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Italian Pages 386 Year 1990
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Walter Pedullà è nato a Siderno, in
Calabria, nel 1930. Si è laureato in Lettere a Messina con Giacomo
Debenedetti, di cui è stato dal 1958 al 1967 assistente universitario alla
«Sapienza» di Roma. È professore ordinario di Storia della Letteratura Italiana moderna e contemporanea nella Facoltà di Lettere della stessa università romana. È stato professore di Letteratura
e Lingua Italiana nell'Istituto Universitario Orientale di Napoli, e di Storia della Critica nel Magistero di Salerno. Dal 1961 è il critico letterario del quotidiano «L’Avanti!»; collabora a «Il Mattino» di Napoli, «Il Messaggero» di Roma e «ItaliaOggi» di Milano; è stato giornalista professionista, ha diretto case editrici e riviste ed è, dal 1977, consigliere d’amministrazione RAI. E membro del comitato direttivo di alcune riviste («Il cavallo di Troia», «Tempo presente», «Lettera internazionale», ecc.)
Dirige, con Nino Borsellino, per le Grandi Opere Rizzoli La storia della letteratura italiana di prossima pubblicazione. Tra le sue opere: I maestri del racconto italiano (antologia, in collaborazione con Elio Pagliarani, 1964), La letteratura del benessere (1968), La rivoluzione della letteratura
(1970), L'estrema funzione (1975), Il morbo di Basedow (1975), Alberto Savinio (1979), Miti, finzioni e buone
maniere di fine millennio (1983), Il ritorno dell’uomo di fumo (1987).
Grafica di Arcoquattro. Illustrazione di Max Casalini.
Pensieri & Piaceri
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Walter Pedullà
LO SCHIAFFO DI SVEVO giochi, fantasie, figure del Novecento italiano
Gili CAMUNIA Puo
Copyright
© 1990 Camunia editrice srl, Milano
Finito di stampare nel mese di settembre 1990 per conto della Camunia editrice srl presso la Grafica Pioltello srl - Limito (Milano) Printed in Italy
NOTA
I saggi di questo volume sono in gran parte — specialmente in quanto a numero di pagine — inediti. A quello su Giacomo Debenedetti si è attinto per la relazione introduttiva al Convegno della Facoltà di Lettere della «Sapienza» di Roma, tenuto in occasione del decimo anniversario della morte del critico. Alcune pagine dei capitoli su Tommaso Landolfi sono state lette o «dette» alla Buchmesse di Francoforte, alla Freie Universitàt di Berlino, a Frosinone e Pico nel corso di incontri e seminari per ricordare lo scrittore a dieci anni dalla morte. La prima metà del saggio su Gadda è stata pubblicata su «Lettera Internazionale»; l’altra metà è composta di paragrafi di una monografia in preparazione sullo scrittore. Il saggio su Alvaro è per nove decimi diverso da quello pubblicato nel volume collettivo Alvaro e la «politica». Il saggio su Saba è il testo di una relazione al Convegno dell’Università di Roma sul poeta triestino ed è stato pubblicato negli Atti editi da Mondadori. Il saggio su Sciascia è la relazione al Convegno dei Critici Cinematografici ed è stato pubblicato su «Cinecritica». I «frammenti» su Savinio sono raccolti in un volume di scritti in onore di Giovanni Macchia e sono stati sparsi dentro il libro A/berto Savinio scrittore ipocrita e privo di scopo. L'articolo su Vittorini era uscito, dimezzato, in La rivoluzione della letteratura. Dei tre interventi su Pizzuto, il primo, «Ritratto semiserio», è stato
pubblicato sulla «Taverna di Auerbach»; il secondo è la prefazione alla ristampa mondadoriana di Su/ ponte di Avignone; il terzo è la parte centrale di una relazione al Convegno dell’Università di Palermo su «Beniamino Joppolo e lo sperimentalismo siciliano contemporaneo». V
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«La vita, quando lui — Zeno — crede di averla colta in un punto preciso, si incarica sempre di dargli un cazzotto cieco e sconcertante». Giacomo Debenedetti
«A è A, se A è A, finché A è A». Antonio Pizzuto
IL PIANO DELLE PAROLE E IL PIANO DELLE COSE
Questi saggi sono stati quasi tutti scritti negli ultimi cinque anni. Più di metà del volume è stato scritto alla fine degli anni Ottanta; l’introduzione è dell’inizio. del go. Figure, strutture, temi e linguaggi del Novecento quando mancano dieci anni alla fine del secolo. Che cosa accomuna saggi su autori di cui si esaminano opere scritte dagli anni della prima guerra mondiale (Savinio e Gadda) a oggi (non solo per Sciascia)? Chi cerca trova e quindi anche qui si può trovare un filo che leghi i diversi saggi. Anzi pure più di un filo: e qualcuno magari più robusto di quello tirato dall’autore del volume. L’unità del diverso, dell’estraneo, dell’opposto, di questo e altro, è obiettivo ambìto da molti in questa raccolta, ma si constaterà che l’impresa risulta quasi sempre troppo audace. La soluzione più pertinente è forse quella di leggere i saggi come testi isolati; cosa che non esclude che dentro ci sia un disegno, sia pure dapprima «inconsapevole». Di questo aggettivo fa largo uso Giacomo Debenedetti. Il quale diceva anche: «Andate avanti, saprete più tardi dove eravamo diretti». Un buon consiglio per un'epoca che si dice priva di direzione e di senso. Ognuno, ogni saggio, risponde di se stesso. Ed è già tanto che abbia voglia di porre quesiti. d
Uno dei «momenti della verità» arriva quando bisogna scegliere il titolo. Non è solo per fare rumore che si è scelto Lo schiaffo di Svevo. Un gesto velocissimo che lascia il segno sulla facciata, sulla copertina del volume. Svevo non appare più nel libro. Lo si mette in evidenza perché gli si attribuisce il merito «storico» di avere registrato il più drammatico conflitto familiare del Novecento: quello tra un padre dell'Ottocento e un figlio del nostro secolo. Lo schiaffo dato dal padre a Zeno è notoriamente un equivoco, un segnale di incomprensione, ma ‘ certo è un sintomo di rottura di un equilibrio. I Psicoanalisi a parte, che certamente c'entra spesso con questi autori, lo schiaffo va esaminato per quello che significa a cominciare dal corpo, che è il primo ad essere colpito. Uno schiaffo fa girare la testa, o almeno le imprime un movimento che è una svolta. L’ordine è chiaro e insieme tiene del simbolo: tocca guardare da un’altra parte, ci sono cose diverse da vedere, cambiate punti di vista, radicalmente. Che non è un invito a staccare le teste, ben-
sì alla disponibilità dinanzi a eventi che comunque coinvolgono il cervello. Inteso con più umorismo possibile lo schiaffo di Svevo simboleggia la struttura che si tiene pronta allo shock, rappresentato di volta in volta da un nuovo linguaggio, tema, luogo, genere letterario, corrente culturale, dialetto, filosofia, metodo, personaggio, «vizio», dettaglio, musica, tempo, mito, evento storico e da
tutto ciò che fa mutare prospettiva, idee e comportamenti. Da ognuno di questi connotati si cerca di arrivare alla struttura che regge un periodo storico, un autore, un’opera. Forse ha una struttura pure questo libro i cui saggi aspirano a far parte per se stessi. E da un secolo che il linguaggio tenta di «ristabilire» il contatto con la realtà, addirittura con la verità. Le sta
provando tutte, o meglio, sta facendo ogni tipo di esperimento. Chi parte dall’interno, il più profondo possibile; chi dall'esterno, magari per arrivare anche lui molto giù. Scritture sempre in verticale che scovano fino alla struttura che è orizzontale e giace sotto, motore immobile che 8
manda proiezioni in superficie. Pure i realisti cercano la struttura privilegiata, quella con cui si è sempre al centro della condizione umana, anche se si parla dalla periferia. La Calabria della Melusina di Alvaro è un inferno a guardarla dalla parte di una ragazza: che è assai in ritardo culturalmente ma che si colloca all'avanguardia delle donne del suo tempo, se la osserva e la ritrae un pittore del Nord, forse espressionista. E l’espressionismo il linguaggio della rivolta verso chi sta sopra, verso la realtà esterna, verso la gerarchia razionale, familiare, cioè verso il padre? Come risponderebbero Gadda, Tozzi, Savinio, Alvaro, Saba? Non c'è una sola
risposta e ancora ci si interroga, ponendo domande «estremiste», anche surrealiste. Savinio fa esperimenti col sogno, Vittorini con l'utopia. Viaggiatori che toccano terra solo nella propria testa: il primo con idee «dell’altro mondo», il secondo mettendo in musica le proprie fantasie. Se volete fare della metafisica, consiglia Pizzuto, non andate lontano, ce l’avete in mano, siate empirici e capirete cos'è la vita. Anche Savinio aveva capito che hanno una loro vita anche gli oggetti e se n’è riempito gli occhi, i quadri e la prosa. Meglio guardare dai poli, o comunque dai punti cardinali: la metafisica può sembrare omologa della microfisica, la follia pare essere sapienza e persino saggezza, il diverso diventa identico, il proibito legittima il diritto di entrare nella legge (il dialetto, l'omosessualità, l’irrazionale, l’artificiale, il magico, il deforme e ogni informe che cerca la sua forma). Vada più lontano che può lo scrittore, e lì cerchi il suo lettore. Scrittore e lettore si incontreranno davvero mai? Come la coppia innamorata di Lacan? Come il significato e il significante? Fra quante coppie incompatibili la letteratura del Novecento cerca l’unità impossibile! E tuttavia di questi conflitti estremi vive la letteratura, nonché la vita. Col passare degli anni un secolo che aveva quasi ovunque parlato di mondo si è andato convertendo alla vita. Il mondo non è andato così bene come si sperava facendo 9
rivoluzioni sociali nel cui bilancio ci sono troppi morti ammazzati. Si torna alla vita? Non è però che la vita dia solo carezze, anzi dall'inizio del secolo ne ha date di sor-
prese violente. Debenedetti registrò oltre sessant’anni fa il «cazzotto» di Svevo, quello con cui la vita colpisce i personaggi del narratore triestino tra la fine dell'Ottocento e l’inizio del Novecento. È un colpo tanto violento quanto più è inatteso. Sembra «gratuito» ma è proprio per que-
sto che verrà pagato più caro dall'uomo del Novecento. Da allora in poi costui vivrà in assillante trepidazione dinanzi a ogni evento: potrà essere un cazzotto oppure un
regalo, uno di quelli dei quali la vita è generosa con Zeno, che non se li aspetta e che sente di non meritarseli, come d’altronde non si meritavano tutti quei cazzotti i protagonisti di Una vita e di Senilità. Il Novecento è invecchiato e sta morendo senza avere capito qual è la regola che la vita si è data e che ha imposto agli uomini del secolo. Ci ha provato a indovinare Giacomo Debenedetti, il quale ha invitato a rivolgere la domanda alla microfisica, alla scienza della materia atomica. La risposta è nota: ignote sono la direzione e la velocità della particella atomica. Forse è perché si comporta come questa che il personaggio del romanzo moderno ha perso la bussola e perde anche l'appuntamento con la vita. La quale arriva prima o dopo, ed è sempre un impatto duro. Saranno botte da orbi e invece toccherà andare a vedere subito cosa succede. Con quale occhio? Di sicuro non più con l’occhio dei naturalisti. Svevo sarà uno dei primi a dare un cazzotto al naturalismo: alla cieca pure lui, che non si accorge di saper guardare oltre Zola. Ed è un altro cazzotto della vita e, insieme, della cultura. Che nel frattempo ha messo a fuoco il fenomeno. Il cazzotto e la vita. Una metafora audace con cui si tenta una troppo «callida», astuta e calcolata ed eccentrica, congiunzione tra due elementi tanto distanti e diversi da far ritenere impossibile l’unità. Si potrebbe sempre credere che col cazzotto la vita non fa che allungare una 10
mano al personaggio. Fra l’altro è accertato che spesso gli arriva anche una carezza, altrettanto imprevista e assurda. Ed è questo comunque il cazzotto: non conoscerne le ragioni, trovarsi alle prese con un fatto irrazionale, altrimenti detto, inconscio. Troppo lontano ci porta quel cazzotto, quella mano che si chiude su se stessa a pugno. Stiamo più vicini alla realtà, siamo un po’ più empirici, teniamoci nei paraggi di ciò che si tocca, usiamo metafore meno ardite. Cosa abbiamo in mano ora e qui dove siamo a scrivere? Ebbene, la mano stavolta si chiude per stringere una penna. Che significa, che ce ne facciamo, serve ancora scrivere? Ce la farà lo scrittore del Novecento, nonché quello futuro, a toccare la vita con il suo stile, che può essere pure un pugnale, quindi qualcosa di più cruento di un cazzotto? Con quale stile, con quale tecnica, con quale carattere, con quale corpo, con quale linguaggio, insulti, colpi di testa, colpi bassi, schermaglie e giochi di gambe e di parole l’uomo del nostro secolo riesce a mettere per iscritto se e come si colpisce il bersaglio che è la vita? Quanti pugni a vuoto, quante parole non raggiungono le cose, quanti stili si consumano senza che tocchino l’uomo! Il manierismo, scrittura in punta di penna, non affonda il suo colpo. Il punto debole è il volto, che però è protetto dalla maschera. Allora qualcuno colpisce ai fianchi e fa centro. Spesso cade però la vita che non si regge in piedi. Contatela e constaterete che la vita che conta è quasi sempre altrove. Più tardi si dirà, dai semiologi, che restano solo i «segni» della sua presenza. Ci sarà un sistema, un sistema di segni magari un linguaggio col quale centrare la vita, lasciandogli i segni non solo sulla faccia, bensì più a fondo? Abbiamo soltanto la sua immagine a portata di mano, ma tocca ancora stringere i pugni e non rinunciare a scri-
vere. È riuscito tante volte il colpaccio: per esempio, solo per restare all'indice del volume, ce l’hanno fatta Gadda,
Alvaro, Landolfi, Debenedetti, Saba, Vittorini, Pizzuto, e talvolta anche Sciascia, per un’opera o per l’intera produLI
zione, nonché altri autori qui assenti giustificati (sono in altri volumi o non è conclusa l’istruttoria critica). Scrittori che hanno contribuito a dare alla vita i connotati per la quale la riconosciamo: magari connotati finti, camuffamenti, travestimenti e altre mascherate o forse pure denudamenti di cui comunque noi ci serviamo per tirare avanti. Ci sta giocando un brutto tiro, ma anche la letteratura è stata tante volte capace di indicare dove la vita è davvero vita, o almeno così sembra dalla violenza dell’urto di
certe parole, fortunate o calcolate. 256
Fortunate è dir troppo per le parole di Gadda. Quelle che gli venivano su naturali non potrebbero essere più disgraziate, più disperate, più strazianti: da urlare, in trincea verso i proprî generali, a casa verso i proprî genitori. Che cazzotto intuire che «la madre adorata» non lo capisce: nemmeno lei capisce il suo comportamento impac-
ciato e inetto. E allora il sottotenente Gadda giù a mettere in iscritto qualcosa da cui sia possibile intendere la sua vera natura. Urge rivolgersi alla cultura, al calcolo, agli artifici tecnici: tocca essere «freddi e dissimulatori», inventarsi un linguaggio diverso da quello con cui si esprimeva naturalmente nella prosa «genuina» richiesta dal Giornale. Ma non è forse un linguaggio anche la scrittura diaristica con la quale uno dà diretta testimonianza di sé? Dunque la malattia lancinante della psiche può essere una malattia del linguaggio? In effetti sta urlando una cultura, non una natura che sembra incurabile. Però
se è una cultura, la si può cambiare, anzi bisogna far presto a cambiarla, perché il «male invisibile» non dà un attimo di pace: tanto meno nel dopoguerra, quando il reduce Gonzalo Pirobutirro è ferito mortalmente da qualsiasi evento, quasi sempre insignificante un personaggio che, girando con psiche, grida anche per la polvere suono di una campana pagata per 12
di per sé, ma non per una ferita aperta alla che le si posa sopra: il darsi arie da un padre
privo di sostanze da sprecare, il saper vivere dei vigilantes, le lezioni private della madre. Ecco il punto: bisogna uccidere la madre. Che è una metafora per dire che è urgente uccidere il linguaggio materno, quello che imprigiona in una malattia per la quale non si può essere come gli altri. Essere diverso da quello che è diventato, a causa dell’imposizione materna per arrivare a un altro Gadda. Il Gadda che sta sotto ul linguaggio materno e che certamente ha un linguaggio «altro», oppure il Gadda che nascerà dal cambiamento culturale, dalla trasformazione, o più precisamente, dalla
deformazione? E in guerra Gadda con un linguaggio femminile? «Deformare significa conoscere» per Gadda. Che si mette subito al lavoro per mutare i connotati alla sua scrittura. Se la deformazione fa pensare alla caricatura, va bene anche così: cioè conoscere attraverso la comicità. La quale si trova sul versante opposto a quello preferito dalla madre di Gonzalo: che fa la tragica, lei che si è educata sul teatro elisabettiano. Uccidete quel linguaggio e createne subito un altro. Quale? Quello del Pasticciaccio, dove Gonzalo è diventa-
to il commissario Ingravallo? É questa la vita nuova, dove investigando è possibile dialogare con gli altri? Se un po’ si ride, la paura deve essere passata; il male invisibile non aggredisce più apertamente il protagonista ma non risparmia nessuno; e il disordine che tanto offendeva il sottotenente Gadda per le carte sul tavolo si è allargato verso il resto del mondo come una metastasi inesorabile. In qualunque modo o luogo, la vita che si fa avanti è sempre un cazzotto. Combinala come vuoi, facci la più duttile e fantasiosa «ars combinatoria», essa ti colpirà comunque, anche se non è escluso che ti venga da ridere. E un cazzotto pure che ora si possa ridere da disperati. Gadda conquista, trascina e ammucchia più vita che può, gira intorno con un linguaggio che fa il doppio gioco (il «gioco ab interiore» e il «gioco ab exteriore») pur di dare la massima vitalità ed energia espressiva, «espressio13
nistica», a ogni frase e parola, ordina e compone cubi per far quadrare il globo, ma alla fine gli pare di aver solo aumentato la confusione. In questa egli potrebbe annegare e invece tira sempre fuori la testa per continuare a domandarsi se questa è davvero la vita o è solo la proiezione fantastica del suo male. Quel suo male particolare che ora si diffonde nell’universo, un male universale.
Gadda non darebbe mai consigli a nessuno, però la sua struttura, magari quel poliedro che illustra la copertina di Meditazione milanese e che spinge i suoi spigoli o angoli verso la periferia oscura, è ossessiva nell’incitamento a cercare ancora dove non sono arrivati i linguaggi della tradizione. Le punte degli spigoli del poliedro raggiungeranno mai il confine del sistema? Illumineremo mai definitivamente la periferia che ci tiene tanto all’oscuro sulla totalità? Conquisteremo alla civiltà tutta la barbarie? La vita sarà sempre questo gran pasticcio nel quale quanto più ci addentriamo per stabilire l’ordine tanto più ne accresciamo il disordine, se ogni punto attira nuovi fili di conoscenza e si annoda. In assoluto un incomparabile fallimento per chi cerca il senso di tutto ciò. Sennonché gli angoli di quella struttura complessa sono anche imperativi inesorabili. Non puoi fare a meno di eseguire l’ordine: devi andare avanti, non hai alternativa alla ricerca nei ter-
ritori non ancora toccati dalla geometria. Una condizione tanto paradossale che ne potresti ridere ma è una tragedia questo scappare dal caos che è anche un correre verso il caos. Non c’è differenza? Progresso non c’è, ma differenza sì. La condanna consiste nell’avere l’obbligo di cercarla. E qualcosa si trova sempre. 35
Bontempelli l’aveva scritto e Debenedetti aveva registrato la sua opinione nella recensione su Gente nel tempo: «L’opera scritta è in certo modo fatta di due piani paralleli, il piano delle cose e il piano delle parole... l’ideale supremo dello scrittore è di saper talmente accostare 14
l’uno all’altro quei piani paralleli ch’essi alla vista si confondono in uno... la duplicità sussiste, e questa è la tragedia dell’arte dello scrivere». È una tragedia antica che ha fatto scorrere molto inchiostro specialmente nel nostro secolo. Il quale ha dovuto lavorare quasi quanto nessun altro secolo precedente, se non forse il Seicento, sul piano delle parole, dal momento che le cose non s’erano più fatte trovare al loro posto e più precisamente non s'è stati più in grado di ordinare alle parole di «seguire» le cose, di stare fedelmente dietro ad esse. Si era verificato quel divorzio tra cosa e parola in omologia al quale Debenedetti parlerà di incongruenza tra il personaggio del romanzo moderno e le sue vicende: eliminarla, questo è il vero obiettivo di chiunque nel Novecento dice di dedicarsi alla ricerca di un nuovo linguaggio. Un nuovo linguaggio che va in cerca dei fatti «naturali» che si svolgono in un mondo in cui niente si spiega più con i nostri criteri.
Parole di Debenedetti in cerca del vero Kafka. Debenedetti racconta quella tragedia bontempelliana anche in altro modo. L’ispirazione gli viene dall’amatissimo Wagner, che fa soprattutto musica ma che sa bene fin dove sono necessarie le parole. Esaminate attentamente la storia di Tristano e Isotta, consiglia il critico. Constaterete che Tristano desidera non tanto avere Isotta quanto piuttosto essere Isotta. Nella coppia Tristano e Isotta la congiunzione è una copula, la e è una è. Un enigma che non si finirà mai di decifrare: già esso stesso è parola che non troverà mai l'oggetto del suo desiderio. Interpretiamolo quindi solo pensando a Debenedetti: alla sua ricerca di identità tra bellezza artistica e verità, tra racconto e mito; per limitarci a due casi in cui arrivano a unità alcune differenze fra le tante perseguite da un critico che aveva anche il problema di fondere saggio e narrativa. In effetti mentre cerca il mito nuovo negli scrittori che esamina egli non può dimenticare la conseguenza dell'obbligo fissato agli altri: chiunque scrive, quindi pure lui, deve assolutamente inventare o scoprire il proprio mito. Se vuole evitare il rischio in cui incorre Cecchi per Le)
essersi solo imprestato il mito, Debenedetti deve crearselo. Soltanto così Tristano, il critico, avrà, anzi, sarà Isotta, la poesia. È un viaggio tra due distanze enormi quale può essere quello fra la razionalità chiarificatrice del saggio e l’ambigua densità della narrativa. Debenedetti però sa quanti scrittori «intellettualistici» e «artificiali» del Novecento, a cominciare da quelli a lui più cari, cioè Pirandello, Bontempelli, Savinio, hanno usato i più aggiornati materiali culturali come «astuzie della provvidenza» per arrivare a una letteratura moderna in cui la rivelazione intellettuale dà la forte emozione che si attribuisce alla poesia. Il problema è sempre lo stesso: creare un mito, cioè un racconto semplice e duraturo come un proverbio, nel quale concentrare un senso, tanto probabile da sembrare vero, del-
la vita contemporanea. E in sostanza Debenedetti ce l’ha fatta, prima inconsapevolmente (le rivoluzioni inconsapevoli con cui rinnovano la poesia e la narrativa moderna in Italia Pascoli e Tozzi), poi sempre più coscientemente (nel Rorzanzo del Novecento): frequenta e scopre la struttura privilegiata dalla quale nasce il suo personale e collettivo mito della disponibilità dinanzi a una vita che dà imprevisti cazzotti o carezze al personaggio-uomo del nostro secolo. La coppia del secolo è quella formata da mito e struttura? Il mito come elemento maschile e la struttura ad avere la parte femminile? Il mito mette in evidenza il significato di un racconto semplice e favoloso che diventa un proverbio. Tuttavia non è la morale della favola, troppo povera sarebbe la coincidenza tra una vicenda e un solo significato..Edipo o Ulisse o Don Chisciotte o Madame Bovary o Zeno sono miti millenari o secolari con cui l’uomo si è raccontato cento storie diverse con integrazioni che hanno sempre creduto di fissarne il senso definitivo. E invece il mito se ne sta sempre lì distante e impenetrabile, sempre uguale e sempre differente, seducente e disponibile ma restio a far coppia fissa con un’idea o una morale. Perenne la sua seduzione, effimera la sua conquista. Ma 16
allora in che cosa si distingue il mito dalla struttura? Non è pure della struttura avere un disegno di cui è impossibile acquisire il significato? Una struttura attira mille signifi| cati e tutti li respinge dopo avere illuso ognuno che è lui il prescelto. La struttura è la madre del mito, il quale terrà della natura materna, cioè avrà una doppia natura che lo destinerà a inesauribile ambiguità: come ad esempio l’Ermafrodito di Savinio, che ha doppia energia avendo in sé l'elemento maschile e quello femminile. Quello dell’Ermafrodito è un mito che viene da lontano e mai più si allontanerà, dopo essere tornato col Novecento. Che gli ha aggiunto nuovi miti, dando vita a nuove strutture. La storia aiuta a far nascere le strutture e i miti. Quante? quanti? Ogni epoca ha una struttura che si adatta bene al mondo e alla vita contemporanei. Convergono su di essa la più avanzata cultura e la più antica natura per dare vita al linguaggio che un’epoca riconosce come suo, lo sposo unico atteso lungamente, dal quale nasceranno i nuovi miti. Una sola è la struttura linguistica delegata ma sono centinaia i significati che essa può reggere. Cercate insom-
ma la struttura che funziona e poi metteteci dentro tutte le idee che volete. Come il mito, racconto «indifferente» nel quale entrano mille vicende partigiane. Il mito fa unità con struttura? Un’unità prolifica che è costretta a farsi in cento parti. Sono una sola cosa che si può dire in mille modi? Una struttura vergine che seduce un'infinità di Don Giovanni. La struttura cede il suo senso al mito ma non saranno mai una sola cosa. L'elemento maschile che è la storia la costringerà a dichiarare qual è il desiderio di cui è latrice, ma essa può confessare una verità che sa passeggera. Nel caso migliore nasce un mito, dalla cui semplicità ci si può illudere di avere in mano una verità perenne. E invece il racconto proverbiale dice e non dice, è chiaro ma è anche oscurissimo, adatto ai bisogni storici ma sensibile davvero solo al desiderio indefinibile che l’ha generato. Il mito sembra un contenuto ma è una forma: che, ad esempio 17
nel Novecento, può essere «informe» (con i futuristi, con i dadaisti e con le neoavanguardie), «deforme» (con gli
espressionisti), surreale o ermetica, per tornare ad essere (neo)realista o (neo)classica. Il mito parla di questo e d’al-
tro. Trovate la forma nuova ed essa vi dirà qualcosa di così profondo sul presente che vi parrà definitivo. L’uomo d’ora in poi sarà anche quella cosa ogni volta che sarà necessario esserlo. Siamo tutte queste cose che vengono raffigurate in miti vecchi di millenni, secoli e decenni? Più uno, direbbe Zavattini, e lo direbbe anche Pizzuto, che da empirista fa toccar con mano che dalla coincidenza di sostanza e forma nasce una prosa narrativa che richiama sul presente dalla memoria del passato e dal desiderio futuro tutto ciò che la struttura informale del suo linguaggio può accogliere e sistemare per ora e per sempre.
Quanto può entrare in tale struttura? L'infinito, l’infinito presente: tempo vero del mito, che finge d’essere definito ma che è sempre pronto a scappare verso un’altra interpretazione.
Gliel’aveva detto Palazzeschi come bisogna fare: bisogna fare centro fuori dal centro. Come le epifanie joyciane, come le proustiane intermittenze del cuore, come «il
tempo
pesante»
del realismo magico bontempelliano;
come le rivolte dell'infanzia saviniana; come le tozziane
incompatibilità filiali o come l’imbruttimento dei personaggi pirandelliani e come tanti straniamenti, shock, contropeli, atti gratuiti che hanno dato tanto da fare alla psicoanalisi. Debenedetti oltre alla psicologia ci vuole mettere sociologia, scienza e molte altre ragioni per dare legittimità oggettiva a un’interpretazione che non può più andare oltre la probabilità. E siccome è uno che ama uscire dal «negativo», che comunque non teme ma anzi considera un fattore di dinamica sociale e culturale, offre un
mito che sa ricavare del «positivo» dalla perenne condizione di crisi in cui l’ha precipitata la «perdita del modello» ottocentesco o morte di Dio o rivolta contro il padre. L’orfano ha nostalgia del padre, del «modello», della struttura fondamentale di un determinato periodo stori18
co. Debenedetti si comporta come se ce ne fosse una sola ad aver avuto il mandato di rappresentanza dalla storia, con quello di cui essa si fa carico. Tristano non diventerà Isotta ma non può amare altra che lei. Sappia uno scrittore quale struttura gli è stata destinata e non smetta mai di cercarla, di amarla. Cosa dice Debenedetti, o meglio il suo mito, la sua struttura, che è figlia delle epifanie joyciane e delle proustiane intermittenze del cuore, nonché della microfisica e della psicoanalisi junghiana e dell’immaginazione sociologica di Wright Mills, per non dire delle parabole metafisiche di Kafka? Non sappiamo dove andare ma sappiamo di essere in movimento, anche se ne ignoriamo la velocità; non possiamo fermarci ma non conosciamo il senso del cammino. Questa è la situazione, questa è la vita d’oggi. Possiamo pensare di dirigersi dove ci spingono i desideri e i bisogni, l'inconscio e il progetto insieme; ma si può aniche andare a caso: è successo che facessero le più efficaci rivoluzioni quelli che ne erano inconsapevoli, è capitato pure a lui, al critico. Le possono fare anche i critici, i saggisti, i filosofi, gli scienziati, oltre che gli artisti, e ovviamente pure i politici. Chi ama profondamente il saggio ha la possibilità di incontrare l’arte: che non si nega alle buoné ragioni, a quello cioè che sanno penetrare nelle strutture della vita e del mondo. L’hanno fatto come si deve Machiavelli e Galileo e De Sanctis. All'improvviso quello che sino allora era sembrato insignificante può diventare estremamente significativo. Chi è più profondamente attento al proprio tempo può essere prima o poi capace di
creare il mito che illumina il senso di un’epoca? È un mito anche questa teoria ma intanto potrebbe indirizzare verso una di quelle verità, reali o finte che siano, con le quali va avanti non solo la letteratura ma anche il mondo. Il mito di uno smacco che può risolversi in vittoria: purché si accetti che d’ora in poi possa vincere chiunque, meritatamente o no, anche chi non sembra proprio destinato al successo, un gruppo sociale emarginato o una nazione «trascurabile» o un individuo insignificante. Si 19
saprà dopo, se si saprà, perché si è perso e comunque la regola non varrà per il futuro. Così sarà il nostro futuro: questo tenerci pronti per l'occasione che deciderà della nostra sorte. Potrà essere, come per i personaggi sveviani, un cazzotto o un regalo. Per giunta sarà impossibile stabilire se era meglio ottenere il primo o il secondo. Zeno preferisce ovviamente il secondo ma in assoluto il suo destino non gli sembra molto diverso da quelli dei suoi più sventurati fratelli. Forse perdono tutti ma potrebbe essere metafisica. La storia dice invece che la vittoria va a colui al quale tocca quando c’è coincidenza di progetto e destino. 4.
Non è realistico che il piano delle parole si fonda col piano delle cose, che il linguaggio arrivi puntuale all’appuntamento con la vita, che Tristano diventi Isotta? Ebbene, sperimentiamo il surreale, anzi sperimentiamo il surrealismo, dice Savinio. La svolta deve essere radicale, non ci deve essere continuità, come ad esempio succede col cerchio, figura della ripetizione e della conservazione. Rompiamo con il passato, con la tradizione, con le sue forme. Proviamo con l’«ordine quadro», col cubo, lanciamo il dado: figura a sei facce che consente di guardare da altrettante parti uno stesso oggetto. Gioca a dadi anche Gadda e ogni scrittore che abbia perso la prospettiva privilegiata. Ci sono solo punti di vista sulla medesima condizione. Bisogna metterli a fuoco, anzi incendiare ogni parola per farle esprimere il massimo di energia. Con tanti diversi punti di vista si può guadagnare una visione. Tocca ai visionari guardare la vita? Forse sono davvero loro quelli destinati dall'epoca a vedere più a fondo, nel profondo, e di là estrarre le immagini che sono surreali ma che hanno almeno apparenza di vero, anzi sono persino verosimili. Il surrealismo materialistico di Savinio strappa alle parole e alle storie più fantastiche una monta20
gna di oggetti concreti, che la sua pittura vede come solida geometria. Savinio ignora le mezze misure, è un estremista, vola con la fantasia come quasi nessuno fa in Italia, «terra dove non si posa la cicogna», uccello che porta in terra qualcosa di nuovo. Come si mette a cercare la vita? Addirittura con la morte. Guardatelo mentre racconta quella del Signor Miinster nell'omonimo racconto di Casa la Vita. Liberandosi progressivamente del peso del corpo, il ‘personaggio alleggerisce il pensiero, che da tutte le situazioni irreali in cui quello è coinvolto è proiettato a cercare un concetto certamente non realistico. Quale audacia di ragionamento si ritrova il Signor Miinster nello stesso tempo in cui il suo corpo va cadendo a pezzi. Sono idee mai sentite, mal pensate, mai espresse, ingegnose o geniali che siano, forse anche folli, comunque prima impensabili. Savinio sa pensare l’impensabile con una mente che approfitta dell’essere sul punto di morire per scoprire qualche idea per la quale la vita merita d’essere vissuta. Non sempre queste scoperte fanno bene alla sua natrativa, ma che cosa non scopre Savinio scrivendo le voci di Nuova Enciclopedia, una delle opere più intelligenti della cultura del Novecento. Quanto surreale diventa reale, quanto astratto diventa concreto, quante visioni diventano cose viste, quante idee folli diventano sagge, quante parole diventano cose. Sono cose che si toccano con mano? No, perché restano cose dell’altro mondo, l’altro mondo dal quale si ha più esatta visione del nostro. La metafora assoluta può aver creduto che era possibile trovare il compagno con cui unirsi ma vede meglio da lontano, anzi da un altro emisfero. Nessuna illusione però: il soprannaturale, l’Aurora del signor Miinster, è una visione deludente. Tristano e Isotta non vedranno mai lo stesso spettacolo: mentre per uno la verità sta davanti, all’altro essa volge le spalle. La verità in effetti ha voltato le spalle a tutti, non ci sono che punti di vista. Se volete aiutarvi con le visioni, fatelo, a condizione naturalmente che sopra la psiche o 21
dietro gli occhi ci sia la fantastica e poderosa intelligenza di Savinio. A lui basta un quadrato, un quadretto, una
finestrella per vedere oltre lo sguardo comune. Fa quadrato intorno al dettaglio che gli pare contenere in sé una verità e gli gira intorno. La Verità? Solo tante verità su cui di volta in volta giurare. Un Don Giovanni della verità «infantile», passeggera ma intensa come un assoluto. Dallo stesso cubo Gadda, sommando i numerosi punti di vista, vuole ricavare l’unità di un «sentimento resultante»
con cui ci si tiene nei paraggi dell’unica verità. Uno scapolo che cerca sempre l’amore supremo nel quale Tristano e Isotta sentono, vedono e sono la stessa cosa. 5.
Per Saba «la conoscenza, come l’arte, vive sempre del proibito». Dunque, il proibito come ruffiano di conoscenza e d’arte. L’artista come fuorilegge, diciamo pure come rivoluzionario, magari «una rivoluzione su ali di colomba». Sconfinamento, straniamento, viaggio da compiere di notte, quando dormono le guardie di frontiera, trasgressione. Sono almeno tre le trasgressioni di Saba in Ernesto. Anzitutto il poeta sconfina nel romanzo, genere letterario con cui si possono narrare cose che non sono le stesse cose dette nei racconti in versi che spesso sono le poesie di Saba. Poi c’è il tema centrale del romanzo, la storia di un amore omosessuale, che all’epoca era tabù. Ma per lo scrittore il vero tabù è il linguaggio del libro, a cominciare dalla lingua. Proibito è il dialetto, che per il giovane Ernesto è la lingua dell'amore col bracciante e dell'amore verso la madre. Col dialetto si è al naturale, come è «naturale» l’amore omosessuale. E il proibito che ha il diritto di diventare naturale anche per la cultura d’oggi. Come l’amore omosessuale. Il dialetto e l'omosessualità sono i contenuti «proibiti» di un linguaggio tabù nei confronti del quale è scattato un meccanismo inconscio che a lungo impedisce la pubblicazione del romanzo. 22
All’origine di Ernesto c'è una metafora, figura della sostituzione di oggetti o persone che occupano lo stesso posto nella struttura. Che fa Ernesto dopo l’amore col bracciante? Va con una prostituta, poi con un ragazzo, ancora dopo forse con altre ragazze e ragazzi. Il linguag-
gio suggerisce che con chiunque fai l’amore sempre di amore si tratta. Così si comporta la natura, così si comporti la cultura, dopo nietzschiana «rivoluzione su ali di colomba». La cultura, cioè l’interpretazione, la lettura del libro. Il lettore raggiungerà mai il narratore che racconta un’esperienza proibita, cioè prossima a diventare conoscenza ed arte? Il narratore deve aspettare il lettore per procedere insieme. In Erzesto avanzato è il racconto; in ritardo, o troppo esplicativa, è l’interpretazione che segue gli eventi. La narrazione ha le ali, il commento di Saba non vola mai. Il romanzo spicca il volo quando dovrebbe essere più terra terra, cioè al naturale, nel dialetto, lingua dell’altro che si esprime in modo essenziale, per «scorciatoie», brevi sentieri di avvicinamento fra strade lontane, metafora che unisce luoghi mentali e culturali prima privi di relazioni. Bisogna allora usare solo il dialetto per conoscere e per esprimere artisticamente il nuovo e il proibito senza i quali la cultura non raggiungerà mai la natura? Ebbene no, come l’amore omosessuale è amore quanto quello eterosessuale, così sono lingua egualmente poetiche il triestino e l’italiano: a condizione che questo abbia la grazia sfrontata, la perspicuità pregnante, la figuralità luminosa e la musica oscura o arcana del dialetto di chi ci è nato e di chi è stato magari costretto a rimuoverlo. Trasferendo il suo triestino in italiano, Saba ha scritto il Carnzorsere, poesia «dialettale» in lingua. 6.
Proviamo col gioco, dice Landolfi. Che ad arrivare alla vita sia più bravo il gioco? Le carte, la roulette, altri giochi, compreso il doppio gioco con cui egli cercava di 25
ingannare anche se stesso. Landolfi è sempre doppio, specialmente se fa il gioco letterario. Si intitola al dialogo la sua prima raccolta di racconti, ma ha sempre due livelli ogni sua narrazione. È da più di un secolo che si dice che la verità sta sotto (o molto sopra), e Landolfi l’ha capito, almeno dai tempi di «Maria Giuseppa», che c’è un altro personaggio che parla dall’interno del monologo del protagonista. Si può tentare con la fantasia (i racconti di uno dei rari narratori fantastici italiani) ma può bastare pure l'autobiografia. In superficie tutto è chiaro, anche razionale, spesso anche reale, ma, si è detto, è chiarezza al servizio dell’oscurità, razionalità al servizio dell’inconscio, reale al servi-
zio dell’immaginario, nonché forma al servizio dell’informe. Il personaggio sopra gioca ma, sotto, la vita fa sul serio. Riuscirà il gioco non ad avere ma ad essere la vita? Forse il gioco della torre, che si comincia a giocare a due livelli, ma si sa come va a finire, tocca lasciarci la vita o anche peggio. Saremmo arrivati alla verità più “concreta”
ma sarebbe anche il contrario della vita. La quale è sempre doppia, almeno in letteratura e nel gioco. La roulette è un cerchio ma non è una figura piana. Si vede meglio quando la vaschetta gira: è un vortice, vuoto che scende vertiginosamente verso il fondo. La figura piana di Landolfi è in effetti, un solido, un cono. Il racconto landolfiano è un cono di luce ma finisce in un punto, un
minuscolo globo, che resta sempre al buio. Quel cono è una spina, un cuneo, nel cuore di Landolfi, ma gli arriva anche nel cervello (che, metaforicamente, lui ha molto
vicino al cuore). Se quel cono raffigura un segnale, una freccia, un indice, non sperate di sapere da Landolfi dove si va o come si chiama la località dove si è diretti o donde si è diretti, cioè guidati. La posizione della figura è sempre verticale, ma essa potrebbe non essere poggiata sulla base. Landolfi è bravissimo a fare giochi d’equilibrio ed è un acrobata del ragionamento, un illusionista delle idee: purché si sappia che anche le più spericolate, astratte e finte, prima o poi
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arrivano a sembrare vere; finché dura il gioco, e anche
oltre, visto che resta un assillo: si è incuneato un tarlo nel
pensiero benpensante. Il suo mondo dunque pare reggersi su un punto: ed è un equilibrio assai poco rassicurante, se i personaggi vivo-
no nell’allarme di chi avverte che tutto sta crollando.
Dev’essere una condizione di intollerabile instabilità, se
Landolfi con un colpo di mano imprevedibile rovescia il cono che gira sulla punta e lo blocca sulla base: quella che si estende sulla vita privata dell'ultimo periodo, quando nascono due figli e due volumi di diari, Rien va e Des Mois. E questa la vita con cui voleva unirsi il gioco di Landolfi? Finisce così il gioco? Il gioco finisce e per Landolfi è come se finisse la vita. La vita non ha senso senza gioco, senza il gioco della letteratura. Che è sempre un doppio gioco. Non sarà mai un
gioco semplice, ridotto a unità. La duplicità bontempelliana tra piano delle parole e piano delle cose per la quale è una tragedia l’arte dello scrivere. E anche la tragedia di Landolfi, ma lui si diverte, pure nel senso di deviare, di andare sempre altrove, magari verso quel solo punto del sistema che gli è rimasto oscuro. Vorrebbe poter credere che è posto fuori del mondo ma Landolfi se lo sente nel «fondo di sé». Un rovello anche per la critica, che ha pure pensato a un movente psicologico. Morirebbe, se fosse vero.. Per vivere, Landolfi deve giocare a nascondersi. Impossibile dire la verità a un siffatto narratore.
cu Alvaro viene dal Sud ma guarda al polo opposto. Al Nord! Al Nord!, urla senza dire una parola Melusina, la quindicenne calabrese innamorata del pittore settentrionale che l’ha ritratta. L'artista l’ha subito capita, o almeno ha intuito che essa era depositaria di un segreto per il quale non aveva parola ma per il quale la bocca avrebbe dato un segnale da decifrare. La bocca di Melusina è come una ferita, le labbra strette sembrano mandare un 25
bacio cattivo. A chi è indirizzato? Certamente non al suo pittore, che pare uno di quei santi biondi dipinti in chiesa. L’artista nordico ha colto l'attimo in cui Melusina faceva con le labbra il gesto che la deformava. Potrebbe essere un naturalista tanto è simile alla realtà il ritratto ma se gli si è imposto quel «bacio cattivo», o ha subìto una «fattura» (simile a quelle temute dalle donne meridionali tanto restie a farsi ritrarre per paura di cedere l’anima), o si è prodotta una «inconsapevole rivoluzione» di linguaggio per la quale è impossibile ottenere una rivelazione d’anima, cioè d’inconscio.
Si intende suggerire che il pittore e Alvaro sono la stessa persona e che stanno facendo entrambi dell’espressionismo? Per via della evidente deformazione della bellissima Melusina? Forse di più per-il fiammante cromatismo con cui il narratore descrive una Calabria montagnosa che sembra un paesaggio infernale. La parola ce l’ha lui ma l'occhio potrebbe essere anche quello di Melusina, la ragazza prigioniera che vorrebbe essere altrove e che dopo aver visto il pittore sa dov'è che vorrebbe andare. Chi è dunque il bersaglio di quel «bacio cattivo» che il pittore e il narratore hanno registrato al momento opportuno, cioè quando per svelare il segreto di un’anima risulta particolarmente efficace il linguaggio che deforma? E diventato «nordico» uno scrittore che è solito lavorare «a caldo» come si addice a «narratore lirico»? Qui siamo a un livello più profondo di quello su cui si esprime il soggetto cosciente. Sulla bocca di Melusina vanno a concentrarsi molti «interessi» occulti. La leggenda medioevale, che ha quale protagonista la Melusina da cui deriva il nome la quindicenne calabrese, la dà colpevole di parricidio, delitto per il quale è trasformata in serpente. Una trasformazione «simbolica», una deformazione d’origine psicologica sono il sintomo vistoso di un’avversione per il padre che gli «espressionisti« (da Kafka a Tozzi, a Gadda) hanno raccontato spesso, anzi con frequenza ossessi-
va. Alvaro trascina la leggenda medioevale nel Novecento per narrare una storia attuale e forse personale. 26
Melusina tace ma la sua bocca è eloquente: la ragazza odia il padre perché l’ha trascinata davanti al pittore «come una giovenca al macello, perché è un servo docile del padrone, e perché gli impedisce di amare e di seguire il pittore al quale sente «fisicamente» di cedere l’anima. Non ci sono prove che legittimino un’identità tra il narratore e il suo personaggio per il rancore verso il padre, almeno a livello cosciente, ma di sicuro Alvaro condivide con Melusina il desiderio di scappare dalla regione natale. Anche a lui parrebbe di morire se fosse costretto a restare in Calabria, in famiglia, in un paese dove i rapporti sociali sono brutali anche quando sono paternalistici. Al Nord! AI Nord! E lì portare il ritratto di Melusina e ogni altra testimonianza più o meno inconscia di una rivolta. Fate attenzione, dice Alvaro, che non si tratta di una
rivolta di popolazioni arretrate. Non lo sono nemmeno quelle che seguono la Capitana contro i francesi traditori della Rivoluzione. Ancor meno arretrata è Melusina, an-
che se manca delle parole con cui dichiarare la sua guerra sentimentale e sociale. Quell’espressivo, espressionistico,
«bacio cattivo» lo colloca all’avanguardia, ovviamente insieme e per merito del suo narratore. Forse Alvaro non lo sapeva, hanno fatto pure a lui la fattura, difficile stabilire quanto egli sia cosciente di quel che fa raccontando la storia della sua corregionale. Melusina è una donna dello schermo? La maschera di Melusina combacia col volto di Alvaro ma lo nasconde? Alvaro desidera essere Melusina come lei è nell’inconscio? C'è pure della consapevolezza, c'entra anche la storia in questo racconto. In quel periodo quasi nessuno può interpretare meglio di una giovane calabrese la parte della donna oppressa, sottoposta a padri, padroni e ambienti che fanno pratica «naturale» di prevaricazione e di umiliazione. Le donne calabresi erano all’avanguardia della sventura sociale e culturale che in quell’epoca colpiva, come dire?, il versante femminile dell’umanità. Ma, femmina o maschio, sempre di storie di uomini del Sud si tratta. Melusina spedisce al Nord, a tutte le altre donne, il Zil
proprio ritratto come segnale tacito ed eloquente della sua ribellione ai padri e ai padroni. Un Sud che arriva prima del Nord, un Sud che sta sopra il Nord? Ad Alvaro basterebbe che il Sud fosse come il Nord, anche se sa
bene che pure a questo tocca cambiare. Vorrebbe che fossero uguali e insieme diversi, comunque più liberi: | quanto desidererebbe Melusina, che nel suo silenzio si fa carico della pena di chiunque, compresi gli uomini, è impedito di vivere come si deve. Era impedito anche Alvaro? C’è differenza tra i due ma colui che narra in prima persona i fatti ha bloccato la circolazione del ritratto di Melusina per rispetto, dice, della ritrosia che le donne calabresi hanno di far vedere la propria immagine. Piange Melusina anche perché il suo messaggio non è potuto arrivare agli altri per una super-
stizione? Invece Alvaro ha capito che era venuto il momento di far circolare il proprio «Ritratto di Melusina». Il proprio ritratto, un «autoritratto» con travestimento? C’è una fuga ma c’è anche un appressamento. Ci sarebbe l’unità se non ci fossero tanti altri interrogativi. E Melusina non parla. 8.
Non dimenticate la ragione, non crediate di poterne fare a meno, troppo a lungo il secolo le ha imposto il sonno, dice Sciascia l’illuminista. Solo con questa corda lo scrittore siciliano le suona agli irrazionalisti, agli «oscurantisti» e a coloro che lavorano a tenere all’oscuro i cittadini? Forte è la sua corda «seria», non meno lo è quella «civile». Siamo a due delle tre corde ereditate da Pirandello. E la terza, la corda pazza? In Sciascia i migliori pazzi tengono la testa a posto, come quelli consigliati da Bobi Bazlen. La sua narrativa non perde mai la ragione. Nemmeno quando dà i numeri in Todo modo, il cui protagonista si dice affetto da nevrosi della trinità. E il 3 il numero di Sciascia, quello della dialettica? Semmai il 2, numero dell’alternativa fra il disonesto e il 28
retto, fra il cattivo e il buono, fra il bello e il brutto, fra il vero e il falso. Il 2 significa però pure che il narratore ritiene di sapere cosa è vero, bello, buono e retto. Che il numero di Sciascia sia l’1, quello della certezza che di solito viene attribuita a Dio? Un atto d’orgoglio di uno scrittore in rivolta verso una cultura che dell’ambiguità e del mistero ha fatto uso come alibi per non intervenire nemmeno quando fa la verità? Sciascia è sicuro di avere ragione, di essere in grado di conoscere la verità. Sempre di più col passare degli anni, da quando si è messo a rivedere le carte dei processi e ad emettere giudizi senza appello. Presenti appello alla sentenza chi la pensa diversamente, purché lo faccia con buona ragione. La ragione è stata «restaurata».
Vincerà dunque la verità col solo aiuto della ragione? Non è facile, se l’«eroe positivo» di A ciascuno il suo è alla fine definito con altrettante buone ragioni un cretino. Per giunta, se il protagonista di Todo modo dice la verità, cioè che il colpevole è lui, non gli si crede. Il paradosso paralizzante della verità in un’epoca miscredente. E allora Sciascia decide di comportarsi dinanzi alle proprie verità particolari del caso per caso come se fossero la Verità. La verità del militante, di colui di chi deve sapere la verità o di crederla tale se ogni giorno tocca partire per la guerra. Il «come se» di Vahinger. Se uno ha ragione può fare cose serie e battaglie civili. Resta fuori la pazzia, quella che non si può ridurre a ragione. Restano fuori tante cose serie, magari non civili, dalla narrativa di Sciascia.
9. Lì vicino, in Sicilia, era nato uno scrittore che non perdeva mai di vista l'assoluto, cioè Antonio Pizzuto. L’asso-
luto ce l'abbiamo tutti sotto gli occhi, anzi lo possiamo toccare con mano. Siate empiristi e il ciottolo diventerà un assoluto. Non trascurate nemmeno il più minuscolo dei dettagli, niente è trascurabile di ciò che si tocca e di ciò che tocca agli uomini. Anzi è sempre troppo grande, Z9
fatelo in quattro, e vedrete che avrete dato sapore alla vita. Triturate la vita, riducetela in piccoli frammenti, mischiate le sostanze più lontane e apparentemente in-
compatibili e poi servitela com'è: disintegrata, esplosa, informale. È l’informe la sua migliore forma, l’informe che si fa forma in cui ogni punto è un centro di irradiazione di calore e di senso. Non date un confine rigido a una parola, non definite un verbo: lasciatelo all’infinito, purché vada avanti verso il futuro e indietro verso il passato. L’infinito presente ci porta sotto gli occhi e in mano qualcosa che è sogno e insieme nostalgia. Per sempre e insieme costringendo a continue verifiche. AèA,se Aè A, finché
Aè A_E
così precaria la rivela-
zione del particolare che diventa assoluto? Il tempo della vera poesia è l’infinito presente: l'emozione, se colpisce la . sostanza della vita, è perenne. Alla poesia ora si può chiedere nulla di meno del senso della vita. Che non è finita,
va avanti all’infinito. Bisogna, all’infinito, «aggiungere vita alla vita». Bisogna impegnarsi con tutti i sensi. E col linguaggio «informale» che esalta ogni cosa girandole intorno finché essa non manda un segnale acuto. Ci vuole molto orecchio, bisogna mettere in musica tutti questi materiali se si vuole che arrivino all’assoluto. È questa dunque la vita? La prosa di Pizzuto è la vita? Nemmeno a lui riesce l’impresa impossibile a Tristano. È una parte della vita, quella parte che uno ha sotto gli occhi e nell’orecchio. Ma, poiché la contraddizione non lo consente, non può essere l’assoluto. Se usi un buon sistema di percezione, ogni momento,
ogni più umile
oggetto della vita ti farà sentire come se provassi l’assoluto. Quella parte che ancora è toccato all'uomo di vedere dalle origini a oggi. E l’assoluto? È sempre nel tuo futuro. Questo è il tuo futuro, questo presente infinito nel quale vivrai sempre in attesa del futuro. Una vittoria che è anche uno smacco.
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IO.
Vittorini ha notoriamente «due tensioni», nale e quella affettiva. La ragione continua bisogna scrivere una letteratura diversa, anzi essere il mondo, che va aiutato a cambiare letteratura. La quale invece da due secoli va
quella razioa dirgli che diverso deve anche dalla avanti a ten-
sione affettivo-espressiva. Questa è ormai la sua natura,
ma bisogna imprimerle una svolta, farle sentire le ragioni del nuovo che smentisce vistosamente ogni passato. Serve un nuovo realismo, che abbia l’energia e il disegno rivoluzionario dell’illuminismo. Basta col far luce in noi stessi, diamo un disegno al mondo che desidera l'uguaglianza, la libertà e la fratellanza. La solita utopia? Ha ragione e quindi ci deve essere in qualche posto. Vittorini ce l’ha sicuramente in testa, nessuno gliela leva dalla testa, non può parlare d’altro. Di qualunque cosa parli, lì c’è l’utopia. Vittorini è la sua utopia. Questo però non lo capisce la sua ragione. Con la ragione si capisce poco perché i personaggi de Le città del mondo partono dai loro paesi. Sono poco realisti, sembrano tirati fuori da una favola; e Vittorini sembra un cantastorie, uno che narra di cavalieri
erranti alla ricerca della Città Perfetta del genere umano. I pastori hanno avuto una visione e non la perdono mai di vista, anche se la realtà li smentisce. Sanno bene dove stanno andando. Dove? In nessun luogo, cioè nella terra dell'utopia. Quando mai arriveranno questi matti, questi visionari,
questi contemplatori della nuova struttura sociale e morale nella quale gli uomini non sono mai stati uomini così, più uomini, uomini con qualcosa in più? Ebbene, essi sono già arrivati; o almeno stanno nei paraggi, ci stanno sopra, basta scavare e si vedrà la città perfetta. Non si vede? Però si sente. Lo sentono i personaggi, che sono
presi da allegria e da certezza nell’avvenire; lo sentono i lettori, che sanno di essere in un sogno ma intanto hanno in mano la fervida, affascinante, sgualdrinesca realtà di un romanzo dove tutto sembra possibile. E anzitutto lo sente DI
Vittorini, la sua «tensione affettivo-espressiva», la «male-
detta» tensione dei lirici, non quella razionale dei narratori realisti. Non riesce proprio a spuntarla sul Vittorini di prima. È la sua sconfitta ma è anche la sua vittoria. La ragione lo costringe a condannare Le città del mondo, che verrà pubblicato postumo. In vita l’aveva sentito che il romanzo era vivo. Sentì che era felice di raccontare la storia di uomini che vincono perdendo: l’uguaglianza, la libertà e la fratellanza sono sempre a portata di mano e prima o poi verranno fuori. Ci dividono pochi centimetri, ce l'abbiamo in testa ma la realtà è un osso duro: sarà sempre difficile pure penetrare nel cervello in cui è depositato il disegno della vera Città Perfetta. Il romanzo è felice di essere così vicino alla verità, ne avverte il calore e se ne riscalda e inebria, e si mette a cantare. Le città del
mondo è uno dei libri più felici di Vittorini; tanto che se ne «vergognò» e a lungo lo rinnegò. Ta
Pizzuto è il più «felice». Non si può dire che si accontenti di poco perché anzi non potrebbe chiedere di più, semmai vuole tutto dal poco e dal minimo. Poiché nessuno glielo regala, allora lui se lo prende, facendosi aiutare dal linguaggio a creare l’elefantiasi del dettaglio per la quale esso si atomizza e provoca un’inesauribile esplosione di particelle. Pizzuto riesce così persino a trasformare in un eroe il piccolo borghese che è il suo protagonista sin da Sul ponte d’Avignone. La sua struttura linguistica consiglia in ogni momento: fatevela grande da voi la vostra umile esistenza, per virtù di linguaggio. Fatevele succedere le cose importanti di cui avete necessità. Forse stanno succedendo e voi non avete il linguaggio con cui percepire l’evento e, ancor più, quello che lo rende utile ai fini della vostra più autentica vita. Stavolta tocca salire, non scendere a un altro livello: quello superficiale, più empirico, su cui lo scrittore sa 32
strappare un senso alla propria vita e su cui si sta svolgen-
do pure quella degli altri, che magari non lo sanno. Per essere profondi non è obbligatorio lo scafandro né l’immersione dentro l’inconscio. Attiratelo sulla superficie della pagina «mimando» (silenziosa gestualità teatrale) il magma che si ritiene stia sotto. Sì all’informale, che la sua forma ce l’ha, suppergiù come ce l’ha l'atomo; e ha avuto la forza di procurarselo, usando il cherosene, diceva lui, cioè l’energia da aereo, e di raggiungere l’altrove che ognuno ha dentro di sé e al quale possono attingere tutti coloro i quali non tremano di scoprirsi diversi da quel che si vede in superficie. Quaranta o trenta o vent'anni prima erano scesi a un altro livello Gadda, Alvaro, Saba, Savinio, Debenedetti.
«Il fondo di me» dice Landolfi, che finge di cercare nella superficie chiara ed elegante. Per essere se stesso Alvaro desidera andare lontano dalla Calabria, periferia che può diventare centro se la si osserva nel personaggio che ha più urgenza di scappare e nel momento in cui quasi tutti sentono la necessità di non essere dovesi trovano. Gadda era lì al fronte, in prima linea, per la sua prima guerra, che col tempo avrebbe fatto diventare totale: a cominciare da quella contro madre e padre, per andare a quella contro la borghesia e il fascismo e per finire con la guerra che non risparmia niente e nessuno, non escluso forse nemmeno il linguaggio che gli aveva assicurato che gli avrebbe cambiato la sua sventurata natura malata. Saba ha sentito pronunciare il suo dialetto da una indimenticabile voce di amante proibito e da allora ha nascosto il triestino dentro il più melodico italiano della poesia contemporanea. Tutti i linguaggi, proibiti o consentiti, purché prima o poi arrivino puntuali all'appuntamento con la realtà dei sentimenti e delle idee dai quali si riconosce la vita di un’epoca. Anche i linguaggi d’avanguardia debbono rispondere alla vita dei loro eccessi e degli esperimenti radicali con i quali tentano l’altro a manifestarsi. Recuperate la perduta congruenza tra personaggi e
vicende, non rinunciate al personaggio-uomo, dice Debe33
nedetti, soprattutto non rinunciate al mito, racconto individuale che affonda dove i fatti riguardano tutti. Una distanza quasi incolmabile e che comunque quasi mai viene colmata, senza contare che lo si capisce più tardi. Tuttavia questa è la condizione per vincere: avrà il premio che assicura lunga vita solo chi coprirà l'immensa distanza che separa gli estremi. Savinio è un estremista che cerca la verità nel sogno e la vita nella morte. Landolfi fa volare la fantasia oltre i confini conosciuti e obbliga la ragione ad andare a procurarsi con acrobazie mentali le idee necessarie dentro i più audaci paradossi logici, anzi illogici. Vittorini prova ancora con l’utopia non lontano da casa, dalla Sicilia, ma, se
trova il paese del desiderio, non può riconoscerlo. (Cosicché non si accorge di aver vinto con l’utopia delle Città del mondo). Dura un antico divorzio, sono su diverse lun-
ghezze d’onda anche in Sciascia la verità e la possibilità di farla trionfare. Ognuno però dica la sua, accanitamente e perentoriamente, come se si possedessero le parole adatte alle cose. Ci sono gli estremi pure in chi fa del realismo: che non è solo il linguaggio di chi sta saldo addosso alla realtà che si vede e che si tocca, quando è tangibile che è saggio collocarsi al centro, motore immobile. C'è il realismo che
ha le visioni: quello di Gadda, che guarda con «dodici occhi», due per ogni lato del cubo, su un unico punto e ci scorge un nodo inestricabile che stringe alla gola la vita. Così come c’è il surrealismo che vede la realtà da sopra, una realtà superiore, un surplus di realtà, e ci ricava, con Savinio, «nuova enciclopedia», cioè notizie «illuminanti», nonché «nuovo illuminismo», sul mondo d’oggi e sulla vita. Perché ci sia la luce, bisogna che lo scrittore si trovi in un campo elettrico quando i due poli sono carichi di energia. Ne ha di energia la Melusina di Alvaro al momento in cui intuisce che le verrà strappato l’uomo desiderato che le sta rubando l’anima: un’energia che per manifestare odio deforma il suo bellissimo volto. Un 34
bacio cattivo a chi opprime la libertà personale, specie delle donne, che in Calabria non sapevano nemmeno nominarla. Di per sé forse non ce l’ha nessuno l’energia o almeno non è attiva finché uno non attiva la corrente (compresa la corrente letteraria, la progettualità culturale, la faziosità politica o ogni altra partigianeria). Qualcuno ritiene di potercela fare da solo, si piazza sul polo negativo e di là tenta di mandare scariche fulminanti sul mondo. Incendi ce ne sono stati nel nostro secolo, che è stato messo a ferro e a fuoco; la fiamma non ha finito di riscaldarci ma
ora più che fuoco tocca fare luce. Attenti al campo di tensione, attenti a come sono disposti i due poli. È urgente far luce sul passato e ancora di più sul futuro ma non conosciamo abbastanza neppure il presente. Qui ci troviamo noi e non ci sembra che intorno ci sia molta elettricità. Forse siamo piazzati in un posto
sbagliato ma non ci pare che nel resto del mondo la letteratura faccia prendere la scossa; e d’altronde riteniamo di avere il parafulmine di chi è passato dalle esperienze dell'Est europeo e dell'Ovest sudamericano. Pizzuto direbbe che c’è un errore, e forse c’è anche colpa, se non sentiamo calore, se non abbiamo energia, se ci sentiamo al buio, se stiamo dormendo con la serenità di
chi ha fatto tutto il proprio dovere e ora si gode la pace sonnolenta della vittoria meritata. Il polo «privato» se ne sta al caldo e si disinteressa, è indifferente e freddo dinanzi a quello che succede in altri posti, anche se tutti parlano di villaggio globale. Non è la prima volta che nella storia del mondo trionfa la cultura del consenso, ma stavolta siamo troppo incantati a guardare l’Ovest europeo e americano, a contemplare il tramonto con la certezza che verrà un nuovo giorno più bello. Non sono forse più questi le estremi, l'Est e l’Ovest, e comunque l'Europa si sente al centro e forse è la regione del mondo in cui si sta meglio (meglio dell'Estremo Oriente, dell’estremismo giapponese). Sono altri i poli e non sono solo quelli di sempre (anche 35
se ogni Sud soffre di star sotto da secoli). Non è mai facile capire dove è collocato l'individuo rispetto alla storia che gli fa fare scintille. Potrebbe non essere il tempo della letteratura italiana e nemmeno quello della letteratura. Non ne faremmo una tragedia ma la commedia sta durando troppo. Potrebbe non esserci il lieto fine. Nessun linguaggio ha ottenuto un mandato di rappresentanza storica a occhi chiusi. Pizzuto sembra dire: aprite gli occhi, attivate i sensi, pensateci su molto e portate le parole alla temperatura che, bruciando detriti, sprigiona energia. Ora è informe ma presto si vedrà che ha un disegno. Vi sentirete attraversati dalle sue linee, se sarete nel campo di tensione che vi trasmette una perplessa inquietudine di cui per ora ignorate l’origine e la direzione. Se non sentite niente, non significa che manca energia nel mondo. Significa che non siete capaci di procurarvela, inventando il linguaggio che dà prima elettricità e poi luce. Fate luce nella vostra cultura e poi scrivete.
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CARLO EMILIO GADDA OVVERO L’IMBECILLE DI FAMIGLIA
PERCHÉ
SCRIVE L'INGEGNERE
La domanda prima di uno scrittore, il «perché scrivo», Gadda se la pone subito. Magari non proprio all’inizio: lo fa quando già sta finendo il Giornale di guerra e di prigionia, che tuttavia è in sostanza il suo primo scritto. La «prima domanda» di Gadda, la preistoria della sua narrativa, i grezzi materiali roventi delle sue costruzioni letterarie. La nascita dell’Ingegnere come prigioniero. Gadda nel 1918 è in campo di concentramento. Il prigioniero ha subìto un’altra sconfitta; la prova è ancora una volta fallita, perso è il braccio di ferro con tutti quelli che lo considerano un incapace, e persino un imbecille. Nessuno lo capisce, nessuno sa cosa c’è dietro i suoi com-
portamenti impacciati e goffi. Nemmeno la «madre adorata». Nessun segno di comprensione per quanto fa o dice questo figlio: l’altro sì che si capisce chiè e cosa sarà, il primo, quello che muore in guerra, Enrico. Carlo Emilio invece è vivo e aspetta di essere liberato dalla prigionia, scrivendo il Grornale. Sinora ha steso in una prosa parossistica e nevrastenica
la sua indignazione per quello che vede succedere sotto i suoi occhi o per quello che sente dire da stolidi ufficiali di basso o alto grado; gli stessi che non si curano di nascondere la loro disistima per il sottotenente Carlo Emilio 39
Gadda (l’altro Gadda sì che è bravo, lui sì che avrà la promozione). In un certo senso non si stima nemmeno Carlo Emilio Gadda, che fra l’altro è, come dire?, felice di
riconoscere le migliori qualità del fratello. Si analizza con tenace accanimento e rivela senza reticenze i suoi squilibri psicologici, le manie del carattere, la labilità del sistema nervoso. Lui però non è solo questo, è anche altro e tutta--
via dal suo comportamento non si vede. Bisogna far vedere l’altro Carlo Emilio. Glielo farà vedere a tutti, anche
alla «madre adorata» che non lo capisce. Per questo scrive. Perché quando scrive riesce a esprimere quello che ha dentro e che è molto diverso da quello che mostrano i suoi gesti e le sue parole. Per dire chi è, lui non deve parlare, deve scrivere. Scrivendo si può far capire finalmente non dagli ufficiali, dei quali se ne infischia, ma dalla madre, la «madre adorata» che non ha mai fatto
il minimo sforzo per comprendere quel suo inintellegibile e forse nemmeno intelligente figlio. Per questo scrive Carlo Emilio Gadda? E colpa della «madre adorata» se lui è costretto a scrivere. Ha qualche colpa la madre nei suoi confronti, ma forse che per questo è meno adorata? Anzi, ora può dirlo per iscritto e non solo a parole (il suo normale modo di parlare che gli nega la possibilità di farsi intendere) che egli adora la madre che pure ha la prima responsabilità dei suoi fallimenti. Gadda scrive per la madre, scrive alla madre per rivelarsi altro da quello che la madre vede o constata. Scrivere serve a capire. L’unico che sinora ha capito infatti è Tecchi, un letterato. Tecchi mi è buon compagno delle ore di studio, ha un po’ compreso il mio stato, ha penetrato il complicatissimo sistema morale, che risponde all’etichetta del mio nome. Non è cosa nuova per me essere mal giudicato nella vita: riconosco in me difetti gravissimi, qualità nega-
tive: (ipersensibilità, timidezza, pigrizia, nevrastenia, di-
strazione fino al ridicolo). Ma troppo severi e troppo superficiali sono i giudizi che fanno di me anche molti che credono di conoscermi a fondo. La mia adorata
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mamma
essa stessa non mi ha sempre
compreso;
ciò
anche perché io sono essenzialmente infelice nel contegno e nell’espressione; l’unica espressione vivida e corretta, di cui posso rispondere, è l’espressione mediante il pensiero scritto. Ricordo che inginocchiato al letto di mio padre morto, esclamai nel pianto: «ho appena quindici anni!», intendendo di dire: «Solo per questo breve periodo ti sono stato vicino, o babbo». Questa frase fu invece interpretata, e forse ragionevolmente, nel senso egoistico: «O babbo, mi lasci in età nella quale il tuo aiuto m’era necessario». Bisogna riconoscere che questo
era il pensiero rispondente all’espressione, e che l’espressione non rispondeva invece al mio pensiero. E questo un esempio tra mille. Così nella vita mi occorse sovente, lo confesso a me medesimo, di passare per imbecille, o per orgoglioso, o per egoista, o per pazzo: mentre ero distratto, timido, riservato, stanco. Un altro difetto grave, da
cui devo correggermi, è la calda simpatia per ogni mio simile, tanto più se sofferente o valoroso; questa tendenza a una forma superiore di cordialità e di umanità evangelica deve esser repressa, occorre guardare i così detti nostri simili con freddezza di calcolatore, soffocare in noi
la ripercussione simpatica della loro sofferenza; anche nel far loro del bene occorre esser freddi e dissimulatori,
a fine di non passare per imbecilli. Celle-Lager; 21 maggio 1918. Gaddus
«Si dice carota e si pensa patata» scrive Gadda dieci anni dopo ne La meccanica, che sui rapporti tra madre e figlio tesse pagine piene di crudele e affettuosa derisione (il pirandelliano sentimento del contrario che è l’umorismo). Il narratore comincia subito a sostituire gli ortaggi della sua ricchissima cucina. Gadda scrive perché se pensa patata vorrebbe dire patata. Il positivismo della sua formazione gli garantisce che è possibile farlo. Così può anche credere che, se scrive «madre adorata», non ha detto altro da quello che dice letteralmente la sua espressione. Si è accorto però mai lo scrittore che la carota «madre adorata» nasconde una patata bollente di un sentimento che brucia la dichiarata adorazione? 41
L’attributo della madre non è pleonastico: serve ad attutire, con un ribaltamento di segno, il colpo che il figlio infligge alla «madre adorata», attribuendole la colpa di una incomprensione che fa di Gadda una vittima per tutta la vita. Era questo che lo scrittore aveva pensato? Il pensiero è una patata, che è diversa dalla carota anche nel fatto che ha la buccia. La patata, il pensiero profondo, è più nutriente, sta sotto, è di un altro colore e sapore. Quello che veramente Gadda pensa della madre lo si trova sbucciando ciò che dichiara non solo a parole ma anche per iscritto. Che succede infatti se si scrive carota? Questa è la patata bollente della letteratura del Novecento. È da tempo un'opinione intoccabile che nemmeno scrivendo si riesce a dire quello che si pensa veramente. Nemmeno la scrittura consente a Carlo Emilio Gadda di far capire chi egli realmente sia? Anche le parole scritte dicono una cosa diversa da quella che pensano? Ma allora perché scrivere, se nemmeno con la scrittura si può dire carota alla carota e se non si può dare parola fedele alla patata che si è pensata? A meno che lo scrivere non sia proprio questo: esprimere molto più di quanto si è pensato e detto; magari qualcosa che è proibito dire e persino pensare. E infatti, coperto da quell’«adorata» che dice un affetto profondo a cui forse anche pensa, Carlo Emilio Gadda suggerisce che colei che gli ha dato la vita è la causa prima del fallimento della sua vita. Colei che gli ha dato la vita, gli dà anche la letteratura. Dopo il vivere lo scrivere. Insomma la domanda prima — perché scrivo? — trova la risposta in colei che è il fattore primo della necessità di scrivere, la sua «forza motrice», il bersaglio da raggiungere, il fine, l’inizio e la fine di tutto. La nascita dello scritto-
re coincide con la rottura del cordone ombelicale che lo lega alla madre fino al campo di concentramento.
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UNA
SCRITTURA
DI GUERRA
Prima di cominciare a scrivere «per arte» il racconto La passeggiata autunnale, del 1918, che inaugura il filone principale della sua narrativa, quello giallo-poliziesco, Carlo
Emilio Gadda si è fatto un programma che è insieme di letteratura e di vita. Tocca essere «freddi e dissimulatori»: vale a dire il contrario di quello che era stato sinora sia nella vita (la sua franchezza, la schiettezza delle sue reazioni e dei rapporti con gli altri, ecc.) sia nella scrittura (tutte le saettanti e infuocate espressioni del suo sdegno per i vari modi di
essere «disordinati» che ha fedelmente registrato sinora nel Giornale di guerra e di prigionia). Questo ha imparato dalla vita, e può servirgli nella letteratura: freddezza e dissimulazione. Sta pensando a un inganno con cui ottenere quanto il
calore e la sincerità non gli avevano dato. Se la letteratura è «finzione», serve un artificio con cui costruire il linguaggio adatto a uno che deve esprimere qualcosa di diverso da quello che sa dire a voce. Scrivere è un altro modo di dire rispetto al parlare; narrare è un altro ancora, più artificiale e inventivo: la finzione più complessa è la narrativa. Gadda ha scoperto l’utilità di essere ingegnere: ci vuole un progetto, un disegno, una macchina, o meglio ancora una macchinazione, persino una «frode», peccato oltremodo diabolico. Le sataniche macchinazioni dell’Ingegnere. La più complessa ingegneria della nostra narrativa.
LA CAPORETTO
DI GADDA
La prima cosa che Gadda fa di grande è la guerra. La Grande Guerra di Gadda è una guerra mondiale, anzi totale. E lui farà sempre la guerra. Non sarà mai più in
pace: né con la società, né con le istituzioni, né con la
cultura, né con la letteratura, né con la famiglia, né con la 43
madre e con il padre, né con se stesso, né con la vita. La
sua prima guerra mondiale è la prima manifestazione della sua guerra universale. Una guerra su tutti i fronti e comunque combattuta sempre al fronte. La frase resterà d’ora in poi sempre in prima linea: una prima linea fatta di «cocuzzoli», di quote, curvata o ingobbita da frequentissimi rilievi, improvvisi bagliori notturni e laceranti scoppi, d’ira, d’isteria, furori morali e intellettuali. Una notte in cui si fa luce illuminando ogni parola e facendo esplodere sensi anche da quella che sembra averli persi. Gadda è in guerra e in prima linea con ogni più piccolo segmento di discorso. Forse è solo nevrastenia, ma intanto in guerra lo scrittore ha preso l’abitudine di vivere ogni attimo come estremo momento della verità. E da allora la sua letteratura si apparenta al «dialogo sull’estrema soglia», come direbbe il Bachtin di Dostoevskij. Una scrittura della sopravvivenza con la quale si strappa il massimo possibile di vita a una condizione precaria quotidianamente minacciata dalla morte. Sottrarre alla morte anche la più umile parola, mandandola in guerra, in prima linea. «Freddo e dissimulatore» Gadda sarà nel costruire la struttura della sua narrativa. Una struttura di guerra per una scrittura di guerra. Una struttura che moltiplichi gli elementi conflittuali di una scrittura che usa le parole come proiettili. Una struttura in cui non combatta solo lui, come nell’effusione immediata, personale, privata del Giornale di guerra e di prigionia. Tocca inventare una struttura che sappia dissimulare con freddezza anche il massimo calore. Tocca fingere una scrittura calda che dia una spinta alla struttura. Una struttura artificiale in cui mettere il sentimento di tutti, una sincerità totale. La prosa di Gadda riscalda la scrittura per potere meglio raffreddare e dissimulare la struttura. La sua guerra la combatte nella struttura. Una struttura che manda in prima linea ogni episodio, ogni frase, ogni personaggio. Si salvi chi può, chi vale e chi ha fortuna. Chi è sconfitto, cade prigioniero. La struttura è una prigione per sopravvivere.
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IL PRIGIONIERO
SOTTO
LA CAMPANA
Un inetto, un acchiappanuvole, un nevrastenico, un debole che non sa quello che vuole. Un ritratto di idiota della famiglia. Gliela farà vedere lui a tutti di che cosa è capace, dove è necessario più coraggio, concretezza, tem-
pestività di decisione e doti di controllo. Dunque alla guerra!
Ma i superiori e i colleghi la pensano come la madre sull’ufficiale Carlo Emilio Gadda. Nulla da ridire, ma il fratello è un’altra cosa. E muore. Resta in vita Carlo Emi-
lio Gadda, che salva la vita arrendendosi. Il prigioniero però non ha perso solo l’ultima battaglia. Non ce n’è una che egli abbia saputo vincere. É uno sconfitto ed è anche un perdente. «La mia vita è inutile, è quella d’un automa sopravvissuto a se stesso, che fa per inerzia alcune cose materiali, senza amore né feste. Lavorerò mediocremente e farò alcune altre bestialità. Sarò ancora cattivo per debolezza, ancora egoista per stanchezza, e bruto per abulia, e finirò la mia torbida vita nell’antica odiosa palude dell’indolenza che ha avvelenato il mio crescere mutando la possibilità dell’azione in vani sterili sogni».
Potrà mai fare delle azioni che corrispondano alle sue intenzioni? Ci sarà mai un fatto che andrà all’appuntamento con le sue idee? O le sue sole azioni saranno quei «vani e sterili sogni» che si realizzano nella scrittura con cui racconta i fatti, la prova concreta della sua inettitudine? Carlo Emilio si impegnerà d’ora in poi a far sì che le parole si identifichino con le cose. Questa è ora la guerra. Ora Gadda deve evitare la Caporetto della sua letteratura.
Che cosa dissimula quell’aggettivo «adorata» che abbraccia la mamma ma sembra volerla strozzare? Quello che non dissimula è l’odio verso tutti coloro, ufficiali o parenti, che non lo comprendono e lo disprezzano. Li strozzerebbe in uno dei suoi frequenti attacchi di nevra45
stenia. Però «occorre guardare i nostri cosiddetti simili con freddezza di calcolatore». D’ora in poi Gadda sarà un calcolatore: darà i numeri, ma bisogna stare attenti alla lettera. L'espressione sarà «corretta e vivida» anche quando darà morte. Alla lettera, una scrittura che ammazza. Per non dire della metafora, che nasconde violenze mentali assai feroci. Scritto, il pensiero di Gadda continua a stare in guerra contro tutti, cominciando dall’inizio, cioè dall’origine, insomma dalla «mamma adorata». «Come sono poco osservatore delle cose che non mi interessano! Da che sono in Valcamonica non ho mai sentito suonare una campana... Nessun campanile si anima mai né a mattina, né a vespro, né durante le feste. La torre di Edolo [...] non batte neppur le ore». Lo sguardo «coatto» di Gadda, uno che confessa di osservare solo ciò che lo interessa. Quale interesse, quale erotia in tutti campanili, torre e campane che non sente ma vede? E lo stesso campanile che ossessiona Gonzalo Pirobutirro nella Cognizione del dolore? «Suona» qui per la prima volta la campana che provoca improvvisi accessi di furore in colui che soffre del «male invisibile»? C’è una campana che risulta particolarmente assordante per Gonzalo Pirobutirro. E quella del paese della Brianza in cui il padre ha fatto costruire la villa nella quale ora vive la madre, nonché Gonzalo quando va a trovarla a fine settimana. Quella campana è, per ovvia simbologia psicologica e insieme sociale, il padre stesso. Sarebbe elegante mettere da parte il battaglio ma senza questo la campana non dà alcun suono nel romanzo, dove invece si ripercuote dappertutto, anche oltre la Brianza cui dà la sveglia. Cosa risveglia in Gonzalo? Anzitutto il rancore, e persino l’odio di un figlio che, appena ne sente il suono, si vede davanti agli occhi la campana nel momento in cui sembra dilatarsi sotto i colpi del batacchio. Il suono che al padre doveva dare oltre che piacere un’enorme soddisfazione, perché gli ricordava una generosità con cui riaffermava «ad alta voce» il proprio prestigio sociale, invece 46
risveglia nel figlio il disprezzo verso un uomo che lo aveva privato del necessario, aggravando con la sua fatua prodigalità la sostanziale povertà di una famiglia che non si può permettere il lusso di regalare cinquecento lire a nessuno. Questo almeno è il libretto, il significato concreto, economico, il dato di fatto più scoperto e tangibile, del suono di quella campana; perché nell’ordine del simbolico, o magari solo della psicologia, la musica è diversa. Come dire che Gonzalo le sta cantando al padre per tutt'altra colpa, anzi per tutte le colpe che ha un padre verso un figlio, per quello che gli dà, a cominciare dalla vita, e per quello che gli toglie, a cominciare dalla madre. In quella campana, in quel battaglio, ci sono tutte le colpe che un figlio, particolarmente affetto o costretto da Edipo, rimprovera al padre. Quella campana si allarga oltre misura sino a diventare il suo cielo, sotto il quale egli sin dalla nascita si sente, a dir poco, sbatacchiato: per dirla con una metafora «spastica», di quelle che deformano la condizione reale fino a darne una visione che fa conoscenza di destino. Gonzalo non andrà mai tanto lontano da non sentire i colpi di un destino riassunto in quella campana, sia perché pare avervi avuto origine la sua povertà «economica»,
sia perché vi ha avuto inizio la sua nevrosi. Gonzalo, e con lui Gadda, sono prigionieri dentro quella campana, anche ora che il padre è morto e che la campana è chiusa nel suo silenzio, o comunque chiusa, quale può essere campana chiusa sul tavolo di chi scrive. Gadda è spesso uno che narra come se stesse soffocando. Alla fine della guerra questo è Gaddus; un automa sopravvissuto a se stesso, una vita inutile, inerzia, un avve-
nire di «cattivo per debolezza, ancora egoista per stanchezza e bruto per abulia». Questa è la natura del nevrastenico Gadda. È possibile liberarsi? Andare lontano da tale natura. All’opposto: nella cultura. Gadda punta tutto sulla cultura: organizzare una nuova vita, inventarla. I «fatti dell'invenzione son fatti e son dunque natura». Il desiderio di combinarsi una diversa natura. Con una
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diversa cultura. Ogni fiducia nella cultura: se questa rie-
sce bene, si è liberato dalla sua «torbida» natura.
Comincia a liberarsi, Gadda, cambiando prigione: da quella «naturale» alla prigione di un sistema culturale di rigida geometria e di implacabile coerenza oggettiva. Le fredde sbarre di una prigione che per «redimere» deve essere inflessibile. L’impassibile sistema di rapporti in cui il nevrastenico mette i suoi dati naturali perché diventino segmenti di un altro disegno. Non è una natura da buttar via, quanto piuttosto da riadattare, rimettere in funzione dentro la società. Ci vuole una struttura solida, quadrata,
anche se non fissa. Un cubo? Un cubo che sia anche un dado. Un corpo solido che si stacca da terra e vola, cambiando faccia.
I PIDOCCHI
DEL
PENSIERO
Se fosse possibile cambiare anche all’interno, far volar via quel «male invisibile» che gli è connaturato. La cultura del cambiar faccia, aspetto, lingua, luoghi, città, stile. Il linguaggio di un prigioniero. Sbarre, reticolato, e altri quadrati, magari quelli di una scacchiera: essere prigioniero della stessa scacchiera nella quale si gioca il destino di tutti gli uomini. Un cavaliere? Piuttosto un cavallo, figura che si sposta con uno scarto dalla retta e dalla diagonale. Gadda le tenta tutte per sfuggire alla propria natura. Entra nella solida figura di un cubo e vola; vola sul cavallo dentro una scacchiera, sulla quale ogni mossa cambia l’intero sistema di rapporti reciproci. In questo sistema sei
costretto a giocare anche se sei abulico, indolente, egoista. Un gioco che ti aiuta a uscire dal tuo io, questo «pidocchio del pensiero». «I pronomi sono i pidocchi del pensiero» grida Gonzalo Pirobutirro. E il pensiero a fare i pidocchi? Quando è 48
sporco? O sono i pronomi ad attaccarsi al pensiero come pidocchi? Se ne nutrono sino a dissanguarlo. Comunque danno prurito e Gadda è sin dall’inizio della sua attività letteraria a spidocchiarsi, cioè a spersonalizzarsi, letteralmente a togliere i pronomi personali, a cominciare ovviamente dall’io, «questo palo». Urge liberarsi di questio, di questo pidocchio così invadente e penetrante, un parassita che ti si attacca al cervello al punto che non si riesce a pensare ad altri che a se stessi? Naturalmente è quasi impossibile fingere che non ci sia. Anzi, tocca partire proprio di là, dal punto dove ti aggredisce. : E allora non resta che metterlo in relazione con gli altri pidocchi; cioè con gli altri pronomi personali, con l’io degli altri. Gadda combatte i pidocchi con i pidocchi; ogni personaggio mostra i proprî personali pidocchi. E il suo io è tanto pieno dei fatti, dei pensieri, dei pidocchi altrui che non lo riconosceresti più come l’io di un narratore che parla solo di se stesso. Tocca essere «freddi e dissimulatori». Una questione di forma. La necessità di un nuovo linguaggio: per essere meglio se stesso o anche per essere diverso. Essere diverso per essere meglio se stesso. Migliorare se stesso. Chissà che non sia stato un difetto di linguaggio essere così infelice; abulico, indolente, nevrastenico? Un linguaggio per essere meglio accetto a quelli che non lo stimano, magari gli ufficiali che non stima ma che intanto hanno reso lampante il suo fallimento di uomo e di combattente. Un nuovo linguaggio con cui conquistarli: anche nel senso di fargli guerra e poi ottenerne il consenso. Unlinguaggio che piaccia, che diverta, che sia gradevole, magari che faccia ridere. Far ridere i suoi colleghi ufficiali e civili: anche su se stessi, senza accorgersene. Quello è il suo
pubblico dilettori, eisuoi nemici. Se sarà freddo e sapràben
dissimulare i suoi sentimenti, sarà diverso il risultato. E lui
sarà diverso. Sarà il vincitore di una guerra in cui Gadda sembrava predestinato a perdere comunque.
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IN PERIFERIA!
IN PERIFERIA!
«Il caffè di cicoria è realtà come il caffè. I “pastiches” delle madame cinquantenni sono realtà quanto le chiome arruffate di una modella: il motore elettrico non è meno “natura” d’un ciottolo o d’un vulcano»: è una «meditazione milanese» che dice, nel solito stile genuino-popolaresco, quel che Gadda pensa di natura e cultura. Una cultura che libera natura e le si adegua. C’è sempre il caffè caffè, come ci sono elementi naturali immutabili, ma la maggior parte di quelli che considerate elementi naturali e che vi paiono caffè caffè sono in effetti caffè cicoria. La cultura ce la dà a bere: caffè cicoria è caffè, le dame
posticce sono belle, il motore produce più calore di un vulcano. La realtà si può creare dal niente e non è meno realtà di quella che sembra esserci stata da sempre. Fatevi la vostra realtà e datevela a bere. Potrebbe piacervi di più. «Quei fatti della invenzione son fatti e son dunque natura: ché la mente disegnatrice è natura e la storia degli uomini è natura» (M. M.). Tutti i fatti sono natura, anche l'invenzione, che però è anche cultura, frutto di mente
disegnatrice. La storia degli uomini è storia di culture che diventano natura. Tutto è natura, e insieme, tutto è cultu-
ra, un disegno riuscito che è diventato natura. La mente disegnatrice non ha però pensato tutto: chi le darà il nuovo materiale? Lo trova in natura o lo crea? Lo inventa per virtù autonoma di mente o attinge a una natura che non è passata alla fase del segno consapevole? C'è una periferia del centro illuminato dalla cultura. Questa periferia non finisce mai, sposta i confini, è ambigua transizione tra natura e cultura. Inventare storie sotto la pressione della natura e della storia che non hanno trovato la loro cultura, i loro segni coscienti. Faccia presto la mente a dare un disegno alla periferia che urge ai confini e che urla da sotto, dal profondo. La si porti al centro dell’attenzione, in superficie. Gadda inventa fatti. Un matricidio più volte ripetuto, con un linguaggio che li fa diventare veri come un fatto di 50
natura. La finzione di Gadda è di quelle a cui si crede. Mescolata con fatti reali ora sembra vera. Chi legge Gadda non dubita mai che si tratti di fatti reali: di cronaca come Novella seconda. Sembrano fatti di cronaca anche La cognizione del dolore e il Pasticciaccio.
CONOSCERE
È DEFORMARE
Conoscere è deformare. Lo sa bene il diavolo, che ci ha
perso la bellezza originale. Per sua natura non è deforme, è deformato, è stato degradato. Bisogna scendere fino al nucleo della terra per trovarlo, comunque ci sta dentro, fa tutt'uno con la terra, mentre la bellezza divina ne è esclusa. L’interno degradato dell’espressionismo, arte cara alla psicologia del profondo, linguaggio della rivolta contro i genitori.
Ma l’arte della deformazione è quasi per antonomasia la caricatura, quella da cui parte Baudelaire per il suo saggio Sull’essenza del riso. Deformare ridendo: la deformazione del volto di chi ride. La degradazione, i linguaggi bassi della comicità: che è un atto di superiorità compiuto dal basso, dal rimosso, dal represso. Il satanico riso di chi si deforma e deforma gli altri per conoscere. Ridendo e scherzando, si aggredisce la forma in cui si blocca la nostra conoscenza. E una maschera. Urge strappare questa maschera. È una maschera però il volto di chi ride. Strappate tutte queste maschere, guardate ancora più sotto, non vi fermate mai, non potrete mai più essere
felici, è la vostra condanna questa di scoprire cosa c’è sotto e di accorgervi che è solo una verità passeggera.
Sempre così vicina da allungarci la mano per toccarla, ma presto è così lontana la conoscenza del vero. Attesa e rinvio eterno, questa la pena. Continuando a scendere, a degradarsi, magari col contrappasso del tragico senso di superiorità imposto a chi si deforma nel riso DD:
per conoscere sempre di più. L'ha già detto Hélderlin che è un inferno questa necessità di ridere di tutto. Non è più possibile tornare in alto, recuperare la perduta bellezza, che è anche verità. Nemmeno la figura è più il cerchio, lungo il quale gira l’eterno ritorno. Il poliedro di Meditazione milanese è una figura «deformata» che promette, o minaccia, un futuro
di inesauribile ricerca in direzione di una rivelazione che è destinata a essere sempre rinviata. Il destino dell’uomo è questo: una cultura dopo l’altra, che mette un po’ d’ordine ma per poco tempo. Deformazioni di deformazioni. Ma sotto allora non c’è nulla? Non si sa, bisogna continuare a cercare, a deformare, a conoscere. E ridicolo? Lo si può fare ridendo, se uno riesce, ma è anche una trage-
dia questa condanna a cercare ciò che non può essere trovato. C’è una cultura sotto un’altra cultura. Questo è il
sospetto. Questa è anche la «scuola del sospetto». É poca cosa cambiare cultura. Se cambia la sua cultura per Gadda è molto. Non è nulla per lui guarire del naturale «male invisibile».
LA FORMA
DEFORME
Come si può inventare qualcosa senza fantasia? Ebbene, se conoscere è creare qualcosa di nuovo, basta deformare quello che c’è nella realtà. Che bisogno c’è di rivolgersi ad altro quando uno ha già come materiale la propria vita? Non l'autobiografia però, che è come ripetere la vita nella stessa forma in cui si è svolta. Tocca deformarla, «con freddezza e dissimulazione», due buone regole per chi deve trovare una nuova forma. Anzitutto però deformare è privare della precedente forma, che è sempre un modo per mutare la sostanza. Possedere forma in Gadda è uguale ad essere «deforme»: quasi una necessità per un sistema in incessante movimento. IZ
La «deformità» come forma. Che non è la stessa cosa che l’informe e l’informale. Savinio proponeva alla letteratura del Novecento la formula dell’arte come «forma dell’informe», in opposizione all’«informe come forma» caro a futuristi e dadaisti. Gadda invece propone come forma il deforme, che non è mai rinuncia alla forma quanto puttosto una forma che, per non rinunciare a se stessa,
si sganghera, si ingobbisce, si gonfia, si apre. Deve fermare una transizione e nello stesso tempo restare disponibile ai materiali che premono ai confini della forma da ogni periferia per entrare, per deformare, per creare una nuova figura capace di prendere statuto di conocenza. La deformazione è l’ultima spiaggia per coloro che non vogliono arrendersi alla disintegrazione della forma. Comunque è il primo atto di chi non intende illudersi che basta rimuovere il disordine per sconfiggerlo. Per accettare tutto il disordine che preme alle porte di Roma o che anzi è già dentro le mura, Gadda nel Pasticciaccio è costretto a fare del proprio, invero molto disordinato, ordine il massimo di ordine possibile per una struttura nata con l’intento di dargli regole e di conquistarlo. La deformazione dell’ordine. La forma di una conoscenza che ha la natura doppia del confine: che ha una faccia volta all’interno «civilizzato» e l’altra volta all’esterno «barbarico». Gadda fa accettare ai barbari l’idea del confine in cambio della licenza di scorrazzare liberamente nel territorio sottoposto a leggi. Un narratore «longobardo».
LA LETTERA
E I NUMERI
N + 1 è la formula della conoscenza. Il lirico esprime IN e si accontenta: crede di essere tutto in quella lettera; il narratore, che ha più attenzione per l’oggetto, e che è exterior e «drammatico», deve sapere di essere già N + 1, 53
e poi N + 2, e via di seguito. Il racconto struttura un sistema di conoscenza che è N + 1 ma sa che presto sarà N + 2. Lo scrittore del Novecento struttura il precario, il marginale, l’oscuro, il rumore: il 3, il 4, e il 5, ecc. all’infinito, all’«ennesimo» numero. Una regola: niente e nessu-
no può essere escluso dal sistema, pena la sua immediata falsità. Conoscere significa strutturare tutto in una nuova figura coerente; questa perciò ha l’obbligo di deformarsi ancora, se non vuole ideologizzarsi, cioè assegnarsi apparente e losco statuto di verità definitiva. Conoscere è dissolvere i miti, attraverso la deformazione e la «removibilità dei limiti». La conoscenza è un processo infinito di deformazione e di formazione, cioè di riduzione a nuova forma. Gadda gioca con la lettera e con le metafore in modo diverso dalle avanguardie futuriste e surrealiste. La loro trasformazione è «rivoluzione»: tenersi pronti alla svolta con cui il sistema cambia radicalmente, cioè quando N diventa O, e poi P e le successive lettere dell’alfabeto. Gadda non ci pensa a cambiare lettera, non crede a questa «rivoluzione»: forse egli non troverà un se stesso che gli sia gradito nemmeno cambiando alfabeto. N è la lettera del destino dell’uomo. All’interno di essa egli gioca tutti i suoi numeri. N + 1, N + 2, N + 3, ecc. all’infinito.
LE «PAROLE
BAGASCE»
E LA STRUTTURA
Ci sono i dati, ma ancora più importanti sono le relazioni. Queste sembrano astratte e quelli concreti, ma in
effetti risultano concrete queste e astratti quelli: che quasi non esistono al di fuori delle relazioni che li legano fra loro. Organizzare significa inventare. Per Gadda la struttura ha un’importanza determinante, ma strutturare significa pur sempre dare struttura a qualcosa: che esiste solo perché è stato preso nella rete di relazioni tessute da 54
narratore. Irretire un Gadda che non sapeva prima di essere lì dove è stato scoperto dalla rete di parole. Potrebbe essere un’invenzione delle parole ma intanto esiste ed è diverso da quelli di prima. Gadda deve far presto a diventare un altro rispetto a quello che ha perso tutte le sue guerre. Non bastano le «parole bagasce» che attirano come Circe con i suoni. Non saranno mai parole virtuose o monogame ma anche se folleggiano come ebbre metafore, debbono sapere che sono in una rete di relazioni. Non una sola rete ma tante,
una sopra l’altra: strati di sistemi che aumentano i filtri da cui passano le parole combinate in verticale e in orizzontale. Agitarsi acrobaticamente ma dentro la rete o magari sopra la rete. Questo è un letto di Procuste, questo è un grande circo in cui non tocchi mai terra. La rete ti impedisce di romperti l’osso del collo. Non ti devi lasciar andare a testa in giù. Questa rete non è di ferro, mettitelo in testa. Nella mente la rete, pur elastica, si smaglia e il
sistema tende a franare sopra l’autore che tenta di arginare il disordine. Allora arriva il pasticciaccio, che è il massimo di disordine che l’ordine di Gadda può consentirsi, per non regredire al rumore e all’informe. I futuristi, che facevano acrobazie senza rete, l’hanno pagata cara la loro «dissennatezza». La maggior parte di loro si sono sfracellati al suolo, poltiglia verbale che continua a dire di no a qualsiasi forma. Tranne alcune eccezioni, gli altri sono stati presi nella rete dall’ordine fascista a fare le bagasce del regime a parole e con i fatti. In Sax Giorgio in casa Brocchi, Gadda è solo divertito da come vende (nessun moralismo: l’arte è anche merce, evviva gli artisti venduti) le sue forme informi il pittore modernista, un artista bagascione che deforma non avendo nulla di nuovo su cui informare. Senza rete non si prende niente
di buono.
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L'INGEGNERE
FA GEOMETRIA
L’ordine. L'ordine naturale delle cose. L'ordine socia-
le. Il disordine sociale, culturale, mentale. L’ordine natu-
rale come regola. L'ordine naturale contro l'ordine sociale. Mettere in ordine il disordine. Estendere l’ordine fin dove c’è disordine. La periferia dell'ordine. Ridurre all'ordine la periferia, conquistarla. Oltre la periferia. Al confine del nuovo disordine. L’ordine «aperto». L’eterna transizione. Una messa in ordine che è creazione di disordine. L'ordine compresso. La deformazione dell’ordine. Il mito del disordine. Il disordine come pasticciaccio. C'era stato il disordine futurista, e ancora più radicale quello dadaista. Non si poteva continuare così. Era necessario un nuovo ordine dopo l’anarchia. È tempo di edificare. La costruzione della rivoluzione. L’ordine dei surrealisti, comunisti poi trockisti. La restaurazione dell’ordine e della tradizione. «La Ronda». La post-avanguardia. Bontempelli fu mai futurista? Gadda si oppone all’informale e all’anarchia. Non rimuovere il disordine bensì controllarlo, irretirlo, metterlo in una rete di relazioni, in
una combinazione: questa la parola d’ordine di Gadda. La forma dell’informe di Savinio, amante dell’«ordine quadro». Il cubismo di Savinio e di Gadda. Sei maschere per un volto. Una realtà a sei facce. Andiamo per ordine: parlino tutti ma non facciano disordine. Il massimo possibile di ordine per una realtà travolta dal disordine. Un ordine solido: il cubo di La meccanica e di San Giorgio in casa Brocchi. Chi fa saltare in aria la casa? Il nuovo ordine dei fascisti. Come i «vigilantes» di Cogrizione del dolore che difendono dall’altrui rapina ma non dalla propria. Il grottesco ordine fascista. Ridicolo mettere ordine così tra le lingue, reprimere i dialetti, tornare ai classici di carta-
pesta. Un pazzo-un topazio-un topaccio corre per l’agro ro-
mano. Che Pasticciaccio! Lo gnommero, il gomitolo della realtà, della società. Prendete un capo e tirate. Viene via tutto il resto, tutto il contesto. C'è il duce, c’è il re, ma 56
è il disordine a regnare sovrano in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. E d’altronde tutte le strade conducono a Roma. C'è un dissennato disordine in tutto il mondo, in tutta la vita.
IL POLIEDRO
E IL CERCHIO
All’inizio l'ordine era «quadro», come in Savinio, che odiava il cerchio, figura della ripetizione e della conservazione. Per Gadda non c’è ripetizione, se non nella lettera: N diventa N + 1, poi N + 2, e di seguito N + 3, N + 4, N + 5, ecc. E una questione di algebra, ma ancor più di geometria: viene un momento in cui l’ordine quadro non
basta, non basta il cubo di La meccanica e di San Giorgio in casa Brocchi. Il disegno non si può solo allargare, il reticolato non ce la fa a conquistare una periferia dai confini non riconducibili a quadrati. Ci sono linee diagonali, vengono fuori dei triangoli. Guardate la figura che dal centro di Meditazione milanese passa a conquistarsi la copertina. Ben quindici angoli esterni penetrano nel territorio che già fu di nessuno. Una figura deforme disegna la sagoma del sistema gaddiano. È la sua struttura? E la prigione di un uomo che aspira a libertà sempre maggiore. Gadda è chiuso dentro un disegno dove quanto maggiore è l’ordine, tanto maggiore è il disordine. Il suo ordine marcia con quindici, almeno per ora, punte verso la periferia oscura e rumorosa. Gadda oppone un mostro a un altro mostro: l’ordine contro il disordine. Un ordine che è costretto dai proprî moventi interni, dalle proprie leggi, dalla propria struttura a impadronirsi di territori che finiranno per metterlo in crisi.
Da
IL CAOS
DEL
RAZIOCINIO
Questo ordine si va «suicidando»: lo ammazzeranno
tutti i nuovi dati che dalla periferia chiedono di rifare i conti, di calcolare i nuovi numeri che debbono andare d’accordo nel sistema, di combinare un altro disegno. Il cubo di carta in cui è iscritta La mzeccanica, nonché San
Giorgio in casa Brocchi, deve «spiegarsi», cioè sdraiarsi sulla superficie. Qui si mettono a correre le linee, rette o diagonali, che vanno a prendere le misure al mondo di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana: un mondo che è smisurato, come ha constatato un narratore che, mentre vince (conquista altra periferia), perde: fallisce il suo progetto d’ordine. L’ordine che si uccide, che lo uccide. L’ingegnere Gadda tira linee che all’inizio funzionano come argini al disordine. Gli vengono tanti quadrati: un modo di far quadrato dinanzi alla pressione di ciò che resta fuori. Tutto sarebbe in ordine, se non fosse una riduzione, una conservazione, un impoverimento di una
realtà esterna e «altra» che non si può fingere che non esista. La periferia urge con nuovi dati o sintomi, rumori che non sono ancora segni. Comincia a essere un reticola-
to l'insieme di linee che struttura quanto arriva dai lati e da sotto. Sottosistemi che fanno spessore, e triangoli, comunque angoli. La figura non è più tanto piana, anzi si va sempre più consolidando, e insieme si deforma e si piega, e si riflette su se stessa. Quei quadrati iniziali si chiudono in se stessi. Sono dei cubi, sei facce di una stes-
sa realtà: aspetti che si fanno roteare per non darle come base il lato oscuro, quello che ha rapporti con la periferia e col fondo, magari anche il profondo. È possibile scrivere un racconto restando sulla superficie? La superficie, la faccia, l'apparenza delle cose. C'è qualcosa dietro, ma davanti a tutti ci sono parole, dialoghi, descrizioni, movimenti di linee lungo le quali si spostano personaggi, figli dell’borzo fictus, finzioni, simulazioni, dissimulazioni, la coazione a obbedire alle regole della geometria. Quadrati, triangoli, poliedri, cubi, che 58
sono tanti quadrati identici e opposti. La guerra sulle facce del cubo, ultimo baluardo figurativo di una realtà che ha tante verità e nessuna. Prima che questa figura tanto solida crolli. Questo ordine è troppo pressato dai barbari perché possa resistere. E tuttavia Gadda salva la faccia anche quando il gomitolo va a finire per terra. Farà quadrato, farà quadri, anche nel Pasticciaccio, quando si fa in quattro per reggere le fila di un discorso sempre più difficile da tenere in linea. L’ultimo paradosso di Gadda: inseguire con la ragione la motivazione di ogni comportamento umano fino agli strati più profondi cui possa arrivare una logica che ha gettato le reti di sistemi e sottosistemi e ha provocato un ingorgo paralizzante. Una specie di caos per eccesso di raziocinio; un abbaglio per troppa luce; il disordine di chi ha aperto troppi canali del traffico di informazioni; quasi un’otturazione della rete per la frequenza dei nodi in cui incrociano i vari sistemi. La metropoli che sta al centro del sistema è come colpita da cancrena: potrebbe essere quella che suppura nella Roma del Pasticciaccio. L’insaziabile consumo della città in cui convergono tutte le linee del sistema. N + 1, N + 2, N + 3, N + 4, ecc. all’infinito. Ma da N non si scappa mai. Questa è la metropoli che ci tocca definitivamente, questa è la nostra cancrena. Continuate però a dare i numeri: deformano la lettera, ma così conosciamo la combinazione con cui arrivare al segreto della nostra condizione attuale. La storia, la cultura si fanno con i numeri. Insomma chi vuole cambiare qualcosa, conti sui numeri. Un numero? Il 6 del cubo. Quando l’aritmetica ha una sua geometria.
LE FACCE
DEL
CUBO
Il cubo. Sei facce, una alta, una bassa, quattro laterali.
Quadrati che sono quadri a sé stanti. Una faccia per volta DI
come se fosse l’unica. Con la massima concentrazione, il
mondo in quella faccia, mischiando i materiali, gioco 46 interiore per gli altri, gioco ab exteriore per le opinioni del narratore. Tutto orecchi, per il gran parlare, molto parlato, e occhio sempre vigile, puntuali descrizioni e altro. Un «capitolo» per faccia, e potrebbe bastare. Il destino del poemetto in prosa. Un «capitolo» che deve diventare capitolo di una storia cui sono indispensabili le altre prospettive per poter ambire a chiudersi. Ci perde molto a essere staccato dagli altri. Sta bene anche da solo ma insieme fanno il romanzo. È così pure La cognizione del dolore, che non è solo una raccolta di capitoli. Resta comunque difficile per Gadda la svolta, l'angolo acuto su cui la storia continua, magari procedendo sui lati. E modificato rispetto all'Ottocento il rapporto con lo spazio e col tempo. Sul cubo il prima può venire dopo e il punto di partenza non è lontano dal punto d’arrivo, se all’inizio de La meccanica è già quasi successo tutto quello che sarà raccontato da un’altra prospettiva, per avere lo svolgimento che permette la conclusione logica, cioè l’incontro finale di Paolo e Zoraide. Alla fine di San Giorgio in casa Brocchi, Gigi e Jole si ritrovano soli nello stesso cubo di camera nel quale, all’inizio del racconto, è stata nominata l’irresistibile ragazza. Dio gioca a dadi e vince. Il trucco di Gadda. La madre di Paolo, in La meccanica, che ridere. Alme-
no a guardarla e sentirla quando esalta le doti del figlio. Ovviamente, non pensa che al modo di evitargli il fronte. Patriottica, si sente la pelle d’oca ogni volta che arriva alle sue orecchie la musica della fanfara che accompagna i soldati di leva verso il treno che li scaricherà in prima linea. Cambiato però il punto di vista, cioè quando sa che il figlio dovrà partire, altra è la musica. Le viene da piangere sentendo la fanfara militare che prima aveva alimentato il suo patriottismo. Ora è solo una povera madre che ha paura per la vita del figlio. E il «sentimento del contrario» che Pirandello indica quale sigla dell'umorismo. Prima però Gadda si è scate60
nato nel comico, cioè nell’«avvertimento del contrario».
Il singolo punto di vista avverte il «contrario» e fa ridere. Il romanzo, che è l’insieme dei punti di vista, «sente» il contrario? I lati del cubo sul quale si manifestano i diversi o opposti punti di vista non sono «trasparenti». Una per-
sona non è insieme l'una e l’altra; è invece prima l'una, poi l’altra. Almeno sei persone. Il narratore prende le distanze dalla madre ma le resta legato dentro un cubo che la rende prima ridicola, poi commovente. Neppure a lui riesce di far vincere il proprio «ordine sociale», o cultura, sull’ordine naturale. Anche lui però come la madre ci prova ad andare contro natura. E un punto di vista ma è un modo per capire meglio, più «solidamente», come stanno le cose. Potrebbe essere la verità quello che lo scrittore comprende scendendo per la strada, punto di vista di chi si pone all’altezza della realtà, o magari anche sotto, come l’«ipoctita» (colui che esamina da sotto), Savinio. L’ultima scena di La meccanica, con l’arrivo di Paolo sulla potente moto, la osserva «personalmente» il narratore, da «passante» che può essere messo sotto. Vista da sotto, ingigantisce la figura
del giovane e irresistibile conquistatore di donne: una deformazione che fa conoscere meglio di ogni verosimiglianza naturalistica i veri rapporti di forza sociale. E soggiogato anche Gadda dalla prepotenza della visione: quell’ordine sociale è inesorabile e imbattibile. Sembra «naturale», come la potenza fisica di Paolo e della sua moto. Tutto combacia anche nell’ordine che si è andato sviluppando nel romanzo. Il trionfo di Paolo occupa nella seconda parte il posto occupato nella prima dalla straziante partenza dell’operaio socialista Luigi Pessina per il fronte. Non è una coincidenza bensì la conferma di una necessità, non solo narrativa. La struttura del racconto
schiaccia sulla sua faccia inferiore l’esistenza di chi è povero e debole e tiene sulla faccia alta e illuminata il prepotente. Lo specchio deformante delle facce opposte del cubo. 61
Nella struttura, a cubo, di La meccanica Luigi Pessina sta in opposizione a Paolo Velaschi, come dire due facce della stessa questione, sentimentale (Zoraide) e sociale
(l’operaio vero e quello finto). Similmente possiamo mettere su altre due facce contrapposte Zoraide e la madre di Paolo; come le due persone, due donne, che vivono d’amore, materno o che altro sia. Nella terza coppia di facce tocca allora porre in alternativa e omologia il Gildo e l’industriale amico del padre di Paolo: cioè da una parte un volgare e miserevole ladruncolo, un patetico mariuolo che fatica per sopravvivere, e dall’altra un uomo che si arricchisce con le speculazioni dell’industria di guerra e con altre ruberie. La struttura della narrazione quindi stabilisce relazioni tra elementi lontani, e mentre dà loro spessore, assimila figure apparentemente opposte. L’in-
dustriale perciò rispetto al Gildo è solo un delinquente che è riuscito a far quadrare i suoi conti con l’ordine sociale vigente. Proprio come Paolo che, facendo il «finto meccanico» strappa all’operaio vero Luigi Pessina la moglie, nonché la vita, mandandolo malato in guerra in propria vece. E una realtà deformata ma è pure la verità. Guai insomma a leggere i capitoli di La rzeccanica come «capitoli o poemi in prosa». Lungo le facce del cubo si sta svolgendo un romanzo in piena regola: le regole di un nuovo modo di narrare, in cui i fatti accadono, si riflettono, si intrecciano a coppie: il potere o potenza, anche fisica (Paolo, Luigi), l’erotia (Zoraide, madre di Paolo),
l'interesse (Gildo, l'industriale). Il lettore può accoppiare i personaggi anche in modo diverso. Nel romanzo ci sono sette personaggi per sei facce. Dove mettete il padre di Paolo? Chi è l’escluso, chi giace nella faccia al buio? Gadda fa un brutto tiro al lettore che credesse che tutto è chiaro. Questo almeno però sia chiaro a tutti: giocando col cubo, alternando il gioco ab interiore con quello ab exteriore, con freddezza e con dissimulazione, deformando e conoscendo il diverso e il contrario, andando in periferia a parlare in dialetto e nei bassifondi della coscienza collet62
tiva o negli scantinati della lingua nazionale più preziosa, sempre a spostarsi per cambiar faccia, con la sua struttura
«artificiale» e con la sua scrittura «naturale» o viceversa, Carlo Emilio Gadda, nazionalista, conservatore, accanito antisocialista, interventista furioso, diventa, quasi incon-
sciamente, uno dei più feroci critici del sistema sociale per la cui difesa era andato in guerra. Non cambia solo faccia Gadda, saltando da un lato all’altro del cubo. Solo
un lato è il suo personale e se lo deve giocare contro altri cinque. Così girando, Gadda diventa diverso da quello che era prima, in «natura». Con una «forma», un artificio
strutturale, con un nuovo linguaggio, si è fatto una cultura, e ora gli pare la sua vera natura. Gadda si gioca a dadi la natura, ovvero la cultura acquisita in famiglia attraverso la madre, che per la storia è una maestra. Si affida al caso? Anzi, si mette in una struttura rigida qual è un cubo. Una struttura solida con cui si sposta su ogni faccia della questione Carlo Emilio Gadda.
IL TEMPO
DEI
POVERI
È l’infinito presente il tempo del verbo che racconta la vita dei poveri, dei diseredati, dei miserabili, nei quali l’Umanitaria suscita le speranze di liberazione proponendo l’avvento del socialismo: «Costruire case ponti canali, gittar traverse e rotaie, batter mine, vetri soffiare e lavorare dighe argini e terre, in terra straniera»: questa l'eterna vita dell’operaio, il suo infinito presente, la perpetua ripetizione di un faticoso lavoro che tale è stato nel passato e tale per fatica sarà nel futuro, senza che il verbo cambi tempo. Questo è il tempo immutabile e fatale dei lavoratori cui il socialismo promette un tempo migliore. Promessa sempre presente e senza futuro. Qualcuno non può aspettare e cerca la solita via della sopravvivenza, ma è una via che destina a un futuro iden63
tico al passato. L'infinito presente della disperata e inutile
trasgressione, del furto, del terrorismo, dell’autolesionista rivolta: «Qualcuno portafogli grattare, coltellate regalare,
polpette involtare (di dinamite): tutte ragazze contentare. O nel guazzo delle cloache, operosi alle cantine e a contrarchi delle fogne profonde, budelli neri della metropoli per tutto lo stronzame dell’umanità». Quando mai finirà questo tempo, questo infinito presente che condanna a stare per sempre nella cloaca chi delinque perché non ce la fa più a sopportare un'esistenza da fogna? La frase non ha tempo e non ha nemmeno verbo, e se ce l’ha non coniuga ma sceglie impersonali gerundi o participi. «Molti, fra barbe e specchiere, pirlando insaponate vertiginose. Sbatter con uno sparo ampio le sue salviette pseudo-vergini; svolazzano indaffarati alla ripesca dei cosmetici e degli arricciabaffi, riflettati negli specchi senza scivolar mai: vispi e cerimoniosi al paltò, inimmaginalmente fertili nello spifferamento imbuti forme dei ringraziamenti, agglutinata la vittima in un imbuto succhiante di libri cavallereschi e accademici». Servi, al-
l'infinito, oggi come ieri e come domani. L’infinito presente degli umili leccapiedi. «Fregarsene del Padreterno, confidare nel Proconsole solo, nella di cui fortuna e comando è il segno degli dèi immortali: il pacco dei cenci liquidarlo a mano di qualche rigattiere venuto di Galilea, fra la Suburra e il Teatro di Marcello. Dimenticare ogni pianto, né tramonti rossi, dipartendosi la Flaminia senza ritorno verso le genti e il mondo infinito. Come i soldati della decima aver davanti dopo gli Elvezi Ariovisto, dopo Ariovisto Dumnorige, dopo Dumnorige Vercingetorige, e insieme agli ultimi enormi orripilanti, tinti nella maschera del glastro loro violetto, “horribilesque ultimosque Britannos”». Una serie infinita di nemici, una guerra ininterrotta al seguito di Cesare nella quale perdono all'infinito i poveri soldati come Luigi Pessina. Guerre che sono sempre all’ultimo sangue; sempre comunque il sangue dei poveri, per il quale cambia sempre solo il nome del nemico. 64
Guerre per il progresso ma senza progresso. L’infinito impersonale e inconiugabile dei futuristi qui diventa il tempo di esseri anonimi che combattono ogni giorno per un futuro che non arriverà mai a coniugarsi nel presente della realtà da toccar con mano. L’infinito presente di una cultura che lotta contro la cultura precedente con risultati non diversi da quelli di chi ha visto Dumnorige sostituire Ariovisto, poi sostituito da Vercingetorige, con la speranza vana di trovarsi dinanzi all’«ultimo britanno». Non c’è mai l’ultimo britanno, c'è sempre un «britanno» da combattere nell’infinito presente dei miserabili che desiderano la vittoria del socialismo, nonché di tutti
gli infelici che aspirano alla vittoria contro una vita il cui infinito presente è una sconfitta appena mitigata dalla speranza in una nuova cultura, in una nuova natura. Gadda
combatte per dare un tempo coniugabile e personale all'infinito presente della natura, accanendosi con l’infinito futuro di una cultura che si sfrena per trovare un avvenire non dissennato come questo infinito infelice presente che sembra il tempo immutabile della natura umana. O è l'errore di una cultura?
TRIVIALE,
ANZI
QUADRIVIALE
Accusato di essere triviale, James Joyce rispose che era vero: anzi, oltre che triviale e più che triviale, era quadriviale. Nella sua narrativa in altri termini ci sono le arti del trivio e del quadrivio. Anche il trivio di Gadda è quadriviale, un intreccio di conoscenza che ha il suo punto nodale in un'espressione triviale. Chi è più triviale della voce che racconta Eros e Priapo? Ma dentro c’è il quadrivio in cui si incontrano psicologia delle masse, storia di un popolo, patologia del potere, interesse personale e collettivo. In un’espressione triviale di Gadda si annodano dunque sette strade provenienti da ogni settore e livello 65
del sapere. Questo è il «sentimento risultante»: la somma geometrica o risultante di questi infiniti sottosistemi. Il triviale Gadda conta più di sette vie, perché ci sono anche «aggruppamenti deformi o abnormi assolutamente periferici, esprimentisi in sentimenti perversi o mostruosi». Dalla periferia arrivano all’incrocio molti mostri, che vanno subito stretti in dei nodi. Nella prosa di Gadda urla un mostro prigioniero che vorrebbe rompere tutto. Quanto più è impotente, tanto più è osceno, cioè triviale, nonché quadriviale.
DAL
TOPAZIO
AL TOPO
Il topazio della Menegazzi nel Pasticciaccio è un’ossessione per il brigadiere Pestalozzi. E l’alba e lui si trova su una motocicletta che lo porta a fare alcune indagini nella campagna di Roma. Il topazio gli è rimasto in testa come un pensiero «pazzo» (parola d’avvio del flusso di coscienza del brigadiere) che impazza saltando da una parola a ogni altra. Se, come dice il commissario Ingravallo, i moventi delle azioni umane sono in fondo l’interesse e l’erotia, ha veramente tanto interesse professionale il brigadiere da sognarsi il topazio mentre attraversa in dormiveglia strade e sentieri dell’agro romano? Che c’è sotto tale interesse? Cercate allora la suddetta erotia ingravallesca, e la troverete nel seguito del sogno. Un sogno erotico in cui Pestalozzi corre sfrenatamente dietro quel pensiero pazzo del topazio che lo conduce nel resto della sua mente, della sua cultura, della sua natura.
Un topazio giallo le cui sfaccettature riflettono una fuga di colori. Un topazio che non sta fermo un attimo, che si spinge in ogni direzione, dovunque lo attiri un suono o un senso. Ecco da dove viene fuori il topaccio, che subito fila rapidissimo come un treno, topazio-topaccio che cerca la sua meta, significante che insegue il suo significato. 66
Quale interesse ha un topaccio, quale erotia? Nell’ordine naturale delle cose c’è scritto che un topo, sia pure grande, non può che correre verso un topo femmina. Corre sempre verso la topa, verso la natura della donna. Ecco quindi dove sta correndo il topaccio nato dal vicino suono del giallo topazio; ecco dove si dirige per erotia la fantasia del brigadiere. Si può brigare quanto si vuole, ma si finisce sempre lì. Ne abbiamo un desiderio folle. Da qualunque brillante o lucentezza, da qualunque suono o parola si arriva sempre qui, all'origine di tutto, all'animale da cui discendiamo. Per via di erotia e d’interesse ogni parola si tira dietro tutto il vocabolario, l’intero sistema dei significati. Sulla motocicletta il brigadiere corre con la fantasia dal «pazzo» al topazio, dal topaccio ai porci della maga Circe, da Ulisse alla scuola e alle alunne baccanti, dai porci di Circe al Circeo, a Castel Porcaro o Porcino, dalla maialesca nobildonna del topazio al Pernod e al Ratafià, al Papà, a Pape, al grande Aleppo, all’onnipresente Dio e all’onnipotente Duce. Quel pazzo del
topazio-topaccio è una brutta bestia che arriva dappertutto. Dalla periferia in cui l’ha stanato il brigadiere il topazio penetra fino al centro, dove si spegne, sia pure per poco. Per Gadda ogni parola è un topazio. Può essere un brillante ma anche un topo, da siepe o da fogna. Corre da un significato all’altro, per associazione fonica o per altro sotterraneo o superiore cammino. Dove corrono le parole di Gadda? Pure il suo topazio-topaccio cerca il punto d’arrivo che è anche punto di partenza, origine e causa prima dell’esistenza umana. Ogni sua parola conduce all’eros, produce eros. Persino la sua saggistica, la sua critica letteraria, cerca, non dico la madre, bensì il padre, cioè il teorico di questo frenetico correre del topaziotopaccio, cioè Freud. Quel topo sta correndo dietro al freudismo. Quel topo-topaccio-topazio va pure oltre il freudismo. Non lo ferma nessuno nei lunghissimi e velocissimi periodi apertigli dal monologo interiore del brigadiere. Tocca 67
ideologie culturali, sfiora tradizioni letterarie, associa mitologie classiche e moderne, attraversa l’intero sistema mentale e i sottosistemi del modesto sottufficiale. Quel topaccio della sua mente prende i binari della RomaNapoli e poi ogni altro binario lungo il quale corre il suo cervello. Quanti scambi per arrivare a coprire l’intera rete di relazioni. Il topaccio-topazio conduce anche alla parodia del freudismo. Non ridete. Quel topazio che è diventato un topaccio sta tornando a quel «pazzo» da cui è cominciato il monologo. Tutto è nato da quella pazzia: siamo tutti dei pazzi ad immaginare tante cose che non esistono nella realtà. Sono solo dei sintomi, o forse tutto è soltanto segno, ma quel topaccio ci sta mangiando il cervello. Siamo noi uomini quel topaccio? Saremmo pazzi se lo credessimo. Non siamo nemmeno un topazio, anche se talvolta brilliamo. Guardate nel cervello scoperchiato dal monologo interiore: si accendono delle luci a ogni passaggio del topaccio. E una luminaria questo spettacolo pazzesco e grottesco nel quale l’immonda bestaccia si mette a splendere come un topazio. In questo mondo pazzo, in un linguaggio pazzo, ridere e piangere possono essere solo la metamorfosi di uno stesso sentimento del disadattato alla vita.
CONTRO
CICERONE
Cicerone è convocato da Gadda nel San Grorgio in casa Brocchi, a rappresentare i linguaggi della tradizione scolastica più canonica. Un esempio classico, o per meglio dire, orrendo di lingua nazionale. Se fa danni una scuola come il futurismo, ben più gravi sono quelli prodotti dal ciceronismo nell'educazione, nella morale, nella politica, nella cultura e nell’espressione artistica da Cicerone. Dalle parole ai fatti? Piuttosto le parole contro i fatti. Ecco: 68
un autentico mascalzone, uno di quegli intellettuali benpensanti che accompagnano il buon senso delle idee con le più spregevoli azioni, uno scrittore che nasconde e violenta la verità smaltendola con una prosa precisa, chiara, elevata, equilibrata, modulata, armonica e ben lustrata.
Sulla prosa del De officiis il contino Luigi dovrebbe imparare il retto vivere e il dire retto: questo il consiglio dello zio Agamennone, fanatico ciceroniano. Cicerone funziona meglio come ruffiano: ispirando l’opera di filosofia morale Doveri allo zio Agamennone che diventerà lo strumento dell’educazione sessuale del conte milanese Luigino Brocchi. Il libro dello zio, portato alla Jole al giovanotto, ora è di lì abbandonato chissà dove, a fare da spettatore agli amori dei ragazzi. Solo così Cicerone e i suoi testi possono tornare utili ai giovani. E l’unica buona azione, sia pure involontaria di quel grande farabutto che per tutta la vita ha insegnato a fare il contrario di quello che riteneva giusto fare per sé. Guardatevi, sembra dire Gadda che sente molto la guerra con lo scrittore e il «filosofo» latino, da quei prosatori i quali «mandano a scuola» il pensiero e la realtà afflitti da insanabile disordine, contraddizione e dubbio, e che li rimettono in bella. La bella scrittura degli scrittori che dalla tradizione vanno a scuola di inganno, di fraudolenti moderazioni e di scintillanti adulterazioni. Il neoclassicismo è la baldracca della conservazione e della stupidità. Gadda sputtana la lingua di Cicerone anche quando racconta le proprie Favole con lingua preziosa. Più in alto o più in basso, ma mai al livello di quel filisteo di Cicerone che «sta in mezzo» come fosse virtù. Una canaglia, una lingua canagliesca, che media e modera per nascondere la verità.
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IL MOTORE
E IL CUORE
Giuliano, il cugino della Liliana Balducci, vive, nel Pasticciaccio, vendendo lubrificanti per motori. Questo è
il lavoro, che gli rende parecchio. Altrettanto bene che nel lavoro riesce con le donne, con le quali ha un intenso traffico. Da chi ha imparato a sedurle? Dal suo lavoro, la vendita dell'olio per macchine. Le donne sono macchine diverse e usano più olio da cucina che non quello per motori, ma per conquistarle non c’è niente di meglio di un linguaggio ben oliato; non troppo diverso da quello che a Giuliano serve per vendere i lubrificanti. Lo spiega al commissario Ingravallo con parole appropriate. Più precisamente appropriate ai lubrificanti e ai motori, ma, a sentire Giuliano, non c'è da cambiare una virgola rispetto a quello che si potrebbe fare allo scopo di sedurre una donna. Sono delle clienti da persuadere come gli acquirenti dell’olio. Chi sa usare efficacemente un linguaggio di tecnica provata lo può applicare per tutti gli altri interessi pratici. Un motore con tutti i sentimenti. Una buona lingua, dinamica, dura come il metallo e agile, basta per dire tutto, e non solo quello per cui è stata creata. Quella scientifica ad esempio, tecnica, specialisti-
ca, dei lubrificanti funziona benissimo per parlare d’amore e alimentare sentimenti. Un buon motore, se lo olii come si deve, ti porta dappertutto. Un meccanismo come
gli altri, con cui si fanno affari e si fa l’amore. Ci vuole tecnica e arrivi al cuore di una donna. Una lingua «finta» per parlarsi francamente nel comune interesse. Una invenzione per essere sinceri.
E retorica? Ecco: serve la retorica. Usando bene la retorica, non tardi a convincere il cliente, la donna. Lo si
dice per ironia? Di sicuro c’è molta ironia nel raccontare una storia di seduzione in amore come persuasione non occulta di un acquirente o venditore di lubrificanti. Sono troppo diversi i due registri linguistici? Allora non ci credete che si possono fare degli affari con amore, e si può fare l’amore con un ottimo senso degli affari? Invece, 70
come possono essere affaristi i romantici e gli umanisti!
Con la lingua della scienza si possono conquistare tutti i temi, se uno ha abbastanza olio nel motore. È una delle lezioni di Gadda agli scrittori sperimentali, degli anni Sessanta. Il narratore che usa un buon olio può conquistare anche il lettore più restio. Gadda ha fatto sempre di tutto per andare giù facile dentro la testa. Comincia a scrivere Racconto italiano d’ignoto del Novecento con l’idea di narrare con una lingua accessibile. Lui vuole il successo, non i fischi dei futuristi. Ovviamente non ha mai pensato che la sua prosa dovesse scendere come l’acqua: se fosse così leggera, incolore, inodore, non ci sarebbe bisogno del lubrificante. Sa che le sue parole fanno attrito, restano nella strozza, intasano l’intestino, per non dire le coronarie. La corsa può essere accelerata solo dalla forte spinta
dei propellenti satirici e dalla piena del furore, ma Gadda non vuole travolgere il lettore: deve fargli distinguere talvolta i dettagli, i detriti trascinati da una prosa scatenata. Il suo movimento è più lento come di chi supera a ogni parola un ostacolo. E allora sotto con l’olio di frasi che si espandono, scivolano, circolano negli organi vitali di una scrittura artificiale che cerca la verità. Gadda è un narratore che butta olio sul fuoco per alimentare incendi e che con l’olio placa la tempesta da lui stesso suscitata. Uno scrittore «macchinoso» che fa mandare giù con l'olio, come l’olio, i bocconi più indigesti, purché nutrienti. Perché allora il suo romanzo, motore perfetto e ben lubrificato, si blocca, e mai arriva alla fine? È per la lotta intestina che caratterizza la narrativa moderna dopo le avanguardie, e in ordine di tempo, il tempo di Gadda, dopo «La Voce» e «La Ronda» nemiche di romanzo? Gadda non si staccherebbe mai dalle parole che ha in bocca, le tritura, le mastica, le mescola: frammenti, poemetti in prosa, racconto lirico. Una narrativa dove farebbe tutto l’io dello scrittore se non avesse necessità d’altro. Ma questo brutto soggetto fa presto i «pidocchi». La lingua di Gadda è una sostanza che continua a dar 7A
sapore agli ormai insipidi conflitti familiari dell’autobiografia dell'autore. Ma deve trasformarsi in lubrificante per spingere avanti o dietro o giù i frammenti. Non è sempre facile mandarli giù, a parte quelli che lo scrittore ama farsi sciogliere in bocca, specialmente quelli più «parlati». Gadda li rigira finché i frammenti, cubetti di cibo solido, non calano giù. Qualcuno gli resta sullo stomaco. In questo motore che funziona come il corpo umano e che dà il meglio quando va su di giri, non è possibile mandare giù il rospo. È colpa della madre se non ha lo stomaco per digerire la vita. Una vita in cui bisogna saper digerire pure i sassi. Togliamo allora la vita a chi ce l’ha data. Un brutto rospo. Non c’è abbastanza lubrificante per mandarlo giù. Un motore che gira a folle e che non ingrana la marcia per arrivare dove vorrebbe. La macchina di Gadda non ha le ruote? Quando ci sono, sono quadrate. Se si sposta però, è una rivoluzione, o almeno una rivelazione. È possibile cambiare natura? È un’idea seducente. Gadda la lubrifica spasmodicamente, spasticamente, in ogni motore. Dà una spinta alla natura per cambiarla. O girerà sempre come ha fatto sinora?
VIVERE
COL
TARLO
Gonzalo sente un tarlo. È coricato sul letto mentre il medico lo visita. Il letto è di pesante noce «tantoché il tarlo vi si udiva cigolare a fatica, con un giro duro e breve, di cavatappi, dopo stanchi intervalli». Come il suo autore, Gonzalo fa l’indiano, cioè poggia l’orecchio se non al suolo sul noce del letto e ascolta i rumori lontani per riceverne messaggio di arrivo. Gadda fa l’indiano anche nel senso che non dice esplicitamente cosa significa e comunica quel tarlo. Per intanto, naturalmente e naturalisticamente significa che lo Na
scrittore sta attento a ogni dato più minuscolo. I suoi sensi potenziano ogni suono e lo centuplicano. La realtà esiste ma il suo ordine di grandezza è stabilito sulla base di come ti disponi, il punto di vista, la vicinanza e innanzitutto la sensibilità dello strumento di ricezione. Gonzalo sente il tarlo perché c’è il tarlo nel noce e in lui stesso. Quel tarlo lo sente nel proprio cervello. Il tarlo certamente c’è ma esiste soprattutto perché sei nella condizione di sentirlo: coricato o depresso, comunque in una posizione dalla quale senti ingigantito il messaggio che ti arriva dalla materia, dal mondo, dalla vita, dal più profondo te stesso. Vivere col tarlo. Un cavatappi che trapana il cervello. Un tarlo che compie un giro duro e breve nel pesante noce. Non è di legno l’uomo e non è nemmeno di legno duro. Della superficie chi ha sensibilità avverte subito che sotto c'è qualcuno che corrode il tessuto. La necessità di andare a guardare in fondo, da dove parte quel cigolare che fatica. La fatica di vivere con un tarlo che non può essere eliminato e che lavora senza stancarsi dentro il tessuto molle del cervello. Un tarlo è solo un tarlo, ma può ammazzare. Comunque ti fa urlare se si fa strada nel cervello. Gadda tarla tutte le parole, andandoci dentro per trovare un senso, ma esse nel frattempo se ne sono vuotate. Resta il tarlo, animale che vuota e che riempie di sé, della propria capacità di fare il vuoto e di quella di fare il pieno. Un tarlo che uccide. Gadda vuole essere un altro, non quello che vedono la madre e gli ufficiali suoi superiori. Anzi vuole diventare un altro rispetto a quello che il suo io manifesta. L’io, «questo palo», un io da mettere al palo e da impalare, per quanto è squilibrato, infuriato, ossessionato. Un io che è schiavo dell'Altro, cioè di colui che, dando ordini dal profondo, provoca disordine, il «male invisibile». Per recuperare il benessere fisico, la salute psichica e l’equilibrio metafisico, Gadda desidera essere diverso dall’io e dall’Altro. Essere altro da quello che è il padre, un borghese che NO
per rispetto all’apparenza sociale accresce la miseria familiare, un prepotente che finge di credere in valori tanto più fasulli quanto più è necessario imporli. Essere altro non solo da quello che la madre capisce di lui ma anche da quello che essa desidera che lui sia. Il poliedro promette questo e altro: sempre di più ma dentro l'infinito. Gadda è Altro ed è altro. Tra l’iniziale maiuscola e la minuscola c’è l’intera storia di un narratore che per diventare un altro ha ingigantito l'Altro al punto di fargli coprire tutto il mondo. Tra i due poli scocca una scintilla che è capace di sviluppare un incendio da cui non si salva nulla. L’altro, che è storia e moralità, diventa sempre alla fine Altro, figura di un male che è fisico (la nevrosi) e che insieme è metafisico (dove il nulla è tutto)? E il Gadda del
Pasticciaccio è altro da quello della Cognizione del dolore, dove infuria l’Altro; che si calma solo perché ha fagocitato ogni «altro» particolare. E l'Altro l’universale, questo è il mito di Gadda, il narratore che ha messo più storia e moralità dentro la metafisica. E questo il linguaggio della nostra epoca, ma può diventare un altro se questa cambia. Tocca cambiare continuamente linguaggio, lingua e dialetto. Se il proprio Altro — il suo profondo — è un linguaggio, urge cambiarlo. Come? Con altri linguaggi, e col linguaggio degli altri. I linguaggi «Altri» e quelli che gli altri parlano. Un altro linguaggio è sempre uno spostamento, una narrazione che va oltre il punto di partenza sul quale si accanisce a ripetersi la poesia, la lirica. Una narrativa che sia anche lirica? Conta però il sostantivo, la sostanza del discorso è arrivare all’Essere spostandosi, cioè diventando un altro col racconto, con la narrativa. Un altro linguaggio.
Un altro linguaggio, un’altra lingua, magari un dialetto, e poi un altro dialetto ancora, lombardo-veneto, toscano,
centro-meridionale. Altri personaggi, rispetto a quelli in cui trionfa l'Altro degli anni della guerra: donne a cominciare dalla Zoraide, per non dire della madre, da cui tutto 74
comincia. Spostarsi dalla parte degli altri personaggi, dando a ognuno la parola, perché dica la sua, e si confessi e ci faccia lirica, esprima sentimenti, idee e risentimenti. Il cubismo di Gadda è contiguità di punti di vista che fa narrativa spostandosi da una faccia all’altra. Narrare per diventare un altro insieme con i vari personaggi e intanto scovare il proprio Altro. Gonzalo è l’Altro, il commissario Ingravallo è un altro. Investiga, istruisce, interroga, dialoga, sta a sentire, redige verbali, ricava regole di compottamento. Interesse ed erotia i moventi dell’uomo. E Altro, altro ancora. Quello che era un folle, ora è un saggio. Una saggezza «altra» che ragionando con l’equilibrio di chi investiga per trovare il colpevole di un reato contro le istituzioni ha scoperto quale pasticciaccio è il mondo. Il folle è un saggio, l’investigatore è colpevole. Quante identità di opposti in questo narratore che muovendosi fra l’Altro e l’altro, ora sa bene quale follia è il mondo. L’«altro» è l'«Altro»; il caos originario, il caos finale. Il cubo è diventato un cerchio, figura nella quale coincidono inizio e fine e dove il dopo viene prima del prima. Il poliedro, che con i suoi angoli acuti garantiva, se non il progresso, almeno il processo e il mutamento e la speranza del nuovo, è spuntato, non proietta più i suoi spigoli nella periferia, nel caos, nell’infinito informe. E finito il
viaggio, il linguaggio rinuncia, sarà ormai sempre così. E tuttavia il cerchio non si stringe intorno al colpevole, la ripetizione non lo prenderà più per il collo, questo cappio che è l’eterno ritorno non strozzerà la ricerca di altro. Il romanzo non scriverà mai la parola fine. C'è sempre un altro capitolo da scrivere. Qualcosa ci trattiene. E solo una nevrosi? Proviamo con un altro linguaggio, magari con un altro dialetto. L'Altro forse non esiste se non come linguaggio. Se ne faccia un altro, che abbia angoli e spigoli, e sia acuto. Farà male, ma è la chirurgia, e forse è questa la terapia. Una cura radicale, strutturale. La cura di Gadda: prima che finisca un linguaggio, fatene un altro. La lettera è sempre la stessa: la N. Però Cè N+1, e (e)
poi N+2, N+3, e così di seguito all'infinito. Ha molti numeri ancora l’uomo? Così promette la scienza, e bisogna crederle. Allora è colpa della lettera, è colpa della letteratura, cioè del linguaggio letterario se in sostanza si è sempre alla N. Se siamo arrivati alla metà dell’alfabeto, ne abbiamo fatti di passi avanti in poche migliaia di anni. Detto così, alla lettera, abbiamo un futuro. È questo il verbo di Gadda, un narratore che non si finisce mai di capire.
«ABORRISCO
IL PANDEMONION»
Due citazioni, il numero dei poli, e mettiamo in mezzo il lavoro di Gadda. Sono tratte da Meditazione milanese,
che linguisticamente si pone tra due poli che poi schiaccia e miscela, cioè il colto e il colloquiale-popolaresco: che è miscuglio assai saporito, un unicum nel linguaggio della saggistica italiana. Prima citazione: «In genere aborrisco il pandemonion proveniente da incuria e disordine: nel mentre mi tuffo volentieri nel pandemonion quando sia deliberatamente instituito e “lance” — per simboleggiare l’orgiastica forza» (158). Seconda citazione: «Ora è possibile che solo il sistema della conoscenza umana debba essere in sé chiuso e perfetto? Unica eccezione alla regola? No. E così tutti i sistemi filosofici contengono certamente un residuo o un errore di chiusura» (182).
Il pandemonion da una parte e il sistema chiuso dall’altra. Gadda aspira a «festa e orgia voluta». Mettere in forma l’informe della «libera e folle vita». Un sistema consapevole dell’errore di chiusura? Gadda propone il poliedro, che illustra efficacemente il suo sistema della conoscenza il disegno presenta da una parte una periferia assai frastagliata per angoli che invadono lo spazio vuoto esterno ai poliedri, e per insenature, foci e altre cavità che si arrendono al disordine delle zone non ancora conquistate perfettamente dalla conoscenza. 76
Il poliedro dimostra pure che il sistema non cresce solo
ai lati, orizzontalmente, ma anche verticalmente, in quei punti detti bi-comuni, tri-comuni, quadri-comuni, ecc.
nei quali si sovrappongono altri sistemi laterali, creando spessore laddove il sistema sembra semplice. Appaiono semplici e piane le facce del poliedro e invece vengono complicate e ispessite da un numero infinito di sottosistemi che nel gioco delle prospettive fanno un «pandemonion» voluto. Diventando un solido, il poliedro di Gadda crea piramidi e cubi, non sfere. Il suo ordine continua ad avere angoli acuti che vanno a incunearsi in uno spazio non ancora raggiunto da una qualsiasi legge. I suoi racconti, e ancor più i suoi romanzi, saranno un «pandemo-
nion» di spigolose figure solide che si inoltrano nel caos circostante fino a nuovi confini dai quali prendere visione i di un ulteriore, inesauribile disordine. Analogamente, ogni parola di Gadda si comporta come si fosse un incrocio di parecchie linee che portano messaggi da sovrasistemi o sottosistemi o sistemi laterali. La singola parola è già un nodo di fili multicolori che compiono ogni sforzo per concordare subito un senso, ma che sanno di dover presto concorrere a un senso ulteriore. «E la somma geometrica o risultante di questi infiniti sottosistemi è il sentimento risultante». La parola dunque va al poliedro e ai suoi solidi esterni ed interni, al cubo e al margine di oscurità che non sai come illuminare, che forse sarà illuminato da un sistema culturale successivo, e che forse lascerà sempre un’incognita. Infatti ci sono «aggruppamenti deformi o abnormi, assolutamente periferici, esprimentesi in sentimenti perversi o monstruosi». Una periferia infinita nella quale trova forma, sistema e chiarezza solo una parte molto esigua. Un ordine che è sempre alla deriva nell’illimitato pandemonion che è l'universo. Con l’infinito non si fanno mai calcoli precisi, tanto meno frazioni, ma si potrebbe dire, se si lavorasse sulle sei facce del cubo, che il rapporto di cinque a uno tra chiaro e scuro va bene solo in uno spazio piccolo, quello che sta sotto gli occhi: in un macrosistema al
invece va ribaltato a vantaggio dell'oscurità e del disordi-
ne, anzi è pure poco pensare che c’è cinque volte più disordine che ordine. Questo è limitato, l’altro è infinito.
Gadda sa di mettere ordine solo precariamente nello spazio e nel tempo. È cosciente di che impresa disperata sia quella di rendere figurativo un universo di dati che naturalmente sarebbero destinati all’informale. La sua metafisica lo sollecita a non rinunziare alla totalità, ma il suo positivismo lo costringe a prendere quanto si può toccare con mano e di affidargli statuto di realtà, sia pure passeggera e provvisoria. Il «realismo» di Gadda è una cosciente, voluta, artificiale riduzione del mondo da parte
di uno scrittore «tradizionale» che non accetta quella trascrizione del caos con cui fanno arte informale le avanguardie futuriste e surrealista. Gadda ha senso della misura, cioè accondiscende
a
prendere le misure a un mondo che intorno è smisurato. Empiricamente, da ingegnere, ha geometria e capacità di costruzione. La sua tentazione più forte sarebbe di distruggere tutto, ma ha buoni motivi per credere che si tratta di una questione personale. Chissà che a costruire qualcosa di diverso da quel che ora vorrebbe non gli sia possibile mettere insieme un nuovo disegno alla propria vita. Sulle parti solide che è quanto viene sottratto all’infinito magma, Gadda si aggrappa come un naufrago circondato da un’illimitata distesa di mare in tempesta. Il realismo è un appiglio, un sostegno, un galleggiante, ma per Gadda non è salvagente. Semmai salva il narratore dall’annegare nell’informe che tanto lo attira.
DALLA
PARTE
DEL
FIGLIO
Gonzalo è sul letto dove lo sta visitando il medico chia-
mato d’urgenza per uno dei frequenti attacchi del suo
male invisibile. Il medico non vede alcun male fisico nel 78
corpo di Gonzalo ma non fatica a capire che costui è afflitto da una grave forma di nevrastenia. Non è tangibile ed è insieme una malattia totale, un morbo della struttura, una sconfinata metastasi del linguaggio. Il linguaggio del figlio contro il linguaggio del padre. Duole dappertutto il linguaggio come duole dappertutto il corpo. Se il corpo è sano, è forse anche sana la realtà che fa urlare tanto Gonzalo? Una malattia del linguaggio penetra nel corpo di una società e la contagia tutta: dai vigilantes ai peones, dai reduci che si sono trasformati in poliziotti per derubare i cittadini ai borghesi che si pavoneggiano di ville di cattivo gusto, dai padri che cercano marito per le figlie ai contadini che approfittano dell’ingenuità e generosità di una povera e vecchia signora, dalla cultura di costei che troppo si è nutrita di libri ai ragazzi che se ne infischiano della lettura e dello studio e corrono spensierati e ignoranti verso un mondo dissennato. Qualunque sia il punto che si tocca sotto quel cielo in cui riecheggia il suono della campana del padre, Gonzalo grida, esasperato, scatenato, irrefrenabile e sfrenato, fuori di sé e fuori di senno, pure lui assordante, come a vincere l’altro suono che gli fa scoppiare il cervello mentre giace sul letto sotto le dita del medico, che è pietosamente consapevole di non avere medicine per quel male invisibile. Non è visibile dalla parte del medico, ma il lettore lo sa anche dall’episodio della campana che Gonzalo ce l’ha col padre. Con la sua natura di padre o con la sua cultura di padre borghese che regala campane per fare bella figura con gli altri proprietari di ville? E uno scontro di linguaggi, con quanto essi hanno di inconscio e di conscio, quello tra il padre e il figlio. Per Gadda il linguaggio non è tutto, ma ci manca poco che lo sia. D'altronde il padre di Gonzalo non si comporta diversamente. Anche lui crede moltissimo al linguaggio, apparenza che è sostanza: quanto suppergiù il dono generoso che denuncia ricchezza laddove invece c’è povertà dissimulata. Il padre conserva il linguaggio borghese anche quando ha perso la sostanza. E ciò pare dissennato a un figlio che è più positivo, oltre tb,
che parecchio positivista, forse sempre meno ma mai per niente. Quello del padre è un linguaggio contro la realtà e contro la ragione. Per trovare la realtà Gadda deve demolire il linguaggio del padre, a cominciare dalla sua figura e dal suo ruolo. E una storia invisibile, o quasi, questa del parricidio, ma la narrativa di Gadda lo perpetra. In due modi: irridendolo o aggredendolo come insano e stolido, «spagnolesco», cioè formalistico e fatuo, miserabile e fastoso; e distrug-
gendo ogni possibilità di succedergli in quanto padre di suoi figli. Col linguaggio di Gadda non si possono avere figli. Ecco dove ha portato la cultura del padre. Una famiglia economicamente dissestata, un intero paese sottoposto ad angherie, imbrogli, ruberie, parassitismi, squilibri, assas-
sinî; un figlio che non ci sta con la testa e non ci sta in un nessun altro modo in un mondo simile abbandonato dalla ragione e che perdendo pure lui la ragione nell’intento di capirci qualcosa in quell’ordine imposto dal padre e da quelli che la pensano nello stesso modo. Una mentalità dissennata ha tentato di darsi ragione di una società che non potrebbe essere più squinternata, stupida, cialtronesca, ridicola, scriteriata, turpe e pazza. O almeno così appare dalla parte del linguaggio del figlio. Se ci pensa ma anche se non ci pensa, diventa furioso, è preso da attacchi isterici, urla a squarciagola avendo davanti la «visione» di cosa significa per lui vivere in un mondo che è privo di ragione ma che è capace di darsela pur di non capire quanto succede ai danni di tutti; a cominciare dal figlio che amerebbe ripristinare l'ordine naturale delle cose, non quello prezzolato dei vigilantes o di altri regimi forti invocati per proteggere la miserabile impotenza di gruppi sociali che nel passato avevano compreso bene cosa c’era da fare per sé e per gli altri. Prigioniero della campana paterna, Gonzalo non vede ma proprio per questo motivo stravede. Gli basta l’appiglio di un qualsiasi punto del mondo, una qualsiasi sua «cosa», per avere la visione del resto. Il suono allontanan80
dosi dal centro dell’emissione può affievolirsi progressiva-
mente, ma invece Gonzalo sente crescere l’intensità. Le
onde sonore gli ricordano altro mare, una ferita che non
cicatrizza, mare che è madre e morte, a sentir Savinio. Da
lì dentro il figlio che ha le visioni proprie del suo linguaggio (magari un linguaggio che è stato a sentire troppo Freud) urla in modo che si senta in ogni dettaglio del suo romanzo, in ogni pagina della sua narrativa.
A FERITA
APERTA
Gadda scrive sempre, interamente spellato, a ferita aperta. Qualsiasi parola egli poggia sulla carne cruenta del proprio corpo, provoca una acuta sensazione di dolore. Vivendo in società non può evitare il contatto con le cose più grosse: la Milano borghese e quella socialista, la guerra e i suoi generali e i soldati, i privilegî dei ricchi e le astuzie della sopravvivenza dei poveri, il grottesco formalismo dell’educazione dei gentili e la brutalità innocente dei diseredati, i ricatti sentimentali dei genitori, il fascismo e il becero servilismo delle masse, nonché la viltà degli intellettuali, lo sfruttamento sociale e la speranza ingenua di porgli fine, il formicaio della città e la bestialità degli individui, la nevrosi del singolo e la mortale epidemia che non risparmia la moralità di nessuno. Sono gli
«oggetti» che fanno male a chi se li sente sulla pelle non ferita, figurarsi se vanno a premere sulla carne viva di uno che «ha i nervi» e che certo non è uno stoico né un cinico. Ce ne sono tanti di scrittori che urlano sotto la pressione dei soprusi sociali, delle storture morali, delle follie ideologiche, della violenza politica, della scelleratezza dei singoli, dell’abbrutimento delle masse, della comicità
dei comportamenti della cultura dominante o dominata. Gadda urla anche per questo e sa dar voce a orrori e desiderî collettivi e individuali come pochi realisti sanno 81
fare. Gadda è un grande realista che sa bene che esiste una realtà nel fondo ma non sa più dov'è e quando viene fuori; e sa pure cosa altro c’è di fondamentale, a cominciare dall'anima o psiche, una delle tante cause delle malattie del corpo. Un corpo senza pelle che gli duole in ogni organo, su ogni millimetro, al centro come alla periferia. In Gadda il centro è realista, ma il sistema resta informe. Quando ogni millimetro della pelle è scoperto, basta un nonnulla a provocare dolori lancinanti per cui si è pronti a urlare. Gadda urla per un nonnulla, ma visto che trattiamo con uno scrittore che frequenta i giochi di parole, si dica anche che urla per il Nulla. Nelle sue condizioni psicologiche basta che gli si posi addosso un po’ di polvere perché urli oltre misura. Anzi non è raro che il dolore si presenti a lui più intollerabile e bruciante attraverso quello che ad altri sarebbe motivo di disagio o di fastidio. In Gadda c’è un ribaltamento della prospettiva per cui si ingigantisce un dato minuscolo e si rimpicciolisce un grande problema. Per lui può essere di fondamentale importanza ogni particolare ma ovviamente non può più
stabilire, con i suoi positivisti, quale lo sarà effettivamente essendo privo di un criterio sicuro, deve aspettare di sentirlo sulla propria pelle, sulla sua carne viva.
UCCIDETE
LA LINGUA
MADRE
«I miei personaggi sono persone immaginarie, o sognate... Io creo, non ritraggo. Vi prego di non fare insinua-
zioni, di non ripetere queste assurdità». Quali «assurdità»? Che il matricidio fosse un suo pensiero fisso? Che tutti i suoi romanzi uccidono una madre o una matrigna, perché questo è il desiderio, nemmeno tanto inconscio, di Gadda? Ci sono troppe prove contrarie, e tuttavia gli si potrebbe credere. In effetti egli inventa, non parla di se 82
stesso; o meglio, non parla solo di se stesso; anzi quello che è lui nella vita reale diventa un’altra cosa nella «combinatoria», nel sistema di rapporti che è un romanzo misto di fatti veri e di immaginazione. Sarebbe un’assurdità sostenere che Gadda è riuscito a inserirsi in una struttura linguistica che, diventando sistema complesso coerente e autonomo, ha tagliato il cordone ombelicale con l’autore e si è messa a diffondere un messaggio che partiva da tutta una cultura in quei primi del secolo in cui si stanno eliminando i genitori, la cultura che ha dato i natali, la madre al cui seno si era allattata un linguaggio oppressivo per i figli Gadda si è assunto il peso di ammazzare per tutti la madre. L’ordine era stato impartito dalla psicoanalisi. Chi lo esegue «uccidendo» il padre (Savinio), chi la madre. Gadda non risparmia nessuno dei due genitori: ovviamente quelli immaginari. Il sogno di far fuori il padre e la madre lo stanno facendo in molti in quell’inizio del Novecento. È un mito dell’epoca, uno di quei «racconti favolosi» che non sono di nessuno in particolare perché sono di tutti. Una favola assurda? Facciamo l’«insinuazione»: Gadda finge di raccontare storie vere per essere creduto, ma così comunica meglio l’incredibile, e cioè che bisogna creare un linguaggio che uccida ininterrottamente il linguaggio da cui è nato. Come si fa a sapere se è vero? Puntate e lanciate il dado, quel cubo «oggettivo», neutrale come una struttura, che racconta per punti di vista senza una gerarchia che privilegi l’autore. Che è solo una faccia sulle sei di questo solido. Il mito del «punto di vista» uccide il padre, il depositario della verità. Nella narrativa di Gadda si ammazza ogni volta la verità che era il valore massimo della cultura madre, quella dell’Ottocento che resiste ai primi decenni del nostro secolo. Un mito «astratto» che Gadda ha reso concreto facendo soffrire come se fosse una storia autobiografica. E invece era una storia «esemplare» del Novecento.
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RICONOSCO
LO
STILE
Gonzalo Pirobutirro «uccide» la madre? È il tema obbligato di ogni opera di Gadda. Uno, dieci, cento matricidi. Appena ha cominciato a scrivere, gli è venuta irresistibile la voglia di colpire la madre, di «vendicarsi». La ferisce per la prima volta in una pagina di diario nella quale la considera colpevole del suo fallimento di uomo e della sua incapacità di comunicare con gli altri e di farsi capire per quello che è realmente. E costretto a scrivere, se vuole manifestare la sua vera natura. E non appena la penna è sul foglio bianco, essa si mette a infilare parole che vanno a infierire mortalmente su una madre. In San Giorgio in casa Brocchi, il giovanissimo Luigi la ferisce nella sua natura di madre, la possessiva gelosia di ogni madre, e nella sua cultura di una madre borghese fanatica di grandezza, di prestigio sociale, di aristocrazia intellettuale, di alterigia morale e di ogni comportamento «superiore» a quello degli uomini comuni. Un personaggio comico, come la madre di Paolo ne La meccanica, che
fa tragedie su sciocchezze quali sono i suoi risibili tabù. Una madre tutta da ridere nelle idee e nei comportamenti. A lasciarla fare, formerebbe un figlio inetto, inesperto, timido e goffo: quello che in guerra si è scoperto Carlo Emilio Gadda, tragico figlio della commedia di Sar Giorgio in casa Brocchi. Chi è la madre, e perché viene uccisa in La cognizione del dolore? A suo modo una risposta la dà il capitolo centrale, che è quello che ha per protagonista proprio la madre di Gonzalo Pirobutirro. La scena si svolge al buio, interrotto dai lampi di una tempesta che ha violentemente investito la zona in cui è collocata la villa della Signora. Quel buio tinge di nero l’intero capitolo ma ottenebra tutto il romanzo, che ne resta come impregnato: luogo dove si covano la tragedia e la morte. Se è vero quanto dice Giacomo Debenedetti, e cioè che ogni grande romanzo dopo l'Odissea, ha una nékuia, allora eccola la mitica «discesa agli inferi» de La cognizione 84
del dolore. In questa nékuia parla quasi soltanto la madre, mentre Ulisse, cioè Gonzalo, raccoglie la rivelazione: il destino del figlio e quello della madre. Si è ricordata del figlio soltanto quando si è sentita colpevole di averlo dimenticato. Da parte sua, Gadda non dimentica certo che la madre fisso il pensiero sul figlio morto. Figura tragica, la madre di Gonzalo non riesce a nascondere che si comporta come se avesse perduto entrambi i figli. La sua memoria ha cancellato il secondo figlio, che è quello vivo: cioè lo ammazza, lo priva di esistenza nei proprî pensieri.
Il rimorso è reale ma la scena è anche teatrale. Gonzalo è un figlio che non merita di entrare in una tragedia shakespeariana. Egli è un personaggio da opera comica, dialettale, inferiore, picaresco, un essere deforme
cui è negata la nobiltà di intendere e di comportarsi. È uno sconfitto per il quale si può nutrire pietà ma che può facilmente passar di mente. Gonzalo penetra nell’inferno della mente della madre e la vede piangere solo per il fratello morto, questo sì personaggio di tragedia. La sente piangere col linguaggio prezioso, solenne, regale e altisonante del dramma elisabettiano del quale ha tentato sempre di trasmettere la passione ai due figli. La Signora sa di essere all'inferno e non intende assolutamente perdere l'occasione offertagli dal figlio vivo di dimostrare che grande attrice tragica è, sia pure inconsapevolmente, per sublimazione di amore materno. Ella si contrappone al figlio mediocre presentandosi come essere sublime. Una grande attrice del teatro del sublime. Protagonista è il linguaggio della madre. Tocca a lei ora dire la sua, dopo che hanno raccontato il loro modo di vedere Gonzalo il peone, la Peppa, il medico e il figlio stesso. Nel cambio di prospettive che il romanzo attua, ora la parola è alla madre, sia pure per interposto discorso indiretto. Questo dovrebbe prendere le distanze dal linguaggio della madre ma in realtà funziona come discorso diretto: del quale d’altronde la prosa registra a caldo le battute indirette drammatizzandole, dialogo sempre al presente. 85
Quel sottoscala dove ripara per il terrore della violenta tempesta è un boccascena nel quale va completando la parte che ha fatto per tutta la vita. La pietà che si conquista presso il pubblico dei lettori se la sta meritando da sola: è il suo momento, è lei che parla, e chiede aiuto per una tragedia che lei ha scritto; e per la quale il figlio ha prestato la mano, da quel nevrastenico che è, con cui fare una tragedia per un lapsus. Avrebbe avuto effetti lancinanti anche in chi avesse i nervi a posto e fosse pratico di analisi psicologica come Gadda è.
NEL
LINGUAGGIO
MALATTIA
E TERAPIA?
Nel linguaggio è la malattia. Nel linguaggio è la terapia? La tragedia della madre è il suo linguaggio tragico, appreso sul Re Lear di Shakespeare. Non piange tanto la madre di Gonzalo quanto piuttosto il suo linguaggio. Quello del dramma elisabettiano è il suo lessico alto, quella è la sintassi complessa e nobile. Privata del figlio durante la guerra, i suoi pensieri denunciano le auliche fonti linguistiche, l’elevato tasso metaforico del modello, la sublimazione della propria sventura. La madre si è messa nei panni di una eroica genitrice secentesca e va a calcare la scena nel primo dopoguerra italiano. Se deve raccontare con le proprie parole la disgrazia che l’ha colpita, non concede alternative al linguaggio che ha sempre amato e che unico ora le pare degno di raccontare la sua storia di madre che ha perso un figlio; mentre l’altro è come se non l’avesse mai avuto, visto che ne rimuove l’esistenza mediocre e comunque non eroica, non all'altezza dell'educazione che gli era stata data. Lei non è una delle tanti madri che hanno perso un figlio in guerra. Può essere umile, generosa, facile alla solidarietà e alla compassione verso tutti i bisognosi e gli amici, ma in quanto madre ferita non c’è che il linguaggio 86
della grande tragedia a poterla raffigurare. Per come vede la propria storia dalla sua prospettiva personale, solo l’elefantiasi del linguaggio tragico risulta adeguato alla gigantesca sua sofferenza. Il grande dolore si è cercato il linguaggio che ad esso si confà o è un linguaggio grandioso, solenne ed eloquente, che va costruendo un dolore sovrumano come quelli di cui si legge nella tragedia classica. Torna a proposito la formula continiana dell’espressionismo naturalista. Il dolore c'è ed è naturale ma è aggettivo, attributo della sostanza vera che è quella del linguaggio deformante, spastico, «barocco» con cui si esprime. E teatrale ma è anche reale; almeno così lo avverte Gonzalo, che ne è schiacciato. Tutto ciò serve a Gadda per dire che la madre di Gonzalo
non soffre realmente quanto pare ad ascoltarla. Intende negarle autenticità proprio nella sofferenza per cui solo ella esiste? La madre è colpevole di simulazione? O invece è innocente, e colpevole è il linguaggio con cui è stata educata ad esprimere sentimenti, idee, comportamenti, insomma la sua cultura? E lui stesso, Gonzalo o Gadda che sia, è vittima di una madre che ha prediletto il primo figlio a scapito del secondo, o è la vittima di un linguaggio? Basterà cambiare linguaggio per liberarsi del «male invisibile»? Questo è sicuramente un linguaggio. Gonzalo ha colpito mortalmente non il corpo ma il linguaggio materno? Ma allora perché è così ossessivo il rimorso? Non basta avere eretto un monu-
mento alla madre per essere «perdonato»? Basterà averne fatto un grande personaggio tragico?
DA
GONZALO
A INGRAVALLO
Gonzalo Pirobutirro rassomiglia molto al Gadda che andò in guerra e scrisse il Giornale di guerra e di prigionia. Ingravallo invece è quello che Gadda è diventato attraverso le numerose trasformazioni, anzi deformazioni, cioè 87
conoscenze ulteriori di se stesso, dopo essersi grattato i pidocchiosi pronomi personali. Dopo tante metamorfosi non è più lui. Comunque non è più uno solo e non è nemmeno l’alternanza di facce che girano col cubo. Ruotando hanno formato una sola faccia che tutte le comprende: quella del commissario Ingravallo, che investigando in sé e negli altri ha messo un po’ d’ordine in se stesso, tanto che se n’è dato qualche regola per interpretarlo: come ad esempio quella secondo la quale i moventi fondamentali delle azioni umane sono l’erotia e l’interesse. Ordine nel Pasticciaccio? Il massimo possibile d’ordine: che per paradosso è anche il massimo di disordine possibile. Il poliedro che illustrava la Meditazione milanese ora occupa l’intera città di Roma, dal centro alla periferia, alla campagna circostante, al limite estremo del territorio romano, dove vivono i «barbari» e comunque dove non si conoscono né regole né lingua nazionale, malgrado il Duce. Più si estendono i confini, più cresce la complessità del sistema. La rete delle relazioni si annoda, aumenta gli incroci, provoca ingorghi, produce lo spessore paralizzante dei sottosistemi. Si sconfina per allargare gli spazi conquistati alla civiltà ma contemporaneamente si sono . inseriti elementi nuovi che rimettono in gioco l’intera struttura, in vista di un’integrazione che progressivamente fa metastasi. Cosa non succede nella testa dei personaggi che sono attraversati da un grosso gomitolo o gnommero di fili che portino notizie contraddittorie e incomprensibili dall’interno e dall’esterno. Il commissario rischia di annegare in quel pasticciaccio, in quel disordine, in quel caos che tanto più monta quanto più gli si estendono gli argini. Se Gonzalo Pirobutirro vive con l’acqua alla gola ogni situazione, Ingravallo è diverso, è un altro, o meglio è diventa-
to un altro. Non «freddo» come si era proposto di essere in prigionia, ma «dissimulatore». Uno che ha imparato a vivere? Un uomo giunto all'equilibrio? Semmai un uomo che ha trovato l'equilibrio con cui imparare a morire. 88
Il mondo scatena inesauribilmente energie che sono la vita e insieme la morte. Un mondo così va liquidato dall'origine, dalle matrici? Non serve uccidere le madri. Un mondo siffatto si destina alla disintegrazione, all’informe originaria, al pasticciaccio cui si tenta di dare ordine, disegno, figura. La figura del commissario Ingravallo forse è quella più lontana dal «vero» Gadda, ma intanto è la più vicina ad essere un personaggio «proverbiale». Gadda è finalmente sfuggito al proprio io, al proprio pronome personale, questo pidocchio del pensiero che gli mangia il cervello. Freddo e dissimulatore, è arrivato a costruire un personaggio come Ingravallo in cui c’è tutta la realtà e che controlla tutte le realtà possibili. Gadda ha preso le distanze dal nevrastenico che urlava per un nonnulla e che era preso da crisi parossistiche dinanzi al disordine di una scrivania al fronte o un foglio di carta volante nella trincea. Superata la trincea psicotica, si era inoltrato nel mondo e aveva posto i paletti con cui segnare i confini della propria progressiva consapevolezza. Il disordine interno è placato o rimosso, non travolge più la realtà come la nevrosi di Gonzalo. Ingravallo è un uomo d’ordine che istruisce ogni pratica trasgressiva della società, compresa la psiche degli individui. Allargando le indagini dentro e oltre le mura, Gadda però ha fatto una tremenda scoperta. Una volta il caos era un connotato della sua personalità, era la sua peculiare e privata malattia; ora invece il caos è dappertutto, è la sigla del mondo intero. Lui individualmente potrebbe anche essere guarito, ma nel frattempo si è ammalato gravemente il mondo altrui, quello di tutti. Dal proprio disordine personale è passato al disordine universale. Quello che era il suo singolare «pasticciaccio» diventa comune a tutta l’umanità. Aveva solo contagiato il mondo col proprio destino di uomo condannato dalle origini, dalla nascita, dalla «madre» al disordine? Il traguardo è così simile al luogo di partenza? La cultura, la sua inesauribile ricerca del nuovo, i suoi sconfinamenti, le sue defor89
mazioni, i suoi spasmi, la sua ingegneria lo hanno ricondotto alla sua odiata natura, quella segnata privatamente dalla «disistima» materna e storicamente da Caporetto? Da Caporetto stavolta arriva la sconfitta ma anche la vittoria. Il linguaggio di cui ha inventato la geometria ha aperto le porte al prigioniero e gli ha mostrato lo spetta-, colo di un mondo affetto della sua stessa malattia e come lui inguaribile. Se Messene piange, Sparta non ride. Gadda invece ride, anche se sotto sotto piange di una tragedia. Una tragedia da ridere? È questa la sua vittoria? L’imbecille di famiglia ha imparato a ridere di cose su cui sarebbe imbecille continuare a piangere. Che massa di imbecilli popola il mondo. Non si salva nessuno. Nemmeno lui d’altronde. Non si guadagna tanto a capire e a ridere. Viene da ridere, ma forse è vero che la differenza con-
siste in sostanza nell’essere «imbecille» in modo diverso da prima, da quando a Gadda glielo dicevano i generali e lo pensava anche la madre. Quello che era falso era anche vero? Quello che era superficiale era anche profondo? Quello che era privato era anche pubblico? L’Io era anche l'Altro? Che imbecille ad averci messo tanto a capirlo. Sì, ma adesso l’aveva capito e non era proprio la stessa cosa. Non era la stessa cosa essere Gonzalo ed essere poi Ingravallo. Due personaggi con cui Gadda vince in letteratura suppergiù con gli stessi punti. Come Ingravallo non c’era nessuno nel mondo e nemmeno nella narrativa. Un personaggio che sapesse com-
prendere tanto del mondo e della vita; che si era spinto in periferia, alla periferia della società e della psiche, per ascoltare le ragioni palesi e segrete di tutti, usando sofisticati grimaldelli per penetrare nel pasticciaccio di ognuno. Come Ingravallo, laddove non può arrivarci personalmente dal suo punto di vista, Gadda manda i suoi brigadieri e marescialli a istruire il processo al mondo: cioè i suoi innumerevoli dialetti, le sue tecniche, i suoi incroci, la sua «ars combinatoria», i procedimenti binari e i terzi posti. In ogni miseria rivede la propria; in ogni impossibilità di vivere scorge la sua come in uno specchio defor90
mante. Ancora la deformazione, fattore di conoscenza. Non si finisce mai di conoscere, ma a che serve? Una domanda imbecille? No, metafisica. Vanno a coincidere troppe cose che avevano cominciato a muoversi da punti
opposti.
Quel pasticciaccio era stato una sua visione privata, una previsione, un'invenzione e ora se la trovava davanti
come realtà tangibile, anzi intoccabile. Era stata una sua nevrosi e ora eccola lì in sembianze di mondo squilibrato, spappolato, corrotto. Quell’«imbecille» del sottotenente Gadda aveva costruito sui proprî nervi un romanzo che può competere con le grandi opere narrative dell’Ottocento. E non sarebbe certo stato il realismo caro alla mamma. Gliel’avrebbe fatto vedere che bello spettacolo è raccontare quel che succede nella realtà. Ora gliela può portare su un piatto la loro bella realtà. Un bel pasticcio davvero, un pasticciaccio, una realtà immangiabile, che quando tenti di arginare tanto più straripa, materiale lavico che è anche maremoto, flutto continuo che ti assale da sopra e ancor più da sotto. È un mondo ben concreto, ci puoi mettere la mano sopra, ma sappi che scotta e dà la scossa. Vogliono sapere chi ha fatto un mondo così? Non esiste in natura, nella storia? Anche questo, ma l’ha inventato e costruito chi ora sembra vero, l'ingegnere Carlo Emilio Gadda, l’imbecille di famiglia, con le sue mani, con la sua lingua che s’è fatta in casa, con la sua povera testa malata. Era un anormale? Dopo il Pasticciaccio lo sono tutti. Gadda è uguale agli altri. C'è solo l’inferno e il narratore trascina tutti giù con sé. La Caporetto universa-
le, il perenne campo di concentramento, il tentativo d’evasione. La letteratura fa evadere? Ma si è subito ripresi, e il resto della vita è anche peggiore.
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IL MITO DI DEBENEDETTI
LA VITA
DÀ UN
CAZZOTTO
A SVEVO
Il Novecento letterario di Giacomo Debenedetti comincia con un cazzotto. Con i cazzotti futuristi dati o minacciati da Marinetti? No, con quello che, secondo il critico, all'improvviso il protagonista dei romanzi di Svevo si sente dare dalla vita. Era una reazione imprevedibile, fuori di ogni regola, comunque contraria alla legge meccanicistica di causa ed effetto. Fu il primo segnale della fine del naturalismo e da esso si poteva intuire che stava nascendo un secolo violento e capace di ogni sorpresa. La letteratura del Novecento era avvertita. Quel cazzotto sveviano cambiava il suo destino. D'ora in poi la vita si sarebbe messa a dare ai personaggi colpi duri e fulminei che solo molto più tardi si sarebbero potuti giudicare non gratuiti. Cosa avevano di nuovo? Essi arrivavano non dall’esterno, donde erano sempre arrivati numerosi (e certo i conflitti sociali e politici non cessavano di darli), bensì dall’interno, cioè dall’inconscio. È con Svevo che l’inconscio comincia a suonarle all'uomo del Novecento. E d’ora in poi sarebbe stata questa la musica, un’altra musica rispetto a quella così armonica o sinfonica dell'Ottocento. Oltre che all’occhio, attenti dunque all’orecchio: si erano rotti accordi che sembravano eterni. 95
Il cazzotto di Svevo inaugura la storia di personaggi che si colpiscono da sé senza sapere perché lo fanno. Alcuni vanno K. O., a cominciare da quel kappaò che è il suicidio di Alfonso Nitti. E lui il primo ad averlo subito così, ad esserselo inflitto in quel modo. Un cazzotto è anzitutto un cazzotto, direbbe Pound parlando del simbolo, ma poi è anche altro. Per la letteratura del Novecento esso rappresenta una svolta strutturale, una rivoluzione, la prima «rivoluzione inconsapevole» di cui poi avrebbe parlato Debenedetti. E di Svevo il primo micidiale cazzotto alla struttura della narrativa dell'Ottocento. Ecco la nuova struttura: la vita per manifestarsi aveva necessità di emozioni forti e inattese. Inutile stare in guardia: la vita colpisce duro dove e quando uno meno se l’aspetta. Si sarebbero viste le stelle, cioè ci sarebbero state delle rivelazioni. La vita avrebbe svelato il senso solo a chi aveva delle folgorazioni. Un fulmine a ciel sereno, e si sarebbe potuti rimanere bruciati per sempre. C’è pure chi rinasce a seconda vita, quella che conta, quella che esplode a ciel sereno: l’epifania di Joyce, un narratore che conta molto, secondo Debenedetti, per la nascita della struttura narrativa del Novecento. Forse a Debenedetti, che considera Pirandello e Tozzi i
primi narratori italiani moderni, non sarebbe piaciuto sentir dire che il Novecento comincia con Svevo, con un
autore cioè al quale nel suo primo saggio sveviano aveva mollato il cazzotto di un giudizio che stende sino alla conta finale («piccoli romanzi di un grande narratore»). Inve-
ce è solo l’inizio di un incontro di pugilato che avrebbe avuto tante altre riprese. Quando Debenedetti tiene il primo corso di lezioni, all’Università di Messina, il tema è Svevo. Ed è Svevo
anche l’ultimo tema delle lezioni universitarie di Roma. Si potrebbe dire che muore parlando del Vecchione di Svevo. Usiamola ancora la parola più pregiata del vocabolario di Debenedetti: destino. C'è il destino nel rapporto conflittuale che il critico intrattiene fino alla morte con Svevo. Sul narratore ebreo triestino Debenedetti scrive il 96
suo saggio più bello, certamente tra i più belli su un autore, e insieme il più avaro verso la bellezza di una narrativa che sa grande. Il più «vero» nell’analisi e il più «falso» nel giudizio. «Un grande narratore» pensava ad alta voce qualche mese prima di morire, «eppure...» Un rovello che dura tutta la vita di Debenedetti. Un cazzotto di Svevo a Debenedetti. C'era stato un momento in cui Debenedetti si era identificato col narratore triestino. L’intermediario era stato Otto Weininger, che in Sesso e carattere aveva descritto i connotati fondamentali dell’ebreo. Nella sua descrizione Debenedetti aveva riconosciuto i personaggi sveviano e indirettamente il loro autore. Com'era l’ebreo di Weininger e di Svevo interpretato da Debenedetti? «...Diseredato di ogni felice istinto del vivere e privo di abbandono, a paragone col tipo antitetico dell’ariano; inoltre una instabile molteplicità del fondo morale lo renderebbe plastico, disponibile e deformabile a tutti gli urti; ferzzzinilmente passivo...» Se l’ebreo è questo disegnato da Debenedetti, è così anche il critico, che è ebreo quanto Weininger e Svevo. Plastico, deformabile, passivo come una donna: in attesa che arrivi l'evento forte che lo conquisti e gli restituisca, sia pure per poco, il piacere di vivere. Ecco: un uomo in
disponibilità. Come era stato Tommaseo, il Tommaseo del primo corso universitario romano di Debenedetti. Anche Debenedetti è un uomo e un critico e uno scrittore «disponibile» a qualcosa che può arrivare da un momento all’altro e da un luogo imprecisabile. Come il cazzotto con cui si manifesta la vita a Svevo, agli ebrei, al personaggio di romanzi del Novecento, compresi quelli di Kafka, e non escluso il personaggio del cinema che è l’ebreo Charlot. E tuttavia Debenedetti continua a dire di no a Svevo. Il «reticente» Schmitz si era nascosto sotto lo pseudonimo di Svevo e il critico non glielo perdona. Poteva creare un mito, il segno della grandezza proverbiale, e non aveva osato. Vincerà Svevo, il progenitore di tutti i personaggi cui la -£l
vita darà inattesi cazzotti nei romanzi di Pirandello, Tozzi, Bontempelli, Palazzeschi, Moravia, Landolfi, Savinio, Zavattini, Dessì, Cassola, Volponi. Sono i narratori in
favore dei quali fra pochi altri testimonierà Debenedetti senza mai confessare che sono figli o fratelli o nipoti nati dopo il cazzotto di Svevo. Anche sul critico esso era arrivato di sorpresa e non era stato perciò avvertito come un segno del destino, come l’anticipazione di una malattia che presto sarebbe stata epidemia, non solo in Italia ma anche nel resto dell’Europa, dove il cazzotto avrebbe colpito come deviazione della norma o come epifania o come intermittenza del cuore o come shock o corto circuito 0 come atto gratuito o come assurdo. È figlio o fratello di Svevo anche Debenedetti, che sarà aiutato a vincere insieme, ma non lo ammetterà mai. Da quel cazzotto è nato il
racconto critico che fa grande Debenedetti come critico e come scrittore, come critico-narratore, nel Rorzanzo del Novecento. Un cazzotto per la saggistica del secondo Novecento.
LA CATERATTA
DI PROUST
Se si decide di cominciare il nostro secolo con lo scrittore più caro a Debenedetti, cioè con Proust, la fisionomia del Novecento non cambia. Proust dinanzi alla crisi del naturalismo cosa fa? Propone un’operazione chirurgi-
ca: che è un’azione radicale quanto il cazzotto di Svevo. È scesa, dice Proust, una cateratta sull’occhio dello scrittore naturalista ed essa va eliminata, se si vuole tornare a vede-
re chiaro. Ovviamente non più come i naturalisti, che col loro occhio hanno già visto quanto si poteva, ma diversamente. Non torna all'occhio di prima chi ha subìto l’operazione chirurgica. Ci saranno tanti altri modi di vedere nel Novecento e la vista diventerà presto opaca, più veloce98
mente di quanto sia mai successo nei secoli precedenti. Nel nostro bisogna tenersi pronti a fare un’operazione di cateratta non appena si appanna la vista: quella futurista e la surrealista, l’ermetica o la neorealistica, la crociana e la marxista, la fenomenologica e la post-moderna. Un’operazione chirurgica ogni dieci anni, se si vuol veder chiaro in sé e nel mondo. «Quando il trattamento è finito, ci dicono: “Adesso guardate”. Ed ecco che il mondo, che non è stato creato una volta per tutte, ma lo è tutte le volte che sopraggiunge un nuovo artista, ci appare — pur così differente dall’antico — perfettamente chiaro». Parola di Proust, il narratore che è sempre il primo e massimo modello di conoscenza e di scrittura per Debenedetti. Che sul romanziere francese ha visto più chiaro di tutti. Sarà come un cazzotto per lui avere la sorpresa di capire che le proustiane intermittenze del cuore sono sorelle naturali delle epifanie di Joyce. Anzi pure l’imprevedibile cazzotto della vita di Svevo apparteneva alla stessa famiglia. Intermittenza, epifanie e «cazzotti» a tradimento sono nomi diversi per indicare «probabili» movimenti della psiche o della materia. Si chiami ironia della sorte quella per cui Debenedetti vide due grandi narratori dove tutti ne vedono tre. Una cateratta sull’occhio di Debenedetti? Proust per vedere chiaro nell'uomo va a cercare la crisi nell’organo privilegiato dei naturalisti, l'occhio, e ci fa sopra dell’ironia, strizzando il proprio occhio. Debenedetti ricorda l’episodio proustiano dello scrittore naturalista, il quale, essendogli stato domandato cosa facesse al ricevimento mondano, rispose arrotando la r: «Osservo».
Proust comincia così anche lo smascheramento di quell'osservazione naturalista, che verrà derisa e dileggiata per tutto il Novecento e che sarà il bersaglio preferito di tutte le correnti letterarie del nostro secolo, non esclusa la
replica neorealista. Fanno ormai ridere i naturalisti per come guardano. Ci voleva un po’ di umorismo e parecchio sarcasmo per rendere ridicola e far fuori la cultura che sino allora ha trionfato. Dunque anche il riso come 99
terapia radicale, la comicità come operazione al cervello. Come dire una chirurgia che va sempre più a fondo, forando l’osso, la sclerosi culturale, l’indurimento linguistico.
Il Novecento comincia anche quando gli scrittori con gli occhi e con la mano e con la bocca deformata dal riso, aggrediscono e sbeffeggiano i naturalisti. Debenedetti, che non è un violento e che non ride mai, si ferma a guardare e, da «vecchio», ha una rivelazione: la sua operazione di cateratta, il suo vedere chiaro durante le lezioni sul romanzo del Novecento. Chi aveva visto più chiaro all’inizio del secolo sono stati gli espressionisti. E l’occhio destro quello malato di cateratta? Ebbene cambiamo occhio, proviamo con l’occhio sinistro, quello della psiche, dell'inconscio, dell’altro. Così si guarda, dice Debenedetti, questo è il vero modo di vedere del Novecento; è con l’occhio sinistro che si ha la visione di ciò che siamo nel profondo. O almeno quello che siamo in un certo periodo. C'è un periodo in cui quasi solo gli scrittori espressionisti vedono chiaro, sono i soli che non sono malati di cateratta. Invece soffrono di cateratta i critici che continuano a usare nel Novecento i metodi di ricerca del positivismo e dei suoi epigoni. Dunque o si è critici capaci di analizzare la psiche degli autori o si è critici che non vedono per cateratta culturale e ideologica. Al critico del Novecento tocca andare oltre quello che si vede «a occhio nudo». Il sondaggio critico: mai tale termine ha indicato meglio un'indagine che ha l’obbligo di cercare in profondità. Scafandri, tute, bombole di ossigeno e ogni aggiornata attrezzatura tecnica, nonché molto coraggio e un’ottima vista per paesaggi abissali che difendono con mille insidie il segreto profondo. Debenedetti ha l’occhio chiaro per vedere bene nella psiche, nell’inconscio, nell’«altro». E il suo destino ma è anche il suo progetto, che maturerà negli anni del Rorzanzo del Novecento. E dalla coincidenza di progetto e destino nascono i capolavori, 100
compresi quelli della sua critica. Anche sull’occhio sinistro però scende la cateratta. Debenedetti non rinuncia mai a vedere chiaro quando cala il buio anche sulle più luminose visioni del mondo e della letteratura. Lo sa bene che la vita è lì pronta a dare un cazzotto sulla faccia di chi non sta attento a ciò che gli succede intorno. Lui sta in disponibilità ogni giorno su quotidiani e riviste con la critica militante; o almeno su un anno ogni dieci circa, cioè nel 1927, nel 1937, nel 1947 e nel 1957, e suppergiù nel 1917, quando si preparava al «Primo tempo». Ogni dieci anni va a controllare se la letteratura italiana vede bene. Prima si tenta l'operazione chirurgica; se non riesce, si guarda con l’occhio degli scrittori stranieri o dei classici. Lo scrisse nel 1945 a proposito della cateratta fascista. Dall’idealismo crociano al marxismo, dal simbolismo all'arte moderna, dalla macrofisica alla microfisica, da
Freud a Jung, all’antiromanzo. Non appena la vista si appanna e una cultura fatica a vedere le cose, nessun dubbio: rivolgersi al nuovo artista, a quello che opera col bisturi, anzi col laser, raggio che fa nuovo giorno. Se è grande, creerà una nuova immagine del mondo. Tozzi ha visto meglio «con gli occhi chiusi». La storia della letteratura si fa con la chirurgia proustiana. Inutile tenersi l’occhio malato. Serve l’operazione, serve la rivoluzione. Magari la rivoluzione inconsapevole degli espressionisti, quelli che cambiarono occhio. E Svevo? Lui ha cambiato modo di pensare, è nel suo cervello che si produce il mutamento. Il suo Zeno ride di tutto, a cominciare dal padre. Bisogna cominciare col far fuori il padre, magari deridendone la «religione», come quella notte in cui il genitore morì dopo aver colpito il figlio che tenta di abbracciarlo. Uno schiaffo del padre che è un cazzotto della vita.
101
ALLA
RICERCA
DEL
PADRE
«Rivendichiamo la ricerca della paternità». Così rispondono i personaggi di Proust a chi domanda perché scioperano. Si sono accorti che il padre è assente, forse partito o persino morto. Si è perduto il modello, dice Savinio, che non sta molto a piangere sopra la scomparsa del padre, anzi ne è felice, almeno per parecchi anni, ovviamente quelli giovanili, i più penalizzati dai genitori, «questi reazionari». Sono in conflitto col padre Kafka, Svevo, Tozzi, Gadda e tanti altri che scrivono all’inizio del Novecento. Una vera e propria epidemia. Una malattia però dalla quale ha derivato salute molta narrativa del primo Novecento. È dall’inizio del secolo che circola questa dichiarazione di morte presunta. Anzi pure da prima, a sentire Wagner. Wotan abbandona il mondo e lascia orfani gli uomini. Orfani di Dio, rivela Nietzsche; orfani del padre terreno per constatazione assai frequente, orfani di modelli e di criteri con cui riconoscere i valori, e quindi orfani della Verità, l’astratto supremo che d’ora in poi non sarà più concreto. E poesia di orfani quella che Debenedetti trova nell’ermetismo, il nipote italiano del simbolismo. Orfana è l’«epica dell’esistenza», figlia ribelle dell’«epica della realtà». La condizione umana nel Novecento? Debenedetti non ha dubbi: è la condizione dell’orfano. Una generazione di parricidi imperversa nella prima metà del secolo. Finalmente sono stati tagliati i legami, aperta è la via alla vita più libera e disponibile. Qualcuno si accorge di essere stato castrato, e la vendetta e il rancore sono piccole consolazioni: il Tozzi di Debenedetti si accanisce sulla memoria del padre dilapidando l’eredità. Le metafore ermetiche diventano assolute: disposte a tutto e negate al senso, che il padre s’è portato nella tomba o in cielo. Altri sentono rimorso e persino nostalgia. Savinio chiederà nella maturità al padre di tornare: «Perché non torni?» Debenedetti, che non è di quelli che hanno «ammazza102
to» il padre, vorrebbe che non fosse mai morto. Prende atto della sua scomparsa, ma non gioisce. Con te non è più possibile, ma peggio ancora senza di te. Come i personaggi di Proust rivendica alla propria attività «la ricerca della paternità». Lui ha avuto sempre bisogno d’essere tenuto per mano e guidato da un padre, di colui che sa la Verità. Se è assente, egli continuerà sempre a cercarlo. La ricerca di Debenedetti è una teologia senza Dio: nella sua anima o psiche c’è un posto vacante da occupare. Bisogna cercare chi merita di stare tanto in alto. Ora magari sta tanto in basso, ma ci sarà l’epifania, e ci sarà la rivelazione del «divino», della verità, nell’umano più umile. Palazzeschi è stato chiaro con Debenedetti: ormai il «centro è fuori del centro», come dire che ogni luogo è buono per ospitare il trono del padre. Può tornare in ogni momento. Sarà una lunga veglia, un’assidua vigilanza in tutti i sensi. Debenedetti è sempre in attesa del padre, del padre eterno, secondo struttura ebraica. In quanto a quello terreno, trova più di un padre, da De Sanctis a Croce, da
Bergson a Husserl, da Freud a Jung, da Nietzsche a Marx, a un suo seguace che fu il peggiore dei padri ma anche l’ultimo che è riuscito a occupare il posto lasciato vacante e di là trasmettere certezze alla cultura orfana. Certo Debenedetti è un eretico, avanza obiezioni, ma è
pur sempre un credente. Ammiratore di Puccini, egli si ripassa sempre mentalmente l’Ux del dì vedremo con cui si celebra il ritorno, oltre che dell’uomo amato, di colui
che è storicamente delegato a dire la verità universale. O la Verità è che non tornerà e che d’ora in poi bisognerà accontentarsi del «come se», cioè della maschera? Una caricatura?
Il futuro sarà comico o non sarà: questa è la profezia di
Baudelaire. Proust faceva ironia sui naturalisti, Svevo era
sarcastico col padre di Zeno. Si ride anzitutto della generazione dei padri, dei loro detti e interdetti. Pirandello,
Palazzeschi,
Bontempelli,
Landolfi,
Zavattini
(nonché
Savinio e Gadda) sono gli autori sui quali Debenedetti ha scommesso, ma il critico non giurerebbe sulla tesi del 103
poeta francese. Gli è sempre parso che c’è poco da ridere, sui padri e sui figli. Dalla Francia era arrivata la critica del riso da parte di Bergson, di cui Debenedetti coltivava una specie di religione per via di quell’idra di «durata» che gli pare il segno del destino per un narratore. Il lettore delle Due zitelle di Landolfi non ha però avuto paura della comicità che offende il sacro nella scena in cui la scimmia dice messa. Debenedetti non teme le trasgressioni né le rivolte né le demistificazioni né ogni altra forma di dissacrazione. La sua generazione segue a una che ha riso anche troppo: con i futuristi, con i dadaisti e con i surrealisti. Hanno smesso di ridere anche Palazzeschi, Bontem-
pelli e Savinio, che nella maturità rinnega la sua giovanile inclinazione a ridere di tutto. È Pirandello per Debenedetti il creatore del massimo sistema narrativo del Novecento italiano. E a Debenedetti, come a Pirandello, non basta l’avvertimento del contrario, da cui nasce il riso; vuole il sentimento del contrario, l’umorismo, il più alto grado della comicità, quello che confina con la tragedia e che anzi vi sconfina. Sotto la comicità, Debenedetti vedeva la tragedia, il linguaggio di chi prende sempre sul serio questo «tremendo fenomeno» che è la vita. «Comica, che vuol dire anche tragica» (A/ cinema). Pirandello attende con umorismo che venga
la «giornata» in cui tutto, sarà chiaro; e ci sarà poco da ridere. E De Sanctis per Debenedetti il padre della critica. Quale De Sanctis? Quello dei Saggi critici. Anzitutto, o prima, il vero creatore del «saggio», un genere letterario di cui ha scoperto la struttura più efficace ai fini della letteratura (al servizio dell’altrui letteratura, ma anche della propria, del critico, che un problema di «ispirazione» ce l’ha anche lui). E quello della Storia della letteratura italiana, ed il De Sanctis che aveva messo nella letteratura tutta la Storia che essa poteva comprendere e contenere. La Storia: un modello. La Storia: qualcosa con cui fare sempre i conti. Se la si sa raccontare bene, ci guadagna molto anche la letteratura. Dai Saggi critici al Roman104
zo del Novecento. Una storia (è possibile ancora una storia
della letteratura) ma non deterministica. L’orfano della Storia del De Sanctis racconta (critica narrata) una «sto-
ria» che resta «aperta». Il modo migliore di essere fedele a un padre «storicamente» morto. Un maestro dell'Ottocento per il maggiore critico del Novecento? Come ha fatto il figlio a non disconoscere il padre? Anche Debenedetti, come disse dei poeti del Novecento, si sente «orfano» di un padre non tanto grande da poter dare risposte adeguate oltre il tempo che è concesso a un genitore, a una generazione. Per rispetto di quella storia che è maestra di vita, ma di una vita che cambia. Era assai diversa la storia del nuovo secolo: la si vedeva diversamente dopo la proustiana operazione chirurgica alla cateratta. Tradì Debenedetti il suo maestro italiano per preferirgli il suo rivale in amore, cioè Wagner,
fortunato
amante
di Matilde.
Quando
scelse
Wagner, esplicitamente nelle lezioni su Verga, Debenedetti «superò» con un colpo solo De Sanctis e Verdi, avversari nella cultura e nella musica dell’allievo di Nietzsche. Un Nietzsche cui può averlo guidato D'Annunzio, ma che Debenedetti avvertì non come maestro di retorica. Capì che il filosofo tedesco stava dando al nuovo secolo lezioni che erano all’altezza di quella di De Sanctis per l’Ottocento. Aveva avuto più futuro Nietzsche, aveva più presente. Più amica è la verità. Nonché la crisi mortale della verità, di cui si è orfani. ‘Debenedetti divenne orfano di Croce quando il filosofo napoletano era ancora in vita. Si parlò di «parricidio» a proposito dell'intervento con cui Debenedetti polemizzò col maestro sull'importanza della scienza. Debenedetti studiò inizialmente matematica all’Università di Torino. Il primo problema che egli si pose fu quindi quello della scienza. Principî astratti che potevano essere applicati nella realtà. Scoperte di impensate leggi che regolano la vita. Numeri che diventeranno parole e cose. Da allora Debenedetti, anche quando sarà passato a studiare letteratura, cercherà anzitutto l’incognita: nel 105
suo caso, ma forse nel caso di molti, la Verità, detta con la
maiuscola, come Bellezza. Bisogna scoprire la Verità in un’epoca che ha perso i criteri per riconoscerla. Con la matematica. Scoprire l’incognita: questo il progetto di un critico che per destino aveva tutti i numeri, oltre che tutte le parole. Debenedetti ebbe sempre anzitutto scienza di tutte le parole, nonché le parole di tutte le scienze, o quasi. Sapeva dare nome a ogni cosa, anche all’innominabile, a ciò che può essere solo suggerito. Nominava fino a quando non diventava necessario fare i conti con l’incognita. Diciamo pure con l’Ignoto. Debenedetti non aveva paura di evocare dei fantasmi. Se battono due colpi, è la scienza a dover dimostrare che non ci sono. Debenedetti ha provato a rendere matematica la scienza umana.
Il fisico Bohr disse un giorno allo psicologo Jung: «Siamo come due squadre di minatori che si vanno incontro per aprire un tunnel». Debenedetti, come loro, lavora nel profondo e, come loro, cerca la comunicazione
tra la
scienza e la psicoanalisi. Anche lui scava con il piccone: un movimento nell’aria e infine l'impatto con qualcosa che ha la consistenza della materia. La sua psicoanalisi non potrebbe essere più tangibile, dà sempre l’impressione di essere una scienza. Si apre il varco nel terreno minato che è la psiche umana e così arriva alle certezze scientifiche che si toccano con mano. Come alla fine c’è la luce delle due squadre che si sono incontrate, anche l’audace ipotesi del critico trova sbocco in una «luminosa» conclusione del ragionamento. Debenedetti andava a matematica forse prima ancora di innamorarsi definitivamente della letteratura. Non l’ha scordato quando parafrasando De Sanctis, Debenedetti commenta così la decisione di Valéry: «Lascia le donne lascia questa donna più pericolosamente femminile e carnale che è la poesia e studia matematica». Si tratta di viaggi di andata e ritorno sia per Valéry sia per Debenedetti, che infatti fanno spola tra i numeri e le parole. Debenedetti non ha mai smesso di trafficare con strutture profon106
de ed elementari, di incognite e figure, raggi X con cui
affondare lo sguardo fino al nucleo, all'essenza, ai simboli. Ha sempre cercato matrici, tracce originarie, schemi dentro la carne dei romanzi che per quasi cinquant'anni ha disossato inseguendo, oltre lo scheletro, le cellule «primordiali», il DNA di un’opera. Mentre va a matematica, Debenedetti ha ripreso ad andare a letteratura. Qualcuno ha parlato di libertinaggio. Parlate pure di scrittura «carnale» delle lezioni universitarie: nelle quali il critico che fu già narratore recupera il piacere di raccontare i libri come se fossero la vita. La prosa «pericolosamente femminile» di un saggista che può parlare della vita dopo essersi garantito che tutti leggono quelle pagine come se egli indagasse soltanto sull’altrui letteratura. Essendo caduta la censura, Debenedetti
ora può dedicarsi al suo «vizio»: il godimento del raccontare. Raccontò la critica, andando a cercare la matematica
della vita, magari in attesa di trovare il numero Uno che sta a fondamento della verità: quella fondata sulla statistica. Gobetti presenta il giovane Debenedetti come «la rivelazione della critica post-crociana». Debenedetti scrive il saggio sullo stile di Croce, che il filosofo sceglie per un’antologia critica sulla sua opera. Il dilemma giovanile: Croce o Gentile? Meglio il Breviario. Ma allora quando comincia il «post-Croce»? Come eresia comincia quasi subito, quando cioè tocca confrontare l’Estetica con la poesia e la narrativa del Novecento. O prendere o lasciare, l’estetica crociana non lascia spazio a eresie o miscredenze. E allora tocca essere «atei». Per oltre vent'anni Debenedetti prova a lungo a far entrare i «suoi» autori dentro il parnaso crociano. D’Annunzio, Pirandello, Montale, Saba, Palazzeschi, Bontempelli, Moravia non possono stare dentro e insieme non possono stare fuori. Croce non ci sente da quest’orecchio, ha poco orecchio per la musica moderna e ancora meno per il libretto. Per ottenere il nullaosta, il visto d’ingresso Debenedetti fa carte false, come dire che si inventa le LO7
motivazioni con cui avere il lasciapassare per la poesia
proibita da Croce. Lo scontro col maestro era così rinviato, senza sacrificare poeti e narratori che avevano ragione nei risultati artistici mentre avevano torto dinanzi al Breviario di estetica. Finché Debenedetti non si accorse che avevano ragione proprio in quanto aveva torto Croce.
La svolta «teorica» avvenne nel secondo dopoguerra. Non sulla politica, che portava Debenedetti fra i comunisti, cioè su posizioni opposte a quelle del filosofo liberale, bensì sulla scienza. Che fu sempre un amore non segreto di Debenedetti: lo aveva confessato ai tempi della scomunica crociana, l’aveva difesa dall’attacco di Michelstaedter. E la scienza il terreno sul quale il futuro autore di Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo rompe col maestro e si mette a raccontare la poesia e il romanzo del Novecento come avrebbe detto che erano,
se l’estetica di Croce non glielo avesse impedito. E il 1949 e a Venezia Debenedetti denuncia la concezione della scienza di Croce. Di quale scienza parla Croce quando la giudica falsa? E vero, ci ha creduto anche Debenedetti che fosse morta, e invece cosa era successo?
Era solo calata una cateratta sulla scienza meccanicistica. La microfisica vede uno spettacolo diverso, ha altre leggi, meno vincolanti di quelle della macrofisica. A_ guardare dal Novecento, la scienza meccanicistica è «falsa» quanto la filosofia e la letteratura dell'Ottocento: nel modo indicato da Heisenberg, cioè sono complementari a un presente che appare regolato secondo le leggi della particella atomica. Che fa invece Croce? Manda a morte la letteratura del Novecento proprio perché non può avvalersi della nuova scienza, che è omologa dell’attività artistica e che sta dando le prove in laboratorio della fine della causa, del padre, del modello, di Dio. Debenedetti compie il percorso opposto: salvando la scienza, salva anche la letteratura del Novecento, e, ben più importante ancora, la possibilità di trovare un disegno nel vivere, sia pure in una «terra desolata». Senza la scienza, non potrebbe salvare la letteratura, senza la scienza non si capisce cosa sta 108
succedendo all’uomo del Novecento. E la scienza a spiegargli per quale motivo gli uomini si comportano nel Novecento in quel modo che Croce aveva giudicato irragionevole, arbitrario, «anarchico». Sono personaggi «demotivati» che stanno diventando particelle atomiche, si ignora dove vanno e quando arriveranno a un risultato che comunque non sanno valutare e che potrebbe essere l’opposto di quello che si aspettano: non si dimentichi il cazzotto dato dalla vita ai protagonisti dei romanzi di Svevo. Nonché di Pirandello, Palazzeschi, Proust, Joyce, Kafka, Tozzi, Bontempelli, Moravia, Saba,
Montale, Landolfi, cioè di alcuni degli autori che scandiscono il nostro tempo. Debenedetti, fu, al di là dell’autobiografia, un «orfano» cui non venne mai meno la nostalgia del padre. Debenedetti vide «orfani» tra i poeti ermetici, e «parricidi» tra i narratori, da Svevo a Kafka e a Tozzi, ed è noto che Gad-
da amava poco il padre e che Moravia lo ignora. Una struttura che è vuota al vertice, e che attira a riempire il vuoto. Quando è così radicato e intenso il desiderio del
padre, è facile sbagliarsi e credere di averlo riconosciuto in un altro, di avere trovato il sostituto. E troppo facile pensare che Debenedetti si illuse che il comunismo «reale» ristabilisse una famiglia di fratelli e uguali garantiti dall’autorità di un padre «lungimirante»? Alla fine di Personaggi e destino si profetizzano padri che saranno fratelli e che daranno libertà a tutti. Una generazione di intellettuali che più volte ha sbagliato padre. Ma non facciamo l'errore di attribuire tutto alla psicologia. Se si torna, come è doveroso, alla letteratura, allora si
vedrà dove va a parare la ricerca del padre. Debenedetti è alla ricerca della struttura delegata a rappresentare storicamente la condizione umana. Ce n’è una per epoca, come c’è
un solo padre. Il racconto tende all’agnizione: prima o poi il padre verrà fuori. Ovviamente la struttura resta sotto, sembra inafferrabile, va presa nella rete. E Debenedetti getta non una, bensì quattro reti per pescare la struttura sulla quale si regge il nostro secolo di orfani che non sanno fare a 109
meno del padre. Quale padre per il Novecento, dopo quello realista e quello simbolista dell'Ottocento? C’è posto perun solo linguaggio? La storia dà il mandato a uno solo? È possibile una storia di fratelli ed eguali invece della solita storia in cui il padre dà ordini e interdetti al figlio? Dopo aver fatto incontrare Bohr e Jung, Debenedetti aggiunge con lo stesso scopo due altre squadre: la sociologia neomarxista di Wright Mils e la letteratura, come dire?, di Proust, Kafka, Joyce, Pirandello e Tozzi. Quat-
tro squadre che vanno a incontrarsi nello stesso punto. In questo crocevia coincidono le ricerche della fisica, psicologia, sociologia e letteratura che si vanno a disporre l’una sull’altra. Quattro disegni, una sola sagoma: quella della struttura della materia. La stessa, quella della fisica atomica, dalla scienza alla psicologia, alla sociologia, alla letteratura. O viceversa dalla letteratura, che ha intuito prima la struttura, alla scienza fisica, pronuba o mediatrice la psicoanalisi e con la partecipazione straordinaria della storia (o è lei la protagonista?) Una reductio ad unum. A uno solo, come un padre, che sia eterno, come un mito.
LE FORME
DELL'INFORME
A Debenedetti piaceva andare avanti a tutti, era cioè un «pioniere», ma non amava l’avanguardia, specialmente se è organizzata in movimento: futuristi, surrealisti, neoavanguardisti. E nato come critico e come narratore in quei primi anni Venti contrassegnati da «La Ronda» e
dal «ritorno all’ordine» dopo il clamoroso scandalo del futurismo e del dadaismo. Appartiene dunque a una generazione che non ne può più di vedere registrare il magma, l’informe. Tuttavia non s'è mai nascosto che questo lo si può tenere sotto controllo ma non eliminare. Tocca insomma trovare sempre nuove forme all’informe. In principio, dunque, c’era il caos. Si sta parlando del110
l’inizio del Novecento, del futurismo e della sua propensione a quell’informe che è forma alternativa e assoluta, cioè irriducibile all'ordine, insomma avanguardia subito realizzata e permanente. Debenedetti stronca il Poezza africano di Marinetti, ma ammira le esplosioni di immagini che sarebbero state impossibili al di fuori del disordine strutturale perseguito da colui che aveva teorizzato le parole in libertà, lo scatenamento incontrollato dei livelli inconsci e preconsci. Sulla «simultanea» registrazione irrazionale del materico i futuristi fondano la possibilità di guardare dove mai sinora ha osato spingere lo sguardo e ogni altro senso, ben oltre la cateratta di Proust. Al cinema però nell’arte nuova del Novecento, negli anni Trenta Debenedetti ha la rivelazione del terreno sul quale è insostituibile e necessario. Si può non credere alla «parola» dei futuristi, ma risultano degne di fede le immagini (la decorazione murale e d’ambiente) e la musica: «quella lirica dei rumori, che Balilla Pratella e Russolo auspicavano nei loro manifesti della musica futurista, sta per diventare la più autentica e originale sostanza fonica del film sonoro». Le notizie dagli scavi, i materiali dell’«altro», Debenedetti intende ricondurli a una forma, anzi a una figura, come ad esempio faranno gli espressionisti. Quindi semmai il deforme, ma non l’informe. La «forma dell’infor-
me» cara a Savinio. Nella «forma dell’informe» che più ama, quella cioè di Wagner, Debenedetti esalta la capacità di «mantenere di continuo alla presenza dei nostri sensi lo strato germinativo degli atti», «la perpetua promessa di una rivelazione fatta all’intelligenza di ciò che è al di qua o al di là dell’intelligenza». È l’annuncio dell’inesauribilità dell’informe, materia rovente e profonda che cede all’intelligenza solo una parte dei suoi significati. L’informe di Debenedetti non finisce mai. Non finiscono mai nemmeno le forme capaci di tenerlo in perpetua attività. Tutti i grandi romanzi dall’Od:ssea in poi hanno al centro un «viaggio all'inferno», e tocca farlo anche nel nostro secolo. Un viaggio nell'inferno delle idee contemporanee LL
e dei linguaggi con cui si è manifestato il «male» di un’epoca nella quale si fa il male anche a fin di bene; secondo un luciferino ribaltamento che mostra Satana eretto, con la testa in su. L’inferno dell’Assurdo e quello del personaggio ridotto a particella atomica? Naturalmente Debenedetti si scotta a contatto di esperienze in cui si sono bruciate generazioni di intellettuali e d’artisti, ma ne esce con la motivata speranza di non avere sprecato il viaggio. Si salva solo colui che ha avuto il coraggio di guardare in faccia il maligno, colui che sa portare una testimonianza spregiudicata della ferocia della condizione umana. Il risultato più esaltante non consiste nella conclusione, che nei saggi di Debenedetti, da Personaggi e destino a Commemorazione
provvisoria
del personaggio-uomo,
è
spesso eloquente e gioiosa, quanto piuttosto l’attraversamento. Debenedetti è migliore critico e scrittore quando indugia nel sottosuolo dell’uomo, quando racconta le buie avventure della psiche, meglio se sono «silerchie» o viottoli impervi che non le battute arterie della psicoanalisi, sempre più scienza da supermercato. La perdita del modello, la morte di Dio, la crisi dei rapporti col padre, il fascismo, la condizione orfana, l’estraneità ermetica, il disagio dell’interpretazione, la miseria ed egemonia delle masse, la prepotenza dell’informe, la rivolta dell’altro, l’epica dell’esistenza, l’assurdo, il numero di matricola dei lager, le malattie del personaggio-uomo, il personaggio-particella, l’antiromanzo, l’informale: tutto, o quasi, il «negativo» del Novecento Debenedetti lo ha attraversato tutto per mezzo secolo dallo scoppio della prima guerra mondiale alla vigilia della contestazione. All’interno dei fenomeni ma per uscirne. Il «negativo» sembra avere la forza del destino anche in Debenedetti, che pure tenderebbe di suo al positivo. Lui guarda alla salute ma sente forte la seduzione di ciò che è trasgressivo, della malattia, della crisi. Debenedetti non patteggia per la letteratura del male, ma non si illude sul rapido trionfo del bene. Le intenzioni terapeutiche non attenuano la potenza degli elementi negativi. Spesso non 112
lasciano speranza. Ci si mette molto sentimento, ma si vede che non basta. Ci vuole la ragione, quella che si compromette col nemico per sconfiggerlo. Sono gli elementi negativi a dare la massima spinta, sono loro i più efficienti fattori di dinamismo culturale: che è un muoversi per arrivare a un punto fermo, magari perenne quanto un mito. La storia sembra tutta consegnata alle iniziative del «diavolo»: dall’espressionismo all’ermetismo, dall’esistenzialismo all’antiromanzo. Debenedetti tira un sospiro di sollievo quando risolve la crisi. Pensate all’inno con cui chiude saggi esemplari quali Personaggi e destino e Commemorazione provvisoria del personaggio uomo. Sa di avere lavorato come si deve e si gira a guardarsi indietro, ma alza la voce per soffocare un affanno non sopito. Cerca di farsi coraggio, sa bene che il pericolo non è passato ed è sicuro che sta per sopraggiungere un altro non meno grave. Si intitola Confronto col diavolo un saggio di Debenedetti su Proust. La storia della cultura come storia di confronti, conflitti, patti con Satana, canonizzato come locomotiva della storia nel progressismo ottocente-
sco. Debenedetti è sempre presente ai disastri e porta i primi soccorsi. Una guerra infinita, senza vincitori. Ci
sono solo vinti, ma sono vivi. Una cultura che salvi alme-
no la vita, le ragioni del vivere. Ha una coda questa storia e ce la mette sempre il diavolo. Ora Debenedetti è fuori, è tornato alla luce, ha avuto ragione del buio e può cantar vittoria. Tuttavia, non può fare a meno di girarsi a guardare indietro dove va scomparendo l’immagine di ciò che sta portando come premio per la sua vittoria. Orfeo fa appena in tempo a vedere scomparire Euridice (Debenedetti rivisita un mito particolarmente caro in compagnia di quel «Narciso trasformista» che era Cocteau). Il viaggio si conclude con un inno alla vita ma c'è da impazzire dinanzi allo spettacolo orrendo e assurdo che si torna a vedere sulla superficie terrestre. Questo è il destino consegnato al mito: Orfeo rivedrà Euridice, ma non la condurrà mai più sulla terra. È solo un'illusione quella del critico che è convinto di LIS
avere trovato le ragioni con cui persuadere i padroni dell’Ade a liberare Euridice? Non si sfuggirà mai più alle tenebre? Quando arriva la luce, si vedrà sempre che si è trattato solo di un sogno?
LA RIVOLUZIONE
INCONSAPEVOLE
«Rivoluzione inconsapevole» è una formula che vale per Debenedetti assai più che per un titolo di libro su Pascoli. Debenedetti dice inconsapevole, ma forse pensa a irrazionale. Inconsapevole come «inconscio»: una parola che è magica per Debenedetti, finché non le preferisce «profondo», il profondo di Jung. Inconsapevole come profondo. Inconsapevole è il destino e ciò che esso significa e nomina col suo lessico «familiare», cioè le madri, il
grembo, le matrici. La rivoluzione inconsapevole è quella compiuta per via irrazionale e che intuisce la struttura assunta dalla vita in una determinata situazione storica. I poeti simbolisti francesi l'avevano capito, e anzi progettato, quello che Pascoli fa — la scoperta della forma simbolista dell’informe — con un’inconsapevole rivoluzione del linguaggio. Così Tozzi col linguaggio degli espressionisti. Anche Debenedetti ha fatto in modo inconsapevole, la poi consapevole rivoluzione con cui il critico capisce su quale struttura, non solo letteraria, poggia il Novecento. Da giovane aveva sentito l'oscuro intreccio, la rete che sarebbe stato reticolato, la griglia che sarebbe stata una gabbia, ma solo nella maturità aveva compreso il disegno. C'era un piano in quella trama inconscia, se c’era la prigione, c’era la chiave per aprirla? Le sbarre si vedevano confusamente, bisognava limarle. Un taglio alla struttura chiusa e si era all'aperto. Ad esempio la struttura aperta della narrativa di Tozzi, inconsapevole rivoluzionario del linguaggio del Novecento. Che cos'è per Debenedetti il linguaggio, questa divinità 114
delle avanguardie e di ogni sperimentalismo, la via della salvezza per tutte le crisi di valori, di modelli e di significati? Mettiamo tra parentesi le idee che non funzionano più e proviamo con i linguaggi. Il linguaggio vuoto, la forma che ignora ciò di cui si riempirà: l’avvio dell’avventura resa necessaria dalla morte dei contenuti. Linguaggio «non può significare vocabolario, o grammatica, o sintassi, puri sintomi esterni, bensì organica
persuasione d’aver trovato il punto di intesa tra il personaggio e il mondo; cioè ancora una volta la congruenza tra personaggio e vicenda». A questa condizione ogni linguaggio ha diritto di impiantare il laboratorio: l’esperimento vale quando riesce, se il linguaggio crea una «realtà» che prima non esisteva. . Perle avanguardie il linguaggio è la realtà, una realtà che resta sempre di là, estranea, incomunicabile. La loro forma informeèilsuo significato. Debenedetti invece lotrascina di quaegli chiede sempre alla fine quale vicenda sta raccontando e cosa significa. Anche se Bontempelli gliel’ha ricordato che le parole e le cose stanno su due piani paralleli, Debenedetti ci prova lo stesso a farli convergere. Un linguaggio che aspiri a essere originale e libero ha per sempre l’obbligo di trovare «il punto d’intesa tra il personaggio e la sua vicenda», il suo destino, nonché il mondo. Un linguaggio lo si misura dalla capacità di impatto sul mondo. Bisogna essere disponibili a ogni linguaggio senza le preclusioni preconcette che hanno tardato-la comprensione, ad esempio, di Tozzi: uno che aveva un linguaggio diverso da quello che lui pensava e che gli altri gli attribuivano. Il suo linguaggio la sapeva assai più lunga della sua cultura. Pensate al linguaggio del corpo dei tre fratelli che in Tre Croci soddisfano la loro fame nevrotica mangiandosi l'eredità dell’odiato padre. Debenedetti non è un moderato della modernità. Lui fa rotta su meridiani che conducono ai poli della cultura contemporanea, ma compie il percorso dei navigatori isolati: quanto può esserlo uno che non ha seguito fedelmente nessuna corrente culturale, pur essendo stato compaN65)
gno di strada di crociani, marxisti, fenomenologi, strutturalisti. Non è un mediatore, e, se cerca l’unità, prova a
raggiungerla in un punto in cui le alternative non fanno un passo indietro, ma procedono sino a completare il giro.
La trasgressione è «naturale» per Debenedetti, e nulla
che sia nella natura va, secondo lui, proibito. Il male, ogni
male del secolo fa male, ma a prenderlo alle spalle manifesta connotati «benefici». Debenedetti non è un moralista, anche se si ritiene un «costruttore». Non si costruisce sul-
le basi teoriche e morali di coloro che fanno cultura per «edificazione». Non c’è progresso senza liberazione, che non ha limiti. Non c’è da avere paura dei suoi eccessi, se sono veri. Non ci sono gradi nella verità. Dopo avere attraversato laicamente tutte le verità altrui, nel suo linguaggio elegante e forbito Debenedetti ha detto sempre la sua verità, dura, estrema e, se necessario, estremistica.
Debenedetti è disponibile a ogni linguaggio purché esso prima o poi lo conduca a qualcosa di vero, alla realtà, alla cosa, o comunque a quanto il sentimento avverte come tangibile, forse anche toccante. Una cosa è certa per Debenedetti: vale solo il linguaggio che incontrerà sul suo percorso nomade e peregrino la Verità. Linguaggi alti e linguaggi bassi, linguaggi della comicità o della tragedia, versi o prosa, melodramma o romanzo, pittura o cinema, meraviglioso o quotidianità, nonché tutte le altre cose fantastiche o reali. Il Novecento inizia la creazione artistica a partire dal linguaggio? Si esperimentino tutte le forme, si provi ogni tecnica, ci si travesta secondo le mode. Un giorno cadrà la maschera e si vedrà se dietro c’è il volto, un uomo. Non è ammesso mostrare
il vuoto in cui si muove leggero e inafferrabile il manierismo, minaccia mortale per un secolo che si sente privato della sostanza. La parola deve generare il fatto, il fantastico deve trovare il vero, il personaggio inventato deve trovare il destino, la forma deve trovare la vita. Debenedetti, oltre che massimo critico di Pirandello, è molto «pirandelliano». Prove alla mano, l’autore del Fy 116
Mattia Pascal può dimostrare che succedono veramente nella vita i fatti inventati nel romanzo. «Modelli di fatti possibili», come quelli dei romanzi di Bontempelli. «Eravam tre», Debenedetti cita. Il terzo è Palazzeschi: colui
che «fa centro fuori del centro». Colpiscono il bersaglio quel linguaggio e quell’autore che sapranno correre fuori della traiettoria assai frequentata e che avranno la forza di sondare la periferia intellettuale, culturale, psicologica, scientifica, artistica.
Tutte le strade conducono a Roma, ma non è questo il centro cui aspirano Pirandello, Bontempelli, Palazzeschi, — nonché Debenedetti, cercatori dei miti non solo nazionali. Essi cercano nientemeno che il centro del mondo; che ovviamente nel Novecento può essere dappertutto. Basta trovare il linguaggio che apre, e appare il meraviglioso
risultato dell'esperimento. Dei centomila linguaggi possibili, molti non arrivano a nessuna cosa ma almeno uno
coglie nel segno. E genera un mito che circolerà per tutte le strade del secolo. Questo è il secolo di Pirandello, del suo mito?
«Il meraviglioso non è che ai grandi poeti siano accaduti certi fatti donde la loro opera sembra aver preso materia. Meraviglioso invece, dalla prospettiva dell’opera compiuta, è che essi abbiano avuto il potere naturale di farsi succedere quei fatti, di diventarne i protagonisti» dice Debenedetti a proposito di Valéry e della creazione artistica. Debenedetti sa con certezza che esiste la «vocazione», ma sa pure che bisogna essere capaci di farsi succedere «con arte» fatti che sembreranno naturali. Magari dopo essere parsi soprannaturali, come quelli che accadono nei romanzi di Bontempelli, il narratore che sa rendere semplice con la fantasia quanto di complicato inventa l’immaginazione. Il meraviglioso è dentro la vita quotidiana dell’uomo comune, del piccolo o grande borghese. Tuttavia «gli anni fatti di niente, in cui tornano quotidiani non contano: contano i momenti contratti, le ore che per la loro ferocia durano un immenso tempo presente». Già nel 1937 Debenedetti cercava i momenti meravigliosi in dd
mezzo a quelli d’ogni giorno. Aveva capito subito il progetto di Bontempelli. È questo l’incontro del suo destino di critico? Savinio l’aveva avvertito che l’Italia non è terra di scrittori visionari, fantastici, lunari o notturni. È diversa la
fauna letteraria italiana: una buona vista, ma poche visioni. Se ne sente il bisogno però, al punto che gli si dà anche troppo credito se capita qualche astuto surrogato: magari i Sessanta racconti di Buzzati (uno che tuttavia è «narratore di serie A» con I/ deserto dei tartari). In Italia volano
meglio quelli che sanno tenere i piedi per terra come si deve, e che sanno che la crosta, troppo sottile, è ormai lì lì
per rompersi. Il terreno è vulcanico, tremano gli strati sotterranei dai quali in altre letterature affiorano con i sogni mostri terrificanti. «Dietro la materia opaca e visibile il personaggio di Kafka somiglia soltanto all’invisibile delle proprie angosce e conflitti: ognuno dei suoi tratti è un tratto di quell’invisibile». C'è in Italia qualcuno che vola così? Ovviamente non alla stessa altezza ma un volo fantastico, sia pure di breve durata, sa farlo Landolfi, il narratore nel quale «il massimo di chiarezza è al servizio del massimo di procurata oscurità, anzi occultamento». Il Palazzeschi di Debenedetti non è quello futurista di Perelà, bensì quello delle Sorelle Materassi o del Palio dei Buff. Moravia non è quello surrealista dell’Epiderzia, bensì il «fenomenologo» dell’Imbroglio e il neopositivista della Noia. Morante è quella dell'Isola d’Arturo, ma non in quanto romanzo realista, bensì come favola in cui il napoletano orale «Artù» evoca il leggendario Re Artù. La campagna di Cassola nel Taglio del bosco non somiglia per niente a quella del contemporaneo neorealismo: non è una turba «storica» quella del protagonista del racconto bensì psicologica, un complesso di colpa. E di Bontempelli il critico non sceglie il metafisico Eva ultizza o della Scacchiera davanti allo specchio, bensì il «realismo magico» di Gente nel tempo. Debenedetti forse chiude l'occhio che guarda alla realtà? No, purché anche l’occhio sappia andare a fondo, 118
dove la realtà è più realtà, anzi più che realtà. Sanno guardare così quei realisti che sanno essere pure dei visionari, come ad esempio Zavattini, o anche Elsa Morante, una realista che in sostanza racconta «favole» come L'isola di Arturo. Non sanno guardare così i neorealisti, narratori che, è vero, usano linguaggi bassi ed eventi quotidiani come ha fatto tutta la grande narrativa del Novecento da Joyce a Svevo, da Tozzi a Moravia, da Pirandello a Palazzeschi, da Bontempelli a Gadda e Landolfi, ma che hanno «ideologizzato» i fatti indirizzandoli allo scopo pratico designato dalla politica. Una letteratura al servizio di altri che in sostanza non serve a nessuno. Del neorealismo egli scrisse «per interposta persona». Nei neoveristi anni Cin-
quanta Debenedetti rispose alla richiesta di realismo dall’Università di Messina parlando di Verga: un narratore che sapeva guardare così profondamente nella realtà esterna da vedere quelle «verità perenni» chiamate miti, che, secondo Debenedetti, sono il massimo traguardo di ogni arte. La «leggenda» di Verga, quella sì che sa come si deve stare nella storia. «Ritorno a Verga»? Quello che conta non è mai partito. Se serve il realismo, sia diverso, cioè «magico». Ricordate il proverbio e cosa c’è tra il dire e il fare? Spesso si fa meglio di quel che si dice e che si pensa, vizio della poetica. Nei fatti è diversa anche la narrativa del caposcuola dei naturalisti. Zola nella Terra racconta la semina di un’ampia pianura che sembra il mare, quando il gesto di centinaia di contadini che sollevano il braccio diventa un movimento simile a quello delle onde. Il mare con tutto ciò che significa, anche in quella «cosa» che è la psiche. Il naturalista ha trovato inconsapevolmente un simbolo. La vista del realista è infatti una visione: quella che solitamente vede l’oltre. Andava «oltre» il naturalismo il migliore Zola. E «oltre» sappiano vedere specialmente gli scrittori moderni del Novecento, non solo quelli che esibiscono visionarietà, i fantastici e i surreali. Lo possono vedere pure quelli che guardano attraverso la realtà esterna: purché sappiano guardare oltre il dato LIS
esterno. Questo può essere il punto di partenza per l’indagine sotterranea che ha avuto il mandato storico di scoprire l'identità dell’uomo del Novecento: il suo «proverbio» diverso e definitivo, una «frase» che non sarà dimenticata nemmeno quando nessuno ricorderà più cos'è stato il verismo e magari pure il naturalismo. Quando scende la cateratta su un linguaggio, o si cambia o si opera. È una bella operazione se si può guardare il mondo col terzo occhio (oltre che col destro e col sini-
stro), cioè con quello della fantasia. Bontempelli ce l’ha fatta, in virtù di uno «stile» per cui «quello che l’immaginazione inventa di complicato è reso semplice dalla fantasia». La fantasia va a occupare lo spazio «artificiale» creato dall’immaginazione e lo legittima dinanzi all'arte. In quell’artificio si è andata a condensare una vita mai vista prima, che forse non esisteva prima o comunque nessuno prima era riuscito a tirar fuori. Così con occhio sgombro, si può constatare che questa è veramente vita, è la vita quello che inizialmente era solo un’invenzione ingegnosa di Bontempelli. Un linguaggio inedito era andato alla ricerca della vera vita e l'aveva scoperta proprio dove sembrava impossibile trovarla. «Nuova, impossibile e vera», così piacciono la vita e l’arte a Bontempelli e a Debenedetti. Un decennio sì e l’altro no, la letteratura italiana torna
al realismo. Negli anni Trenta, Cinquanta e Settanta, ma ovviamente al realismo si torna sempre, dopo le avanguardie. Il realismo migliore? Quello che «fotografa il contrario della realtà». O il «realismo integrale», «panteistico», quello, ad esempio, per cui i contadini della zoliana Terra sono anche creature simboliche. O il «realismo magico» con cui Bontempelli faceva avanguardia negli anni Trenta, nonché negli anni Sessanta. Il realismo magico di Bontempelli fa da avanguardia all’epifania che regge l’impalcatura culturale del Romzanzo del Novecento. Sì al realismo che sia capace di magia. Nella formula il realismo continua ad essere il sostantivo, ma la qualità è data dall’aggettivo. Un realismo che sia al servizio della 120
magia, come nella narrativa di Landolfi, «pastiche di un pastiche immaginario». Nell’aggettivo «magico» è dunque la vera sostanza dell’arte del Novecento, il secolo che sa raccontare l’epica del quotidiano. Debenedetti ama la letteratura che crea o scopre la magia della realtà, cioè l’«altra realtà», che è poi quella in cui si è annidato il senso, la verità della vita in un particolare periodo storico. La magia non risiede più nel magico o nel metafisico o nel fiabesco. Cercatela nel reale. Magia e realismo: cioè magia è realismo, magico disvelamento della verità dentro la realtà. Debenedetti lo vide al cinema l’unico realismo all’altezza di un secolo che cerca altro: il «realismo integrale». «Sfugge loro questo minimo e semplicissimo dettaglio che l’arte è magia, e che con la magia non si scherza, sotto pena di rimanere stecchiti come le mosche sotto la pompa del Flit». Muoia stecchito il realismo che non si integra o completa con la magia, con l'Altro. Il Novecento è stracolmo di ismi, ma Debenedetti non
ha parteggiato per nessuno di essi. Crocianamente, «convenzioni». Lo ripetè a proposito del verismo di Verga, e della sua celebre «conversione». Chi si convertì davvero fu Debenedetti, alla fine degli anni Cinquanta quando fece un corso di lezioni sulla poesia del Novecento. C'è una sua «conversione» agli ismi e in concreto al simbolismo (per istigazione di Wilson de I/ castello di Axel) e persino all’ermetismo, il rivale del «suo» Saba. No all’impressionismo in ritardo, come ritenne quello dei vociani. O essi sono, come dicono altri, degli «inconsapevoli» portatori, magari «sani», di espressionismo? Ecco l’ismo di cui Debenedetti ebbe la rivelazione negli anni Sessanta: la grande narrativa del Novecento è espressionista, Kafka, Pirandello, Tozzi, ecc. Debenedetti si trovò a parteggiare consapevolmente per una letteratu-
ra che aveva sostenuto con motivazioni «inconsapevoli» molti anni prima del Romanzo del Novecento. Aveva salvato dal «massacro» della letteratura italiana tra le due guerre mondiali — oltre a Saba, Montale e Noventa — Palazzeschi e Bontempelli, due grandi reduci, del futuri121
smo, il movimento d’avanguardia che stava morendo quando Debenedetti nasceva alla letteratura. A Debenedetti piace l'avanguardia «figurativa», quella che dà figura umana all’informe e all’«altro». E quella che non programma la morte dell’arte. Che figura avrebbe la vita se non ci fosse l’arte a disegnarla, a darle un disegno? Figurativo ovviamente, un disegno per l’uomo minacciato dall’informe. Nell’ultimo decennio della sua vita tra il 1957 e il 1967, Debenedetti riabilitò l'avanguardia e le poetiche già rifiutate come astratte convenzioni. Era stata per lui una rivelazione scoprire suppergiù nel 1962, che il linguaggio che gli era congeniale era nei progetti degli espressionisti, i quali l'avevano pure attuato nei primi
decenni del secolo. Qualche anno prima, nel 1959, era successa quasi la stessa cosa con gli ermetici. Il suo «destino» era dunque nel «progetto» degli espressionisti e degli ermetici? Attenti dunque alle avanguardie che fanno ipotesi sul futuro, ai creatori di linguaggi mandati in una certa direzione e a tutti che prefigurano la prossima letteratura. E legittimo domandarsi dove va la letteratura. In poesia è decisivo dove si è arrivati, ma quelli che provano a capire prima dove si sta andando, non di rado sono stati determinati a guidarla in un punto diverso da quella a cui sarebbe arrivata da sola. La letteratura non è «destinata» ad arrivare in nessun posto, né ha solo la funzione di dare figura a qualcosa che c’è già. Può inventarla, può farle fare il percorso chi condurrà la letteratura non sulla «realtà» che c’è, ma su quella che si desidera che ci sia: e che ci sarà, come è successo spesso. Per merito di «quell’esasperata crisi che fu il futurismo» infatti «le sfere, i cubi e i vari solidi compenetrati, per fare il caso più semplice, che non hanno mai ispirato un capolavoro nei quadri di cavalletto si son serbati un più lieto esito sulle pareti di certi caffè e tabarins moderni, dove veramente appagano l’occhio e intonano l’atmosfera». I futuristi insomma avevano futuro, che ora è presente, nonché passato. Il loro lin122
guaggio aveva creato una realtà che forse senza di loro non ci sarebbe stata.
L'INCONTRO
CON
LA SARTINA
Un giorno l’intellettuale andò al cinema, e qui incontrò la sartina. Fu lei ad avvicinarsi a lui per esprimergli la sua opinione su quanto avevano visto. Ci pensò molto l’intellettuale ma, pensandoci sopra a lungo, capì che ad avere ragione era lei: la sartina, cioè fuori di metafora, la massa. La massa che al cinema avrebbe creato un proprio canale di comunicazione culturale mai visto prima di pari dimensioni. Debenedetti fu uno dei primi tra gli intellettuali italiani ad andare al cinema e a convincersi che era nata una nuova arte. Lo scrisse, scrisse articoli e saggi di critica cine-
matografica che, poi raccolti nel volume I/ cinema, costituiscono un corpus di riflessioni teoriche e di analisi di films da collocare tra il meglio che sia stato pensato sul cinema nel mondo. L’entusiasmo suscitato in lui dall’ottava musa è fondato — in misura non secondaria rispetto al piacere di vedere altre forme d’arte — su quello che gli parve il fenomeno fondamentale della cultura del Novecento: l’incontro tra l’intellettuale e la massa. Lieto di assistere all'evento, Debenedetti ne dà l’annuncio così:
«Il cinema è uno dei più tipici ed efficaci strumenti di cui la vita moderna si valse per stabilire una circolazione di idee e di stati d’animo tra il popolo e le élites. E una parte aperta in permanenza, che sopprime la clausura degli intellettuali, che rende impossibile — a meno di una bizzarra, anacronistica cocciutaggine — la torre d’avorio». Non è poco dire per un critico cui è stato rimproverato un eccesso di estetismo. AI cinema la sartina fa da «voce del popolo»; con quel che segue. La sartina così guida l’intellettuale a capire che 123
il critico, quello di ogni arte, deve vivere «in perpetua auscultazione del volubile pubblico con sempre lo stetoscopio sul cuore del pubblico». Populismo? L’intellettuale che va verso il popolo? Debenedetti registra invece con soddisfazione che si sta verificando il fenomeno contrario. È la sartina a soccorrere l’intellettuale che è in ritardo e non solo verso la nuova arte. Come dire: attenti al lettore! Riuscisse ai critici di essere anzitutto lettori, quelli che leggono con amore. «E poi la sartina che rimette le cose in regola riportando quegli amori su un piano di assoluta sincerità. In questo caso, l’intellettuale a distanza di due generazioni abbraccia la sartina. Ma ciò succede perché la sartina è andata a lui e ha cercato di capirlo. La reciproca è assai più difficile». In realtà Debenedetti si era regolato così anche da critico letterario: aveva dato sempre ascolto al «popolo» in quanto lettore di narrativa e poesia. Ne aveva fatto le spese, ad esempio, Italo Svevo, al quale Debenedetti disse di no perché lo scrittore ebreo triestino non era né mai sarebbe stato popolare: per via di una «reticenza morale» che i lettori avevano avvertito e che poi sarebbe il motivo per cui, nel 1928, non si accostavano ancora con piacere ai suoi romanzi. Un errore, come sarebbe stato evidente
più tardi (quando le sartine sarebbero corse a migliaia a comprare i libri di Svevo), ma intanto era anche una conferma della tesi che al cinema o in letteratura o in musica, tocca auscultare la sartina, tenere lo stetoscopio sul cuore del pubblico. Dopo due generazioni il cervello dell’intellettuale constata che aveva ragione il cuore della sartina. Conviene capirla subito, serve andarci insieme a cinema, a musica, ad arte, a letteratura.
Debenedetti non vuole perdere tempo, non aspetterà due generazioni per capire quello che la sartina intuisce col cuore: identificandosi con le dive o compromettendosi con gli effetti della tecnica. Come Tristano con Isotta, Debenedetti desidera essere la sartina, secondo una cla-
morosa identità «democratica»: Debenedetti vuole essere la sartina, che in fondo tutti siamo, intellettuali e massa e 124
intellettuali di massa. L’identità non ci sarà, ma Debene-
detti nell’«università di massa» sarà avvicinato dalla sartina molto di più di quanto sia successo con iSaggi critici. Il suo Romanzo del Novecento e i suoi corsi di lezioni hanno trovato migliaia di studenti e lettori a decine di migliaia. Al cinema Debenedetti — sempre in compagnia della sartina — affronta quel problema della funzione e del ruolo degli intellettuali sul quale poi si dirà di più, ma non sempre di meglio nel secondo dopoguerra. Basta con l’intellettuale «pedante» e con «il visibile apostolo e infatuata vittima del dernier cri». L’intellettuale «vero» è «colui che possiede criteri morali così seri e ragionati, da saper distinguere la corrente profonda e legittima del gusto dagli incartapecoriti proverbi di una morta tradizione; da saper sceverare le tendenze in cui il proprio tempo può adeguatamente riconoscersi dal gergo posticcio dei passatempi momentanei con che gli spensierati scacciano (0 sottolineano)
la loro noia».
L’intellettuale deve essere
dunque «tendenzioso», ma deve distinguere, tra le tendenze
e all’interno,
se vuole
evitare il conformismo,
magari anche il conformismo del nuovo. Va bene la scelta di campo ma non dimentichi l’intellettuale d’essere una particolare pianta d’uomo. Debenedetti fece spesso parte per se stesso, magari anche contro la propria parte ideologica e politica, per essere dalla parte del «popolo» che l'avrebbe raggiunto in massa sulle sue posizioni d’avanguardia. E Debenedetti fu a favore del neorealismo al cinema,
mentre era contrario al neorealismo in letteratura. Analogamente, avversario del futurismo poetico, apprezzò la musica futuristica applicata al cinema. Era stato dalla parte del «semplice» Saba contro l'oscurità degli ermetici, finché non gli fu chiaro che essa era il linguaggio di una condizione umana privata di ragioni e di criteri. Scelse Moravia contro la replica di neoclassicismo fra le due guerre. Optò per l’umanesimo contro l’assurdo e per il personaggio-uomo contro il personaggio-particella. Semmai fu una «particella strana», una di quelle che hanno 125
autonomia di movimento. Una traiettoria unica invitata a
diventare universale. Prima o poi, Debenedetti avrebbe incontrato la sartina fra i suoi lettori. La prosa critica di Debenedetti al cinema è diventata più «popolare», più chiara, agile, colloquiale, senza perdere in acume e robustezza di argomentazioni. Una buona lezione per gli intellettuali «democratici»: imparassero a scrivere per la sartina. Scrivendo di cinema, Debenedetti riesce a farsi capire dalla massa delle «sartine». Facendo lezioni universitarie, la sua eloquenza è accessibile alla massa degli studenti e a tutti coloro che ora leggono la sua prosa critica come un romanzo. Per diventare un saggista popolare il critico userà, nella prosa delle lezioni, linguaggi più bassi di quelli giovanili. Debenedetti non parla quasi mai in dialetto. Il critico ama il «parlato», ma non il dialetto; tranne che quando è una lingua emarginata. Possono anche «scrivere male» autori come Pirandello o Svevo, ma la loro periferia diventa presto il centro senza ricorrere al dialetto o ad altri vistosi localismi linguistici. Tra i narratori che possiedono un alto tasso di dialettalità ci sono almeno due che stanno molto a cuore a Debenedetti: Verga e D'Annunzio, quello, ad esempio, del «Cerusico di mare». Sì dunque al dialetto «panteistico» dei due «veristi». Mancano invece eloquenti testimonianze di Debenedetti a favore del dialetto espressionistico di Gadda, che sicuramente il critico ammirava ma il cui nome non compare nel Romzarzo del Novecento, tanto «partigiano» di espressionismo. Negli
anni Sessanta lo dicevano tutti, e questo era per Debenedetti un buon motivo per non sprecare le parole. Amava il «dialetto» di Gadda, magari anche per complicità con la miscela linguistica di 16 ottobre 1943. In poesia Debenedetti parla meglio il dialetto. Allora | opta per il dialetto «alternativo», radicale, estremistico, di chi oppone la propria ribelle periferia a una lingua che si arrocca al centro per difendere «privilegi». Esempio: il dialetto di Noventa contro l’italiano del fascismo. Ci sono valori «passati» che non possono essere più nemmeno 126
nominati se non in dialetto: in italiano sarebbero ridicole . le parole che hanno suoni, significati e rime anacronistici sotto il fascismo. Una guerra alle cose camuffata da guerra alle parole. Il dialetto sia una lingua con cui esprimere qualcosa che è necessario dire e che è altrimenti indicibile. Una lingua «trasgressiva» che viene spesso proibita. In dialetto si può dire l'Altro (il dialetto degli ermetici),
si può dire altro (il diverso e il contrario di quello che si ordina al centro). Quando Debenedetti fa una miscela di
italiano e di yddish in 16 ottobre 1943 il risultato è esplosivo. Una prosa molto espressiva, anzi diciamo pure espressionistica: e quando Debenedetti non aveva intenzionalmente optato per i linguaggi dell’espressionismo. Quando scrive in proprio il critico usa dunque il linguaggio che gli è più proprio, attingendo le parole dalla bocca di chi le pronuncia ad alta voce, con la voce della sartina ebrea. Una miscela linguistica che ora commuove tutti, compresi gli ariani. «Ma tu devi pregare Iddio da galantuomo e non da lazzarone» disse la nonna a Francesco De Sanctis che si era buttato a terra per pregare come vedeva fare al popolo. Anche Debenedetti prega da galantuomo, da gentiluomo, uomo gentile, con aristocratico controllo, squisita eleganza di eloqui, sobria gestualità: così Debenedetti prega per la letteratura. Lui non scrive mai in maniche di camicia, non si sbraccia, non è mai uno scalmanato, non urla: l’ira provoca al massimo una stretta ai denti. Proust, basso di statura, batteva i piedi come vedeva fare al gigantesco Robert de Montesquiou, e così facendo cadeva nel ridicolo. Debenedetti avrebbe fatto in difesa della letteratura anche altro che battere i piedi, come attestano le sue solenni stroncature di Papini, Marinetti, QuarantottiGambini, Moretti e Buzzati. Debenedetti ha battuto le mani a pochissimi autori del Novecento. Quanti sono? Bastano le dita delle due mani. La palma? A Saba come
poeta e a Pirandello come narratore. Due galantuomini che sapevano cosa passava per la testa e cosa c’era nel cuore dei lazzaroni che sentivano simili. 121)
Quanti galantuomini, a cominciare da Croce e da Serra, si rifiutavano di riconoscere qualità d’arte a Pirandello: alle cui «prime» accorreva con entusiasmo invece la sartina, la stessa che era ammaliata dai «canti» e dalle
«immagini» di Saba. Tenendo lo stetoscopio sul cuore del pubblico, prestando attenzione ai sentimenti della sartina, quel galantuomo sopraffino che è Giacomo Debenedetti riesce a capire per primo, o tra i primi o con sottigliezza di «primo critico», la grandezza di coloro che sono i primi nella poesia e nella narrativa del Novecento. Non è forse lui il primo critico di Montale, in «Riviera, amici», un racconto di Arzedeo? Il segno di una vocazione. Debenedetti l’aveva capito sin dall’inizio che la critica bisogna raccontarla bene, se non si vogliono emarginare dalla cultura quei «lazzaroni» e quelle «sartine» senza il cui consenso tanti «galantuomini» che sono gli artisti del nostro secolo se ne stanno soli a piangere sulla ottusità del pubblico. «La gran questione è sempre una: credere ed essere di animo grande». Debenedetti va con la sartina, ausculta il pubblico, sta attento al cuore delle masse non perché vuole andare verso quell’attività da «lazzarone» che è il bozzettismo provinciale, la descrizione della condizione popolare, il mimetismo linguistico dei veristi e ogni altro atteggiamento-culturale per cui la cosa importante è quella che si vede a occhio nudo. Il critico vuole essere guidato e accompagnato dalla sartina a sentire subito quei «racconti favolosi» che contengono le verità fondamentali chiamate miti. E questa la gran questione di Debenedetti: per scoprire nel nostro secolo il mito altrui e il proprio, bisogna non perdere di vista la sartina che, frequentando l’umile vita quotidiana, si mette in condizione di avere la visione di ciò che è essenziale in un’epoca e che perciò è definitivamente umano. Detto così, è un po” melodrammatico? Ebbene, è stata la sartina a intuire, prima degli intellettuali, la forza poetica di quel melodramma con cui la cultura italiana dell'Ottocento ha surrogato l’assenza del grande romanzo. Ora, è sempre lei che, applaudendo 128
Pirandello — secondo Serra, un narratore d’appendice — lo impone al mondo come uno dei «fari» del nostro secolo. Si registri la costante nel comportamento della sartina: va sempre in un locale pubblico, melodramma, teatro o cinema che sia. Per piacere a lei bisogna fare spettacolo? Da sola però, da lettrice, che fa la sartina? Da sola la
sartina non legge e non sente l’arte moderna, che da parte sua si vendica diventando «impopolare», anzi «antipopolare». Bisogna starle accanto, accompagnarla, fare un tutt'uno con la sartina, con il lettore di massa. In ognuno di noi c'è una «sartina», c'è un «lazzarone». L’intellettuale
mette il cervello per inventare il linguaggio, sia pure difficile, che aiuta a capire una cosa nuova; la sartina col cuore sente se esso funziona, magari un po’ più tardi. È suc-
.cesso persino a Debenedetti di arrivare più tardi su uno scrittore, ad esempio un innovatore inconsapevole come Tozzi. Non basta l’intelletto, serve anche il cuore della sartina quando si legge. L’avanguardia ha fatto spettacolo per diventare popolare, per arrivare al cuore della sartina: attraverso l'orecchio, con la musica, annegando il signiftcato nel significante. Parlate nell’orecchio alla sartina e ci andrete insieme nella modernità, nell’attualità.
IL MITO
DI DEBENEDETTI
«Non vi lasciate confondere, se vivete a Dublino, vestite panni moderni, fate gli studenti o i commercianti: voi siete Ulisse, Telemaco e via dicendo. Non è il caso che vi
agitiate per il valore della vostra vita e il senso del vostro destino: stanno scritti nell’Odzssea». Questo promette Joyce, lo dice Debenedetti a coloro i quali cercano la congruenza tra personaggio e vicenda. Leopold Bloom torna a casa, Telemaco ritrova in Molly la madre. E questo il Mito, il racconto che eterno si ripete? È quella di Ulisse la favola madre dalla quale nascono tutte le storie? Di sicuro 129
è un approdo, un riparo, un rifugio. Finché non è necessario ripartire dall’isola. Ci sono tanti Ulisse e ci sono tanti altri miti. La vita la raccontano diversamente Proust, Pirandello, Kafka e altri. A Debenedetti piacerebbe che il suo destino fosse scritto nell’Odissea, ma il suo mito è un altro. Tutti i miti precedenti, più uno: come il celebre personaggio di Zavattini che, cambiando logica, vince la gara di matematica. Un mito nuovo è il risultato di una scienza esatta. É come un proverbio, verità popolare che affronta spavalda i secoli. Manca il mito adatto al presente? Tocca inventarlo o scoprirlo. Anche Debenedetti è un ulisside. L’Ulisse di Omero? Ovviamente pure quello, ma di più l'Ulisse di Joyce, nonché le opere precedenti in cui il narratore irlandese ha trovato le epifanie. Molly-Penelope non sa chi è Telemaco né dove si trova né quando arriverà. E Stephen l’eroe o è Leopold, l’antieroe? L'appuntamento è a casa, dopo Dedalus. Prima però c’è da passare attraverso il labirinto: quello della materia atomica, della psiche profonda, della società squilibrata. Debenedetti cerca il filo d'Arianna. Più che l'approdo, nella sua critica è importante come lo tesse. Non è la tela di Penelope. Si vede il disegno. Non la si può disfare. Non si torna indietro. «Andate avanti e finirete per crederci». Per Debenedetti era indispensabile andare avanti fino a raggiungere il luogo, l’isola, che uno possa credere che gli sia stata destinata. L’Angelus Novus di Walter Benjamin corre in avanti ma guarda indietro verso le origini. Debenedetti è di quegli scrittori che si muovono nel cerchio lungo il quale si torna sempre a casa. «La soluzione provvisoria di Joyce è stata ripresa ogni volta che se ne è trovato l’appiglio, dai nostri contemporanei, di mano in mano che la crisi dei personaggi è diventata più aggrovigliata e buia» scrive in Personaggi e destino. Debenedetti non sa fare a meno del mito, ma non cade nella trappola del neoclassicismo, che i miti se li impresta e in essi riposa. Anche la società moderna scate130
na crisi per le quali non bastano più né Ulisse, né Orfeo, né Edipo. Non hanno finito di «reggere il mondo», ma sempre urge dargli dei compagni, aggiungerne di nuovi.
Debenedetti i miti li vuole nuovi, non quelli che, secondo Savinio, sono già nel supermercato, dove fanno mitologia,
che è vuoto ormai da buttare. Il mito, un racconto essenziale che fa riassumere «in dieci parole» un grande romanzo e che crea personaggi duraturi quanto un proverbio: Ulisse, Edipo, Don Chisciotte, Amleto, Robinson Crusoe, Madame Bovary, Don Abbondio, Mastro don Gesualdo, Gregori Samsa, Mattia Pascal, Lolita. Come inventarli? Cosa fa la differenza? Dove nascono? Nella vita, la «calda vita» di Saba. È la vita che fa la differenza da cui nasce il nuovo mito. Questo si colloca sempre al centro, ma spesso è generato in periferia (Trieste, La Sicilia, Siena, Procida). Una nazione invece che un’altra (il romanzo russo e francese dell'Ottocento), un’arte invece di un’altra (il melodramma italiano), un linguaggio invece di un altro (il simbolismo francese, l’espressionismo tedesco). Impossibile prevedere dove nascerà il prossimo e quando. Non vi fidate delle copie. In arte conta solo il prototipo, nonché l’archetipo. Come crearlo? Scopritelo, forse c'è da sempre. Aspetta solo il momento buono per apparire, per nascere. La levatrice è ancora la storia, anche se sembra strano il suo aiuto al mito. Debenedetti osava parlare di mito anche in anni di massima sfortuna culturale del termine. Cercava il mito negli scrittori nel periodo in cui i neorealisti avrebbero urlato a sentir dire da qualcuno che la scoperta o creazione di un mito era il segno della grandezza di un artista. Debenedetti non se ne dà per inteso e continua a inseguire miti studiando il narratore che era il modello dei neorealisti. Se non avesse inventato un suo mito, Verga non sarebbe potuto «tornare» nel secondo dopoguerra. In Personaggi e destino (ma ci tornerà sopra nelle lezio-
ni sullo scrittore siciliano) il critico dà una essenziale defi-
nizione del mito che è, insieme al saggio, destinata a non 151
deperire. «Gli antichi miti raccolgono, simboleggiano le primordiali intuizioni che l’uomo ha avuto del proprio destino, e noi sappiamo che non ci sono conflitti, o drammi, o paure, 0 disagi, o speranze — per quanto differenziati e in apparenza inediti — che non si lascino ricondurre ai loro moventi primordiali». Primordi, simboli, destino, tre
parole chiave del lessico di Debenedetti, sempre impegnato a scovare miti dove gli altri vedono solo segni precari. Sapeva scoprire dove erano andati a collocarsi quelli antichi, da Edipo a Ulisse, da Orfeo a don Chisciotte, da
re Lear a don Abbondio: racconti essenziali e immutabili che reggono mille differenze storiche, fantasie che, secondo Debenedetti, sono diventate verità, perenni connotati dell'Essere. Lì dentro c’è segnato il destino dell’uomo, sua prigione ma anche suo sostegno nelle epoche in cui non c’è nulla di concreto al quale appoggiarsi o far riferimento, come succede ai personaggi del Novecento rimasti orfani di padre e, più che di verità, di criterio per riconoscerla. Come Propp, Debenedetti (il quale però è «plurale» rispetto al sovietico che ne cercava una per tutte) faceva sondaggi per scoprire le favole prime che gli uomini non smetteranno mai di farsi raccontare, e che non
finiranno mai di inventare e scoprire. Non ha dubbi: se ne debbono aggiungere altre, secondo come è andato modificandosi il destino degli uomini dall’antichità greca al medioevo italiano, dal Seicento spagnolo e inglese, all’Ottocento russo e al Novecento francese. C’è un altro Novecento, ci sono altre vicende esemplari. Non si cessi di cercare storie capaci di diventare un nuovo «proverbio». Senza questo non c’è storia della letteratura e dell’uomo. I buoni scrittori possono anche campare mascherando i miti antichi, vestendoli secondo la moda dei tempi. E anche noi leggiamo prosatori che sublimano un’attività parassitaria con opere che mettono in bella vicende fantastiche per le quali i creatori del mito hanno buttato sangue. Ecco: Debenedetti, che praticava l’interpretazione «libera» e attuale del mito, non teneva in gran conto tali parassiti, letterati che sopra i miti fanno eleganti e brillan132
ti variazioni, parafrasi forbite e compendi squisiti. Lo rimproverava persino a Cecchi di essersi imprestati i miti e di non averne creato nemmeno uno nuovo. Uno scrittore che non abbia inventato un mito deve rassegnarsi alla mediocrità, comunque non avrà la grandezza per cui la sua opera sarà frequentata nei secoli come un «proverbio». Bisogna aggiungere un proverbio: come Pizzuto
avrebbe detto «aggiungere vita alla vita». Finché c’è vita umana, sarà possibile creare i miti che riassumono il senso diverso di un’epoca, la sua differenza rispetto alla ripetizione. Che c’entra la storia col mito? Debenedetti vuole renderli amici, fare in modo che procedano insieme. I processo storico aiuta il nuovo mito a rivelarsi, se non a formarsi, magari a maturare. Una storia che si pone al servizio del mito, aspettando a sua volta di porlo al proprio servizio, attraverso le interpretazioni. Una storia è al ser-
vizio del mito che a propria volta è al servizio dell’uomo; l’uomo «primordiale» che non ha mai smesso di esistere e di «formarsi» sotto i differenti abiti storici. Nei «primordi» Debenedetti era ebreo. Come Saba, il «suo» poeta; come Svevo, il grande narratore che «suo» non diventa per la «reticenza morale» a identificarsi in un ebreo, come invece fecero Kafka e Chaplin: gli eletti a dare la più tragica, o meglio, grottesca immagine del Novecento. Era destino che fosse questo il popolo eletto a provare per primo sulla propria pelle come sarebbe successo più tardi a tutti, o quasi? Ci fu anche progetto. Stava per riuscire il progetto nazista di liquidazione totale. Debenedetti lo vide realizzarsi quasi all’esordio, il 16 ottobre 1943. Ebreo: una parola, ma per Debenedetti l’essere ebreo non fu solo una questione di parole. Intanto per i nazisti questo è un fatto: bisognava che fossero eliminati tutti gli ebrei. Debenedetti ci andò vicino. Anzi è dentro la condizione ebraica: gli ebrei furono i primi uomini ad essere ridotti a numeri di matricola. Quasi una particella atomica. Si era chiamata impressionismo, ma il suo vero nome 133
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| era epifania. Non si tratta solo di un’«impressione», è qualcosa di più profondo, è un segnale mandato dall’Essere. Tuttavia nulla è più difficile da provare che veramente esiste. Arriva di sorpresa, ma non è passeggera né
effimera. Potrebbe non ripetersi, potrebbe essere altrove, qualcuno dubita che essa sia una realtà, anzi forse non c’è più nemmeno l’Essere. Come si fa in questa condizione a dire che l’epifania rivela un connotato insostituibile? Non dà conoscenza, non dà scienza. Ebbene, Debenedetti, che
non si fida dell’impressionismo nemmeno se è fondato sul gusto proverbiale di Serra, intende dare statuto di scienza alla scoperta fatta dall’epifania. Frutto di un'iniziativa dell’irrazionale, il critico le dà la «ragione», il criterio oggettivo con cui legittimare le rivelazioni dell’inconscio. Ecco: la psiche, che si comporta come la particella atomica, che ha un percorso simile a quello del linguaggio. Lo conferma pure la sociologia che c’è un’incongruenza tra il personaggio e la vicenda, la storia che gli capita. Ebbene la storia, con le sue «ragioni» e le sue follie, è chiamata a stabilire quali epifanie non sono impressioni bensì connotati essenziali dell’uomo del Novecento. Le aveva viste, sentite e segnalate per vent'anni, ma
non ne conosceva il nome. Ne avevano uno, glielo aveva dato Joyce: epifania; ma Debenedetti non lo sapeva ancora e usava altri termini. «Impressionismo» lo definì vedendo cinema e pittura, e ascoltando musica. Ed ecco la definizione: «Movimento artistico che attaccandosi ai più fugaci e trascorrenti valori di apparizione delle cose, ha trovato in ciò un nuovo e più intimo dono di evocazione lirica delle cose stesse: delle loro interiorità e delle loro risonanze profonde: una delle più radicali rivoluzioni che mai si siano avverate nel dominio estetico». Una rivoluzione: rivedere l’interiorità delle cose, misurarla sulla struttura interna ad esse. Questa la direttrice di ricerca di
Debenedetti negli anni Trenta. Dove egli arriva è facile dirlo, sono appena cambiate le parole, e nemmeno molto, negli anni Sessanta: quando «impressionismo» diventa «epifanizzazione». Sono coerenti e profetiche le preferen134
ze del critico per la narrativa che «salta i gradini». Le «crisi» di Moravia, il cazzotto di Svevo, il «centro
fuori dal centro» di Palazzeschi, il «tempo pesante» di Bontempelli, sono delle epifanie ante litteram. La «rivoluzione inconsapevole» di Debenedetti. C'era la cosa, sarebbe seguita la parola esatta: invece di «impressioni», epifanie, che semmai sono «espressioni». A tale espressionismo Debenedetti iscrisse, oltre a Joyce, Tozzi e Pirandello. Per essere più esatto, il critico si era rivolto alla scienza e questa gli aveva risposto proponendogli la particella atomica. Ecco la rivelazione, cioè una concreta epi-
fania: la particella atomica aveva un percorso analogo a quello attribuito dalla letteratura alle epifanie e a quello ipotizzato dalla psicoanalisi per la psiche. Non era diverso il cammino della storia nel Novecento. Lo attesta la più . recente sociologia, che la sa lunga sulla società attraverso la statistica, scienza della probabilità. Nella quale esplodono «a caso» le epifanie, precarietà capaci di approdare all’assoluto. Un giorno Debenedetti si mise a leggere uno scrittore «insignificante» quanto può essere nel Novecento un «epigono del verismo toscano», Federico Tozzi, ed ebbe la rivelazione di un grande narratore del nostro secolo. Un’epifania critica. Procede per epifania non solo Joyce, ma anche Debenedetti: sia lo storico del Romanzo del Novecento, sia il critico umiliante dei Saggi critici e di Intermezzo. Il Romanzo del Novecento, il libro duraturo che è figlio della critica d’ogni giorno su opere di giornata, non sarebbe mai nato senza iSaggi critici. Debenedetti morì senza sapere d’avere trovato la sua massima epifania, il suo capolavoro. Tocca fare miracoli anche a chi pratica la critica militante. La massa enorme, opaca, trascurabile dei libri quotidianamente pubblicata. Il critico ignora cosa valgono e dove vanno tutti quei libri in apparenza insignificanti. Di sorpresa da un libro parte un messaggio che balena e folgora come una verità. Questi libri da rifiutare prima di trovare uno che non si limiti a piacere per qualità effime105
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re. Che massacro prima di trovare un libro che contenga qualcosa che serva da fondamento in un’epoca instabile e fragile. Sono pochissimi e ci sono epoche in cui è più difficile che sfuggano dalla prigione di mode culturali, ideologie, correnti artistiche. Bisogna stare in attesa dell’opera che getterà luce sulla vita e sul mondo. Abbondano i periodi bui, ma tocca tenere gli occhi aperti, entrambi gli occhi, e l’oculista stia pronto a togliere la cateratta di Proust. La chirurgia oculare: un nuovo metodo critico. Psicoanalisi, fenomenologia, strutturalismo, e una buona dose di marxismo, per la storia. Quali sono i connotati di quel mito di Debenedetti per il quale non basta dire che è «bello» ma che è anche «vero»? La vita quotidiana, opaca, sorda, noiosa, senza
eventi straordinari e senza criteri per misurare la qualità delle esperienze. Tutto è pareggiato, una pianura di scene insignificanti. Lo scorrere uniforme di fatti e figure di routine. Assenza di valori, noia, grigiore, discorsi privi di importanza, chiacchiere, piattezze e vuoto. All’improvviso un suono squilla prepotente, un'immagine fulmina una scena oscura, un oggetto prende un rilievo vistoso. Una epifania valorizza l’insignificante scoprendo una essenza. E successo qualcosa sotto, nella struttura: che è disponibile al prodursi dell'evento eccezionale. É una struttura senza regole rigide, determinate, e ancor meno deterministiche. Si ignorano la velocità e la direzione nelle quali va a collocarsi l’Essere pronto a esplodere verso l’oggetto che può rivolerlo. Come la particella atomica? In un certo senso: è quella della direzione in cui va il personaggiouomo nel suo profondo. La psiche ha una struttura omologa a quella del linguaggio moderno e dell’uomo descritto dalla sociologia post-marxista. Quattro strutture omologhe fanno una sola verità? Fanno almeno un mito. Il mito di Debenedetti, fantasia che sembra verità. Il sublime esiste nel Novecento ma non sta più dove stava prima. Non abita più in alto, semmai ci arriva, ma nasce in basso, dove la realtà è più umile, deperibile, insignificante. In Debenedetti lo dice l'ebreo e lo dice il 136
comunista, l’ebreo senza fede che a circa cinquant'anni si mette a credere nel comunismo. Non l’ha sempre pensata così, all’inizio non gli piacevano i linguaggi bassi di cui è patito molto Novecento, crepuscolare o futurista o neorealista o neoavanguardista. Leggendo Moretti, Debenedetti esprime avversione per quella «maniera di una maniera» che è il crepuscolarismo. Quando però legge Bontempelli, cambia parere. È l’autore di Gente nel tempo a fargli intuire quanto meraviglioso ci può essere nella vita comune di tutti i giorni. Era ben più egalitaria la struttura di quella narrativa moderna che aveva perso l’idea del principio e della fine, del centro e della periferia. In Joyce il centro può essere dovunque, il valore quello che si sarà meritato di diventarlo per qualità o coincidenze fortuite, il personaggio quello che sarà diventato nel corso di esperienze in cui non si sa chi vincerà e chi perderà alla fine dei conti, che in sostanza vanno rifatti continuamente, come sosteneva-
no i futuristi. Non è più ilborghese bastone da maresciallo messo da Napoleone nello zaino di ogni suo soldato. Ora potrebbe essere preferibile fare il soldato: non sono quelli i veri gradi cui si consegna il destino di un individuo. Non avendo ordini né ordine, siamo disponibili alle iniziative della vita. Andiamo a inciampare in un ciottolo e scopriamo che è un assoluto, direbbe Pizzuto. Anche per Debenedetti la massima grandezza, cui nessuna epoca può rinunciare, si attinge passando dal microscopico. Il mito di Debenedetti nasce nel profondo. Fondamentale non è quello che si vede a occhio nudo: si tratti della psiche o della particella atomica, che vuole microscopi di vista profonda. Anche la sociologia deve fare i conti con quanto succede all’interno degli uomini del nostro tempo. Gli eventi estremi possono essere insignificanti ma solo fino a quando non diventano veicolo di un’essenza che aspetti l'occasione per rivalersi. Attenti dunque alla superficie, è qui che inizia l'avventura romanzesca dell’uomo contemporaneo. Che per esser capito ha bisogno del concorso di elementi di vario livello, non solo irrazio137
nali, ma anche scientifici, storici, sociali. Il mito di Debe-
nedetti aspira ad essere racconto totale, nel quale si finisce sempre per imbattersi secondo ferrea logica di sistema. Il punto d’arrivo è là donde si è partiti. E attuale? E nella natura del mito di essere sempre attuale. Nasce nell'attualità storica e non l’abbandona mai, andandosi a col-
locare accanto a tutti gli altri che i secoli hanno creato. Possono essere collocati a riposo ma viene l’epoca in cui vengono richiamati in servizio attivo. Stando immobili, sanno essere un fattore di dinamismo culturale, secondo le regole di «ars combinatoria» che realizza un disegno nuovo e originale con elementi antichi e perenni. Il mito di Debenedetti è quello dell’orfano, dell’essere privo di valori e di criteri che si mette in disponibilità dinanzi a un mondo che manda segnali insignificanti o almeno sono tali finché non si verifica un contatto, un
corto circuito da cui esplode un senso. Non incontrerai due volte lo stesso senso sul medesimo percorso. Ti tocca stare in attesa dell’evento straordinario, che può tardare una intera vita. Dallo stesso luogo da cui era partito un pugno potrebbe arrivarti un dono. L’essere è in movimento continuo, non se ne conosce la velocità né la dire-
zione ma ti può capitare di incontrarlo nel tuo cammino se rispetti il tuo essere. La creazione di un mito vale quanto un ritorno a casa, una casa in cui ci sia un padre in grado d’essere un fratello dentro una struttura egalitaria nella quale la gerarchia bisogna conquistarsela, magari per intervento del caso, come nell’epifania. Questo è il destino comune ora: a ogni essere può capitare di tutto ogni giorno. L’uguaglianza universale? Nel senso che tutti possono trovare la loro personale gerarchia, con cui mettersi al vertice tra gli altri. È solo un’apparenza? La sostanza è sempre che sta sopra chi è più ‘ricco e potente? Può capitare che un gruppo sociale «insi-
gnificante» diventi all'improvviso molto rappresentativo e forte dentro tale struttura aperta. Questa apertura, tale disponibilità, l'assenza di un’autorità prestabilita potrebbe essere il «valore»; da tanta duttilità si può ricavare il x
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criterio di giudizio che va riformulato dentro un sistema di cui si conosca la mobilità. Dentro un mito siffatto si vive, da liberi, da uguali, da esseri consapevoli di dover fare costantemente il conto con l’inconscio e con quanto non si sa. E pronto a cambiare. Senza i cambiamenti stori-
ci il mito apparterrebbe a una specie in via di estinzione. Non ne nascerebbero più di nuovi e si estinguerebbe anche la letteratura. Magari quella in cui non bisogna essere uguali, semmai unici. Si prenda lo scrittore per antonomasia caro a Debenedetti, l'esemplare creatore di miti che è Proust. «Si potrebbe forse insinuare» scrive Debenedetti, «ma con la più guardinga cautela e discrezione, che in Proust qualcosa sia passato delle malinconie e ritrosie, dei dubbi e dei dilettantismi e delle sottili sconfitte che caratterizzarono Napoleone il Piccolo». Il grande mito di Proust è forse figlio della piccola storia che è stata in Francia il secondo Impero? I miti possono nascere anche in situazioni storiche depresse, umili e umiliate. Tutte le epoche sono buone a fare una grande letteratura. Purché non ci si rassegni alle apparenze, a quello che sembra un destino e che invece è una formidabile ideologia. Non vi sono scuse per le epoche prive di una grande letteratura. Debenedetti si pone drammaticamente la domanda: «Perché l’Altro ha aspettato proprio i nostri tempi per scatenarsi?» La risposta è assegnata al sociologo neomarxista Wright Miles: «Le biografie si sono trovate in contrasto con la storia, sono diventate le une e le altre etero-
genee... grandezze tra loro irrazionali, come il diametro e la circonferenza». E l'Altro negli arini Sessanta «ha subito approfittato dello scompiglio per mettere avanti le proprie rivendicazioni». Sono forse quelle della cultura che ha fatto follie negli anni Sessanta, della controcultura, che ha tentato di ribaltare la storia per renderla coerente con le biografie di personaggi ridotti a particelle atomiche? Debenedetti non ha fatto in tempo a rispondere, è morto poco prima del tentato ritorno del personaggio-uomo. AllAltro non si sfugge. Semmai esso sfugge a ogni rete. 139
È nel suo statuto, nascondendosi, stare sotto, costringere
a profondi scandagli chi lo cerca. Si era capito come si comportava, ma il fatto di conoscere le regole dei suoi movimenti non aiutava granché ad acchiapparlo. Si poteva dedurre che l’uomo stesso si fosse ridotto a particella. Tuttavia il personaggio-uomo non si rassegna all’unica dimensione umana combattuta negli stessi anni da Marcuse. Non appena entra nel ruolo di particella atomica, il personaggio-uomo si ribella. E d’altronde c’è anche nell'atomo una particella chiamata «strana» per l'autonomia dei suoi movimenti. Tutto sta nel vedere come si usa la materia.
Nell’«altro», laggiù, al suo livello profondo l’uomo attinge le energie necessarie per sopravvivere e magari per avere una storia diversa, compreso un nuovo mito. Per
ora, per il proprio mito personale di critico che crede all’arte come attività inconscia, Debenedetti ha trovato la
struttura in cui l’Altro agisce anche a favore della letteratura e della società. Gliene danno conferma la psicoanalisi, la sociologia, il linguaggio che si sono aggiornati sui movimenti della materia e della parola. Mandano tutti e quattro lo stesso messaggio: se vivete con attenzione dialettica per il diverso da questa struttura, quando meno ve l’aspettate arriva la rivelazione di qualcosa che sembra un miracolo: una nuova storia, un diverso codice di vita, una cultura mai vista. E un mito? Se è nella storia, nella struttura, il mito vive perenne, magari come «storia» o storiel-
la, ossia favola o proverbio. Debenedetti ha raccontato bene il mito dell’uomo che, sedotto e minacciato di morte
dalla particella atomica, dopo aver viaggiato nelle zone buie della materia, della psiche e della società riscopre d’essere un personaggio-uomo che è fratello di tutti i personaggi umani che l'hanno preceduto sulla terra e nella letteratura. Un mito di liberazione e d’uguaglianza in cui Debenedetti credeva.
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IL MELODRAMMA
CRITICO
Debenedetti ascoltava e amava molto la musica, a cominciare dal melodramma, di più Wagner ma non poco Verdi. Dinanzi alle cui romanze «ti accorgi che la parole “belle” non ti serve più e devi adoperare la parola che vale per i ragionamenti giusti. Devi dire che sono vere». Bontempelli aveva scritto che Verdi aveva preso la musica in cielo e l’aveva portata in terra. La «saggezza» e concretezza di Verdi, che sa identificare Bellezza e Verità. Una musica che «sottolinea», dirà Debenedetti al
momento di prendere posizione a favore della «sapienza» di Wagner. Non basta più la «saggezza». Nel confronto tra la musica di Verdi e quella dell’allievo di Nietzsche, Debenedetti intuirà che l’arte moderna ha visto alterarsi i rapporti con la verità. E d’altronde gliel’aveva detto Bontempelli che le parole e le cose si muovono su due piani paralleli. Invece Debenedetti è sempre lì a tentare di renderli convergenti. Il bello è che tante volte i suoi ragionamenti «celesti» toccano terra e sembrano veri. Le sue conclusioni, le sue definizioni, sono «tangibili»; e tanto più lo sono, quanto più erano state «stratosferiche» e guizzanti le analisi, le «psicoanalisi». «Tangibile» è aggettivo assai caro al critico. Può servire anche per definire la strategia conoscitiva e linguistica di Debenedetti. Avendo intuito che il destino del Novecento è di scendere in zone dove «non si tocca», essendosi
staccato dalla superficie su cui opera la concretezza naturalistica, il suo audacissimo progetto è di rendere «tangibili» i materiali della psiche, gli sfuggenti e oscuri fili dell'inconscio e ogni altro sintomo o rumore che arrivi dal profondo come messaggio per il quale non ci sono ancora le parole precise. «La psiche è una cosa». Ebbene, trattiamo come una cosa i segnali informi che provengono di là. Ma Debenedetti teme il conformismo dell'Altro, il formulario con cui si assegna facilmente un dato ignoto a un complesso psicoanalitico anche troppo noto. La psiche è quant’altri mai personale, privata, individuale. Debene141
detti indaga per individuare il segno particolare e unico, e si accanisce a trovargli la parola unica che lo designa. L’impalpabile,
l’inconsistente,
l’astratto,
il fantasma,
l’ombra con cui si manifesta l'Altro diventa nella frase di Debenedetti «tangibile». Sono «tangibili» le audacissime definizioni critiche che conquistano i connotati più radicali e «misteriosi» di un autore. La concretezza di una avventura intellettuale dentro l’invisibile. Il modello? Kafka, il più tangibile dei narratori fantastici. Per il Kafka di Debenedetti «niente si spiega con i nostri criteri e tutto è naturale». Se si parte dal naturale, dal quotidiano, si arriva alla magia di Bontempelli. Moravia le tenta tutte per arrivare all’autentico. Morante prova
con la realtà e trova la sua favola. Landolfi ha sperimentato tutti i giochi nella speranza che il caso gli offrisse la vittoria. Marinetti ha scatenato la materia ed è affogato nell’informe, suo premio e sua pena. Barilli annega nel mare in tempesta delle metafore per non avere mai trovato l’isola su cui metter piede. Debenedetti naviga nelle metafore ma non perde mai la bussola. Punta sull’«autentico» e non si ferma se non quando ci ha sbattuto contro. Una grande immaginazione critica alla ricerca dei risultati straordinari che vanno bene solo se diventano «naturali». Debenedetti non ama i volteggi aerei del manierismo che non toccherà mai terra. Un critico non è uno scrittore
cui è consentita la menzogna. Usa le metafore non per dire «bugie» con cui evitare l'impatto con le cose bensì perché sa che si è fatto lontano ciò che merita di essere raggiunto. E una necessità la scrittura metaforica per una critica che non sa più come fare a riconoscere la verità. Quando si accende una metafora si può credere di essere nei paraggi. Debenedetti va in alto mare, ama perdersi in uno spazio sconfinato e soprattutto non frequentato, anzi fuori della rotta, e difeso da mostri, comunque mai un luogo comune. Può sembrare eccentrico o ingegnoso o capzioso, ma Debenedetti non naviga in prossimità delle coste. Leggete la serie degli aggettivi e vedrete che accerchia142
no l'oggetto da conquistare e lo incalzano in progressione pressante e puntuale, con un abbraccio in cui c'è immaginazione, calore e pertinenza di significato. La metafora è la figura della frattura dell’To, dell’assenza? Più esatto parlare di congiunzione e di presenza. La metafora di Debenedetti non è esibizionista nelle acrobazie, anzi è felice quando tocca il punto in cui si produce il corto circuito. E la sua isola lontanissima e assai prossima: quanto può esserlo una cosa che emergerà improvvisamente per volo verticale dal profondo. Non è stata mai sua, non l’ha mai vista prima, e tuttavia la riconosce, la terra promessa. La metafora di Debenedetti mantiene quasi sempre la promessa. Cosa promette in critica letteraria l’interpretazione? Contro l’opinione di Susan Sontag, per Debenedetti negarsi l’interpretazione è come rinunciare a capire un’o-
pera. E diventato veramente impossibile capire, cioè comprendere, prendere possesso, impadronirsi del senso di un’opera? Il testo moderno invece è di là, irraggiungibile e impenetrabile. Tristano dunque deve rinunciare ad essere Isotta? L'amante non farà mai unità con l’amata, lo
smacco dell’amore è fatale: lo ha ricordato anche Lacan a chi ha cercato l’Uno tra i due amanti. Può ancora pretendere il critico di sapere la verità su un testo nell’epoca in cui sono ammesse solo le congetture e la cui scienza è statistica? «L’ermeneutica è l’arte di capire quello che è estraneo» dice Gadamer. Ebbene, Debenedetti lavora a
rendere familiare l’estraneo, a portare di qua quello che sta molto lontano e chiuso di là. Probabilità, non più che probabilità, questa è la verità. Quante probabilità? domanda Debenedetti. Molte, sempre di più, chiedetelo dappertutto, a ogni altra scienza o arte: psicologia, sociologia, storia, letteratura, arti figurative, musica. Tutte lì a confermare la medesima struttura: dalla materia al linguaggio letterario. Ci sono quattro probabilità su quattro che l’uomo d’oggi si stia comportando come la particella atomica e come la psiche descritta da Jung e come la società analizzata da Wright Mills. Il 100 143
per cento di probabilità non è la verità, ma si può scommettere che siamo vicini, almeno da un certo punto di vista. Lo confermano i numeri della statistica. Dal punto di vista di Debenedetti, dopo quattro conferme «scientifiche», un’ipotesi critica sembra proprio la verità: ad esempio quella del complesso di castrazione che fa sanguinare ogni pagina di Tozzi. Con l’interpretazione Debenedetti può permettersi di dire: questo è Tozzi. Con tante probabilità che sia vero. E molto probabile che il vero Tozzi sia quello di Debenedetti, che ha scovato il centro irradiante in testi che sembrano sfilacciati e disarticolati. Il vero Pirandello, il vero Palazzeschi, il vero Moravia, il vero Saba, e Montale Ungaretti Penna Noven-
ta, nonché Alfieri Tommaseo Verga Pascoli D'Annunzio e Proust. È così difficile dimostrare che sono falsi. L’interpretazione di Debenedetti ha fatto capire quello che per altri critici era ermetico, inaccessibile. Un critico disponibile, come può essere Tommaseo, e amorale, come può essere il protagonista della Recherche: per essere pronto a intuire la rivelazione di senso con cui l’insignificante diventa miracolosamente «divino», cioè vero come un mito millenario. Allora il critico può diventare un lirico, intonare la «romanza». Ne ha molte I/ romanzo del Novecento, opera nella quale è musica anche
il recitativo. La critica come melodramma, wagneriano naturalmente, unità di parola, suono e azione narrativa. Il
professore, saggista ad alta voce. L’oralità della critica universitaria di Debenedetti. Una ammaliante narrativa orale. Un lungo e minuzioso racconto che prepara gli acuti, le rivelazioni, i messaggi del profondo. Le metafore di Debenedetti fanno un’acrobazia finale per andare a toccare terra dove pochi si erano avventurati e dove quasi nessuno è arrivato come lui. Parecchie sue definizioni critiche sono vertiginosamente azzeccate. Fanno centro? Come Palazzeschi, che «fa centro fuori dal centro». E lì
scova il personaggio-uomo del nostro secolo. Il massimo di «spreco» al servizio del massimo risparmio. Il massimo di diluizione al servizio del massimo di
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concentrazione. Una miriade di particolari al servizio di un disegno elementare. Debenedetti cerca lo schema originario o finale che è il suo mito in mezzo a una massa sterminata di dettagli. Ognuno di essi potrebbe essere fondamentale, «essenziale». Perciò splende il «lettore» (quello che fa le lezioni universitarie) prima che il critico. Le sue analisi, le sue «psicoanalisi», hanno bisogno di
ogni parola. Non tutte quelle che squillano hanno echi dentro. Bisogna accumulare e subito dopo sottrarre. Si salvano le costanti che hanno fatto l’esperienza di tutte le differenze. All'improvviso appare sul fondo lo schema, il «racconto favoloso» che si desiderava. Esso può essere rimandato in superficie a prender posto nella storia e a generare differenze individuali. Precarie possono essere le sue interpretazioni, ma la scoperta per lui è definitiva.
WHRELUTOZEZIETETÀALO
Nella Recherche sono in due a parlare: Proust e il protagonista che dice Je. Il protagonista è amorale, disponibile, passivo, suppergiù l’ebreo di Weininger, che in quegli anni piaceva tanto a Debenedetti. L’autore del romanzo invece è morale e costruttivo, come è sempre la poesia, secondo il Debenedetti del 1925, cioè di un decennio molto costruttivo dopo il disordine delle prime avanguardie. Accettiamo l'opinione per la quale Debenedetti è anzitutto un «proustiano» e osserviamo le conseguenze nella sua attività. Ecco: in Debenedetti è amorale, passivo, estremamente disponibile il lettore; ed è invece attivo, «positivo» e morale il critico. Debenedetti non ha mai chiuso gli occhi dinanzi a un fenomeno «negativo», non si è mai sottratto a un problema «insolubile», non si è mai scandalizzato di una trasgressione. Per sconfiggere il diavolo non bastano le buone azioni, ci vogliono le buone ragioni. 145
Rispetto a De Sanctis, non accetterebbe mai la «doppiezza critica» di «condannare» una poesia affascinante come può essere quella ariostesca. Se contro le sue ragioni un libro risulta ancora bello, Debenedetti comincia a
pensare che non solo Croce ma lui stesso ha torto. E dà ragione, anzi dà ragioni, al nemico, il vincitore che viene vinto.
Il fiuto è quello di un uomo del Novecento; il fiato all’inizio è quello di Croce. Peggio per il fiato quando il fiuto avverte la vita che si manifesta fuori legge, fuori delle regole di un’estetica. Croce è amico, ma più amica è la verità. La verità è che bisogna cambiare fiato perché il fiuto non basta, se Serra non sente Pirandello e Debenedetti è insensibile a Tozzi. Col fiuto Debenedetti aveva sentito che trasmettevano messaggi della vita contemporanea Montale, Saba, Proust, Pirandello, Palazzeschi, Bontempelli,
Moravia,
Savinio,
Ungaretti,
Radiguet,
Valéry e altri. Ma senza il fiato e senza un modello e un criterio nuovo come si fa ad essere certi che sia anche vera quell’impressione positiva? Se i polmoni sono vecchi e sono malati, come lo sono di cateratta gli occhi del naturalismo secondo Proust, bisogna fare un’operazione radicale. Bisogna cambiare aria. Debenedetti prova con la scienza, proprio lei, la grande nemica di Croce. E la scienza dà la risposta, per così dire «scientifica», sia pure probabilità di verità, che non si poteva sentire la vera bellezza di una letteratura se non si capiva dove bisognava fiutare. Fatta l'operazione di cateratta a Croce, si poteva vedere ciò che era bello in quanto verità originale, l’unico connotato che legittimi l’idea di modernità. Debenedetti ha il fiuto e il fiato che sono proprî di un grande critico del Novecento. Critico di grande fiuto — il suo maestro di lettura è a lungo Renato Serra — Debenedetti va a farsi il fiato — il gran fiato di De Sanctis, il fiato di Borgese — allenandosi sulla storia, sulla sociologia, sulla psicologia e sulla fisica. Col fiuto gli era sfuggito Tozzi, senza i polmoni allargati dalle scienze fisiche e umane non avrebbe capito la narrativa del Novecento, non avrebbe 146
| potuto provare la sua originalità e grandezza — e nemmeno la propria. Dopo avere respirato come si deve l’aria del nuovo secolo, Debenedetti si ritrova un fiuto diverso. Ora
sente meglio poeti come Mallarmé, Montale, Saba, Unga-
retti, Noventa, Penna, Luzi'e Sereni. Come l’alternanza
tra Platone e Aristotele, come quella cardiaca di sistole e diastole, si alternano le epoche in cui sembra bastare il fiuto a epoche cui sono necessari più ampi polmoni. Alla fine, Debenedetti si è scoperto il respiro adatto a scrivere una essenziale storia del romanzo del Novecento nella quale dimostra di avere più fiuto di Serra e più fiato di Borgese.
LA GRANDE
OPERA
«Non vedrò neanch'io la grande opera che tu auguri. Proprio in questi giorni mi sto domandando a che serva questo mio faticoso scrivere: non a me, non agli altri. Se mi dicessero che, dopo la mia morte, qualcuno almeno capirà, forse troverei la necessaria perseveranza. Ma, per quanto posso capire, nemmeno questo mi è promesso». Così Debenedetti in una lettera a Saba. Il suo mito personale, che è anche quello con cui il critico legge il mondo e la letteratura, comprende pure questa amarezza e sconforto. Nell’epoca della «probabilità», della particella atomica, non si sa se un’opera è grande e se sarà mai capita come tale. Con ogni probabilità quella di Debenedetti lo è: lo hanno capito tutti. Forse la grande opera Debenedetti l'aveva già scritta prima di questo disilluso 1946, che festeggia sconsolatamente l'anniversario della Liberazione: le prime due serie dei Saggi critici, da quelli su Proust, Saba, Croce, Radiguet, Cocteau, De Sanctis a quelli su Pirandello, Svevo, Bontempelli, Palazzeschi, Papini, Marinetti, Moravia, Moretti, Panzini, D'Annunzio, fanno un grande saggista 147
cui rivolgersi sempre per leggere tali autori: poeti e narratori che fanno esplodere senso verso il lettore dalla quotidianità dello scrivere e del vivere. Di sicuro la scrisse dopo il 1946, con gli altri tre volumi di saggi (dalla terza serie di Saggs critici a Intermezzo, al Personaggio-uomo). Non era bastato, forse non sarebbe bastato. E allora ci fu la sua «epifania», la rivelazione del suo destino: quei quaderni delle lezioni universitarie dove l’«umile» e quotidiana attività del professore va ad incontrare la «verità» lungamente cercata, e raggiunge lo scopo che ormai non osa più dichiarare: il mito «personale», senza il quale non c’è il capolavoro, quello che nasce dalla coincidenza di progetto e destino: I/ rorzanzo del Novecento. Era previsto dal mito che egli non potesse riconoscerlo. Debenedetti non avrebbe voluto che si pubblicassero i corsi di lezioni che, stampati postumi, sono diventati testi insostituibili per capire il Novecento. Vinceva proprio mentre perdeva. Come Zeno, il fratello vincente dei protagonisti dei romanzi di Svevo, quello a cui la vita all’improvviso si mette a dare carezze, invece di cazzotti.
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LA TRAGEDIA DI TRISTANO
C'è un dualismo, secondo Debenedetti, all’origine della cultura d’Occidente: quello fra Platone e Aristotele. Un dualismo che è un conflitto nel quale ancora adesso si è costretti a prendere posizione e nel quale una volta vince il primo, un’altra il secondo. È una guerra che non finisce mai, pena l’inaridirsi della cultura, che in fondo su questa alternativa campa.
Un dualismo fecondo, anzi,
come si vedrà, prolifico. Debenedetti notoriamente era «amico» di Platone. Più amica, però, era la verità, come ebbe a scrivere quando, sul
problema della scienza prese le distanze dall’idealismo di Croce. Non che la verità coincidesse con le dottrine di Aristotele, come negli anni di insegnamento all’Università di Messina gli voleva far credere Galvano Della Volpe, che stava riabilitando la poetica del Cinquecento e il concetto di struttura in Gramsci e stava completando la Critica del gusto; cioè un’estetica neoaristotelica e neorazionalista. . Della Volpe, non glielo nascondeva, lo considerava un irrazionalistà: magari per via della scelta di Debenedetti a favore della «diabolica» psicoanalisi (siamo negli anni Cinquanta e i due professori sono entrambi comunisti, ma praticano l’eresia del marxismo) e di una scatenata passione per la musica, arte difficile da ridurre alla ragione. E Debenedetti a dirgli che lui non cercava altro che mettere ordine nel disordine e illuminare il buio e impri149
gionare i mostri con cui diventa figurativo il caos. Irrazionale non è prestare forma all’informe bensì rimuoverlo, censurarlo. Debenedetti all’arte chiedeva, come Savinio, d’essere capace di dare forma all’informe. Che è il suo modo per essere insieme d’accordo con Aristotele e Platone. La formula riassunta nell’espressione «forma dell’informe» Debenedetti se la ritrova in testa mentre sta analizzando Verga. E lì il critico s'imbatte nella tradizione in cui si riconosce: una staffetta Schopenhauer-Nietzsche-WagnerFreud e altro «platonismo». Quattro dualismi: quello schopenhaueriano di volontà e rappresentazione, quello nietzschiano di dionisiaco e apollineo, quello wagneriano di orchestra e scena, quello freudiano di inconscio e coscienza. Ma in Debenedetti ce ne sono molti altri: a cominciare da quello di sapienza («che attribuiamo ai grembi, alle matrici dove si maturano i destini») e saggezza, che è un grado dell’intelligenza. Saggio, per esempio, è Verdi; sapiente è Wagner. Il quale «mantiene di continuo alla presenza dei nostri sensi l’informe, lo strato germinativo degli atti» attraverso la «plasticissima» forma che è la musica. Nel melodramma di Wagner trionfa proprio la forma dell’informe: «perpetua promessa di una rivelazione fatta all’intelligenza di ciò che è al di qua, o al di là, dell’intelligenza». Il Novecento di Debenedetti nasce qui, nel secondo
Ottocento, e qui nasce la tipologia della cultura che il critico propone per il nostro secolo. I futuristi chiedevano l’informe come forma? Tra le avanguardie sono i surrealisti, testimone Savinio, che contrappone la «forma dell’informe». Anche questa è una guerra che non finisce mai, se è vero che sono dalla parte dei futuristi le neoavanguardie degli anni Sessanta. Debenedetti temeva le avanguardie (d’altronde non amava nemmeno iveristi, né i crepuscolari, né ineorealisti o altri movimenti e correnti): secondo lui, non serviva
un doppione del disordine; il problema era di come nutrirsene per capire il «destino» dell’uomo, per attingere alla «sapienza» con cui Verga o Wagner avevano composto i «racconti favolosi» cui è consegnato il crepuscolo degli dèi. 150
Wotan abbandona la terra, come dire che all’inizio del
Novecento l’uomo si scopre orfano; il padre è scomparso o è morto. E sarà d’ora in poi letteratura di orfani: Kafka, nonché gli ermetici, i nipoti di Mallarmé, i poeti che con musica sapiente registrano la «perdita della presenza», l’assenza del padre in un mondo che insieme a lui ha perso il criterio con cui stabilire valori definitivi. Orfano quindi è anche ormai il critico, privato di ogni norma oggettiva con cui dire cosa è bello e cosa è brutto, cosa è falso e cosa è vero. E Debenedetti si impegna nientemeno che a recuperare, o meglio, conquistare la Verità, e recuperare il padre, sia pure un padre che sappia essere fratello dei suoi figli: «Forse desiderava essere il padre». Si elimina il padre, nonché i suoi valori, per sostituirlo al potere, per cambiare i valori. Debenedetti non saprebbe stare senza, come ha sentito dire a tanti nipoti di Nie-
tzsche. Magari senza sapere di averli, come capita a chi nega l’esistenza di un’ideologia. Sono latenti ma ci sono. Tutti i precedenti, nonché i successivi, dualismi aspirano a unità. Quasi come l’amore di Tristano e Isotta: che
desidera «sopprimere tra i due nomi Tristano e Isotta la parola e». Ecco: Debenedetti vorrebbe togliere la congiunzione e tra le parole progetto e destino e fra tutti i precedenti e successivi dualismi. Destino è una parola chiave nella critica di Debenedetti, specialmente fino alle lezioni su Pascoli, cioè fino a quando matura la necessità storica di coniugarla con progetto. È questo il matrimonio del secolo, del Novecento, per dirla con una battuta. Ma intanto è vero sul serio che non basta più attribuire tutta la grandezza di Verga al suo destino, o talento individuale, o vocazione narrativa, come Debenedetti fa, sulla scia di Croce, negando la «conversione» di Verga al verismo. Esaminando Pascoli, deve constatare una «rivoluzione» che conduce l’autore dei Canti di Castelvecchio nelle vicinanze immediate dei simbolisti: rivoluzionari consapevoli, invece che «inconsapevoli», quale invece è Pascoli. C'è stata una rivoluzione dunque e l'hanno compiuta i simbolisti, quelli della 151
definizione più canonica e scolastica prima che in quella più elastica dell’Edmund Wilson del Castello di Axel. In altri termini Debenedetti ha ritrovato l’importanza della storia nella letteratura, che l’«allievo» di De Sanctis non ha mai trascurato ma che ora va oltre il semplice ritorno. Stavolta la storia torna come struttura linguistica che ha il mandato di rappresentare un’epoca. Chi riesce nel Novecento ad ottenere quella «coincidenzadi progetto e destino» nella quale va indicato il contrassegno della grandezza non solo di un artista, ma anche di un progetto culturale, di una corrente letteraria, di un movimento intellettuale, vincerà, farà un «capolavoro». Una coincidenza del genere gli tocca ammetterla a proposito di una corrente di poesia che aveva amato anche meno di tutte le altre, cioè l’ermetismo. Sono gli ermetici ad avere «progettato» il linguaggio da cui passa il «senso del destino» dell’uomo d’Occidente fra le due guerre? Non certo con l’esclusione di poeti che gli sono particolarmente cari quali Saba e Penna, nonché Noventa, il cui dialetto è la risposta di più radicale estraneità al fascismo. Tuttavia è scattato in Debenedetti un meccanismo inter-
no perché egli ora si riconosca nel linguaggio ermetico. Il suo «destino» lo trascinava irresistibilmente verso una poesia che si caratterizzava come poesia dell’orfano? Sembra una favola ma potrebbe essere la verità o, meglio, il suo mito personale. Che in ogni modo assai più compiutamente si realizza nel progetto della narrativa espressionistica, quella dove ritrova Kafka e dove scopre Federigo Tozzi: una vera e propria rivelazione, la più originale «epifania» del Rorzanzo del Novecento. L’aveva ricordato un critico espressionista. Nella simbolica dello spirito si guarda attraverso i due occhi così: il destro guarda verso l’esterno, verso la realtà sociale (l’avevano fatto il realismo e il naturalismo dell’Ottocento), il sinistro guarda verso l’interno, nell’inconscio, nel profondo. L’occhio sinistro è l’occhio dei visionari e dei sognatori, dei frequentatori di incubi e di fantasie mostruose. La deformazione espressionista, i «brutti» di Debenedet-
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ti. Il quale non ha atteso gli espressionisti per sapere che stava dalla parte opposta del verismo (sorprendente ecce-
zione: il «simbolismo» del naturalismo di Zola). L'occhio sinistro, la visione, l'immaginario sono il suo «destino»: il
progetto è la psicoanalisi, la quale gli «impone» di guardare verso l’interno, se vuole ritrovare il senso, e magari il padre, o persino la verità o il suo simulacro. Tocca essere espressionisti, se si vuole essere assolutamente moderni. E destino che ci si serva della psicoanalisi, che si guardi con l’occhio sinistro: che fra l’altro vede meglio dell’occhio destro anche nel mondo esterno. L’occhio sinistro insomma mette a fuoco le due viste, o meglio la vista e la visione. Visione è vista? La critica «visionaria» di Debenedetti è «tangibile»: parola chiave che fa toccar con mano quanto sono concrete le sue astrazioni.
Per Debenedetti la critica è racconto. È questo il suo destino prima ancora di essere un progetto. Uno dei suoi primi racconti, quelli di Arzedeo, contiene ilprimo saggio su Montale. Era «destino» del Novecento che stavolta toccasse fare la critica dall’interno, un viaggio guidato dalla psicoanalisi. Dalla superficie verso il fondo, un movimento verticale, o meglio una spirale che trapana il testo fino alla fonte, dove si ricostituisce l’unità tra autore e opera. Trovarela «perla»: detto meno «splendidamente», ad esempio, il complesso di castrazione che tiene apertalla ferita, col tessuto della narrazione sempre lì dolorante, o teso spasmodicamente dall’angoscia per il senso di colpa che il protagonista del Taglio del bosco di Cassola ha per la morte della moglie. Il racconto critico di Cassola, il romanzo critico di Tozzi, anzi il melodramma critico, di Verga, Pascoli, Montaigne, Tommaseo, Pirandello.
Azzardiamo: la critica di Debenedetti «professore» è un «melodramma critico». É un’identità che ha il suo fondamento in questa tesi di Debenedetti: gli italiani, che non hanno i grandi romanzi francesi, inglesi, russi, li hanno sostituiti col melodramma. Conseguenza, se così si può dire, logica: è un «obbligo», ma Debenedetti aspira anche a scrivere un melodramma. Non tanto di Verdi 153
quanto piuttosto di Wagner. Al quale «invidia» il «cromatismo», quel «perpetuo rinvio della cadenza», il mezzo per «ottenere il massimo di informe attraverso la forma», che è anche la più appassionata aspirazione della sua prosa di «sapiente» scrittore e critico del Novecento. Un melodramma in cui ci sono gli acuti più audaci, il connettivo più colloquiale e prosastico, le più passionali romanze, e l'abbondanza di metafore che, secondo Rousseau, la passione genera. I/ romanzo del Novecento è un grande melodramma critico, uno di quelli che convalidano l’opinione debenedettiana che «l’arte è magia» e guai a chi si limita a calcolare gli ingredienti. L’incognita della scrittura fa saltare i conti a chi cerca solo il critico in Debenedetti. Un critico-scrittore che esercita una malìa singolare sui lettori. E col melodramma che l’arte italiana è riuscita a comunicare con il popolo. A Svevo, Debenedetti rimprovera di non essere popolare, di risultare ostico al lettore medio. Secondo lui, chi decide, alla fine, della grandezza di un’o-
pera è la «sartina». Al cinema: bisogna stare «con lo stetoscopio sul cuore del pubblico». E per il cinema sognava un melodramma «panteistico». E l’arte innovativa, d’avanguardia? L’arte o è innovativa o non è arte grande, ma a misurarla dovrà essere sempre la «sartina», il «popolo». Così Debenedetti risolve uno dei basilari dualismi d’oggi, quello tra arte d'avanguardia e cultura di massa. Meglio ancora lo fa scrivendo le lezioni universitarie, nelle quali il più originale, aggiornato e penetrante discorso critico diventa narrazione «popolare». I «racconti critici» che sono i saggi di Debenedetti li capivano e li sentivano in pochi; i volumi tratti dalle lezioni vengono letti dalla massa dei lettori come romanzi, ovvero come «melodrammi critici».
Vale per Debenedetti l’obiezione che Barthes ha rivolto alla psicocritica di Mauron? È ancora una psicoanalisi «centrale», fondata sull’infanzia, sull’Edipo, sulla restaurazione del padre e di una gerarchia? La struttura che Debenedetti «sceglie» come rappresentativa del nostro, o 154
se vogliamo come propria, è decentrata. Un esempio: il «suo» Palazzeschi, «fa centro fuori dal centro». L’Essere
esiste per Debenedetti, ma abita in periferia, ai margini, nel mucchio degli individui, dei fatti, degli oggetti incolori e insignificanti. Quando lo scovi, brilla e squilla, ma non restaura la vecchia gerarchia meccanicistica. Se ci prova, Debenedetti lo strozza. Rifiuta come meccanicistico Tre croci, un romanzo che così a fiuto ha una sua antica
bellezza, ovvero un suo terrificante orrore per il destino dei tre fratelli che uccidono il padre, o la sua memoria, mangiando. Tre croci è «freudiano», junghiano (come il critico) è Cor gli occhi chiusi, il romanzo di Tozzi sul quale Debenedetti ha aperto la mente ai lettori. C’è un'attività culturale che possa fare da guida, da padre, da madre alle altre? Debenedetti si comporta come se fossero sorelle la letteratura, la scienza, la psicologia e la sociologia. Quattro sorelle alla ricerca della Verità, che può essere solo una. Privo di Verità e di un criterio con cui trovarla, Debenedetti interroga alla pari, con quasi pari cultura (viene da studi matematici a livello scientifico e non è certo un dilettante di psicoanalisi) tre scienze per confrontarle con l’«inconsapevole» letteratura. Come si comporta il personaggio-uomo del Novecento? Quasi come la particella atomica ignora la direzione e velocità; la psiche di cui ha descritto il percorso meglio il «probabilista» Jung che non il «meccanicista» Freud; l’individuo è oppresso da molteplici e oscuri fattori di alienazione nella società analizzata dall’Immzaginazione sociologica di Wright Mills. Le tre scienze trasmettono la stessa struttura «egalitaria», cioè che pareggia tutti gli elementi dello schema fino a quando non esplode un dato qualsiasi, la luce, ad esempio, della particella atomica, un segno rivelatore della personalità di un individuo per un
improvviso impatto psicologico e storico. Così agiscono i personaggi di Joyce, Pirandello, Kafka, Proust, Tozzi, Moravia, Palazzeschi, Bontempelli, Cocteau, Zavattini, 155)
Landolfi e altri. Una letteratura verificata su tre scienze che trasmettono lo stesso messaggio. Intendeva forse Debenedetti risolvere il dualismo di scienza e letteratura con la formula audacissima: letteratura è scienza? Sarebbe un po’ spericolato sostenerlo ma, se egli vuole far coincidere Verità e Bellezza (proprio così, con le iniziali maiuscole, la sua prosa è spesso maiuscola di «piena» eloquenza), non deve essergli mancata l’ambizione di provarsi a dare alla letteratura un fondamento di verità più solido di quello che gli veniva dall’intuizione e dal gusto. Che la letteratura è anche storia non gli pare poi tanto scandaloso pensarlo, e certo gli piaceva che Mann avesse trovato la coincidenza tra psicologia e mito. Cosa c’è di meglio che poter provare che un mito ha valore scientifico? Debenedetti non si tira indietro, e naturalmente offre se stesso per la prova. E la scienza sembra dare ogni avallo. Così il mito di Debenedetti sembra vero. In ogni modo lui si comporta come se fosse vero. Anche il «come se» di Vahinger può diventare una certezza, nella testa di Debenedetti. «Andate avanti e finirete per crederci». Il fiuto di Serra, il fiato di Borgese. Alla critica, orfana di De Sanctis e di Croce, servono di più il gusto o i polmoni? Col solo fiuto Debenedetti non avrebbe mai capito Tozzi. Ci vuole respiro storico per sentire che aria tira nella sua narrativa. Con i polmoni Borgese aveva compreso la grandezza del senese, anche se gli era sfuggita la sua modernità. A fiuto non l’aveva sentita nemmeno Debenedetti, che era partito pensando a un epigono del verismo toscano. Ma il suo fiato, il senso della storia, lo fa arrivare alla novità «inconsapevole» della struttura di Tozzi. E ora anche il fiuto avverte la bellezza di un linguaggio che deriva la propria qualità dalla capacità di dire una cosa mai detta e che gli uomini avevano necessità di sentirsi dire ora e qui. Debenedetti unisce al fiuto di Serra il fiato di Borgese, e così avverte il meglio della letteratura del Novecento. Il mito e la storia: la coppia più difficile da coniugare 156
nella lunga serie di dualismi debenedettiani. «Mito vuol dire per noi oscuri movimenti della psiche, archetipi incorporati in racconti favolosi, perché le parole del discorso logico ed analogico, dell’intelligenza astratta, rimangono ad essi eterogenei, non li sanno, né li sapranno mai riferire». Per Debenedetti chi non trova il suo nuovo mito non è un grande artista. Se non lo trova, lo inventi. «Dio regala solo il primo verso»: il secondo bisogna saperlo costruire. Il racconto favoloso, per diventare eterno, deve essere assolutamente
moderno:
come
inizial-
mente è la «finzione» di Kermode. Senza la storia non maturano le condizioni per la rivelazione di nuovi miti, senza nuovi miti non c’è storia: con la vita lì ferma, imprigionata in vecchi racconti che non ci dicono nulla del nostro destino attuale. Ogni epoca porta i suoi miti al giudizio, se non finale, futuro, degli uomini futuri. Tocca aggiungere un nuovo «proverbio» al deposito cui perpetuamente attingono i lettori. E naturalmente anche Debenedetti, che pretendeva dagli altri il nuovo mito come condizione di grandezza, sa di dover mostrare il proprio nel giorno del giudizio. Era consapevole di averlo trovato, di averlo creato? Il mito con cui Debenedetti fa storia. Una originaria condizione orfana: perdita del padre, dei padri dell’Ottocento. Come distinguere, tra tutti questi fatti divenuti insignificanti, in assenza di un criterio, di una legge superiore? Una realtà minuscola, opaca, trascurabile, sfibrata e disarticolata, buttata lì in basso. Come tirarsi su? Non c'è più nessun senso? Tocca tenersi in disponibilità dinanzi a ogni particolare, a ogni giorno, a ogni persona. Destini in disponibilità, come quello di Tommaseo, o di Debenedetti. All’improvviso una luce, un calore, ed ecco tornata la «calda vita». È esplosa un’epifania, una rivelazione dell'Essere. Può stare dappertutto ma cercatelo in basso, o meglio ancora nel profondo, ma attiratelo con gli insignificanti dettagli della vita quotidiana. Epifania: un umile bambinello diventa un dio. Siamo in attesa, teniamoci in disponibilità, cerchiamo 15
ancora tra le cose e tra le parole. È questo il dualismo da comporre in unità? È possibile far coincidere le parole con le cose? Se ce la fate, vite «insensate» possono ritrovare la «sapienza». La buona sorte può toccare a tutti, tutti possono fare della musica, se ce l'hanno dentro. È Debenedetti a citare questi versi: «Per fare della musica bisogna anzitutto aver dentro della musica». Il critico ne aveva e ci ha fatto sinfonia quando il libretto non era ancora pronto. La sua «inconsapevole rivoluzione» nella saggistica letteraria. Tristano non riesce ad essere Isotta? Nei testi di Debenedetti invece la critica è arte. E racconto, romanzo, melodramma, musica, scienza, psicologia, storia, mito. É solo un mito, ma noi invertiamo la priorità, e facciamola diventare una «finzione», cioè una costruzione fantastica
con cui si scoprono le cose che ci servono. Serve ancora la critica, la scrittura, di Debenedetti. E la sua struttura,
quel suo linguaggio che consente stupore, trepidazione, sorpresa in un giorno qualsiasi, anche nell’epoca più sorda e insensata o dissennata. Chi si muove,
se vive intensamente,
arriva sempre in
qualche posto. Il nome lo si sa dopo, ma è bene conoscere la direzione migliore. Fate una scommessa (per interesse ed erotia, consiglia Gadda) e potreste vincere. Vince così la grande critica. Debenedetti vinse le sue giovanili scommesse su Saba, Proust, Pirandello, Zavattini, Moravia,
Palazzeschi, Bontempelli,
Landolfi, Vittorini, Montale,
Ungaretti, Noventa, Luzi, Penna, Joyce e sui «giovani»
Morante, Cassola, Volponi, Parise, Pasolini e D'Arrigo.
Da una «scaglia» di Horcyrus Orca (o le poesie di Codice siciliano) avvertì che essa apparteneva a un immenso cor-
po narrativo. In cinquant'anni di attività Debenedetti si trovò quasi sempre nel luogo giusto, sull’autore che diceva quello che serviva per tirare avanti. È andata sempre molto avanti la critica con Debenedetti, il critico che ha
trovato più punti fermi. Lui con la storia ha sempre cercato assoluti, massimi sistemi. Debenedetti stesso è uno dei
massimi sistemi della letteratura italiana del Novecento. 158
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IL FANTASTICO LANDOLFI
«L’Italia è un paese dove non si posa mai la cicogna». L’informazione è di Savinio e non riguarda l’ornitologia, bensì la letteratura. Il tipo di letteratura che non frequenta il nostro paese sarebbe in effetti la narrativa fantastica. Savinio pensava a se stesso come cicogna che si era finalmente posata in Italia, sin dagli anni del surrealismo. Ci sono però altre cicogne italiane, altri narratori fantastici, surrealisti e non, anche se il più delle volte fanno stormo dentro le avanguardie storiche (da Palazzeschi a Bontempelli, da Marinetti a Zavattini). La più bella cicogna forse è Tommaso Landolfi, narratore fantastico, sia che lo si voglia considerare surrealista sia che gli si neghi appartenenza all’avanguardia. Ha portato a volo tanti piccoli racconti con cui Landolfi ora risulta un grande narratore. Parafrasando Valéry: la prima storia la regala Dio, il problema è scrivere la seconda. Il primo racconto scritto da Landolfi, Dialogo dei massimi sistemi, narra di un personaggio che, invogliato da uno sconosciuto a imparare il persiano, capisce più tardi che si tratta di una lingua che solo lui sa parlare e scrivere. E una lingua «unica» pure quella di Landolfi, che però non si dà pena di non essere compreso dagli altri. E il solo modo che ha uno scrittore per legittimare la propria attività da quando tutti parlano la stessa lingua. Ha imparato il «finto persiano»? E una 161
finzione che gli corrisponde, solo così può dire quello che gli interessa veramente. Dentro quel linguaggio inventato si è formato un uomo diverso dagli altri. E però sempre uno sconosciuto che ci ha deposto dentro e sigillato un segreto. Un altro personaggio landolfiano si accorge di essere destinato a qualcosa di unico. Il protagonista di La pietra lunare si accorge all'improvviso — è il solo a vederlo e a notarlo — che la gamba della bellissima Gurù finisce in un piede di capra. Figurarsi l'impressione del giovane: che infatti se ne innamora perdutamente. Altri sono i suoi pensieri, ma si può pure pensare questo: c'è un sopra e un
sotto (secondo il modello freudiano del palese e del latente); sotto la massima civiltà, se scavi appena, ritrovi la natura più selvaggia e incomunicabile. Il finto persiano è invece il vero. Anche Landolfi cerca il proprio piede di capra su cui appoggiarsi, ma sa che tanto meglio lo scopre quanto meglio lo nasconde. La grande bellezza artistica comunque mantiene insieme, come nella bellissima Gurù, la sofisticazione più elevata e la naturalezza più bassa. Rovesciate pure Gurù ma il risultato non cambia. Attenti dunque al piede, a come prende piede una vicenda. C’è sempre altro sotto, a terra e sottoterra. Non è solo perché ha scritto La pietra lunare che Landolfi è uno scrittore notturno. Nel secolo scorso i narratori che raccontavano storie fantastiche e orride come le sue, le facevano succedere di notte. L’aveva consigliato anche Poe nel saggio sulla composizione del Corvo. Il terrore frequenta la notte. E invece cosa fa Landolfi? Si mette a terrorizzare i lettori anche con storie diurne, al sole o in piena luce. Sono ormai state illuminate tutte le cause delle antiche paure, s'è fatto giorno sugli spaventi notturni dei personaggi di Hoffmann, di Poe, di Nerval, di Dostoevskij. Non ci sono più ombre dentro le quali i mostri si nascondono in attesa delle tenebre che accresceranno lo spavento degli uomini. Landolfi non lascia un angolo al buio. Si è stancato del mistero canonizzato dalla letteratura degli altri secoli. S'è 162
fatto giorno su quel mistero. Semmai bisogna cercare nella vita d’ogni giorno, nel quotidiano. Se non che, appena piccole bestie domestiche escono da qualche fessura dei muri o delle finestre, mentre intorno si svolgono minuscoli eventi di routine, avviene l'impossibile, e cioè che si comincia a tremare dal terrore, magari per l'apparizione di un innocuo geco (Le /abrene) o di altri animali, dome-
stici o non addomesticabili. Così fa notte dentro il solare racconto di Landolfi, che
pure non ha mai smesso di manovrare le luci da dietro le quinte. Le luci sono artificiali, naturale è il buio. Il lettore sa di essere a teatro, ma non per questo si salva dalla paura. Nessuno può dimenticare che, mentre di qua fa giorno, dall’altra parte ci sono le tenebre. Stanno sotto ed esercitano una forte attrazione. Landolfi dà le vertigini sia con le buie fantasie che con i brillanti dialoghi. Il motivo resta sempre oscuro. Farà mai giorno su questo narratoTer Nella narrativa di Landolfi c’è l’inferno, ma non c’è
nekuia. Magari l’anima è nel profondo, ma il personaggio landolfiano, sdoppiandosi, se ne sta su a parlare del più e del meno, chiacchierando e facendo finta di niente. Se l’anima brucia Landolfi non si dà per inteso, scherza, gioca, si diverte, o meglio adotta ogni diversivo per non far capire che soffre le pene dell’inferno. Lo raggela, magari facendo uso di freddure o altri giochi di parola a mente fredda, ma sempre inferno è. Giocando con le parole, si può dire anche che il narratore arriva in paradiso, proprio quando la sua anima è tra le fiamme. Non s’era mai visto uno tanto paradisiaco nel contegno, mentre nel suo interno c'è l'incendio. Se Landolfi non va all’inferno, è l’infer-
no che va da Landolfi, in superficie. L’inferno è dappertutto: malebolge, diavoli, fraudolenti, Ulisse. Non si finisce mai di cercare, non si finisce mai di barare. Landolfi non indovina, parla sempre d’altro. I paradossi di Landolfi sono proverbiali. Si nasconde per potersi rivelare diverso da quello che sente di «non essere» in natura: si allontana per potersi meglio avvicina163
re a un altro che la parola non riesce a esprimere; è fedele al termine preciso per poterlo meglio «tradire» con un senso che sfugge ai significati; scherza per arrivare a qualcosa di serio in cui credere; frequenta l’inverosimile che poi sia capace di essere o sembrare vero; articola ragionamenti assurdi per guidarli verso una conclusione logica alternativa; sconfina per trovare il centro. Dopo avere sperimentato tutto, Nessuno in Faust ‘67
(che ha vinto per un caso non fortuito il Premio Pirandello di teatro) si vede premiato da Dio col paradiso perché non ha mai desiderato essere «qualcuno». Ci sono tanti Landolfi, ma lo scrittore non si è riconosciuto in nessuno di essi. E da parte loro i lettori non l'hanno riconosciuto per quello che è. E impossibile conoscersi, è impossibile riconoscersi. È tutto una fuga dall’Essere. Forse non esiste. Bisogna però cercare ancora. E un gioco, non resta che il gioco. E la letteratura. Che è anch’essa un gioco. Decide il caso. Solo giocare è una necessità. Come in un racconto kafkiano, la parola scritta è l’unica che può entrare in paradiso, ma essa è l’unica cui è negato l’ingresso. La letteratura non ha senso, merita di morire, ma è anche l’unica cosa di cui Landolfi non possa fare a meno. La letteratura è un gioco molto serio. Scherzi a parte, se ne può morire. O almeno così pare. Una finzione, ma guai a togliere la maschera. Vedresti che vuoto. Le forme classiche come vesti, come travestimenti. Landolfi
si denuda e tuttavia il re non è mai nudo. Non è letteratura per bambini. Landolfi è un narratore di confine: tra l’inverosimile e il reale, tra l’insignificante e l'importante, tra il blasfemo e il sacro, tra il tragico e il comico, tra il divertimento e la
serietà, nonché fra tutte le altre opposizioni. Che è lì per sconfinare non c’è bisogno di ricordarlo: gli piace essere fuorilegge dall’una e dall’altra parte del confine. Di sicuro fa il contrabbando: con l’ovvia conseguenza che la merce all’esterno può sembrare innocua e quasi priva di valore. Invece traffica in sostanze esplosive, in materia altamente pericolosa, idee da mandare all’erta tutte le guardie di 164
finanza, sia quelle messe a difesa dei beni sociali, sia di quelli morali e religiosi. Landolfi ha una cultura «sconfinata» ma come sarebbe bello per lui trovare il limite, l’altolà del guardiano. Landolfi prova a entrare fidando nella propria classe, quella di un gentiluomo che parla la migliore lingua della tradizione; oppure tenta di corrompere pagando con moneta fuori uso, ma pur sempre d’oro. Può capitargli perciò di essere accolto con i massimi onori dalle autorità, sedotte dal suo argomentare squisito, dal suo eloquio aristocratico, dalla sua ideologia di conservatore. Con tali salvacondotti Landolfi può permettersi di fare il contestatore. Ne ha lo stile e il linguaggio. Pampaloni vi ha registrato «contestazione stilistica». È nel suo stile praticare la trasgressione attraverso le parole. E oltre. Non si ferma dinanzi a nessuna trasgressione, se questa lo conduce dove c’è un tabù; nessun interdetto gli impedirà di giungere a contatto della legge; si abbandona alla fatuità e al nonsense che lo guidino verso un significato in attesa della combinazione con cui si apre la cassaforte che custodisce i valori. Perché vengano fuori, ammesso che ci siano, bisogna provocarli col contrario, cinismo, sacrile-
gio e quant’altro serve a rendere intollerabile la trasgressione, peggio ancora se viene compiuta con indifferenza, ironia, dileggio o gioco. Perché i suoi non sono «giochi proibiti»? Si paga di più per i delitti contro il mondo che non per quelli contro la vita? I personaggi di Landolfi compiono incesti, uccidono, dicono messe blasfeme, offendono Dio con viaggi che gli insidiano il cielo, bestemmiano la vita negandole ogni senso, irridono ogni istituzione che non sia il vocabolario. Il narratore le induce in tentazione finché esse non dichiarano il significato cui erano destinate. E tuttavia la parola di Landolfi mantiene il segreto. Se ne può fare la traduzione? Solo a tradimento. Landolfi ha tradotto da almeno tre lingue. Sono le sue fra le traduzioni più fedeli. Tradurre: come trasferire un prigioniero. Deve trasferire da una lingua all’altra le paro165
le, e col corpo l’anima, di uno scrittore. Se il vero problema è quello di tradurre la voce, ebbene Landolfi sa rifare la voce di tutti i suoi prigionieri. Traduzioni, suggestioni. Trasferire di qua uno scrittore che nella sostanza resterà di là. Fa analogie anche chi scrive nella propria lingua. Un ambasciatore che non sa quello che dice. Ambasciatore non porta pena? Ambasciatore eccezionale, Landolfi invece «porta pena». Il prigioniero non gli è mai scappato. Così ha trasferito in Italia, con le buone parole, Novalis, Dostoevskij, Puskin, Gogol’, Tolstòj e Hoffmann. Si è fatto carico di tutte le loro pene. Il carceriere è anche un carcerato. Gli riesce bene l'imitazione. Ce l’ha nel sangue. Si è iniettato tutti gli stili. I suoi libri non sono scritti col sangue bensì con l’inchiostro. Un inchiostro simpatico? Un giorno scomparirà l’antipatia per questo narratore che sapeva trovare la parola per ogni cosa. Mostrava la lingua come pochi scrittori italiani. C'è anche la smorfia. Interpretatela. In quattro lingue Landolfi vuole dare l’anima, «il fondo di sé».
Tommaso Landolfi fu un grande traduttore. Lavori fatti per campare che Landolfi utilizza per scrivere e per vivere. Si allenava, oltre che su quelli nazionali (Dante, Leopardi, Pirandello, D'Annunzio), anche su stili di altra lingua francese, tedesco, russo. Traducendo Dostoevskij (Le memorie del sottosuolo) ne fu contagiato o magari incoraggiato a mantenere i contatti con i bassifondi, siano essi infidi sottoscala di antichi palazzi o bui ripostigli della psiche. C'è da stare attenti al sottosuolo della sua narrativa ma un’altra cosa può aver appreso Landolfi da Dostoevskij. Quello che Bachtin chiama il Carnevale, l'alternarsi di dissacrazione e di nuova
consacrazione,
lo smaschera-
mento del sovrano, nonché quello del buffone che diventa re per burla. E lecito impazzire ma non una sola volta all'anno, in ogni momento. Secondo lui, è sempre Carnevale, il re è anche un burlone, la consacrazione della letteratura è possibile solo quando la si dissacra, quando la 166
scimmia fa la parodia della messa. Bisogna offendere il dio, se se ne vuole la reazione da cui si capisce che c’è ancora religione. Landolfi è capace di strangolare la letteratura o comunque di prenderla alla gola pur di costrin-
gerla a parlare. I suoi sono, come quelli socratici e menip-
peri, dialoghi sull’estrema soglia. Il condannato a morte confessi, solo così si può essere perdonati. Ma lo si sappia: l’assoluto premia solo il silenzio (La muta). Landolfi confessa mentendo. Solo il dio ambiguo della letteratura capisce che ha detto la verità e così salva, se non l’anima, il racconto di chi ha avuto il coraggio di farsi buffone per poter diventare re, sovrano narratore nell’epoca che una profezia di Baudelaire ha destinato all’impero della comicità. Landolfi ride amaro, è lugubre il suo umorismo, comunque glaciale o inquieto, quasi che non fosse passata completamente la paura per ciò di cui vorrebbe ridere. Scherza ma non è tranquillo. Le risposte che si va dando sulla vita e sui suoi massimi sistemi sono da ridere solo nel senso che sono risibili. In effetti sta camuffando la tragedia che è andata a collocarsi sotto per via della legge di gravità che butta giù le questioni gravi. Fa la commedia per prendere in giro la tragedia. Se si gira, se c’è un cerchio, la tragedia non tarderà a farsi viva. Landolfi la coglie nel momento di passaggio dalla comicità. C’è un grottesco landolfiano che gela il riso e insieme impedisce di farla tragica. Landolfi ha tradotto Puskin, maestro di finzioni letterarie. Vuole imparare se c’è modo di scoprire come si è fatti veramente. Il «fondo di me», come lui dice. Lo aiuta Puskin, il romantico che sapeva di trafficare in maschere. Può capitare, per combinazione, sia che essa sia calcolo, sia caso, il miracolo: una finzione va a colpire il cuore. «Ed io piango sopra le mie finzioni». Ha un cuore anche Landolfi, che pur fa tanto per nasconderlo con ogni tipo di finzione o mascherata. O sono finte anche le anime? E tutta una questione d’interpretazione. Un grande attore
da cima a fondo? 167
Landolfi ha tradotto Novalis per arrivare al fondo. In che terreno si sono incontrati due scrittori così diversi? Forse al tavolo da gioco, passione principale di Landolfi. Novalis infatti dà del gioco una definizione fatta per piacere all'autore de La bière du pecheur, «Giocare è fare esperimenti con il caos». Anche Landolfi va a stuzzicare continuamente il caos. O forse succede il contrario, e cioè che sia il caos a provocarlo con la sua urgente presenza sotterranea. Il problema è quello di imbrigliarlo sperimentando le forme in cui esso accetterà di manifestarsi. Landolfi è della generazione di coloro che inseguono la «forma dell’informe» raccomandata al Novecento da Savinio, dopo la futurista o surrealista immersione nel caos. Landolfi, è stato detto, è un «informale con figure». Sul suo tavolo ci sono delle belle figure ma l’informe dà colpi di coda. Attenti dunque ai bassi istinti. Anche a quelli alti però. Chi avrebbe detto che Landolfi avesse un così prepotente istinto paterno?
Landolfi sa che tutto è stato pensato e che tutto è stato scritto. Nel suo caso si può dire anche che tutto è stato letto. Sembra veramente che Landolfi sia passato attraverso la maggiore letteratura d’ogni tempo e paese. Chi gli ha fatto l’analisi del sangue, cioè del linguaggio, ci ha trovato tracce di autori francesi, russi, tedeschi, inglesi e americani. Chi ha fatta la sintesi, ha visto che Landolfi ha messo
in circolazione un linguaggio che è tanto più suo, quanto più sembra fare il verso agli altri. C'è qualche sua bella poesia. Il bello della sua poesia, e della sua narrativa, è che c’è sempre un altro a intrattenere il lettore. Non ci vuole la fantasia per pensare ad Edgar Allan Poe ricordando i racconti dell’orrido di Landolfi. Si può immaginare però che gli piacesse anche la Lettera rubata. Anche la lettera di Landolfi è sotto gli occhi di tutti: sintassi scorrevole, lessico canonico da vocabolario, informazione che non potrebbe essere più chiara. L’aveva detto Dupin: «Non bisogna cercare altrove ma in altro modo». Tuttavia in Landolfi si trova subito la «lettera», ma resta quasi impossibile trovare il senso. Debenedetti ha propo168
sto la formula critica più convincente: in Landolfi «il massimo della chiarezza è al servizio della massima procurata oscurità». Un simbolista? Un ermetico? Non «alla lettera». E già altrove e va cercato in altro modo un narratore consapevole di essere stato rubato a se stesso. Se si offre come ostaggio, manda un sosia. Resta libero, ma resta
anche all'oscuro. La lettera è sempre bianca. Landolfi, come
desideravano Savinio e Debenedetti,
dava «forma all’informe», tuttavia non è proprio che incateni l’informe e lo trascini di qua imprigionandolo nelle figure di animali domestici che frequentano la sua narrativa. Di qua è visibile solo il simulacro, la maschera con cui l’informe diventa presentabile. Che sia presente non c’è mai da dubitare, lo si sente e trema la forma che lo
nasconde mentre lo svela. L’informe di Landolfi non rispetta le forme, come invece sembra fare, ma trascende, straripa, invade l’intero spazio. Un’invasione degli alieni? Di sicuro circola nelle sue forme un alienato, un essere
che è schiavo di un’energia prepotente inintelleggibile. La forma dell’informe di Landolfi non aiuta a capire cosa succede di là, parla a nome di un padrone che non può essere ridotto alla ragione. Non vuol sentire ragioni, anzi semmai fa sentire la propria forza inconscia anche ai pensieri. Pensieri al servizio dell’impensabile. Che fa Savinio, ad esempio ne I/ signor Munster di Casa «La Vita», con le sue fantasie surreali? Racconta fatti impossibili per ricavarci idee originali e dirompenti da immettere nel pensiero contemporaneo. Era il suo modo di essere scrittore «civile», anzi «super-civico». Invece
Landolfi non potrebbe essere più «incivile», anche se i modi non potrebbero essere più eleganti e nobili. Non sono nobili le sue intenzioni, tanto meno i risultati dei
suoi ragionamenti. Non desidera rendere ragionevole l’arbitrario e l’illogico. Semmai provoca l’irrazionale a farsi sentire nella sua violenza originaria, soffocandolo con. le buone maniere. Il pensiero di Landolfi è «figurativo», nel senso che rispetta rigorosamente le forme della logica; ma si tratta 169
di mostri logici, tele di ragni giganteschi che irretiscono e portano in superficie concetti formidabili. Bisogna saper convivere con l’irrazionale, con l’arbitrario, con l’altra logica. È idea irragionevole? L’irrazionale non risponde di sé, non scende a patti, è troppo forte e lo fa sentire. Landolfi rinuncia a conquistare l’irrazionale e l’informe. Sa che non si sfugge ad essi, che sono un’energia incontrollabile e inaccessibile. Inutili le interpretazioni della psicoanalisi, vane le spiegazioni dei filosofi che volessero mettere in chiaro quello che è destinato a essere sempre oscuro. Landolfi, invece di dare la testa sul muro, fa buon viso a cattivo gioco. Ha capito che può vincere pure lui a questo gioco: a darsi una bella forma che non cederà il senso, nemmeno a lui, che sarà costretto a ritentare la prova. Con l’informe, con l’irrazionale, col caos fa un compromesso
con cui vivranno entrambi. Finché vivrà,
rispetterà la forma. La forma di Landolfi sa di essere al servizio dell’informe. Anche per questo c’è sul viso quel sorriso ironico, beffardo e misterioso. E fedele espressione di un mistero che non capisce e che non tenta di interpretare. Quando lo fa, con Rien va e Des mois, la forma ha incontrato quelli che ora, vita in mano, sembrano essere i significati di cui era alla ricerca. Sarà anche in forma nell’autobiografia, ma Landolfi non può pensare di avere la verità in mano. Tutto spaventa Landolfi. O meglio, all’inizio non lo spaventa nulla. Solo che avverte il pericolo in ogni cosa. Tenta di distrarsi, sta in mezzo alla gente, conversa, se ne
sta buono dentro la vita quotidiana, ma è inquieto, in attesa, come sospeso, accerchiato. Il «nemico» può apparire dappertutto. È dietro ogni figura rassicurante, sotto ogni oggetto, potrebbe manifestarsi in ogni momento. Anzi, mentre uno chiacchiera, esso s’è fatto sentire. Qualche volta si fa anche vedere, in sembianza d’animale
domestico o come «mostro» (il ragno con la testa d’uomo). Più spesso fa sentire la propria natura «mostruosa» o sotto l'aspetto dell'animale di casa, geco, blatta, topo, o sotto una persona o cosa trascurabile e inoffensiva. Persi170
no sotto una parola che uno stava accarezzando come un gatto. Non bisogna guardarlo negli occhi: se no ci si può vedere il diavolo o una forza oscura che attira l’attenzione al punto di far diventare insignificante figure, oggetti e parole. Landolfi però può essere posseduto dal demonio. Finge? Anche, ma la sua frase è molto spaventata, ha i brividi, è febbrile, scotta, delira. Non sa quello che dice il «dialogo» di Landolfi. Debenedetti ha scritto che in Landolfi «il massimo di chiarezza è al servizio della massima procurata oscurità, anzi occultamento». Per estensione: l’ordine è al servizio del caos: l’artificio è al servizio dell’autenticità; la forza è al servizio dell’informe; la comicità è al servizio della tragedia; il gioco è al servizio della realtà. E stato detto tutto su Landolfi: anche che è un narratore «sperimentale».
Le premesse
ci sono quasi tutte, a
cominciare dal fatto che si affida a ogni linguaggio possibile chi non ha nulla di certo da esprimere. O almeno così crede uno che frequentava il «nulla»: sia pure per scovare qualcosa cui aggrapparsi per sopravvivere. Lo sperimen-
tale può credere nel nuovo, e invece Landolfi pensa che tutto è vecchio, anzi antico, insomma è stato così da sempre come le strutture mentali dell’uomo. Ebbene, poi sperimenta il vecchio, i vecchi linguaggi egregi che nei secoli precedenti hanno ricavato o costruito i connotati dell’uomo che è ancora in circolazione nel mondo. E allora afferra alla gola il linguaggio della recente o remota tradizione letteraria e li costringe a dar voce alle idee e alle parole che stanno in bocca o in testa all'uomo d’oggi. Come Gogol’ con il fantoccio di gomma che è sua moglie. Tra le sue fonti si elencano i nomi dei maggiori narratori e poeti degli ultimi due secoli. Cercò tra essi se qualcuno facesse al caso suo, aiutandolo a tirar fuori la sua «vera personalità». Era sempre lui tutti quegli «esseri» che
si era sentiti congeniali leggendoli e commuovendosi? Troppa grazia davvero, e troppo di troppo Landolfi ci mette per trovare il fondo di sé e per provocarlo a manifestarsi dal luogo dove era andato a ficcarsi. Egli carica assai AA
certi linguaggi, specialmente quelli romantici; che infatti arrivano a caricatura, non si sa quanto volontaria. Landolfi è eccessivo fino a ricavarne sazietà e ridicolo. Il miscredente che è sempre chi esperimenta linguaggi «arbitrati» non dimentica di scrivere con inchiostro, ma aspetta che in mano esso gli diventi sangue. Diventeranno mai gocce di sangue tutte le gocce di inchiostro di cui si è nutrito leggendo romantici, realisti, fantastici, surrealisti, grotteschi ed espressionisti, ermetici e ultraisti? Landolfi sperimenta inchiostri e veste nero, con molto terrore; e vede anche rosso, con gran furore. E spesso vede bianco, il foglio bianco di chi non sa che dire. Meglio il silenzio dopo tante belle voci? Epigrafe: «In molte parole tacque». Parole che nessuno prima aveva scritto così, sul marmo. I generi letterari di Landolfi sono cinque: narrativa, poesia, teatro, saggistica, la memorialistica. Potrebbero esser di più se si sdoppiasse la narrativa in romanzi e racconti. C’è differenza, non sono proprio la stessa cosa, anche se non bisogna sottilizzare. O meglio, trattandosi di uno scrittore di tale dimensione è indispensabile andare per il sottile. La misura migliore della narrativa di Landolfi è il racconto, un genere che nel suo caso è minore solo perché possa essere contenuto in testa. I suoi racconti, più che in campagna, in un palazzo, in un casinò o per la strada, sono ambientati nel suo cervello. I ragionamenti di Landolfi vertono su poche questioni di vita e di morte, non hanno bisogno di grandi spazi, sia perché sono elementari, essenziali e astratte, sia perché si arrotolano su se stessi, si arrovellano e magari si arroventano, come se cer-
cassero di diventare un liquido per seguire i nervi che si irradiano per tutto il corpo. Landolfi ci soffoca dentro anche se fa buon viso al suo cattivo gioco. Chi l’ha rinchiuso in queste piccole celle che sono i suoi grandi racconti?
Ci sono anche i racconti «lunghi», come Racconto d’autunno e Le due zitelle, che hanno momenti di grandezza. Ce li ha pure il romanzo La pietra lunare, ma più frequenLiz
ti ancora e più roventi sono quelli di La bière du pecheur, che Debenedetti legge come romanzo e Calvino come raccolta di racconti. Non dilunghiamoci: manca il grande romanzo a Landolfi. Però non facciamola lunga: è comunque un grande narratore uno che ha scritto tanti bei racconti brevi e lunghi. Se è un romanzo La bière du pecheur, è il migliore. Dunque nulla da dire. Il foglio bianco. Il silenzio. Se fosse possibile, si sentirebbero solo gli scatti del cervello che cerca qualcosa cui appigliarsi. All'improvviso una parola chiede che le si lasci fare, ci proverà lei a condurre in qualche posto, in qualche senso. Avuto il nullaosta, la parola si mette in cammino in ogni direzione, scegliendo su ogni suono o significato. A caso, o con calcolo, per connessione, nel rispetto della sintassi canonica e di ogni legge grammaticale antica e moderna, nonché del vocabolario vecchio e nuovo. Non c’è disegno, cominciando dal fatto che manca il progetto e non c’è nessuna idea da confermare. La ricerca non potrebbe essere più libera e più leggera: la musica è spesso quella di un balletto. Tuttavia lentamente si sta formando una figura con quei materiali sonori occasionali e caotici. La parola iniziata con tutte quelle che ora le fanno compagnia avverte una svolta, o meglio, una curva. Talvolta la curva insegue una circonferenza per trovarle un fermaglio con cui chiudere un racconto dove era stato aperto (il silenzio iniziale, la morte finale ne La mattinata dello scrittore). Altre volte la
curva è attratta giù, piega verso il profondo come spirale o vortice che inghiotte tutte quelle «parole traditrici» che nulla avevano e al nulla farebbero approdare, se ci fosse. Non si può dire nulla al riguardo. Gadda indica in un poliedro la sua figura preferita, quella che indica la quantità di ordine geometrico possibile dentro il caos infinito. Savinio predilige l'ordine quadro, che quando si «consolida» diventa cubo. In entrambi i casi figure che hanno spigoli e angoli acuti incaricati di ferire quanto sta intorno. Landolfi ama invece il cerchio in cui gira l'eterna ripetizione. Quasi cita Galilei (Il dialo173
go dei massimi sistemi, magari con ironia), ma è un tole-
maico. La terra è rotonda, è un globo, ha un centro, due poli e un numero incalcolabile di punti periferici. La narrativa di Landolfi si colloca dentro la storia della Metamorfosi del cerchio raccontata da Poulet. Il suo cerchio ha però qualche frattura, il suo globo è corroso e bucherellato. La terra di Landolfi è un corpo celeste abbandonato da Dio. Landolfi sa di giocare nel cerchio, nel vortice della roulette, che gira veloce su tutti i numeri. Dopo essere stato tanto attento al vocabolario, ora questo può essere trascurato, si può correre con le parole. Il numero passa davanti più volte senza che lo vedi e lo distingui: come a una lettura rapida e causale della prosa di Landolfi. Ma se blocchi la frase in un qualsiasi punto ti accorgi subito che un numero, una parola, è di gran valore. In un racconto di Landolfi c’è sempre un mucchio di bei significati che potrebbero avere buon corso anche al di fuori della letteratura. Sarà pure cervellotico ma anzitutto questo narratore ha un gran cervello, appuntito e puntuale. Ha buttato sul tavolo verde e sul foglio bianco idee che sembravano da due soldi e che ora possono valere un tesoro. Si intendeva di parole e di cose ma sapeva che avrebbe sempre perso nel confronto. La disperata e allegra intelligenza di Landolfi sa di girare in folle. Ha pure lui la sua «corda pazza», e non è la sola. Il cerchio di Landolfi o il globo è incrinato da una deviazione, da un evento che è una frattura della logica e della verosimiglianza? Ebbene, il narratore è subito all’opera per restaurarlo, rimetterlo in ordine, e farlo girare come ha fatto per millenni. Prende il filo del discorso dove esso si è rotto e comincia a seguirlo partendo dal punto di rottura. Bisogna cercare l’altro capo, magari arrivare fino in fondo, fare il percorso opposto a quello seguito da chi ha arrotondato il filo. State pensando che al centro del gomitolo c’è il vuoto? Deve aver pensato o visto anche il narratore, ma non ci si può fermare a questa visione scontata. Finalmente trova l’altro capo del filo. Ci riesce sempre, non c’è reticolato logico
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che non sappia superare, nodo semantico che non sappia sciogliere. E allora eccolo a rifare il gomitolo. Natural-
mente è capovolto, è stato ribaltato il discorso, le cose
filano ma in un modo sconcertante e folle. Per aver visto il vuoto? A dirlo così è troppo facile. Però è facile anche che il protagonista del racconto La mattinata dello scrittore alla fine trovi logico spararsi al capo, cioè alla testa. E così chiude il cerchio. Il mondo di Landolfi non potrebbe essere più rotondo. Naturalmente lo minaccia la ripetizione, che è anche la sua certezza che tutto sta insieme. Questa è la regola, ma Landolfi cerca l'occasione, il fatto straordinario, l’idea
che rompe il normale percorso logico. L'eccezione conferma la regola? Solo nel mondo «eccezionale» seguito da Landolfi. Partendo dall’eccezione, lo scrittore rende coerente con essa tutto il resto. Nel gomitolo (gnommero, direbbe Gadda «napoletano»), cerca il filo che si è rotto e ricostruisce il globo cominciando, cioè mettendolo in fondo, dalla frattura. Il mondo ha la stessa forma di prima, sennonché è capovolto. Non si può capovolgere un globo? Landolfi si mette a testa in giù, vede il mondo rovesciato, il sangue gli arriva alla testa in eccesso, e allora fa il salto per ribaltare la visione e l’idea del globo. Facendo eccezioni con la fantasia e con l’intelletto, Landolfi ha dato nuove «regole» al mondo. Di sicuro esso è strambo, bizzarro, matto persino, ma pare che il narratore l'abbia aiutato a rimettersi con i piedi per terra. Non contate quante volte per la sua follia sta con i piedi per aria. Calcolate invece quante «verità» mai viste egli ha contribuito a far vedere con le sue eccezioni. Buona regola culturale quella di fare eccezioni nel mondo normale che sta intorno. In un cerchio, in un globo, non succederà mai più nulla di nuovo. Qualcosa però succede ancora per la prima volta, per caso o combinazione. Gli elementi originari possono combinarsi in modo che si manifesti un fenomeno mai apparso prima, in quel modo, in quel luogo. L’antico può ancora riservare delle sorprese. Sono infinite le combina175
zioni all’interno del vecchio globo, del vecchio cervello umano e dello Zingarelli. Non è detta l’ultima parola. Proviamo ancora con la parola. Un globo, due emisferi. Ci sono tutte le opposizioni, ogni punto ha il suo antipodo. Alternative orizzontali ma anche verticali, come quelle polari, se non è gelata, una
cosa può diventare identica al suo contrario. La realtà e il sogno, il caso e la necessità, l’astratto e il concreto, il fantastico e il vero, il folle e il saggio, il latente e il palese, il futuro e il passato, l'inconscio e la coscienza, il logico e l’irrazionale. Nei due emisferi del globo gli antipodi possono toccarsi. E così, seguendo Landolfi nelle sue fantasie e nei suoi ragionamenti, ci si ritrova in un altro mondo. Solo un cambio di punto di vista? Diciamo piuttosto che cambia la vista, Landolfi ha le visioni e con esse gira, aggira e raggira il mondo. O è il cono la sua figura? Circolarità che si appuntisce, cerchio che corre verso il suo punto centrale, sfera che diventa spinosa per proiettarsi contro qualcosa o qualcuno che sta in basso o in alto. Pensate alla sezione finale di una punta: sopra, tutto è piano e gira come meglio non si
potrebbe ma sotto si avverte una lacerazione. Landolfi è più che pungente con la sua struttura. E con la scrittura, anche.se per spuntarla la lima. Gratta gratta, si sente sempre una puntura. Alla fine è un cono anche la penna biro. La circolarità c'è nel fatto che la punta gira, come un trapano. C'è un rovello sotto, tanto più se sopra si gira
intorno a una questione. Più puntuale sarebbe dire che il cono è un vortice e dà le vertigini quando affonda. Il migliore Landolfi è conico? L’ultimo tratto del cono va a colpire al cuore o dentro un segreto. È una dolorosa sensazione che non potresti tollerare a lungo. Per questo la misura della narrazione è quella breve del racconto. Ti si prende in giroe insieme si può morirne. Ti dà la birra e ci senti la bara. E quello de La bière du pecheur il Landolfi più profondo e più lancinante? Si continua a girare intorno a Landolfi, ma il lettore ha sempre l'impressione di sprofondare. Nel Landolfi «fantastico» si sente meglio la 176
voragine. In quel vuoto ci può stare tutto. Come fa Landolfi a essere così «disumano»? È «artificiale»; è sperimentale; è teatrale; adotta i linguaggi della comicità; e poi è sempre lì a giocare, cioè a fare «l’inverso della realtà», ed è convinto di essere nell’eterna ripetizione del già visto e del già scritto. I suoi modelli letterari tornano come personaggi: Kafka per chiudere i conti col padre (I/ babbo di Kafka); Gogol’ per raccontare l’amore «esplosivo» per una donna fantoccio (La moglie di Gogol”). I sogni avvengono a occhi aperti e con ironia sveglia per non addormentarsi nelle solite immagini del mistero. I linguaggi sono abiti di scena che possono essere indossati secondo il ruolo da interpretare. Personaggi tragici fanno la commedia e viceversa. Sul suo palcoscenico abbondano i colpi di teatro. La sua notte è illuminata da luci artificiali. Si recita con la maschera, sembra la commedia dell’arte, il casoè vincolato da regole secolari, il comico non fa ridere. E tutto un gioco ma la puntata è alta, ci si gioca tutto. E in gioco la vita «disumana» di uno che non ha un ruolo riconoscibile. Non si riconosce in nessuno degli scrittori conosciuti. Questo giocatore è un uomo mai visto. Ha inventato un nuovo linguaggio e ora eccolo in carne e ossa. Indossatelo pure voi e vi parrà fatto a vostra misura. L’abito non fa il monaco? Non ci sono che gli abiti. L'uomo messo a nudo non esiste più. In Landolfi alto è il lessico, basso il linguaggio. Sono in molti nel Novecento a praticare l’ùnderstatement linguistico, ma Landolfi lo ottiene sollevando la scrittura verso un sublime che fa il tragico per fare la commedia. O meglio, Landolfi fa la commedia per poter raccontare una tragedia che ha perso ogni grandezza. I due livelli, le due facce della stessa medaglia: ormai è tutta una commedia questo gran parlare di tragedia. Si può ribaltare la moneta ma il valore non cambia. Essendo un cerchio, rotola, finché non si piega e mostra una delle due facce. È un caso o è una necessità storica che nel Novecento sopra stia la faccia che ride, quella che deride, quella che abbatte tutto? Comunque bisogna sempre cercare sotto. dEi
Landolfi è tutto nel profondo? Però è anche tutto in superficie. Che cosa diabolica è mai questa? Ecco: è una superficie scottante, sotto c'è qualcuno che brucia. Uno scrittore che è doppio e che vale il doppio di quelli che si danno l’aria di essere profondi. Anzi, il valore della narrativa di Landolfi è destinata a crescere. Non lo si innalzi però sino al cielo. Serve ancora a terra. La sua narrativa è un terremoto. Non se conosce la causa e perciò continua a farci ballare, a farci tremare. Fino a quando si continuerà a tremare, Landolfi sarà un grande narratore.
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COME SI GIOCA IN TEORIA
Quello di Tommaso Landolfi in Italia è quasi un caso disperato. La critica è quasi unanime nel giudicarlo uno dei maggiori narratori del Novecento, ma i lettori continuano a scoraggiare gli editori che ripropongono romanzi e volumi di racconti di Landolfi. Recensioni entusiastiche sulla stampa, alla Tv e alla radio, convegni della cultura
accademica e di quella militante, saggi su riviste e interi libri dedicati alla sua opera non hanno ottenuto il risultato sperato. Landolfi non fa un passo avanti verso la popolarità; i lettori, silenziosi come è costume della loro maggioranza, si tengono lontani dai suoi libri. Non è servito a nulla nemmeno includerlo in quasi tutte le antologie scolastiche. È fallito così anche il tentativo di abituare gli italiani da bambini ad apprezzare i suoi testi. Tuttavia se il caso è disperato, Landolfi non mostra affatto di disperarsi della propria impopolarità. Non c’è quindi da scandalizzarsi tanto se un critico ha avanzato l’ipotesi: Tommaso Landolfi, è vero non è popolare, ma ancora più vero è che egli odiava essere uno scrittore popolare. Sarebbe potuta piacere a Landolfi: non in quanto vera 0 verosimile, besì perchéè un'ipotesi landolfiana in modo esemplare: pare inventata dalla fantasia paradossale di uno che ha scritto il Diz/ogo dei massimi sistemi. Lui sorriderebbe sornione e satanico: si sta passando dalle parole ai fatti, dalla letteratura alla vita, è nato 109
cioè un «homo landolfianus» in carne e ossa. La gente “non ama tenere i suoi libri in mano, ma comincia ad avere
nel sangue Landolfi. È da oltre cinquant’anni, cioè dal 1937, che la critica italiana parteggia per Landolfi. Dagli ermetici degli anni Trenta agli sperimentali e alle neoavanguardie degli anni Sessanta, nonché negli ultimi venti anni, i maggiori critici hanno scommesso su Landolfi. C'è stata solo la parentesi del neorealismo, per i cui critici, impegnati a cambiare la realtà sociale, Landolfi non solo era indifferente a cambiarla ma anzi pensava che non esistesse la realtà. Né poteva giocare a suo favore la fama di simpatizzante del surrealismo. Se questo movimento d’avanguardia nel secondo dopoguerra, malgrado i suoi programmi di mutamento rivoluzionario del mondo e della vita, era considerato eretico nella sinistra, invece a Landolfi mancò
poco che lo si considerasse un diavolo, per via delle sue provocatorie dichiarazioni «reazionarie». Walter Benjamin non era ancora arrivato a ricordare che è sul linguaggio, e non sui soli contenuti, che si misura l’azione culturale di un artista. Landolfi non ha dovuto aspettare che morissero le ideologie per essere esaltato dalla critica come uno dei massimi narratori degli ultimi cinquant’anni. E tuttavia lui non si esaltava molto per il fatto di piacere tanto ai critici. Un colpo di scena? Diciamo che fingeva disinteresse da quel grande attore che sapeva essere in ogni occasione. Non gli dispiaceva nella sostanza piacere alla critica e al maggior numero di lettori. Era nel suo diritto d’autore o meglio, erano i suoi diritti d’autore. Se li sarebbe giocati, diritti, critici e lettori. Si garantiva il diritto a giocare. Landolfi dunque porta una prova a favore della tesi di Ortega y Gasset in La disumanizzazione dell’arte: l’arte giovane, quella, per intenderci, del Novecento, non è che tardi a diventare popolare, come è sempre successo all’arte originale, è proprio «impopolare». «L’arte nuova ha la massa contro di sé, e l’avrà sempre. È impopolare per 180
essenza; ancor di più, è antipopolare». Non è la solita disputa sul gusto. Ortega: «Il problema è che la maggioranza, la massa, mon la capisce». È questo anche il problema di Landolfi? Purché si aggiunga che l’autore del Dia/ogo dei massimi sistemi sembra faccia di tutto per essere capito con il suo stile di «classica» chiarezza. E invece la massa non ha fatto in mezzo secolo un passo avanti verso la comprensione della narrativa di Landolfi; anzi mostra insofferenza, avversione, ostinata indifferenza. Ha un senso di inferiorità, si sente umiliata da uno che pare rendere tutto più facile mentre invece lo complica. «L’arte giovane, con la sua sola presenza costringe il buon borghese a sentirsi come è un buon borghese, un essere incapace di sacramenti artistici, cieco e sordo verso ogni pura bellezza» (Ortega y Gasset). Silenziosamente
i lettori muovono
un rimprovero
a
Landolfi: nei suoi racconti non c'è mai quella «sospensione dell’incredulità» che Coleridge considera obbligatoria nella grande arte. Bisogna intendersi. Landolfi usa temi e pensieri che hanno dell’incredibile ma lui si aspetta solo dall’incredibile qualcosa in cui più tardi possa credere. C'è anche il fatto che il narratore è il primo a non credere in quello che comincia a raccontare; per giunta non perde mai la testa, ci gioca sopra, accentua la natura di finzione di una vicenda, non dimentica mai d’essere su un palcoscenico. O almeno non la perde finché il pensiero incredibile, procedendo nel suo percorso alternativo, non va a toccare un territorio sul quale il paradosso fa corto circuito. E l'incredibile sembra vero, cioè si sospende l’incredulità su quello che si era presentato come un travolgente scandalo di logica. La fantasia di Landolfi è, come quella di Bontempelli, «nuova, impossibile e vera». Semmai l’incredulità resta «sospesa» nell’autore. Più che nei confronti della singola invenzione, nei confronti dell’arte. L’arte per Landolfi è tutto ed niente: come è l’arte «disumana» secondo Ortega y Gasset: una cosa di nessuna importanza. Il lettore l’ha avvertito il pericolo, non c'è «magia», e non glielo perdona a Landolfi di essere 181
un miscredente, un eretico, o un ateo, un senza Dio, uno
che scrivendo bestemmia
l'assenza di Dio. Sarà una
bestemmia, ma diciamolo lo stesso che Landolfi fa tutto
con niente. Un dio della narrativa, ma non lo capiscono, né gli credono questi esseri disumani che sono le masse. «Concepisco ormai l’esistenza sotto l’aspetto del gioco ed essa mi sarebbe vuota più di quanto non mi paia ove questo mi mancasse» dice un personaggio di Landolfi. Non si crede alle confessioni dell’autore; figurarsi quale credito può essere dato a un suo personaggio, anche se gli rassomiglia tanto. D'altronde tutto si può fare con Landolfi tranne che del realismo. La sua arte rimanda all’arte, è
«arte artistica»: come sarebbe sempre l’arte nuova del Novecento, secondo l’Ortega y Gasset di La disumanizzazione dell’arte. È arte «disumana» la letteratura di Landolfi? Si cerchi la risposta nei connotati con cui il filosofo spagnolo la disegna. L’arte disumana «evita le forme vive», frequenta un’«essenziale ironia», tende a una «scrupolosa realizzazione», giudica l’arte «una cosa senza alcuna importanza» e considera «l’arte come gioco e nient'altro». Anche per Landolfi l’arte è un gioco, il niente che può diventare tutto. È l’unico modo serio di stare in società, dentro la cul-
tura, nella letteratura. Detto sul serio ma anche per gioco. Sono inseparabili. Secondo Freud, «il gioco adulto è vacanza del superio». Gioca tanto Landolfi perché è «assente» il padre, cioè manca chi possa indicargli valori e criteri per trovarli? Il padre sconsiglia l’ozio e il gioco e la sua frivolezza e invita invece al lavoro produttore di ricchezza e di prestigio sociale. Il gioco come sperpero di sé, attività gratuita e asociale. Una trasgressione imperdonabile per un figlio della borghesia. Un figlio perso alla realtà e alla società. Landolfi è sempre in vacanza; anche quando scrive, altro gioco adulto che il sistema di valori del padre avrebbe giudicato tempo perso senza frutto. Vacanza: senso di vuoto e di inutilità. Noia, da combattere col gioco. Lo dicono anche i personaggi che intraprendono il gioco del182
la torre nel racconto omonimo. Jacques Ehrmann in L’uormzo in gioco ha scritto sul gioco alcuni concetti che sarebbero potuti piacere a Landolfi. 1. «E necessario che prima ci sia il gioco perché esista la realtà». (Il gioco come condizione necessaria per la nascita della realtà: gioco perché cerco la realtà, o meglio la verità). 2. «Vero soggetto del gioco è il caso. Il gioco si esprime per mezzo del caos e della possibilità di organizzarlo». (Ci sono le regole ma c’è specialmente il caso, che prende la mano anche al narratore, soggetto che del caos
è «schiavo». 3. «Se il gioco non può dire niente saremmo tentati di concludere che non vuol dire niente. Il senso del gioco consisterebbe allora nella sua futilità, nella sua assurdità stessa». (Non si chieda «messaggio» allo scrittore, che non per questo nega ai lettori il diritto di attribuirgli quello che pensano ci sia). 4. «Anche il giocatore può essere giocato; e oggetto del gioco può essere la messa in gioco o il giocattolo». (Attenti dunque alla struttura, compresa la forma del giocattolo, roulette, baccarat o narrativa che sia).
Può mai condurre il gioco alla realtà? Incontrerà mai sul proprio cammino il gioco la verità? Sentite il parere di Brandi: «La posta senza cui non v’è gioco — che sia di vincita, o, come nei giochi dei ragazzi, la penitenza — è' l'oggetto del mondo esterno, su cui si conclude e si esaurisce il gioco». O di Lotman: «Il timore di molti studiosi di estetica di occuparsi di problemi del gioco (per evitare l’accusa di kantismo) e il loro profondo convincimento che ogni confronto di gioco e realtà conduca alla predica dell’“arte pura”, alla negazione del legame fra la creazione artistica e la vita sociale) riflette una profonda disinformazione sui problemi di scienze affini». O quest’ultima idea di Lotman: «Il gioco sottintende la contemporanea realizzazione (e non sostituzione successiva nel tempo!)
del comportamento pratico e convenzionale». E, per finire, sentite questo consiglio di Ehrmann: «Non grattate l'immaginario per raggiungere il reale. Sono inseparabili». 183
Il gioco è il linguaggio di un’altra realtà? E la superficie «organizzata» del caos profondo? È al servizio di qualcosa di fisico o/e metafisico dal quale non può essere separato? È l'immaginario il «reale» di Landolfi, narratore che non può fare a meno di giocare. Solo fingendo sapendo di fingere, solo giocando sapendo di giocare, solo mascherandosi sapendo di avere la maschera, Landolfi si sente tanto reale da poter scrivere racconti. Il gioco è il linguaggio dell’unica realtà di cui può parlare. La realtà è doppia, ma è inseparabile. Nessuno separi ciò che Dio ha unito. Landolfi è per il gioco contro la serietà? Contro il lavoro, contro l’utilità, contro la vita ordinaria? Per la gratui-
tà, per l'immaginario, per il sogno? Huizinga: «Si rivela qui, ancora una volta, la sconcertante insolubilità del problema: gioco o serietà. Noi siamo giunti a poco a poco alla convinzione che la cultura si fonda sulla nobiltà del gioco, e che, per arrivare alla sua alta qualità di stile e di
dignità, non può fare a meno di quella componente ludica».
Landolfi va oltre: il gioco non è solo una componente della vita: è la vita, la cultura, la realtà. Il gioco è anche serietà, ed è insieme gratuito, un lavoro e un sogno. Ed è così pure la letteratura: gioco, sogno, immaginario, gratuità, nonché però lavoro, cultura, e forse anche, a suo modo, reale. Una letteratura siffatta è nulla, è svuotamento, spreco, abbassamento di stile ma può essere tutto.
«L'atteggiamento ludico deve essere stato presente prima ancora che esistesse una cultura umana o una facoltà di linguaggio e d’espressione» (Huizinga). Il gioco è una di quelle strutture umane originarie ed eterne in cui tanto credeva Landolfi? Nel gioco si manifesta l’Essere? Landolfi non fa che giocare nella speranza di ritrovarsi per quello che era in fondo, cioè diverso da quello che pare. In fondo egli non stava cercando una nuova vita? Secondo Novalis, «giocare è fare esperimenti con il caos». Le forme contro il caos, le regole contro il caso. Landolfi vuole addomesticarlo 0, diciamo, lo porta in
casa: in sembianza di animale domestico, gechi, ragni, 184
blatte e altra bestia repellente. Sono figure di cui il caos si serve per passare di qua. E l’informe che prende forma conservando però inalterata la propria natura violenta, energia che quanto più è repressa tanto più è aggressiva e
pronta a esplodere. Proiezioni di un al di là che non può essere ridotto a ragione, il gioco delle forme consente al caos di manifestarsi anche sotto un aspetto affascinante: la bellezza di Gurù, intrecci narrativi a regola d’arte, i più attraenti modelli letterari, una lingua luminosa. Landolfi invece di portare luce di là, si è trascinato dietro di qua le tenebre e i suoi immotivati oscuri furori. Guardate il viso dell’autore e vi leggerete che è assai soddisfatto di essere venuto di qua: ci sono la luce, la ragione, l’ordine, il gioco, la forma, la figura, l’ironia, l’arte, la coscienza, il significato e altro ancora. Dietro si è
lasciato il materico futurista, l’urlante animalità espressionista, i cadaveri squisiti dell’automatismo surrealista, da
polverizzazione semantica dei dadaisti. Landolfi ne è fuori e può sorriderne, sornione e beffardo come verso ingenuità infantili e terrori primitivi. Lui non ci perde più la testa dietro le loro spaventose fantasie. Anzi tiene a posto la testa e ci fa dei bei pensieri sopra, o anche la «frode» e il «tradimento». Landolfi le pensa tutte e non sempre a fin di bene. Imprigiona il caos, ma il prigioniero è furioso e scuote dalle fondamenta la costruzione che è il racconto. AI contrario di Novalis, per il quale «giocare è sperimentare con il caos», per Tommaso Landolfi giocare significa fare esperimenti anche con l'ordine, con i vari ordini letterari, con tutti i linguaggi approdati a statuto di eccellenza artistica. Landolfi in altri termini gioca con i classici. Li adotta, li invita in abile pastiche, ne prende la distanza senza dissacrarli, ci scherza sopra in modo sornione e con maniere riguardose, li «supera» senza perderli di vista ma voltandosi continuamente a guardarli. Passa da un territorio all’altro con veloci sconfinamenti ma senza saccheggi, prende quello che gli basta per sopravvivere. Consuma stili, tutti i grandi stili della letteratura europea degli ultimi secoli: nel senso che li lascia vuoti dopo 1385
averne attinto e nel senso che se ne nutre. Landolfi mostra le tracce della loro presenza, non fa nulla per nasconderle. Un modo per depistare. Lui scrivea partire dal fatto che èstato scritto tutto e che è assai difficile inventarsi un linguaggio originale con cui collocarsi accanto ai suoi grandi maestri. Semmai di originale ora ci potrebbe essere solo questo: che lui è un figlio di tutti quei linguaggi che ha nel sangue. I padri della letteratura hanno detto tutto, ogni verità è stata raccontata e parecchie sono in contrasto, il cheètroppo perla verità. La verità della letteratura sono i linguaggi inventati, ma ora pare impossibile crearne un altro che sembri vero. Perché non provare a rimettere in circolazione quei linguaggi, a vedere che cosa possono tirar fuori a miscelarli dentro la testa di uno che ci ha familiarità? I classici come materiali da costruzione, come elementi da combinare in
laboratorio, come sostanze da cui ricavare esplosioni di nuovo senso. Landolfi sperimenta il caos provocandolo con i linguaggi già messi in museo. Lo traveste con gli abiti eleganti dei classici e così ottiene il salvacondotto per far passare ciò cheè più proibito. Quel gentiluomo d’altri tempi è dunque un pericoloso contestatore. Al contrario dei contestatori Landolfi rispetta le forme. La sostanza no, in sostanza non ha rispetto di nessuno e di niente. Figurarsi se uno scrittore fanatico del gioco non si diverte a giocare con le parole, che sono la materia prima del narrare. Qualche gioco lo nasconde nell’ambiguità di una lingua straniera. Ad esempio, quando, intitolando un romanzo «a episodi» suturati, trasformò una bara in birra. Hanno entrambi qualcosa sotto o dentro, sotto la
schiuma o dentro la bara. Comunque si va dalla vita alla morte e viceversa su una parola cui un accento può dire una cosa o il suo contrario. I giochi di parole di Landolfi possono contenere gli opposti. Ovviamente ci vuole la sua ebbrezza linguistica, fantastica e intellettuale. In La bière du pecheur è più tangibile il fatto che la birra diventi bara. Il gioco di parole di Landolfi èspesso mortale, funereo, anche se si fa festa intorno alla cassa. Non è vuota, come non 186
è vuoto il gioco di parole di Landolfi. Lui ci muore sopra la parola, se nonlo porta a qualcosa. Ha il sospetto chetutto sia schiuma, ma non rinuncia a cercare sotto. Tanto lo sa che lo
scrivere è sempre un’ubriacatura, si perde la testa, si ignora quello che si dice. C’è un peccato e si porta il segreto nella bara colui che si illude di apprendere la verità dalla parola. Non è sufficiente? Qualcosa lo si apprende, ma la parola è «insufficiente» a tale compito. Che cos'è un capello? Niente, o assai poco, se si dimentica che è attaccato alla testa. Tenendo la testa a posto e subito dopo perdendola, Landolfi prende un capello e lo spacca in quattro. Pensando a quanti capelli si possono mettere in un sedicesimo, lo scrittore comincia a legarli per fare un discorso logico che corre sul filo. Landolfi è un acrobata del pensiero sottile e tagliente come un rasoio. Attenti al taglio dei racconti. Spaccando il capello in quattro, il narratore li fa sanguinare. O fa salire il sangue alla testa, dalla quale si era partiti. Prima di chiudere il cerchio nel quale spesso gira in folle, avendo moltiplicato i capelli, Landolfi non va col «cranio scoperchiato», come Svevo aveva detto di Joyce. Mostra sì il cervello e come lavora, ma non credetegli, c’è qualcosa sotto il cervello e sotto il capello, nonché sotto ogni gioco di parola. Delle idee? Ci sono anche quelle, anzi tanto di cappello dinanzi a uno così intelligente. Ma c'è anche altro più giù. Nel profondo? Pure lì, di sicuro là c'è un movente per tutta quella massa di parole che raccontano storie. Scendendo ancora di più, si arriva alla bocca. Qui c’è la lingua bellissima di Landolfi. Segno che è in salute, ha digerito le sue idee e il suo vocabolario. Quando Landolfi è in gran forma, al lettore si rizzano i capelli in testa per la paura suscitata dagli animali che il suo inconscio ha mandato in superficie come messaggeri d’angoscia. E sta in alto anche la lingua. Uno sberleffo? No, è alta la comicità di Landolfi. Sopra tutto c’è l'ironia. Sottile e alta, come il capello. In Landolfi, nella e sulla sua testa, una parola è capace di collegarsi con ogni altra. E può ricominciare da capo. 137
UNDICI PROVE DELL’ESISTENZA DI LANDOLFI
Un giocatore di Landolfi perde una puntata perché gli è stato impedito di giocare il 5. Proviamo dunque a vincere anche noi col 5. Cinque di che cosa? Cinque storie di Landolfi. Chiediamo a cinque racconti di aiutare a vincere in quella gara contro il caso che è anche l’interpretazione critica della sua opera. Almeno per iniziare. Magari andando a vedere come Landolfi ha cominciato. Le opere di Landolfi come giovane narratore: cioè, La pietra lunare, Dialogo dei massimi sistemi, Maria Giuseppa, La mo-
glie di Gogol’, nonché Racconto d'autunno. Due romanzi e tre racconti fanno 5. C’è chi punta solo sui racconti. Landolfi sarebbe soltanto scrittore di racconti. Non fateci caso e puntate sul 5. Landolfi si presenta nella nostra narrativa quando fa la sua apparizione ne La pietra lunare Gurù. Il giovane protagonista si sta annoiando in mezzo a chiacchiere senza senso quando avviene la rivelazione: la gamba della bellissima ragazza finisce in piede di capra. Conclusioni provvisorie: da un momento all’altro può succedere il miracolo capace di valorizzare l’insignificante; l’evento essenziale può essere palesemente inverosimile e surreale; il fenomeno si manifesta con due livelli: il superiore è elegante, quello inferiore è «selvaggio». Tuttavia i due livelli non sono in opposizione, c'è «continuità» tra la gamba e il piede. Gurù è insomma o tutta nel mondo di qua o tutta 188
nel mondo di là. C’è comunicazione e metamorfosi. Attenti: l’«altro» in Landolfi ha sempre i piedi per terra, sta in basso, è sull’ Altro che si regge il suo racconto, la sua narrativa. E vero anche però che gli fa mancare la terra sotto i piedi. C’è sempre una voragine dentro un racconto di Landolfi, ma non vi si precipita. Il terrore è dato dalle vertigini, un’attrazione che è anche repulsione. Conclusione quasi definitiva: oltre alla superficie c’è il profondo, e ogni altra coppia anzi ogni ambiguità, insomma due cose in una. L’unità di Landolfi è doppia. In Maria Giuseppa — che forse è il capolavoro, nonché «inizio del lavoro», come narratore, di Landolfi — un alienato racconta come fece violenza alla domestica, una donna per cui sentiva ribrezzo, e come essa ne morì. Non
capisce perché egli agì così, né perché lei morì. Narra qualcosa che se ne sta di là, un evento ermetico e inspiegabile. Lui stesso è solo un veicolo, e il discorso trasmette sentimenti che il protagonista subisce ma non controlla. Parla «al servizio di un altro», secondo lo statuto dell’alienazione. La parola è lì, ma il senso è altrove. Qual è il
senso non lo sa il narratore e tanto meno il critico. Nessuno capisce, ma sono tutti coinvolti: in una giravolta, in un vortice. Bisogna andare sotto, ma non si tocca mai il punto su cui si regge tutto. C’è buio e si sprofonda. Landolfi bara al gioco della narrativa, lo confessa lui stesso. Il narratore come impostore. E allora l’ispirazione? La moglie di Gogol’ dell'omonimo racconto è un fantoccio di gomma, che si gonfia con una pompa di meccanico da una valvola anale. Come è caduta in basso l’ispirazione. Se hai fiato e una pompa di meccanico, ci puoi fare una bella donna formosa o una smilza, sottile. Sono fatti d’aria i personaggi dei racconti e dei romanzi, ma poi te ne innamori come se fossero di carne e ossa. E una questione così meccanica la creazione artistica? La letteratura è un fantoccio di cui puoi cambiare le dimensioni e le fattezze secondo il gusto capriccioso o motivato di chi usa la pompa e la donna e la narrativa in un'epoca in cui ormai sanno che l’arte dipende dalla tecnica. Chi ha un 189
grande respiro e una buona valvola (il cuore?), gli dà una vita per la quale ci si può gonfiare di orgoglio. Cosa può nascere da una letteratura siffatta? Dalla moglie di Gogol’ è nato un piccolo fantoccio, che lo scrittore russo alla fine butterà nel fuoco, ma poi se ne dispera come della morte di un figlio di carne e ossa. Analogamente ne scatena di sentimenti «reali» il racconto-fantoccio di Landolfi. Gomma, pompe, valvole e un mucchio di parole in crescendo ossessivo, che il vistoso carattere posticcio non soffoca, né la situazione paradossale sfiata per l'ironia. L’impostore si sta lasciando «ingannare» dalla storia incredibile che egli stesso ha inventato? Lo strazio della gomma, la crudeltà del fantoccio, l’infanticidio. Aria, parole gonfiate ma anche esplosive. Scoppia il fantoccio per la violenta ispirazione, e passione, del suo autore. Uno strazio, anche per il lettore, un fantoccio nelle
mani dell’artista. In Racconto d'autunno il soldato sbandato ripara nella casa di campagna di un uomo anziano che mal sopporta la sua presenza e ancor meno la sua curiosità. Insegue una voce in un reticolato di corridoi oscuri che danno l’idea — il terrore, l’angoscia — di un labirinto. In un labirinto il personaggio di Landolfi segue un filo dove conduce il legame con una donna dentro l’ingegnosa e misteriosa costruzione — un dedalo — che è un romanzo o un racconto del narratore di Pico. Il mito vuole che si arrivi al Minotauro, alla bestia prigioniera dell’intreccio di vie. Non se ne esce, si è spezzato il filo d'Arianna, qualcuno resta dentro, e di là manda oscure e violente richieste d’aiuto, di comunicazione, d’amore. Arianna è fuori,
secondo il mito ora è ebbra, forse per dimenticare. O si deve parlare di rimozione? Il labirinto della psiche di Landolfi. Il filo d’Arianna della critica di Debenedetti è quello che va più vicino al Minotauro. Il personaggio del primo racconto di Landolfi, Dizlogo dei massimi sistemi, decide di imparare il persiano, come gli viene proposto da uno sconosciuto che si dice pronto a insegnarglielo. Il risultato è noto: apprenderà una lingua 190
che lui solo conosce, come deve presto constatare. Però non è meno importante la premessa: ed è che egli sente la necessità di esprimersi in una lingua diversa da quella appresa dall'infanzia. Un’altra lingua dunque, una lingua non naturale, finta come può essere il falso persiano e arbitraria come ogni altra lingua. La lingua dell’altro o una lingua per nascondere l’altro? Come è fatto il «finto persiano» di Landolfi? Il suo linguaggio inventato anzitutto ha un alto tasso di ironia, e magari tanta altra comicità. Una ricca serie di combinazioni ludiche: Landolfi gioca, scherza, ride, o deride, beffa o fa sarcasmo. Che dire poi della sua abitudine a parlare d’altro, a fare disgressioni, ad aprire parentesi, a farsi trascinare dietro il trascurabile? Pare che Landolfi si allontani invece di avvicinarsi al suo «io». Forse che egli quanto più si allontana tanto più si avvicina alla sua «vera personalità»? Che commedia è mai questa? Ebbene, questo è il carnevale: durante il quale a sentire Caillois, «Ila maschera dissimula il personaggio sociale e libera la personalità vera». E nella maschera quindi la personalità vera di Landolfi, è nel «finto persiano» che bisogna cercare il vero Landolfi, cioè quello che doveva essere inventato per poter dire quello che non poteva essere detto con la lingua naturale. Comunque una lingua straniera, di cui sfugge il senso anche all’autore. Una lingua tagliata e la lingua non basta mai. Un giocatore in Premzio a dispetto vince con l'i. Per arrivare a 11, partendo dal 5, cioè dai cinque «aneddoti» landolfiani usati per venire a capo dell’autore, mancano ancora almeno 6 cose o storie da aggiungere tra le molte che bisognerebbe dire. La critica non fa che raccontare storie.
«Provvisoriamente... se ne può concludere che nel canto, come nella poesia e in qualsivoglia arte, vi sono degli elementi di mistero» scrive Landolfi in La wmelotecnica esposta al popolo. Ecco come agisce Landolfi: nomina il mistero e, dopo averlo evocato, lo irride. Ma è poi tanto vero che sta scherzando sul mistero? La frase citata fun191
ziona sulle due facce: quella della dichiarazione «seria» di poetica (attenti al mistero!) e quella beffarda, di chi prende in giro i fanatici frequentatori del mistero artisti co. Il riso mette in fuga «gli elementi di mistero»? Dinanzi a un racconto di Landolfi si può sorridere e intanto continuare ad avere paura. Il riso gela in viso al lettore. Ride della paura e ha paura del riso. Landolfi ride e trema come il saggio dell’antica tradizione cristiana? È un buon cristiano? È un cattolico? Un mistero, anzi tre misteri. Sono dunque in aumento i misteri landolfiani? Almeno per ora, provvisoriamente. Il provvisorio è anche definitivo. Nel racconto La muta un uomo si innamora «follemente» di una bellissima ragazza che non articola alcun suono. È questo, l’essere lei muta, la perfezione che deve essere salvata dalla corruzione cui sono destinati coloro che hanno la parola. Anche la più «perfetta» parola della sua narrativa è muta in sostanza. È un suono insufficiente ad esprimere quello che il mondo vuole dire. La parola di Landolfi parla d’altro sia che trasmetta immagini orride, sia che il pensiero produca dialoghi ossessivi. La parola come significante di un significato che resta in gola. Landolfi non riesce a far dire la parola che venga su dal cuore. È perfetto solo il silenzio? È perfetto anche il cervello del narratore che riesce a far quadrare il cerchio, o viceversa. Gira bene qui dentro anche il pensiero più folle. In Le due zitelle c'è una scimmia che dice messa. Un sacrilegio fatto per scherno di Dio. Venga fuori e punisca, se c'è (c’è la mano di Dio nel processo e nella condanna a
morte della scimmia?) La massima trasgressione, accanto a tutte le altre degli altri romanzi e racconti (ossessioni, incesti, tradimenti, ecc.) Come assomiglia stavolta all’uomo l’animale cheè la scimmia! È una «scimmia» anche il narratore che dice messa su diversi testi sacri della letteratura. Si tratta di un’imitazione? Landolfi è una «scimmia» che riesce a tener viva la religione della letteratura compiendo i gesti più blasfemi. Chi officia sull’altare è sempre 192
un sacerdote. Landolfi, miscredente sacerdote di tutte le
religioni, aspetta sempre che gli appaia Dio, o almeno un suo simulacro. Un paniere di chiocciole: ecco cos'è un racconto degli anni Sessanta di Landolfi. Una storia fatta di parole che
fanno bava, bollicine, schiuma. Non si muove molto e comunque il movimento non potrebbe essere più lento, ma le parole montano, lievitano, finché non suscitano qualche emozione violenta, raccapriccio o piacere che sia.
Tuttavia cercate sotto e troverete qualcosa di consistente e tangibile. C’è il guscio ma non ci si illuda di avere toccato il fondo. C'è qualcosa dentro che è difeso dal guscio. Basterà romperlo per sapere cosa c’è sotto, cosa
nasconde? Meglio lasciarlo intatto e porre il quesito alla sua forma. La chiocciola è un cerchio incompleto: come il punto interrogativo. E una spirale. Dentro c’è la chiocciola, il suo corpo nutriente. Ha le antenne, sono retrattili, l’animale è cornuto. Il corpo non dà mai una sola risposta. Nemmeno la parola. La parola di Landolfi è un guscio duro che contiene sempre altro. C’è un problema fisico all’interno. Il corpo ha qualcosa di repellente (sessuofobia, dice Sanguineti), ma ha un interrogativo nella sua struttura. La metafisica della chiocciola è un ottimo alimento, ma intanto non ces-
sa mai di porti la domanda a che serve fare tanta bava di parole e di scrittura. Un personaggio guidato dalle parole arriva a spararsi. Comunque non si arriva al cervello di Landolfi. Non basta un colpo, bisogna essere sistematici. Landolfi aveva un sistema di pensiero nella sua scatola cranica. Calvino consiglia di studiare la sua filosofia. Un lavoro da formica, arriveranno anche le chiocciole. Raccogliete in un paniere le idee di Landolfi. Non basterà. Due amici conversano fra di loro su eventuali avvenimenti improbabili e all'improvviso appare un enorme ragno con la testa d’uomo (I/ babbo di Kafka). Da dove
vengono questi animali, chi nutre tutte queste bestie? Si dirà che è la fantasia di Landolfi, ma più precisamente si 193
dice che nascono dal dialogo, dalle parole. Gli bastano due parole e queste prima o poi vanno a scovare l’animale che è in tutti i personaggi. Quasi sempre ce la puoi fare a schiacciare la bestia, ma il «vecchio maniero» che è la testa di Landolfi ospita un numero incalcolabile di mostri e animali domestici. Ce ne può essere uno sotto ogni parola. Hanno fatto i vermi le vecchie parole di Landolfi. Il suo linguaggio genera terrificanti animali da addomesticare, magari serpenti, che arrivano «a tradimento». Lan-
dolfi li lega, ma nei suoi racconti resta sempre l’impressione di convivere con dei mostri, anche se non si vedono. Sono
sotterranei, stanno spesso al buio, sono prigionieri. In Lavori forzati sono nascosti sotto le parole con cui si scontrano i due amanti. Le parole di Landolfi fanno una rete e formano delle sbarre dietro le quali è rinchiuso un personaggio che potrebbe essere lui stesso, un uomo che chiacchiera e si assorda per sfuggire a un pensiero terrificante. Dialoghi chiari fatti per oscurare, nascondere. Nel Gioco della torre, racconto postumo, due giovani e una ragazza, madre di due figlioletti, si annoiano. La noia è una buona condizione per giocare, non c’è nulla
di serio da fare, nulla di pratico e di reale. Come darsi qualche emozione in mezzo a tanto nulla? I due giovani propongono il gioco della torre e convincono la donna ad accettare. Il gioco consiste nella scelta della persona da buttare giù all’interno di una serie di coppie. Una coppia è politica. Tra Hitler e Mussolini chi butterebbe Guendalina? La donna non ha quasi bisogno di pensarci: Hitler. L’intelletto gioca ed emette la sentenza meno rapidamente quando bisogna scegliere tra Dante e Shakespeare, ma alla fine butta giù Shakespeare. Sulla politica e sulla letteratura può decidere l’intelletto. Ma quando le coppie appartengono alla famiglia, è il cuore a compiere la scelta, come dicono i due giovani che mentre giocano commentano gli eventi. Dunque tra il padre e la madre? La donna butta subito la madre, secondo
buona regola edipica. E tra il figlio e la figlia? La donna appare sconvolta non intende rispondere, e non lo fa. 194
Scoppia a piangere. Ha visto quale dei figli avrebbe buttato giù. La rivelazione di qualcosa che si ama più della propria vita. Così è anche la letteratura di Landolfi. Un gioco di morte. C’è l’inferno sotto, ma è così che vive la migliore narrativa di Landolfi.
5)
IL GIOCO DEL CERCHIO
«...Le note dei grandi artisti tendono quasi sempre alla forma sferica o conica; mentre quelle dei cattivi cantanti si presentano il più delle volte irregolarmente piramidali, oppure piatte o a forma di triangoli scaleni, irte inoltre di minute asperità, sicché si direbbero spinose». Landolfi distingue i grandi artisti dai cattivi cantanti suppergiù come Savinio gli scrittori conservatori dagli innovatori; o meglio in modo opposto, attribuendo agli innovatori l’ordine quadro, e quindi piramidi e altre forme «spinose» e ai conservatori il cerchio e quindi anche la sfera. Landolfi non se la prenderebbe per l’accusa: a lui piace essere considerato un conservatore, la sua forma è il cerchio, la sua
«nota musicale» è la sfera, figura dell’eterna ripetizione dentro un mondo in cui non succede più nulla di nuovo. Non è sferica la pallina che corre nel cerchio della roulette? Landolfi appartiene alla storia della «metamorfosi del cerchio» che George Poulet fa partire da Dante. E tuttavia è anche «spinoso», pure quando non è «cattivo cantante», quel grande artista che è Landolfi. Date un’occhiata nella sua sfera. Resistete alla tentazione di considerarla una sfera di cristallo, anche se ci potreste leggere il destino del narratore. Lo sanno tutti che la superficie è lucente e che c’è la trasparenza tra la virtù della prosa di Landolfi. Pensate piuttosto alla forma, che è poi quella canonica con cui sembra manifestarsi l’asso196
luto per antica testimonianza di credenti. La forma è quella dell’eterno ritorno, la sfera che ingloba ogni linguaggio dentro la millenaria tradizione letteraria. La grande letteratura smussa gli angoli creati dagli innovatori, assorbe le punte o le «spine» con cui gli autori d’avanguardia tentano di cambiare il corso degli eventi. Non cambierà mai niente né nel mondo né nella vita. Questo si legge nella sfera di Landolfi: tutto è stato già scritto, c’è già tutto nella letteratura scritta fino all'Ottocento romantico. Non resta che stare lì a vedere passare la sfera, la globale esperienza della letteratura d’ogni tempo. Bisogna essere preparati in tutto e per tutto e poi affidarsi al caso: è questo a far la differenza. Una questione davvero «spinosa» questa dell’essere diverso come autore dentro l'eterno identico. Comunque c’è una «spina» nel cerchio di Landolfi. Si può essere dentro la «metamorfosi del cerchio» e insieme essere surrealista? Savinio avrebbe subito risposto di no. Landolfi non ci avrebbe fatto caso, non gli interessava essere considerato un surrealista. Non aveva problemi di storia della letteratura uno che ha in testa le strutture mentali perenni. Certo queste erano state messe
a dura prova dal surrealismo, ma lui avrebbe sotterrato ogni cadavere squisito nel suo cervello. Ecco: Landolfi si è fatto un cervello surrealista e poi lo ha fatto girare come se le potesse pensare tutte, tutte le idee che erano state pensate e quelle che ancora si potevano pensare con un cervello cui era stato concesso il permesso di pensare anche l’impensabile. Ogni idea che gira per la testa si muove dentro un cerchio o quasi. Compreso il cerchio alla testa che viene con l’ubriachezza? Sklovskij portava a esempio gli sciti che fanno una cosa due volte: la prima da ebbri, la seconda da sobri. Landolfi è capace invece di fare da sobrio pensieri «ebbri» e di ricondurre a logica le idee più arbitrarie e pazze. Nella sfera di Landolfi l’inverosimile diventa vero, o così sembra a chi ha la testa che
gira come si deve. Pensateci bene pure voi: la sfera è il solido di quella figura piana e astratta che è il cerchio. 49
Però questa del surrealismo è una spina: come dire che c'è posto per il caso nel solido cerchio che dà figura all’eterno ritorno.
Che Landolfi sia un estremista non è opinione arbitraria, visto che frequenta i precipizi della logica, le periferie dell’etica e i sotterranei della psiche. Lui potrebbe negarlo da quel loico acrobatico che è, sostenendo che non ci sono estremità nel globo. Questo pareggia ogni punto, che è sempre equidistante dal centro. Garantitosi un posto nella sfera, però Landolfi si accanisce a dare unità a ogni contrario e coerenza a ogni comportamento che agli
altri sembri trasgressivo o folle. Il ragionamento con cui il protagonista motiva l'uccisione della «muta» nell’omonimo racconto non fa una piega; o meglio viene piegata
ogni resistenza del buon senso alla follia del gesto con argomentazioni sottili e implacabili, a partire dall’idea unanimamente accolta che si debba perseguire la perfezione. Associazioni mentali abituali tra i tifosi dell’inconscio quali possono essere i surrealisti? Nemmeno per sogno: Landolfi procede per connessioni graduali, un pensiero dopo l’altro senza interruzioni o salti, un modo rotondo di pensare che attinge a ogni possibilità offerta dal cervello e la porta a buon fine. Non si dimentichi però che è surreale l’avvio del ragionamento ricondotto nel cerchio. Surreale è il cerchio, non la spina? Domande su cui facciamo notte. Savinio è «notturno» nel rendere razionale l’irrazionale (vedi I/ signor Munster); Landolfi invece è «solare» nella logica che procede sotto una luce accecante. Lui non attraversa il globo, lo circumnaviga per arrivare da un polo all’altro. E sono spesso ragionamenti agghiaccianti, di quelli che gelano il sangue. Se c'è il sole e ci sono i poli, siamo sempre nei paraggi del cerchio. E noi continuiamo a girare intorno per sciogliere il ghiaccio. . Un narratore così trasgressivo, così aggressivo, così polemico (si è parlato di moralismo landolfiano) non cre-
de a nulla, nemmeno al nulla? Un intellettuale che prende
posizione pungente su tanti temi contemporanei è privo 198
di un criterio con cui riconoscere i significati che lo riguardano profondamente? Questo scrittore che si accanisce in tesi accanitamente reazionarie non ci fa in sostan-
za alcun affidamento? Cosa risponde la sfera dentro la quale Landolfi si nasconde come dentro una struttura eterna quanto le strutture mentali dell’uomo? Andiamolo a guardare mentre gioca al suo gioco preferito, alla roulette. Osservate come è fatta, visto che stiamo parlando di un formalista. Nella ruota ci sono trentasette numeri, divisi fra bianchi e neri, più uno verde, che è lo zero. Ebbene, voi direte, un narratore che parla tanto del desiderio di «non vivere» e che non crede a nulla, punta sullo zero. In effetti c'è in Landolfi l'ideologia dello zero, tanto frequente e ripetuta è la sua idea che non c’è nulla per cui valga la pena vivere. E questo è già un significato ben tangibile della filosofia landolfiana. E poi ci sono gli altri trentasei numeri. Ce n’ha di significati su cui puntare Landolfi, neri o rossi che siano. Lo zero è verde ma è solo uno dei tanti numeri su cui puntare. È vistoso ma non è
questo piccolo zero a dare la forma, la struttura, alla narrativa di Landolfi. Non c’è speranza nel verde dello zero della roulette. Landolfi ha un bel gruzzolo di significati da giocarsi quotidianamente. La ruota gira velocemente, e Landolfi è lì pronto a puntare su numeri e su colori. E un gioco d’azzardo e ci sono pochi calcoli da fare, come ben sa il poeta, che dopo avere «combinato» una lirica che è identica all’Infinito leopardiano, prova a vincere alla roulette con lo stesso sistema ma perde. I numeri sono sparsi in
«disordine» nella roulette, solo il caso può decidere chi vince, e sua legge fondamentale è l’imprevedibilità. «Il gioco è come la realtà» sostiene Lotman. Così imprevedibile è la realtà, nonché la vita, da quando è stata smantel-
lata la necessità che regolava l’esistenza umana — o così sembrava che fosse — quando erano egemoni le leggi meccanicistiche di causa ed effetto. Così ora fanno il loro gioco gli uomini. L’uomo è ridotto a particella atomica di cui si ignorano 199
velocità e direzione? Nel cerchio su cui gioca Landolfi basta che sia ignota la velocità perché non si sappia su quale numero puntare per vincere. Perciò ci sono 36 pro-
babilità di perdere contro 1 che si vinca. In sostanza un gioco «a perdere», dove la vittoria è un evento straordinario quanto la rivelazione di una verità sulla quale fondare la propria esistenza. Purché si ricordi che la ruota riprende subito a girare e che quella verità viene rimessa in gioco. E questa la regola del gioco? E una spina giocare così, e così vivere. Non c’è verso di cambiare, non possiamo dare una direzione a questo gioco. Una spina non è una freccia. Può essere una bella vincita anche quella che risulta dall’aver puntato sul colore. Landolfi non teme le opposizioni di nero e di rosso; e lui che è così nemico del rosso
non è poi alla prova dei fatti mai nero (ricordate il suo antifascismo: è netto quanto poco esibito), anzi ragiona in
un modo che potrebbe identificarlo con qualche metafisico della contestazione. E più difficile vincere, ma si vince ben di più a imbroccare un numero. Ce ne sono di idee di Landolfi che hanno il diritto di essere considerate vittoriose sia in politica che in parecchie altre discipline, a cominciare dalle teorie letterarie. E che dura lotta contro i vari realismi e neorealismi ha saputo affrontare e superare con audacia di ipotesi ed elasticità di posizioni. Landolfi ha puntato sempre sull’antirealismo e spesso vince. E il gioco che sa giocare meglio, eppoi la fortuna aiuta gli audaci. Comunque puntate sul rosso; è il colore del diavolo, l’antagonista, una spina nel cuore di Dio. Landolfi punta tutto sopra un numero, sul 37, quasi cioè da isolato, a far saltare il banco. C’è però un numero «astratto» che in sostanza non è nemmeno segnato sulla ruota della roulette. Più che un significato è una struttura. Guardate bene. La struttura della roulette non è un cerchio? Ebbene questo cerchio è il vero «grande zero» che Landolfi ama giocare. Uno zero metafisico che annulla tutti gli altri numeri, compreso lo zero verde segnato sulla roulette, e che esalta se stesso come unica alternativa 200
assoluta. «Non è il giocatore il soggetto del gioco; anche lui può essere giocato; e oggetto del gioco può essere la messa in gioco e il giocattolo» (Jacques Ehrmann). Il grande zero che è il cerchio della roulette è anche la struttura della narrativa di Landolfi? È un cerchio vuoto il punto di partenza; o meglio è vuoto quando la roulette è in movimento e non vi si vedono né numeri né colori. Landolfi ha fatto il pieno di significati e di parole ma questi per avere senso — la loro vittoria — debbono essere giocati: a caso, visto che non esiste altro criterio più valido. I vari significati annegano nella vaschetta, dalla quale possono essere tirati fuori uno per volta per un trionfo passeggero. Giacciono nel solco sotto l’occhio di tutti e qui brillano, ma chi vince sempre è solo il giocattolo. «La letteratura ricopre (o riproduce) non una realtà prima, una natura prima, ma al contrario, il vuoto dell’origine (e della fine). Vuoto, abisso, assenza, silenzio che la letteratura ripete» (Ehrmann). Dal vuoto al vuoto, pas-
sando attraverso i significati. Senza i quali comunque non esisterebbe il gioco. Che, secondo Caillois, avrebbe quattro categorie: la competizione, l’azzardo, la mimesi e la vertigine. Landolfi gioca d’azzardo per avere la vertigine. Ed è allora che vince la sua narrativa. Più che la vertigine, il vortice: cerchio che diventa cono, figura che finisce o comincia con un punto. Col cono Landolfi colpisce o indica la causa, l’origine, la colpa. Ne brucia di parole e di significati Landolfi nel cerchio vorticoso di una struttura che non può nominare il movente. Il cerchio è una figura piana? Anche Landolfi è un narratore di superficie. E piana anche la sua lingua, che è infatti priva dei rilievi e delle depressioni così frequenti, ad esempio, nella prosa rugosa e vulcanica di Gadda. Se un termine si alza sopra il livello medio, Landolfi ammorbidisce la salita al punto che il lettore non avverte alcuna gobba. C'è la gobba ovviamente, c’è la salita, e le valli: un’altalena in cui brilla l’agile scalatore e si piega nelle curve il discesista. Bravo il narratore a fare pianura anche nell’alta montagna frequentata dalla sua fantasia. Anche 201
l'immaginazione infatti, non solo la lingua, di Landolfi tende ad assorbire, non a scontare, l'evento strano o spaventoso. I personaggi che ci incappano, come il protagonista di I/ zar delle blatte, entrano nell'avventura surreale come se vi «stessero di casa», quasi una continuazione
della quotidianità. Si direbbe che ci sono abituati, ma presto si mettono a tremare dallo spavento, anche se ci fanno sopra dell'umorismo. Non s'era visto ironizzare così su ciò che continua a spaventare. Gli psicologi dicono che è impossibile, ma nulla più dell’impossibile tenta Landolfi. ì Quello della roulette è un cerchio particolare. È dotato di profondità, essendo concavo come una vaschetta. Non pensate al liquido, che farebbe pensare alla materia originaria del profondo, o inconscio che sia. Meglio restare in superficie come fa il racconto di Landolfi. Prima o poi anche questo si fa attirare da una forza irresistibile che parte da sotto. Un girare veloce che si trasforma in un trapano: oggetto molto spinoso che ha per punta un cono, compreso quello che conclude la penna e la matita, strumenti di scrittura rotonda e insieme assai puntuta. Un cono che è un vortice, movimento a spirale che produce quella metamorfosi per cui il cerchio si verticalizza. È pieno di buchi il cerchio di Landolfi e fa acqua e affonda verso la sua causa prima: magari un complesso psicoanalitico (Sanguineti indica la sessuofobia), ma qualche altro lettore rivolta il cono e lo indirizza verso il cielo,
dove la punta cerca un impatto più solido ma registra assenza. Il cono va certo a stuzzicare religione e metafisica e andando in orbita anche prima e dopo Cancroregina, ma la punta della figura cara a Landolfi è più energicamente attratta dalla terra e da ciò che sta sotto. Non è forse il gioco della torre l’ultimo cui Landolfi si dedicò fino alla morte (il volume omonimo di racconti è postumo)? La torre è un chiodo conficcato nel suolo. Nella sua narrativa c'è un uomo crocefisso che contempla beffardo il movimento circolare di un cielo mentre soffre le pene dell’inferno. Se quel cono è anche un cuneo che va diritto al 202
cuore, come fa Landolfi a prendersela tanto allegra? Una figura che si proietta verso il basso (dove c’è il Male) e che è speculare della proiezione verso l’altissimo. Una spina,
per Dio. Qui si fanno tante storie sul cerchio e sul cono (inizio della storia: La pietra lunare; fine: I/ gioco della torre), ma
Landolfi li apparenta. Il cono ha un cerchio che si assottiglia fino a diventare un punto, d’arrivo o di partenza che sia. In concreto i suoi racconti stanno nel cerchio: che sta in mezzo fra un cono di luce e un cono d’ombra. Una collocazione centrale che consente l’equilibrio tra le opposte spinte, quelle condizioni per cui lo scrittore sta sotto la luce con la coscienza di avere sotto l’ombra. Si dirà che si tratta di figure astratte e che tangibile è solo il cerchio dove si danno appuntamento elevate idee e oscuri incubi. Landolfi va a sondare e perlustrare i suoi coni d’ombra e di luce dappertutto, senza ritegno o prudenza o riverenza o pudore, non si scompone
più di tanto.
Attende che qualcuno faccia luce nel buio del teatro in cui si è tutti stipati. Sotto il cono di luce c’è un attore che fa scena. Landolfi fa il funambolo, il prestigiatore, nonché il clown. Lancia il cono perché vada a illuminare ogni zona del cervello o perché torni con messaggi tenebrosi, ma poi lo toglie e lo ritrae deluso dei risultati di una ricerca che aspira a toccare il fondo. Il cono di Landolfi è «spuntato», non c’è nessuno al vertice? Però sotto ci deve essere qualcuno che urla. Che diavolo c’è sotto? Che tabù è andato a toccare la punta spinosa del cono? Il cono ha inchiodato la «vita»? Un gioco da bambini, una trottola che non fora. Fa vortice anche la narrativa autobiografica, nonché i dialoghi, i diari, i racconti che parlano del fare racconti. Landolfi è meno «disumano» di quando trafficava con mostri, fantasie e incubi. I materiali sono quelli dell’esistenza di ogni giorno, le parole si sono messe a nominare cose visibili e tangibili. Il cono cioè si è ficcato dentro la vita in movimento e ha bloccato alcuni significati prima inaccessibili. Ha colpito nel segno, ha inchiodato il signi203
ficato? Se si trattasse solo della punta la si potrebbe staccare dal congegno o contesto e accontentarsi dei frammenti, «spinosi» e non, che sono i diari. Invano il trapano gira e le frasi è come se si trovassero in un frullatore. Hanno le vertigini, non si reggono in piedi, e il realista le manda all’inferno per «tradimento» verso quelle realtà cui il narratore pareva essere convertito. Il cono deve riprendere a girare, deve andare più a fondo di così. La sua figura indica sempre il profondo. Il «dialogo» di Landolfi sembra svolgersi in superficie (si parla del più e del meno) e in pianura (la sintassi è scorrevole) e alla luce del sole (il lessico è nitido, quasi senza traslati), ma in effetti si trova sull’orlo di un burro-
ne o su una brutta china. Presto c’è la frana e le parole precipitano quasi senza peso o svuotate dentro una cavità
che riduce a rumori le frasi che i personaggi continuano a dire. In questo infuocato imbuto che è la sezione finale dei racconti la lingua canonica si aliena, si mette al servizio di una forza «sotterranea», e la forma diventa schiava
dell'inconscio e informe movente o motore. Il dialogo accelera il ritmo, si scatena, arriva a temperatura di passione, diventa lava di una infuocata corrente vulcanica.
Vale poco raffreddarla col distacco o l'ironia, è coinvolto il nucleo che però si tira indietro, comunque non si lascia toccare. In quel liquido sarebbe annegato qualsiasi dialogo che si fosse avventurato sul cratere che è la psiche di Landolfi. C’è bonaccia nella fase finale del racconto, c’è calma in superficie, si esce dalla tempesta come svuotati, sono quasi spenti e piatti persino gli interrogativi. I coni sono le trasgressioni morali, le deviazioni linguistiche, gli shock culturali, gli straniamenti ideologici, ogni lancinante sorpresa con cui si penetra dentro la sfera di quanto si ripete secondo un uniforme movimento circolare. Sono una frattura e una ferita. Sono figure attraverso le quali filtra l'attualità intellettuale, per giunta in conflitto con le idee contemporanee dominanti. Sono il concreto che presto diventerà astratto, il tangibile che presto sarà intoccabile. Non è stato toccato il punto profondo che fa 204
corto circuito con quello altissimo per coincidenza di struttura. L’intoccabile non è stato toccato e il cerchio allora non tarderà a smussare la punta, ad esautorare la sorpresa, a legalizzare o respingere la trasgressione, a curare lo shock, a mortificare la deviazione dalla norma, a rendere effimera e inutile la risata, insomma ad annegare nella sfera tutto ciò che prima era spinoso. Tuttavia se la frase si arrotonda, la parola spigolosa non si lascia piallare. Anche se non punge, lascia un buon ricordo della sua trasgressione. Dunque: dal cerchio o sfera al cono, da una struttura circolare che è orizzontale a una verticale. Quasi una croce, che però gira vorticosamente, fino al momento in cui resta conficcata per terra. Ma questa è la conclusione della metamorfosi del cerchio, quando cioè Landolfi cambia gioco e dalla roulette passa al «gioco della torre», che lui svela dopo la morte lasciando il racconto omonimo da pubblicare postumo. Un messaggio dall’oltretomba. Il suo gioco letterario preferito fu all’inizio quello del cerchio. Suppergiù da La pietra lunare a La bière du pecheur, ma tornando a puntare fino a Le labrene. Eventi ermetici come i numeri o come tremendi animali domestici girano sotto gli occhi del giocatore, che perde sempre anche al gioco di chi vuole capire cosa sta succedendo. Qualcuno muove il giocattolo, oltre al croupier che dà la spinta con la mano sulla croce della roulette. L’accelerazione si mangia i diversi numeri e lascia vuoti di significati. Ma intanto fa vortice, il cerchio si affusola per indirizzare l’indice giù; è sotto che viene trascinato ogni discorso fatto in superficie. Così siamo arrivati a quel cono che diventa una perforatrice con cui il narratore cerca di penetrare sino al «fondo di sé». È la fase dei dialoghi e dell’autobiografia irreale (A caso, Racconti impossibili, Del meno, ecc.) o reale, per quel poco almeno che c’è in Rier va e Des mois. Si ferma la roulette e si vedono i vari numeri, i diversi significati. Ma il cerchio accelera, ha il mandato eterno di girare e di annegare nel movimento ogni senso stabile. Gira in folle finché non ingrana la marcia, che 205
però non lo condurrà in alcun posto. In una figura piana come il cerchio anche la trasgressione che è altrove lacerante si smussa. In Landolfi si possono compiere con naturalezza le maggiori efferatezze senza
che ne nasca scandalo. I lettori le assorbono, come se fos-
sero in grado di esorcizzare ogni male, crudeltà, irrazionalità. C'è tutto il «negativo» di cui si è entusiasmato o sdegnato il Novecento, ma c’è anche la coscienza che si tratti di una replica. Il cerchio itera con una tale velocità ogni male umano che non dà più l'impatto per cui urlano i moralisti. Landolfi non si inorgoglisce nemmeno del ribaltamento del negativo in positivo che certo di passaggio compie. In una struttura costretta alla ripetizione la sorpresa non viene data dal rovesciamento di un significato. La figura piana che è il cerchio va ripetendo che al suo centro c'è sempre qualcosa che non gira. E un punto fermo:
non ci si arriva mai, è inaccessibile, è astratto, e
potrebbe anche non esistere. Si sente il vuoto, e non lo si riempie nemmeno con la trasgressione.
In un racconto di Landolfi non si può non trasgredire, andare oltre e di là. Solo così si accede alla legge, come l’azzardo garantisce la regola. Il globo sembra non darsene per inteso, ma è accertato che non si muove senza trasgressioni. In questo senso gira il mondo di Landolfi, narratore nel quale la trasgressione, che appare come una punta graffiante, si curva per farsi assorbire dentro la sfera. «Spinoso» semmai è diventato un globo che resta indifferente a tutte le trasgressioni feroci e spaventose cui deve assistere. Può anche succedere di peggio ed esso non si scompone. Magari potrebbe esplodere, ma certo non perché ha praticato il male. Sarà come sempre un caso. Dio non gioca a dadi ma gioca, o alla circolare roulette o al verticale gioco della torre. Se questa è una croce, qual è la testa? Nel nostro globo non si vede né capo né coda. Lo sa solo Dio che senso ha tutto questo. Tale ignoranza, tale mancanza, tale assenza lo assilla, ma Landolfi se lo
può giocare solo a testa e croce. Al vertice, dove finisce il cono, sopra, ma ancor più, 206
sotto, c’è un vuoto che fa risucchio e trascina giù dal punto in cui c'è un foro. Si può fare qualcosa per otturarlo? Ecco il «pieno» che riempie — in modo passeggero, effimero? — quel vuoto: la punta conica della penna magari a sfera. Basta scrivere quando il vuoto minaccia così la vita? Il cono, indirizzato sempre più spesso verso il basso — la vita quotidiana, la conversazione futile, il linguaggio parlato e altra vuota concretezza — è ora una freccia che indica il foglio bianco. E a Landolfi non resta che scrivere. Lo ha sempre fatto, continuerà a farlo. Continuerà a scendere, all'infinito. Con il non finito, con gli appunti, con i frammenti di Riex va e Des mois. Scrivendo, senza senso,
ma con una forte attrazione oscura, sotterranea, senza fondo. Senza mai trovare il «fondo di sé». Una ripetizione, nel cerchio, una spina. Fino alla morte. E qui va a finire il cono, il gioco, il cerchio, il grande zero della roulette? Si scrive partendo da zero e ad esso si torna. Così gira la vita, il mondo, la letteratura: su un punto che è uno zero.
207
IL GIOCO DELLA TORRE
Tommaso Landolfi non pubblicò mai in volume il racconto I/ gioco della torre, che poi ha dato giustamente il titolo a una raccolta. Non si consideri intenzionale il fatto, forse è veramente
solo casuale che l’autore l'abbia
escluso per tanto tempo. È rischioso però tirare in basso il «caso» con uno scrittore che gli dà notoriamente una grande importanza. Per caso, I/ gioco della torre, oltre ad essere un bel racconto, fa un gioco diverso da quello a cui ci si era abituati puntando alla roulette. Ci deve essere anche continuità, coerenza col passato (che anche la torre sia circolare, allontanarsi dal solito cerchio), ma c’è pure differenza. Pensando così, a caso, vien voglia di credere
che il racconto sia un «messaggio dall’oltretomba». Potrebbe essere la verità, non diciamo quanto terribile per un autore che, secondo Calvino, avrebbe proprio l’incubo che il Nulla non esiste. A meno che I/ gioco della torre non stesse già dicendo che non esiste il Nulla e che invece c’è qualcosa per cui si può morire. Naturalmente l'urto è così violento che se ne muore, o almeno muore una parte di se stessi. A questo gioco si sopravvive ma è
un massacro. Ci sono tre giovani — due ragazzi e una donna con due figli — e si annoiano, non hanno nulla da fare e non c’è nulla di serio che a loro interessi. Parte dai due maschi la proposta di giocare; un gioco crudele con cui intendono 208
sfuggire alla noia, anche la madre, Guendalina. Giocano ma non hanno nulla da perdere né da guadagnare. E tuttavia giocano per perdere tutto, e insieme per guadagnare qualcosa che sia la base di tutto. Un gioco omicida che è insieme l’unica cosa che può dare, se non la salvezza, la sopravvivenza. Il gioco della torre è forse il gioco stesso della letteratura per Landolfi, scrittore del nulla che nella parola cerca tutto o almeno qualcosa che dia un tuffo al cuore? Un'altra caduta nel precipizio per trovare il «fondo di sé»?
Il gioco della torre ha due livelli: quello in cui le persone stanno in alto e quello in cui vanno a sbattere, cioè a terra. Tocca terra anche la narrativa di Landolfi, dopo avere volato tanto con la fantasia. Sono sempre stati due i suoi livelli: il primo, che si innalzava con l’immaginazione, il secondo, che affondava nel sottosuolo. Poi s'è messa di mezzo la sua vita, diari e altra autobiografia. E così la sua narrativa non ha più volato. Volano le memorie ma sono attratte dalla vita terrena. Va sul duro, c'è una caduta, e muore anche la narrativa di Landolfi, magari alzando
gli occhi al cielo. E pur sempre prosa, è concreta come mai è stata prima, e si rompe la testa nell’urto. Vengono fuori un bel mucchio di idee, che non sono mai terra terra. Landolfi non aveva atteso i libri di memoria per mostrare di che cervello era dotato. Ora tuttavia c’è troppa materia grigia. Ha cambiato colore l’intelligenza di Landolfi finendo sulla superficie terrestre. C’è più saggezza. Forse più sapienza, intelligenza non priva di follia. Quattro domande, quattro alternative, quattro decisioni. Si comincia col prenderla larga (Hitler o Mussolini?), poi il cerchio si stringe, gradualmente (Dante o Shake-
speare?), da una questione «professionale» (la letteratura) a una questione privata (il padre o la madre?) Finché non si arriva al punto: quale dei due figli? L'ultima, la domanda che colpisce al cuore la madre. Il cerchio si è appuntito, è diventato un chiodo. (È un chiodo fisso pure il cono:
difficile levarlo dalla testa). Un gioco lancinante, un gioco
lacerante. Come Guendalina, la madre del racconto, Lan209
dolfi è stato toccato al cuore dalla domanda sui due figli. Per avere un’emozione egli deve ormai solo indirizzare il chiodo sulla propria carne, sulla propria vita. Non c’è ormai che la vita vissuta, compresi i pensieri «vissuti», a
poter ispirare la prosa. Lì è andata a cadere la sua letteratura, lì tocca terra. Trovare il punto dove si soffre mortalmente. E lì si vive, lì è viva anche la letteratura, sia pure a pezzi. I frantumi della narrativa di Landolfi. Quello che si vede prima nel Gioco della torre è che si tratta di un gioco di morte. A ogni domanda la risposta ammazza una persona, pubblica o privata. E nella sostanza lo stesso gioco di Landolfi, che nella sua attività aveva sempre salvato pochissime cose; anzi buttava giù tutto, non avendo magari cuore solo di buttar giù la letteratura e il cuore. C'è il piano dove si discute di chi deve essere buttato giù e c’è quello su cui si va a sbattere per morire. Quanta gente deve morire prima che si possa salvare uno. E se qualcuno si salva, quante lacrime, che sofferenza, che vergogna, che senso di colpa. L’intelletto non è più d’aiuto, inutile rifugiarsi nell’ironia, giù la maschera, il gioco è finito, è proprio una tragedia. Tutti i giochi conducono alla tragedia: la roulette destina al fallimento, ogni puntata è persa, e il gioco della torre conduce alla morte. Dice Lotman che «il gioco è uno dei mezzi per trasformare in comportamento, attività, un’idea astratta». Che
cosa di concreto ricava Landolfi dal gioco della torre? Giocando Landolfi compie opzioni continue fra le fondamentali coppie della sua cultura e del suo vocabolario, della sua idea della letteratura, della sua vita. Eccolo lì a
buttare giù tutto ciò che disprezza o odia. Massacri e salvezze, fatti con intuito stratosferico o con vertiginosi percorsi mentali. Butta giù però anche molte cose che ama, deve buttare anche dei «figli» cari. Landolfi vince molto a questo gioco che lo arricchisce di significati tanto più tangibili quanto più estremistici. La metafora vivente di uno che non ama stare al centro. Preferisce mettere alla prova idee «astratte» (per quanto sono fantastiche) e farci i fatti più strani. 210
Il suo gioco ha allenato i lettori a pensare idee che possono «urtare» molto, ma che dopo aver volato poggiano sempre a terra i piedi, per scoperta di concretezza, sia pure assai audace. Alcune sono morte, ma altre non le ammazza nessuno. Semmai sono loro ad avere fatto fuori idee da buttare che stavano su. Comunque c’è sempre una domanda che uno non si aspetta e per la quale è inutile aspettare la risposta. Ci resta secco chi gioca, anche se poi versa molte lacrime. Solo le tremende verità danno violente emozioni; sono verità forse ormai solo
quelle che hanno effetti tremendi. Landolfi smentisce con I/ gioco della torre l'opinione di Lotman, secondo il quale «il gioco conferma conoscenze già acquisite». La madre del racconto omonimo non sapeva di amare un figlio più dell’altro, quando, trascinata dalla prepotente regola del gioco, scopre chi dei due butterebbe giù. Landolfi gioca sempre così, senza mai barare, anzi con un inflessibile rispetto delle regole: quelle del gioco e quelle del genere narrativo. Non c’è altro che il gioco, quando egli lo avvia. Per essere più precisi, c’è anzitutto lui, Landolfi, la sua storia, la sua cultura, la sua psiche, il carattere, anche la sua natura insomma. «La prima condizione per fare della musica, diceva Verdi, è di avere dentro della musica». Dunque c’è la musica di Lan-
dolfi, ma il narratore ignora qual è il motivo da suonare, come la madre nel Groco della torre. A questo gioco si è sempre ignoranti. Così ci si scopre. Col gioco, cioè con
una forma e delle regole fisse. Anche Landolfi deve scoprire chi e che cosa ama più della propria vita. Quando ha la rivelazione, la sua frase è presa dal ritmo parossistico in cui, come la madre, perdono la testa molti dei suoi racconti. Finché conferma conoscenze acquisite, il gioco di Landolfi può ancora fare la commedia; ma quando la domanda a ripetizione si avvita e trapana l’estrema resistenza dell’inconscio, c’è una lacerazione. L'ironia, la maschera impossibile e beffarda, l'eleganza del contegno nascondono una tragedia per cui non bastano le parole. Proviamo con le «cose». DEI
Chi e cosa ha visto dentro di sé la madre, che inorridisce, urla, impreca e piange? E stavolta non «sulle proprie finzioni» come Puskin. Semmai sotto, sotto la finzione,
che è il gioco. Si sa che ha visto la morte. Il gioco, anche quello della letteratura, ha sempre come posta la morte? C'è il gioco con le sue regole e c’è la giocatrice con il suo inconscio. Sono i due estremi del percorso, e il gioco consiste nel creare un contatto, che può essere un duro impatto per la giocatrice. Si tratta di un gran volo, che si conclude per terra. Tre morti su quattro lasciano quasi
indifferente chi risponde, ma la quarta volta, quando si è tranquilli e disarmati, il volo arriva violento a forare lo strato che protegge l’inconscio e vi penetra con effetti lancinanti. Il gioco così mette in evidenza quanto la giocatrice ha dentro di più segreto, anche a lei stessa. E si tocca il fondo. Nel Gioco della torre c'è un sistema culturale e c’è anche una poetica. Le regole sono «evidenti» e inflessibili. 1. Obbligatorio scegliere tra i due nomi proposti (devi buttare sempre una delle due persone o cose o parole, anche se ti dovesse essere oltremodo cara). 2. La distanza tra il punto di lancio e quello d’impatto col terreno è così grande da risultare sempre mortale (può essere la distanza tra la parola e la cosa, tra i due poli di una metafora: maggiore è la distanza, più forte è l'urto; gli atterraggi morbidi della letteratura realistica servono a far campare, ma non è vita quella che è stata salvata senza rischio dinanzi ai salti dell’esistenza). 3. Nel sistema di relazioni sono previste quattro opzioni culturali, di cui due sono intellettuali e «oggettive» e due sono sentimentali e personali (viene prima l’intelletto a preparare il terreno, magari la tradizione, la rettorica, il vocabolario, le strutture logi-
che, ecc.; segue il cuore, al quale si arriva attraverso i tuffi nell’inconscio: la regola del gioco è andata a scovare una rimozione nella madre che deve scegliere tra i due figli). 4. La ripetizione è di fatto uno svolgimento. Si può ripetere una forma classica (meglio ancora se romantica, direbbe scherzando ma non più di tanto Lan212
dolfi) e con essa fare la differenza che è la storia, sia della
forma che della cultura. Non sarà mai la stessa forma se è diversa la sostanza, o se la stessa sostanza è collocata in un
modo o in un luogo o in un tempo diverso. Non butterai mai la stessa sostanza nella stessa forma? Non è così eracliteo Landolfi, per il quale il casoè capace di questo e altro. Caso come combinazione? È un’«ars combinatoria» anche quella della narrativa di Landolfi, fedele alle perenni strutture mentali. Chi combina bene gli elementi del sistema, anche se ripete la forma, compone una storia che dice una cosa mai sentita e che solo ora può essere una inaudita novità, invenzione o scoperta che sia.
Delle quattro vittime «virtuali» del gioco due vanno a finire a terra: Hitler e Shakespeare; gli altri due: la madre e uno dei figli di Guendalina sotto terra, o meglio, nel sottosuolo psicologico di colei che gioca. Se il discorso, guidato dall’intelletto, va a finire a terra, i risultati del
gioco lasciano quasi indifferente la donna, magari anche quando per salvare Dante deve buttare giù dalla torre Shakespeare. Se invece vengono convolti il cuore e i sentimenti, gli effetti sono ben più rilevanti: tanto più se la madre deve scegliere tra la morte di uno dei due figli, sia pure per gioco, ma per un gioco duro la cui posta è una
rivelazione che «spezza il cuore». Le eterne strutture mentali sono in grado di ricavare dal proprio meccanismo logico perenni sentimenti? Ovviamente bisogna avere cuore, oltre che intelletto; e domande mortali. Dopo la svettante narrativa fantastica non perde un appiglio il maturo Landolfi autobiografico: quello di Rie va e di Des mois o dei racconti metalinguistici sullo scrivere, piuttosto che quello di La bière du pecheur. Quest'ultimo semmai ama sprofondare, o meglio, fa urlare il sottosuolo nevrotico. Nei «dialoghi», che restano in superficie, si era avvertito l’impatto con il profondo, ma nei diari Landolfi è anche troppo concreto: anzi talvolta si posa sulla terra con discesa quant’altra mai morbida. Le sue fantasie debbono invece precipitare come un fulmine per potere centrare un bersaglio distante e raro. T'anto magZI5
giore è la distanza coperta dalle sue immagini e dai suoi pensieri tanto più folgorante è la rivelazione. Ovviamente il lettore deve sentire che essa c’è stata, ma non dev'essere
reso partecipe della visione. Non deve sapere cosa ha visto Guendalina. E forse non lo sa nemmeno l’autore. Comunque non lo direbbe mai. La narrativa di Landolfi non confessa. Lo fanno i diari, prosa terrena. Guendalina, la madre, è investita violentemente e tra-
volta dalla rivelazione provocata dalla domanda, e senza rispondere scoppia a piangere. Fra i singhiozzi spiega ai due giovani, tutt'altro che innocenti, quali sono stati gli effetti feroci del gioco della torre: un corto circuito, un lampo nella mente, e ha visto quale dei due figli avrebbe buttato giù. Da quel momento non fa che lamentare la crudeltà del gioco e la va ripetendo con una frequenza che segnala ossessione; come a girare all’interno di un vortice che trascina sotto sino al silenzio del racconto. In prossimità di un tabù che sta per essere infranto, o tanto più dopo che l’impatto è avvenuto, la narrazione di Landolfi continua ad essere presa dalle vertigini. In tal caso la parola è sempre liquida, perde una qualsiasi relazione col suo significato, diventa ritmo e suono,
materia fonica,
puro significante, o magari «impuro», visto che si accompagna a un irresistibile senso di colpa. A questo gioco si perde perché si è colpevoli di qualcosa che non può essere nominato. Nei diari Landolfi chiama col loro nome molte cose ma, come Guendalina non nomina il figlio «condannato», qui tace sulla visione avuta. Ci sono tanti lampi e poche illuminazioni. Forse non c’è nulla da vedere. Può bastare quel poco che si sente? Solo un po’ di vita e solo quella che uno ha già? Diceva Bontempelli che i piani delle cose e delle parole sono paralleli; perciò esse non si incontreranno mai. È la grande frustrazione dell’arte moderna; la quale però esiste proprio perché non ha mai rinunciato a ritentare la prova. Tutti lì a trafficare con linguaggi inediti, con tecniche sofisticatissime, con trovate funambolesche per andare a verificare se sono latori di un senso che sia una verità 214
incontrovertibile. Le prova tutte anche Landolfi buttandoli giù dove l’incontro è un'esplosione. Pochi scrittori hanno pescato così bene nel proprio informe. Ovviamente ci sono anche molti pesci d’aprile. E comunque non ci si nutre con i pesci di Landolfi. Lui è capace per giunta di ributtarli nell'acqua. I suoi animali sono sempre e solo apparizioni. Tutte le sue cose tornano presto ad essere solo parole sfuggenti, ma si portano dietro il sentimento di quello da cui fuggono. Una volta frequentavano la narrativa di Landolfi animali domestici variamente repellenti, dalle blatte ai ragni, alle labrene. Si era tentato di fare dell’antropomorfismo e di farci allegoria per ricondurli alla ragione, ma l’interpretazione si era risolta in uno smacco. Quegli animali domestici non cedevano il loro segreto né ancora qualcuno è andato oltre l’ingegnosa congettura. Nei diari succede qualcosa di nuovo, è avvenuta la metamorfosi: quegli animali sono diventati dei pensieri. Il camaleonte butta via una pelle e resta un camaleonte: così si comportava l’animale di Landolfi. L'animale restava un animale, malgrado gli sforzi della critica di fargli cambiare pelle. In Rien va succede l’evento straordinario: al posto dell'animale che provoca spavento e ribrezzo ora il lettore trova un pensiero. E un «animale» liberato dalla gabbia del racconto intricato e lungo, e appare da solo orgoglioso della propria solitudine. La libertà ritrovata, il pensiero se la gode impazzando in tesi «proibite» che ora possono correre felicemente «contro corrente». Da come si scatenano si capisce quanto erano state represse. Bisogna distinguere tra queste idee. Alcune erano state nella loro precedente vita letteraria dei mostri abituati a sfrenarsi nel caos originario. Sia chiaro infatti che il pensiero di Landolfi ha, come la sua immaginazione, la propria origine nell’informe, né l’ha mai dimenticato come continua a dimostrare la sua natura ribelle e trasgressiva. Alcune idee dunque sono «mostruose», e se tali non sempre appaiono è perché ci si abitua anche al pensiero trasgressivo. Altre invece sono, come dire? più commestibi245
li: quasi che fossero la metamorfosi delle chiocciole di cui è stato sempre pieno il pensiero di Landolfi, da quando s'è messo a fare schiuma con i «dialoghi». In ogni modo tutte le idee si comportano come se ricordassero molto vagamente la propria natura precedente. Alcune restano spaesate, ma parecchie ne dicono di tutti i colori sul nostro paese, sulla nostra vita. Erano stati animali domestici e ora i pensieri sono «addomesticati»? E della natura del pensiero di addomesticare il mostro, di dare sintassi al disordine, di ridurre a concetti il materico che bolle sotto.
Così alcuni pensieri di Rier va sono docili, li tiri come vuoi col guinzaglio, sono idillici o elegiaci. Ma la maggior parte non è addomesticabile. Molti sono anzi scatenati, non li tiene nessuno, si sbizzarriscono. Sì, sono spesso bizzarri, o strambi ma non è solo questa la singolarità che li rende unici. Comunque non è facile acchiapparli. Danno ancora colpi di coda. Non si può addomesticare la musica, che da noi è così poco di casa. Non è la lirica la migliore musica di Landolfi. Con, o dopo, I/ gioco della torre arriva a terra anche la lingua di Landolfi. In Des 72015 fa l’elogio del parlato, del modo corrente di esprimersi, anche se non se la sente di condannare chi usa un linguaggio meno terra terra. Va
diventando semplice la lingua che era stata doppia e che perciò aveva fatto scrivere che parlava sempre d’altro. Ora invece aspira a impiegare parole che sembrano in grado di nominare le cose come mai si era illuso che si potesse. E la lingua di uno che vede e che tocca con mano? Diciamo piuttosto che sa trovare le parole correnti per le sue visioni, per i suoi paradossi, per gli scandali logici. La prosa ora può dare nome a tutte le cose; tranne ovviamente a quelle che non possono essere chiamate per nome. La parola è diventata «sufficiente», ma solo per dire quanto basta a uno che sta a terra ed è diventato incline all’elegia, alla confessione malinconica, alla lirica. Di sicuro era più ricca la parola «insufficiente» del narratore delle storie fantastiche e dei dialoghi, che andava più lontano 216
del discorso che aveva in testa. La lingua dei diari basta per dire quello di cui l’uomo maturo ha certezza, ma delle due schiere in cui egli divide gli scrittori Landolfi appartiene a quella dei «dubitativi». Invece è diventato «asseverativo», «affermativo». E la differenza che passa tra un memorialista e un narratore? Il linguaggio del narratore è sempre «insufficiente»? Nel Groco della torre ovviamente si vola, Landolfi lo ha
sempre fatto, ma stavolta non vola in alto bensì verso il basso, o più precisamente, precipita. La sua prosa è più «terrena», è attratta dalla terra, dalla vita che si tocca e
che è toccata. Landolfi crede sempre di meno nella narrativa e in generale nella fantasia. Se deve volare, lo fa col pensiero, abituato a toccar terra dopo aver compiuto grandi acrobazie. Cerca il terreno più saldo, quello privato e personale: come può essere quello della sua vita vissuta, magari in forma di pensiero. Talvolta si vola, ma più spesso l’impatto è troppo brusco. Ci muore la fantasia su questo terreno. Un prosatore fantastico, ma è un’altra cosa. Ora Landolfi è impegnato a porre domande alla vita, dall’inizio, cioè a cominciare dai figli. C'è qualcos’altro che tocca il cuore così a Guendalina, allo scrittore, al lettore? E solo un gioco ma si può azzardare a ripartire dalla vita, se lo si fa con l’aiuto dell’intelletto. Le epifanie sono diventate ragionevoli? Delle quattro domande del Gioco della torre le prime due chiedono la decisione all’intelletto, le altre due al cuore. Metà della narrativa di Landolfi è scritta con V’'intelletto, l’altra col cuore? Non dimenticate mai che in Landolfi viene prima l’intelletto, ma ricordate anche che esso non basta da solo. Al cuore non si comanda, ma, se non si è passati dal cervello, non arrivano forti emozioni. È l'intelletto a dare la forma, a creare il gioco, a predisporre il gioco letterario. Che ha però il suo approdo nel cuore: altrimenti non si dà amore per la letteratura. Ci vuole il colpo di fulmine, l’«epifania», la rivelazione, ed è il cuore a consentire il miracolo. Il cuore è fatto così, indirizza la punta in giù, potrebbe Zh
essere la punta di un cono, indica un punto per volta. Una freccia che colpisce un piccolo bersaglio per volta. La scaglia il cervello e va a colpire il cuore di una persona o di una cosa 0 di una parola. Una per volta, un pezzo per volta, mille frammenti scelti col cuore. Il suo intelletto cerca il cuore di una situazione che prima poteva diventare un racconto o un romanzo. Non ce la fa più il cuore e nemmeno la testa. Si è a pezzi, ma i frantumi del diario sono raccolti col cuore e con l’intelletto. Sono rocce emergenti nel mare dell’informe, fonte e destino di Landolfi. La vita nel Gioco della torre si rivela dopo una caduta verticale. La vita con cui si stabilisce il contatto in un punto per volta, sia pure sempre mortale. Un punto che è però anche vitale, nel senso che è viva solo quella scrittura che sta nelle vicinanze dell'impatto mortale con la terra: i frammenti di Rien va e Des mois. Un sospetto mortale investe la narrativa, specialmente il romanzo. Vive solo la prosa che fa nascere un vertice o una voragine. Ancora un cono dunque. Un cono che punta sulla vita, su ciò che non sta sotto come l’inconscio ma sul fondo, dove giace ciò che è inalterabile come i sentimenti e le strutture mentali. Toccare il fondo con la vita, col cuore e con l’intelletto, cioè con l’organo privilegiato della cultura. Bisogna avere il coraggio di buttar giù Shakespeare o Dante se non aiutano più a sentire la vita. Ci vuole una cultura che aiuti a toccare il fondo nella vita. E la morte per tale cultura, ma è un punto d’appoggio per risalire. Così si arriva al di sotto della cultura o si approda sempre a un altro linguaggio, cioè a qualcosa che non ha fondo né fondamento stabile? Non c’è nulla sotto la cultura, null’altro che cultura e linguaggio? La crudele rivelazione di Guendalina sta forse svelando che c’è un linguaggio proprio della vita? La propria vita, quella che a scriverla fa dell’autobiografia, prosa di un narratore che con la fantasia non è riuscito a toccare il «fondo di sé». Ancora un linguaggio dunque, cioè qualcosa che ha già fallito? omunque non resta che provare con la «vita», magari a 218
partire dai figli, che non sono mai da buttare, almeno a giudicare con l’intelletto oltre che col cuore. Sempre due livelli nel linguaggio di Landolfi. Tra la forma che magari
è fatta di tutte le forme letterarie, tradizionali e non, e l’informe, il nulla che è anche tutto, forse la vita. Ha un linguaggio l’informe? Dai futuristi in poi le avanguardie anno pensato che fosse una forma anch’esso. L'hanno avvertito pure i surrealisti, nei quali Landolfi ha per qualche tempo creduto: una lezione rimossa che potrebbe tornare utile alla fine, quando Landolfi non crede più nemmeno alla narrativa e si accumula appunti informali e ben formati sulla propria vita. Ha forse pensato che fosse questo il linguaggio di colui che nell’insufficienza del linguaggio naturale aveva imparato il «finto persiano»? Quanti «finti» persiani bisogna imparare nella vita per poter scoprire il linguaggio con cui un uomo può esprimere con parole sufficienti quello che in fondo è? Se ne può inventare uno con cui mettersi al servizio dell’informe, ma senza averne la rappresentanza? Un linguaggio che si mette in mezzo per far pace o mediazione o compromesso tra i due livelli. I quali sono invece destinati, come i piani paralleli tra parole e cose di Bontempelli, a restare in conflitto. Non dialogo bensì corto circuito: come quello che dà la terribile rivelazione a Guendalina. Due poli per un campo elettrico che deve essere messo in grado da un contatto o da una forma di fare scintille. Questa è l’unica possibilità offerta alla letteratura: produrre energia e far luce. La materia informe non finisce mai, non si finirà mai di creare linguaggi letterari che tentino di dare delle illuminazioni. Troppo poco? Sempre troppo poco, anche se fosse molto, per chi cerca il Tutto. E il nulla, o quasi, ma finché c’è energia, c'è vita. Quella fatta a pezzi di Rier va e di Des moîs, che è anche quella con cui Landolfi ha tentato di mettere «un po’ d’ordine» nella propria esistenza. Ordine?
Come
il piede caprino di Gurù, apparente
equilibrio formale che dentro ospita l’energia di un terre219
moto. Il volto umano, persino bello, dell’informe, si ignora cosa ci sia sotto ma è troppo forte l’attrazione perché sia nulla. Se ci sono le vertigini, c’è il vuoto, nonché la
morte. È un gioco con la morte il gioco della torre, nonché quello della letteratura. Quando si finisce di giocare c'è sempre un morto e c’è sempre un vivo: lo scrittore, che gioca sempre con la morte propria per conquistarsi una dilazione. Landolfi si limita a mettere in funzione i linguaggi ereditati dalla tradizione? Un pastiche, è stato detto. Meglio ancora Debenedetti ha parlato di «pastiche di un pastiche immaginario». Uno scrittore che si pone come modello un altro scrittore, che però non esiste. L’imitazione di un classico che Landolfi s'è inventato a misura propria o del personaggio che prova ad essere, come che sia purché sia quello che deve essere secondo suo destino. Forse un «pasticcio» ovvero miscela di linguaggi, quasi tutti quelli che gli inviano messaggi chiari o oscuri e con cui avverte complicità. Un linguaggio fatto di tante lingue e di tanti stili diversi, ma non incompatibili fra loro. Sono tutti lì vicini malgrado l’età e la classe e la sintassi: una contiguità che favorisce gli sconfinamenti e il contrabbando. Un deposito fuori del tempo dal quale attingere con rapina e compromessi, aggressioni e tregue, invasioni che si risolvono con la pace di una scrittura che firma i patti sapendo di non poterli rispettare a lungo. Per giunta scappa sempre via l’altro contraente. Sta dall’altra parte, non lo si potrebbe riconoscere, se ne avverte la presenza e anche l'assenza. O è solo una cultura, sia pure millenaria, a cre-
dere che esista. Scrittore «dubitativo» (e non «asseverativo»: l’opposizione è sua, è lui a buttare dalla torre che, uccidendo,
«afferma» perentoriamente), Landolfi continua a scavare nella cultura e nei vari linguaggi, magari sollevando lo sguardo al cielo in attesa di essere folgorato dalla verità che farà luce sul «fondo». Nessuno era andato a prendere possesso del linguaggio inventato di cui aveva garantito l’esistenza imitandolo? Con i diari Landolfi prova a trasci220
narlo allo scoperto, ma porta fuori solo dei frammenti.
Così è più concreto, si sente che c’è qualcuno di là, non
deve essere solo immaginazione ma la sagoma completa di un personaggio non prende corpo. Meglio raffigurarsela con la fantasia come aveva fatto da giovane narratore. Landolfi è più grande scrittore quando il suo informe risale o prende terra per assumere una forma creata secondo un modello dimenticato, o, come si dice, rimos-
so. Chi sperava di scoprire il segreto di Landolfi nei diari si disilluda. O meglio, continui a illudersi di poterne avere la rivelazione. Meglio l’attesa, la tensione, l’attenzione. Fate il vostro gioco, fate il nostro gioco. Tra l’avanguardia e la tradizione chi butterebbe giù Landolfi? Certo l'avanguardia (magari da recuperare come tradizione). Tra l’Essere e il Divenire? La risposta non si farebbe attendere: il Divenire (c’è già tutto nell’Essere e nelle sue forme eterne). Tra mito e storia: la storia (se uno sa sco-
prirci dentro il mito). E tra realtà e fantasia? Anche questo è ovvio: la realtà (nella fantasia si può ritrovare la sola realtà che veramente esiste). E fra tragedia e comicità? La tragedia (la comicità contiene la tragedia, mentre non succede l’inverso). E fra gioco e arte? Le domande si vanno complicando, l’intelletto non ce la fa a scegliere, e non si ha cuore di buttare né l’uno né l’altra. Facciamo però che venga buttato il gioco, visto che l’arte è anche un gioco. E fra la letteratura e la vita? No, la vita no, anche se
la vita che non ha più buoni motivi per stare su. E allora, non resta che buttare giù la letteratura come d’altronde oggi fanno tutti, compreso Landolfi. Ma la vita non è inutile per Landolfi senza la letteratura, senza il gioco letterario? Ebbene, per lui, la letteratura la si può condannare a morte quanto si vuole, ma essa sa sempre come si cade in piedi. Sta in piedi solo ciò che si sente da sempre? Sta con i piedi per terra la letteratura autobiografica di Landolfi, ma non è tutta viva, la più viva è ancora quella che per lui è morta. La narrativa fantastica di quando era giovane. Non c’è dubbio, tra la prima e l’ultima narrativa è da buttare la seconda. Da buttare? Niente di quello 221
che Landolfi ha scritto è da buttare. Nel gioco della torre che la critica continua a fare, molti racconti già buttati vanno salvati e non perché si reggono in piedi. Resta il fatto che i migliori racconti di Landolfi si reggono sulla testa. Un acrobata della logica; della fantasia, nonché del-
la lingua, tanto più se questa è a terra, quando le parole fanno un «paniere di chiocciole». Con la testa Landolfi scopre il guscio, con la lingua addenta la carne. Qualcosa non è di nostro gusto e la si può buttare, ma è tutto nutriente.
Un gioco antico, una forma che vuole ripetizione e giocatori disponibili agli attacchi del caso. Una forma assoluta e un essere umano in un determinato momento della sua vita. Se si verifica un impatto duro tra una forma e un uomo, può venir fuori una bella storia, magari terribile
come quella di Guendalina. Bisogna tenersi pronti, avere sotto mano tutto il caos della propria vita, saper fare delle scelte ragionate o istintive, avere passioni, magari quelle stesse che per Landolfi possono essere «inganni». Non c’è da sbagliarsi, la vecchia forma scende a marchiare un pezzo di esistenza. I vecchi linguaggi possono scottare, si urla, si capisce che lacerazioni produce la vita. Ovviamente tocca vedere come gira. Altri la stessa forma, l’identico linguaggio, li lascia freddi e indifferenti. Sono freddi anche parecchi frammenti di Rien va e Des mois. Una letteratura sul punto di morte. Come Shéhérazade. Deve ricordare tutte le storie che sono state raccontate, ma scegliendo solo quelle che possono piacere all’augusto ascoltatore che minaccia morte ogni giorno. Dura vita quella di chi per vivere deve inventare ogni notte una nuova storia. La narrabilità di tutto, non c’è nulla che non possa diventare racconto, non c'è alternativa al racconto
se si vuole sopravvivere. Così anche Landolfi. Il quale però di diverso ha che deve raccontare storie che hanno l’obbligo di piacere anzitutto a lui stesso: è lui il lettore privilegiato dei suoi racconti capaci di trasformare in narrazione tutta la vita. L'unico lettore di questo scrittore unico. 222
Shéhérazade, ovvero, l’arte di raccontare ogni giorno, anzi ogni notte. Afferma solo se stessa, la narrabilità di tutto. Il narrare come procedere verso l’altro, fine che non può essere raggiunto, pena l'impossibilità di raccontare. Shéhérazade non continua a narrare una nuova storia ogni notte per non essere uccisa dal marito. Lo fa per il piacere di narrare, ormai vero scopo della sua vita. Vive perché racconta non tanto nel senso che ottiene ogni notte una dilazione della condanna a morte quanto piuttosto in quest'altro: Shéhérazade vive per il racconto, finché racconta si sente viva. Quando non avrà più nulla da raccontare, è meglio morire. Né lei né Landolfi possono fare a meno del racconto. E solo astuzia della sopravvivenza? Con Rien va e Des mois Landolfi continua a raccontare storie e pensieri, ma si sente che sta venendo meno il fiato al narratore. Non ne aveva mai avuto tanto da fare un grande romanzo. Ora invece il respiro è corto, appena quanto basta per raccontare un aneddoto, un episodio di vita vissuta, un apologo da cui ricavare uno di quei pensieri che fanno volare alto come per immaginazione. Va diventando saggio anche Landolfi, come si dice dei moribondi che approdano alla verità? No, Landolfi non diventerà mai così saggio, non glielo permetterebbe il suo cervello, finché avrà intelletto non si accontenterà della veri-
tà con cui si consolano della morte i vecchi. Finché avrà fiato lui sta a interrogarsi, a cercare la parola giusta, a orchestrare la frase come si deve, sapendo che il libretto non basta e che indispensabile è la musica, l’arte sfuggente che sta sopra e sotto la letteratura. Non che faccia un melodramma, nemmeno per finta. Inutile ormai fingere, neppure il «finto persiano» conduce alla verità. Ci ha provato ma ha fallito, perché a questo gioco della verità non vince nessuno. Semmai ci campa la letteratura. Di sicuro è più che mai viva la letteratura di Landolfi.
223
I TITOLI DI LANDOLFI
Fingiamo che sia vero, e cioè che per Landolfi il gioco sia tutto, o quasi. Così abbiamo anche noi il permesso di giocare: con tutto e quindi pure con i titoli dei suoi libri. Ci sono quasi tutte le parole fondamentali del suo vocabolario: compreso gioco (significa qualcosa che appaia in un volume postumo?) Sono in evidenza sulle copertine: dialogo, sistema, lunare, amore, morte, nulla (in francese), mare, tempo, pazzo, caso, impossibile, infelice, racconto, ombra, realtà, memoria, società, scena, diario, vita, tre, due, uno, breve, sottosuolo, canzoniere, tradimento, meno, falso, storia. Facciamoci una storia combinandoli a
caso. Non vi lasciate smontare dall’obiezione di Lotman
che «il gioco può solo confermare conoscenze acquisite». Ci accontentiamo di conferme; se arriva qualche spicciolo in più si vince: per combinazione o per caso, ma c’è anche
il calcolo. Rien va plus, comincia a girare la roulette dei libri delle opere di Landolfi. Sono 37 i numeri, cioè i titoli, di romanzi, raccolte di racconti, di poesie, di saggi, favole, testi teatrali, nonché traduzioni. Qualcosa resta
sempre fuori del cerchio, perché non ha i numeri. I. Dialogo dei massimi sistemi (1937) La prima parola di Landolfi è dialogo. Discorso a due: la dialettica o l'opposizione tra vero e apparente, palese e 224
latente, autentico e inautentico, significante e significato. Le coppie dei «massimi sistemi»: l’Essere e il Nulla, il permanente e il divenire, il chiaro e l'oscuro, avanguardia
e tradizione, realtà e fantasia, concreto e astratto e ogni altro contrasto universale. Il 2 diventerà mai 1, numero che contiene tutto? Il doppio diventerà mai semplice? C'è anche un terzo elemento: l’ironia, che è doppia. Pure il titolo è un’imitazione, una citazione. Tutte le parole sono state usate. Tutte le storie sono state raccontate? Si può
essere galileiani in un mondo tolemaico? Il mondo è sem: pre lo stesso, eppure si muove, se uno si inventa una lin-
gua, magari il «finto persiano». Sarà mai vero il finto Landolfi? 2. Landolf VI (1959)
Ci sono almeno 6 Landolfi. Il narratore, il poeta, il saggista, il traduttore, lo scrittore di teatro e il memorialista. Ci sono almeno 6 narratori in Landolfi romanziere e autore di racconti: il metafisico, il surrealista, il moralista, il frammentista, il lirico, il metalinguista. Uno scrittore «ari-
stocratico» che è felice di non andare verso il popolo. Un re burlone per il carnevale del nostro tempo. Ci sarà da ridere. L’umorista
Parola di Breton.
Landolfi
invece è chiaro. Almeno in superficie. Uno mascherato. Ci sono almeno sei maschere.
è nero.
scrittore
3. Faust ‘67 (1969)
Forse ci sono 67 Landolfi, e c'è Nessuno. C'è con i suoi centomila anche Pirandello. Lo sperimentalismo di Faust, uno che non sa chi è e che si cerca in decine di linguaggi diversi. È impossibile essere «qualcuno»? Non è augurabile. Parola di Dio. Il vuoto dell’Essere e le mille tentazioni del linguaggio. Siamo negli anni Sessanta e si sente. Si sente aria di controcultura. Sin dagli anni Trenta. A Landolfi non basta il doppio. 225
4. Scene dalla vita di Cagliostro (1963)
Il mago, l’imbroglione, l’avventuriero. Il personaggio «fa scena». Potrà mai così essere dentro la vita? Trovate un impostore che sappia inventare una bella storia e credeteci. Il teatro cerca la vita e non la trova. Chi va dietro le quinte saprà la verità. O è solo questione di magia? Landolfi è un mago del racconto nel quale si crede, anche se si vede l’inganno. s. Racconto d’autunno (1947) È autunno per la narrativa, ingiallisce la fiorente letteratura dell'Ottocento, muore il millennio. É impossibile scrivere i racconti di una volta ma chi scrive così nel secondo dopoguerra, quando c’è l’inverno del neorealismo? Sono cadute quelle foglie, una brutta stagione. Fa notte e tornano gli incubi. La narrativa è di nuovo in un labirinto. C’è il Minotauro ma non c'è il filo d'Arianna. Non c’è via d’uscita. Si può ancora volare con la fantasia? La «nostalgia della dignità perduta» di Poe. Non siamo degni di raccontare come si faceva in estate, quando c’era tanto caldo, e tanto romanticismo. Nell'autunno della narrativa, le foglie, le forme di sempre, sono secche.
Come rinverdirle? Un post-moderno? La sua parodia non è «bianca», non è incolore, né neutrale. Landolfi invece è fazioso, dell’aldilà. C'è il fantasma di una narrativa d’altri tempi. Il racconto è esangue? Nel labirinto torna il colorito, torna il pallore e il tremore.
6. La spada (1942) Un narratore armato, uno scrittore in guerra. Narrativa
di taglio ma anche di punta. Non risparmia niente e nessuno. «Contestazione stilistica» (Pampaloni). Una ricca e forte armatura culturale, una lingua che infilza le parole più minuscole, non c’è oggetto, sensazione o situazione
che non venga toccato al cuore da questo spadaccino. 226
Non ci sono più combattenti così capaci di uccidere e insieme di dare l'impressione di fare sport. C'è la maschera a proteggere il volto. É una rete ma non acchiapperete mai il suo vero volto. Il duello infinito col lettore. Non la spunterà mai.
7. Ombre (1954) Le ombre dei grandi scrittori dell'Ottocento e del primo Novecento. Poe, Baudelaire, Mérimée, Hoffmann, Novalis, Cechov, Dostoevskij, Verne, Gogol’, Gonciarov,
Puskin, Kafka e tutti gli altri fantasmi che appaiono nell’opera di Landolfi. Linguaggi da cui attingere gocce di stile con cui risuscitare. Tutte le finzioni sono eredità del passato e sono «eternamente» complementari al presente, una per volta o contemporaneamente.
Farsi anzitutto
un’ombra, un linguaggio, una finzione, un doppio e poi le ossa e dargli sangue. Incontrerà mai l’uomo la propria ombra? Il linguaggio toccherà la cosa prefigurata? Come Puskin: «E io piansi sopra le mie finzioni». Landolfi ci può anche ridere sopra, ma trasmette un brivido. Ci sono anche luci in questa raccolta. 8. Gogol” a Roma
(1971)
Anime morte convenute in Italia per dare i connotati a un narratore che le evoca con passione. «Non si fa critica senza passione, senza cioè lasciarsi al caso ingannare». L’impostura romantica. Sade ha invece un «culto fanatico dell’intelligenza». Verne va altrove perché disprezza il mondo contemporaneo. Dostoevskij ha accettato di convivere con i diavoli e gli angeli che si sono dati convegno nella nostra epoca. Hanno portato qualche messaggio? L’artista ne è privo: e il lettore ha il diritto di attribuirgli quello che vuole, caso per caso. Passione, inganno, intelligenza, evasione surreale, nostalgia, satanismo, assenza di messaggio: materiali per un autoritratto: con impostura. Quante anime morte deve richiamare in vita uno scrittore 2251
del Novecento per sopravvivere! Un astratto materiale da costruzione. Bisognerebbe cambiare lo scheletro della
narrativa, la sua struttura. Basterà mettere molta carne al fuoco. È un inferno, detto con ironia. Se c'è Roma, c’è in
fondo sempre un cattolico. La buon’anima del cattolicesi-
mo di Landolfi.
9. Un amore del nostro tempo (1965) L’amore del nostro tempo pretende la trasgressione. Bisogna sconfinare per avere una forte emozione. Sembrano morti i sentimenti nel Novecento, mentre invece si
sono solo spostati. Bisogna inseguirli. Con la mente. Ci vuole molto cervello per arrivare al punto in cui è di nuovo possibile amare. A rischio di essere cervellotici o matti. Capire la trasgressione e amarla. Chi ha paura delle trasgressioni? Pensateci e tutto vi parrà naturale. Non ci sono tabù da rispettare. Nemmeno Landolfi. Potete parlar male di questo romanzo. ro. Le due zitelle (1945) La scimmia: il gioco non è il contrario del sacro, è come il sacro. Due citazioni: «non c’è per niente rottura
tra gioco e sacro; ...il gioco può trasformarsi in “gioco sacro” e il sacro in gioco». Lo ricorda Ehrmann nel saggio L’uomo in gioco. E sua la seconda citazione: «Il gioco implica (ed esplica) il fuori-gioco. La legge ciò che è fuori legge. Ogni cultura inventa le sue leggi, determina i limiti di un dentro e di un fuori, ritagliando così il suo campo simbolico. Ma il gioco è anche superamento e liberazione dei limiti della legge: alla violenza della legge risponde la legge della violenza. Il loro gioco: la messa in gioco di ogni civiltà». Il narratore del Novecento come «scimmia». Un’imitazione perfetta o quasi, con qualcosa di selvaggio. Le due zitelle destinate a restare senza sposo sono la parola e la forma? La scimmia dice messa meglio di tanti sacerdoti. Basta una scimmia se è così brava a fare le 228
stesse cose degli uomini. Nessuno sa trasgredire come lei e come Landolfi. Vince anche il processo alla scimmia nella seconda parte di un romanzo vittorioso. II.
Cancroregina
(1950)
Che pena vivere in una terra siffatta. Bisogna evadere, mettersi in orbita, stare più lontano dal proprio nucleo, dal proprio io. Il viaggio con la fantascienza non dà molto, si resta a girare intorno alle cose viste da sempre. Non basta il mutamento di prospettiva. Meglio comunque non ricadere nella solita narrativa italiana terra terra del neorealismo. È tutto una presa in giro, ma almeno ci si muove. Non si va mai in nessun posto ed è già tanto che si
passi tanto più in alto della terra, della vita comune. Purché non diventi contemplazione, che è un cancro. Non è un romanzo così a terra come si dice. 12. Ottavio di Saint-Vincent (1958) Se sei squattrinato, se sei senza un’idea in testa, basta
una moneta regalata dalla sorte, basta una parola trovata a caso e ti puoi arricchire, puoi mettere insieme una bella storia su cui fare ingelosire principi e duchi della narrativa. Non è reale, è surrealista che una parola ti possa condurre da tutte le altre, se hai testa e se le conosci per il loro significato e per il loro suono e se le sai usare. Associazioni libere? Magari anche quelle, ma soprattutto connessioni della logica, ovviamente una logica molto libera, anzi libertina. Non ti sposi, ma puoi innamorarti di questi paradossi che ti conducono a inattese rivelazioni di senso. Saint-Vincent. Il santo che vince al gioco. Secondo Debenedetti, è anche un successo di Landolfi.
13. A caso (1975) Il caso è il padrone, ma non bisogna lasciare nulla al caso. Conoscere perfettamente ogni parola, informarsi di D25)
ogni idea, fare tesoro di tutto ciò che la vita offre, o meglio, che costringe a conquistarsi. Liberare col caso la necessità. Il vero soggetto del gioco è il caso: caso cosmico, caso biologico e loro leggi. «Il gioco si esprime per mezzo del caos e della possibilità di organizzarlo» (Ehrmann). Il caos vuole regole e forme. La forma dell’informe. Sotto il narratore figurativo c’è un informale. Il caos è fuori scena, ma non è mai fuori gioco. C'è il caso che alcuni racconti possano piacere.
14. Racconti impossibili (1966)
Impossibile raccontare, non c’è più nulla da raccontare, non si sa che raccontare. Raccontiamo dunque questa
impossibilità. Una narrativa sul punto di morire. E da mille anni che Shéhérazade ogni notte racconta storie diverse. É arrivato il giorno della morte per la natratrice, per la narrativa? E invece no, si può narrare tutto, si può
fare narrativa con tutto, anche con questa agonia del raccontare. La narrabilità del nulla. Basta un nonnulla per filare una storia guidando le parole a disegnare personaggi e a tessere pensieri, magari impossibili. La metanarrativa di uno capace di fare sopravvivere il racconto quando pare proprio morto. Qualcuno pare vivo. Non è possibile continuare a scrivere così, senza crederci almeno un po’. La morte della letteratura? Mancano ancora due anni. 15. Un paniere di chiocciole (1968)
Una bava di parole copre tutto. Può essere repellente l’acrobatica bravura di chi non ha più nulla da dire. O è un dramma per chi non sa fare altro? Guardate sotto la bava e troverete il guscio. C’è un significato in tanta spumeggiante scrittura. É nutriente questo «manierista» (Perniola), ma si fatica a trovare la carne. Col sale aumenta la bava. Landolfi non è mai insipido, ma non bastano le spezie. Una scala da cui si scende. 230
16. La bière du pecheur (1953)
La bara del peccatore o la birra del pescatore? L’importanza dell’accento e del suono. L’equivoco, il cadavere squisito: si chiude una bara, si stappa una birra, dove non si arriva con la schiuma delle parole? Chi è che pecca tanto da meritarsi la morte? C’è un sepolto vivo che urla dall’interno. Colui che vuole pescare sotto tenti con l’ebbrezza. O è vertigine? Bisogna fare l'autopsia, trinciare il romanzo, guardarci dentro. Quand'è che una serie di rac-
conti diventa un romanzo? Nel Novecento la narrazione procede per contiguità di episodi che si inebriano della propria intensa brevità. Sulle bollicine della metafora surrealista la birra conduce alla bara e un pescatore si scopre peccatore. Un complesso di colpa? La birra del peccatore. Con questa Birra si diventa immortali. Condannate chi non è d’accordo ai Lavori forzati. Sarà un premio per chi cerca la bellezza dell’orrido. C'è molto da pescare qui. 17. In società (1962) Siamo tutti in società, anche chi crede di essere fuori, di abitare nella letteratura. Magari da isolato, da dandy, da estraneo. Cattolico ma miscredente, ermetico ma ma-
niaco del dialogo, loico ma dell’irrazionale. In società? Semmai contro la società. Far vita di società per essere altrove. Un metafisico? C'è anche il corpo. Non ci si può denudare in società, tanto meno in quella attuale. La società è borghese, ma non si può essere così fanatici del denaro e del successo mondano. Landolfi odia la società del benessere, così piccolo borghese. Meglio essere un «aristocratico», un nobile mascherato. Tante belle maniere per essere un «contestatore». Uno che non sa stare in società né in questa né in nessun’altra.
18. Se non la realtà (1960) La realtà è solo un’apparenza? Ma allora cos'è questo 251
impatto, che cosa ha urtato il linguaggio, se si è fermato?
È la verità? Non basta nominarla, non serve il realismo,
non c’è nulla di tangibile. O è vero che c'è solo la realtà, la sua apparenza, ed è da essa che bisogna partire? Tocca raccontare fatti di realtà quotidiana che suggeriscono qualcosa di diverso da quello che nominano. Se non la realtà, cos'è che tormenta tanto. Potrebbe essere metafisi-
ca, ma di sicuro c’è anche la nevrosi. «La psiche è una cosa» (Debenedetti). Si tocca la nevrosi di Landolfi, ma
stavolta non è toccante. 19. Il tradimento
(1977)
Tradire se stesso. Essere diverso, nascondersi, per «tradirsi», per avere la rivelazione dell’altro, del se stesso da mettere in versi. Porsi al servizio del nemico per vincere la propria guerra. Come si tradisce la «vera personalità».
Il traditore finisce sempre per confessare. Nel verso giusto, nel 707 juste, epigrammi con cui Landolfi si tradisce. Non è questo il suo linguaggio. Dategli spago. Così si strozza, così strozza il discorso. 20. Il mar delle blatte (1939)
Il mare che è madre. L’inconscio è infestato dagli insetti. L’informe mare si è trasformato in blatta. La metamorfosi di un’arte che era stata informale e ora ci prova a essere di nuovo figurativa. Ci vuole la psicoanalisi per navigare dentro. Stanno arrivando altri animali domestici. Sono di casa i ragni, i gechi e i topi ma non sarà facile addomesticarli, assegnar loro un significato psicologico. Forse si sta parlando di morte.
21. Il gioco della torre (1986)
C'è sempre qualcuno da buttare giù e qualcuno da salvare. C’è un sopra e un sotto. Ci sono molte alternative e altrettanti morti ammazzati. Uno schema verticale per 232
opzioni letali. Non muoiono solo gli altri. Due piani: l’intelletto e i sentimenti. Un tuffo al cuore. Ogni due parole una è da buttare, ma l’altra resta su. Non si possono amare con la stessa intensità due linguaggi? Landolfi non butterebbe nessuno, ma solo uno dice la verità in un determinato momento. Sceglie il cuore, l'intelletto non basta da solo. Landolfi ha sempre il cuore in testa. 22. Rien va (1963) e Des rm0îs (1967)
Il nulla in francese suona quasi alla fine del gioco. Urge e corre implacabile: bisogna che si affretti chi vuole ancora puntare. Un gioco a cui si perde quasi sempre. Ci sono casi in cui il nulla può essere vinto? Quando entrano in gioco i «suoi», gli affetti famigliari, i figli, esce qualche numero vincente. Dopo Rier va viene Des mois. La struttura landolfiana che annullava tutto si è messa a liberare significati «positivi»? Briciole contro il nulla ma sono nutrienti, anche se passeggeri, come tutti i numeri della roulette che è la vita. I «suoi» contro il nulla, i «mesi» contro il tempo. Landolfi dunque dove va? Torna in sé? Non è però quello di prima. Per essere diverso, si è fatto a pezzi. A pezzi va bene, ma l’insieme è quasi edificante. Piedi per terra e sguardo in cielo. Manca il sottosuolo, manca la fantasia del giovane narratore. I vecchi toccano con mano la verità. Una finzione? A Landolfi pare finalmente vera la sua vita, ma è solo autobiografia, scrittura in sembianza di verità. 23. Tre racconti (1964)
Due racconti su tre non sono belli. Meglio restare muti? La perfezione è nel silenzio, ma Landolfi ha una gran voce. Ci sono tre livelli di discorso: una vicenda tragica, un personaggio che ci arzigogola sopra, il senso del racconto che non confessa. Tre meno due fa uno. «Il pastiche di un pastiche immaginario» (Debenedetti). Non c'è nessuno sotto? C’è da immaginarlo. Con La muta si resta senza parole. Bello il silenzio eterno. 235.
24. Del meno
(1978)
Meno di così non è possibile. Difficile conoscere il momento in cui aggiungere qualcosa, quando si va a caso. Nel vuoto una parola si mette a tessere una storia che non ha né capo né coda. Vengono sempre meno le occasioni con cui costruire un bel racconto. Racconti che possono essere fatti di nulla e che spesso sono nulla. Però bisogna tenersi pronti con la penna a mezz'aria. Ogni momento potrebbe essere quello buono. Più o meno. Qualcuno è anche ottimo. 25. Le labrene (1974)
Uno scrittore attirato dalla luce. Va a caccia di farfalle. Dove non arriva la lingua di Landolfi! Non c’è cosa che non sappia nominare. Questo narratore è ancora più bra-
vo se suggerisce. E capace di arrampicarsi sugli specchi, ma ci sono cadute. Rispecchiamenti per avere visioni. Si vede poco, che paura! Di chi sono al servizio questi animali notturni? Restano gli interrogativi, hanno la coda, e c'è anche il veleno. Chiedetelo ai critici: un libro tossico.
26. La pietra lunare (1939) La scrittura è solare, il romanzo è lunare. Cosa c’è sotto
tanta luce lessicale e sintattica? C’è una pietra, il nucleo oscuro e inaccessibile del racconto. Colpisce nella fantasia specialmente all’inizio Gurù, personaggio ambiguo. Cercate la filosofia di Landolfi, consiglia Calvino. Ne ha di significati questo narratore, tanto significante. Ora è chiaro come il sole che è un grande scrittore questo selenita così lunatico. La luna è piena e non mancano i brividi. 27. Traduzioni (dal russo, dal tedesco e dal francese).
Almeno sei: Puskin e Gogol’; Novalis e Hoffmann; Mérimée, quello dei Falsi Demetri e Dostoevskij, quello 234
delle Merzorie del sottosuolo. L'ultimo potrebbe essere il primo e stare alla base della narrativa di Landolfi, scrittore da sottosuolo. Difficile tradurre fedelmente la voce che sale dal fondo. È ermetica. «S'è perso il modello» (Savi-
| nio). Tradurre e tradire, contraffare il modello romantico. 28. Breve canzoniere (1971)
Versi come epigrammi o aforismi? È il componimento breve la misura più adatta a Landolfi. Racconti (magari lunghi), romanzi brevi (Le due zitelle), romanzi a pezzi (La bière du pecheur) o frammenti narrativi (Rien va e Des
mois) spesso lirici: breve modo di cantare quel poco che di volta in volta consente di alzare la voce. Romanze? La migliore musica di Landolfi può nascondersi nel recitativo. Un narratore che «recita», finché una frase non gli tocca il cuore, o la mente o la fantasia, oppure tutti e tre gli organi insieme. Strumenti metafisici per versi che tambureggiano idee dell’altro mondo. Epifanie di non nati. 29. Mezzacoda
(1958)
L’ultima fase della produzione narrativa di Landolfi? È dura da scorticare. La si può tagliare via come la coda di una lucertola? Guardate come si agita, quanta frenesia. Non porta lontano, è priva di capo. Con una testa siffatta non muoiono così presto Le labrene. Che metamorfosi, eppure sembra rinato il giovane autore del Mar delle blatte. La metà della produzione dell’ultimo Landolfi — racconti, diari, poesie — non è da buttare via. Anche con mezza coda colpisce il lettore. Alla testa? Anche al cuore. Con Tre racconti, Le labrene, Il gioco della torre, Viola di morte, Rien va e Des mois il narratore non resta in coda alla letteratura degli anni Sessanta e Settanta. Si respira la morte dell’arte, ma si sente un buon profumo. A Landolfi simezzalcoda per rimanere in testa. Quando lo fisseranno in mente i lettori? Landolfi li vede con la coda. Basterà un testacoda del gusto per far correre come si 255
deve la fama del narratore di Pico? Siamo ancora a metà strada.
30. I/ principe infelice (1954) La critica lo acclama, si aspetta da un momento all’altro l’investitura popolare. Non per questo è infelice l’eterno principe ereditario della nostra narrativa. Diventerà mai re un narratore che ha scritto tanti piccoli capolavori, ma non l’opera con cui coronare la sua principesca letteratura? Portate fiori sulla tomba di questo infelicissimo scrittore. Bisognerà fare un’antologia. Magari diversa da quella di Calvino. Si facciano altre antologie dei suoi racconti. Almeno saranno felici i sudditi del principe. Se fosse stato «machiavellico» ora li avrebbe sotto tutti i lettori. 31. La raganella d’oro (1954)
Il metallo non disturba. Non ci sonanze logiche. scrittore di testa
potrebbe essere migliore, ma la musica tiene a fare melodia uno che ama le disIl cervello non sempre gradisce. Uno che talvolta deve essere cerebrale per
arrivare a un motivo inaudito. Cercate altrove, in altre
opere. Molti racconti sono aurei, specialmente quelli del filone fantastico. Una moneta dal suono sinistro. Chi suona in modo così orrido? Il silenzio è d’oro nei narratori del surreale. Landolfi batte moneta per tenere svegli. Un falsario conia biglietti che valgono più di quelli della zecca. Non è mai nuovo di zecca Landolfi? E allora perché è così «assordante». Cosa vuole coprire con questo chiasso? 32. Viola di morte (1972)
E questo il colore della morte? Si tratta anche di un fiore. Un’esistenza piena di lividi. Questa vita non profuma. Sarebbe stato meglio stare zitti? Epigrafe: «In molte parole tacque». Molte parole potevano essere risparmia236 -
te, in versi e in prosa. Ma sono molte le parole scritte sul marmo. Anche su La pietra lunare, per cominciare. Non
poteva finire così. Dopo la morte Landolfi sta crescendo di statura. Eppure s'è portato nella tomba un segreto... «inviolabile». E di esso vive «sempreverde»: ovviamente dove è. Dove? È un segreto? Dite un titolo, così, a caso e potreste indovinare, vincere. A leggere Landolfi non si perde mai.
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Il racconto La Capitana spicca in L’amata alla finestra, che è la più bella raccolta di Corrado Alvaro e che forse è — con Gente in Aspromonte — la sua opera migliore. Si metta nel calcolo il fatto che essa si affaccia, sta tra i primi e in un certo senso è all’avanguardia, nella narrativa italiana degli anni Venti. Un’opera giovane che non è ancora invecchiata. Il racconto deriva il titolo dalla Capitana Cica Lagamba, una donna bella e procace, dal sorriso dolce e feroce, che guida una banda di Massesi Calabresi contro i giacobini. E lei il personaggio femminile di più alto «grado» e di più vistosa autorità, ma altre donne acquistano una più sottile e prepotente evidenza in L'armata alla finestra. Comunque, cercate la donna nei racconti di Alvaro: vi condurrà al segreto della sua narrativa. Seguiamo intanto il percorso della Capitana. Dunque, un giorno la banda arrivò in un paese e la Capitana, rivolgendosi alla gente che si accalcava intorno, chiese gridando se qualcuno volesse seguirla. «Un uomo pallido, dal viso appena ombreggiato dalla barba rossiccia, si fece avanti e si mise la mano sul petto. La Capitana lo guardò e gli sorrise. Egli disse: Ho un buon cavallo e un fucile”. “Quanti anni hai?” “Ventidue”. Gli strinse la mano ed egli le si mise al fianco guardandola. Ma uno della folla, che aveva guardato la Capitana con occhi fissi e incantati, 241
le si avvicinò per dirle: Quest'uomo che avete preso ha dei libri in casa, sa leggere e scrivere. Pensateci bene. Legge il francese... Il giovane tirò fuori dal sacco, che aveva già preparato, due volumi rilegati in cartapecora e aprendone uno disse: “Questo è un libro di un santo, san Giro-
lamo”. Ella chinò il viso sulla pagina aperta e si mise a compitare a fior di labbra; il giovane le vedeva le guance piene, l'occhio unido e tornato infantile mentre era intenta a decifrare le sillabe. Dopo di che la Capitana baciò la pagina, facendovi prima una croce con l’unghia. L’uomo allora non fece altro che tracciare sulla fodera, con un dito intinto di nero: “Viva il Re. Viva Dio!”; spaccò una canna a una estremità, nella fenditura fissò il libro e lo levò in alto, mostrandolo a tutti. L’altro volume lo buttò in terra e lo allontanò con un calcio. Ma il portabandiera lo raccolse, lo infilò a una canna come aveva fatto il primo e lo agitava; il vento giocava con quei fogli e lasciava leggere il frontespizio: “Voltaire, Romans allégoriques philosophiques”, ecc.» Chi è il più giovane che si sta arruolando in una banda popolare ma antirivoluzionaria? Legge il francese, ha come vademecum le opere del più celebre scrittore illuminista, non si lascia «incantare» e mantiene un atteggiamento distaccato, come di chi sceglie avendo fatto un calcolo, non solo personale. Potrebbe essere lo stesso Alvaro, o almeno potrebbe credere di essere così lo scrittore. Non è forse egli uno che tende a parlare sempre più o meno direttamente di se stesso? I connotati corrispondono, e non poco, a quelli del più diffuso ritratto di Corrado Alvaro. Che è un narratore noto anzitutto per avere raccontato la storia di un contadino calabrese che per reagire a una serie di soprusi prende il fucile e si fa giustizia da solo, visto che la legge è dalla parte dei padroni. Anche con La Capitana siamo fra la «gente d'Aspromonte», pronta a far da sé o a formare banda contro soprusi, sperequazioni e ingiustizie di ogni genere. Di nuovo semmai c'è che a guidare la guerriglia ora c'è una donna. Che sia Alvaro pure la Capitana? 242
All’inizio il giovane ha con sé due opere che normalmente vengono considerate alternative, suppergiù come il diavolo e l’acqua santa. Alvaro fa il doppio gioco? Lo si è detto esplicitamente, pure senza riserve moralistiche, che
c'è un doppio Alvaro: un narratore che si sdoppia tra opposizioni perentorie, quali quelle tra città e campagna, storia e natura, primitività e cultura, avanguardia e tradizione, lirismo e racconto realistico, saggistica e narrativa,
progresso e rivoluzione. Semmai di moralismo si è fatto tanto per avere egli scritto un libro che elogiava il risanamento fascista dell'Agro Pontino. Alvaro fa campagna, scende comunque in campo quando c’è di mezzo la vita migliore dei contadini? Un brutto scherzo giocatogli da san Girolamo, da un accecante fervore religioso per la vita dei campi? Un calcio al santo se per rispetto della natura ne difendesse la «miseria». In uno scrittore «ambiguo» non è facile interpretare i gesti, nemmeno quelli che sembrano non ammettere dubbi. Di sicuro c’è un atto di abiura, se dei due libri che
porta nel suo sacco salva quello del santo. Tuttavia c’è un’astuzia della Provvidenza se il portabandiera della Capitana raccoglie da terra il volume di Voltaire e, infilato a una canna, lo agita al vento. Sta dicendo forse Alvaro che la rivolta popolare, magari inconsapevolmente, è sempre rivoluzionaria? Forse no, ma intanto viene un’al-
tra conferma all'opinione che Alvaro o ha nel sacco o li mostra autori che pare strano possono andare insieme.
Finché non dà un calcio a quello dei due che è «contro il popolo». Alvaro non combatte sotto due bandiere. L’ambiguità potrebbe non essere neutrale. Non è ambiguo però il fatto che è sempre lì a lottare dalla parte dei poveracci che non hanno e che non sanno. Un calcio a Voltaire se non capisce quelli che non sono illuminati dalla sua cultura. Alvaro cammina dunque con due autori che nel sacco di qualsiasi altro scrittore fanno a cazzotti. Invece in lui mostrano di andare d’accordo, almeno fino a quando una
necessità «storica» o politica non lo costringe a optare per 243
quello dei due che può contare sull’«aiuto di Dio». Ci deve essere un disegno, un progetto, che è capace di sembrare un destino. Lo sa solo Dio qual è, ma talvolta lo ha immaginato anche Voltaire. O san Girolamo. Sotto a chi tocca purché si vada meglio avanti. Un calcio a Voltaire se, avendo dalla sua la ragione storica, trascura la forma inconscia da cui nasce un nuovo ordine. Il popolo non parla, ma ci sta pensando alle proprie ragioni. A san Girolamo risulta più congeniale affondare o salire fino a tali strutture. Puoi anche buttare a terra delle ottime idee se si fermano a «prima della rivoluzione», o se non capiscono i desideri della gente che ha solo fede. Si alternano nella cultura d'Occidente Platone e Aristotele. Mettiamoli nel sacco, potrebbero tornare utili, secondo la
necessità del momento. Questa è una guerra che non finisce mai. Un calcio a san Girolamo, quando «la vita solitaria» serve solo a salvare l’anima. Voltaire è il pensatore e san Girolamo è il poeta? Ancora: Voltaire è il saggista, san Girolamo è il lirico. Chi ne ha più ne metta: Voltaire racconta storie oggettive, esem-
plari, tipiche; san Girolamo nelle epistole «ricorda» eventi vissuti personalmente. Dal precario si vede l’essenziale, in ogni dettaglio ci può essere un segno di Dio. Ad Alvaro che desidera ardentemente narrare fatti personali che siano capaci di diventare universali, Voltaire garantisce l’attualità delle idee, san Girolamo promette l'eternità dei sentimenti. In tale dialettica che parte ha Alvaro? È il terzo personaggio, colui che porta avanti la sua guerra personale da narratore, cioè da scrittore che deve mettere nel sacco il saggio e il santo. Voltaire, l’attività intellettuale, la tensione culturale, il lavoro critico, la ricerca di un nuovo linguaggio, la sperimentazione di codici inediti, la scrittura saggistica. Quando poi ce l’hai nel sacco tutte queste cose, è utile trasformarle in materia di fede, dar loro il calore che le faccia sentire vive. E invece non serve un Voltaire canonizzato,
guai a santificare l’illuminista. A lui tocca sempre la parte di chi non crede. Quando non funzionano più le buone
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ragioni di una volta, allora è meglio lavorare nell’oscurità, nelle tenebre della «vita solitaria» che san Girolamo elogia proprio nella prima epistola. Lui consiglia di guardare dentro di sé. «Attenti all'anima» prega il santo. Alvaro, che è nato nella Magna Grecia, traduce l’anima nella lingua antica degli avi e scopre la psiche. Proprio in tempo, quasi un destino. Negli anni Venti del Novecento si va avanti con l’analisi della psiche. Non è però l’analisi che serve, bensì il racconto, quello che manda segnali dal profondo, territorio tenebroso che per ovvio simbolismo qui si è assegnato alla giurisdizione di san Girolamo. Non era stata ancora santificata la psicoanalisi, ma allora faceva miracoli. La psicoanalisi è voltairiana? Bisogna prenderne le distanze. Con la narrativa, linguaggio ambiguo. Comunque occhio al corpo, ha un’anima e ha un suo oscuro, «incognito» linguaggio. Il linguaggio del primo Alvaro è ignaro di psicoanalisi ma non di anime. Alvaro: Voltaire più una x. Per questa incognita Alvaro dà ogni tanto un calcio al suo Voltaire, al saggio, all’articolo giornalistico, all’opera storica, e si arruola come narratore. Darebbe l’anima al diavolo pur di fare un po’ di luce nell'uomo contemporaneo che scappa dall’illuminismo e dal positivismo. Questa è una storia che va raccontata in modo diverso. Così Alvaro butta per terra e scansa e scarta la descrizione naturalistica, la satira politica, nonché il romanzo-saggio. La narrativa è tutto questo, e altro, insomma cercate l’incognita. Più tardi Alvaro riprenderà in mano il romanzo saggistico e lo terrà alto come il portabandiera della Capitana: quando nel secondo dopoguerra scriverà la trilogia avviata con Tutto è accaduto e altre opere colme di idee e di interpretazioni. Ma ora in concreto, nella Capitara, un
calcio a Voltaire in quanto rappresentante dell’ideologia che continua a fare la rivoluzione con linguaggi e signifi-
cati «settecenteschi». C’è sempre una «rivoluzione nuo-
va» da fare. Può farla meglio talvolta san Girolamo, il controrivoluzionario? Non si sa bene la ragione, comin245
ciamo solo ora a fare luce, ma nella storia è capitato pure che avessero ragione i «nemici della rivoluzione». Cerchi di capirlo il saggio, il romanzo-saggio. La narrativa è altro. Se Voltaire diventa un oppressore, un calcio a Voltaire. Col linguaggio del corpo e senza idee progressiste se non quello del primitivo cristianesimo i contadini di Alvaro sono più avanzati che non quelli politicamente consapevoli della narrativa del naturalismo che nel secolo precedente era stato all'avanguardia nella lotta per i contadini. Anzi sono addirittura le ignoranti contadine le vere rivoluzionarie, anche se prendono le armi contro Voltaire. Non solo la Capitana che parla e spara e uccide, ma anche quelle che non hanno parole e che magari si esprimono con lo sguardo, tenendo chiusa la bocca. Occhio al corpo,
dunque, attenzione al linguaggio del corpo di queste donne che sono una minoranza silenziosa. Si fanno sentire, eccome, nella narrativa. Anzi, armi alla mano e con altre
«cattiverie», le ordinano di essere taciturna, quasi muta. Con le sue idee Alvaro stava insieme alle avanguardie del primo Novecento: un esercito impegnato a combattere le degenerazioni della società industriale, la massificazione, l’alienazione, il feticismo delle macchine e dei consumi, ecc. Un calcio a Voltaire, se non capisce che un progresso siffatto mentre taglia la testa a vecchi privilegi, nutre col sangue del mondo precedente figli deformi. Chi ha la luce della ragione non può non capire che si può, per salvare l’uomo, andare col diavolo, o con san Girolamo: cioè con tutti i linguaggi oscuri con i quali si esprimo-
no desideri che non hanno ancora trovato i concetti e le parole pertinenti. Era «reazionario» san Girolamo quando mostra di preferire la vita solitaria, ad esempio quella dei contadini, all’alienazione industriale degli operai? Alvaro desidera fin che può una rivoluzione contadina. Alvaro fa fare l’altalena a Voltaire, prima gettandolo a terra poi facendone una bandiera, per dargli più tardi magari un altro calcio. Il narratore calabrese rinnega l’illuminista se questi affida tutto alla ragione, e per giunta 246
solo alla propria. Se Voltaire viene usato per sublimare idee che «offendono il popolo» e non solo quello che combatte i francesi sotto la Capitana, è giusto che stia a terra. Se Voltaire è invece una struttura che prefigura un modo concreto di realizzare una rivoluzione che liberi l’uomo dall’ignoranza e dai soprusi, le sue opere debbono essere tirate su tanto in alto che il vento ne faccia una bandiera: in qualsiasi esercito di liberazione, magari da fuorilegge e da seguace di san Girolamo. Un vero voltairiano deve averlo capito che non sempre hanno ragione quelli che sembrano avere le migliori ragioni. La ragione non è tutto, specialmente in arte. Occhio dunque a ciò che per ora è privo di chiare ragioni. Il corpo è senza ragioni ma spesso ha ragione, se se ne sanno leggere i gesti.
Le epistole di san Girolamo possono non avere ragione, ma non è una buona ragione per respingere la loro seduzione, la loro magia. Anche ad Alvaro piaceva «perdere la testa» quando sentiva fredde le idee che gli erano entrate in testa. In effetti intuiva che era meglio perdere quelle idee. Era il modo in cui Alvaro, questo «moderato», era pure una «testa calda»: in un certo senso più un sanculotto che un illuminista. Spesso vedono più in là quelli che sono accecati dal furore per le offese. Attenti dunque a quando fa buio in Alvaro, a quando non sembra lavorare al lume della ragione. Le sue più efficaci ragioni non sono sempre «ragionevoli», specialmente nella sua giovane narrativa. Gente in Aspromonte è una delle più infuocate «epistole» che siano state spedite ai lettori italiani perché capissero non solo che «non è bella la vita dei pastori in Aspromonte», ma anche che non tutti sono disposti a tollerare umiliazioni e soprusi. Il «narratore lirico» sa cantarle come si deve a chi ha dimenticato il Sud, e con questo ogni altro «Sud» italiano. I «colpi di testa» per cui vanno celebri i contadini e altri «briganti» calabresi nel romanzo di Alvaro risultano ben «pensati», anche se sembrano folli? Ebbene, nell’ Arata alla finestra Alvaro sa essere anco247
ra più «folle» e ancora più sensato. I suoi racconti sono i messaggi in codice di uno che ha solo il corpo come canale. E la sua carta. Brucia il razionalismo di Voltaire dentro la narrativa di Alvaro. E anche il portabandiera della Capitana, senza sapere leggere e scrivere, si porta appresso come stendar-
do Romans allégoriques philosophiques. Nel sacco, nella testa, sulla punta di una canna Voltaire non si assenta mai dai testi di Corrado Alvaro. Si dia però un calcio al Voltaire che non sappia trovare il linguaggio con cui si capisce a che punto è l'uguaglianza. Un calcio a Voltaire se non pratica l'uguaglianza anche tra l’uomo e la donna. Allora è san Girolamo a fare il miracolo: non tanto perché pratica l’uguaglianza totale del cristianesimo: anzi quanti cattolici mandano al diavolo l’anima delle donne; quanto piuttosto perché è ancora in grado di ispirare la rivolta nell'anima di donne come la Capitana e di tanti altri personaggi femminili di Alvaro. Il saggio non sa, il santo invece intuisce la verità con l’aiuto di Dio: magari l’ha sentito in confessione quello che di proibito desiderano le donne. Non può certo rivelarlo, lo può solo suggerire col racconto, discorso che «non sa». Insomma si faccia
avanti la narrativa. Nelle prime pagine dell'Età breve il padre del protagonista dice, suppergiù a nome dello scrittore: «Arrivo a credere che i poeti non capiscano quello che dicono, ma dicono prima di capire, e quella è la verità». Pampaloni ha parlato di una ricerca alvariana dell’infanzia della verità: definizione aurea da prendere quasi come oro colato. Anche a costo di fare un torto a Voltaire, rappresentante della fase matura della verità. Alvaro non teme di regredire all'infanzia della verità. La letteratura come infanzia, linguaggio che non diventerà mai saggio. Solo le verità che sanno incendiare la giovinezza con la loro necessità troveranno la forma artistica per la quale diventeranno perenni. Attenti ai giovani, agli innocenti, e
agli ingenui nei racconti di Alvaro. Sono quelli che «dicono» di più, e in modo definitivo. E attenti ai linguaggi che 248
erano giovani negli anni Venti. Solo chi è tempestivamente nella storia può sfidare il tempo. Vale anche per le forme: siano giovani e alle prime armi, quindi in guerra col passato. L'infanzia di Alvaro conosce bene la retorica, l’arte di mettere le parole come si deve ma avrà anche le deviazioni della norma. Occhio a come trasgrediscono i giovani d’Alvaro prima di avere imparato la retorica e di saper parlare. L’infanzia di chi non sa quello che fa ma che intanto fa qualcosa che solo più tardi si saprà che senso aveva. Tocca a noi lettori dargli il senso che forse aveva l’«infantile» narrativa di Alvaro. In La notte insonne si narra di un uomo celebre nelle isole, forse le Eolie, per l’abilità con cui faceva i fuochi
d’artificio. Un giorno arriva nell’isola una donna bellissima, Susanna, di cui si innamora.
In una notte passata
insonne il fuochista prepara i fuochi con cui stupirà tutto l'arcipelago. «Fulmini incrinarono la volta celeste sciogliendosi in mazzi di stelle. Il cielo divenne più nero, più chiuso, e su di esso fiordalisi, e altri fiori mai prima veduti che salivano e scendevano lentamente come tirati da invisibili fili. Uno scrigno dalle borchie d’oro rotolò nel cielo: da esso uscirono gemme dai colori perfetti. La gente, destata di soprassalto, affacciata alle terrazze, accorsa sui tetti, lesse da tutto l’arcipelago nel cielo questa parola di fuoco: Susanna. Il fuochista, che l’aveva tracciata con la
sua calligrafia più bella, aveva fatte le S rovesciate come nelle insegne d’osteria». Alvaro, come il fuochista, usa parole di fuoco; poi, le fa esplodere in mezzo a scintillanti descrizioni naturali, come significati privilegiati capaci di segnalare una verità insostituibile; infine, o innanzitutto, pratica i fuochi artifciali, vale a dire non naturali ma inventati: «illuminazioni», ma dentro l’altro, grappoli, scoppi, «epifanie». Alvaro accende il fuoco della sua scrittura più incandescente con materiali che certo non ha trovato in Calabria e nemmeno in Italia, semmai in Francia, in lingua tedesca o inglese, linguaggi dell’oscuro che viene illuminato con esplosioni, lampi e saette. Nei racconti di Alvaro c’è spes249
so un segno rovesciato, una deviazione che vi condurrà nella zona nascosta dello spettacolo luminoso, magari un bel viso di donna segnato da un errore. Così Alvaro capovolge la letteratura della tradizione per raccontare storie di una condizione umana rovesciata. i Come il suo fuochista innamorato col nome di Susanna, Alvaro, ad esempio, rovescia la S di Sud. Con molte altrettanto vistose deviazioni dalla norma cambia radicalmente il paesaggio mediterraneo e non solo quello. I personaggi di Alvaro forse non sanno scrivere ma sanno comunicare per chiare lettere che le cose non vanno nel verso giusto e che è urgente ribaltare le prospettive abituali. Ovviamente se si amano veramente le donne e tutto ciò che è all’origine della vita. Tre vestiti usati è un racconto di L’amzata alla finestra che parla di tre abiti della stessa persona venduti a tre persone diverse. Queste, essendo insofferenti dell’obbligo di muoversi come vuole il loro abito se ne disfano appena possono, quasi si levassero una pelle bruciante. Se fosse un’allegoria letteraria, provate a dire come veste Alvaro. L’abito kafkiano è più attillato (sta bene a L’uorzo è forte,
ad esempio) di più di quello dannunziano e, magari sarà meno attraente o commovente di quello verghiano, ma è assai meno elegiaco e consolatorio. Alvaro brucia in tutt'e tre e presto se ne disferà, ma che rivelazione quando indossa l’abito, o linguaggio, kafkiano. Gli ha affidato il segreto più scottante.
Ha scritto «lettere al padre» anche Alvaro. Bisogna guardare bene tra i vestiti stranieri da lui indossati ma quello espressionista, che ancora «brucia» padri, se l’è
trovato addosso che gli stava a pennello anche prima di incontrarsi a Oriente con Kafka. Osservate bene la moda femminile; non quella che veste il corpo della donna, ma semmai quella che scopre la sua anima. C’è più di una lettera al padre consegnata da personaggi femminili nellAmata alla finestra. Alvaro è stato vicino a realizzare un grande desiderio: «Vorrei potere scrivere come se ricordassi un altro mon250
do». Alvaro scrisse più di una volta «cose dell’altro mondo»: non solo nei racconti fantastici di Misteri e avventure
o L'uomo nel labirinto, ma anche nella narrativa di memo-
ria, ad esempio in L’età breve. Lo scrittore è certo che c'è un altro mondo dove sono successe delle cose che ha rimosso. Un altro luogo o un’altra età? In Calabria, nell'infanzia ha visto un mondo che non è quello che si vede col realismo. Il suo desiderio: una narrativa in cui ci sia la memoria di una cosa vista, ma non con gli occhi di un verista. La memorie di uno che ha avuto da ragazzo o nell’infanzia le visioni di chi ha visto a fondo nella realtà del Sud e nel proprio profondo. Come il fuochista poi Alvaro scrive parole in cielo, come dire che sogna o fa, anzi ricorda utopie. Ad esempio quella che la soluzione dei suoi problemi esistenziali potesse essere la Calabria, come al luogo d’infanzia. Dal suo punto di vista dalla Calabria si può capire del mondo d’oggi quanto da qualunque altro punto, anche se non ci si salva nemmeno più che in qualunque altro posto dell'Occidente. La sua regione meridionale è «uguale» alle altre per capire come va la vita nel Novecento. Voltaire continuava a ricordargli che tocca guardare avanti, nel futuro e nel presente. Alvaro invece tornava sempre più in giù, magari verso la Sicilia di Verga, san Girolamo che continua a spedire lettere assai convincenti agli scrittori meridionali e a tutti i realisti. La Calabria sta sotto, e, solo se si guarda più sotto di quanto fanno i naturalisti, mostrerà al narratore quello che la fa contemporanea del resto dell'Europa che sta sopra e avanti. É Europa, la Calabria, si sta solo molto peggio, anzi il malessere è così forte che basta la vista per essere all’avanguardia. Lì si fa da vivi il viaggio all’inferno, che anche per Ulisse non deve essersi svolta lontano da questa regione del Mediterraneo. Non è mitologia, ma, se lo è, è ormai nel sangue. Piuttosto che indietro Alvaro sentiva che era necessario arretrare fino alle origini. Lì probabilmente avrebbe attinto alle immagini autentiche ed elementari con cui si è più 2a.
attuali che non con idee del giorno. Essere all’avanguardia facendo il primitivo: l’infante intuisce verità che magari non capisce, ma sa suggerire che il suo problema è quello di vedere meglio dentro ciò che pare sempre identico. Un mito «sempreidentico» per antonomasia a un certo punto si mette a fare la differenza e mette in moto anche la storia. Come dire che san Girolamo può far fare più progressi di Voltaire, se costui si limita a irridere i miti, favola per contadini che con i miti possono anche fare la loro storia. I miti non aspettano altro che essere rimessi in circolazione e in funzione, e magari tornare ad essere le «finzioni» che sono state da giovani. In Piedi nudi un terremotato padre di otto figli deve abbandonare il suo paese per andare a vivere in una località da raggiungere col treno. «“E come prendi il treno senza soldi?” domandava la moglie. “Vedrai non tutti sono selvatici come al nostro paese. Il mondo è ricco, c’è. il progresso, ci sono le comodità” egli replicava. Pieno di fiducia nel mondo. Procopio chiese al bigliettaio della stazione di farlo viaggiare gratis. Quel bello spirito gli disse di andare a piedi dal bigliettaio della stazione successiva in direzione della città dove era diretto: gli avrebbe sicuramente fatto pagare di meno per il biglietto di un viaggio di cui naturalmente andava diminuendo la distanza, che i
dieci terremotati coprivano a piedi nudi, tra le beffe dei bigliettai e l’inalterabile fiducia di Procopio. Costui ovviamente ha capito il gioco, ma non si può permettere il lusso di disperare e di rassegnarsi: se non il progresso, serve la fede nel progresso? “Sapete cosa vi dico, ragazzi” sentenziò Procopio, “che la città è una bella cosa, nessu-
no vi conosce, e potete dormire sotto i ponti della ferrovia se così vi fa comodo. Sei libero insomma”. Ma già i ragazzi dormivano e soltanto sua moglie lo guardava con quegli occhi che gli davano sempre, non capiva perché un vago rimorso». Perché ha questo «vago rimorso» Procopio? Per avere lasciato il paese ed essere andato in città? Come chi si sente in colpa? Eppoi quale colpa? Non aver capito che 252
l’«altrove» non è fuori della Calabria bensì all’interno di essa, a un altro livello, dove è anch’essa un «altro mondo», quello che è poi il mondo che tutti hanno in comune in quegli anni Venti? Comunque un rimorso, qualcosa che morde e rimorde, un assillo che Alvaro si porta appresso in città e in Europa: con gli occhi addosso di quella moglie che deve saperla lunga sui calabresi e che è molto eloquente con lo sguardo mentre non apre bocca. Sono bocche chiuse quelle delle donne di Alvaro. Forse ci sono anche lingue tagliate, ma non si vedono né si sentono. Vedrete come può essere eloquente il loro mutismo. Le donne calabresi di Alvaro, silenziose e inconsapevoli pioniere, guidano il narratore a scoprire un tratto distintivo delluomo del Novecento: la sua rivolta all’autorità paterna e a ogni altro «padre». La donna, che ancora nel nostro secolo in Calabria subisce offese da far bestemmiare il santo e il filosofo, prende l’iniziativa di ribellarsi in rappresentanza di tutti gli oppressi. Magari non parla ma basta guardarla, basta guardarle gli occhi e la bocca per capire quello che sente e intende: prima e meglio degli uomini, ma anche per loro, e se no contro di loro. In Quasi una vita a Papini che in una conferenza affermava che lo Zibaldone e Operette Morali non valgono molto e che Leopardi sopravvive per cinque o sei poesie care alla nostra giovinezza lo scrittore calabrese obietta: «È un Leopardi tagliato alla statura della poesia d’oggi. Che egli capisce molte cose del suo tempo, e dal suo angolo di provincia, il solo italiano europeo del suo tempo, pare che non conti». L’annotazione calza pure ad Alvaro: e lo scrittore è tra i pochi italiani europei che hanno assimilato prima la problematica e il linguaggio del suo tempo. Ad Alvaro l’hanno fatto capire, o almeno avvertire con prepotenza, personaggi analfabeti, anzi i più «analfabeti», cioè le donne, che nella Calabria degli anni
Venti assai raramente andavano a scuola. Possono dare però una bella lezione ai contemporanei i personaggi femminili «incolti» di Alvaro. La sua ignara poesia vuole capire. 255
Nel racconto che si intitola A/fabeto, un contadino semplicione, forse sciocco, leggeva le lettere «una per una come se ognuna fosse un’immagine a sé» trovandoci tutti gli oggetti della sua vita, compresi quelli che sognava. «“La pipa, il fulmine, l'occhio” diceva a voce alta, come se parlasse di soprassalto nel sonno. Poi m’invitò a leggere, per vedere, disse, se indovinavo. Io guardai la pagina e dissi: “E molto semplice: qui dice. L’asino è paziente”. Egli rimase sconcertato. “Soltanto questo? Oh, no!” dice-
va. “Oh, no! Non è possibile. Chi non sa queste cose? Che bisogno c’è di metterle sui libri? Oh, no! Così poco, così poco?” Mio padre confermò la sentenza. La frase era quella e niente di più. “Ma tu ci puoi scrivere delle cose più difficili e più belle”. Allora non capì del tutto. Chiuse il libro, deluso come un amico tradito. Ci seguì nell’orto. Forse rivedeva le cose intorno a lui come la verità vera e sicura del mondo, la vera». Occhio dunque alle cose, ai gesti.
Il narratore come «semplicione»: cioè intellettuale capace di recuperare la magia delle «lettere» elementari. Scriverà più tardi «cose più difficili», ma non più belle delle sue pagine «magre» ed essenziali. Un linguaggio povero, «muto» e gestuale, che a saperlo leggere dà rivelazioni tremende sulla vita e sul mondo. «Asino paziente», il linguaggio dell’Alvaro dei migliori racconti aspetta che arrivino i lettori che sappiano cavalcare la sua struttura o ossatura e i suoi segni particolari. A lui si addice essere di poche parole, prendere appunti, togliere e tagliare, raccogliere frammenti o frantumi che magari suggeriscano ma non illustrino il resto della costruzione. Narrazioni brevi che non sono di lungo respiro perché gli basta essere essenziali. Ma questo è Quasi una vita? È anche la migliore letteratura di Alvaro? Quasi. Le manca il racconto: quello che va al di là del documento e delle idee (Voltaire) e oltre la confessione autobiografica e lirica (san Girolamo). Un racconto «oltre la realtà».
Da adulto lo disse esplicitamente in Quasi una vita che bisogna «scrivere di qualcosa di più che della realtà». La 254
realtà è qualcosa di più che esplode dallo svolgimento narrativo. Può così succedere che risuoni profondamente come una verità inaudita una frase banale come «l’asino è paziente», purché sia posta nel punto in cui da essa esplode un senso che è come uno sparo. Un cenno e può succe-
dere un miracolo: la scoperta di un destino imprigionato dentro la più ovvia realtà. Il ricordo di una cosa dell’altro mondo. Il sintomo superficiale di uno sconvolgimento sotterraneo. Meglio se l’asino è «impaziente», se non tollera, se corre e salta. Né col lirismo (la narrativa di memoria), né se si acca-
nisce con l’intelligenza critica (la trilogia di romanzi «storici»), Corrado Alvaro scrive la narrativa che più piace al
contadino semplicione e a ogni lettore, ma piuttosto con i racconti di L’amzata alla finestra e Gente in Aspromonte. Nonché Quasi una vita. Componimenti brevi in cui entrano il minor numero possibile di lettere d’alfabeto, racconti, come diceva Alvaro, «nei limiti di un pensiero». Come tanti importanti narratori tra le due guerre, anche Alvaro deve farla breve. Le troppe spiegazioni più che aggiungere qualcosa a Tutto è accaduto e a Mastrangelina. Anche Alvaro aspira, negli anni Venti del Novecento, dagli anni Venti, dalla Calabria, a far partire una storia
«periferica» capace di fare centro nella fantasia di tutti i lettori. La sua migliore narrativa non si limita né a mettere in musica né a commentare delle scene. Attenti ad Alvaro quando è così «silenzioso», scarno, tutto ossa, composi-
zione semplice e oggettiva. Va bene il canto, ma ancora più bello è l’«incanto» di uno che fa magie con poche parole. Voltaire è offeso, si gira dall'altra parte, sembra assente ma invece vigila. Fidatevi della «magia» di Alvaro: è un’astuzia, non solo della provvidenza ma anche della ragione. La ragione viene dopo la rivelazione di un assurdo che invece è sapiente. La Calabria è all'avanguardia dell’ingiustizia sociale e
dell’arretratezza culturale: un osservatorio «privilegiato» per raccontare con linguaggio essenziale quale orrore è vivere così in questo secolo. Chi lo dice? Nessuno esplici255.
tamente, ma Melusina, che non dice niente, oppone un silenzio che non potrebbe essere più clamoroso. Non bisogna parlare, non bisogna farsi ritrarre. Se c'è una magia, si faccia una narrativa che sfrutti la magia. Il narratore come «mago». L’arte è un’impostura capace di idee
degne di fede con le quali puoi fare i fatti necessari a vivere più ragionevolmente. Il racconto, che ha per protagonista una quindicenne calabrese, comincia con una parte saggistica (la ritrosia superstiziosa delle donne meridionali a farsi ritrarre: temono di cedere l’anima) e si conclude con una pagina di quelle per cui si dà subito ragione a chi definisce Alvaro un «lirico». Un verista di fede verghiana si è dedicato alla descrizione risentita e commossa della Calabria? Oh, no! Così poco! Così poco! Chi non sa queste cose? Alva-
ro ha fatto cose più difficili e più belle. Tra il «saggio» iniziale e il lirismo finale la narrativa di Alvaro impone il proprio modello. Il «terzo» Alvaro (né Voltaire, né san Girolamo) è il più bello, ed è «deforme». Attenti a come parla (o scrive, cioè
il suo linguaggio), occhio alla sua «bocca». Quella di Melusina sembra una «ferita», qualcosa che fa pensare a «un bacio cattivo». La quindicenne ha concentrato nel volto (la parte più ammirata del suo corpo) un messaggio «esplosivo». E magia ed è storia. Ed eccovi la storia di questa magia che è il bellissimo racconto di Alvaro. In Il ritratto di Melusina il narratore («un narratore») racconta in prima persona come venne in possesso del
ritratto disegnato da un pittore settentrionale a una ragazza di un paese interno della Calabria. L’aveva acquistato pensando, con rispettosa complicità, alla ritrosia che le donne della sua regione hanno a farsi fotografare e tanto più a far circolare loro immagini. Anche Alvaro (o almeno colui che narra i fatti) si vergogna che il ritratto possa entrare in altre case. E solo un atto di cortesia la sua solidarietà con la ragazza calabrese o si tratta di una più profonda e segreta immedesimazione? Si accetti l’ipotesi che lo scrittore abbia anche lui un 256
po’ della superstizione attribuita ai suoi corregionari. Ma così a furia di coincidenze non staremo arrivando a concludere che Melusina sia lui, cioè Alvaro? Ha forse egli qualcosa da nascondere? Magari mettendolo sotto gli occhi di tutti, che è sempre il modo più astuto per non farla vedere. La prosa sembra prendere le distanze dai fatti, ha il passo di chi sta a guardare uno spettacolo con l’occhio di un viaggiatore curioso ma estraneo. E invece è sempre sul crinale di un monte da cui si vedono paesaggi opposti. O almeno è doppio lo sguardo. La doppiezza del «traditore»? La doppiezza di chi serve due padroni per meglio servire se stesso. Lo scrittore finge di guardare dall’esterno, di dare notizie di un paese lontano che è la Calabria e di appoggiarci una di quelle tirate «poetiche» per cui Alvaro è giustamente celebre, dopo l’attacco di Gente in Aspromonte. Sarebbe così sua solo la testa del racconto, cioè quello che estrae la morale: è come se Alvaro desse al racconto il compito di illustrare la tesi esposta nel primo capoverso. Invece sono più scottanti le parti che sembrano fredde. Lo stesso avvio da curioso di tradizioni popolari fa traffico di magia e così segna il destino di Melusina. La ragazzina perderà l’anima per essersi fatta ritrarre. Se però il narratore si limita a registrare la superstizione, e il ritratto di Melusina sembra «registrato» dal pittore, al loro occhio non era sfuggita l’anima della donna. Gliela «salvano» o gliela fanno «perdere»? Il volto di Melusina è gelido, ma vorrebbe far fuoco come la Capitana. L’artista è un «delatore»? Comunque, se non denunciata, l’ha messa in «cattiva» luce. Il racconto vive tuttora di insinuazioni, di sospetti, di cenni eloquenti e insieme oscuri. Intanto si insinui che Alvaro appare subito in prima presona come per trovarsi
un alibi: se lui è lì, non può essere in un racconto in cui la sua amata Calabria è vista come un inferno. È questo il «delitto» per cui Alvaro vuole farsi vedere altrove, cioè fuori, prima, all’inizio del racconto? Nello sfondo del pittore non c’è paesaggio: egli è preso dal volto di Melusina Za
e dalla sua anima. La sua anima ferita, come la sua bocca.
Ha una ferita aperta che non rimargina anche Alvaro? Il paesaggio della Calabria interna raffigura un paese inabitabile, sinistro, terrificante. Ecco: uno di quei paesaggi che, secondo Debenedetti, si vedono con l'occhio
sinistro: quello che nella simbolica dello spirito sarebbe l'occhio che guarda all’interno dell’uomo, per vederci sogni, visioni, incubi e altre viste dei forti cromatismi. Un occhio espressionista in Calabria? E di chi è l’occhio? Della ragazza o dello scrittore? La descrizione è collocata in un territorio di confine tra la presentazione del narratore e l’entrata in azione di Melusina. Come ambiente in cui collocare il personaggio? La solita gerarchia meccanica e meccanicistica tra ambiente e personaggio? L’inferno calabrese non è veristico, ma sembra vero sia a Melusina
che ad Alvaro, che mettono insieme a fuoco lo sguardo. I colori accentuati «urlano» per manifestare un’insofferenza, un odio. La verità è che si è «ammalato» l’occhio
perché turbata è la mente di Melusina. Lo deve essere anche quella del narratore, il quale sta a guardare trepidante sul confine che gli permette di porsi al sicuro con svelti salti di frontiera, magari travestito da donna, che è l’abito canonico, oltre che quello da prete, della fuga clandestina. Una descrizione anzi che fa il contrabbando tra l'apparente impossibilità e la sostanziale faziosità. L’«impersonale» veristico è in realtà molto «personale», privato. Una questione privata da rendere pubblica, magari per traffico illecito. Che ci sia contrabbando o altro reato lo intuisce il pittore, che vede e stravede, nel senso di vedere al di là, oltre la realtà. Nel suo ritratto la ragazza mostra i bellissimi lineamenti alterati da una bocca tagliata come una ferita: secondo lo scrittore, «un bacio cattivo su un volto ignaro». Ignara è la ragazza di quanto le succede; ignaro è anche il pittore di quel che ha «ferito» Melusina. Né lo sa il narratore, che ci fa sopra metafora, cioè immagine su immagine. Alvaro fa il contrabbando con Melusina prendendo dalla ragazza l’anima e «indossandola». L’anima 258
ferita di un Alvaro scocca più di un bacio «cattivo». Melusina dunque ha un segreto, e ce l’ha Alvaro, se fosse lui pure il narratore che nasconde il disegno. La Calabria è un inferno perché tiene prigioniero un giovane che non ne vuole sapere di viverci? O è Melusina a odiare il paese in cui vive, succube del padre, delle sue proibizioni, dei suoi imperativi oppressivi? Se è vero che il ritratto strappa l’anima a chi è raffigurato, il pittore straniero mette a nudo l’anima di Melusina. Non solo perché è un artista, ma perché è un giovane che ha fatto esplodere in Melusina il desiderio: scappare dalla Calabria col biondo pittore venuto dal Nord. Alvaro è scappato al Nord, ma la donna calabrese lo desidera per sempre. La ragazza viene raffigurata nel momento in cui esplode il suo odio per la sua terra e per chi le impedisce di andare via col bel pittore che rassomiglia a un santo di quelli che ha visto raffigurati nella chiesa. A chi va l'odio che deforma il volto di Melusina con la «ferita» della bocca e con quel «bacio cattivo»? Certamente non al pittore che ha «deformato» i suoi connotati facendole il ritratto. Sia lui che la ragazza, nonché il narratore, sono ignari ma all’origine di quella ferita «deformante» c’è il padre, canonico bersaglio degli espressionisti, pittori che «imbruttiscono» ciò che è bello; nel nostro caso Melusina. La ragazza è guardata a vista dal padre, che è stato costretto dal signore del paese a far ritrarre la figlia quindicenne. Il padre non si allontana un attimo dai due giovani, tra i quali sospetta un oscuro traffico di sentimenti, anche se non si scambiano una parola. Nemmeno lui capisce cosa sta succedendo, mentre la figlia viene ritratta. Per il padre è normale che la ragazza venga trascinata come una giovenca al macello dinanzi al pittore per il quale lei si va svuotando d’energia. Sia che voglia esorcizzare il peccato sia che voglia sublimare questa intensa emozione fisica, Melusina vede bello come un dio — è un dio, un santo, il Cristo — il giovane artista, e gli si abbandona con la mente e con il corpo. Quando si «sveglierà» e 259
intuirà che le verrà sottratto, lei tornerà alla sua esistenza
più infernale di prima. Si trattiene la sua voce ma non la sua bocca. Il pittore ha colto l’attimo in cui Melusina è percorsa dal fremito d’odio che le esplode sulle labbra. Joyce forse ci avrebbe riconosciuto un’«epifania», anche se non si tratta di rivelazione del divino; semmai del satanico. Il bacio è evidentemente «cattivo», il sintomo che
Melusina già soffre pene dell’inferno da quel povero diavolo che ha scoperto d’essere per amore. Il periodo di Alvaro quando racconta di Melusina che cede l’anima e il corpo al suo pittore, ansima come respiro d’orgasmo, amore pieno e libero, all’aria aperta e per giunta alla presenza del padre. E la rottura di un tabù, o di un interdetto, un tradimento verso il padre. Forse alla fine Melusina sta anche piangendo per l’offesa che essa reca al padre, ma più grave offesa al padre ha intuito il pittore che ha colto quel «bacio cattivo su un volto ignaro». Il corpo si sta ribellando al padre con un’autonomia che sfugge alla mente di Melusina. Melusina odia il padre che la tiene prigioniera nel paese calabrese e che le impedisce di andare sposa al suo pittore così simile a un dio della chiesa? Moglie e subito vedova, a Melusina, uscita da un’esaltante emozione fisica, pare anche di morire. Quindici anni sono pochissimi per morire, ma sono ancor meno per sopravvivere. Quale vita resterà da vivere a
Melusina, è facile immaginarlo. Peggiore di quella di prima, ora che nel padre ha avvertito il despota, l’oppressore, colui che credendo di difenderla in effetti la tiene come schiava, in attesa di consegnarla a un altro «padrone», privandola definitivamente di amore. Alla fine del racconto Melusina ancora piange. Nella leggenda medievale in cui appare per la prima volta il suo nome, Melusina è una donna che, per avere ucciso il padre, è condannata a trasformarsi in serpente (e ognuno dei tre figli ha una deformità che deturpa la loro bellezza) e tale restare per sempre se l’uomo che l’ama
non rispetterà il suo segreto. Nell’alvariano Ritratto di Melusina non l’ha rispettato il pittore che somiglia a un 260
angelo e Melusina «piange col pianto lungo, colmo, di chi piange una morte e avrà da piangere per molto tempo»
perché si sente condannata, o peggio, «dannata». Anche lei ha peccato contro il padre, e alla sua presenza ha osato addirittura «amare» un altro uomo. Gli ha dato l’anima e anche il corpo, che Melusina ha sentito «cedere» oltre il «lecito». A livello simbolico ha tradito e perciò merita di restare prigioniera in quell’inferno che le era sempre parso il suo paese, e che ora lo diventa tanto più perché è stato visitato e abbandonato da un angelo. Il pittore si libera del quadro vendendolo perché ha visto in Melusina una creatura infernale? E il narratore ci ha forse visto il proprio inferno? Il «bacio cattivo» di Melusina ha forse la stessa «cattiveria» di Kafka, di Tozzi, di Savinio e di altri narratori
che nei primi decenni mandano baci avvelenati ai loro genitori? Quanti grandi uomini odiano il loro padre, ma stavolta è una piccola donna che non sa scrivere a odiarlo. Chi lo racconterà, dopo che il pittore l’ha raffigurata? Alvaro si assume il compito di dare parole a quel ritratto. Anzi Alvaro nasconde un sentimento inconfessato verso l’«inferno calabrese» e prende l’anima di Melusina e ne esterna i sentimenti verso i «padroni», non escluso il padre che li serve? Forse ha anche mascherato il desiderio di scappare nel paese dove vive l’artista, dove si fa arte, dove è permesso scrivere e leggere, nel «Nord». Per celare se stesso però contemporaneamente ha svelato cosa sente, sia pure senza capirlo, una ragazza oppressa e aggredita da quegli stessi maschi della famiglia che vigilano inesorabilmente per «difenderla» dalla trasgressione. Perciò quel «bacio cattivo» fissato sul foglio dal pittore va a «ferire mortalmente» il padre. L'artista le vede uscire l’anima di bocca. Si ripete il destino della antica parricidia che portava il suo stesso nome. Con quel nome Melusina non cesserà mai di uccidere il padre. E la «ferita» che è la sua bocca non rimarginerà mai e sarà «ereditata» dai figli, come succede ai figli della Melusina medievale. 261
La bocca «ferita» di Melusina è al centro di numerosi sottosistemi culturali (antropologia, sociologia, memoria inconscia, magia dei nomi) che convocano una massa di significati capace di rivelare una storia e il destino del personaggio. La povera analfabeta, elementare, poco più che infante, Melusina è il punto di confluenza di prepotenti rapporti sociali (il signore del luogo che l’obbliga a farsi ritrarre), di inconsci moventi psicologici (Melusina, il padre, il narratore), di esigenze culturali (il pittore), di
bisogni (il padre e il nonno), di minacciose superstizioni (l’anima persa da chi è ritratto), di censurati rancori e desideri (lo scrittore?), di gelosie, traumi e false coscienze. Un personaggio così semplice e un sistema tanto com-
plesso. Con i suoi gesti cosa dice Melusina? L’interprete le sta facendo fare pensieri così arditi che forse essa tollererà anche il seguente. Melusina comincia solo ora a voler parlare. Prima era «priva di bocca». Le sue sottilissime labbra sono una «ferita» che lei s'è «procurata», tentando di dire parole prima impronunciabili. Melusina è l’«infante» che comincia a dire la sua. Non starà più a bocca chiusa. Melusina, prigioniera e condannata al carcere a vita, si vendica inviando un bacio cattivo la cui immagine circolerà per il mondo. Se non può partire col suo pittore, almeno si vendicherà di chi le impedisce di andare per il mondo. Approfittando di quella occasione il ritratto portato con sé dal pittore per trasmettere un messaggio disperato e feroce di una che «per l’eternità» non perdonerà mai carcerieri e carnefici. La bellissima e dolce adolescente calabrese si trasforma in serpente: come vogliono la leggenda medioevale e la sua storia di donna calabrese del Novecento. Condannata a quella vita infernale, sembra che sia dannata anche oltre la vita. «Proprio lei, proprio lei. Somigliano come delle gocce d’acqua» dice del ritratto il padrone che l’ha fatta condurre al pittore come una vacca trascinata vada al macello. Si sbaglia, non capisce, forse non vuole intendere quell’evidente segno di rivolta rappresentato dal bacio cattivo 262
della ragazza e dal disegno. Certo ha interesse a non capire. E quanto lui si sbagliano i lettori che considerano «verosimigliante» alla realtà la narrativa alvariana per tardiva fedeltà alla tradizione veristica. È inverosimile pensare che, come il pittore, nemmeno Alvaro comprende il gesto della ragazza? Melusina si è imposta all’occhio e alla mano del pittore, ma specialmente alla fantasia di Alvaro, ottenendone la complicità inconscia di chi ha in comune col personaggio un desiderio «cattivo» da esprimere nascondendolo. Piange da narratore lirico il finale di Alvaro «espressionista». Un’elegia per chiudere una tragedia moderna. Un calcio a Voltaire, se le sue idee «progressiste» non capiscono i segnali «poveri» con cui comunicano i loro desideri personaggi femminili, che non possono fare a meno di libertà e di uguaglianza, invano promesse alle donne e talvolta nemmeno promesse dai «rivoluzionari». Lo stesso trattamento va riservato a san Girolamo, se con-
tinua a minacciare l'inferno a ragazze che sono fatte così nell’anima e nel corpo come vuole Dio. Il mandato affidato al sant'uomo non sta nel pianto finale della ragazza; non era quello di mandare l’anima di Melusina all’inferno quando piuttosto di rivelarla. Melusina ha un’anima, anzi la psiche dei moderni, l'inconscio che non sa e che non parla. È il narratore «infante» a intuire da un piccolo segno che l’«anima» sta soffrendo più di quanto la ragazza ignorante e «ignara» sia capace di dichiarare. Vedendo «deformarsi» il volto bellissimo di Melusina, ha sentito che
si stava rompendo un equilibrio secolare. Al diavolo Vol. taire se non capiva che bisognava scavare in quella deformazione per avvertire quanto stava succedendo nell’anima umana. Qui, nel regno di san Girolamo, si sta svolgendo la tragedia psicologica che era in grado di intuire i segni ambigui della tragedia sociale e culturale. All’inferno, pur di non vivere così, pur di non vivere qui.
Nel racconto Stazione di notte, il narratore è di notte in
una stazione in attesa del treno, in mezzo a molti viaggia263
tori assonnati. Tra questi c'è una donna impellicciata che
crea una specie di incantesimo sui presenti, compreso il marito, orgoglioso di una donna, forse la moglie, tanto ammirata. Ma al mattino la donna quando fu in piedi «sbatteva due occhi senza colore e senza espressione»; la bocca grandissima e rossa, il corpo tozzo e le gambe rozze. Il compagno ora se ne vergognava ed era sgarbato con lei, che si lamentava: «Che paese! Come si può vivere qui?» La donna non è Melusina molto più in là negli anni, ma il paese è ancora la Calabria. Non si può vivere in un paese così, dove le donne perdono colore ed espressione non appena fa giorno. Alla luce del sole si può vedere più precisamente quale vita fanno loro fare uomini, che certamente nemmeno loro fanno una bella vita. E tuttavia bisogna scendere nella loro notte, nella notte comune agli uomini e alle donne, per avvertire la violenza del dramma e la furia della ribellione. La bellezza notturna e selvaggia della Calabria nasconde ferite per le quali si crede di meritare l'inferno. Le donne calabresi del primo Novecento — non solo loro però, e nemmeno solo allora — vanno all’inferno per desideri peri quali sarebbe logico andare in paradiso. Tirata fuori dall’inferno, Melusina ci butti invece Voltaire se ancora non ha
fatto giorno in quella cultura illuminista dentro la quale è ancora notte sull’uguaglianza della donna perché tace. Alvaro forse piace di più quando è «giorno»: cioè quando si leggono le sue analisi minuziose del costume e le descrizioni verosimili di ambienti sociali, il suo morali-
smo e la sua saggezza, quando insomma si distinguono bene le sue sembianze ideologiche e morali. Invece, come la donna del treno, è più «bello» di notte: quando i lineamenti sono accennati in rapidi bagliori e suggeriti o accennati. Vince san Girolamo? Se mostra l’anima, o psiche, quando è lì che si svolge la storia. Purché non danni l’anima a nessuno e si limiti a dire che Dio ora vuole che scavi lì, perché intende capire il destino dell’uomo d’oggi. E la smetta di farla lunga con analisi prolisse. La fa meglio Voltaire? Non la fa breve nemmeno lui, che così si lascia
sfuggire il «tic» di Melusina. Ci vuole l’occhio, e l'occhio 264
che ci vuole è quello che guarda fuori e vede dentro. E occhio alle donne anzitutto. Per loro è notte e di notte hanno le visioni più tremende di un inferno in cui soffrono anche i «diavoli». Nel Barone alcune ragazze cittadine lasciano il loro ospite calabrese esclamando: «Non ho mai visto un uomo guardareinquelmodo». Alvaro nei racconti di L’amata allafinestra guarda davvero in un modo unico per quegli anni. Come il pittore cui la ragazza con un piccolo movimento delle labbra, rivela la propria anima, una zona oscura, caotica e
segreta su cui solo più tardi farà luce la psicoanalisi, così fa Alvaro, narratore «figurativo» di vicende inconsce. Le ragazze cittadine non lo sanno, ma Alvaro voleva la loro anima. Il narratore sa guardare anche in città, ma il suo occhio non ha mai visto così a fondo nell’animo come quando ha guardato i contadini, le contadine. Alvaro aveva un «modo unico» di guardarle: ci si specchiava, cercava se stesso. E talvolta si trovava, in fondo, nell’inferno. Voltaire «vada a nascondersi», quando è solo un illuminista e un illustratore di idee progressiste. Serve un Voltaire che agisca nell’inconscio, un Voltaire «notturno». Ancora insieme il diavolo e l’acqua santa? Ma forse che un «bacio cattivo», non è anch’esso una mostruosa accoppiata in cui stanno stretti l’amore e l’odio; con l’aggettivo che va a mordere chi si deve amare? L’ossimoro «bacio cattivo» mette insieme nel sacco Voltaire e san Girolamo: la vista che è visione, la psicologia che è storia, la notte che fa giorno, l’irrazionale che figlia nuove ragioni, il silenzio che urla, la periferia che diventa il centro del mondo, il linguaggio d’avanguardia che scopre il connotato principale della vita in un determinato momento, l'ignoranza che intuisce verità più profonde di quelle intellettuali, il corpo che trasmette messaggi più complessi e ricchi e profondi che non il cervello. C'è tutto questo e anche altro in un’adolescente che mostra al mondo la «ferita» che è la propria bocca «la prima volta» che la apre per dire qualcosa che non può più essere repressa. È come se il suo volto «senza bocca» 265
si fosse spaccato per una spinta interna che fa esplodere la pelle e crea le labbra con le quali nel futuro le donne future articoleranno le ragioni della loro ribellione. E non solo esse, ma tutti i personaggi di Alvaro, che non saranno più repressi dalla cultura dei padri che gli impedisce di spiegare i motivi della rivolta. Semmaila sua narrativa poi parla troppo. Ferisce di più il linguaggio di Alvaro quando taglia come una lama. Non è una lama la bocca di Melusina? La ragazza ha le labbra strette, come volesse tenere la bocca chiusa. In effetti gliel’ha chiusa a suo modo il «narratore» che ha impedito la circolazione del ritratto per una superstizione in cui c’entrava la magia. Nemmeno Alvaro ha fatto parlare Melusina, il cui linguaggio più ricco e ambiguo è quello gestuale. Fin dove ce la fa lei, lo scrittore glielo lascia fare perché sa che il suo gesto è fondamentale, è molto espressivo, anzi «espressionista». Alvaro interviene «a cose fatte», dando la parola alla ragazza analfabeta interpretando sentimenti che lei «realisticamente» non è in grado di esprimere. Il suo è il lirismo di uno che non si limita a dare significati e musica al proprio io; bensì di uno che parla da quel profondo dove Melusina è anche Alvaro, e chissà quanti altri. Il giovane seguace della Capitana butta a terra le opere di Voltaire. Non c’è nulla di quanto ha scritto Alvaro che sia da buttare a terra. Alcune opere sono «protette» dall’intelligenza, dalla miscredenza, dalla tensione culturale
di un degno seguace di Voltaire (l’attività saggistica di sempre, l’ultima produzione narrativa), altre sono benedette dalla passione, dall’onestà, dalla sensibilità (la narrativa di memoria, la poesia, le prose liriche). Nulla a cui
dare un calcio, nemmeno quando fossero superate o errate le idee o troppo dettagliata la pagina, che talvolta è spiegata a terra. La Capitana ha disposto che solo due libri siano mostrati a tutti dal portabandiera o da chi per lui. Solleviamo dunque in alto, e non solo per farli sfogliare dal vento, almeno due opere di Corrado Alvaro: Gente in Aspromonte e L’amata alla finestra. Un calcio a chi scrivesse che Alvaro in queste, e in qualche altra opera, non è un narratore da tenere in alta considerazione. 266
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Lo si è sempre rimproverato di essere un autore artificiale, intellettualistico, uno scrittore da laboratorio. Sono accuse che non sarebbero dispiaciute a uno che aveva scritto che «il tempo della sublime ignoranza è già troppo lontano da questo nostro vivere scaltrito da un lavorio lunghissimo di astuzie acuminate». Anche lui, cioè da «moderno», costruiva i suoi libri con le «astuzie acuminate» che avrebbero consentito al testo di funzionare. Ma il suo artificio ora funziona come «naturale» per lo stesso processo per cui alcuni lettori da vecchi si commuovono su opere che hanno sdegnosamente respinto da giovani. Ai quali infatti «piace» ora che sembra «genuino» questo prosatore sperimentale che, da giovane, diffidava della sincerità. Di molte altre accuse non si offendeva. Anzi si compiaceva di parecchi connotati che al senso comune risultavano «negativi»: secondo una pratica di ribaltamento di «valori» che è un «valore» di cui si vanta sempre l’avanguardia. «Chiunque mi chiama ipocrita non mi offende» scrisse per esempio Savinio suppergiù agli inizi della sua attività letteraria e nel volume d’esordio, Hermaphrodito, del 1918. Poi chiese aiuto all’etimologia per farsi intendere: «Ipocrita indica colui che esamina da sotto». Infine si 269
scelse una genealogia: «Eccomi in combutta con quell’Eraclito d’Efeso che morì nel letame». In altri termini Savinio sta assai scomodo nelle regole ideologiche, culturali e sentimentali del proprio tempo, e perciò prende da esse la distanza di chi non ci vuole avere a che fare. Non «dall’alto» però, bensì «da sotto»; e senza paura di finire nel «letame», che notoriamente è un ottimo concime «natu-
rale». La natura: quello che non è ancora codificato, il rumore, il corpo; e di quest’ultimo la parte «bassa», quella che per eufemismo designa con «natura»: il sesso, la sua energia. Meglio se doppia, come quella dell’ ermafrodito: sessualità di duplice segno che può figliare una nuova cultura ma che può anche soddisfarsi di se stessa, gioco sterile, onanismo intellettuale, satiriasi emozionale, nonché altri accoppiamenti o associazioni più freddi, comprese le freddure con cui la mente di Savinio non smise mai di eccitarsi. Savinio si diceva fedele di due «divinità» della mitologia greca: thanatos e ypnos. («Grande èè il sogno, amici!.. e quello è il più vero, che c'è nel profondissimo della notte, e che nessuna mente umana seppe mai evocare»). La morte come tema, il sogno come struttura? O forse la struttura? O forse la struttura è la morte, come movimen-
to e transito, e il tema è il sogno, come desiderio, utopia e corteggiamento di un altro mondo? O il desiderio è la morte, il morire per mare, navigando da un porto all’altro, naufragando, un perdere la rotta e la bussola, come nel sogno, stato di «mezza-morte» più vivo che l’essere svegli? E il sogno allora il vero stato sveglio, la condizione e la misura di ciò che non è morto? «Superficie» che è insieme informale e figurativo, composizione «anarchica» che si trova di volta in volta la guida e il capo, nonché la testa o significato fondamentale: che peraltro si affretta subito a mozzare. Una struttura che fa emergere l’essenziale ma che è negata alla gerarchia: innalza valori che presto non varranno. Il sogno, una macchina di vita e di morte. Come la cultura, macchina di crisi e di distruzione. Come la morte, o il suicidio. Una letteratura come 270
«dialogo sulla estrema soglia». Il manierismo d’avanguardia.
DI
Savinio odiava il cerchio, figura della ripetizione e dell'armonia: lui che Picabia ricorda suonare con tanta violenza il pianoforte da fargli saltare le corde, con grande letizia e sconfinata ammirazione di Apollinaire. Prediligeva il quadrato, una figura con i piedi per terra che fra l’altro ha gli spigoli e che non gira se non dopo una spinta su ogni lato; sicché, almeno quando era sotto l’influenza dei futuristi, non lasciava mai precipitare una frase verso il punto dove ogni lettore pigro l’attendeva, ma la deviava dal suo corso normale con metafore audaci che stonavano pur di impedire che su frasi «ballabili» si assopisse l’attenzione del lettore. Solo nella maturità la sua scrittura comincia a rotolare, discorso in discesa che sfrutta l’energia dell’avvio (di quando cioè era giovane e si impuntava su ogni parola, magari per giocarci), racconto che avanza
senza intoppi verso la fine. Savinio dunque lavorava a rendere quadrato il cerchio. Non si dica che era audacia proverbialmente destinata a fallimento: lo tentava ciò che può sembrare poco realistico 0 impossibile o surreale. Savinio non attese il surrealismo per metterlo in pratica: al riguardo Hermaphrodito dà profezie non ambigue che egli è tra i surrealisti primi, scrittori che procedono come il sogno, e non come la realtà. Il sogno si spezza ma non si piega. Di curve, oltre a quelle femminili che nei suoi libri non perde mai di vista, apprezzava solo il punto interrogativo, che così spesso sostituisce la testa dei suoi personaggi pittorici: gancio con la testa per aria, cerchio che si spezza, amo a cui resta attaccato a lungo, domanda senza risposta. In lui il problema non «si accasa», ma rimane «all’aperto». Infatti Savinio non può credere all'esistenza di una verità che resiste alla «falsificazione»: lui che ama l’infanzia, età «quadrata»
che cambia 241
rapidamente
lato,
magari per andare a sbattere in un altro spigolo, o emozione acuta o faziosità intellettuale. Semmai dall’iniziale quadrato al poliedro, ma sempre restia a farsi prendere in giro la struttura narrativa di uno che ama gli angoli, compreso quanto sembra marginale e insignificante. Sa lui come renderlo significativo, sia pure per poco, finché ci crede o gli fa comodo. 3.
Per «contagio» si potrebbe insistere a rendere figurativo anche il discorso più astratto dell’«ordine quadro» saviniano: al quale si è assegnata la «solidità» di un cubo, figura che allo scrittore serve per mettere «concretamente» sotto gli occhi il relativismo che gli pare strategia conoscitiva oltremodo proficua. L'immagine funziona suppergiù così: sui quattro lati alla stessa altezza si svolge la dinamica gnoseologica che muta attraverso improvvise
svolte, spigoli, salti prospettici; al fondo c’è il lato coperto, nel quale è collocato il retroscena, «tornaconti personali», ideologie e altri interessi che appesantiscono e tendono a bloccare il movimento del cubo. Il suo lato superiore funge da luogo in cui circola l'emarginazione e magari anche la metafisica, comunque la surrealtà per la quale Savinio ha allenato al salto la sua immaginazione. I suoi testi non trascurano mai questo sesto lato del cubo, il più alto, anche se contro ogni equivoco dichiarano che sarebbe arbitrario cercare idealismo in questa sua inclinazione all’«altro» e al «nuovo». «L'arte stessa richiede la permanenza sulla terra! Un artista serio, degno di questo nome, non sconfina dalla terra, non evade, non esula, ma sulla terra, nelle cose terrestri e a portata di mano trova mistero e lirismo, stupore e profondità. Sconfinano dalla terra gli esteti, ossia i falsi artisti, iquali credono che l’arte è un al di là, una cosa non di tutti i giorni uno stato ineffabile un ideale» (Ascolto il tuo cuore, città, 1943). Il surrealismo di Savinio non nasconde le sue fondamenta materialistiche, magari settecentesche, che gli im2972
pediscono di volare verso territori dove risulterebbe impossibile seguirlo anche con la testa. Anzi c’è anche troppa allegoria nel suo immaginario. Questo surrealista insomma ha necessità di portare a terra le fantasie con cui gli riesca di evitare il piatto realismo di chi si limita a toccare cose che si fanno acchiappare solo perché sono morte o banali. La prosa di Savinio vive pure del fatto di avere una prospettiva alta e una bassa. Le quali sanno di averne altre che stanno accanto e che sono nemiche l’una a ogni altra. Non però perché sono passeggere le sue verità l’infanzia è tragica; anzi per questo magari essa è positivamente
«esemplare». La tragedia consiste nel «sacrificio e annientamento» cui i bambini sono condannati da parte dell’adulto: «questo borghese generale» che «educa» l'infanzia a comportarsi e a pensarla secondo gli interessi di chi, temendo un qualsiasi mutamento, mitizza e mistifica come insostituibile il proprio punto di vista e le sue precarie certezze. «Infanzia-onda continua di rivoluzione, e sistematicamente stroncata dai grandi, questi reazionari». Fortunato
chi non diventa mai «grande», cioè l’artista. «Nei soli artisti» si sa, «la vita adulta è la continuazione naturale del-
l'infanzia». Infanzia dunque come teoria della conoscenza, come tipologia della cultura: o almeno di quella d’avanguardia che non intende mai diventare adulta, emarginazione che si rifiuta di essere «integrata». Il narratore «bambino» che la sa più lunga dell’adulto in Tragedia dell'Infanzia fa così: vive il passeggero come un assoluto, ma poi lo sostituisce con la rapidità con cui si accantona il superfluo. Il bambino avanza su passioni esclusive che consuma completamente, lasciando vuoto, quindi da riempire, il posto in una struttura il cui connotato essenziale, e propellente, è l'eros. Il piccolo protagonista ama svisceratamente di volta in volta lo sguattero guercio, il vecchio medico, un uccello, una bella violinista (e poi altre donne) la cui partenza è causa di pianti irrefrenabili e di lancinanti dolori: che la 275
notte placherà e poche ore faranno dimenticare. Simile a questi amori è la «verità»; cioè qualcosa di indiscutibile e di «eterno», che però è anche passeggero, se a cambiarlo basta il mutamento di punto di vista. Il bambino dunque procede a «colpi di verità», con la conseguenza che tante verità non ne fanno certo una, anzi negano che la verità esista. Forse per questo ci sono parecchi «veri» Savinio.
L’unico in sostanza è questo Don Giovanni della conoscenza che non l’accumula, bensì la sostituisce.
La vita del «bambino» però è «esemplare» non tanto perché è cosciente della fine della verità quanto perché dimostra che è necessario comportarsi come se la verità fosse reperibile. Consumando verità, viene il momento in cui uno è bloccato su un punto di vista che gli pare insostituibile: quando cioè uno, invece di una donna, si innamora di una dea; che è quello che capita al protagonista di Tragedia dell'Infanzia. Allora la narrazione si ‘accende di immagini folgoranti, il tono si innalza fino all’eloquenza delle situazioni eroiche, il ritmo della prosa ha percussioni trionfali, il lessico naufraga nel sublime. E il Savinio più «alto», ma è anche quello che rischia di rompersi l'osso del collo: in tanta mobilità, meglio quando salta che non quando decolla. Savinio fa prodigi sulle cime, ma con i piedi, o con la testa, per terra. Le sue sublimazioni non debbono dimenticare mai il peso e i desideri del corpo. Quando il protagonista di Tragedia dell'Infanzia si sveglia dal sogno d’amore con la dea si ritrova sotto gli occhi brillanti della sua «buona mamma». Serve a poco cercarvi l’incesto differito che ci troverebbero Freud e Lacan, o altri significati inalterabili. «Metaforicamente» Savinio ogni qualvolta incontra una donna cerca in essa la «dea», sia pure in attesa di farla fuori come le altre divinità o «verità». Con smodata immaginazione infantile, restia a buon senso e a verosimiglianza, dilata l’occhio sul dettaglio ravvicinato e lo ingigantisce, lo fa scintillare o urlare, gli aggiunge stupore: vale a dire che lo rende «divino», come presso i maggiori narratori tra le due guerre i parti-
274
colari quotidiani che diventano essenze, epifanie, rivelazioni dell’essere. L’«essere» di Savinio, la sua dea, la sua «buona mamma»
è anche nostalgia dell'Ottocento, di Mazzini («uomo senza scopo», «l’uomo dal ragionamento borghese che fu certamente l’antiborghese per eccellenza»), della civiltà «manuale dei contadini e degli artigiani» piuttosto che di quella industriale. La sua sigla fondamentale è però che egli è andato vicino a vuotare l’essere, cioè a toglierlo di mezzo o dal centro, dove lo pone la toponomastica culturale del suo tempo. Bisogna cioè trovare quello che merita di stare dentro di epoca in epoca. Savinio, fedele di Eraclito, teorico dell’infedeltà. Il «letame» del filosofo del divenire ha concimato l’immagine di un Savinio scrittore disponibile che ora testimonia come alta profezia contro i fanatici dell'Essere. Forse è vero che alla fine pure a lui capita di ritrovarsi e di riconoscersi in una sagoma precisa e limitata (opportuno accennare, ma inutile insistere sui «limiti» che dal nazionali-
smo l’hanno portato al fascismo, anche se neppure stavolta con passione duratura), ma Savinio ora si fa inseguire con
maggiore interesse dal lettore proprio perché insegue e cerca. Non chiedetegli comunque perché cerca in superficie. Quelli d'avanguardia sono spesso scrittori di superficie, che non spiegano né motivano gli eventi di cui vanno registrando l'apparizione. Savinio dice di più quando dice di meno, anche se parla molto (talvolta persino «fuori campo», in appendice o variante, con cui esorcizzare il «mistero»). A lui serve soprattutto imboccare il circuito linguistico col quale sfruttare l’alto vantaggio espressivo di cui era fornito e di cui insieme si andava nutrendo. Herrzaphrodito è il libro di uno che è teso a dare la scossa al lettore su ogni suono.
4. Savinio trafficava con due divinità di quella mitologia greca nei confronti della quale si comporta spesso con pochi «riguardi», anzi con manifesto sarcasmo: la morte e il sogno. Più evidenti che altrove in Casa «La Vita» 2.
appaiono le variazioni del tema della morte dentro una composizione che procede come l’inconscio. L’inconscio è per Savinio l’ultima spiaggia della narrativa, l’unico territorio da cui questa possa ormai ricavare qualcosa di nuovo. Non ci possono fare più niente né i «visuali», cioè il descrittivismo naturalista, né gli «emotivi», cioè i lirici o i moralisti che se la prendono calda per il bello e per il bene. Sono modi di raccontare definitivamente morti; e che comunque egli fa fuori già in Hermaphrodito, ma ancor più in Casa «La Vita», che ha un’oggettività in apparenza soltanto molto diversa da quella che sembra furiosa soggettività nel primo libro. In Hermaphrodito Savinio è impegnato a lottare contro la morte che minaccia la scrittura italiana nei primi decenni del secolo. Stabilito un piano medio in cui questa scrittura si svolge con
così poche emozioni (malgrado gli sforzi contemporanei dei suoi «colleghi» vociani, cercatori di alte temperature morali e liriche), Savinio fa equilibrismo fra i piani superiori e preferibilmente quelli inferiori, per «rispondere» a stimoli oscuri ma imperativi a loro modo. Gira apparentemente svagato in attesa che si produca un evento capace di forzare la crosta uniforme delle abitudini: da qualunque parte arrivi e con qualunque aspetto verbale si presenti. C’è pareggiamento e insieme selezione, verticalità. Pareggiamento di ogni dato, da quello intellettuale a quello «corporale», dal drammatico al comico, dal prezioso al dozzinale: le parole i gradi se li conquistano sul campo. Da ciò la verticalità: quella dei singoli termini e quella delle frasi, prese a caldo, o, se si vuole, fresche, cioè appena colte o avvistate dalla prospettiva; che infatti muta continuamente, magari proprio per evitare la conti-
nuità descrittiva e narrativa che ammazza il racconto naturalistico. Sulla superficie baluginante, accidentata e acuminata in cui si colloca, la prosa di Savinio fa di tutto per perdere il filo del discorso. Il bello è proprio scoprire
dove esso va a finire, se cade dalla mano e dalla testa il
bandolo. Si ammetta, come è probabile, che egli «finga»: che cioè questo sia il suo linguaggio, il frutto della sua 276
«consumata esperienza». Il suo «ordine quadro» o magari il suo cubismo: la solidità della «casa», ovvero di giudizi o emozioni che da un particolare punto di vista squillano come irremovibili; e insieme la tendenza a svoltare l’angolo e a proiettarsi verso un altro segmento di visione, sia pure totalmente possessiva. Savinio non aspetta che la superficie preannunzi prossima opacità o pallore agonico, ma le fa trasfusioni di vitalità culturale, innesti sintattici, iniezioni verbali prima di passare ad altro lato. Con la velocità analogica del sogno, selezionatore inconsapevole di ciò che è realmente vivo. 5.
AI sogno egli chiedeva di dargli la composizione elementare e «vuota di significati» che corrisponda a un nuovo mito: un freddo schema originario che regge le mille «fervide» interpretazioni private e pubbliche di chi vive dentro e fuori della storia. Di tutte le morti che può desiderare Savinio preferisce, al di fuori di ogni smentita biografica, quella del «padre», che è il depositario dell’autorità, della razionalità corrente, dell’interpretazione «giusta». Il mito è un racconto senza padre. Anche il sogno è «orfano»: cioè il racconto dell’inconscio ignora, o meglio nasconde, i risentimenti moralistici delle censure paterne e comunque ogni sentimento con cui questi ratifica o disapprova i comportamenti dei figli. Il «figlio» che ha scritto Hermzaphrodito è aggressivo e prepotente, ma non come un padre bensì come parecchi padri: una pluralità che annulla il centro di cui si fa forte il padre. 6.
«Riannodo i fatti come i granelli sparsi d’un rosario e li narro come si ridice la trama di un sogno.» In Hermaphrodito i «granelli» di frequente sono piccoli come versi senza margini o daccapo: composizione frantumata, analogie, informale, musica seriale. Narrate, uomini, la vostra Zi
storia proietta in maggior ordine di grandezza lo stesso schema, che di fatto è la sigla linguistica di Savinio. Anche in Casa «La Vita»: che «ridice» la trama di un sogno, nel senso che la tiene sotto controllo, quindi senza condiscendenza alcuna ad automatismo surrealista o ad altra registrazione d’inconscio. Non era solo per adeguarsi alla dominante atmosfera neorealista che Savinio nel 1945, nell’introduzione a Tutta la vita, assegnò al proprio «eventuale» surrealismo il compito di dare «forma all’informe e coscienza all’incosciente». Savinio, pseudonimo di «uno che sa», per fortuna non approfitta di una saggezza che lo fa tornare alla parte già così odiata del «padre» e di chi spiega, come succede nella postfazione a Tragedia dell'Infanzia, il senso, l'ideologia, lo scopo del libro. A lui si addicono non solo i pungenti fervori della giovinezza, ma anche la «filiale» oggettività con cui registra l'impossibile intreccio di eventi onirici. E la sua «forma dell’informe» che continua a dare più filo da torcere ai lettori. 7.
Il soldato Savinio guarda il mondo esterno attraverso la finestrella della tradotta che lo porta al fronte. La «finestra» come struttura della visualità e dell'occhio potrebbe spiegare anche la frase composta spesso di segmenti giustapposti, nonché la sua serialità. Il «continuo» della «finestra» viene interrotto e sezionato dall’intermittenza di un occhio che «perde il filo» e procede a salti sulle scene che lo «riguardano» profondamente. Che Savinio si ritagli dei quadri è il meno che possa capitare a chi si attribuisce come congeniale l’«ordine quadro» e lo «solidifica» in cubo. Davanti a quella finestra si attua una coincidenza di progetto e destino. D’ora in poi egli compone «quadretti», cioè componimenti di piccola dimensione, dal frammento del primo libro alle «voci» dell'ultimo. Una differenza consistente tra l’inizio e la fine c'è comunque: all'autore di Herzzaphrodito sembra che siano in 278
movimento sia l’osservatore che il mondo; a quello di Nuova Enciclopedia sembra che siano immobili l’uno e l’altro. Ma a questo punto l’occhio di Savinio ha già scelto quello che serve guardare. 8.
Notoriamente Savinio aveva un debole, anche troppo «forte» per le freddure, magari per quelle intollerabilmente, provocatoriamente,
«fredde». Con conseguenze
non sempre piacevoli per la sua prosa. Al punto che la sua «sensibilità ridicola», per sua stessa ammissione, gli ha giocato parecchi brutti tiri e altri continuano a giocargli lettori e critici per lo stesso motivo. Veramente, come più tardi lui stesso disse, la comicità deperisce presto? È la parte più deperibile dell’opera di Savinio, ma ai suoi tempi ha fatto deperire parecchi miti che noi abbiamo la fortuna di vedere afflosciati per suo merito.
9. Savinio ha bisogno di non prendere sul serio il lavoro che fa. Più tardi alzerà la voce fino alla retorica e all’estetismo per celebrare la bellezza della letteratura, ma ancora molti anni dopo l’esordio si garantiva il diritto di scrivere e irrideva chi vi si dedicasse senza disponibilità a prendersi gioco di un’attività che non poteva più essere presa sul serio. All’inizio nei testi di Savinio vive soltanto ciò che ha dimostrato di saper superare la prova del fuoco: almeno che sia stato messo a fuoco da uno sguardo o da una mente impaziente e diffidente. Qualche volta Savinio si è addormentato e ha fatto un sogno filato, cui per stanchezza 0 altro si è abbandonato come un narratore fantastico del secolo precedente. Allora si è come dato dei pizzicotti per svegliarsi e riprendere coscienza dell'inganno. Savinio è di quegli scrittori d'avanguardia per i quali l’arte è ancora possibile a partire dalla coscienza che non è una «cosa seria», anche se se ne può morire. 200
IO.
«Odo i richiami dell’aldilà, che talvolta mi dà persino degli strappi alle falde della giubba». Quando scriveva queste parole, Savinio non era ancora un surrealista ma
aveva già scelto di stare dalla parte dell'immaginario. In questa ironica dichiarazione di poetica egli mette sull’avviso i lettori che non è un fantastico ossessivo, coatto,
«incosciente». Savinio manipola o almeno manovra l’immaginario. Anche questo egli guarda «da sotto»: «ipocrita» che lo usa «da infedele» e persino da miscredente. I suoi fantasmi danno strappi alle falde della giubba, sono cioè sempre un po’ burloni, capaci di rovinare la festa alla fantasia che si sia lasciata coinvolgere del tutto nell’avventura. Da giovane, postfuturista o presurrealista che fosse, Savinio compiva i suoi viaggi nell’immaginario tenendosi pronto a interferire nel testo a ogni passo con varia comicità o comunque rompendo il ritmo con improvvisi mutamenti di marcia e altri «straniamenti», come quelli che sarebbero piaciuti allo Sklovskij di Teoria della prosa, suppergiù coetanea. All’epoca di Casa «La Vita» e di Achille innamorato Savinio si lascia invece «possedere» dai fantasmi molto più di quanto potesse consentire ai tempi di Hermaphrodito: sicché pare restaurare quella narrativa che era stata il bersaglio costante dei suoi esordi. Di restaurazione si può parlare anche a proposito della maturità di questo scrittore d’avanguardia, ma Savinio arriva sempre in tempo per accorgersi di essersi messo a credere nei fantasmi. L’autore di Casa «La Vita» deve aver pensato che gli toccava essere non solo uno scrittore «contrario», ma anche uno scrittore «diverso». L’avanguardia finisce in museo, anche se il testo rimane indifferente alle interpretazioni che danno la morale della favola. E allora Savinio ci si mette lui a svelare il «mistero» degradandolo con una rumorosa «volgarità» che è assai difficile da scambiare per musica di violino. Un esorcisma, una manovra distraente per evitare che ci si accor-
gesse che l’autore si era ingannato? Savinio ama il sogno 280
ma anche l’ipnosi, che insidia sempre il lettore e l’autore, pure quello d’avanguardia. Te
Il surrealismo di Savinio non è sempre «estraniato» ma l’autore non vuole che ci si perda la testa dietro, o almeno desidera che la si recuperi tuttavia solo dopo avere accondisceso alla «magia» della narrazione. Savinio, visionario sveglio, sa che, anche se gli butta addosso le luci della ragione e di ogni altra facoltà cosciente, i fantasmi dell’inconscio, come i significati scoperti, si spostano e danno strappi sempre da un punto diverso della giubba. Se il narratore si fa prendere dal racconto, l’intellettuale miscredente gli dà strappi alla giubba perché si tenga sveglio e consapevole che lì si sta svolgendo un imbroglio. Savinio non riesce a dimenticare «come» si scrive. Finge di discutere di letteratura e invece va facendo narrativa; rac-
conta ma indirizza il lettore là dove c’è da vergognarsi di essere stato così credulone. Ragiona come se fantasticasse e fantastica come se seguisse i più segreti percorsi del pensiero. In Savinio calda è l'intelligenza, fredda l’immaginazione. Le idee sentono «i richiami dell’aldilà», cioè di qualcosa che non capiscono; la fantasia sente gli strappi che la «cultura» dà alle falde della giubba. Savinio può fare letteratura solo se finge di riderci sopra. Ma ridendoci fa letteratura «seria», di quella che il lettore deve farsi tirare dalle falde della giubba perché non gli sfugga di dire, preso talvolta dall’entusiasmo, che è «bella». Scrittore «ermafrodito», Savinio racconta con ottima letteratura l'impossibilità di fare letteratura. Non è il «primo», ma in più di un’occasione è tra i migliori del Novecento. 2:
Stia in guardia chi volesse citare Alberto Savinio per stabilire cosa pensasse su un argomento. Le sue idee sono sempre acute e non di rado geniali, ma possono sostenere 281
tesi opposte in periodi diversi. Con pari penetrazione in Nuova Enciclopedia Savinio pensa il contrario di quanto ha detto in opere precedenti. Entrambe le volte egualmente sincero, in buona fede, fanatico fautore della propria opinione. Questo scrittore sembra un voltagabbana ma, se provi a levargli l’abito di «moda» con cui lo distingui, ti accorgi che gli stacchi la pelle. E forse strillerebbe se potesse sentire che non gli si attribuisce una grande costanza di idee. In un certo senso, che forse è anche il più importante, Savinio avrebbe ragione di lagnarsi di tanta ingiustizia. Giurerebbe convinto la propria coerenza, inalterata e profonda nello scorrere di anni che portano eventi assai contraddittori. Profonda nel senso che è strutturale il suo essere così mutevole. Savinio cambia in continuazione per mantenere fede al suo programma di scegliere tutto ciò che è tanto vero da meritarsi la più accesa convinzione e partecipazione. Il suo schema conoscitivo lo aveva mostrato in Tragedia dell'Infanzia: dove il giovanissimo protagonista passa da un amore sviscerato all’altro, ognuno insostituibile, e perciò con una grande sofferenza a perderlo, e ognuno sostituibile, come si vede dalla prontezza con cui cambia oggetto del desiderio; almeno finché non approda nelle braccia di una dea che rassomiglia tanto a sua madre. Al di là della psicologia, o magari dentro di essa per quel tanto per cui è vero che linguaggio e psiche hanno la stessa strategia, la «madre» di Savinio, in quanto scrittore, è una struttura che si fa amare con passione
«assoluta» perché consente tanti cambiamenti e non perché c’è qualche avventura o significato passeggero a dargli piacere precario. Savinio è coerente perché desidera fare l’amore sempre con la sua struttura «madre»: che è solo piena del suo essere ineluttabilmente vuota, cioè di respingere il matrimonio duraturo con qualsivoglia idea. Lui da tali matrimoni figlia significati eccezionali che da greco, come Saturno, si mangia per evitare di essere spodestato da una carica il cui vero potere consiste nel pensare la cosa giusta al momento giusto. E Savinio è uno che 282
ha avuto ragione sia all’epoca della prima opera, cioè di Hermaphrodito, sia dell’ultima, Nuova Enciclopedia. 13.
La verità di Savinio deve essere al quadrato, e non solo perché egli, che odiava il cerchio, amava l’«ordine quadro», ma perché vuole che sia la più intensa possibile; e senza alternativa, come se uno non vedesse altro che questa faccia del problema. O meglio la sua verità è al cubo: il quale, come è noto, ha sei lati, che comunicano l’uno con l’altro ma attraverso uno spigolo che comporta una svolta di prospettiva. Visione netta di chi vede solo un lato per volta; che è una superficie piatta ma innanzitutto è una superficie, secondo una passione antica delle avanguardie per ciò che non si paralizza dentro lo spessore di cui si compiace il realismo. C'è anche un suo particolare realismo nel programmatico antirealismo di Savinio. Un antirealista al quadrato, anzi al cubo. Significa intanto che sta dentro una figura, per giunta solida, e non è dentro il disordine e l’informe, e nemmeno l’informale: Savinio è tutto «figurativo», anche se le sue figure non s’erano mai viste prima che lui le inventasse. Significa poi che lavora con una figura che sta per lo più con i piedi, con un lato, per terra. Il suo realismo consiste nel fatto che le sue invenzioni debbono alla fine sapere testimoniare come di cose concrete e «materiali», come «interessi» e altri fattori di materialismo (sicché diventa materialista il suo surrealismo). Un realismo
comunque che non si fida di meccanismi abusati e prevedibili, ma che si affida al caso, cioè al punteggio che risulta da un volo o lancio dell’immaginazione. D’altronde un cubo è anche un dado. Savinio gioca a dadi con la verità. E spesso vince partite più importanti di quelle vinte dai realisti «ortodossi». Lui aveva scommesso sulla struttura, non sui significati espliciti, della «realtà» del nostro secolo. 283
14. Savinio non giurerebbe mai dinanzi al giudice di dire «tutta la verità»: solo quella in cui crede in quel momento e che fra l’altro è una verità che egli stesso ha costruito, scoperto o montato. Non tarderà a dire della stessa verità su cui giura che è una «montatura» o una finzione, il risultato di un linguaggio che si è incontrato con delle parole dalle quali sembra d’ora in poi impossibile staccarsi. Non tutta la verità ma una verità particolare, anzi un particolare di verità: quella che si vede dal finestrino della tradotta che lo porta in guerra per scrivere Hermzaphrodito e tutti i quadrati con cui andrà mettendo insieme il suo disegno complessivo. Sono i piccoli riquadri che danno definitivamente la misura del componimento più congeniale a Savinio che è sempre breve: non solo le intese e svelte faziosità di Hermaphrodito, i racconti di Tutta la vita, le voci di
Nuova Enciclopedia, ma anche il narrare molto segmentato di Tragedia dell'Infanzia, Angelica o la notte di maggio, e persino il ritratto fra paragrafi discontinui di Narrate, uomini, la vostra storia. Delle origini si porta innanzitutto la struttura «infantile», purché si comprenda anche il frammentismo dei vociani: vertice infiammato di un discorso che diventerebbe falso se si accanisse a manifestarsi per intero. Gli spigoli del cubo e del dado a Savinio servono per farla finita con una visione di cui basta un piccolo campione e insieme perché punge: una spina nel fianco di ogni ideologia e di ogni «interesse personale» che si sublimi in cultura, una tattica che serve a bloccarne
il corso e la corsa con cui naturalmente legittima la sua sopravvivenza. Per dirla con una di quelle freddure delle quali aveva esaltato la funzione di rottura e innovazione gnoseologica, Savinio è un grande campione della prosa fatta di «piccoli campioni». Pochi scrittori sanno infatti farsi bastare una pagina come Savinio: un grande prosatore in ogni pagina di Nuova Enciclopedia.
284
15:
La pagina però è spesso in lotta con il libro: che, essendo strutturato, è il luogo della verità non effimera di Savinio. Prendiamo le voci di Nuova Enciclopedia. All’inizio c'è la casualità del lancio del dado, cioè il tema in partenza dall’ordine alfabetico, che è un’occasione per tornare sullo stesso tema da un altro lato o prospettiva. Savinio gira, o meglio svolta, intorno al tema e si trova dal nuovo punto di vista a sostenere opinioni che non sembrano
«sue». O almeno non lo sono nel senso che sembrano dei suoi «nemici», un attacco a quanto Savinio ha fatto prima. Si pensi a quello che egli, da «accusatore di se stesso», scrive della comicità e dei suoi effetti passeggeri, «deperibili». C'era amore e ora c’è odio per il Novecento da parte di uno che da giovane ha esaltato lo «slancio ingenuo» dei futuristi e che è stato segnalato da Breton come uno dei primi surrealisti. Ha cambiato idea uno dei creatori del Novecento, vale a dire del secolo delle avanguardie e della neurastenia, un morbo che fa perdere quella memoria che si riacquista casualmente per concorso di varie e imprevedibili circostanze. Una combinazione dunque? Si tratta anche di questo, percentuale di elementi fortuiti che non dovrebbe dispiacere al primo surrealista. Ma c’è dell’altro: più che combinazione c’è ars combinatoria: un gioco di relazioni per cui una cosa è vuota lungo un passaggio ed è piena nel passaggio successivo, cioè in un’epoca storica diversa. Bisogna quindi essere moderni, anzi contemporanei, per poter riempire pronta-
mente forme che sono vuote ma che sono invece quelle che funzionano meglio oggi, qui, nel presente, tempo insostituibile delle avanguardie ed «eterno» come le forme. I6.
La forma del libro di Savinio: e non solo di Nuova
Enciclopedia ma anche di Hermaphrodito, vale a dire l’ini-
zio e la fine, dall’inizio alla fine, presente duraturo, e futu259,
ro: ha funzionato come modello anche per gli anni Sessanta e per i suoi esperimenti. Una forma «aperta», nella quale non si distingue tra centro e periferia: naturalmente
preferita come luogo che si trova ai margini, cioè ai confini tra il noto e l’ignoto. Ogni punto può essere, può diventare, il centro, cioè un luogo di massima densità semantica e massima intensità emotiva, vale a dire la «dea» e «madre» della Tragedia dell Infanzia. La pagina'invita e persuade a credere, aver fede e sentire piacere, in ciò di cui è latrice. E l’«ipocrisia», cioè «l’esame da sotto», dove
è andata a finire? Bisogna avere fede nella pagina, purché si sappia che accanto c’è un’altra, cambio di prospettiva che può far cambiare idea. La struttura di Savinio sta dicendo che bisogna credere finché non risulta, da diverso punto di vista, che nella fede si è insinuato l’«interesse personale» o di classe, come prima o poi succede sempre nella cultura. La forma della letteratura di Savinio è identica a quella della cultura d’avanguardia: identità per cui lo scrittore «artificiale» può essere «naturale», sincero credente di una finzione, linguaggio che diventa per un po’ di tempo «realtà». Che non sta mai ferma: cioè non come la pagina, bensì come il libro, testo che corre per non farsi mai prendere. Comei libri di Savinio, scrittura al presente che è sempre disponibile a un’altra più veritiera, più deperibile, interpretazione.
286
IL GIALLO LINGUISTICO DI SABA NARRATORE
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IL LINGUAGGIO
PROIBITO
Nel 1953, il 27 giugno, l’Università di Roma conferì a Umberto Saba la laurea in Lettere honoris causa. Nell’occasione l’autore del Canzoniere lesse a mo’ di discorso d’incoronazione un «raccontino» che è lo sviluppo di una «scorciatoia»:
minuscola
narrazione,
«sentiero
per ca-
pre», come gli era capitato di definire questo microscopico genere di prosa narrativa. In una lettera però allora si dolse molto di non aver potuto leggere pagine del romanzo Ernesto che proprio in quei mesi andava guidando a una prima conclusione. Perché non lo lesse? Erzesto, scrive Saba, «disgraziatamente è impubblicabile: per una questione di linguaggio. E tutta la novità, tutta l’arte, tutto lo stile del racconto [...] sta proprio qui». Sono passati oltre trent'anni da allora, il tempo di una generazione, e che generazione: quella che ha vissuto negli anni Sessanta e Settanta il massimo di libertà dalle inibizioni. Invece ora c'è ogni libertà di parlare nell’ Aula Magna dell’Università di Ernesto. E si parlerà di Ernesto prendendo qualche «scorciatoia». Nel doppio senso di chiedere aiuto alle Scorciatoie e di procedere svelto per non annoiare. Bisogna assolutamente essere divertenti. Per Saba Erzesto è una lettura «divertente». Forse più che scorciatoie qui ci sono appunti. Come 289
questo brano di lettera a Bruno Pincherle. «O Dio, se invece di quel discorsetto avessi potuto leggere Erzesto (chiudendo d’autorità gli ascoltatori nell'Aula Magna; in modo che avessero potuto dire a se stessi e agli altri che ascoltavano solo perché obbligati dai cordoni della Celere) credo che sarebbero impazziti di gioia, compreso il Magnifico Rettore e Funaioli, che deve essere sugli ottanta. La gente, Bruno mio, ha un bisogno, un bisogno urgente di mettersi in libertà, di essere insieme liberata dalle sue inibizioni. Questo sarebbe il mestiere della mia vecchiaia: disgraziatamente, se lo esercitassi, la Celere sareb-
be contro di me e non contro il pubblico... Ed Ernesto non aveva inibizioni, o poche poche, e in forma più graziosa che angosciosa. (Non era un decadente, era un primIitivo)».
Che cosa è questo linguaggio così «impubblicabile» e che non può mutare, nascendo proprio da esso il racconto? «La non pubblicabilità del racconto non sta tanto nei fatti narrati quanto nel linguaggio che parlano i personaggi. E tutta la novità, tutta l’arte, tutto lo stile del racconto
(che potrebbe fermarsi a questo primo episodio) sta proprio qui». Perché il linguaggio era impubblicabile? Forse non è pubblicabile quel «purissimo» italiano di Saba che designa con parole «non ermetiche» l’atto sessuale, anzi omosessuale? O il linguaggio impubblicabile è il triestino di liquida armonia che scioglie nella pronuncia le asperità apparenti dello scritto? Naturalmente il linguaggio non è solo la lingua, è anzitutto composizione, struttura. E impubblicabile anche la struttura di Erzesto? Ma che cosa ha di proibito la struttura del romanzo di Saba? Strano che Saba per il quale l’arte è un canale di diffusione del proibito, uno strumento di trasgressione, accetti l’interdetto. Chi aveva stabilito che quel linguaggio è impubblicabile? Il giudizio è suo ma chi aveva imposto il criterio? Chi aveva tanta autorità sul poeta e narratore? Sono tanti gli interrogativi, ma Ernesto è un romanzo che pone molte domande. «La conoscenza, come l’arte, vive sempre del proibi290
to». Troppe proibizioni per Ernesto. Quello che ha fatto
non deve essere fatto, non deve essere detto, non deve essere scritto, non deve essere letto. Quattro date: il
padre o chi per lui, lo zio Giovanni, dà l’interdetto a chi fa l’amore con altro uomo o con una prostituta, ma Ernesto fa l’uno e l’altro; pochi mesi dopo, la madre proibisce che il fatto sia raccontato ad alcuno; nel 1953 è proibito scriverne, specialmente in quel linguaggio «impubblicabile», anche se la cultura ha ormai accettati i fatti; infine è proibito dare il libro da leggere a qualcuno. La pubblicazione va espiata con la morte. Il romanzo esce postumo, ma non per questo ha smesso di essere bloccato. Continua a toccare un tabù. Il lettore vorrebbe che non l’avesse fatto, e che non l’avesse detto né scritto in quel modo. Anche il bracciante è irritato per la franchezza con cui Ernesto designa l’atto sessuale cui si preparano, in italiano, lingua franca che taglia corto sulla musica del dialetto col quale i due amanti fanno Eros verbali; e l’Eros, secondo Saba, è chiassoso, mentre silenzioso è l’istinto di morte. Non vorrebbe nemmeno averlo letto, perché nella lettura risulta che la cultura è ancora e sempre arretrata, visto che soffre tanto per le ribellioni di Ernesto all’interdetto: a quello sessuale (l’amore col bracciante); a quello sociale (le dimissioni polemiche verso il buon padrone), a quello morale (la confessione delle sue «malefatte» alla madre, che d’altronde va punita per averlo privato del padre). Ernesto è al di là, isolato. Il lettore resta sempre al di qua. Il lettore resta indietro rispetto al narratore? La cultura è sempre arretrata rispetto alla «natura»? E la natura ad essere più avanti? Poeta «retrogrado», Saba è più avanzato di tutti i lettori. Il suo linguaggio «naturale» è più moderno di quelli modernisti. Il suo linguaggio «proibito» non è però come negli altri una invenzione, una costruzione, una struttura, insomma una convenzione. Naturale è il male,
ed è bene per tutti che sia così. Saba ovviamente vuole che il lettore lo segua. La conoscenza del proibito deve essere condivisa dal lettore. Leg291
gere arte proibita è conoscenza e accettazione di ciò che all’inizio al lettore risulta proibito. Solo però i lettori che si identificano col narratore vengono premiati. Quelli che accettano il suo linguaggio, le sue idee, i suoi comportamenti saranno ammessi alla rivelazione dei beni della vita. Gli altri, i più, sono esclusi. In un certo senso è escluso ogni lettore. «Come lo si ascolterà Beethoven, quando all’uomo psicologicamente illuminato (o altrettanto libero quanto illuminato) tutte le parti intime — eccessivamente intime, viscerali — delle sue musiche diventeranno chiare
come il giorno?» Il racconto non sarà posseduto dal lettore. Viene ultimo e può essere il primo, ma non sarà mai uguale al narratore. «Una rivoluzione (non politica) che viene» come piaceva a Nietzsche, «su ali di colomba». In Italia non ci sarebbero rivoluzioni «perché gli italiani non sono parricidi, bensì fratricidi». Saba ha compiuto con Erzesto una rivoluzione, dunque il parricidio, se è vero, come lui dice, che
è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione? Chi e che cosa è il padre, il vecchio, in Ernesto? Il tabù dell'amore omosessuale; il tabù che
impedisce di chiamare le cose e le azioni col loro nome; il tabù del parricidio (Ernesto vede l'amante come vecchio e mendico) e dell’uccisione di quel padre filisteo che è il padrone. La vera rivoluzione, la vera uccisione del vec-
chio però consiste nel fatto che viene su ali di colomba, come se fosse un’azione naturale, narrazione che procede prendendo le cose per il loro verso. Se non è colomba, è il salmone che va controcorrente ma secondo natura. Contropelo semmai lavora la natura, che non rinuncia mai a uccidere il padre, cioè la cultura che fissa i tabù sociali, morali e linguistici. Su ali di colomba la narrativa di Saba vola veloce per uccidere anche la letteratura del male che ha fissato il modello dominante di trasgressione nel conflitto insanabile. «Il comportamento naturale non conosce un altro comportamento naturale che gli si contrapponga come errato» (Lotman in Tipologia della cultura). Sembra un’idea 292
di Saba, e il narratore infatti la esegue creando un linguaggio, cioè un artificio e un procedimento culturale, capace di liquidare la censura storica e ideologica che gli impedisce di essere «naturale» quanto la parafrasi del proverbio: «Chi di cultura ferisce, di cultura perisce». Essere moderni per essere meglio «primitivi»: che è poi il paradosso che è diventato logico e che ha trionfato nella letteratura tra le due guerre, a cominciare dalle «odiate» avanguardie. Nessuno prima aveva detto papale papale cose che non si potevano nemmeno ascoltare. Figurarsi se Saba ha avuto mai paura di qualcosa che deve passare attraverso l’orecchio. Anche qui dunque è questione di musica. Con la musica Saba fa entrare in testa idee e comportamenti nei confronti dei quali una cultura «difensiva» ha legalizzato blocchi «reazionari». Una sirena, essere ermafrodito che canta divinamente anche i motivi che salgono su da un corpo «selvaggio», cioè di un pesce. Ernesto non è un romanzo rosa. Potrebbe essere un romanzo
nero, o meglio buio, come tutti i romanzi di
liberazione da un tabù. Il romanzo fa luce dentro i personaggi con la psicoanalisi: che è attiva specialmente nelle parentesi, braccia aperte sul senso di una vicenda che ha sempre motivazioni oscure o che comunque risulta misteriosa per l'adolescente. Questi registra i fatti quando essi si fanno vedere e quando danno un’emozione. Da primitivo non ha paura dei proprî istinti, anzi tende naturalmente a soddisfarli, infischiandosi della cultura che li penalizza e li proibisce. Colpa della cultura. Ecco: Ermesto è un romanzo giallo nel quale colpevole è la cultura degli adulti. Il colpevole è il lettore, questo reazionario? Vogliamo cimentarci in un sillogismo ingenuo e insieme ardito? Un sillogismo selvaggio: Saba intende scrivere un libro divertente e tale gli sembra dal risultato. In sede di ipotesi, potremmo ricordare che per lui i libri più divertenti sono i libri gialli. «Sono la sola letteratura contemporanea che sia stata veramente una letteratura popolare. Pieni di cose, di fatti, di episodi, estremamente 295
divertenti (ma non dovrebbe essere sempre così un romanzo?)». Che sia un giallo questo romanzo divertente e pieno di cose, di fatti e di episodi? Se fosse un giallo ci deve essere un delitto e ci deve essere un colpevole. Qual è il delitto? Se è l'omosessualità originaria di Ernesto, il ragazzo alla fine indica il colpevole nella madre che ha rotto col padre e che lo ha educato con troppa severità. Ci fu un tempo in cui l'omosessualità non era un delitto. Essa appartiene alla natura, lo ammetteva una volta anche la cultura. È per curiosità culturale, oltre che per piacere, che Ernesto fa l’amore con il bracciante. Colpevole è dunque il ragazzo curioso per natura e non bloccato da alcuna inibizione o interdetto. Ernesto si considera autore di un delitto? Se ne sente colpevole, anche se culturalmente vorrebbe dimostrare la propria innocenza. La natura l’ha fatto curioso di tutto, anche del proibito, ma la cultura di Ernesto non può pensare che la natura possa essere mai colpevole di qualcosa. La natura colpevole non è però quella dell’omosessuale bensì quella dell’ebreo. Ernesto fa ciò che è proibito e si condanna con l’autoesclusione, si chiude in un ghetto, nel quale non lo accom-
pagna il lettore. Di fronte alla natura e alla cultura, il colpevole è il lettore, chiunque preferirebbe che Ernesto non fosse sincero e non confessasse le sue «monellerie»? Saba vorrebbe scrivere un giallo ma il suo inconscio e la struttura del romanzo non possono né indicare il colpevole né portare a termine il racconto. «Camminare sempre per le scorciatoie non può dare, a
lungo, la nostalgia delle strade larghe, piane, diritte, provinciali?» Debenedetti aveva avvertito Saba quando le «scorciatoie» stavano diventando raccontini. «Anche un critico può [...] servire a qualcosa. La giusta osservazione
del mio amico fu il taglio cesareo che divise gli uni dalle altre» annota Saba. Di lì a qualche anno avrebbe partorito con grandi doglie addirittura un romanzo. È la strada lunga, «piana, diritta e provinciale» di cui sentiva nostalgia lo scrittore di scorciatoie? Il racconto procede largo (c’entrano anche troppe cose, anzi troppe ovvie spiegazioni), è 294
spianato ma non ha un solo piano (ma almeno due, la
narrazione dei fatti e l’interpretazione), va diritto lungo la sua strada (un pezzo, un episodio, per volta ma all’infinito: la struttura obbliga all’incompiuto) e, se è vero che
parte dalla provincia triestina, è vero anche che aspira ad arrivare al centro della terra, o meglio dell’umanità. Diciamo che vi si giunge meglio quando il narratore prende le scorciatoie o quando vola su ali di colomba, cioè quando taglia i discorsi lasciando l’essenziale. L'essenziale però l’aveva detto nel Canzoniere. In Ernesto Saba invece deve raccontare tutto, compresa l’autodifesa con cui legittimare il proibito di cui vive la sua arte: «quello che non osa venire in altra forma alla luce del sole» aveva scritto in un’altra delle «scorciatoie rifiutate». State attenti mentre avanzate nella lettura di Erzesto, che sembra così larga, piana, diritta e provinciale. All’improvviso vi trovate su uno di quei «sentieri per capre» che per Saba sono le scorciatoie. Sono sentieri che non vanno sentiti con i piedi. Se leggete con la testa, avvertirete che la strada, la frase, si inerpica e diventa impervia. Più spesso la via è piana e potreste non accorgervi di avanzare in una scorciatoia. Le scorciatoie sono nascoste nella boscaglia fitta di interpretazioni psicologiche e di notizie dal vero: l'autobiografia, la biografia di personaggi realmente esistiti. Sono forse rivelazioni che esplodono senso verso il lettore come le epifanie che a Debenedetti sembrano il connotato immancabile della grande narrativa del Novecento? Le scorciatoie di Saba non esplodono, volano, su ali di colomba, per avvicinare cose lontanissime. Ernesto si piega per bere a una fontanella e il gesto gli porta alla memoria la posizione con cui ha subìto l'amante. Sicché la risata delle donne lo denuda e lo fa vergognare del gesto innocente più che dell’atto proibito. All’amante che mendica di dargli «do tastate», Ernesto risponde grave che è d’accordo: «ma che sia per l’ultima volta». L’atto non è tanto grave da non poterci fare su dell’ironia. Le scorciatoie rivelano senso, ma sono ambigue. Talvolta 295
questi sentieri sono bivi, ma non di rado trivii. Come quelli di Joyce, i giochi di parole di Saba sono triviali, ma talvolta sono quadriviali. Insomma c’è molta scienza, d’anima e di corpo, anche troppo. Il racconto annega in tanta luce, ma alla letteratura di Saba conviene mettere in
luce la cima del discorso. L’inconscio deve restare al buio anche in narrativa. «Oggi semo soli» disse l’uomo vedendo che Ernesto non parlava. Aveva preso fuori da una borsa, che recava sempre con sé, l’ago e lo spago necessari al suo lavoro; ma più che lavorare, attendeva dal ragazzo una parola che si richiamasse al loro dialogo di ieri, e gli servisse da incoraggiamento. Ma Ernesto — come si è detto — taceva. Gli si era messo vicino (più vicino, forse, del solito) e
stava in piedi, a testa bassa, giocherellando col cartello attaccato all'imboccatura di un sacco. Tanto che il cartello gli rimase in mano. Allora lo fece in minutissimi pezzi, che gettò via. «Soli» disse finalmente, «soli per un’ora». «In un’ora se pol far tante robe» incalzò, pronto, l’uomo. «E lei che robe el volessi far?» 4 «Nol se ricorda più de quel che gavemo parlà ieri? Che el me ga quasi promesso? Nol sa che me piaserìa tanto farghe?» «Mettermelo in culo» disse, con tranquilla innocenza, Ernesto.
L’uomo rimase un po’ urtato dalla crudezza dell’espressione che, oltre a tutto, lo sorprese in bocca di un ragazzo come Ernesto. Urtato, ed anche impaurito. Pen-
sò che il «mulo» (monello), già pentito della sua mezza accondiscendenza, lo prendesse in giro. Peggio ancora: che ne avesse già parlato a terzi o — eventualità temibile su tutte — si fosse confidato a sua madre. Si trattava invece d’altro. Con quella frase netta e precisa, il ragazzo rivelava, senza saperlo, quello che molti anni più tardi, dopo molte esperienze e molto dolore, sarebbe il suo «stile»: quel giungere al cuore delle cose, al centro atroventato della vita, superando insistenze ed inibizioni, 296
senza perifrasi e giri inutili di parole; si trattasse di cose considerate basse e volgari (magari proibite) o di altre
considerate «sublimi», e situandole tutte — come fa la
Natura — sullo stesso piano. Ma allora non ci pensava certo. La frase (che fece quasi arrossire il bracciante avventizio) gli uscì di bocca perché la situazione lo comportava. Voleva far contento, dar piacere al suo amico, e provare egli stesso una sensazione nuova, desiderata appunto per la sua novità e stranezza. Al tempo stesso temeva di sentir male. Non aveva, in quel momento, altre preoccupazioni.
Nel linguaggio dunque è la rivoluzione (non politica) di Ernesto. I fatti non contano o almeno non sono ciò che conta nel romanzo di Saba. Che nelle Scorciatoie aveva scritto: «I fatti preesistono. Noi li scopriamo, vivendoli». Non è la prima volta che un ragazzo ama un adulto. Sembra però detto la prima volta quello che «con tranquilla innocenza» Ernesto dice in risposta al bracciante che gli domanda se ha capito cosa gli «piaserìa tanto farghe». Mai l'italiano moderno era stato lingua tanto franca: una franchezza brutale che disturba il corteggiatore, e che coglie in contropiede il lettore sino allora coinvolto in un dolcissimo e tutt'altro che casto dialogo d’amore in dialetto triestino. «Eros è chiassoso. Fa molto baccano sulla superficie della terra» scrive nelle Scorciatoie Saba. L’Eros in dialetto non è chiassoso, si fa musica corrente come acqua, significante che dice di più con i suoni che non con i significati; i quali peraltro non potrebbero essere, come dire?, più corposi. L’Eros qui fa chiasso in un italiano che arriva come una bomba a precisare il possesso omosessuale. In dialetto Ernesto parla con l’amante e con la madre, e con chi l’ama, linguaggio d’amori, che possono essere solo suggeriti ma non dichiarati. Ernesto poco prima le aveva rivelato: «Ebbene, mamma, mammina, io e quell’uomo abbiamo fatto, di queste cose». L'italiano è la lingua che nomina le cose come sono. Il dialetto è la lingua Di
dell'altro; che notoriamente non si nomina, ma si suggerisce. Il contrario di questo succede al dialetto dei veristi. Cercate nel dialetto di Saba e arriverete all'origine del romanzo.
LA SCENA
MADRE
Ernesto porta se essere distrutto nel da un po’ in che padre e dell’affetto
stesso dinanzi alla madre fingendo di corpo e nell’anima. E la accusa. Guarstato mi hai ridotto, privandomi del che una madre deve sapere dimostra-
re, se è necessario, anche con un bacio. Invece mai un bacio che è uno. Bisogna pure che qualcuno te lo dia, che tu lo dia a qualcuno. Ecco perché sono andato con quell’uomo; perché è venuto meno l’amore materno. E per lo stesso motivo sono andato con la prostituta. Mai una
parola che non fosse severa, sempre quell’italiano dentro il quale trincerarsi per nascondere gli «impulsi del cuore». Allora la madre cede, e gli dà un bacio e si lascia andare, per una battuta di dialogo, all’odiato dialetto. Pietà o paura per la sorte del figlio, pure lei per i sentimenti forti evita la lingua. Però si riprende subito, si «riprende» la lingua, e nega al figlio troppo appiccicoso e querulo un altro bacio, altro dialetto, un altro affetto. La madre, che fa anche da padre, sa che è un obbligo civile, «sociale», «nazionale», italiano negargli quell’affetto che solo potrebbe rendere felice Ernesto. E sa come usare la «lingua» per far rigare diritto il figlio che si compiace di essere un escluso. Gli ricorda, offendendolo, che non è una putela, né più un colombino innocente. E in lingua, in chiaro italiano, gli ordina di non parlare con nessuno delle sue «disinibizioni». Semmai gliela mette lei un’inibizione: non parli, non scriva, in dialetto, lingua di troppo forti impulsi del cuore. 298
«No pensarghe più, fio mio» disse, passando all’improvviso, e senza accorgersene, al dialetto, cosa anche questa che le accadeva di rado, «quel che te xe fato xe assai bruto, ma no ga, se nissun vien a saverlo, tanta
importanza. No ti xe, grazie a Dio, una putela». «Non son una putela» protestò Ernesto, «son anche sta una volta da una dona».
Su quella parola putela nasce un equivoco. La madre vorrebbe dire che non è tanto grave per il figlio essere stato con un uomo quanto lo sarebbe stato per una ragazza che avesse l’obbligo di andare illibata al matrimonio. L’inconscio però la tradisce ed Ernesto protesta come se la madre gli attribuisse natura di fanciulla. Le madri conoscono la natura vera dei figli, anche se ne ignorano le azioni. Ernesto in effetti è ambiguo quanto lo conosce il suo amante, e i lettori. L'amore omosessuale conserva Ernesto all'amore della madre, quello con la prostituta no. Peggio ancora reagirebbe la madre se sapesse che Ernesto sulla prostituta ha sentito l’odore della balia. Alla psicoanalisi di Gadda non era sfuggito leggendo il Carzontere che «il rapporto balia-bambino sostituisce a volte, in realtà, o almeno addoppia, il rapporto naturale mammabambino». «Forse/Al suo ritorno, alfine [...]./Forse, lontano restando, la Peppa/L’eterna Peppa, dimenticherà». La
gelosia della madre si vendica sul figlio buttando giù come un lapsus la parola «putela» e blocca nel figlio la voglia di andare a raccontare ad altri le sue femminili avventure. Debbono passare più di cinquant'anni prima che Saba disobbedisca a quell’imperativo che è un interdetto da cui nasce l’inibizione. Ernesto ormai vecchio racconta una storia che la madre gli aveva proibito di raccontare a chicchessia, tanto meno a migliaia di lettori. In questo romanzo l’interdetto che potrebbe bloccare Ernesto a un’adolescenza ambigua — dove la natura di monello troppo prolungata accentua l’immaturità o il ritardo del maschio —, il tabù dunque arriva dalla madre più che dal padre. In 299
Ernesto il padre, simbolico o chiacchierato, il barbiere è colui che rasandogli la peluria del viso, invece di provo-
cargli un complesso di castrazione, lo libera dal rapporto col bracciante (il quale non fa l’amore con maschietti cui sia anche solo spuntata la barba) e gli dà il viatico perché vada con la prostituta, con una donna. «Singhiozzava proprio di gusto» Ernesto, dopo averlo confessato alla «madre spartana», che è così avara di baci e che lo credeva «ancora innocente come un colombino». «Dal letto di ottone le rispose il gemito di un uomo pugnalato». Non è una castrazione, ma il ragazzo ha capito che la sua monellesca, libera, naturale adolescenza non potrà
raccontarla più a nessuno con la franchezza spietata con cui l’ha raccontata alla madre ferendola profondamente per costringerla a tirare fuori anche lei i suoi impulsi del ‘cuore. Mezzo secolo dopo il «colombino» la racconterà facendo «la rivoluzione su ali di colomba». Da questa scena madre è nato non solo Erzesto, ma anche la poesia del Canzoniere. ‘ In questo conflitto Edipo accusa Giocasta. E lei ad avere ucciso il marito, che non era cattivo: la lasciava sola, e sola decide di rimanere, naturalmente col figlio. Edipo ha ucciso perché è stato privato della possibilità di conoscere il padre. Ernesto è un Edipo che finge nostalgia del padre. In realtà gli basta incolpare la madre di avere provocato il suo delitto. La madre finge di perdonarlo ma invece passa subito all’attacco dandogli della femminuccia, una putela, con una negazione che afferma secondo la nota interpretazione di Freud. Il racconto non risponde esplicitamente. E letteralmente una sfinge. La Sfinge domanda sempre al colpevole, pone interrogativi sull’Essere. Edipo risponde che è l’uomo, è l’uomo il colpevole, il fatto di essere un uomo. Facendo tante domande alla Sfinge nemmeno il critico può sfuggire alla regola. Il colpevole dunque è lui, il lettore, il critico, l’uomo che interroga quella Sfinge che è sempre un racconto. In Erresto il lettore ha la colpa di lasciar solo, di abbandonare al suo destino, di escludere il 300
ragazzo ebreo che dice francamente quello che pensa, e di condannare il suo linguaggio proibito. Il lettore — col quale Saba intrattiene un rapporto conflittuale, assegnandogli non solo moderazione ma anche moderatismo — si domanda perché Ernesto sia così spietato non solo verso gli altri (l’amante, il signor Wilder, lo zio Giovanni), ma ancor più verso se stesso. Un manualet-
to di divulgazione psicoanalitica parlerebbe di un rapporto sado-masochista. Più semplicemente si constata che Ernesto tiene sulle braci il lettore ogni volta che decide di agire secondo la sua più autentica natura «monellesca». Che cosa lo spinge a restar solo, a farsi escludere? Che cosa cerca? Quello che il buon senso respinge è la confessione delle sue azioni e «malazioni» che egli fa all’ignara madre che lo crede ancora un colombino innocente. Perché non mente, come gli «consiglia» il lettore? Lo consiglia anche il narratore, che sotto spoglie non mentite è Ernesto adulto. Ebbene, Ernesto deve costringere la madre ad abbandonare il comportamento severo e rigido (dice Debenedetti in un saggio di Intermezzo : «Enunziata in due parole, l'avventura di Saba era questa: distruggere la severità della propria madre personale, la madre dalla “marmorea faccia” che l’ha deluso come figlio, e trovare altrove le necessarie dolcezze di un grembo materno»). Ernesto deve scardinare il sistema di difesa di una madre che non dà mai un bacio. E comincia con l’attaccarla, nel pensiero più che nel dialogo, attribuendole la colpa di averlo lasciato senza affetto e senza padre, assenze che sono alle origini della grazia femminile che aveva attirato il bracciante. Solo quando sente dire che l’amante gli ha fatto molto male (le bugie le sa dire bene anche Ernesto, quando gli servono), allora la madre si intenerisce, segue «l’impulso del cuore», e bacia il figlio in fronte. Soprattutto parla per la prima volta (una delle rarissime volte, attesta Ernesto, quando molto più tardi analizza gli eventi, anzi li psicoanalizza, pure troppo) in dialetto, che è la lingua dell'amore. E il figlio si sente rinascere. E se singhiozza, 301
ora Ernesto «singhiozza di gusto», sperando invano che la madre lo baci ancora e parli ancora in dialetto. L’italiano è la lingua della madre spartana, della sua faccia marmorea, la lingua dell’integrazione dell’ebreo e dell’ordine e buon senso borghese. Il proibito è il dialetto. Non la lingua mimetica del verismo sabiano, ma la lingua del «primitivo». La lingua della madre e dell’amante. Secondo Gadda, in Agostino di Moravia e nell'amore di Venere e Adone, di Angelica e Medoro l’amante è un po’ madre-amante. Parlano in dialetto tutti quelli che amano Ernesto, compresi il barbiere e la prostituta.
LA CALDA
VITA
Ernesto si sarebbe potuto, per confessione di Saba,
concludere al primo episodio; poi al terzo episodio, più tardi al quarto. Invece ha anche un quinto episodio, in cui si racconta un’altra metamorfosi dell’Eros. Nel primo episodio l’amore col bracciante avventizio; nel secondo l’amore per la balia; nel terzo l’amore con la prostituta;
nel quarto l’amore per la madre; nel quinto l’amore per Ilio. I poeti lirici sono «fanciulli che cantano le loro madri» dice Saba pensando a Petrarca, ma un po’ anche a se stesso. L’amore per la balia, per la prostituta e per la madre stanno al centro del romanzo: Erresto è tutto impregnato di maternità e Saba se ne sente incinto. Di episodi egli ne può figliare più di cinque. L’Eros ha manifestazioni innumerevoli, un amore uguale all’altro, un amore dopo l’altro: ognuno al punto giusto della vita, che ha un suo svolgimento, un romanzo. Ernesto non si farà
mai più possedere dall’amante, quando gli spunta la barba subito rasata. Allora egli ha la visione dell’amico piangente. Quell’Eros è passato. Un vecchio. Un mendicante. Questo sembra a Ernesto l'amante quando tutto è finito fra loro. 302
La poesia è la madre. Allora il padre il romanzo? Il romanzo interpreta e l’interpretazione è attività maschile con cui ci si impossessa dell’ambiguità del nudo racconto. Con l’interpretazione psicologica si va dentro o dietro i
personaggi per spiegazione e comportamenti. Le motivazioni sono sempre tra parentesi, dentro le quasi si collocano
come l’altra faccia dell’evento o come il dopo, inogni modo come razionalità che copre lo spazio intero e ogni tempo della narrazione. In Scorciatoie e raccontini Debenedetti riscontra che «il contegno fondamentale è quello dell’adulto che sa di sapere, e si assume la piena responsabilità. Liberato, guarito, Saba trova il coraggio di prendere la parola, rinunciando alla «protezione della poesia». Lì gli aforismi e i bozzetti «chiedono di essere discussi nella sostanza, torto o ragione, dei loro giudizi». Erresto, che è un romanzo, è un libro «femminile», «materno», ma non perché è poesia né tanto meno perché è prosa lirica, bensì perché è narrativa, svolgimento che rimette in discussione le proprie idee e spiegazioni e interpretazioni. Questo romanzo parto-
risce episodi che esprimono giudizi diversi e contraddittori. Peraltro capita spesso alla poesia di essere contraddittoria, a sentire Debenedetti, che non aveva solo orecchio. In Ernesto ci sono troppe parentesi. Ci sono sempre molte parentesi in Saba, anche quando gli altri le eliminerebbero. In Saba esse hanno una funzione diversa da quella canonica. Nel romanzo ospitano l’interpretazione razionale e quella più matura. C'è un dialogo fitto tra ciò che si fa o si dice dentro e fuori della parentesi. Qualche volta nella parentesi si dice quel che pensa Ernesto di ciò che gli si sta dicendo (vedi il dialogo col signor Wilder); altra volta vi si dice quello che pensa il narratore, cioè Ernesto arrivato a maturità e a cultura, o più precisamente alla psicoanalisi. È difficile condurre avanti tutta la «tragedia», il racconto, «senza scoprire la psicologia che sta nei e dietro i personaggi, e lasciando al romanzetto l’aria “monellesca”». Gli adulti interpretano, i fanciulli vivono. Ernesto deve essere analizzato e razionalizzato. E tuttavia l’adulto che è il lettore è irritato dalla sua fran303
chezza. Tra parentesi, nella parentesi, il lettore capisce Ernesto ma non gli si identifica. Ernesto non finisce mai
di trasgredire. Fa sempre quello che il lettore non si aspetta.
IL SOGNATORE
DEL
GHETTO
La conoscenza è femmina in Saba? «Il racconto è tutto impregnato di maternità: io stesso ho avuto, mentre lo scrivevo, la netta impressione di essere incinto». Saba considerava la Recherche di Proust il più bel libro scritto da una donna. Weininger, testimone Debenedetti, assegna agli ebrei un carattere «femminilmente passivo». Secondo Saba, la poesia è maschile (la poesia è un’erezione, scrive nelle Scorciatoze), il romanzo è femminile, visto
che nelle stesse Scorciatore lo definisce «un parto». Un parto difficile, con molte doglie, che danno una paura e una prostrazione per cui l’autore confessa d’essere sul punto di svenire, comunque non vorrebbe continuare in una storia che è soprattutto sofferenza. É tuttavia non ci si può tirare indietro. Qualcosa nascerà, quando il parto è maturo. Per fare un figlio però bisogna essere in due. Qui il racconto è femmina, una prostituta aperta a tante interpretazioni; l’interpretazione è maschio: è la psicoanalisi, che si colloca tra parentesi e che si identifica con la cultura, sia pure la cultura più disponibile alle ragioni della natura. Saba ha un'idea della natura per cui gli pare di poterla identificare col «primitivo» che egli si considera (non un decadente: ci tiene a distinguere tra i difensori degli istinti: «I decadenti inneggiavano volentieri agli istinti, alla divina libertà degli istinti primitivi. Solo da ieri si sa che gli istinti primitivi sono, in gran parte, passivi». Scorciatoie). A lui piace che la cultura assecondi la natura e coincida con essa. Viene seconda anche in Ernesto l’esperienza maschile con la prostituta. La prima è passi304
va, femminile. La terza non si sa. Tra Ernesto e Ilio non importa stabilire chi è il maschio e chi la femmina. L’amore non è fraterno, ma è alla pari, aperto a tutto. Ernesto vuole essere, non avere Ilio. La cultura vuole essere natura e la natura vuole essere cultura. L’Eros è l’una e l’altra, maschio e femmina. Come la conoscenza, alla quale nulla è proibito, violenza subìta che dà piacere, e attraverso il piacere proibito che dà ciò che si è prostituito. La prostituta ha l'odore della balia, madre che distrae il tabù e che permette di toccare l’oggetto del desiderio o almeno di mimare il possesso proibito. La madre di Ernesto è più gelosa della prostituta che non del bracciante. Solo l’incesto è legittimamente proibi‘to all’Eros della cultura. Che resta sempre in conflitto con la natura su questo e su altro. In Ernesto vero è il racconto, falso invece è il commen-
to, l’interpretazione, la razionalizzazione. I significati slittano sotto i significanti, non appena vengono raggiunti. Forse non sono stati nemmeno raggiunti o toccati di pas-
saggio. Stabile è la fantasia, sia pure ambigua o pregnante o tripla; precaria è l’intelligenza. Cambiano di episodio in episodio le idee sullo stesso fatto. Ernesto fa l’esperienza omosessuale per amore di conoscenza, o almeno così spiega nel primo episodio; nel secondo e terzo è chiaro che l’esperienza omosessuale è solo una prima delle manifestazioni dell’Eros, che poi si evolve verso l’etero-sessualità o comunque l’Eros attivo; nel quarto invece si fa colpa alla madre di qualcosa che Ernesto aveva confessato d’aver fatto per piacere. Il matrimonio sbagliato, il marito allontanato, la severità nell'educazione: tutte cause della «grazia» femminile che ha attirato il bracciante avventizio. L’omosessualità è naturale o è culturale, cioè è il risultato dell'assenza del padre e della carenza affettiva del ragazzo? L’omosessualità è latente, solo certe cause la fanno maturare ed esplodere. Qualcuno troppo precettistico aveva concluso che per Saba l’esperienza omosessuale è una via obbligata dell’Eros. Con una contraddizione che è spiegabile con un conflitto psicologico invece 305
Ernesto incolpa e condanna la madre di qualcosa che non era stata vissuta come colpa se non per la mentalità piccolo-borghese dell'ambiente, fine Ottocento, Trieste, una famiglia ebrea, lo zio Giovanni, la madre, il padrone del-
l'ufficio. Qual è la verità? Saba la stava cercando di episodio in episodio. Il romanzo è incompiuto perché la ricerca della verità non finisce mai. Non è ancora finita nemmeno riguardo al suo unico romanzo. Erzesto, romanzo che nomina e non suggerisce, non si fa possedere dopo quel primo episodio in cui pareva tutto così chiaro. Un romanzo ambiguo come il protagonista. Non sarà tuttavia deluso chi si dispone alla lettura per recuperarvi l’effetto d’urto suscitato originariamente da uno scrittore che sapeva di «urtare» il lettore. Il libro infatti conserva, al di là dello «scandalo» biografico (è difficile sostenere che Ernesto non è Saba, ma forse non serve neppure sostenere il contrario), gli effetti dello scontro tra due modi di parlare, di sentire, di pensare. Da una parte c’è Ernesto, un franco fautore della franchezza, un adolescente schietto che evita il più possibile i sotterfugi, egalitario e socialista di esplicita ma irresistibile contraddizione, un «primitivo» che ovviamente ha il suo mito culturale da far passare per primitivo e naturale. Dall’altra parte ci sono gli antagonisti, che comunque ama e capisce (e che perciò circuisce con parentesi e altre annotazioni in margine alle loro battute di dialogo: un’ininterrotta riflessione dell’acuto psicologo che era Saba sopra la secca memoria di frasi realmente o verosimilmente dette):
il «bracciante avventizio» con cui Ernesto ha un rapporto omosessuale prima della «definitiva» esperienza eterosessuale; lo zio tutore che ha un senso sociale e classista delle relazioni e che quindi odia il socialismo del nipote; la madre che soffoca dentro un codice educativo severo l’in-
quieto affetto per il figlio. Saba si lavora il lettore, prima facendone un complice ideologico del «bracciante», dello zio e della madre, poi conducendolo «dolcemente» dalla parte del figlio, cioè delle idee e del comportamento comunque «genuino» di 306
Ernesto, di quello che era nel 1898 e nel 1953. Trovare, cioè inventare, un linguaggio «naturale» significa per Saba trovare la legittimità culturale per quello che uno è e per qualsiasi tempo lo si sia. Finge di difendersi, ma in realtà attacca. Una strategia apparentemente neutrale con la quale si fa assimilare agli avversari una novità ideologicamente irritante. A Saba interessa che ogni lettore si ritrovi in testa, e nel cuore, l’idea che la trasgressione sessuale di Ernesto è normale. La storia ha solo fatto giustizia di un errore, che il linguaggio letterario ora demolisce. Un linguaggio giovane come Ernesto, che agisce come parla, e non con la cautela filistea di chi ignora di aver diritto a ciò che desidera. A Saba interessava legittimare l’amore omosessuale come amore, uno dei tanti modi naturali di amore. Saba è «amabile», anzi odia causare
irritazione, come invece preferiscono gli innovatori e provocatori delle idee e del linguaggio. Anche quando era «cattivo» si mostrava accattivante.
Nella prima scena del romanzo il «bracciante avventizio» che lavora nel magazzino in cui Ernesto fa il contabile, avvia un cauto e circospetto corteggiamento del sedicenne con modi timidi e trepidanti e con espressioni di finissimo garbo (quello per cui il proletario berrà un bicchiere di vino non gradito offerto dalla madre di Ernesto) e pronte alla ritirata. Dinanzi alle apprensioni che paralizzano il corteggiatore, un «innocente» che si comporta da colpevole, Ernesto taglia corto e nomina con candida brutalità l’atto che l'amante aspira a compiere sul suo corpo. Non importa se nella nostra letteratura è la prima volta che un uomo dice così chiaro e tondo di aver piacere di subire un maschio; troppe cose non sono state dette per la prima volta e non importa che vengano dette. Forse però non si era mai detta con la naturalezza che si accompagna ai più comuni fatti quotidiani una frase che urta con così morbida violenza contro un tabù culturale: senza l’accanimento polemico che rivela un complesso colla provocazione. Il lettore è «costretto» ad assorbire la rottura della nor307
ma come ristabilimento di un ordine frantumato della società. In questo senso ha ragione Saba nel dire che il linguaggio di Ernesto è più radicalmente innovatore del racconto di «fatti» sempre meno scabrosi per lettori che nel frattempo, almeno all'orecchio, debbono averci fatto il callo. Il fatto, quei «fatti» e altri fatti, si impossessano del linguaggio senza accordare il respiro, lo spessore e l'articolazione di cui si accende e si alimenta lo scontro tra due modi d’essere e di pensare. Un episodio, e potrebbe essere la fine. Poi un altro episodio: dopo il «bracciante» la prostituta. Ancora un episodio: quello di Ilio. Il romanzo potrebbe continuare: all’infinito? Un amore vale un altro? Il bracciante come la prostituta e come l’amico violinista? Come tutti gli altri che seguiranno nelle sostituzioni che sono le metafore del suo amore unico e ripetibile. Non c’è storia nelle metamorfosi di un Eros che non può essere mai soddisfatto. Un romanzo frantumato in tanti episodi. Una frattura originaria, strutturale, forse la Spaltung freudiana che proibisce l’incesto. Se l’interdetto della cultura gli nega l’amore della madre, Ernesto immette e legittima nella cultura ogni forma d’amore ammesso in natura. È del tutto naturale in Saba l’amore omosessuale. Quanto l’altro amore e ogni altro amore che al poeta capitasse di incontrare. La struttura del romanzo è piana, ma va chiaramente in discesa verso ogni esperienza erotica. Era questo il lin-
guaggio proibito: quello che rende uguale ogni modo di amare? Ogni amore è permesso, purché si ami. Viva la vita, se è calda. La riscaldi la letteratura, attività cui nulla deve essere proibito. Nessuna letteratura deve essere proibita, tanto meno quella «proibita». Anzi amate la letteratura proibita, perché è quella che fa più calda la vita.
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- DI VITTORINI
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