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Italian Pages 144 [137] Year 2020
Titolo originale: Cuentos reunidos (Racconti scelti) L’ospite e altri racconti di Amparo Dávila Traduzione: Giulia Zavagna Illustrazione in copertina: mimicoco design Selezione da Cuentos reunidos di Amparo Dávila D. R. © 2009, Fondo de Cultura Económica Carretera Picacho Ajusco 227, 14738 Città del Messico Questa edizione è disponibile in formato cartaceo ed elettronico www.fondodeculturaeconomica.com Prima edizione italiana settembre 2020 © Safarà Editore via Piave, 26 - 33170 Pordenone (PN) www.safaraeditore.com
ISBN 978-88-32107-22-7
Amparo Dávila
L’OSPITE e altri racconti
TRADUZIONE DI GIULIA ZAVAGNA
Amparo Dávila è nata in Messico nel 1928 ed è scomparsa il 19 aprile 2020. Ha pubblicato numerose raccolte di racconti ed è stata insignita della Medalla Bellas Artes nel 2015 e del premio Xavier Villaurrutia nel 1977. Negli ultimi anni una forte rinascita di interesse verso le sue opere l’ha riconosciuta come una delle più grandi maestre messicane del racconto.
indice
Frammento di un diario
p. 9
L’ospite
p. 17
La cella
p. 24
Fine di una lotta
p. 32
Alta cucina
p. 38
Moisés e Gaspar
p. 41
Musica concreta
p. 53
La colazione
p. 74
Tina Reyes
p. 83
Il funerale
p. 98
L’ultima estate
p. 113
Óscar
p. 120
Frammento di un diario [luglio e agosto] lunedì 7 luglio Il mio vicino, il signor Rojas, è parso sorpreso di trovarmi seduto sulle scale. Senz’altro la cosa che più ha attirato la sua attenzione è stata il mio sguardo, visibilmente triste. Di colpo mi è sembrato di suscitare in lui un vivo interesse. Mi sono sempre piaciute le scale, con la gente che sale trascinando il fiato, e quella che scende cadendo sorda come una massa informe. Forse per questo ho scelto le scale per andare a soffrire. giovedì 10 Oggi mi sono impegnato a fondo per sbrigare il prima possibile le faccende domestiche quotidiane: rassettare casa, lavare la biancheria, preparare il pranzo, pulire la pipa… Volevo avere più tempo a disposizione per mettere a punto i programmi e scegliere gli argomenti per il mio esercizio. L’apprendimento del dolore, graduale e sistematizzato come una disciplina o un’arte, è piuttosto arduo. Il mio vicino mi 9
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ha osservato a lungo. Sotto la luce giallastra della lampadina, devo essergli sembrato trasparente e come diluito. Il quotidiano esercizio del dolore dà a chi lo pratica lo sguardo di un cane abbandonato, e il colorito di un fantasma. sabato 12 Lo sguardo insistente del signor Rojas si è posato di nuovo su di me, ed è sorta la domanda che temevo. Inutile spiegargli qualcosa. Ho fatto in modo che continuasse a scendere le scale tenendosi il dubbio. Io sono andato avanti con il mio esercizio. Quando ho sentito dei passi che salivano, un brivido mi ha scosso dalla testa ai piedi. Li conoscevo bene. Le mani e le tempie hanno preso a sudarmi. Il cuore mi balzava disperatamente in petto e la lingua in bocca sembrava un pezzo di carta. Se fossi stato in piedi sarei crollato come una marionetta. Lei, passando, ha sorriso… Io ho fatto finta di non vederla. E ho proseguito con la mia pratica. giovedì 17 Mi trovavo proprio al 7° grado nella scala del dolore, quando sono stato crudelmente interrotto dall’immancabile signor Rojas che saliva in compagnia di una donna. Sono passati così vicino che mi hanno sfiorato con i loro vestiti. Il profumo della donna mi è rimasto impregnato addosso, un misto di muschio e benzoino, viscoso, oscuro, umido, selvatico. Indossava un vestito rosso molto aderente. L’ho guardata finché non sono scomparsi oltre la porta di casa. Parlavano e ridevano salendo le scale. Ridevano con gli occhi e con le mani. Erano passione in movimento. Tanto presi l’uno dall’altra da non vedermi neppure. E il mio dolore, così puro, così intellettuale, è stato interrotto e contaminato per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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nella sua più pura essenza da un prurito sordo. Sensazioni pesanti e cupe si sono abbattute su di me. La mia dolorosa meditazione, prodotto di una lunga e ardua disciplina, è stata rovinata e trasformata in misera irruenza. Maledetti! Ho picchiato con le mie lacrime le orme dei loro passi. domenica 20 È stato davvero un colpo di genio misurare il dolore per gradi, attribuirgli un limite e una categoria. C’è chi sostiene che il dolore sia interminabile e non si esaurisca mai, eppure io credo che dopo il 10° grado della mia scala non resti altro che la memoria delle cose, che ferisce ormai solo nel ricordo. All’inizio del mio apprendistato ero convinto che fosse opportuno procedere dal basso verso l’alto, gradualmente. Ben presto ho compreso che una simile esperienza sarebbe stata piuttosto misera. La conoscenza e il perfezionamento del dolore richiedono elasticità, una saggia applicazione di categorie e sfumature, e un capriccioso collaudo dei vari gradi. Passare senza difficoltà dal 3° all’8° grado, dal 4° al 1°, dal 2° al 7° e, poi, ripercorrerli in un rigoroso ordine ascendente e discendente… Detesto interrompere questa interessante spiegazione, ma c’è dell’acqua sotto i miei piedi. lunedì 21 Questa mattina di buon’ora è arrivato il padrone di casa. Io non avevo ancora finito di asciugare il pavimento. Si è messo a gridare, a gesticolare, a dire cose tremende. Abituato come sono a subire ingiustizie, scelleratezze e angherie, il suo atteggiamento mi è parso il riflesso di molti altri. Per commuovermi ci vorrebbe un autentico artista, non un semplice apprendista mostro. Non gli ho dato la minima im11
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portanza. Mentre gridava, mi sono dedicato a tagliarmi le unghie con cura e senza fretta. Quando ho finito, l’uomo stava piangendo. Neanche questo mi ha commosso. Piangeva come piangono tutti quando devono farlo. Se avesse pianto come me, quando arrivo alle mie meditazioni di 7° grado, allora sì…! sabato 26 Con piena umiltà confesso di essere un virtuoso del dolore. Questa sera, mentre soffrivo accucciato sulle scale, i gatti dei vicini sono usciti a guardarmi. Erano stupefatti di scoprire che l’uomo ha una tale capacità di soffrire. Ho notato a malapena la loro presenza. I loro occhi si accendevano e spegnevano come fiaccole. Devo aver senz’altro raggiunto il 10° grado. Ho perso il conto, perché il parossismo del dolore, proprio come quello del piacere, avvolge e offusca i sensi. mercoledì 30 Sono così tetro, così magro e smunto che, a volte, quando uno sconosciuto sale le scale, gli basta vedermi per perdere il lume della ragione. Io sono contento del mio aspetto. È la fedele testimonianza della mia arte, ormai vicina alla perfezione. domenica 3 agosto Non so come, né con quali parole, descrivere quello che è successo oggi. Tremo ancora al solo ricordo. È successo ormai diverse ore fa e ne sono ancora stupefatto. Il rimorso che tanto pratico mi sembra oggi acquisire nuova forza, e mi ha fatto cadere sua preda. È come se fosse stato creato proprio quando io già dominavo la scala completa del dolore. Quando per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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sono diventato un vero artista. Sono caduto in un errore imperdonabile, inaudito e funesto: ho tradito la mia vocazione. Se per un solo istante mi fossi infiacchito, se avessi trascurato anche una sola volta la disciplina che tale arte richiede, direi che questa ne sarebbe stata la logica conseguenza, ma sono stato ligio, fedele… giovedì 7 Non so se sopravvivrò a questa prova funesta. Oggi ho lavorato per tre ore di fila (cosa spossante ed eccessiva) sul 6° grado della mia scala, il più indicato in casi come questo. Ho sofferto come non mai, tanto che i vicini mi hanno trovato svenuto ai piedi delle scale. Qui, sotto le bende, c’è il sangue coagulato. La carne viva. Dovrò aggiungere un nuovo livello, o includere questa faccenda delle ferite reali come una variante del 5° grado. Non mi era mai venuto in mente prima, è possibile che questa caduta sia il frutto di un’ispirazione divina. Un aprire gli occhi su nuove discipline. martedì 12 Non sono riuscito a dimenticare. Forse è una punizione per la mia arroganza, giacché cominciavo a sentirmi sicuro, a sognare di essere ormai un vero maestro, un virtuoso. L’ho scritto sabato 26 luglio. Confessione fatale, le parole tradiscono sempre e si rivoltano contro chi le pronuncia! Se solo ci avessi pensato! Mi sono dovuto esercitare fino allo sfinimento sul 6° e il 9° grado, due ore cadauno. Poi sono dovuto fuggire precipitosamente dentro casa, per timore che accadesse di nuovo.
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venerdì 15 È accaduto di nuovo! Proprio mentre l’ultimo sole del pomeriggio imperlava gli scalini. Sento ancora la mano di lei tra le mie, che fuggivano il suo tocco. La sua mano tiepida e morbida. Ha detto qualcosa, io non la sentivo. Le sue parole erano come balsamo sulle mie piaghe. Non ho voluto saperne nulla. Mi era proibito. Lei pronunciava il mio nome. Io non la ascoltavo. I miei sforzi, i miei propositi e tutta la mia arte sarebbero andati in frantumi davanti ai suoi occhi di cervo, al suo sguardo di docile animale. L’arte è sacrificio, rinuncia, la vocazione è vitale, un marchio a fuoco, un’ombra che si impossessa del corpo che la proietta schiavizzandolo e consumandolo… Non ho girato la testa nemmeno una volta per guardarla! lunedì 18 Mi sono strappato via le bende e il sangue ha lasciato la sua impronta sul tappeto. Sanguino anche dentro. Ricordo il calore delle sue mani. Quelle mani che forse proprio ora stanno accarezzando un altro volto. Per la prima volta dopo molto tempo non sono uscito a sedermi sulle scale, temevo che lei arrivasse da un momento all’altro. Temevo che la sua semplice presenza potesse disperdere il mio dolore. sabato 23 Questa mattina è venuto il signor Rojas. Pensava che mi fosse successo qualcosa quando non mi ha visto nel mio solito angolo sulle scale. Mi ha portato un po’ di frutta e del tabacco; eppure, sospetto che la sua preoccupazione non sia sincera. C’è qualcosa di segreto e oscuro nel suo atteggiamento. Forse cerca di comprare il mio silenzio, ho visto le donne che si porta a casa. Forse vuole… per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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martedì 26 Mi sono esercitato sul 4° e il 7° grado dietro la porta chiusa, per sentirmi più vicino alle scale. Ho udito i suoi passi fermarsi varie volte, dall’altra parte. Ho percepito il calore del suo corpo attraverso la porta. Il suo profumo si è fatto strada fino alla mia triste stanza. Da fuori turbava la mia solitudine, violando le mie difese. Tra i singhiozzi ho capito che mi amava. venerdì 29 La amo, sì, ed è la mia peggior nemica. Colei che può porre fine a ciò che costituisce la mia ragion d’essere. La amo da quando ho sentito la sua mano tra le mie. Se fossi una persona qualunque, come il signor Rojas o come il padrone di casa, andrei a letto con lei, naufragando nella sua tenerezza. Ma io devo me stesso al dolore. Al dolore che pratico giorno dopo giorno fino a raggiungerne la perfezione. Al dolore di amarla e guardarla da lontano, attraverso una serratura. La amo, sì, perché scivola dolcemente lungo le scale come un’ombra o come un sogno. Perché non pretende che io l’ami e solo di tanto in tanto si affaccia sulla mia solitudine. domenica 31 Se fosse solo il dolore di rinunciare a lei sarebbe terribile, eppure magnifico! Questo tipo di sofferenza è una sottocategoria dell’8° grado. Mi eserciterei tutti i giorni fino a dominarlo sul serio. Ma non è solo questo: lei mi fa paura. Il suo sorriso e la sua voce sono più forti della mia determinazione. Sarei così felice di guardarla andare e venire per casa mentre il sole le scivola sui capelli… Eppure questo segnerebbe la mia rovina, il mio completo fallimento! Con lei 15
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si esaurirebbero le mie speranze e la mia ambizione. Eppure, se scomparisse… Il dolce ricordo di lei mi divorerebbe per il resto della vita… Oh, ineffabile tortura, perfezione della mia arte…! Sì! Se solo domani leggessi sui giornali: Giovane donna muore cadendo accidentalmente da un’alta scala …
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L’ospite Non dimenticherò mai il giorno in cui venne a vivere con noi. Mio marito lo portò con sé di ritorno da un viaggio. All’epoca eravamo sposati da quasi tre anni, avevamo due bambini e io non ero felice. Mio marito mi considerava alla stregua di un pezzo da mobilio, qualcosa che si è abituati a vedere sempre nello stesso punto, ma che non desta il minimo interesse. Vivevamo in un piccolo paese, isolato e distante dalla città. Un paese quasi morto o sul punto di scomparire. Quando lo vidi per la prima volta, non riuscii a reprimere un grido di terrore. Era lugubre, sinistro. Aveva grandi occhi giallastri, quasi rotondi e sempre sbarrati, che sembravano penetrare attraverso le cose e le persone. La mia vita, già disgraziata, divenne un inferno. La sera stessa del suo arrivo supplicai mio marito di non condannarmi alla tortura della sua compagnia. Non lo potevo sopportare; mi incuteva solo orrore e sospetto. «È del tutto inoffensivo» disse mio marito guardandomi con netta indifferenza. «Ti abituerai ad averlo intorno, e se non ci riesci…». Non ci fu modo di convincerlo a portarselo via. Rimase a casa nostra. Non ero l’unica a mal sopportare la sua presenza. A casa lo temevano tutti – i bambini, la donna che mi aiutava con 17
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le faccende domestiche, il suo figlioletto. Solo mio marito sembrava godere della sua compagnia. Dal primo giorno mio marito gli mise a disposizione la stanza all’angolo. Era una camera grande, ma io non ci entravo mai perché era umida e buia. Eppure lui sembrava sentirsi a suo agio lì dentro. La stanza era abbastanza buia da adattarsi alle sue esigenze. Dormiva fino all’imbrunire, e non capii mai a che ora andava a letto. Persi così la poca pace di cui godevo in quella grande casa. Durante il giorno, tutto procedeva con apparente normalità. Mi alzavo sempre molto presto, vestivo i bambini – che erano già svegli – preparavo la colazione e mi occupavo di loro mentre Guadalupe rassettava e andava a fare la spesa. La casa era molto grande, e tutte le stanze si affacciavano su un cortile centrale. Tra le camere e il giardino c’era un porticato che le proteggeva dalle avversità delle frequenti piogge e dal vento. Tenere in ordine una casa di quelle dimensioni, e prendersi cura del giardino, il mio compito di ogni mattina, era un duro lavoro. Ma io amavo il mio giardino. Il porticato era coperto di rampicanti che fiorivano quasi tutto l’anno. Ricordo quanto mi piaceva, il pomeriggio, sedermi sotto il portico a cucire i vestiti dei bambini, tra il profumo del caprifoglio e della buganvillea. In giardino coltivavo crisantemi, viole del pensiero, ciclamini, begonie ed eliotropi. Mentre io annaffiavo le piante, i bambini si divertivano a scovare vermetti tra le foglie. A volte, silenziosi e assorti, passavano ore intere a cercare di acchiappare le gocce d’acqua che colavano dalla vecchia pompa da giardino. Non riuscivo a evitare, di tanto in tanto, di dare un’occhiata verso la stanza all’angolo. Anche se lui passava tutto il giorno a dormire, io non mi fidavo. A volte, mentre preparavo il pranzo, vedevo d’un tratto la sua ombra proiettarsi per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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sulla stufa a legna. Percepivo la sua presenza alle mie spalle… allora gettavo a terra quel che avevo in mano e uscivo dalla cucina gridando e correndo come una pazza. Lui rientrava nella sua stanza, come se nulla fosse successo. Credo che ignorasse completamente Guadalupe, non si avvicinava mai a lei né la inseguiva per la casa. Non si poteva dire lo stesso di me e dei bambini. Loro li odiava, e a me faceva costantemente la posta. Quando usciva dalla sua stanza cominciava l’incubo più terribile che una persona possa sopportare. Si piazzava sempre sotto un piccolo pergolato, davanti alla porta di camera mia. Io non uscivo più. A volte, pensando che stesse ancora dormendo, mi avviavo in cucina per preparare la merenda ai bambini, e di colpo lo scoprivo in un angolo buio del porticato, sotto i rampicanti. «È già lì, Guadalupe!» gridavo disperata. Io e Guadalupe non lo chiamavamo mai per nome, perché ci sembrava, facendolo, di rendere ancor più reale quell’essere oscuro. Dicevamo sempre: «Eccolo lì, è uscito, sta dormendo, lui, lui lui…». Mangiava solo due volte al giorno, una quando si alzava, all’imbrunire, e un’altra, forse, la mattina presto prima di addormentarsi. Guadalupe si incaricava di portargli il vassoio con il cibo, e posso assicurare che lo lanciava letteralmente dentro la stanza, perché la povera donna era terrorizzata quanto me. Si nutriva soltanto di carne, e non toccava nient’altro. Quando i bambini si addormentavano, Guadalupe mi portava la cena in camera. Non potevo certo lasciarli soli, sapendo che lui si era alzato o che stava per farlo. Una volta terminate le faccende, Guadalupe si ritirava con il piccolo a dormire, e io restavo sola, a vegliare sul sonno dei miei figli. Poiché tenevo sempre aperta la porta della mia stanza, non 19
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osavo andare a letto, temendo che in qualsiasi momento lui potesse entrare e attaccarci. E d’altro canto non potevo chiuderla: mio marito rientrava sempre tardi e se non l’avesse trovata aperta avrebbe pensato… E arrivava davvero tardi. Perché aveva molto da lavorare, mi aveva detto una volta. Penso che si intrattenesse anche a far altro… Una notte rimasi sveglia fin quasi alle due del mattino, lo sentivo muoversi fuori… Quando mi svegliai, lo trovai accanto al letto, che mi guardava con quei suoi occhi fissi, penetranti… Balzai in piedi e gli tirai la lampada a olio che lasciavo accesa tutta la notte. In paese non c’era la luce elettrica e non avrei sopportato di restare al buio, sapendo che in qualsiasi momento… Lui schivò il colpo e uscì dalla stanza. La lampada si infranse sul pavimento di mattoni e il combustibile prese fuoco velocemente. Se non fosse stato per Guadalupe che accorse alle mie urla, l’intera casa sarebbe andata a fuoco. Mio marito non aveva tempo di ascoltarmi né gli importava molto quel che succedeva dentro casa. Parlavamo il minimo indispensabile. Tra noi, l’affetto e le parole si erano esauriti da tempo. Mi sento ancora male al ricordo… Guadalupe era uscita a fare la spesa e aveva lasciato il piccolo Martín a dormire in un cassetto, dove lo coricava spesso durante il giorno. Andai a controllarlo più volte, dormiva tranquillo. Era quasi mezzogiorno. Stavo pettinando i bambini quando sentii il pianto del piccolo mischiato a strane grida. Quando arrivai nella stanza lo sorpresi a colpire crudelmente il bambino. Ancora oggi non so spiegare come riuscii a strappare il bamper ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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bino dalla sua presa e a lanciarmi contro di lui con un grosso bastone che trovai a portata di mano. Lo attaccai con tutta la furia che per tanto tempo avevo represso. Non so se riuscii a fargli seriamente del male, perché caddi a terra priva di sensi. Quando Guadalupe tornò dalle commissioni, mi trovò svenuta accanto al piccolo, che era coperto di lividi e graffi sanguinanti. Fu colta da un dolore e da una rabbia senza pari. Fortunatamente il bambino non morì e si riprese presto. Temevo che Guadalupe se ne andasse e mi lasciasse sola. Se non lo fece, fu perché era una donna nobile e coraggiosa, molto affezionata a me e ai bambini. Eppure, quel giorno nacque in lei un odio che reclamava vendetta. Quando raccontai l’accaduto a mio marito, lo implorai di portarselo via, aggiungendo che poteva uccidere i nostri figli come aveva cercato di fare con il piccolo Martín. «Sei sempre più isterica, è davvero doloroso e deprimente vederti così… ti ho spiegato mille volte che è una creatura inoffensiva». Allora pensai di fuggire da quella casa, da mio marito, da lui… Ma non avevo soldi, né avrei potuto facilmente comunicare con qualcuno. Senza amici o parenti a cui rivolgermi, mi sentivo sola come un’orfana. Anche i bambini erano impauriti, non volevano più giocare in giardino e non si allontanavano da me nemmeno per un istante. Quando Guadalupe andava al mercato, mi chiudevo con loro nella mia stanza. «Non si può andare avanti così» dissi un giorno a Guadalupe. «Dobbiamo fare qualcosa, e presto» mi rispose. «Ma cosa possiamo fare noi due da sole?». «Siamo sole, è vero, ma piene di odio…». Notai uno strano bagliore nei suoi occhi. Ero impaurita e insieme colma di gioia. 21
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L’opportunità arrivò quando meno ce lo saremmo aspettate. Mio marito era andato in città per sistemare alcuni affari. Stando a quanto mi aveva detto, sarebbe tornato dopo una ventina di giorni. Non so se si fosse reso conto che mio marito era partito, ma quel giorno si svegliò prima del solito e si appostò di fronte a camera mia. Guadalupe e il bambino dormirono nella mia stanza e per la prima volta potei chiudere la porta. Io e Guadalupe passammo quasi tutta la notte a pianificare l’attacco. I bambini dormivano tranquilli. Di tanto in tanto lo sentivamo arrivare fino alla porta della stanza e battere con furia… Il giorno seguente preparammo la colazione per i tre bambini e, per stare tranquille e assicurarci che non interferissero con i nostri piani, li chiudemmo in camera mia. Io e Guadalupe avevamo molte cose da fare e così tanta fretta di farle che non potevamo fermarci nemmeno per mangiare. Guadalupe tagliò varie assi, grandi e resistenti, mentre io cercavo martello e chiodi. Quando tutto fu pronto, ci avvicinammo senza far rumore alla stanza d’angolo. Le ante della porta erano socchiuse. Trattenendo il respiro, abbassammo il chiavistello, poi chiudemmo la porta a chiave e cominciammo a sbarrarla del tutto con le assi di legno. Mentre lavoravamo, grosse gocce di sudore ci imperlavano la fronte. Lui non fece alcun rumore, sembrava stesse dormendo profondamente. Quando tutto fu concluso, io e Guadalupe ci abbracciammo piangendo. I giorni che seguirono furono spaventosi. Sopravvisse a lungo senz’aria, senza luce, senza cibo… All’inizio dava colpi sulla porta, scagliandovisi contro, gridava disperato, graffiava… Né io né Guadalupe riuscivamo a mangiare o a dormire, le sue grida erano terribili…! A volte pensavamo che mio marito sarebbe tornato prima che morisse. per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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Se l’avesse trovato così…! Resistette a lungo, quasi due settimane credo… Un giorno non si sentì più alcun rumore. Nemmeno un lamento… Tuttavia, decidemmo di aspettare altri due giorni prima di aprire la stanza. Quando mio marito tornò, lo accogliemmo con la notizia della sua morte, improvvisa e sconcertante.
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La cella Quando María Camino scese a fare colazione, sua madre e sua sorella Clara erano già sedute in sala da pranzo. Tuttavia, la signora Camino non iniziava mai a mangiare se le due figlie non erano entrambe a tavola. María arrivò silenziosamente. Uscendo dalla sua stanza tese l’orecchio al suono dei propri passi, le sembrava di fare molto rumore quando camminava. E quel giorno non voleva attirare l’attenzione né essere notata: nessuno doveva sospettare cosa le stava accadendo. Quando si rese conto che la madre e la sorella erano già in sala da pranzo si sentì profondamente a disagio. La madre le avrebbe chiesto perché si era attardata tanto, facendole aspettare. Entrò nella sala con fare impacciato. Chinandosi per dare un bacio a sua madre vide il proprio volto riflesso nel grande specchio italiano: era molto pallida e aveva occhiaie scure. Presto se ne sarebbero rese conto anche la madre e la sorella. Sentì un brivido freddo correrle lungo la schiena. La signora Camino non le chiese nulla, ma l’avrebbe fatto da un momento all’altro e lei si sarebbe dovuta inventare una scusa qualunque. Poteva dire che le si era fermato l’orologio. Prese a sbucciare una mela, consapevole che sua madre e Clara la stavano osservando; forse avevano già qualche sospetto. Abbassò lo sguardo, sentendosi arrosper ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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sire. Fortunatamente, però, proprio in quel momento Clara Camino cominciò a parlare di una sfilata di moda che stavano organizzando al circolo per una serata di beneficenza. «Mi piacerebbe molto se venissi con noi» disse d’un tratto a María. «Certo che verrà» si affrettò ad assicurare la signora Camino, prima che María potesse aprir bocca. María sorrise debolmente alla madre e riprese a bere la sua cioccolata. Anche lei avrebbe dovuto parlare di qualcosa, fare conversazione con la madre e la sorella, ma temeva che la voce l’avrebbe tradita e si sarebbero accorte che le stava succedendo qualcosa. E lei non poteva dirlo a nessuno. Sua madre sarebbe morta per una simile rivelazione, e Clara forse non ci avrebbe creduto. «Non gradisci un po’ di marmellata?» osò chiedere alla madre, avvicinandole timidamente la marmellata di arance che aveva preparato il giorno prima. «Grazie, tesoro, ah, è quella che hai preparato tu!» disse la signora Camino guardandola con dolcezza. Era successo solo ieri e sembrava già un passato lontanissimo. Poteva preparare marmellate e dolci, sedersi a ricamare accanto alla madre, leggere per ore, ascoltare la musica. Ora non avrebbe più potuto fare niente del genere, niente in assoluto. Non avrebbe più avuto pace né tranquillità. Quando finirono di fare colazione, María salì in camera sua e pianse senza far rumore. Quasi tutte le sere Clara e la signora Camino giocavano a carte con Mario Olaguíbel, promesso sposo di Clara, e con il cugino di Mario, José Juan. A María non piacevano i giochi di carte, le sembravano inutili e noiosi. Mentre loro giocavano, di solito lei sedeva accanto al camino e ricamava in silen25
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zio. Interrompeva il lavoro solo per servire qualche liquore o distillato su ordine della madre. Quella sera, invece, María chiese di poter giocare con loro. Tutti rimasero piuttosto sorpresi e la signora Camino si mostrò molto compiaciuta del fatto che «la piccola María cominciasse a mostrarsi socievole». Lei pensava che forse il gioco l’avrebbe aiutata a distrarsi un po’. Ma lo sforzo fu inutile. Non riusciva a concentrarsi e giocava goffamente. Guardava in continuazione l’orologio sopra il camino, teneva d’occhio le porte, sentiva un fruscio di passi. A ogni brutta mano si agitava e arrossiva. La signora Camino fumava con il suo lungo bocchino d’avorio. «Andiamo, cara, su, pensa prima di calare» le diceva di tanto in tanto, per non mortificarla. José Juan sorrideva come se volesse farle coraggio. «La prossima volta giocherà meglio, non si preoccupi» le aveva detto, congedandosi. María salì lentamente le scale per tornare in camera sua e quando aprì la porta fu sorpresa da quella presenza… La signora Camino era molto contenta di vedere che María si teneva occupata durante il giorno: «Quella ragazza, che pareva sempre affaticata e senza energie, ora è costantemente attiva». María era riuscita nel suo proposito: sua madre e Clara erano convinte che la sua salute fosse migliorata, la credevano allegra e solerte. Era l’unico modo di evitare che sospettassero quello che le stava succedendo. Passava ore a sistemare il solaio e la dispensa, a spolverare la biblioteca, a mettere in ordine gli armadi. Loro la credevano affaccendata e non potevano cogliere l’angoscia che le adombrava il volto, né le sue mani goffe e tremanti. María non riusciva, nemmeno per un istante, ad allontanare quell’immagine dalla sua testa. Sapeva di essere condannata, per la vita, a subire per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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quell’orribile tortura e a doverla tacere. I giorni le parevano corti, sfuggenti, come se le scivolassero tra le mani, e le notti interminabili. Al solo pensiero che ce ne sarebbe stata un’altra, tremava e impallidiva. Lui si sarebbe avvicinato lentamente fino al suo letto e lei non avrebbe potuto fare nulla, nulla… María Camino si rese conto, un giorno, che José Juan Olaguíbel avrebbe potuto rappresentare un rifugio per lei, o forse la sua unica salvezza. Avrebbe potuto sposarlo, viaggiare molto, andarsene lontano, dimenticare… Aveva soldi in abbondanza e avrebbe potuto portarla dovunque avesse voluto, dove lui non l’avrebbe trovata. Lottando contro la sua naturale timidezza, cominciò a essere più gentile e a chiacchierare con lui. Quel suo nuovo atteggiamento fu ricevuto con discreto piacere non solo da José Juan Olaguíbel, ma da tutta la famiglia, il che le facilitava le cose. Quando non giocavano a carte, trascorrevano la serata a chiacchierare. María scoprì che era piacevole parlare con lui. Cominciò a sentirsi a proprio agio in sua compagnia e quasi a distrarsi dalle sue preoccupazioni. Poco a poco scopriva la tenerezza e la speranza. Cominciarono a fare progetti e qualche tempo dopo María già sfoggiava un anello di fidanzamento: il matrimonio venne fissato per il gennaio successivo. Lei avrebbe voluto anticipare la data della cerimonia e fuggire dall’orribile tortura che era costretta a subire notte dopo notte; tuttavia, non poteva suscitare sospetti di alcun tipo. Il suo matrimonio si sarebbe dovuto svolgere in assoluta normalità, come se non stesse accadendo nulla, come se lei fosse una ragazza qualunque. La sera si sforzava di trattenere José Juan il più a lungo possibile. Man mano che passavano le ore e si avvicinava il momento in cui gli Olaguíbel si sarebbero congedati, 27
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María si sentiva invadere da uno sconfinato terrore all’idea di rimanere da sola; forse lui la stava già aspettando di sopra, in camera sua, e lei non poteva far nulla per evitarlo, né poteva chiedere a José Juan di portarla via quella sera stessa e salvarla da quel martirio. Ma aveva davanti sua madre e Clara, che nulla sapevano e nulla avrebbero mai dovuto sapere. María guardava gli Olaguíbel salire sull’automobile; poi chiudeva la porta e una muta disperazione la consumava… Avevano trascorso ottobre e novembre a fare compere e preparativi per il matrimonio. José Juan aveva acquistato una vecchia residenza che stava ristrutturando con ogni lusso. Molto compiaciuta, la signora Camino accompagnava la figlia dovunque dovesse andare, e la aiutava a selezionare gli acquisti. María era stanca. Tutti i giorni, mattina e sera, c’era qualcosa da fare: scegliere tessuti, mobili, stoviglie, andare dalla sarta, dalla ricamatrice, discutere della casa con l’architetto, scegliere i colori della vernice per le stanze, i tappeti, le tende… Si rese conto con profonda tristezza e disincanto che quel bel gioco di liberazione l’aveva stancata e che non voleva più saperne nulla né del matrimonio, né di José Juan, né di nient’altro. Cominciò a provare un certo fastidio quando lo sentiva arrivare, cosa che capitava diverse volte al giorno, con il pretesto di chiederle qualche cosa. Cominciò a irritarla la sua voce, il leggero bacio che lui le dava ogni sera per salutarla, le sue labbra fredde e umide, i suoi discorsi: «la casa, le tende, i tappeti, la casa, i mobili, le tende…». Non ne poteva più, non le importava più di salvarsi o di soffrire per il resto della vita. Desiderava solo una tregua da quell’immensa fatica, dall’andare per tutto il giorno da una parte all’altra, parlare con cento persone, dare opinioni, scegliere cose, sentire la voce di José Juan… Voleva starsene nella sua per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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camera, da sola, senza vedere nessuno, nemmeno sua madre e Clara, stare sola, chiudere gli occhi, dimenticare ogni cosa, non sentire nemmeno una parola, nulla, «la casa, i mobili, i tappeti, la biancheria, le tende, la casa, la sarta, i mobili, le stoviglie…». Il freddo di dicembre cominciava a farsi sentire e una sera Clara preparò del punch. María, lontanissima, ricamava accanto al camino. La signora Camino e Clara giocavano alla canasta con gli Olaguíbel. José Juan parlò di un viaggio che doveva fare, a New York, per questioni familiari, cosa che lo contrariava enormemente perché la data del matrimonio era ormai vicina e c’erano talmente tante cose da sistemare. Quando María sentì quella notizia provò un’improvvisa felicità al pensiero di liberarsi di lui per qualche giorno. Ebbe la sensazione che l’assedio che cominciava a stringersi su di lei d’un tratto si stesse spezzando. Bevve vari bicchieri di punch all’arancia, rise di ogni cosa e lo baciò quando andò via. Il giorno successivo María si alzò sentendosi contenta e leggera. Durante la colazione Clara notò che le brillavano gli occhi e sorrideva senza rendersene conto. «Hai l’aria delle donne soddisfatte» le disse. In quel momento María capì ogni cosa. E seppe perché era così felice. Era vinta per sempre. E nient’altro importava. Era come un’edera attaccata a un albero gigantesco, arrendevole e fiduciosa. Da quel momento la giornata diventò un’attesa senza fine, un interminabile desiderio… Ma José Juan Olaguíbel non partì per New York. Quando quella sera María lo vide arrivare fu colta da una tale furia che ammutolì completamente. Non badò a nulla di ciò che lui le spiegava, vibrante d’ira com’era. Lui non avvertì l’odio nei suoi occhi. Mentre José Juan parlava e sorrideva soddisfatto, lei avrebbe voluto… Senza badare a ciò che avrebbe29
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ro pensato la madre e il fidanzato, corse su per le scale e si chiuse in camera. Lì pianse di rabbia, d’irritazione… finché lui non arrivò e si dimenticò di tutto… L’ultima sera dell’anno, la signora Camino organizzò una splendida cena. C’erano solo i familiari più stretti e gli Olaguíbel. Clara era bella e felice. Avevano deciso, lei e Carlos, di celebrare un doppio matrimonio e partire insieme per un giro dell’Europa. La signora Camino non poté evitare qualche lacrima di felicità, «soddisfatta di aver trovato due magnifici partiti per le sue bambine adorate». María era pallida e cupa. Indossava un vestito bianco di broccato italiano, attillato e lungo come una tunica. Quasi non parlò per tutta la sera. Tutti si godettero la cena eccetto María: sapeva molto bene dove si trovava la sua unica felicità, e per lei quella festa fu lunga e spossante. Le lancette dell’orologio non si muovevano. Il tempo si era fermato… Anche adesso il tempo si è fermato… Che stanza fredda e buia! Così buia che il giorno si confonde con la notte; ormai non so quando cominciano o finiscono le giornate; voglio piangere di freddo, ho le ossa congelate e doloranti; me ne sto sempre sul letto, affantocciata, a cacciare le mosche, a spiare i topi che mi cadono irrimediabilmente fra le mani; la stanza è piena di cadaveri di mosche e topi; c’è puzza di umidità e di topi putrefatti, ma non mi importa, che li seppellisca qualcun altro, io non ho tempo; questo castello è buio e freddo come tutti i castelli; io lo sapevo che lui aveva un castello… che meraviglia essere prigioniera in un castello, che meraviglia! È sempre notte; lui non permette a nessuno di vedermi; casa mia dev’essere molto lontana; c’era un camino molto grande per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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nello studio di papà e io sistemavo e spolveravo i libri; voglio un camino per riscaldarmi, ma non oso dirglielo, ho paura, potrebbe arrabbiarsi; non voglio che si arrabbi con me; non ho scambiato nemmeno una parola con quegli uomini che sono venuti, lui potrebbe arrivare d’un tratto e sorprendermi; mi sono infilata a letto e ho nascosto la faccia sotto le coperte; siamo sempre insieme; dove sono mamma e Clara? Clara è la mia sorella maggiore; non voglio bene a nessuna delle due, mi fanno paura, non voglio che vengano, non voglio che vengano…! Forse sono già morte e hanno gli occhi sbarrati e lucenti come li aveva José Juan quella sera; io volevo chiudergli gli occhi perché mi terrorizzava sapere che era lì a fissarmi; aveva gli occhi sbarrati e lucenti… «Sarai una bella sposa, tutta bianca» anche la luna era bianca, molto bianca e molto fredda; poiché è sempre notte lui viene a qualsiasi ora; siamo sempre insieme; se non facesse tanto freddo io sarei completamente felice, ma ho molto freddo e mi fanno male le ossa; ieri mi ha picchiata crudelmente e ho gridato e gridato… José Juan è diventato freddo, molto freddo; non l’ho fatto cadere, solo scivolare dolcemente; era imperlato dalla luce della luna e aveva gli occhi sbarrati; anche i topi se ne stanno lì con gli occhi sbarrati; si è addormentato sul prato, sotto la luna; era molto bianco… io l’ho guardato a lungo… volevo affacciarmi a quella finestra e poter vedere le altre stanze… non ci arrivo, è molto alta e lui potrebbe arrivare e sorprendermi, visto che si presenta a qualsiasi ora, tutte le volte che vuole… potrebbe arrabbiarsi e picchiarmi… Quel rumore nell’angolo: un altro topo, lo prenderò prima che lui arrivi, perché quando verrà non potrò più fare nulla…
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Fine di una lotta Stava comprando il giornale della sera quando si vide passare in compagnia di una bionda. Rimase immobile, perplesso. Era proprio lui, non c’erano dubbi. Non era un gemello o una persona che gli assomigliava; era lui l’uomo che era appena passato. Indossava il completo di cachemire inglese e la cravatta a righe che gli aveva regalato sua moglie a Natale. «Ecco il suo resto» disse l’edicolante. Lui prese le monete e le ripose nella tasca della giacca quasi senza rendersene conto. L’uomo e la bionda erano già all’angolo. Si affrettò ad andargli dietro. Aveva bisogno di parlargli, di sapere chi fosse l’altro e dove vivesse. Aveva bisogno di capire quale dei due fosse quello vero. Se lui, Durán, fosse l’autentico proprietario del corpo e quello che era passato la sua ombra vivente, o se l’altro fosse quello vero e lui semplicemente la sua ombra. I due camminavano tenendosi a braccetto e sembravano felici. Durán non riusciva a raggiungerli. A quell’ora le strade erano piene di gente ed era difficile camminare di buon passo. Quando girò l’angolo non li vide più. Pensò di averli persi e provò allora quell’angosciosa sensazione che spesso lo assaliva, un misto di timore e ansia. Rimase lì a guardarsi intorno, senza saper cosa fare né dove andare. Capì allora che era lui a essersi perso, non loro. In quel momento li vide per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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salire su un tram. Riuscì a salirvi appena in tempo, con la bocca asciutta e quasi senza fiato, cercando di individuarli in mezzo a quell’assembramento umano. Si trovavano verso la metà della carrozza, vicino alla porta d’uscita, imprigionati come lui, senza potersi muovere. Non era riuscito a vedere bene la donna. Quando i due erano passati per strada gli era sembrata bella. Una bella bionda, ben vestita, a braccetto con lui? Non vedeva l’ora che scendessero dal tram per poterli avvicinare. Sapeva che non avrebbe resistito a lungo in quella situazione. Li guardò incamminarsi verso la porta e scendere. Provò a seguirli, ma quando riuscì a saltar giù dal tram, loro erano scomparsi. Li cercò inutilmente, per ore, nelle strade vicine, entrava in tutti i locali, si affacciava nelle finestre delle case, si fermava a lungo a ogni angolo. Niente; non li trovò. Abbattuto, sconcertato, prese il tram di ritorno. Quell’incontro infausto non aveva fatto altro che alimentare la sua solita insicurezza, al punto che non sapeva più se fosse un uomo o un’ombra. Si infilò in un bar, non quello dove era solito andare a bere con gli amici, un altro, dove nessuno lo conosceva. Non voleva parlare con nessuno. Aveva bisogno di stare solo, di ritrovarsi. Bevve diversi bicchieri, ma non riuscì a dimenticare quell’incontro. La moglie lo aspettava per cena, come ogni sera. Non toccò cibo. La sensazione di ansia e vuoto gli aveva preso anche lo stomaco. Quella notte non riuscì ad avvicinarsi a sua moglie, quando lei gli si stese accanto, né quella notte né le seguenti. Non poteva ingannarla. Era pieno di rimorsi, disgustato da se stesso. Forse proprio in quel momento lui stava possedendo la bella bionda… Dal pomeriggio in cui si era visto passare in compagnia di quella bionda, Durán aveva iniziato a sentirsi male. Commetteva errori sempre più frequenti sul lavoro, in banca. Era 33
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sempre nervoso, irritabile. Passava poco tempo a casa. Si sentiva in colpa, non meritava di avere Flora accanto. Non riusciva a smettere di pensare a quell’incontro. Per diversi giorni era tornato all’angolo di strada dove li aveva visti e passava ore intere ad aspettarli. Aveva bisogno di sapere la verità. Di scoprire se era un uomo in carne e ossa, o una semplice ombra. Un giorno i due riapparvero. Lui indossava quel vecchio abito marrone che era stato suo compagno fedele per anni. Lo riconobbe all’istante; se l’era messo tante di quelle volte… Gli suscitò d’un tratto molti ricordi. Camminava abbastanza vicino a loro. Era proprio il suo corpo, non c’erano dubbi. Lo stesso sorriso velato, i capelli sul punto di incanutire, il modo di camminare e consumare sempre il tacco destro, le tasche piene di cose, il giornale sotto il braccio… Era lui. Li seguì sul tram. Percepì la scia del profumo di lei… lo conosceva, Sortilège di Le Galion. Era il profumo preferito di Lilia, lo stesso che un giorno lui le aveva regalato, sacrificando tutti i suoi risparmi. Lilia l’aveva rimproverato perché non le faceva mai regali. Lui l’aveva amata per anni, quando non era che un povero studente morto di fame e d’amore per lei. Lei lo disprezzava perché non poteva darle tutto ciò che desiderava. Amava il lusso, i locali cari, i regali. Usciva con diversi uomini, con lui quasi mai… Era entrato timidamente nel negozio, contando i soldi per essere sicuro che bastassero. «Sortilège è una splendida fragranza» disse la ragazza al bancone «alla sua fidanzata piacerà senz’altro». Lilia non era a casa quando lui andò a portarle il profumo. La aspettò per ore… Quando glielo diede, Lilia ricevette il regalo senza entusiasmo, non lo aprì nemmeno. Lui provò un’enorme delusione. Quel profumo era tutto e più di quello che poteva darle e a lei non importava. Lilia era bella e fredda. Dava ordini. Lui non poteva compiacerla… I due scesero dal tram. Durán per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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li seguì da vicino. Aveva deciso che non li avrebbe abbordati per strada. Camminarono a lungo. Alla fine entrarono in una casa grigia. Vivevano lì, senza dubbio. Al numero 279. Lì viveva con Lilia. Non poteva andare avanti così. Doveva parlare con loro, sapere tutto. Farla finita con quella doppia vita. Non voleva continuare a vivere con sua moglie e con Lilia allo stesso tempo. Amava Flora in un modo tranquillo, sereno. Aveva amato Lilia con disperazione, con agonia, sentendosi sempre umiliato da lei. Le aveva entrambe, le accarezzava, le possedeva allo stesso tempo. E solo una di loro aveva davvero lui; l’altra viveva con un’ombra. Suonò il campanello. Suonò di nuovo… Era stato molto paziente, convinto che alla lunga l’avrebbe conquistata. Aspettava Lilia sotto casa, si accontentava di vederla. Di accompagnarla dovunque fosse diretta, ogni tanto, quando lei glielo permetteva. Poi se ne tornava tranquillo alla pensione; l’aveva vista, le aveva parlato… Suonò di nuovo il campanello. In quel momento sentì Lilia gridare. Gridava disperata, come se la stessero picchiando. Ed era lui stesso a picchiarla, in modo crudele e selvaggio. Ma lui non aveva mai avuto il coraggio di farlo, pur avendolo desiderato molte volte… Lilia era bellissima nel suo vestito di raso blu, e lo guardava freddamente mentre diceva: «Sto andando a teatro con il mio amico, non posso fermarmi». Lui aveva con sé il diploma che gli era stato consegnato quel pomeriggio, voleva che fosse la prima a vederlo. Aveva pensato che lei si sarebbe congratulata alla notizia che aveva concluso gli studi con il massimo dei voti. Aveva detto a tutti i suoi compagni che sarebbe andato al ballo di fine anno con lei. «Aspetta un momento, Lilia, volevo solo chiederti…». Un’auto si era fermata di fronte alla casa. E Lilia non sentiva più quel che le stava dicendo. L’aveva afferrata per un braccio cercando di trattenerla solo il tempo necessario a invitarla al ballo. Lei si era divincolata dalla presa ed era 35
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corsa verso l’automobile. L’aveva vista sedersi molto vicino all’uomo che era passato a prenderla, l’aveva vista mentre lo baciava, mentre rideva con lui. Aveva sentito il sangue salirgli alla testa e per la prima volta aveva desiderato tenerla tra le braccia e farla finita con lei, farla a pezzi. Quella sera, per la prima volta, aveva bevuto fino a perdere i sensi… Suonò di nuovo il campanello, nessuno rispondeva. Continuava a sentire Lilia gridare. Allora cominciò a dare colpi sulla porta. Non poteva lasciarla morire per sua stessa mano. Doveva salvarla… «Devi lasciarmi in pace, non voglio vederti mai più» aveva detto Lilia quella sera, l’ultima volta che l’aveva vista. L’aveva aspettata per dirle addio. Non poteva continuare a vivere nello stesso posto, e patire giorno dopo giorno i suoi sgarbi e le sue umiliazioni. Doveva andarsene, allontanarsi per sempre. Lilia era scesa dall’auto sbattendo la portiera con furia. Un uomo era sceso dietro di lei, l’aveva raggiunta e aveva cominciato a picchiarla. Lui era accorso in suo aiuto. Quando l’amico di Lilia se ne fu andato in auto, Lilia scoppiò a piangere. L’aveva abbracciata teneramente, proteggendola; allora lei si era allontanata bruscamente e aveva detto che non voleva vederlo mai più. Tutto dentro di lui si ribellò. Si pentì di averla salvata dalle percosse, di averle mostrato la sua tenerezza. Se quel tizio l’avesse uccisa, sarebbe stato la sua salvezza. Il giorno dopo se n’era andato dalla città. Doveva fuggire da Lilia e liberarsi per sempre di quell’amore che lo rimpiccioliva e lo umiliava. Non era stato facile dimenticarla. La vedeva in ogni donna. Credeva di incontrarla sul tram, al cinema, nei caffè. A volte seguiva una donna per strada, a lungo, salvo poi scoprire che non era Lilia. Sentiva la sua voce, la sua risata. Ricordava il suo modo di parlare, di vestire, di camminare, il calore del suo corpo, così flessuoso, che poche volte aveva tenuto tra le braccia, e il profumo del suo corpo mischiato al Sortilège. Era povero e la cosa lo affligper ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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geva, si disperava spesso pensando che se fosse stato più ricco Lilia l’avrebbe amato. Per anni aveva vissuto di quel ricordo. Un giorno era apparsa Flora. Lui si era lasciato trascinare senza entusiasmo. Pensava che l’unico modo di dimenticare Lilia fosse avere un’altra donna accanto. Si era sposato senza passione. Flora era buona, dolce, comprensiva. Aveva rispettato il suo riserbo, il suo altro mondo. A volte si svegliava di notte con la sensazione che fosse Lilia a dormirgli accanto, toccava il corpo di Flora e sentiva qualcosa lacerarsi dentro di lui. Un giorno Lilia scomparve, l’aveva dimenticata. Cominciò ad abituarsi a Flora e ad amarla. Passarono gli anni… Le grida di Lilia si sentivano appena, erano molto deboli, spente, come se… Buttò giù la porta ed entrò. La casa era immersa nel buio. La lotta fu lunga e sorda, terribile. Più volte, cadendo, scontrò il corpo inerte di Lilia. Era morta prima che lui arrivasse a salvarla. Tastò il sangue ancora tiepido, appiccicoso. I capelli gli si impigliarono varie volte fra le mani. Continuò a battersi in quella lotta oscura. Doveva resistere fino alla fine, finché non sarebbe rimasto solo Durán, o l’altro… Era quasi mezzanotte quando Durán uscì dalla casa grigia. Era ferito, zoppicava. Guardava con sospetto in ogni direzione, come chi teme di essere scoperto e arrestato.
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Alta cucina Quando sento la pioggia battere sulle finestre mi esplodono di nuovo in testa le loro grida. Quelle grida che mi si incollavano alla pelle come ventose. Salivano di tono man mano che il tegame si scaldava e l’acqua cominciava a bollire. Rivedo anche i loro occhi, piccole perle nere che cuocendosi uscivano dalle orbite. Nascevano in tempo di pioggia, negli orti. Nascoste tra le foglie, aggrappate agli steli o nell’erba umida. Da lì le raccoglievano per venderle, e a caro prezzo. Di solito tre per cinque centavos e, quando ce n’erano in abbondanza, quindici centavos la dozzina. A casa mia ne compravamo ogni settimana l’equivalente di due pesos, perché erano il piatto che non poteva mai mancare la domenica, e capitava di mangiarle anche più spesso se c’erano ospiti. Con quella specialità la mia famiglia ossequiava gli invitati più cari o distinti. «Non ne troverete di migliori da nessun’altra parte» diceva sempre mia madre, piena di orgoglio, quando qualcuno lodava il piatto. Ricordo la tetra cucina e il tegame in cui le mettevano a cuocere, ideato e modellato da un vecchio cuoco francese; il cucchiaio di legno annerito dall’usura e la cuoca, grassa, spietata, implacabile di fronte al dolore. Quelle grida devaper ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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stanti non la commuovevano, continuava ad attizzare il fuoco, a soffiare sulle braci come se nulla fosse. Dalla mia stanza in soffitta le sentivo strillare. Pioveva sempre. Le loro grida arrivavano mischiate al rumore della pioggia. Non morivano subito. La loro agonia si prolungava interminabilmente. Passavo tutto quel tempo chiuso in camera mia con il cuscino sopra la testa, eppure le sentivo anche così. Quando mi svegliavo, a mezzanotte, riuscivo ancora sentirle. Non ho mai capito se fossero ancora vive, o se le loro grida mi rimanessero dentro, in testa, nelle orecchie, fuori e dentro, martellanti, squarciandomi. A volte vedevo centinaia di piccoli occhi attaccati al vetro gocciolante delle finestre. Centinaia di occhi rotondi e neri. Occhi brillanti, umidi di pianto, che imploravano misericordia. Ma in quella casa non c’era misericordia. Nessuno si commuoveva di fronte a quella crudeltà. I loro occhi e le loro grida mi seguivano, e mi seguono ancora, dappertutto. A volte mi mandavano a comprarle; io tornavo sempre a mani vuote, assicurando di non averne trovate. Un giorno cominciarono a sospettare di me e non mi affidarono più quella commissione. Ci andava direttamente la cuoca. Tornava con il secchio pieno, io la guardavo con il disprezzo che si può riservare al più crudele dei boia, lei arricciava il naso schiacciato e sbuffava, sdegnosa. La preparazione era molto complicata e prendeva parecchio tempo. Prima andavano sistemate in una cassetta con della terra e si dava loro una strana erba che mangiavano, apparentemente con molto piacere, e che serviva da purgante. Passavano così un’intera giornata. Il giorno dopo andavano lavate con attenzione, per non danneggiarle, asciugate e poi riposte nel tegame pieno di acqua fredda, erbe aromatiche e spezie, aceto e sale. 39
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Quando l’acqua cominciava a scaldarsi loro prendevano a strillare, a strillare, a strillare… Strillavano a volte come bimbi appena nati, come topi schiacciati, come pipistrelli, come gatti strangolati, come donne isteriche… Quella sera, l’ultima che trascorsi a casa mia, il banchetto fu lungo e gustoso.
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Moisés e Gaspar Il treno arrivò intorno alle sei del mattino di un giorno di novembre umido e freddo. E c’era una nebbia così spessa che non si vedeva quasi nulla. Avevo il bavero del cappotto sollevato e il cappello calato sulle orecchie, eppure la nebbia mi penetrava nelle ossa. L’appartamento di Leónidas si trovava in un quartiere lontano dal centro, al sesto piano di un modesto edificio. Tutto – scale, corridoi, stanze – era invaso dalla nebbia. Salendo, ebbi come l’impressione di avvicinarmi all’eternità, a un’eternità fatta di nebbia e silenzio. Leónidas, fratello, davanti alla porta del tuo appartamento mi sentii morire di dolore! L’anno prima ero venuto a farti visita, durante le vacanze di Natale… «Mangeremo tacchino ripieno di olive e castagne, spumante italiano e frutta secca» mi avevi detto, raggiante di allegria. «Moisés e Gaspar, oggi si festeggia!». Furono tutti giorni di festa. Bevemmo molto, parlammo dei nostri genitori, delle torte di mele, delle serate accanto al fuoco, della pipa che fumava papà, del suo sguardo basso e assente che non avremmo mai dimenticato, dei maglioni che mamma ci sferruzzava per l’inverno, di quella nostra zia materna che seppelliva tutti i soldi che aveva e moriva di fame, del professore di matematica con il suo colletto inamidato e il farfallino, delle ragazze della 41
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farmacia che portavamo al cinema la domenica, di quei film che non vedevamo mai, dei fazzoletti tutti sporchi di rossetto che dovevamo buttar via… Preso dal mio dolore dimenticai di chiedere alla portiera di aprirmi l’appartamento di Leónidas. Dovetti svegliarla; salì le scale mezza addormentata, trascinando i piedi. Dentro c’erano Moisés e Gaspar, che però vedendomi fuggirono spaventati. La donna disse che aveva portato loro da mangiare, due volte al giorno, eppure mi parvero cadaverici. «È stato orribile, signor Kraus, l’ho visto con i miei occhi, qui, su questa sedia, accasciato sul tavolo. Moisés e Gaspar erano sdraiati ai suoi piedi. All’inizio pensavo che dormissero tutti e tre, erano così immobili! Ma era già molto tardi e di solito il signor Leónidas si alzava presto e andava a comprare da mangiare per Moisés e Gaspar. Lui pranzava in centro, ma lasciava sempre qualcosa per loro; così a un certo punto mi sono resa conto che…». Preparai un po’ di caffè e tentai di tranquillizzarmi un poco prima di andare alle pompe funebri. Leónidas, Leónidas, com’era possibile che tu, così pieno di vita, giacessi immobile in una fredda cella frigorifera…! Alle quattro del pomeriggio si tenne il funerale. Pioveva e il freddo era pungente. Era tutto grigio, solo gli ombrelli e i cappelli neri rompevano quella monotonia; gli impermeabili e i volti si perdevano tra la nebbia e la pioggia. Al funerale si presentò un discreto numero di persone, forse i colleghi di Leónidas, e qualche amico. Io mi facevo strada nel più amaro dei sogni. D’un tratto desideravo che quella giornata finisse, volevo svegliarmi senza quel nodo in gola e senza quella ferita così profonda da offuscarmi completamente i pensieri. Un vecchio sacerdote pronunciò una preghiera e benedisse la bara. Poi qualcuno che non conoscevo mi offrì una sigaretta e mi prese a braccetto con familiarità, facendoper ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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mi le condoglianze. Uscimmo dal cimitero. Lì sarebbe rimasto per sempre Leónidas. Camminai da solo, senza meta, sotto la pioggia insistente e monotona. Ero inconsolabile, mutilato nell’anima. Con Leónidas se n’era andata la mia unica gioia, l’unico grande affetto che mi legava a questa terra. Inseparabili fin da bambini, la guerra ci aveva tenuti lontani per vari anni. Ritrovarci, dopo aver combattuto ed esser rimasti soli, era stata la più grande gioia della nostra vita. Eravamo rimasti soltanto noi due; eppure, ben presto ci rendemmo conto che ognuno doveva vivere per conto proprio, e così facemmo. In quegli anni avevamo acquisito manie tutte nostre, abitudini, e soprattutto un’indipendenza assoluta. Leónidas trovò un posto come cassiere in banca; io fui assunto come contabile in una compagnia di assicurazioni. Durante la settimana, entrambi ci dedicavamo al lavoro o alla solitudine; ma le domeniche le passavamo sempre insieme. Quanto eravamo felici allora! Posso assicurare che entrambi aspettavamo l’arrivo di quel giorno. Qualche tempo dopo Leónidas fu trasferito in un’altra città. Avrebbe potuto licenziarsi e trovare un altro lavoro. Lui, però, accettava sempre ogni cosa con una serenità esemplare: «È inutile opporsi, possiamo fare mille giri e arrivare sempre al punto di partenza…». «Siamo stati molto felici, qualcosa doveva capitare, ecco che la felicità ci presenta il conto…». Questa era la filosofia di Leónidas: prendeva tutto con calma, senza ribellarsi. «Ci sono cose contro le quali non si può lottare, caro José…». Leónidas partì. Per qualche tempo la sua assenza fu per me impossibile da sopportare, poi cominciammo lentamente a organizzare la nostra solitudine. Ci scrivevamo una o due volte al mese. Io passavo le vacanze da lui e lui veniva a trovarmi quando poteva. Così trascorreva la nostra vita… 43
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Era ormai sera quando tornai all’appartamento di Leónidas. Il freddo era più intenso e la pioggia non dava tregua. Avevo sotto il braccio una bottiglia di rum, comprata in un negozio che avevo trovato aperto. L’appartamento era completamente buio e gelido. Entrai incespicando, accesi la luce e il riscaldamento. Stappai nervosamente la bottiglia, con le mani goffe e tremanti. Mi sedetti al tavolo a bere, a sfogare la mia pena, lì, nell’ultimo posto occupato da Leónidas. Almeno ero solo e non dovevo trattenermi o mascherare il mio dolore di fronte a nessuno; potevo piangere, gridare e… D’un tratto avvertii degli occhi alle mie spalle, saltai sulla sedia e mi voltai: erano Moisés e Gaspar. Mi ero completamente dimenticato della loro esistenza, eppure eccoli lì, a fissarmi, non saprei dire se con ostilità o diffidenza, ma con uno sguardo terribile. Lì per lì non seppi cosa dire loro. Mi sentivo completamente vuoto e assente, come fuori di me, non riuscivo a pensare a nulla. E poi, non sapevo fino a che punto capissero quel che stava accadendo… Continuai a bere… Finché non mi resi conto che entrambi piangevano in silenzio. Le lacrime grondavano dai loro occhi e cadevano a terra, piangevano senza una smorfia, senza un rumore. Verso mezzanotte feci il caffè e preparai qualcosa da mangiare per loro. Non toccarono cibo, continuavano a piangere sconsolati… Leónidas aveva sistemato tutti i suoi affari. Forse aveva bruciato le carte, perché in casa non trovai un solo documento. Stando a quello che scoprii poi, aveva venduto i mobili dietro il pretesto di un viaggio: sarebbero venuti a prenderli il giorno seguente. I vestiti e gli altri oggetti personali erano riposti con cura in due bauli con etichette a mio nome. I risparmi e i soldi ricavati dalla vendita dei mobili li aveva versati in banca, anche quelli a nome mio. Era tutto in ordine. Le uniche incombenze che mi aveva lasciato erano il suo funerale e prendermi cura di Moisés e Gaspar. per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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Verso le quattro del mattino ci avviammo alla stazione: il nostro treno partiva alle cinque e un quarto. Moisés e Gaspar dovettero viaggiare, con loro grande fastidio, nel vagone bagagli, perché a nessun prezzo potevano essere ammessi al vagone passeggeri. Che viaggio estenuante! Io ero distrutto, fisicamente e moralmente. Avevo passato quattro giorni e quattro notti senza dormire né riposare, da quando era arrivato il telegramma con la notizia della morte di Leónidas. Cercai di dormire durante il viaggio; ci riuscii solo a tratti. Nelle stazioni in cui il treno faceva fermate più lunghe, andavo a controllare Moisés e Gaspar, per capire come stessero e se volessero mangiare qualcosa. Vederli mi faceva male. Sembravano rinfacciarmi quella situazione… «Non è colpa mia, lo sapete bene» ripetevo ogni volta, ma loro non potevano o non volevano capire. Mi sarebbe stato molto difficile vivere in loro compagnia, non mi avevano mai preso in simpatia, non ero a mio agio in loro presenza, avevo la sensazione che mi sorvegliassero. Com’era stato spiacevole trovarli a casa di Leónidas quell’estate! Leónidas eludeva le mie domande al riguardo e mi supplicava in ogni modo di sopportarli e volere loro bene. «Poveretti, hanno diritto a un po’ d’amore anche loro» mi diceva. Quelle vacanze furono faticose e violente, nonostante il semplice fatto di vedere Leónidas mi riempisse di gioia. Lui non venne più a trovarmi, perché non poteva lasciar soli Moisés e Gaspar. L’anno successivo, l’ultima volta che vidi Leónidas, le cose andarono meglio. Quei due non mi piacevano né mi sarebbero mai piaciuti, ma non mi mettevano più tanto a disagio. Non ho mai scoperto come fossero finiti a vivere con Leónidas… Ora erano con me, unico lascito, unica eredità del mio indimenticabile Leónidas. Arrivammo a casa mia alle undici di sera passate. Il treno aveva accumulato più di quattro ore di ritardo. Eravamo 45
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tutti e tre davvero esausti. Non avevo che della frutta e un po’ di formaggio da offrire a Moisés e Gaspar. Mangiarono senza entusiasmo, guardandomi con sospetto. Gettai qualche coperta in soggiorno per farli dormire. Io mi chiusi in camera mia e presi un sonnifero. Il giorno seguente era domenica, il che significava che potevo fare a meno di andare al lavoro. D’altra parte, non sarei riuscito ad andarci. Nonostante avessi intenzione di dormire fino a tardi, alle prime luci dell’alba fui svegliato da un rumore. Erano Moisés e Gaspar: si erano già alzati e camminavano da una parte all’altra dell’appartamento. Arrivavano fino alla mia stanza e si fermavano pigiati sulla porta, come se cercassero di guardare dal buco della serratura o, forse, semplicemente di ascoltare il mio respiro per capire se dormivo ancora. Allora ricordai che Leónidas dava loro la colazione ogni mattina alle sette. Dovetti alzarmi e uscire a comprare qualcosa da mangiare. Che giorni duri e difficili furono quelli successivi all’arrivo di Moisés e Gaspar a casa mia! Ero solito alzarmi poco prima delle otto, prepararmi un caffè e uscire alle otto e mezza per andare in ufficio, poiché l’autobus ci metteva mezz’ora e io cominciavo a lavorare alle nove. Con l’arrivo di Moisés e Gaspar tutta la mia vita si scompigliò. Dovevo alzarmi alle sei per andare a comprare il latte e le altre provviste; e poi preparare la colazione per le sette in punto, come d’abitudine. Se tardavo quei due si infuriavano, cosa che mi faceva paura, perché non sapevo fin dove poteva arrivare la loro collera. Ogni giorno dovevo rassettare l’appartamento, perché da quando c’erano loro, tutto era sempre fuori posto. Ma la cosa che più mi angosciava era il loro dolore inconsolabile. Il modo in cui cercavano Leónidas e lo aspettavano appostati dietro la porta. A volte, quando tornavo dal lavoro, correvano a ricevermi gioiosi ma, quando scoprivano che per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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si trattava di me, assumevano una tale smorfia di delusione e sofferenza che io scoppiavo a piangere con loro. Questa era l’unica cosa che condividevamo. C’erano giorni in cui praticamente nemmeno si alzavano; passavano le ore stesi a terra, svogliati e apatici. Mi sarebbe piaciuto sapere che cosa pensavano in quei momenti. In realtà non avevo spiegato loro nulla quando ero andato a prenderli. Non so se Leónidas avesse detto loro qualcosa, o se semplicemente sapessero… Era da circa un mese che Moisés e Gaspar vivevano con me quando mi resi conto del grave problema che avrebbero rappresentato nella mia vita. Ormai da diversi anni avevo una relazione amorosa con la cassiera di un ristorante dove ero solito pranzare. La nostra amicizia era cominciata in modo molto spontaneo, perché non si può certo dire che io sia un dongiovanni. Semplicemente, avevo bisogno di una donna e Susy aveva risolto quel problema. All’inizio ci vedevamo solo di tanto in tanto. A volte per un mese o due ci limitavamo a salutarci al ristorante, con un cenno del capo, come semplici conoscenti. La vita andava avanti e io me ne stavo tranquillo per qualche tempo, senza pensare a lei, e poi d’un tratto riapparivano i miei vecchi e conosciuti sintomi di nervosismo, repentini attacchi di collera e malinconia. Allora cercavo Susy e tutto tornava alla normalità. Poi, e quasi per abitudine, Susy cominciò a farmi visita una volta a settimana. Quando andavo a pagare il conto del pranzo, le dicevo: «Stasera, Susy». Se lei era libera, poiché a volte aveva altri impegni, mi rispondeva: «A stasera» oppure: «Stasera no, facciamo domani, va bene?». Gli altri impegni di Susy non mi preoccupavano; non dovevamo nulla l’uno all’altra né ci appartenevamo. Susy, ormai in età e in carne, era ben lungi dall’essere una bellezza; però aveva un buon profumo e por47
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tava sempre biancheria intima di seta e pizzo, cosa che influiva notevolmente sul mio umore. Non sono mai riuscito a ricordare nessuno dei suoi vestiti, ma conosco a memoria i suoi completi intimi. Non parlavamo mai facendo l’amore; sembrava che entrambi fossimo persi in noi stessi. Quando se ne andava le davo sempre qualche soldo, «sei molto generoso» diceva lei soddisfatta; però, al di là di questo omaggio ormai d’abitudine, non mi chiedeva mai nulla. La morte di Leónidas interruppe la nostra routine. Passò più di un mese prima che tornassi a cercare la compagnia di Susy. Avevo vissuto tutto quel tempo in preda al dolore più disperato, che condividevo solo con Moisés e Gaspar, estranei a me quanto io a loro. Quella sera aspettai Susy all’angolo del ristorante, come al solito, e salimmo in casa. Tutto successe così velocemente che faticai a capire. Susy stava entrando in camera quando vide Moisés e Gaspar in un angolo, spaventati, dietro il divano. Susy impallidì al punto che pensai stesse per svenire, poi iniziò a strillare come una pazza e si gettò giù per le scale. Le corsi dietro e fu molto difficile calmarla. Dopo quello sfortunato incidente, Susy non volle più mettere piede a casa mia. Quando volevo vederla, dovevo prendere una stanza in hotel, cosa che mi infastidiva enormemente, oltre a rappresentare un problema per il portafogli. L’incidente con Susy fu solo il principio di una serie di calamità… «Signor Kraus» mi disse un giorno il portiere del palazzo «tutti gli inquilini sono venuti a lamentarsi per l’insopportabile rumore che viene dal suo appartamento ogni volta che lei esce per andare in ufficio. La supplico di porvi rimedio, perché ci sono persone come la signorina X, il signor A, che lavorano di notte e hanno bisogno di dormire durante il per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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giorno». La notizia mi sconcertò e non seppi cosa pensare. Spossati com’erano per la perdita del loro padrone, Moisés e Gaspar vivevano in assoluto silenzio. O almeno così era quando io stavo in casa. Li vedevo tanto deperiti e demoralizzati che non dissi nulla; mi sembrava crudele; e poi, non avevo alcuna prova contro di loro… «Mi rincresce tornare a sottoporle lo stesso problema, ma la questione si è fatta ormai insopportabile» mi disse il portiere pochi giorni dopo. «Appena lei esce, cominciano a gettare a terra gli utensili della cucina, tirano le sedie, spostano i letti e tutti i mobili. E le urla, le urla, signor Kraus, sono spaventose; non ne possiamo più, e la cosa va avanti tutto il giorno, finché lei non torna». Decisi di indagare. Presi un permesso di qualche ora per lasciare l’ufficio. Arrivai a casa a mezzogiorno. Il portiere e tutti gli altri avevano ragione. L’intero palazzo sembrava sul punto di crollare per il rumore insopportabile che proveniva dal mio appartamento. Aprii la porta, Moisés era sopra i fornelli e da lì bombardava Gaspar con pentole e padelle, mentre l’altro correva avanti e indietro per schivare i proiettili gridando e ridendo come un pazzo. Erano così presi dal loro gioco che non si accorsero nemmeno della mia presenza. Le sedie erano rovesciate a terra, i cuscini sul tavolo, sul pavimento… Quando mi videro restarono come paralizzati. «Non posso credere ai miei occhi» strillai, incollerito. «Ho ricevuto lamentele da tutto il vicinato e mi sono rifiutato di crederci. Siete degli ingrati. È così che mi ripagate per la mia ospitalità? È così che onorate il ricordo del vostro padrone? La sua morte ormai è acqua passata per voi, al punto che ormai non vi ferisce più, volete solo giocare. Piccoli demoni, piccoli ingrati…!». Quando ebbi finito, mi resi conto che erano stesi a terra, in lacrime. Così li lasciai e tornai in ufficio. Mi sentii male per 49
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tutto il giorno. Quando tornai, nel pomeriggio, la casa era in ordine e loro nascosti nell’armadio. Provai allora terribili rimorsi, pensai di esser stato troppo crudele con quelle povere creature. Forse, pensavo, non sanno che Leónidas non tornerà più, forse credono che sia solo partito e che un giorno tornerà e, man mano che la loro speranza aumenta, diminuisce il loro dolore. Ho distrutto la loro unica gioia… Ma i miei rimorsi si esaurirono ben presto; il giorno dopo scoprii che non era cambiato nulla: di nuovo lo stesso fracasso, le stesse urla… Poco tempo dopo fui sfrattato per ordine del tribunale e cominciò il mio eterno vagare da un luogo all’altro. Un mese qui, un mese là, un altro… Una sera, mi sentivo terribilmente stanco e depresso per la sequela di calamità che mi erano capitate. Vivevamo in un piccolo appartamento composto da un salottino, la cucina, il bagno e una camera. Decisi di andare a dormire. Quando entrai in camera, li trovai addormentati nel mio letto. Allora ricordai… L’ultima volta che avevo fatto visita a Leónidas, la sera stessa del mio arrivo, mi ero reso conto che mio fratello stava improvvisando due letti in soggiorno… «Moisés e Gaspar dormono in camera, dovremo accomodarci qui» mi aveva detto Leónidas, piuttosto imbarazzato. Allora, non ero riuscito a capire perché Leónidas facesse la volontà di quei due miserabili. Ora invece lo sapevo… Da quel giorno occuparono casa mia e io non potei fare nulla per evitarlo. Non ero mai stato in intimi rapporti con i miei vicini, perché mi sembrava faticoso. Preferivo la mia solitudine, la mia indipendenza. In ogni caso, ci salutavamo incontrandoci per le scale, nei corridoi, per strada… Con l’arrivo di Moisés e Gaspar le cose cambiarono. In tutti gli appartamenti dove trascorremmo un po’ di tempo, sempre meno ogni volta, i vicini ebbero per me un odio feroce. Al punto che avevo paura di entrare nel palazzo o di uscire di casa. Quando torper ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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navo tardi la sera, dopo aver visto Susy, temevo di essere aggredito. Sentivo le porte aprirsi al mio passaggio, rumore di passi alle mie spalle, furtivi, silenziosi, qualche respiro… Quando finalmente entravo in casa ero bagnato di sudore freddo e tremavo dalla testa ai piedi. Ben presto fui costretto ad abbandonare il lavoro, temevo che se li avessi lasciati da soli, qualcuno avrebbe potuto ucciderli. C’era così tanto odio negli occhi di tutti! Sarebbe stato facile forzare la porta dell’appartamento o, forse, il portiere stesso avrebbe potuto aprirla, li odiava anche lui. Lasciai il lavoro e l’unica fonte di guadagno che mi rimase fu la contabilità che ero solito gestire da casa, piccoli conti che mi garantivano un’entrata minima, della quale non potevo certo vivere. La mattina uscivo molto presto, quando era ancora buio, a comprare il cibo che poi io stesso cucinavo. Per il resto, uscivo solo per andare a consegnare o a ritirare qualche libro contabile, e ogni volta lo facevo di fretta, quasi correndo, per non attardarmi. Non rividi più Susy, per mancanza di soldi e di tempo. Non potevo lasciarli soli né di giorno né di notte e lei non avrebbe mai accettato di tornare a casa mia. Cominciai poco a poco a spendere tutti i miei risparmi, e poi anche i soldi che mi aveva lasciato Leónidas. Guadagnavo una miseria, non mi bastava nemmeno per mangiare, e ancor meno per traslocare costantemente da una parte all’altra. Fu allora che decisi di partire. Con i soldi rimasti comprai una piccola e vecchia tenuta fuori città, insieme a qualche mobile indispensabile. Era una casa isolata e quasi in rovina. Avremmo vissuto lì tutti e tre, lontano da tutti, ma in salvo da agguati e minacce, strettamente uniti da un legame invisibile, da un odio spietato e freddo e da un disegno indecifrabile. È tutto pronto per la partenza, tutto, o meglio il poco che c’è da portare. Anche Moisés e Gaspar aspettano con ansia 51
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il momento di andare. Lo so perché sono nervosi. Credo siano soddisfatti. I loro occhi brillano. Cosa darei per sapere quello che pensano! Ma no, mi spaventa l’idea di sprofondare nel cupo mistero del loro essere. Mi si avvicinano silenziosamente, come per annusare il mio stato d’animo o, forse, indovinare i miei pensieri. Ma so che loro lo sentono, devono sentirlo, vista la gioia che leggo nei loro volti, l’aria trionfante che li invade quando io non desidero altro che la loro distruzione. E sanno che non posso, che non potrò mai esaudire il mio più ardente desiderio. Per questo godono… Quante volte li avrei uccisi se fossi stato libero di farlo! Leónidas, Leónidas, non posso nemmeno giudicare la tua decisione! Mi volevi bene, senza dubbio, come io ne volevo a te, ma con la tua morte e il tuo lascito mi hai distrutto la vita. Non voglio pensare né credere che tu abbia freddamente deciso di condannarmi o che tu abbia pianificato la mia rovina. No, so che è qualcosa di più grande di noi. Non ti biasimo, Leónidas: se l’hai fatto è perché così doveva essere… «Avremmo potuto fare mille giri e arrivare sempre al punto di partenza…».
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Musica concreta «Assomiglia a Marcela» pensa Sergio, fermandosi e voltandosi per osservare meglio la donna che ha visto solo di sfuggita passando di fronte alla Libreria Francese. «Ma è proprio Marcela!» riflette incapace di trattenere lo stupore quando si rende conto che la donna trasandata e avvilita che guarda svogliatamente la vetrina è la sua amica Marcela. Sergio è di fretta, deve arrivare in ufficio prima delle sei del pomeriggio, ma decide di fermarsi a chiacchierare qualche minuto con lei. Prima di andar via, non può fare a meno di chiederle: «Ti vedo un po’ giù, sei stata male?». «Non proprio» dice Marcela, cupa. «Forse è perché dormo male». «Perché non ci prendiamo un caffè, quando vuoi tu, e facciamo due chiacchiere come si deve? Vorrei potermi fermare oggi, ma devo verificare un paio di cose prima che se ne vada la mia segretaria». Si allontana in fretta ma il volto appassito di Marcela e quel suo aspetto così trascurato continuano a ronzargli in testa. È nauseato dal suo stesso comportamento, prova qualcosa di simile al rimorso per averla un po’ dimenticata, per averla vista così poco negli ultimi mesi. «È assurda la quantità di impegni e di lavoro che ho preso: ormai non riesco nemme53
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no più a vedere le persone a cui voglio bene». Fino all’anno prima aveva frequentato spesso Marcela e Luis, si vedevano quasi sempre il sabato sera, ascoltavano musica o si immergevano in discussioni su qualsiasi cosa, mentre si scolavano una o due bottiglie… «Che cosa sarà successo a Marcela?» si chiede di nuovo Sergio facendosi la barba. Pensa che forse quel cambiamento è dovuto al tempo che passa, ormai non hanno più vent’anni e sono anzi vicini ai quaranta. Si sciacqua la schiuma dalla faccia e si contempla a lungo nello specchio. «Non è questo, ci dev’essere qualcosa che non va, deve esserle successo qualcosa» e gli duole pensare che sia qualcosa di serio, al punto da scatenare un cambiamento così disastroso, soprattutto visto che lui non ne sapeva nulla. Sotto la doccia torna ai tempi del liceo, quando lui e Marcela erano inseparabili: andavano alle stesse feste, adoravano vagabondare senza meta per la città o passavano il tempo seduti in un caffè. «Lei era molto slanciata e forse un po’ pallida ma questo le dava un’aria interessante, si truccava appena e raccoglieva i lunghi capelli castani all’indietro in una coda di cavallo, era una bella ragazza» si dice Sergio. Per tutto quel tempo erano stati così vicini che a lui non era mai venuto in mente di chiedersi che tipo di affetto li unisse. Era come se Marcela fosse una parte di lui. Una volta si era messo a fare il romantico ma non erano mai andati oltre qualche bacio innocente. Forse Marcela aveva aspettato che lui si decidesse, forse poi un giorno si era stancata e si era messa con Luis, chi lo sa… «Magari ieri aveva passato la notte in bianco oppure era un po’ triste e non aveva voglia di farsi bella, non c’è niente di male; è sempre la stessa, sono io a farne un caso. Che bello sarebbe se mi stessi immaginando tutto!». E comincia a leggere il giornale mentre fa colazione, fino a smettere di pensare alla sua amica. per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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Arriva a casa, stanco dopo una giornata di lavoro, e visto che è ancora presto chiama Marcela per decidere quando vedersi. Uno, due, tre squilli, vuole sentire la sua voce allegra come sempre: «Ah, sei tu, Sergio, che piacere!». Ancora uno squillo e a rispondere è proprio Marcela, ma non con la voce che lui conosce e si aspetta, non con la voce che ha bisogno di sentire. Certo che le fa piacere sentirlo, lo percepisce, lo sa bene, ma è fuor di dubbio che ci sia qualcosa che non va in lei. Prendono appuntamento per il giorno successivo. Scoraggiato, Sergio cammina avanti e indietro per la stanza. Gli scoccia che Velia sia fuori città. Almeno avrebbe potuto parlare con lei della sua preoccupazione per Marcela, anche se a volte quella poveretta è così poco opportuna. Avrebbe dovuto essere già di ritorno, quindici giorni sono più che sufficienti per abbronzarsi e mettersi in mostra sulla spiaggia… Decide di leggere un po’ e cerca il libro di Miller. Si sdraia sul divano; gli fa un po’ male la gamba sinistra, se la strofina con la mano; è fastidioso che con il freddo il dolore ritorni, dopo tanto tempo, Miguel non gli crede quando glielo dice e non gli prescrive mai nulla, «questi medici sono una gran seccatura…». Ripensa a quando si era rotto la gamba, anni prima. Marcela era stata l’unica persona a fargli davvero compagnia con costanza in quei lunghi pomeriggi in ospedale; gli altri si erano stancati presto; Irene, poi, era andata a trovare la madre a San Francisco. Marcela arrivava sempre molto stanca: «Luis viene stasera. Ti abbiamo comprato questo libro. Luis dice che è molto bello e che ti piacerà…». Si sedeva con difficoltà (stava aspettando il secondo figlio) e gli raccontava tutte le novità, i pettegolezzi degli amici, gli sistemava i cuscini o leggeva un po’ per lui, senza stancarsi, finché il pomeriggio non se ne andava e arrivava l’infermiera con il vassoio della merenda. Luis passava sempre a prenderla, chiacchieravano un altro po’, e poi se ne 55
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andavano mano nella mano con quell’aria da fidanzati timidi che a lui faceva sorridere. Il giorno del loro matrimonio era nervoso quanto lo sposo; forse anche di più, visto che Luis era sempre calmo in ogni situazione. Temeva che Luis non avrebbe mai finito di prepararsi, che sarebbero arrivati tardi; poi avevano perso gli anelli e quando erano ormai quasi in chiesa lui era passato con il rosso e per poco non li avevano portati in commissariato. Erano arrivati quando ormai tutti erano in agitazione… Poco dopo le sette e mezza di sera, Sergio entra al Cafè del Ángel e trova Marcela seduta a un tavolo in fondo. «Mi aspetti da tanto?» chiede Sergio quando si rende conto che il caffè che sta bevendo Marcela è completamente freddo. «Sono incorreggibile, arrivo sempre tardi» prende la mano di Marcela e la stringe tra le sue. «Non preoccuparti» risponde lei «non mi ricordavo se avevamo detto alle sei e mezza o alle sette e mezza, quindi…». «Che questo succeda a me è quasi naturale» dice Sergio scherzando «ma a te, con l’incredibile memoria che hai sempre avuto e che ti invidio tanto…». Marcela dice che la sua memoria non è più quella di una volta, che si dimentica tutto o fa confusione. Sergio la guarda fisso cercando di capire che cosa le stia succedendo; e poiché non ci riesce le chiede: «Che succede, Marcela, qualcosa non va?». Lei tira fuori una sigaretta e resta in silenzio. Sergio chiama il cameriere e ordina due caffè. «Non so, è stato tutto così confuso, così inaspettato, come un sogno orribile, un incubo; a volte penso che a un certo punto mi sveglierò e troverò ogni cosa intatta». per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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Gioca con la fede, se la gira nervosamente sul dito, se la toglie, se la mette, se la toglie di nuovo. Sergio intuisce che il problema deve riguardare Luis, dev’essere qualcosa di doloroso e difficile da ammettere. Anche lui è disagio, c’è molta gente in quel bar, molto rumore, non è il posto adatto. «Vado a pagare il conto» le dice. «Andiamo a casa mia». Marcela non risponde ma accetta con lo sguardo. Per strada i due parlano di cose che non gli interessano granché: hai letto quel libro, hai visto quel film, di sera inizia a fare freddo, fa buio presto, i giorni non bastano più per fare niente… Sergio accende l’autoradio; la voce grave, calda di Louis Armstrong li avvolge. Marcela guarda sfilare gli alberi di avenida Tacubaya fuori dal finestrino, «I’ll walk along, because to tell you the truth I’ll be lonely, I don’t mind being lonely when my hearth tells me you are lonely too» dice Armstrong. «Ti ricordi» chiede Sergio «quando abbiamo ascoltato questo disco fino a graffiarlo?». Marcela annuisce, ma lui sa che non può riportarla indietro, che è arenata in un altro momento dal quale non vuole o non può fuggire. Ripensa a quelle domeniche pomeriggio: lui, Marcela e Luis nella sua piccola stanza di studente, a bere rum e ad ascoltare Armstrong. Marcela seduta sul pavimento con le gambe incrociate e raccolte che tiene il tempo oscillando piano, Luis steso accanto a lei che guarda il soffitto e dirige un’orchestra invisibile, posseduto, trascinato da Louis… «Fa freddo» dice Sergio cominciando a sistemare la legna per accendere il camino. Marcela si è rannicchiata su una poltrona. «Almeno non è più così tesa, ma perché non parla, perché non mi racconta 57
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cosa le succede?». Lui si mette a fare il caffè e dopo pochi minuti l’aroma riempie la stanza. Lo versa nelle tazzine e inizia a sentirsi oppresso dal silenzio di Marcela. È la prima volta, da quando la conosce, che non sa di che cosa parlare con lei. Le chiede se ha messo abbastanza zucchero nel caffè; lei dice di sì. Le offre una sigaretta e se ne accende una a sua volta. Marcela mescola il suo caffè, Sergio si mette a fare anelli di fumo. «Luis mi tradisce e tra noi è tutto finito». Sergio la guarda senza sapere cosa dire. «È stato un colpo tremendo, come ritrovarsi d’un tratto a camminare su un filo, senza alcun riferimento nel tempo e nello spazio». «Ne sei sicura, Marcela?». «Certo che ne sono sicura, l’ho potuto confermare io stessa. All’inizio ero confusa perché lui mi sembrava distante, sempre di più, sempre assente. Mi sono inventata scuse di ogni tipo, ci ho girato intorno a lungo, non volevo aprire gli occhi». «Dev’essere una cosa passeggera, un capriccio» dice Sergio alzandosi per andare a prendere una bottiglia. Marcela scuote la testa per dissentire e gli allunga il bicchiere. Lui le serve da bere pensando che le donne ingigantiscono sempre le cose; ha un brivido di freddo e attizza il fuoco. «L’ho scoperto solo qualche mese fa, poi mi sono resa conto che la cosa va avanti da parecchio tempo, qualche anno». La legna arde in grandi fiamme arancioni il cui bagliore dà al volto smunto di Marcela un aspetto ancor più desolato. Sergio affonda nella poltrona e si accende una sigaretta. «Chi è?». «Una sarta». Lui si dice che anche se Marcela ha un po’ ingigantito le cose, quelle cose esistono e l’hanno distrutta, esistono come per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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le fiamme che vede danzare nel camino. Basta guardarla, ascoltarla, è sola e triste come una casa abbandonata e in rovina. Beve un sorso abbondante, la osserva nella sua desolazione: «La mia povera Marcela, la ragazzina con la coda di cavallo!». Così sua, così sorella, gli fa male come se fosse un braccio o una parte di sé. Cerca, facendo del suo meglio, di tirarle su il morale, di comunicarle speranza… solo la morte è irrimediabile, tutto ha una soluzione, le cose possono cambiare, sarà un brutto momento, un’esperienza dolorosa, ma nel profondo sa che le sue parole sono vuote, non servono a nulla, sono solo parole, desideri che non possono fare alcun miracolo. Aveva in programma una cena di lavoro ma all’ultimo momento lo avvisano che è stata rimandata. Ha la serata libera ma non ha voglia di fare nulla né vedere nessuno. Continua ad arrovellarsi sulla situazione di Marcela. Per quanto ci pensi e ci ripensi, non sa che cosa può fare per aiutarla. Si è offerto varie volte di parlare con Luis, ma poi ha scartato l’idea. Tutto gli sembra inutile, inefficace. «È compito loro sistemare le cose». Sa che nessuno cambia la propria vita o smette di fare qualcosa su consiglio di un amico. Decide di andare verso casa e mangiare qualcosa lì. Quando arriva, trova Marcela seduta sul pavimento accanto al camino. «Che ci fai qui? Non pensavo…!» dice Sergio sorpreso e contento di trovarla lì. «Mi hanno detto che saresti tornato tardi, ma ho avuto un presentimento e ho aspettato». «Sono contento che tu sia passata!» dice Sergio chinandosi a darle un bacio. «Mi fai davvero preoccupare». «È il secondo cognac» dice lei indicando il bicchierino che ha accanto. «Avevo molto freddo». 59
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«Sì, qualcosa fa» dice Sergio e va a servirsi un bicchiere. Torna e si siede accanto a lei. «Hai parlato con Luis, ti ha dato qualche spiegazione?». «Abbiamo parlato un’infinità di volte» dice Marcela con voce scoraggiata «ma è inutile, nega tutto; dice che mi invento le cose e ogni volta tra noi si apre un baratro ancor più profondo. Viviamo come in attesa di un’imboscata, come due sconosciuti, soffocati dal silenzio». «Forse con il tempo…» comincia a dire Sergio, ma Marcela non lo lascia finire. «C’è un’altra cosa che non ti ho raccontato l’altro giorno, per questo sono venuta qui oggi… come se non bastasse mi segue». «Chi?» chiede Sergio aggrottando la fronte. «Lei. Mi perseguita ogni sera, senza tregua, per ore e ore, a volte tutta la notte, so che è lei, ricordo i suoi occhi, li riconosco, sporgenti, inespressivi, so che vuole farla finita con me e distruggermi del tutto, non dormo più, da tempo non oso dormire di notte, significherebbe restare in balia di lei, passo le ore sveglia, ad ascoltare tutti i rumori del giardino, tra i tanti riconosco il suo, so quando arriva, quando si avvicina alla mia finestra, quando spia tutti i miei movimenti; la minima disattenzione e sarei perduta, chiudo le finestre, controllo le porte, le controllo di nuovo, non permetto a nessuno di aprirle, perché chiunque potrebbe entrare e arrivare a me. Sono notti interminabili, la sento così vicina, una tortura che mi consuma poco a poco fino al giorno in cui la mia resistenza sarà esaurita e mi distruggerà…». «Prendi, bevi qualcosa» dice Sergio porgendole il bicchiere. Si sente come offuscato, non ha ben capito e vorrebbe chiedere un chiarimento ma lei non glielo permette. «Quando ho scoperto tutta questa storia, ho cominciato a dormire male; passavo le notti a rigirarmi nel letto, ad ascolper ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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tare i rumori della notte, rumori lontani, vaghi, finché non ho cominciato a distinguerne uno che spiccava fra gli altri, e si faceva sempre più forte e più preciso, sempre più vicino, fino ad arrivare sotto la mia finestra dove restava per ore e ore, poi se ne andava, sbiadiva in lontananza e tornava la notte dopo; così tutte le sere, uguale, senza sosta. Una volta poi l’ho vista, erano i suoi occhi, io li conoscevo, ho seguito molte volte Luis con la speranza che i miei fossero solo sospetti infondati, ma lui entrava sempre nello stesso palazzo, Palenque 270, e passavano ore intere prima che ne uscisse; sapevo che lei viveva lì ma non l’avevo mai vista… Un giorno però sono arrivati insieme con l’auto di Luis e sono riuscita a vederla bene, con quegli occhi sporgenti, inespressivi, gli stessi occhi che ho scoperto sotto la finestra nell’erba…». Marcela si passa la mano sulla fronte cercando di cancellare un’immagine; poi accende una sigaretta. L’orologio suona le undici di sera, Sergio sobbalza sorpreso. Si rende conto che è l’orologio, il suo orologio, quello che da anni ha sopra il camino, quello che rintocca a ogni ora, sempre allo stesso modo, ma che adesso gli sembra diverso. Beve un sorso di cognac e anche quello gli sembra diverso, ha un altro gusto, come se tutto fosse cambiato, compreso lui. «Sono inebetito». È tutto così insolito, così confuso, che non sa che cosa pensare né come interpretare quella faccenda. Mille pensieri gli invadono la mente come brandelli disarticolati, come i pezzi sparsi di un motore, e lui non riesce a trovare il primo pezzo, il punto da cui partire per poi assemblare gli altri. La sua mente è un groviglio difficile da districare. «Tu che cosa faresti, Sergio?» chiede d’un tratto Marcela. «Dimmelo». Sergio la vede come una bambina messa alle strette, sul punto di precipitare, che chiede aiuto. 61
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«Sei molto nervosa, molto angosciata, e quando uno si sente così ogni cosa si trasforma e si ingigantisce…». «No, Sergio, non sono i nervi, è la sua presenza lì sotto la mia finestra ogni sera, quel croac croac croac per tutta la notte…». «Di che cosa stiamo parlando, Marcela?» chiede Sergio angosciato «o meglio, di chi stiamo parlando?». «Di lei, Sergio, del rospo che mi perseguita notte dopo notte, aspettando la prima opportunità per entrare e farmi a pezzi, eliminarmi per sempre dalla vita di Luis». «Marcela, tesoro, non ti rendi conto che questa non è che una fantasia? Una fantasia causata dalla spossatezza, dall’insonnia, dal tuo essere così chiusa in te stessa, dal dolore…». «No, Sergio, no». «Sì, tesoro, il rospo non esiste, voglio dire, certo che i rospi esistono ma non quello che dici tu, lei. Sarà un rospo qualsiasi che ha preso l’abitudine di mettersi tutte le sere sotto la tua finestra…». «Non capisci, Sergio, è tutto così difficile da spiegare, per questo non te l’avevo raccontato. Non sapevo, non so come dirlo…». «Ti capisco, Marcela». «No, non mi capisci, non vuoi capirmi. Pensi che sia per via dei nervi, o forse che sono pazza…». «Non dire così, penso solo che tu sia molto nervosa e molto provata». Marcela, che è rimasta per tutto il tempo nella stessa posizione con le gambe raccolte, appoggia la testa sulle ginocchia e comincia a singhiozzare. «Ha lo stesso atteggiamento, lo stesso dolore di quella sera, quando ha saputo della morte di sua nonna» pensa Sergio e comincia ad accarezzarle i capelli senza dire nulla. Non trova le parole per calmarla; si sente goffo e menomato, come se d’un tratto le sue riserve per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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più intime si fossero esaurite e dentro di lui restasse solo una sorta di apatia, una pesantezza opprimente (sente suonare il campanello), l’unica cosa che sa è che sta soffrendo con Marcela, quanto lei e per lei (sente di nuovo suonare); lui, che si è sempre difeso dalla sofferenza e fugge sistematicamente da tutto ciò che può causargli dolore, è ora completamente a pezzi, ridotto uno straccio (di nuovo il campanello). «Chi può essere?» si chiede con fastidio. «Qualcuno ha suonato» dice Marcela alzando la testa. «Sì» risponde Sergio. «Non voglio vedere nessuno, esco dalla cucina». «Aspetta, non devo aprire per forza». Il campanello suona di nuovo e una voce di donna chiama Sergio. «Dev’essere Velia!» dice Sergio infastidito «solo lei è capace di fare un tale casino». Decidono che è meglio aprirle prima che svegli tutto il palazzo con le sue grida. Sergio apre la porta e Velia si precipita dentro. Dà un bacio a Sergio e poi a Marcela, che non si è mossa. Come spettatori muti, la guardano mentre comincia a togliersi il cappotto e i guanti e spiega che non ha potuto avvisare del suo arrivo. Passando da casa sua aveva notato la luce accesa e aveva deciso di fargli una sorpresa e, visto che non le apriva, aveva iniziato a innervosirsi temendo che gli fosse successo qualcosa. «Che cosa poteva essermi mai successo, non avevamo voglia di vedere nessuno» pensa Sergio con fastidio ed è sul punto di dirglielo, ma i suoi occhi incrociano gli occhi verdi di Velia e il malumore e l’ostilità si placano subito: le dice semplicemente che non pensavano fosse lei. Velia si accorge che Marcela ha pianto e cerca di capire cosa c’è che non va, ma Marcela non ha più nemmeno il fiato per parlare. «Sono triste» dice soltanto. Si congeda quasi immediatamente e Sergio la accompagna fino alla macchina. 63
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«Ti chiamerò presto» e la bacia sulla guancia. Torna in casa senza alcuna fretta. È infastidito dalla presenza di Velia, ovviamente gli mancava e voleva che tornasse, ma non in quel momento in cui lui ha bisogno di starsene da solo con il suo groviglio di pensieri. «Che bello rivederti» dice Velia abbracciandolo. Sergio le dà un bacio leggero e si siedono molto vicini. «Sono passati tanti giorni» dice Sergio, tanto per dire qualcosa, e la sua mano accarezza svogliatamente il braccio abbronzato di Velia, mentre pensa: «Saresti potuta tornare la settimana scorsa e invece no, sei dovuta arrivare proprio ora che io sono allo sbando e non ho voglia di niente, nemmeno di te». «Che cosa è successo a Marcela?». «Te l’ha detto, era triste e ha pianto». Lui prepara due drink e sente Velia dire che ha trovato Marcela molto giù, come adombrata. Al punto che sembrava avesse perso completamente interesse per la sua persona e tutto quello che la circonda. «Sì, è cambiata proprio tanto» dice Sergio tornando con i bicchieri. «E anche tu hai qualcosa, qualcosa che non mi dici…». Sergio non risponde, beve un sorso. Come dirle ciò che lui stesso non comprende, a cui continua a pensare e a ripensare, e che non riesce ad afferrare né a fermare? Velia insiste a voler sapere cosa succede e gli fa una domanda dopo l’altra. «Sono preoccupato per Marcela» comincia a dire Sergio e finisce per raccontarle tutta la faccenda, o almeno, ciò che lui è riuscito a intuire: che Luis la tradisce e che scoprirlo è stato un colpo mortale per la povera Marcela, che è completamente crollata; ha smesso di dormire e ha i nervi a pezzi; dice che l’amante di Luis la perseguita, ma lui è certo che sia tutto solo nella sua testa. Questo è ciò che Sergio racconta a Velia: per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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la storia di un triangolo piuttosto simile a milioni di storie dello stesso genere. Eppure è sicuro che ci sia qualcos’altro, qualcosa che nemmeno lui stesso è pronto ad ammettere e vuole restare solo e ripercorrere il dialogo con Marcela, ricostruire tutto quello che lei gli ha raccontato. Ma Velia non se ne va e il resto della serata deve trascorrere come se nulla fosse successo. Bevono qualche altro bicchiere, Velia gli parla delle sue vacanze: il tempo era incredibile, l’acqua deliziosamente tiepida, erano tutti ad Acapulco, che peccato che Sergio non fosse andato con lei, si sarebbe divertito molto, e anche se lui non ci credeva, le era mancato un sacco… Preparano qualcosa per cena, mangiano e fanno l’amore. Poi, con Velia che dorme accanto a lui, Sergio ascolta i rumori della notte e torna a pensare con angoscia a Marcela: «Ora starà vivendo un’altra delle sue terribili nottate». Sergio e Velia si sono incontrati in un bar di Paseo de la Reforma dove vanno spesso. Lui guarda svogliato la gente che entra ed esce. Le ragazze come fatte con lo stampino, con la pettinatura gonfia “all’italiana”, gli occhi truccatissimi e le labbra pallide; gli uomini con le loro cravatte e le loro giacche su misura. «E Marcela come sta, hai saputo qualcosa?». Sergio dice che è stato molto occupato e non è riuscito a parlarci, nemmeno a farle una telefonata. «Sono sicura che tra un po’ di tempo si riprenderà e dimenticherà ogni cosa» dice Velia «perfino Luis, non credi?». «Marcela vive in un mondo molto particolare, pieno di fantasie, per questo mi preoccupa così tanto». «Però non è più una bambina, Sergio. Le fantasie appartengono all’infanzia, alla sua età è assurdo allontanarsi dal mondo reale». 65
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Sergio la lascia parlare, riconosce che è la stessa cosa che lui si è ripetuto per giorni e giorni. È il primo ad ammettere che la storia inventata da Marcela sia assurda, ma sa anche che quella fantasia la sta completamente distruggendo ed è questo che lo fa disperare; in qualche modo lui deve farglielo capire, deve svegliarla da quel sogno assurdo e riportarla alla realtà… Si accorge che Velia non parla più e lo sta guardando attentamente. «Stavo pensando a Marcela» dice afflitto e le accarezza la guancia. Lei sorride indulgente. Una mattina, molto presto, suona il telefono. Sergio salta sul letto come punto da una tarantola. Marcela si scusa per averlo svegliato, ma ha bisogno di vederlo, è molto urgente. Se ne rende conto anche lui, si sente dal tono della sua voce, incerta e ansimante. «Vieni appena puoi, subito». Lui si infila sotto la doccia per darsi una svegliata. Pensava di dormire fino a tardi come tutte le domeniche, ma non gli pesa, parlerà con Marcela una volta per tutte e per il tempo che sarà necessario. Mentre la aspetta prepara il caffè e del pane tostato, e telefona a Velia per avvisarla di non passare a casa. Andrà lui da lei quando avrà finito di parlare con Marcela. Quando Marcela arriva, si siedono a prendere il caffè accanto alla finestra. «Ha un aspetto orribile» si dice Sergio. «Ieri sera» comincia a raccontare Marcela «tutto era sul punto di finire, voglio dire, avrebbe potuto essere la mia ultima notte: qualcuno, credo Lupe, ha lasciato aperta la porta del soggiorno che dà sul giardino, e da lì è entrata. Avevo sentito per ore il suo croac croac sotto la mia finestra, per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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poi il rumore si era allontanato fino a svanire, pensavo che se ne fosse andata e la cosa mi ha sorpreso moltissimo… Mi sono tranquillizzata un po’ e ho preso a dormicchiare, quando d’un tratto ho sentito qualcosa che cadeva pesantemente, ogni pochi secondi, che si avvicinava sempre di più, sempre di più, mi sono alzata e sono corsa fino alla porta di camera mia, ed eccola lì all’ingresso, a pochi passi dalla mia porta, le sarebbe bastato un ultimo balzo per entrare, eccola lì con i suoi enormi occhi che sembravano essere già fuori dalle orbite sul punto di lanciarsi su di me, lo so perché aveva le zampe piegate nell’atteggiamento che precede il salto, perché si stava gonfiando di furia nel vedermi, tanto desiderava distruggermi… Con un colpo ho chiuso la porta e ho girato la chiave, e in quello stesso istante l’ho sentita schiantarsi contro la porta e croac, croac, lamentarsi di dolore e rabbia. È stato un istante a salvarmi, un solo istante, ho dato un altro giro di chiave e sono rimasta attaccata alla porta ad ascoltare, gemeva di dolore, poi l’ho sentita allontanarsi con i suoi colpi sordi, i suoi brevi e pesanti saltelli… io sudavo copiosamente, poi sono svenuta, e quando sono tornata in me era già giorno. Mi sono infilata a letto per scaldarmi un po’, avevo molto freddo e molta paura, ma non ci sono riuscita, continuavo a tremare dalla testa ai piedi, e allora ti ho chiamato…». Meccanicamente, Marcela si porta alle labbra la tazza di caffè che non ha ancora toccato. «Ormai sarà gelido» dice Sergio «non berlo, te lo riscaldo» e torna in cucina pensando: «Da dove cominciare, che cosa dirle?». Torna con il caffè caldo, lo serve a Marcela, ne prende un po’ anche lui. Il sole entra e illumina la stanza, sono le nove e mezza di mattina di una domenica del mese di ottobre, tutto è reale, quotidiano, reale come la donna che mescola il caffè 67
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seduta di fronte a lui, come lui stesso che assapora il riposo settimanale. L’unica cosa fuori posto, a quell’ora, sono le parole, il mondo che lei esprime. «Ti stai facendo trasportare dall’immaginazione e dal nervosismo; fermati, tesoro, stai prendendo una strada molto pericolosa, e a volte basta un passo, un solo passo che è molto facile da fare, e poi…». «Com’è possibile che tu mi dica queste cose» risponde Marcela, profondamente delusa «com’è possibile che tu non capisca? Non è immaginazione, né sogno, né sono i nervi come dici tu, è una realtà raccapricciante, sconvolgente, è trovarsi così vicino alla morte da sentire freddo alle ossa». «A volte senza volere» dice Sergio «senza accorgersene, capita di mescolare realtà e fantasia e fonderle insieme, ci si lascia intrappolare nel loro groviglio e ci si abbandona all’assurdo, è come partire per un viaggio verso una città che non è mai esistita». «È difficile da spiegare, è difficile crederci, ma invece esiste e tu non vuoi rendertene conto; ho riconosciuto quegli occhi dalla prima notte in cui l’ho sorpresa tra le piante sotto la mia finestra, l’ho vista bene quel giorno in macchina con Luis, gli stessi occhi sporgenti, freddi, inespressivi, la faccia troppo grande per la sua bassa statura, incastrata fra le spalle, senza collo…». Sergio si alza e cammina per il soggiorno, poi si appoggia di spalle alla finestra e le dice: «Devi renderti conto di quanto sia illogica questa situazione, non è possibile che questa folle fantasia creata dalla tua immaginazione sia vera; sei stanca, spossata dal dolore». «E la disperazione di sapere che ogni notte può essere l’ultima, ti ho detto che mi sono salvata per un istante, un solo istante, il tempo di chiudere la porta prima che mi saltasse addosso». per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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Sergio capisce che la donna è ormai in balia di quell’ossessione, che la imprigiona distorcendo ogni cosa: non c’è nulla che lui possa dire, sarebbe inutile. «E ora cosa faccio? Se stanotte o domani o la notte ancora dopo fosse l’ultima? Che cosa posso fare, Sergio? Perseguitata, minacciata senza sosta, notte dopo notte, minuto dopo minuto, senza avere il sollievo del sonno, sempre all’erta, ad ascoltare, a seguire i suoi movimenti come il detenuto che attende in cella l’ora finale. Perché tanto impegno, tanta ostinazione a farla finita con me? Mi ha già distrutto portandomi via Luis, che altro vuole? Tutta la notte con quel croac croac orribile, non smette mai, sento il suo gracidare fuori e dentro le orecchie, quel suo gracidare stupido e sinistro…». Sergio la vede portarsi le mani alla testa per tapparsi le orecchie. È colto da un profondo dolore, una sorta di cruda tenerezza che gli si annoda in gola; sa di essere sul punto di piangere e si volta verso la finestra, per non farsi vedere da lei. Fuori vede la soleggiata mattina di ottobre, vede passare le auto lungo il viale di alberi dorati, persone con cesti da picnic pronti per andare in campagna, vede un fioraio, un lattaio, il postino che passa in bicicletta; vede passare delle ragazze quasi bambine, ricorda la bambina con la coda di cavallo, gli sarebbe piaciuto, gli sarebbe piaciuto andare in campagna anche lui, ieri, con quella bambina, sua amica, sua sorella, quella parte di lui distrutta che si copre le orecchie per non sentire, gli piacerebbe… «Vado, Sergio» dice Marcela toccandogli la spalla «voglio mangiare con i bambini». Sergio si volta sorpreso e la guarda andare via, senza riuscire a dirle nulla. Si affaccia di nuovo alla finestra: vede l’automobile di Marcela che parte e poi si perde lungo il viale. Compone il numero di Velia e le chiede di andarlo a prendere; quando riattacca si pente di averla chiamata, sa69
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rebbe stato meglio rimanere solo, però non vuole nemmeno questo, in realtà non vuole nulla, forse dopo un bicchiere si sentirà meglio, forse, ma ormai non c’è pace per lui, soffre per Marcela come per una malattia contratta all’improvviso, un male insopportabile che non può mettere da parte perché è fisso lì, lo ferisce costantemente. Velia lo trova abbattuto. Passeggiano un po’ per il parco pieno di bambini e palloncini. Lui parla appena, si lascia trascinare. Poi al bar le racconta dei suoi timori, dell’inutilità di ogni suo sforzo e di quanto lo addolora non poter fare nulla per Marcela. Quando finiscono di pranzare Velia gli chiede che cosa vuole fare, dove vuole andare. «Dove vuoi tu, per me è uguale». Girano per la città deserta come tutte le domeniche pomeriggio, sotto un cielo pesante, opprimente, incendiato da un crepuscolo prematuro. Girano in macchina per parecchio tempo in silenzio, senza meta, finché l’aria fresca del pomeriggio gli sferza il volto come una frustata gelida; Velia ferma l’auto e alza la capote. Continuano a vagare senza meta. «Forse dovrei fare visita a questa sarta» pensa d’un tratto Sergio, ma perché? Cosa dirle? Forse avrebbe potuto parlarle dello stato in cui versa Marcela, spiegarle la gravità della situazione, forse suggerirle di lasciare la città per un po’, forse così Marcela si sarebbe tranquillizzata, magari saperla lontana l’avrebbe aiutata a stare meglio… Gli sembra un’idea folle, un’intromissione che lui non avrebbe mai accettato… Povera ragazza! Il suo unico delitto era essersi innamorata dell’uomo di un’altra. Dopotutto, quel tipo di relazioni gli hanno sempre fatto pena e, perché non dirlo? Anche tenerezza: vivere sempre nell’ombra senza potersi mostrare, abbracciarsi al buio, alla chetichella, abortire al secondo mese in preda al dolore e alla paura, per poi essere gettate via con gli anni come un sacco di ossa inservibili. per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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Gli fanno davvero pena. Pensa che dev’essere una brava ragazza, pensa che si commuoverà quando saprà come sta Marcela, Palenque 270… Chiede a Velia di portarlo a calle Palenque, dove vive l’amante di Luis. Velia lo guarda, stupita: «E tu che cosa ci vai a fare lì?». «In realtà non lo so, ma sento che parlare con lei è l’unica cosa da fare, e voglio provarci». Velia lo lascia all’angolo del palazzo e resta in macchina ad aspettarlo. Sergio sale al terzo piano e suona il campanello dell’appartamento 15. Non risponde nessuno. Teme che la donna sia uscita, è domenica. Suona di nuovo. Una ragazza senza età apre la porta, Sergio sa che è lei e le dice che vuole parlarle. La ragazza resta ferma a guardarlo, sorpresa e intimorita insieme. Dalla casa escono rumori strani e confusi. «Posso entrare?». Lei non risponde e cerca di chiudere la porta. Sergio la ferma, facendosi strada dentro casa. Individua gli strani rumori che ha sentito mentre si apriva la porta: vengono da una radio. «Dev’essere musica concreta o qualcosa del genere, forse il programma domenicale di Radio Mil» pensa Sergio mentre dà una rapida occhiata all’appartamento: un lungo tavolo per tagliare le stoffe, una macchina da cucire elettrica, un manichino nero, uno specchio, altri mobili… La ragazza lo osserva attentamente senza offrirgli una sedia ma lui prende posto comunque. Allora lei fa lo stesso, sedendosi di fronte a lui, e da lì lo guarda; lui ricambia lo sguardo, perplesso, mentre tira fuori una sigaretta e la accende. «Piuttosto strana questa tizia» pensa Sergio. «Sono venuto per parlarle di Marcela». «Di chi?» chiede lei con una vocetta melliflua e gelatinosa che a Sergio risulta insopportabile. 71
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«Della mia amica Marcela, la moglie di Luis» dice Sergio irritato da quella domanda sciocca. Sul volto di lei si dipinge un mezzo sorriso, ironico e sprezzante insieme; dice qualcosa che Sergio non riesce a sentire bene, qualcosa che lui interpreta come un «Non so di che cosa sta parlando». Gli sembra di non riuscire a sentirla perché parla come mangiandosi le parole e per via di quei suoni sgradevoli, simili a grida inarticolate, che si sono fatti più intensi. Sergio guarda verso la radio ma lei non fa nulla per abbassare il volume, come se il rumore non le desse fastidio o nemmeno lo percepisse. Sergio comincia a parlarle di Marcela, a descrivere meglio che può il dolore della sua amica, il suo crollo emotivo, i suoi nervi a pezzi; le racconta, le spiega, le spiega di nuovo, parla da solo, lei non risponde, «non c’è comunicazione, la cosa non le interessa affatto, non la commuove affatto». Tace, ma sa che quello non è un silenzio enigmatico, semplicemente è il silenzio di chi non ha nulla da dire, e la musica, o meglio, quello strepito febbrile, si fa sempre più forte, sempre più intollerabile, forte e violento come un’aggressione, e li avvolge, li soffoca… Lui riprende a parlare, a spiegare; suggerisce che lei se ne vada per un po’, sarebbe la cosa migliore per tutti. Lei si limita a guardarlo, a fissarlo; di tanto in tanto intravede lo stesso sorriso, quel sorriso come una maschera che le assottiglia ancor di più le labbra, allungandole. Sergio parla sempre più forte per farsi sentire, lei lo guarda come prendendosi gioco del suo sforzo; nemmeno lui riesce a smettere di guardarla, la faccia è troppo grande per la sua bassa statura, praticamente è senza collo, come se avesse la testa attaccata alle spalle… Ora non suggerisce più, chiede apertamente; pretende che lei se ne vada lontano per un po’ dando a Marcela il tempo di riprendersi, lei lo guarda con i suoi occhi sporgenti, freddi, inespressivi; Sergio sta quasi gridando per non lasciarsi per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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sopraffare dai rumori che sembrano uscire da dentro di lei: un triste e monotono croac croac croac per tutta la notte. «Ha ragione Marcela, gli occhi sono fuori dalle orbite, le labbra sono una linea che segna quell’enorme testa da parte a parte, si sta gonfiando di silenzio, delle parole che non ha detto e si è rimangiata, si è gonfiata e mi guarda con un odio freddo, mortale, mentre mi avvolge con il suo stupido e sinistro gracidare, con quell’odore fangoso che emana, quell’odore di fango putrefatto che mi è impossibile sopportare, le sue membra si piegano, so che si sta preparando a saltarmi addosso, gonfia, gracidando, muovendosi pesantemente, goffamente…». La mano di Sergio afferra un paio di forbici e infilza, affonda, fa a brandelli… Il gracidio disperato si fa sempre più debole, come se stesse affondando in un’acqua scura e densa, mentre il sangue macchia il pavimento della stanza. Sergio getta via le forbici e si pulisce le mani con il fazzoletto, si contempla sconvolto davanti allo specchio e cerca di darsi una sistemata. Si sciacqua via il sudore e si pettina. Quando esce in strada è già buio; gira l’angolo e vede l’automobile di Velia, e Velia all’interno che lo aspetta. Prima di raggiungerla si ferma in una drogheria; compra le sigarette e compone un numero di telefono. «Sì, sono io. Puoi dormire tranquilla, tesoro mio, stanotte e tutte le altre notti. Il rospo non ti darà più alcun fastidio».
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La colazione Quando Carmen scese a fare colazione alle sette e mezza, com’era d’abitudine in famiglia, non si era ancora vestita, era avvolta nella sua vestaglia blu marino con i capelli tutti scompigliati. Ma non fu solo questo ad attirare l’attenzione dei genitori e del fratello: aveva il viso smunto e le occhiaie profonde di chi ha passato una brutta nottata o è molto malato. Disse meccanicamente buongiorno e si sedette a tavola lasciandosi quasi cadere sulla sedia. «Che ti succede?» le chiese il padre, osservandola con attenzione. «Cos’hai, tesoro, stai male?» chiese a sua volta la madre passandole un braccio intorno alle spalle. «Hai una faccia… non hai dormito?» commentò il fratello. Lei rimase lì senza rispondere, come se non li avesse sentiti. I genitori si scambiarono uno sguardo con la coda dell’occhio, molto stupiti per il comportamento e l’aspetto di Carmen. Senza osare farle altre domande cominciarono a fare colazione, sperando che si sarebbe ripresa da un momento all’altro. «Magari ieri sera ha bevuto più del solito, e ha solo i postumi della sbronza, poveretta» pensò il ragazzo. «Sta sempre a dieta per mantenere la linea, ed ecco il risultato, è distrutta» si disse la madre andando in cucina a prendere il caffè e le uova strapazzate. per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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«Oggi vado davvero dal barbiere prima di pranzo» disse il padre. «Sono giorni che ci provi» commentò la madre. «È che proprio non mi va, mi annoia il solo pensiero». «È per quello che io non ci vado mai» assicurò il ragazzo. «E infatti ormai hai una bella chioma imponente, da esistenzialista. Io non oserei uscire di casa in quelle condizioni» disse il padre. «Invece fa colpo eccome!» disse il ragazzo. «Dovreste proprio andarci insieme, dal barbiere» suggerì la madre servendo il caffè e le uova. Carmen appoggiò i gomiti sul tavolo e si prese il viso tra le mani. «Ho fatto un sogno spaventoso» disse con voce completamente spenta. «Un sogno?» chiese la madre. «Un sogno non può farti stare così, bambina» disse il padre. «Dai, mangia qualcosa». Ma lei sembrava non avere la minima intenzione di farlo e rimase immobile e pensierosa. «Si è svegliata tragica, niente da fare» spiegò il fratello sorridendo. «Ah, queste attrici ancora da scoprire! Però dai, non disperare, un ruolo nello spettacolo della scuola te lo concederanno…». «Lasciala in pace» disse la madre con tono infastidito. «Così la fai solo innervosire ancor di più». Il ragazzo non insisté con le battute e si mise a raccontare della manifestazione studentesca della sera prima, che una squadra antisommossa aveva disperso con dei gas lacrimogeni. «È esattamente per questo che sono così preoccupata per te» disse la donna. «Non so cosa darei perché tu smetta di partecipare a quegli incontri, sono pericolosi. Non si sa mai 75
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come vanno a finire, né chi rimane ferito, o chi finisce in carcere». «Se ti tocca, ti tocca, non c’è niente da fare» disse il ragazzo. «Ma capisci bene che non posso starmene a casa tranquillo quando gli altri stanno lottando con le unghie e con i denti». «Io certo non condivido le tattiche usate dal governo» disse il padre mentre spalmava il burro sul pane tostato e si serviva un’altra tazza di caffè «però sono contrario ai raduni studenteschi, credo che gli studenti dovrebbero semplicemente dedicarsi allo studio». «Beh, mi stupirei che un tipo “conservatore” come te capisse un movimento di questo genere» disse il ragazzo con ironia. «Sono, e sono sempre stato, dalla parte della libertà e della giustizia» aggiunse il padre «ma quello che non mi trova proprio d’accordo…». «Ho sognato che uccidevano Luciano». «Quello che non mi trova d’accordo» ripeté il padre. «Aspetta, che uccidevano chi?» chiese d’un tratto. «Luciano». «Ma tesoro non puoi agitarti tanto per un sogno così assurdo; è come se io sognassi di fare una rapina in banca e per questo cadessi malato» disse il padre pulendosi i baffi con il tovagliolo. «Ho anche sognato di vincere la lotteria, un sacco di volte, e come vedi…». «Tutti sogniamo a volte cose spiacevoli, e altre volte cose belle» disse la madre «ma né le une né le altre diventano realtà. Se vuoi interpretare i sogni come fanno alcuni, morte o bara significano lunga vita o matrimonio in vista, e tra due mesi…». «Perché, quella volta» disse il fratello rivolgendosi a Carmen «quella volta che ho sognato che andavo in vacanza in montagna con Claudia Cardinale?! Eravamo già arrivati allo per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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chalet e le cose cominciavano a farsi interessanti quando tu mi hai svegliato, ti ricordi com’ero furioso?». «Non ricordo bene com’è iniziato il sogno… Ma a un certo punto eravamo a casa di Luciano. C’erano dei garofani rossi in un vaso, ne ho preso uno, il più bello, e sono andata allo specchio» cominciò a raccontare Carmen con voce calma e pacata, senza inflessioni. «Mi sono messa a giocare con il garofano. Aveva un odore troppo forte, eppure l’ho aspirato diverse volte. C’era della musica e mi è venuta voglia di ballare. D’un tratto ero contenta come quando da bambina ballavo con papà. Ho preso a ballare con il garofano in mano come se fossi una dama del secolo scorso. Non mi ricordo com’ero vestita… La musica era bella e io mi sono completamente abbandonata. Non avevo mai ballato così. Mi sono tolta le scarpe e le ho lanciate dalla finestra. La musica non finiva mai e io ho cominciato a sentirmi molto stanca e volevo fermarmi a riposare. Non riuscivo a smettere di muovermi. Il garofano mi obbligava a continuare a ballare…». «Non mi sembra un sogno così sgradevole» commentò la donna. «Smettila di pensarci e mangia qualcosa» la pregò di nuovo il padre. «Non farai in tempo a vestirti per andare in ufficio» aggiunse la madre. Poiché Carmen non diede il minimo segno di aver sentito quello che dicevano, il padre si strinse nelle spalle, avvilito. «Sabato c’è finalmente la cena per don Julián; bisognerà mandare l’abito Oxford in tintoria, credo che abbia bisogno di una bella stirata» disse a sua moglie. «Ce lo porto oggi stesso così siamo sicuri che sarà pronto per sabato, a volte sono così sbadati». «Dove sarà la cena?» chiese il ragazzo. 77
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«Non abbiamo ancora deciso, ma probabilmente sulla terrazza dell’Hotel Alameda». «Che eleganza!» commentò il ragazzo. «Ti piacerà un sacco» assicurò alla madre «c’è una vista magnifica». «Non so nemmeno cosa mettermi» si lamentò la donna. «Il vestito nero, ti sta così bene» le disse l’uomo. «Ma non posso mettere sempre lo stesso vestito, la gente penserà che sia l’unico che ho». «Se vuoi scegline un altro, ma quello ti sta davvero bene». «Luciano era contento, mi guardava ballare. Ha tirato fuori una pipa d’avorio da una scatola in pelle. Di colpo la musica è cessata, e io non riuscivo a smettere di ballare. Ci ho provato tante volte. Disperata, ho provato a gettare via il garofano che mi obbligava a continuare a ballare. La mia mano non si è aperta. Allora la musica è ricominciata. Dalle pareti, dal soffitto, dal pavimento, uscivano flauti, trombe, clarinetti, sassofoni. Era un ritmo vertiginoso. Un lungo grido lacerato o una risata di giubilo. Ero come trascinata da quel ritmo, sempre più accelerato e frenetico. Non riuscivo a smettere di ballare. Il garofano mi aveva posseduta. Per quanto ci provassi non riuscivo a smettere di ballare, il garofano mi aveva posseduta…». I tre rimasero in silenzio per qualche minuto, in attesa che Carmen continuasse il racconto; poi si scambiarono uno sguardo per condividere la propria perplessità, e continuarono a fare colazione. «Mi passi ancora un po’ di uova?» chiese il ragazzo alla madre, e guardò di sbieco Carmen che era rimasta come persa nei suoi pensieri. «Chiunque direbbe che si è fumata qualcosa» pensò. La donna servì altre uova al ragazzo e prese un bicchiere di succo che stava davanti a Carmen. «Bevi un po’ di succo di pomodoro, tesoro, ti farà bene» la pregò. per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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Guardando il bicchiere che la madre le porgeva, il volto di Carmen si trasfigurò. «No, oddio, no, no, il suo sangue era così, rosso, rosso, pesante, appiccicoso, no, no, che orrore, che orrore!» diceva sputando fuori ogni parola con violenza. Poi nascose il volto tra le mani e prese a singhiozzare. La madre, afflitta, le accarezzò la testa. «Non stai bene, tesoro». «Certo che no!» disse il padre esasperato. «Lavora tantissimo, fa tardi tutte le sere, se non è il teatro, è il cinema, cene, riunioni, insomma, ecco il risultato! Vogliono sempre fare tutto in un colpo solo. Uno gli insegna la moderazione e loro “tu non sai come vanno le cose, ai tuoi tempi era tutto diverso”, certo, ci sono molte cose che non so, ma almeno non finisco per…». «Che cosa stai insinuando?» esclamò la moglie, alzando la voce. «Per favore» intervenne il figlio «questa storia sta diventando insopportabile». «Luciano era seduto sul divano verde. Fumava e rideva. Il fumo gli velava la faccia. Sentivo solo le sue risate. Faceva piccoli anelli con ogni boccata di fumo. Salivano, salivano, poi scoppiavano, si rompevano in mille pezzi. Erano minuscoli esserini di vetro: cavallini, colombe, cervi, conigli, gufi, gatti… La stanza poco a poco si riempiva di animaletti di cristallo. Si sistemavano tutt’intorno a noi, come spettatori muti. Altri restavano sospesi a mezz’aria, come sostenuti da corde invisibili. Luciano rideva molto nel vedere le migliaia di animaletti che creava con ogni boccata di fumo. Io continuavo a ballare senza riuscire a fermarmi. Avevo a malapena spazio per muovermi, gli animaletti invadevano completamente la stanza. Il garofano mi obbligava a ballare e gli animali continuavano a venir fuori, erano sempre di più: 79
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perfino la mia testa era piena di animaletti di cristallo; i miei capelli erano i rami di un enorme albero su cui si annidavano. Luciano rideva a crepapelle come non l’avevo mai visto fare. Anche gli strumenti cominciarono a ridere, i flauti e le trombe, i clarinetti, i sassofoni, tutti ridevano vedendo che io non avevo più spazio per ballare, e uscivano sempre più animaletti, sempre di più… È arrivato un momento in cui non mi muovevo quasi più. Mi dondolavo appena. Poi non sono più riuscita a fare nemmeno questo. Mi hanno completamente accerchiata. Desolata, ho guardato il garofano che mi obbligava a ballare. Ma il garofano non c’era più, non c’era più: era il cuore di Luciano, rosso, caldo, ancora vibrante tra le mie mani!». I genitori e il fratello si guardarono pieni di confusione e senza capirci più nulla. Su di loro era sceso, come un intruso che spezzava il ritmo della loro vita e scompigliava ogni cosa, il turbamento di Carmen. D’un tratto erano muti e vuoti, timorosi di lasciare spazio a un’idea che non volevano nemmeno concepire. «Sarà meglio farla stendere un po’ e darle qualcosa per i nervi, o faremo tutti una brutta fine» disse quindi il fratello. «Sì, ci stavo pensando anch’io» disse il padre «dalle una di quelle pastiglie che prendi tu» ordinò alla moglie. «Su, tesoro, vai su a stenderti un po’» diceva angosciata la madre, cercando di aiutarla ad alzarsi, lei stessa priva di forze. «Prendi un po’ d’uva». Carmen alzò lo sguardo e il suo volto era un campo completamente devastato. In un mormorio che si udiva appena, disse: «Gli occhi di Luciano erano proprio così. Statici e verdi come vetro opaco. La luna entrava dalla finestra. La luce fredda gli illuminava il volto. Aveva gli occhi verdi spalancati, spalancati. Ormai se n’erano andati tutti, gli strumenti e gli animaletti di cristallo. Erano tutti svaniti. Non c’era più per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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musica. Solo silenzio e vuoto. Gli occhi di Luciano mi guardavano fissi, fissi, come se volessero trapassarmi. E io lì in mezzo alla stanza con il suo cuore che mi batteva tra le mani, batteva ancora… batteva…». «Portala su, falla stendere» disse l’uomo alla moglie. «Io telefono in ufficio per avvisare che è indisposta, e credo che chiamerò anche il dottore» disse, cercando con lo sguardo un segno di approvazione. La madre e il figlio mossero affermativamente la testa mentre con gli occhi ringraziavano il vecchio che finalmente faceva ciò che tutti loro desideravano. «Dai, tesoro, andiamo di sopra» le disse la madre. Eppure Carmen non si mosse, né parve sentirla. «Lascia stare, la porto io» disse il fratello «preparale un tè caldo, le farà bene». La donna si diresse in cucina camminando pesantemente, come se su di lei fosse caduto di colpo il peso di molti anni. Il fratello provò a spostare Carmen e, vedendo che lei non rispondeva, non volle insistere e decise di aspettare. Accese una sigaretta e si sedette accanto a lei. Il padre finì di parlare al telefono e crollò su una vecchia poltrona da dove prese a osservare Carmen. «Nessuno di noi è andato a lavorare oggi, speriamo che non sia niente di serio». La moglie faceva rumore in cucina, come se muovendosi inciampasse dappertutto. Il sole entrava dalla finestra che dava sul giardino ma non riusciva a rallegrare né a scaldare quella stanza in cui tutto si era fermato. I pensieri, i sospetti, erano acquattati o velati dalla paura. L’ansia e l’angoscia si facevano scudo dietro un mutismo desolato. Il ragazzo guardò l’orologio. «Sono quasi le nove» disse, tanto per dire qualcosa. «Il dottore sta arrivando; per fortuna era ancora in casa» aggiunse il padre. 81
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Le note di The last time I saw Paris riempirono la stanza al rintocco delle nove: era l’orologio musicale che avevano regalato alla madre per il suo ultimo compleanno. La donna uscì dalla cucina con gli occhi arrossati e una tazza di tè fumante. «Va’ di sopra» le disse l’uomo «ora la portiamo su». «Andiamo di sopra, Carmen». Tra tutti e due riuscirono a farla alzare. Lei si lasciò condurre senza opporre alcuna resistenza e cominciò a salire lentamente le scale. Era molto lontana da se stessa e da quel momento. I suoi occhi quasi fissavano un altro luogo, un altro istante. Sembrava una figura spettrale che si muoveva tra le rocce. Non riuscirono ad arrivare in cima alle scale. Furono interrotti da forti colpi al portone che dava sulla strada. Il fratello scese correndo, convinto che fosse il medico. Quando aprì la porta, entrò bruscamente la polizia.
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Tina Reyes Tina Reyes salutò le sue colleghe, con cui aveva camminato per qualche isolato, e salì sull’autobus che la lasciava vicino a casa di Rosa. Ebbe la fortuna di trovare un posto nonostante l’ora, e si sedette accanto al finestrino. Era stanca, come sempre alla fine della settimana: «Meno male che domani è sabato». Solo mezza giornata di lavoro, e poi però c’era la domenica, e lei non sopportava quelle domeniche: la messa delle 11:30, il gelato vaniglia e cioccolato, il doppio spettacolo al cinema di seconda visione, la sala piena di gente, di cattivi odori e di fumo; un panino e una Coca-Cola all’uscita ed ecco che la domenica finiva, proprio uguale a centinaia di domeniche precedenti e ad altre di là da venire; poi il lunedì e il martedì e tutta la settimana di lavoro senza tempo per nulla, nemmeno per farsi le unghie. A questo pensava mentre si guardava lo smalto maltrattato e sul punto di screpolarsi. «Speriamo che Rosa stia bene». La settimana prima l’aveva vista molto stanca, era normale con tutto quel lavoro, da sola a occuparsi di tutte le faccende, dei bambini e di Santiago. Meno male che Santiago era tanto buono con lei e le dava tutto quello che aveva; l’unico problema era che con un solo stipendio erano quasi sempre preoccupati per i soldi, ma quanto la amava, Rosa, se non le garantiva ogni comodità non era 83
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per sua scelta, davvero un brav’uomo, così serio e lavoratore, non usciva mai con gli amici né a far baldoria, sempre da casa al lavoro, Rosa era fortunata: un marito come Santiago, i figli, una casetta, a pensarci bene era davvero una gran fortuna, e invece lei… Tina sospirò e scosse la testa cercando di deviare il corso dei suoi pensieri. Non voleva pensare a sé e alla sua vita, le faceva male e poi finiva sempre per intristirsi. Era troppo doloroso vivere da sola, senza qualcuno che sentisse la sua mancanza; nient’altro che una stanzetta al terzo piano di un palazzo sporco e scuro, una stanza così piccola che le sue cose ci entravano appena: il letto in ottone scolorito dagli anni, che una volta aveva creduto essere d’oro, il tavolo dove mangiava e stirava, la macchina da cucire che le aveva lasciato sua madre e quel vecchio armadio che non aveva osato vendere perché sarebbe stato come vendere tutti i suoi ricordi: ci teneva i vestiti dei genitori, i suoi, qualche risparmio, ritratti di famiglia, tante cose… Sarebbe invecchiata lì, in quella stanzetta triste, triste proprio come lei, come quella sua disperazione che aumentava giorno dopo giorno; tutto sarebbe stato diverso se i suoi genitori fossero stati ancora vivi, ma già erano stati così vecchi e malati… Senz’altro vederli soffrire per anni e anni sarebbe stato peggio, forse rimanere sola al mondo era il suo destino; non poteva nemmeno prendere un gatto o un cane in quella stanza così piccola, il povero canarino che le aveva regalato Rosa era morto presto, senz’altro per mancanza d’aria e di sole… Come sarebbe stato avere un appartamento, un marito, dei figli, un uomo che la abbracciasse e le dicesse «Tina» con voce affettuosa? Anche se avesse dovuto lavorare tanto quanto Rosa, avrebbe avuto la certezza che la sera lui sarebbe tornato a casa: cenare insieme chiacchierando di tutte le cose della giornata, dei bambini, vedere poi la televisione e, se non ce n’era una, almeno ascoltare un po’ la radio, e poi dormire con la testa posata sulla spalla di lui, e per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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Tina non avrebbe avuto più così tanto freddo di notte, avrebbe dormito tranquilla sentendolo respirare, veder crescere i bambini, sentirli dire «mamma»… Le lacrime erano sul punto di inondarle il viso, ma quando si rese conto di essere su un autobus pieno di gente riuscì a contenersi e solo una le scivolò sulla guancia. Cercò in fretta nella borsa uno specchietto e un fazzoletto. Si asciugò gli occhi e si mise a guardare fuori dal finestrino, afflitta, temendo che qualcuno se ne fosse accorto. L’autobus si fermò all’angolo davanti al Barba Azul, che alla luce del giorno appariva ancor più sordido con le pareti dipinte di arancio e blu sgargiante. L’insegna al neon che vedeva ogni sera era spenta. Non c’erano dubbi che quello fosse un quartiere pessimo e pericoloso, come Rosa le diceva sempre, ma era vicino al lavoro e per la stanza pagava solo cento pesos d’affitto, il massimo che poteva permettersi. Si lisciò la gonna per coprirsi le ginocchia e tornò a pensare alle notti in cui il sonno se ne andava e passava le ore a guardare l’insegna luminosa del Barba Azul che si accendeva e si spegneva, ascoltando per tutto il tempo, fino al mattino, quella musica frenetica, da pazzi. Vedeva uscire un’infinità di coppie che cantavano o ridevano a crepapelle, a volte si azzuffavano in mezzo alla strada, gridandosi gli insulti più spregevoli, poi si riconciliavano e si perdevano, abbracciati, per le strade buie, mentre altre volte arrivava una volante e se li portava via. Lei aveva sempre disprezzato quelle donne facili e perverse, le loro risate le riecheggiavano nelle orecchie, doveva coprirsi la testa con il cuscino e singhiozzava di indignazione e protesta fino ad addormentarsi… Si rese conto che era già arrivata alla sua fermata e scese dall’autobus. Vide con piacere che c’era ancora un po’ di luce e che non faceva freddo. Era bello passeggiare. «Mi scusi, signorina, mi permette di camminare un po’ con lei?». 85
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Tina spalancò gli occhi e restò quasi paralizzata per la sorpresa. «L’ho notata subito, da quando è salita sull’autobus mi ha colpito molto. Ha degli occhi molto espressivi». «Mi scusi, signore» riuscì finalmente a dire Tina «ma non sono solita parlare con gli sconosciuti». «Se mi permette di presentarmi non sarò più uno sconosciuto» disse l’uomo «perché non mi dà quest’opportunità? Credo che diventeremmo amici, non le pare?». Tina iniziò a camminare più in fretta che poteva, voleva arrivare quanto prima a casa della sua amica e mettersi in salvo da quell’impertinente. Attraversò una strada con il semaforo rosso e dovette correre per evitare di farsi investire. Quando guadagnò il marciapiede tirò soddisfatta un respiro di sollievo pensando di essere riuscita a seminare il tizio. «Se avessimo qualche amico in comune, farebbe le debite presentazioni» era di nuovo lì accanto a lei «ma temo che non ne abbiamo nessuno. Non potrebbe darmi questa opportunità?». Tina non rispose. Decise che la cosa migliore sarebbe stata non rivolgergli un’altra parola, così lui si sarebbe stancato e l’avrebbe lasciata in pace. «Sul serio, davvero non ho potuto fare a meno di notarla» diceva lui, senza lasciarsi scoraggiare dal silenzio di Tina «mi ha colpito molto dal primo momento che l’ho vista». La casa di Rosa non le era mai sembrata così lontana. E se Rosa non c’era e avesse trovato la porta chiusa? La aspettava sempre il venerdì a quell’ora… «Suvvia, è così semplice essere amici» insisteva lui. E se Rosa fosse andata dal medico e non fosse ancora tornata?! La settimana scorsa le aveva detto che non si sentiva bene… «Non le andrebbe di dirmi come si chiama?» chiedeva l’uomo. per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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Arrivò finalmente a casa di Rosa e tirò un sospiro di sollievo quando si chiuse la porta alle spalle. Restò per qualche minuto immobile accanto alla porta finché non sentì dei passi che si allontanavano. Rosa stava stirando quando apparve Tina, piuttosto agitata, con le guance accese e ansimante per la corsa. Dopo aver bevuto un bicchiere d’acqua raccontò all’amica di quell’incidente, con tutti i dettagli. Rosa rise di gusto e volle sapere com’era il tizio. «Non l’ho nemmeno guardato in faccia» confessò Tina. Rosa continuò, per parecchio tempo, a fare commenti e a scherzare con Tina sull’accaduto. D’un tratto prese a fissarla con una certa malizia: «Questo è il tuo giorno, non c’è dubbio» diceva, morendo dal ridere «questo golfino blu ti sta davvero molto bene». Tina protestò dicendo che le cose non stavano come pensava lei, eppure poco a poco si avvicinò, come senza volere, a un armadio a specchio per contemplare il proprio riflesso, prima con una certa timidezza e temendo che Rosa si rendesse conto che si stava guardando, poi con cura e attenzione. Le sue mani scivolarono sopra i seni e si posarono sulla vita sottile. Non stava male, a essere sincera con se stessa dovette ammettere che anzi stava abbastanza bene, ma che peccato, che sfortuna che quel corpo, così ben fatto, appassisse nell’ombra della solitudine, senza conoscere nemmeno una carezza, né un istante di piacere. Non poté fare a meno di rammaricarsi. «D’accordo, ora però non startene lì a rimirarti» disse Rosa. Tina arrossì e andò a sedersi sulla sedia a dondolo. Aveva tutta l’aria di una bambina sorpresa a fare una marachella. Cominciò a dondolarsi e a sorridere compiaciuta. Quanto si sentiva bene ogni volta che vedeva Rosa! Chiacchierando con lei le ore passavano veloci e si dimenticava delle sue 87
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tristezze. Quanto le sarebbe piaciuto vederla tutti i giorni, come prima, quando erano vicine e Rosa non si era ancora sposata e lei viveva con i genitori… Era quasi certo che avrebbero dato un aumento a Santiago, raccontava Rosa, così non avrebbe più dovuto fare gli straordinari la sera. Erano molto contenti. A parte il fatto che guadagnare un po’ più di soldi gli avrebbe permesso di risolvere alcune cose, potevano passare più tempo insieme. «Ci sono giorni in cui praticamente non ci vediamo nemmeno» si lamentava Rosa. «Non sai quanto sono contenta» disse Tina e pensò che fosse proprio ora che la loro situazione economica migliorasse un po’, dopo che avevano vissuto per tanti anni nella miseria. Un’altra buona notizia era che un’impiegata della fabbrica dove lavorava Santiago stava per sposarsi e avrebbe lasciato libero il posto. «Santiago dice che potrebbe mettere una buona parola per te. Non sarebbe stupendo?» chiese Rosa. Tina era entusiasta all’idea, perché aveva sempre desiderato quel lavoro. Eppure non poté evitare un dispiacere al pensiero che se otteneva il posto di impiegata era perché quella donna lo lasciava per sposarsi. Tutti avevano la possibilità di sposarsi, migliaia di ragazze si sposavano ogni giorno, tranne lei. Ma Rosa non le diede il tempo di rimuginare sulla sua cattiva sorte perché cominciò a parlare d’altro. Mentre preparavano la cena, Tina si sorprese a fare dei progetti: sicuramente avrebbe guadagnato più soldi, magari avrebbe potuto affittare un piccolo appartamento vicino a Rosa e a Santiago. Che meraviglia lasciare per sempre quell’orribile stanza e non vedere mai più il Barba Azul, quella sordida bettola che tanto la turbava e che disprezzava con tutta l’anima; un lavoro diverso in cui non avrebbe dovuto dedicarsi solo a un compito come nella fabbrica di maglioni, dove le toccaper ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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va fare cento maniche o cento colli senza avere nemmeno il tempo per respirare… Mentre cenavano Rosa commentò che presto sarebbe arrivato il freddo e i bambini non avevano più nulla di decente da mettersi. Chiese a Tina se lei avrebbe potuto procurarle, alla fabbrica, qualche maglione a buon prezzo. Tina assicurò di sì, dicendo che le operaie avevano un discreto sconto. Si misero allora a prendere le misure ai ragazzi e a scegliere i colori più adatti. Questi si entusiasmarono all’idea di avere un maglione nuovo e scelsero dei colori sui quali Rosa non era d’accordo. Lei comprava sempre i vestiti pensando che li avrebbero usati a lungo e non voleva che paressero dei bifolchi. Ebbero un bel daffare a mettere a letto i bambini e quando ci riuscirono sparecchiarono e si sedettero a chiacchierare ancora un po’: Rosa sentiva un radiodramma, due volte alla settimana, era una storia molto bella e interessante, solo le spiaceva perché a volte se ne perdeva una puntata, ma riusciva comunque a seguire la storia perché ogni volta all’inizio del programma facevano un piccolo riassunto dei capitoli precedenti. Era davvero molto commovente e spesso faceva piangere; perfino a lei, che non piangeva quasi mai, scendevano le lacrime ascoltando Anita de Montemar. Anche Tina ne aveva ascoltato un capitolo, un giorno che il responsabile del laboratorio era dovuto uscire e aveva lasciato la radio accesa. Di solito la sintonizzava sui programmi di baseball o altre cose che lei non capiva, cosa ci poteva fare? Poiché erano già passate le nove di sera e non c’era Santiago ad accompagnarla a prendere l’autobus, Tina decise di andarsene prima che si facesse troppo tardi. Quando arrivò all’angolo ebbe la seconda sorpresa di quel giorno: l’uomo che l’aveva seguita nel pomeriggio era ancora lì. Non l’aveva visto in faccia ma ricordava il colore del vestito e la statura. 89
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Pensò di tornare a casa di Rosa, ma proprio in quel momento vide arrivare il suo autobus, quindi ci salì senza esitazioni. Credeva che l’uomo non avesse avuto il tempo di seguirla e cominciò a tranquillizzarsi. L’autobus fece una curva brusca e Tina fu sul punto di cadere. Qualcuno la sostenne, appena in tempo. Stava per ringraziare quando vide con spavento che era di nuovo quell’uomo e si rimangiò le parole. Lui si limitò a sorridere. Allora Tina lo vide in faccia: «È piuttosto giovane e niente affatto sgradevole». Anzi, le parve attraente e quasi desiderò che, invece di essere uno sconosciuto, fosse un amico di Santiago e Rosa che lei avesse potuto incontrare in un’altra circostanza… «Guarda, Tina, ti presento X, è il mio migliore amico… X dice che è molto interessato a te, vedessi che bravo ragazzo è… dice X che quando gli aumenteranno lo stipendio ti chiederà di sposarlo, ti assicuro che sarebbe come vincere alla lotteria, ce ne sono pochi di ragazzi così…». Qualcuno chiese di una fermata e il bigliettaio disse che era la prossima. Allora Tina si rese conto che aveva preso l’autobus sbagliato. Nella fretta di salire non aveva verificato che fosse davvero il suo. Il sangue prese a pulsarle nelle tempie e le gambe le si afflosciarono. Frastornata da quello che le stava succedendo, scese dall’autobus. «L’ho aspettata per tutta la sera» disse lui «me lo sentivo che sarebbe uscita di nuovo». Tina guardava in tutte le direzioni cercando di orientarsi e capire dove avrebbe trovato un autobus che la portasse fino a casa. «Vede, è destino» disse lui, compiaciuto. Quelle parole furono come un fulmine che d’improvviso cadde su di lei. Sentì di aver imboccato una strada senza uscita e la sua mente cominciò a girare come una trottola troppo veloce. Ricordò d’un tratto tutte le storie che aveva letto sui giornali: cominciavano tutte così, era sempre la stesper ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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sa cosa, proprio come era accaduto a quella povera ragazza, si chiamava Celia, non era molto che l’aveva letto, lo ricordava molto bene… Si fermò all’angolo senza saper cosa fare né dove andare. Non si vedeva da nessuna parte una fermata dell’autobus. Di fronte c’era una gelateria molto frequentata, le venne in mente di chiedere lì. Allora l’uomo disse: «Le offro qualcosa da bere, le va?». Lei sapeva che era troppo tardi per provare a scappare, nessuno riusciva mai a sfuggire al proprio destino. Poteva tentare mille cose e sarebbe stato tutto inutile. A volte, il destino si presentava di colpo, come la morte stessa, che un giorno arriva e non c’è più nulla da fare. Non poteva far altro che rassegnarsi alla sua triste fine. Convinta di quella fatalità si lasciò condurre docilmente. Si sedettero all’unico tavolo libero e lui ordinò due bottigliette di Coca-Cola. C’era molta gente e molto rumore, voci, risate, il jukebox a tutto volume. Tina era completamente stordita e molto spaventata. «Non so ancora come si chiama» disse lui «io mi chiamo Juan Arroyo». «Cristina Reyes» disse Tina, e subito si rimproverò per non avergli dato un altro nome, ma dopotutto, che cosa importava? «Cristina, Tina, proprio un bel nome, mi piace» assicurò sorridendo il ragazzo. Quando sorrise gli si illuminarono gli occhi. Aveva degli occhi neri un po’ a mandorla. «Senz’altro ha un bello sguardo» non riuscì a evitare di pensare Tina. La cameriera arrivò con le bibite. Mentre lui le versava in due bicchieri, lei osservava con attenzione le bottigliette e il liquido. Sapeva bene, l’aveva letto sui giornali, che la sua bibita poteva essere drogata, e visto che avevano portato le bottiglie già stappate era probabile… «Mi parli di lei, Tina, che cosa fa nella vita?» chiese il ra91
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gazzo mostrando un interesse che lei sapeva essere completamente falso. Tina cominciò a raccontare, con grande difficoltà, che lavorava in una fabbrica di maglioni. Parlava con riluttanza, la paura le aveva seccato la gola. Bevve un poco di Coca-Cola, solo un sorsino, giusto per inumidirsi la bocca e cercare di capire se aveva un sapore strano, ma non notò nulla di insolito e si tranquillizzò. Potevano comunque averci messo qualcosa che non aveva sapore. A Celia era successo proprio così: le avevano sciolto qualche sostanza nel drink e la poveretta non si era accorta di nulla fino al giorno dopo, quando si era svegliata… Il ragazzo insisteva a chiedere altre cose su di lei: la sua famiglia, con chi viveva, che cosa le piaceva fare, dove era solita andare… Tina cominciò a riesumare i suoi morti e a inventarsi sorelle e fratelli. Non poteva dirgli che viveva da sola e non aveva nessuno che avrebbe potuto proteggerla e salvarla. Se lui l’avesse scoperto sarebbe stato capace di entrare nella sua stanza e poi… Una povera ragazza era morta soffocata con i suoi stessi cuscini, nella sua stessa casa, dopo aver… «Che cosa terribile!» pensò Tina, mentre un rivolo d’acqua gelida le scivolava lungo la schiena, facendola rabbrividire. Lui stava raccontando che lavorava in una tipografia, cosa che non era, naturalmente, il suo sogno ma poiché il lavoro era poco e difficile da trovare, bisognava accontentarsi. Era arrivato in città un anno prima, da Ciudad Juárez, dove viveva tutta la sua famiglia. Aveva osato andarsene da lì pensando che nella capitale avrebbe trovato più opportunità. Viveva a casa di alcuni lontani parenti e ci tornava solo per dormire, e gli mancavano casa sua e la sua famiglia… Tina lo ascoltava sapendo in anticipo che tutto quel che diceva o poteva dire era falso. Una lezione imparata a memoria e messa in pratica per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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molte volte, Dio solo sa quante. Tutti i tipi come lui si comportavano nello stesso modo. Si fingevano dei santarellini e mentivano fino all’ultimo, per poi smascherarsi con estremo cinismo. Lei non meritava una fine così crudele: era già abbastanza dura lottare con la povertà e la solitudine, non poteva ricevere un ulteriore castigo. D’un tratto si intristì ed ebbe una gran voglia di mettersi a piangere, si chiedeva disperatamente – e senza trovare risposta – che cosa aveva fatto, perché o in che modo veniva castigata. Al tavolo accanto c’erano tre coppie. Senza volere, Tina vide una donna dai capelli biondi tinti che gettava le braccia al collo dell’uomo accanto a lei e davanti a tutti cominciava a baciarlo con gran sfacciataggine. Tina guardò immediatamente altrove, sentendosi arrossire perfino i capelli. Erano uguali alle ragazze che vedeva uscire dal Barba Azul, non riusciva a capirle né a giustificarle, lei era così diversa, credeva nell’amore, nelle mani intrecciate, nelle notti di luna piena, negli sguardi e nelle parole dolci; per molto tempo aveva immaginato come sarebbe stato il suo vestito bianco, i fiori che avrebbero addobbato la chiesa il giorno del suo matrimonio, e quale musica avrebbero suonato… D’un tratto fu colta da una paura terribile, mortale, al pensiero delle ore a seguire: dove l’avrebbe portata? Come avrebbe cominciato? Se lo chiedeva piena d’angoscia, chiusa in una strada senza uscita. «Vuole qualcos’altro da bere, Tina?» chiese lui. «No, grazie» disse lei. «Davvero, senza fare complimenti» insisté lui. Lei rifiutò di nuovo ma poi pensò che le sarebbe convenuto rimanere il più a lungo possibile in gelateria, perché lì non poteva capitarle nulla di male. Ordinarono un’altra bibita e lui continuò a chiacchierare e a farle domande, quasi tirandole fuori le parole di bocca. Parlava con una voce suadente e aggraziata, come se la accarezzasse con le sue parole. «De93
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v’essere molto esperto» e una sorta di formicolio ardente le correva per tutto il corpo ogni volta che pensava: come sarà l’inizio? Era di quelli che picchiavano brutalmente le donne? O forse senza grandi spiegazioni si sarebbe gettato su di lei strappandole i vestiti? C’erano anche quelli che prima uccidevano la loro preda e poi… Sentì una vampata di calore, tirò fuori il fazzoletto e lo usò per sventolarsi, poi si frizionò la fronte. Lui le chiese se stava poco bene e Tina riuscì a malapena a rispondergli di no, solo che lì dentro faceva molto caldo. Allora il ragazzo pagò il conto e uscirono dalla gelateria. «Dovremo prendere un taxi» disse lui «a quest’ora gli autobus non passano più». Anche questo succedeva sempre, l’aveva letto sui giornali, erano sempre in combutta con un tassista, magari voleva portarla fuori città, in uno di quei luoghi sinistri… così era capitato a quella poveretta di Celia… Lui suggerì di raggiungere un incrocio, perché lì i taxi passavano sempre, a qualsiasi ora. E Tina continuava a convincersi che lì doveva trovarsi il tassista complice. Eppure si lasciò trascinare, convinta com’era che quello fosse il suo destino e come tale doveva compiersi anche se lei faceva resistenza. Ed effettivamente, appena arrivarono, lui fermò un taxi. Quando il ragazzo chiese il suo indirizzo, lei glielo diede senza esitare, sicura che tanto l’avrebbe portata completamente da un’altra parte. Si sistemò sul sedile, facendosi piccola piccola in un angolo, e lo osservò con la coda dell’occhio: il poveretto credeva di ingannarla, come se lei non capisse quel che stava succedendo. In diverse occasioni ebbe quasi voglia di ridere, ma quando si rendeva conto che la fine si stava avvicinando, aveva la sensazione che il sostegno della corda su cui si teneva in equilibrio le venisse a mancare, e lei cadesse nel vuoto, precipitando di colpo nell’oscurità. per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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«Che bella serata!» commentò il ragazzo avvicinandosi a Tina. «Sono sicuro che è la compagnia a farmela vedere così. Non fa per niente freddo. E ha visto la luna com’è grande?» disse, prendendo la mano di Tina tra le sue. La mano di Tina era fredda e umida, quelle del ragazzo calde e secche. Tina guardava fuori, verso l’alto, chiedendosi se avrebbe mai visto un’altra serata, un’altra luna come quella, se ne sarebbe uscita ancora viva, anche se dopotutto non cambiava granché: se lui non l’avesse uccisa, comunque lei non sarebbe sopravvissuta all’accaduto. Sarebbe morta di vergogna, incapace di alzare di nuovo gli occhi, sicuramente sarebbe finita sui giornali, come tante altre ragazze a cui era toccata la stessa sorte; e come poteva guardare in faccia Rosa e Santiago, allora, come poteva baciare i bambini… «Non stavo così bene da tanto tempo. Lei assomiglia a una ragazza di Ciudad Juárez, eravamo fidanzati, io l’amavo molto e ancora oggi penso spesso a lei. Ho avuto sfortuna, la famiglia non le ha permesso di sposarmi e ci siamo lasciati. Poi lei si è sposata con un altro che se l’è portata via e non l’ho più rivista». Lei si disse che era normale che i genitori si fossero opposti, sicuramente lei era una brava ragazza e lui l’aveva… «Adoro i suoi occhi: sono grandi e belli come quelli di lei» diceva il ragazzo stringendole la mano. Tina si sentì invadere da un sentimento strano e sconosciuto, d’improvviso si accorse che il ragazzo le aveva preso la mano e gliela stringeva, la ritirò piena di vergogna, seccata con se stessa per quella noncuranza imperdonabile. Cercò di consolarsi pensando che lei non aveva alcuna colpa; non l’aveva mai incoraggiato, era stata seria e responsabile come sempre, era la fatalità, solo questo, era vittima di un destino implacabile, ma… come avrebbe cominciato? Si vide spogliata dei propri vestiti, in una stanza sordida, alla sua mer95
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cé e con lui che si avvicinava, si avvicinava sempre di più… L’onda calda della vergogna la travolse e al tempo stesso il freddo della nudità la fece rabbrividire e si fece ancor più piccola sul sedile dell’automobile, come un animaletto acquattato per la paura. Lui continuava a parlare di quanto l’avesse colpito trovare in lei di nuovo gli stessi occhi. A un certo punto, quando lei era salita sull’autobus, aveva creduto di rivedere la sua fidanzata di un tempo. Ma era molto meglio così, era contentissimo di conoscere Tina, di averla incontrata, in un periodo in cui si sentiva così solo e annoiato, senza nessuno con cui uscire, né con cui chiacchierare, e diceva altre cose che Tina ascoltava a malapena, avendo la mente ora affollata dai pensieri peggiori. Il momento era ormai prossimo e lei era in preda al terrore. Non aveva nemmeno la possibilità di chiedere aiuto e scappare. Si vergognava di tutto: che cosa avrebbero pensato di lei? Forse che se l’era cercata, magari credevano che fosse «una delle tante» e così l’avrebbero trattata… Come dovevano essere terribili gli uffici del commissariato, i poliziotti stessi, le domande interminabili e mortificanti, e lui che cosa avrebbe detto? I confronti, loro due uno di fronte all’altra pieni d’odio, lei bersaglio di tutti gli sguardi, i fotografi che la importunavano, la visita medica, lei completamente nuda su un tavolo freddo, legata polsi e caviglie e tutti come avvoltoi su di lei, mani, occhi, in lei, dentro, fuori, da tutte le parti, e lei nuda di fronte a cento occhi che la divoravano, no, no, qualunque cosa fosse successa era meglio soffrire in solitudine, in silenzio, senza che nessun altro sapesse… L’auto si fermò. Il ragazzo pagò e scesero. Il momento era arrivato e le girava la testa, si sentiva come trascinata in un enorme vortice di pensieri e immagini che si accalcavano e si succedevano le une alle altre con la rapidità per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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di una pellicola cinematografica d’un tratto srotolata vertiginosamente. «È qui che vive, Tina?» chiese lui. Tina alzò gli occhi, che teneva fissi a terra, e guardò l’edificio dove viveva: ma non era possibile, non poteva essere, perché lui l’aveva portata da un’altra parte, senz’altro erano i suoi occhi a ingannarla, le facevano vedere qualcosa che non era vero, la sua stanza al terzo piano di un palazzo miserabile, dove lei sarebbe voluta tornare come ogni sera, quello che più desiderava, ma che non era… «Mi permette di venirla a prendere al lavoro, domani?» disse il ragazzo. Ma Tina non lo sentiva più. Ormai aveva oltrepassato la soglia del proprio destino, era entrata nella porta di una sordida stanza d’hotel e si precipitava correndo giù per la strada in una frenetica corsa disperata scontrandosi con le persone inciampando su tutti come corpi soli nell’oscurità che si incontrano e si incrociano si uniscono si separano si uniscono di nuovo ansimanti voraci insaziabili possiedono e sono posseduti scendendo e salendo cavalcando in una corsa cieca verso il finale con un crollo un cadere di colpo nel nulla fuori dal tempo e dallo spazio.
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Il funerale a Julio e Aurora Cortázar Si risvegliò in ospedale, in una stanza piccola dove tutto era bianco e immacolato, tra bombole di ossigeno e sacche di liquido endovenoso, senza riuscire a muoversi né a parlare, senza il permesso di ricevere visite. Con la consapevolezza, arrivò anche la disperazione di trovarsi ricoverato e in condizioni tanto gravi. Ogni tentativo di comunicare con il suo ufficio, di vedere la segretaria, fu inutile. I medici e le infermiere lo supplicavano in continuazione di riposare e scordarsi, almeno per un po’, di ogni cosa, non doveva preoccuparsi di nulla. «La sua salute viene al primo posto, si stenda qui, riposi, riposi, cerchi di dormire, di non pensare…». Ma come poteva non pensare al suo ufficio abbandonato d’improvviso senza istruzioni, senza alcuna direzione? Come non preoccuparsi dei suoi affari e di tutte le questioni che aveva in sospeso? Aveva lasciato così tante cose da risolvere il giorno successivo. E la povera Raquel, che non sapeva nulla… Sua moglie e i suoi figli gli facevano compagnia in silenzio. Si davano il turno al suo capezzale, ma non gli permettevano di parlare né di muoversi. «Va tutto bene in ufficio, non preoccuparti, riposa tranquillo». Lui chiudeva per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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gli occhi e faceva finta di dormire, dava mentalmente ordini alla sua segretaria, tornava con la mente ai suoi affari, si disperava. Per la prima volta nella vita sentiva di avere le mani legate, dipendeva in tutto e per tutto dalla volontà di altri, e non poteva ribellarsi perché sapeva che provarci sarebbe stato inutile. Si chiedeva anche come i suoi amici avessero preso la notizia della malattia, quali erano stati i commenti. A volte, un po’ insonnolito a forza di pensare e ripensare, scambiava il suono dell’ossigeno con quello del suo registratore, e gli pareva di essere in ufficio a dettare qualcosa come faceva di solito, ogni mattina appena arrivato; dettava a lungo finché, d’improvviso e senza bussare, la sua segretaria entrava con un’enorme siringa e gli faceva una crudele iniezione; allora apriva gli occhi e si trovava di nuovo lì, nella sua stanza d’ospedale. Tutto era cominciato in modo così sciocco che non gli aveva dato la minima importanza. Quel dolorino così persistente al braccio destro l’aveva attribuito a un semplice reumatismo dovuto alla costante umidità, alla vita sedentaria, forse ai bagordi troppo frequenti… forse. D’un tratto aveva sentito che qualcosa dentro gli si rompeva, o si apriva, che scoppiava, e un dolore mortale, rosso, come una pugnalata di fuoco che lo attraversava; e poi la caduta, senza grida, cadeva sempre più giù, sempre più nero, più giù e più nero, senza fine, senz’aria, nelle grinfie di una muta asfissia. Dopo qualche tempo, quasi un mese, gli permisero di tornare a casa, a trascorrere parte della giornata in poltrona e parte sdraiato a letto. Giorni eterni senza fare nulla, passati solo a leggere il giornale, concessione per la quale aveva dovuto insistere a lungo. Contava le ore, i minuti, in attesa che la mattina finisse e giungesse il pomeriggio, poi la notte, un altro giorno, e un altro, e così via… Aspettava in preda a un’autentica angoscia l’arrivo di un amico con cui chiacchie99
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rare un poco. Quasi ogni giorno chiedeva ai medici, con netta impazienza, quando sarebbe stato meglio, quando avrebbe potuto riprendere la sua vita di sempre. «Sta andando bene, deve solo aspettare un altro po’». «Deve avere pazienza, queste cose sono molto serie e non si possono sistemare in fretta e furia come uno vorrebbe. Ci aiuti anche lei…». E così andava sempre. Non aveva mai pensato che gli sarebbe successa una cosa del genere, a lui che era sempre stato un uomo così sano e attivo. Che dovesse d’improvviso interrompere il ritmo della propria vita e ritrovarsi inchiodato in poltrona, dentro casa, dove da anni non tornava se non per dormire – quasi sempre a notte fonda – o a mangiare di tanto in tanto (per i compleanni dei figli e qualche domenica che passava con loro). Ormai parlava con la moglie solo il minimo indispensabile, di cose che avevano a che fare con i ragazzi e che era necessario discutere o risolvere di comune accordo, o quando avevano qualche occasione di socialità, dovevano andare a una festa o invitare gente a casa. L’allontanamento tra loro risaliva a pochi anni dopo il matrimonio. Lui non riusciva a legarsi a una sola donna, era troppo irrequieto, forse troppo insoddisfatto. Lei non lo aveva capito. Rimproveri, scenate sgradevoli, musi lunghi… finché lui non aveva preso a trascurarla completamente portando avanti la propria vita come preferiva. Non c’era stato un divorzio; sua moglie non ammetteva soluzioni anticattoliche, e si erano limitati a essere genitori per i loro figli e a mantenere le apparenze. Era diventata un’estranea per lui, a tal punto che ormai non sapeva più di cosa parlarle, cosa dirle. Ora lei lo accudiva con evidente sollecitudine, cosa che lui non sapeva interpretare: era per quel poco di affetto rimasto, o per senso del dovere, o forse per compassione, vedendolo stare così male? In ogni caso, la situazione lo metteva a disagio, ma non perché provasse rimorsi di alcun genere (non aveva mai avuto rimorsi per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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in vita sua), solo il suo ego contava, gli altri avevano una funzione solo in relazione ai suoi desideri. Pochi amici gli facevano visita. I più intimi: «Come ti senti?» «Come va l’umore?» «Oggi ti vedo molto bene» «Bisogna farsi coraggio, farsi forza» «Presto starai meglio» «Hai proprio un bell’aspetto, non sembri malato» (allora sentiva il desiderio incontrollabile di gridare che non era il suo aspetto il problema, come potevano essere così imbecilli?!), ma si conteneva; lo dicevano sicuramente in buona fede, e poi non era giusto mettersi a fare il maleducato con chi era lì per distrarlo e chiacchierare un po’ con lui. Quei momenti con i suoi amici e il tempo che passava con i figli quando tornavano da scuola erano la sua unica distrazione. Tutti i giorni aspettava il momento in cui sua moglie si infilava sotto la doccia per alzare il telefono e parlare a voce molto bassa con Raquel. A volte lei gli rispondeva al primo squillo; altre volte tardava un po’ di più; altre ancora non rispondeva, e allora immaginava scene che erano per lui un’immensa tortura: la vedeva a letto, in totale abbandono, ancora in compagnia di qualcun altro, non sentiva nemmeno il telefono squillare, non si ricordava più di lui, di tutte le sue promesse… In quei momenti voleva scagliare via il telefono e le coperte che gli scaldavano le gambe e mettersi a correre, arrivare il prima possibile, sorprenderla (le donne erano tutte uguali, bugiarde, false, traditrici, «chi si è visto, si è visto», miserabili, vendute, ciniche, nullità, ma nessuno poteva prendersi gioco di lui, l’avrebbe rimessa al suo posto, l’avrebbe buttata per strada, che il suo posto era quello, le avrebbe insegnato come comportarsi, come essere rispettabile, avrebbe trovato una ragazza migliore di lei e gliel’avrebbe sbandierata davanti, avrebbe visto, la cara Raquel, avrebbe visto di cosa era capace…). Pallido come un morto e tutto tremante, chiedeva gridando un po’ d’acqua e 101
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il suo tranquillante. La volta dopo lei rispondeva subito al telefono e lui dimenticava ogni cosa. I giorni passavano senza alcun miglioramento. «Deve avere pazienza, ci vuole tempo con queste cose, gliel’abbiamo già detto, deve aspettare ancora un po’». Ma lui cominciò a notare dettagli piuttosto evidenti: le medicine che diminuivano o venivano sostituite con semplici calmanti; poche radiografie, meno elettrocardiogrammi; le visite dei medici sempre più brevi e senza commenti; il permesso di vedere la sua segretaria e gestire con il suo aiuto le questioni più urgenti; la notevole preoccupazione che vedeva affacciarsi sul volto di sua moglie e dei suoi figli; il loro affannarsi per non lasciarlo mai solo, i loro sguardi pieni di tenerezza… Da qualche giorno sua moglie lasciava aperta la porta della stanza, comunicante con la sua, e spesso durante la notte si affacciava con il pretesto di vedere se avesse bisogno di qualcosa. Una sera, in preda all’insonnia, la sentì singhiozzare. Allora non ebbe più dubbi, né conservò alcuna speranza. Capì tutto: non aveva scampo e la fine era probabilmente vicina. Quindi sentì un’altra fitta lacerante, ancor più profonda di quella dell’infarto. Il dolore sconfinato e senza speranza di chi scopre d’un tratto la propria sentenza e non può più aspettarsi nulla se non la morte; di chi deve lasciare ogni cosa quando meno se lo aspetta, quando tutto era organizzato per la vita, per il benessere fisico ed economico; quando era riuscito a gettare le basi per una situazione invidiabile; quando aveva tre intelligenti e splendidi figli sul punto di diventare uomini; quando aveva trovato una donna come Raquel. La morte non era mai stata nei suoi piani né nei suoi pensieri. Nemmeno quando era morto qualche amico o parente aveva mai pensato alla propria sparizione; si sentiva pieno di vita e di energie. Aveva tanti progetti, tanti affari in programma, voleva così tante cose! Desiderò ardentemenper ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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te, con tutta l’anima, di trovarsi in un altro giorno, seduto alla scrivania, mentre dettava cose al registratore, o correva da una parte all’altra, correva contro il tempo. Oh, se solo tutto fosse stato un orribile incubo! Ma la cosa peggiore era che non poteva ingannare se stesso. Aveva notato che giorno dopo giorno il corpo gli rispondeva sempre meno, che la fatica cominciava a essere opprimente, la respirazione più agitata. Quella scoperta lo fece sprofondare in una cupa depressione. Passò vari giorni così, senza parlare, senza voler sapere come andavano gli affari, senza interessarsi a nulla. Poi, quasi senza rendersene conto, cominciò, dopo aver tanto pensato e ripensato alla propria morte, a farci l’abitudine, ad adattarsi all’idea. A volte si sentiva quasi fortunato perché sapeva che la sua fine era ormai prossima e che a lui non sarebbe successo come a quei poveri cristi che muoiono all’improvviso e non hanno nemmeno il tempo di sentirsi dire «Che Dio ti aiuti»; quelli che muoiono dormendo e passano da un sonno all’altro, senza poter lasciare le cose in ordine. Era meglio saperlo, e organizzare tutto quanto: fare correttamente testamento, e anche – perché no? – lasciare disposizioni per il funerale. Voleva essere seppellito, in primo luogo, come meritava un uomo che aveva lavorato tutta la vita fino a ottenere una rispettabile posizione economica e sociale e, in secondo luogo, come piaceva a lui e non secondo il gusto e le convenienze degli altri. «Ormai non fa differenza, perché tanta ostentazione? È una vanità che non ha più alcun senso» erano soliti dire i familiari dei morti. Ma per chi si lasciava tutto alle spalle, certo che aveva senso sapere che le ultime due o tre cose che lo riguardavano fossero fatte a modo suo. Cominciò a pensare a quale sarebbe stato il cimitero più adatto. Il Cimitero Inglese aveva fama di essere il più distinto e quindi era probabilmente anche il più costoso. Ci era 103
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già stato, per il funerale di due amici, e non gli era sembrato niente male, né deprimente; sembrava piuttosto un parco, con molte statue e praticelli ben curati. Eppure vi si respirava una certa freddezza prestabilita: tutto era simmetrico, ordinato, esatto, come la mentalità degli inglesi e, a essere sincero con se stesso, gli inglesi non gli avevano mai suscitato simpatia, con la loro eterna maschera di serenità, così metodici, così puntuali, così pieni di punti e virgola. Aveva sempre faticato a capirli tutte le volte che aveva fatto affari con loro; erano minuziosi, precisissimi e così in gamba con la finanza da infastidirlo non poco. Lui, così risoluto, che molto spesso negli affari si lasciava guidare da una semplice intuizione, che quando prendeva una decisione quella era sempre la sua ultima parola, che chiudeva un affare e passava immediatamente ad altro, non sopportava le persone che tornavano al principio delle questioni, che facevano mille osservazioni, stabilivano clausole, imponevano migliaia di condizioni, erano davvero una seccatura! Meglio pensare a un altro cimitero. Si ricordò allora del Jardín, dov’era sepolta sua zia Matilde. Non c’erano dubbi, quello era il più bello: fuori città, in montagna, pieno di luce, di aria, di sole (certo, lui non aveva idea di come fosse la lapide di sua zia; non aveva tempo per occuparsi di quelle cose, e non per mancanza di volontà, ovvio che no! Sua moglie però gli aveva raccontato che era venuta piuttosto bene). Lì era sepolto anche Pepe Antúnez, suo grande amico, e grande compagno di bevute! Non si piegava mai, resisteva sempre fino alla fine. E quando era già allegrotto, gli piaceva ascoltare le canzoni di Guty Cárdenas, e per quanto gli dicessero di smettere di bere, lui non ci aveva mai badato. «Se non fosse per questi» diceva sollevando il bicchiere «e altre due o tre cose, quanto sarebbe noiosa la vita!». E così di quello era morto. Nemmeno lui era solito lesinare con l’alcol: qualche whisky per stimolare per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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l’appetito, una bottiglia di vino a pranzo, poi un cognac o un liquore e, se non fosse stato perché aveva troppi affari da gestire e gli restava poco tempo, forse avrebbe fatto la stessa fine del povero Pepe… Pensò anche al Panteón Francés. «È senz’altro di prima categoria, non c’è dubbio, ma è quello più simile a un cimitero, così austero e deprimente. È strano che lo sia, visto che i francesi sembrano sempre così pieni di vita e di gioia… soprattutto le donne… Renée, Dennise, Viviàne…». E sorrise compiaciuto, «Splendide ragazze!». Quando era sulla quarantina credeva che avere un’amante francese fosse molto in voga e suscitasse una sorta di invidia negli amici, poiché si dice che le francesi e le italiane conoscano tutti i segreti dell’alcova. Poi, con gli anni e l’esperienza, imparò che l’ardore e la sapienza erotica non sono una caratteristica razziale, ma esclusivamente personale. All’epoca aveva avuto due amanti francesi. Viviàne non era stata nulla di serio. Renée invece gliel’avevano presentata a un cocktail dell’ambasciata francese: «Sono appena arrivata… Sono molto confusa… Non so da che parte cominciare con i miei studi, lei capisce, in un paese sconosciuto…». «Quello di cui ha bisogno è un padrino che sappia orientarla, come una specie di tutore…». Lo sguardo con cui lei accettò quell’offerta fu così significativo che lui comprese fin da subito di poter aspirare a essere qualcosa più di un semplice tutore. E così fu: quasi senza preamboli e senza girarci molto intorno cominciarono a frequentarsi. Con la stessa naturalezza con cui certe donne fanno un bagno o si lavano i denti, quelle ragazze andavano a letto. Le aveva preso un appartamentino non grande ma molto piacevole e accogliente: un piccolo soggiorno con mobile bar, un cucinotto e un bagno. Nella stanza c’era un divano rivestito di velluto rosso che serviva da seduta e da letto, un tavolo e due librerie. Renée ci portò solo alcuni 105
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libri, una macchina da scrivere e i suoi oggetti personali, e in più lui le regalò un giradischi perché potesse ascoltare la musica mentre studiava. Non cucinava mai a casa, diceva che con tutte quelle lezioni non aveva tempo e si lamentava sempre di quanto mangiava male, in posti da quattro soldi. I suoi fratelli studiavano ancora; il padre, un avvocato già vecchio, praticava ormai ben poco, perciò da casa le inviavano a malapena quello che le serviva per le spese. Lui non sopportava di vederla vivere così e le regalò una tessera del Diners’ Club perché potesse mangiare in buoni ristoranti. Poco tempo dopo dovette spostarla in un altro appartamento più grande e, ovviamente, più costoso, perché si lamentava in continuazione che quel posto era troppo piccolo, che le mancava l’aria, che i vicini facevano molto rumore e non la lasciavano lavorare… Poi dovette comprarle una macchina, perché perdeva un sacco di tempo ad andare e venire dall’università, gli autobus erano sempre stracolmi di persone puzzolenti e di cafoni schifosi che la importunavano con i loro commenti, al punto che a volte aveva addirittura dovuto chiedere aiuto, e certo lui non poteva permettere che accadessero cose del genere! Renée gli piaceva molto, certo, ma non aveva mai provato per lei un’autentica passione. La relazione era durata circa un anno. Poi lei aveva cominciato a non farsi più vedere molto spesso. «Ho un sacco da studiare, mi hanno bocciata in una materia, e voglio ridare l’esame da non frequentante, mi aiuta un compagno…». Quando lei doveva studiare, cosa che succedeva quasi ogni sera, lui passava a portarle una scatola di cioccolatini o qualcosa da stuzzicare; lei apriva la porta e riceveva l’omaggio ma non gli permetteva di entrare: «Con te qui non riuscirei a studiare, e devo assolutamente passare questo esame». Gli dava un bacio rapido e chiudeva la porta con un au revoir chéri. Lui allora se ne andava un po’ infastidito in cerca di qualche amico con cui vedere un per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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varietà, o prendere qualcosa da bere prima di tornare a casa a dormire… Quel giorno le portò i cioccolatini come sempre. L’aveva già salutata, se ne stava andando, quando si accorse di avere una scarpa slacciata e si chinò per allacciarsela, quasi incollato alla porta dell’appartamento. Allora sentì le loro risate e qualche commento: «Ed ecco che abbiamo i nostri cioccolatini. Povero vecchio idiota!» diceva il ragazzo. Poi altre risate, e poi… Cosa non aveva sentito! Tutto il sangue gli era salito d’un tratto alla testa, voleva aprire la porta di colpo per sorprenderli, picchiare, gridare; e non era innamorato, era una questione di orgoglio, di vanità, non aveva mai subito un’offesa simile. Che tiro mancino gli aveva giocato la francesina! Accese una sigaretta e diede qualche boccata. Non ne valeva la pena, aveva riflettuto d’un tratto, avrebbe solo fatto la figura del ridicolo, e se poi si faceva prendere la mano e finiva per uccidere il ragazzo, allora che cosa sarebbe successo? Che scandalo sui giornali! Un uomo nella sua posizione ingannato da uno studentello, faceva ridere! Gli amici si sarebbero presi gioco di lui per il resto della vita, già lo sapeva. E poi, tutta la sua famiglia l’avrebbe scoperto, i clienti che lo consideravano una persona così seria e onorevole… No, non aveva senso compromettersi per una cosa del genere. Prese l’ascensore e uscì dal palazzo, parcheggiò la macchina a una certa distanza e restò in attesa fumando una sigaretta dopo l’altra. Voleva sapere a che ora sarebbe uscito il ragazzo, per essere completamente sicuro. Aspettò fino alle sette del mattino; lo vide uscire sistemandosi i capelli, sbadigliando… In seguito lei l’aveva cercato molte volte. Lo chiamava in ufficio, lo aspettava nell’ingresso, lo cercava nei soliti bar. Lui non si fece mai più trovare, Renée non gli interessava più: ce n’erano migliaia come lei, o anche meglio. Dennise, poi, non aveva significato nulla, era andato a letto con lei due o tre volte, e ne aveva d’avanzo, visto che tutti i 107
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suoi amici e praticamente mezza città erano passati dal suo letto; era molto noiosa e ossessionata dal matrimonio, pronta a sposarsi con chiunque avesse acconsentito, e poi era alta alta e magrina, non aveva nulla… Alla fine si decise per il Cementerio Jardín, sarebbe rimasto vicino a sua zia Matilde. Dopotutto, lei era stata come una seconda madre per lui, l’aveva preso con sé quando era rimasto orfano assicurandogli affetto e protezione. Avrebbe lasciato indicazioni per una lapide elegante e sobria: di marmo, con il nome e la data. Avrebbe comprato una tomba per tutta la famiglia; per farci trasferire anche la zia Matilde e i suoi fratelli. Comprare uno spazio aveva i suoi vantaggi: come investimento non era male, perché i terreni aumentano sempre di prezzo, perfino nei cimiteri; e poi in quel modo assicurava anche ai suoi figli e a sua moglie un posto dove essere seppelliti, visto che con tutta probabilità avrebbero scialacquato l’intera eredità che avrebbe lasciato loro: aveva visto così tanti casi di notevoli patrimoni che venivano dolorosamente dilapidati! La sua bara sarebbe stata in metallo, grande e molto resistente; non voleva che gli succedesse come a Pancho Rocha: quando era stato alla sua veglia aveva avuto la spiacevole impressione che fosse stato messo in una cassa troppo piccola. Avrebbe chiesto un carro funebre tra i più eleganti e costosi; voleva che la gente, vedendolo passare, dicesse: dev’essere stata una persona molto importante e molto ricca. Quanto all’agenzia di pompe funebri non c’erano dubbi: Gayosso era la migliore di tutte. Quelle disposizioni sarebbero state incluse nel testamento che aveva intenzione di consegnare al suo avvocato e che doveva essere aperto subito dopo la sua morte per dare alla famiglia il tempo di esaudire i suoi ultimi desideri.
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Le giornate cominciarono a farsi troppo corte per lui. A forza di pensare e ripensare le ore passavano senza che se ne accorgesse. Non soffriva più in attesa delle visite degli amici, al contrario, non voleva essere interrotto, né che la sua segretaria passasse per informarlo o chiedergli cose relative agli affari. La famiglia cominciò a fare congetture su cosa poteva averlo tanto cambiato dopo tutti quei giorni di avvilimento. Era visibilmente entusiasta delle cose che stava progettando; gli occhi gli brillavano di nuovo. Era sempre silenzioso, questo sì, ma sembrava occupato in qualcosa di molto importante. Arrivarono a pensare che stesse maturando uno dei grandi affari che erano il suo pane quotidiano. Per loro questo cambiamento fu un sollievo, perché la sua depressione rendeva ancor più dura la sentenza che pendeva sulla sua testa. Cominciò scrivendo il testamento, le disposizioni per il funerale le avrebbe lasciate come ultima cosa, visto che erano già completamente pianificate e risolte. Il patrimonio – immobili, azioni, soldi in contanti – sarebbe stato diviso in parti uguali tra sua moglie e i suoi tre figli; la moglie sarebbe rimasta come esecutrice testamentaria finché i ragazzi non avessero terminato l’università e fossero stati in condizione di cominciare a lavorare. A Raquel avrebbe lasciato la casa che le aveva messo a disposizione e una quantità di denaro sufficiente per fare qualche investimento. A sua sorella Sofía, alcune azioni petrolifere; la poveretta era sempre a corto di soldi, con tutti quei figli ed Emilio che quasi sempre mandava all’aria ogni investimento. Alla sua segretaria sarebbe andata la casa di Colonia del Valle: era stata così paziente con lui, così fedele e premurosa, era al suo servizio da quasi quindici anni… Suo fratello Pascual non aveva bisogno di nulla, era ricco quanto lui. Sua zia Carmen invece sì, anche se a dire il vero non aveva mai provato molto affetto per 109
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quella vecchia nevrastenica che non faceva altro che rimproverarlo e criticarlo; insomma, così era, e ormai era talmente vecchia che le sarebbe rimasto ben poco da vivere, quindi meglio se per quel tempo avesse almeno avuto tutto quello che desiderava. Ci mise diversi giorni a completare il testamento. Non voleva che qualcuno ne scoprisse il contenuto fino al momento opportuno. Scriveva nei pochi istanti in cui lo lasciavano solo. Quando arrivava qualcuno, nascondeva i fogli nella scrivania e chiudeva il cassetto a chiave. Tutto era stato chiarito alla perfezione per non dare luogo a confusione né a contenziosi, era un testamento ben organizzato e giusto, non avrebbe deluso nessuno. Gli mancava solo di aggiungere le disposizioni per il funerale, cosa che avrebbe fatto in un altro momento. Due cose desiderava prima di morire: uscire in strada per l’ultima volta, camminare da solo, senza nessuno lì a controllarlo e senza che nessuno a casa lo scoprisse, camminare come uno di quei poveri cristi che passeggiano tranquilli senza sapere che la morte gli è già accanto e che quando attraverseranno la strada un’auto li metterà sotto uccidendoli, o come chi muore leggendo il giornale mentre è in fila per aspettare l’autobus; e poi voleva anche rivedere per un’ultima volta Raquel, gli era mancata così tanto! L’ultima volta che erano stati insieme erano andati a cena fuori città; il posto era intimo e gradevole, poca luce, musica tenue, lenta… Dopo tre bicchieri Raquel aveva voluto ballare; lui le aveva detto di no: gli sembrava ridicolo alla sua età, avrebbe potuto incontrare qualcuno di conosciuto, e quel genere di cose ormai non faceva più per lui; eppure lei aveva insistito e insistito e alla fine lui non aveva potuto rifiutare. Ricordava ancora il contatto con il suo corpo così generosamente dotato, il suo profumo pulito di giovane donna e, come se avesse avuto un presentimento, l’aveva stretta ancor più a sé. per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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Quando l’aveva riportata a casa, non era rimasto con lei; non si sentiva bene, aveva una curiosa sensazione d’angoscia, qualcosa di strano che gli opprimeva il petto, lo soffocava e gli rendeva difficile la respirazione; era riuscito a malapena a tornare a casa e ad aprire il garage… Voleva concedersi quegli ultimi desideri: senza avvisare nessuno, sarebbe scappato. Dopo pranzo sarebbe stato più facile: sua moglie faceva sempre una breve siesta e il personale di servizio si attardava in lunghe chiacchiere dopo mangiato. Lui passava sempre il pomeriggio nella biblioteca, dove c’era una porta che comunicava con il garage, e da lì sarebbe uscito senza farsi vedere. Nell’armadio della biblioteca aveva cappotto e impermeabile… Al ritorno avrebbe spiegato tutto, e loro avrebbero capito. Nella sua situazione ormai nulla poteva fargli male, la sua morte era irrimediabile. Che rimanesse seduto immobile come un tronco o uscisse a camminare, sarebbe stata la stessa identica cosa… In quel momento entrò sua moglie: il pomeriggio era freddo, pioveva un po’, era meglio mettersi a letto. Lui accettò volentieri e la lasciò fare. Prima di addormentarsi pensò di nuovo con grande gioia che il giorno successivo sarebbe uscito per l’ultima volta. Era emozionato come un ragazzo che va per la prima volta a far festa con gli amici: avrebbe visto Raquel, avrebbe visto di nuovo le strade della città, avrebbe camminato per quelle strade… Era in biblioteca, come al solito, seduto nella sua eterna poltrona reclinabile. Non si sentiva il minimo rumore. Sembrava che in tutta la casa non ci fosse anima viva. Sorrise compiaciuto: sarebbe stato più facile del previsto. Erano quasi le quattro del pomeriggio quando si decise a uscire. Prese dall’armadio l’impermeabile, una sciarpa di lana e un cappello. Si infagottò al meglio e restò in ascolto, incollato alla por111
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ta, ma in casa non c’era il minimo segno di vita, solo silenzio, un silenzio assoluto. Uscì con calma dalla porta del garage, non senza aver prima inforcato un paio di spessi occhiali scuri per non essere riconosciuto. Voleva camminare da solo. Il pomeriggio era grigio e un po’ freddo, un pomeriggio d’autunno, ormai quasi inverno. Si sistemò la sciarpa e sollevò il colletto dell’impermeabile, si allontanò da casa il più velocemente possibile. Poi, fiducioso, rallentò il passo e si fermò a comprare le sigarette. Ne accese una e l’assaporò con estremo piacere, era così tanto tempo che non fumava! All’inizio chiedeva sempre agli amici di portargli le sigarette, ma loro non lo fecero mai, e poi aveva smesso di chiedere. Camminò per un po’ senza meta, finché si rese conto che stava andando nella direzione opposta a casa di Raquel, e cambiò strada. Quando arrivò a un incrocio si fermò: stava arrivando un corteo funebre e non avrebbe fatto in tempo ad attraversare. Poteva aspettare… Prima passarono dei furgoncini speciali pieni di persone in lutto, poi un carro funebre nero, per nulla ostentato, anzi molto semplice, senza alcuna decorazione. «Dev’essere un funerale modesto». Eppure, dietro il carro funebre, varie auto portavano grandi corone di fiori, enormi e costose: «Allora dev’essere stata una persona importante». Poi ecco l’automobile dei parenti, una Cadillac nera ultimo modello, «proprio come la mia». Quando la macchina passò riuscì a distinguere, dentro, le facce stravolte e pallide dei suoi figli e della moglie che, scossa dai singhiozzi, si copriva la bocca con un fazzoletto per non gridare.
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L’ultima estate Indossava un abito di chiffon con volant sul collo e sulle maniche; i capelli castano scuro, raccolti all’indietro con un fiocco di velluto nero, incorniciavano un volto giovane, dai tratti armoniosi, sul quale risaltavano gli occhi, adombrati da lunghe ciglia. Non solo quella ragazza irradiava gioventù e freschezza, ma anche una grande pace e felicità. Eppure quella bella ragazza, perché era bella davvero, così ben vestita, che sprizzava serenità da tutti i pori, stava dentro una cornice, sul comò, accanto allo specchio. Era lei, a diciotto anni, prima di sposarsi. Pepe aveva voluto un suo ritratto come regalo di compleanno. Era venuta molto bene, sì, davvero bene, e ora provava un immenso dolore nel paragonare la giovane della fotografia con l’immagine che si rifletteva nello specchio, la sua stessa immagine: quella di una donna matura, grossa, con un volto affaticato, appassito, sul quale cominciavano a notarsi le rughe e la trascuratezza o piuttosto la sciatteria di tutta la sua persona: i capelli opachi, canuti, le scarpe dal tacco basso e il vestito consunto e passato di moda. Nessuno avrebbe creduto che la donna che la guardava dal vetro di quel portaritratti fosse proprio lei, sì, lei, quando era ancora piena di illusioni e di progetti, non come adesso… 113
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«Che succede, mamma?» le chiese Ricardo, trovandola con la faccia nascosta tra le mani, seduta davanti al comò, dove era andata a prepararsi per uscire. Con grande avvilimento si cambiò e si diede una sistemata. «È davvero impossibile essere contenta e vivace quando sai fin troppo bene che non sei più una donna ma un’ombra, un’ombra che andrà svanendo lentamente, lentamente…». Dovette tapparsi la bocca con il fazzoletto per trattenere un singhiozzo – negli ultimi tempi era molto suscettibile e depressa, e piangeva facilmente. Era dall’inizio dell’estate, di quell’estate secca e asfissiante, che aveva cominciato a sentirsi male; a volte era un’intensa nausea al risveglio e raffiche come di calore le salivano fino alla testa, oppure forti capogiri, come se la stanza e i mobili si muovessero tutti; capogiri che spesso duravano per tutto il giorno; e poi aveva anche perso l’appetito, non le andava nulla e tutto le dava il voltastomaco, se fosse stato per lei avrebbe passato intere giornate senza mangiare, solo con un caffè o un succo. Un’immensa spossatezza si stava impossessando di lei e le rendeva impossibile occuparsi delle faccende quotidiane, lei che aveva sempre lavorato dalla mattina alla sera, come una schiava. Tutto quello che faceva ora le richiedeva grandi sforzi, ogni giorno più intensi. «Dev’essere l’età». Quell’età che la maggior parte delle donne teme tanto e che lei in particolare vedeva arrivare come la fine di ogni cosa: sterilità, invecchiamento, quiete, morte… Le giornate passavano e il malessere aumentava a tal punto che decise di andare dal medico. Magari le avrebbe dato qualcosa per rendere meno pesante quella fase così difficile. Dopo averla visitata con attenzione, il dottore le diede un’affettuosa pacca sulla spalla e le fece i complimenti. Sarebbe diventata di nuovo madre. Lei non credeva alle sue orecchie. «Non l’avrei mai creduto possibile, alla mia età, io per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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pensavo che fosse… cioè, che sarebbero già stati i sintomi della… ma com’è possibile, dottore?». E dovette chiedergli diverse volte se fosse davvero sicuro della sua diagnosi, perché era molto strano che una cosa del genere succedesse alla sua età. «È questo, mia cara, e nient’altro, segui le mie indicazioni e ci vediamo tra un mese per un’altra visita, non aver paura, se ti prendi cura di te andrà tutto bene, vedrai, ti aspetto tra un mese». Le prescrisse alcune medicine. E lei, che per giorni e giorni, fino a qualche ora prima, aveva pianto al solo pensiero che fosse arrivata quell’età terribile in cui la maternità, la floridezza e il vigore finiscono, ora, nel ricevere quella notizia, non provò alcuna gioia, al contrario, d’un tratto si sentì molto confusa e affaticata. Perché, certo, era un bel peso avere un altro bambino dopo sette anni, quando ne hai già avuti altri sei e non hai più vent’anni, né qualcuno ad aiutarti e devi fare tutto da sola a casa e arrangiarti con pochi soldi, e con i prezzi che aumentano ogni giorno. A questo pensava sull’autobus, di ritorno verso casa, guardando passare le strade che le sembravano tristi come il pomeriggio, come lei stessa. Perché non aveva alcuna intenzione di ricominciare tutto da capo; di nuovo il biberon ogni tre ore, lavare pannolini tutto il giorno e smettere di dormire, proprio quando non desiderava altro, solo dormire e dormire, dormire molto, no, non poteva essere, ormai non aveva più le forze né la pazienza per prendersi cura di un altro bambino, era già abbastanza doverne gestire sei più Pepe, così secco, così indifferente – «Non è un buon partito per te, figlia mia, non combinerà mai nulla nella vita, non ha alcuna aspirazione e l’unica cosa che farà sarà riempirti di figli» – sì, ecco un altro figlio e lui non avrebbe fatto il minimo sforzo per cercarsi un altro lavoro e guadagnare più soldi, che importava se lei faceva miracoli con le spese, o moriva di stanchezza. 115
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Quella sera gli diede la notizia. I bambini erano già andati a letto e loro due erano in soggiorno a guardare la televisione come facevano sempre dopo cena. Pepe le passò un braccio intorno alle spalle e le sfiorò la guancia con un bacio. «Ogni figlio arriva con tanto di cibo e di vestiti, non preoccuparti, ce la faremo come ce l’abbiamo sempre fatta». E lei restò a guardare lo schermo della televisione dove qualcosa senza senso si muoveva, mentre dentro di lei un mondo di pensieri e sentimenti si accalcavano gli uni sugli altri. Passavano i giorni, le settimane, e lei continuava a non trovare sollievo nella rassegnazione né un segno di speranza. La fatica aumentava con il tempo e spesso una gran debolezza la obbligava a stendersi, più volte durante il giorno. Così trascorse l’estate. Di notte, nel sonno, Pepe la sentiva piangere o tremare, ma quasi non si rendeva conto che era sveglia. Era naturale che Pepe dormisse fra due guanciali, certo! Lui non avrebbe dovuto dare alla luce un altro figlio, né prendersene cura, «i figli sono un premio, un regalo», ma con quarantacinque anni e sei bambini, senza più forze né fiato per andare avanti, un altro figlio non è affatto un premio, bensì un castigo. A volte si alzava nel bel mezzo della notte e si sedeva vicino alla finestra, lì, nel buio, sentiva i grilli nel piccolo orto dove coltivava qualche verdura, e l’alba la sorprendeva con gli occhi ancora aperti e le mani tese per l’angoscia. Era tornata dal medico il mese dopo, e anche quello successivo. Di volta in volta le cambiava leggermente le prescrizioni, ma le raccomandazioni erano sempre le stesse: «Cerca di non stancarti così tanto, mia cara, riposati, sta’ tranquilla». Lei tornava a casa camminando pesantemente. Una di quelle notti in cui non riusciva ad addormentarsi, e il caldo e la disperazione la obbligavano ad alzarsi e a camminare, uscì a prendere un po’ di fresco e si appoggiò per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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al corrimano della scala che scendeva fin nell’orto. Le arrivava il profumo del gelsomino notturno che tanto le piaceva, ma che ora le sembrava troppo forte e la disgustava. Stava osservando indifferente le lucciole, che si accendevano e si spegnevano popolando la notte di piccoli e brevi bagliori, quando qualcosa di caldo e gelatinoso cominciò a scorrerle tra le gambe. Guardò in basso e vide sul pavimento un mazzo di papaveri che perdevano i petali. Sentì che la fronte le si imperlava di sudore freddo, le gambe non la reggevano più. Si aggrappò al corrimano urlando per chiamare il marito. Pepe la portò a letto e corse a cercare il medico. «Ti ho raccomandato così tante volte di riposare, cara, di non affaticarti» disse il dottore quando finì di visitarla, dandole una veloce pacca sulla spalla. «Cerca di dormire, tornerò domani». Prima di abbandonarsi al sonno chiese a Pepe di avvolgere i coaguli di sangue in fogli di giornale e seppellirli in un angolo dell’orto, perché i bambini non li vedessero. Quando si svegliò, il sole riempiva la stanza. Aveva dormito per molte ore. I suoi figli erano andati a scuola senza far rumore. Pepe le portò una tazza di café con leche e del pane che mangiò con piacere. Aveva fame. E quando Pepe uscì per andare a prendere sua sorella, che sarebbe venuta a stare qualche giorno da loro, finché lei non si fosse ripresa, rimase lì a pensare e non poté fare a meno di sentirsi sollevata per essere uscita da quel tremendo incubo. Certo, le dispiaceva che fosse andata in modo così triste, così spiacevole, ma le cose non sono mai come uno le desidera, né le pensa, piuttosto sono come devono essere. Ovviamente non voleva un altro figlio, no, sarebbe stato oltre le sue possibilità, eppure non voleva che andasse così, no, il solo pensiero la feriva e la commuoveva, e cominciò a piangere sconsolata, a lungo, finché non si addormentò di nuovo. 117
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Pochi giorni dopo tutto era tornato alla normalità e lei aveva ripreso le faccende domestiche, come sempre. Badando a non affaticarsi troppo cercava di tenersi occupata tutto il giorno, per non mettersi a rimuginare e farsi invadere dai rimorsi. Cercava di lasciarsi tutto alle spalle, di dimenticare quell’estate sconvolgente che era finalmente finita, e sentiva di esserci quasi riuscita, finché un giorno chiese a Pepito di tagliare qualche pomodoro: «No, mami, lì ci sono i vermi». Le orecchie presero a fischiare e i mobili e gli oggetti a girare intorno a lei, le si annebbiò la vista e dovette sedersi per non cadere. Era zuppa di sudore e preda dell’angoscia. Senz’altro Pepe, goffo come sempre, non aveva scavato a sufficienza, e così… ma che orrore, che orrore, i vermi che strisciavano fuori, strisciavano… Quel giorno a tavola ci fu cibo a malapena e ogni cosa che riuscì a preparare era salata o mezza cruda o bruciata, perché era piombata in un vortice di idee e paure laceranti. Tutta la sua vita e le sue abitudini d’un tratto cambiarono. Si occupava delle faccende in modo molto nervoso, in preda a una profonda angoscia, rifaceva i letti alla bell’e meglio, dava qualche spazzata a terra e correva ad affacciarsi alle finestre che davano sull’orto; cominciava a togliere la polvere dai mobili, e di nuovo di corsa alla finestra; si dimenticava cosa stava facendo, passando lo straccio lasciava pozze su tutti i pavimenti, le cadevano le cose dalle mani, rompeva i piatti, ne raccoglieva rapidamente i pezzi e li buttava nella spazzatura perché nessuno li vedesse e sospettasse; passava lunghe ore appoggiata al corrimano, a osservare e osservare… Scambiava a malapena qualche parola con Pepe e con i ragazzi, la infastidiva tutto: che le chiedessero qualcosa, che le parlassero, che facessero rumore, che accendessero la radio, che giocassero, che gridassero, che guardassero la televisioper ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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ne… Voleva soltanto stare da sola, pensare, osservare… Non voleva essere distratta da nessuno, aveva bisogno di stare all’erta, ad ascoltare e osservare, ascoltare e osservare… Quel pomeriggio, Pepe era andato in centro a comprare delle scarpe, e poi dal barbiere. I tre bambini più piccoli erano a catechismo come tutti i sabati, e i grandi a giocare a basket. Era sola nel modesto soggiorno, cercava inutilmente di rammendare calzini e rattoppare camicie e pantaloni, cosa che prima faceva in quattro e quattr’otto mentre guardava in televisione Sábados con Saldaña che tanto le piaceva, o Nostalgia… ma ormai non era più possibile, non le interessava più nulla che non fosse ascoltare, osservare, starsene all’erta a osservare e ascoltare… Verso le sei del pomeriggio riuscì a percepire come un lieve sfioramento, qualcosa che si trascinava sul pavimento toccandolo appena; restò immobile, senza respirare… sì, non c’erano dubbi, era proprio così, si stavano avvicinando, avvicinando, avvicinando lentamente, sempre di più, sempre di più… e i suoi occhi scoprirono una lieve ombra sotto la porta… sì, erano lì, erano arrivati, non c’era più tempo da perdere o sarebbe stata loro preda… Corse verso il tavolo dove si trovava la vecchia lampada di porcellana di sua madre, che conservava come una reliquia. Con mani tremanti svitò il contenitore dell’olio e se lo versò addosso, dalla testa ai piedi, finché non fu zuppa; poi, con quel che restava, disegnò una circonferenza, un piccolo cerchio intorno ai piedi. Ancora prima di accendere il fiammifero riuscì a intravederli che entravano a fatica attraverso la fenditura della porta… ma lei era stata più furba e li aveva battuti sul tempo. Per consumare la loro vendetta, ora non sarebbe rimasto altro che un mucchio di ceneri fumanti.
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Óscar La giovane porse il biglietto all’impiegato e attese pazientemente il proprio bagaglio. Si sedette su una panca e accese una sigaretta, forse l’ultima che avrebbe fumato prima del tempo che si apprestava a trascorrere con la famiglia. I suoi occhi perlustravano con attenzione i dintorni cercando di scoprire se, in quegli anni di assenza, c’era stato qualche cambiamento. Ma tutto era rimasto uguale. Solo lei era cambiata, e non poco. Ricordò com’era vestita quando era partita per la capitale: il vestito lungo e ampio, la faccia acqua e sapone e la coda di cavallo, le scarpe basse e le calze di cotone… Ora indossava un bel golf nero, una gonna dal taglio elegante, corta e dritta, attillata, delle scarpe nere e un impermeabile beige; truccata con discrezione e pettinata alla moda, era una ragazza attraente, bella, e lo sapeva; o meglio, l’aveva scoperto man mano che aveva imparato a vestirsi e agghindarsi… L’impiegato le portò le due valigie e le disse: «Se vuole, può andare in paese con l’auto della posta, costa solo due pesos, perché l’autobus ci metterà molto a passare». La ragazza prese posto accanto al grasso autista delle poste e gli diede l’indirizzo di casa sua. «A casa di don Carlos Román?» chiese sorridente l’uomo. «Suono con lui nella banda municipale la domenica pomeper ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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riggio, e poi lo accompagno sempre a casa. Se mi permette mi fermo un istante alle poste a lasciare il sacco della corrispondenza, faccio prestissimo». L’uomo entrò nell’ufficio delle poste con il sacco quasi vuoto. Dall’auto, lei riuscì a vedere la vecchia parrocchia del paese con le torri sottili, la Plaza de Armas con il chiostro e le panchine di ferro e, accanto alla parrocchia, lo studio notarile di suo padre. Senza dubbio ora lui era chino su qualche carta intestata, a scrivere con una stilografica nella sua calligrafia così bella e uniforme. La ragazza pagò all’autista i due pesos convenuti e prima di decidersi a bussare rimase ferma sulla porta a contemplare la casa del notaio, casa sua. Venendo dalla capitale le parve piccola e modesta, ma lì era considerata una buona casa perché era su due piani e aveva anche una cantina, qualità rare in paese. La vernice delle pareti era un po’ consumata, le finestre e la porta scolorite, senza dubbio era da tempo che nessuno se ne preoccupava. Finalmente bussò alla porta e attese, con il cuore che le batteva sempre più forte. «Mónica!» gridò Cristina quando la vide, stringendola con affetto. Si udirono dei passi avvicinarsi, e lei si separò dalla sorella per correre ad abbracciare la madre, quella donnina magra, dal viso cereo e gli occhi affossati e spenti. Abbracciandola, Mónica si rese conto della sua estrema magrezza, del suo volto così appassito e sfinito, e si strinse a lei con tenerezza e dolore. «Che bello averti qui, figlia mia!» disse la madre asciugandosi una lacrima. «E papà? E Carlos?». «Papà è allo studio, e Carlos è ancora a scuola. Ora ha i bambini del quinto anno». «E… Óscar…?». «Sempre uguale» disse laconicamente la donna, e sospirò. 121
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Il suo volto sembrava in quel momento ancor più cereo e i suoi occhi più affossati. Quando entrò nella stanza che aveva diviso con Cristina per tanti anni, Mónica si sentì assalire dai rimorsi per aver lasciato sua sorella lì a languire, a consumarsi in quella clausura, e non averla portata con sé quando era partita per la capitale. La camera era uguale ad allora: i due letti in ottone con le trapunte bianche ricamate, lavate di fresco e ben stirate, come appena messe; il vecchio armadio di legno a occhio di pernice che avevano ereditato dalla nonna; la toeletta con il piano di marmo, e il lavamano e la brocca di porcellana; la scrivania con il candeliere dorato e la candela pronta per essere accesa, e il vaso con i gelsomini che Cristina aveva tagliato per riceverla sapendo quanto le piacesse quel profumo. «Cristina, sorella mia, quanto mi sei mancata, non sai quanto!» e Mónica era sincera. In quel momento comprese chiaramente che Cristina le era mancata più di chiunque altro; la famiglia, la casa, il paese, Cristina era tutto: snella, pallida, sempre taciturna, affaccendata e sofferente, rassegnata. «Anche tu, non immagini quanto!» e gli occhi le si annebbiarono «mi consolavo solo pensando che saresti tornata, ma… ti fermi? Non te ne vai di nuovo, vero?». «Poi ne parliamo, Cristina». «Hai ragione. Vado ad aiutare mamma a finire di preparare il pranzo, riposa un po’, sembri stanca». Mónica si guardò nello specchio della toeletta. Cristina aveva ragione, sembrava stanca e lo era. Il timore di affrontare i suoi familiari l’aveva resa molto tesa e nervosa. Ma sentiva di doverlo fare, perché aveva davvero bisogno dell’affetto e della vicinanza dei suoi cari. Cominciò a disfare le valigie e a riporre gli abiti nel vecchio armadio, vicino a quelli di Cristina. Quei vestiti lì appesi, gli uni accanto agli altri, parlavano chiaramente delle due donne che li usavano e del contesto in cui vivevano. per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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Verso le due del pomeriggio arrivarono il padre e il fratello. L’accoglienza fu cordiale, ma fredda. Mónica non si aspettava nulla di diverso. Si lavarono le mani e subito sedettero a tavola. Il padre recitò una breve preghiera, come era solito fare, e cominciarono a mangiare. Mónica trovò delizioso il cibo di casa, preparato con tanta cura e impegno da sua madre. Durante i pasti a casa Román si parlava poco, al padre dava fastidio, lo metteva di cattivo umore. Mónica lo osservava con la coda dell’occhio, a dire il vero non lo trovava cambiato, forse era un po’ più grasso e più calvo, ma era altrettanto silenzioso e metodico, preciso e ordinato; con il suo tovagliolo al collo continuava a sorbire la zuppa come aveva sempre fatto. All’altro capo del tavolo la madre serviva da mangiare in silenzio. «Lei non solo è cambiata» si disse Mónica «ma è completamente esausta». Dimagrita fino allo stremo, con il volto affilato e cereo e gli occhi affossati e spenti, più che un essere umano sembrava un’ombra dolorante. Cristina, angosciata dal silenzio, dalla solitudine e dalla disperazione, era una giovane vecchia, un fiore appassito. E Carlos, distratto, chiuso in se stesso, pareva più grande, dimostrava più anni di quelli che aveva. Mónica provò una grande tenerezza e molto dispiacere per tutti loro, e al tempo stesso era contenta di essere tornata. Un rumore, come di piatti che cadono a terra, la fece rabbrividire. Gli altri si scambiarono uno sguardo privo di stupore. «Deve aver finito di mangiare» disse la madre alzandosi da tavola. Uscì in fretta e furia e scomparve dietro la porta che conduceva in cantina. Pochi minuti dopo tornò portando un vassoio con pezzi di piatti e vasi. Ansimava un poco e aveva il volto leggermente arrossato. «È molto nervoso, credo sia perché…» e i suoi occhi si posarono su Mónica. «Dovresti dargli qualcosa, papà». 123
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Il padre finì rapidamente di mangiare, si pulì la bocca con il tovagliolo, versò un po’ d’acqua in un bicchiere e si diresse in cantina. Il fratello si alzò da tavola, prese qualche libro e se ne andò. Il giorno dopo il suo arrivo Mónica cominciò a fare la parte delle faccende domestiche che le spettava, come prima di partire per la capitale. La stessa routine di sempre: alle sei e mezza del mattino si alzavano; la madre dava da mangiare agli uccelli e puliva le gabbie; le due sorelle apparecchiavano il tavolo del tinello e preparavano la colazione, e alle otto si sedevano tutti a tavola. Prima però si portava la colazione a Óscar, perché se non veniva servito per primo passava la giornata molto di cattivo umore e lui, dalla cantina, conosceva alla perfezione i rumori e gli orari della casa; sapeva quando si alzavano, quando entravano in cucina, quando uscivano, tutto. Alle otto e mezza Carlos andava a scuola e il padre, poco più tardi, ad aprire lo studio. Allora le tre donne cominciavano a pulire la casa con cura. Cristina si incaricava di sistemare la cucina e lavare le stoviglie, la madre dava una passata al soggiorno e al tinello e Mónica si dedicava alle camere e al bagno. Mentre la madre usciva a fare la spesa per il pranzo, le ragazze spazzavano e lavavano il cortile e l’androne. Poi, quando la donna tornava con le compere, Cristina la aiutava a preparare il pranzo e ad apparecchiare e Mónica lavava i piatti sporchi. In quella casa c’era sempre qualcosa da fare: dopo mangiato si sparecchiava e si sistemava la cucina, si rammendava e si stirava, e solo dopo cena, quando tutto era già stato lavato e riposto, il padre si metteva a ripassare al violoncello i pezzi per il concerto della domenica, il fratello correggeva i compiti degli alunni, e le tre donne facevano qualche lavoretto ai ferri o all’uncinetto. Dalla cantina Óscar manovrava la loro vita. Era stato sempre così, e così avrebbe continuato a essere. Mangiava priper ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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ma di tutti e non permetteva a nessuno di assaggiare il cibo prima di lui. Sapeva tutto, vedeva tutto. Scuoteva la porta di ferro della cantina con furia, e gridava quando era contrariato per qualcosa. Di sera, annunciava con rumori e segnali di protesta quando pretendeva che loro andassero a dormire, e molte volte faceva lo stesso all’ora di alzarsi. Mangiava molto, con voracità e senza gusto, con le mani, in modo grottesco. Al minimo fastidio scaraventava i piatti con cibo e tutto, si scagliava contro le pareti e sbatteva la porta. Raramente se ne stava in silenzio, borbottava sempre fra i denti monologhi incomprensibili. Quando tutti si erano ritirati nelle proprie stanze Óscar usciva dalla cantina. Estraeva quindi l’acqua dal pozzo e bagnava con attenzione tutti i vasi dei fiori e, se era arrabbiato, li rompeva gettandoli a terra; il giorno successivo però bisognava rimpiazzare tutti i vasi rotti, perché lui non sopportava che diminuissero, il loro numero doveva essere sempre lo stesso. Quando finiva di annaffiare i fiori entrava in casa e saliva le scale che portavano alle camere. Verso mezzanotte si sentiva il vecchio legno della scala scricchiolare sotto il tremendo peso di Óscar. A volte apriva la porta di una delle camere e si affacciava soltanto, poi la richiudeva e tornava in cantina. Altre volte invece entrava in tutte le stanze e si avvicinava ai letti e rimaneva lì per un po’, immobile, a osservare, e solo il suo respiro brusco e forte rompeva il silenzio della notte. Allora nessuno si muoveva, tutti restavano rigidi e paralizzati in sua presenza, poiché con Óscar non si sapeva mai che cosa poteva succedere. Poi, in silenzio, usciva dalla stanza, scendeva pesantemente le scale e tornava in cantina per coricarsi. In quella casa nessuno aveva mai dormito tranquillo e sereno, il loro sonno era leggero, sempre attento al minimo rumore. Eppure nessuno si lamentava mai e, rassegnati all’inevitabile, accettavano il proprio destino crudele e lo pativano in silenzio. Nei giorni 125
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di luna piena Óscar ululava come un lupo per tutta la durata del plenilunio e si rifiutava di mangiare. Si poteva dire che la famiglia Román fosse una delle famiglie più agiate del paese: avevano una grande casa di proprietà, lo studio notarile, un figlio maestro di scuola, eppure, i soldi che il padre e il figlio guadagnavano bastavano appena a coprire le spese della casa; vale a dire, le molte spese dovute a Óscar. Piuttosto di frequente bisognava sostituire cinque, dieci, molti vasi di fiori, per non parlare delle stoviglie, si compravano in continuazione piatti, tazze, bicchieri, e poi i vestiti che lui strappava e faceva a pezzi: camicie, pantaloni, lenzuola, trapunte, copriletti; distruggeva anche sedie e mobili e, oltre a tutto questo, le medicine che bisognava somministrargli costantemente erano piuttosto care. A casa del notaio si ricevevano ben poche visite, solo qualche parente o amici molto intimi – di cui Óscar conosceva le voci alla perfezione, fin da piccolo – che di rado andavano a trovarli e a bere una cioccolata mentre chiacchieravano un po’ e guardavano calare la sera. Una persona sconosciuta non sarebbe mai potuta entrare in quella casa, Óscar non l’avrebbe sopportato né tollerato. Le donne uscivano solo per lo stretto indispensabile: la spesa, le varie commissioni, la messa la domenica e qualche volta durante la settimana per il rosario, qualche veglia o funerale, qualcosa di davvero eccezionale, perché queste eventualità lo mettevano troppo in agitazione, lui non ammetteva che nessuno rompesse o alterasse il ritmo e la routine della sua vita e delle sue abitudini. Quando loro uscivano, il padre o il fratello restavano in casa perché Óscar temeva la solitudine in modo terribile e commovente, e poi, c’era il pericolo che potesse scappare. Mónica aveva perso l’abitudine di andare a letto presto e passava lunghe ore sveglia ad ascoltare il lieve respiro di Cristina e a pensare a tante e tante cose, finché non sentiva i per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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passi sordi di Óscar. Allora restava immobile e chiudeva gli occhi per fargli credere che stesse dormendo. Lui si fermava accanto al suo letto per qualche minuto, che a Mónica pareva interminabile, eterno. Andava tutte le notti a osservarla, forse sorpreso di vederla di nuovo lì o volendo assicurarsi che fosse proprio lei. Gli anni vissuti in città le avevano fatto scordare quell’incubo che non aveva mai fine. Quel giorno, il 6 agosto, Óscar era stato irrequieto fin dal mattino. Una delle medicine che prendeva, e che lo tranquillizzava un poco, era esaurita e il medico l’aveva sostituita con un’altra, che però non gli faceva molto effetto. Per ore aveva gridato, ululato, mugolato, rotto tutto ciò che aveva a portata di mano in cantina, muovendo con furia la porta di ferro chiusa con il lucchetto, scaraventandoci contro i mobili. Aveva gettato il vassoio della colazione, quello del pranzo; non ascoltava né riceveva nessuno. «Óscar sta peggio che mai» disse la madre quando il marito e il figlio arrivarono per il pranzo. «Io non so che cosa faremo» continuava a dire la donna e si stringeva le mani, oppressa dall’angoscia «si è rifiutato di mangiare, ha spaccato tutto…». Senza dire un’altra parola si sedettero a tavola, in mezzo a quell’insopportabile frastuono di grida e ululati e risate; abbattuti da una tortura che gli opprimeva l’anima. La madre si asciugava con le dita le lacrime che non riusciva a contenere. Ora non si sentiva nemmeno l’abituale suono del padre quando sorbiva il brodo. «Si è rifiutato di mangiare anche solo un boccone, non ha voluto la colazione né il pranzo» ripeté la madre quando arrivarono il notaio e il figlio, come se non l’avesse già fatto notare. «Ha fatto a pezzi tutto quello che ha potuto» commentò Cristina. «Credo che sia il caso di andare ad avvisare il dottore» disse Carlos. 127
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L’angoscia era riuscita a rompere il silenzio che per tanti anni il padre aveva imposto durante il pranzo. «se sarà prudente aumentargli la dose» «ma… forse…» «che fare, Dio mio, che fare!» «io credo che sia l’effetto della luna» «o della canicola» «solo Dio lo sa, solo Dio lo sa!» «questa è la sua crisi peggiore» «ha gli occhi rossi e come fuori dalle orbite» «si è dato molti colpi e sanguina» «ha cercato di spezzare il lucchetto» «io credo che sia la medicina ad averlo fatto reagire così» «a volte i medici non sanno nemmeno che cosa prescrivono» «era così calmo, stava così bene» «ieri cantava, la stessa canzone tutto il giorno e tutta la notte, però cantava» «sì, però ieri sera ha rotto tutti i vasi» «ah, Dio mio, Dio mio!» «dicono che ad Agua Prieta ci sia un erborista molto bravo» «a volte non sono che ciarlatani, che rubano tempo e denaro» intervenne il padre «io credo che la cosa migliore sia fargli un’iniezione per farlo dormire, e magari quando si sveglierà la crisi sarà passata, vado a preparare la siringa» e si alzò da tavola. «Ho paura, papà» disse la madre avvicinandosi al marito e prendendolo per un braccio «molta paura». «Gli ho già fatto altre iniezioni prima d’ora e non è mai successo nulla, sta’ tranquilla donna, sta’ calma». «La lampada è già pronta» disse Carlos. E i due uomini scesero in cantina. Le donne rimasero lì, immobili e mute, come tre statue. per ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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Grida disarticolate, rumori di colluttazione, di calci, di corpi che cadono, gemiti, esclamazioni… D’un tratto tutto cessò, si sentivano solo i respiri ansimanti dei due uomini che, bagnati di sudore, uscivano dalla cantina, esausti e malridotti come se avessero lottato contro una fiera. Quello sforzo tremendo fu eccessivo per il cuore affaticato del notaio, che si fermò presto, il giorno successivo, mentre stava ricopiando un atto nel suo ufficio. Era già morto quando lo portarono a casa. Lo vegliarono per tutta la notte in soggiorno. Nonostante fosse un uomo amato e rispettato da tutti in paese, alla veglia poterono assistere solo pochi familiari e amici che frequentavano i Román, le cui voci Óscar conosceva. Il dolore della famiglia fu immenso; paralizzati dal cordoglio rimasero tutto il tempo vicini al morto, piangendo in silenzio. Il giorno successivo ci fu il funerale, dopo la messa a bara aperta, e alla parrocchia e al cimitero venne tutto il paese. I compagni della banda municipale lo salutarono suonando i suoi valzer preferiti: Morir por tu amor e Tristes jardines. Dal giorno in cui morì don Carlos Román la loro vita peggiorò: la casa con le fasce nere alla porta e alle finestre, le finestre socchiuse, le donne a lutto, silenziose, assorte o assenti, soprattutto la madre che più che un essere vivente sembrava uno spirito, una figura spettrale o l’ombra di un altro corpo, e Carlos, a testa bassa, imbavagliato dall’angoscia e dalla sofferenza, sapendo di camminare in una strada senza uscita, alle strette, incapace di trovare una soluzione né un filo di speranza in quella sventura che erano stati costretti a subire e a trascinarsi penosamente per tutta la vita. La fatalità si imponeva e ne erano vittime, prede, non c’era salvezza. Una settimana dopo la morte del notaio la madre si ammalò, finché un giorno quella donnina ormai completamen129
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te consumata non riuscì più ad alzarsi. E per di più il medico non poteva entrare in casa per visitarla, Óscar non l’avrebbe permesso. Carlos lo informava quotidianamente delle condizioni della madre e comprava le medicine che il medico suggeriva. Ma ogni sforzo era inutile, la sua vita si stava lentamente spegnendo, senza un lamento. Passava l’intera giornata immersa in un profondo sopore, senza muoversi, senza parlare, andandosene poco a poco. La madre visse pochi altri giorni, solo un sospiro e nient’altro; né rantoli, né convulsioni, né brividi, né grida di dolore, nulla, solamente un sospiro e se ne andò a seguire il compagno con cui aveva condiviso la vita e la sventura. La veglia si fece proprio come quella di don Carlos, e venne seppellita accanto a lui. Quella notte, la notte del funerale, Óscar la trascorse nella camera vuota a ululare e digrignare i denti. Così trascorsero i giorni di quell’estate luminosa e profumata, giornate lunghe, notti interminabili, i tre fratelli chiusi in se stessi, senza osare aprir bocca, comunicare, assorti e vuoti come se i pensieri e le parole fossero andati perduti, o fossero stati portati via da chi se n’era andato. Ogni domenica, dopo la messa, Cristina e Mónica andavano al cimitero a portare i fiori ai genitori defunti. Carlos restava in casa a badare a Óscar. Di pomeriggio le due sorelle si sedevano a ricamare accanto alla finestra del soggiorno, e da lì guardavano passare la vita, come i prigionieri attraverso le sbarre delle loro celle. Carlos fingeva di leggere e si dondolava sulla sedia di vimini dove suo padre di solito faceva la siesta prima di andare a suonare con la banda in Plaza de Armas. La luna pareva immensa quella notte di plenilunio d’agosto, era stata una giornata piuttosto afosa e il caldo continuava anche di notte, a malapena si riusciva a sopportare il lenzuolo sulla pelle. Óscar ululava – come sempre nelle notti di luna piena – e nessuno riusciva a conciliare il sonno, uluper ufficio stampa - tutti i diritti riservati vietata la diffusione
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lava e rompeva vasi, saliva e scendeva le scale, brontolava, ululava, gridava, saliva e scendeva… Angosciati dal caldo che era aumentato ancora i fratelli si abbandonarono poco a poco al sonno, un sonno rosso, ardente come una fiammata torrida che li avvolgeva, finché non arrivò la tosse, una tosse secca e ostinata che li svegliò. Con gli occhi fuori dalle orbite contemplarono le lingue di fuoco che salendo dal piano terra arrivavano ormai già fino alle camere, e il fumo denso e asfissiante che li faceva tossire, piangere, tossire, e gli ululati di Óscar, che senza dubbio era giù in cantina, ululati e risate, risate di giubilo come non ne avevano mai sentite, e le fiamme che si facevano strada, quasi raggiungendoli. Non potevano perdere tempo, la scala era stata divorata dal fuoco, restavano solo le finestre. Annodando le lenzuola Carlos fece scendere prima Cristina, poi Mónica, e si calò per ultimo. Quando Carlos toccò terra la casa era completamente invasa dalle fiamme che uscivano dalle finestre, dalla porta, da ogni dove. Quando i tre, tenendosi per mano, iniziarono a camminare lungo la strada che portava fuori dal paese si sentivano ancora le risate di Óscar. Nessuno si voltò indietro per dare un ultimo sguardo alla casa in fiamme.
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Safarà Editore via Piave 26 33170 Pordenone Italia Fondatore Guido Giuseppe Pascotto Direttrice editoriale Cristina Pascotto Redazione Alice Intelisano www.safaraeditore.com Stampato presso Geca Industrie Grafiche - San Giuliano Milanese (mi) nel mese di settembre 2020
NOTE SUL PROGETTO GRAFICO Giuseppe D’Orsi, Direzione creativa