Ma come mai? Ma donde il sai?/Chi te lo disse? chi è? dov’è?». Subito dopo, l’annunciatore propaga la notizia del concorso cinematografico. E una folla di donne eccitate accorre al richiamo di Cinecittà. Nella calca appare finalmente il regista. Mentre questi fa il suo ingresso trionfale, le note del «tema del ciarlatano» lo paragonano al dottor Dulcamara, lo spacciatore di illusioni dell’opera di Donizetti. Il film è introdotto come una sorta di melodramma buffo, una commedia grottesca e patetica sui falsi miti del cinematografo. Attraverso il coro delle donne, Visconti dà vita a un movimentato clima di kermesse. Ambientando la vicenda nel quartiere popolare del Prenestino, trova nello stesso casamento in cui abita Maddalena una sorta di grande teatro, in cui le vicende private diventano subito di dominio pubblico. Le inquiline dello stabile intervengono in tutte le discussioni familiari, pronte a spalleggiare Maddalena contro il marito. Mentre, nei teatri di Cinecittà, si dà battaglia una folla di donne illuse ed esagitate. Quello di Bellissima è un mondo quasi esclusivamente femminile: madri frustrate che cercano nelle figlie il compenso allo squallore delle loro esistenze. Una condizione svilita e grottesca che Visconti descrive con profondo pessimismo. La satira non si limita all’ambiente del cinema, né ai toni sarcastici. Dalla lirica al varietà, dal teatro al circo, dalla radio al balletto, tutto il mondo dello spettacolo è coinvolto in Bellissima. Il regista disegna in modo impietoso l’ambiente di falliti e di impostori che vi gravita attorno: basti citare i ritratti duramente caricaturali della maestra di recitazione e di quella di ballo. Il tono si fa invece più misurato nei confronti del pubblico: un pubblico popolare che, come Maddalena, guarda estasiato l’epopea del cinema hollywoodiano (rappresentato da Il fiume rosso di Hawks): una proposta in allettante contrasto con le prospettive ottuse della vita di tutti i giorni. Infine, accenti delicatamente patetici appaiono nel ritratto di Liliana Mancini, una ragazza che era stata attrice per Castellani in Sotto il sole di Roma, e che Visconti aveva incontrato come assistente montatrice a Cinecittà: è in questa veste che compare in Bellissima. Il film trascende dunque i limiti dello schizzo di vita popolare e della satira di costume. Lo stesso discorso sul cinema appare secondario rispetto al tema principale: un ritratto di donna. Il personaggio di Maddalena è reso splendidamente dalla Magnani, e il regista non lesina spazio all’attrice: in molte scene lascia addirittura gli interlocutori fuori campo per poterla seguire in quegli straordinari monologhi in cui rivela un patrimonio di ingenuità e furberia, di civetteria e di riserbo, di tenaci illusioni e di speranze deluse. Un fardello di ambizioni mancate che finisce per soffocare la piccola Maria: sempre triste, assente, sballottata come un oggetto, traumatizzata dai contrasti fra i genitori. Il tema delle madri che proiettano le loro frustrazioni sulle figlie coinvolge anche i personaggi maschili: come quello di Annovazzi, ideato da Suso Cecchi d’Amico. È qualcosa di più del banale “cinematografaro” traffichino. Nella bella scena del fiume, confida a Maddalena il peso delle sollecitazioni materne, che è la molla del suo incongruo arrabattarsi: «… Mia madre per esempio, mia madre che oggi è una vecchiettina, se da giovane si fosse lasciata qualche volta abbracciare da qualcuno cosi al sole in riva al fiume, invece di star li ad addormentarsi, a pensare a quale sarebbe stata la mia vita da grande, be’ forse oggi sarebbe meno triste nel vedersi passare le giornate cosi, mentre mi rammenda i calzini o lava quelle quattro camicie che ho… Mia madre. Tutte le cose alle quali ha rinunciato le ha… le ha tradotte in speranze per me… Poveretta, e oggi anche lei come Mimetta tutto il giorno non fa che dirmi: datti da fare, datti da fare, datti da fare, e io mi do da fare e lei lo sa bene; no, non mi lascio scappare niente di quanto mi capita sotto mano, non mi faccio
nessuna illusione, ma non voglio avere nessun rimpianto…». Con bella finezza psicologica, anche il protagonista maschile (interpretato da un Walter Chiari allora al culmine della sua carriera) viene disegnato cosi come una vittima delle ambizioni materne, e completa il quadro di quella catena di ambizioni sbagliate che costituisce l’amaro sottofondo del film. Bellissima nasce da uno spunto neorealista. Con il neorealismo condivide certe caratteristiche di stile: l’uso “austero” della macchina da presa, il sonoro in presa diretta, la recitazione che lascia spazio all’improvvisazione degli attori. Ma non parte da una contrapposizione ideologica tra le virtù della realtà e i peccati dell’artificio; cerca piuttosto nelle carenze della realtà le ragioni dell’evasione nel sogno. La presa di coscienza di Maddalena è espressa senza parole e senza retorica. A notte fatta, la vediamo rincasare con la bambina e fermarsi su una panchina della periferia. Sullo sfondo c’è il tendone di un circo, da cui proviene il clamore di una fanfara. Maddalena guarda commossa la figlia che dorme tra le sue braccia e, mentre nel circo scrosciano gli applausi, scoppia a piangere. Diversamente dal soggetto di Zavattini, in cui la bambina era scartata, Visconti ha voluto che la piccola Maria fosse finalmente prescelta, ma che la madre opponesse il “gran rifiuto” alle lusinghe del cinematografo. Ha inteso cosi imprimere un segno positivo a un momento fondamentale in tutti i suoi film: la caduta delle illusioni. Il finale agrodolce è coerente con il tono donizettiano, preannunciato fin dall’inizio. Il tema Quant’è bella, quant’è cara accompagna la carrellata finale sulla piccola Maria, che finalmente riposa, sciolta dal giogo delle ambizioni materne. La musica di L’elisir d’amore torna cosi a concludere su un tono di ritrovata serenità quel clima di frenetica e incongrua kermesse che aveva contribuito a introdurre. Siamo donne Tornato all’attività teatrale, Visconti polemizza sulla mancanza di un impegno del governo per la creazione in Italia di un vero teatro popolare: che sia un teatro di alto livello e non «un pezzo di pane rancido, un resto del pranzo dei ricchi», come definisce le rappresentazioni turistiche e caritatevoli, saltuariamente elargite al popolo. Realizza in questo periodo alcuni dei suoi migliori allestimenti: tra cui quello memorabile delle Tre sorelle. Presentando per la prima volta in Italia il testo di Čechov, ne esprime con grande sottigliezza l’atmosfera sfumata, inconsapevolmente gravida di eventi: avendo cura – come voleva l’autore – di smussare tutte le punte drammatiche. Più tardi, il produttore Guarini gli propone di collaborare a un film a episodi. Si tratta di un’iniziativa a scopo di beneficenza, a cui il regista aderisce soprattutto per amicizia. Il film si basa su un’idea di Zavattini: smitizzare la figura della diva, chiamando alcune grandi attrici a raccontare e interpretare episodi della vita privata. Visconti e la d’Amico hanno solo l’imbarazzo della scelta per estrarre un aneddoto dal vasto repertorio della litigiosa Annarella. Roma, 1943. Mentre si reca a teatro, Anna Magnani viene a diverbio con un tassinaro, che pretende una lira di supplemento per il cagnolino. Il regolamento prevede un’esenzione che, secondo lei, si riferisce a tutti i cani di piccola taglia; secondo lui, riguarda solo i cuccioli. Per puntiglio, la Magnani si rivolge ai carabinieri, e riesce ad averla vinta. Ma anziché una sola lira, ci rimette i giri in taxi, una multa per il cane e una per il ritardo in teatro. Qui si esibisce alla fine in una stornellata romana, ispirata ai personaggi della vita vissuta.
L’episodio, per quanto futile, si adatta alle grandissime doti della Magnani. Visconti crea una situazione opposta a quella di Bellissima: inserisce l’attrice in un ambiente quasi esclusivamente maschile. È il mondo delle divise, delle gerarchie, dei regolamenti: caro agli schemi del fascismo, ma temperato dal clima di indolente cameratismo dei soldati e da un sapore tutto romano di umanità e di buon senso. In esso irrompono la vitalità femminile e l’esuberanza popolare di Annarella, che si scontra con le sue regole (come la ridicola immobilità della sentinella) e le affronta con la propria
indomabile caparbietà. Gli altri episodi del film (firmati da Guarini, Franciolini, Rossellini e Zampa) puntano sul contrasto fra la donna e l’attrice, fra la scena e la vita. Contrappongono, con una buona dose di retorica, le false pose del divismo alla realtà della vita semplice, degli affetti familiari, dei sentimenti comuni. Visconti affronta il divismo in modo completamente diverso: sottolineando il rapporto tra il vivere e il recitare. Nel suo episodio, la Magnani monopolizza l’attenzione di un’intera caserma di carabinieri, nello stesso modo in cui conquista quella del pubblico del varietà: non come donna fatale, ma grazie alla sua aggressiva spontaneità. Visconti aggira, dunque, il luogo comune della “falsa diva” (in cui ricadrà più tardi con La strega bruciata viva) per osservare come il divismo della Magnani nasce proprio dal saper essere “autentica”. Partito da uno spunto neorealista, finisce per seguire una traccia che gli è più congeniale: il rapporto tra la vita e il teatro. Un tema che – affrontato in termini assai più validi – costituirà il perno del prossimo film. Senso 1866. Una rappresentazione del Trovatore a La Fenice di Venezia dà lo spunto per una manifestazione irredentista durante la quale il marchese patriota Ussoni (Massimo Girotti) sfida il tenente austriaco Franz Mahler (Farley Granger). Per salvare Ussoni, sua cugina Livia Serpieri (Alida Valli) – anche lei di sentimenti liberali, benché sposata a un “collaborazionista” – avvicina il tenente. Livia non riesce a impedire l’esilio del cugino; si innamora invece di Mahler e ne diviene l’amante. Quando lui la lascia, lei lo cerca per tutta Venezia, incurante dello scandalo. Spiata dal marito (Heinz Moog), si reca a un appuntamento segreto. Qui spera di incontrare l’amante; ritrova invece il cugino, che le affida il denaro raccolto per l’insurrezione. Allo scoppio della guerra, i Serpieri si trasferiscono nella villa di Aldeno. Una notte, Franz si introduce in camera di Livia e le chiede del denaro per farsi riformare, Livia gli consegna i fondi dei patrioti. Si combatte la battaglia di Custoza. Ussoni arriva al fronte, ma viene coinvolto nella ritirata. Livia invece, temendo una vittoria italiana, raggiunge Franz a Verona. Lo trova in compagnia di una prostituta, ed è accolta con sarcasmo e disprezzo. Per vendicarsi, lo denuncia come disertore al Comando austriaco. Franz viene fucilato.
Racconta Zeffirelli («Cinema Nuovo», n. 136, giugno 1954) che Visconti, assistendo nel ’52 alla Scala a un’edizione del Trovatore interpretata dalla Callas, si trovò in un palco di proscenio: ossia in una prospettiva laterale, prossima alle quinte, che gli presentava l’azione teatrale sullo sfondo dei palchi e della platea. Quando il soprano avanzò alla ribalta per il canto di Leonora al quarto atto, Visconti esclamò: «Ecco. Ora so come deve essere il mio film!». Infatti, l’idea portante di Senso è il ribaltamento di prospettiva tra la scena e la sala. Il film comincia alla fine del terzo atto del Trovatore, con una inquadratura distante e centrale della scena. Quindi, la macchina da presa si avvicina e si inoltra in profondità nel palcoscenico, scoprendo sulla destra le quinte e i macchinisti, infine, panoramicando su Manrico che avanza alla ribalta per la romanza «Di quella pira», ruota ancora su se stessa: inquadrando cosi, oltre al tenore e agli orchestrali, parte della platea e dei palchi. In un unico movimento, la macchina, dalla sala è passata dietro le quinte. La prospettiva è stata dunque invertita: sullo sfondo del melodramma, comincia a essere descritta e interpretata la società che ne è spettatrice. La macchina da presa panoramica poi sui vari ordini di palchi e sulle diverse classi che li popolano. Quindi, inquadra dall’alto il palcoscenico con Manrico e Leonora, come visti dal loggione: un punto di vista non naturalistico ma teatrale, che sarà poi ricorrente in tutto il film. Nei duetti di Franz e Livia, il selciato dei campielli e i pavimenti della villa di Aldeno si trasformeranno infatti in palcoscenici, le facciate delle case in fondali, le tende e le cortine dei letti in sipari. Lo spettatore, guidato dalla voce fuori campo di Livia, assiste alla futile tragedia dei protagonisti, come a un melodramma. Il tono volutamente enfatico e teatrale equivale a una dichiarazione di ideologia e di
poetica: i sentimenti proiettati dal pubblico veneziano di quel 1866 nel Trovatore, sono restituiti dal palcoscenico alla Storia. La sequenza della Fenice è impostata sulla specularità tra la scena e la sala. I patrioti, al grido di «Viva Verdi» e «Viva l’Italia», gettano i loro manifestini al termine del coro «All’armi, all’armi! Eccone presti/a pugnar teco, teco a morir», in cui l’esercito delle comparse in armi sembra sfidare quello degli ufficiali austriaci nelle prime file di platea. Dopo l’incidente tra Ussoni e Mahler, quando Livia decide di simularsi galante con il tenente per salvare il cugino, vediamo la riapertura del sipario riflessa nello specchio in cui lei studia l’espressione per la sua recita personale. Quanto avviene sul palcoscenico sembra ispirare i suoi sentimenti: il timore che il cugino sia arrestato («Siam giunti: ecco la torre ove di Stato/gemono i prigionieri… Ah, l’infelice/ivi fu tratto!»); il suo tentativo di salvarlo («Salvarlo io potrò, forse./Timor di me? Sicura,/presta è la mia difesa!»); la necessità di nascondere la sua preoccupazione a Mahler («Ma deh, non dirgli, improvvido,/le pene del mio cor!»). Anche l’ingresso del tenente, sottolineato da un vibrante attacco musicale, è inquadrato in una grande specchiera che riflette il palcoscenico. Il loro colloquio prende spunto dal melodramma. I due elementi della scena: lo specchio e il velo, il contemplarsi e il nascondersi, diventeranno le costanti del film: lo specchio raccolto da Franz nel campiello durante il duetto d’amore; gli specchi che riflettono l’incontro degli amanti ad Aldeno; i veli e gli scialli in cui Livia si avvolge quando nasconde i suoi sentimenti (e che Franz le strappa nella scena finale in cui smaschera la propria natura); gli affreschi della villa di Aldeno, presso i quali, come in posa su dei fondali, Franz inganna Livia e Livia inganna i patrioti. La storia dei due amanti, che sacrificano l’amor di patria alla passione, ripropone in forma negativa la situazione dell’Aida. Lo smascheramento e la simulazione servono a Visconti per mostrare la società del tempo nella falsa coscienza del suo patriottismo; le passioni artificiose del melodramma, per ritrarre una classe che non seppe (come Ussoni) o non volle (come Livia e Franz) tenere il passo con la Storia. Senso risulta cosi non soltanto uno splendido film-opera, ma una interpretazione dell’epoca e della cultura che all’opera appartennero. E questo fa la sua eccezionalità, anche rispetto al filone popolare di film di derivazione melodrammatica, in voga fino agli anni Cinquanta e sovente intriso di retorica risorgimentale. Il racconto di Camillo Boito a cui il film si ispira fu proposto a Visconti dalla d’Amico, che l’aveva conosciuto in una antologia curata da Bassani. Una scelta quasi casuale, ma che permise a Visconti di concretare un’intenzione poetica già matura. Quando la Lux accettò il progetto, Bassani fu invitato a collaborare alla sceneggiatura; la produzione gli affiancò due sceneggiatori di sua fiducia. Infine Paul Bowles e Tennessee Williams furono chiamati a rielaborare la versione inglese dei dialoghi. Il modesto racconto di Boito servi a Visconti e ai suoi collaboratori solo da “libretto”: essi ne reinventarono il tono e il senso, riscoprendo lo sfondo storico della vicenda e spostando il nucleo drammatico di Livia dal compiacimento della propria perversità al tradimento della propria ideologia. Il tradimento per passione è cosi inserito sullo sfondo di quella «rivoluzione tradita» che fu il Risorgimento. Visconti rovescia anche la prospettiva storica, sottraendo gli avvenimenti del ’66 (quella guerra austro-prussiana che tornerà ancora in Ludwig), di cui la terza guerra d’indipendenza fu un episodio cosi marginale alla retorica nazionalistica, e restituendoli a una prospettiva europea. In armonia con le analisi gramsciane, egli è consapevole di quanto, nel ciclo storico e culturale del Romanticismo, sia stata gregaria la posizione dell’Italia, alla ricerca dell’unità geografica, in un’Europa che viveva conflitti di classe di ben altra portata. In una cultura secondaria e periferica, come quella dell’Italia ottocentesca, esisteva una sola forma artistica non provinciale: il melodramma. A questa fa appello Visconti: ampliando la prospettiva storica e ideologica del racconto, ne amplia di conseguenza anche quella culturale. Alla musica di Verdi affianca quella di Bruckner; alle citazioni del Foscolo quelle di Heine; ai riferimenti pittorici di Hayez, di Fattori e dei macchiaioli, quelli di Feuerbach, di Stevens, di Durand. Al libretto di Boito, alcune suggestioni dai
grandi romanzi del mancato compimento della rivoluzione borghese: la scena di Aldeno e il tema della simulazione dei sentimenti da Il rosso e il nero; la sollecitudine di Livia per il cugino dalla Sanseverina; la delusione di Ussoni a Custoza, dal passaggio di Fabrizio del Dongo dietro le linee di Waterloo: cioè da quella Certosa di Parma che Visconti si propose più volte di girare. A conferma di tale rovesciamento di prospettiva, il film si sarebbe dovuto chiamare Custoza e concludere non sulla fucilazione di Franz, ma sulle lacrime di un soldatino austriaco: un giovanissimo contadino (di quelli che senza responsabilità pagavano il prezzo della guerra) che gridava «Viva l’Austria!», il giorno di una vittoria inutile, che non avrebbe impedito né la sconfitta nella guerra, né il futuro dissolversi dell’impero. Ma il titolo fu giudicato disfattista, e Visconti costretto a girare un nuovo finale. La censura e la produzione mutilarono il film, soprattutto per quelle parti che mostravano il rifiuto dello Stato Maggiore italiano di fare entrare nella lotta i patrioti civili, perché ne temeva gli impulsi democratici: scene che (nonostante la sbiaditezza di Ussoni, come di tutti i personaggi “positivi” di Visconti) chiarivano il significato politico della vicenda e gli impliciti cenni al riassorbimento della lotta partigiana dopo la Resistenza. Quanto resta fu tuttavia sufficiente alle autorità democristiane per boicottare il film come diffamatore delle forze armate e per far pressione sulla giuria del Festival di Venezia, affinché non gli accordasse alcun premio. I tagli imposti limitano il senso delle scene di battaglia, che restano tuttavia figurativamente bellissime: sono volutamente prive di pathos e di primi piani, poiché ritraggono una guerra inutile, condotta da una classe egemone e giudicata polemicamente da Visconti per bocca di Franz: «Cos’è la guerra in definitiva se non un comodo metodo per obbligare gli uomini a pensare e ad agire nel modo più conveniente a chi li comanda?». L’intero film è di una bellezza figurativa eccezionale. Già in sede di sceneggiatura era stato previsto l’uso drammatico del colore, che progressivamente passa dai toni chiari e luminosi cari ai macchiaioli (come gli stupendi esterni di Aldeno o dei contadini al lavoro fra i soldati) ai toni bruni, e infine ai neri della notte di Verona e dell’abito di Livia. Al grande G.R. Aldo sono anche dovuti gli splendidi interni di Aldeno: l’incontro in penombra degli amanti; la scena in cui Livia consegna a Franz il denaro dei patrioti (dominata dal giallo, il colore dell’oro e del tradimento); quelle nella soffitta: dove il grano imboscato fa da sfondo alle richieste di denaro di Franz, evocando quasi dei cumuli di oro. E inoltre, la scena nella casa di Franz a Verona, dove il rosso delle pareti si accende di una tonalità talmente satura, da identificarsi con la decadenza stessa del protagonista. La collaborazione di Aldo e Visconti fu strettissima e meticolosa. Quando egli mori, durante le riprese, fu sostituito da Robert Kresker, cui si devono le scene veneziane. Infine, distrutto il negativo con il finale originale, Visconti girò il secondo a Roma con Giuseppe Rotunno, che illuminò la scena della fucilazione. Il film si conclude con una inquadratura simmetrica a quella iniziale: lo spiazzo dell’esecuzione, simile a un palcoscenico nudo. In Senso, Visconti è riuscito a conciliare una visione critica della Storia con la predilezione per il melodramma; il senso della realtà con il gusto per ciò che si situa ai confini tra la vita e il teatro. Tutti gli elementi del film raggiungono in questo intento una straordinaria compenetrazione: la sceneggiatura e i dialoghi, con la loro motivata enfasi teatrale; la scenografia, che oppone le linee neoclassiche del quartier generale austriaco (eleganti e severe come il comportamento del generale) all’arredamento della casa veronese di Franz, sovraccarico come il suo monologo; i costumi, che assumono una funzione psicologica con il gioco di veli e mantelli; la musica, che si accompagna all’uso drammatico dei rumori (l’abbaiare dei cani, le grida e i canti dei soldati austriaci, il suono delle campane di Aldeno); la stessa recitazione, che ottiene risultati rimarchevoli da due attori non eccelsi, al posto dei quali Visconti avrebbe voluto Marlon Brando e Ingrid Bergman. Tutto ciò concorda in un’armonia espressiva che fa di Senso uno dei capolavori viscontiani. Nell’aprile del ’55, apparve su «Cinema nuovo», a proposito del dibattito su Senso, la lettera di un
giovane cinefilo. Condividendo l’analisi gramsciana del Risorgimento come «rivoluzione incompiuta», egli plaudiva al film come erede e innovatore del neorealismo, e modello per una cultura svincolata dai vizi del provincialismo e del bozzettismo. Quel giovane era Vittorio Taviani. Diciannove anni dopo, dirigendo con il fratello Paolo Allonsanfan, avrebbe dimostrato quanto avevano messo a frutto la lezione di Visconti. Anche il loro film infatti ha le cadenze di un melodramma e racconta il destino di una rivoluzione mancata attraverso la storia di un tradimento. Ambientato nell’Italia della Restaurazione, Allonsanfan narra le vicende di Fulvio Imbriani, un ex giacobino che, riassaporati gli agi e gli affetti familiari, abbandona i suoi ideali, derubando e tradendo gli antichi compagni; ma, per ironia della sorte, finisce ucciso proprio in nome di quel sogno utopistico che ha cercato in tutti i modi di rinnegare. Molte sono le analogie tra il protagonista di Allonsanfan e quella di Senso: come Livia, correndo all’appuntamento con l’amante, si trova di fronte i patrioti, cosi Fulvio vede riapparire i suoi antichi compagni ogni volta che cerca di liberarsi di loro; come Livia sottrae per amore il denaro dei patrioti, cosi Fulvio si appropria dei fondi dei rivoltosi; come Livia intraprendeva il viaggio a Verona, spinta dalla falsa notizia di una vittoria italiana, cosi Fulvio va verso la morte, ingannato dal delirio di un congiurato, che gli annuncia il trionfo della rivoluzione. Ma alla passione erotica, che era la molla romantica del tradimento di Senso, si sostituisce in Allonsanfan il richiamo di quei “valori” contestati o sacrificati all’ideale rivoluzionario (la famiglia, i privilegi sociali, la ricchezza) che, di fronte alla sconfitta dell’ideale rivoluzionario, prendono forza e illudono Fulvio di un impossibile salto nel passato. È evidente in questo il riferimento dei Taviani alla crisi ideologica contemporanea: se tra le righe di Senso si legge il riassorbimento degli ideali della Resistenza, in Allonsanfan è palese il richiamo alla crisi degli ideali sessantotteschi. A distanza di una generazione, i Taviani hanno saputo sviluppare l’eredità di Visconti, integrandone il tema della sconfitta con il loro tema prediletto: il valore dell’utopia. Quella romantica dei rivoluzionari, sconfitti dalla Storia, ma sulla via del rinnovamento, contro l’utopia negativa di Fulvio tentato dal falso paradiso neoclassico della Restaurazione. Le notti bianche Senso inaugura una nuova stagione anche nella carriera teatrale di Visconti. Sostenitore dell’«Antiparnaso», un’associazione per il rinnovamento del melodramma, egli aveva ricevuto fin dal ’49 proposte di regia lirica; ma altri impegni, il disaccordo sui testi, persino veti politici, gli avevano ripetutamente impedito di accettare. E finalmente, dal ’54 al ’57, allestisce alla Scala quei cinque spettacoli con la Callas, che, sebbene accolti inizialmente con diffidenza da una parte della critica, entreranno nella leggenda e segneranno una svolta nella concezione del melodramma. Visconti si propone di dare organicità agli elementi dello spettacolo lirico e di ristabilire la verità filologica, storica e drammatica dei testi. Esordisce, infatti, con una Vestale in chiave neoclassica; sottolinea l’evanescente atmosfera arcadica di La sonnambula; sposa La traviata al realismo borghese del tardo Ottocento; concepisce una Anna Bolena monocroma come una antica stampa; interpreta l’Ifigenia in Tauride alla luce del barocco settecentesco del Tiepolo e del Bibiena. In tal modo, non solo restituisce dignité al concetto stesso di regia lirica – allora sovrastata dalla direzione musicale – ma propone un lettura critica e storica del melodramma stesso. Sono inoltre anni di intensissima attività teatrale, coronata dal primo successo internazionale: l’entusiastica accoglienza di La locandiera a Parigi. Tra l’altro, Visconti mette in scena nel ’56 alla Scala un’azione coreografica tratta da Mario e il mago, in cui cerca, attraverso il balletto, una sintesi tra la suggestione fantastica e la metafora storica contenute nello splendido racconto di Thomas Mann. Un nuovo progetto cinematografico si sviluppa tra il ’56 e il ’57, in un momento di profonda crisi produttiva e artistica del cinema italiano. A entrambe Visconti intende rispondere con nuove
proposte: una società di produzione che coinvolga alla pari lo stesso regista, la sceneggiatrice d’Amico, l’interprete principale Mastroianni e il produttore Cristaldi, e una storia che si muova tra la realtà e il sogno, svincolandosi dagli obsoleti schemi neorealisti. È anche un momento di revisione ideologica nella sinistra, scossa dalla denuncia dei crimini staliniani al XX congresso del Pcus, e successivamente dai fatti d’Ungheria. Ciò forse contribuisce a orientare il regista verso un tema più privato di quelli precedentemente affrontati (il che non impedisce che egli sia tra i pochi intellettuali vicini al Pci a reagire all’invasione sovietica con una aperta posizione di condanna). È il padre di Suso, il critico Emilio Cecchi, a suggerire al gruppo un adattamento dal racconto di Dostoevskij Le notti bianche. Vagabondando nella città in cui è da poco stato trasferito, un giovane impiegato, Mario (Marcello Mastroianni), incontra nella notte una ragazza (Maria Schell). Liberatala da alcuni giovinastri, ottiene un appuntamento per la notte seguente. Mario si illude di una conquista; ma la ragazza, di nome Natalia, gli confida la propria storia: di come si sia innamorata di un inquilino (Jean Marais) che abitava con lei e con sua nonna, e di come attenda in quelle notti che lui tenga fede, dopo un anno di assenza, alla promessa di ritornare. Natalia chiede a Mario di consegnare a quell’uomo una lettera. Mario promette; ma poi deluso e irritato, getta il biglietto nel canale. Al mattino, cerca di dimenticare la ragazza; la sera, di evitarla. Ma, infine, si incontrano e vanno insieme a danzare. Tra i due si crea una maggiore intimità; ma, all’ora stabilita, Natalia corre al suo appuntamento. Stizzito, Mario fa per accompagnarsi con una prostituta (Clara Calamai) ed è coinvolto in una rissa di portuali. Rincontra poi Natalia sola e le confessa di aver distrutto la lettera e di essere innamorato di lei. La ragazza sembra disposta a ricambiarlo, ma proprio allora appare l’inquilino. Natalia corre da lui. Mario, affranto ma privo di rancore, torna alla sua iniziale solitudine.
La storia risponde a tutte le caratteristiche desiderate da Visconti e sembra favorire una realizzazione a basso costo. Ma le dimensioni produttive del film si allargano via via, fino a superare i quattrocento milioni. Visconti, a Venezia, fa parte della giuria che assegna la coppa Volpi all’attrice Maria Schell, e la chiama nel film; lo stesso fa con Jean Marais per il ruolo dell’inquilino, che si prevedeva inizialmente non dovesse apparire sullo schermo. Inoltre, il set, che si pensava di allestire in esterni nel quartiere “Venezia” di Livorno, lo si ricostruisce interamente in studio. Nasce cosi, nel Teatro 5 di Cinecittà, la straordinaria scenografia di Mario Chiari e Mario Garbuglia: astratta, eppure verosimile; avvolta in una nebbia di tulles; lastricata di intonaci e pavimentazioni vere; attraversata da un canale artificiale e navigabile; sovrastata da un cielo in movimento, ottenuto sovrapponendo e illuminando due enormi cristalli dipinti. «Tutto deve essere come se fosse finto; ma quando si ha la sensazione che è finto, deve diventare come se fosse vero», diceva Visconti. Un principio di contraddizione tra verità e verosimiglianza cui obbediscono tutti gli elementi del film: dall’accento artificiale e insieme misterioso della Schell (che recita in diretta in un italiano a lei sconosciuto), ai rumori naturali introdotti nell’ambiente ricostruito in teatro; dalla fotografia, impostata su base realistica, ma che illumina le scene in rapporto allo stato d’animo dei protagonisti, alla stessa regia, sempre ineccepibile, eppure noncurante in molti casi della grammatica tradizionale e degli scavalcamenti di campo. In questo incerto confine tra immaginazione e realtà, tra la coscienza della loro antinomia e l’ipotesi di una loro possibile identità, risiede tutto il senso poetico del film. Da un lato, viene suggerita una serie di continuità apparenti: tra le personalità dei protagonisti, che sembrano compenetrarsi; tra la parte nuova e antica della città, poste a un passo l’una dall’altra; tra il presente e il passato di Natalia, tanto vicini da essere ricongiunti visivamente con un semplice movimento di macchina. Ma, dietro tali continuità, affiorano contraddizioni insolubili. La scena dei ricordi, per esempio, ambientata tra le rovine della città vecchia, esprime l’incompatibilità tra la realtà e la memoria: si conclude infatti sul primo piano dell’inquilino che promette di ritornare, al quale corrisponde, come in controcampo, quello di Natalia che giura di attenderlo; lei si abbandona sul petto di lui ma un
carrello indietro scopre adesso, al suo posto, Mario, commosso e frastornato da questa proiezione affettiva. Dietro la continuità tra realtà e desiderio, propria del sogno, si affaccia cosi la loro contrapposizione. Prendono risalto le antinomie: tra la notte e il giorno, tra il presente e il passato, tra il vecchio e il nuovo. Visconti mantiene una costante ambiguità tra i due termini, attribuendo all’immaginazione quasi più sostanza che alla realtà stessa (che appare infatti squallida, ridicola, volgare, come la piatta esistenza piccolo-borghese di Mario). Il giovane diventa in Visconti un anonimo travet, che la notte inebria di prospettive inconsuete e che il giorno umilia con la meschina routine della vita domestica. Il protagonista di Dostoevskij è un «originale», un «sognatore», un’esaltata e tortuosa prefigurazione dell’eroe senza nome del «sottosuolo»; Mario è invece un uomo comune, che oppone un piatto buon senso alle fantasticherie di Natalia. Alla maledizione romantica della eccezionalità, Visconti sostituisce polemicamente quella piccoloborghese della mediocrità: ossia di una realtà men che reale perché privata di prospettive e di aspirazioni. Egli sottrae al protagonista tutta la originale complessità e tortuosità psichica, e la delega interamente all’ambiente. Trasferisce la città di Dostoevskij, Pietroburgo, «la più astratta e premeditata di tutto il globo terrestre», in una Livorno umida, amniotica, labirintica. In essa proietta anche il solipsismo e la misantropia del racconto: una città che si spopola quando Mario vorrebbe compagnia e che impone la presenza dei passanti quando vorrebbe restare solo. Anche gli elementi “naturali” intervengono in funzione simbolica: la nebbia che offusca tutto il rapporto tra i protagonisti; la pioggia che accompagna le lacrime di Natalia, il vento che sottolinea l’esasperazione di Mario; la neve che sembra vestire a festa la città, accentuando l’illusione di felicità del protagonista. Visconti rende sempre incerto il confine tra la realtà esterna e quella interiore. Lo stesso accade per la sottile perversità del testo, il vagheggiamento di una relazione sublimata e asessuata. Egli rende oggettiva la contrapposizione tra sentimento ed erotismo, che corre tra le righe del racconto. Il sesso è posto in una luce sinistra. L’incontro d’amore di Natalia è deformato espressionisticamente, attraverso la prospettiva enfatizzata delle scale che conducono alla camera dell’inquilino e i contorni della sua ombra che si protende sul corpo di lei. Alla sagoma nera dell’inquilino, Visconti affianca quella della prostituta, che compare sullo sfondo degli incontri e delle separazioni dei protagonisti: una sessualità insidiosa (deformata attraverso la tradizionale contrapposizione romantica tra prostituta e donna ideale) che incombe dietro l’erotismo, sublimato del sognatore dostoevskiano. L’evasione nella sfera dei “grandi sentimenti”, il sapore romantico e antiquato delle civetterie di Natalia, Visconti li riprende dal mondo del melodramma. Sviluppa una citazione del Barbiere di Siviglia proposta dal racconto. Nella scena dell’Opera udiamo il duetto in cui Figaro propone a Rosina la stesura del biglietto d’amore che lei ha già segretamente preparato: situazione analoga a quella successiva tra Mario e Natalia. Tutto il gioco di crudeltà e di innocenza della Nasten’ka di Dostoevskij risente nella Natalia di Visconti della imprevedibilità e della malizia di Rosina: «Donne, donne, eterni Dei,/chi vi arriva a indovinar?». Visconti sposta il peso dei personaggi dostoevskiani in favore di Natalia: mutando lo spirito del racconto, alla sconfitta del «sognatore» contrappone la vittoria della «sognatrice». Ma il protagonista della vicenda resta pur sempre Mario, ennesima figura di “vinto” viscontiano. Il regista sottolinea la goffaggine dei suoi momenti di ottusità, ma anche il fallimento delle sue aperture verso il sogno: il suo momento di confidenza al dancing è infatti soffocato dalle note chiassose del rock and roll; la sua dichiarazione d’amore è interrotta dalla luce intermittente dei lampioni scossi dal vento; i suoi estremi propositi di felicità si perdono nelle lontane prospettive del piazzale innevato. Nel suo racconto, Dostoevskij cerca un esito al suo personaggio, tra la delusione dell’amore mancato e la conquista di un arricchimento interiore: nel finale si mescolano quel masochismo narcisista e quell’ambiguo afflato religioso che sono tipici dello scrittore. Al riscatto mistico proposto da Dostoevskij, Visconti ne sostituisce uno estetico: un recupero del romanticismo, e
quindi del valore dell’immaginazione e dei sentimenti, in contrapposizione a una realtà “depauperata”. In ciò è implicita una dichiarazione di poetica: di fronte a un neorealismo degradato in codificazione del modello di vita piccolo-borghese, Visconti reagisce recuperando il senso dell’atmosfera caro al vecchio realismo poetico francese. Alle scene romantiche, consacrate alla notte, oppone quelle prosaiche del giorno, improvvisate polemicamente in uno stile estemporaneo da bozzetto neorealista. Visconti si proponeva in tal modo di aprire le porte a un nuovo cinema. Ma il film lascia piuttosto l’impressione di uno squisito anacronismo; di un’utopia astorica, venata dalla coscienza della sua stessa inevitabile sconfitta. Le contraddizioni dell’autore rivivono nel dramma di Mario, incapace di collocarsi tra la realtà e il sogno, di liberarsi dalla seduzione vischiosa dell’antico, come di aderire alla aridità e alla volgarità del nuovo: sicché la sua vicenda si conclude in una desolata immagine di solitudine, speculare e simmetrica a quella iniziale. Rocco e i suoi fratelli Prosa, lirica, balletto: dopo Le notti bianche, Visconti è assorbito da una intensissima attività teatrale, che culmina in una memorabile edizione del Don Carlo al Covent Garden di Londra. Tuttavia, fin dall’inizio del ’58, comincia a lavorare al progetto del film che realizzerà nei due anni successivi. «La storia di una madre e dei suoi cinque figli: cinque come le dita di una mano». Cosi il regista espone l’idea-base a Suso Cecchi d’Amico e Vasco Pratolini, per la stesura del soggetto. Un’espressione quasi sibillina, che lascia sconcertati i suoi collaboratori; ma che contiene già in nuce i motivi dominanti di Rocco e i suoi fratelli: una madre possessiva e ambiziosa che considera i figli come lo strumento della sua volontà di affermazione; una famiglia stretta come in un pugno da un vincolo arcaico di solidarietà fraterna. Su questo primo nucleo si innesta la questione meridionale, si delinea l’ambientazione milanese e si affaccia successivamente il mondo della boxe. Per documentarsi, Visconti e la d’Amico frequentano a Roma le squallide palestre di piazza Vittorio, dove conoscono una famiglia di fratelli pugili, che servirà loro da parziale modello. Ritiratosi Pratolini a causa di impegni letterari, subentra nella sceneggiatura Enrico Medioli, un giovane parmense che diventerà collaboratore abituale di Visconti; accanto a loro, due sceneggiatori di fiducia della Titanus: Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa. Nel frattempo, nella storia confluiscono una serie di reminiscenze culturali che ne ampliano la portata e ne chiariscono il senso. Visconti intende girare un’opera realistica sul fenomeno dell’emigrazione interna; ma, d’altra parte, vuole dare al tema un tono da epopea, una risonanza mitica, attingendo alle sue predilette fonti letterarie. «C’è un segno rivelatore dell’innato carattere di un’opera, della categoria a cui aspira, dell’opinione che essa in segreto ha di sé: sono le letture che l’autore preferisce durante il lavoro e che sente essergli d’aiuto; e dicendo questo non mi riferisco a fonti positive e a studi che servono da materiale, ma a opere letterarie che gli sembrano avere grande affinità con la propria, modelli la cui contemplazione mantiene viva la sua Stimmung e che egli cerca di imitare». Cosi Thomas Mann parla a proposito del ciclo di Giuseppe e i suoi fratelli (Milano 1954, p. 2299). E proprio esso sarebbe stato uno dei modelli, dei «segni rivelatori» dell’ambizione di Visconti di dilatare miticamente la vicenda di Rocco. Il ciclo di Giuseppe ha infatti per tema l’emigrazione del popolo di Israele in Egitto; il rapporto tra due civiltà diverse, in cui si riflette anche la duplicità del mondo morale. È il grande romanzo della tradizione, dove tutto si ripete secondo eterni schemi mitici; ma proprio in questa continua conferma trova alimento per rinnovarsi. Ciò è in qualche modo affine all’intento di Visconti di mettere a confronto due mondi, il Nord e il Sud, e di narrare la crisi e la trasformazione di una morale atavica. Del resto egli non cesserà di essere attratto dalla vicenda biblica, e nel 1963 progetterà di realizzare, per il film La Bibbia, proprio l’episodio di Giuseppe.
Ma il disegno armonioso, umanistico, sottilmente ironico della grande opera di Mann, mal si accorda con la passione di Visconti per i forti contrasti. Egli si rivolge allora a un altro scrittore, Dostoevskij. Dai protagonisti di L’idiota: il principe Myskin, Rogozin, Natas’ja Filippovna, trae spunto per la bontà fine a se stessa di Rocco, per la brutalità di Simone, per l’impossibile riscatto di Nadia. Dal romanzo mutua anche l’idea che uno sviluppo economico cui manchi una base morale, ne rende impossibile il godimento. E infatti (contrariamente ai Valastro di La terra trema), la famiglia Parondi si disgrega proprio in un momento di relativo assestamento economico, per la crisi di tutti i suoi arcaici valori morali. Ma altre ancora sono, ampie ed eterogenee, le influenze che guidano Rocco. Si sente l’eco della letteratura meridionalistica, di cui sta a simbolo Rocco Scotellaro, il «profeta disarmato» lucano (al suo nome è dedicato quello del protagonista del film). C’è la squallida periferia milanese di Testori, dai cui racconti è tratto l’episodio della lotta tra i fratelli rivali alla Ghisolfa. Del resto, i contrasti esasperati, le morbosità, le gelosie, gli odii razziali, i desideri frustrati di purezza e di felicità del mondo letterario di Testori saranno messi in scena da Visconti – poco dopo la prima di Rocco – in una Arialda che ne riproporrà ambienti e terni: anzitutto quello della dissoluzione familiare. E anche di un altro spettacolo teatrale realizzato da Visconti all’inizio del ’58, resta traccia nella atmosfera del film: quello Sguardo dal ponte di Miller, con cui Rocco condivide il tema dell’immigrazione e del conflitto tra l’antica morale tribale e il nuovo contesto sociale proposto dall’inurbamento. Prendendo spunto dal fenomeno dell’emigrazione interna, Visconti trasferisce nel contesto milanese quel mondo di passioni primitive e titaniche, di mito e di epopea, quale il meridione era apparso ai suoi occhi attraverso la mediazione di Verga. E reinventa il paesaggio milanese quale appare agli occhi degli immigrati: estraneo, grigio, avvolto nella nebbia, illuminato da una luce velata e senza ombre. Il contrasto tra due opposti modelli di civiltà consente al regista di narrare la decadenza di un modello familiare atavico e tribale che i protagonisti, sotto diverse prospettive (l’ambizione per Rosaria, l’”onore” per Simone, la colpa per Rocco), concepiscono come un amalgama in cui si confondono i diritti e le responsabilità individuali: una struttura forte e soffocante come un pugno. All’attaccamento allo scoglio dei Valastro si sostituisce qui il desiderio di emigrazione dei Parondi. Ciò provoca un diverso tipo di conflitti, e per narrarli Visconti ricorre questa volta a tutti gli effetti e le regole drammatiche che aveva rifiutato per La terra trema. Dalla Lucania, la vedova Rosaria Parondi (Katina Paxinou) si trasferisce – con i figli Simone, Rocco, Ciro e Luca – a Milano, dove è già immigrato il primogenito Vincenzo (Spiros Focas). La madre lo costringe ad assumersi la responsabilità della famiglia, pregiudicando il suo matrimonio. I Parondi si sistemano in un seminterrato a Lambrate: qui conoscono una ragazza di vita Nadia (Annie Girardot), che prospetta loro la possibilità di arricchirsi con la boxe. Simone (Renato Salvatori) comincia la carriera di pugile sotto la protezione di un ex campione, l’omosessuale Morini (Roger Hanin). Per frequentare Nadia, si procura denaro con piccoli furti, ma la ragazza, stanca di lui, lo lascia. Passano i mesi. Finito il servizio militare, Rocco (Alain Delon) incontra Nadia, appena uscita di prigione. Tornati a Milano, i due cominciano insieme una nuova vita. Quando Simone apprende della loro relazione, li aggredisce e violenta la ragazza sotto gli occhi del fratello. Rocco si sente colpevole di fronte a Simone e abbandona Nadia a lui. Inoltre, per impedire che Simone sia denunciato per furto dal Morini, è costretto ad abbracciare la carriera di pugile. Scacciato dai fratelli, Simone cerca di ricondurre a sé Nadia, che ritrova prostituta all’Idroscalo e, al suo rifiuto, la uccide. Mentre la famiglia festeggia una vittoria di Rocco, ricompare Simone, che confessa il delitto. Ciro (Max Cartier) vorrebbe denunciarlo, ma gli altri, capeggiati da Rocco, decidono di proteggerlo. Simone è tuttavia scoperto e arrestato. Ciro si fa portavoce con il piccolo Luca di una nuova morale familiare e di una diversa prospettiva di vita.
Rocco è concepito come un romanzo, secondo un ampio ritmo narrativo, che per la prima volta Visconti potrà far rispettare senza tagli fino al montaggio. Le scene sono del resto quasi premontate in fase di ripresa, con l’ausilio di tre cineprese, che scompongono ogni azione secondo i punti di
vista prestabiliti dal regista. La storia è divisa in cinque capitoli, ciascuno dedicato a uno dei figli di Rosaria. Inizialmente era previsto un prologo in Lucania, con il funerale del capofamiglia, le lunghe attese dei disoccupati, la tintura dei panni a lutto e la decisione della partenza. Ma tale prologo, assai bello sulla carta, non fu mai girato. Il film inizia cosi con l’arrivo notturno dei Parondi alla stazione di Milano. Il primo capitolo è dedicato al figlio maggiore, Vincenzo. Si apre con la sequenza del fidanzamento: una serie di panoramiche descrive gli addobbi che rivelano l’origine meridionale della famiglia; poi la macchina da presa si arresta a inquadrare l’arrivo dei Parondi, che rovina la festa e compromette il desiderio di indipendenza di Vincenzo. Questi è presentato accanto alla fidanzata, con un fiore all’orecchio, l’espressione un po’ sciocca di chi è appagato da una mediocre felicità. È stato il primo a troncare il rapporto con la sua terra e confida nella possibilità di un inserimento individuale nella grande città. In qualità di primogenito, precede i fratelli in tutto (l’emigrazione, la boxe, la conoscenza con Nadia), ma in nulla si spinge fino alle estreme conseguenze. È un uomo di vedute limitate e il film lo colloca preferibilmente in ambienti angusti, in contrapposizione ai grandi spazi che fanno da sfondo ai drammi di Rocco e Simone. Il capitolo di Simone si apre con la sua prima affermazione di pugile. Inizialmente, è presentato spavaldo e dongiovanni, in contrapposizione a un Rocco timido e umile. Man mano che si svela la sua debolezza, emergono invece i suoi risvolti di «umiliato e offeso» di ispirazione dostoevskiana. Rocco è uno dei tipici “vinti” viscontiani. Ottiene un successo che equivale a una sorta di autopunizione. La sua bontà provoca disastri: nel tentativo di salvare Nadia e Simone, li perde entrambi. È legato a una concezione della famiglia come blocco uniforme e non come un gruppo di individui indipendenti e autonomi. D’altra parte proclama il diritto della sua gente a vivere e a trasformarsi nel proprio ambiente, senza essere sradicata dalla propria cultura e costretta ad adottare supinamente dei modelli estranei. In questo, la sua sconfitta appare ben più dialettica e complessa delle didascaliche affermazioni positive di Ciro. Questi è infatti, apparentemente, il portavoce dell’ideologia del film: l’acquisizione di una nuova concezione sociale, fondata sulle responsabilità e i diritti individuali. Pertanto, una parte della critica lo volle eleggere a suo tempo a protagonista. Ma in realtà il personaggio di Ciro non possiede sostanza, né drammatica, né ideologica. Il capitolo a lui dedicato lo presenta compiaciuto delle moine perbeniste della sua fidanzata, al suono di una sciocca canzone. In contrasto con le sue stesse intenzioni, Visconti ne intuiva la piatta vocazione al conformismo: «diventerà un piccolo borghese, poi forse un grosso borghese. Non lo so ancora, ma lo sento cosi…» (in «Cinema Nuovo», settembre 1960, p. 404). Nel rapporto tra Rocco e Ciro si riflettono le contraddizioni dell’autore, diviso tra l’adesione al rinnovamento e l’attaccamento alla tradizione. Il film è infatti un curioso impasto tra il vecchio fatalismo di stampo verghiano (chi si stacca dallo scoglio è perduto, come Simone), l’adattamento piccolo-borghese di Ciro e il più complesso desiderio di Rocco di recuperare un rapporto con le proprie origini. Questi elementi costituiscono l’eredità di Luca. Il suo capitolo comprende il ritorno di Simone dopo il delitto, il dialogo didascalico in cui enuncia la morale del film, e la panoramica conclusiva che parte dai manifesti con il volto di Rocco. Quest’ultima è accompagnata dai versi di una canzone dialettale. Nel film, anche la musica partecipa infatti di tale triplicità: comprende un tema drammatico che accompagna la decadenza di Simone e di Nadia; un tema leggero e banali canzonette, assimilate al modello di vita proposto dalla città; una canzone popolare che apre e chiude il film, intonata alla nostalgia per il paese natio. La congerie di elementi e di prospettive rivela la complessità talora contraddittoria del progetto viscontiano. Da un lato, come si è detto, puntava alla realizzazione di una grande opera realista, in cui il fenomeno dell’emigrazione, della disgregazione sociale e dello sfruttamento del mezzogiorno fosse affrontato alla luce delle analisi gramsciane. Dall’altro, intendeva sollevare la vicenda dalla
cronaca all’epopea, «dilatando cioè i fatti e i sentimenti nelle loro connessioni con la memoria letteraria, pittorica, drammatica, musicale, e con i grandi miti tragici, con le epopee e i simboli». Oggi, la sostanza ideologica è quella che appare più confusa e velleitaria, ma proprio in chiave politica il film fu allora sostenuto o osteggiato (fu ostacolato dalla giunta provinciale di Milano, censurato dalla Procura, bersagliato dal ministro dello spettacolo, e infine boicottato al Festival di Venezia). Di fatto, è proprio nella ricerca di una sintesi tra impegno civile e dilatazione epica che il film tradisce un certo artificio, tanto nel didascalismo ideologico che nell’enfasi letteraria. Ma il suo punto di coesione Visconti lo trova ancora una volta nel melodramma, da cui deriva la predilezione per i contrasti assoluti. Come nella reinvenzione del paesaggio urbano: le linee geometriche della stazione, dei casamenti di Lambrate e del Giambellino, delle guglie del Duomo, degli scheletri delle case in costruzione, dello stadio Vigorelli, delle sponde dell’Idroscalo, che (esaltati da uno straordinario uso espressivo del campo lungo) fanno da sfondo a passioni estreme, inconciliabili, arcaiche. Nel montaggio, che introduce i violenti “stacchi” della boxe nei momenti di intimità familiare. Nella scelta stessa del bianco e nero che si presta a esaltare i contrasti forti: che staglia i fratelli, in lotta nel buio, sullo sfondo spettrale dei fabbricati popolari; che li ritrova l’uno bianco e l’altro nero quando si riabbracciano dopo il delitto. Il bene e il male, l’amore e la morte, si fronteggiano nell’ambiente settentrionale distante e “civilizzato”, che sembra l’antitesi delle passioni assolute. Tutti gli elementi si riassumono nella scena dell’Idroscalo, una delle più belle del film. Trionfa il simbolismo. Simone appare riflesso nell’acqua, avvolto in un tabarro scuro; chiuso in uno spazio trapezoidale dalle linee oblique del molo. Nadia, coperta da una pelliccetta bianca, emerge in controluce tra gli alberi, che gettano anch’essi lunghe ombre diagonali. Tutta la scena è ripresa dall’alto: resta cosi visibile solo una piccola porzione di cielo, un minimo spiraglio che, dopo il delitto, sarà completamente escluso dal campo. Le inquadrature sfruttano le forme geometriche dell’ambiente, dividendo drammaticamente lo spazio per linee oblique. Simone implora Nadia di ricominciare con lui una nuova vita; Nadia fugge e chiede inutilmente aiuto a un cliente, che si dilegua. Simone la raggiunge, la aggredisce; poi, premuroso, le raccoglie il cappotto. Uno stacco porta sul ring di Rocco, a cui giungono dall’angolo le raccomandazioni a “coprirsi” dall’avversario. Anche Simone prega Nadia di coprirsi dal freddo. Lei gli grida tutto il suo odio, l’amore per Rocco, la rassegnazione al peggio. Esce di campo, lasciando solo Simone. La macchina da presa si abbassa, escludendo il viso di Simone che ha “perso la testa”, e inquadra l’estrazione del coltello; poi torna sul suo viso stravolto. Nadia si allontana; Simone la segue: lo spazio è sempre diviso da una linea obliqua che separa l’acqua e la terra. Nadia si ferma davanti a un palo della luce e si volta, mentre Simone avanza; lascia cadere la pelliccetta bianca, sotto cui porta una sottoveste nera. La macchina da presa segue in carrello Simone che avanza fino a coprire Nadia, di cui vediamo aprirsi le braccia in croce quando si offre al coltello. Un nuovo stacco su Rocco che manda k.o. l’avversario, accolto dall’esultanza del pubblico. Simone colpisce Nadia prima al ventre, poi alla schiena quando lei cade e si trascina verso l’acqua. Quindi si lava la mano sporca di sangue, risale la sponda e fugge. Ultimo stacco sull’esultanza dei tifosi. Dissolvenza. È una delle più tipiche scene madri di Visconti. Tutti gli elementi sono estremizzati, e in essi confluiscono, sovrapponendosi, eterogenee fonti teatrali e letterarie. Gli elementi della scena (l’acqua, il crocifisso e il coltello) sono tratti da L’idiota. I dialoghi e la struttura (che alterna il delitto al tripudio della folla) sono aperto melodramma. Tutta la scena, infatti, non è altro che il finale della Carmen: le implorazioni e le minacce di Don José, il rifiuto di Carmen, il delitto, l’esultanza della folla alla vittoria del toreador Escamillo. «Non ho affatto l’intenzione di girare questo film come un melodramma, ma come una tragedia realista», dichiarava Visconti prima delle riprese (nei «Cahiers du Cinéma», aprile 1960, p. 41). In realtà, si prefiggeva di raggiungere un sovratono drammatico che ponesse la vicenda tra il Mito e la
Storia: un proposito che non poteva attingere alla sintesi della tragedia, ma alla dilatazione del melodramma. In esso ha cercato un punto di incontro fra la grande tradizione letteraria e musicale dell’Ottocento e il romanzo popolare. Proprio nello sforzo di dare alla materia una dignità drammatica, attingendo a modelli culturali non piccolo-borghesi, il film trova la sua originalità e la sua forza. È – in un’Italia destinata a essere non riunita, ma omologata in nome di un modello di sviluppo piccolo-borghese – il suo vero, forse inconsapevole, significato polemico. Il lavoro Le vicissitudini censorie di Rocco, e poi quelle dell’Arialda, esasperano a tal punto Visconti, da fargli esprimere il proposito di non lavorare più in Italia. Si trasferisce a Parigi, dove mette in scena, protagonista Romy Schneider, un’edizione francese del dramma elisabettiano Peccato che sia una puttana. Al suo ritorno in Italia, il moralismo dei benpensanti è nuovamente urtato dall’allestimento della Salomè al Festival di Spoleto. È già impegnato nella riduzione di Il Gattopardo, quando riceve la proposta di Boccaccio ’70: un film a episodi che ha come trait d’union la satira del moralismo e della pruderie. Suso Cecchi d’Amico, che collabora anche all’episodio di Monicelli, ambientato nel proletariato milanese, suggerisce a Visconti un soggetto sull’ambiente borghese della stessa città. I due avevano lavorato insieme, nel ’53, a un progetto sul tema della degradazione del matrimonio nella classe borghese, Marcia nuziale, che fu bocciato dalla censura. Tra gli episodi che lo componevano, ve n’era uno tratto dalla novella Au bord du lit di Maupassant: una signora “bene” esige dal marito il pagamento delle sue prestazioni coniugali. Ora rielaborano quel soggetto per Il lavoro. Il giovane conte Ottavio (Tomas Milian) è coinvolto in uno scandalo di “squillo” da un milione. Il suo palazzo milanese è invaso dagli avvocati, preoccupati delle reazioni della stampa e soprattutto di quelle della moglie Pupe (Romy Schneider), dal momento che il padre di lei ha bloccato il loro conto in Svizzera. Ma la donna non fa scenate di gelosia: l’episodio le fa vedere in luce nuova l’elemento “denaro”. Quando il marito mostra il desiderio di fare l’amore con lei, esige di essere pagata. La cosa comincia come un gioco bizzarro, ma alla fine Pupe si rende conto che il suo «lavoro» consiste davvero nella prostituzione matrimoniale.
Essenzialissimo, tutto dialogo, quasi privo di descrizioni di ambiente Au bord du lit vive di un lapidario paradosso morale e di un sottile gioco di civetteria erotica. Visconti invece pone l’accento sul tema del denaro, e interpreta il senso del racconto alla luce della definizione marxista del matrimonio nella società borghese come l’equivalente di una prostituzione legalizzata. L’assunto ideologico porta il regista a modificare la struttura della novella: vi introduce una serie di elementi satirici e affida all’ambientazione scenografica un ruolo di primo piano. I protagonisti si muovono in un immenso salone patrizio, che sembra ospitare degli estranei, non essere abitato. L’opulenza dell’ambiente sottolinea il vuoto dei personaggi; l’eleganza, la loro intima volgarità; le dimensioni, la loro inconsistenza come eredi di una tradizione e di un’epoca perdute. L’anacronistico splendore aristocratico, contaminato da elementi borghesi, funge da testimone della sopravvivenza del privilegio in una classe che ha esaurito la sua funzione storica, e della decadenza e dell’imbastardimento dei cerimoniali sociali. «Oggi fanno tutti le stesse cose. Aristocratici, intellettuali e ragazzoni della Ghisolfa», dice Pupe in un momento del film. Visconti allude a un processo di omologazione culturale che nulla toglie al permanere delle barriere e dello sfruttamento di classe. Con uno spirito sarcastico per lui insolito, Visconti mette a confronto le varie classi al lavoro. I servi, impegnati nella grottesca caccia ai gatti di casa. Gli avvocati, mostrati come “operai salariati della borghesia”, avidi e ipocriti custodi delle apparenze. Il “giovin signore” inetto e mediocremente dissoluto. La signora “bene” in preda ad angosce esistenziali di moda; a velleità poetiche che
rivelano una poliglotta ignoranza; al desiderio di guadagnarsi da vivere, inteso non come necessità, ma come capriccio. Attraverso le pose di Pupe, che parla di contemplazione di muri bianchi e di incomunicabilità, o si picca di paragonare la propria vita a quella dei servi, Visconti fa un po’ il verso alle crisi esistenziali delle donne antonioniane. «Non è solo attraverso i drammi intimi che cerco di rappresentare le vicissitudini dei contrasti sociali» aveva detto, paragonandosi all’amico regista. E infatti, attorno alla vicenda personale di Pupe, compone un caustico elzeviro. Tuttavia, il personaggio della Schneider – su cui il regista ha costruito l’episodio e a cui ha donato il nome della principessa austriaca amata in gioventù – è l’unico dotato di una reale complessità poetica. Quando appare, cambiano i colori e il ritmo del film: si passa dai toni freddi del salone, in cui discutono il contino e gli avvocati, alla tiepida intimità dell’appartamento di lei; dal loro agitarsi vuoto e frenetico, alla sua pigra sensualità. Quando parla (come in quel pezzo di bravura registica che è la lunga telefonata all’avvocato), cambiano le sfumature del personaggio: dagli effimeri propositi di lavoro, alla contemplazione della propria bellezza; dal tono affettato e pieno di inutili iperboli, all’intuizione della sua solitudine. Pupe è un personaggio complesso, poiché in lei convivono i ruoli di privilegiata e di sfruttata. Nonostante i vantaggi di natura sociale ed economica, resta nella condizione di un oggetto di lusso. Pur spuntandola sul marito, Pupe è sconfitta. Per questo Visconti dimostra verso di lei maggiore simpatia e le concede un barlume di coscienza. Il finale abbandona infatti il tono sarcastico. L’episodio si conclude sull’entrata del contino che brandisce l’assegno: in un unico movimento, la macchina da presa lo inquadra di spalle, segue il suo braccio che avanza verso Pupe stesa sul letto, finché con lo chèque quasi le vellica il viso in lacrime; quindi si arresta sul dettaglio della bocca di Pupe che si contrae in un mesto sorriso; e infine dissolve. Il pianto di autocommiserazione di Pupe riguarda il suo orgoglio ferito, non la comprensione del suo ruolo sociale. Come osserva lo stesso Visconti (in «Filmcritica», settembre 1965, p. 442), «sarebbe la coscienza; invece essa non ha che un presentimento di coscienza. Le lacrime sono dunque una maniera muta di mostrarlo». Il regista le concede una intuizione della sua condizione di merce pregiata, che non vale però a modificare la sua situazione di moglie borghese: poiché, come direbbe il Marx del Manifesto, proprio «la borghesia ha strappato il velo di tenero sentimentalismo che avvolgeva i rapporti di famiglia e li ha ridotti a semplice rapporto di denari». Trattando un ambiente sociale a lui ben noto, e un tema come quello della dissoluzione familiare a lui cosi caro, Visconti li affronta al presente con caustico distacco. Un tono diverso dalla commossa partecipazione con cui sta ricostruendo nel passato, per il prossimo film, le radici di quella stessa decadenza. Ma considera i due momenti inseparabili, derivati per conseguenzialità storica. A sottolineare tale legame, pone fra le mani distratte del conte Ottavio uno dei libri di Pupe: ed è una copia, in tedesco, di Il Gattopardo. II Gattopardo 1860. La notizia dello sbarco dei garibaldini a Marsala interrompe la recita del rosario in casa del principe don Fabrizio di Salina (Burt Lancaster). Suo nipote Tancredi (Alain Delon), allo scopo di controllare il corso degli eventi, si arruola tra i volontari. Il principe approva l’opportunismo del nipote, credendo cosi di mettersi al riparo da ogni cambiamento. Di opposto avviso il prete di famiglia: il gesuita padre Pirrone (Romolo Valli). Nonostante la rivoluzione, i Salina si recano come ogni anno in villeggiatura nel feudo di Donnafugata. Qui è in corso il plebiscito per l’annessione allo Stato sabaudo, e il principe vota pubblicamente a favore. I risultati della votazione simulano un’adesione unanime; a dispetto di chi, come don Ciccio Tumeo (Serge Reggiani), aveva confermato la propria fedeltà al vecchio regime. Capo locale del nuovo corso è il sindaco don Calogero Sedàra (Paolo Stoppa), un “uomo nuovo” arricchitosi con i suoi traffici. Invitato a pranzo dal principe, il rozzo Sedàra sorprende tutti i convitati con la bellezza di sua figlia Angelica (Claudia Cardinale). Don Fabrizio appoggia il fidanzamento del nipote, nobile ma spiantato, con la
ricca e sensuale ereditiera: nonostante che anche sua figlia Concetta (Lucilla Morlacchi) sia innamorata di Tancredi. Mentre questi comincia la scalata sociale nello Stato sabaudo, don Fabrizio declina il seggio di senatore offertogli dal funzionario piemontese Chevalley (Leslie French), poiché è del tutto scettico sulle possibilità di cambiamento della Sicilia. Durante un ballo a Palermo, presagisce la fine del proprio mondo e invoca l’estrema certezza della morte. Tancredi e don Calogero, invece, tornano dal ballo rassicurati: hanno udito che l’esercito regolare ha giustiziato i garibaldini ribelli.
Il romanzo che Giuseppe Tomasi, ultimo principe di Lampedusa, dopo un ventennio di esitazioni e di rinvii, si era risolto a scrivere negli ultimi anni della sua vita a un tavolino del Caffè Mazzara di Palermo, esplode postumo come uno dei massimi successi e casi letterari del dopoguerra. E provoca una polemica che investe la sua visione storica, prima ancora che la sua qualità letteraria. Gli intellettuali di sinistra sono divisi. Anche i vecchi amici di Visconti, Alicata e Trombadori: mentre il primo liquida il romanzo come una «caricatura del Risorgimento», il secondo leggerà nella descrizione delle riassorbite istanze risorgimentali, una analogia ai mortificati ideali della Resistenza. C’è chi ravvisa nello scrittore lo sguardo nostalgico di un reazionario; chi, al contrario, l’acume di una lucida critica storica. In realtà, la complessità del romanzo riflette le contraddizioni dell’autore. In don Fabrizio di Salina, il principe di Lampedusa ritrae il simbolo idealizzato dei valori positivi della sua classe, contrapponendolo alla volgarità dell’“uomo nuovo” Sedàra. Come direbbe Marx – quell’«ebreuccio tedesco» cui allude il principe nel romanzo – «il proprietario fondiario fa valere la nobiltà originaria della sua proprietà, fa valere memorie e reminiscenze feudali, la poesia del ricordo, la sua natura romantica, la sua rilevanza politica, ecc. (… ) Nello stesso tempo ci descrive il suo avversario come un manigoldo senza onore, senza principi, senza poesia…» (K. Marx, Imanoscritti economicofilosofici del 1844, Torino 1949, p. 94). Ma la grandezza del Lampedusa sta nell’indicare l’insinuarsi del calcolo economico-politico nel romantico modo d’essere del possesso fondiario. All’antitesi estetica tra aristocrazia fondiaria e nuova borghesia subentra l’alleanza d’interesse, e con essa il tramonto di quell’alone romantico. Lo scrittore lo rievoca con struggente partecipazione dal punto di vista del principe in declino, ma è tuttavia consapevole della necessità storica della sua fine. «È necessario» direbbe ancora Marx «che questa apparenza venga soppressa, che la proprietà fondiaria (… ) venga attratta interamente nel movimento della proprietà privata e si trasformi in merce, (… ) che al posto del matrimonio onorifico con la terra subentri un matrimonio d’interesse… » (ibidem, p. 64). Ed è in sostanza quanto accade con il matrimonio tra il blasonato Tancredi e le 824 salme di terre portate in dote da Angelica. Anche se, in Il Gattopardo, interesse venale e necessità storica appaiono intrisi di ferina sensualità e di voluttuoso desiderio di oblio. A distanza di un secolo da quei fatti, perso ormai l’aristocrazia il ruolo di classe dirigente a dispetto dei suoi calcoli utilitaristici, il Lampedusa ne rimpiange la funzione estetica, il patrimonio di tradizione, di cultura e di gusto. Rielaborando i ricordi della prima infanzia, tenta un recupero nel terreno della memoria, ingigantendo la figura del principe Fabrizio, interiorizzando gli eventi con il ripetuto ricorso al monologo interiore, disseminando il racconto del passato di allusioni al fatale adempiersi dei fatti futuri. Non trascura, però, la dialettica storica. Il Gattopardo risulta cosi l’epicedio ironico e struggente di una classe al tramonto, ma anche la lucida descrizione del riassorbimento degli ideali risorgimentali con il ricorso al trasformismo politico. Il celebre «se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi» riassume la contraddizione tra l’effettiva caduta del vecchio mondo e la mancata realizzazione di un mondo nuovo. Appena legge il romanzo di Lampedusa, Visconti decide di trarne un film. Molti sono gli elementi che lo affascinano: il ruolo della cultura aristocratica, l’ambientazione siciliana, la descrizione degli avvenimenti risorgimentali sotto il profilo inconsueto del “tradimento”: prospettiva questa già
utilizzata per Senso. Visconti non ritiene in contraddizione le acquisizioni della storiografia democratica (Gobetti, Salvemini, Gramsci) sul Risorgimento come «rivoluzione incompiuta» con il pessimismo del principe di Salina. Esso si manifesta, nel film come nel libro, in una serie di dialoghi: come quello con don Ciccio Tumeo durante la battuta di caccia, in cui si fa riferimento alla manipolazione del risultato elettorale nel plebiscito per l’annessione allo stato sabaudo: Principe: «Ammiro la vostra fedeltà e devozione. Ma dovete capire, don Ciccio, che il popolo era sovreccitato per le vittorie di questo Garibaldi, e il plebiscito era il solo e urgente rimedio per l’anarchia. Credetemi. E per noi non è che il male minore. I Savoia, in fondo, una monarchia sono. Gli interessi delle persone che amate e a cui siete devoto escono da questi avvenimenti frustrati, si, ma ancora vitali, ancora validi. Qualcosa doveva cambiare perché tutto restasse com’era prima. L’ora della rivoluzione fini. Speriamo che l’Italia nata oggi qui a Donnafugata possa vivere e prosperare». Don Ciccio: «Ma io ho detto di no. E quei porci in Municipio, si inghiottono la mia opinione, la masticano e la cacano via come vogliono loro… Io dissi Nero e loro mi hanno fatto dire Bianco. Ero un “fedele suddito”. Ora tutti savoiardi sono! Ma i savoiardi me li mangio col caffè, io… i savoiardi!». I personaggi esprimono punti di vista reazionari; «ma lo fanno» osserva Visconti «o meglio Lampedusa ha ottenuto che lo facciano, in modo tale, da mostrare in qual modo distorto la classe dirigente piemontese e i suoi alleati naturali in Sicilia portassero avanti il “nuovo” servendosi unicamente degli strumenti più menzogneri e deprimenti del “vecchio”, la malafede, la sopraffazione, l’inganno» (L. Visconti, Il Gattopardo, Bologna 1963, p. 29). In Il Gattopardo, Visconti ammira l’intrecciarsi di vita interiore e vita sociale, cui vede corrispondere, sul piano dello stile, la sintesi tra il realismo di stampo verghiano e il flusso della memoria proustiana. «Sarebbe la mia ambizione più sentita» afferma «quella di aver fatto ricordare in Tancredi e Angelica la notte del ballo in casa Ponteleone, Odette e Swann; e in don Calogero Sedàra nei suoi rapporti coi contadini e nella notte del plebiscito, Mastro Don Gesualdo» (ibidem, p. 28). Ancora una volta, la sua sintesi stilistica Visconti la cerca nel melodramma. Con un attacco sontuoso, con quel susseguirsi di carrellate che funge da ouverture, con 1’“allegro maestoso” del commento musicale di Nino Rota, il film dichiara fin dall’inizio di voler sottolineare la musicalità del romanzo. Per il ballo, Visconti utilizza lo spartito di un valzer inedito di Verdi. Per la scena dell’arrivo dei Salina a Donnafugata, sviluppa le citazioni proposte nel testo: dall’aria verdiana «Noi siamo zingarelle» che saluta l’arrivo del corteo, all’«Amami Alfredo» che ne accoglie l’ingresso in chiesa. Ma l’intento di sottolineare gli elementi lirici del romanzo induce Visconti a modificarne il tono e la struttura. Dovendo trasformare in immagini e dialoghi il fluire del tempo e del monologo interiore propri del Lampedusa, il regista decide di sintetizzare i tempi della vicenda e di dilatare invece quelli del ballo. Sopprime alcuni episodi e tutta la parte finale del romanzo, in cui Lampedusa, dopo quello lirico, descrive con amara ironia il lato più squallido della morte: la sopravvivenza di persone e cose che hanno ormai esaurito la loro funzione storica. Lo scrittore sottolinea più volte l’importanza di quel «patrimonio di ricordi, di speranze e di timori di classe» di cui è costituito, come dice padre Pirrone, l’universo artificiale degli aristocratici: quella sensibilità ai segni esteriori, per cui l’apparizione in frac di don Calogero fa al principe «un effetto maggiore che non il bollettino dello sbarco a Marsala», quell’attaccamento alle case e al mobilio di cui parla Tancredi ad Angelica, quell’importanza di rispettare le tradizioni, che trasformerebbe in un dramma per il principe la mancata villeggiatura a Donnafugata. Proprio il mutare di questi segni contraddice l’illusione di don Fabrizio di fermare la storia. Anche se sarà scongiurata la rivoluzione popolare, cambieranno infatti la cultura, lo stile, i cerimoniali della classe dominante. Attraverso questi segni il principe prende coscienza della propria sconfitta: «Era inutile sforzarsi di credere il
contrario, l’ultimo Salina era lui (…). Perché il significato di un casato nobile è tutto nelle tradizioni, cioè nei ricordi vitali; e lui era l’ultimo a possedere dei ricordi inconsueti, distinti da quelli delle altre famiglie (…). L’ultimo era lui. Quel Garibaldi (…) aveva dopo tutto vinto» (G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Milano 1958, p. 291). Per questo motivo, i cerimoniali dei Salina descritti da Visconti (la preghiera, la toeletta, la vestizione, la lettura, il giuoco, la caccia, la colazione all’aperto, il pranzo, il ballo) non scadono mai a pura illustrazione, ma danno il senso del loro significato sociale e della loro fine imminente. Nonostante che la ricostruzione scenografica avalli, e persino accentui, la idealizzazione di luoghi e ambienti mediata dalla memoria del Lampedusa, persone e cose appaiono come sontuose nature morte. Visconti ricorre al procedimento per lui consueto di sospendere i gruppi familiari nell’immobilità: come nella scena iniziale del rosario, o nella chiesa di Donnafugata, quando i Salina appaiono come mummificati sotto la coltre di polvere del viaggio. Una immobilità a cui il regista si proponeva di attribuire un significato polemico, indicando nel trasformismo e nell’immobilismo di ieri le premesse alla stasi politica attuale. Anche nel finale Visconti ha voluto aggiungere uno spunto polemico, inserendo nel testo un’allusione alla fucilazione dei disertori dell’esercito regio, che nel 1862 seguirono Garibaldi in Aspromonte. Abbandonato su un pouf della “sala d’oro”, Tancredi accenna con nonchalance ad Angelica dell’esecuzione imminente. Si esibisce cosi nella sua vera veste politica, provocando la risentita delusione di Concetta. Rimasti soli, Tancredi e Angelica si abbracciano; finché irrompono nel salone gli ufficiali e le dame che aggregano la coppia alla catena della quadriglia: un vincolo simbolico, con il quale contrasta l’isolamento del principe fra i membri della sua classe. In ultimo, mentre don Fabrizio si inginocchia al passaggio del viatico e pronunzia la sua estrema invocazione di morte, lo sparo dei fucili echeggia all’interno della carrozza su cui rientrano Tancredi, Angelica e don Calogero, e li rassicura della restaurazione dell’“ordine”. Queste notazioni hanno l’intento di suggerire il corso reazionario della nuova classe dirigente, futura sostenitrice del fascismo. Ma, più che altro, sottolineano il contrasto tra la posizione di aristocratico distacco del principe e l’arido opportunismo dei suoi successori. Anche gli spunti intenzionalmente polemici convergono cosi in quello struggente ritratto della fine del principe, che è il vero tema dominante del film. Il suo culmine è nel ballo. Visconti ha posto questo capitolo – l’ultimo scritto dal Lampedusa – a conclusione della vicenda, e lo ha dilatato sino a fargli occupare un terzo dell’intero film. Tra i suoi fasti coreografici ha insinuato quei sedimenti luttuosi di cui lo scrittore ha intessuto tutto il romanzo. Il momento della fragorosa spettacolarità diventa cosi anche quello della contemplazione interiore. Durante il ballo, il principe prende le distanze, sia dalla vecchia aristocrazia in declino, sia dai volgari profittatori del nuovo corso. Mentre gli altri aristocratici celebrano la loro sopravvivenza nei fastosi e antiquati ambienti di palazzo Ponteleone, egli riconosce in quella illusoria vitalità i presagi della fine imminente. Il principe prende cosi coscienza del proprio inganno: l’illusione che il matrimonio di Tancredi con Angelica potesse preservarlo dalla morte, sia come individuo che come esponente della sua classe sociale. Egli cercava evidentemente nella vitalità del nipote un compenso all’esaurirsi della propria: all’inizio del film, Visconti fa apparire l’immagine di Tancredi riflessa nello specchio del principe, come fosse la sua immagine. Ma nel finale questa proiezione si rivela illusoria. Durante il celebre valzer, il principe si sostituisce per l’ultima volta al nipote; ma anche la bellezza di Angelica si rivela allora un effimero risveglio dei sensi: un corteggiare la morte in uno dei suoi ingannevoli travestimenti. Dalla contemplazione del quadro di Greuze La morte del giusto, il principe passa alla premonizione della propria. Quando il ballo volge ormai al termine, Visconti riprende il principe mentre si osserva allo specchio della toilette. La musica tace per un momento; con un lungo primo piano, la macchina da presa indugia sulla immagine riflessa; poi, in controcampo, si sofferma sul volto stesso, in
lacrime. Una breve panoramica scopre nella cameretta (con una punta sarcastica che tempera l’accento patetico) le file di orinali stracolmi, quindi segue ancora il principe che passa nel salone vicino. Qui egli appare isolato e come smarrito nella vastità dell’ambiente. Si allontana verso il terrazzo: e un breve movimento di panoramica opposto al suo sembra prolungarne il cammino verso l’incerta luce dell’alba. Visconti sottolinea con struggimento l’intuizione di morte del protagonista. Esalta la sua solitudine nella affollata vanità mondana; il suo pessimismo contro la sicumera dei Pallavicino, dei Sedàra, dello stesso Tancredi. Con quel gioco di specchi, quel ricorso alle lacrime, quel gusto melodrammatico che gli sono propri, interrompe il romanzo al suo culmine lirico, prima che l’epicedio struggente si trasformi in grottesco inventario del passato. Si proponeva di «caricare di volontà» il pessimismo e la nostalgia di don Fabrizio; di risolvere criticamente le contraddizioni del Lampedusa. Ma piuttosto, per un felice concorso di affinità e di inconfessati motivi autobiografici, ha trovato in esse lo spunto per dare espressione alle proprie. «Soltanto Visconti comunista e aristocratico» come ha scritto Moravia (ne «L’Espresso», 7 aprile 1963) «poteva con tanta sottigliezza dosare il grado di scetticismo e di patetica nostalgia del principe di fronte alle questioni sociali e politiche dell’epoca, nonché le sfumature quasi proustiane della sua personalità mondana e familiare». Esiste una curiosa consonanza tra il capolavoro di Visconti e un film di poco precedente, Jalsaghar (Sala di musica, 1958) del regista indiano Satyajit Ray. Jalsaghar descrive il declino di una famiglia aristocratica indiana che cade nelle reti di un astuto faccendiere. Il tramonto della vecchia classe sociale e l’avvento della nuova borghesia rozza e arrogante è descritto attraverso una raffinatissima descrizione dei cerimoniali sociali, è scandita dai concerti che l’aristocratico organizza nella sala da musica del proprio splendido palazzo ormai in rovina, e trova il suo culmine nella metafora del ballo: in una memorabile scena in cui l’aristocratico sacrifica all’amore per la danza e la musica tutte le sue residue sostanze. Anche se sono da escludere delle influenze dirette tra i due film, essi offrono tuttavia una opportunità affascinante: mettere a confronto il modo in cui due grandi maestri di cinema, appartenenti a culture cosi lontane e diverse, hanno affrontato a pochi anni di distanza un tema sorprendentemente affine. Vaghe stelle dell’Orsa A Il Gattopardo fa seguito un intenso periodo di attività teatrale: un’eco del celebre ballo torna a farsi sentire nella festa iniziale di La traviata, un ricordo di padre Pirrone nel personaggio del parroco di Il tredicesimo albero: i due spettacoli che Visconti allestisce nel ’63 a Spoleto. Poi, ancora il melodramma: un’edizione di Le nozze di Figaro sfrondata dei preziosismi imposti a Mozart dalla corte viennese e restituita allo spirito polemico della originaria commedia di Beaumarchais. Quindi, due diverse edizioni di Il trovatore, presentate a Mosca e a Londra. Nel frattempo, il ritorno al cinema è impostato su un tono volutamente “minore”. Dopo un “romanzo” cinematografico di grande respiro, una “novella” più privata, concentrata nel tempo e nello spazio. Ma ugualmente dedicata al tema della memoria: quelle «ricordanze» appunto, cui fa riferimento il titolo di Vaghe stelle dell’Orsa. I coniugi Dawson, Andrew e Sandra (Michael Craig e Claudia Cardinale) lasciano Ginevra per un breve soggiorno a Volterra, città natale di lei. Occasione del ritorno di Sandra è la donazione del giardino di famiglia al Comune, come parco pubblico intitolato alla memoria del padre, uno studioso ebreo morto in un campo di concentramento. Sandra resta turbata dal ritrovarsi nell’antico palazzo; dal rivedere la madre (Marie Bell), ricoverata in una clinica per malattie mentali; e dall’arrivo del fratello Gianni (Jean Sorel). L’incontro li riporta alle segrete complicité dell’infanzia, quando erano coalizzati contro la madre e il suo secondo marito, Gilardini (Renzo Ricci), sospettati di aver provocato la deportazione del padre. Gianni ha enfatizzato
morbosamente il ricordo del loro legame in un manoscritto di memorie intitolato Vaghe stelle dell’Orsa. Andrew, sconcertato dai misteri che vede affiorare dal passato, riunisce la famiglia a pranzo per un chiarimento. Qui Gilardini reagisce all’ostilità di Sandra, accusando i fratelli di un rapporto incestuoso. Gianni non replica nulla, e Andrew lo aggredisce. Quindi parte, invitando la moglie a dimenticare il passato e a raggiungerlo. Gianni invece, distrutto il romanzo per compiacere la sorella, la scongiura di restare con lui, minacciando di suicidarsi. Ma Sandra si sottrae a lui con disprezzo, decisa ad accogliere l’invito del marito. Gianni allora si avvelena. Mentre Sandra assiste alla cerimonia commemorativa del padre, un vecchio amico le porta la notizia della sua morte.
Le limitate dimensioni del racconto ne condizionano lo stile: per la prima volta, onde sottolineare velocemente certi passaggi senza dilungarsi in descrizioni, Visconti ricorre all’uso sistematico dello zoom (una scelta cui rimarrà poi fedele in tutti i film successivi). In tono minore anche le dimensioni produttive. Nonostante i notevoli incassi di Il Gattopardo, che pur non coprendo le spese inducono alcuni produttori americani a farsi avanti, Visconti torna a lavorare con Cristaldi secondo una formula molto simile a quella di Le notti bianche: un film relativamente a basso costo, in interni e in bianco e nero, che offra nuove chances a una attrice (in questo caso la Cardinale). Per lei il regista e gli sceneggiatori pensano a una moderna Elettra, l’eroina della vendetta in nome dell’ordine familiare. Come di consueto, confluiscono nel film echi diversi. Quattro anni prima, nell’allestimento parigino di Peccato che sia una puttana, Visconti aveva affrontato il tema dell’incesto, sottolineando la tenerezza e la complicità del legame tra i fratelli, a contrasto con l’esasperata violenza dell’ambiente elisabettiano. Anche ora mette in scena, su un remoto sfondo di delitti nazisti, due fratelli alla ricerca torbida e tenera di passioni e memorie perdute nell’infanzia. E una citazione del dramma di Ford (atto II, sc. 6) si ritrova nella scena della Cisterna, quando Gianni sottrae l’anello nuziale alla sorella e se lo pone al dito come simbolo del loro legame. Ma una più ampia citazione letteraria affiora, con crescente insistenza, fin dalle immagini che precedono e accompagnano i titoli di testa. Introdotti dalla corsa della «macchina precipitosa» verso la «città di vento e di macigno», gli ambienti e i personaggi, i fantasmi e le passioni, il tema stesso dell’incesto di Vaghe stelle dell’Orsa dichiarano un debito letterario che il regista non volle mai riconoscere: quello con il Forse che si forse che no di d’Annunzio. Già nel motto dato per titolo al suo romanzo, d’Annunzio ne suggerisce il tema dominante: l’ambiguità. Essa alimenta il rapporto tra Isabella, il suo amante Paolo e il fratello Aldo; e quello tra la realtà della prima parte del libro, ambientata a Mantova, e i fantasmi della seconda, evocati a Volterra. Si tratta però di una ambiguità di maniera, scritta non tra le righe, ma bene in vista sopra di esse; e i segreti cui allude sono bisbigliati con il tono altisonante dei “sussurrati” da palcoscenico. La vera ambiguità del romanzo è piuttosto ideologica e letteraria: consiste nello sforzo di rifuggire dal banale e dall’ordinario; di ammantare i personaggi con vesti tragiche e aristocratiche per mascherarne la mediocrità; di arredare piccole torbide passioni con il gusto dello scandalo e con il lusso del Verbo. «Piccoli vizi prudenti, sporchi; storie della vita di provincia, con le sue passioni esasperate», dicono i protagonisti del film. Nella “eccezionalità” esibita dai personaggi dannunziani, Visconti ritrova l’odore di falso e di chiuso, l’enfasi di passioni covate in un ambiente opprimente e angusto. Cosi come la maledizione romantica dell’incesto («l’ultimo dei tabù», «l’ultimo degli amori impossibili», come lo definisce lo stesso regista) rivela poi le sue vere proporzioni nel tanfo sordido di un nucleo familiare avvolto su se stesso; nell’impotenza mediocre di Gianni (ennesimo “vinto” viscontiano) di aderire alla realtà e di staccarsi dal passato. Il regista è cosciente delle pose teatrali dei personaggi: come dimostra la scelta di un’attrice “dannunziana” come Marie Bell e di un attore impostato e “canoro” come Renzo Ricci nei ruoli
ribaltati del «padre ignominioso» e della «matrigna feroce» dannunziani; e come è sottolineato dalla prosa ridondante del romanzo di Gianni e dall’infantile messa in scena del suo suicidio. Ciononostante, Visconti cerca di elevare la vicenda a un livello tragico, e si scontra con le modeste dimensioni drammatiche dei suoi personaggi. Nell’ambizione di dar vita a una tragedia moderna sul tema dell’incesto, ricade cosi nell’enfasi dei simboli e dei dialoghi propria del romanzo; e asseconda il vezzo dannunziano di ammantare i personaggi in sproporzionate vesti classiche: Sandra come Elettra, la madre e l’avvocato come Clitemnestra ed Egisto. Impacciato da questo intento magniloquente, il film trova piuttosto le sue note migliori nel contrasto fra presente e passato, fra vecchio e nuovo: il passaggio dall’ambiente geometrico e luminoso di Ginevra a quello cupo e tortuoso di Volterra; dal Preludio di César Franck, carico di reminiscenze familiari (anche per lo stesso Visconti: era lo spartito prediletto dalla madre), alle canzonette urlate dal transistor durante la ricognizione di Sandra nella casa paterna e l’apparizione di Gianni in giardino; dagli abiti “spezzati” e dai “tagli” di luce indizio dei conflitti insoluti di Gianni, al luminoso candore del vestito di Sandra quand’essa cerca di distaccarsi dalla vischiosità del passato. Su tutto grava quel senso di precarietà, di certezze minacciate da antiche memorie e tarlate da dubbi, di cui è simbolo Volterra: con le sue funebri memorie etrusche, le sue fondamenta franose, le sue Balze voraci. Una città fantasma, come la descrive Visconti: le facciate illuminate, simili a spettri nel buio. «Come il paese etrusco aveva la sua città sotterranea abitata dai morti, cosi ebbero essi la loro città interiore abitata dagli spiriti violenti», dice d’Annunzio. E Visconti evoca come fantasmi anche la figura del padre: il suo busto velato in giardino; e della madre: la sua camera proibita, il calco della sua mano, la visita in clinica, scomposta e disseminata in brevi stacchi tra i ricordi e gli scrupoli di Sandra. I fantasmi del passato, come vuole il luogo comune. Ma anche fantasmi di un romanzo familiare inteso in senso psichico, ossia deformazioni di ricordi e desideri dell’infanzia. Ciò rende sempre incerta l’attendibilità delle accuse reciproche, e suggerisce una serien di transfert. Quello di Sandra dal padre al fratello: come si vede nella scena del giardino, quando il suo sguardo passa improvvisamente dal monumento velato al volto di Gianni; o nel finale, quando la commemorazione del padre è montata in modo da sembrare quasi un requiem per Gianni che sta morendo. Quello di Gianni dalla madre alla sorella: come appare nella scena in cui trascina Sandra presso il letto della madre. Quello tra gli stessi fratelli, come suggerisce la scena della Cisterna, in cui la macchina da presa scende dai corpi di Sandra e Gianni alle loro immagini invertite e confuse nell’acqua. Fantasmi dunque, e destinati a non prendere corpo. Visconti rifiuta soluzione o giudizio: «È come quando si solleva una pietra e sotto si vedono gli insetti: li guardiamo muoversi e subito rimettiamo la pietra al suo posto» (in «Sipario», n. 234, p. 11). Una pietra sul passato – come la lapide commemorativa e la preghiera finale al defunto – che viene scalfita però dall’arrivo del “messaggero” Pietro. Il film si conclude cosi con un motivo tipicamente viscontiano: l’intuizione parziale di una verità, subito rimossa o coronata dalla morte; l’impossibilità di prescindere dal passato e di ricomporre un ordine ormai in frantumi. Un “giallo” insoluto in cui si ritrova «l’angosciosa problematica del non-essere», dice il regista. Ma, proprio in virtù di questa magniloquenza, il film risulta soprattutto un reticente gioco della verità, enfatizzato dal suo mistero: c’è stato un delitto, un incesto, un colpevole? Forse che si, forse che no… La strega bruciata viva Con Vaghe stelle dell’Orsa, Visconti ottiene a Venezia quel Leone d’oro che gli era stato negato per La terra trema, per Senso e per Rocco e i suoi fratelli. Quindi, corona a Roma il ventennale della sua attività teatrale con l’ultima grande regia cechoviana: Il giardino dei ciliegi. Interpreta questo ennesimo dramma della dissoluzione familiare in modo insolito: contrariamente all’abitudine
invalsa di affrontare il testo in modo patetico, Visconti – rifacendosi ad alcune osservazioni contenute nell’epistolario dello stesso Čechov – opta per un tono da vaudeville, che sottolinea l’inconsapevolezza dei protagonisti di fronte al dramma che vivono. Segue un’importante stagione lirica: a Roma un Don Carlo ispirato ai violenti contrasti della cultura spagnola; a Vienna un Falstaff sobriamente realistico; a Londra un Cavaliere della rosa trasferito, dall’ambientazione settecentesca del libretto, in un clima Jugendstil, coerente con la partitura musicale. Il ritorno al cinema, con la presentazione di Le streghe, si rivela invece il più infelice dell’intera carriera viscontiana. Egli partecipa a questo film a episodi con una novella cinematografica intitolata La strega bruciata viva: ovvero la donna bruciata all’idolo del denaro, come suggeriscono i titoli di testa animati da Pino Zac. Ma il produttore De Laurentiis giudica troppo lungo l’episodio e costringe il regista a ridurlo in maniera da fargli perdere di ritmo e di mordente. Ciò che ne resta, seppure stilisticamente mutilato, è tuttavia assai indicativo da un punto di vista tematico e ideologico. L’attrice Gloria (Silvana Mangano) arriva nello chalet austriaco di Kitzbühel, ospite dell’amica Valeria (Annie Girardot), che festeggia il suo anniversario di matrimonio. Gloria comincia a esibirsi in un gioco di società, ma è colta da malore. Nel soccorrerla, gli invitati si accorgono dei suoi posticci: la retina dei capelli, le ciglia di visone, i tiranti del viso. Viene la notte: Valeria tenta invano di tornare con il marito, da cui dorme separata da tempo; alcuni ospiti amoreggiano con i domestici; Gloria gioca con la rivalità di due corteggiatori (Francisco Rabal e Massimo Girotti). Ma sviene di nuovo, e Valeria comprende che è incinta. Gloria telefona la notizia al marito, il quale, pur di non disdire i contratti cinematografici stipulati, si oppone alla gravidanza. Lei tenta inutilmente di contraddirlo. Al mattino, gli addetti della produzione vengono a prelevarla in elicottero: e lei si lascia condurre via, come un magnifico automa, in mezzo ai flash dei fotografi.
«Nella mitologia moderna la diva rappresenta il raro, lo stravagante, l’eccezionale»: Visconti è stato da sempre affascinato dalla figura della diva, «questo essere insolito il cui ruolo nello spettacolo oggi bisognerebbe poter rivalutare», come diceva anni prima, riferendosi al melodramma. Ed è quanto aveva fatto nei memorabili spettacoli con la Callas. Ma proprio la Callas, la grande amica, egli aveva poi veduto umiliata nella sua relazione con Onassis. Memore anche di questo ricordo personale, egli vuole ora smitizzare il ruolo della diva, mostrarne il rovescio. Il pretesto è offerto dalla maternità: un tipico momento di inconciliabilità con la professione di attrice, di cui il regista era stato testimone ai tempi di Ossessione, attraverso le vicissitudini della Magnani. Su soggetto di Giuseppe Patroni Griffi, egli mostra dunque un’«annunciazione» che pone la protagonista in conflitto tra il potersi realizzare come persona e il dover fruttare come prodotto. Ma le metafore appaiono sin troppo scoperte. La diva come vittima del successo: eccola inebetita sotto l’assedio dei fotografi. La diva come simbolo di relazioni sessuali distratte e superficiali: ecco la mosca cieca tra i due corteggiatori. La diva come idolo odiamato: ecco le rivali saggiarle la consistenza del seno e “smontarla” pezzo per pezzo. Le donne comuni come controfigura della diva: ecco l’amica Valeria, moglie infelice; o la segretaria che seduce il bel cameriere, nascondendosi dietro l’immagine della padrona. Insomma, la diva come feticcio. Tutto ciò è riassunto a chiare lettere nelle parole di un industriale che paragona l’attrice alle sue scatolette di carne: «Lei è un prodotto, un sublime prodotto! … Il prodotto è l’elemento fondamentale di un’industria. E se non fosse sempre della stessa qualità, dello stesso calore, stesso sapore, stessa mistura, sarebbe un vero e proprio guaio. La più piccola variazione e la concorrenza scatta … Il fatto è che voi artisti siete una strana specie d’industria: precaria, improbabile. Può bastare un colpo d’aria, o un amore, e tutto il capitale se ne va in fumo»: è appunto quanto minaccia di accadere con l’inopportuna maternità. Visconti inserisce questa “invettiva” marxisteggiante in una concezione conservatrice della famiglia. Qualche anno prima
aveva manifestato esplicitamente le sue opinioni in proposito (citando tra l’altro l’esempio della Callas) nel colloquio con una diva della canzone: «Una donna può avere anche una professione, può essere un’artista, tuttavia deve mettere al di sopra di tutto certi compiti che consistono nell’essere un’amante, una moglie, una madre, probabilmente, e cioè ricreare nella sua integrità tutto quello che fino a un secolo fa è stato il solido gruppo della famiglia. Questo secondo me è molto importante perché la società cammini. Quando non esiste la famiglia, non esiste più nulla» (in Incontri impossibili, a cura di S. Benelli, Milano, Lerici, 1960). È questa l’ideologia che pervade l’episodio di Le streghe: una critica alla logica borghese del profitto, poiché attenta all’unità familiare; una critica dei falsi idoli del progresso, poiché tradiscono la tradizione. È una concezione che attraversa tutta l’opera di Visconti; ma che nei momenti migliori è resa dialettica – e dunque espressiva – dalla coscienza della inevitabile sconfitta del passato, dalla sofferta partecipazione autobiografica, da quel sentimento contraddittorio di odio-amore che gli fa dipingere la famiglia al tempo stesso come un rifugio perduto e una prigione soffocante e mostruosa. Qui invece l’atteggiamento è univoco, e dunque moralistico: i ricchi frivoli e dissoluti, contrapposti ai sentimenti e ai valori familiari tradizionali; la donna umiliata in un ruolo di oggetto, contrapposta alla sua “vocazione” di «conservatrice del gruppo familiare». Limitato da questa impostazione – oltre che dai tagli inferti dalla produzione – l’episodio finisce per scadere in una banale contrapposizione tra successo e sentimenti. E restano infruttuose le intenzioni polemiche, l’uso raffinato dei colori e degli arredi, la presenza di uno stuolo di ottimi attori. Tra i quali esordisce, nel ruolo di un domestico, un giovane destinato ad assumere un ruolo di primo piano nella vita e nel cinema di Visconti: Helmut Berger. Lo straniero Sempre nel 1967, Visconti presenta – dopo due nuovi allestimenti lirici – la sua versione di Lo straniero. Aveva cominciato a lavorare a questo progetto fin dal 1962, all’indomani della indipendenza algerina. Il suo antico amore per il romanzo era stato riacceso dai recenti avvenimenti storici, e l’anno seguente, aveva anche pensato di ambientare durante la guerra franco-algerina una nuova versione teatrale del Troilo e Cressida di Shakespeare. Ma quando, dopo vari anni e una lunga serie di rinvii, giunge finalmente alle riprese di Lo straniero, l’entusiasmo iniziale è fiaccato da numerosi motivi di scontento: è deluso dai luoghi, ormai modificati dal tempo; è contrariato dalla indisponibilità di Delon per il ruolo del protagonista; è vincolato dai veti della vedova di Camus, che gli impediscono qualsiasi libertà interpretativa nell’adattamento del romanzo. Indotto a girare dagli impegni contrattuali stipulati con De Laurentiis, si rassegna a una semplice illustrazione del libro, che finisce per deludere critica e pubblico. 1939. Mersault (Marcello Mastroianni), un modesto impiegato francese ad Algeri, si reca all’ospizio in cui era ricoverata la madre, per assistere al suo funerale. La cerimonia lo lascia indifferente. Con lo stesso senso di estraneità egli allaccia poco dopo una relazione con una ex collega, Maria (Anna Karina) e stringe amicizia con un mediocre malvivente, Raimondo (Georges Geret). Questi si compromette malmenando la sua amante araba, e Mersault testimonia a suo favore. La domenica, Mersault, Maria e Raimondo vanno in una casa di amici, al mare. Alcuni arabi li seguono per vendicarsi su Raimondo e lo feriscono in una colluttazione. Raimondo è armato; per evitare il peggio Mersault gli sottrae la pistola. Ma poi si trova lui stesso di fronte a uno degli arabi, che lo affronta con un coltello. Gli spara e quindi, senza ragione apparente, scarica il caricatore sul corpo esamine. Al processo, in cui sfilano tutti i personaggi della vicenda, Mersault è messo sotto accusa: non tanto per il delitto, quanto per la sua condotta di vita e la sua insensibilité verso la madre. Rinuncia a difendersi e rifiuta i conforti religiosi. Consapevole dell’assurdité di tutto, si prepara all’esecuzione capitale.
Privo dei consueti elementi melodrammatici, apparentemente lontano dagli abituali temi viscontiani,
limitato da tanti impedimenti, il film viene liquidato alla sua uscita come un incidente e subito dimenticato. Facendo torto a molte sequenze eccellenti, a un senso dell’atmosfera ottenuto con insolita economia espressiva, a un compromesso non del tutto infelice tra intenzioni e risultati. Visconti aveva letto e amato il libro fin dalla sua uscita, nel clima inquieto dell’esistenzialismo. Dopo tanti anni – diventato il testo ormai un classico – egli crede di ritrovare, nei nascenti fenomeni di contestazione giovanile, una nuova manifestazione di quel malessere e di quelle aspirazioni di libertà che la sua generazione aveva riconosciuto nell’«assurdo» camusiano. Ancor più evidenti gli appaiono le premonizioni che il libro rivela alla luce dei successivi avvenimenti storici. Nel delitto apparentemente casuale di Lo straniero legge la paura e il razzismo: «Il terrore del pied noir cresciuto in questa terra, che si sente abusivo, che sa di doversene andare e lasciarla a chi spetta»; nel clima di incertezza e di attesa del romanzo, intuisce «l’incubo di una esplosione di violenza fra uomini che non riescono più a comprendersi e a convivere»; nella vicenda apparentemente privata del protagonista, riconosce «la profezia dell’oltranzismo dei parà e della rivolta algerina». La sua intenzione è quella di prolungare gli echi del romanzo fino agli avvenimenti recenti, alle feroci repressioni dell’Oas e alla lotta di liberazione nazionale. Ma, in curiosa contraddizione con tali affermazioni – e prima ancora che i veti di Francine Camus boccino la sua sceneggiatura troppo “attualizzante” – il regista dichiara anche di voler rifuggire da ogni interpretazione arbitraria, di rinunciare persino a scrivere una sceneggiatura per attenersi strettamente a quanto è narrato da Camus. Questo proposito di fedeltà è reso ancor più contraddittorio dalla natura particolare del libro. Lo straniero si presta a essere letto tanto in chiave storico-realistica che simbolico-psicologica; a essere interpretato come un processo interiore della coscienza di Mersault, e un processo alla ferocia e al conformismo dell’intero assetto sociale. Può essere considerato un romanzo, e l’enunciazione di una filosofia. Il delitto del protagonista, prima ancora che un fatto, è la dimostrazione di un teorema morale: secondo il quale, se a nulla si crede e nulla ha senso, anche il delitto diviene indifferente, possibile, ingiudicabile. Il moralista e il filosofo sono inseparabili dallo scrittore: nell’indifferenza e nell’apatia di Lo straniero Camus ha inoculato i germi di quell’anelito alla rivolta che sarebbe stato l’esito della sua riflessione ideologica futura. Ne sono indizio le parole del pubblico ministero che, con una singolare forzatura, paragona l’insensibilità di Mersault verso la madre a un delitto di parricidio che la stessa corte avrebbe dovuto giudicare successivamente, additando nell’una le premesse dell’altro. Quasi a dire che l’involontario anticonformismo di Mersault – originato non dalla ribellione cosciente, ma dalla sensazione di estraneità ai fondamenti della morale comune – è la premessa di un aperto ricorso alla trasgressione e alla rivolta. «Il vuoto dell’animo quale si trova in quest’uomo diventa un abisso dove la società può perire», dice il pubblico ministero: Camus, con evidente intento dimostrativo, fa che Mersault sia condannato non tanto per il suo delitto, quanto per la sua indifferenza alle convenzioni sociali. Ma nel film non vi è una interpretazione della filosofia dell’«uomo in rivolta», bensi una semplice trascrizione di ciò che è esplicitamente “detto” nel romanzo: le dichiarazioni di disamore a Maria, le arringhe filistee degli avvocati, la diatriba con il prete. Cosi, dopo quelle storiche, anche le implicazioni ideologiche del libro passano in sordina, e Visconti si limita a illustrare ciò che di rappresentabile c’è nel racconto. Rispetta la divisione in due parti del romanzo: la prima, in cui gli avvenimenti sono descritti come plausibili e naturali, pur nella loro assurdità; e la seconda in cui la loro “irregolarità” è messa sotto accusa dai rappresentanti della legge. Camus suggerisce una specularità tra le due parti: quella che si svolge in libertà e quella che riguarda la prigionia, poiché per lui la morte e l’assurdo sono i soli principi di libertà ragionevoli. Visconti sottolinea tale analogia, descrivendo all’inizio l’istituto per vecchi come una prefigurazione del carcere del finale: l’ufficio del direttore dell’ospizio – con le cataste di incartamenti e il continuo ticchettio della macchina da scrivere – affine a quello del giudice istruttore; il custode, con il suo grosso mazzo di
chiavi, simile a un secondino; i vecchi in divisa, come detenuti. Inoltre sottolinea la natura labirintica della vicenda di Mersault, circoscrivendola sempre più nello spazio e alimentandola con il contrasto tra i due motivi dominanti del libro: il sole e la morte. Si passa cosi dagli splendidi campi lunghissimi della campagna e del mare, all’angustia della prigione; dalla luce accecante della morgue, alla lugubre oscurità della cella dei condannati a morte. Si percorrono ambienti che, secondo il costume locale, sono tagliati in due fasce di colori diversi, sgargianti e squallidi; si odono grida e lamenti simili a una musica dissonante. Ciò che meglio Visconti riesce a rendere visivamente è quel senso di assurdità perfettamente naturale e verosimile che sprigiona dalle cosiddette «pagine bianche» di Camus. Distanzia la prospettiva degli eventi grazie a un uso eccellente della voce off e del campo lungo e lunghissimo. Imposta realisticamente le scene, ma le riprende da prospettive non naturalistiche. Le due sequenze migliori – quella del funerale e quella dello scontro con gli arabi sulla spiaggia – sono infatti inquadrate per lo più dall’alto, schiacciando il protagonista contro la superficie della terra e dei campi, o quella della sabbia e del mare: elementi ambientali concreti che assolvono cosi anche a una funzione simbolica e quasi astratta. Visconti aveva pensato originariamente di ricorrere a un procedimento inverso e complementare a quello adottato per Le notti bianche: girare in luoghi reali e deformarli via via espressivamente, sino a farli sembrare irreali. Ciò è avvenuto solo in parte, anche a seguito dei deludenti sopralluoghi e all’impossibilità di ritrovare la Algeri di Camus. Tuttavia, numerose analogie restano tra i due film, che sono quasi l’uno il rovescio dell’altro: il sole che prende il posto della notte; il materialismo di Camus quello del romanticismo dostoevskiano. La recitazione di Mastroianni sottolinea ancora di più la parallela condizione piccolo-borghese dei due personaggi, squallida e priva di realtà. Comune è l’ambiguo confine tra verità e apparenza: «Qui tutto è vero e niente è vero», dice durante il processo l’avvocato difensore. Del resto, il film si discosta meno di quanto sembri dalle tematiche viscontiane. Il tema dell’assurdo si sviluppa nel romanzo attraverso sentimenti degradati in abitudini, gesti comuni reiterati senza senso, modelli di comportamento morale e sociale svuotati di significato, rapporti familiari illanguiditi o stravolti: insomma attraverso l’estraniazione di quei cerimoniali familiari e sociali che costituiscono il soggetto prediletto del regista. Visconti ha certo proposto una lettura limitata del romanzo di Camus; ma – pure entro tali limiti – ne ha dato una illustrazione più rigorosa e sensibile di quanto sia stato riconosciuto. La caduta degli dei Dopo una nuova parentesi teatrale, Visconti si dedica a La caduta degli dei, in cui convergono una serie di progetti vecchi e nuovi. Alla base c’è la volontà «di fare la storia di una famiglia nel cui seno avvengono dei delitti che rimangono praticamente impuniti». Stimolato dagli echi del caso Profumo, Visconti pensa a una sorta di Macbeth cinematografico ambientato nell’Inghilterra contemporanea. Poi, assieme alla d’Amico decide di trasferire l’azione nell’alta borghesia industriale italiana: un’idea che si avvicina a un vecchio progetto per un film sulla borghesia milanese. Nel frattempo, si riaccendono certe suggestioni dei prediletti autori tedeschi e di letture sulla storia del Terzo Reich. Il risultato è il soggetto che alla fine del ’67 il regista stende con Medioli e sviluppa successivamente con Nicola Badalucco: la storia di una famiglia di grandi industriali dell’acciaio, in Germania tra il 1933 e il 1934: ossia nel periodo che va dall’incendio del Reichstag alle premesse della guerra. Questa ambientazione storica appare loro come lo sfondo ideale di un moderno Macbeth. Il clima di cupo intrigo della tragedia shakespeariana rivive «in un mondo, dove» (per usare le parole stesse di Hitler nel Mein Kampf «ogni creatura si nutre di un’altra e dove la vita del più forte implica la morte del debole». 28 Febbraio 1933. Il vecchio industriale Joachim von Essenbeck (Albrecht Schonhals), durante una riunione di famiglia, nomina alla vicepresidenza delle acciaierie l’ufficiale delle SA Konstantin
(René Koldehoff), allo scopo di compiacere il partito nazista. Indignato, il liberale Herbert (Umberto Orsini) dé le dimissioni e si rifugia all’estero. Durante la notte, Joachim viene assassinato e la responsabilité del delitto è addossata a Herbert. Il nipote di Joachim, Martin (Helmut Berger), eredita la maggioranza delle azioni; ma, succube della madre Sofia (Ingrid Thulin), nomina alla presidenza l’amante di lei, Friederich (Dirk Bogarde). Essi sono i veri autori del delitto, compiuto su istigazione dell’ufficiale delle SS, Aschenbach (Helmut Griem). Più tardi, in seguito al suicidio di una bambina ebrea sedotta da Martin, Konstantin riesce a ricattarlo, per assicurarsi la presidenza. Ma Friederich lo uccide, durante la strage delle SA del 30 giugno 1934. Tutto il potere passa cosi nelle mani di Friederich e Sofia, che eliminano anche la moglie di Herbert e fanno internare le sue bambine, per costringerlo a costituirsi. Preoccupato dalla loro eccessiva ambizione, Aschenbach trasferisce il suo appoggio a Martin. Questi, pervaso dall’odio e dal desiderio di rivalsa, stupra la madre e, dopo aver acconsentito al suo matrimonio con Friederich, li costringe entrambi al suicidio.
Visconti basa l’ambientazione del film sul saggio di William L. Shirer Storia del Terzo Reich; si documenta sulla morte di Hitler e di Eva Braun (cui si ispira per la scena del matrimonio nazista e del suicidio di Friederich e Sofia); rispecchia nella storia degli Essenbeck la mentalità e il modo di agire dei grandi industriali tipo Thyssen, Krupp o Borsig; consulta ogni sorta di materiali. Egli tuttavia non intende fare opera storica ma opera di finzione, intrisa di suggestioni autobiografiche e culturali. Nel film fa confluire una serie di ricordi personali: da quello dell’atmosfera del tempo (epoca in cui egli si trovava in viaggio in Germania), a quello del comportamento dell’aristocrazia milanese nei confronti del fascismo. Modella la figura del patriarca Joachim su quella di un suo zio; l’esibizione al violoncello di Guenther, al ricordo delle proprie. E, soprattutto, fa riferimento alle predilette fonti musicali e letterarie tedesche. Il grande modello è il melodramma wagneriano, cui si richiama lo stesso sottotitolo del film: Götterdämmerung. Le fiamme delle acciaierie – immagine sulla quale si apre e si conclude il film – evocano infatti le fiamme appiccate al Walhalla, che sanciscono il crepuscolo degli dei. Fiamme che – per restare nell’ambito del melodramma – sono parenti di quelle apocalittiche del Macbeth verdiano (atto I, sc. 19): «Schiudi, inferno, la bocca e inghiotti/Nel tuo grembo l’intero creato,/Sull’ignoto assassino esecrato/Le tue fiamme discendano, o Ciel». Accanto a esse, altre fiamme riducono simbolicamente in cenere il passato politico e culturale della vecchia Germania: quelle appiccate al Reichstag e quelle che bruciano i libri di Thomas Mann e dei massimi autori del tempo nel rogo eretto per la «nazificazione della cultura». Se Wagner suggerisce il tono da melodramma fiammeggiante, Thomas Mann offre il tema della decadenza della tradizione familiare e del “retaggio borghese”: nella scena d’apertura del film c’è l’eco dell’inizio dei Buddenbrook; come nell’hauptsturmführer Aschenbach, l’omonimo del protagonista di La morte a Venezia. Visconti interpreta l’ascesa del nazismo come il prevalere dello spirito nibelungico (inteso come mondo barbarico, irrazionale, demoniaco) sullo spirito della civiltà borghese, rappresentato dai valori culturali del passato e, soprattutto, dal vecchio ordine familiare e patriarcale. I personaggi sono presentati in procinto di recarsi alla riunione familiare per il compleanno del barone Joachim. Con pochi tratti Visconti caratterizza la loro personalità, e con essa il ruolo che essi si prestano ad assumere verso il nazismo: il patriarcale Joachim, riluttante ma opportunista nei confronti dell’ordine nuovo; il rozzo Konstantin, chiassoso ma impreparato alla portata degli eventi; l’opaco Friederich, calcolatore ma illuso circa il proprio potere decisionale; l’ambiziosa Sofia, risoluta e spietata; il perverso Martin, strumento crudele e privo di volontà. Accanto ai carnefici, le vittime: uno sparuto gruppo di personaggi semi-positivi nei quali Visconti non ripone alcuna speranza. E, dietro a tutti, l’insinuante e beffardo Aschenbach, che ama giocare con le parole, che dispone l’ascesa e la caduta delle sue pedine: un personaggio che, ancor più degli altri, il regista dilata in funzione simbolica. Da volgare burocrate alla Himmler egli assurge cosi a corrispettivo del
gelido demonio del Doctor Faustus, delle streghe shakespeariane, dell’«empio spirto d’averno» verdiano: «Parla e c’inganna, veraci detti/E ne abbandona poi maledetti/Su quell’abisso che ci scavò» (Macbeth, atto I, sc. 3). Ciascuno di essi è presentato davanti allo specchio, o nell’atto di prepararsi alla recita. Tutti sono dunque mostrati nella duplice attività di contemplarsi o di esibirsi all’interno del nucleo familiare. Fin dalle prime scene, Visconti li muove molto e si dispone a seguirli ricorrendo all’uso sistematico dello zoom e della panoramica. Ma poi li immobilizza durante l’esibizione al violoncello di Guenther e, con un movimento elegante e tortuoso della macchina da presa, esplora i volti dei protagonisti e dei loro domestici, nell’attitudine composta e teatrale di una conversation piece. Conformemente allo spirito di questo genere di ritrattistica borghese, egli li fissa nel momento in cui essi si contemplano e si esibiscono secondo le regole dell’ordine patriarcale caro al vecchio Joachim. L’effetto è una lugubre premonizione della precarietà di quest’ordine, che infatti è subito turbato dall’ambiguo travestimento di Martin, dalla notizia dell’incendio del Reichstag, dai conflitti che si manifestano durante la cena; e che infine è rovesciato con l’uccisione dello stesso patriarca. Si spezza cosi la falsa coscienza dell’unità familiare, e si scatenano le lotte feroci in essa latenti. Visconti esprime teatralmente l’esplosione dei conflitti, prendendo spunto dalla teatralità della fittizia compostezza familiare in cui essi trovano alimento. Pone i due momenti in contrasto, ma senza dimenticare che sono l’uno il rovescio dell’altro. Per tutto il corso del film, i riferimenti teatrali, il ricorso al trucco e al travestimento, sottolineano il gioco della finzione e danno alla vicenda il tono di una mostruosa recita familiare. Per esempio, la scena della spietata lotta per la successione tra Friederich e Konstantin è ambientata nel salone ancora addobbato e illuminato per la idillica recita in onore del vecchio Joachim. Lo stesso salone del castello è concepito da Visconti con un ingresso simile a un arco di proscenio, una loggia simile a una galleria teatrale e un cupo pavimento di noce che rimbomba come un palcoscenico (assolverà pienamente alla sua funzione espressiva nel finale, quando Martin lo attraversa a grandi passi, con i movimenti meccanici e incongrui di una marionetta nazista). Visconti concepisce la teatralità dei cerimoniali familiari come manifestazione di falsa coscienza, e pertanto descrive la decadenza degli Essenbeck attraverso l’aberrazione delle cerimonie: la recita familiare, interrotta dalla notizia dell’incendio; il funerale di Joachim, teatro di sospetti e di rancori, nella sinistra cornice delle acciaierie; le riunioni a tavola, che diventano occasione di feroce conflitto tra i sempre più scarsi superstiti; il gesto della mano, caratteristico del patriarca, che si tramuta in un simbolo di potere sempre più feroce nei suoi successori; il matrimonio finale di Friederich e Sofia, concepito come una macabra parodia della cerimonia nuziale: la feccia di Monaco per invitati, e il cianuro come regalo di nozze agli sposi. In armonia con questa concezione, Visconti descrive anche gli eventi storici che si sviluppano fuori del gruppo familiare. Nella sceneggiatura era previsto l’inserimento di foto e filmati di repertorio, che delimitavano cronologicamente l’azione tra l’incendio del Reichstag e l’apertura delle frontiere della Saar. Tali brani rimasero fino all’estrema fase del montaggio, quando il regista giudicò che toglievano forza e omogeneità all’insieme. L’unico ampio riferimento visivo alla storia del Terzo Reich resta cosi quello della “purga” cruenta del 30 giugno 1934: la liquidazione delle SA, sacrificate da Hitler per guadagnarsi il favore dell’esercito. L’episodio della «notte dei lunghi coltelli» è di portata tale da costituire quasi un capitolo a parte del film. Le movimentate scene di massa, il sostituirsi dei rumori ai dialoghi (le parole stesse, mantenute in originale nella versione italiana, assumono qui una funzione esclusivamente sonora) danno alla sequenza un tono quasi documentaristico. Eppure, essa è perfettamente coerente con lo spirito e lo stile del film, concepita come un conflitto all’interno della stessa “famiglia”: i nazisti, gli uni contro gli altri. L’atmosfera rossastra, da girone infernale, della festa delle SA è contrapposta alle nere sagome e alla lugubre compostezza delle SS venute a sterminarli: secondo lo stesso
contrasto cromatico ed espressivo che domina l’intero film. Visconti differenzia i tempi della riunione cameratesca: prima chiassosa, poi quasi melanconica e presaga. Quindi, (come aveva fatto per la festa degli Essenbeck) ne interrompe il ritmo concitato, bloccando i presenti nel canto dell’inno delle SA, l’Horst Wessel Lied ed esplorandone i volti con due carrellate: la prima, in cui appaiono accoppiati i soldati e le “chellerine”; la seconda – quando, a notte, la festa si è ormai trasformata in un’orgia omosessuale – dove i soldati sono accoppiati ai loro commilitoni travestiti. È comune a tutto il film l’accostamento fra trasgressioni sessuali e crimini politici: le une come prefigurazione degli altri. La riunione omosessuale prelude all’eccidio; lo stupro di Thilde, all’assassinio di Joachim; il suicidio della piccola Lisa (estrapolato da I demoni di Dostoevskij), alla strage degli ebrei; l’incesto di Martin, alla totale anarchia del potere. Secondo la visione di Visconti – moralista attratto dalla trasgressione – quando l’ordine familiare e sessuale è cosi rovesciato, il caos è completo, e tutto diventa possibile. I personaggi possono allora applicare il principio di Hitler citato nel film: «La morale privata è morta. Noi siamo una società di eletti alla quale tutto è permesso». E si pongono le premesse della guerra, dell’eccidio degli ebrei, della distruzione del mondo. La descrizione del nazismo costituisce una apocalittica metafora estetico-morale (il nazismo come estrema degradazione del capitalismo, dissolvimento della ragione, concorso di ordine e caos), più che una interpretazione storico-politica. Visconti trascura le componenti piccolo-borghesi del fenomeno e si interessa solo al suo delirio di illimitata potenza. Inverte il rapporto di strumentalizzazione tra nazismo e capitale, e fa apparire gli Essenbeck come travolti dagli eventi da loro stessi scatenati. Tutto ciò è tipico della ideologia e della poetica viscontiane: la storia che travolge i destini individuali; la realtà che smaschera la falsa coscienza. Il suo atteggiamento è più morale che storico, più simbolico che realistico, più lirico che razionale: ricorre alle passioni estreme e ai colpi di scena di un fulgido melodramma, per esaurire il senso di un’epoca all’interno della stessa esaltazione enfatica che le fu propria. Morte a Venezia Nonostante il successo di La caduta degli dei, Visconti trova difficoltà a realizzare il nuovo progetto: un film da La morte a Venezia di Thomas Mann. È un’idea che accarezzava da tempo e da tempo rinviava, riserbandola per gli anni della maturità. Ora quell’età è giunta, e la crisi dell’incipiente vecchiaia, descritta nel racconto, gli si è fatta familiare e pressante. Ma nessuno in Italia è disposto a rischiare denaro su una storia «che tratta di un caso di pederastia in un artista senescente». Assieme al produttore Mario Gallo, Visconti si reca allora a Hollywood, aperta in quegli anni all’apporto di nuove idee, e ottiene l’appoggio della Warner Bros. Perlustra a lungo l’Europa orientale e i paesi scandinavi per trovare il ragazzo cui affidare il ruolo dell’efebo e lascia una testimonianza di questa ricerca nello special televisivo Alla ricerca di Tadzio. Finalmente, nella primavera del ’70, può iniziare le riprese. Curiosamente, il titolo della novella perde l’articolo nella versione cinematografica: diventa Morte a Venezia. 1911. Reduce da un periodo di crisi, il contegnoso musicista Gustav von Aschenbach (Dirk Bogarde) approda al Lido di Venezia per una solitaria vacanza. Tra gli ospiti dell’Hotel des Bains, attira la sua attenzione una famiglia polacca, di cui fa parte un bellissimo adolescente, Tadzio (Bjorn Andersen). Il professore comincia a seguirlo con lo sguardo, nell’albergo e sulla spiaggia, e ne è ambiguamente ricambiato. Turbato da questa passione e oppresso dal clima sciroccoso, Aschenbach si risolve a partire. Ma appena un contrattempo per la spedizione del bagaglio gliene offre il pretesto, torna al Lido e al suo segreto gioco di sguardi e di inseguimenti. Questi lo conducono a Venezia, le cui calli rivelano gli inquietanti segni di un’epidemia. Vincendo la generale cortina di omerté, Aschenbach apprende che la citté è in preda a una pestilenza. Si propone di avvertire del pericolo i polacchi; ma poi, pur di rivedere l’amato, resta e tace. Malato, e truccato come un grottesco zerbinotto per mascherare i segni dell’eté, segue l’ultima volta Tadzio
sulla spiaggia. Mentre l’efebo sembra indicargli un indistinto punto all’orizzonte, Aschenbach muore: il trucco disciolto sul viso, come una maschera.
Thomas Mann ha fatto dell’avventura veneziana del professor Gustav von Aschenbach una straordinaria metafora poetica, psicologica e storica. Ha contraddetto la pretesa idealistica di poter sottrarre la bellezza alla sfera dei sensi; ha descritto il fallimento dell’illusione borghese di poter rimuovere le pulsioni istintive; ha prefigurato, nel morbo che si diffonde nella comunità cosmopolita dell’Hotel des Bains, i sintomi imminenti del primo conflitto mondiale. La morte a Venezia è un apologo venato di sottili suggestioni autobiografiche. Narratore del crollo degli ideali borghesi, Mann si sforzò tutta la vita di adeguare se stesso a una austera e decorosa immagine di rispettabilità. Se fu, secondo la sua stessa definizione, «cronista e interprete della decadenza, amante del patologico e della morte, un esteta cupido di abisso», le sue scelte stilistiche ed esistenziali appaiono l’opposto delle esibizioni e dei virtuosismi decadenti. Piuttosto che nei compiaciuti vizi degli esteti, egli ha riconosciuto l’“abisso” nella falsa coscienza delle virtù borghesi. Nella segreta passione di Aschenbach, ha smascherato il suo stesso attaccamento alla rispettabilità, al contegno, al controllo delle passioni. La forza della sua critica al “retaggio borghese” consiste nell’averla testimoniata consapevolmente dal suo interno. Visconti ha sempre riconosciuto nello scrittore alcune delle sue stesse contraddizioni: quel suo essere decadente e realista, borghese e narratore della crisi dei valori borghesi: «Mi ha sempre attirato il tema del dissidio che può intercorrere tra un artista con le sue aspirazioni estetiche e la vita, tra il suo essere apparentemente sopra la storia e il suo partecipare alla condizione “storica” borghese» (L. Visconti, Morte a Venezia, Bologna 1971, p. 111). Aveva incontrato Thomas Mann tre volte e pare avesse ottenuto da lui alcune testimonianze personali sull’ambiente descritto nel racconto. Ma ora che si accinge finalmente a girarla, la storia gli si presenta soprattutto carica di memorie e reminiscenze familiari. Quello descritto nel racconto è un ambiente di cui il regista ha un ricordo diretto. Se Mann soggiornava al Lido nel 1911 e vi concepiva l’ispirazione del racconto, il piccolo Luchino vi trascorreva le vacanze con la madre negli anni immediatamente seguenti. Nella madre di Tadzio, con i suoi grandi cappelli, gli abiti da spiaggia in lino bianco ricamato, l’espressione insieme dolce e altera, rievoca l’immagine di sua madre. La società europea alla vigilia della guerra è quella della sua infanzia. «Sono nato nel 1906 e il mondo che mi ha circondato, il mondo artistico, letterario, musicale, è quel mondo li. Non è un caso che mi ci senta attaccato… Probabilmente ho anche dei ricordi visivi, figurativi, una specie di memoria involontaria che mi aiuta a ricostruire l’atmosfera di quell’epoca» (ne «Il Mondo», 14 marzo 1971). Infatti, le immagini di Morte a Venezia costituiscono una delle più belle ricostruzioni d’ambiente di Visconti. Quella che per Thomas Mann era la descrizione del presente e l’intuizione del futuro, diventa per lui la rievocazione del passato. Per il regista, il flusso del tempo che trascina Aschenbach verso la morte è lo stesso che scorre lungo le pagine della Recherche. Il monumentale romanzo di Proust avrebbe dovuto essere il suo prossimo film, con il quale coronare e concludere la carriera: e, in una prima versione, la sceneggiatura realizzata con Suso Cecchi d’Amico cominciava proprio con il soggiorno nella città lagunare del protagonista e di sua madre. Con Morte a Venezia, la Recherche di Visconti avrebbe dovuto condividere il tema della passione omosessuale. La sua rilettura del capolavoro proustiano, come osserva Giovanni Raboni nell’introduzione alla sceneggiatura definitiva (Mondadori, Milano, 1986), correva tutta lungo questo filo: «(Visconti) ha avuto il coraggio di leggere tutta la Recherche (che pure, ne siamo certi, conosceva e amava profondamente in ogni sua parte) attraverso Sodoma e Gomorra; di cercare e mettere allo scoperto, in tutta la Recherche, le radici, i tentacoli di Sodoma e Gomorra; di eleggere Charlus a protagonista assoluto, a vittima trionfante e dispotica dell’intera narrazione; di fare dell’omosessualità, dell’amore omosessuale, del desiderio omosessuale, della gelosia omosessuale, l’unico, formidabile motore che fa girare e accendersi di luci volta a volta
esaltanti e sinistre l’immenso planetario della Recherche…». In Morte a Venezia si avvertono anche echi minori del progetto proustiano: nel direttore dell’Hotel des Bains di Visconti, per esempio, c’è il direttore di Balbec di Proust. Ma, soprattutto, si respira la stessa atmosfera storica: quel 1911 in cui si svolge la vicenda è infatti l’anno in cui vennero scritte le prime pagine della Recherche. È un’epoca che Visconti vorrebbe vedere con consapevolezza critica; ma la guarda soprattutto con rimpianto: «La società europea fino alla prima guerra mondiale è stata quella dei più grandi contrasti e dei maggiori risultati estetici. Il mondo contemporaneo invece è cosi livellato, cosi grigio, cosi poco estetico… » (ne «Il Mondo» cit.). In Morte a Venezia egli sottolinea il senso del passato. Inserisce una serie di flashback ignoti al racconto: l’incontro con la giovane prostituta Esmeralda, che riprende il tema della “contaminazione” da un episodio del Doctor Faustus (e dall’allusione alla biografia di Nietzsche in esso contenuta); le scene che rievocano la perduta felicità familiare; i dialoghi tra Aschenbach e Alfred (anch’essi ripresi da vari scritti di Mann), che fungono da verbalizzazioni dei conflitti interiori del protagonista. Ma la più importante trasformazione operata da Visconti è quella di Aschenbach: da scrittore in musicista. Lo stesso Mann, profondamente turbato dalla morte di Gustav Mahler, avvenuta durante il suo soggiorno a Venezia, diede al suo personaggio il nome e la fisionomia del compositore, pur ponendo attenzione affinché le allusioni non diventassero esplicite. Visconti trova nella musica di Mahler il commento ideale alla vicenda; nella sua biografia lo spunto per l’episodio della morte della figlia; nelle sue sinfonie il corrispettivo degli scritti di Aschenbach. «Quella pagina e mezza di prosa altissima, la cui purezza e nobiltà e vibrante energia doveva suscitare di li a poco l’ammirazione universale», con cui Mann allude – non senza ironia – a uno scritto veneziano di Aschenbach, diventa nel film il Quarto Tempo della Terza Sinfonia. Contemplando Tadzio, Aschenbach prende ad appuntare dei fogli pentagrammati; e i versi di Nietzsche, contenuti nella sinfonia mahleriana, emergono dalla colonna sonora con il loro significato premonitore: «Sta’ attento, uomo!/Sta’ attento, uomo!/Che dice la fonda mezzanotte?/Dormivo, dormivo!/Da un profondo sogno mi son destato:/il mondo è profondo,/più profondo di quanto pensò il giorno./Uomo, profondo è il suo dolore,/la voluttà più profonda della sofferenza!/Dice il dolore: vattene!/Ma ogni gioia vuole eternità,/vuole profonda, profonda eternità!» (trad. di Ugo Duse). L’«Adagetto» della Quinta Sinfonia ricorre invece in tutti i momenti salienti del film: l’arrivo di Aschenbach in una Venezia plumbea e crepuscolare; la sua mancata partenza e il suo improvviso ritorno; le memorie della vita familiare; il ricorso al trucco e il crollo nel fetido campiello; la morte sulla spiaggia, con la maschera disfatta. Visconti utilizza l’«Adagetto» come un vero e proprio leitmotiv, la cui insistenza suggerisce il senso di un inevitabile destino, grottesco e patetico. Cosi è, per esempio, nella scena della partenza: un corrispondere tra immagini e musica che esprime quell’essere «deviato e risospinto indietro dal destino», di cui scrive Mann. La musica inizia sul silenzioso commiato da Tadzio; accompagna Aschenbach che – imbronciato e goffo, le mani composte sul bastone da passeggio, inquadrato dal basso contro il cielo lattiginoso e la prospettiva ottusa dei vecchi palazzi – abbandona in motoscafo la città. Poi la musica si interrompe, per lasciare posto al clamore anonimo della stazione. Quindi riprende, insinuante, sulla decisione di Aschenbach di rientrare. Lo accompagna con irruente baldanza nel viaggio di ritorno, in cui egli tradisce la sua segreta soddisfazione: le braccia allargate, inquadrato dall’alto contro la superficie lucente della laguna. E si spegne lentamente sulla nuova apparizione dell’amato. Del resto, l’intero racconto è stato concepito, come dice Mann, secondo «un complesso musicale di rapporti». E Visconti è, come sempre, sensibilissimo a questa musicalità. La ritroviamo nei dialoghi: i sinistri borbottii del gondoliere, l’intrecciarsi delle diverse lingue nell’albergo e sulla spiaggia, l’idioma misterioso di Tadzio, i versi dei venditori ambulanti. La percepiamo nei tempi, ritmati in armonia con la vicenda interiore del protagonista. Un continuo intreccio di zoomate e panoramiche
scandisce il fluire del tempo. Quale presagio di morte, esso si arresta improvvisamente nel finale, quando, come cullato dalla nenia di Musorgskij, Aschenbach entra per l’ultima volta nella spiaggia semideserta ripreso in campo lunghissimo con una lenta, lugubre panoramica. Musicale è lo stesso gioco di sguardi tra Aschenbach e Tadzio. Visconti esprime tutta l’ambiguità del loro incontro, intrecciando la descrizione oggettiva dell’ambiente alla sua percezione da parte del protagonista. Mentre l’orchestra suona musica operettistica, Aschenbach entra nel salone dell’hotel. Una lunga panoramica lo segue mentre si aggira alla ricerca di un posto, tra i grandi bouquet di fiori, i paralumi colorati, gli ospiti in frac. Siede e si guarda intorno, distrattamente. La macchina da presa inquadra, in soggettiva, la famiglia polacca e, in ultimo, Tadzio. Aschenbach lo osserva. Una nuova panoramica collega l’efebo al professore, percorrendo ancora tutto lo spazio del salone. Visconti ritrae poi l’orchestra, Aschenbach, il direttore dell’hotel che si aggira fra i clienti. Quindi, un radioso primo piano di Tadzio, che sembra ancora una soggettiva di Aschenbach, si allarga indietro fino a comprendere invece, per la prima volta nella stessa inquadratura, l’osservatore e l’osservato. Sono cosi graduati con estrema sensibilità i tempi dell’incontro, l’ambiguità dello spazio che collega i protagonisti, la presenza del gruppo sociale riunito nella hall. Anche nella scena dei musici ambulanti, Visconti sviluppa le indicazioni musicali contenute nel racconto. La canzone popolare La risata restituisce quel riso sinistro con il quale Mann ha rappresentato l’irriverente irruenza delle pulsioni istintive sulle resistenze di Aschenbach; quel sentimento insinuante dell’intrigo e del raggiro in cui egli si lascia irretire con segreta complicità; la minaccia che incombe sull’universo borghese dell’hotel. E aggiunge il contrasto tra la “sceneggiata” oscena e vivace dei guitti e la musica colta e ambigua del protagonista. Ma grande assente nel film di Visconti è l’ironia manniana. Il regista ha esaltato, a contrasto con quelli lirici, i momenti grotteschi: il compunto manager dell’hotel diventa un untuoso imbonitore; i timidi spunti autocritici di Aschenbach («solo di tanto in tanto saetta uno sguardo obliquo, ironico e perplesso, e subito lo nasconde»), si trasformano in una tragica risata mentre si affloscia come una marionetta nel campiello ammorbato dai rifiuti; la truccatura e la morte diventano assai più enfatici che nel racconto. E ciò è ben diverso dall’ironia di Thomas Mann, che è una qualità dello stile e una dichiarazione di poetica. La morte a Venezia contiene, a poca distanza l’una dall’altra, due pagine apparentemente antitetiche per tono e stile: la prima è il brano sfrenatamente visionario e kitsch del baccanale fallico, che costituisce l’incubo di Aschenbach, la seconda è una pagina di sapore anticheggiante, il dialogo tra Socrate e Fedro sull’ambiguità della bellezza. Esse rappresentano i due poli dell’avventura di Aschenbach, contrapposti ma sostanzialmente omologhi: il delirio decadente e il mito classicistico. Da entrambi Mann si è posto a distanza critica: con una prosa parodisticamente aulica e dottorale, pratica una sorta di mimetismo, che gli consente di oggettivare i contraddittori elementi della sua ispirazione. Recuperando in questo la più valida eredità culturale del decadentismo, lo scrittore ha espresso attraverso la sintesi di lirica e di ironia la propria testimonianza critica nei confronti delle tensioni culturali del suo tempo. È significativo che Visconti abbia soppresso queste due pagine del racconto, dopo aver pensato inizialmente di ambientare la prima in un moderno locale notturno di Monaco, e di risolvere la seconda come commento fuori campo all’allontanarsi di Tadzio nel mare. La sua dialettica è infatti diversa da quella manniana. Il suo gusto inclina al melodramma, non all’ironia. Se rivive in lui il dissidio tra la passione emotiva e la ragione intellettuale, tra il rifiuto ideologico del passato e il suo recupero sentimentale, egli lo esprime in termini lirici, non critici. Fa del racconto un grande melodramma della decadenza. Nella Venezia di Thomas Mann intravede quella di d’Annunzio, dove «non si può sentire se non per modi musicali, come non si può pensare se non per immagini». E in Aschenbach, uno di quegli esteti di cui parla Stelio Effrena in Il fuoco «che celano qualche piaga inconfessabile (…) che effemminò un morbido amore, e che non cercano il silenzio se non per sentirsi perire».
Visconti ha insomma restituito con straordinaria sensibilità le suggestioni visive e musicali della novella manniana; ma modificandone l’equilibrio e limitandone il senso. Sfuggono in parte l’ironia, il senso storico, la dicotomia tra artista-interprete ed esteta-vittima del decadentismo, presente in Aschenbach. È tuttavia significativo che questi ultimi temi si sviluppino nei due film tra cui è situato Morte a Venezia: quello storico in La caduta degli dei e quello estetico in Ludwig. Il nazista che si compiace di citazioni erudite in La caduta degli dei, portava infatti il nome di Aschenbach, di cui concludeva simbolicamente la corsa verso l’“abisso”; mentre il rapporto tra Wagner e Ludwig scinderà quei due elementi (il conformismo borghese e l’eccentricità decadente; l’artista e l’esteta) che Visconti ha sovrapposto in Aschenbach-Mahler. Quasi che egli abbia inteso chiarire e approfondire il proprio discorso sulla cultura tedesca, all’interno di una vera e propria trilogia. In La perdizione (Mahler, 1976), Ken Russell cita con ironia Morte a Venezia: nella scena in cui Mahler intravede dal treno un signore biancovestito che sorride maliziosamente a un vezzoso adolescente (versione parodistica di Aschenbach-Bogarde e di Tadzio-Andersen), e si figura sorridendo le note della propria musica. A differenza di Visconti, Ken Russell concilia il kitsch dichiarato e l’ironia. Non a caso, la scena con Cosima Wagner in veste di valchiria attinge a una grottesca esasperazione onirica, che ricorda l’incubo di Aschenbach nella novella. La predilezione per il grottesco funge in Russell da elemento critico nei confronti dell’estetismo e dei miti romantici. Anziché celebrare la crisi individualistica del suo Mahler, preferisce seguire le conseguenze dell’esplosione del “genio” nei personaggi che lo hanno circondato: la moglie, costretta a soffocare la propria personalità per proteggere la solitaria grandezza del marito; il compositore rivale Hugo Wolf, trascinato dall’impari confronto alla follia; il fratello omosessuale, che sconta la propria diversità con il suicidio. Da parte sua, Liliana Cavani ha ripreso alcune suggestioni di Morte a Venezia nel suo Al di là del bene e del male (1977): in particolare nell’episodio del bordello, che già conteneva in Visconti una indiretta citazione nietzschiana. Ma anche qui, il senso della scena cambia di segno. Attraverso la dimensione privata e sessuale di Nietzsche, la Cavani ha voluto restituire i tratti rivoluzionari del suo pensiero: il gusto ironico e aforistico; il rifiuto del moralismo, delle convenzioni sociali, della cultura accademica, della filosofia idealistica, dell’antisemitismo e del nazionalismo; la ricerca di una libertà posta oltre la morale: al di là, appunto, del bene e del male. Anche la sifilide diventa allora un cosciente atto di rivolta, una accettazione «indecorosa ma violentemente umana» del mondo reale: e dunque l’opposto del terrore della “contaminazione”, fatale ad Aschenbach. Ludwig L’ambizione di Ludwig II di Baviera di partecipare indirettamente del mondo della creazione artistica, fu coronata con la sua morte. La sua vicenda è diventata fonte di ispirazione per esteti, poeti, romanzieri: da Robert de Montesquieu ad Apollinaire, da Cocteau a Catulle Mendès, da Jules Lemaitre a Georges Kahn. Nel 1886, poco dopo il suo annegamento nel lago di Starnberg, Verlaine dedicò un sonetto al re scomparso, esaltando in lui il culto dell’arte contrapposto all’odioso potere tecnocratico. Nel 1895, Gabriele d’Annunzio – nel suo romanzo più snob, Le vergini delle rocce, dedicato alla celebrazione dei miti aristocratici – vide in Ludwig l’eroe, al tempo stesso «sublime e puerile», dell’idealismo e della immaginazione. Nel 1937, Klaus Mann dedicò a Ludwig il racconto Vergittertes Fenster, in cui, attraverso il ricordo delirante del re prigioniero, affiorano le speranze, le persone e gli affetti che lo hanno abbandonato; l’impossibile amore per Elisabetta e il loro comune destino di morte. Nel 1947, suo padre Thomas, dopo aver parlato del culto notturno di Ludwig in un suo saggio su Wagner, torna a occuparsi della sua «regale misantropia» nel Doctor Faustus, a proposito del tema centrale del romanzo: il contrasto tra la norma borghese e l’eccentrica solitudine dell’esperienza artistica. Comune a ciascuno di questi ritratti è l’elezione di Ludwig a simbolo di un tema ricorrente nella letteratura di derivazione tardoromantica: quello della eccezionalità
dell’esperienza artistica. Ed è significativo che il demoniaco privilegio del fatto estetico, messo in crisi nell’epoca della riproducibilità tecnica, abbia in un non-artista, in un riproduttore delle opere del passato, la sua ultima, paradossale personificazione. Quando una serie di difficoltà produttive blocca il progetto della Recherche, Visconti pensa immediatamente a Ludwig. Da molto tempo – fin da prima che le riprese di La caduta degli dei lo portassero sui luoghi dove era vissuto il re di Baviera – egli avvertiva il fascino di questo personaggio incapace di vivere nel quotidiano, sconfitto nel suo sogno di porsi al di fuori di ogni limite e di ogni regola. Ora, egli stesso si sente invecchiato, estraneo ai problemi contemporanei, libero di seguire le inclinazioni del proprio gusto, di là da remore estetiche o ideologiche: «Sono stato giovane anch’io e ho fatto La terra trema, Ossessione, Rocco e i suoi fratelli. Adesso sono troppo vecchio per affrontare i problemi di una realtà che non conosco appieno: sono nell’età in cui gli impiegati si trovano già in pensione, lavoro ancora ma soltanto perché mi diverte e mi è necessario. Penso che ai giovani spetti raccontare il loro tempo. A noi (… ) sia concesso fare un altro cinema, non certo un cinema evasivo ma quello che sentiamo più consono a noi: è una libertà che ci siamo conquistata, credo» (in «La Stampa», 21 giugno 1972). Visconti rivendica il suo diritto al passato. E in Ludwig trova il rappresentante consacrato di quella cultura fin-de-siècle che è stata la base del suo gusto; la personificazione di una concezione teatrale e melodrammatica della vita; il simbolo stesso dell’estetismo. 1864. Ludwig (Helmut Berger), diciottenne, è incoronato re di Baviera. Pervaso da propositi di mecenatismo, chiama presso di sé Richard Wagner (Trevor Howard), sospetto e inviso alla corte. La sua infatuazione wagneriana si mescola alla passione idealizzata che nutre verso sua cugina Elisabetta (Romy Schneider), imperatrice d’Austria; ma lei cerca di indirizzare i sentimenti del re verso sua sorella Sofia (Sonia Petrova). Dopo la prima del Tristano, Wagner sollecita sempre più avidamente il suo mecenate; finché la sua ipocrisia, l’opposizione del governo, lo scandalo della sua relazione con Cosima von Bulow (Silvana Mangano), costringono Ludwig a farlo allontanare da Monaco. 1866: la Baviera entra nella guerra austro-prussiana. Ludwig, che si era inutilmente opposto all’intervento, abbandona la capitale. Il conte Durkeim (Helmut Griem), portandogli la notizia della resa alla Prussia, cerca di distoglierlo dalle sue eccentricità. Improvvisamente, Ludwig annuncia il suo fidanzamento con la principessa Sofia. Ma il fidanzamento si rivela una penosa formalité e Ludwig, che nel frattempo è diventato amante del suo valletto Hornig (Marc Porel), lo annulla. Intanto peggiorano le condizioni mentali del fratello minore Otto, e la madre cerca conforto convertendosi alla religione cattolica. Ludwig è costretto a far entrare la Baviera tra i vassalli della Prussia. Amareggiato, invecchiato, imbruttito, si rifugia nel suo mondo artificioso: nelle sue regge, nei versi teatrali declamati dall’attore Joseph Keinz, nelle orge con i servi. Elisabetta cerca di raggiungerlo nei suoi castelli; ma egli, vergognoso della propria decadenza, rifiuta di riceverla. Una commissione governativa guidata dall’ex favorito Holnstein (Umberto Orsini), si presenta a destituirlo come malato di mente. Ludwig li fa arrestare; ma poi, incapace di reagire agli eventi, viene fatto prigioniero. La notte del 13 giugno 1886 lo psichiatra professor Gudden si offre di accompagnarlo per una passeggiata nel parco e poco dopo entrambi vengono trovati morti sulle sponde del lago di Starnberg.
La storia di Ludwig riassume tutte le manifestazioni dell’estetismo fin-de-siècle: dalla follia alla identificazione tra arte e vita; dal culto della notte e della morte, al mito aristocratico. Il suo ideale di sovrano era l’omonimo Luigi XIV, la cui celebrazione si ripeteva ossessiva nelle decorazioni delle regge fatte erigere a imitazione di Versailles. Ma, mentre i cerimoniali di corte del Re Sole erano un preciso strumento di potere, volto a imprigionare l’aristocrazia nella rete dei debiti contratti con la corona, quelli di Ludwig erano un anacronistico culto formale: l’esaltazione astratta del potere aristocratico, nel momento stesso in cui Bismark ne sanciva di fatto il declino, fagocitando il piccolo regno e spianando la strada al capitalismo borghese. Ludwig cercò di
interpretare fuori dalla Storia il ruolo del sovrano costruttore e mecenate, di trasformare lo Stato Etico in Stato Estetico. I cerimoniali della sua corte consistettero perciò in puri segni formali, diventando il corrispettivo del linguaggio decadente: cioè artifici manieristici separati dalla realtà. Nella lunga scena iniziale dell’incoronazione, Visconti non dà infatti il senso dell’acquisizione di un potere politico, ma solo di una vuota forma, celebrata tutta all’interno della reggia e commentata dal clamore quasi astratto di un’invisibile fanfara. Tutta l’attenzione è rivolta allo splendore dell’involucro: alle pareti damascate, alle livree azzurre e argento dei valletti, ai sontuosi paramenti dei cardinali cattolici, alle alte uniformi degli ufficiali, agli abiti e ai mantelli delle dame, ai tempi lenti e solenni del cerimoniale. Una panoramica dal basso verso l’alto contempla il mantello da incoronazione di Ludwig, in velluto rosso ricamato d’oro e foderato d’ermellino. Più tardi, nella scena del colloquio tra Elisabetta e Sofia, un identico movimento di macchina percorrerà la lunga chioma disciolta dell’imperatrice. Entrambi si equivalgono come simboli di pura bellezza, attributi di sovrani da parata. Lo stesso tono ha la scena in cui Ludwig fa provare a Sofia la corona e i gioielli delle regine di Baviera; e l’infelice fidanzata pro forma assume nello specchio l’aspetto di un dolente, assurdo idolo votivo. Il declinante potere regale assume in Ludwig la sua forma più “estraniata”. Questo re esteta, cultore della immaginazione e spregiatore della norma, trasforma il potere in una caricatura scandalosa e paradossale; incarna quella aspirazione illimitata e anarchica all’assoluto, che è un altro tipico motivo di derivazione tardoromantica. Nel lungo, teatrale colloquio tra il conte Durkeim e il re, Visconti riecheggia i dialoghi del Caligola di Camus. E ne riprende il tema centrale: la ricerca della «libertà nell’impossibile», una libertà estranea al consorzio sociale e tacciata di pazzia. Anche il tema della follia si riallaccia a quello dell’estetismo. Quella di Ludwig è “follia” intesa come tenebroso retaggio romantico, contrapposta da Visconti al fisso, immutabile stordimento del fratello minore, Otto. È qualcosa che la nascente scienza psichiatrica classifica: paranoia. Ma è anche l’esasperazione di una poetica che vede nell’arte non l’espressione ma l’alternativa alla realtà: «Il primo posto fra queste soddisfazioni fantastiche è occupato dal godimento delle opere d’arte, reso accessibile, anche a colui che non è creatore in proprio, attraverso la mediazione dell’artista. Chi è sensibile all’influsso dell’arte non lo stimerà mai abbastanza come fonte di piacere e consolazione nella vita. La leggera narcosi in cui l’arte ci trasferisce non può tuttavia offrirci che un’evasione temporanea dagli affanni della vita e non è abbastanza forte da far dimenticare la miseria reale. Più energicamente e più radicalmente opera un altro procedimento: esso scorge nella realtà l’unico nemico, quello che è la fonte di ogni male, quello con cui è impossibile vivere, con cui occorre quindi troncare tutti i rapporti, se in qualche modo si vuole essere felici. L’eremita volta le spalle a questo mondo, non vuole aver nulla a che fare con esso. Ma si può fare di più, si può volerlo trasformare, costruendone al suo posto un altro in cui le caratteristiche più intollerabili risultino eliminate e sostituite da altre conformi ai nostri desideri. Chi in una rivolta disperata imbocca tale cammino verso la felicità non ottiene di regola nulla; la realtà è troppo vigorosa per lui. Diventa un pazzo, che non trova perlopiù nessuno che lo aiuti nel perseguire il suo delirio» (Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, Torino 1971, p. 216). Ed è questo, infatti, il destino di Ludwig: un destino in cui si rispecchiano tutte le contraddizioni del decadentismo. La sua sconfitta nella lotta con la realtà appartiene culturalmente a quel dissidio tra arte e vita, tra personaggio e interprete, tra “norma” borghese e “perdizione” romantica, che Visconti aveva già affrontato in Morte a Venezia. Qui contrappone il Wagner borghese – amante del lusso e delle comodità domestiche – al Wagner artista; la sua musica, agli impossibili tentativi di Ludwig di impersonarne nella vita i miti e i ruoli. Visconti propone la storia di Ludwig come un riflesso e una inconsapevole parodia della musica di Wagner: la purezza e la bellezza (ossia i miti del Lohengrin) esposti alla decadenza e alla corruzione; la verginità e il casto amore per Elisabetta
che fanno posto alle orge omosessuali di Roseinsel; il bel principe incoronato che si trasforma in un gigante adiposo e sinistro. Come in Senso, i personaggi finiscono per identificarsi con i loro eroi da melodramma. La passione si risolve in teatralità: quando Elisabetta bacia Ludwig, timoroso come Sigfrido, Visconti li mette in posa come in un quadro di Hayez. Ludwig si sforza di “interpretare” i ruoli di innamorato, di sovrano, di artista, cercando l’identificazione assoluta fra l’interprete e l’eroe; e riflettendosi nella musica di Wagner, o nei ruoli declamati da Joseph Keinz, come in uno dei suoi specchi dorati. La parte più suggestiva del film riguarda proprio il tentativo di Ludwig di sostituire, con i suoi fastosi e infantili simulacri, l’arte di Wagner: la ricerca insomma di una sublimazione estetica che non si produce. Il risultato del voler iscrivere nella realtà questo artificio è il kitsch: qualcosa che corrisponde sul piano estetico alla follia su quello psicologico. Il kitsch monumentale delle costruzioni di Ludwig ne riflette la funzione illusionistica: simulazione di un mondo artificiale, impossibile riesumazione di stili ormai morti. Il film ripercorre gli ambienti che videro “splendore e decadenza” del re di Baviera: il castello di Ninphenburg, dove Ludwig esprime in confessione i suoi propositi di mecenatismo; la Residenza di Monaco, dove è ambientata l’incoronazione; la Kaiservilla di Bad Ischl, abitata da Elisabetta e Sofia; lo chalet di Roseinsel, sede delle visite di Elisabetta e di Durkeim; il teatro di Monaco, dove il re si invaghisce di Romeo; la hunting-hut di Roseinsel, dove si abbandona alle orge con i servi; Hohenschwangau, il castello dove si riunisce la commissione intesa a interdirlo; il castello di Berg, dove viene tenuto prigioniero. E, naturalmente, i castelli che Ludwig elesse a scenografie del proprio mito: Herrenchiemsee, una Versailles circondata dai monti e progettata ancora più grande di quella originale; Neuschwanstein, un castello neo-medioevale con una sala del trono simile a una basilica romana; e soprattutto Linderhof, quel delirio rococò approdato in una valle bavarese, in cui sono ambientate le scene con Keinz. La Grotta di Venere è creata a imitazione della Grotta Azzurra di Capri: tutta finta, illuminata da diffuse luci multicolori, decorata con stalattiti di gesso, rocce di tela e cemento, una piccola cascata, un gigantesco fondale raffigurante la grotta di Venere e Tannhäuser. Dove, su un lago artificiale solcato dai cigni, Ludwig scivola, come Lohengrin, su di una barchetta a foggia di conchiglia dorata. La reggia è una profusione di decorazioni celebranti i Luigi di Francia. Ovunque oro, pietre dure, marmi, bronzi dorati, sete, porcellane, cristalli, broccati, damaschi, velluti. Il salone ha un tavolo che si solleva apparecchiato da una botola nel pavimento, per risparmiare a Ludwig la presenza dei camerieri. La camera da letto, straboccante di rilievi dorati, è una vera e propria stanza di gala, un monumento consacrato alla notte. Thomas Mann ha lasciato una testimonianza, nel suo saggio Dolore e grandezza di Ricardo Wagner, della sua visita a Linderhof, e della sensazione ricevuta dal predominio romantico e wagneriano della notte, espresso dalle proporzioni dei vani interni della reggia. Il culto lunare-materno della notte, opposto all’adorazione del sole; «la verità, in contrasto alla vaga illusione del giorno, il regno del sentimento in antitesi a quello della ragione». Visconti riprende testualmente l’osservazione di Mann, nel colloquio tra Ludwig e il professor Gudden: «Dicono che il culto della notte, della luna, sia un mito materno. Quello del sole, del giorno, un mito virile, paterno. Eppure il mistero, la grandiosità della notte, sono sempre stati per me lo sconfinato sublime regno degli eroi. Quindi anche quello della ragione». Visconti si ispira a questo contrasto: dopo l’apparizione notturna di Linderhof e degli altri castelli di Ludwig, il regista li ripresenta illuminati dalla cruda luce del giorno, durante la visita di Elisabetta. Visti alla luce della ragione, quei monumenti deserti appaiono in tutta la loro titanica e puerile assurdità. E il regista fa esplodere l’imperatrice in una cupa risata, riprendendola in campo lungo mentre accede all’immensa galerie des glaces: con i suoi diciassette balconi, i ventisette enormi specchi incastonati tra colonne di marmo rosso, i trentatre lampadari e l’interminabile teoria di
giganteschi candelabri. Il mito di Ludwig appartiene alla notte, come il Tristano di Wagner, come i versi del Lohengrin che egli recita a Elisabetta: «Non respiri con me i teneri profumi della notte?/Oh, con quanta dolcezza accarezzano l’essere nostro!/Misteriosi vengono a noi nell’aria/e nessuna domanda mi sale più alle labbra se mi abbandono al loro incanto…». Essa è contrapposta al giorno, regno del dovere e della realtà: dopo la scena dell’abbraccio notturno di Ludwig ed Elisabeth, la luce, riflessa sul bianco accecante della neve, trasforma di giorno l’aspetto di Bad Ischl, simbolo delle convenzioni familiari che si oppongono al loro impossibile amore. Sulla luce della realtà, prendono man mano sopravvento i colori dell’artificio: le luci multicolori del circo, del teatro, della grotta di Venere; la luce lunare della lanterna magica. Ludwig appare sempre più immerso nell’ombra. L’intero film è strutturato in modo tale che progressivamente i neri e i colori notturni diventano predominanti nelle immagini: finché il buio, contraddetto solo dalla luce delle fiaccole, prende il suo definitivo sopravvento con la morte del protagonista. Tutta la vicenda del Ludwig è un lento scivolare verso la morte. La sua stessa concezione della musica di Wagner è quasi una prefigurazione della sua fine: «È come una massa liquida di suoni nella quale si sprofonda dolcemente, avvolti come in un abbraccio» gli fa dire Visconti. Ricostruito secondo il suo montaggio originale, il film riacquista un ritmo ampio e grave, che diviene, nel finale, sempre più lugubre. Esso è caratterizzato dalla ridondanza nel numero di inquadrature e di punti di vista delle scene, quasi in armonia con le linee frammentarie del gusto rococò caro a Ludwig. Dalla ricchezza dei momenti contemplativi: come le melanconiche panoramiche che abbandonano Ludwig in confessione, per soffermarsi su una decorazione del soffitto; o il bacio con Elisabeth, per seguire lo scorrere di un ruscello nella notte. Dalla musicalità di certi momenti di sospensione: come il ralenti sulla slitta al galoppo nella notte. Tutti elementi che confluiscono nel tono luttuoso del finale. Il lento corteo del re e dei membri della commissione nel castello di Berg è descritto come un funerale: in armonia con i propositi dei carcerieri di tenere in vita Ludwig, uccidendolo. Anche questo culto della morte è prettamente romantico. Per il Ludwig potrebbero valere gli stessi versi di Platen, che Visconti voleva a epigrafe di Morte a Venezia: «Chi ha contemplato coi propri occhi la bellezza/è già consacrato alla morte». Un’ebbrezza di morte che si collega al tema della omosessualità; o meglio alla sua concezione, propria del puritanesimo e del decadentismo ottocenteschi. In una società che identificava norma e utilità come i soli valori positivi, sia l’immaginazione artistica che il piacere sessuale erano destinati a prendere le forme di “perdizione e caduta”. E tali le propone Visconti, avvolgendo in una luce rossastra il rapporto tra Ludwig e Hornig; e in un clima greve e sfatto (che ricorda quello dei camerati della SA in La caduta degli dei) l’orgia tirolese con i servi. Ludwig è l’incontro più discutibile, incontrollato, eccessivo, tra Visconti e la cultura del decadentismo. Ma è anche uno dei suoi film più sinceri e affascinanti: una testimonianza lugubre e patetica del suo stesso estetismo, del suo stesso distacco dalla realtà contemporanea. Egli ha affrontato la storia del re, più con impeto lirico che con lucidità critica. Sulle allusioni storiche, prevalgono le suggestioni musicali: quel senso di esaltante, dolente, ineluttabile fatalità che è una delle caratteristiche della musica wagneriana. Gli inserti dell’inchiesta (che Visconti ha girato all’ultimo momento, per tentare di dare una certa continuità narrativa a un materiale smisurato), vogliono dare al film un tono da “ricostruzione della verità”; ma esso è piuttosto la celebrazione di un mito. Nella sceneggiatura, il film si concludeva esibendo le prove dell’uccisione di Ludwig; la versione definitiva, pur suggerendo la tesi del delitto, avalla quel compiacimento per il mistero che è un’altra caratteristica dell’estetismo del re: «Voglio rimanere un enigma. E non soltanto per gli altri, ma anche per me». Il film si arresta cosi con un fotogramma fisso sul corpo di Ludwig riverso nella notte, il volto al cielo e la bocca aperta, come nei versi di Apollinaire: «Un jour le roi dans l’eau
d’argent/Se noya puis la bouche ouverte/Il s’en revient en surnageant/Sur la rive dormir inerte/Face tourné au ciel changeant». Le vicende e il mito di Ludwig hanno influenzato indirettamente numerosi film, tra cui L’aquila a due teste di Jean Cocteau (1948). Altri sono stati interamente dedicati alla sua storia, come il Ludwig II di Helmut Kautner (1955). Ma è soprattutto il Ludwig II, Requiem für einen jungfraülichen König di Hans Jurgen Syberberg (1973), che stimola un confronto con il film di Visconti. Il giovane regista tedesco sa di appartenere a una realtà storica non più ispirata al concetto umanistico di progresso, ma all’immobilismo dello pseudo-sviluppo capitalistico. Cosi, il suo stile esprime una fissità che si sostituisce alla continuità narrativa; ma si differenzia anche dal nostalgico processo à rebours del decadentismo. Mentre Visconti cerca, con gli inserti dell’inchiesta, di assicurare una progressione alla storia, il film di Syberberg è spezzato in quadri fissi e isolati, scanditi da diciture che rammentano i cartelli di Brecht o le didascalie del cinema muto. I suoi personaggi non rivivono in ambienti reali – per quanto monumenti alla mistificazione – come in Visconti; ma riflettono su se stessi sullo sfondo di quinte teatrali, di quadri famosi, di illustrazioni di libro di fiabe, di paesaggi da almanacco turistico. Il suo cinema, come il teatro epico, consente la citazione: adottando la tecnica borghesiana dell’anacronismo deliberato e delle attribuzioni erronee, il suo Ludwig può citare inverosimilmente lo stesso Luchino Visconti. L’atteggiamento critico dell’autore verso il suo personaggio è risolto delegando lui stesso a vedersi criticamente. Se Visconti ammanta il mito di storicismo, Syberberg in quanto mito lo celebra e lo analizza storicamente. Il suo Ludwig, che misura con il proprio grottesco passo da parata le sale gigantesche della sua Disneyland, non ha bisogno di essere trasformato da bel principe in gigante sinistro; rimane quello che è sempre stato: un bambino dispotico e infelice. Se lo spettacolo di Visconti è mosso dalla ricerca della bellezza, il saggio di Syberberg è una metafora del cattivo gusto germanico. Sostituendo il grottesco al melodramma egli sottolinea l’ironia della Storia, per cui le costruzioni reali – tanto osteggiate a suo tempo perché dilapidavano il tesoro di Stato – sono divenute una cospicua fonte di introiti per la Baviera. Mentre orde di pingui turisti si aggirano tra i saloni e i castelli di Ludwig, guardando tutto e non capendo nulla, vediamo nel film dei giovani tedeschi, in sella alle loro sciocche moto di grossa cilindrata, che assistono alla decapitazione simbolica del re. Dalle sue ceneri l’infelice sovrano rinasce come un grottesco burattino, che gorgheggia uno jodel e si batte i polpacci come in una oleografia folkloristica tirolese: come la crisi del mondo aristocratico e della cultura romantica ha fatto posto, anziché a una rivoluzione culturale e sociale, al vuoto ideologico ed esistenziale della socialdemocrazia. Gruppo di famiglia in un interno Sono da poco finite le riprese del Ludwig quando, nel luglio del 1972, Visconti è colpito da trombosi. La malattia gli paralizza il braccio e la gamba sinistra, e lo costringe in una umiliante condizione di dipendenza. Ma la preoccupazione di portare a termine il film lo aiuta a reagire: durante la convalescenza – trascorsa a Cernobbio presso la sorella Ida – fa sistemare in casa una moviola e procede al montaggio. Quando però i produttori impongono lunghi tagli per ridurre la durata del film entro i termini contrattuali, Visconti è troppo stanco per combattere. Il Ludwig è distribuito in una edizione mutilata, che il regista si rifiuta di vedere. Più tardi, in seguito al fallimento della casa distributrice, il film andrà addirittura disperso. Lo ritroveranno per caso i collaboratori di Visconti a un’asta giudiziaria, nel ’78; e, acquistatine i diritti, lo riporteranno successivamente a una edizione conforme alla volontà dell’amico scomparso. Dopo l’attacco del male, Visconti era stato ricoverato in una clinica di Zurigo: caso volle che fosse la stessa in cui era morto Thomas Mann. Finito il Ludwig, torna a fare progetti: e ripensa allora a La montagna incantata, il grande romanzo di Mann che ha per tema proprio il mistero della sofferenza
e della malattia. Nel maggio del ’73 mette in scena a Roma un’edizione della commedia Tanto tempo fa di Harold Pinter, da cui scaturisce una polemica con il commediografo inglese. Solo un mese dopo, presenta a Spoleto la sua ultima e forse massima regia lirica: una Manon Lescaut dalla travolgente forza drammatica, interpretata – come si raccomandava Puccini – «non con le ciprie e i minuetti», ma «con passione disperata». Frattanto, si è messo al lavoro su un nuovo film. È stato lo sceneggiatore Enrico Medioli a proporgliene il soggetto. Medioli abita in un elegante appartamento al centro di Roma che possiede due piani, due stili, due anime: una antica e una moderna. Coinquilino di se stesso e appassionato conoscitore di conversation pieces (ossia ritratti di gruppi familiari), trova in questi elementi lo spunto per un soggetto che si armonizzi con i temi prediletti del regista, e, insieme, sia commisurato alle sue precarie condizioni fisiche: la storia, appunto, di un gruppo di famiglia in un interno. Un anziano Professore (Burt Lancaster) vive in solitudine, circondato dai quadri di cui è collezionista: ritratti di gruppi familiari. Una signora “bene” Bianca Brumonti (Silvana Mangano), riesce a convincerlo ad affittarle l’appartamento superiore, dove sistema il suo amante Konrad (Helmut Berger), e la figlia Lietta (Claudia Marsani) con il suo ragazzo, Stefano (Stefano Patrizi). L’austero Professore rimane sconcertato dalla volgarità dei suoi inquilini e dai rapporti che li legano; ma è tuttavia toccato dalla franchezza di Lietta e dalla personalità di Konrad, che rivela un passato di studi e di attività politica. Ora Konrad è compromesso in loschi traffici: una notte viene aggredito, e il Professore lo nasconde nel suo appartamento. Tra i due sembra stabilirsi un contatto; poi Konrad torna alla sua solita vita, e Bianca alle sue solite scenate. Il Professore, disgustato, non vuole più rivedere nessuno di loro. Ma presto si accorge che essi costituiscono ormai la sua “famiglia”, e che la loro presenza lo ha ridestato da un sordo letargo. Li invita a cena per una riconciliazione. Si scatena invece un feroce conflitto, e Konrad dichiara di aver denunciato il marito di Bianca come golpista di destra. Poco dopo il Professore trova Konrad morto nel suo appartamento, e anche per lui, di nuovo solo, non resta allora che aspettare la fine.
Il riferimento alle conversation pieces testimonia la familiarità di Visconti con un recente volume di Mario Praz: Scene di conversazione, e con l’intera opera di questo singolare saggista. Con la diabolica levità che gli è propria, Praz accenna più volte al sottile e morboso legame che intercorre tra l’Anima e il suo anagramma, Mania. Il fascino delle sue opere consiste nel modo in cui risale lungo questo filo tortuoso e sconcertante, senza mai abbandonare l’abito insospettabile e austero del professore all’antica. Dannunziano alla rovescia, indica l’erudizione nel delirio immaginifico, il metodo nella bizzarria. I suoi libri sono come una visita guidata nell’“inferno” del romanticismo, o – come dice bene Arbasino – «il Catasto del Decadentismo». Le Scene di conversazione sono scritte come uno studio erudito, ma si leggono come un romanzo. Praz insegue, con amorevole e minuziosa dedizione, le vicende delle generazioni ritratte in questo squisito genere di pittura borghese. Il suo interesse si sofferma con predilezione sugli episodi macabri e luttuosi, sicché il volume possiede il fascino perverso del vagheggiamento di un’epoca defunta. Il Professore di Gruppo di famiglia in un interno non possiede certo i grandi tratti del “prazzesco”, né la sua casa quelli del cenotafio neoclassico di casa Praz. Tuttavia certe affinità sono evidenti. «Oggi l’arte del porgere non esiste più» scrive Praz in Il patto col serpente (Milano 1972, p. 425) «il telefono ha pressoché abolito gli epistolari (…) e distrutto ogni possibilità di continuati e armoniosi discorsi»: un motivo questo che ricorre per tutto il film. Nelle stesse pagine troviamo quella che potrebbe essere la definizione dell’eloquio del Professore: «una serie di frasi ben tornite, sorvegliate da uno spirito brillante che si compiace d’ascoltar se stesso», contrapposto al «rozzo e sboccato parlar plebeo» esibito nel film dalla nuova borghesia in jeans. Visconti si è insomma rifatto a quel certo gusto antiquato caro a Praz per mettere il suo Professore a confronto con un presente nel quale non riesce più a riconoscersi. Lo scrittore stesso racconta in La casa della vita (Milano 1979, p. 431) di essersi trovato in una situazione simile a quella descritta in Gruppo di famiglia: «Da
un’ispirazione profetica doveva essere animato Luchino Visconti quando (a sua stessa confessione in interviste sui giornali) prendendo le mosse dalle mie Scene di conversazione per il suo film Ritratto di famiglia in un interno metteva a protagonista un vecchio professore assistito da un’anziana domestica (qui evidentemente alludeva a una situazione simile alla mia), ma anche immaginava che nello stesso casamento venisse ad abitare una banda di giovani drogati e dissoluti. Che è pressapoco quello che è accaduto, ma soltanto dopo la presentazione del film, nel palazzo dove abito. Il film, come potei constatare, è rispettoso verso il mio sosia, e forse esagera nei riguardi dei coinquilini, di cui dirò solo che, venendo richiesto dal più notorio di essi, della dedica di un mio libro, vi scrissi: “Per (seguiva il nome) vicino di casa, lontano d’idee”». Una dedica che sembra uscita dalla penna del Professore. Ma il maggiore elemento di affinità tra Visconti e il saggio di Praz sta nella sensibilità di entrambi verso quella teatralità degli atteggiamenti, quella concezione della stessa vita come teatro, che è caratteristica delle conversation pieces. In esse si esprime la falsa coscienza di una classe che amava mettersi in posa nell’illusione di garantire a se stessa «certezza e saldezza». La sconfitta di questa illusione, lo smascheramento di questa falsa coscienza costituiscono il tema del film. Il Professore cade in un duplice inganno: mentre nega ogni rapporto tra sé e la volgarità dei tempi nuovi, è poi costretto ad ammettere l’esistenza di un legame, ma quando crede che questo possa costituire l’inizio di una nuova vita, è solo per poi dovervi riconoscere il presagio della sua morte. Non meno del suo protagonista, Visconti appare prigioniero di una falsa coscienza. La sua contrapposizione tra il vecchio e il nuovo è priva di una reale dialettica. Quanto più critica l’accidia del suo protagonista, tanto più avvolge la figura dell’intellettuale in una anacronistica “aura” ottocentesca. La descrizione dei giovani inquilini tradisce la sua mancata dimestichezza con il presente. L’allusione forzosa ai golpismi di destra e le improbabili pose da ex “sessantottino” di Konrad, non fanno che sottolineare la sua mancanza di rapporto con il reale. Ma la sconfitta del Professore racchiude un’accorata testimonianza di quella dello stesso regista. Egli è consapevole di non potersi sottrarre, con l’alibi della nostalgia e dell’estetismo, alla degradazione del presente. Poiché, come direbbe il suo prediletto Thomas Mann, «l’amore del vecchio rimane falso e sterile quando si evita il nuovo che ne è derivato per necessità storica». E cosi, il protagonista del film rimane sospeso – come tanti personaggi viscontiani – tra un presente da cui è impossibile sfuggire e un passato in cui non è concesso rifugiarsi. I momenti più toccanti del film sono quelli che hanno per tema il tempo e la memoria: la metafora proustiana dell’inquilino come messaggero di morte, le immagini idealizzate della moglie e della madre, che irrompono radiose nella penombra in cui è avvolto il protagonista. Come le figure in posa delle «scene di conversazione», il Professore cerca inutilmente «certezza e saldezza» in un universo solipsistico, amniotico e teatrale. La rarefatta atmosfera da acquario in cui si muove, si prolunga dall’appartamento alla stessa città. Una Roma barocca, magica e artificiale, tutta ricostruita in teatro: in armonia con lo spirito delle conversation pieces, in cui gli esterni sono estensioni degli interni, cornici al riparo familiare della casa. In questo tema della famiglia come rifugio, Visconti ha toccato uno dei nodi fondamentali della sua opera. Gli stessi quadri del Professore non sono del resto che un’eccellente metafora dei film di Visconti: tutti “ritratti di famiglia”. Ma, a differenza delle altre famiglie viscontiane, quella del Professore è puramente immaginaria: la proiezione di figure familiari in un gruppo di estranei. E questo rivela la sua funzione difensiva. Il Professore si sente garantito della propria identità, finché può riconoscere l’integrità della struttura familiare fuori di sé: nei suoi quadri prima, nei suoi inquilini poi. La stessa cosa può dirsi di Visconti: del suo attaccamento al “fantasma” della famiglia, e del senso di morte legato allo spezzarsi di questa immagine. Molti elementi del “decadentismo” di Visconti vanno ricercati innanzitutto nella psicologia dell’io: «Di qui nascono» come osserva Laing «i fantasmi della famiglia come conservata distrutta o reintegrata, della famiglia che cresce, muore,
che è immortale» (in La politica della famiglia, Torino 1973, p. 7). Anche il tema dell’omosessualità, che in Gruppo di famiglia assume la veste di un sentimento quasi paterno, appare sempre in rapporto con i fantasmi familiari: l’immagine del Professore che porta Konrad nella camera della madre – una “zona segreta” nascosta dietro la parete difensiva della biblioteca – ne rappresenta un’eloquente metafora. Meno legato di altri suoi film a elementi reali, Gruppo di famiglia in un interno si spinge più liberamente nelle zone profonde della personalità di Visconti. Ne emergono fantasmi antichi: come quello del rifugio nella solitudine o nella integrità familiare, turbato da un demone portatore di amore e morte. Il tema dell’isolamento, sebbene più frequente nell’ultimo Visconti, non è solo un retaggio della vecchiaia. Quello del Professore si affianca a una galleria di ritratti che già comprendeva il sognatore di Le notti bianche, il solitario von Aschenbach, l’isolamento del Gattopardo, la regale misantropia di Ludwig. Da parte sua, il regista ha sempre respinto qualsiasi riferimento autobiografico nel solipsismo del suo protagonista. Ma Burt Lancaster – come aveva già fatto in Il Gattopardo – si è ispirato proprio a lui per interpretare il personaggio del Professore. Naturalmente ciò non va inteso banalmente, nel senso di un’assimilazione acritica dell’autore al personaggio. Ma come un’estrema testimonianza di quella aristocratica difficoltà ad aderire alla realtà e a uscire dal cerchio del proprio io, che è stata insieme di ostacolo e di stimolo all’attività di Visconti. I due termini di questa dialettica possono essere riassunti da due poesie, poste originariamente a confronto nella sceneggiatura del film. La prima, poi tagliata nella versione definitiva, era il sonetto di Shakespeare «They that have power to hurt, and will do none», dove si condanna l’accidia di quanti, rifiutando l’azione, restano «freddi, impietriti, sordi a ogni istinto». L’altra è l’ultima poesia di Auden, che Lietta recita al Professore. Un’esortazione alla vita, scritta dal poeta alla vigilia della morte, che Visconti teneva affissa come un monito a una parete della sua camera: «Se un’attraente forma vedrai, dalle la caccia./E abbracciala, se puoi,/Sia essa una ragazza o un ragazzo/Senza vergogna, ma da sfrontato, da bravo./La vita è breve, cogli dunque/qualsiasi contatto la tua carne/al momento muova./Non c’è vita sessuale nella tomba». L’innocente Nonostante la malattia, Visconti spera ancora di poter realizzare certi vecchi progetti: la biografia di Zelda Fitzgerald, quella di Giacomo Puccini e, soprattutto, La montagna incantata. Gli viene offerto invece un adattamento da d’Annunzio; pensa allora a Il piacere, poi a L’innocente. È impegnato nella sceneggiatura di quest’ultimo quando, nell’aprile del ’75, una banale caduta peggiora drasticamente le sue condizioni. Si frattura la spalla e la gamba destra, ed è costretto a una nuova permanenza in clinica. Quando comincia le riprese del film, è ormai definitivamente immobilizzato su una sedia a rotelle. Potrebbe dire, come il d’Annunzio invalido del Notturno, «Imparo un’arte nuova»: trovare cioè la forza di dirigere superando gli impedimenti e le umiliazioni della malattia. Lavorare su d’Annunzio significa per Visconti ritornare a un grande amore letterario del passato, rimosso in parte per l’antipatia nutrita verso l’uomo e l’esteta guerrafondaio. Tra i suoi romanzi sceglie appositamente quello meno vincolato ai vezzi e ai miti esteriori del dannunzianesimo, e che gli sembra il più adatto, per l’ambientazione e l’intreccio, a una trasposizione cinematografica. Roma, 1891. I rapporti fra Tullio Hermil (Giancarlo Giannini) e la moglie Giuliana (Laura Antonelli) sono da tempo puramente formali; e lei accetta, apparentemente senza reagire, la relazione del marito con la contessa Teresa Raffo (Jennifer O’Neill). Durante la loro assenza, Giuliana conosce lo scrittore Filippo d’Arborio (Marc Porel) e, al loro ritorno, si rifugia in campagna, presso la villa della suocera (Rina Morelli). Sentendo la moglie sfuggirgli, Tullio prova di nuovo attrazione per lei e le propone di ricominciare insieme una nuova vita. Ma, subito dopo l’apparente riconciliazione, apprende che lei è incinta di d’Arborio. Giuliana rifiuta di abortire, e nel frattempo il suo amante
muore di una malattia tropicale. Tullio è costretto ad accettare la gravidanza, ma è ossessionato dalla gelosia. La notte di Natale, mentre tutti sono a messa, espone il neonato all’aria gelida. Il bambino muore, e Giuliana sfoga finalmente il suo odio verso il marito. Tullio confida l’intera vicenda a Teresa che si dissocia dal suo mostruoso egocentrismo. Sentendosi sconfitto, Tullio si suicida di fronte all’amante.
L’innocente di d’Annunzio nasce da una serie eterogenea di influenze, tipica dell’inclinazione dell’autore al bric-à-brac letterario. D’Annunzio prende spunto dalla novella di Maupassant La confessione, di cui trasforma l’evidenza sintetica in verbosità estenuata. Contrappone la “bontà” di maniera dei personaggi minori, imitata da Tolstoj, alla tortuosità dei protagonisti, ispirata a La mite di Dostoevskij. Mescola la casistica matrimoniale degli psicologisti (alla Paul Bourget) alle vicissitudini della propria. Durante la stesura del romanzo, lo scrittore aveva infatti una relazione con la contessa Gravina Cruyllas di Rimacca, mentre la moglie aspettava un figlio da un giornalista alla moda. La realtà si mescolò alla letteratura. Quando la moglie tentò di suicidarsi, gettandosi dalla finestra come la “mite”, d’Annunzio dovette vedervi una conferma dell’assioma decadente secondo cui la vita imita l’arte. Nel film, Visconti mostra una vecchia edizione del romanzo, sfogliandone le pagine con devozione da bibliofilo durante i titoli di testa e soffermandosi con una zoomata sulla dedica alla contessa Gravina. Ma evita ogni riferimento biografico; cosi come alleggerisce il romanzo del tolstoismo più ingombrante e della più vieta verbosità. I dialoghi della sceneggiatura non ricalcano mai piattamente quelli del romanzo, ma riecheggiano fedelmente tutti i principali temi dannunziani, prendendo spunto dall’intero complesso della sua opera. Infatti, pur rispettando le caratteristiche dello stile di d’Annunzio, che non sviluppa in ampiezza l’orizzonte storico-sociale dei suoi romanzi (e infatti L’innocente è un film tutto sui personaggi, incalzati via via sempre più da vicino dalla macchina da presa), Visconti intende approfondire quella tendenza dello scrittore all’autocritica e all’introspezione «che fissa un’epoca, ne centra tutti i difetti, le filosofie, i comportamenti»; ed esplora quelle “zone d’ombra” dell’autoanalisi e della sconfitta, in cui tanta parte della critica (fra cui lo stesso Emilio Cecchi, il padre di Suso) ha cercato gli aspetti più significativi di questo enfatico virtuoso della parola. Anche se la vicenda è circoscritta all’ambiente familiare, Visconti accenna a quei luoghi mondani che fanno parte dei cerimoniali sociali della Roma umbertina: le palestre di scherma, le aste di Di Castro, le cene da Ranieri, i ricevimenti aristocratici. Nei saloni di palazzo Colonna ambienta quelle serate musicali in cui l’aristocrazia del tempo sopportava Mozart, Chopin o Gluck come pegno per i pettegolezzi e le mondanità. Tramite quei ricevimenti, Visconti dà alla crisi matrimoniale di Tullio e Giuliana una pubblicità che tradisce la lettera del romanzo; ma riflette perfettamente il carattere di d’Annunzio, le cui clamorose vicende matrimoniali e adulterine costituivano il ghiotto alimento del pubblico romano. La teatralità di tali esibizioni e il banale ripetersi del rituale borghese dell’adulterio sottolineano in Visconti la futilità della squallida aristocrazia umbertina, di cui d’Annunzio fu invece l’apologeta. Lo splendore dell’involucro suggerisce il vuoto culturale di una società snobistica e provinciale. Attraverso i costumi e gli arredi, Visconti esprime (accanto alla fascinazione) la sua visione critica di quel mondo. Abbonato fedele sino alla morte della più autorevole rivista di moda del tempo, «La vie parisienne», d’Annunzio non perse, da romanziere, quel ruolo di arbiter elegantiarum in fatto di cappellini, modelli e tessuti, che aveva svolto sulle colonne della «Tribuna» o della «Cronaca bizantina». Ma le toilettes che Visconti e Piero Tosi hanno ripreso dalla moda dell’epoca, non hanno un mero significato illustrativo o rievocativo. I vistosi abiti di raso e broccato di Teresa Raffo, per esempio, ne sottolineano il carattere: l’eleganza aggressiva e spregiudicata, in contrasto con quella meno appariscente e più delicata di Giuliana. Il colore degli abiti cambia in funzione simbolica: dai vestiti bianchi bordati di nero di Tullio e Giuliana al momento della loro riconciliazione, al nero luttuoso
degli abiti da sera di Tullio e Teresa nella scena finale. E cambia anche in funzione psicologica: quando la vita di Giuliana diventa misteriosa agli occhi del marito, il suo volto appare nascosto da uno splendido velo viola, che modella ambiguamente le forme del suo volto, come in una scultura di Medardo Rosso. Anche gli ambienti stile Impero, ricostruiti da Visconti e Mario Garbuglia, assumono la stessa funzione. Nel film le case hanno una vita e una storia. Il lusso vistoso dell’appartamento di Teresa Raffo – le pareti rosso e oro, il prezioso paravento cinese cosi alla moda – ne dicono la fatuità di aristocratica e il carattere eccentrico e volitivo. La dolcezza del boudoir rosa di Giuliana, la pia delicatezza della sua camera da letto, concordano invece con la sua apparente immagine di remissività. L’appartamento di Federico, con la delicatezza dei colori, la nitidezza di linee dei mobili inglesi di Adams, ne riflette la semplicità e l’austero gusto borghese, contrapposto a quello enfatico e tortuoso di Tullio. La Badiola, santuario degli affetti familiari, è arredata in uno stile metà Ottocento, conforme al gusto severo e antiquato della madre. Villalilla, la casa della riconciliazione, esprime visivamente l’illusione di una nuova vita: con le pareti chiare, i mobili ricoperti di fodere bianche, la luce filtrata dalle tende di mussola. La sua apparizione è l’unico momento del film in cui la storia sembra sottratta alla cupa atmosfera che la opprime: al suono delle luminose note di Liszt, inondata dal sole primaverile, la villa appare immersa nello splendore delle rose muscate e dei lillà. Ma è un’illusione effimera e leziosa: quando Giuliana si inoltra nell’ombra del giardino come in una dimensione incantevole e irreale, Visconti dà alla scena la grazia manierata di un quadro di Silvestro Lega. È comunque sui personaggi che si esercita principalmente l’attenzione del regista. Egli prende spunto dalla cosiddetta «lucidità di coscienza» dannunziana: quel gioco tortuoso di autoesaltazione e di autoaccusa che è caratteristico dello scrittore. Mette cioè in luce quei tratti tipici del dannunzianesimo (l’ossessione del dominio della donna, il compiacimento per l’introspezione, l’esibizione di superominismo, la teatralità degli atteggiamenti, l’egoismo travestito da eccezionalità di spirito) che lo scrittore stesso ha saputo analizzare, mescolandoli poi agli ingredienti della sua recita personale. E, coerentemente a d’Annunzio, mostra come questa pretesa lucidità sia sopraffatta e condizionata da un solo elemento: il senso. La sostanza del film è proprio nel denudamento di questa falsa coscienza. Da un lato quella di Tullio: apparentemente ateo, raziocinante, anticonformista, e in realtà guidato solo dalla smania del controllo e del possesso sulla moglie. Dall’altro, quella di Giuliana, che non rifiuta mai apertamente il suo ruolo di moglie succube, ma si serve come arma proprio del gioco delle apparenze e dei buoni sentimenti. Il risultato è il delitto: un gesto estremo, tipico della ricercata eccezionalità dannunziana che Visconti riporta alle sue vere proporzioni. Tullio espone il neonato «al freddo e al gelo» durante la novena di Natale, come in una goffa parodia della tradizionale oleografia cattolica. Il conflitto tra Tullio e Giuliana sul problema dell’aborto riecheggia volutamente nel film le polemiche allora in atto su questo tema tra laici e cattolici. Benché credente, Visconti stigmatizza, per bocca di Tullio, il criterio cattolico che antepone la vita del nascituro a quella della madre: «È un precetto immorale, delittuoso. Non mi riguarda». Tuttavia, il disaccordo tra i coniugi su questo tema non fa che nascondere due contrapposti egoismi: la descrizione della vita matrimoniale come pura convenzione, la mancanza di un rapporto paritario nella coppia, riflettono nel loro insieme il profondo pessimismo di Visconti. Con il suo tono distaccato e lugubre, L’innocente appare il suo definitivo requiem per l’istituzione familiare. Il finale del film modifica quello del romanzo: all’esaltazione superoministica del Tullio dannunziano, si sostituisce quel senso della sconfitta come parziale presa di coscienza, che è caratteristica dei protagonisti viscontiani. Ma «quel suicidio» come dice il regista «anche se nel romanzo non c’è, è tipicamente d’Annunzio: si costruisce e si svolge esattamente come se fosse stato d’Annunzio a raccontarlo; con la sua stessa lingua, i suoi stessi modi, le sue identiche cadenze.
Con il suo stile, insomma, reinterpretato “liberamente” ma “fedelmente” per il cinema» (in «Il Tempo», 26 settembre 1975). Infatti, l’idea di eleggere Teresa Raffo a estrema confidente di Tullio, risponde perfettamente al piacere dannunziano di esibirsi e confessarsi: «palesare i più piccoli mali esagerandoli e ingigantire i vizi mediocri nell’accusarsi, rimettere di continuo la propria anima e la propria carne inferma nelle mani di un medico misericorde: non avevano queste cose un fascino tutto sensuale?» (Trionfo della morte, in Prose di romanzi, vol. I, Milano 1940, p. 736). Teresa Raffo, personaggio talmente fugace nel romanzo da meritare il nome di «Assente», diventa nel film la tipica “Nemica” dannunziana, cioè la donna indipendente e volitiva che si sottrae al controllo e alla richiesta di complicità del protagonista. Il finale in cui lei lo abbandona dopo il suicidio, ripropone la situazione tra Gianni e Sandra in Vaghe stelle dell’Orsa. Anche la cornice della scena è tipicamente dannunziana: la casa come «perfettissimo teatro». L’arredamento è all’insegna del bric-à-brac: i bouquet di crisantemi e gli alberi nani, le decorazioni orientaleggianti e i busti classici, i mobili di Boulle e le giapponeserie, i bronzi e le lacche accanto al monumentale caminetto composito umbertino. In questa cornice scenografica, il suicidio di Tullio appare l’ultimo atto di una futile tragedia. Visconti riprende il dettaglio della sua mano che impugna la pistola. Poi, mentre la macchina da presa si arresta a distanza, Tullio si allontana di spalle nell’androne, solleva il braccio e fa fuoco. Teresa si ridesta. Tullio si volta di scatto – la ferita come un elegante fiore rosso sullo sparato del frac – e crolla a terra come un tenore sul palcoscenico. Muore cosi, da buon dannunziano, con il piacere di essersi esibito per l’ultima volta: «L’uomo trova nel sincero e supremo disprezzo di sé medesimo qualche volta, veramente, una particolare gioia» (L’innocente, in Prose di romanzi, cit., p. 397). Dopo aver cominciato la sua carriera cinematografica prendendo spunto da Verga, Visconti la conclude dunque con d’Annunzio: una apparente conferma per quanti hanno voluto contrapporre il Visconti “realista” della giovinezza a quello “decadente” della vecchiaia. Ma i due termini appaiono più complementari che contraddittori; come è d’altronde l’opera dei due scrittori. Il ciclo dei grandi romanzi naturalistici di Verga è preceduto e seguito dalla descrizione della «stanchezza del piacere» nell’aristocrazia decadente, come l’opera decadente di d’Annunzio prende le mosse dal violento naturalismo delle novelle giovanili. Traendo spunto da L’innocente, il regista ha concluso coerentemente con un rappresentante della società umbertina, quella lunga galleria di “vinti” di cui è costituita tutta la sua opera. Mentre ultimava il film, Visconti sperava di poter ancora realizzare i suoi progetti: Zelda, La montagna incantata, una galleria di «ritratti proustiani» per la televisione. Ma le sue condizioni si aggravano. Muore il 17 marzo del 1976, mentre L’innocente è in fase di doppiaggio. Le contraddizioni che avevano resa viva la sua personalità, si rispecchiano anche nei funerali: i compagni del partito comunista e i sontuosi cerimoniali funebri dei gesuiti; i pochi amici sinceri e i notabili del governo: gli stessi che, dopo averlo osteggiato in passato, lo vogliono ora in odore di accademia.
Teatrografia
COLLABORAZIONI 1936 Carità mondana di Giannino Antona Traversi Compagnia del Teatro di Milano diretta da Romano Calô; messinscena: Luchino Visconti. Il dolce aloe di Jay Mallory Compagnia del Teatro di Milano diretta da Romano Calô; messinscena: Luchino Visconti. 1938 Il viaggio di Henry Bernstein Compagnia di Renato Cialente, Andreina Pagnani, Giuseppe Porelli; scena (non firmata): Luchino Visconti. 1947 Vita colpadre di Howard Lindsay e Russel Crouse (da Clarence Day) Regia: Gerardo Guerrieri; supervisione: Luchino Visconti; interpreti: Paolo Stoppa, Rina Morelli, Giorgio De Lullo. 1954 Festival di Age, Scarpelli, Verde e Vergani Regia: degli autori; supervisione: Luchino Visconti; interpreti: Wanda Osiris, Henri Salvador, Nino Manfredi, Alberto Lionello. REGIE Prosa: 1945 Parenti terribili di Jean Cocteau Interpreti: Andreina Pagnani, Lola Braccini, Rina Morelli, Gino Cervi. Quinta colonna di Ernest Hemingway Scene: Renato Guttuso; interpreti: Carlo Ninchi, Olga Villi, Dhia Cristiani, Giuseppe Pagliarini, Arnoldo Foà. La macchina da scrivere di Jean Cocteau Scene: Luchino Visconti; interpreti: Ernesto Calindri, Vittorio Gassman, Laura Adani, Daniela Palmer. Antigone di Jean Anouilh Scene: Mario Chiari; interpreti: Mario Pisu, Rina Morelli, Olga Villi, Giorgio De Lullo. A porte chiuse di Jean-Paul Sartre Scene: Mario Chiari; interpreti: Paolo Stoppa, Rina Morelli, Vivi Gioi. Adamo di Marcel Achard
Scene: Luchino Visconti; interpreti: Laura Adani, Vittorio Gassman, Ernesto Calindri, Tino Carraro. La via del tabacco di John Kirkland (da E. Caldwell) Scene: Cesare Pavani; interpreti: Ernesto Calindri, Renata Seripa, Vittorio Gassman, Laura Adani, Tino Carraro. 1946 Il matrimonio di Figaro di P.A. Caron de Beaumarchais Musiche: Renzo Rossellini; interpreti: Nino Besozzi, Lia Zoppelli, Vittorio De Sica, Vivi Gioi, Jone Morino, Vittorio Caprioli. Delitto e castigo di Gaston Baty (da Dostoevskij) Scene: Mario Chiari; interpreti: Memo Benassi, Massimo Girotti, Franco Zeffirelli, Giorgio De Lullo, Paolo Stoppa. Zoo di vetro di Tennessee Williams Scene: Mario Chiari; interpreti: Tatiana Pavlova, Rina Morelli, Paolo Stoppa, Giorgio De Lullo. 1947 Euridice di Jean Anouilh Scene: Mario Chiari; interpreti: Giorgio De Lullo, Antonio Gandusio, Paolo Stoppa. 1948 Rosalinda o Come vi piace di William Shakespeare Scene e costumi: Salvador Dali; interpreti: Nerio Bernardi, Cesare Fantoni, Carlo Tamberlani, Gabriele Ferzetti, Vittorio Gassman, Ruggero Ruggeri, Luciano Salce, Paolo Stoppa, Rina Morelli. 1949 Un tram che si chiama Desiderio di Tennessee Williams Scene: Franco Zeffirelli; interpreti: Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Vivi Gioi, Rina Morelli. Oreste di Vittorio Alfieri Scene e costumi: Mario Chiari; interpreti: Ruggero Ruggeri, Paola Borboni, Rina Morelli, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni. Troilo e Cressida di William Shakespeare Scene: Franco Zeffirelli; interpreti: Pietro Carnabuci, Carlo Ninchi, Vittorio Gassman, Giorgio De Lullo, Paolo Stoppa, Marcello Mastroianni, Memo Benassi, Massimo Girotti, Rina Morelli. 1951 Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller Scene: Gianni Polidori; interpreti: Paolo Stoppa, Rina Morelli, Giorgio De Lullo, Marcello Mastroianni, Franco Interlenghi. Un tram che si chiama Desiderio di Tennessee Williams (2°) Scene: Franco Zeffirelli; interpreti: Marcello Mastroianni, Giorgio De Lullo, Rossella Falk, Rina Morelli. Il seduttore di Diego Fabbri Scene: Mario Chiari; interpreti: Paolo Stoppa, Rina Morelli, Rossella Falk, Carla Bizzarri.
1952 La locandiera di Carlo Goldoni Scene e costumi: Luchino Visconti e Piero Tosi; interpreti: Marcello Mastroianni, Paolo Stoppa, Gianrico Tedeschi, Rina Morelli, Rossella Falk, Giorgio De Lullo. Tre sorelle di Anton Ĉechov Scene: Franco Zeffirelli; interpreti: Paolo Stoppa, Rossella Falk, Elena Da Venezia, Sarah Ferrati, Rina Morelli, Gianrico Tedeschi, Memo Benassi, Giorgio De Lullo, Marcello Mastroianni. 1953 Il tabacco fa male di Anton Ĉechov Interprete: Memo Benassi. Medea di Euripide Scene e costumi: Mario Chiari; interpreti: Renata Seripa, Cesare Fantoni, Sarah Ferrati, Memo Benassi, Sergio Fantoni, Gianrico Tedeschi, Giorgio De Lullo, Elena Da Venezia. 1954 Come le foglie di Giuseppe Giacosa Scene e costumi: Lila de Nobili; interpreti: Salvo Randone, Lina Volonghi, Lilla Brignone, Fabrizio Mioni, Gianni Santuccio. 1955 Il crogiuolo di Arthur Miller Scene: Luchino Visconti; interpreti: Lilla Brignone, Gianni Santuccio, Camillo Pilotto, Edda Albertini, Carlo d’Angelo, Paola Borboni, Tino Buazzelli, Adriana Asti, Laura Betti. Zio Vania di Anton Ĉechov Scene e costumi: Piero Tosi; interpreti: Mario Pisu, Eleonora Rossi Drago, Rina Morelli, Paolo Stoppa, Marcello Mastroianni. 1957 Contessina Giulia di August Strindberg Scene e costumi: Luchino Visconti; interpreti: Lilla Brignone, Massimo Girotti, Ave Ninchi. L’impresario di Smirne di Carlo Goldoni Scene e costumi: Luchino Visconti; interpreti: Paolo Stoppa, Ilaria Occhini, Edda Albertini, Rina Morelli. 1958 Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller Scene: Mario Garbuglia; interpreti: Paolo Stoppa, Rina Morelli, Ilaria Occhini, Sergio Fantoni, Corrado Pani. Immagini e tempi di Eleonora Duse Interpreti: Edmonda Aldini, Lilla Brignone, Giorgio De Lullo, Rossella Falk, Vittorio Gassman, Emma Gramatica, Rina Morelli, Romolo Valli. Veglia la mia casa, angelo di Ketti Frings (da Thomas Wolfe) Scene: Mario Garbuglia; interpreti: Lilla Brignone, Annibale Ninchi, Elvira Cortese, Corrado Pani,
Adriana Asti. Deux sur la balançoire di William Gibson Scene: Luchino Visconti; interpreti: Annie Girardot, Jean Marais. I ragazzi della signora Gibbons di Will Glickman e Joseph Stein Scena: Mario Garbuglia; interpreti: Bice Valori, Rina Morelli, Paolo Stoppa. 1959 Figli d’arte di Diego Fabbri Scene: Mario Garbuglia; interpreti: Paolo Stoppa, Rina Morelli, Ilaria Occhini, Françoise Spira. 1960 L’Arialda di Giovanni Testori Scene: Luchino Visconti; interpreti: Rina Morelli, Paolo Stoppa, Pupella Maggio, Lucilla Morlacchi, Umberto Orsini. 1961 Dommage qu’elle soit unep… di John Ford Scene: Luchino Visconti; interpreti: Romy Schneider, Alain Delon. 1963 Il tredicesimo albero di André Gide Interpreti: Rina Morelli, Osvaldo Ruggeri, Romolo Valli. 1965 Après la chute di Arthur Miller Scene: Mario Garbuglia; interpreti: Annie Girardot, Michel Auclair. Il giardino dei ciliegi di Anton Ĉechov Scene e costumi: Luchino Visconti e Ferdinando Scarfiotti; interpreti: Rina Morelli, Ottavia Piccolo, Lucilla Morlacchi, Paolo Stoppa, Tino Carraro, Massimo Girotti. 1967 Egmont di Wolfgang Goethe Scene e costumi: Ferdinando Scarfiotti; interpreti: Elsa Albani, Giorgio De Lullo, Renzo Palmer, Romolo Valli. La monaca di Monza di Giovanni Testori Interpreti: Lilla Brignone, Sergio Fantoni, Valentina Fortunato. 1969 L’inserzione di Natalia Ginzburg Scene e costumi: Ferdinando Scarfiotti; interpreti: Adriana Asti, Franco Interlenghi, Mariangela Melato. 1973 Tanto tempo fa di Harold Pinter Scene: Mario Garbuglia; interpreti: Umberto Orsini, Adriana Asti, Valentina Cortese.
Lirica: 1954 La Vestale di Gaspare Spontini Scene: Pietro Zuffi; direttore: Antonino Votto; interpreti: Franco Corelli, Maria Callas, Enzo Sordetto, Nicola Rossi Lemeni. 1955 La sonnambula di Vincenzo Bellini Scene e costumi: Piero Tosi; direttore: Leonard Bernstein; interpreti: Giuseppe Modesti, Maria Callas, Gabriella Carturan, Cesare Valletti. La traviata di Giuseppe Verdi Scene e costumi: Lila de Nobili; direttore: Carlo Maria Giulini; interpreti: Maria Callas, Giuseppe Di Stefano (poi, Gianni Raimondi), Ettore Bastianini. 1957 Anna Bolena di Gaetano Donizetti Scene e costumi: Nicola Benois; direttore: Gianandrea Gavazzeni; interpreti: Nicola Rossi Lemeni, Maria Callas, Giulietta Simionato, Plinio Clabassi, Gianni Raimondi. Ifigenia in Tauride di Christoph Willibald Gluck Scene e costumi: Nicola Benois; direttore: Nino Sanzogno; interpreti: Maria Callas, Dino Dondi, Francesco Albanese, Anselmo Colzani. 1958 Don Carlo di Giuseppe Verdi Scene e costumi: Luchino Visconti, Maurizio Chiari e Filippo Sanjust; direttore: Carlo Maria Giulini; interpreti: Boris Christoff, Tito Gobbi, Jon Vickers, Gré Brouwenstijn, Fedora Barbieri, Giulietta Simionato. Macbeth di Giuseppe Verdi Scene e costumi: Piero Tosi; direttore: Thomas Schippers; interpreti: Carmine Torre, William Chapman, Dino Dondi, Shakeh Vartenissian, Ferruccio Mazzoli. 1959 Il duca d’Alba di Gaetano Donizetti Scene e costumi: Luchino Visconti e Filippo Sanjust, sulle scene originali di Carlo Ferrario; direttore: Thomas Schippers; interpreti: Luigi Quilico, Wladimiro Ganzarolli, Franco Ventriglia, Renato Cioni, Ivana Tosini. 1961 Salomé di Richard Strauss Scena e costumi: Luchino Visconti; direttore: Thomas Schippers; interpreti: George Shirley, Lili Chookasian, Margaret Tynes, Robert Anderson, Paul Arnold. 1963 Il diavolo in giardino
Libretto: Luchino Visconti, Filippo Sanjust e Enrico Medioli; musica: Franco Mannino, diretta dall’autore; scene e costumi: Luchino Visconti e Filippo Sanjust; interpreti: Ugo Benelli, Clara Petrella, Gianna Galli, Antonio Annaloro, Antonio Boyer. La traviata di Giuseppe Verdi (2°) Scene: Luchino Visconti; direttore: Robert La Marchina; interpreti: Franca Fabbri, Daniela Dinato, Sally Silver, Franco Bonisolli, Mario Basiola jr. 1964 Le nozze di Figaro di Wolfgang Amadeus Mozart Scene e costumi: Luchino Visconti e Filippo Sanjust; direttore: Carlo Maria Giulini; interpreti: Rolando Panerai, Ilva Ligabue, Ugo Trama, Mariella Adani, Stefania Malagù. Il trovatore di Giuseppe Verdi Scene e costumi: Nicola Benois; direttore: Gianandrea Gavazzeni; interpreti: Piero Cappuccilli, Gabriella Tucci, Giulietta Simionato, Carlo Bergonzi. Il trovatore di Giuseppe Verdi (2°) Scene e costumi: Filippo Sanjust; direttore: Carlo Maria Giulini; interpreti: Peter Glossop, Gwyneth Jones, Giulietta Simionato, Bruno Prevedi, Joseph Rouleau. 1965 Don Carlo di Giuseppe Verdi (2°) Scene e costumi: Luchino Visconti; direttore: Carlo Maria Giulini; interpreti: Cesare Siepi, Gianfranco Cecchele, Kostas Paskalis, Suzanne Sarroca, Mirella Parutto Boyer. 1966 Falstaff di Giuseppe Verdi Scene e costumi: Luchino Visconti e Ferdinando Scarfiotti; direttore: Leonard Bernstein; interpreti: Dietrich Fischer-Dieskau, Rolando Panerai, Juan Oncina, Ilva Ligabue, Graziella Sciutti. Der Rosenkavalier di Richard Strauss Scene: Luchino Visconti e Ferdinando Scarfiotti; direttore: Georg Solti; interpreti: Sena Jurinac, Michael Langdon, Josephine Veasey, Joan Carlyle. 1967 La traviata di Giuseppe Verdi (3°) Scene: Nato Frasca; direttore: Carlo Maria Giulini; interpreti: Mirella Freni, Anne Howells, Renato Cioni, Piero Cappuccilli, George McPherson. 1969 Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi Scene e costumi: Luchino Visconti e Ferdinando Scarfiotti; direttore: Joseph Krips; interpreti: Eberhard Wätcher, Nicolai Ghiaurov, Gundula Janowitz, Carlo Cossutta. 1973 Manon Lescaut di Giacomo Puccini Scene: Lila de Nobili e Emilio Carcano; direttore: Thomas Schippers; interpreti: Nancy Shade, Angelo Romero, Harry Theyard, Carlo Del Bosco.
Balletti: 1956 Mario e il mago Azione coreografica di Luchino Visconti, dal racconto di Thomas Mann; musica: Franco Mannino; scene: Lila de Nobili; coreografia: Leonida Massine; interpreti: Jean Babilée, Salvo Randone, Luciana Novaro, Ugo Dell’Ara. 1957 Maratona di danza Libretto: Luchino Visconti; musica: Hans Werner Henze; scene e costumi: Renzo Vespignani; coreografia: Dick Sanders; interpreti: Jean Babilée, Marion Schnelle, Gundula von Woyna, Friedel Herfurth, Ingeborg Hôhnisch, Erwin Bredow.
Filmografia
COLLABORAZIONI 1936 | Une partie de campagne (La scampagnata)
Regia: Jean Renoir; costumista e assistente: Luchino Visconti; interpreti: Sylvia Bataille, Paul Temps, Georges Darnoux, Jacques Borel, Jeanne Marken, Gabriello, Jean Renoir. 1940 | La Tosca
Regia: Jean Renoir e Carl Koch; sceneggiatura: Luchino Visconti, Jean Renoir e Carl Koch (dal dramma di V. Sardou); aiuto regia: Luchino Visconti; interpreti: Imperio Argentina, Michel Simon, Rossano Brazzi, Massimo Girotti. REGIE Documentari: 1945 | Giorni di gloria (sequenze del processo Caruso)
Film di montaggio. Coordinamento: Mario Serandrei e Giuseppe De Santis; commento: Umberto Calosso e Umberto Barbaro; fotografia: Aa.vv.; musica: Costantino Ferri; montaggio: Mario Serandrei e Carlo Alberto Chiesa; produzione: Titanus-Anpi; durata: 70’. 1951 | Appunti su un fatto di cronaca (episodio di Documento Mensile n. 2°)
Commento: Vasco Pratolini; musica: Franco Mannino; produttore: Marco Ferreri e Riccardo Ghione; durata: 8’. 1970 | Alla ricerca di Tadzio
Produzione: Rai, per la rubrica «Cinema 70», curata da Alberto Luna; durata: 30’. Film: 1943 | Ossessione
Soggetto: dal romanzo The Postman Always Rings Twice di James Cain; sceneggiatura: Luchino Visconti, Mario Alicata, Giuseppe De Santis; fotografia: Aldo Tonti e Domenico Scala; scenografia: Gino Franzi; costumi: Maria De Matteis; montaggio: Mario Serandrei; musica: Giuseppe Rosati; interpreti: Clara Calamai (Giovanna Bragana), Massimo Girotti (Gino Costa), Juan De Landa (Giuseppe Bragana), Dhia Cristiani (Anita), Elio Marcuzzo (lo Spagnolo), Vittorio Duse (l’agente), Michele Ricciardini (don Remigio); produzione: Ici; durata: 135’. 1948 | La terra trema
Soggetto e sceneggiatura: Luchino Visconti, dal romanzo I Malavoglia di Giovanni Verga; commento: Luchino Visconti e Antonio Pietrangeli; fotografia: G. R. Aldo; montaggio: Mario Serandrei; musica: scelta e coordinata da Luchino Visconti e Willy Ferrero; interpreti: Antonio Arcidiacono (’Ntoni), Giuseppe Arcidiacono (Cola), Giovanni Greco (il nonno), Nelluccia Giammona (Mara), Agnese Giammona (Lucia), Nicola Castorina (Nicola), Rosario Galvagno (don Salvatore), Lorenzo Valastro (Lorenzo), Rosa Costanzo (Nedda); produttore: Salvo D’Angelo per la Universalia; durata: 160’. 1951 | Bellissima
Soggetto: da un’idea di Cesare Zavattini; sceneggiatura: Suso Cecchi d’Amico, Francesco Rosi e Luchino Visconti; fotografia: Piero Portalupi e Paul Ronald; scenografia: Gianni Polidori; costumi: Piero Tosi; montaggio: Mario Serandrei; musica: Franco Mannino, su temi tratti da L’elisir d’amore
di Gaetano Donizetti; interpreti: Anna Magnani (Maddalena Cecconi), Walter Chiari (Alberto Annovazzi), Tina Apicella (Maria Cecconi), Gastone Renzelli (Spartaco Cecconi), Tecla Scarano (la maestra di recitazione), Arturo Bragaglia (il fotografo), Lola Braccini (sua moglie), Liliana Mancini (Iris), Alessandro Blasetti e Mario Chiari (se stessi);produttore: Salvo D’Angelo per la Bellissima Film; durata: 113’. 1953 | Siamo donne (episodio Anna Magnani)
Soggetto: Cesare Zavattini; sceneggiatura: Suso Cecchi d’Amico e Cesare Zavattini; fotografia: Gabor Pogany; montaggio: Mario Serandrei; musica: Alessandro Cicognini; interpreti: Anna Magnani (se stessa); produttore: Alfredo Guarini per la Titanus-Film Costellazione; durata: 18’. 1954 | Senso
Soggetto: dal racconto omonimo di Camillo Boito; sceneggiatura: Suso Cecchi d’Amico e Luchino Visconti (con la collaborazione di Carlo Alianello, Giorgio Bassani, Giorgio Prosperi, Tennessee Williams e Paul Bowles); fotografia (Technicolor): G. R. Aldo e Robert Krasker; scenografia: Ottavio Scotti; costumi: Marcel Escoffier e Piero Tosi; montaggio: Mario Serandrei; musica: Sinfonia n. 7 in mi maggiore di Anton Bruckner; interpreti: Alida Valli (Livia Serpieri), Farley Granger (Franz Mahler), Massimo Girotti (Roberto Ussoni), Heinz Moog (il conte Serpieri), Rina Morelli (Laura), Marcella Mariani (la prostituta), Christian Marquand (un ufficiale boemo), Tonio Selwart (il colonnello Kleist), Sergio Fantoni (Luca); produttore: Renato Gualino per la Lux Film; durata: 115’. 1957 | Le notti bianche
Soggetto: dal racconto omonimo di Fedor Dostoevskij; sceneggiatura: Suso Cecchi d’Amico e Luchino Visconti; fotografia: Giuseppe Rotunno; scenografia: Mario Chiari e Mario Garbuglia; costumi: Piero Tosi; montaggio: Mario Serandrei; musica: Nino Rota; interpreti: Maria Schell (Natalia), Marcello Mastroianni (Mario), Jean Marais (l’inquilino), Clara Calamai (la prostituta), Marcella Rovena (la pensionante), Dick Sanders (il ballerino); produttore: Franco Cristaldi per la Cias-Vides, Roma/Intermondial, Paris; durata: 107’. 1960 | Rocco e i suoi fratelli
Soggetto: Luchino Visconti, Vasco Pratolini e Suso Cecchi d’Amico (da Il ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori); sceneggiatura: L. Visconti, S.C. d’Amico, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Enrico Medioli; fotografia: Giuseppe Rotunno; scenografia: Mario Garbuglia; costumi: Piero Tosi; montaggio: Mario Serandrei; musica: Nino Rota; interpreti: Alain Delon (Rocco Parondi), Renato Salvatori (Simone P.), Katina Paxinou (Rosaria P.), Annie Girardot (Nadia), Roger Hanin (Morini), Paolo Stoppa (Cecchi), Suzy Delair (Luisa), Claudia Cardinale (Ginetta), Spiros Focas (Vincenzo P.), Max Cartier (Ciro P.), Rocco Vidolazzi (Luca P.), Corrado Pani (Ivo), Adriana Asti, Claudia Mori (ragazze della lavanderia); produttore: Goffredo Lombardo per la Titanus, Roma/Les Films Marceau, Paris; durata: 180’. 1962 | II lavoro (episodio di Boccaccio ’70)
Soggetto: dal racconto Au bord du lit, di Guy de Maupassant; sceneggiatura: Suso Cecchi d’Amico e Luchino Visconti; fotografia (Eastmancolor): Giuseppe Rotunno; scenografia: Mario Garbuglia; montaggio: Mario Serandrei; musica: Nino Rota; interpreti: Romy Schneider (Pupe), Tomas Milian (Ottavio), Romolo Valli e Paolo Stoppa (avvocati); produttore: Carlo Ponti e Antonio Cervi per la Concordia-Cineriz, Roma/Francinex-Gray Films, Paris; durata: 46’. 1963 | II Gattopardo
Soggetto: dal romanzo omonimo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa; sceneggiatura: Suso Cecchi d’Amico, Enrico Medioli, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa e Luchino Visconti; fotografia (Technirama-Technicolor): Giuseppe Rotunno; scenografia: Mario Garbuglia; costumi: Piero Tosi; montaggio: Mario Serandrei; musica: Nino Rota, e un valzer inedito di Giuseppe Verdi;
interpreti: Burt Lancaster (il principe di Salina), Alain Delon (Tancredi), Claudia Cardinale (Angelica Sedàra), Paolo Stoppa (don Calogero Sedàra), Rina Morelli (la principessa di Salina), Serge Reggiani (don Ciccio Tumeo), Romolo Valli (padre Pirrone), Leslie French (Chevalley), Ivo Garrani (Pallavicino), Mario Girotti (Cavriaghi), Lucilla Morlacchi (Concetta), Pierre Clementi (Francesco Paolo), Giuliano Gemma (un generale garibaldino); produttore: Goffredo Lombardo per la Titanus; durata: 205’. 1965 | Vaghe stelle dell’Orsa
Soggetto e sceneggiatura: Suso Cecchi d’Amico, Enrico Medioli e Luchino Visconti; fotografia: Armando Nannuzzi; scenografia: Mario Garbuglia; costumi: Bice Brichetto; montaggio: Mario Serandrei; musica: Preludio Corale e Fuga di César Franck; interpreti: Claudia Cardinale (Sandra), Jean Sorel (Gianni), Michael Craig (Andrew), Marie Bell (la madre), Renzo Ricci (Gilardini), Fred Williams (Pietro), Amalia Troiani (Fosca); produttore: Franco Cristaldi per la Vides; durata: 100’. 1967 | La strega bruciata viva (episodio di Le streghe)
Soggetto e sceneggiatura: Giuseppe Patroni Griffi (in collaborazione con Cesare Zavattini); fotografia (Technicolor): Giuseppe Rotunno; scenografia: Mario Garbuglia e Piero Poletto; montaggio: Mario Serandrei; musica: Piero Piccioni; interpreti: Silvana Mangano (Gloria), Annie Girardot (Valeria), Francisco Rabal (il marito di Valeria), Massimo Girotti (uno sportivo), Elsa Albani (un’amica), Clara Calamai (l’ex attrice), Leslie French (l’industriale); produttore: Dino de Laurentiis per la de Laurentiis, Roma/Les Productions Artistes Associés, Paris; durata: 37’. 1967 | Lo straniero
Soggetto: dal romanzo omonimo di Albert Camus; sceneggiatura: Luchino Visconti, Suso Cecchi d’Amico e Georges Conchon (in collaborazione con Emmanuel Roblès); fotografia (Technicolor): Giuseppe Rotunno; scenografia: Mario Garbuglia; costumi: Piero Tosi; montaggio: Ruggero Mastroianni; musica: Piero Piccioni; interpreti: Marcello Mastroianni (Meursault), Anna Karina (Marie), Georges Wilson (il giudice istruttore), Bernard Blier (l’avvocato difensore), Alfred Adam (il pubblico ministero), Georges Geret (Raymond), Jacques Herlin (il direttore dell’ospizio), Mimmo Palmara (Masson), Bruno Cremer (il prete); produttore: Dino de Laurentiis per de Laurentiis-Raster Film, Roma/Marianne Production, Paris/Casbah Film, Algeri; durata: 110’. 1969 | La caduta degli dei
Soggetto e sceneggiatura: Nicola Badalucco, Enrico Medioli e Luchino Visconti; fotografia (Eastmancolor): Armando Nannuzzi e Pasqualino De Santis; scenografia: Pasquale Romano; costumi: Piero Tosi e Vera Marzot; montaggio: Ruggero Mastroianni; musica: Maurice Jarre; interpreti: Dirk Bogarde (Friederich Bruckman), Ingrid Thulin (Sofia von Essenbeck), Helmut Griem (Aschenbach), Helmut Berger (Martin v.E.), Renaud Verley (Guenther v.E.), Umberto Orsini (Herbert), René Koldehoff (Konstantin v.E.), Albrecht Schönhals (Joachim v.E.), Florinda Bolkan (Olga), Charlotte Rampling (Elisabeth), Nora Ricci (la governante); produttore: Alfredo Levy e Ever Haggiag per Pegaso-Italnoleggio, Roma/Praesidens Film, Zùrich/Eichenberg Film, Mûnchen; durata: 150’. 1971 | Morte a Venezia
Soggetto: dal racconto omonimo di Thomas Mann; sceneggiatura: Luchino Visconti e Nicola Badalucco; fotografia (Panavision-Technicolor): Pasqualino De Santis; scenografia: Ferdinando Scarfiotti; costumi: Piero Tosi; montaggio: Ruggero Mastroianni; musica: brani dalla Terza e dalla Quinta Sinfonia di Gustav Mahler; interpreti: Dirk Bogarde (Gustav von Aschenbach), Silvana Mangano (la madre di Tadzio), Bjorn Andersen (Tadzio), Romolo Valli (il direttore dell’Hotel), Nora Ricci (la governante), Mark Burns (Alfred), Marisa Berenson (la moglie di Aschenbach), Carole André (Esmeralda), Leslie French (l’impiegato dell’agenzia Cook), Antonio Apicella (il girovago), Franco Fabrizi (il barbiere); produttore: Mario Gallo per la Alfa Cinematografica,
Roma/Production Editions Cinématographiques Françaises, Paris; durata: 135’. 1973 | Ludwig
Soggetto e sceneggiatura: Luchino Visconti e Enrico Medioli (in collaborazione con Suso Cecchi d’Amico); fotografia (Panavision-Technicolor): Armando Nannuzzi; scenografia: Mario Chiari e Mario Scisci; costumi: Piero Tosi; montaggio: Ruggero Mastroianni; musica: brani di Robert Schumann, Richard Wagner e Jacques Offenbach; interpreti: Helmut Berger (Ludwig), Trevor Howard (Wagner), Romy Schneider (Elisabetta d’Austria), Silvana Mangano (Cosima), Gert Fröbe (padre Hoffman), Helmut Griem (il conte Durkeim), Isabella Telezynska (la regina madre), Umberto Orsini (Holnstein), John Moulder Brown (il principe Otto), Sonia Petrova (Sofia), Folker Bohnet (Joseph Keinz), Heinz Moog (il professor Gudden), Adriana Asti (Lila von Buliowski), Marc Porel (Hornig), Nora Ricci (contessa Ferenczy), Mark Burns (Bulow); produttore: Ugo Santalucia per la Mega Film, Roma/Cinétel, Paris/Dieter Geissler Filmproduktion-Divina Film, Mùnchen (prima edizione); Ohonte Cinematografica-Rai (edizione critica); durata: 264’. 1974 | Gruppo di famiglia in un interno
Soggetto: Enrico Medioli; sceneggiatura: Suso Cecchi d’Amico, E. Medioli e Luchino Visconti; fotografia (Technicolor-Todd-ao): Pasqualino De Santis; scenografia: Mario Garbuglia; costumi: Vera Marzot e Piero Tosi; montaggio: Ruggero Mastroianni; musica: Franco Mannino, con brani da Vorrei spiegarVi, oh Dio e dalla Sinfonia concertante K364 di Wolfgang Amadeus Mozart; interpreti: Burt Lancaster (il Professore), Silvana Mangano (Bianca Brumonti), Helmut Berger (Konrad), Claudia Marsani (Lietta), Stefano Patrizi (Stefano), Elvira Cortese (la governante), Romolo Valli (l’avvocato), e un’apparizione di Dominique Sanda e Claudia Cardinale (la madre e la moglie del Professore); produttore: Giovanni Bertolucci per la Rusconi Film, Roma/Gaumont, Paris; durata: 120’. 1976 | L’innocente
Soggetto: dal romanzo omonimo di Gabriele d’Annunzio; sceneggiatura: Suso Cecchi d’Amico, Enrico Medioli e Luchino Visconti; fotografia (Tecnovision-Technicolor): Pasqualino De Santis; scenografia: Mario Garbuglia; costumi: Piero Tosi; montaggio: Ruggero Mastroianni; musica: Franco Mannino, con una berceuse e un valzer di Chopin, la Marcia Turca di Mozart, Giochi d’acqua a Villa d’Este di Liszt, Che faro senza Euridice di Gluck; interpreti: Giancarlo Giannini (Tullio Hermil), Laura Antonelli (Giuliana), Jennifer O’Neill (Teresa Raffo), Didier Haudepin (Federico Hermil), Rina Morelli (la madre di Tullio), Massimo Girotti (il conte Egano), Marc Porel (Filippo d’Arborio), Marie Dubois (la principessa); produttore: Giovanni Bertolucci per la Rizzoli Film, Roma/Les Films Jacques Leitienne, Paris/Société Imp. Ex. Ci., Nice/Francoriz Production, Paris; durata: 130’.
Nota bibliografica
BIBLIOGRAFIA Per maggior completezza si consulti quella a cura di Aldo Bernardini, nel fascicolo n. 9-12, settembre-dicembre 1976, di «Bianco e Nero»: La controversia Visconti e l’appendice al volume Tutti i film di Luchino Visconti, nota introduttiva di Lino Micciché, schede a cura di M.L. Navoni, appendice a cura di G. Moneti, Siena-Amministrazione provinciale-Assessorato alla Cultura-Centro Studi sul cinema e la comunicazione di massa, 1976. Per uno sguardo più internazionale, Elaine Mancini, Luchino Visconti: a Guide to References and Resources, G.K. Hall & Co., Boston, 1986. Per un aggiornamento si consulti anche la bibliografia a cura di David Bruni in Lino Micciché, Luchino Visconti. Un profilo critico, Marsilio, Venezia, 1996. TEATROGRAFIA Per la teatrografia viscontiana si rimanda al prezioso volume: Luchino Visconti, Il mio teatro, Bologna, Cappelli, 1979, a cura di Caterina d’Amico de Carvalho e Renzo Renzi. BIOGRAFIE Tra le biografie viscontiane ricordiamo quella piuttosto pettegola di Gaia Servadio: Luchino Visconti, Milano, Mondadori, 1980. Severa e documentata quella di Gianni Rondolino: Visconti, Torino, Utet, 1981. Originale e ricca di paralleli visivi tra la vita e l’opera, la biografia per immagini di Caterina d’Amico de Carvalho: Album Visconti, Milano, Sonzogno, 1978. Le più recenti sono: Laurence Schifano, I fuochi della passione: La vita di Luchino Visconti, Milano, Longanesi, 1988 e Renzo Renzi, Visconti segreto, Bari, Laterza, 1994. MATERIALE ICONOGRAFICO Ricchi da un punto di vista iconografico sono il catalogo della mostra Visconti e il suo lavoro, Milano, Electa, 1981 e il volume di Bruno Villien, ampiamente corredato di fotografie: Visconti, Milano, Vallardi, 1987. SAGGI Numerosissimi i saggi critici. Ecco un elenco delle monografie, dossier e cataloghi più importanti: G.C. Castello, Luchino Visconti, «Premier Plan», n. 17, 1961. AA.VV., Luchino Visconti, «Cinema», n. 32-33, Zurigo, 1963. AA.VV., Luchino Visconti, l’histoire et l’esthetique, «Études Cinematographiques», n. 26-27, lugliosettembre 1963. G. Ferrara, Luchino Visconti, Paris, Seghers, 1963. Y. Guillame, Luchino Visconti, Paris, Éditions Universitaires, 1966. G. Nowell-Smith, Visconti, London, Secker & Warburg, 1967. AA.VV., L’opera di Luchino Visconti, atti del Convegno di studi di Fiesole del 1966, a cura di M. Sperenzi, Firenze, 1969. AA.VV., Luchino Visconti, «Cinema», Adliswil, n. 62, 1970. D. Novotnà, Luchino Visconti, Praha, Orbis, 1970. L. Micciché, “Visconti e le sue ragioni” in Luchino Visconti, Morte a Venezia, Bologna, Cappelli, 1971.
P. Baldelli, Luchino Visconti, Milano, Mazzotta, 1973 (edizione aggiornata al 1982). AA.VV., Luchino Visconti, Barcellona, Filmoteca Nacional, 1976. AA.VV., La controversia Visconti, a cura di F. Di Giammatteo (cit.). Visconti: il cinema, catalogo critico a cura di Adelio Ferrero, Modena, 1977. J.L. Guarner, Visconti y su obra, Barcellona, Dopesa, 1978. M. Stirling, A Screen of Time, New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1979. O. Larere, De l’imaginaire au cinéma, Paris, Albatros, 1980. A. Sanzio, P.L. Thirard, Dossier Visconti in «Masques», n. 8, 1981. C. Tonetti, Luchino Visconti, Boston, Twayne Publishers, 1983. A. Sanzio, P.L. Thirard, Luchino Visconti cineaste, Paris, Édition Persona, 1984. Y. Ishaghspour, Visconti: le sens et l’image, Paris, Édition de la différence, 1984. A. Canziani, Visconti oggi, Abano Terme, Piovan, 1984. L. De Giusti, I film di Luchino Visconti, Roma, Gremese, 1985. AA. VV., Dossier Visconti, X International Film Festival of India, New Dely, 1985. AA. VV., Luchino Visconti, Mùnchen-Wien, Carl Hanser Verlag, 1985. AA. VV., Lukino Visconti, Mosca, Edizioni Iskusstvo, 1986. G. Aristarco, Su Visconti, La zattera di Babele, 1986. G. Rocha, Scritti sul cinema, a cura di L. Micciché, La Biennale di Venezia, Venezia, 1986. Tra gli studi più recenti segnaliamo: Lino Micciché, Visconti neorealista. Ossessione, La terra trema, Bellissima, Venezia-Padova, Marsilio, 1990. Franco Mannino, Visconti e la musica, Lucca, Akademos & Lim, 1994. Il già citato, Lino Micciché, Luchino Visconti. Un profilo critico. Il volume a cura di David Bruni e Veronica Pravadelli, Studi viscontiani, Venezia, Marsilio, 1997, con un saggio introduttivo di Lino Micciché. Cristina Gastel Chiarelli, Luchino Visconti. Musica e memoria, Milano, Archinto, 1997. Sul rapporto tra il cinema di Visconti e la letteratura ricordiamo: G. Calendoli, Il Gattopardo - Dal romanzo al film (materiale per una storia del cinema italiano), Parma, Edizioni Mascari, 1967 e alcune pagine del libro di V. Attolini, Dal romanzo al set, Bari, Dedalo, 1988. Troppo vasta è la mole di articoli e interventi critici per poterne trattare qui, seppure sommariamente: il mio imperativo è come quello di un verso della Bohème: «Taglia corta la coda al tuo Castoro!». Va però almeno accennata l’annosa polemica sul Visconti “realista” o “decadente”: una questione che i critici più avveduti hanno affrontato senza condanne moralistiche o contrapposizioni schematiche tra film e periodi diversi, ma come una dialettica interna all’opera e alla personalità del regista. Se questa polemica è diventata ormai obsoleta, scarsi appaiono però gli apporti della critica più giovane; né rappresentano un contributo innovatore le superficiali stroncature di certi antiviscontiani, o il vezzo snobistico di chi ha voluto mettere i film di Visconti sul piano di quelli di Poggioli o di Matarazzo. INTERVISTE La migliore tra le raccolte di scritti e interviste di Visconti resta ancora oggi Leggere Visconti, curata da Giuliana Callegari e Nuccio Lodato per una mostra allestita nel 1976 dalla Amministrazione provinciale di Pavia. Il libro contiene inoltre i famosi articoli: “Tradizione ed invenzione”, “Cadaveri”, “Cinema antropomorfico”. Altri scritti sono contenuti nel già citato catalogo Visconti: il cinema, a cura di A. Ferrero. Numerose dichiarazioni di e su Visconti si trovano inoltre in F. Faldini, G. Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano, Milano, Feltrinelli, vol. I (1979) e vol. II (1981) e in Suso Cecchi d’Amico, a cura di O. Caldiron e M. Hochkofler, Bari, Dedalo, 1988. Una interessante intervista al regista realizzata a Cannes nel 1971 da Ciment e Torok si trova – assieme ad altre dichiarazioni di Visconti – nel volume di Sanzio e Thirard del 1984, cit.
Sul periodo della malattia, si veda il volumetto di Costanzo Costantini: L’ultimo Visconti, Milano, SugarCo, 1976, il quale raccoglie una serie di colloqui con il regista infermo. SCENEGGIATURE Molte le sceneggiature dei film pubblicate: La terra trema, a cura di F. Montesanti, edizioni di «Bianco e Nero», Roma, 1951; anche in «Bianco e Nero», Roma, anno XII, n. 2, febbraio-marzo 1951. Sulla versione del film recentemente restaurata si veda: AA.VV. La terra trema - Analisi di un capolavoro, a cura di Lino Micciché, Csc/Cineteca Nazionale, 1993. Senso, a cura di G.B. Cavallaro, Bologna, Cappelli, 1955 (riedizione 1977). Le notti bianche, a cura di R. Renzi, Bologna, Cappelli, 1957. Rocco e i suoi fratelli, a cura di G. Aristarco e G. Carancini, Bologna, Cappelli, 1957. “Il lavoro” in Boccaccio ’70, a cura di C. Di Carlo e G. Fratini, Bologna, Cappelli, 1962. Il film Il Gattopardo e la regia di Luchino Visconti, a cura di Suso Cecchi d’Amico, Bologna, Cappelli, 1963. Vaghe stelle dell’Orsa… a cura di P. Bianchi, Bologna, Cappelli, 1965. La caduta degli dei, a cura di S. Roncoroni, Bologna, Cappelli, 1969. Morte a Venezia, a cura di Lino Micciché, Bologna, Cappelli, 1971. Ludwig, a cura di G. Ferrara, Bologna, Cappelli, 1973. Gruppo di famiglia in un interno, a cura di G. Treves, Bologna, Cappelli, 1975. Ossessione, a cura di E. Ungari e G.B. Cavallaro, Bologna, Cappelli, 1977. La terra trema, a cura di E. Ungari, C. Battistini, G.B. Cavallaro, Bologna, Cappelli, 1977. Bellissima, a cura di E. Ungari, Bologna, Cappelli, 1978. Per quanto riguarda i soggetti per film mai realizzati, ricordiamo: Luchino Visconti, Suso Cecchi d’Amico, Marcia nuziale, in «Cinema Nuovo», Milano, anno II, nn. 10-11-12, maggio-giugno 1953. Luchino Visconti, Marco Chiari, Franco Ferri, Rinaldo Ricci, Pensione oltremare, in G. Vento, M. Mida, Cinema e resistenza, Firenze, Luciano Landi Editore, 1959. Suso Cecchi d’Amico, Luchino Visconti, “Macbeth 1967”, in La controversia Visconti, cit. Antonio Pietrangeli, Luchino Visconti, “Proposta di un soggetto per un film (sulla) borghesia milanese per la Lux” in La controversia Visconti, cit. Suso Cecchi d’Amico, Luchino Visconti, Alla ricerca del tempo perduto, Milano, Mondadori, 1986. DOCUMENTARI Una nota sui principali documentari dedicati al regista: M. Ponzi, Visconti, Corona cinematografica, 1967. G. Ferrara, Luchino Visconti, Port Royal/Rai, 1975. M. Random, Luchino Visconti ou la puissance d’être, Rtf, 1977. W. Licastro, Luchino Visconti: ricordo in musica, Rai, 1977. S. Colonna, La terra trema: 30 anni dopo, Etnea Film/Rai, 1977. L. Verdone, Luchino Visconti, Presidenza del Consiglio/Istituto Luce, 1982. INEDITI Il fondo Luchino Visconti, conservato presso l’Istituto Gramsci di Roma, contiene sceneggiature, progetti, lettere del regista. Da queste carte inedite è stato ricostruito da René de Ceccatty il romanzo giovanile Angelo, pubblicato dagli Editori Riuniti nel 1993.
Indice
Io, Luchino Visconti Visconti, i film (e il teatro) Prime esperienze: Ossessione La terra trema Bellissima Siamo donne Senso Le notti bianche Rocco e i suoi fratelli Il lavoro Il Gattopardo Vaghe stelle dell’Orsa La strega bruciata viva Lo straniero La caduta degli dei Morte a Venezia Ludwig Gruppo di famiglia in un interno L’innocente Teatrografia Filmografia Nota bibliografica