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Italian Pages 656 Year 1992
FERDINANDO BOLOGNA L’INCREDULITÀ - DEL CARAVAGGIO
‘Bollati Boringhieri
Il titolo del libro è collegato a uno dei dipinti più rappresentativi dell’opera del maestro, L’incredulità di san Tommaso, riprodotto in copertina. Narra il Vangelo
di Giovanni che Tommaso, avendo udito gli apostoli dire d’aver visto il Cristo risorto, oppose loro: «Se non metto il mio dito nel posto dei chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò».
Otto giorni dopo, mentre gli apostoli erano riuniti, e Tommaso era con loro, Ge-
sù entrò nella stanza a porte chiuse, si diresse verso Tommaso e gli disse: «Metti qua il tuo ditoeguarda le mie mani, stendi la tua mano e mettila nel mio costato,
e non essere più incredulo». Senza attenersi agli intenti edificanti con cui l’iconografia tradizionale raccomandava di trattare gli argomenti sacri, e assumen-
do polemicamente alla lettera la narrazione evangelica, il Caravaggio concentrò la rappresentazione dell’evento nell’atto «materiale» con cui il grosso dito di san Tommaso entra nella ferita del costato di Cristo, per accertarne la realtà al di là di ogni dubbio. In tutti i suoi dipinti di argomento sia profano/mitologico che religioso, il Caravaggio volle ricondurre il soggetto della rappresentazione alla sua evidenza esistenziale di base. E ciò perché - egli sosteneva —, nel momento in cui si produssero, ossia prima che fossero sottopo-
sti alla manipolazione intellettualistica o
apologetica a cui furono sottoposti nel corso del tempo, il fatto mitologico e il fatto sacro non poterono apparire né essere percepiti se non come avvenimenti comuni, con attori e cose comuni. Resti-
tuire il mitologico e il sacro alla flagranza dell’accadimento e alla condizione di «cosa naturale», era il compito che il Ca-
ravaggio assegnava all’artista che non vo-
lesse accontentarsi
delle conformità
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FERDINANDO BOLOGNA "L'INCREDULITA” DI CARAVAGGIO" BOLLATI BORINGHIERI (70) 0000116
Nuova Cultura 29
Ferdinando Bologna
L’incredulità del Caravaggio e l’esperienza delle «cose naturali»
Bollati Boringhieri
Prima edizione 1992
Ristampa settembre 1993 © 1992 Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, corso Vittorio Emanuele 86 I diritti di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati Stampato in Italia dalla Stampatre di Torino CL 61-9614-4 ISBN 88-339-0654-x Schema grafico della copertina di Pierluigi Cerri
L’incredulità del Caravaggio / Ferdinando Bologna. — Torino XX, 527 p., c. di tav. : ill I. BOLOGNA, Ferdinando
1. CARAVAGGIO,
; 22 cm. — (Nuova Cultura
Michelangelo Merisi da
GDD:759:5
(a cura di S.& T. - Torino)
: Bollati Boringhieri, 1992 ; 29)
Indice
Premessa
L’incredulità del Caravaggio Parte prima Il Caravaggio nella cultura e nella società del suo tempo Introduzione
. Ritorni al passato e innovazione: il Caravaggio alle origini dell’età moderna
. Il Caravaggio e gli indirizzi della Controriforma IE
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54 6I
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1. Sottomissione o ultima resistenza interna? 2. Le norme post-tridentine per l’iconografia dei dipinti di argomento religioso, il Discorso del cardinal Paleotti e le scelte fondamentali del Caravaggio 3. «(...) in quel mezzo tra il devoto, et profano, che non l’haveria voluto vedere da lontano»: una testimonianza importante del 2 agosto 1603 4. Il Caravaggio rifiutato 5. Il Caravaggio «antictisto» e «scomunicato»: «(...) i miei peccati son tutti mortali» 6. «Comprendere in qual parte pieghi la verità e con quella concordare i sensi delle Scritture Sante»: l’arte «sacra» del Caravaggio
. Il Caravaggio, le istituzioni e i prelati della Controriforma 93
1. Il Caravaggio, Ignazio di Loyola, i gesuiti di Claudio Acquaviva e la Resurrezione del processo
Indice
VII
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. Il Caravaggio, i padri dell'Oratorio, Cesare Baronio e gli ordini men-
TR2
. Il Caravaggio e Federico Borromeo
dicanti
uil «naturalismo» del Caravaggio
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. «Dipinse una fanciulla a sedere sopra una seggiola (...); la finse per Maddalena»: i limiti dell’iconologia nella contestazione del «naturalismo» caravaggesco . «Imitar bene le cose naturali»: la dichiarazione d’intenti del Caravaggio e la testimonianza delle fonti . «Rem pingendam in conclavi suo tam diu oculis exponens, donec veritatem colore assecutus esset»: il «naturalismo» del Caravaggio come «osservazione» ottica della «cosa» . Il quadro dei riferimenti nella cultura contemporanea: «verificare con la natura» (G. Bruno); «investigare da sé la natura delle cose col guardare alle cose stesse» (T. Campanella); «[Galileo] diceva che le principali porte per introdursi nel ricchissimo erario della natural filosofia erano l’osservazione e l’esperienza, che per mezzo delle chiavi de’ sensi,
da i più nobili e curiosi intelletti si potevano aprire» (V. Viviani) . Ancora sul quadro dei riferimenti nella cultura contemporanea: «le chiavi de’ sensi» (Galileo) e la centralità dell’esperienza visiva come strumento di conoscenza nella rivoluzione scientifica; «non mi fido di nulla se non della testimonianza degli occhi» (F. Bacon); «occhi che,
se resi vigili, vedono tutto ciò che è da vedere» (C. Huygens); «vedere per credere: l’osservazione oculare fa le veci della dimostrazione» (Comenio). La cultura pittorica lombarda, le implicazioni fiamminghe e il «nominalismo» dei «Vorlaufers Galileis»
. Le implicazioni sociali dell’opera e dei pensieri del Caravaggio I9I
Valori e limiti di alcune interpretazioni precedenti. Il Caravaggio pittore «popolare» (da Laviron, «democratico» del 1830, al Longhi del 1951). Il Caravaggio e la «low church» oratoriana (W. Friedlinder). Il «rilievo morale» degli «aspetti della vita popolare» nelle opere del Caravaggio (Cozzi, 1963) . Alla ricerca di altre vie: il «naturalismo» del Caravaggio come principio di rifiuto delle gerarchie e di «riordinamento radicale dei valori». «Disse che tanta manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori
1683
come di figure» (Giustiniani): le implicazioni sociali della «manifat-
tura» come radice della «bontà» estetica e del pareggiamento dei Lada; Cra
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Parte prima
Il Caravaggio nella cultura e nella società del suo tempo
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Introduzione
Da tempo il Caravaggio non è più l'argomento inedito, ancora da rivendicare alla prima sfera dei valori, che era durante il primo decennio di questo secolo, ai tempi di un Roger Fry,! di un Lionello Venturi,” o del giovanissimo Roberto Longhi.’ Entrato consolidatamente nell’empireo dei valori assodati, è oggi addirittura materia di moda e di consumo, e l’entità dell’eco che il suo nome suscita può essere misurata non meno dal successo di pubblico arriso alle mostre recenti dedicate alla sua opera e al suo «tempo», quanto da fatti di quest'altro genere: che un suo ritratto, ricavato dal noto disegno di Ottavio Leoni, figura sul frontespizio delle banconote da centomila lire nell’ultima emissione della Banca d’Italia (insieme alla «Buona ventura» del
Louvre, alla celebre Fisce/la dell’ Ambrosiana e a un particolare di paesaggio tolto dal Sacrificio di Isacco degli Uffizi, tutti reincisi al tratto sul dritto e sul rovescio della stessa banconota);? che taluni suoi dipinti specie giovanili, talvolta rielaborati in fotomontaggio talaltra ridotti a insegna pubblicitaria, sono stati utilizzati per reclamizzare vini, osterie e prodotti industriali; che su lui sono stati fatti film, lavori
radiofonici e dossier da vendere in edicola, mentre un Marc’O è giunto a sostenere, sia pure per paradosso, che la «tecnica della luminosità» da lui elaborata può essere intesa in termini di elettronica («Caravaggio? Un videoartista»);° e che si tenta più spesso di quanto non s'immagini d’imbastire speculazioni commerciali di grossa portata (non semplici compravendite di normale e adeguata entità economica) su opere sue, vere o presunte.’
Di contro, se si scorre il pur notevole numero di scritti che anche dopo il triennio 1971-74, cruciale per la critica caravaggesca poste-
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Introduzione
riore a Longhi, hanno continuato a esser dedicati in Italia e fuori alla figura storica e artistica del maestro, e ai gravi problemi interpretativi che essa pone, non si può non convenire che sono stati fatti passi avanti solo nell’ordine delle conoscenze particolari, dei dati documentari e dell’informazione bibliografica. L’interpretazione ha segnato il passo, ripetendo il già detto anche quando ha riproposto sotto diversi punti di vista o ha ridiscusso più o meno meritoriamente le tesi già messe in campo; oppure ha tentato sterili compromessi, adeguati in tutto, a ben guardare, alla facile e interessata accontentabilità dei successi consumistici, delle celebrazioni pubblicitarie, delle reificazioni
commerciali.* Dopo la svolta del triennio più sopra definito cruciale, e che — è bene chiarirlo subito — a mio parere è consistita nella messa a fronte delle tesi iconologiche d’impianto mentalistico culminate nell’interpretazione soteriologica e alchemica di Maurizio Calvesi, con quelle per varie vie convergenti - sebbene non necessariamente della stessa natura — di un Ròéttgen, interessato anche alle chiavi interpretative della psicoanalisi, di un Brandi, attento alla pittura del Caravaggio sulla scorta di una piena rivalutazione delle tesi di Longhi, di un Filippo Maria Ferro, interessato a «immedesimarsi» nella vicenda romana del
maestro «attraverso il filtro di una moderna emozione» e per tal via capace di valutazioni inconsuetamente anticonformistiche anche sotto il rispetto storico, nonché di chi scrive, teso a prospettare sistematicamente, sulla base dell’impostazione longhiana considerata fondamentale, una diversa e non ancora tentata storicizzazione dell’intero
problema,’ un solo scritto ha introdotto nella questione - o almeno nel raggio di essa — argomenti d’altra tempra meritevoli di udienza; ed è il bel libro di Svetlana Alpers, The Art of Describing del 19839 Ma anche questo, per quanto abbia saputo prendere molto bene le distanze dalla «smania di interpretare» in termini «emblematistici» e iconologici, secondo parametri approntati per l’arte italiana del Rinascimento, ciò che nella pittura del Seicento appartiene a «una cultura essenzialmente visiva e non testuale», lo ha poi fatto in rapporto quasi esclusivo all’arte olandese del Seicento, e ha sfiorato il caso Caravaggio solo di passata - donde, forse, una qualche attenuante per l’assoluto silenzio in proposito di tutti i caravaggisti più recenti —, senza avvedersi del ruolo fondamentale assolto nella costituzione di quella cultura proprio da quel maestro.!!
Introduzione
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Poiché spero di non illudermi, né di vantarmi, se aggiungo che in vari passaggi del mio scritto del 1973 intitolato I/ Caravaggio nella cultura e nella società del suo tempo non è difficile riconoscere idee, valutazioni e un’impostazione generale del problema interpretativo, affatto omogenee con le tesi applicate dieci anni dopo dalla Alpers alla pittura e alla mentalità olandese del secolo xvII,!? mi è sembrato che fosse ora più che opportuno, indispensabile, riprendere (fin dal titolo) il discorso avviato in quell’occasione: per approfondirlo in tutti i suoi aspetti, ma specialmente per ricalibrarlo alla luce sia delle ulteriori acquisizioni offerte proprio dalla Alpers, sia dei reagenti innescati dagli stessi immobilismi interpretativi prevalsi nel frattempo.
Capitolo 1 Ritorni al passato e innovazione: il Caravaggio alle origini dell’età moderna
He was, indeed, (...) the first modern artist; the first artist to proceed not by evolution but by revolution. Roger Fry
A parere pressoché unanime degli storici, la società che venne definendosi al passaggio dal Cinquecento al Seicento fu dominata «dall’idea non di progresso, ma di un ritorno a un’età dell’oro esistita nel passato».! Qualunque poi fosse in concreto tale età dell’oro, a seconda dei diversi ambiti socio-culturali che se la indicarono di volta in volta. Tuttavia, è stato anche osservato che un simile ritorno, in quanto ebbe per «componente essenziale (...) la deformazione e la
mitizzazione del passato», e il «passato» ne uscì ridotto a un’«intricata selva di punti di riferimento, miniera di ideali che non aveva allora né rigidi confini né ritmi obbligati», finì con l’assolvere «in molti casi, e più o meno consapevolmente, alla funzione di aggiungere forza ed efficacia pratica a proposte e idee nuove». Nel quadro dell’osservanza o del ricupero della tradizione, e anzi al didentro di esso, vennero facendosi luce autentiche esigenze di rinnovamento;
«la contraddittorietà di aspirazioni al rinnovamento che si presentano sotto l'aspetto del ritorno al passato è senza dubbio un segno dei tempi, ma non un ostacolo insuperabile al movimento e all’azione di riforma».? Per quanto riguarda il settore storico-artistico, e in modo particolare la pittura, possiamo affermare che un quadro storiografico del genere trova piuttosto conferme che smentite. A rifletter bene, esso permette anzi di rintracciare il comun denominatore (perlomeno, sotto il rispetto più generale) di tutti e tre i momenti originari, e di maggior portata storica, nei quali il rinnovamento cinque-seicentesco si
manifestò: la ricerca di Annibale Carracci, il quale individuò nell’«antico» e nello stadio culminante del «rinascimento» dell’antico
I. Ritorni al passato e innovazione
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la leva per restaurare contro il manierismo la classicità; l’assunto del Caravaggio, il quale estrasse dalla tradizione «naturalistica» lombarda del Quattro e del Cinquecento il principio in base a cui, come scrisse l’illuminista Luigi Lanzi, «richiamò la pittura dalla maniera alla verità»;? e infine la soluzione «barocca», elaborata a Roma, vivi ancora Annibale e Caravaggio, da Pier Paolo Rubens, i cui studi ita-
liani si iscrivono nella tendenza in modo addirittura esemplare e con intento totalizzante, tant'è che, com'è risaputo, inglobarono anche
Annibale e Caravaggio.‘ Ma il punto vitale della questione per noi consiste in quest'altro: che, pur al didentro di un atteggiamento culturale sostanzialmente comune — almeno nel senso che l’aggettivo «comune» può assumere in rapporto ai diagrammi di una formalizzazione di tipo strutturali stico —, per altro in accordo pieno con le aspettative suscitate dal parametro della «contraddittorietà di aspirazioni al rinnovamento che si presentano sotto l’aspetto del ritorno al passato», Annibale Carracci e Rubens risultano omogenei davvero — comunque omogeneizzabili: sul filo di un ricupero della cultura classica che in entrambi i casi attende a riformarsi nel clima montante del feudalesimo restaurato per ottenere che il sacro riesca a convivere con il profano -; ma non altrettanto il Caravaggio. In nome dell’«osservanza della cosa», vale a dire di un’«imitazione del naturale» ricondotta al grado zero del suo significato di base, e che comportava la valorizzazione privilegiata delle «apparenze» fisiche e dei fenomeni nella loro più spregiudicata evidenza, il grande lombardo non solo non cercò conciliazioni,
ma pose le fondamenta per una revisione radicale dei valori allora accettati: sia nell'ordine propriamente pittorico e nei rapporti fra i «generi» di rappresentazione vigenti presso la società ufficiale; sia nell’elaborazione dell'immagine iconografica, fosse sacra o fosse profana; sia nella pratica di una qualità di «manifattura» che respingeva ogni forma di discriminazione fra «ideare» e «fare». E tutto ciò in sostanziale consonanza e contemporaneità con le ricerche che, da Giordano Bruno a Tommaso Campanella da un lato, da Galileo a Francis Bacon dall’altro, per vie diverse ma tese allo stesso fine, cooperarono alla sco-
perta di una «natura», e anche al progetto —- almeno per proiezione
metaforica — di una società da costruire e di una vita da vivere, oltre che di una religione in cui credere, composte non più di «forme» gerarchizzate, ma di «fenomeni» fra loro equivalenti.
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Parte prima
Senonché, tutto quanto ho appena finito di scrivere, non solo anticipa troppo ellitticamente citazioni e pezze d’appoggio su cui occor-
rerà tornare 27 extenso, ma suona piuttosto come conclusione che come impostazione del problema: abbisogna, vale a dire, di essere dimostrato, a parte a parte; tanto più che urta frontalmente proprio con le tesi che per brevità ho poco a dietro chiamato iconologiche. S’impone in via preliminare, perciò, un approfondito riesame critico di queste tesi, sia nelle formulazioni più antiche che nelle ampliate rielaborazioni recenti, e non meno nelle basi di metodo che nei conte-
nuti delle conclusioni storiche prospettate.
Capitolo 2
Il Caravaggio e gli indirizzi della Controriforma
1. Sottomissione o ultima resistenza interna?
Nonostante i diciannove anni trascorsi, non mi pare che abbia ancora perso vigore, né che abbia dato luogo a confutazioni argomentate, l'osservazione generale con cui introdussi allora la discussione sulla linea di studi caravaggeschi dipanatasi da Francastel a Walter Friedlander, e poi da Argan a Wittkower, fino a Calvesi:! l’osservazione, cioè, che nonostante le dichiarazioni contrarie, tutto questo
arco di storiografia sottende in sostanza un’idea meccanica, in qualche modo deterministica, del rapporto tra fatti artistici e fatti culturali; e deterministica proprio nel senso che è comune sia alla vecchia Kulturgeschichte, prima responsabile delle giustapposizioni coatte tra serie di fatti incomunicanti, nello sforzo appiattente più che unificante di cogliere un generalissimo e perciò astratto Zeitgeist, sia del sociologismo paleo-marxista, nel genere di un Plechanov quando affermava che «l’arte di un’epoca di decadenza è anch'essa necessariamente decadente». Molti, diremmo meglio, tutti, fra gli studi dell’indirizzo
in questione, sembrano aver argomentato così: gli anni in cui il Caravaggio visse e operò furono gli anni della Controriforma? dunque la cultura del Caravaggio non poté essere che quella della Controriforma, e principalmente, poiché è innegabile che l’artista trattasse materie religiose e nutrisse una sua religiosità, sotto il rispetto ideologicoreligioso. Di qui le proposte di vedere il maestro ora come un seguace di sant’Ignazio di Loyola, ora di san Carlo Borromeo, ora di san Filippo Neri (adopero il termine «seguace» per semplificare); oppure di supporlo partecipe dell’ascendente tra culturale e devoto di Federico Bor-
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Parte prima
romeo e di Cesare Baronio; sempre, a ogni modo, secondo canoni di osservante confessionalità, di scrupolosa, anche se metaforica cristo-
logia tridentina.” Lo studioso che si è impegnato maggiormente e con maggior copia di argomenti su questo fronte, Maurizio Calvesi, ha affermato testualmente che «la sottomissione alla Chiesa è un punto fermo, anzi continuamente ribadito nell’opera del Caravaggio»)? e addirittura che, «davanti al rogo di Campo de’ Fiori [cioè all’abbruciamento di Giordano Bruno], è più facile figurarsi un Caravaggio che si segna».* Ultimamente, lo stesso scrittore è tornato a sostenere che costituirebbe «un errore particolarmente grave» non ammettere quella «sottomissione», «perché il Caravaggio fu proprio un interprete (per quanto autonomo, spericolato, e in qualche modo “esagerato”) di una certa ala innovativa della Controriforma; e proprio di quell’ala “pauperista” che faceva capo al Borromeo e agli oratoriani».’
Riservandomi di tornare più avanti sul problema dell’«ala innovativa» e/o «“pauperista” della Controriforma», mi sia permesso di aggiungere subito, almeno per inciso, che questa finale concessione di autonomia non è di poco conto. Anche a tener presente che in quel contesto essa è solo una concessione, e per giunta non può, né vuole
essere assunta separatamente dai contigui appellativi di «spericolato» ed «esagerato», resta di gran momento sia il fatto che quell’autonomia non possa essere esclusa del tutto, sia il fatto collegato che, volen-
done limitare ancora il raggio, Calvesi sia stato indotto a riprendere, e per ciò stesso a legittimare, qualificazioni come «spericolato» ed «esagerato», nelle quali continua a risuonare nient'altro che l’eco delle medesime accuse che proprio il conformismo contemporaneo (incluso quello degli innovatori presunti) rivolse con maggiore insistenza al pittore. In effetti, allo schema su cui l’arco di studi suddetto sembra essersi
esemplato, va riopposto il dato storico che gli anni in questione furono caratterizzati non soltanto dall’obbedienza al programma controriformato o dall’osservanza passiva di esso (inclusa quella — ripeto —della presunta «ala innovativa»), ma anche da moti divergenti, di por-
tata nient’affatto minore, che costituirono la controparte di quell’obbedienza od osservanza. Nel 1967, a proposito di altri eventi relativi a quegli anni, Rosario Villari scrisse:
2. Il Caravaggio e gli indirizzi della Controriforma
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La questione va considerata nel quadro dell'ultima resistenza interna all’indirizzo della Controriferma, una resistenza che è alimentata tanto dalle zone di indisciplina e di licenza morale, quanto dal tentativo di riaprire all’interno della Chiesa il dibattito teologico e filosofico (...), o anche dalla contestazione del-
l'indirizzo più specificamente politico-sociale che Roma imponeva alla Chiesa. È un dramma profondo, e finora inesplorato nel suo aspetto di «massa» e nelle sue più oscure componenti, che ha un precedente nelle reazioni suscitate dalle riforme di Pio V.6
AI di là del problema posto dai risvolti di «massa» e dalle componenti «oscure» di tale «dramma», è un fatto che ancora agli inizi del nuovo secolo, mentre, in rapporto alla nota contesa dell’Interdetto, tra Roma e Venezia si svolgeva la cosiddetta «guerra delle scritture» e i sostenitori delle tesi di Roma erano i cardinali Cesare Baronio e Roberto Bellarmino, delle tesi di Venezia il padre servita Paolo Sarpi, quest’ultimo tornò a rivendicare il primato del concilio sul papa in base al passo del Vangelo di Matteo dove Gesù in persona afferma il valore dirimente e ultimo del giudizio della comunità («Si ecclesiam non
audierit, sit tibi sicut ethnicus et publicanus»: Matteo, 18, 17), e giusto per tale tramite non esitò a collegare all’insegnamento di Cristo stesso il diritto di opporsi all’obbedienza incondizionata richiesta dal pontefice di Roma; al punto che, come un altro storico moderno, Gaetano
Cozzi, ha avuto ragione di scrivere, egli poté assurgere quasi a simbolo non solo delle ragioni sostenute dalla Repubblica di Venezia, ma dei cattolici che, pur nella loro ortodossia dottrinaria e nella loro volontà di continuare a far parte della Chiesa romana, ne respingevano l’attuale orientamento istituzionale e spirituale.”
Il titolo del consulto forse più rappresentativo che Paolo Sarpi stese negli anni della controversia è: Scrittura sopra l’appellazione al concilio o altro da farsi per mortificare agli atti del pontefice; ma al di là della discussione, che in quel testo era preminente, dei limiti entro cui potesse esercitarsi la potestà coattiva del papa di Roma, fu il tema dell’obbedienza in generale che lo scrittore pose in uno dei luoghi eminenti dell’intero suo discorso, come risulta anche dai brani di
grande efficacia che dedicò al medesimo argomento nel poco più tardo Trattato dell’Interdetto, a rischio di «suscitare insieme fermenti di dub-
bio e di ribellione».8 Sta altresì che il problema dell’obbedienzadubbio-ribellione non riguardava solo Sarpi, o i cittadini della Repubblica di Venezia, in quella specifica congiuntura storica; al contrario,
I4
Parte prima
continuava a costituire un punto centrale della coscienza pubblica del momento. E lo conferma in modo decisivo, a onta che l'argomento sia indiretto, quanto scriveva ancora nel 1614 Roberto Bellarmino,
rivolgendosi agli inquisitori delle singole province, «almeno (...) [di] queste nostre parti d’Italia», nelle vesti di consultore della Congregazione romana del Sant'Uffizio dell’Inquisizione, nonché di membro autorevolissimo della Sacra Congregazione dell’Indice. Padre mio, non si straccando gli heretici e gl’inimici, non so s’io devo dir più presto de questa Santa Sede o dell’anime proprie, di seminar continuamente le zizanie de i loro errori nel campo della cristianità con tanti libri perniziosi che alla giornata mandano fuori di novo, è necessario che non si dormi, ma ci affatichiamo di estirpargli almeno in quei lochi dove potiamo. Però vostra paternità usi (come di lei si confida) ogni diligenza acciò da codesta sua giurisdizione totalmente si levino. (...) Per tanto non mancherà poi lei di essaminar quegli etiam della lista che espressamente non appariscono esser catholici e boni, già che abbiamo provato che ne’ libri anche d’humanità (quali per il titolo pare che non trattino d’altro che di belle lettere) vi sono sparse heresie marcie e dottrine scandalose. Però di questi e simili scoprendo qualcheduno, non manchi avvisarne la Sacra Congregazione dell’Indice, inviando un poco di censura (...).?
Oltre a quanto attesta l'insieme della lettera, e sebbene gli storici siano concordi nel leggervi la presa di coscienza di una situazione ormai profondamente differenziata fra il resto d'Europa e «le nostre parti d’Italia», Antonio Rotondò ha avuto ogni buon motivo per segnalarvi non solo «un senso palese di sfiducia circa il pieno raggiungimento delle finalità per le quali - quarantatré anni prima — era stata istituita la Congregazione» dell’Indice, ma una «dichiarazione sgomenta di debolezza e di impossibilità ad arginare la marea della sempre più ampia e celere circolazione del libro e delle idee».!° Queste ultime, infiltrate in termini di «dottrine scandalose» anche dove le
«humanità» avrebbero fatto sperare nient'altro che «belle lettere», continuavano effettivamente a tener aperto il dibattito anche in Italia, e spesseggiavano soprattutto «in quella difficile zona in cui la novità delle suggestioni propriamente religiose [anda]va congiunta a novità di più ampie suggestioni culturali».!! Senza dire che «colpire i fermenti culturali, politici e religiosi ai quali potesse collegarsi la protesta sociale»,!° oppure combattere e possibilmente prevenire «l’incontro tra il profetismo e l’insofferenza sociale e politica», rimanevano preoccupazioni così scoperte e persistenti della Chiesa uffi-
2. Il Caravaggio e gli indirizzi della Controriforma
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ciale come dell’establisbmzent, da testimoniare da sole che quei pericoli non erano immaginari. Recentemente, con il proposito di mostrare contro tutto questo — garante Paolo Paruta — che dopo la morte di Sisto V la Chiesa di Roma dà l’impressione di esser riuscita a «superare definitivamente la grande paura», sicché muta politica e «si appresta a godere i frutti di una situazione nuova che, fra poco, con la conversione di Enrico IV di Francia e la morte di Filippo II di Spagna, sembrerà completamente assicurata», Luigi Spezzaferro ha sostenuto (trovando ascolto presso Alessandro Zuccari) che Clemente VIII,
negli anni decisivi di tale mutamento di rotta, per altro coincidenti con quelli del suo pontificato (1592-1605), si sarebbe mostrato attento a «sviluppare un’accorta quanto spregiudicata politica di mediazioni» per «riconquistare con il guanto di velluto molto di più di quanto avesse potuto il pugno di ferro dei suoi predecessori», e avrebbe anche saputo «tralasciare al momento opportuno ogni rigido pregiudizio di carattere religioso», tanto da «permettere (...) il ritorno sotto l'obbedienza
alla Chiesa romana del regno di Francia».!' Senza stare a replicare che, in definitiva, tutto ciò poté verificarsi e aver peso solo sul piano della politica internazionale — e nemmeno tanto, se nel 1614 un Bellarmino, come s’è intravisto dalla lettera su citata, dovrà mostrarsi
rassegnato a considerare perduta la battaglia proprio sul fronte europeo -—, sta invece che durante il pontificato di Clemente VIII i fermenti culturali non allineati e i moti di contestazione dell’ordine ideologico e/o socio-politico voluto dalla Chiesa vennero a uno dei più drammatici punti di frizione con l’autorità disciplinare che la Chiesa aveva ormai istituzionalizzato. Non si può passare sotto silenzio che gli anni del pontificato di Clemente VIII furono anche gli anni del processo e della decapitazione con abbruciamento a Campo de’ Fiori di Francesco Pucci (1597), del processo e del rogo di Giordano Bruno, sempre a Campo de’ Fiori (anno santo 1600), del procedimento censorio e della condanna dell’opera di Francesco Patrizi (1592-94), il che implicò la soppressione — Bellarmino favente — della cattedra romana di «filosofia platonica» (1597), della proibizione del De rerum natura di Telesio e degli scritti di Campanella e di Giacomo Della Porta (ultimi anni 1590),! e last but not least della ripresa e della conclu-
sione del conflitto con i domenicani di Napoli, condotto fino all’attacco manu militari al convento di San Domenico maggiore, uno dei più importanti centri culturali del «Regno»: su iniziativa del Seggio
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Parte prima
nobiliare di Nido e con l’accordo preventivo del viceré, ma su ordine impartito da Clemente VIII con il breve del 23 novembre 1594, nunzio apostolico Jacopo Aldobrandini, parente del papa.!° Né è a parlare solo di recrudescenze temporanee e saltuarie dell'atteggiamento rigoristico, come hanno lasciato intendere lo stesso Spezzaferro e Zuccari; perché anche un semplice sguardo alle date degli avvenimenti ricordati (1592, 1594, 1597, 1599, 1600) dimostra inoppugnabilmente la continuità di quel rigorismo, soprattutto sul fronte interno. In più, anche le conclusioni guadagnate in tempi recenti da due storici di estrazione diversa, ma insospettabili entrambi di laicismo a oltranza, come Paolo Prodi per un verso, Giuseppe Galasso per un altro, hanno messo in evidenza, in progressione crescente a seconda delle preferenze personali, che: 1) il «continuo intreccio di motivi riformatori e di motivi controriformistici che caratterizza il mondo cattolico del Cinquecento» finisce con il determinare «indubbiamente nell’ultima parte del secolo, almeno per quanto riguarda l’Italia, un graduale prevalere della Controriforma, mentre si esaurisce la spinta
riformatrice» (Prodi); 2) nella «progressiva sclerotizzazione della vitalità che il Cattolicesimo post-tridentino continua a lungo a manifestare», saranno «l’assestamento definitorio e #/ pià duro spirito di reazione che si annuncia sotto il pontificato di Clemente VIII e del quale il Baronio è uno dei protagonisti » le componenti che «porteranno via via la Chiesa all’urto frontale con la scienza moderna nel processo al Galilei, all’isolamento diplomatico susseguente alle Paci di Vestfalia, al suo uscire dalla guerra dei Trent'anni “come una chiesa tra le chiese” [Benedetto Croce, Storia dell’età barocca] e ad altri segni di quella condizione che si concreterà nel diffuso e violento laicismo e anticlericalismo del secolo xvim» (Galasso).!” Ebbene, se tutto questo non è solo parto di pregiudizio, o di una visione distorta della storia, come qualcuno non si perita di insinuare, sembra pienamente legittimo ribadire che il caso Caravaggio non può essere considerato chiuso senza aver rivagliato a fondo la possibilità che, nel contesto socio-culturale dei suoi giorni, il suo intervento rappresentasse un momento dialettico, non un semplice rispecchiamento della tendenza dominante (alias di sue varianti, come vorrebbe Calvesi), o un altro caso di acquiescenza ad essa: un momento, anzi,
traente e propositivo nel confronto dialettico, non soltanto conflit-
2. Il Caravaggio e gli indirizzi della Controriforma
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tuale, come s'è sempre ritenuto che ne rappresentasse uno rivolgente, epperò appunto propositivo, nel contesto artistico in senso stretto.
Imboccata questa strada, si vorrebbe indirizzare subito l'indagine a saggiare che cosa abbiano tramandato le testimonianze scritte, o che cosa abbiano appurato nel frattempo gli studi, intorno alle opinioni che il Caravaggio dové pur formarsi sui problemi religiosi, politici, sociali dei suoi giorni. Ma la sorpresa negativa a cui andammo incontro quando questo quesito s'impose per la prima volta alla nostra attenzione,!8 non è venuta
meno
minimamente.
Lette senza altri
avvisi, le fonti continuano a non fornire mai dati espliciti, né sulle
convinzioni personali del maestro relative a cose culturalmente più comprensive dei problemi specifici della sua arte, né sul significato che oggi si suol definire iconologico dei suoi dipinti: testimonianze tali, insomma, da poter far ricorso a esse, senza intermediari, per con-
trollare tutto quanto si va dicendo in proposito, e soprattutto per ricostruire il ritratto «storico» — che è poi quel che importa davvero — del Caravaggio come intellettuale e come membro consapevole della sua società.
Nondimeno, continuano a esservi ragioni, perfettamente aderenti al carattere (coattivo) dei tempi, che, intese a dovere, attenuano e
anzi rimuovono la sorpresa. A parte la considerazione generale che le fonti storico-artistiche antiche, cioè anteriori al secolo xvII maturo,
contengono anch'esse informazioni d’ogni genere atte a illuminare i rapporti tra i fatti dell’arte e la vita sociale,!" ma raramente contengono enunciazioni di ordine propriamente ideologico e mai in termini che smentiscano la loro propensione professionale di fondo a una rigorosa chiusura specialistica; a parte la considerazione particolare che, nonostante tutto, le fonti caravaggesche contengono numerose testimonianze «nascoste», implicite o del tipo e contrario, delle quali occorre cercar di giovarsi molto più assiduamente e con più fine udito di quanto finora non siamo stati disposti a fare; resta che il silenzio diretto può dipendere (e perciò essere spiegato) dalla complessità e dalla pericolosità obiettiva, anche civile, del dibattito ideologico allora in corso. Gli storici hanno già osservato che la difficoltà principale per l'intelligenza dei testi di questa età consiste nel fatto che essi sono redatti in una sorta di scrittura segreta, non nel senso esoterico, ma proprio religioso e socio-politico: una specie di «scrittura segreta» - scrive Giorgio Spini — imposta «dalla necessità di difesa dalla per-
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secuzione inquisitoriale» e non meno dalla «interiore complicatezza e contraddittorietà di faticosi scopritori di non toccati continenti spirituali».?° A parte la scoperta di questi continenti, che pure era in questione in primo luogo, l’opposizione alle idee ufficiali aveva bisogno di velarsi per difendersi dal rischio d’incorrere nei rigori - i quali, come si sa, potevano giungere alle pene corporali e al rogo — del Sant'Uffizio e delle autorità civili disposte a collaborare. Rosario Villari aggiunse a suo tempo che l’atteggiamento sotteso da queste «scritture segrete», e il problema di doverle decifrare, «si può estendere,
al di là dei testi, anche agli atteggiamenti pratici, alle posizioni politiche»; lo stesso comportamento di un popolo in rivolta poté trovarsi costretto a esprimere il contenuto politico della protesta in cifre simboliche. Quando, nel 1586, il popolo napoletano straziò a morte l’«eletto» traditore Giovan Vincenzo Starace, l'esecuzione avvenne
appunto in base a un rituale che rese manifesto il contenuto antiaristocratico della rivolta, nascondendolo dietro il rovesciamento originariamente aulico-aristocratico del rituale stesso.?! Nel caso del Caravaggio e delle sue fonti, ovviamente, non sarà necessario fare ipotesi così drammatiche. Ma, fermo restando il silenzio dei testi - beninteso, nel senso della già detta mancanza di un’esposizione asseverativa dei convincimenti del maestro sulle materie controverse -; il qual silenzio, per altro, in questa prospettiva può ben assumere il connotato di reticenza per paura, divenendo così un sintomo molto indicativo già di per sé; occorrerà andare in cerca di altri elementi di giudizio. Fortunatamente questi non mancano, e sono tali da costituire un appoggio serio al progresso delle conoscenze. 2. Le norme post-tridentine per l'iconografia dei dipinti di argomento
religioso, il «Discorso» del cardinal Paleotti e le scelte fondamentali del Caravaggio
Un punto preliminare, ma tutt'altro che secondario, da cui prendere le mosse, può ben essere il fatto che, al già detto silenzio dei testi riguardo ai convincimenti ideologico-religiosi del Caravaggio — e, ora possiamo aggiungere, anche in materia di illustrazione in positivo di programmi particolari da lui eventualmente concepiti e poi realizzati nelle opere - corrisponde la crescente loquacità di quei mede-
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simi testi in materia di critiche, rimbrotti e deplorazioni circa le scelte fatte e messe in opera dal maestro nei dipinti più direttamente connessi con la questione. Non è necessario esemplificare ir extenso, la cosa è arcinota anche a chi vuole svalutarla; e del resto torneremo
più avanti a citarne esempi particolari, rari o di portata più rilevante. Nonostante ciò, è utile ricordare almeno in sintesi che fonti e lette-
ratura specifica, fino a tutta la prima metà del secolo xvi e quasi senza alternative, offrono una ricca gamma di lamentele su dipinti del maestro «levati» dagli altari perché non avevano «decoro», «mancavano nella parte del decoro», avevano «ritratto vilmente» la Vergine (nelle spoglie di una «cortigiana», scrive Mancini; in quelle di «una donna morta gonfia», rincara Bellori), o «Giesù fanciullo ignudo»;
oppure su opere sue non rimosse dagli altari e nondimeno da spregiare, perché esibiscono gravi «leggierezze in riguardo delle parti che una gran pittura [s' intenda: sacra] haver dee», come «le sozzure de’ piedi» dei pellegrini in quadri dedicati alla Madonna, le «forme rusti- 39, 4 che delli due Apostoli» e «l’oste con la cuffia in capo» in una Cena 5, 41 in Emmaus, o «uno che alzando il fiasco beve con la bocca aperta, lasciandovi cadere sconciamente il vino» nelle Opere di misericordia 42 di Napoli. Accanto al contrasto di quel silenzio con questa loquacità, ha rilievo non minore il fatto che critiche di uguale tempra, o anche la semplice menzione di esse, non si rincontrano mai negli scritti testimoniali di intenditori forestieri: né in Karel van Mander, né in Joachim von Sandrart, i quali per giunta - a differenza degli italiani, spesso integrati a fondo anche nell’establisbment ecclesiastico, come i Mancini, i
Baglione, i Bellori — non erano di confessione cattolica. Nessuna critica analoga, infine, s'incontra nell’intera letteratura dello stesso arco di tempo, sia italiana che straniera, a proposito di una qualsiasi delle opere del Caravaggio di argomento profano. Senza dubbio, si disapprova specialmente in queste la preferenza per le «mezze figure, che avanti erano poco in uso», e l'abbandono delle «historie che sono proprie de’ pittori»; vi si lamenta anche l’assenza dell’«invenzione»; ma non si deplorano mai le «forme rustiche» o le «leggierezze » rispetto alle tradizioni iconografiche della mitologia, che pure in quei dipinti non avevano mortificato meno la «parte del decoro». Ebbene, pur nella nuda oggettività della costatazione, il confronto fra questi diversificati comportamenti delle fonti è in grado di dirci
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con chiarezza: 1) che, intanto, furono le opere caravaggesche di argomento sacro, non le profane, a sollevare i contrasti giunti fino alla
ripulsa: «essendogli tolti li quadri da gli altari» — per riadoperare le parole ben note di Bellori —, fu a causa dell’impiego dei «modi» su descritti in opere destinate agli «altari», che «il Caravaggio incontrò dispiaceri»;! 2) che, stante da un lato il silenzio sui convincimenti religiosi insieme alla loquacità sulla mancanza di «decoro», da un altro il disinteresse di coloro che per la diversa estrazione ideologica erano portati a non dar peso alle implicazioni cattoliche della disputa, la vera e unica ragione dei contrasti dai quali il Caravaggio ebbe «dispiaceri» non può non aver avuto a che fare proprio con l’ortodossia cattolica in materia d’immagini sacre; 3) che, dunque, fu la mancata o negata ortodossia nei confronti delle prescrizioni impartite dalle istituzioni ecclesiastiche ufficiali, la cagione dei «dispiaceri» del Caravaggio: insomma, la sua disubbidienza, non l’acquiescente «sottomissione» alla Chiesa. Ma i lettori informati sanno che, pur di sostenere la tesi, i caravaggisti fautori della «sottomissione» non solo hanno evitato d’interrogarsi sulla ragione di discrepanze negli atteggiamenti delle fonti come quelle sulle quali qui abbiamo tentato di richiamare l’attenzione (né, del resto, ci si erano provati altri, finora), ma non hanno esitato
a mettere in forse l’attendibilità delle fonti stesse, quando addirittura non hanno affermato che occorre prescinderne. Al fine di verificare il grado effettivo di adesione, o eventualmente di dissenso, da
parte del Caravaggio nei riguardi degli orientamenti religiosi allora in vigore, converrà perciò tentare ancora altre vie, e innanzitutto rimettere a confronto le scelte iconografiche fondamentali operate dal pittore nei suoi dipinti d’argomento sacro, con i precetti insegnati e fatti mettere in pratica dalla Chiesa ufficiale. Si tratterà di un’analisi ancora una volta iconologica, i cui strumenti in linea generale non saranno dissimili da quelli serviti finora a tracciare la figura d’un Caravaggio in cerca della salvazione ortodossa. Ma in luogo degli sforzi per carpire significazioni riposte ai singoli nessi rappresentativi, che si presumono portatori di una simbologia molto spesso astrusa e indocumentabile, la ricerca si prefigge in termini perentori di mettere a fronte norme enunciate esplicitamente e scelte iconografiche palesi, a livello di coscienza storica piena.? Solo quando disporremo dei risultati di tale paragone potre-
2. Il Caravaggio e gli indirizzi della Controriforma
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mo tornare alle testimonianze delle fonti: la verifica della tenuta reciproca degli uni e delle altre dovrebbe comportare l'accertamento definitivo della capacità di entrambi a far luce sulla questione.
Il contratto per gli affreschi ancora oggi esistenti nell'abside della chiesa certosina di Garegnano, stipulato il 31 ottobre 1578 fra il priore della Certosa milanese e Simone Peterzano, cioè il pittore che fra sei anni avrebbe preso a bottega il Caravaggio undicenne, registrò, con le solite pattuizioni di ordine generale, numerose e particolareggiate raccomandazioni di ordine specifico: qualità dei materiali da impiegare, numero dei personaggi e sfondo di paesi da introdurre nelle scene principali, accortezze illusive — «ogni potere dell’arte con ombra et altri mezzi» — per «fare parere più dritte le (...) figure con il smarire la curvatura del nicchio che sarà possibile»; ma ne registrò con cura non minore anche altre, definite a ragione da Mina Gregori «di ordine moralistico, espresse apertamente e con chiara intonazione contro-
riformistica»: che tutte le figure humane et massime de santi e sante siano fatte con somma honestà et gravità et non ne apaiano petti ne altre membra o parti del corpo non honeste et ogni atto, giesto, garbo, movenza et drappi dei santi siano honestissimi, pudicissimi et pieni d’ogni divina gravità et maestà. (...) Che tutto il scoppo et ogni cosa che vi si farà, tenda a provocare ogni somma divottione et motti divini ne li animi de risguardanti et che per nessuna arte non si pregiudichi al spirito et al decoro et natura de le sante et divine figure che vi si hano a fare.
Per altro, il testo del contratto proseguiva non solo con la richiesta «che tutto ciò che vi si dipingiarà sia fatto con ogni somma cura e diligenza, et con quella più esquisita perfettione che sia possibile », ma con l’ingiunzione doppiamente condizionante che il pittore sia tenuto al giudittio de periti corregiere dil suo et a sue spese ogni errore dell’arte che vi fosse in essa opera, et al giudittio et gusto del Reverendo padre priore del detto monastero ogni errore commesso d’intorno alla divottione.
La Gregori, a dire il vero, ritenne di dover aggiungere anche quest’altro commento: «Il fine moralistico appare certamente importante, ma è evidente che sul terreno pratico, qual era quello di un contratto di allogazione, appariva ben chiaro che esso poteva realizzarsi soltanto attraverso la bontà e la bellezza dell’opera; e ciò sebbene si fosse nella fase più stretta del periodo post-tridentino e a Milano fossero uscite
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solo da un anno le Istruzioni di Carlo Borromeo». Nonostante ciò,
senza voler negare che la preoccupazione per la buona riuscita estetica degli affreschi vi sia messa effettivamente in una non trascurabile evidenza, sarebbe erroneo lasciarsi sfuggire che un passo nevralgico del contratto - quello su riferito che recita testualmente: «per nessuna arte non si pregiudichi al spirito et al decoro et natura de le sante et divine figure ecc.» — subordina in modo inequivocabile le ragioni dell’«arte»! a quelle dello «spirito», «decoro» e «natura» delle «sante et divine figure», e ciò perché «tutto il scoppo [vale a dire: lo scopo, il fine ultimo] et ogni cosa che vi si farà, tenda a provocare ogni somma divottione». In oltre, occorre porre nel giusto risalto che, accanto al controllo dei «periti dell’arte», il contratto prevede il «giudittio» del priore della Certosa in persona — cioè del più qualificato e diretto responsabile in materia, operante ir loco — su «ogni errore commesso d’intorno alla divottione». Poiché il controllo dei «periti dell’arte» apparteneva a una pratica consueta e ben nota, questo di un «perito della divottione » (per esprimerci così) è fatto tanto nuovo quanto altamente sintomatico, che sebbene io non sappia dire da qual preciso momento fosse in pratica, ma che è già molto indicativo trovare documentato in termini così inequivocabili nella Milano di san Carlo Borromeo, non rimarrà affatto senza seguito, anzi ne avrà uno a cui, ai fini presenti, occorrerà prestare un’attenzione più vigile di
quella prestatagli fino a oggi.
Nel 1582, quattro anni dopo la stipula di questo contratto, fu pubblicato a Bologna il Discorso intorno alle imagini sacre e profane di Gabriele Paleotti, allora arcivescovo del capoluogo emiliano, più tardi cardinale della Chiesa.$ Sull’opera e il suo autore, come si sa, esiste
una letteratura ormai notevole; e mentre da un lato se ne parla persino in rapporto al problema del «naturalismo» (per l'esame del quale rimandiamo all’apposito capitolo del presente scritto dove tale problema sarà ridiscusso în exterso), è aperto tuttora un dibattito d’importanza generale, che in simbiosi con la nota tesi di Paolo Prodi circa un «umanesimo» paleottiano d’impronta per così dire tridentinobolognese, implica il collegamento con il problema storiografico della cosiddetta
«Riforma cattolica»: una formula, quest’ultima, enucleante
una prospettiva di artificiale agglomeramento, che già al parere di studiosi di più antica e autorevole estrazione, primo fra tutti Delio Can-
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timori, e ora di studiosi nuovi messi ulteriormente in allerta dal progresso complessivo della ricerca (mi riferisco specialmente a Maria Calì), non può in nessun modo essere considerata la prospettiva giusta nella valutazione di rapporti in realtà laceranti come furono quelli tra Riforma protestante, moti riformatori provenienti dall’interno del mondo cattolico e della stessa Chiesa — ma proprio dalla Chiesa, fattasi intransigente, perseguitati e repressi presto fino alla commina-
zione del rogo: il che non può non costituire il punto realmente nevralgico del problema -, e ciò a cui è impossibile non conservare il nome di Controriforma, se non addirittura, com’è stato proposto qualche anno a dietro, di «Restaurazione cattolica».’ In oltre, sebbene fosse corrente il parere secondo cui «il Discorso del Paleotti rappresenta la codificazione ecclesiastica delle norme relative alle arti di figura, sia com'erano state definite espressamente al concilio di Trento e durante il dibattito che l’aveva accompagnato, sia estendendo alle arti di figura le norme che erano state definite a Trento al proposito di altri settori culturali»;* non solo s’è voluto mettere in quarantena la definizione di «controllore delle coscienze», che del Paleotti aveva dato a suo tempo Lionello Venturi,? per sostituirla con il parere che nel Discorso si svolgerebbe invece «un colloquio con i rappresentanti di un’arte che è anzitutto amata in se stessa e che si vuole riformare sì, ma dall’interno, nello spirito»;!° bensì s'è tentato con insistenza di accreditare la tesi che «nella Roma di Clemente VIII interpretazioni del decoro quali quelle espresse nel Discorso
del Paleotti, pur essendo una delle componenti dell’ideologia ufficiale, venivano, se non altro per motivi politici, svalutate nella pratica», e ne sarebbero prova i fatti che Paleotti finì i suoi giorni a Roma in un «vero e proprio isolamento politico», e che il progetto da lui stesso caldeggiato presso la curia affinché fosse adottata ufficialmente la più impegnativa proposta pratica illustrata nel suo Discorso, vale a dire l’istituzione di un «indice » delle pitture proibite in analogia con l’'Indice già vigente per i libri, fu respinto.!! Senonché, a tutto ciò si oppongono cose e opinioni molto meno generiche, alle quali è impossibile non attribuire valore risolutivo. Intanto, è importante che gli stessi sostenitori delle tesi su riferite non abbiano potuto non lasciare nel giusto risalto dati di fatto come i seguenti: 1) che Paleotti «inserisce la riforma dell’arte in un più generale progetto di riforma religiosa», ha una concezione didascalico-
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strumentale delle immagini, per le quali trova infatti la definizione di «istrumenti per unire gli uomini a Dio», e ne identifica «il compito specifico», entro il complessivo «disegno di un’arte come strumento di edificazione morale», nel «persuadere il popolo e tirarlo [si noti la parola prescelta] co/ rzezzo della pittura ad abbracciare alcuna cosa pertinente alla religione»; 2) che, proprio perché la sua «preoccupazione pastorale» è in effetti una «preoccupazione politica», in Paleotti è preminente il punto di vista secondo il quale gli artefici devono essere subordinati e subordinarsi, innanzitutto in materia di responsabilità nell’elaborazione dei contenuti devozionali delle immagini, alla vigile competenza dei committenti, siano parroci («principalmente [...] curati»), siano «nobili e persone onorate che sogliono abbellire le chiese», o ancora «persone essercitate nelle lettere e studii» alle quali «toccaria di aiutare la industria de’ pittori»: l'enunciazione che gli «abusi» nelle immagini sacre sono «non tanto errore degli artefici che le formano, quanto de’ patroni che le commandano, o più tosto che tralasciano di commandarle come si doverebbe, essendo essi come i principali agenti, e gli artefici essecutori della loro volontà», non potrebbe essere più esplicita;! 3) che Paleotti rivolge «la sua attenzione ai contenuti (...) al fine di istituzionalizzarli e avere così la possibilità
reale di controllarli strettamente»,! e persino che, mentre - come abbiamo udito poco a dietro — le «interpretazioni del “decoro” quali quelle espresse nel Discorso (...) [erano effettivamente] una delle com-
ponenti dell’ideologia ufficiale», il medesimo Discorso — sia pure se «letto al di fuori di ogni contesto» - «non appare un modello di apertura e di pacata, liberale riflessione ».! Di rincalzo, se si può concedere che la cura «pastorale» e l’intento senza dubbi «paterno» di Paleotti avevano per fine una «riforma» dell’arte «dall’interno», nello «spirito»,!” sicché — aggiunge di suo Spezzaferro - «se [quegli] rivolge la sua attenzione ai contenuti (...) lo fa perché è da essi che nasce quella forma concettuale o, meglio, il “concetto interiore dell’autore” che poi questo esprime “col disegno esteriore” in forme visibili»,!* resta pur sempre che, in materia di «immagini», i «contenuti» di Paleotti si identificano con quel che le «immagini» rappresentano (noi diremmo con il dato iconografico), e il controllo, la sorveglianza dei contenuti in tale accezione, affinché restino indenni dal rischio dell’«errore» o dell’«abuso», sono
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demandati, come s’è già visto, a coloro che per ufficio e/o rango sociale («curati, nobili, persone onorate»; soprattutto «le conscienze de’ Vescovi», come si legge altrove) sono investiti di responsabilità: «essendo essi come i principali agenti, e gli artefici essecutori della loro volontà». Donde l’evidenza che, per la via di «contenuti» così intesi, una tale riforma dell’arte «dall’interno» in realtà subordina
il «concetto interiore» dell’artista — da cui poi nasce il «disegno esteriore», vale a dire la forma visibile — all’autorità di un magistero del tutto esterno: esterno tanto più, per quanto tende invece a riguar-
dare «lo spirito», le coscienze stesse. «Ricordiamo sol due cose», scrive infatti Paleotti: luna, che deve essere perito l'artefice di quello che vuol fare, dicendo il proverbio antico: Quar quisque norit arte, in ea se exerceat; l’altra, che non basta solo esser buono artefice, ma, oltre l'eccellenza dell’arte, essendo egli di nome e di professione cristiano, ricercano da lui l’imagini ch’egli farà, un animo et affetto cristiano, essendo questa qualità inseparabile dalla persona sua, e tale ch’egli è ubligato di mostrarla ovunque fia bisogno.!°
Per altro, sono (...) iCristiani, come rose tra le spine, quelli però che si chiamano catolici, che seguendo la legge di Cristo N.S., si sottopongono alla ubidienza et ammaestramento di santa Chiesa guidata dallo Spirito Santo; poiché altri Cristiani si chiamano eretici o scismatici, e questi noi diciamo perfidi Cristiani, perché segregatisi dal grembo di santa Chiesa ecc.?0
Né cessa di essere condizione e fondamento di tutta l’argomentazione specifica quanto si legge nel proemio del Discorso stesso: Tra molte cose utilissime e santissime decretate dal sacro Concilio Tridentino per introdurre nel mondo la vera disciplina del cristiano, anzi per restituirla all’antica sua forma e dignità, una è, nella quale hanno premuto assai i padri del Concilio, ch'è stato intorno alla materia delle imagini, nella quale due principali astuzie del Demonio e mancamenti degli uomini, se bene l’uno più grave dell’altro, oggi si scorgono. Il primo è degli eretici et iconomachi, che, togliendo affatto alle imagini la debita venerazione, hanno cercato di esterminarle da tutti i luoghi; l’altro è de’ catolici, i quali, ritenendo l’uso delle imagini, hanno nondimeno in varii modi corretta e difformata la dignità loro. Onde il sacro Concilio, avendo prima dannata la perfidia et empietà degli eretici, ha cercato poi di rimediare agli abusi de’ catolici, caricando con molta veemenza et ardore le conscienze de’ Vescovi, accioché ciascuno nella sua diocese provegga con ogni diligenza alla religione, onestà e convenevolezza di quelle.?!
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Resta da dire dell’isolamento in cui Paleotti vescovo di Bologna si sarebbe trovato a Roma dopo l’assunzione al cardinalato, della mancata approvazione della sua proposta d’istituire un «indice» di pitture proibite, e dunque della reale efficacia normativa che è lecito attribuire al Discorso paleottiano, nonché del valore esemplare, se non proprio vincolante, che le supreme gerarchie ecclesiastiche furono disposte a riconoscergli, al di là dell'ambito diocesano per il quale, in ottemperanza alla raccomandazione tridentina esplicitamente richiamata nel passo citato per ultimo, era stato scritto. I dati che è possibile opporre subito alla tesi limitante, per altro in linea generale, sono almeno i seguenti due. Il presunto isolamento romano di Paleotti si iscrive in realtà in un processo non di attenuazione, ma di irrigidimento per trasformazione della sorveglianza curiale. Ultimamente, Vittorio Frajese ha illustrato molto bene come il muta-
mento dell’indirizzo censorio che fu alla base della revoca dell’Indice sistino e che portò per via di aggiustamenti successivi all'Indice promulgato da Clemente VIII nel 1596, consisté nel preferire «la via di purgare, senza inserzione nell’Indice»,?? vale a dire nell’istaurare un criterio che non cambiava assolutamente nulla nella «valutazione delle circostanze» sottoposte a esame, anzi per certi aspetti ne irrigidiva la severità, ma decideva di intervenire direttamente nella correzione,
suggerita e/o imposta, piuttosto che condannare, e comunque prima di condannare. Il caso della vicenda censoria toccata addirittura alle Controversiae di Roberto Bellarmino, che Frajese ha ricostruito bene
sia nella fase della messa all’indice vera e propria, sia in quella del recupero mediante correzione, è un esempio lampante del maturare e dell’affermarsi di tale criterio. Ne consegue che gli intralci censori incontrati dal cardinal Paleotti relativamente al completamento di almeno una delle sue opere maggiori, il De sacri consistorii consultationibus, e poi in materia di indicizzazione delle immagini, devono
esser riguardati giusto in questa prospettiva; la quale per altro, se include il caso clamoroso delle Controversiae bellarminiane (che al dire di sir Edwin Sandys, in viaggio per l’Italia fra il 1593 e il 1596 - dunque in pieno pontificato clementino — erano allora pressoché introvabili per tutta la penisola), ne include anche un altro meno noto, ma non meno esemplare: quello delle censure alla più autorevole biografia di san Carlo Borromeo, poi pubblicata a Ingolstadt nel 1612, la Vita scritta dal barnabita Carlo (già Giovanni Battista) Bascapè.
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Segretario di san Carlo stesso, generale del proprio ordine ‘per ben tre volte, vescovo di Novara dal 1593 per decreto di Clemente VIII in persona, il Bascapè era da quella censura indotto altresì a esclamare: «Strane cose sono quelle che non si vogliono permettere. Non si potrebbe a questo modo scrivere più istoria e si potrebbe anche trattare di abbruciare quelle che ci sono». Né è il caso di sottovalutare, per quanto attenne al mantenimento dei criteri di fondo e al loro progressivo irrigidimento, quanto scrisse a suo tempo Rotondò: che «gli indizi della metamorfosi imposta alla vita religiosa italiana dalla rigida sorveglianza della censura [in quegli anni] non vanno ricercati in casi sporadici. Un’opera radicale di controllo, che penetra ora in tutte le biblioteche (...), s'accompagna a una ristrutturazione integrale della cultura religiosa»; e segue la menzione della Bibliotheca selecta e dell’ Apparatus sacer, pubblicati da Antonio Possevino nel 1593 e nel 1606, per altro giusto a cavallo dell’anno di edizione della Co/tura de gl’ingegni (1598), in cui lo stesso Possevino scrisse diffusamente di censura.” Il secondo dato da tener in conto è che, a Roma, Paleotti poté subentrare a Federico Borromeo (per altro, tanto più giovane) nella protezione dell’Accademia di San Luca, e proprio mentre usciva a Ingolstadt, ma datata «Romae 1594», la traduzione in latino del Discorso, «ut exteris etiam nationibus communis esset ».®
Quanto poi alla mancata approvazione della proposta per un «indice» delle pitture, chi scrive ebbe già modo di avvertire che, «lungi dal documentare qualche forma di tolleranza da parte degli ambienti ufficiali, [quella approvazione mancata] — se intesa a dovere — è in grado di comprovare la maggiore avvedutezza pratica con cui gli stessi ambienti si orientarono per raggiungere a pieno lo scopo che avevano in comune con Paleotti. Nel caso dei libri, destinati a un pubblico ristretto e per lo più chiusi nelle librerie o nelle biblioteche, l’“indicizzazione” poteva essere infatti sufficiente; ma che senso avrebbe mai avuto, e come avrebbe potuto funzionare con efficacia, nel caso delle opere d’arte di argomento sacro, esposte a tutti nelle chiese? Per questo genere di produzioni pubbliche, la salvaguardia del “decoro” ortodosso e l’impedimento dello “scandalo” potevano essere garantiti soltanto in due modi: o mediante il rifiuto e persino la rimozione dell’opera giudicata “indecorosa”, quand’era già stata eseguita
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o addirittura già esposta nel luogo deputato; oppure mediante il controllo preventivo dell’ortodossia d'immagine nelle opere ancora da eseguire e in fase di progetto».?
«Tali modi furono praticati entrambi», continuavo, e aggiunsi qualche elemento esemplificativo. Ma non mi avvidi che quel «qualche elemento» era in realtà solo ciò che mi trovavo a più diretta portata di mano.” Stavo infatti sottovalutando, in primo luogo, un principio ben noto, e praticato notoriamente non meno dalla Chiesa ufficiale di allora che dal «potere» di ogni tempo: quello della «prudenza», «cautio», nel caso particolare: «cattolica prudenza», che consigliava di evitare e dunque di prevenire gli scandali, in qualsiasi materia inclusi i libri, perché sarebbe stato ancor più scandaloso doverli soffocare. Nello specifico, s'impone il fatto che fu proprio alla nozione di «prudenza», e in un’accezione ancor più sfaccettata, che il Maestro della Camera Apostolica e non ancora cardinale Silvio Antoniano appoggiò la sua opposizione al progetto di istituire un «indice» delle pitture, caldeggiato da Paleotti. Confessare, per giunta mediante un decreto ufficiale come l’«indice», che nel mondo cattolico l’icono-
grafia sacra potesse degenerare (si ricorderà come il Discorso paleottiano parlasse apertamente della necessità di «rimediare agli abusi de’ cattolici») avrebbe a suo parere comportato il rischio di rinforzare
gli argomenti del mondo protestante a favore dell’iconoclastia; ma soprattutto, fermo che gli «abusi» da correggere esistevano effettivamente («tota igitur disputationis summa, in modo posita est»), fermo altresì che le pitture contenenti errori in materia di dogma avrebbero comunque imposto interventi straordinari, lo stato generale della questione consigliava di «venire alla pratica», ossia di basarsi piuttosto sul lavoro ordinario dei vescovi che sull’intervento coattivo dell’autorità papale. Anzi, dove il rimedio proposto da Paleotti «esigeva un inventario, un’esposizione all'autorità religiosa, ed una pubblica abolizione» - riadopero le parole con cui ha delucidato la vertenza il già citato Frajese -, il rimedio preferito da Silvio Antoniano «consigliava maggiore internamento e sottrazione all'occhio comune. Il primo invocava un intervento pubblico, il secondo raccomandava una prudenza privata». La linea del dissenso, insomma, non stava «nella valutazione delle circostanze ma nel modo di affrontarle»; «ciò di cui Antoniano
non era convinto era l'opportunità di fare decreti di censura che intervenissero dall’esterno a correggere tendenze che nascevano all’interno» x“
2. Il Caravaggio e gli indirizzi della Controriforma
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»
e che dall'interno andavano corrette. Per tutto il resto la «sua censura» rimaneva «severissima, e condivideva lo stesso indirizzo di
Paleotti».? Il che ribadisce che in nessun caso sarebbe fondato parlare di attenuazione della sorveglianza canonica. In secondo ma principal luogo, non era ancora venuto a mia conoscenza che, due anni prima dell’intervento di cui vengo rinforzando le ragioni, era stato pubblicato un documento contenente un ben più forte elemento di prova, la cui mancata utilizzazione tempestiva in termini corretti ha per giunta lasciato agio a un recente sostenitore
della tesi opposta di proiettarne il senso in un contesto inadeguato.” La visita pastorale della diocesi romana, indetta da Clemente VIII quasi all'indomani della sua elezione al papato e proseguita fino all’anno giubilare 1600, diede luogo a numerosi casi di «riforma» dell’iconografia in opere d’argomento sacro presenti nelle chiese di Roma;?° e appunto nel quadro di queste «riforme», nel dicembre 1593, il cardinale Girolamo Rusticucci, vicario del papa al governo della diocesi (vale a dire: giusto nell’espletamento del «lavoro ordinario dei vescovi» a cui si era già appellato o stava per appellarsi Silvio Antoniano, il quale per giunta era stato l’estensore della bolla con cui il papa aveva indetto la visita), emanò un decreto specifico nel quale si legge questo: Volendo provvedere a molti disordini e abusi, che nascono nell’erigere gli altari, et fare pitture nelle Chiese, et Cappelle (...), si ordina e si comanda (...) che non si faccino, ne si permettono si facci nelle loro Chiese altari sconci, o vi si pinga, o resti pittura di sorte alcuna senza nostra licenza sottoscritta da noi,
o dal nostro vicegerente, sotto pena di cinquanta scudi d’oro, della sospensione a divinis, et privatione delli offitii et altre pene riservate a nostro arbitrio. Et parimenti si ordena, proibisce, et comanda a tutti li muratori et pittori, che non ardischino ne presumino sotto qualsivoglia pretesto, o qualsivoglia causa erigere, o fare alcuno altare di nuovo o pingere, o collocare pittura in qualsivoglia Chiesa o Cappella senza nostra licenza sottoscritta come di sopra, sotto pena di venticinque scudi per ciascuna volta et della carcere, essilio, et altre pene maggiori riserbate al nostro arbitrio. Comandando di più alli pittori conforme al Sacro Concilio di Trento sotto le stesse pene che prima di cominciare pitture et quadri per uso di Chiese, et Cappelle, eshibiscano il cartone, o sbozzo in disegno dell’historia, o fatto con le figure.?!
Naturalmente, non può sfuggire che il linguaggio, tutto fuor che tollerante, meno ancora indulgente, dell’editto, richiama subito quello delle «gride» emanate contro i «bravi» dal governo spagnuolo di
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Parte prima
Milano, rese celebri da Alessandro Manzoni anche e soprattutto perché, nel romanzo a tutti noto, egli poté dimostrare che furono disat-
tese sistematicamente. Ma a chi ha voluto sostenere che anche a questa «grida» (sono io a chiamarla così) del cardinal Rusticucci, sarebbe toc-
cato di non trovare applicazione integrale - di nuovo nel quadro del «clima non certo permissivo, ma più fluido e tollerante che Clemente VIII» avrebbe «favorito» —,? è facile rispondere che in primo luogo, come lo stesso sostenitore di quella tesi non ha potuto non ricordare, tale decreto fu ripresentato «in forma pressoché integrale» il î3 EDGE A 1603 dal successore del Rusticucci nella carica di vicario diocesano di Roma, il cardinale Camillo Borghese (prossimo Paolo V), ed essendo ancora vivo Clemente VIII:” il che, evidentemente,
non può voler dire che lo si considerasse bisognevole di ripristino perché era stato accantonato, bensì che, data l’importanza della materia
e cambiando il responsabile principale delle autorizzazioni, lo si volesse ribadire proprio affinché tale cambiamento non desse luogo a equivoci. Quand’anche, poi, la «grida» fosse stata disattesa effettivamente, s'impone fin d’ora una particolarissima conclusione: che se, come vedremo a suo tempo, sia prima che dopo il 1603, all’autorità competente toccò di fronteggiare e reprimere situazioni di maggiore «scandalo», nel genere dei «dispiaceri» del Caravaggio, vuol dire che in quelle condizioni il lassismo poteva generare (dal punto di vista dei guardiani dell’ortodossia) solo guasti più gravi, e perciò che, a risolvere la questione, anche l’istaurazione di un clima più o meno «fluido e tollerante» come quello che s’è voluto congetturare non poteva essere affatto sufficiente. Ma rimandando ad altro luogo l’esame e il vaglio storico di questo aspetto della questione, occorre ora mettere bene in evidenza che il decreto del vicario diocesano di Clemente VIII prevedeva appunto (oltre l'eventuale rimozione: «si ordina e si comanda che non si faccino [...] o resti pittura di sorte ecc.») l’autorizzazio-
ne preventiva, anzi esplicitamente, «conforme al Sacro Concilio di Trento», il controllo preventivo nel «cartone, o sbozzo in disegno dell’historia, o fatto con le figure», da parte del vicario stesso o del suo sostituto, delle pitture e delle opere d’arte da impiegare in luoghi sacri, giusto secondo i dettami generali della «prudenza» di cui abbiamo accennato; e in ciò non solo si riprendeva il criterio enunciato in termini già espliciti nel contratto del 1578 per le pitture cerx
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tosine di Garegnano, ma si progrediva non di poco anche rispetto alle prescrizioni disciplinanti di quello, dove era sì previsto l’intervento censorio del perito «della divottione», ma a cose fatte, o tutt’al più in corso d’opera, pur se sempre a spese del pittore. È ancora più importante, in fine, che persino Zuccari non solo abbia notato che l’editto di Rusticucci, «nel rivendicare l’esclusiva competenza ecclesiastica in campo di arte sacra, seguiva le orme di quei vescovi che, come Carlo Borromeo, si erano premurati di applicare il decreto tridentino sulle immagini», ma giusto in rapporto a ciò abbia richiamato le osservazioni di Prodi sull’attenzione che all’applicazione specificamente sancarliana di quel decreto prestò il cardinal Paleotti, e non abbia taciuto nemmeno
che a «voler (...) seguire le idee del
Paleotti» fu lo stesso pontefice Clemente VIII (sia pure solo «in questa prima fase del suo regno», e con la limitazione ulteriore di «parzialmente»).?* Fatto è che, al centro di tutta questa vicenda, sta proprio il Discorso del cardinale bolognese, soprattutto la traduzione in latino che l’autore ne curò nel pieno dei suoi anni romani, e il successo che arrise a quest’ultima negli ambienti più qualificati della curia. Elogiato in patria già nel 1587, nella redazione originaria in volgare, da Iacopo Mazzoni, bensì con il rammarico «che certo con troppo gran danno universale sta tutt'ora secreto quel bellissimo e fruttuosissimo libro», il De picturis latino fu invece segnalato e apprezzato subito, tra l’anno della pubblicazione e il successivo, da due personaggi centrali della Roma controriformata: il cardinale Cesare Baronio, il quale, mentre l’opera era ancora sotto i torchi insieme a «vari» altri scritti di uguale argomento del prelato bolognese, accennò a essi con lode nel sesto tomo degli Annales ecclesiastici, dove una sezione apposita s’intitola Pictorum licentia religioni subiecta (si noti anche quest’altra sintomatica enunciazione del problema che ci interessa): Habes hoc argumento complura loculenter scripta a Gabriele Paleoto S.R.E. Cardinale, quae expetita a Catholicis contra haereticos sub praelo modo esse dicuntur: ferunt ea secum laudem suam, ut non indigeant alieno praeconio;
quindi l’agguerrito gesuita Antonio Possevino, che elogiò il lavoro in termini per noi ancor più incisivi: Verumtamen quae Gabriel Paleottus cardinalis, zelo erga suum Archiepiscopatum impulsus, pio de imaginibus libro egit, eiusmodi sunt, ut nemo futurus sit pictor, quem paeniteat eum attente legisse.??
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Parte prima
Com'è ovvio, occorre non dimenticare che accanto a queste ade-
sioni vi fu senza dubbio l’opposizione di alcuni (Silvio Antoniano in testa, naturalmente, sebbene nei termini molto particolari che si son visti); ma occorre altresì tener presente, come non mi pare si faccia
di solito, che tale opposizione fu rivolta non già al Discorso o alla sua versione latina, bensì solo alla proposta d’istituire l’«indice» delle pitture proibite, avanzata nel 1596 quando gli esiti ottenuti a Roma dallo stesso editto del vicario Rusticucci, soprattutto se questo non era stato applicato o lo era stato in parte, ormai indicavano apertamente quale
dovesse essere la via più consona a ciò che la Chiesa post-tridentina si proponeva. In oltre, ai fini presenti non è senza rilievo che nel nesso sopra accennato, tra un Paleotti seguente le orme di san Carlo Borromeo, e un Clemente VIII incline alle idee di Paleotti, si delinei come
tramite possibile quello stesso cardinal Baronio che non aveva esitato a elogiare per iscritto l’opera di Paleotti, e nel contempo era addirittura confessore del papa.’ Ebbene, a tirare le somme: se da un lato dobbiamo porre in esponente che le clausole del contratto per le pitture di Garegnano, compiute appena qualche anno prima che il Caravaggio entrasse nella bottega del Peterzano loro autore (1584), autorizzano a ritenere certo che norme di quel genere fossero portate a conoscenza del giovane apprendista pittore fin dal primissimo momento; se, dall’altro, ora possiamo tornare ad affermare senza più remore che il Discorso di Paleotti rappresenta effettivamente il punto di vista della Chiesa romana post-tridentina (o almeno di una parte rilevante di essa) sulla «pictorum licentia religioni subiecta»; e se, per giunta, esso rinforza tale fisionomia specifica nel bel mezzo dell’ambiente curiale di Roma, e a metà degli anni 1590, sì che un Possevino, mentre la visita pastorale di Clemente VIII era in corso e il Caravaggio era in città da qualche anno, poté dirne essere un libro «ut nemo futurus sit pictor, quem
poeniteat eum legisse»; pare perfettamente legittimo tornare a prendere proprio il Discorso di Paleotti, e giusto come lo scrivente aveva proposto nel 1973, a pietra di paragone per la verifica a cui ci si stava avviando quando è stato necessario aprire questa non breve digressione. Di contro a opinioni in qualche modo tergiversanti, ribadiamo innanzitutto che l’attenzione principale del Discorso non è rivolta alle immagini in quanto risultato dell’operazione «artistica», ma < in quanto
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deposito e veicolo di rappresentazioni iconografiche. E in base a quel che è venuto emergendo da più vie, ora sappiamo bene che a una mentalità come quella ecclesiastica del momento, interessata ai contenuti che potremmo dire «di primo aggancio», o «apparenti», espressi dai e nei temi della rappresentazione figurata, non ai contenuti riposti ma «reali» che risiedono nelle forme specifiche dell’arte, l’iconografia appariva ovviamente come la portatrice privilegiata dei «significati», e perciò come l’aspetto delle immagini più direttamente giudicabile sotto il punto di vista dell’ortodossia ideologico-religiosa. La «pictorum licentia religioni subiecta», quale la definiva apertamente Cesare Baronio, si giuocava innanzitutto sul piano della subordinazione netta della «perizia» (nell’arte) alla
«divottione» (nell’icona);
ed è ancora da ciò che discendeva il metro di giudizio più importante e ricorrente nel Discorso paleottiano: l’«uso», anzi il «costume ecclesiastico», approvato dalla «legittima autorità», dai «teologi», dai «sacri dottori», insomma dalla «santa Chiesa guidata dallo Spirito Santo». Posto ciò, entriamo nel merito, e incominciamo con il rilevare che
due punti vengono esaminati con cura particolare nel Discorso: le «novità» e gli «abusi» nelle pitture sacre. Delle prime, sotto il titolo Delle pitture che apportano novità e sono insolite, tratta il xxx capi-
tolo del secondo libro; e l'argomento è introdotto da un avveduto tentativo di definire preliminarmente la nozione di «nuovo». La qual nozione, scrive Paleotti, senza entrare in «dispute e differenze troppo sottili», vuole essere assunta «seguitando», per dire così, il senso popolare, che chiama le cose nuove non rispetto al loro nascimento, ma solo quanto al tempo che elle sono venute in luce e lasciatesi vedere e conoscere in quel luogo; (...). Onde e noi chiamiamo quella pittura nuova, che scopre una invenzione che più non è stata da quel popolo riguardata. Sappiamo ancora molto bene che questo nome «nuovo» e «vecchio » per sé non significa cosa esistente, ma che è uno accidente solo, che importa relazione fondata nel tempo: onde, quando si pecca in simili pitture, se bene il difetto è proprio della invenzione, che non figura la imagine come deve, si dimanda nondimeno errore dal tempo che si publica al popolo, perché inanzi non era conosciuto, e però si chiama peccato di novità rispetto agli occhi del popolo.?7
Stabilito che il «difetto», «errore» o quel che si voglia, riguarda l’«invenzione» («il difetto proprio della invenzione, che non figura la imagine come deve»: donde l’ennesima riconferma, se ancora se ne
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sentisse il bisogno, che per Paleotti - come per tutta la Chiesa posttridentina - il problema della riforma delle arti figurative si restringeva al controllo dell’iconografia, e in via affatto pregiudiziale), l’autore avverte che, quantunque tal errore possa essere commune alle [immagini] sacre et alle pro-
fane, nientedimeno, perché in queste non può apportare molto detrimento, ci stenderemo noi principalmente nella novità delle figure sacre.?*
Tuttavia, enuncia subito il principio generale: Vogliamo donque primieramente ricordare al lettore che ogni novità, se bene di cose profane, deve essere avuta molto sospetta, né accettarsi se non opportunissimamente (...).??
Infatti, pur concedendo poco dopo che «la novità (...) merita pregio» se è «da salda ragione accompagnata», e che poeti e pittori possono formarsi «nuove invenzioni», ma «non a sbalzi e capricci senza ordine e legge», bensì «regolate dal fine proposto alle loro facoltà, che è principalmente di giovare, dilettando insieme»; il discorso introduce presto una precisa normativa, appellandosi, alla fine, ai deliberati del concilio di Trento: (...) cautamente farà chi, lasciando le sue proprie imaginazioni, aderirà alle istorie sicure e materie approvate e come stabilite dal consenso universale de’ buoni et intendenti. Al che fa molto a proposito quello che scrive Platone essersi osservato dagli Egizzii, ch’aveano per legge che i pittori et altri formatori d’imagini non potessero alterare né introdutre cosa nuova, talmente che le pitture di quel tempo, quanto alla figura e forma, erano in tutto simili alle passate di molti secoli (...). Quanto alle [immagini] sacre, poi, tanto più avrà d’avertire in esse, quanto che il Concilio Tridentino espressamente commanda, nerzini licere ullam insoli-
tam ponere imaginem e la materia loro è tale che non patisce né alterazione né innovazione da chi non ha legitima autorità.*0
Com'è ovvio, prima d’aver a che fare con i princìpi d’immutabilità sacrale, o - per dir meglio — contestualmente all’ossequio verso tali princìpi, questo modo di vedere ha a che fare con un fondamentale spirito di conservazione, che è sociale e politico, oltre che ideologico e religioso, ed è rivolto alla restaurazione. Non si può non ricordare subito, infatti, quanto ha scritto recentemente Rosario Villari, ricapitolando una complessa discussione: Nel Seicento la politica è universalmente concepita come attività rivolta al solo scopo della conservazione. Apparentemente non le si riconosce diritto di ricerca,
2. Il Caravaggio e gli indirizzi della Controriforma
di esperimento, di ipotesi e di relativa verifica.
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«Quel che non è conforme alle
leggi approvate e tramandate non può passare per giusto»: per quanto possa sembrare strano, questa è l'opinione di un esponente dell’opposizione, non di un sostenitore dello status quo. Nel linguaggio politico del Seicento il termine «novità» (con tutti i suoi derivati) ha una connotazione decisamente negativa. «Novità» è la negazione di regole fondamentali del vivere civile e dell’ordine naturale, il turbamento di ciò che ha una valida ragion d’essere per il solo fatto di appartenere alla tradizione. Per Montaigne «qualunque cosa è meglio dell’innovazione ». Qualche decennio dopo di lui, il nostro Virgilio Malvezzi gli fa eco lapidariamente: «Ogni mutazione è pessima». Una così rigida affermazione dei valori dell’autorità, dell’ordine e della tradizione, un’idea così negativa dell’innovazione non avevano certo allora il significato che avrebbero acquistato in un’epoca diversa, dopo l'invenzione del progresso. Esse erano tuttavia un dato reale e universale del pensiero e della mentalità; ed è facile immaginare la loro forza di condizionamento se si pensa all’imponenza e alla crudeltà degli apparati repressivi degli Stati europei del Seicento.‘!
Che si potessero nutrire in proposito pareri diversi, e in termini
di dissenso consapevole, anzi d’indignazione, impegnandosi anche sul fronte della libertà di opinione e della contestazione dei falsi «scandali», sta a provarlo un brano dovuto a Galileo Galilei - certo l’uomo di quel secolo i cui titoli di merito «autorizzavano» più d’ogni altro a scriverne uno simile -: In materia dell’introdur novità e chi dubita che la nuova introduzione, del voler
che gl’intelletti creati liberi da Dio si facciano schiavi dell’altrui volontà, non sia per partorire scandali gravissimi? E che il volere che altri neghi i propri sensi e gli posponga all’arbitrio di altri e che l’ammettere che persone ignorantissime d’una scienza o arte abbiano ad esser giudici sopra gl’intelligenti, e per l’autorità concedutagli sian potenti a volgergli a modo loro. Queste sono le novità potenti a rovinar le republiche e a sovvertir gli stati.4
Ma è vero anche che le conseguenze della messa in pratica di un simile punto di vista erano poi tali, che, sempre a proposito di Galileo e del suo primo impatto con il Sant'Uffizio nel 1615, un Piero Guicciardini era costretto a prospettare come segue lo stato reale delle cose, in due diverse lettere inviate in quei giorni da Roma a Curzio Picchena e al granduca di Toscana: Questo non è paese da venire a disputarci della luna, né da volere, nel secolo
che corre, sostenere né portarci dottrine nuove (...). Egli [Galileo] si infuoca nelle sue opinioni, ci ha estrema passione dentro e poca fortezza e prudenza a saperla vincere: talché se li rende molto pericoloso questo cielo di Roma, mas-
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Parte prima
sime in questo secolo nel quale il Principe di qua aborrisce belle lettere et questi ingegni, non può sentire queste novità né queste sottigliezze, et ognuno cerca
di accomodare il cervello e la natura a quella del Signore; sì che anco quelli che sanno qualcosa et sono curiosi, quando hanno cervello, mostrano tutto il contrario per non dare di sé sospetto et ricevere per loro stessi malgevolezza.‘
Tornando di qui all’assunto tridentino-paleottiano avverso alle novità — che con la sua prescrizione «nemini licere ullam insolitam ponere imaginem» perché «ogni novità (...) deve essere avuta molto sospetta», a questo punto finisce con il rappresentare solo la punta emergente di un iceberg la cui parte sommersa dovette essere ingente —,f saranno ben pochi coloro che non vorranno ammettere che già al solo livello iconografico (per altro l’unico, come sappiamo, sottoposto a sorveglianza da parte degli ecclesiastici del momento) tutti i dipinti di Caravaggio, d’argomento profano non meno che religioso, e questi ultimi senza eccezione, ricercano invece con sistematica spre-
giudicatezza proprio le «novità», divergendo di netto dai princìpi su richiamati, e anzi affermando in opposizione a essi il diritto alle «proprie imaginazioni», che s’è visto come Paleotti raccomandasse di «lasciare». Per quanto riguarda l’osservanza di una delle norme basilari promulgate a Trento sulle arti di figura, il divieto di însolitas ponere imagines e l'obbedienza al «consiglio » di chi è preposto a farlo rispettare, Caravaggio si lascia così cogliere in flagrante «peccato di novità» fin dal primo momento. In aggiunta, poiché il discorso sulle «novità» ha ora comportato quello sui limiti del diritto alle «proprie imaginazioni», mette conto di far riferimento subito anche a un altro tratto caratteristico della figura morale del Merisi, e naturalmente trascurato dai sostenitori della sua «sottomissione» ortodossa, nonché al grado di consapevolezza che egli ne mostrò sempre, fino alla iattanza: il senso di sé, fortemente accentuato, e un’alta coscienza della propria originalità artistica. Fu uomo satirico e altiero; e usciva tal’ora a dir male di tutti li pittori passati e presenti per insigni che fussero, poiché a lui pareva d’aver solo con le sue opere avanzati tutti gli altri della sua professione.‘ Caravaggio non apprezzava altri che se stesso, chiamandosi egli fido, unico imitatore della natura.4
Questi giudizi-testimonianze, che forse ampliano, ma sostanzial-
mente echeggiano la stima di sé, almeno come infallibile intenditore =
2. IL Caravaggio e gli indirizzi della Controriforma
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di pittura, che il maestro stesso esibì al processo intentatogli dal Baglione nel settembre del 1603 («li valenthuomini sono quelli che si intendono di pittura et giudicaranno buoni pittori quelli che ho giudicati io buoni et cattivi»), sono in qualche modo paragonabili a quanto si legge in uno dei frammenti che Galileo lasciò a margine del suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo: «Molti si pregiano d’aver molte autorità di uomini per confermazione delle loro opinioni; ed io vorrei essere stato il primo e solo a trovarle ».* Insieme a questo parere, però, quei giudizi-testimonianze contra-
stano in modo clamoroso con lo spirito di mortificazione del proprio orgoglio che la Chiesa post-tridentina era tornata a predicare più perentoriamente che in passato. E poiché si accompagnano a una non celata e del resto ben nota insofferenza, da parte del Caravaggio, verso gli imitatori — a incominciare da chi tentava di imitare le sue opere, non diciamo di copiarle o plagiarle -, contrastano altrettanto clamorosamente con l’insensibilità al plagio che in quel medesimo giro di tempo caratterizzava porzioni anche più vaste della produzione culturale. Insensibilità al plagio, che per un verso non mancava di suscitare la sacrosanta indignazione di un Campanella, inducendolo ad accusare gli autori del suo tempo di essere «copiatori e non scrittori»; ma a un Giovanni Botero, uomo di Federico Borromeo dopo esserlo stato di san Carlo, consentiva senza problemi di coscienza di travasare nei propri libri interi passi di questo o quell’autore (Possevino, Maffei, Pigafetta, per altro ancora in vita, oltre che, visto che non protesta-
rono, consenzienti); e più tardi suggerì a un Gregorio Leti, nell’atto di raccogliere i frutti di un sistema lungamente sfruttato, addirittura di teorizzare il «modo di togliere dagli altrui libri».‘ Un insieme di circostanze e comportamenti, per di più, il cui modello s’identifica senza difficoltà — dati i tempi - con l’autentica strategia di «santo plagio», per dir così, che le scritture dei Possevino e dei Bellarmino erano venute programmando a fini apologetici: in difesa della fede, indipendentemente dalle qualità letterarie e dall’originalità, tutti devono scrivere le stesse cose: «ut eadem omnes repetere, atque inculcare, et omnes etiam ab uno aliquo accepisse videantur».?° Né può sfuggire che, quando Paleotti - come abbiamo udito più sopra - stravolgeva il passo di Platone sull’arte egizia per cavarne il modello di una approvata e plurisecolare fedeltà a «figure e forme» rimaste sempre uguali a se stesse, per cui «cautamente farà chi, lasciando le sue pro-
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Parte prima
prie imaginazioni, aderirà alle istorie sicure e materie approvate e come stabilite dal consenso universale de’ buoni et intendenti»,’ non si atteneva a un criterio diverso, né teorizzava un diverso modello di
comportamento. Ma al didentro del rapporto in tensione che il descritto peccato di novità ci ha già posto avanti, si può costatare qualcosa di molto più preciso. Il cardinal Paleotti non solo ribadisce che nelle opere d’argomento sacro l’artista deve evitare la «circostanza nuova che ripugna al modo o costume ecclesiastico»,’? ma, poiché le pitture «sono non semplici voci che passano, ma come libri e tavole publiche permanenti»,? raccomanda di non introdurre nemmeno quella «novità la quale non si sa che contradica la verità, ma né essa ancora ha fondamento di autorità certa e versa intorno ad alcune cose c’hanno alquanto del basso e dell’affettato».? Specifica quindi, diffusamente, che intende riferirsi a quel tipo di «novità» la quale non ripugna punto a cosa di religione, anzi è conforme quasi necessariamente alla verità, nondimeno l’uso non l’ha mai introdotta, e però turba la vista nostra non mediocremente. Il che può accadere in due modi principalmente: l’uno de’ quali quando si figurassero cose di santi che non giovano né rilevano punto, come serìa chi dipingesse san Filippo in letto che dorme, o sant’Andrea a tavola che mangia, o san Petronio che si veste, o sant’Agnese che si scalza; perché, se bene non si può negare che queste cose non siano state vere, nientedimeno è novità infruttuosa il rappresentarle, se non siano accompagnate da altra cosa notabile. L’altro è quando ancora quell’atto che si rappresenta possa avere qualche esempio di umiltà, di pietà, d’industria o di fatica, ma che però non sia in uso di essere dipinto, essendovi altre cose molto più segnalate et esemplari di quel santo da publicare al popolo; sì come serìa chi figurasse Cristo salvator nostro ch’andasse battendo alle case per chiedere elemosina, il che vogliono i sacri teologi che facesse, massimamente nei tre giorni della fanciullezza che stette smarrito ai suoi, che poi lo trovarono nel tempio. Chi dipingesse ancora la gloriosa Madonna con la rocca a lato, che andasse filando, overo sedendo con un cussino in grembio che lavorasse d’ago, non è dubio che, per non essere l’uso di vedersi simili pitture, dispiacerebbono a chi le mirasse, se bene si legge ch’ella fece simili lavori et essercizii. Chi dipingesse san Pietro capo degli apostoli con la suocera e la figliuola a canto, o quando le visita che sono inferme, o in altro atto, se bene di carità, però insolito di essere veduto, non è dubbio che tal pit-
tura daria più tosto da fantasticare alla mente, che divozione. Chi figurasse san Paolo in una bottega, che lavorasse pelle et andasse cucendo insieme lana e lino o altra materia per far padiglioni, ancor che sia chiaro ch'era scerofactoriae artis e che spesso lavorava giorno e notte, abbassarebbe nondimeno forse quel san-
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è t'uomo. (...) Il medesimo si potria dire quasi in tutte le vite de’ santi, quando uno curiosamente volesse andare scegliendo alcune particolari azzioni, le quali, se bene sono state vere, non sono però così notabili e conosciute dal popolo,
che non induchino novità. (...) Noi (...) diciamo che, essendo l’officio del pit-
tore l’imitare le cose nel naturale suo essere e puramente come si sono mostrate agli occhi de’ mortali, non ha egli da trapassare i suoi confini, ma lasciare a’ teologi e sacri dottori il dilatarle ad altri sentimenti più alti e più nascosti.?’
Ebbene, mentre la totalità degli scrittori di stretta ortodossia cattolica post-tridentina, e fino all’avanzato secolo xvm (Susinno, 1724; De Dominici, 1744), rimproverarono al Caravaggio di essere caduto troppo spesso proprio nel «basso» e nell’«affettato», che Paleotti aveva
raccomandato di evitare, è evidente che il Merisi improntò le sue iconografie sacre, le più impegnative come le più correnti, a princìpi esattamente opposti a quelli enunciati nei passi riferiti. Si direbbe che, riadoperando le stesse parole di Paleotti, ma rivoltandone il senso, il Caravaggio abbia inteso affermare nel fatto pressappoco questo programma: «Occorre innanzitutto non assumere in senso limitativo, tanto
meno subordinare ad alcunché, la proposizione fondamentale secondo cui è “officio del pittore l’imitare le cose nel naturale suo essere e puramente come si sono mostrate agli occhi de’ mortali”. Posto ciò, e proprio perché l’“officio del pittore” consiste effettivamente nell’ “imitare le cose nel naturale suo essere”, anzi, alla lettera, nell’imi-
tarle “puramente come si sono mostrate agli occhi de’ mortali”, egli dovrà adoperarsi a illustrare la vita e le opere dei santi “scegliendo le particolari [loro] azzioni [che o sono] conformi necessariamente alla verità, [o] sono state vere, [ancorché] non sono così notabili e cono-
sciute dal popolo, e (...) induchino novità” ». Per fare un solo esempio, mi si permetta di riprendere in esame il caso della Chiamata di san Matteo a San Luigi dei Francesi, che già nel 1973 avevo proposto di leggere in rapporto a questo presumibile punto di vista caravaggesco,’ ma sulla cui effettiva compatibilità con un’interpretazione del genere non sono mancate le riserve da parte di almeno uno tra i più zelanti sostenitori della tesi di un Caravaggio convinto di filo-tridentinità.?” Dal punto di vista dell’impostazione iconografica di base, quell’opera mostra palmarmente che il pittore si prefisse innanzitutto di restituire il massimo risalto possibile alla circostanza, attestata dalle fonti, che nella vita secolare, quando il suo nome era ancora Levi d’Alfeo,
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Parte prima
il futuro apostolo-evangelista svolgeva l’attività di gabelliere, e che al momento della «chiamata», secondo quanto riferiscono concordemente i Vangeli di Matteo stesso (9, 9), di Marco (2, 14) e di Luca
(5, 27), Gesù di Nazareth lo trovò «seduto al banco della gabella». Di qui la risoluzione di raffigurare Levi: 4) «seduto al banco della
gabella», nello stanzone-ufficio dov'è più credibile che esercitasse il suo mestiere (dunque, non in una taverna, meno ancora mentre beve e giuoca a carte, come scrisse erroneamente il seicentesco Sandrart,
seguìto dai moderni più distratti);’* 4) nell’atto che più tangibilmente potesse dar conto della sua attività quotidiana: di contare - o meglio: far contare dall’aiutante - il denaro della gabella versatogli dal contribuente di turno, fra testimoni abituali e compagni di lavoro. Così facendo, in quanto rappresentava san Matteo come gabelliere, il Caravaggio disattendeva la prescrizione di non trattare, in opere di argomento agiografico, «cose» attinenti alla vita dei santi che «se bene non si [possa] negare (...) siano state vere, nientedimeno è novità
infruttuosa il rappresentarle ecc. »; in quanto dava veste determinata e inequivocabile al luogo e ai particolari esistenziali della sua attività consueta, trasgrediva anche il divieto più generale di evitare le «novità», le quali «non si sa che contraddicano la verità», «anzi sono conformi quasi necessariamente alla verità, e però l’uso non le ha mai introdotte e turbano la vista nostra non mediocremente». Per altro,
l’«uso», come ha provato almeno in implicito l’accurata indagine iconografica condotta a suo tempo da Walter Friedlander,” effettivamente non aveva mai introdotto soluzioni così radicali ed emergenti quali quelle descritte. A parte il caso della tela di Van Hemessen ora al Metropolitan di New York, che propone sì la «chiamata» del santo come una scena di vita puramente mondana e dissoluta, bensì in termini di un grottesco caricato che rimase sempre estraneo al modo di vedere del Caravaggio più schietto, e da cui, comunque, il Caravaggio non avrebbe potuto togliere altro che un primissimo spunto di «genere»;‘° sta che anche in dipinti italiani più antichi dove il tema del banco della gabella è introdotto con qualche risalto — l'affresco di Niccolò di Pietro Gerini al San Francesco di Prato, o il «telero»
del Carpaccio all’Oratorio degli Schiavoni in Venezia —,9 quel tema è subordinato nettamente alla rappresentazione ben più sacrale ed evangelica del Cristo che, «andato oltre» per le vie della «sua città» (Matteo, 9, 1 e 9), o «uscito di nuovo lungo il mare» con «tutto il =
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popolo che lo seguiva» (Marco, 2, 13), invita il pubblicano Levi a seguirlo anche lui, e questi, «alzatosi, lo segue» (Marco, 2, 14), oppure «si alza e lo segue» «abbandonando tutto» (Luca, 5, 28). Né va passato sotto silenzio che, come Mia Cinotti ha ricordato giustamente — ma per voltare l'argomento contro la tesi di chi scrive, il quale ritiene invece di potersene giovare —, il tema fissato fin dal 1565 per il quadro in questione dal committente cardinal Contarelli a Girolamo Muziano, e ribadito nel foglio «con un poco di memoria» dello stesso Contarelli allegato al contratto stipulato con il Cavalier d’ Arpino nel 1591, faceva sì riferimento all’ufficio delle gabelle dove Levi d’ Alfeo lavorava, ma era centrato appunto sul motivo di Gesù che «passando per la strada coi discepoli ecc.»:° era cioè centrato giusto su quell’aspetto della storia canonica che, sebbene non sia mancato chi credesse ambientata addirittura «in esterno» la rappresentazione caravaggesca,® il Caravaggio disattese più radicalmente. Senza parlare dell’interpretazione affatto sui generis data dal Merisi dei momenti sacralmente più edificanti della storia: quello della «chiamata» vera e propria, e l’altro del «chiamato» che abbandona tutto e va al Cristo. Fatto è che al maestro non interessava tanto, fosse per gusto della «novità», della «curiosità», o per pura esibizione delle proprie virtù di artista, di cimentarsi a trasporre la scena sacra in una scena mista di sacro e profano in cui, anche per «quasi immediato attacco con le precedenti opere di soggetto feriale, coi Bari soprattutto», «il più dello svolgimento del tema [fosse] nella tavolata dei giocatori», 0,
come pare più plausibile, dei gabellieri e assistenti; interessava bensì di liberare il tema agiografico dalle amplificazioni esteriormente glorificanti e rituali del già saputo e dall’ostentazione pietistico-devozionale, per restituirlo alla flagranza dell’accadimento: cioè, rendendo anche il sacro in termini di pura esperienza sensibile (nel caso specifico, mediante ciò che Roberto Longhi ha chiamato: «appello creato dalla folata di luce radente che penetra, nello stanzone, col Cristo,
e con la velocità del suo raggio lo precede»), e revocando tutto, sacro e profano, al grado zero della dimensione esistenziale: voglio dire nella condizione in cui è presumibile che fatti e cose stessero quando l’evento si manifestò agli uomini che ne furono testimoni, e insomma —- per ripetere di nuovo, ma in accezione caravaggesca,
le parole di Paleotti - «puramente come si sono mostrate agli occhi de’ mortali».
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Ché, se poi fosse giusta la tesi avanzata recentemente da Andreas Prater, secondo il quale, nel dipinto Contarelli, il pubblicano Levi d’Alfeo sarebbe da individuare non già, come s’è sempre fatto da Bellori in poi, nell'uomo barbato che, «lasciando di contar le monete,
con una mano al petto, si volge al Signore» (sono appunto le parole di Bellori), bensì nel giovane seduto a capotavola, che sta contando
avidamente il denaro secondo quanto corrisponde meglio al disprezzo ostentato dai Vangeli nei confronti dei pubblicani; allora tutto ciò riceverebbe una conferma ancor più incalzante, e occorrerebbe porre sul piano di un ancor più serrato spirito di contestazione quel che lo stesso Prater —- portando forse inconsapevolmente acqua al mulino che lo scrivente tenta di far girare dal 1973 — ha sintetizzato nel seguente giudizio: che con una così insolita concezione, e con un’interpretazione così profondamente umana del santo, Caravaggio si è allontanato radicalmente da tutte le norme prescritte dalle convenzioni in materia di rappresentazioni pittoriche di un soggetto simile.” Ritornando al divieto tridentino-paleottiano di rappresentare in opere di figura d’argomento sacro anche cose «necessariamente conformi alla verità», epperò «infruttuose» dal punto di vista del «giovamento» devozionale, non possiamo non rilevare ancora che, secondo il punto di vista appena illustrato, per il Caravaggio un tema come La cena in Emmaus comportò invece — e in concentrazione crescente
sull’evidenza, passando dalla prima alla seconda redazione che ne dipinse (Londra, National Gallery; Milano, Pinacoteca di Brera) —5, 41 la mostra di una refezione di viandanti in una bettola di periferia: ex pescatori, senza alcun segno che li faccia riconoscere per santi, attorno a una tavola rusticamente imbandita di suppellettili, cibi e frutti comuni, e alla presenza ovvia, però non richiesta dalla storia, dell’oste, o dell’oste e della vecchia servente, per altro introdotti, giusto nella loro quotidiana, disadorna e umanissima parvenza, come testi-
moni dell’evento: tutti particolari puramente esistenziali non menzionati neanche dall’unico racconto evangelico relativo al miracolo di Emmaus, quello di Luca, 24, 13-35. Tutti particolari, per giunta, che se in entrambi i casi non si spingono fino a ridurre la raffigurazione della santa cena a puro «segno e memoria», privo affatto di valore carismatico (come intendevano Calvino, Zwingli e i loro seguaci: di «segni et mostre esterne del passato fatto, et non di promessa alcuna =
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delle cose future», scriveva appunto Camillo Renato a proposito delle cene eucaristiche, trovando fra l’altro un diffuso séguito proprio nei centri più importanti di Lombardia), comportano almeno nella redazione di Londra, certo per effetto di una ancora incontrollata e libertaria volontà di adesione a un modello esistenziale trasposto, la deliberata trasgressione di circostanze canoniche rese obbligatorie quanto meno dalle implicazioni cronologiche interne alla narrazione evangelica: il Cristo imberbe e giovanile, di contro a quello barbato
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e ormai maturo del dopo-Golgota; e, «nella mensa, un piatto d’uve,
fichi e melagrane», percepiti come «fuori stagione» già da Bellori,? evidentemente rispetto al momento dell’anno —- la primavera appena incominciata — in cui i Vangeli fanno cadere la crocifissione e la resurrezione del Cristo.” Sempre in fatto di ricupero del sacro a ciò che è «necessariamente conforme a verità», anche La morte della Madonna parve al Caravaggio nient’altro che l'adunanza dolorosa di un gruppo di gente qualsiasi, attorno al cadavere di una donna qualsiasi disteso su una tavola (Parigi, Museo del Louvre). Nonostante che il testo del contratto di
commissione dell’opera, recentemente ritrovato, ingiungesse al pittore di rappresentare «cum omni diligentia et cura» il «misterium» della «mors sive transitus Beatae Mariae Verginis»”! — vale a dire: il miracolo di una morte sottratta alla corruzione corporale, contingenza affatto umana, e trasformata per i meriti soprannaturali della «beata» nel passaggio diretto alla gloria del Paradiso, anima e corpo -; il Caravaggio intese restringere quel sacro «mistero» proprio alla dolente umanità di una morte comune, revocando, per forza di cose «necessariamente conformi alla verità», il «transito della Madon-
na» a «morte di una donna». In termini di ripristino iconografico-figurativo della «verità», si direbbe che ciò ricordi il metodo con cui i filologi ricercano la radice etimologica di una parola voltata ad altri sensi dall’uso, per riguadagnarne il significato originario. Con una tal capacità, nel caso specifico del Caravaggio, di attribuire determinazione fenomenologica innanzitutto alla figura della defunta, che poco più tardi Giulio Mancini potrà sbizzarrirsi a scriverne variamente: che il pittore «in persona della Madonna havea ritratto una cortigiana», o una «cortigiana da lui amata», e persino «una qualche meretrice sozza delli ortacci»,
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o «qualche sua bagascia»;”? mentre Bellori, come abbiamo già visto, si accontenterà di parlare, bensì per aggravare la deplorazione, di «una donna morta gonfia».” Orbene, è così netta la discrepanza (e forse diremmo più precisamente: la contraddizione) fra tutte queste scelte e le prescrizioni di Paleotti riferite più sopra, che viene naturale di domandarsi se il Caravaggio, già infastidito dal ricordo delle pedanterie moralistiche alle quali aveva dovuto sottostare anni a dietro il suo maestro Peterzano,
non avesse mandato attentamente a memoria il cospicuo elenco paleottiano di «novità» che «non si sa che contraddica[no] la verità» e non-
dimeno «versa[no] in cose ch’hanno del basso e dell’affettato», per applicarlo alla rovescia con la miglior cognizione di causa. Anzi, di fronte alla costanza con cui il Merisi continuò a dipingere quadri di soggetto sacro nei quali è impossibile non riconoscere a prima vista un equivalente perfetto del «san Filippo in letto che dorme», del «sant'Andrea a tavola che mangia», del «san Petronio che si veste» o della «sant Agnese che si scalza», di cui abbiamo letto la sconfessione nel Discorso del vescovo di Bologna, si è tentati addirittura di pensare che un tema quale «san Paolo in una bottega, che lavorasse pelle et andasse cucendo insieme lana e lino o altra materia per far padiglioni», sconsigliatissimo dal Paleotti perché «abbassarebbe (...) quel sant'uomo», si accorda invece così bene con la tendenza fondamentale
delle iconografie caravaggesche, da sorprendere che il Caravaggio non l’abbia mai dipinto.” L’altro punto considerato in modo speciale dal cardinale bolognese riguarda gli «abusi». L'esame è complessissimo e questa volta si articola in una casistica di gran lunga più analitica, impressionante per la preveggenza e la variata fenomenologia delle possibilità esaminate. Ai nostri fini, è però sufficiente concentrare l’interesse su un passaggio che s’incontra nel 1 capitolo del secondo libro, il cui titolo è: Che non potendo il Demonio levare l’uso delle imagini, cerca di riempirle di abusi. Come da titolo, il brano tira in campo addirittura il Demonio, l'entità infernale che, nel governo delle coscienze da parte della Chiesa ufficiale, ha sempre giuocato un ruolo di potente efficacia intimidatoria; e al Demonio in persona è imputata questa responsabilità: E così perversa et inveterata la malizia del Demonio, nemico d’ogni virtù, che, dove non può totalmente levare uno uso lodevole e santo, almeno procura di S
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farcelo abusare e di rendercelo inutile. (...) Vede che le orazioni ci giovano assai,
studia di distorcene e, quando non può, almeno si adopera che le facciamo per ostentazione e per fine mondano, acciò tanto ci nocciano quanto era ragione
che elle ci giovassero (...). Così l’arte del formare le imagini sacre vede che è introdotta per utile delle anime e che con le figure si può apportare molto giovamento al mondo; per questo ha cercato di levarci l’uso loro e, non potendo, vi ha introdotto dentro tanti abusi, che ormai la scoltura e la pittura, che deveriano essere di giovamento a chi le essercita et agli altri, poco ci resta che non siano fatte ad essi et a noi perniziose e dannevoli. (...) Il Demonio cerca di divertire il proprio e vero uso delle imagini in altre vie storte et illecite, e però opera che un pittore, in vece di formare uno Cristo, formi uno Apolline, e lo scultore,
in loco di comporre la statua di uno martire, compona una trasformazione favolosa; fa opra che le figure si dipingano ignude per lo più e molto lascivamente. Entra fino nei santi, e se la beata Maddalena o san Giovanni evangelista o un angelo si dipinge, fa che siano ornati et addobbati peggio che meretrici o istrioni; overo sotto coperta di una santa fa fare il ritratto della concubina; et in somma si adopera di modo, che ormai in molti luoghi la pittura e la scoltura poco servono per edificio delle anime ad onore di Dio, ma sì bene per molto incitamento alla propria dannazione, in gloria di Satana.”
Questi maneggi demoniaci fanno ricordare subito, e per effetto dell’ormai sperimentata messa a fronte per contrasto, che, tra le opere del Caravaggio d’argomento sacro, la giovanile Maddalena della Galleria Doria Pamphilj in Roma rappresenta per l'appunto una fanciulla primaticcia: la quale è in lacrime, è vero, com’è stato notato da più d’uno, ma di un dolore che non coincide affatto con la contrizione penitente. In effetti, come notava Bellori, quella fanciulla sta «a sedere
sopra una seggiola con le mani in seno in atto di asciugarsi i capelli», ha «le braccia in camicia e la veste gialla ritirata alle ginocchia dalla sottana bianca di damasco fiorato», e ha accanto, «in terra, un vasello d’unguenti, con monili e gemme».? Ancor più marcatamente, la
Santa Caterina della collezione Thyssen-Bornemisza introduce santa Caterina martire — per altro, con un accenno di aureola che è solo una traccia luminosa, e senza il più piccolo riferimento specifico al rango principesco che la tradizione non aveva mai cessato di attribuire alla Caterina d'Alessandria storica - come una splendida ragazza in carni, dal vasto décolleté: inginocchiata su un vistoso cuscino di damasco; rivestita di abiti di roba fina; e aggirata, per così dire, da un manto preziosissimo, tramato di fiori d’oro e d’argento a macchia,
che le è appena caduto dalle spalle per meglio rivelarla. La cui straor-
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dinaria libertà pittorica, aggiungiamo per inciso, anticipa molto più direttamente Paulus Bor e Vermeer, che non il tardo Velàzquez.” Quanto poi ai simboli del martirio, in particolare alla ruota, che qui è sospinta a un’evidenza oggettuale traboccante (Longhi la definì: «ruota enorme, da “facocchio” »),7# e alla quale la santa non solo si appoggia, ma - questo è il punto — aderisce con tutto il corpo, è poi decisivo tener presente che uno dei decreti relativi ai dipinti del Pantheon emessi durante la visita pastorale di Clemente VIII di cui s'è detto più a dietro (1592-1600: dunque giusto nell’arco di tempo entro cui anche il quadro caravaggesco in questione fu dipinto), dispose la rimozione e la sostituzione di un quadro rappresentante santa Caterina d’Alessandria con la seguente motivazione: Pingatur alia imago S.te Catharinae, quae longius distetarota, cui nunc adhaeret, quod constet hoc tormenti genere non fuisse affectam; sed huiusmodi machinam parata Deo volente fuisse mirabiliter confractam (...).??
Il corsivo è mio, e vuole attrarre l’attenzione sul fatto che, se anche
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qualcuno fosse mai indotto a notare che, in definitiva, e sia pure a suo modo, il Caravaggio dipinse appunto una «rotam confractam», e non trascurò di aggiungere il simbolo della spada da cui santa Caterina fu alla fine decapitata, è nondimeno la straordinaria vicinanza della santa alla ruota che contrasta di più con la ragione agiografica addotta dal visitatore papale per la riforma del dipinto del Pantheon. Non si può tacere, ancora, che, per quanto l’altra Conversione della Maddalena - o Marta e Maddalena che la si voglia denominare (esemplare migliore al Detroit Institute of Arts)® — sia parsa a qualcuno sintonizzata con «l’illuminazione e la grazia divina, soggetto centrale della spiritualità post-tridentina», e persino con l’«inno Pater superni luminis composto da Roberto Bellarmino intorno al 1597-99»,! anche questo importante pensiero caravaggesco s’incentra sulla presenza avventante di una ragazza in carni: la stessa del dipinto Thyssen, per di più,8 ma con un décolleté ancor più accentuato, e introdotta in un contesto iconico in cui quel che sarebbe dovuto essere il «momento della conversione » è in effetti il momento in cui una ragazza di aspetto dimesso ne apostrofa un’altra assai vistosa e adorna, per farle il conto di quel che più le conviene decidere: enumerando le possibilità in alternativa sulla punta delle dita con lo stesso gesto che nei dipinti profani di seduzione, tanto precedenti quanto prossimi venturi rispetto “
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a questo, fanno per solito le mezzane.® Quest'ultimo punto, che per
via delle mezzane torna a mettere in ballo le meretrici e le concubine, contribuisce a riportare in discorso anche La y0rte della Madonna
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ora al Louvre, dove abbiamo visto come uno scrittore molto vicino
all’epoca dei fatti, se non testimone dei fatti, come Giulio Mancini, affermasse appunto che Caravaggio, «in persona della Madonna, havea ritratto una cortigiana», «una cortigiana da lui amata», una «qualche sua bagascia».8 Con le considerazioni fatte fino a questo momento, tuttavia, il
nostro discorso si è svolto lungo la linea di una verifica di massima, per quanto già abbastanza circostanziata; dalla quale, se risulta ben individuata la divergenza netta tra due tendenze, non risultano ancora accertate contravvenzioni specifiche e definite a norme altrettanto specifiche e definite. Su questo terreno si sa che è sempre difficile raggiungere risultati puntuali, perché, mentre sui tempi lunghi e a uno sguardo complessivo è possibile riconoscere con buona approssimazione almeno qualcuna delle tendenze di fondo, la realtà storica concreta è di gran lunga più ricca e lumeggiata di qualsiasi generalizzazione. Pure, siamo in grado d’indicare almeno un caso in cui, in
materia di elaborazione iconografica dei temi sacri, il contrasto fra la norma ortodossa e le scelte del Caravaggio è costatabile in termini obbliganti. Il caso riguarda La conversione di san Paolo nella cappella Cerasi a Santa Maria del Popolo in Roma. Al xxvm capitolo del secondo libro, che s’intitola Delle pitture sproporzionate, Gabriele Paleotti scrive: Si suol considerare da alcuni quella ancor per sproporzione di più cose insieme, quando non sono distribuite a’ suoi proprii luoghi; non altrimente che faria un vasaio, mettendo il fondo dove va la bocca del vase. Così aviene quando il pittore non dà il luoco alle cose che figura, secondo la condizione e dignità loro, e mette dai lati quello che dovria essere posto in mezzo; overo, pretermettendo quello che è lo scopo principale dell’istoria, pone maggior diligenza in quello che non importa tanto, facendolo apparire più agli occhii: sì come nella conversione di san Paolo si vedono molti pittori consummare tutta la sua cura in figurare un cavallo bello e gagliardo, e questo hanno per principale, né del resto si curano più che tanto; e nell’adorazione de’ Maggi si affaticheranno per fare un camello meraviglioso, o un moro carico di presenti, et a quello danno il più bel luoco del quadro, talmente che a pena si scorge dove sia il sacro fanciullo che si ha da adorare. Un’altra sproporzione ancora rispetto al tutto pongono alcuni,
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quando con le imagini massimamente sacre, o di cose gravi, s’aggiongono altre che sono fuori di quello soggetto e che non hanno a fare punto con l’opera principale (...).8 28
Nella Conversione di san Paolo del Caravaggio, invece, com'è arcinoto, il vero protagonista della scena è proprio uno straordinario cavallo pezzato, che l’occupa tutta; e la figura del convertito per miracolo, riversa in basso e quasi schiacciata a terra dalla luce, è introdotta del tutto marginalmente, ai confini inferiori del quadro, nel contesto di un evento comune, che a Roberto Longhi poté suggerire giustamente
il paragone con un «incidente di scuderia». Naturalmente, non dimentico che Maurizio Calvesi ha voluto sostenere — riadopero le parole riassuntive di Mia Cinotti - che «l’animale, come simbolo dell’irrazionalità del peccato (con rimando al cavallo come parte irrazionale dell’anima, nel pensiero di Clemente Alessandrino), retto dal palafreniere simbolo della ragione, entrerebbe perfettamente nel disegno generale del dipinto, allusivo alla Grazia e illuminazione divina»; ma il punto sta proprio nel fatto che, dovendo rappresentare un effetto della «Grazia e illuminazione divina», e magari intendendo implicarvi il simbolo della contrapposizione fra ragione e irrazionalità del peccato, il Caravaggio scegliesse di dare il risalto maggiore proprio al cavallo, istituendolo protagonista del quadro: ossia, per restare nella metafora di Calvesi, scegliesse di porre al centro del quadro non la «Grazia e illuminazione divina», né la ragione, ma il «peccato» in tutta la sua animale irrazionalità. Se ne ricava in modo lampante, perciò, che, regolandosi così, il Caravaggio intese comportarsi di proposito — e insisto sul «proposito» — giusto come i pittori che
Paleotti deplorava; anzi: intese raffigurare qualcosa che risultasse quanto più vicino possibile a ciò che il prelato bolognese, con inconsueta e animata vivacità descrittiva, ma evidentemente meno inte-
ressato degli esegeti moderni alla simbologia di Clemente Alessandrino, indicava come «sproporzione» da evitare nelle «imagini massimamente sacre, 0 di cose gravi»: «sì come nella conversione di san Paolo si vedono molti pittori consummare tutta la sua cura in figurare un cavallo bello e gagliardo, e questo hanno per principale, né del resto si curano più che tanto». E che, avuto «per principale», il cavallo del Caravaggio riuscisse «bello e gagliardo», vi sono pochi dubbi. Modernamente, Longhi lo x
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ha descritto con questa perifrasi: «massa enorme del cavallone pezzato, la bava che cola dal morso e quell’intrigo indecifrabile, tra quadrupede e servente, di vene nodose e varicose».?? Dunque ben altro, sia detto per inciso, che un’astratta opposizione simbolica fra animalità e razionalità! Ma già il seicentesco Sandrart aveva concentrato la sua illustrazione dell’opera sull’«equus variegatus, qui vivo similis est»; e il settecentesco D’ Argensville aveva menzionato il dipinto di Santa Maria del Popolo per non dirne altro che «son cheval gris pommelé est admirable ».?! Si potrebbe obiettare, tuttavia, che il Caravaggio, non che impegnarsi in una deliberata trasgressione della norma paleottiana, poté pervenire a quella soluzione iconografica rifacendosi semplicemente a modelli precedenti. A parte gli spunti compositivi (ma non più di questo) tolti dal Grande e/o dal Piccolo cavallo di Dùrer, ed eventualmente dal Palafreniere stregato di Hans Baldung Grien - tutti prelievi, a ogni modo, che dovrebbero esser riguardati non diversamente da quello che, secondo quanto abbiamo già letto in Sandrart, Caravaggio avrebbe effettuato da Holbein per La chiamata di san Matteo —, è infatti ben probabile che il maestro abbia tenuto presente la Caduta di san Paolo da cavallo del Moretto da Brescia, che, com'è stato più volte notato sulla scorta di un famoso rilievo di Longhi, egli poteva aver studiato da giovinetto (né solo per l'iconografia) a Milano, nella chiesa di Santa Maria presso San Celso; o che magari avesse avuto notizia del quadro del Parmigianino oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna, che, per essere ubicato in origine — quasi certamente — a Bologna,” poté per giunta appartenere al novero di opere dello stesso soggetto meglio note a Paleotti e perciò più direttamente prese di mira dalla sua deplorazione. Ciononostante, dovremo innanzitutto assegnare il maggior peso possibile al fatto che in una precedente e non meno impegnativa redazione del medesimo tema - l’ormai celebre Caduta di san Paolo da cavallo già Balbi a Genova, ora Odescalchi a Roma, sulla cui datazione e sul cui presunto rifiuto si discute, ma non sull’anteriorità cronologica e mentale rispetto al quadro di Santa Maria del Popolo -” Caravaggio stesso aveva seguito un’iconografia meno contrastante con le norme dalle quali il quadro di Santa Maria del Popolo repugna invece drasticamente. In secondo luogo, abbiamo argomenti per dimostrare
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che Paleotti, e questa volta in termini di disciplina più specificatamente controriformata, giudicava erronea anche l'eventuale ripresa di modelli precedenti, se ugualmente deviati. Sotto il titolo Delle pitture apocrife, Paleotti s'era già occupato della Conversione di san Paolo, e in quel luogo aveva ammesso la legittimità - beninteso, nelle forme dovute - d’introdurre un cavallo nella
scena, sebbene avesse puntigliosamente ricordato: «non dice san Luca che [Saulo/Paolo] fosse più a piedi che a cavallo». Ma qui di nuovo è d’avvertire primieramente - s’era preoccupato di aggiungere che non basta che li pittori si accordino insieme a dipingere una cosa, se ella non è fondata nella ragione e verisimilitudine grande e communemente dai dotti accettata; perché alle volte essi dipingono quello che trovano fatto da altri, senza alcuna considerazione se sia bene o male, come disse san Basilio: Durz pictores ex imaginibus imagines depingunt, saepe deficiunt ab archetypo. Di più, non basta ancora che tal pittura sia narrata da alcun dottore di autorità, né bisogna così fidarsi di ciascuno in tutti i particolari, se quell’istesso non corrisponde al sentimento degli altri e dalla santa Chiesa non viene approvato; nel che è bisogno di molto iudicio et intelligenzia (...).9
Pare davvero poco probabile che il Caravaggio possa essere annoverato fra coloro che, passivamente, «dipingono quello che trovano fatto da altri»; la radicalizzazione progressiva che caratterizza il passaggio dalla redazione Balbi-Odescalchi a quella di Santa Maria del Popolo depone a favore di un ripensamento autonomo e altamente consapevole. Ma, se si può dare per certo che il maestro abbia voluto appoggiare il ripensamento al recupero di un’iconografia lombarda, ciò aumenta, non diminuisce la distanza del risultato finale dalle norme «approvate» dalla «santa Chiesa». Del resto, a proposito del cavallo
dipinto dal Moretto nella Caduta di san Paolo da cavallo a Santa Maria presso San Celso a Milano, e del precorrimento che occorre riconoscervi rispetto al cavallo del Caravaggio (ma non si potrebbe pensare diversamente al riguardo del Grande cavallo di Diirer, e a preferenza del Piccolo, se anche di essi il Merisi avesse effettivamente tenuto
conto), Roberto Longhi circa sessant'anni fa s'era già pronunciato in questi termini: (...) si aggiunga che il Moretto vi abbozzava [s'intende, nel cavallo] anche il modo di comporre per diagonale, con la gran massa che s’alza al galoppo, di guisa che, con poco «decoro» per quei tempi, il primo piano del quadro, per poco, non è la groppa del quadrupede. Non è forse contro questo ardimento del Moretto x
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. che il Lomazzo si appunta nel suo Trattato (VI, 284), dettando che «ne’ luoghi religiosi le facciate e tavole vanno collocate in modo che conformino alla nobiltà degli occhi, come sarebbe a dire che le parti posteriori de’ cavalli e altri animali non si veggano davanti ma di dietro, come parte indegna d’esser vista»? E non è possibile gustare qui persino il preludio di quelle obiezioni di costume che, cinquant'anni dopo, verranno rivolte al Caravaggio?”
L’unica rettifica che queste note richiedono è che il preludio non era solo a future «obiezioni di costume»; introduceva bensì a una
deplorazione disciplinare di ordine confessionale che riguardava appunto, e nell'immediato, l'osservanza del «decoro». «Decoro», per giunta, non più nel senso con cui il termine aveva avuto corso durante l’ultimo secolo e mezzo, ma nell’altro che emerge chiaro anche dal passo di Lomazzo citato da Longhi, dal quale è altresì evidente che, a non più di due anni dalla pubblicazione del Discorso di Paleotti (questo è del 1582, il Trattato di Lomazzo, al quale il passo appartiene, del 1584), già si viaggia sulla stessa lunghezza d’onda. E in effetti, non che attendere cinquant’anni, la categoria del «decoro», sotto la
quale tutte le prescrizioni tridentine potevano essere - come furono agevolmente radunate, fu il punto d’urto più universalmente padroneggiabile, e perciò più resistente, con cui le scelte iconografiche del Caravaggio dovettero misurarsi fin dal primo momento. Ma vediamo meglio come stessero le cose. A incominciare di nuovo dal Paleotti, il cui Discorso, al xxvI capitolo del secondo libro, tratta giusto De/le pitture inette et indecore. Approvano bene tutti ch’ogni operazione, perché riesca lodevole, deve avere la debita corrispondenza in tutte le circonstanze, a guisa di perfetta musica che rende la sua armonia proporzionata in tutte le voci, e dicono che quella virtù ch’opera ciò da’ Latini è chiamata decorum, e da’ Greci prepon, la quale, quando per caso venghi in parte alcuna a mancare, lascia nel corpo dell’opera quella nota e quello sconcerto che communemente si chiama inetto. Dicono anco che il sapersi valere bene di questo decoro è dono di singulare eccellenza, nascendo ciò dal trono regale della prudenza, virtù esquisitissima che modera tutte le cose; e che l’accommodare un’azzione sì che non offenda in parte alcuna né gli occhi, né l’orecchie, né il giudicioso conoscimento delle persone, è impresa difficilissima sopra tutte l’altre operazioni (...).
Seguono ampie citazioni da Cicerone e da Platone, con un tentativo di precisare in quali accezioni greci e latini avessero assunto quella nozione: «quanto all’affetto» e «quanto a’ costumi», avendo «altri
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(...) confuso il decoro col verisimile», altri ancora avendo «preso questo nome generalmente per quella virtù che distribuisce o accompagna (...) tutte le cose (...) con la debita ragione». Ma noi (...) ci appigliamo al parere de’ più savii, che attribuiscono il decoro propriamente alla dignità della persona, e per lo contrario chiamano inetto quello che pecca, attribuendoli azzione, costumi, affetto o altro che non conviene alla
età, sesso, abito o grado di lui (...). Noi dunque in questo senso ora abbiamo intitolato questo capitolo Delle pitture inette, non quanto all'arte del disegno rozzamente fatto, ché di questo non ragioniamo, ma intendiamo trattare di quello errore che si commette col non darsi alla condizione della persona quello che se li deve (...), condizione della persona che è la principale tra tutte le cose che si possono imitare.?
Naturalmente, faremmo offesa ai lettori se, di contro a queste enunciazioni, ora insistessimo a documentare che il rimprovero di poco o punto «decoro», a cui Longhi alludeva già a proposito di Moretto, è proprio quello che ricorre più spesso nei giudizi sei-settecenteschi sull’opera del Caravaggio. Basterà ricordare il passo dedicato da Bellori alle ragioni per cui il maestro «incontrò dispiaceri», nonché la conclusione, tipicamente belloriana nel congiungimento di selettività classicistica e moralismo rigorosamente sorvegliato, per cui «il Caravaggio, se bene giovò in parte, fu nondimeno molto dannoso e mise sottosopra ogni ornamento e buon costume della pittura». Il punto su cui occorre soffermarsi, invece, riguarda il fatto che, innanzitutto, le affermazioni di Paleotti sulla nascita del
«decoro»
dal
«trono regale della prudenza» (ideale principe, questo della «prudenza», per tutta l’ortodossia disciplinare post-tridentina: è bene ricordarlo ancora una volta); ma anche la raccomandazione di Lomazzo, degna della più schietta pruderie vittoriana ancora a venire (che «ne’ luoghi religiosi» le parti «posteriori» degli animali vengano «collocate in modo che conformino alla nobiltà degli occhi», perché sono «indegne d’esser viste»); e non meno l’appello belloriano al «buon costume della pittura» (che, evidentemente, è cosa ben più impegnativa, sul piano della «morale», del semplice «costume»), implicano una nozione di «decoro» la quale, perduto il significato classicoumanistico di convenientia, grazie a cui si esprimeva il rapporto pro-
porzionale delle parti al tutto secondo un principio etico-matematico affatto «antico», si era ormai piegata a riflettere una concezione puramente moralistica del comportamento, connessa in modo esclusivo x
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con la «condizione della persona», e fondata sulla «esquisitezza» del «moderare» e dell’«accommodare ». Erwin Panofsky credette di poter sorprendere già in Leon Battista Alberti un orientamento secondo il quale «il postulato di sottrarre allo sguardo i difetti fisici sta (...) quasi sul medesimo piano con quello di velare le parti “sconvenienti” del corpo umano», e perciò «si conforma alla categoria comune del decorum, della rzodestia e della verecundia».'® Ma fu soprattutto durante la seconda metà del Cinquecento che la teoria dell’arte venne sviluppando in Italia una concezione per cui converientia si trasformò in sinonimo di verecundia, e il termine corrente di «convenienza» venne precisando il suo valore semantico in rapporto al significato più comune del suo opposto: «sconvenienza». D'altra parte, se la nuova accezione di «convenienza» come contrario di
«sconvenienza» era divenuta la
parte sostantiva di «decoro» in quanto equivalente di «decenza», non si può dimenticare che essa fu plasmata anche dal nuovo tipo di gerarchia sociale che venne istaurandosi (diremmo meglio: restaurandosi).
Di fatti, mentre l’aristocrazia, strumento e alleata della Chiesa ufficiale, si autocelebrò nell’idea, «decoro» e «convenienza» divennero
gli attributi necessari dei princìpi autocratici di «nobiltà» e di «idealità». Nell’ordine religioso, dove l’intransigenza della Chiesa romana fece sì che l’autorità giuocasse il ruolo maggiore, «decoro » e «convenienza» s’identificarono sempre meglio con le prescrizioni della morale codificata e con gli articoli di fede, né poterono più sottrarsi alla norma disciplinare, che le gerarchie ecclesiastiche autorizzate si preoccuparono di definire. Quanto più il concetto di «decoro» si associava con quelli di non-sconvenienza e di decenza, più in alto con quelli di fede, nobiltà e idealità, tanto più nella teoria ufficiale si legò alle norme della rappresentazione artistica, e soprattutto dell’arte sacra. Non è necessario esemplificare in extenso. Tali fatti sono ormai di cognizione corrente, e lo sono anche in rapporto ai princìpi sui quali si basarono le accademie, specie del tardo Cinquecento.!% Sarà perciò sufficiente limitarsi a citare di nuovo Paleotti: il quale in primo luogo dava una giustificazione addirittura teologale della gerarchia nella società e della subordinazione vigente fra i singoli gradi di essa: [Non possiamo ammettere] che tutte le cose del mondo, sensibili et insensibili, [siano] indifferentemente nobili, poi che escono tutte da una fonte e da un autore istesso. Ma dicemo che, quantonque Iddio sia autore commune di tutte le cose,
ha però creata ciascuna nei suoi gradi, altre superiori, altre inferiori, altre più et
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Parte prima
altre meno perfette, altre picciole, altre grandi, accioché l’une servissero all’altre. E parimente ha instituito diversi ordini di persone, d’ufficii maggiori e minori, che così è stato conveniente alla bellezza, alla necessità et alla perfezzione dell’universo; sì come veggiamo che tra i membri del corpo nostro, che pure tutti sono fattura delle mani sue, alcuni sono più ignobili degli altri, che così li chiama san Paolo, che v’aggionge: Nor omnis caro eadem caro.!9
(Onde il problema dell’indecenza di dipingere in vista la parte posteriore di un cavallo prende la sua più pertinente collocazione teorica!); in secondo luogo sosteneva che, proprio per le ragioni esposte, anche la «nobiltà civile» dell’«arte di fare imagini» — «intrinseca o estrinseca» che sia —,
«se non è accompagnata da spirito cristiano et
usata a gloria di Dio, riesce molto vana e frustatoria»;! quindi ribadiva, e sia pure in altro capitolo, ma in linea specifica, «che non intendiamo noi di volere ligare affatto le mani al pittore (...); solo ricordiamo
che la libertà de’ pittori nelle cose sacre deve essere accompagnata sempre da probabilità, decoro e giovamento».!°% Dove «giovamento» sta palesemente per edificazione, non meno morale che religiosa. Qualche decennio dopo, a riprova, Federico Borromeo progettò l’accademia ambrosiana «ut pictores, sculptoresve sacri deceantur, quomodo misteria nostrae fidei sanctorumque imagines exprimere possint, salva historiarum fide, ut divinus cultus istarum artium ope et fide augeantur».!
Ebbene, è evidente che l’«indecoroso» Michelangelo da Caravaggio, il pittore al quale modernamente s’è potuto attribuire questo vanto: «il cavallo al Popolo l’ho tinto per una conversione di san Paolo»,!°% ma che già gli antichi accusarono d’aver «messo sottosopra» il «buon costume della pittura», non poté militare fra tali schiere; quanto meno -— per esprimere il giudizio con maggior precisione —non poté militarvi impugnando le medesime armi. 3. «(...) in quel mezzo tra il devoto, et profano, che non l’haveria voluto vedere da lontano»: una testimonianza importante del 2 agosto 1603
Pervenuti alla costatazione che le iconografie sacre del Caravaggio seguivano una via diversa sia da quella argomentata nei testi autorizzati, sia da quella che i provvedimenti ufficiali prescrivevano ingiungendone il rispetto, passiamo a esaminare alcune testimonianze xs
2. Il Caravaggio e gli indirizzi della Controriforma
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coeve, 0 almeno non lontane dal tempo degli avvenimenti, nelle quali l’indipendenza, per certi aspetti provocatoria, del maestro, e la sua resistenza al dettato letterale delle norme ispirate ai deliberati del concilio di Trento, sono documentate o comunque recepite. Nell’introdurre quest'altro aspetto dell'argomento, mi sia permesso di riportare testualmente quanto scrivevo allo stesso proposito nel
1973: Ho notato con preoccupazione la tendenza pressoché generale a sottovalutare l’importanza del saggio con cui Gaetano Cozzi ha illustrato nel 1961, in una sede insolita per gli storici dell’arte, ma non per questo meno autorevole e accessibile, una singolare lettera sul Caravaggio, ritrovata dal Cozzi stesso tra le carte della famiglia Gualdo alla Biblioteca Marciana di Venezia.!
Purtroppo, quella preoccupazione non era infondata, perché nemmeno il rilancio tentato allora da chi scrive è valso ad attirare su quel saggio un’attenzione adeguata agli apporti chiarificatori che esso ha arrecato giusto al riguardo della posizione che i contemporanei —- non i posteri, eventualmente prevenuti — assegnavano al Merisi nel contesto ideologico post-tridentino. Saggio e lettera sono stati ricacciati di nuovo nell’ombra; quasi nessuno storico ha più voluto riparlarne, né se ne ritrova traccia nelle bibliografie più recenti, inclusa quella del pur corposo catalogo della recente mostra italo-statunitense. Con due sole eccezioni. Da un lato la menzione bibliografica di Previtali, nel libro del 1982; a cui occorre aggiungere quella della Cinotti, inclusa per necessità di regesto nel Caravaggio dell’anno successivo.? Dall’altro un intervento recente di Maurizio Calvesi, al quale va bensì riconosciuto d’essere stato il solo, né soltanto fra gli storici interessati ad accreditare la tesi di un Caravaggio ortodosso, a tornare con ampiezza sulla questione. Senonché Calvesi ha voluto servirsi della lettera pubblicata dal Cozzi, e dell’intero materiale epistolare che il Cozzi aveva già segnalato, per riconvertire, in ultima analisi, il vino in acqua: per sostenere, cioè, che gli intellettualissimi e caustici giuochi verbali di prelati per i quali, come torneremo a costatare fra poco, l'arma dell’ironia è anche più corrosiva del vetriuolo, avrebbero invece tono
«lepido», carattere di «scherzosità cameratesca abbastanza fine a se stessa», e sarebbero perciò indici di «allegria», di ironie «bonarie» e di «spiritosaggini», da considerare partecipi dell'ideale «oratoriano» di «cristiana letizia», di «costante allegrezza dell’animo» e di «per-
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Parte prima
petua ilarità», che, come si legge nel Philippus di Agostino Valier, aveva fatto di san Filippo Neri un «Socrate cristiano».? Tanto più è urgente tornare sull’argomento, e con la maggior cura.
La lettera pubblicata trent'anni fa da Gaetano Cozzi è del 2 agosto 1603, e fu indirizzata, tra le molte di cui abbiamo notizia, dal
cardinale Ottavio Paravicino a monsignor Paolo Gualdo. Non staremo a ripetere nei particolari ciò che il Cozzi, lo storico di Paolo Sarpi, ebbe allora a documentare con dovizia di pezze d'appoggio sulla figura dei due corrispondenti. È per ora sufficiente ricordare che il cardinale Paravicino, romano, si era effettivamente formato nell’am-
bito oratoriano più stretto, al seguito di san Filippo Neri; era stato per sette anni discepolo di Cesare Baronio; e al Baronio, il quale nel 1593 gli aveva dedicato con elogi il quarto tomo degli Armati, era rimasto legato anche personalmente, fino a schierarsi a favore della sua elezione al papato in entrambi i conclavi del 1605. Monsignor Gualdo, invece, era vicentino; non estraneo all'ambiente di Roma, dove era sceso varie volte, e specie nel 1602-03, era un vivacissimo
e indipendente personaggio dell’ambiente veneto-padovano. Di costumi non proprio irreprensibili; «dotto e faceto, e con le guance asciutte, / solito sempre a dar la baja altrui, / che sapea tutti i motti di Margutte», come lo definì Alessandro Tassoni nella Secchia rapita; frequentatore insaziabile e spregiudicato di una cultura che spaziava sui più vari rami dello scibile; letterato di rinomanza, e perfino per composizioni «in antica lingua padovana»; si interessò direttamente alle cose dell’arte per tradizione familiare, tanto che, avendo forse conosciuto di persona Andrea Palladio, ed essendo in rapporti con Vincenzo Scamozzi discepolo di quegli, scrisse una «vita» del grande architetto vicentino che la critica moderna ha rivalutato; più tardi, precisamente fra il 1611 e il 1612, divenne anche amico e corrispondente di Galilei, ne sposò la causa e non esitò a difenderne il Sidereus nuncius contro gli attacchi della scienza ufficiale, già all'indomani della pubblicazione.‘ Ma rileggiamo con attenzione la parte per noi più importante della lettera, che all'apparenza può anche sembrare oscura, e che invece s’illumina a giorno se letta a fronte di tutti i quesiti che ci siamo posti fin qui, nonché della fisionomia inequivocabile e apprezzabilmente
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