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Italian Pages 151 [145] Year 2019
Brillante fotografo per la rivista americana «Look», Stanley Kubrick ha compiuto il passo verso il cinema mantenendo la fotografia quale prassi artistica di riferimento imprescindibile. E da essa trae spunto questo saggio per tentare un primo abbozzo di analisi iconografica del cinema kubrickiano, a partire dal film caposaldo 2001: Odissea nello spazio. Una preziosa dichiarazione dello stesso regista, riferita a Jack Nicholson durante la lavorazione di Shining, secondo cui il cinema si trova a «fotografare la fotografia della realtà», rende il viaggio nelle spire dell’immagine secondo Kubrick un labirintico itinerario puntato dritto verso il cuore, l’essenza stessa dell’arte cinematografica. Le immagini cardinali dell’iconografia di Kubrick sono tre: la porta, la stanza da bagno, il corridoio. Esse trovano appropriata modulazione figurativa nei singoli film, fino all’ultimo capolavoro, Eyes Wide Shut, in cui le immagini vertiginosamente interfacciano fra di loro il grande, enigmatico mito che chiude la parabola di rifondazione del genere umano, la civiltà, la cultura, l’arte.
Flavio De bernardinis (Roma, 1957), membro del comitato di redazione della rivista «Segnocinema» e docente di Analisi del Film e di Storia del Cinema presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, ha pubblicato i volumi: Robert Altman, Ossessioni terminali, Campi di visione, Nanni Moretti, Storia del cinema italiano (volume XII). È inoltre autore per il teatro (Edema/Medea, con Stefano Betti) e per il cinema, con Il gioco degli specchi e Maschere crude. Presso le nostre edizioni è uscito il saggio Arte cinematografica. Il ciclo storico del cinema da Argan a Scorsese.
Il grande cinema
Flavio De Bernardinis
L’IMMAGINE SECONDO KUBRICK NUOVA EDIZIONE AGGIORNATA E AMPLIATA
© 2002 Lindau s.r.l. Corso Re Umberto 37 - 10128 Torino www.lindau.it | [email protected] Quarta edizione: agosto 2019 ISBN 978-88-3353-169-4
Ai ragazzi dell’Aula uno de «La Sapienza», dell’Aula multimediale dell’Università di Terni, della sala proiezioni del Centro Sperimentale di Cinematografia.
L’IMMAGINE SECONDO KUBRICK
La «fotografia della fotografia della realtà»
L’immagine secondo Kubrick è la fotografia. Non si intende, qui, la fotografia nel senso delle specializzazioni cinematografiche, ovvero l’area di competenza del direttore della fotografia (che pure vi rientra), ma proprio la fotografia1. Jack Nicholson, intervistato da Jan Harlan, rilasciò la seguente dichiarazione: «Ai tempi di Shining, Stanley mi fece questa confessione: “Caro Jack, fare un film non è fotografare la realtà, ma fotografare la fotografia della realtà”»2. Cosa significa fotografare la fotografia della realtà? È quello che si cercherà qui di ricostruire. John Baxter, uno dei biografi di Kubrick, sottolinea la circostanza: «In qualche modo [Kubrick] è sempre stato un fotografo ed è rimasto un fotografo. Secondo me ciò che lo affascinava non era tanto la continuità della narrazione ma la dignità dell’immagine nelle esatte dimensioni in cui l’aveva visualizzata»3. In realtà lo affascinava la narrazione ma compresa nella dignità dell’immagine in cui confluiva e veniva visualizzata. Stanley Kubrick, come è noto, aveva iniziato la sua attività nel campo dei mass media quale fotografo per la rivista «Look». «Con il tempo», continua Baxter, «le fotografie che scattò per “Look” divennero sempre più condensate, sempre più simili a quadri. Si allontanavano dal racconto e cominciavano a sembrare scene di film possibili perfettamente illuminate. Basta pensare alle splendide fotografie del famoso pugile Walter Cartier: furono le basi del suo primo cortometraggio Day of the Fight. Il film è chiaramente l’estensione di quel servizio fotografico realizzato per la rivista»4.
Il teorico e storico dell’arte Cesare Brandi, occupandosi dello stato delle cose nel campo delle arti visive, a metà degli anni ’60 dello scorso secolo, così riferisce nei confronti dell’ultima arrivata, il cinema: «Tutto il procedimento tecnico che dà luogo al film, con le sue varie fasi, dall’ideazione della vicenda alla stesura della sceneggiatura, dalla scelta degli attori e dei luoghi alla effettiva azione di fronte alla macchina da presa al montaggio, non è altro che un’estensione e un’articolazione della messa in posa o presa d’immagine fotografica»5. Tutto il fare cinema di Stanley Kubrick sembra procedere in tale direzione, quello della messa in posa e della esposizione. La scelta di un soggetto, ad esempio, si decide rispetto a una procedura che ha molto a che vedere con la dimensione fenomenologica della fotografia. Si tratta di mettere alla prova i testi che si consultano e scorrono, romanzi e novelle, rispetto alla messa in posa, alla capacità di esposizione della struttura narrativa. Come la fotografia estrae dalla realtà la matrice esistenziale dell’oggetto che inquadra, così Kubrick decideva per un soggetto quando era possibile estrarre la matrice strutturale del campo narrativo di un testo6. Istantaneamente: «Dopo aver terminato Barry Lyndon impiegai la maggior parte del tempo a leggere. Passarono parecchi mesi, e non avevo trovato nulla di particolarmente interessante. Viene da rabbrividire quando si pensa quanti sono i libri che, specialmente in un momento come questo, si dovrebbero leggere e invece non si riuscirà mai a leggere. Per questo motivo cerco di evitare qualunque tipo di lettura sistematica e preferisco un approccio non finalizzato, che dipenda cioè dalla fortuna e dal caso nella stessa misura che dalle mie intenzioni»7. Come è facile rilevare da questa dichiarazione di Kubrick, leggere comporta il medesimo atteggiamento del reporter, del fotografo in cerca, appunto, di soggetti. Con la casualità e la fortuna in primissimo piano. Come la fenomenologia della lettura ha a che fare con la fotografia, anche la celebre ossessione del regista per la recitazione degli attori si installa nello stesso campo performativo. La procedura, superficialmente paradossale, kubrickiana del «è perfetta: facciamola ancora», riferita agli
interminabili ciak a cui venivano sottoposti gli interpreti, va in direzione della fotografia. Come accade quando si ripete una parola all’infinito tanto da non comprenderne più il significato, Kubrick cercava nel gioco estenuato della recitazione il momento in cui gli attori, sfiniti, abbandonavano la cornice di una meditata rappresentazione per toccare il limite, il bordo di una performance tutta e solo istantanea. I ciak prescelti al montaggio, così, non sono esperimenti compiuti di recitazione, ma le istantanee di una prestazione. Riguardo alla scelta delle location, in funzione delle scenografie, Ken Adam riferisce questa preziosa testimonianza in ricordo del lavoro di pre-produzione in Barry Lyndon: «In Germania, dove operava la seconda troupe, Kubrick non ci è mai andato. Si faceva mandare il maggior numero possibile di documenti fotografici e di diapositive che poi selezionava. La sua teoria è che non c’è bisogno di spostarsi per studiare la configurazione di un posto. Naturalmente in quelle scene non c’erano persone. Allo stesso modo in 2001: Odissea nello spazio non è andato in Africa per fotografare i paesaggi della prima parte. Ma in effetti ha un controllo assoluto sul suo film, analizza ogni foto e poi vuole girare con la luce naturale, senza illuminazione»8. Comincia a rischiararsi, forse, il senso della dichiarazione di Jack Nicholson appena riportata. Fare un film non è fotografare semplicemente la realtà, ma fotografare la fotografia della realtà. Ovvero, filmare significa intraprendere il cammino attraverso l’estensione e l’articolazione della messa in posa e della presa di immagine fotografica. Il cinema, o meglio il fare cinema, se è necessario (e lo è) il riferimento alla mappa delle arti visive contemporanee, funziona come un collage di istantanee, riguardanti il soggetto, il set, la recitazione, il montaggio. Dopo la metafora della fabbrica, sul piano di una sociologia, ovvero il cinema come catena di montaggio, la metafora del collage forse illumina il cinema sul piano di una estetica. Collage a cui il movimento, come effettivamente accade, si aggiunge illusoriamente. Non si tratta solo di una indicazione di poetica filmica, in questo caso kubrickiana: il collage è la figura ontologica del cinema nel suo complesso. Per averne una prova si ascolti il commento
audio di Robert Zemeckis nell’edizione dvd del film Contact (id., 1995). Ogni immagine, anche la più obiettiva, è frutto ormai di una intensa attività di «taglia e cuci». Per esempio, l’aggiustamento del colore in digitale, l’inserimento di un sole più forte o una luna brillante, o anche la differenza di velocità in porzioni distinte della medesima inquadratura fanno dell’immagine, l’immagine anche più anonima e semplicemente illustrativa, il luogo di incrocio e transito di un numero indefinito di interventi, l’ambito estetico di mirati e svariati «taglia e cuci». Quello che oggi è evidente concentrando le attenzioni sul settore della post-produzione, Kubrick lo assume, da subito, come principio costitutivo del fare e pensare il cinema. L’effetto, se si desidera, si costituisce al di qua del prodotto finito. Kubrick lavora di collage: materiali eterogenei, quali una storia, un personaggio, un attore, un set, messi alla prova dell’esposizione e della messa in posa, tarati sul filo della resa istantanea, la «fotografia della realtà». Il film, così, tutto il film altro non è che una ulteriore fotografia del “taglia e cuci” a cui i materiali di base, prescelti secondo il principio dell’istantaneità, sono sottoposti. Ovvero, la «fotografia della fotografia della realtà». A occhio nudo, si fotografa. E questo, in fondo, è un lavoro che può essere svolto anche da altri, dalla seconda troupe. A partire da una presa di immagine fotografica, a partire da un mondo già messo in posa ed esposto all’inquadratura, è allora possibile iniziare a pensare qualcosa che possa essere filmato. Un romanzo (come è noto Kubrick non prendeva in considerazione soggetti originali), se è in grado di manifestare una esposizione del mondo alla messa in posa, al lavoro della narrazione, allora sarà un buon romanzo da trasporre in film. Un attore, se è capace di abbandonare il mestiere, o il non mestiere, è lo stesso, ed esporre piuttosto una prestazione istantanea di comportamento, sarà allora un buon attore per un film. Per questo, anche per questo, il cineasta Stanley Kubrick è stato guardato con sospetto dalla cinefilia storica. La cinefilia sapeva amare il mondo e i corpi che lo abitano ben prima di qualsiasi esposizione e messa in posa. Il cinema aveva il compito di cogliere questa «grazia» del mondo, ed esprimerla
senza tradirla. È cosa nota la scarsa simpatia che Kubrick nutriva per il cinema-verità, un cinema che non costruisce una storia, ma si limita a stuzzicarla giusto per sorprenderla meglio. Per Kubrick il mondo non dispone di alcuna grazia e non chiede affatto di essere espresso e rappresentato. Il mondo, come l’universo, è indifferente agli appelli dell’autore. L’indifferenza del mondo, invece, è condizione intollerabile per qualsiasi cinefilo, storico o meno. Vedremo come il sogno, la condizione del sogno costituirà la modalità artistica privilegiata di irruzione del senso nell’ambito dell’indifferenza universale. Questa indifferenza del mondo all’occhio e al cuore dell’uomo di cinema è un caso forse unico nella storia del cinema stesso? Secondo noi, traspare, al di sotto della obbligata reverenza spirituale per il paesaggio, in Ingmar Bergman. Affiora, nonostante l’afflato cosmico, in Murnau. E traluce, persino, nelle maglie dell’assoluto naturale di Dreyer, il quale non a caso chiude il suo cammino artistico con Gertrud (id., 1964), un film tutto kubrickiano sull’amore come meccanismo autonomo, teso sul crinale di un’autoregolamentazione ossessiva. L’opera di Stanley Kubrick resta forse la testimonianza più radicale di una indifferenza del mondo e dell’occhio che trova, nella messa in posa e nell’esposizione automatica del reale a una macchina fortemente e casualmente incuriosita, il territorio paradossale di una poetica che non volle mai riconoscere mediazioni o compromessi. Che tra il cinema e il mondo vi sia dell’indifferenza suona molto di più che un semplice paradosso. Si tratta di un vero e proprio non senso morale, una bestemmia estetica. Per Stanley Kubrick il cineasta, l’artista, non polemizza, non redime, non rigenera, non testimonia, non annuncia, non crea. Se fotografa la fotografia della realtà, come è e accade, il cineasta è giocoforza un classico perché continua l’attività, indifferente, della natura: fa opera di sedimentazione. In prima battuta assomiglia di più a un agente geologico che a un messaggero del cuore. Sedimentazione e collage sono le due facce del cinema. L’artista, come un agente atmosferico, deve filtrare, erodere, limare, accumulare, scuotere. Cogliere
l’istante in cui l’immagine è quello che è. Senza impeto prometeico o romanticismi, ma con scrupolo laborioso e parimenti indifferenza epocale. Se il mondo rimane esposto, indifferentemente, alla messa in posa delle immagini, l’artista dovrà selezionare solo e soltanto quelle capaci di sostenere un secondo lavorio, una ulteriore messa in posa ed esposizione, quella cinematografica. Immagini diversissime fra loro per natura, eterogenee come accade nel collage, ma disponibili al «taglia e cuci» con cui si costruisce il film. Non vi è altro progetto al di fuori di questo. L’inserimento del progetto, nella poetica kubrickiana, assomiglia così al rapporto formulatosi tra architettura e urbanistica all’indomani del secondo conflitto mondiale. Se l’ontologia del cinema riguarda il caso del collage, la poetica filmica di Kubrick prova a inserire il collage stesso del cinema in un’ipotesi di architettura del film. In reazione al razionalismo architettonico interbellico, basato fondamentalmente sulla categoria della funzione (città ideale = città funzionale), il passaggio dal piano della linearità funzionale a quello della complessità ambientale promuove un aggiustamento di prospettiva. Si ripropone, in breve, «il problema di una simbologia delle forme e quindi di un’architettura che non si deduce per corollario dal tracciato, ma lo precede, lo determina, lo rende significante anche a costo di romperne la continuità»9. La poetica cinematografica kubrickiana sembra effettivamente muoversi in un simile territorio. Un film kubrickiano si pone, esplicitamente, il problema di una simbolica delle forme. Sarà uno degli obiettivi di questo scritto individuarne qualcuna, anche se è il caso di precisare come Kubrick si astenga dalla pratica, consueta, del trattamento formale. Kubrick non tratta un volto, un paesaggio, un evento per piegarlo infine a un significato aggiunto. Messi alla prova della resa istantanea, la fotografia, un volto, un paesaggio, un evento sono immediatamente istituiti. Il celebre monolito di 2001: Odissea nello spazio, non è un simbolo esito e frutto del trattamento specifico a cui è sottoposto un oggetto dato. Come accade nel campo del mito, il monolito non è affatto un simbolo trattato, ma l’istituzione, istantanea, di un campo simbolico. Bergman istituisce figure simboliche, e lo fa muovendosi all’interno della visione
spirituale del paesaggio, che in ogni caso si presta di suo al trattamento: Bergman riesce a piegare il filo del trattamento alla tela dell’istituzione. Fellini istituisce figure simboliche, e vi riesce danzando all’interno dello spazio circense, che in partenza e in fede si concede comunque al trattamento: Fellini riesce a volteggiare il trapezio del trattamento fin dentro l’acrobazia dell’istituzione. Kubrick istituisce figure simboliche o, più semplicemente, immagini, muovendosi rigorosamente nell’universo. E l’universo, di suo, è indifferente a ogni ipotesi di trattamento. Nel vuoto universale, allora, le figure, o vengono istituite, o non sono. L’architettura di ciascun film, pertanto, non si deduce dalla linea del tracciato che «la città del cinema» intraprende e, periodicamente, esibisce. L’architettura di ciascun film non si consegna al solco tracciato dal trattamento formale dello spazio, ma davvero precede il cinema come semplice strategia, lo affronta direttamente nella sua caratura ontologica di «taglia e cuci», lo determina in anticipo distruggendo l’illusoria continuità che il sistema/cinema volentieri manifesta per ragioni, appunto, «urbanistiche», ossia di occupazione ragionata e produttiva del territorio. Come a dire: Kubrick non «inventa» la steadicam, fra l’altro già usata da Boorman in L’esorcista II: l’eretico (1977): Kubrick, alla lettera, istituisce la steadicam in Shining, ossia la preleva dall’indifferenza, la scollega da un trattamento esclusivamente formale, la rende significante affrancandola dall’uso meramente funzionale all’effetto (l’effetto volo del demone Pazuzu) a cui un’operazione comunque coraggiosa, il film di Boorman, l’aveva inesorabilmente affidata. Il rapporto, che proporremo più avanti, fra Kubrick e Walter Benjamin, va nella direzione di una dialettica che privilegia la capacità di una irruzione del senso in grado di spezzare l’illusione di linearità del significato. Un’altra riflessione riguardante l’architettura, a opera di R. W. Ingarden, si avvicina forse al cuore della poetica cinematografica kubrickiana: «L’architettura è, accanto alla musica assolutamente pura, l’arte umana più creativamente costruttiva, al contrario della letteratura, della pittura e della
scultura, nelle quali il fattore della ricostruzione gioca un ruolo importante in tutto ciò che appartiene al mondo rappresentato»10. Come nota Roberto Masiero, «nell’architettura si ha una varietà infinita di immagini, le quali sono autenticamente percepite e non ricostruite come accade nella pittura»11. La concezione kubrickiana del fare cinema, quale fotografia della fotografia della realtà, si pone subito al di qua dell’estetica della rappresentazione. Come nell’architettura le infinite immagini che costituiscono l’opera risultano direttamente percepite e non ricostruite in un sistema codificato rappresentativo, così nel cinema. Si vedrà, nelle pagine che seguono, come uno degli esiti, consapevoli, del cinema kubrickiano sia l’impossibilità da parte dello spettatore di ricostruire il film. E tuttavia, come è stato esaurientemente notato, è solo nella totalità di ogni singolo film che ha senso far scattare qualsiasi forma di approccio12. Ma sarà proprio la totalità, come in Shining, a sfuggire ogni volta, cosa che del resto accade puntualmente nella ricezione percettiva di un’opera di architettura: non fosse altro che per il rapporto, costitutivo in architettura, interno/esterno, impossibile da cogliere collegialmente. L’architettura di un film kubrickiano, così, è costruzione pura. La «varietà infinita» di immagini che costituisce lo spazio universale si mette alla prova della percezione fotografica istantanea. Il collage, o sedimentazione, di materiali e di operazioni che ne viene, il fare cinema, si rende disponibile al «taglia e cuci» con cui si costruisce un film. Film che, come un’opera autentica di architettura, o un sogno, non è possibile ricostruire compiutamente. Per scendere nell’esempio, 2001: Odissea nello spazio, su esplicita ammissione dell’artista, è un progetto di experience movie impossibile da ricostruire. L’architettura del film è il luogo in cui infinite immagini si danno, simultaneamente, alla percezione. Come accade nella stanza finale in cui approda l’astronauta Bowman, ma in genere in tutti i finali kubrickiani, il tempo si annulla, e l’architettura del film ritorna, attraverso la costruzione pura dello spazio/tempo della proiezione, dell’esecuzione del film stesso in quanto architettura in atto,
alla simultaneità assoluta, indifferente, del collage/cinema da cui era partito. Il film, così, è struttura autonoma che rompe la continuità dello spazio cinematografico, senza mai cadere nella furia distruttiva dei movimenti di avanguardia, perché ciò che riaffiora, o sedimenta, infine, sarà, e potrà essere soltanto il cinema. Collage → Progetto architettonico → Collage La «varietà infinita» di immagini, preda dell’indifferenza, passate al vaglio del collage, materiali eterogenei sedimentati e selezionati (un attore, un set, una storia, una cinepresa steadicam…), si fissano istantaneamente nello spazio artistico del cinema. In questo istante, le immagini trascorrono dall’indifferenza universale all’istituzione dell’arte cinematografica. Su questo collage di materiali estetici, fissato istantaneamente, si produce il progetto architettonico di costruzione del film. Tuttavia, il film, una volta «edificato», ecco il paradosso, non si dà più nella modalità della «rappresentazione». Come per esempio accade con il sogno, esperienza che sovente Kubrick avvicinava al cinema, ovvero qualcosa che non è più esaurientemente ricostruibile una volta esperito. L’edificio «film», come accade per un’opera di architettura, non può mai essere abbracciato completamente con lo sguardo. Il film deve essere soltanto autenticamente percepito. Il caso più evidente, in area kubrickiana, di tale non rappresentabilità è Shining, di cui l’artista licenzia una doppia versione, una per il mercato americano, l’altra per quello mondiale. Come accade nella celebre metafora freudiana dell’inconscio, paragonato alle costruzioni barocche romane edificate sopra, e dentro, un’antica rovina (come l’Overlook Hotel si innalza su un cimitero indiano), due strutture occupano lo stesso luogo. Eventualità non rappresentabile. Il film, così, evento installato nello spazio artistico e tuttavia progetto impossibile da ricostruire, ritorna all’istantaneità da cui era partito. Diventa un punto nello spazio. Punto denso, collage fitto di materiali eterogenei. Non cometa impazzita nel firmamento, però, o grumo di avanguardia sperduto nel vuoto, ma istituzione. Esperienza estetica intensa e riconosciuta pubblicamente come tale. Spazio artistico localizzabile a puntino, anche se, come si è detto, né definibile, né giudicabile
una volta per tutte. Ma pienamente disponibile e fruibile. Kubrick, d’altro canto, si muove, con coscienza e perizia, nell’arte come nell’industria. Il film kubrickiano, che è sempre un film di genere, assume per esempio il genere per assorbirne tutta la potenzialità cinematografica disponibile, però senza mai compierlo davvero, nell’accezione di costituire una tappa protesa nel compimento del tracciato assegnato al genere stesso. L’architettura di un film kubrickiano non rappresenta aspetti ed eventi del mondo che nel film trovano adeguata ricostruzione. La maniacale riesumazione del XVIII secolo eseguita in Barry Lyndon va nella direzione di una distanza abissale fra lo spettatore contemporaneo e il ’700 sullo schermo. Il ’700 non è rappresentato, ma costruito per immagini, pittoriche e fotografiche. Il cinema, certo, infonde una ulteriore costruzione, attivando il progetto del movimento e del suono. Ma questa ri-costruzione non è ancora, non lo sarà mai, all’insegna della rappresentazione, del rispecchiamento. Le immagini, come recita puntualmente il cartello finale del film, sono tutte uguali. Le immagini, dopo il grande progetto di riesumazione del XVIII secolo, sono tornate, istantaneamente, alla modalità estrema della sedimentazione, del collage, ed è impossibile ricostruire qualcosa che si deposita e sedimenta. Non si tratta, quindi, di giocare con il bilancino e soppesare la qualità delle immagini di un film appena visto. Le immagini, in quanto immagini, ritornano immagini. Kubrick suggerisce: piuttosto che tentare l’operazione impossibile di ricostruire, è preferibile ripetere l’esperienza. Kubrick era esplicito al riguardo, i suoi film erano appositamente costruiti per essere visti più di una volta. È come la recitazione degli attori, perfetta ma facciamola ancora. Allo spettatore riuscirà senza dubbio, in un certo istante, la «fotografia» della fotografia della fotografia della realtà. Si badi che non si tratta di paradosso o bizzarria nei confronti di un artista, Kubrick, la cui attività è posta come semplicemente inimitabile. Così è e funziona, sempre e ovunque, il cinema. E soltanto che in Kubrick il dispositivo, il meccanismo si mostra con consapevolezza maggiore che altrove. Il cinema quale fotografia della fotografia della realtà, qualcosa come un sorprendente apice fenomenologico13.
Elusa la questione morale del rapporto macchina da presa/mondo, annichilita la pretesa di codificare comunque il film nell’ambito dell’ordine del discorso, saltata a piè pari la consuetudine della mimesi, resta il labirinto della percezione edificato e specchiato nella varietà infinita di immagini autenticamente percepite. Queste immagini non sono semplici dati mentali ma materiali concreti di costruzione. La fotografia costituisce la materia, esposta e messa in posa, sedimentata, che si procederà a selezionare per il passaggio all’audiovisivo filmico, una ulteriore fotografia dotata, per convenzione illusoria, di movimento. Le immagini, appena esposte, già si sedimentano là dove, con indifferente automatismo, esse cadono, si raccolgono. Quindi si selezionano: – le immagini depositate nelle riviste di architettura e di scienza (ad esempio, i modelli spaziali della NASA per 2001: Odissea nello spazio); – le immagini depositate negli album dei grandi fotografi (ad esempio, le gemelle di Diane Arbus quale referente diretto delle figlie assassinate da Delbert Grady, il vecchio custode, in Shining); – le immagini depositate nelle location prescelte (ad esempio, le diapositive dei paesaggi africani sui quali si apre 2001: Odissea nello spazio); – le immagini depositate nei luoghi reali in cui la storia del film si svolge (ad esempio, le foto originali della città vietnamita di Hué che fondano e giustificano, perché pertinenti in fatto di architettura, la decisione di utilizzare quale set la fabbrica londinese dismessa in Full Metal Jacket); – le immagini depositate lungo la storia dell’arte (ad esempio, la pittura inglese del ’700 in Barry Lyndon); – le immagini depositate negli altri film – ad esempio, il ballo fra Alice e il dongiovanni ungherese Szavost, in Eyes Wide Shut, quale sedimentazione fotografica del ballo fra Giulietta e lo spagnolo in Giulietta degli Spiriti (1965, di Federico Fellini);
– le «visioni» depositate nell’apparato cinematografico (ad esempio, il reclutamento di Ken Adam per ideare la War Room del Dottor Stranamore. in virtù del suo lavoro di scenografo sui set della serie cinematografica di James Bond). A ciò si aggiunga, come accennato, il lavoro, o meglio il lavorio della messa in scena quale estensione fenomenologica della messa in posa fotografica: – la cattura della ripresa in cui l’istante della performance attorica coincide con l’istante della riproduzione cinefotografica, ovvero il lavoro dell’interprete quale prestazione istantanea di comportamento; – la cattura, anche casuale, del testo letterario di riferimento, del soggetto, la cui immagine, ovvero la struttura narrativa estratta, al modo di un prelievo fotografico, può consistere e riversarsi nell’articolazione del lavoro filmico; – la cattura della ripresa secondo coordinate pure di messa in posa (ad esempio, la non infrequente richiesta di rifare la stessa inquadratura, spostata magari di dieci centimetri sulla sinistra). Il film kubrickiano tende a questa condizione, e riesce a raffigurarla compiutamente: – In 2001: Odissea nello spazio, la stanza settecentesca finale è la riproduzione, la fotografia delle immagini che gli extraterrestri hanno prelevato dalla mente, o inconscio, di David Bowman, esemplare ultimo della razza umana: una fotografia della sintesi delle immagini di secoli di storia e cultura; – Tutto Arancia meccanica è una sedimentazione di immagini e procedimenti della pop culture, a cui la musica, come vedremo, intende conferire una certa progettualità; – Barry Lyndon è una riproduzione fotografica delle riproduzioni pittoriche del XVIII secolo, che opportunamente selezionate accedono al movimento cinematografico. – In Shining tutto l’Overlook Hotel è un album di istantanee, che l’istantanea finale, in grado di comprendere Jack Torrance, sintetizza vertiginosamente;
– In Full Metal Jacket si viaggia nei labirinti spettrali della fotografia e del reportage di guerra; – Eyes Wide Shut è il grande collage del sogno e del risveglio, della veglia e del sonno, dell’eros e di thanatos. Il cinema fatto di strati di immagini spaziotemporali che come moduli (mattoni, secondo la suggestione di 2001: Odissea nello spazio) si costruiscono attraverso le spinte e controspinte di un progetto, parimenti, chiaro e nascosto, lucido e indistinto, evidente ma ancora lontano. Qui risiede allora la distanza con l’architettura: il progetto non è dato mai «a monte», forma compiuta che è solo il caso di eseguire. Nel cinema l’esecuzione è parte integrante del progetto. Secondo il celebre aforisma, l’unico detentore del «final cut» altri non è che il proiezionista, e regolarmente Kubrick si preoccupa dello stato delle sale, il colore della parete vicina allo schermo, in cui deve proiettarsi Arancia meccanica. Nel cinema progetto e performance (della macchina, dell’uomo) sono le due facce della stessa medaglia. Il congelamento non è semplice mummificazione, immagine dell’effimero che si glorifica nella effigie dell’eterno, ma è esattamente il suo rovescio: l’immagine dell’eterno, l’archetipo junghiano, il monolito se si vuole, o magari l’anima, la natura, la storia, folgorati nel punto di un’istantanea in cui la sedimentazione si arresta e si blocca, in cui il progetto, parte integrante dell’esecuzione, deve, è costretto a interrompersi pena l’inesauribilità del procedimento. Il film, così, non è tanto forma compiuta, quanto forma interrotta, fulminata sulla via che conduce a Damasco e destinata, in sé, a un’approssimazione virtualmente infinita. L’edificio del film ritorna al collage del cinema e qui, giocoforza, si interrompe. Non finire mai. I lunghi, in alcuni casi persino estenuanti, periodi kubrickiani di pre-produzione, produzione e post-produzione non sono altro, come sempre nel caso del cinema, che la ricerca dell’istante giusto in cui interrompere. Dire «stop». Il quadro di riferimento, infine, se proprio si desidera una «casella», all’interno della storia del cinema, in cui risulta meno problematico leggere l’opera di Stanley Kubrick, e
tentare così almeno una sorta di classificazione, è quello, per usare qui la formula di Goffredo Fofi, dei «grandi autori della crisi», ovvero quei cineasti dotati di una «forte rappresentatività, fatta di cesure e aperture, ma in fondo di irripetibilità. E questo sia rispetto al cinema d’autore sia a quella rivoluzione che il cinema ha vissuto negli anni ’60 […]. Per strade diverse hanno incarnato una dimensione personalissima […] degni di figurare a fianco dei creatori più importanti degli altri campi dell’arte contemporanea per originalità di temi e di linguaggio»14. I cineasti a cui si fa riferimento, così, più che autori nel senso tradizionale, francese, del termine, risultano a pieno titolo degli artisti. E all’interno delle questioni della storia dell’arte, e della cultura, vanno pertanto inquadrati. Dreyer, Welles, Fellini, Bergman, Buñuel, Losey, Antonioni, Resnais e certamente Stanley Kubrick, «questi nomi esemplificano meglio di altri il travaglio e le risultanze di una visione dell’artista e del cinema interni alla storia e alla crisi della cultura borghese […] questi artisti sono, ciascuno a suo modo, i più arditi esempi di una tradizione culturale adulta nel campo del cinema»15. Per quanto ci riguarda, la condizione della crisi costituisce senz’altro, il culmine, e la gloria, della cultura borghese. Ma non occorre dimenticare, al di là dell’aria di famiglia individuata nel segno di una fedeltà, e al tempo stesso di una irriducibilità alla crisi del tempo borghese, che Stanley Kubrick, come per esempio, nel secolo precedente, Giacomo Leopardi nella poesia, non è mai caduto nel tranello di elevare la cultura borghese a condizione universale dell’anima umana. Perché, esattamente come Leopardi, attestando l’indifferenza della natura e del mondo nei riguardi dei casi e delle miserie umane, Kubrick ha saputo realizzare un cinema dell’uomo e per l’uomo, al di là della rigida situazione di «crisi» tutta interna al momento storico attraversato. Cìò accade anche secondo lo spirito profondo, esuberante dalle parole di un grande scrittore, di cultura ebraica, il quale ha non pochi punti di contatto con l’ispirazione artistica di Kubrick: «Da ciò che occorre per vivere non ho, a quel che mi risulta, portato con me quasi nulla, ma soltanto l’umana
debolezza comune a tutti. Con questa – che sotto tale aspetto è una forza poderosa – ho affrontato gagliardamente quanto c’era di negativo nel mio tempo, cui mi sento molto vicino, e che non ho il diritto di combattere ma, in un certo senso, di rappresentare»16. Il pensiero di Franz Kafka, se si esclude la metafora della «rappresentazione», è davvero una perfetta fotografia dell’arte kubrickiana, come tutto il cinema di Kubrick, dal canto suo, resta una istantanea fedele dell’elaboratissima ispirazione kafkiana. Se il rapporto con Walter Benjamin, a cui si accennerà più avanti, è condotto sul crinale della suggestione squisitamente ermeneutica, il filo rosso fra Kubrick e Kafka è innanzitutto un dato filologicamente attestato17. Kafka e Kubrick si toccano sul terreno delle strutture narrative: ad accomunarli, infatti, è la modalità del racconto onirico. Intendiamo con racconto onirico una narrazione cadenzata sulla dialettica sogno/risveglio. Il che non significa semplicemente il passaggio dallo stato di sonno allo stato di veglia, ma il passaggio esperito all’interno del «sogno» inteso come dato percettivo dominante. Kafka e Kubrick si incontrano nella selezione delle stesse immagini, per esempio, come si vedrà in 2001: Odissea nello spazio, l’immagine della porta. Poiché il presente scritto, in fondo, come d’altro canto recita il titolo, intende essere una sorta di indagine di iconografia kubrickiana, si individueranno tre, non di più, immagini costitutive del cinema kubrickiano: la porta; la stanza da bagno; il corridoio. Si vedrà come tali immagini si moduleranno in figure. La camera da letto, molto presente nell’opera kubrickiana, è intesa qui come estensione della stanza da bagno. E non viceversa. Questo piccolo sistema iconografico a tre immagini, secondo quanto discusso in precedenza, si considera istituito nell’opera filmica kubrickiana. Per esigenze di sintesi si prenderà in considerazione la filmografia kubrickiana a partire da 2001: Odissea nello spazio, vero mito di fondazione di tutta l’opera dell’artista. Al lettore e al suo (eventuale) piacere,
rintracciare i segni dell’iconografia nei film precedenti a 2001: Odissea nello spazio. Dopo aver occupato la casella della diacronia, il posto nella storia del cinema, resta da porsi la questione sincronica del rapporto tra il cinema di Stanley Kubrick e la mappa dell’arte contemporanea, che significa anche interrogarsi, una volta ancora, ma non si ritenga oziosa la digressione, sul rapporto tra le arti contemporanee e il cinema nel suo complesso. È nostra profonda convinzione, infatti, che il cinema debba trovare opportuna collocazione all’interno, non diciamo di un «sistema», ma certamente di una carta, una mappa dell’arte contemporanea. La poetica kubrickiana, come abbiamo visto, si costituisce nella formula, licenziata dallo stesso artista, della «fotografia della fotografia della realtà». La formula mette in primo piano, senza dubbio, la questione della macchina. Il cinema, innanzitutto, ha a che fare con un dispositivo macchinico. La macchina filmica costituisce l’interfaccia tra l’artista e la realtà filmata. Ripercorriamo sinteticamente le prospettive attraverso cui si tracciano i percorsi narrativi e figurativi dei film kubrickiani, a partire da 2001: Odissea nello spazio: – in 2001: Odissea nello spazio la macchina filma dalla prospettiva del vuoto. Il titolo originale, A Space Odissey fa riferimento infatti a un’odissea dello spazio; – in Arancia meccanica la macchina filma dalla prospettiva di Alex, il quale, come ha notato Bruce F. Kavin, è una sorta di «mindscreen». La macchina, quindi, filma dalla prospettiva di questo schermo della mente; – in Barry Lyndon la macchina filma da una prospettiva siderale. È molto semplice, i celebri obiettivi Zeiss che Kubrick recupera dalla NASA per girare a lume di candela erano stati progettati per fotografare dai satelliti. La macchina, quindi, filma dalla distanza siderale sufficiente, da una stella per esempio, a cogliere la luce del XVIII secolo proveniente dalla Terra; – in Shining la macchina, steadicam alla mano, filma dalla prospettiva del fantasma;
– in Full Metal Jacket la macchina filma dalla prospettiva dell’al di là. I marines, come si dice esplicitamente nel film, sono infatti coloro che «hanno già visto l’al di là»; – in Eyes Wide Shut la macchina filma dalla prospettiva del doppio sogno di marito e moglie. Essa si colloca nel punto di interfaccia fra il sogno di lui e il sogno di lei. Detto questo, non è detto nulla. La macchina non filma direttamente la realtà, ma la fotografia della fotografia della realtà. Tutto il lavoro al di qua della macchina (che tuttavia, giocoforza, della macchina fa parte) si svolge, come si è visto, all’insegna del collage. Materiali eterogenei che si collocano nel medesimo spazio. La fotografia, nell’arte contemporanea, partecipa della medesima dimensione, il collage. Individuazione dei frammenti di «realtà» eterogenee. Estrazione del frammento dalla serie di strati assemblati e raccolti, e sua esposizione obiettiva, messa in posa. Il regista procede esattamente in questo modo: estrae frammenti di qualsiasi genere o tipo, e li sottopone, istantaneamente, alla messa in posa obiettiva dello spazio cinematografico, ossia lo spazio in cui i frammenti si dispongono ad accedere al progetto del film. La messa in posa seleziona i frammenti: quelli scartati restano sedimentati negli strati di dati e immagini da cui provengono (ma da cui, in qualunque momento, possono essere prelevati di nuovo), gli altri accedono alla dimensione del collage. Il collage è lo spazio cinematografico dove i frammenti sono esposti, valutati e tarati nel segno della resa obiettiva, istantanea, nei confronti del progetto architettonico di costruzione del film. La tradizionale opposizione fra istante e posa infine non si dà: la messa in posa altro non è che un istante dilatato. Una volta costituito il collage dei materiali eterogenei, colti nel segno dell’istantanea, capaci di tenere il passo dell’obiettività che il cinema esige dai materiali che seleziona, si procede con il lavoro filmico propriamente detto, che arriva fino al montaggio, alle proiezioni test, all’uscita commerciale. Il film, così, si installa nella dimensione del collage. Installandosi la mette subito fra parentesi, la sospende all’istante una volta ancora. La sospensione istantanea dei
materiali costituisce un’ulteriore verifica. Un attore può accedere al collage del cast, ma poi finire scartato durante le riprese. Il film, progetto e insieme esecuzione, procede alla sospensione dei materiali del collage, li verifica nuovamente nel segno dell’obiettività istantanea del set (o del montaggio, o dei giornalieri, o delle proiezioni test…), procedendo nella propria performance architettonica di costruzione del film, per giungere infine alla realizzazione dell’opera. Installazione della macchina «film» nel collage cinematografico di materiali, sospensione «fotografica» di questi, performance artistica. (SOSPENSIONE) FOTOGRAFIA Estrazione, istantanea, di materiali e loro messa in posa: collage cinematografico
↔
FOTOGRAFIA Installazione. Performance: forma continuamente interrotta
Le dimensioni del collage, dell’installazione e della performance collocano il cinema nell’ambito delle questioni riguardanti le arti visive contemporanee. Il procedimento, così, rimanda sia alla fotografia che all’architettura. La fotografia, infatti, resta il principio selettivo del materiale eterogeneo, raccolto e implicato nella dimensione del collage; l’architettura è il progetto del film che tuttavia aderisce, interfaccia con la propria esecuzione. Quando Sydney Pollack chiese a Kubrick indicazioni sulle modalità di recitazione e interpretazione della scena del biliardo in Eyes Wide Shut, il regista rispose che occorreva semplicemente provare, vedere, quindi decidere. Al solito, bloccare l’istantanea giusta lungo un collage di prestazioni. Bloccata l’istantanea giusta, sospesa nel collage di prove e prove e prove, il film vi si installa, di nuovo ri-fotografandola, ossia disponendola convenientemente alle esigenze di tutta la performance, fatta di tante altre istantanee, da cui dovrà un giorno scaturire l’opera. L’opera filmica, allora, non è opera pittorica, o letteraria, o musicale: essa non è un progetto compiuto, scritto o disegnato, da esibire
nella modalità, indispensabile ma in fin dei conti non puramente «necessaria», dell’esecuzione. Ma un’opera in cui il progetto fa tutt’uno col dispositivo macchinico, automatico, istantaneo da cui non può svincolarsi: non si dà il disegno, e l’esecuzione. Il disegno, nel cinema, è già tutto compreso nell’esecuzione, nell’interfaccia uomo/macchina che lo costituisce18. E l’interfaccia procede per esecuzioni istantanee, frutto di ispirazione artistica quanto di resa obiettiva di tutto l’ingranaggio. L’opera filmica, pertanto, nel segno della costruzione di «istantanee» che la costituiscono, sempre passibili di essere sollevate da altre «istantanee» non considerate (oppure valutate, scartate ma poi «redente» all’improvviso) non sarà più una forma di rappresentazione compiuta, ma una forma compiutamente interrotta. La letteratura sul cinema abbonda di testimonianze sulla caratura di scelte mai sentite pienamente come definitive da parte dei cineasti: di salvataggi e illuminazioni all’ultimo momento, per cui bisogna rigirare alcune scene, sostituire una musica, cambiare il dialogo in fase di doppiaggio. E poi il varco delle anteprime, le proiezioni dove tutto torna a essere messo in discussione per una volta ancora (per non parlare dell’estetica del dvd, dove il film si dà precisamente nell’interfaccia delle versioni che lo costituiscono: E.T. versione 1.0, 1.1, 1.2, 1.3… 1.1000)19. Un film non si conclude mai, si interrompe: deve interrompersi perché vi sia infine qualcuno che ne fruisca. Senza avere la possibilità di ricostruirlo, inoltre, data la modalità dell’interruzione che lo costituisce. Architettura particolare, dunque, il cinema, ma anche arte assai prossima alla prassi architettonica nella modalità della fruizione, ossia la «percezione autentica di una varietà infinita di immagini». Che non sarà possibile ricostruire. La centralità, dunque, della fotografia, nella poetica cinematografica kubrickiana, sarà utile sottolinearlo ancora una volta, consente all’artista di lavorare le figure di cui si serve, già al di qua, alle spalle della macchina da presa. Da cui l’apparente, da tutti in ogni modo sottolineata, «freddezza» del cinema kubrickiano, la sua aria di museo iconografico. Come ha evidenziato Claudio Marra, studiando il «dadaismo intrinseco della fotografia»20, la pratica
duchampiana del ready-made, esporre una ruota di bicicletta nello spazio di un museo, presenta sorprendenti affinità con la prassi fotografica di esposizione di una lastra sensibile alla luce. «Al fotografo il compito di individuare una sua realtà, alla macchina quello di registrarla nella sua totalità. Due operazioni strettamente connesse ma anche distinte che, curiosamente, richiamano nella pratica certe operazioni messe a punto da alcuni artisti degli anni ’20 del ’900: penso al ready-made di Duchamp…»21. Viene individuato, quindi, «una sorta di a priori della fotografia che precede ogni possibile elaborazione linguistica e ogni singolarità stilistica dell’opera»22. La fotografia, il sentire innescato dall’irruzione della fotografia nella cultura e nella società, diventa una sorta di condizione generale soggiacente alla mappa delle arti contemporanee. In questo «precedere» la singolarità dell’opera della fotografia risiede anche, in principio, il modus kubrickiano di lavorare le figure al di qua della macchina da presa. Al di qua della macchina, nella pratica artistica cinematografica, lo abbiamo visto, ci sono già l’esposizione e la fissazione istantanea, tanto per l’arte (l’individuazione di una storia, gli interventi su di essa…), quanto per la macchina (le foto degli inviati in Africa per le diapositive in 2001: Odissea nello spazio…), di un grappolo di materiali eterogenei: questo, in sintesi, l’a priori fotografico. Sull’a priori fotografico, si installa la macchina-film23. Nei singoli film, lo vedremo, questo «precedere» si farà pienamente sentire. Resta però evidente, adesso, come l’eredità duchampiana si faccia persino impalpabile nella poetica cinematografica di Stanley Kubrick. È la fase della progettazione architettonica del film, se non altro, a metterla in sordina. Oppure, il coefficiente di artisticità che un film giocoforza esibisce: il film non consiste certo in un manufatto, come un quadro, ma nemmeno in un’operazione d’avanguardia puramente concettuale. Il film consiste, piuttosto, in un paradosso che solo in apparenza può considerarsi tale, ossia in un meccanofatto, l’interfaccia performativo di macchina e uomo. Il meccanofatto, qualcosa che è «fatto» con una «macchina»,
esprime bene, fra l’altro, la caratura del film come forma interrotta. L’opposizione, tipica dell’arte contemporanea, fra tecnica e concettualità, ossia fra l’opera come esito di un processo produttivo e artistico, e l’opera che si «scioglie» come puro stimolo estetico, innesco di impressioni e reazioni di carattere percettivo o mentale, ci sembra, in tal modo, superata dal cinema, e in particolare dal cinema di Stanley Kubrick, che per noi, si sarà compreso, racchiude e comprende il cinema nel suo complesso. Il meccanofatto dell’opera si affida all’automatismo della fruizione onirica dello spettatore. La poetica del cinema quale «fotografia della fotografia della realtà» va nella direzione di una «tecnica della tecnica»: un’abilità per cui si provvede al «taglia e cuci» dei materiali individuati e fissati attraverso il collage, e un’abilità per cui si procede alla fissazione seconda di tali materiali, nel segno dell’installazione e della performance che il «fare film» vi esercita. Collage e performance si influenzano vicendevolmente: nel segno di un’interfaccia, la performance filmica installata nel collage cinematografico lo riaggiusta e parimenti si riaggiusta. In questo senso, l’installazione è il luogo deputato dell’interfaccia24. Il «final cut», poi, può accadere sempre, dopo le anteprime, dopo le uscite commercialmente stabilite e, Kubrick non ci è materialmente arrivato, al momento del dvd e le sue infinite versioni. Così, ancora, nelle modalità dell’interruzione e della fissazione, l’istante «film» ritorna, riaccede, interfaccia con l’istante «cinema». Ovvero, la performance riaccede al collage e l’arte non si ritrova «superata» dall’estetica, ma, cosa che soddisferebbe persino Hegel, vi interfaccia. CINEMA
(INTERFACCIA)
«Taglia e cuci», collage di materiali fissati ed esposti
FILM Installazione filmica sospensione istantanea del collage
performance architettonica, opera Il cinema di Stanley Kubrick, così, e l’idea di cinema che lo stesso Kubrick affida a una battuta, un cenno, un riflesso condizionato diretto a un attore, ossia la fotografia della fotografia della realtà, illuminano in maniera sorprendente il luogo e il ruolo del cinema nell’ambito della mappa dell’arte contemporanea. La ruota di bicicletta che Duchamp colloca al museo è così indice del sentire fotografico che l’arte contemporanea assume quale condizione dell’arte stessa: la ruota viene infatti esposta allo spazio museale, come una lastra sensibile è esposta alla luce. Ma la ruota, come è esposta, viene anche installata, alla lettera, nel museo: il ready-made è già l’installazione di un oggetto in uno spazio inappropriato. Da cui, la modalità estetica dello straniamento. L’oggetto, in tal modo, transita nella condizione di evento. Se è valido, e lo è, il parallelismo fra ready-made e fotografia, anche la fotografia partecipa della dimensione esposizione/straniamento. La fotografia espone pellicola e oggetti alla sensibilità della luce, e operando su di essi nella modalità dell’istantanea, li «strania», li decontestualizza rispetto alla collocazione originaria. C’è solo da aggiungere, ma non sarà questione irrilevante, che il parallelismo non scatta tanto fra ready-made e fotografia, quanto fra readymade e macchina della fotografia. L’automatismo istantaneo, l’evento, infatti, riguarda sia il momento dello scatto, del clic, quanto il momento della stampa del negativo fotografico. Produzione e ricezione. Che cosa succede, nel cinema, che è giusto un’estensione fenomenologica della macchina della fotografia? Nel cinema, e il lavoro kubrickiano di pre-produzione lo dimostra, un grappolo di materiali eterogenei è prelevato dai rispettivi contesti, esposto alla sensibilità della macchina cinema, fissato obiettivamente, e compreso così nello spazio cinematografico del collage. Viene meno, qui, la modalità dello straniamento, perché lo straniamento si fa norma: il
processo di decontestualizzazione dei materiali è infatti integrale. Nel collage cinematografico, infine, si installa la macchina-film: i materiali vengono ulteriormente sospesi, esposti a una nuova condizione di intervento automatico istantaneo (i ciak, i giornalieri…). La macchina-film, così, provvede a eseguire, in via performativa, il progetto di costruzione architettonica del film. Nell’evento dell’installazione, progetto e esecuzione coincidono. L’architettura del film non lascia spazio fra l’idea e la realizzazione: quello spazio è occupato dalla performance istantanea e automatica della macchina. Fra collage cinematografico e performance filmica, si costituisce, giocoforza, un’interfaccia: l’esecuzione della macchina-film, installata, avrà influenza sulla caratura dei materiali del collage, come gli stessi materiali eterogenei del collage cinematografico, fissati, incideranno sulla prassi dell’esposizione filmica. La fotografia della fotografia della realtà del cinema kubrickiano fotografa puntualmente l’ontologia e la prassi della macchina cinema nel suo complesso. Nella sua caratura fenomenologica, e anche nella genesi storica. Si presti attenzione, infine, a questa nota di Harold Rosenberg, studioso di arte contemporanea: «Un tempo l’eroe veniva rappresentato da una statua di marmo o di granito. Oggi a Mosca la tomba di Lenin diviene statua contenendo il corpo reale del leader. La tomba è il più grande collage del mondo; incorpora un oggetto di non arte, il corpo umano, in una struttura estetica tradizionale. Ne risulta che il cadavere è trasformato in qualcosa che colpisce l’immaginazione come un’opera d’arte, avendo, però, il peso di un dato reale. Trasformare le cose trasportandole nell’arte e trasformare l’arte inserendola in una scena d’attualità è la forma di illusionismo peculiare del ventesimo secolo»25. Rosenberg, soddisfatto della provocazione lanciata, non si accorge che sta affidando al cinema il ruolo di unità di misura di tutta l’arte contemporanea. Il cadavere di Lenin, infatti, risulta sospeso fra l’arte e la realtà. E tale sospensione accade nella tomba, spazio del collage in cui configurazione estetica e
materiali bruti di realtà si incorporano. Solo il cinema ha saputo, e potuto istituire tale paradosso, dove l’istituzione cancella e abolisce ogni tendenza all’illusionismo. Riassumiamo, una volta ancora, il percorso. Il cineasta sceglie storie e soggetti, esplora location, testa le steadicam, tasta gli attori: è il momento del collage, in cui la realtà, o meglio materiali e dati provenienti dalla realtà sono prelevati, esposti e fissati in uno spazio estetico. Questo spazio estetico si chiama cinema. Questo spazio estetico riguarda una modalità specifica del sentire: per prelevare, esporre e fissare i materiali occorre infatti un sentire fotografico, che sappia cogliere, nello spazio dell’istantanea, la pregnanza filmica dei dati a disposizione. È opportuno ribadire che la modalità dell’istantanea risulta questione di spazio, non di tempo. Il materiale non è rubato e sottratto alla cronaca quotidiana, oppure mostrato e rivelato alla realtà: in tal caso, l’istante sarebbe semplicemente un istante di sottrazione o di rivelazione, e si rimarrebbe rinchiusi, di nuovo, nella gabbia della rappresentazione. Il materiale, invece, è un frammento di realtà sospeso nello spazio estetico del collage: è lo spazio, quindi, a configurare l’istante in senso estetico. Dalla rappresentazione, allora, si transita nell’ambito della configurazione, o meglio della costruzione, come esige la mappa storica e culturale dell’arte contemporanea. Il collage di materiali eterogenei, il «taglia e cuci» a disposizione del cineasta, configura così la «fotografia della realtà». Un cinema, però, ancora al di qua della macchina da presa. Quando entra in azione la macchina da presa, il film si installa nello spazio estetico del collage. Si tratta dunque di un’installazione, come esige ancora la mappa dell’arte contemporanea. L’installazione non qualifica però lo spazio, che è già qualificato di suo come collage. Allo stesso modo, il collage non può marcare più di tanto l’installazione filmica: il film, in linea di principio, di nulla ha bisogno, se non di un caricatore pieno di pellicola. Tra collage e installazione, allora, non si instaura un rapporto di appropriazione: l’industria non si appropria dell’arte, né l’arte tenta di scalzare l’industria. Sarebbe una lotta persa in partenza. Tra collage e installazione, tra cinema e film si instaura un rapporto di interfaccia. Questo
interfaccia si dà nella modalità, caratteristica dell’arte contemporanea, ossia della performance. Il collage agisce sull’installazione e l’installazione agisce sul collage. L’esito è l’ulteriore sospensione istantanea dei materiali del collage, ovvero la «fotografia della fotografia della realtà». Questa seconda sospensione, questo nuovo intervento del sentire fotografico implica la possibilità di un numero indefinito, n, di sospensioni istantanee del materiale. Come avviene una seconda, se ne possono dare tre, quattro, mille, (la modifica del dialogo di un personaggio in bocca a un attore, l’operazione del montaggio, il «final cut» del protezionista, le anteprime, l’edizione dvd…). Per questo motivo, il film non è mai forma compiuta, ma forma interrotta. Forma compiutamente interrotta, dove ogni sospensione del materiale, ogni singolo «cut», ogni blocco istantaneo interrompono la performance. Ma la performance filmica ha questo di paradossale, il fatto di essere, da subito, una performance interrotta (ciak: il personaggio A pronuncia la battuta a Venezia, e il personaggio B risponde a Panama). La forma/film sarà infine un collage di interruzioni. Forma compiuta (il collage) e interrotta (la performance continuamente «sospesa»). Tutto ciò, senza il sentire fotografico alla base del procedimento, sarebbe semplicemente impossibile. Solo la fotografia fa sì che un pezzo, bruto e volgare, di realtà (non lavorato) risulti un modulo artistico. Il cinema è un’architettura modulare, ma un’architettura in cui esecuzione e progetto coincidono, «stop» dopo «stop». Se l’uomo fa affidamento pur sempre al fiuto e alla creatività, la macchina garantisce la necessaria interruzione del «genio». L’uomo è lì per «formare», la macchina sta lì per «interrompere». Cinema come interfaccia macchina/uomo. Il paradigma puro e semplice dell’arte contemporanea. Abbiamo cercato di descrivere il cinema di Stanley Kubrick in rapporto alla definizione della struttura artistica sottesa alla pratica cinematografica messa in atto. Ossia, il collage e la sospensione, quindi la configurazione di una forma, compiuta e insieme interrotta, in relazione alle questioni poste in essere nello spazio di una possibile mappa
delle arti contemporanee. Ora, è forse utile accennare alle medesime problematiche discusse, ma affrontate da un altro punto di vista. Ovvero, dopo la «struttura», la «storia»: la collocazione della figura di Stanley Kubrick, artista di cinema, all’interno di una ipotetica, tuttavia non astratta, ma ponderata, linea evolutiva del linguaggio cinematografico stesso. Direttrice che può essere così sintetizzata: Griffith → Welles → Resnais → Kubrick – l’opera di David W.Griffith rappresenta l’invenzione del linguaggio cinematografico; – l’opera di Orson Welles costituisce l’istituzione del linguaggio cinematografico; – l’opera di Alain Resnais è la Grande Maniera del linguaggio cinematografico; – il cinema di Stanley Kubrick è la sintesi delle funzioni artistiche precedenti. È evidente come Griffith, nell’età del cinema delle origini, prima dell’avvento del sonoro, abbia stabilito i fondamenti di una grammatica del cinema, attraverso per esempio l’utilizzo del primo piano e del cross-cutting, ossia il montaggio alternato, A-B A-B A-B, in cui due azioni distinte nello spazio, per esempio l’alternanza «inseguitore (A) / inseguito (B)», oppure «situazione di pericolo (A) / speranza di salvezza (B)», vengono incrociate grazie al montaggio, provocando nello spettatore un effetto di tensione e, al momento del lieto fine, di catarsi liberatrice. Griffith, così, pone le basi della grammatica del cinema come effetto di continuità narrativa tra immagini interfacciate a scopo di risoluzione catartica. Se Griffith pone una grammatica, si pensi a Citizen Kane (Quarto potere, 1941), Orson Welles istituisce il linguaggio cinematografico come dimensione autonoma, capace di istituire, appunto, una dinamica narrativa irriducibile a qualsiasi altra forma artistica e di espressione. Per Welles, il film è un testo, e come tale investe quella che Barthes chiamerà una «responsabilità delle forme», ossia il fatto che il mondo è un sistema di segni che chiedono di essere, o non essere, convenientemente decifrati. Il testo filmico, così, è
l’esito produttivo di un lavoro sul linguaggio che riguarda anche lo spettatore. Ogni lavoro testuale ha allora a che fare con la questione del soggetto. Se Griffith aveva posto la questione del soggetto in termini di comunicazione diretta, una storia d’amore e di passione, veicolo di coinvolgimento emotivo dello spettatore per le sorti dei personaggi filmati, Welles affronta direttamente la questione del soggetto quale centro espressivo di tutta la costruzione cinematografica. Il soggetto di Citizen Kane altro non è che il «soggetto Charles Foster Kane (K)», inquadrato e raccontato da angolazioni prospettiche diverse (soggettive), senza che queste nulla risolvano davvero (Rosebud), ma tali e tante da rilanciare infine allo spettatore la questione medesima del «soggetto», ovvero di cosa e come lo spettatore abbia visto ciò che gli è stato mostrato, oppure ha immaginato di vedere. Si tratta anche di una posizione politica. Come scrive Goffredo Fofi, Welles affronta di petto «la necessità di dover portare lo spettatore a un giudizio integrante, che a questo punto riguardi non tanto l’individuo che il male rappresenta, quanto il sistema che lo produce»26. L’istituzione del linguaggio cinematografico passa quindi per l’istituzione della figura dello spettatore, inteso non solo come polo terminale di una efficacia grammaticale, diretta e tendenziosa, ancora debitrice di altre forme narrative, il teatro (Griffith fu attore di teatro popolare), il romanzo o racconto di appendice, ma anche parte attiva, parte in causa del Senso ultimo, e primo, dell’espressione cinematografica come fatto autonomo di linguaggio. All’insegna di una ambiguità narrativa che è frutto dell’istituzione linguistica cinematografica quale costruzione prospettica di un edificio, un’architettura audio-visiva, che sfugge a una comprensione ultima e «pacificata», data e definita. Il cinema delle origini, con Griffith, è un cinema che subito parla al pubblico, affascinandolo con la grammatica del discorso audio visivo finalizzato all’esuberanza ed euforia della narrazione. Per questo, Cesare Brandi, ancora nel 1945, potrà dichiarare che «come tecnica il cinematografo si pone dunque sul piano dell’oratoria, che ricerca e sfrutta tutti gli effetti per commuovere e fare scaturire la convinzione di
un’emozione»27. La grammatica filmica, alle origini, pone il cinema sia come illustrazione di un’azione, sia quale tribuna sonante di un’emozione28. Il cinema delle origini, Griffith, è grande spettacolo popolare, un modello di comunicazione che giustamente Brandi accosta alla modalità dell’arringa tribunizia, quindi analogo all’efficacia persuasiva del genere discorsivo dell’oratoria, il modus della fascinazione e della persuasione da uno schermo che è anche palco e tribuna dell’oratore, il regista, capace di affascinare e catturare gli astanti. Orson Welles, sulla base della grammatica del discorso griffithiana, dell’oratoria illustrativa che traduce il film in racconto orale, a propria volta assegna al film la dimensione del testo, nell’accezione anche di una scrittura. Una macchina espressiva, e narrativa, dove il senso è inscritto nell’ambito di una ricchezza di significati, che ciascun spettatore, integrando a propria volta il processo comunicativo, può comprendere senza tuttavia definire una volta per tutte. Un testo che lo spettatore non solo avverte come ricco di fascino, ma che lo stesso spettatore può, e deve, anche ri-scrivere autonomamente. La macchina testuale, così, consente l’attivazione piena ed esplicita della funzione metalinguistica: in breve, il cinema è in grado di parlare non solo del mondo, delle sue passioni e avventure, ma anche di se stesso. Citizen Kane è anche un film sulla pregnanza dei codici cinematografici, cosa e come si vede e si ascolta, cosa e come lo spettatore vede e ascolta, ovvero sulla complessità e ricchezza di senso del linguaggio del cinema. Attraverso la funzione metalinguistica, che accede alla funzione poetica, il cinema abbandona la giovinezza dell’oratoria, del racconto orale di fascinazione e persuasione, ed entra nella fase adulta del racconto/saggio, una narrazione che mostra e riflette al tempo stesso. Soggetto del film, così, è sia il mondo, con i suoi personaggi e eventi, sia il cinema stesso, con i suoi codici espressivi specifici, irriducibili ad altri linguaggi. Se l’invenzione del cinema stabilisce le regole grammaticali della comunicazione narrativa oratoria, allora l’istituzione del linguaggio cinematografico passa per la consapevolezza che il film sia un testo polisenso, e il cinema
un linguaggio complesso. Questo perché anche il mondo del XX secolo è il luogo deputato della ricchezza di significati e della complessità di direzioni del senso. La questione del «soggetto» investe quindi l’opera di Alain Resnais, Se in Griffith è un meccanismo grammaticale di accesso alla comunicazione, se in Welles è la capacità di istituire lo spettatore quale luogo di costruzione del senso, allora in Resnais è un passaggio ulteriore nella direzione di una raggiunta modernità del cinema. Griffith aveva fondato la grammatica del cinema sulla capacità di produrre un discorso che raggiungesse l’emotività dello spettatore. Welles aveva tradotto il discorso in macchina testuale generatrice infinita di senso riguardante sia il mondo, sia il cinema. Con Resnais, assumiamo adesso una terminologia presa in prestito dalla storia dell’arte: rispetto a Welles e Griffith, il cinema di Alain Resnais è il cinema della Grande Maniera. Il Manierismo è una concezione dell’arte tesa a esprimere innanzitutto un’idea, ossia «rivolta alla conoscenza del soggetto più che dell’oggetto»29. Il soggetto, qui, è esplicitamente il cinema. Dice Resnais: «A mia conoscenza, tutti i film del mondo utilizzano una sintassi occidentale alla Griffith»30. La Grande Maniera è così una riflessione sui possibili sviluppi e evoluzioni di una sintassi codificata: ovvero, una riflessione profonda sulle risorse del linguaggio cinematografico. La Maniera è una diversa idea di cinema, capace di produrre inaspettate forme linguistiche cinematografiche. In Hiroshima mon amour (1959), il fine non è rappresentare la realtà di Hiroshima. «Tu non hai visto niente a Hiroshima» dice infatti ripetutamente un personaggio, ma esprimere l’idea di Hiroshima, ciò che Hiroshima ha lasciato impresso nelle coscienze, e ancora sommuove tra i dubbi, gli orrori le speranze. Nella macchina testuale wellesiana, il soggetto in fondo è ancora l’oggetto del racconto, ossia l’enigma del «cittadino Kane», il «soggetto-K», che è tanto «mondo» quanto «cinema», che si deve provare a sciogliere. In Resnais, la questione si scioglie integralmente nella soggettività del flusso della memoria e dell’immaginario prodotti dalla memoria stessa. I flussi narrativi tendono alla ricerca di un senso così
con-fuso, come è raffigurato subito nella pelle e la cenere sugli amanti della sequenza iniziale, da risultare in continua ricostruzione e decostruzione. La con-fusione è la Grande Maniera del cinema moderno, ossia la dimensione dove il tempo e lo spazio fluiscono uno nell’altro senza alcuna preoccupazione di stabilire una qualsiasi oggettività. La Grande Maniera è una «soggettività-flusso» così disincagliata dalla grammatica delle origini (ma da cui comunque dipende), da eccedere sia l’oggetto, ovvero l’evento «Hiroshima», sia il soggetto, ossia il tema «mon amour». Già il titolo, accostando lessemi inaccostabili, l’orrore e l’amore, è esplicito nello stabilire la Grande Maniera, ossia il passaggio dall’oggetto stabilito che si erge a soggetto unico, l’enigma «Kane», al flusso immaginario disincagliato dalle convenzioni linguistiche date, in transito tra oggettività dello spazio, «Hiroshima», e soggettività del tempo, «mon amour». Resnais lavora così per un «cinema che, dalla prima all’ultima inquadratura», sono parole sue, «si proclami immagine cinematografica: un cinema in cui lo spettatore sia messo a confronto con un’immagine su uno schermo, e da un capo all’altro dello spettacolo si renda conto che è davanti a uno schermo e a un’immagine fotografica»31. Una concezione del cinema integralmente artistica, capace di esprimere, e tendere al massimo, il valore estetico dei materiali a disposizione. L’istituzione wellesiana, ovvero il linguaggio cinematografico capace sia di mostrare il mondo, sia di riflettere il linguaggio cinematografico stesso, si faceva enigma e insieme trasparenza (la sfera di Rosebud in fondo è di vetro), e si tratta del momento del classico cinematografico, l’equilibrio sottile fra il mistero del soggetto «Kane» e l’obiettività del reportage, l’inchiesta e le testimonianze. Resnais punta immediatamente sul «piano della ricerca e del dibattito»32, ovvero il livello tipico delle poetiche manieristiche, poste, mosse e subito «squilibrate». Lo squilibrio, si è detto, riguarda la con-fusione tra i piani del reale e dell’immaginario, i flussi di memoria e le tracce della Storia che, nel dolore e nell’orrore, ancora si fa cronaca. Ricerca e dibattito esplicitano così la dimensione permanente
di crisi del linguaggio cinematografico, che è altro carattere tipicamente manieristico. Il cinema come ricerca infinita, per Resnais, ossia continuo sviluppo, problema ricorrente, riflessione irrisolta. Crisi della comunicazione e del senso. Crisi della cultura borghese incapace di afferrare la complessità del linguaggio moderno. E con il linguaggio, inadatta a interpretare il mondo. Non così in Welles, che ancora negli anni ’80 non rinunciava a dichiarare come «il cinema non sia mai andato oltre Quarto potere»33, confermando così la fattura genuinamente classica, talmente in equilibrio tra struttura e forma da apparire quasi bloccata, e così squisitamente istituzionale, del suo cinema. Per Resnais, invece, pur nella dominante della sintassi griffitthiana (il cross-cutting, il montaggio parallelo, di cui anche Quarto potere è in fondo debitore), ogni film sembra dimostrare che in fondo ancora nulla è stato fatto: «Penso di essere un formalista: do molta importanza alla forma, occorre che appaia perché l’emozione passi nel film»34. La forma «appariscente», e sempre nascente, è il segno della ricerca infinita sul piano del linguaggio, del soggetto-cinema. Il tentativo dell’arte (cinematografica) di essere all’altezza di un mondo la cui complessità di linguaggi e di senso rischia di sfuggire. Dice Resnais: «Non sono come Orson Welles che diceva che, se avesse potuto, non avrebbe mai smesso di montare, e che sarebbe rimasto volentieri due anni su un film, ma comprendo il suo punto di vista. C’è sempre qualcosa da perfezionare. Non si può affrettare un montaggio, accade sempre qualcosa tra un’inquadratura e l’altra»35. Se Griffith è il pioniere, Welles è il classico, allora Resnais sarebbe certo il moderno, nel senso di un Velázquez che era arrivato a sostenere di essere interessato non alla pittura delle cose definite, ma di ciò che sta tra le cose definite. Di mirare quindi non a una ipotesi, evidentemente ingenua, di rappresentazione canonica della realtà, ma alla soggettività stessa della pittura. Così Resnais, la cui ricerca mira anch’essa alla soggettività stessa del cinema, a partire dagli eccessi di Hiroshima mon amour, in cui la narrazione è affidata a una manipolazione dello spazio e del tempo cinematografici che non ha
precedenti: «C’è stato un momento in cui sembrava che le regole della costruzione drammatica fossero fissate e che occorresse tentare di fare qualcos’altro. Ora la battaglia è vinta, e si può fare tutto, in qualsiasi film. La sala, è quasi un peccato, non reagisce più. Mi piace molto mettere da qualche parte in un film qualcosa che non è stato mai fatto. Sarà un dettaglio, durerà un minuto. Non sarà visto dal pubblico e dalla critica, ma amo avere questo feticcio»36. Filmare così l’irriducibilità formale del cinema inserita e affiorante tra i segmenti canonici del film: le tracce di una soggettività che, pur quasi invisibili, in balia del regime dominante e «cieco» dei milioni e milioni di immagini reali e virtuali contemporanee, tuttavia, alla maniera del cinema, ancora si sentono, e toccano, squilibrano, rilanciano. Alla conclusione del solco, dopo il pioniere, Griffith, il classico, Welles, e il moderno, Resnais, c’è Stanley Kubrick. La «fotografia della fotografia della realtà» sembra ricondurre il cinema alla sua qualità specifica di medium, il medium fotografico. Questa attenzione al supporto fotografico sottolinea innanzitutto una concezione del cinema come puro e semplice fatto artistico. Concezione quindi che rende legittima l’inscrizione di Kubrick nel solco Griffith-Welles-Resnais. Scrive Enrico Ghezzi: «I film di Kubrick sono così accanitamente “cinema” da divenire “altro”, semplicemente “opera”, perché egli vuole ogni volta essere nuovo nella tecnica e nella concezione, e davvero ogni film vuole superare l’altro»37. Più precisamente, ogni film intende superare il precedente in fatto di cinema. Questa sarebbe l’«opera», questa deve essere l’«arte». Ad ogni film kubrickiano, esibito il puntuale tour de force, dove l’equilibrio tra ricerca espressiva e stabilità della comunicazione, tra genere cinematografico e opera d’autore, sembra finalmente raggiunto, segue il film successivo in cui invece tutto collassa, esplode, eccede questo stesso equilibrio. La dialettica virtualmente perfetta tra l’equilibrio, il classico, e l’eccesso, il moderno, allora, costituisce la dimensione più-che-moderna, iper-moderna dell’opera cinematografica di Stanley Kubrick. L’eccesso, però, non è elettricità avanguardistica o euforia postmodernista. L’eccesso è posto perché la circolarità tra la
tradizione assestata dei codici cinematografici, ossia la «sintassi», e la «testualità», Griffith/Welles, e l’irruzione artistica capace di sconvolgere il codice, ossia il flusso resnaisiano, venga infine rispettata. Ovvero: posta la dialettica tra codice e eccesso, tra convenzione e alterità, tra testo e opera, tra genere e autore, tra il film e il cinema, ci sono sempre una circolarità e una ri-flessione, c’è sempre il ritorno alla fotografia. In 2001, alla conclusione delle due ore e mezzo di sintesi iper-moderna di grammatica griffitthiana, complessità testuale wellesiana, e flusso temporale resnaisiano, il feto rigido bloccato e immobile dell’ultima inquadratura del film altro non è che una pura e semplice fotografia dell’uomo nuovo, di cui è impossibile dire o mostrare alcunché; in Arancia meccanica, l’immagine finale di Alex abbracciato alla ragazza bionda, entrambi nudi e applauditi, raffigura la fotografia dell’accordo siglato tra il potere politico, che si vuole strategico e razionale, e l‘istinto, che altrettanto razionalmente, da par suo, ha deciso di stringere alleanza col potere politico; in Barry Lyndon, l’ultima sequenza è tutta concentrata sull’immobilità fredda, glaciale, rigida e certamente fotografica di Lady Lyndon, bloccata nel gesto meccanico di firmare carte; in Shining, infine, la fotografia in bianco e nero con la data 4 luglio 1921 è l’esito congelato, quasi ibernato, dell’evidenza, altrettanto fotografica, che «Mister Torrance, lei è il custode dell’albergo, è sempre stato lei: io lo so, perché sono qui da sempre». Nei finali kubrickiani ci sta insomma la fotografia di tutto il film appena proiettato. Oltre alla «fotografia della fotografia della realtà», in Kubrick è così disponibile anche la «fotografia della fotografia del cinema»: questo, il carattere iper-moderno della sua arte cinematografica. La modernità cinematografica, esito della traiettoria Griffith-Welles-Resnais, confluisce così nella iper-modernità di un cinema, quello kubrickiano, in cui il linguaggio filmico è assunto sia nei suoi caratteri fondativi puri e semplici, inquadratura e stacco di montaggio, sia nelle autorevoli dinamiche evolutive, l’enigma della narrazione filmica e il flusso temporale dell’esperienza cinematografica. Una simile
tensione, certo artistica, produce una ri-flessione tale della forma espressiva del cinema da tracciare, flettendosi e piegandosi, una circolarità tale da ricondurre alla sostanza del medium audiovisivo stesso, la fotografia. In breve, la soggettività dell’espressione cinematografica, fulcro problematico dell’evoluzione del cinema moderno, riconduce all’enigma della fotografia, dimensione in cui il tempo e lo spazio si concentrano, si bloccano, e si preparano a un nuovo rilancio nell’esperienza filmica successiva. Il film, quindi, è certamente «testo», come posto dalla poetica di Orson Welles, ed è parimenti «flusso», secondo la ricerca artistica di Resnais, ma occorre evitare, anzi scansare la deriva per cui l’evoluzione linguistica e la ricerca artistica si riducano al un postmodernistico «tutto vale tutto». Per arginare la deriva di una modernità sin troppo euforica e sbrigliata, in cui l’immaginazione progettuale corre il rischio di giustificare innanzitutto se stessa, Kubrick ritorna alla sostanza dell’espressione cinematografica, alla materia del cinema, al medium. Il medium è la fotografia, poiché il cinema altro non è che fotografia in movimento. Fotografia che fotografa ripetutamente se stessa, 24 volte al secondo. Prima del digitale, in cui il fotogramma sarà sostituito dal frame, Kubrick compie così un’operazione di sintesi della tradizione classica e della modernità. La sintesi è il segno dell’arte ipermoderna kubrickiana. Se il moderno altro non è che un desiderio di sperimentazione a partire da un classico stabilito, Kubrick scandaglia innanzitutto il nucleo artistico elementare del cinema, ossia l’inquadratura e il taglio di montaggio. Nel cinema kubrickiano, l’inquadratura viene costruita come assolutamente unica, ossia la sola possibile, quella, e non altre, capace di configurare convenientemente il campo di ripresa. Il taglio di montaggio, lo stesso Kubrick lo ha sovente ammesso, viene effettuato solo quando si ritiene esaurita la carica informativa, narrativa e figurativa dell’inquadratura medesima. Scandagliati quindi i codici elementari, fondativi, del linguaggio cinematografico, ovvero realizzati l’inquadratura e il taglio di montaggio come segni talmente equilibrati fra loro da risultare infine unici e irripetibili, Kubrick affronta così il «classico» in maniera così radicale, sintetica, che il suo cinema
risulta pertanto una sorta di «più-che-classico», dimensione artistica tesa al culmine dell’«iper-classico».
una
Al tempo stesso, Kubrick si occupa del versante, manieristico, della sperimentazione. Enrico Ghezzi scrive infatti che Kubrick «ha giocato tutto (troppo?) sull’evoluzione verso una civiltà audiovisiva»38. I segni stabiliti, inquadratura e taglio di montaggio, ossessivamente istituiti quali elementi linguistici unici, fondativi, talmente «classici» da apparire irripetibili, secondo il dettato delle poetiche manieristiche, devono comunque esprimere una idea di cinema. Come la Grande Maniera (resnaisiana) esige, a poco a poco il film kubrickiano si manifesta come una soggettività-flusso, uniformemente accelerata, narrativa e espressiva, mirante a una ulteriore sintesi cinematografica per cui tutto il racconto per immagini, il prodotto di una «civiltà audiovisiva», anche per sfuggire all’entropia stagnante delle poetiche postmodernistiche, confluisce e si concentra in una dimensione ri-flessa, sintetica nell’accezione letterale, nuovamente e ripetutamente elementare, ovvero la fotografia. I finali del film kubrickiano sono luoghi dove tutto il film, scandito dai segni unici e irripetibili del classico, inquadratura e taglio di montaggio, e mosso da un’energia a flusso, modernissima, che lo scuote anche in chiave di esperienza vertiginosa (il trip psichedelico di 2001, la fuga della steadicam nel labirinto innevato in Shining…), si addensa in una contrazione di fissità e rigore (il feto astrale, l’istantanea 4 luglio 1921…) che richiama il medium primitivo della fotografia. Il «moderno» che è talmente «moderno» da scavallare nel primitivo, perché la progettualità infinita del cinema sia sempre radicata nella materia dell’espressione cinematografica stessa, la fotografia; la «maniera», parimenti, che è talmente «maniera», ossia «idea di cinema», soggettività in azione, da ricorrere alla materialità «oggettiva» del medium di base, la fotografia, per non scivolare nel nulla postmodernistico del «soggettivismo beato e pago di sé». Tutto ciò fa dell’arte cinematografica kubrickiana una dimensione ben «più-che-moderna», ovvero iper-moderna. In altra chiave si può affermare che Kubrick metta sull’avviso che la fotografia possa forse risultare il rimosso del
cinema, immagine cristallizzata (classica) del mondo, e insieme figura chiara ma ambigua (moderno). L’iper-moderno cinematografico è quella dimensione in cui è come se il cinema potesse tornare in qualsiasi momento alla fissità gelata della fotografia. Come se la fotografia fosse il «dark side of the moon», oppure l’«other side of the wind», di un cinema giunto ormai a una edenica fase «pan-audiovisiva», ossia una dimensione estetica e sociale in cui sia finalmente possibile vedere davvero il visibile tutto intero, e certamente anche di più. La fotografia sarebbe allora il rimosso di questa cattiva euforia postmodernistica, in grado di rilanciare una modernità che deve essere ancora più «moderna», poiché quella «semplice» si è fatta sedurre dalle ludopatie di una concezione «post», in cui tutto è ormai stato fatto, visto, sentito. La «civiltà audiovisiva», così, non deve naufragare nell’ultravisibilità postmodernistica, ma mantenersi salda sulla linea «classico-moderno-grande maniera», ossia Griffith-WellesResnais, di cui il momento kubrickiano è quella dimensione «più-che-moderna», iper-moderna, che salvaguarda gli elementi fondativi del cinema, ne attiva tutte le possibili sperimentazioni, ma non dimentica la materia di cui il sogno è comunque fatto e realizzato: la fotografia. 1
V. LoBrutto, Stanley Kubrick. L’uomo dietro la leggenda, Il Castoro, Milano 1999, p. 43. Mentre la direzione della fotografia ha prodotto molti registi, dalla fotografia ne provengono pochi e Stanley Kubrick è il più importante fra loro. 2
Estratto (minuto 94) dal dvd Stanley Kubrick: A Life in Pictures, prodotto e diretto da Jan Harlan per la Warner Bros. (2001). 3
Citato in M. Di Flaviano, F. Greco S. Landini, Stanley and Us, Lindau, Torino 2001, p. 87 del volume accluso al VHS. 4
Ivi.
5
C. Brandi, Le due vie, Laterza, Bari 1966, p. 157.
6
Cfr. l’articolo scritto da Stanley Kubrick su «Sight and Sound» nell’inverno 196061, dal titolo Parole e film, in occasione dell’uscita di Lolita: «La messa in scena deve trovare uno stile proprio, cosa che farà se riesce davvero a impadronirsi del contenuto. E nel fare questo farà emergere un altro lato di quella struttura che è confluita nel romanzo». L’esigenza di far emergere l’altro lato della struttura romanzesca è precisamente frutto di un sentire fotografico, per cui la fotografia ha il compito di far emergere l’altro lato, quello non immediatamente percepibile, della
struttura della realtà. L’articolo si può leggere in V. Nabokov, Lolita (sceneggiatura), Bompiani, Milano 1997, pp. 275-279. 7
M. Ciment, Kubrick. Edizione definitiva, Rizzoli, Milano 1999, p. 185.
8
Dichiarazione di Ken Adam in Ciment, Kubrick cit., p. 214. Cfr. anche LoBrutto, Stanley Kubrick cit., p. 367: «Kubrick trovava che questo fosse un metodo più efficiente della tipica ricerca delle location: inviare ricercatori incaricati di portare delle fotografie dei luoghi visitati. La maggior parte degli ambienti del film [Arancia meccanica] furono identificati e trovati notandoli dapprima sulle riviste». 9
Cfr. G. C. Argan, L’arte moderna 1770/1970, Sansoni, Firenze 1970, p. 610. L’ammirazione di Kubrick per l’opera architettonica di Wright è ampiamente attestata. Cfr., ad esempio, la dichiarazione di Kubrick sulla lavorazione di Shining, in Ciment, Kubrick cit., p. 191: «I gabinetti in rosso, dove Jack incontra Grady, il fantasma del precedente guardiano, si ispiravano ai gabinetti creati da Frank Lloyd Wright per un hotel dell’Arizona». 10
Citato in R. Masiero, Estetica dell’architettura, Il Mulino, Bologna 1999, p. 201.
11
Ivi, p. 200.
12
Cfr. E. Ghezzi, Kubrick, Il Castoro, Milano 2002, p. 145, riguardo all’estetica filmica di Shining: «Kubrick sembra infine suggerire che la ricerca del senso è vana: esso non è nelle «soluzioni”, nelle chiavi di volta in volta reperibili, nei singoli puzzle che ne possono derivare […]. Così, per una volta, è solo nella generalità del film che si può trovare il suo segreto, nella descrizione più semplice del suo apparire evidente; molto più che nelle varie ipotesi interpretative prodotte dal gioco ottuso o acuto del critico/intellettuale». Il rifiuto dell’inesausto gioco ermeneutico, a vantaggio di una descrizione del film stesso nella semplicità del suo «apparire evidente», richiama ancora una volta la dimensione della fotografia. È come dire che il critico non deve scavare nel testo/film, ma limitarsi piuttosto, in simmetria con la poetica dello stesso Kubrick, a scattare una sorta di «fotografia della fotografia del film». 13
Cfr. C. Brandi, Teoria generale della critica, Editori Riuniti, Roma 1998, p. 228: «Nella fotografia e nel cinema, è la restituzione a vista di un dato aspetto naturale che, pur nelle diversità innumerevoli con cui può venire intenzionato, deve sempre comunicare il senso della flagranza della cosa, e cioè della esistenzialità della matrice». Il cinema, dunque, si costituisce, per la riflessione fenomenologica brandiana, come un «superamento della flagranza nella flagranza stessa». Ci si limiti in questa sede a rilevare qualcosa in più di una semplice analogia fra questo superamento della flagranza in se stessa con la poetica kubrickiana del film quale «fotografia della fotografia della realtà». 14
M. Morandini, G. Fofi, G. Volpi, Storia del cinema, Garzanti, Milano 1988, vol. II, p. 312. 15
Ivi, p. 313.
16
Citato in F. Kafka, La metamorfosi e altri racconti, Garzanti, Milano 1974, p. XX (introduzione a cura di F. Masini). 17
Cfr. M. Herr, Kubrick, Grove Press, New York 2000, p. 12: «Kafka, who he [Kubrick] thought was the greatest writer of the century, and the most misread». 18
Cfr. R. Barilli, L’arte contemporanea. Da Cézanne alle ultime tendenze, Feltrinelli, Milano 1984, p. 315: si afferma che l’arte contemporanea, nelle sue ultime tendenze, a partire dalla metà degli anni ’60 del ’900, si sviluppa «in un momento di massima maturità degli strumenti di registrazione fotomeccanica e elettronica, che da tempo hanno dato alla cultura occidentale gli opportuni mezzi alternativi rispetto al disegno, alla scrittura, al tracciato su un supporto piano». 19
Cfr. l’ottimo saggio di M. Bittanti sulla questione, nell’industria cinematografica contemporanea, delle versioni continuamente ritoccate e restaurate di un film: M. Bittanti, E.T. 1.1.: il film come software, in E. Alberione (a cura di), Incubi e meraviglie. Il cinema di Steven Spielberg, Unicopli, Milano 2002, pp. 155-162. 20
Cfr. C. Marra, Fotografia e pittura nel Novecento, Bruno Mondadori, Milano 1999, pp. 49-57. 21
Cfr. U. Mulas, La fotografia, Einaudi, Torino 1973, p. 147.
22
Cfr. Marra, Fotografia e pittura cit., p. 57. In un altro studio, Marra, ancora, discutendo le teorie di autori quali Brik, Bazin e Kracauer, evidenzia l’affinità fenomenologica tra fotografia e cinema, concludendo: «L’“in più” del cinema, da individuarsi ovviamente nella presenza del movimento, è appunto qualcosa che solo s’aggiunge alle possibilità della fotografia, aumentandole, ma non modificandole nella sostanza». Il cinema è dunque semplicemente la fotografia della fotografia della realtà: cfr. C. Marra, Forse in una fotografia. Teorie e poetiche fino al digitale, CLUEB, Bologna 2002, p. 24. 23
Nella teoria semiotica di Francesco Casetti, si fa cenno, esplicitamente, al principio della installazione. In questo caso, che ci pare unico negli studi di cinema, si tratta dell’installazione dell’enunciazione nell’enunciato (e poi, lo sguardo in macchina, che è figura cardinale della funzione della installazione). Ci sembra che Casetti individui puntualmente, sul piano di una pragmatica, ciò che è attivo, e che noi cerchiamo di delineare, sul piano di un’estetica: cfr. F. Casetti, Dentro lo sguardo. Il film e il suo spettatore, Bompiani, Milano 1986. 24
Cfr. M. Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino 1999, p. 135: «È l’installazione che sente il visitatore, lo accoglie, lo tasta, lo palpa, si protende verso di lui…». Al di là della metaforica sessuale, Perniola individua puntualmente la caratteristica dell’installazione come interfaccia di dimensioni, in questo caso fra qualcuno che «visita» e qualcosa che «si protende». 25
Cfr. H. Rosenberg, The Anxious Object, Rizzoli, Milano 1967, p. 71. Nella stessa pagina si trova un’altra osservazione che è utile accostare all’immagine di Stanley Kubrick artista contemporaneo, ovvero agente geologico: «Un altro artista dell’epoca della prima guerra mondiale, Jean Arp, sosteneva che ci si doveva
imbattere nelle sue sculture come ci si imbatte in una pietra levigata dalla corrente: il che significa che le sue creazioni erano equivalenti a quelle della geologia. 26
G. Fofi, Capire con il cinema. 200 film prima e dopo il ’68, Feltrinelli, Milano 1977, p. 22. 27
C. Brandi, Carmine o della pittura, Editori Riuniti, Roma 1992 [1945], p. 204.
28
F. De Bernardinis, Arte cinematografica. Il ciclo storico del cinema da Argan a Scorsese, Lindau, Torino 2017, p. 190. 29
G. C. Argan, Storia dell’arte italiana, Sansoni, Firenze 1972, vol. 3, p. 4.
30
M. Regosa (a cura di), Alain Resnais. Il metodo, la creazione, lo stile, Biblioteca di Bianco & Nero, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, Roma 2002, p. 61. 31
Ivi, p. 64.
32
Argan, Storia dell’arte italiana cit., p. 5.
33
P. Biskind (a cura di), A pranzo con Orson. Conversazioni tra Henry Jaglom e Orson Welles, Adelphi, Milano 2015, p. 120. Traduzione di Mariagrazia Gini. 34
Regosa (a cura di), Alain Resnais cit., p. 79.
35
Ivi, p. 69.
36
Ivi, p. 92.
37
E. Ghezzi, Stanley Kubrick, La Nuova Italia, Firenze 1983, p. 112.
38
Ivi, p. 138.
2001: Odissea nello spazio
La porta In 2001: Odissea nello spazio la storia del genere umano inizia con una fotografia. O meglio, con una diapositiva. I paesaggi africani che introducono all’episodio degli umanoidi sono diapositive scattate da una troupe inviata appositamente da Kubrick, e proiettate frontalmente, sullo sfondo del teatro di posa con gli attori1. Il paesaggio immobile, solcato dalle presenze animali nello spazio di proscenio, subisce la visita notturna del monolito. La scimmia umanoide percepisce il monolito al momento del risveglio. Il risveglio, secondo le coordinate del pensiero di Walter Benjamin, è il luogo in cui il passato si riscatta. Kubrick è molto vicino al particolare metodo dialettico di Benjamin. L’oggetto storico, per Benjamin, è sempre sfasato. Esso si carica, senza dubbio, di ciò che il contesto in cui si pone gli affida. Ma l’oggetto storico non è qualcosa di indifferente a ciò che gli compete. Secondo Benjamin è altrettanto importante la questione dell’interesse che l’oggetto costituisce in sé: «Questo interesse si precostituisce in quell’oggetto […] promuovendolo dal suo essere di allora alla superiore concretezza dell’essere-attuale, ossia l’essere sveglio»2. Le immagini che si sedimentano e si manifestano, come gli edifici barocchi di Roma si innalzano sulle antiche rovine, secondo la celebre similitudine di Freud, è la condizione che rimanda alla figura di Walter Benjamin, ovvero il terzo referente kubrickiano, dopo Leopardi e Kafka. Dalla situazione di crisi è necessario destarsi: «Il risveglio è presentato da Benjamin come il paradigma della conoscenza
storica», scrive Giorgio Agamben3. Benjamin individua nel cinema l’arte privilegiata nello scandagliare le grandi epoche del passato, per compiere il destino del loro risveglio: «C’è un sapere non ancora cosciente di ciò che è stato, la cui estrazione alla superficie ha la struttura del risveglio»4. L’estrazione alla superficie di ciò che è stato, proveniente dagli strati del «sogno» di cui il cammino storico è ricolmo, e si è fin lì depositato, costituisce il punto messianico, nell’opera kubrickiana, in cui il risveglio riesce come nell’impresa di fotografare il sogno. Il cinema, il sogno per definizione, accumula, stratifica i sedimenti onirici delle epoche precedenti fino al punto in cui il film, forma interrotta, li arresta, li blocca nell’istantanea del risveglio. Questo arresto, tuttavia, non costituisce un luogo radicalmente estraneo alla dimensione del sogno: se l’arresto compie il destino del sogno, allora il risveglio, che fissa l’arresto, sarà ancora una volta il luogo del sogno. Il sogno da cui occorre destarsi è anche l’unico luogo in cui il risveglio diventa possibile e praticabile. È la situazione esemplare e radicale del secondo e definitivo «mito» kubrickiano, dopo 2001: Odissea nello spazio, il suo testamento artistico, Eyes Wide Shut. Il monolito possiede la caratteristica, all’inizio del film, di apparire al momento dell’alba dell’uomo. L’uomo, all’alba, come è naturale, si sveglia. Non appena si accorge del monolito, il suo interesse è immediato. L’essere-attuale del risveglio, allora, è insieme un «essere discontinuo, intermittente»5. L’apparizione del monolito nell’ambito della dialettica sogno/risveglio già anticipa, e giustifica, la grande discontinuità del salto millenario che va dall’osso lanciato in aria fino all’astronave fluttuante nel cosmo. Il monolito giunge da un passato che, nel caso dell’alba dell’uomo, non è storicizzabile compiutamente; nello stesso tempo il monolito, facendo la sua comparsa all’alba, proviene necessariamente dalla dimensione notturna, dal sonno/sogno di un’origine su cui nulla è possibile dire, o mostrare. Il monolito, così, semplicemente presentando se stesso, fonda la Storia in quanto discontinuo, intermittente.
Poiché, per Benjamin «è nel sogno, in cui a ogni epoca, appare in immagini la seguente»6, il monolito conficcato nel terreno, stagliato di fronte alle scimmie è precisamente l’immagine assoluta, enigmatica ma anche semplice e inequivocabile, del sogno di cui si può prendere coscienza al momento del risveglio, ma che avvia a un ulteriore livello, o gradino, del sogno stesso. In una parola, la dialettica della Storia. Il monolito non solo attualizza il passato, ma prefigura il futuro. Ovvero: non solo rende attuale, cioè «sveglio», diciamo «cosciente», il passato delle scimmie in quanto scimmie, esseri viventi bersaglio dei predatori e dei consimili più forti, ma avvia anche e promuove il «salto» in un futuro che provvederà a mutare l’equilibrio delle forze in campo. L’osso promosso ad arma. Il residuo di natura elevato a utensile. Il momento, enigmatico, in cui l’osso è percepito come bastone, diventa necessariamente onirico. Il flash rapidissimo, qualcosa come una fotografia, del monolito che si staglia dal basso allineato con gli astri, è l’inserto onirico che fa scattare la condotta meta-operativa in cui la scimmia umanoide fa sì che l’osso si modelli in arma. L’osso viene risvegliato in bastone, ossia il passato si attualizza (gli ossi, in precedenza, apparivano solamente come ossi). Scrive pur sempre Benjamin: «L’utilizzazione degli elementi onirici al risveglio è il caso esemplare del pensiero dialettico. Poiché ogni epoca non solo sogna la successiva, ma sognando urge al risveglio»7. Insieme, l’euforia della scimmia umanoide si concretizza nelle percosse e sul terreno e sulle carcasse circostanti degli animali: galvanizzata, la scimmia produce immagini estatiche, ovvero dei flash su alcuni tapiri abbattuti. Anche questi inserti partecipano della dimensione onirica, costituiscono quelle immagini in cui ogni epoca sogna la successiva: questa è la giustificazione storico-dialettica dell’ellissi più clamorosamente ellittica della storia del cinema. Dall’alba dell’uomo fino all’anno 2001 non si farà altro che abbattere tapiri euforicamente, di ogni specie e di ogni sorta. Non appena finito di «risvegliare» il passato, l’essere vivente, ormai quasi essere umano, attacca immediatamente a «sognare» il futuro. La struttura, quindi, resta e risulta:
Sogno → Risveglio → Sogno Non intendiamo forzare ulteriormente il rapporto su due autori, entrambi di estrazione ebraica, ma è indubbio che il motivo dell’irruzione, ovviamente di natura messianica, è riferibile tanto al pensiero filosofico di Benjamin, in cui fra l’altro è reso esplicito, quanto al monolito kubrickiano8. Affinché ci sia metodo dialettico, questo è forse il punto cruciale davvero, ci deve essere qualcuno disposto a sognare, e in grado di accedere alla condizione del risveglio. Ma deve anche sussistere qualcosa disposto a farsi sognare. Come possiamo raffigurarci quel qualcosa disposto a farsi sognare? La risposta è quella di Benjamin: soltanto qualcosa che sta per finire, o forse è già finita, si sta risvegliando, si dà disponibile alla fase successiva del sogno. Il monolito, allora, è la porta del risveglio e del sogno. O meglio, il monolito è figura della porta. Nel sistema iconografico kubrickiano, l’immagine della porta si raffigura nella forma monolito. Attraverso la porta, il sogno accede alla dimensione del risveglio. L’origine del mondo non si manifesta certamente e nemmeno si spiega, ma l’origine della civiltà forse si raffigura nel momento di passaggio notte-alba: il monolito è la porta dove il risveglio della scimmia dà accesso all’alba dell’uomo. Quale alba? Quella della tecnica. Ma la tecnica, ancora, non è il luogo in cui soggiornare destati e beati, ma sarà di nuovo, e lo è, il «sogno» da cui l’uomo sarà integralmente occupato fino al momento in cui l’altra porta, la stessa, la «porta delle stelle» secondo il testo di Arthur Clarke, consentirà all’ultimo esemplare della specie umana, così come è conosciuta, l’accesso dentro il corridoio di suoni e luci oltre l’infinito, la stanza della morte e infine dell’ennesimo risveglio. Se fin qui procede la comune suggestione di cultura ebraica, fra Kubrick e Benjamin, nel segno del risveglio, dell’irruzione, messianica, della Storia nel campo di azione dell’uomo, allora l’ultima apparizione del monolito, dentro la camera rococò dalla luce verdastra, in cui Bowman conclude il suo viaggio oltre l’infinito, presenta sorprendenti analogie con l’altro grande artista di riferimento, di estrazione ebraica, in
rapporto alla poetica cinematografica kubrickiana, ossia Franz Kafka. Nella parabola Davanti alla Legge, inclusa nel penultimo capitolo di Il processo, Kafka costruisce l’esemplare allegoria del sogno e risveglio umani di fronte al mistero dell’essere e dell’esistere. Il racconto è sufficientemente noto. Un uomo di campagna giunge davanti alla porta della Legge, presso la quale troneggia un custode. L’uomo chiede di entrare, ma il custode replica che c’è da attendere. La porta della Legge dovrebbe risultare accessibile a tutti, pensa l’uomo di campagna, ma l’aspetto e i modi del custode lo convincono ben presto ad aspettare il proprio turno. Egli si siede. Passano i mesi e gli anni. L’uomo sperpera tutto ciò che aveva portato con sé: un po’ lo consuma, un po’ lo offre al custode che accetta, con sottile ironia, al fine di rincuorare il viandante di non aver nulla tralasciato per ottenere il proprio scopo. L’uomo invecchia, rimbambisce, la vista gli si ottenebra. È morente, ormai. Con le ultime forze fa cenno al custode di appressarsi. Come mai, tale è la domanda in cui si racchiudono tutte le esperienze maturate in quel periodo e insoddisfatte, durante gli anni nessuno si è fatto vivo per chiedere di entrare? Il custode risponde, non senza un cenno di impazienza, che la porta, quella porta, era destinata solamente a lui. E ormai andrà chiusa, inesorabilmente. L’astronauta Bowman, decrepito, che dal letto di morte accenna col dito al monolito apparso ai piedi del giaciglio, è la raffigurazione dell’uomo kafkiano, disteso morente, davanti alla porta della Legge. Il rapporto, già evidente in sé, è corroborato sul versante iconografico dal film che Orson Welles ha tratto dal romanzo di Kafka, Il processo (The Trial, 1963), film conosciuto e stimato da Kubrick. Welles utilizza la parabola della porta della Legge quale prologo di tutto il racconto. Welles incarica gli artisti Alexandre Alexeieff e Claire Parker di comporre delle tavole che illustrino la vicenda dell’uomo di campagna e del custode. Ne viene fuori una bellissima serie di raffigurazioni, in cui sono centinaia di spilli, punte di spilli, a disegnare le scene della parabola. Le tavole che riguardano la parte finale del racconto presentano
sorprendenti analogie iconografiche con la sequenza della morte di Bowman. Il viandante è disteso su un giaciglio, sulla sinistra (frames 1-2), e fa cenno col braccio verso la porta della Legge, ovvero un grande rettangolo nero, molto simile, praticamente identico, al monolito kubrickiano, che si staglia in controluce sullo sfondo. L’immagine in cui Bowman, agonizzante, accenna al monolito comparso ai piedi del letto (frames 3-4) è assai vicina, nell’iconografia, alla composizione di Alexeieff e Parker. La stima di Kubrick per l’opera di Kafka e insieme il cinema di Welles è ampiamente attestata (vedremo la figura del custode costituire un nucleo tematico cardinale in Shining). Il monolito, in 2001: Odissea nello spazio, raffigura effettivamente la porta della Legge. Il monolito presiede le tappe dell’evoluzione umana: è la Legge, insondabile, che cadenza e caratterizza la civiltà. Il monolito compare perché l’umanità acceda agli stadi del cammino culturale e tecnologico. Bowman (Bow = arco; Man = uomo) è il viandante, l’uomo che completa l’arco evolutivo della specie umana. Giunto di fronte alla porta della Legge (l’ultima della razza umana, ma la prima, come in Kafka, di un suo possibile superamento), Bowman si arresta, invecchia, muore. A differenza del viandante kafkiano, però, rinasce e, feto enigmatico, ha accesso al monolito e lo attraversa. Secondo Bruno Schulz, autore di una prefazione a Il processo pubblicata nel 1936, «in questo romanzo Kafka ha descritto l’irruzione della legge nella vita dell’uomo, l’ha descritta in certo modo in abstracto. Non ha realizzato la cosa concretamente sul sostrato di un reale, singolo destino. Sino alla fine non sappiamo in che cosa consista la colpa di Josef K.»9. Lo stesso Schulz sembra avvicinare Kafka a Benjamin attraverso il concetto di «irruzione»: il monolito (Kubrick) è comunque un’irruzione messianica sul piano della Storia (Benjamin) e sul piano della Metafisica (Kafka). Ancora secondo Schulz, il rapporto fra Joseph K. e il tribunale costituisce «solamente l’atmosfera del contatto fra la vita umana e la elevatissima verità extraumana, il suo clima e la
sua aura»10. Il monolito è la figura di questo rapporto, la porta, nell’ambito stavolta di una possibile iconologia, tanto della particolarissima Dialettica Onirica benjaminiana, quanto della Legge kafkiana. Kubrick fa della razza umana, nel suo complesso, il protagonista del racconto, come in un mito di fondazione. Diversamente da Kafka, il cineasta non si concentra su un singolo destino, Josef K., ma stende il velo del suo film su tutta l’umanità. In tal modo, l’oscillazione astratto/concreto di cui parla Schulz viene superata. Non si tratta, come nel romanzo, di precipitare il nucleo tematico, in sé astratto, ossia la Legge, dentro i meandri di un singolo, concreto destino, il personaggio protagonista. In 2001: Odissea nello spazio, ovvero nel film, l’opposizione concreto/astratto è superata a priori, nel momento in cui protagonista del racconto, mitico, è l’umanità. L’Uomo, in persona, dall’alba al tramonto. Attraverso la Storia e la Legge11. Il monolito, dunque è figura di tale «attraverso», figura della porta. La porta, quindi, ha una sua doppia valenza iconologica, in entrambi i casi afferente a fonti specifiche della cultura ebraica: – è il luogo e il punto del risveglio, sul livello della dialettica storica di matrice benjaminiana; – è il luogo e il punto della Legge, sul livello della metafisica kafkiana. A differenza di Kafka, Kubrick sembra concedere al protagonista l’accesso alla porta della Legge, nel momento in cui Bowman rigenerato in feto astrale attraversa il monolito e accede allo spazio cosmico. Ma il feto può dirsi ancora David Bowman? Oppure a David Bowman, in persona, come per il viandante kafkiano, ogni accesso è precluso? Anche se la porta, quella porta, era stata aperta soltanto per lui. Il feto, in breve, è ciò di cui ancora non si può parlare: l’extraterrestre che non fu, e ancora non è propriamente. L’uomo vecchio, o meglio il vecchio uomo, muore: l’osso lanciato euforicamente dalla scimmia conclude il suo volo nel
bicchiere di cristallo che l’uomo, involontariamente, fa cadere a terra prima di iniziare a letto la sua agonia. Il gesto del braccio dell’ominide che aziona l’osso come arma, e lo fa prorompere in aria, trova la sua conclusione nel gesto del vecchio morente, che accenna, con la mano, al monolito apparso ai suoi piedi. L’arco della civiltà umana si è chiuso. Bowman è stato questo uomo-arco. Sul feto sarà opportuno evitare qualsiasi pronunciamento. La stanza da bagno Non appena scomparsa la capsula che ha ospitato Bowman nel viaggio lungo il tunnel spazio-temporale, lo stesso Bowman si aggira, incerto, nella stanza misteriosa, punto d’arrivo del salto oltre l’infinito. La camera ha il letto piantato a una parete, sulla cui sinistra si apre l’accesso alla stanza da bagno. Bowman, una volta solo, è inquadrato di fianco alla porta del bagno, senza battenti. Quindi avanza con passo incerto dentro la stanza: lo vediamo avviarsi, inquadrato di spalle, verso il centro dell’ambiente (frame 5). Qui Kubrick stacca, effettuando un controcampo secco di 180 gradi, mostrando Bowman, stavolta di fronte, che si accinge ad entrare nella stanza da bagno (frame 6). Lo stacco, che a una prima visione del film, appare del tutto ininfluente, senza particolari caratteristiche, è invece decisivo e risulta del tutto inverosimile, anche se può suonare persino ridicolo pronunciarsi così a questo punto del film. Non soltanto, nel dispositivo del controcampo si è girata la macchina da presa, ma si è voltata tutta la stanza. Bowman inizia il passo al centro della camera, verso i piedi del letto, e lo conclude sulla soglia della stanza da bagno. Si tratta dello stesso passo, enfatizzato abilmente dallo stacco che risulta, in sconcertante semplicità, un raccordo sul movimento: – inquadratura 1: gamba in avanti al centro della camera; – inquadratura 2 (controcampo): la gamba atterra sulla soglia della stanza da bagno. In questo passaggio, che ci sembra sfuggito alla critica kubrickiana, è come se la macchina da presa facesse corpo con
l’intera stanza. Si volta la cinepresa, e con lei ruota tutta la camera. Nell’inquadratura 1 (frame 5) vediamo Bowman avviarsi verso il centro della stanza, e nel controcampo successivo, l’inquadratura 2 (frame 6), l’astronauta entra nel bagno. Tanto che lo stacco ancora successivo è una soggettiva, «normale», del personaggio sul lavandino e poi la vasca. La soggettiva tenta di cogliere una prospettiva. Bowman avanza nel bagno frontalmente, ma ben presto ci accorgiamo che si tratta della sua immagine riflessa nello specchio posto sopra la vasca (come sarà in Arancia meccanica). Ce ne rendiamo conto perché sulla destra dell’inquadratura, fuori fuoco, compare la spalla del Bowman «reale». Il senso della sequenza, in breve, è la condizione di Bowman, simultaneamente al di qua e al di là della stessa immagine. Come una particella infinitamente piccola della materia che può occupare due luoghi differenti. Oltre l’infinito, tanto micro che macro. La stanza da bagno, il gabinetto, costituisce così il luogo in cui gli elementi, qui lo spazio e il tempo, si sfogliano, si scompongono e si ricompongono. Bowman entra astronauta in tuta rossa nel bagno e poi ne esce, entrambi sono inquadrati sulla soglia, borghese in vestaglia nera. Nel gabinetto avviene la mutazione: scompare definitivamente l’astronauta e affiora l’uomo anziano in vestaglia. Non accade soltanto che Bowman invecchi, infatti, ma succede che Bowman smetta gli indumenti del viaggiatore stellare e assuma quelli di abitante effettivo della stanza. È il viandante di Kafka che decide di rimanere lì, in atteggiamento stanziale, aspettando di entrare nella porta della Legge. La porta che separa bagno e stanza da letto, infatti, non ha battenti, poiché l’attraversamento non deve essere scandito da un gesto, aprire e chiudere. Basta un passo, e come all’inizio di tutto il movimento, dal centro della camera si accede direttamente allo spazio del bagno. Dal punto di vista di un’estetica cinematografica, il controcampo di 180 gradi che fa ruotare macchina e stanza costituisce con circa 25 anni di anticipo la composizione filmica dell’interfaccia che sarà pienamente attiva solo con l’avvento del digitale12.
L’immagine cinematografica è contemporaneamente al di qua e al di là di se stessa, è l’interfaccia dello spazio e del tempo. Essa fotografa la realtà e, simultaneamente, fotografa il suo stesso fotografare. Vale a dire: l’immagine secondo Kubrick, la fotografia della fotografia della realtà. A Kubrick non serve un effetto speciale, in un film dove pure gli effetti non mancano: gli basta un raccordo di montaggio, uno stacco sul movimento, ovvero un procedimento filmico classico e consueto, che tuttavia l’artista utilizza come un’irruzione. È come se il controcampo, modulo filmico consumato da anni e anni di cinema, facesse irruzione per la prima volta nella dimensione dell’estetica cinematografica. Il motivo dell’irruzione rimanda, ancora una volta, a suggestioni provenienti dalla cultura ebraica. Proviamo allora a chiederci da dove effettivamente faccia irruzione questo impossibile controcampo. Senza indulgere in metafore, diamo una risposta letterale: la figura irrompe perché già lavorata e prodotta «dietro la macchina da presa»13. Ovvero, già fotografata. L’istante in cui si abbandona l’inquadratura di Bowman di spalle al centro della stanza per accedere verso l’inquadratura di Bowman sulla soglia del gabinetto, l’attimo del controcampo è precisamente l’istantanea in cui si fotografa il recto e il verso della stessa immagine. Il davanti e il dietro dello spazio della macchina da presa. Se la pittura richiede il piano, se la scultura esige il volume, il cinema si costituisce nell’interfaccia dell’immagine. Come accade nell’architettura, ciò che conta non è il quadro (o il blocco) in cui rappresentare una porzione di mondo, ma l’istantanea percezione, in atto, di una infinita varietà di immagini. Il momento del controcampo, se ancora può chiamarsi così, l’istante in cui si accede da un’inquadratura all’altra, l’interfaccia fra il davanti e il dietro dello spazio fotografato, ebbene questo è l’immagine14. Immagine che irrompe silenziosamente nel film, perché già silenziosamente costruita, in quanto tale, alle spalle, al di qua della macchina da presa. Alle spalle della macchina da presa, mentre Bowman cammina verso il centro della stanza, il bagno non è semplice presenza virtuale: al contrario, il bagno è già compiutamente fotografato e fa corpo con la macchina stessa. Girando la
macchina, il bagno si gira a propria volta, come se Bowman fungesse da perno, e dalle spalle gli si pone di fronte. Bowman accede simultaneamente al di qua e al di là dello spazio e del tempo: il passo al centro della stanza che è, e insieme diventa, il passo dentro il bagno. La soggettiva a seguire, la panoramica da sinistra a destra sugli elementi del bagno, il lavandino e la vasca, potrà essere allora un raccordo, ritagliato tuttavia all’interno dell’interfaccia e da questo già convenientemente «compreso» (infatti l’interfaccia, all’interno del raccordo, si rivela subito come esito iconografico di tutta la sequenza, ovvero si raffigura immediatamente. Come? Nel fatto che Bowman si muove come immagine riflessa nello specchio sopra la vasca). Al di là di ogni metafora, il bagno (ma tutto l’ambiente) è evidentemente uno spazio fotografico, una fotografia, una diapositiva da abitare: non siamo neppure sfiorati dal sospetto, infatti, che dai rubinetti possa uscire dell’acqua. La macchina ha fotografato il bagno e se lo tiene lì, in fotografia, per rifotografarlo nuovamente nell’istante del controcampo: la fotografia della fotografia della realtà. Nel passaggio dall’inquadratura di Bowman che accenna il passo al centro della stanza a quella in cui lo stesso Bowman conclude il passo all’interno del bagno (Walter Benjamin: «Il cinema è far vedere ciò che davvero accade quando noi affrettiamo il passo»), accade l’immagine. L’immagine è dove si fotografa il corpo/Bowman che cammina (la fotografia della realtà) e simultaneamente si fotografa Bowman situato nel punto da cui fu/venne (ma anche viene) fotografato (la fotografia della fotografia della realtà). Che è esattamente il meccanismo puro e semplice di ogni film dove, in un banale campo controcampo, si fotografa chi è guardato e poi si stacca su chi guarda. Chi è guardato costituisce la fotografia della realtà, ma lo stacco in controcampo su chi guarda è lo stacco che la macchina, girandosi, effettua su se stessa. Ovvero, la fotografia della fotografia della realtà. L’iperclassicismo di Kubrick sarebbe dunque questo assumere in accezione assoluta le figure stabilite della forma d’espressione prescelta. In quanto assolute, quindi, le figure non sono prodotte e utilizzate: la figura viene istituita prima
ancora che acceda a una qualche funzione. La figura così istituita, a priori, viene a trovarsi al di qua della macchina da presa. Essa è già la fotografia della realtà, automaticamente data dal dispositivo. L’accesso all’universo del film di tale figura costituisce il momento, un’interfaccia, in cui si dà la fotografia della fotografia della realtà. La figura del campo/controcampo è già istituita alle spalle della macchina da presa, che non può far altro che metterla in esecuzione15. Non casualmente, ogni salto di Bowman nel tempo avviene attraverso una giravolta: Bowman allo specchio si gira e scorge l’uomo in vestaglia nera seduto di spalle a tavola; l’uomo in vestaglia nera si volta e sembra scorgere Bowman; l’uomo in vestaglia si alza, si gira e giunge alla porta del bagno dove si guarda attorno, di qua e di là, senza avvistare nessuno. Ogni controcampo, per proseguire il film, deve rendersi autonomo, come nei primissimi film del muto. Ogni controcampo, come abbiamo detto, è innanzitutto assoluto. Girarsi è staccare nello spazio-tempo. Il personaggio che si volta è figura in scena del campo/controcampo cinematografico: trovarsi simultaneamente di qua e di là dell’inquadratura. La figura, se si desidera biblicamente, prefigura. La figura, così, si trova già prefigurata, ossia istituita, dietro la macchina da presa. La macchina da presa gira e, alla lettera, si porta appresso tutto ciò che le sta dietro: il centro della stanza da letto nell’istante del passo scatta nella porta d’accesso alla stanza da bagno. Lo sguardo neanche se ne accorge, alle prime visioni del film. L’interfaccia, quindi, è il punto, o il momento, in cui la figura viene istituita, quindi lavorata e prodotta, già dietro la macchina da presa. Prima dello sguardo che la collochi in scena. Il corridoio Resta da dire del corridoio. Ovvero, il tunnel spaziotemporale, denominato anche «psichedelico», attraverso cui Bowman accede alla stanza settecentesca. La figura del corridoio cadenza tutto il film. La Discovery è già presentata come un lungo corridoio, circolare, in cui l’astronauta Frank Poole si dedica al footing. Il corridoio è
figura dello spazio einsteniano che si incurva, per la forza di gravità, in un ambiente circoscritto. Nel corridoio psichedelico, Kubrick produce la figura cinematografica del frame-stop. Ovvero, il viaggio è cadenzato da una serie di fotogrammi fissi sul volto di Bowman, caricato e stirato dall’eccezionale esperienza. Il frame-stop, anche detto freeze-frame, il fotogramma fisso, è il cinema che, per un istante, si congela nella fotografia. Il viaggio psichedelico è cadenzato anche dal primissimo piano dell’occhio di Bowman che batte le ciglia. Ogni battito di ciglia costituisce una sorta di salto in un una porzione ulteriore dello spazio-tempo fantasmagorico attraversato. Occhio che batte e fotogramma fisso raffigurano, in maniera esplicita, il procedimento dell’esecuzione fotografica. Tutta l’esperienza, così, è raffigurata come una successione di salti, salti di istantanee. Da forme e colori puri, la sequenza si precisa via via in profili e sagome, o panorami, in qualche modo più riconoscibili. Gli scatti, di ciglia e di fotogramma, configurano gradualmente un ambiente, fino all’atterraggio della stanza da letto. La stessa capsula nella quale, abbandonata la Discovery, Bowman effettua la straordinaria esperienza, richiama la forma dell’occhio umano: un globo bianco, con l’oblò a fare da pupilla. Non è un mistero che l’esperienza di Bowman oltre l’infinito sia un’esperienza esclusivamente visiva. Che tuttavia produce fremiti e sussulti. Gli scatti, di ciglia e di fotogramma, cadenzano il corridoio psichedelico, ma al tempo stesso, configurano il volto di Bowman in vista dell’esperienza finale. L’occhio, battendo le ciglia, fissa in frame-stop, fotografa il volto stesso dell’astronauta. Il frame-stop, essendo immagine fissa bloccata in un film costituisce alla lettera la fotografia della fotografia della realtà. Interfaccia di istantanea fotografica e di eventualità filmica. Istante di congelamento, il frame-stop (si vedano anche Barry Lyndon e Shining) raffredda comunque lo spazio-tempo prima di un nuovo inizio.
Il corridoio, ancora, è modalità afferente alla figura della porta. La sequenza, fra l’altro, è leggibile puntualmente come un’entrata dentro il monolito fluttuante nello spazio cosmico. Lo stesso Arthur Clarke lo esplicita nel romanzo tratto da 2001: Odissea nello spazio: Bowman precipita dentro il monolito, porta delle stelle, per ritrovarsi in una sorta di «negativa fotografica della Via Lattea»16. La figura dell’interfaccia si dichiara persino assoluta. Materia e antimateria. Il corridoio psichedelico è l’abitacolo della porta delle stelle, che si preciserà, gravitazionalmente, alla fine della serie di scatti (frame-stop), in stanza da letto e stanza da bagno. Le immagini, porta, stanze e corridoio, si sedimentano così l’una sull’altra, o dentro l’altra, e l’interfaccia costituisce la modalità di scorrimento, o deposito, attraverso le sedimentazioni stesse. L’interfaccia modella la figura già dietro la macchina da presa, in una istantanea fotografica che non è ancora sguardo, ma ricettacolo di tutti i possibili sguardi. Solo in un secondo tempo entra in gioco uno sguardo assegnato, che cerca di razionalizzare, localizzare e costituire uno spazio abitabile, ossia riconoscibile e fruibile. Come il corridoio psichedelico si sviluppa in una raffica di scatti e istantanee, la stessa stanza d’albergo, con servizi, evidenzia la spettralità di una fotografia affiorante dall’abisso dei tempi. La stanza, allora, risulta senza dubbio nulla di più, o di meno, che una fotografia: gli oggetti all’interno sono bloccati, vitrei, quelle cose che cambiano, come la capsula o i cibi, appaiono e scompaiono. In bagno, il lavandino e la vasca non tradiscono il minimo segnale di un eventuale funzionamento idrico: sono lucide sagome e affilati profili di lavandino e vasca. L’astronauta, così, si muove in una fotografia, come grandi diapositive erano i paesaggi africani dell’alba dell’uomo. Ma l’astronauta stesso, durante l’esperienza nel corridoio psichedelico, si è raggelato nel fotogramma fisso, condensato in istantanea fotografica. Bowman nella stanza d’albergo è una fotografia dentro una fotografia. Sia lo spazio (la camera), sia il tempo
(l’invecchiamento) si contraggono, esattamente come accade in una fotografia. Questo intrico di fotografie richiama senza esitazione la composizione del collage, ovvero la caratura ontologica del cinema. 1
Cfr. V. LoBrutto, Stanley Kubrick. L’uomo dietro la leggenda, Il Castoro, Milano 1999, p. 323: «Lo scenografo Ernie Archer e il fotografo Robert Watts si recarono in Sudafrica per scattare diapositive Ektachrome, ad alta definizione e formato 20:24, dei cieli e del terreno». 2
Cfr. W. Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo, Einaudi, Torino 1986, p. 512.
3
Ivi, p. VII (avvertenza editoriale di G. Agamben).
4
Ivi, p. 508.
5
Ivi, p. 512. Ma si leggano anche le acute riflessioni di M. Chion sulle caratteristiche del monolito kubrickiano: «La sua caratteristica infatti nel film è di essere lì e non più lì, poi di essere lì nuovamente. Le sue due prime apparizioni sono segnate da una brutale interruzione/commutazione visiva e sonora. Il monolito irrompe nel tempo – esso spezza il tempo – come taglia lo spazio (per la sua forma e la sua verticalità) e, in questo ruolo, esso è la lettera stessa, al di là dell’interpretazione. Esso è dunque il Padre, in quanto discontinuo», in M. Chion, Un’odissea del cinema. Il «2001» di Kubrick, Lindau, Torino 2000, p. 146. Quasi inutile sottolineare gli echi «kafkiani» del passo di Chion. 6
Cfr. Benjamin, Parigi cit., p. 47.
7
Ivi, p. 19.
8
In altra sede, ci siamo occupati della fonte esplicitamente dichiarata da Kubrick, riguardo il monolito, ossia la «minimal art», reperendo ad esempio nell’artista statunitense Bob Morris fotografie di opere della prima metà degli anni ’60 del ’900 che comprendono evidentemente la forma parallelepipedo. Cfr. F. De Bernardinis (a cura di), Per un dizionario ri-guardante «2001: Odissea nello spazio», «Segnocinema», n. 107, gennaio-febbraio 2001, pp. 12-26. Su Morris cfr. R. Barilli, L’arte contemporanea. Da Cézanne alle ultime tendenze, Feltrinelli, Milano 1984, p. 315: «L’attenzione doveva portarsi tutta all’esterno, cioè alle caratteristiche reali (fisiche, plastiche, spaziali) di quelle sue [di Morris] strutture primarie, le quali quindi contavano per il grado di ingombro, di volume occupato, per il fatto che obbligavano il fruitore a girarci attorno, a stabilire con esse un rapporto «vissuto», esteso nel tempo». Le modalità di fruizione dell’arte minimal, descritte da Barilli, si ritrovano puntualmente in 2001: Odissea nello spazio: il monolito è senza dubbio una «struttura primaria», di carattere architettonico, a metà tra l’edificio e il monumento, presso il quale si muovono, «girandoci attorno», umanoidi e umani. 9
Cfr. l’introduzione di B. Schulz a F. Kafka, Il processo, Feltrinelli, Milano 1995, pp. 9-10. 10
Ivi.
11
Cfr. E. Ghezzi, Stanley Kubrick, Il Castoro, Milano 2002, p. 82: «2001 apriva nella superficie dello schermo una profondità assoluta, quella del puro nero spaziale; e in esso ridava allo spettatore il piacere filmico «primigenio» di seguire il muoversi di cose e oggetti, il farsi fisico del meccanismo, più che una storia precisa…». Il farsi fisico del meccanismo cinematografico, il movimento di cose e oggetti, calato nel mito dell’evoluzione umana, costituisce il superamento, fenomenologico, dell’opposizione concreto/astratto su cui si fonda il dispositivo dell’arte tradizionalmente intesa. 12
In Contact di Robert Zemeckis, forse uno dei cineasti più vicini a Kubrick nel tentativo, fenomenologico, di superare l’opposizione concreto/astratto nell’ambito dell’arte filmica, c’è una sequenza esemplare che dovrebbe far versare fiumi di inchiostro a critici e studiosi. Ellie, la protagonista, corre verso un armadietto e noi la vediamo di fronte, precedendola con un movimento a carrello. Improvvisamente, impercettibilmente, ci accorgiamo che ciò che stiamo vedendo è l’immagine riflessa di Ellie sullo specchio dello sportello dell’armadietto, la cui mano «reale» adesso spunta dalla destra a girare la maniglia. Il campo/controcampo, così, si è concentrato, fuso in un’unica immagine. Ellie è di fronte e, simultaneamente alle spalle della cinepresa, compresa nell’interfaccia fra due inquadrature che non hanno più limite o bordo. Cfr. F. De Bernardinis, Hollywood, faccia e controfaccia, «Bianco & Nero», n. 4, ottobre-dicembre 1997, pp. 67-77. 13
Cfr. Ghezzi, Stanley Kubrick cit., p. 153, riguardo l’esitazione dello sguardo filmante nell’universo fantasmatico di Shining: «Esitazione spostata dalle stranezze psicologiche (vere o false?…) a tutto il film, allo sguardo stesso che lo produce. È la solita capacità kubrickiana di lavorare e produrre la figura già dietro la m.d.p.». 14
Il cinema, nella direzione estetica del nostro discorso, sarebbe così un collage di interfaccia. Su Kubrick in particolare cfr. Chion, Un’odissea del cinema cit., p. 88: «2001 è uno dei film più spogli che si siano mai visti, per dirla in altro modo un film in cui diventa rilevante il principio tecnico del collage di momenti che serve a «fabbricare» e costruire il film». 15
Cfr. ancora Chion, Un’odissea del cinema cit., pp. 99-100: «Kubrick realizza immagini che possiamo definire sovra-oggettive (per la loro precisione che eccede la necessità del montaggio e della narrazione, esibendo gli oggetti e i personaggi come un dato di fatto) e sovra-soggettive (contrassegnate in modo molto accentuato come «viste da…», sia per il modo in cui sono montate le une dopo le altre – l’occhio di Dave, gli oggetti che vede – sia per l’esposizione esagerata dei tipici segni cinematografici della soggettività: distorsione del grandangolo, come le immagini viste dagli spioncini delle porte, macchina da presa a mano, uso della voce narrante in prima persona ecc.). Kubrick conserva il linguaggio cinematografico classico, ma lo pone sotto una luce cruda…». Il film come «fotografia della fotografia della realtà» forse mitiga la tendenza all’eccesso di cui parla Chion. 16
Cfr. A. C. Clarke, 2001: Odissea nello spazio, Rizzoli, Milano 1981, p. 227.
Arancia meccanica
La porta È stata più volte sottolineata la corrispondenza, l’effetto di incatenamento, fra l’ultima inquadratura di 2001: Odissea nello spazio e la prima di Arancia meccanica. Ovvero, dal PP del feto astrale che sembra guardare in macchina, al PP di Alex De Large, che guarda effettivamente in macchina. L’ironia kubrickiana, l’autoironia velata di perfidia, è molto chiara: Alex, il teppista, è uno dei possibili superuomini apparsi sul cammino dell’evoluzione storica e antropologica della specie umana. Rispetto al mito di fondazione e di passaggio di 2001: Odissea nello spazio, tutti i film, escluso l’altro grande mito di Eyes Wide Shut, sono possibili narrativi. In effetti, dato 2001: Odissea nello spazio come macro film, macro testo di tutto il cinema kubrickiano, i successivi Arancia meccanica, Barry Lyndon, Shining e Full Metal Jacket sono universi paralleli, o caratterizzazioni, del mito di fondazione. Sul piano narrativo, sono fiabe, rispetto al mito. Sul piano artistico compositivo, sono modulazioni, musicali o architettoniche, del paradigma 2001: Odissea nello spazio. Infine, sul piano estetico, risultano degli interfaccia spaziotemporali, rispetto all’arco cardinale evolutivo del film di riferimento. In Arancia meccanica Alex De Large è il feto astrale accessibile in una dimensione parallela rispetto al mito di fondazione. Alex è uno degli infiniti, possibili interfaccia del feto astrale1. Come Jack Torrance, Barry Lyndon e il soldato Jocker. Il dottor Bill Harford di Eyes Wide Shut, come vedremo, sarà invece il feto astrale in persona, sceso sulla terra
a verificare direttamente il mito da cui proviene, e a cui si sente destinato per un’eventuale rifondazione. 2001: Odissea nello spazio, pertanto, accoglie Arancia meccanica, anche se non può spiegarlo, oppure giustificarlo esaurientemente. E così per tutti gli altri film. La fiaba, rispetto al mito, lascia dietro di sé un tanto di residuale, su cui il mito stesso non riesce a far luce. Altrimenti il mito, pago di se stesso, si realizzerebbe direttamente, e pienamente, nel mondo. Senza mediazioni. La fiaba, come il cinema, costituisce questa mediazione fra il mito e il mondo, la capacità di «aggiornare» il mito stesso. Il primo ambiente che incontriamo nel film, rivelato dallo zoom che lentamente si allontana dalla faccia di Alex e percorre lo spazio, allora, in questo senso, è già la porta che dal mito fa accedere alla fiaba. La prospettiva del Korova Milkbar (frame 7) è fortemente caratterizzata in senso monolitico. Tutto l’ambiente, in effetti, sembra l’interno di un parallelepipedo nero, che si sviluppa in profondità. Ma poiché non siamo nel mito, noi diciamo che è l’ambiente a modulare la forma monolito, senza essere veramente il monolito (il monolito, in sé, al di fuori di ogni modulazione, tornerà soltanto in Eyes Wide Shut). La porta è aperta, ma come a implodere su se stessa. La caduta nel buco nero non catapulta oltre l’infinito, ma conduce a espressionistiche, deformate un poco quanto basta, versioni del mondo come è, come sarebbe, e come potrebbe essere. La deformazione attiva in Arancia meccanica, lo si comprende subito, è quella della cultura di massa. Poiché la forma monolito è solo riprodotta, modulata e non attivamente innescata, lo spazio del Korova Milkbar richiama anche, se non innanzitutto, una iconografia di riporto, di sponda come esige l’estetica pop, ovvero l’espressione cardine della cultura di massa, dilagante sia nella scenografia che nei costumi. Uno dei codici di riferimento dell’immaginario di Alex è Hollywood. Spesso Alex immagina se stesso protagonista di sequenze esplicitamente ispirate a film di genere, o kolossal
hollywoodiani. Uno dei generi più citati è quello biblico religioso. In questa chiave, la prospettiva del Korova Milkbar richiama fortemente una immagine di I dieci comandamenti (The Ten Commandaments, 1955, di Cecil B. De Mille): lo spazio antistante la città, nella celeberrima sequenza dell’esodo del popolo ebraico dall’Egitto, oppure, è lo stesso, nella partenza dei carri di guerra del faraone all’inseguimento degli schiavi (frame 8). La prospettiva del Korova Milkbar si avvicina alla prospettiva delle porte della città da cui escono dapprima il popolo d’Israele, quindi i guerrieri egiziani a cavallo. Le statue delle ragazze che danno latte, ai lati del locale, richiamano le due ali di sfingi sui fianchi. Sullo sfondo, la porta della città decorata da quattro statue di faraoni, richiama i quattro teppisti, Alex e i suoi tre drughi, truccati tutti, a cominciare dagli occhi, con espedienti visibilmente «faraonici». Nella locandina del film, in cui Kubrick per la prima volta antepone il proprio nome al titolo del film, ritorna l’iconografia faraonica. Nella formula «Stanley Kubrick’s A Clockwork Orange», la lettera «A» con cui inizia il titolo sfila dalla formulazione verbale, per acquistare valenze fortemente iconografiche. La «A» diventa il modulo compositivo di tutta l’immagine, simile a una piramide dal cui vertice affiora il volto truccato, la maschera faraonica di Alex. L’estetica pop conduce immediatamente alla sequenza conclusiva del film. Alex, imboccato dal ministro degli Interni, ha appena stretto un patto d’alleanza con l’esponente del governo: egli contribuirà a testimoniare delle buone intenzioni dello Stato a seguito del fallimento della cura Ludovico. Il ministro fa entrare puntualmente i fotografi che immortalino la stretta di mano: assieme ai rappresentanti della stampa, viene trasportata all’interno della camera d’ospedale una grande apparecchiatura stereo che diffonde le note, graditissime per Alex, della Nona Sinfonia di Beethoven. Come è facile verificare (frame 9), le due grandi casse dello stereo richiamano senza alcun dubbio la forma monolito. La riproducono, nel senso che sono un grande parallelepipedo,
e la modulano nel senso che la raddoppiano (le casse stereofoniche devono essere due). Sono il monolito, precipitato nell’iconografia dell’estetica di massa della pop art, o pop culture. La collocazione, inoltre, è la medesima del monolito nel finale di 2001: Odissea nello spazio: i piedi del letto2. Invece del movimento in avanti, in carrello, grazie al quale il feto penetrava la porta delle stelle, o della Legge, qui il canale di accesso al «monolito» è innanzitutto acustico musicale, ovvero la Nona di Beethoven. Alex, come ispirato dalla sinfonia, si irrigidisce (il rigor mortis di Bowman decrepito davanti al monolito?) e inizia a roteare gli occhi verso l’alto. Spinto dalla musica, come attratto negli e dagli altoparlanti, Alex accede a uno spazio immaginario, un’altra dimensione, dove si ripete la medesima iconografia dell’immagine iniziale al Korova Milkbar. L’immagine stavolta è al negativo: invece che in un parallelepipedo nero, ci si ritrova in uno spazio bianco, simile vagamente a un parallelepipedo grazie alla prospettiva, in cui, fra due ali plaudenti di folla in abiti vittoriani, Alex disteso al centro con una ragazza bionda, entrambi nudi, sperimentano reciproco piacere sessuale. Alla ieratica fissità del Korova Milkbar qui si sostituisce un aggraziato, euforico, anche se altrettanto dilatato, ralenti3. In 2001: Odissea nello spazio, in cui il mito di fondazione e di passaggio si dispiega in tutta la sua ricchezza, il monolito è dato nella coincidenza strutturale di forma e figura, parallelepipedo e porta. Nella forma, perché effettivamente di stele monolitica si tratta; nella figura, perché il monolito stesso si presenta nella condizione ancipite di forma e funzione. L’oggetto, nel mito, forma pura, ha tuttavia funzione, ancestrale finché si vuole, ma comunque una funzione, quella di accesso. La figura, accorpando forma e funzione, si dà anche nella capacità compositiva del modulo. La fattura modulare della forma monolito, con funzione di accesso, si rende esplicita nella raffigurazione della memoria di Hal 9000, una composizione in serie di piccoli monoliti. Agendo su di essi col cacciavite (gesto in cui Bowman torna alla manualità della scimmia), l’astronauta chiude l’accesso alla tecnologia.
In Arancia meccanica, come s’è detto, il monolito si presenta come spazio contenitore nell’immagine iniziale al Korova Milkbar: il momento, l’esordio, in cui il mito dispiega l’accesso alla fiaba. Nella sequenza conclusiva, il monolito, con caratteristiche di prossemica speculari alla sequenza simmetrica in 2001: Odissea nello spazio (dunque: come sua variazione modulare), si ripresenta nella figura della cassa acustica. Una coppia di casse acustiche, dunque, come nel caso delle piccole numerose componenti di memoria di Hal 9000, ancora una volta, una figura che si dà in qualità di modulo. La figura, così, come coincidenza di forma e funzione, di categoria espressiva e modulo compositivo, assume necessariamente un’ulteriore utilizzazione, quella di indicatore metatestuale. Il monolito, in 2001: Odissea nello spazio, costituiva anche immagine, non più semplicemente spaziale, come lo spazio cosmico, ma già modulare del «nulla-tutto che è lo specifico del cinema, ovvero il puro vuoto dell’obiettivo cinematografico […]. Kubrick mette in scena per la prima volta la messa in scena del meccanismo, che si vede produrre nella sua nudità, ritagliato nel nero che pure del meccanismo fa parte»4. Il monolito, quale indicatore metatestuale di 2001: Odissea nello spazio, assegna al film la caratura di mito di fondazione: pellicola vergine che assorbe la luce, buio della sala, nero vuoto dell’obiettivo cinematografico. In tal modo, la coppia di casse acustiche del finale in Arancia meccanica, se intesa nell’accezione di indicatore metatestuale, assegna al film la caratura di variazione fiabesca del mito di fondazione, nel senso di una variazione, o meglio, in questo caso, di modulazione, a carattere esplicitamente musicale. Come scrive Sergio Bassetti, «modellato su un romanzo nel quale è già postulata la centralità della musica – convalidata nel film da presenze musicali estese per circa tre quarti della durata complessiva – Arancia meccanica offre a Kubrick l’opportunità di interrogarsi e proporre spunti di riflessione proprio sul valore della musica nella società, sul suo ruolo nella cultura di massa…»5. Tanto che, insinua ancora
Bassetti, «sono le immagini, qui, semmai, a essere plasmate, riconfigurate da Kubrick sugli andamenti della musica»6. Non sarà dunque un’intuizione del momento, se la forma monolito si raffigura, si modula nella coppia di casse acustiche hi-fi, che così costituiscono il motivo iconografico, l’immagine della porta (le casse in coppia suggeriscono effettivamente l’immagine di una porta con battenti). La stanza da bagno Nella stanza da bagno si ambienta un momento chiave della storia del giovane Alex. Proprio Alex, in inaspettato relax, disteso nella vasca piena d’acqua, canticchia per puro passatempo le note di Singin’in the Rain. L’immagine è raddoppiata da una parete a specchio sul lato di fondo della vasca. Il bagno è il luogo della mutazione, nel senso della categoria, di estrazione drammatica, del riconoscimento. Alex viene identificato dallo scrittore ridotto sulla sedia a rotelle come l’esecutore morale e materiale dello stupro della moglie. Da qui la vendetta dell’uomo, che spara a volume altissimo le note della Nona, inducendo il ragazzo, insofferente alla musica beethoveniana per gli effetti della cura Ludovico, a gettarsi dalla finestra pur di non sentire. Il salto dalla finestra è concepito da Kubrick in una modalità per lui, almeno in apparenza, sostanzialmente inusuale: allo spaccato della casa ripreso dal basso, mentre Alex salta giù, succede immediatamente le soggettiva del personaggio in volo, realizzata, testimonianze alla mano7, facendo precipitare la macchina da presa nel vuoto. Alle note distorte e amplificate della Nona, succede lo stridulo grido del giovane in picchiata. Il registratore è posizionato dal vendicativo scrittore sul tappeto di un biliardo, affinché le casse, adagiate sul dorso, proiettino la musica verso il soffitto, che coincide col pavimento della stanza dove è stato rinchiuso Alex. Nel romanzo di Burgess, invece la musica, che non è la Nona ma la Sinfonia n. 3 del compositore danese Otto Skadelig, proviene più semplicemente dalla stanza accanto.
Il tuffo di Alex nel vuoto, enfatizzato dalla vertiginosa soggettiva, diventa così un salto dentro la musica stessa, che nel film di Kubrick, a differenza del romanzo, proviene esattamente dal basso. La musica, distorta e ovattata man mano che il personaggio matura l’ossessione e risolve di saltare, ritorna in primo piano nella controinquadratura dal basso, sulla facciata della casa stagliata nel cielo, con Alex che si accinge al volo e effettivamente precipita. Il ritorno in primo piano della musica, nello scorcio dal basso della casa, costruisce la sensazione, nello spettatore, che Alex per fuggire la musica si butti a capofitto nella musica stessa. L’urlo stridente, da animale, del giovane in caduta libera si fonde con l’impasto sonoro sintetico, in un crescendo acustico che solo la soggettiva del volo, e il nero che la chiude, attutiscono definitivamente. Il corridoio Sembra che in un film dominato dalla visuale del grandangolo, che deforma e «gonfia» tutti gli ambienti, l’immagine del corridoio non abbia figure su cui appoggiarsi. L’uso intenso del grandangolo, però, un suo effetto/corridoio lo produce. Gli ambienti, che appaiono grazie alle sue lenti, come «stirati», danno l’impressione di allungarsi, diventano quasi tutti un corridoio, specialmente se la macchina da presa si muove. Anche lo spazio del Kolova Milkbar, il nostro frame 7, suggerisce l’immagine del corridoio. In Arancia meccanica, così, l’immagine del corridoio non trova raffigurazioni puntuali, ma suggestioni. Essa si concentra nell’effetto della deformazione spaziale prodotta dalla cinepresa. Ciò costituisce un segnale ulteriore dell’importanza della musica nel film, che resta l’unica dimensione deputata a «fare spazio», ad articolare lo spazio filmico. Nell’estetica del film balletto, quale esplicitamente Arancia meccanica è, i corpi misurano lo spazio su esclusiva indicazione della musica. Le coordinate puramente visive sono compresse e allungate dal grandangolo, per cui una stanza si allunga a corridoio e un vestibolo si comprime a stanza.
Lo spettatore non ha punti di riferimento topologici visivi, ma li ha, per paradossale che sia, sonori. Lo spazio del film è uno spazio innanzitutto musicale, perché la musica è il codice di riferimento per il protagonista Alex, e tutta la storia è da lui raccontata, e lo spettatore vi assiste coniugando il punto di vista esclusivo del protagonista, come la soggettiva del volo dalla finestra dimostra puntualmente. D’altronde, la cultura pop, ossia la cultura di riferimento del film, è sì una cultura di immagine, ma non certo di spazio. La cultura pop è una cultura di icone, che non conoscono spazio. Allo spazio deve badare la musica, soltanto la musica. La musica è la porta, l’accesso all’universo possibile di Alex De Large. La musica non si può raffigurare visivamente, a meno di utilizzare l’allegoria: lo spazio deformato di Arancia meccanica è la modulazione visiva, per suggestione e effetto, della musica. 1
Cfr. T. A. Nelson, Kubrick. Inside a Film Artist’s Maze. New & Expanded Edition, Indiana University Press, Indianapolis 2000, p. 144: «Alex is the Star-Child of the Id». 2
Cfr. J. Howard, Stanley Kubrick Companion, B. T. Batsford Ltd, London 1999, p. 125: «The Alex’s present from the «Minister of the Inferior» – the enormous stereo system – is photographed from Alex’s point of view, as the two speakers at the foot of his bed unmistakably echo the final appearance of the monolith at David Bowman’feet». Peccato che l’autore, poche righe più sotto, riduca il tutto a un gioco di autocitazioni che l’analista farebbe bene a tralasciare per il rischio di incorrere nella trappola della sovrainterpretazione. 3
Cfr. Nelson, Kubrick cit., p. 165: «This image implies an evolution toward a paradoxical but encouraging future, one that exists on the other side of the Korova’s black wall. The backgrounds are a luminous white…». 4
Cfr. E. Ghezzi, Stanley Kubrick, Il Castoro, Milano 2002, pp. 87-88.
5
Cfr. S. Bassetti, La musica secondo Kubrick, Lindau, Torino 2002, p. 99.
6
Ivi, p. 105.
7
Cfr. la testimonianza di David Prowse in M. Di Flaviano, F. Greco, S. Landini, Stanley and Us, Lindau, Torino 2001, p. 180 del volume accluso al VHS.
Barry Lyndon
La porta Anche in Barry Lyndon la sequenza finale evidenzia il salto, ovvero il passaggio attraverso una porta, che costituisce il superamento conclusivo della condizione raggiunta dai personaggi, e della narrazione nel suo complesso. In questo film, l’attraversamento è proposto da Kubrick in una modalità figurativa forse più sottile, ma non per questo meno forte e evidente. La sequenza conclusiva mostra Lady Lyndon, in un salone del castello, intenta a firmare i mandati di pagamento a dipendenti e creditori. L’ambiguo reverendo Runt, il vile Bullingdon e il fido Graham la assistono premurosi. L’inquadratura è costruita, configurata a strati. In fondo, sulla parete, un grande quadro di Van Dyck, il maestro del ’600 e guida per i pittori settecenteschi, fonte di ispirazione iconografica di tutto Barry Lyndon. Al centro, la stanza di Lady Lyndon, ovvero il ’700, con la luce che penetra dal finestrone sulla sinistra. Fuori campo, ma nello spazio, la musica di Schubert, un compositore attivo nell’800. Infine, il cinema, il ’900. È stata ampiamente notata e commentata questa stratificazione del Tempo e della Storia nella sequenza finale del film1. È stata segnalata, inoltre, la pregnanza semantica della data che si riesce a leggere sul mandato di pagamento che Lady Lyndon sta compilando per il marito: si tratta infatti di un anno fatidico, il 1789. Ciò che non è stato rilevato, almeno ci sembra, è la valenza iconografica che l’inquadratura in primo piano dell’assegno mette in mostra senza ombra di dubbio. Si
veda il frame 10, in cui l’assegno in PP evidenzia una forma familiare, la forma del monolito, un rettangolo trasversale nell’inquadratura. La forma monolito, ormai lo sappiamo, è supporto dell’immagine della porta. Il mandato di pagamento, datato 1789, è la figura della porta del Tempo a cui giunge la storia di Redmond Barry e Lady Lyndon. L’astronauta Bowman, davanti al monolito/porta della Legge, muore e rinasce; Alex De Large, davanti al monolito/casse stereo, la porta dell’avvenuta pacificazione tra istinto ferino e ordine statale, sogna la propria euforica guarigione. Lady Lyndon, di fronte al mandato di pagamento del marito, si blocca per un istante, resta immobile trasognata, quasi addormentata. Uno stacco sul preoccupato volto di Lord Bullingdon introduce un nuovo PP della donna che ha un gesto come di risveglio, una lieve scossa, dopo la quale ella disciplinatamente riavvia la malinconica cerimonia della firma. In Barry Lyndon, dunque, il rito dell’attraversamento avviene sulla testa e la pelle dei personaggi. La data 1789 ripropone il paradosso della porta della Legge kafkiana. Il 1789 era infatti la porta aperta solo per Redmond Barry, e che lui finirà con il non attraversare mai: ovvero, la porta della rivoluzione tesa a segnare il primato della borghesia sull’aristocrazia. Barry disponeva di questa porta, per accedere di là, e invece ha inteso rimanere al di qua, prigioniero del vano tentativo di acquisire il titolo di Lord. Come è scritto nelle tesi di Walter Benjamin sulla Storia, il risveglio è il momento in cui un’epoca può vedere la successiva nella veste del sogno. La scena finale del film, la firma dell’assegno e l’attimo trasognato, tra veglia e sogno, di Lady Lyndon, raffigurano esattamente l’irruzione, messianica, del risveglio: il 1789 è il risveglio della Storia. L’ironia glaciale kubrickiana, tuttavia, fa sì che tale risveglio sia precluso ai personaggi. Lady Lyndon, presumibilmente, gettando uno sguardo di incalcolabile malinconia su ciò che è stato, avvista, in un istante, anche l’incalcolabile portata di ciò che sarà. Ma è giusto un attimo, e la pietra tombale del cartello dell’epilogo, in cui tutti i personaggi, vissuti sotto il regno di Giorgio III, vengono adesso liquidati come figure tutte uguali,
inesorabilmente, raddoppia, se possibile, quella stessa ironia. Il motivo dell’uguaglianza, che per Barry si collocava sul livello del raggiungimento del grado di nobile aristocratico (per Lady Lyndon sul versante dei sentimenti: essere corrisposta) si staglia implacabile all’insegna della morte, di tutto falce e livella. Il motivo del superamento, percepibile nel monolito di 2001: Odissea nello spazio, porta delle stelle, e in qualche modo nell’euforia ingenua e vitalistica di Alex in Arancia meccanica, si irrigidisce e si blocca. Il che conferma l’ipotesi che tutto Barry Lyndon sia certamente un album di riproduzioni fotografiche di quadri. La Storia procede per sedimentazioni e sfogli: il ’600 di Van Dyck sullo sfondo, il ’700 della stanza al castello dei Lyndon, Schubert e la musica dell’800, ma in mezzo, o almeno da qualche parte, o meglio sul tavolo, l’assegno, il mandato di pagamento, il rettangolo di carta, la forma monolito che è figura della porta. Gli assegni vengono letteralmente sfogliati dal figlio Lord Bullingdon, che li passa, uno per uno, come girando, voltando, sfogliando le pagine di un libro, sotto la penna di Lady Lyndon. Il 1789, così, è la porta per cui si accede all’età contemporanea, il monolito/stele che segna il confine, il risveglio dal vecchio al nuovo. Lady Lyndon e la sua corte restano però sospesi al di qua. Redmond Barry, privo della gamba amputata a seguito del duello col figliastro, entra con le grucce nella diligenza che, secondo i patti, lo condurrà lontano dagli affetti e le proprietà dei Lyndon. La diligenza, almeno nella seconda parte del film, si costituisce come luogo di morte: in una diligenza, infatti, assistiamo alla sequenza in cui Barry, fresco sposo di Lady Lyndon, le soffia in faccia il fumo della pipa, evidenziando, da subito, il proprio matrimonio nato già morto (la sequenza giunge esattamente dopo quella delle nozze). In una carrozza, dalle dimensioni corrette, viene adagiata la bara del piccolo Brian, il figlioletto morto disarcionato dal cavallo ricevuto per il compleanno2. L’istante in cui Redmond Barry, storpio, sale e accede all’abitacolo della carrozza, viene sottolineato da Kubrick con il ricorso al procedimento cinematografico del frame-stop,
ossia il fotogramma fisso, che si blocca, come farebbe una diapositiva fotografica inserita nel corso del film. Barry si blocca proprio nell’istante in cui entra nell’abitacolo, sospeso sul gradino della porta di ingresso. In un film che scivola via come una lunga e puntigliosa riproduzione fotografica di quadri, alla fine Barry accede fotograficamente al quadro. Dopo il fallimento sociale, morale e affettivo, Barry può trovare, con impietosa ironia, un risarcimento di caratura estetica. Come Jack Torrance, in Shining, avrà accesso, tramite l’istantanea fotografica, al mondo spettrale che gli compete, qui Redmond Barry, tramite il fotogramma fisso, può scivolare nella ricca pinacoteca «Barry Lyndon», accanto ai vari Gainsborough, Constable, Hogarth, Reynolds. Riesce, con ironia tutta kubrickiana, ad accedere al mondo dell’aristocrazia, ossia alla dimensione dell’arte raffinata e della cultura, suo sogno ossessivo ed estremo, fissandosi fotograficamente (frame-stop) al quadro, all’inquadratura bloccata sull’ultima immagine, o riproduzione, dopo la quale, sfogliando ancora, non può esserci che il salto del 1789, la porta della rivoluzione, oltre tutte le aristocrazie, le rendite e i sogni. A Lady Lyndon, invece, è negata anche questa ironia. L’ultima inquadratura del film, lo stanzone delle firme, la vede bloccata al centro di un mondo che era già il suo, e al cui destino è stato impossibile sfuggire. La sequenza è stata già sommariamente descritta. Il totale della stanza, poi le inquadrature sulla donna, Lord Bullingdon e l’assegno con la data «1789», l’attimo trasognato di Lady Lyndon, che, un istante prima di firmare il pagamento al marito, sembra addormentarsi e sognare a occhi aperti quella felicità che non ha mai conosciuto, né col matrimonio di interesse, tanto meno col matrimonio d’amore: poi un rassegnato sussulto, la firma «H. Lyndon» al termine di uno zoom sul documento, zoom che finisce glacialmente con l’escludere la data «1789» per concentrarsi sul nome, l’unica vera, reale porta sbarrata per sé e per il marito, mentre il figlio le sottopone, sfogliando il mucchio, altri pagamenti. Kubrick torna per una volta ancora sul totale della stanza da cui era partito, dove l’inquadratura è certo la stessa ma non la medesima (frames 11-12). La macchina da presa si è spostata un poco più avanti e a destra: il
finestrone sulla sinistra è meno visibile. Il 1789 ha dunque operato già un piccolo sussulto: non c’è carrello in avanti di Bowman rigenerato, o visione di Alex uomo nuovo, ma uno zoom (tutto il film è stato all’insegna del falso movimento – l’ascesa fallita di Barry – dello zoom) e poi una piccola reinquadratura, un aggiustamento istantaneo prima/dopo la rivoluzione che può dare il là, ovvero innesca il cartello spettralmente conclusivo di tutto il film, in cui si accenna ai personaggi della storia narrata, sotto il regno di Giorgio III, buoni o cattivi, ricchi o poveri, e che «they are all equal now», adesso sono tutti uguali. Il quadro stesso, naturalmente, in sé, è figura della porta. I quadri sono, letteralmente, la porta attraverso cui Kubrick ha inteso accedere al ’700. I quadri settecenteschi, inoltre, sono il sostituto storico della fotografia: la ritrattistica e la paesaggistica d’epoca testimoniano esaurientemente le funzioni assolte dalla pittura nel XVIII secolo. I quadri sono quindi le «fotografie» che si pongono ben al di qua della macchina da presa, la prefigurazione del ’700 che il film deve fotografare ulteriormente. Accettando la definizione di Barry Lyndon quale successione di riproduzioni fotografiche di quadri d’epoca, si ritorna, senza sforzo, alla definizione del cinema proposta da Kubrick a Jack Nicholson: fare cinema significa fare la fotografia della fotografia della realtà. A puro titolo di esempio, si confrontino i frames 13-14. L’attrice Gay Hamilton, interprete della cugina di Barry, è praticamente identica al ritratto della figlia di Gainsborough, Margareth, custodito a Londra, nel Victoria and Albert Museum. Viene da chiedersi, in ultima analisi, chi dei due, il ritratto o l’attrice, sia davvero la fotografia della fotografia della realtà. La stanza da bagno Più che la stanza da bagno, in Barry Lyndon c’è il bagno elevato ad ambiente assoluto. La scena, completamente inventata rispetto al romanzo originale di Thackeray, del bagno nel fiume dei due ufficiali inglesi omosessuali consente
a Kubrick di sintetizzare, in maniera anche divertente, la fuga di Barry dai ranghi militari dell’esercito britannico. Barry ruba divisa, cavallo e documenti di uno dei due ufficiali, incaricato di consegnare dispacci al quartier generale degli alleati prussiani. Il luogo del bagno, così, si conferma afferente alla iconografia della mutazione: attraverso lo spazio del «bagno», Barry passa da soldato semplice a disertore, ma va comunque a incrementare le proprie esperienze, culminanti nell’incontro con il capitano Potzdorf, grazie al quale si imbatterà nel cavaliere De Balibari, ultima tappa picaresca prima delle nozze con Lady Lyndon. La seconda sequenza è quella del bagno di Lady Lyndon, ovvero del tentativo di Barry di riconciliarsi con la moglie, nonostante i suoi continui rapporti adulterini. Mentre una dama di compagnia legge una poesia, in francese, sui legami misteriosi, eppure «scientifici», fra l’ottica e le passioni umane, Lady Lyndon accoglie Barry nella stanza da letto ai cui piedi è collocata una tinozza: dentro è immersa immobile Lady Lyndon, seduta nella vasca dove lo specchio d’acqua le ruba le grazie nascoste per consegnarle furtive alla vista degli astanti (personaggi e spettatori). Il bacio fra marito e moglie avviene in siffatta dimensione di abissale gelida cristallina intimità: il bagno, nell’iconografia kubrickiana, farà comunque la sua parte, la mutazione ci sarà, e avrebbe potuto essere una mutazione davvero decisiva, nell’economia della narrazione e dei personaggi. Il momento d’amore, l’istantanea in cui passione e ragione, all’insegna dei rapporti fra i cuori e i raggi luminosi che la poesia dispone e canta, trovano un punto di convergenza: Redmond abbandona le fatue dissolutezze e si atteggia a padre adorabile e marito degno della situazione. Ma l’ironia del racconto, settecentesca ma anche «kafkiana», mantiene nel sarcasmo un velo di perfidia: Redmond, reduce dalle scorribande adulterine, si trova alle prese con il risentimento, l’odio nei suoi confronti, del figliastro Lord Bullingdon. Che ne determinerà, assieme all’ossessione per la conquista del titolo di Lord, la rovina. Ci
sarebbe, sottile frutto ancora dell’ironia, anche un terzo passaggio in cui si ha a che fare con il bagno. Sir Charles Reginald Lyndon, il marito paralitico di Lady Lyndon, fra i suoi titoli annovera anche quello di «Cavaliere dell’Ordine del Bagno» (Knight of the Bath): si capisce, sir Lyndon rappresenta subito, per Barry, l’esito agognato della propria mutazione, da borghese a Lord. Mutazione che resta a metà dato che Barry rimarrà, per l’intera durata della sua vita, mr. Lyndon. In entrambi i casi, la sequenza del bagno assume la caratteristica di una mutazione forse possibile ma certo infruttuosa. Nell’apologo di Barry Lyndon ogni mutazione è motore puramente occasionale di sviluppo narrativo. E sostanzialmente sterile. Per il bagno, in entrambi i casi, si tratta del motivo centrale, del tema cardinale di Barry Lyndon come racconto, come mito. L’identità rubata all’ufficiale inglese, la riconciliazione con Lady Lyndon quale gesto inaugurale del tentativo, buono per tutta una vita, di acquisirne il titolo nobiliare. La mutazione, stavolta, è impossibile. Il bagno, infatti, in Barry Lyndon, non è mai sala da bagno, vero e proprio gabinetto (ossia studio, laboratorio). La tinozza di Lady Lyndon è collocata in camera da letto; il bagno degli ufficiali si fa direttamente nel fiume. Si intende dire che la stanza da bagno, in Barry Lyndon, brilla e spicca come non mai: per la sua assenza. Il corridoio Lo spazio del corridoio, in Barry Lyndon, coincide con i momenti di combattimento: le battaglie e i duelli. Il corridoio, con il suo effetto tunnel, o cunicolo, nell’iconografia kubrickiana, costituisce il percorso vertiginoso nello spazio e nel tempo. Non il salto vero e proprio, che appartiene al motivo della porta, ma il percorso della «crisi», la caduta che spinge al salto. Il motivo del combattimento è in sé un preciso punto di snodo spaziotemporale, nel segno della vittoria o della sconfitta. Il campo di battaglia è lo spazio dove si stabilisce il futuro dei contendenti.
La convenzione militare delle battaglie settecentesche, ampiamente riprodotte nel film, prevedeva l’avvicinamento, a passo di marcia, delle truppe attaccanti il presidio della milizia attaccata. Il campo di battaglia, così, si costituisce come un lungo corridoio obbligato, in mezzo al fuoco nemico, puntato dritto verso l’obiettivo. Nel Vietnam di Full Metal Jacket, il cecchino rappresenta, sul piano della guerriglia senza regole, a cui il «marine», ossia il massimo prodotto «scientifico» della pratica dell’addestramento militare, non sa resistere, ciò che nel ’700 era condivisa codificata belligeranza. Il duello, tanto nella versione all’arma bianca, quanto in quella con armi da fuoco, si costituisce in una struttura spaziale affine alla figura del corridoio. Il duello con la spada prevede una sorta di spazio a pedana, una striscia di terreno presupposta dove i contendenti si affrontano (è esclusa la hollywoodiana spettacolarità del duello in cui non esistono confini che possano contenere e limitare la tenzone). Nel caso del duello alla pistola, infine, i due tiratori si pongono uno di fronte all’altro a distanza, ciascuno compreso nel cono di luce dell’avversario: la coreografia stessa del duello si assesta nella figura del corridoio. Il corridoio, campo aperto o striscia di terreno a pedana, è configurazione spaziale che prescinde persino dalla località in cui si verifica lo scontro armato. Con l’eccezione del duello in cui muore il padre di Barry, ossia la prima inquadratura del film, tutti gli altri combattimenti avvengono all’insegna di una rigorosa dissimetria, indizio della crisi, un puntuale squilibrio (ma la morte del padre di Barry è precisamente il punto di squilibrio origine di tutta la narrazione). Non si costituisce mai parità effettiva tra i contendenti: nelle battaglie in campo aperto, un esercito marcia, bersaglio scoperto della fucileria nemica; negli scontri diretti, alla pistola, la formula, dettata esclusivamente dalla casualità, una moneta lanciata in aria, della successione del fuoco esclude a priori ogni possibilità di equilibrio fra i partecipanti. Nel duello alla spada, l’unico che si mostra nel film, in cui sembrerebbe vigere una parità effettiva, Kubrick costruisce la messa in scena in modo da suggerire, ancora una volta, una sostanziale situazione di squilibrio. Il duello è preceduto da
una seduta di gioco in cui il cavaliere di Balibari, in coppia con Barry, barando, vince una grossa somma a un malcapitato, e ingenuo, avversario. Nella sequenza di gioco, fatta di campi e controcampi ai due lati del tavolo sui gruppi di giocatori, Kubrick inserisce improvvisamente il primo piano della manica della giacca di Balibari, all’altezza del polso, da cui spunta di nascosto la carta vincente. La sequenza successiva, ossia il duello fra Barry e il giocatore sconfitto che si è rifiutato di liquidare la somma, si risolve con un colpo di spada inferto con perizia strategica: Barry finge un colpo frontale ma, improvvisamente, passa il braccio dietro la schiena e colpisce al bersaglio grosso, nascondendo la spada agli occhi dell’avversario. L’analogia fra il «colpo di mano» che nasconde la carta vincente, e il «colpo di braccio» che nasconde la spada, in entrambi i casi alla vista del malcapitato avversario, risulta evidente. Anche nel duello con la spada, così, Kubrick istituisce un preciso livello di dissimmetria e squilibrio. Barry, pur abilissimo nel duellare, conclude lo scontro con un colpo, comunque, «da baro», che la forma duello provvede a sublimare in perizia (ma anche il mestiere del baro richiede una specifica presenza di spirito). L’elemento «truffa» era già comparso, nel corso del racconto, in occasione del finto duello alla pistola fra Barry e il capitano Quinn, in cui, caso esemplare di squilibrio, a propria insaputa, Barry si era trovato a sparare con un’arma caricata a salve. Caso estremo di dissimetria nella rigida formalità di un rito codificato, è la modalità di punizione in vigore nell’esercito prussiano: il colpevole, nudo, cammina fra due ali di commilitoni che, a turno, lo colpiscono. Nome convenzionale della punizione: il corridoio. Nell’unica eventualità in cui sarebbe impossibile barare, in cui la dissimetria è esclusa a priori, Kubrick esclude la figura del corridoio. Si tratta del confronto a mani nude, a pugni, fra Barry soldato nell’esercito britannico e un compagno d’arme con cui ha finito con l’attaccare briga. I soldati formano un quadrato, un ring, dentro il quale i due iniziano a tirare di boxe. Affinché risalti la differenza con gli altri combattimenti, questo è uno dei rarissimi casi, nel film, in cui Kubrick filma
una scena con la macchina a mano. Il duello, pertanto, è tenzone davvero alla pari, e alla figura del corridoio succede quella del ring. Ma è vero altresì che si tratta di un duello, l’unico, senza posta in palio, frutto del puro piacere di menare le mani. Un duello economicamente senza esito, se non la faccia, tanto per chi vince, quanto per chi resta sconfitto3. 1
Cfr. E. Ghezzi, Stanley Kubrick, Il Castoro, Milano 2002, p. 135.
2
Una situazione narrativa, la morte del figlioletto che recide i legami fragili e precari della coppia di genitori, che curiosamente ricorda da vicino l’intreccio di Via col vento (Gone With The Wind, di Victor Fleming, 1939). 3
Nel caso della messa in scena delle battaglie in Spartacus, è stata giustamente ricordata la grande passione di Kubrick per gli scacchi. Le centurie romane si dispongono, sul campo, in una configurazione che rammenta molto da vicino la forma di una scacchiera: ciascuna mossa di scacchi, in sé, è una sorta di corridoio.
Shining
La porta Anche il finale di Shining presenta l’iconografia della porta. Una porta, ancora, a forma di monolito. Finito ghiacciato nel labirinto di neve, dopo l’infruttuoso tentativo di agguantare il figlio Danny, Jack Torrance, il malcapitato protagonista di questa ghost story, il custode invernale dell’Overlook Hotel, sembra avere concluso la sua avventura terrena. L’inquadratura del personaggio ibernato nel labirinto è in frame-stop, ovvero freeze-frame (frame 15). Si tratta, quindi, di un’inquadratura ghiacciata, ghiacciata già nella dimensione letterale dell’immagine1. Stacco. Interno dell’Overlook Hotel. Atrio della Gold Room, la grande sala dei ricevimenti. Lento movimento a carrello in avanti, ad altezza d’uomo, verso la parete di fronte, dove sono appesi e disposti, come su altre pareti dell’albergo, dei grappoli di fotografie in bianco e nero. Come è facile rilevare dal frame 16, la composizione delle fotografie sul muro costituisce, con esattezza, un grande rettangolo. Una figura a monolito, posizionata in orizzontale, con il lato lungo come base. Il movimento a carrello in avanti richiama inoltre il movimento in avanti della macchina da presa, in 2001: Odissea nello spazio, a partire dal letto dove è situato il feto astrale, verso il monolito, fino a bucare la superficie nera e lo sprofondamento nello spazio cosmico.
In Shining avviene la stessa cosa. Dal frame-stop in cui Jack è ibernato sull’inquadratura, si stacca sul movimento a carrello, in avanti, verso la fotografia. Lo stacco, da Jack ghiacciato in primo piano nel labirinto all’interno dell’hotel, autorizza l’interpretazione del rapporto fra le due immagini secondo il procedimento, classico, del campo/controcampo. Che tuttavia è e resta un’interfaccia. Come Bowman, al centro della stanza da letto, scarta, in campo/controcampo, verso la stanza da bagno, così Jack Torrance, ghiacciato nei meandri del labirinto, stacca dentro l’hotel, in soggettiva spettrale verso la Gold Room. Lo spazio, ancora una volta, si capovolge. Chi avanza, nell’albergo, è Jack-pezzo-di-ghiaccio. L’immagine del personaggio congelato, come abbiamo visto, è realizzata in freeze-frame, che nelle narrazioni filmiche kubrickiane indica l’arresto del tempo: ciò che avanza, nell’Overlook, è quindi un pezzo ghiacciato di film, un fotogramma fisso. Jack-pezzo-di-ghiaccio, ovvero Jack-fattoimmagine. Il lento carrello in avanti punta la parete con le fotografie, centrando quella situata al cuore della composizione. Si dà, ma stavolta con gelida e perfida ironia, la stessa dinamica di penetrazione presente in 2001: Odissea nello spazio. Come il feto attraversa il monolito, porta delle stelle, per galleggiare superuomo nello spazio cosmico, nel finale di Shining, Jack Torrance, congelato in un fotogramma fisso, accede attraverso il monolito di fotografie alla sua nuova dimensione. Nuova ma eterna. La fotografia, che già ripete nel formato rettangolare la sagoma del monolito (come i moduli della memoria di Hal 9000, svitati da Bowman, replicavano, con esattezza, la forma del monolito), situata al centro della composizione «monolitica», costituisce la porta verso un’altra dimensione. Una porta che era rimasta aperta, come nella parabola kafkiana della Legge, solo e soltanto per lui, Jack Torrance. Jack Torrance in persona, in piena forma, troneggia al centro dell’istantanea anni ’20 del ’900. La porta del Tempo si spalanca ai suoi occhi.
Jack-fatto-immagine (il fotogramma fisso) incontra l’immagine-di-Jack (la foto anni ’20). Il pezzo di film congelato regredisce nella istantanea della fotografia. La modalità dell’interfaccia non potrebbe risultare più vertiginosa. La consueta capacità kubrickiana di lavorare la figura già dietro la macchina da presa si manifesta, in Shining, in una accezione puramente letterale. Jack-fatto-immagine, il blocco di ghiaccio, è davvero, alla lettera, già tutto situato alle spalle della macchina da presa. Il carrello in avanti sarebbe infatti la sua soggettiva. Quando il carrello in avanti precisa la sua corsa, e fa coincidere l’inquadratura filmica con il rettangolo della fotografia, Kubrick esegue l’accesso dentro la porta del Tempo attraverso l’effetto cinematografico della dissolvenza. Si capisce: il blocco di ghiaccio, che costituisce il fotogramma fisso di Jack-fatto-immagine, si dissolve, inizia a sciogliersi. Il pezzo congelato di film si dissolve, si scioglie nella fotografia. Il frame-stop inizia a entrare nella fotografia. Jack accede alla porta del Tempo. «It’s just like the pictures in a book», sono come le immagini in un libro, aveva dichiarato Halloran, il cuoco nero dotato di luccicanza, al piccolo Danny. I fantasmi dell’Overlook, quindi, sono, ontologicamente, immagini di un libro. Fotografie. L’apparizione in smoking (frame 17) che brinda alla volta di Wendy esibisce una lacerazione al centro della faccia: esattamente come una vecchia fotografia strappata, lacerata a metà. Il libro di fotografie e ritagli di articoli di giornale, riguardanti gli ospiti e i fatti di sangue accaduti negli anni all’Overlook Hotel, sintesi allegorica del Male annidato nell’albergo e nell’America tutta, elemento cardine nel romanzo di Stephen King da cui il film è tratto, era stato effettivamente previsto da Kubrick e la sua co-sceneggiatrice Diane Johnson. La stessa Johnson ebbe a lamentarsi dell’esclusione, dalla versione finale della pellicola, di questo album di ricordi, in cui la storia, delittuosa, dell’albergo e i suoi ospiti, si rendeva esplicita e manifesta2.
Tuttavia, l’album compare ugualmente in alcune inquadrature di Shining. Si confrontino i frames 18-19: Jack è seduto al tavolo, di fronte alla macchina da scrivere, e in primo piano si vede il grosso libro aperto, con le foto e i ritagli di giornale. Si guardi attentamente. Nei due frames, che fanno parte della medesima sequenza, e quindi riguardano la medesima azione (una discussione fra Jack e Wendy circa la precaria concentrazione di lui nella stesura del romanzo), è evidente quello che in gergo produttivo si chiama un errore di continuità. In un’inquadratura l’album è aperto a una certa pagina, nell’altra, immediatamente successiva, si trova aperto ad una pagina diversa. Tutto Shining è costellato di simili «imprecisioni»3, che ne rafforzano, se fosse necessario, la caratura onirica. Il fatto è che tutto l’Overlook Hotel, secondo l’indicazione di Halloran il cuoco, è un gigantesco album di fotografie. I fantasmi sono istantanee che appaiono e scompaiono, come risulta evidente nella sequenza, tagliata nella versione europea, degli scheletri nella sala delle ragnatele. Wendy apre la porta e si trova di fronte una grande stanza buia con ragnatele penzolanti dappertutto. Solo dopo uno stacco, un controcampo di ritorno su Wendy, la stanza si popola di mummie. Le mummie non si mostrano, come da tradizione horror, nel momento in cui il personaggio spalanca la porta, con effetto shock: Wendy apre la porta, la stanza è vuota (prima istantanea), ed è soltanto dopo uno stacco sul personaggio, che la stanza ricompare piena di fantasmi mummificati (seconda istantanea). L’istantanea finale, 4 luglio 1921, centrata nello spazio della composizione monolitica, è quell’istantanea che racchiude potenzialmente tutte le altre. Dove tutto il film, proiettato fino a quel momento, tutto il tempo e il cinema di Shining congelato nel freeze-frame di Jack, interfaccia con la propria origine, la fotografia. Lo stacco, in controcampo virtuale, che dal labirinto ghiacciato, dalla mummia congelata di Jack, conduce direttamente nel corridoio afferente alla Gold Room, è il luogo dell’interfaccia. Ma perché Kubrick escluse l’utilizzo della steadicam, a favore del carrello? Carrello ripetuto decine e decine di volte, e sembra mai perfettamente
riuscito, almeno rispetto alle intenzioni dell’artista. Nel carrello, a differenza della steadicam, la camera ha i piedi piantati a terra. Quando Jack diventa un fantasma, l’oscillazione fantasmatica delle steadicam viene esclusa. Ciò che avanza, allora, in Jack e per Jack, è tutto il film, tutto Shining proiettato fino a quel momento: Shining, quindi, che si trova, materialmente, al di qua della macchina da presa, al di qua del proiettore stesso che sta finendo, a quel punto, la bobina. È come se il film conoscesse un secondo inizio, un nuovo big bang: il nucleo, densissimo, infinito, compresso di immagini, suoni, movimenti, ossia tutto Shining, ciò che lo spettatore ha visto, ciò che ha inferito, ciò che ha creduto di vedere, immaginato o soltanto intuito, ciò che ha compreso e ciò che invece gli è restato ignoto e oscuro, tutto questo nucleo di materia, densissima, pesantissima, condensatissima, esplode in un nuovo big bang. Il film riesplode in cinema. Oppure: il film è un buco nero dove entra materia che sarà risputata fuori in forma di energia. Tutta la materia del film, che è stata risucchiata nello svolgimento stesso del film, per esempio nei cerchi concentrici sempre più concentrati dei cartelli che segnano mesi, giorni, ore, minuti, si risputa al di là, in un epilogo irriducibile a qualsiasi sceneggiatura. L’universo del film, gravato dalla materia narrativa e audiovisiva, si contrae, si raffredda, poi, tramite la figura monolitica della porta stellare, riaccede a una dimensione ulteriore di cinema. Il progetto architettonico del film ritorna alla dimensione cinema del collage. E stavolta alla lettera, perché la foto anni ’20 è davvero un collage: una vera foto anni ’20 su cui è stato incollato l’attore Jack Nicholson fotografato a parte. Lo sguardo in macchina, verso l’alto, di Jack Torrance e dei partecipanti alla festa del 4 luglio 1921 costituisce il perfetto interfaccia fra l’al di là e l’al di qua dell’immagine. Fotografia/Collage/Film. Mentre in 2001: Odissea nello spazio la porta si realizzava ancora in un oggetto, il monolito, che tuttavia già presentava i segni della lastra sensibile, del negativo nero che assorbe tutta la luce (e che infatti non si lascia fotografare nel gesto turistico degli astronauti USA allunati), qui, in Shining, il monolito si sottrae alla dimensione oggettuale, e si dà nella pura eventualità del film che si
rapprende e contrae dentro e attraverso il proprio movimento audiovisivo per scaturire nuovamente nella fotografia che lo comprende senza tuttavia nulla «spiegare» davvero. Il monolito è Shining, tutto il film inteso nella caratura di evento, di performance. L’experience movie, che in 2001: Odissea nello spazio costituiva l’esito della performance cinematografica, in Shining, nell’abituale circolarità, ne è il presupposto. Kubrick comprende in un’opera la modalità più specifica, e diffusa, dell’arte contemporanea, ossia la performance, l’installazione. La presuppone come dato di lavoro e mezzo di espressione. Si potrebbe dire, ed è stato detto, che il cinema, di suo, è già questa sintesi perfetta, e forse enigmatica, fra l’eventualità della performance e la compiutezza dell’opera. Ma ciò non farebbe altro che ribadire l’assoluta aderenza della ricerca artistica di Stanley Kubrick alle caratteristiche ontologiche, e tecnologiche, dell’espressione artistica prescelta. Dopo la musica in Arancia meccanica, e dopo la pittura, tutti i quadri di Barry Lyndon, Kubrick affronta direttamente, senza mediazioni, la modalità della performance, dell’installazione, nucleo estetico cardinale dell’arte contemporanea4. Jack Torrance, all’inizio non lo sa, ma lui è già installato nell’Overlook Hotel. Per questo, anche per questo, Shining può permettersi la doppia versione, quella per gli Usa e il Canada, più lunga, e l’altra per il resto del mondo. Ed è l’unico caso, inoltre, in cui Kubrick autorizza l’edizione di una sorta di making of, a cura della figlia Vivian. Kubrick, però, non entra affatto nel merito della questione del restauro: Apocalypse Now Redux (id., 2001, di F. F. Coppola) esce ventuno anni dopo la versione originale; i ritocchi digitali ai vari Star Wars e E.T. sono interventi comunque successivi alla confezione dell’opera. Kubrick, invece, da subito, licenzia un’opera compiuta in doppia versione. Da un lato, nella fedeltà assoluta al cinema come industria, là dove l’industria prevede e predilige versioni differenti per pubblici e mercati lontanissimi fra loro. Dall’altro, in adesione convinta all’estetica della performance e dell’installazione quale cardine non eludibile dell’arte contemporanea. In breve, Shining deve essere, e lo è, un’opera
non ricostruibile. Una volta installata, si dà alla percezione. Testimonianza comune a tutti i collaboratori sul set: Kubrick voleva che non fosse possibile ricostruire compiutamente Shining. Come racconto, certo. Ma il dato si proietta ben al di là della poetica del puzzle impossibile. Come si può dare e fare la ricostruzione impossibile di Shining? Innanzitutto, ed è il rilievo più facile, perché è un film/specchio. Su un livello squisitamente narrativo, Shining si dà, nella sua manifestazione lineare di racconto, come un continuo, vertiginoso, attraversamento dello specchio. Su un livello, invece, rigorosamente estetico, nel senso, se si vuole, di una stratificazione multimediale presente nell’opera, e irriducibile ad essa, il film fa problema del momento stesso della propria esecuzione. Il film si installa, fisicamente, nello spazio percettivo dello spettatore, negando tuttavia uno sguardo d’insieme. Come un’opera di architettura, come un sogno. Il film si presta, fisicamente, nell’evento performativo del cinema, negando tuttavia la totalità degli eventi in esso inclusi e presupposti. Se si intendesse coinvolgere il supporto in dvd quale luogo deputato alla ricostruzione del film, nel confronto fra le due versioni, e anche il documentario di Vivian Kubrick, si dovrebbe convenire, ancora una volta, che l’estetica di Shining già presuppone il supporto dvd. Il dvd, ovvero la sintesi digitale di testo, contesto e paratesto, oppure metatesto se si vuole, è già compresa e contenuta nel film installazione che è Shining: un film che si costruisce nell’evento performativo di strati di immagini, che si sfogliano, si sovrappongono, si richiamano, nello stesso film e da una versione all’altra del film stesso. Il principio kubrickiano del cinema come fotografia della fotografia della realtà, con procedimento davvero «luciferino» e «malefico», ironico e perfido, viene elevato all’ennesima potenza. Il cinema, fisso nel fotogramma congelato, regredisce infine alla fotografia che tuttavia resta il luogo originario da cui tutto il cinema, istantaneamente, proviene. La fotografia è la porta da cui il cinema è entrato nel mondo e attraverso cui, con rivolgimento diabolico, può in ogni istante rientrare. Il momento culminante, sul piano narrativo, in cui si rende evidente, e accade concretamente nel cinema, la vertigine del
racconto quale incrocio multidimensionale di riflessi e specchi, è l’istante in cui Delbert Grady, di cui ascoltiamo soltanto la voce, dall’esterno della dispensa in cui è rinchiuso Jack fa scattare il chiavistello della porta per far uscire l’eroe. Grazie a una porta, viene meno l’esitazione, ovvero la struttura narrativa che aveva sostenuto fin lì il film. L’inizio di Shining, su cui gli studiosi di Kubrick, almeno quelli a nostra conoscenza, non hanno inteso soffermarsi, presenta sorprendenti analogie con la conclusione. Dicendo inizio non intendiamo la sequenza dei titoli di testa, ovvero la ripresa dall’elicottero dell’automobile di Torrance che si inerpica in montagna verso l’albergo, ma la prima, primissima immagine del film. Uno specchio d’acqua, ripreso dall’alto ma non troppo, frontalmente diremmo. Al centro un isolotto. All’intorno, rocce. La macchina da presa, a rigore, dovrebbe essere situata ancora sull’elicottero, ma l’inquadratura appare subito perfettamente immobile (frame 20). Dopo alcuni istanti, assolutamente percepibili, parte un movimento in avanti, lungo lo specchio d’acqua, verso l’isola. Un movimento che ben presto fa inclinare l’immagine da un lato. Per interrompersi alle soglie dell’isolotto. L’inquadratura non ha giustificazione né paternità: è un’inquadratura, alla lettera, di nessuno. E anche di nulla. La celebre ombra dell’elicottero, notata da più di un osservatore, che compare in basso sulla sinistra sulle prime immagini che mostrano l’automobile in viaggio verso l’Overlook, commentata sovente e volentieri ma mai davvero spiegata, se riferita alla primissima immagine del film, acquista forse, se non un senso certo, almeno un certo senso. L’ombra dell’elicottero è semplicemente la traccia, più esplicita che altrove ma comunque segno, impronta, riflesso, di uno sguardo. Che nella prima inquadratura non si dà. La prima inquadratura è infatti priva di sguardo, un’immagine di niente e di nessuno. All’inizio, quando non è ancora partito il movimento e la scena è fissa, mentre la macchina da presa sembra risiedere non si sa dove, in alto ma non tanto, di fronte all’isola ma non certamente addosso, si ha perfino la sensazione di trovarsi di fronte a una diapositiva. Magari una delle diapositive, le caratteristiche del paesaggio autorizzano
l’impressione, non utilizzate in 2001: Odissea nello spazio per la sezione «L’alba dell’uomo». Nella prima inquadratura, la figura è già tutta costruita alle spalle della macchina da presa. Gli sguardi successivi, sempre ambigui e indecidibili, sono coazioni a ripetere, perturbanti, di questa figura. Si accede a tutto Shining, dunque, per un’immagine bloccata, che sembra una diapositiva, e alla fotografia si ritorna per uscire dal film. La fotografia è il monolito che riassorbe l’immagine e tutti gli sguardi articolati e modulati durante il film. La pellicola, incollata materialmente nelle giunte di montaggio fa irruzione nella sua caratura materiale di immagine fotografica: si riesce a vedere la pellicola, materialmente, nei finali kubrickiani. La stanza da bagno La stanza da bagno è figura ricorrente in Shining, dove si conferma luogo di mutazione. Nel bagno, lo spettatore è introdotto al personaggio di Danny, il figlio dei Torrance, alle prese con il doppio Tony, il bambino che parla nella sua bocca. Nel bagno, infatti, Danny parla allo specchio con Tony: la mutazione riguardante la doppia personalità del bambino è presentata, mostrata e caratterizzata dunque, per la precisione, nella stanza da bagno. In una inquadratura tagliata nella versione europea5, i coniugi Torrance, visitando l’appartamento a essi destinato nell’Overlook Hotel, si ritengono soddisfatti dell’ospitalita approntata. Jack, accanto alla moglie dentro il gabinetto, rivolto al direttore, esclama: «It’s homey», ossia: «È confortevole». Una fonte dichiarata esplicitamente da Kubrick, per la messa in scena di Shining, è il saggio di Freud sul perturbante6. Il titolo originale tedesco del lavoro suona Das unheimlich, ovvero il «non familiare». Il perturbante, infatti, secondo Freud, trova asilo in ciò che un tempo era stato familiare e amichevole per l’uomo, e invece, all’improvviso, ritorna in vesti minacciose e ostili. La battuta «it’s homey» richiama esplicitamente la parola tedesca «heim», ossia «casa», sulla quale si innesta il valore semantico di
«unheimich» ovvero ciò che non risulta casalingo, familiare, amichevole. La battuta pronunciata nel gabinetto allude, con indubbia ironia, alla futura mutazione di Jack, e di tutto l’albergo, in qualcosa di radicalmente perturbante, fino al suo accesso finale nel regno dei fantasmi attraverso la porta del Tempo. Il gabinetto, ancora una volta, è topos con cui si annuncia, o si rivela, un processo di mutazione. Irreversibile. Ancora nel bagno, ricostruito, secondo le testimonianze, su fotografie riguardanti le toilettes di un albergo americano opera di Frank L. Wright, avviene l’incontro tra Jack Torrance e Delbert Grady, i due custodi dell’Overlook Hotel. La sequenza riguarda, in maniera esplicita, il tema della mutazione: Torrance si muta in Grady. Il fantasma del custode assassino pronuncia, nei confronti del protagonista, una celebre battuta: «Veramente, mr. Torrance, è lei il custode dell’albergo. È sempre stato lei». I continui scavalcamenti di campo con cui Kubrick cadenza il dialogo, costituiscono un crescendo drammatico culminante in un normale campo/controcampo, che a quel punto della sequenza smarrisce ogni connotazione di figura ricorrente nella grammatica filmica, per assumere l’aspetto inquietante di due immagini istantanee che si fronteggiano. Anche la precedente passeggiata di Jack nella Gold Room zeppa di invitati assomiglia all’attraversamento a piedi di una fotografia da cui si è ancora, per il momento, esclusi. Ancora in una stanza da bagno, il bagno della camera 237, avviene l’incontro fra Jack Torrance e una bellissima, misteriosa fanciulla nuda che si rivelerà ben presto una vecchia orribile donna ghignante, una sorta di cadavere in avanzata fase di decomposizione. La sequenza è caratterizzata da un montaggio parallelo in cui l’incontro erotico di Jack è posto in relazione con una crisi di possessione di Danny. Mentre il padre abbraccia e bacia l’affascinante apparizione, il figlio trema, rotea gli occhi ed emette bava dalla bocca. La simultaneità si dà tanto nel senso dello spazio, quanto nell’accezione temporale. Improvvisamente, la splendida fanciulla si rivela un orribile strega (simultaneità temporale), che tuttavia appare tanto fra le braccia di Jack, quanto distesa
nella vasca da bagno (simultaneità spaziale). Ghezzi parla opportunamente delle età che si sfogliano, alludendo così alla natura cartacea, ossia fotografica, delle apparizioni spettrali. Fotografie di un album frutto anch’esse della luccicanza, dello shining. Il montaggio parallelo per cui l’incontro erotico di Jack con la fanciulla/strega è posto in relazione con la crisi di possessione di Danny, getta una luce ambigua sulla natura «buona», «positiva» della luccicanza. La sequenza è leggibile, senza difficoltà alcuna, come se Danny fosse, in qualche modo, il mandante dell’agguato spettrale subito da suo padre. Il bagno, pertanto, è ancora una volta il luogo della mutazione: dell’innocenza in crudeltà. Il corridoio Nei corridoi dell’albergo, Danny, caracollando sul suo gokart, incontra gli spettri delle gemelle trucidate dal precedente custode dell’Overlook. Il corridoio, ancora una volta, è cunicolo spazio-temporale: se sussistessero dubbi sulla natura cartacea delle apparizioni, le gemelle Grady sono la riproduzione fedelissima di una celebre foto del 1966 di Diane Arbus, Gemelle, Cathleen e Collen. La riproduzione, e non la citazione, corrobora la condizione di album fotografico di tutto l’hotel. Come Barry Lyndon è una riproduzione fotografica di riproduzioni pittoriche, così Shining costituisce una riproduzione fotografica di riproduzioni fotografiche. Questo il senso della battuta di Kubrick a Jack Nicholson, a cui ci siamo ampiamente ispirati: un film è la fotografia della fotografia della realtà. Il corridoio, in Shining, conosce una sorprendente raffigurazione nel motivo del labirinto. Il labirinto è, semplicemente, un corridoio intrecciato, interfacciato su se stesso7. Una variazione geometrica e artistica della figura del corridoio. L’analogia fra il tunnel psichedelico, vero e proprio labirinto di suoni, luci e colori, in 2001: Odissea nello spazio e il labirinto di Shining risulta, allora, evidentissima. In entrambi i casi, il viaggio attraverso il corridoio labirintico è viaggio di regressione. Bowman muore rigido sul grande letto, regredendo alla condizione fetale, trampolino di lancio verso
l’ultimo superamento evolutivo; Jack Torrance finisce bloccato nel ghiaccio, e nel freeze-frame, per regredire finalmente a entità spettrale, trampolino di lancio per l’accoglienza nei meandri dell’Overlook. Tanto il feto astrale quanto la foto di Jack sono figure immobili e bloccate nell’istante, non decidibile, di una morte/rinascita. Il feto si volta verso lo spettatore, mentre Jack è già voltato verso il pubblico, ma il movimento è comunque mantenuto dalla dissolvenza che, alla lettera, scioglie il ghiaccio e induce il personaggio, se ancora è possibile chiamarlo così, all’entrata nella porta del Tempo. La dissolvenza, materialmente configurata, non fa che doppiare, fotograficamente, l’istante, in 2001: Odissea nello spazio, in cui, grazie al movimento a carrello in avanti, dal feto al monolito, l’inquadratura coincide con il nero della superficie del monolito stesso e, in maniera impercettibile, la scena comunque dissolve dalla stanza stile ’700 allo spazio cosmico. Il movimento a carrello in avanti, pertanto, coincide con il movimento a carrello in avanti che conduce Jack-FattoImmagine, bloccato nel ghiaccio, verso il grappolo di fotografie a forma di monolito. Nel momento in cui la scena dissolve nello spazio cosmico, in breve appare sulla sinistra dell’inquadratura la sagoma del feto, che piano accede al campo visivo. Il feto, così, sopraggiunge in campo dalle spalle dell’inquadratura stessa, come sarà per Jack Torrance, che la soggettiva di ghiaccio del carrello in avanti denuncia quale entità posizionata comunque alle spalle della macchina da presa. La costruzione, e produzione, della figura già dietro la macchina da presa induce a un’ulteriore riflessione di carattere teorico. Se la figura, diciamo allora l’immagine, o la fotografia, o il quadro, sono già posizionati e lavorati alle spalle della macchina stessa, allora l’effetto corridoio, ovvero il procedere in avanti della figura già prodotta, va nella direzione della sedimentazione. L’immagine, già compiuta al di qua dell’obiettivo, avanza e così facendo costruisce lo spazio: lo spazio si configura come una sedimentazione di immagini. Lo spazio è fatto a strati. L’Overlook Hotel è esattamente, nella forma dell’album di fotografie spettrali, la
figura più compiuta della stratificazione immaginaria dello spazio, la sua sedimentazione in un grappolo di istantanee. L’effetto corridoio, che la steadicam di Garret Brown non si stanca di produrre, è la segnatura, la marcatura degli strati di immagini di cui lo spazio, anche fisicamente, è composto. La fotografia finale di Shining, 4 luglio 1921, è così il concentrato di tutti gli strati di immagini di cui l’album fotografico «Overlook Hotel» si compone. Spazio di concentramento, dunque. Lager e inferno. Il film è il corridoio, labirintico, cadenzato da tappe, dove il crescendo di immagini, spettrali, dell’albergo si sedimentano nello spazio e implodono nel tempo, nell’istantanea che tutte le contiene, le comprende, e tuttavia non «spiega». Ma concentra e «dispiega», al prossimo custode, lo stesso. Come le ferree leggi del genere horror pretendono e esigono. In 2001: Odissea nello spazio, è comunque il monolito ad inaugurare e porre fine, in qualche modo, al viaggio temporale irto di luci e effetti: il corridoio, pertanto, si innesca nella cavità del monolito. Se il monolito si schiude, in Shining così, è solo per rivelare un lungo e articolato corridoio. In altri termini, un labirinto. Nella sequenza, bizzarra e inaspettata, in cui Jack Torrance osserva dall’alto il modellino del labirinto e, con stacco ellittico dal punto di vista logico (ma non visivo), Kubrick passa al plongeé del labirinto stesso, quello vero, in cui Wendy e Danny, madre e figlio, passeggiano divertiti, è posta la riprova del rapporto corridoio/labirinto. Se si osserva con qualche attenzione il totale del labirinto dall’alto, il centro stesso del labirinto tradisce con ogni evidenzia la sagoma del monolito (frame 21). Tutto il labirinto è un’estensione modulata del monolito. Il labirinto, basta osservare la forma delle pareti di siepe, è un’articolazione modulare di angoli, concavi e convessi, di pertinenza del monolito. Il corridoio è giusto un’interfaccia: il monolito e il labirinto, pertanto, costituiscono un’interfaccia spazio-temporale, di cui il motivo del corridoio è la manifestazione figurativa. Se, in 2001: Odissea nello spazio, la ripetizione modulare del monolito costituiva la memoria di Hal 9000, ovvero l’esito della tecnologia, in Shining la replica del monolito nelle siepi del
labirinto, va a configurare l’inconscio, ovvero l’esito della psicologia8. Tanto il tunnel labirintico psichedelico in cui precipita l’astronauta Bowman è costellato di frame-stop del personaggio, tanto il labirinto di siepi dell’Overlook Hotel propone, alla fine della corsa, il fotogramma fisso, congelato, di Jack Torrance. L’ispirazione kafkiana, e wellesiana, è ancora presente e si fa sentire. Il custode della porta della Legge, nel racconto del penultimo capitolo di Il processo, avverte il viandante che al di là della porta, quella porta che entrambi hanno di fronte, ce n’è un’altra (con annesso custode) e poi un’altra ancora, e ancora un’altra, senza fine. La porta della Legge accede a un labirintico corridoio che accede a dimensioni misteriose. Una porta, tuttavia individuata, come è individuata una istantanea fotografica, se è vero, come è vero, che quella porta era stata aperta soltanto per lui. Il carattere labirintico delle porte è evidente, in maniera persino clamorosa, all’inizio del film, nella sequenza di visita e presentazione alla grande cucina dell’Overlook. Halloran, il cuoco, guida Wendy e Danny attraverso la cucina giù in fondo fino alla ghiacciaia (walk-in freezer). Halloran, col braccio sinistro, muove una porta che si apre esattamente alla sua sinistra. Nel controcampo immediatamente successivo, dall’interno del frigorifero, si vede Halloran che, con il braccio destro, continua ad aprire una porta che sfila, tuttavia, alla sua destra. In breve, la direzione dell’apertura della porta, è rivoltata. Siamo, ancora una volta, dentro lo specchio. Ma non basta. Quando i tre, dopo l’illustrazione delle tipologie di carni congelate presenti nella ghiacciaia, escono nuovamente nel corridoio, e Halloran chiude la porta secondo la prospettiva dell’inquadratura di controcampo, quella dall’interno, Kubrick va a inquadrare la scena, i tre ritornati nel corridoio, attraverso uno scavalcamento di campo. Lo sfondo del corridoio infatti è cambiato, all’ambiente cucina, con la grande cappa fumaria, succede una porta di uscita. I tre personaggi si incamminano e la steadicam, come al solito, li inquadra precedendoli e arretrando: dopo alcuni secondi, appare sul lato destro dell’inquadratura, ossia sul lato opposto del corridoio, la prima porta, quella con l’apertura a sinistra. La si riconosce dalla
presenza, nelle immediate vicinanze, di un carrello con brocche e stoviglie. Riassumendo. Date tre inquadrature: 1) i tre accedono a una porta con l’apertura a sinistra; 2) appena entrati, l’apertura della porta si rivolta e sta a destra; 3) poco dopo esserne usciti, sul lato opposto del corridoio appare nuovamente la porta dell’inquadratura n. 1. Impensabile un errore di editing su un lavoro di postproduzione, quello di Shining, durato undici mesi. Se di errore si tratta, è semplicemente voluto. Halloran, Wendy e Danny entrano in una porta, su un lato del corridoio; non a caso Halloran precisa: «Qui a destra (Right here…) abbiamo il frigorifero», mentre escono da un’altra, che si trova sul lato opposto9. Qui si riconosce, su un piano di più smaccata consuetudine (a una prima visione del film, nulla davvero si nota), quel momento, in 2001: Odissea nello spazio, dove Bowman, nella stanza ’700, fa un passo al centro dell’ambiente e, con un effetto di rotazione della stanza medesima, si trova a entrare nel bagno. La stanza interfaccia con la porta (cosa che, peraltro, accade nella più puntuale quotidianità). Sul piano della storia raccontata, l’Overlook è il luogo dello specchio: in questo modo ogni passo equivale all’attraversamento di uno specchio. Sul piano della modulazione compositiva dello spazio filmico, l’Overlook è il luogo della fotografia: si entra e si esce, ripetutamente, da fotografie, che viste, percepite e agite frontalmente, capovolgono il campo visivo, come fa uno specchio. I fantasmi, infatti, assicura Halloran, sono come le immagini di un libro. L’Overlook è un album di fotografie, le cui pagine costituiscono un labirinto di inquadrature. Per questo, anche per questo, tutto è doppio. La macchina da presa, il cosiddetto «sguardo», la cosiddetta «soggettiva», non sfugge, non può sfuggire a una simile articolazione spaziale. La macchina da presa è il fantasma che accede alle fotografie. Il cinema è la fotografia della fotografia della realtà, là dove il cinema, ovvero il fantasma della fotografia (lo spettro è per definizione
visione parlante e in movimento, fosse anche un movimento fibrillato e tremulo), le attraversa tutte. In ultima analisi, ovvero in primissima analisi, la fotografia è il monolito, nella sua sagoma rettangolare e nella sua funzione di porta del Tempo e dello Spazio. Il cinema, se mai, è il suo corridoio che si snoda, si modula, a labirinto. Questa è la mitografia messa in campo dalla fiaba di Shining. La mitografia dello spazio e del tempo realizzata in figure, la porta, la stanza da bagno, il corridoio, il labirinto. La mitografia del cinema quale corridoio di inquadrature di fotografie. La stessa pellicola, magari, altro non sarebbe che un corridoio di fotogrammi. 1
Cfr. F. De Bernardinis, La soggettiva di ghiaccio, «Segnocinema», n. 55, maggiogiugno 1992, pp. 23-24 (in versione ampliata in F. De Bernardinis, Campi di visione, Bulzoni, Roma 2002, pp. 189-193). 2
Cfr. la testimonianza di Diane Johnson, co-sceneggiatrice di Shining, in M. Ciment, Kubrick, Edizione definitiva, Rizzoli, Milano 1999, p. 297: «C’era una scena importantissima, che è stata tagliata al montaggio, nella quale Jack scopre un libro vicino alla caldaia. Era la storia dell’hotel. Leggendola, capisce di essere una creatura di quel posto e si sente in trappola. Credo che si sarebbe dovuto mantenere quella sequenza». 3
Cfr. S. Bassetti, La musica secondo Kubrick, Lindau, Torino 2002, p. 137, secondo cui, alla vistosa pecca dell’ombra dell’elicottero in cui è posizionata la cinepresa che si vede a fianco dell’automobile di Torrance che si inerpica sulle montagne, «fanno seguito nel racconto manchevolezze variamente appariscenti, come macchine da scrivere che cambiano di colore; porte i cui cardini a battuta cambiano di lato tra una inquadratura e l’altra; altre porte, sfondate a metà da colpi d’ascia, che dopo uno stacco si rivelano ampiamente devastate anche sul pannello adiacente; posizioni di attori che si modificano sensibilmente dopo stacchi tra inquadrature consecutive…». 4
Francesco Casetti utilizza spesso la metafora dell’installazione nell’ambito della propria teoria semiotica cinematografica. Metafora che apre spiragli anche iconologici sulla natura del cinema come territorio privilegiato dell’arte contemporanea. Come l’enunciazione si installa nell’enunciato, la natura esecutiva, davvero «pragmatica», del cinema ne fa quasi l’installazione per antonomasia. Cfr. F. Casetti, Dentro lo sguardo. Il film e il suo spettatore, Bompiani, Milano 1986. 5
Cfr. l’accurata analisi dei tagli effettuati sulla versione europea a opera di Matteo Bisato, «Segnocinema», n. 122, luglio-agosto 2003, pp. 9-12.
6
Cfr. S. Freud, Saggi sull’arte la letteratura il linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino, vol. I, pp. 267-307. 7
Sui rapporti fra il cinema kubrickiano e l’architettura rimandiamo all’ottimo saggio di P. C. Usai, Kubrick architetto, in G. P. Brunetta (a cura di), Stanley Kubrick. Tempo, spazio, storia e mondi possibili, Pratiche, Parma 1985, pp. 201218. 8
La forma parallelepipedo va spesso, in Kubrick, a sostituire qualcosa di irrappresentabile. In 2001: Odissea nello spazio, le creature aliene. In Shining, le siepi a forma di animale che prendono vita e attaccano Danny, come narrato nel romanzo di Stephen King. 9
Devo l’osservazione a Mauro Antonini.
Full Metal Jacket
La porta Se è vero, come è vero, che l’ultima inquadratura di un film di Stanley Kubrick si aggancia, in un effetto retorico di incatenamento, ovvero interfaccia alla prima inquadratura del film successivo, gli allievi marines che vengono rasati dal barbiere nella base di addestramento di Parris Island, la prima immagine di Full Metal Jacket ha a che fare con la foto anni ’20, 4 luglio 1921, Overlook Hotel, gruppo in festa con Jack Torrance in primo piano, ovvero l’ultima immagine di Shining. In Full Metal Jacket, siamo di già, fin dall’inizio del film, dentro la fotografia. Ovvero, dentro il monolito, una situazione già notata in precedenza, per esempio riguardo la prima inquadratura di Arancia meccanica. Diretta conseguenza di questo albergare nella fotografia, e dunque il cinema si conferma, vieppiù alla lettera, fotografia della fotografia della realtà, è il dato, direi inequivocabile, che gli allievi marines sono già morti. La porta del Tempo e dello Spazio è stata varcata, fin dall’inizio. Lo dice il sergente istruttore Hartman, durante una lezione teorica. I marines vengono addestrati a uccidere, ma anche, soprattutto, a morire: «Siamo qui per questo!» esclama sinceramente l’istruttore ai suoi ragazzi. Del monolito, nel film, si scorgono giusto i relitti, le macerie, sul campo di battaglia, e la sagoma in controluce, sullo sfondo, sia al momento della morte del soldato Cow Boy, sia nel tenebroso finale. Si vede, insomma, il residuo, la carcassa. La porta è stata varcata già prima che il film abbia avuto inizio. La porta si trova, letteralmente, al di qua della macchina da presa. Lo evidenzia assai bene Vito Zagarrio,
analizzando la sequenza in cui i marines contemplano i cadaveri di due commilitoni caduti. La macchina da presa assume il punto di vista dei cadaveri e, dal basso, ad altezza di suolo, inquadra via via i soldati che pronunciano una battuta ciascuno sulla condizione di essere vivi/essere morti nell’inferno del Vietnam. La cinepresa panoramica, a cerchio, sui soldati, dal basso, con un effetto che non a caso Zagarrio denomina «una sorta di porta girevole»1. La porta, quindi, è proprio la morte. La morte è la fotografia, secondo il finale di Shining, in cui al di là e al di qua interfacciano. La panoramica, quasi a schiaffo, sui soldati, costituisce una sorta di inanellamento di istantanee, una corona dal punto di vista dell’istantanea per definizione, la morte. La morte quale istante irriducibile a qualsiasi altro momento dell’esistere. La porta del Tempo e dello Spazio, in Full Metal Jacket, è la morte. Tutto Full Metal Jacket è filmato dal punto di vista della morte: siamo dentro la fotografia. Talmente dentro che il limite, il bordo stesso della fotografia è finito ormai alle spalle, al di qua della macchina, e la vita è trascorsa nell’al di là dell’annientamento a cui tutto il film, la storia che vi si racconta, tende energicamente. Fotografia → Cinema → Fotografia Dalla fotografia, luogo dell’istantanea, si accede al cinema, in cui l’istantanea si protende, si dispiega, si espande, ma solo per accedere nuovamente all’istantanea conclusiva, in falso movimento, regressiva, dei marines raffigurati quali sagome nere in marcia, sulle note dell’inno di Topolino. La battuta in voce over del soldato Jocker: «Sono vivo e non ho più paura», è evidentemente antifrastica, ovvero: «La paura è passata: finalmente sono morto». In una fase precedente della sceneggiatura la morte del soldato Joker era effettivamente prevista: si decise di eliminare l’episodio per il fatto che Kubrick si convinse del dato che, come accade per ogni marine, Joker era ed è comunque morto2. Nel romanzo di Gustav Hasford, da cui il film è tratto, i marines della prima linea venivano distinti dagli altri soldati per il fatto che si trattava di combattenti «che avevano visto l’al di là». Lo sguardo fissato sull’al di là e, specularmente,
proveniente dall’al di là è il principio strutturale, l’interfaccia su cui Kubrick impianta la realizzazione di Full Metal Jacket. Lo sguardo del soldato Palla di Lardo, lanciato verso il sergente istruttore, nelle latrine della camerata, partecipa pienamente di tale dimensione. Parris Island o Vietnam, il marine, appositamente addestrato e costruito, è sempre e comunque un morto che spara, uno zombie con funzione di killer. Come accade in Shining, in cui lo sguardo spettrale viene realizzato cinematograficamente nel dinamismo della steadicam, anche qui lo sguardo partecipa di una comune spettralità, che coinvolge anche la televisione. Le interviste che una troupe autorizzata effettua al fronte costituiscono, in larga misura, una sfilata, al limite del macabro, di epitaffi autoreferenziali eseguiti da ragazzi morituri, e in fondo già morti. Iscrizioni lapidarie vergate nel corpo del filmato, direttamente a cura dell’interessato, a metà tra l’epitaffio, appunto, e il testamento spirituale. La presenza della televisione dà al film il tono di «presa diretta con l’al di là» che è evidentemente uno degli obiettivi narratologici di Kubrick. Parris Island e il Vietnam, entrambi, sono l’isola dei morti, forse quell’isola che appare nei primissimi secondi di Shining. Full Metal Jacket conduce, se possibile, alle estreme conseguenze il procedimento kubrickiano di costruzione della figura al di qua della macchina da presa. Il film si svolge dentro la fotografia dove ancora appaiono i trapassati, e la televisione diventa il veicolo, ironico, di questo collegamento. Ma dal punto di vista dell’estetica kubrickiana siamo pur sempre nella modalità per cui la figura è già tutta costruita al di qua della macchina da presa. Il sistema film è già fotografato prima del suo dispiegamento in cinema. Il cinema, lo abbiamo ribadito più volte, provvede a ri-fotografare il già fotografato. Ciò mette in crisi, o in discussione, la modalità del «progetto», modalità di solito enfatizzata dalla critica kubrickiana. Ma il progetto sconta un’origine comunque automatica, ovvero la casualità, l’istantaneità, del prelevamento di un soggetto da un libro in cui ci si imbatte, la sceneggiatura, il rapporto con la recitazione degli attori, le
previews con il pubblico che intervengono a modificare quanto meticolosamente stabilito in precedenza. È proprio questo automatismo, infatti, che si continua a non accettare, perché concetto considerato ancora irriducibile alla pratica artistica. Proprio in Full Metal Jacket, sul piano della scenografia, la scelta di ambientare il Vietnam, o meglio la città di Hué, in una raffineria dismessa alla periferia di Londra, mostra con ogni evidenza la logica surreal-dadaista dell’objet trouvé. Ossia dell’oggetto incontrato per caso che viene assunto e spostato dallo spazio del quotidiano all’area dell’elaborazione estetica. La scelta viene effettuata grazie all’evidente somiglianza dei due siti, verificata per mezzo di fotografie d’epoca della città asiatica. Il progetto e la filologia, così, si dispiegano soltanto grazie a fulminee irruzioni del caso. E il progetto, di conseguenza, si modula nella sua esecuzione intesa come verifica sul campo. Il progetto, insomma, è la fotografia; la verifica sul campo, la fotografia della fotografia. Secondo Claudio Marra, lo abbiamo visto, l’estetica del ready made di matrice dadaista è strutturalmente affine alla pratica fenomenologica della fotografia3 L’oggetto del quotidiano, la ruota della bicicletta o il celebre orinatoio, viene prelevato dalla vita e esposto nello spazio museale. Prelievo ed esposizione, i principi formali della pratica fotografica. In tal senso, la fabbrica dimessa di gas alla periferia di Londra viene messa in posa, prelevata ed esposta allo spazio del cinema: da fabbrica dismessa inglese diventa città vietnamita in rovina. D’altronde è da alcune fotografie della vera città di Hué che Kubrick ha potuto stabilire la pur bizzarra location. La fabbrica di gas, alla lettera, è la fotografia della fotografia della realtà. La stanza da bagno Full Metal Jacket è il film in cui la stanza da bagno ha un ruolo dominante. Il sergente Hartman, lo spietato istruttore della fase di addestramento a Parris Island, è un «uomo di cuore», come esplicita il nome, modificato rispetto al personaggio del romanzo di Hasford. «Gli allievi marines, così, sono modellati dall’uomo di cuore riducendo la sfera
semantica del loro habitat esistenziale a funzioni meramente corporali: nel corso degli addestramenti, i giovani neo marines ricevono epiteti orientati sul basso corporeo. Essi sono definiti dall’uomo di cuore come “pukes”, ossia “scarti di vomito, sputi”, oppure come “unorganized pieces of amphibian shit”, ovvero “informi pezzi di merda anfibia”. Un soldato è così minacciato dal sergente: “I’ll unscrew your head and shit down your neck”, ossia: “Sviterò la tua testa e ti cacherò nel collo”»4. Il linguaggio basso, corporeo, domina tutta la prima parte del film, l’addestramento militare a Parris Island, culminante nella sequenza dell’uccisione dello stesso Hartman, situata, per forza, nella grande latrina della camerata. L’unico ambiente, per ammissione dello stesso Kubrick, manipolato scenograficamente rispetto alle fotografie originali di Parris Island sulle quali sono stati ricostruiti gli ambienti. La manipolazione consiste nel raddoppiare la fila dei cessi, che si dispongono lungo due ali ai lati dell’ambiente. I marines sono costretti a espletare le proprie funzioni fisiologiche a vista, poiché non c’è pannello di separazione fra un gabinetto e l’altro. Nel gergo dei marines, la latrina è denominata «head», ossia «testa»: particolare filologico, elemento e fotografia del caso, di cui Kubrick approfitta senza esitazione. Il sergente istruttore vi irrompe, svegliato dagli schiamazzi provenienti dal gabinetto in cui Jocker, in attività di piantonamento, ha scoperto il soldato Palla di Lardo, armato fino ai denti e evidentemente impazzito, con lo sguardo che, pur essendo ancora lontano dal fronte, ha già visto l’al di là. La formula del cinema kubrickiano, la capacità di lavorare la figura alle spalle della macchina da presa, in Full Metal Racket, viene modellata già sul livello squisitamente narrativo, là dove la follia omicida di Palla di Lardo è una prefigurazione della bestiale carneficina in Vietnam. Ovvero: la costruzione della figura del perfetto marine è già avvenuta al di qua del fronte di guerra vero e proprio, che costituisce infine un raddoppiamento come attesta la doppia fila di latrine voluta da Kubrick rispetto alla realtà della location fotografata. «What is this Mickey Mouse shit?», grida il sottufficiale entrando nelle latrine. Il doppiaggio italiano traduce: «Ma che
cazzo di cinematografo è questo?», valutando forse la circostanza che, ancora nel gergo militare, il «Mickey Mouse Movie» è il filmato didattico di prevenzione sulle malattie veneree. La vertigine semantica fra «head», ossia «testa» ma anche «latrina», innesca inevitabilmente la rima, l’analogia, la simmetria «testa-culo». La sequenza iniziale, la rasatura degli allievi, evidenzia da subito l’equazione testa-culo. Il gabinetto, ancora una volta nella filmografia kubrickiana, è il luogo della mutazione. Con perfida ironia, la mutazione di un ragazzo americano in killer spietato. L’addestramento ha provveduto a evacuare la testa e a lasciare al suo posto, svuotato, il culo. Hartman lo aveva detto ai suoi allievi, avrebbe svitato loro la testa e cacato nel collo. E così è stato. In questo senso, ancora, nessuna differenza, nessuna distanza fra il campo di addestramento di Parris Island e il fronte bellico del Vietnam. Essere seduti al gabinetto in camerata, come fa l’allievo Palla di Lardo, perfetto marine perché killer spietato, equivale a finire soldato in prima linea. I combattenti in prima linea battezzano l’esperienza con la formula «stare nella merda», formula che definisce la simmetria tra i due siti. Il campo di addestramento è l’interfaccia della prima linea, e viceversa. Dopo la dissolvenza in nero che chiude la sequenza in cui Palla di Lardo si è fatto saltare la testa-culo, si è evacuato il cervello, è ancora un culo a comparire in primo piano, quello di una prostituta vietnamita che cammina all’indirizzo di Jocker e del fotografo Rafterman. La simmetria, il circolo Parris Island-Vietnam è esplicito anche sul versante iconografico. La prostituta compare da dietro la macchina da presa, sulla destra: si vedrà, nella sequenza conclusiva del film, come il soldato Palla di Lardo ricomparirà in Vietnam precisamente in vesti femminili. La prostituta che ancheggia verso Jocker e Rafterman è già la prefigurazione del ritorno di Palla di Lardo in modalità femminili: la sua comparsa dalle spalle della cinepresa è indice della sua provenienza.
In Vietnam, l’incontro fra Jocker e Cow Boy, compagni di corso a Parris Island, avviene in uno strano edificio in rovina (frame 22) che Cow Boy elegge a stanza da bagno, nel momento in cui lo si vede intento a radersi di fronte a uno specchietto. L’inquadratura mostra Cow Boy incorniciato in una struttura circolare, che sembra fungere da entrata. Con l’abituale simmetria, una seconda apertura circolare, attraverso cui accedono Jocker e Rafterman, si staglia sullo sfondo (frame 23). Dopo un benvenuto allegro e inaspettato, Rafterman fotografa un vietcong morto che un marine custodisce premurosamente vicino a sé. Il soldato dichiara che è in corso una festa, un party di compleanno in suo onore, e che anche i vietcong hanno i loro istruttori, solo con gli occhi a mandorla. Chiede a Rafterman di scattargli una foto assieme al cadavere. L’obiettivo circolare della macchina fotografica richiama la forma dei vani d’accesso all’edificio (frames 2425). La pagoda in rovina presenta l’iconografia, è figura di una macchina fotografica. I marines, mutanti vivi e già morti al tempo stesso, sono già dentro la macchina fotografica, dove i guerriglieri cadaveri sono il loro doppio speculare. Il frame 25, inoltre, come se non bastasse, evidenzia un’altra forma circolare, situata alle spalle del marine e del cadavere del vietcong, che, messa in relazione con l’apertura a cerchio sulla destra, sembra quasi il tappo dell’otturatore rimosso per permettere lo scatto di una foto. Tutto il film resta e rimane, così, dentro la fotografia: non solo la fotografia come immagine e prodotto, ma anche la fotografia come macchina. La macchina da guerra dei marines trova nella macchina fotografica la macchina gloriosa verso le sponde dell’al di là. Il fotografo Rafterman (Rafterman = uomo zattera) è il traghettatore, il Caronte di questo viaggio. Sarà lui, non a caso, nel finale, a colpire e mettere fuori combattimento il cecchino. Il frame 26, infine, evidenzia il parallelismo iconografico fra la macchina fotografica e la fila di «full metal jacket». Il corridoio La città di Hué, dove il plotone va in ricognizione nella terza e ultima parte del film, è il corridoio articolato e
labirintico di Full Metal Jacket. Non a caso, i soldati vi si smarriscono, nonostante tutte le mappe e le indicazioni radio. Al centro del labirinto, almeno questa è l’impressione che resta nello spettatore, trovarsi al centro, come nel caso di Jack Torrance congelato, troneggia la morte. La città è un corridoio di macerie e fiamme, un labirinto di rovine. Anche in questo caso, il corridoio obbedisce alla funzione di tunnel spaziotemporale di regressione. Al centro del labirinto, è come se si ritornasse indietro, alle latrine di Parris Island. Il cecchino donna, che falcidia il plotone (Cow Boy muore sotto un rottame di forma monolitica cadente e bruciato), è infatti la «reincarnazione» di Palla di Lardo5. Palla di Lardo, prima di sparare e spararsi, inneggia al suo fucile, da lui battezzato «Charleene». I vietcong, come è noto, venivano chiamati «Charlie» dagli americani. La ragazza cecchino, così, è alla lettera una «Charleene». Palla di Lardo redivivo in vesti femminili: d’altronde il sergente istruttore lanciava ripetutamente sulle reclute l’epiteto di «signorine». Al termine del corridoio/labirinto scatta la regressione alla scena cruciale della prima parte del film. La sequenza del gabinetto/head diventa così simmetrica e speculare alla sequenza del cecchino. La città di Hué, e in fondo tutto il Vietnam costituiscono il percorso labirintico che collega le due sequenze. L’agenzia di informazione dell’esercito, «Stars and Strikes», in cui Jocker e Rafterman prestano servizio, ha il compito, a propria volta, di rendere labirintica l’informazione diretta all’opinione pubblica americana. Negli scontri a fuoco, d’altronde, il nastro delle «full metal jacket» sfila via, a corridoio, dentro il fucile. 1
Cfr. V. Zagarrio, La soggettiva del cadavere, «Bianco & Nero», n. 5, 1999, p. 88.
2
Cfr. D. Hughes, The Complete Kubrick, Virgin Publishing Ltd, London 2001, p. 224: «Herr evidently persuaded Kubrick that Joker did non literally need to die, since the last vestiges of his humanity have been removed by the film’s end – transformed into just another “grunt”, he is effectively dead already». 3
Cfr. C. Marra, Fotografia e pittura nel Novecento, Bruno Mondatori, Milano 1999. 4
Cfr. F. De Bernardinis, Campi di visione, Bulzoni, Roma 2002, pp. 193-194.
5
È degno di nota che nel romanzo di Gustav Hasford, da cui prende le mosse il film di Kubrick, la scena dell’uccisione del sergente istruttore non si svolge nelle latrine ma nelle camerate.
Eyes Wide Shut
La porta. La stanza da bagno. Il corridoio Dopo i tre nomi, Kubrick Cruise e Kidman, all’inizio della pellicola, c’è un’inquadratura che è come un battito di ciglia, o un clic fotografico, la figura, maestosa, di Alice Harford/Nicole Kidman, ripresa interamente, che fa scivolare a terra il vestito nero. La scenografia incastona il personaggio, situato nello spogliatoio, dentro una soglia fatta di colonnine chiare, ai lati. L’inquadratura è lievemente decentrata sulla destra, in modo da rendere visibile il grande armadio, a specchio, semiaperto, sulla sinistra. Sullo sfondo una lampada accesa, ai cui piedi sono posizionate due racchette, appoggiate all’angolo, fra la parete e l’armadio, quasi sovrapposte fra loro (frame 27). La racchetta che tocca il muro, quella che sta sotto, ha la fodera dell’impugnatura di color rosso, l’altra di color nero. L’unico motivo per cui l’inquadratura è decentrata, e non puntualmente prospettica, come spesso in Kubrick, riguarda la visibilità dell’armadio a sinistra, sul cui specchio si riflette parte del tendaggio, rosso, alla finestra, riflesso ripetuto due volte a causa dell’angolazione degli sportelli. Come ha acutamente notato Chion, Nicole Kidman raffigura esplicitamente il monolito1. È però vero che Kubrick non rinuncia comunque a una forma esplicitamente monolitica, ovvero l’armadio spogliatoio sulla sinistra. Decentra l’inquadratura per mostrarlo compiutamente (la finestra, sullo sfondo, è invece abbassata). La forma monolitica, stavolta, si realizza, alla lettera, nella figura della porta. La porta dell’armadio spogliatoio, dal quale Alice ha prelevato, e presumibilmente sta per riporre (o viceversa),
l’abito nero appena sfilato. Come se nel mito di ricapitolazione e chiusura, le immagini incontrassero il proprio referente. Alice, così, è persino la padrona del monolito. Ella è colei che lo ha realizzato nel mondo, rispetto per esempio al film precedente, Full Metal Jacket, in cui era ridotto allo stato residuale della maceria. Alice è colei che mette finalmente il monolito al suo posto: mette la forma nella figura, la porta. Così, Alice si pone come evoluzione del monolito. L’abito nero che sfila via è il gesto con cui Alice dismette il vecchio monolito nero di 2001: Odissea nello spazio. Lo ripone. Ella è l’archetipo svestito, nudo, che si fa carne. È utile, e necessario, saltare dalla prima inquadratura all’ultima, del film (frame 28). Alice, in PP, alla fine di un campo controcampo con Bill, in cui si tirano le fila, per l’ennesima volta, della vicenda appena narrata, entrambi in piedi dentro il grande magazzino pieno di giocattoli per il Natale. Il celebre «Fuck!», sul quale si chiude la vicenda di Bill e Alice, e la vicenda tutta del cinema kubrickiano, altro non è che l’invito, l’ennesimo, a penetrare il monolito, attraversare la soglia. La penetrazione, che in 2001: Odissea nello spazio accadeva per mezzo del carrello in avanti, con cui il feto attraversava la porta del Tempo e dello Spazio, qui è auspicata e concentrata nell’archetipo per definizione, ossia l’accoppiamento sessuale. L’esegesi esoterica potrà individuare qui il compimento dell’androgino, ma si tratterà pur sempre dell’ennesima interpretazione, decisamente «giusta» e «vera», ma che nulla spiega davvero. L’accoppiamento sessuale, la sessualità incarnata da Alice e spogliata delle sovrastrutture sociali, ossia le forme della devianza, della mercificazione, dell’edipo e della perversione (è una sintesi delle vicende attraversate da Bill), si fa qui, in Eyes Wide Shut, la porta della Legge lanciata sul XXI secolo. Gli animali giocattolo che pullulano nel negozio, con l’eccezione della Barbie impugnata da Helena, la figlia, chiudono il cerchio innescato in 2001: Odissea nello spazio: l’uomo deve rimettersi in relazione con l’animale che è stato, e continua a essere. Come l’astronauta David Bowman, che
torna «animale» al momento in cui Hal, ossia la tecnologia «umana» collassa, e deve nuovamente avvalersi sia dell’utensile/cacciavite, sia della energia del braccio, per disattivare il computer-killer. La Barbie è l’ultimo segno, l’ennesimo, della figura femminile durante il film, bambola a pagamento. Che la impugni Helena, la figlioletta, è indice di una sessualità certo funzionale alla riproduzione, ma non a questa necessariamente, o esclusivamente votata. Anzi, la bambina infine sfila via inquadrata in mezzo ai genitori, ed è più un ritirarsi, un chiamarsi fuori dalla coppia, che il suo «biologico» e «istituzionale» compimento. L’happy end del film, il primo dopo 2001: Odissea nello spazio, è bagnato dal solito umorismo ebraico kubrickiano. La donna è figura messianica, la porta della Legge. La donna è colei che fa irruzione nel Tempo e nello Spazio incarnando l’archetipo. Ma perché questo avvenga, che l’archetipo si svesta della propria iconografia, e si trovi gettato nel mondo nelle nude vesti di un essere vivente (in fondo: semplicemente ciò che era stato il fallimento della tecnologia, nel caso di Hal 9000, diventare «umano») occorre ritrovare, o ripensare la questione animale. Individuare la porta, il passaggio che dall’animale conduce all’uomo. Al di là dell’osso rifunzionalizzato come bastone, ossia la tecnica. Non sarà inutile, qui, aprire una parentesi. Giorgio Agamben, in un libro del 2002, si è occupato della questione2. Qual è il rapporto che lega l’umano all’animale? In un esperimento di laboratorio, un’ape è posta di fronte a una coppetta di miele. L’ape comincia intensamente a succhiare. A un certo punto le viene reciso l’addome: l’ape continua il suo suggere, mentre il miele defluisce dall’addome reciso. L’esperimento mostrerebbe come l’ape non si accorga né che c’è troppo miele, né che le viene reciso l’addome, essa continua a suggere. Heidegger, responsabile dell’esempio, conclude che l’animale percepisce uno stordimento. Esso è semplicemente assorbito nel cibo: «Piante o animali dipendono da qualcosa che è loro esterno, senza mai “vedere” né il fuori né il dentro»3. L’ape, nel momento in cui si slancia verso il miele, resta cieca ad esso, non riesce a vederlo: non
misura né la effettiva quantità del miele, né la possibile capacità del proprio corpo. Ne è assorbita, stordita, questo sì. La natura ancipite del fenomeno è rilevata da Agamben, secondo cui «da una parte, lo stordimento è una apertura più intensa e trascinante di qualsiasi esperienza umana; dall’altra esso, in quanto non è in grado di svelare il proprio disinibitore [il miele], è chiuso in un’opacità integrale»4. La condizione umana che maggiormente si avvicina allo stato appena descritto sarebbe la noia. In condizione di noia, le cose ci toccano a tal punto che ne siamo come storditi, e svuotati. Siamo assorbiti in qualcosa d’altro che non si espone però mai come tale. Per questo, l’uomo che si annoia viene a trovarsi in una condizione prossima a quella dello stordimento animale: entrambi sono come «aperti a una chiusura, integralmente consegnati a qualcosa che ostinatamente si rifiuta»5. La noia evidenzia anche una seconda caratteristica, che stavolta pertiene più all’uomo che all’animale: chi si annoia, è come tenuto in sospeso, tra il fare e il non fare. L’animale non conosce sospensione: l’ape continua a suggere, qualunque cosa accada. La condizione ontologica umana, dunque, è la seguente: l’uomo «è un animale che ha imparato ad annoiarsi, si è destato dal proprio stordimento e al proprio stordimento. Questo destarsi del vivente al proprio essere stordito, questo aprirsi, angoscioso e deciso, a un non-aperto, è l’umano»6. L’uomo contemporaneo vive un’alternativa: a) custodire l’enigma della propria condizione animale, attraverso la dialettica aperto/chiuso che la fonda e rende percepibile; b) gestire l’enigma attraverso la tecnica. L’opzione a) vuol dire destarsi alla dimensione propriamente umana. L’opzione b) significa assopirla radicalmente. L’uomo, come l’animale, vive intanto nella condizione radicale dello stordimento, che consiste nell’aprirsi integralmente a qualcosa che tuttavia, pur disponendo dell’intensità, resta opaco e non si distingue. Per vivere «umanamente», l’uomo non deve annichilire lo spazio animale che gli compete, deve solo sospendere la condizione di aperto/chiuso, impadronirsene senza annientarla, custodirla. L’uomo può fare certamente così, ma la civiltà umana, nel XX
secolo, ha agito in senso esattamente contrario. I totalitarismi del ’900 hanno lucidamente annientato, nei campi di sterminio, la nuda vita, la vita biologica, lo spazio animale dell’essere umano. La condizione animale non è mantenuta, custodita e protetta nella sua opacità rivelatrice, ma viene dischiusa e squadernata nelle camere a gas. Alla fine del ’900, ancora, l’economia globale, con le sue dissimetrie bestiali nella distribuzione delle risorse, incentiva e perpetua l’annientamento di una moltitudine sterminata di esseri umani, ricondotti alla condizione puramente animale, al di fuori di ogni mediazione, salvaguardia o anche solo mera considerazione di ambito ragionevolmente politico. Il vaso di Pandora dell’animalità umana è stato aperto, e il suo prezioso contenuto è schizzato via irrimediabilmente. La lunga parentesi non sia risultata oziosa. Gli occhi aperti chiusi di Eyes Wide Shut ci parlano esattamente di questo. La dialettica aperto/chiuso è la posta in gioco della civiltà umana saltata su lungo il XXI secolo. La dialettica aperto/chiuso, ossia la dialettica umano/animale, ovvero la dialettica sonno/risveglio. Come si configura, allora, la sessualità, in un simile orizzonte? Per Kubrick, la sessualità, articolata secondo la dialettica aperto/chiuso, sembra la posta in gioco della civiltà. La porta, aperta o chiusa, a seconda degli esiti, sul futuro. L’orgia, il momento centrale del racconto delle avventure di Bill Harford, è il luogo della bestialità. Si possono interpretare come si preferisce, la situazione e gli eventi dell’orgia, ma ciò che non è possibile negare è la forte e decisa caratura animale degli accoppiamenti sessuali. I partecipanti al festino, in maschera, semplicemente, si accoppiano. Maschere satiresche, vagamente teromorfe, sul volto dei convenuti, sottolineano la condizione. Secondo il percorso precedentemente riassunto, la civiltà novecentesca è il luogo in cui l’animalità umana non viene custodita nell’articolazione aperto/chiuso, ma esibita impudicamente e annientata. L’orgia, allora, è il luogo concentrazionario, l’ennesimo, di tutto ciò.
Negli stanzoni dell’orgia, emerge la figura della porta. Tutto il film, in ogni modo, è un continuo labirinto, o specchio, di porte. Bill Harford non fa altro che attraversare porte: di ascensori, di stanze, di negozi, di locali, di appartamenti, di edifici pubblici. Lo abbiamo detto: nel mito conclusivo, l’immagine incontra il proprio referente. Kubrick non relega in ellissi, non risparmia allo spettatore, alcun momento di attraversamento di porte e di soglie del protagonista. Apertura e chiusura di battenti. La figura filmica della dissolvenza incrociata, che cadenza la passeggiata orgiastica del protagonista lungo i saloni di Somerton, raddoppia, sul piano della punteggiatura cinematografica, la figura della porta. Ma il motivo della porta, come abbiamo sottolineato, è stato liquidato già nell’inquadratura iniziale di Alice che si fa scendere il vestito lungo i fianchi, e presumibilmente riporrà dentro lo sportello dell’armadio/monolito, diventato ormai semplicemente una porta, sulla sua sinistra. Le porte esperite di Bill Harford alludono alla nota configurazione narrativa, e estetica, kubrickiana, ovvero Sogno → Risveglio → Sogno Nel racconto di Schnitzler la moglie sogna ciò che il marito vive. Il dottor Harford è come contenuto nel sogno della moglie Alice, che si fa sogno archetipico, mito, da attraversare in tutti i suoi strati. Il passaggio delle porte allude al transito lungo gli strati del sogno. Le porte sono porte ma non sono soglie. La Soglia Assoluta è Alice, con il suo finale e risolutivo «Fuck!». Sul livello squisitamente narrativo, la confessione di Alice di aver desiderato, in maniera allucinata, fantasia onirica a occhi aperti («quella notte non riuscii a dormire»), il rapporto carnale con l’ufficiale, innesca la gelosia di Bill e quindi la dinamica del racconto. Le tappe del viaggio del dottor Harford, notturne poi diurne e poi ancora notturne, configurano puntualmente la struttura sogno/risveglio/sogno. Il risveglio, dunque, non è vero risveglio, ma solamente passaggio a un livello ulteriore del sogno (il risveglio sarà auspicato da Alice nella battuta conclusiva del film). Con la differenza, non trascurabile, che la donna, trascorsa la notte
insonne del turbamento originario, riesce a sognare, e l’uomo no. Alice beve troppo champagne, alla festa degli Ziegler, e quindi, con un piccolo ma deciso sforzo di volontà, deve destarsi alle attenzioni seduttrici del gentiluomo ungherese: Nicole Kidman, all’ennesima proposta seduttrice, recita precisamente il battere di ciglia di chi si sta svegliando. Ancora, Alice organizza la serata di «stordimento» alla marijuana per sé e il marito, momento di confronto serrato, il primo, fra i coniugi e narrazione dell’esperienza choccante, anche se immaginaria, dell’ufficiale di marina. Alice, infine, sogna e destata narra subito il sogno al marito appena rientrato in casa. In una parola, Alice padroneggia l’attraversamento sogno/risveglio/sogno. Con l’esercizio della volontà ne esce quando resta stordita dallo champagne. Con l’esercizio della volontà lo inaugura preparando e assumendo le sigarette di erba. Nel caso del sogno vero e proprio, poi, Alice non esita a narrarlo all’istante, lo racconta al marito, e narrandolo lo afferra e sospende. Occhi aperti/chiusi. Per questo, anche per questo Alice è il monolito, la porta, o meglio la Soglia. Perché presiede ai momenti di passaggio, evoluzione e superamento. Ed è il monolito, ancora, perché assume su di sé la funzione di custode: quando il marito sta per cedere alle offerte della prostituta Domino, che si saprà in seguito in odore di AIDS, Alice lo chiama sul telefono cellulare e lo preserva dal contatto. E sarà ancora lei, pur in fase di sonno (anzi: proprio perché in fase di sonno), nell’atto che dà inizio all’epilogo, a custodire la maschera smarrita di Bill, sul cuscino del letto matrimoniale. Nell’esortazione sessuale risolutiva, Alice, faccia a faccia col marito, dapprima esorta e rimanere svegli per un bel po’ di tempo, ma subito dopo, quando Bill, con la consueta approssimazione, rinchiude l’invito in una battuta a effetto, quasi teatrale: «Per sempre!», la stessa Alice prende subito le distanze dalla suggestione forever. Il pensiero dell’eternità, infatti, le incute paura. Ciò che occorre condurre in porto immediatamente è «Fuck!».
Fuck! è l’enigma che deve essere salvaguardato affinché l’uomo non recida i contatti con la dimensione animale, mettendo in salvo, così, la propria umanità, che su quella si fonda. È il momento in cui l’ape si fa assorbire dal miele, e al tempo stesso resta configurata al di qua del miele stesso. Esso è quindi lo «stordimento» animale che va preservato e «sospeso», affinché l’«umano» sia coltivato come occasione e differenza. La sequenza allo specchio, usata come trailer del film, in cui i due coniugi, nella vita e nell’arte, si scambiano effusioni, è indicativa: mentre Bill, a occhi chiusi, si concentra sul corpo della moglie, Alice, a occhi aperti, si distrae sulla immagine allo specchio. È un’immagine ormai elevata al ruolo di vera e propria icona dell’arte cinematografica. Nell’ambito di un approccio iconologico al cinema kubrickiano, ecco prefigurato, nello «eyes wide shut», lo «spirito del tempo», ossia lo stordimento e la sospensione. Il lento zoom che si concentra su Alice allo specchio finisce improvvisamente in una sorta di flash bianco. In Barry Lyndon, il prestigiatore che intratteneva il piccolo Brian, il figlio dell’eroe eponimo, avvertiva il bambino che tutti i colori dell’arcobaleno mischiati insieme hanno la capacità di produrre, infine, il colore bianco. Lo zoom allo specchio sulla coppia coniugale nuda equivale al viaggio psichedelico di Bowman oltre l’infinito: in una parola, è la figura definitiva del corridoio. Il viaggio oltre l’infinito compiuto dall’uomo-arco attraverso tutti i colori dell’arcobaleno (e il PPP dell’occhio che sbatte virato nei colori è esattamente l’immagine dell’uomo-arco diventato uomo-arcobaleno). In Eyes Wide Shut, l’amore sessuale coniugale (inutile ricordare come i due interpreti fossero, al momento delle riprese, marito e moglie nella realtà) è il viaggio oltre l’infinito, il corridoio spazio-temporale di una civiltà «evoluta» sull’orlo del baratro morale e civile. L’attraversamento dello spazio-tempo, nello specchio del «Fuck!», condensa, come ricorda in seguito una battuta di Alice arrabbiata verso lo stordito marito, «milioni di anni di evoluzione». Alice guarda nello specchio mentre il marito si stordisce sul suo corpo: Alice si fa «ape», facendosi assorbire dal
trasporto sessuale ma, grazie allo specchio, rimane al tempo stesso al di qua. L’umano è questa sospensione articolata sullo stordimento animale. L’umano, allora, deve lanciare uno sguardo aperto/chiuso sulla differenza animale che lo sostiene. Questo sguardo, come abbiamo osservato, ha le caratteristiche della noia. La noia, senza dubbio, è la condizione costitutiva del matrimonio borghese. In una civiltà ormai alla deriva, sembra dire Kubrick, il sesso è l’unica dimensione in cui ciò che un tempo spettava ancora agli ambiti di poesia, religione e filosofia riesce, per miracolo, a salvaguardarsi. «Le potenze storiche tradizionali» scrive ancora Agamben «poesia, religione e filosofia, che mantenevano desto il destino storicopolitico dei popoli sono state da tempo trasformate in spettacoli culturali e in esperienze private e hanno perso ogni efficacia storica»7. Il sesso è la porta ancora dischiusa per l’umanità. E il custode di questa porta, e insieme la porta stessa, la Soglia, è la donna. Il sesso è il luogo, l’ultimo, deputato alla custodia dell’umanità. La dialettica aperto/chiuso, stordimento/sospensione, ossia ciò che fonda l’umano distinguendolo dall’animale senza tuttavia reciderne la relazione, e che le potenze storiche tradizionali avevano pur sempre provveduto a salvaguardare, è ora confluito nella sessualità. La sessualità, in tempi di «crisi», ossia di «caduta», è il luogo della condizione animale dell’essere umano, e parimenti la sua messa fra parentesi. La sessualità pura e semplice, «Fuck!», atto animale ma non bestiale, fatto, al tempo stesso, di noia e trasporto, assorbimento e distacco, aperto/chiuso. La civiltà decaduta del XX secolo, invece, è uno sbattere le porte in faccia alla differenza umano/animale con l’esito che ormai si conosce: uomini rigorosamente umani, potenti e raffinati, dediti volentieri alla bestialità. La struttura sogno/risveglio/sogno fa del passaggio, dell’attraversamento, il modulo compositivo di Eyes Wide Shut. In tal modo, tutto il film assume le caratteristiche della porta. Marion, la giovane donna che ha perso il padre, Domino la prostituta, la figlia di Milich il venditore di costumi, la stessa Mandy che redime Bill al minaccioso baccanale. sono tutte modulazioni oniriche, liminari, anche simboliche, di
Alice Harford. Caratteristiche visive, i capelli, la statura, il portamento (la figlia di Milich sembra Alice bambina), decisione di modi e risolutezza di iniziative lo confermano. Amanda (Mandy), le redentrice di Bill, occupa una posizione persino privilegiata: alla festa di Ziegler, Bill, trovandola vittima di una overdose nel gabinetto del padrone di casa, la riconduce alla vita, la «desta», inducendola ad aprire gli occhi e guardarlo (»Look at me, Mandy, look at me!»). Lo stesso gesto, guardare, negato alla moglie nella sequenza precedente, quando, sempre nella stanza da bagno, Alice chiede al marito un parere sul suo «look» per la serata, ottenendo da lui una risposta frettolosa e distratta, egregiamente annoiata. La stanza da bagno, così, nel caso di Mandy è ancora teatro di mutazione: si dovrà supporre, infatti, che la ragazza, durante l’orgia, redima il malcapitato e indesiderato Bill in ricordo e gratitudine di quell’intervento. Il bagno, poi, nel caso di Alice, è già, siamo a pochi secondi dall’inizio del film, conferma e statuto della mutazione: Alice possiede gli eyes wide shut (dice subito al marito dove si trova il portafoglio), Bill no. Ancora. Nella sequenza dell’obitorio, il cadavere di Mandy (Amanda = colei che deve essere amata. A casa Ziegler, l’ungherese Szavost aveva già intrattenuto Alice sulle avventure del poeta latino Ovidio, autore di una Ars amandi), è contenuto nella nicchia frigorifera a evidente forma monolitica. Con il sesso, la morte è l’altra Soglia del film. Come si nota nei due frames (frames 29-30), nell’inquadratura dall’alto il cadavere ha gli occhi aperti, in quella dal basso li ha chiusi. Se le altre figure femminili sono modulazioni oniriche di Alice, Mandy costituisce un vero e proprio doppio. Il doppio «sognato» di Alice, in azione nel sogno «sognante» di Bill. Per questo, per il passaggio onirico attraverso la figura del «cadavere», porta monolitica senza ritorno, se non nella modalità del sogno, Alice rifiuterà la suggestione del marito riguardante l’eternità. Anche le ragazze partecipanti all’orgia acquistano inquietanti relazioni con Alice Harford nel gesto dello sfilar via i mantelli, e farli scivolare a terra, a un tocco dell’officiante, gesto che ricorda l’immagine iniziale di Alice che si toglie e cala il vestito nero.
Tutto il film, così, piuttosto che seguitare la consueta articolazione veglia/sogno, è un continuo passare da un livello del sogno a un altro, che resta tuttavia un livello comunque del sogno. Sogno/risveglio/sogno, dove Alice ne è la soglia, e il custode. Non c’è un altrove dal sogno, non perché semplicemente «È tutto un sogno», ma perché solo e soltanto nel sogno il mito della sessualità fa accedere a una qualche verità. La situazione professionale, di lavoro, in cui Bill ausculta il petto a una paziente dalla bellezza prorompente, sotto lo sguardo attento di un’infermiera, è la stessa degli accoppiamenti bestiali dell’orgia, in cui femmine bellissime si fanno professionalmente manipolare da maschi diligentemente assistiti da drappelli di altri ospiti mascherati. Lo studio di Bill, il «gabinetto» del medico, è il luogo, almeno narrativo, della mutazione. Sarà proprio a commento delle scrupolose visite del marito su pazienti straordinariamente attraenti, che Alice, nella serata alla marijuana, stabilisce di raccontare al marito la passione per l’ufficiale di marina (fra l’altro, anche stavolta, sembra che Alice sia ovunque, sempre «presente», abbia magari il dono dello shining, persino durante le visite ambulatoriali di Bill). Alice sogna e Bill attraversa le porte del sogno. Alice riesce a mantenere ferma la volontà nella gestione e consapevolezza della dimensione sogno/risveglio/sogno. Ritornano, così, in Eyes Wide Shut, gli errori di continuità: in casa di Marion Nathanson, Bill percorre il corridoio che conduce alla stanza da letto dove giace il cadavere del padre, e sul primo tavolinetto a sinistra vediamo un oggetto soprammobile. Quando arriva il fidanzato di Marion, l’oggetto non c’è più (frames 31-32). Inutile tentare di spiegare la questione: è la struttura sogno/risveglio/sogno che conduce a una logica onirica in cui il principio di identità è inattivo. E poi, lo sappiamo, non può darsi il tentativo di ricostruire il film, che non ha un punto privilegiato in cui lo sguardo possa di colpo abbracciarlo. Come il sogno, d’altronde. La scomparsa del soprammobile è comunque giustificabile anche in chiave squisitamente narrativa. La sequenza in cui
Bill percorre il corridoio, e il soprammobile c’è, nella prospettiva del racconto, è strutturata avente come punto di vista narrativo privilegiato lo stesso dottor Bill Harford: noi entriamo con lui in casa di Marion, ed è attraverso il suo sguardo, che veniamo a conoscenza del luogo. La seconda sequenza, in cui il soprammobile non c’è più, dal punto di vista narrativo, è quindi giustificabile dal punto di vista di Marion. È lei, come Alice, di cui, come tutte le presenze femminili della notte brava di Bill, è chiaramente un doppio, la quale, pur stando in camera da letto, tuttavia «vede» già il fidanzato entrare: assenza/presenza tipica del «femminile». Un fidanzato, fra l’altro, che è una specie di sosia dello stesso Bill. La scomparsa del soprammobile, rispetto alla sequenza precedente in cui l’oggetto era visibile, indica semplicemente che ci troviamo in un altro spazio/tempo, ovvero lo spazio/tempo di Marion, la quale nella figura del fidanzato vuole assolutamente «vedere» il dottor Harford, di cui è innamorata, come vuole lo schema edipico che sta alla base dell’intera scena in questione. La sequenza, non a caso, termina precisamente con un primo piano di Marion, esplicitando che almeno nella seconda parte, dopo la dichiarazione di amore di lei a Bill, tutto quello che lo spettatore ha visto. Lo ha osservato dal punto di vista della donna. Ciò che colpisce maggiormente, perché modalità inedita nel cinema kubrickiano, è la consapevolezza di film/summa che l’artista assegna a Eyes Wide Shut. Tutti i film precedenti sono esplicitamente citati. Non si tratta dell’ammiccamento per cui Alex, in Arancia meccanica, si imbatte nel disco della colonna sonora di 2001: Odissea nello spazio. La New York del film si fa contenitore di tutto il cinema kubrickiano: il cartello pubblicitario con la scritta «Bowman» che si vede su un edificio (due volte); la frase «Lucky To Be Alive» che campeggia sulla prima pagina di un quotidiano (è la morale conclusiva del soldato Joker); la festa, l’orgia e l’accenno, nel discorso fra Alice e l’ungherese, a quel personaggio che aveva sofferto tanto il «clima davvero pessimo» (Shining); la struttura narrativa che riprende pari pari quella di Arancia meccanica, con l’orgia a fare da spartiacque narrativo in luogo
della cura Ludovico; la figlia «disturbata» del venditore di costumi Milich che richiama decisamente Lolita8. È indiscutibile, infine, come Eyes Wide Shut sia il film più intimo e personale di Stanley Kubrick. Occorre evidentemente intendersi su cosa voglia dire l’aggettivo «personale». In parole povere, questo è il film in cui Kubrick ha inserito maggiormente se stesso, la sua visione del cinema, dell’essere umano e del mondo. Kubrick aveva trasferito parecchio di sé nel personaggio, ma anche nella persona, di Nicole Kidman. Se ripercorriamo la vicenda narrata nel film, uno dei significati principali di Eyes Wide Shut è che la moglie, in fondo, altro non sia che la regista della vita del marito. Come si ricorderà, attraverso la narrazione del sogno/incubo nel prefinale della pellicola, Alice racconta eventi e figure che ricordano molto da vicino le esperienze notturne di Bill in una New York orgiastica e tentacolare. In breve, la moglie è il personaggio che è sempre stata presente là dove Bill si era recato e spinto nella notte, pur rimanendo rigorosamente fuori campo, ossia a casa. Come accade per chi fa il lavoro del regista, sempre presente nelle pieghe delle immagini del film, perché è proprio lui che lo dirige, ma che in effetti non si mostra mai, rimane esterno a ciò che si vede. D’altronde, la scelta del nome Alice indica bene la capacità della moglie di essere sia al di qua che al di là dello specchio. Ossia, dello schermo. Come già accennato, le figure femminili nelle quali Bill si imbatte alla ricerca del sesso sognato, dalla prostituta Domino alla giovane donna a cui è morto il padre, dall’adolescente nel negozio di costumi alla escort di lusso alla festa di Ziegler, sono evidenti riflessi speculari di Alice. Sono icone della moglie. Il marito sogna la trasgressione, perché è rimasto fissato al trauma della trasgressione immaginaria della moglie con il capitano di marina, esperienza che lei gli ha appena raccontato, ed è solo e soltanto quella che sogna. Ovvero, dover essere lui il capitano di marina capace di dare corpo al desiderio trasgressivo della propria donna. In una parola, infine, di soddisfarla.
Alice è così la regista che guida e dirige l’odissea onirica del marito assorbito nelle tenebre della grande mela, alla ricerca di una trasgressione impossibile, perché già tutta compresa nella dimensione immaginaria del desiderio femminile, che, a differenza di quello maschile, si appaga anche solo e soltanto nell’immaginazione. Questa, la contraddizione fondante il rapporto tra i sessi. Ovvero, il maschile, o fa o non fa (sesso); il femminile, invece, lo fa anche se non lo fa (da cui il reciproco, ed è l’enigma della prostituzione, per cui il femminile anche se lo fa, in effetti può anche non farlo). In breve, se il maschile deve per forza consumare il desiderio nella realtà, allora il femminile può sempre alimentare il desiderio nell’immaginazione. Come è facile osservare, quando Alice balla alla festa di Ziegler con il seduttore ungherese, complice lo champagne, sta infine a occhi chiusi e sta certo sognando: e mentre sogna, lo fa. Da qui la felice ambiguità dell’espressione «eyes wide shut», segnalata da Gianni Canova al tempo dell’uscita del 9 film , per cui il significato letterale resta comunque quello di «occhi chiusi sbarrati», ma non è artisticamente inesatto introdurre una lieve forzatura, ovvero «occhi apertamente chiusi», ovvero «occhi aperti/chiusi»: che significa sia aperti che chiusi. Alice, danzando con l’ungherese, ha esattamente gli occhi aperti/chiusi, ovvero balla ed è evidentemente vigile, ma al tempo stesso è come assopita e può anche sognare. Ebbene, non è questo il compito, la funzione del regista cinematografico? Non deve il regista tenere sempre gli occhi aperti/chiusi? Aperti per vigilare attentamente su quello che accade: e al tempo stesso chiusi per immaginare quello che sarebbe potuto/dovrebbe/potrebbe ancora accadere sul set. Il film più intimo e personale di Stanley Kubrick, semplicemente, è dunque il film che più si incentra sul proprio lavoro. Che è tuttavia, né più né meno, Il lavoro di una vita: la figura artistica e professionale del regista di cinema. Ed è così che Eyes Wide Shut può risultare davvero l’opera ultima del cineasta nato a Brooklyn (la Vienna di Schnitzler è infatti diventata la New York di Kubrick), ossia la riflessione, compiuta e matura, ben al di là del non-finito di
montaggio/missaggio, su cosa significhi essere, lavorare e soprattutto vivere, da regista cinematografico. L’apice dell’enigma «occhi aperti/chiusi» è raggiunto nella sequenza dell’obitorio. Sequenza stranamente ignorata nella saggistica e letteratura dedicate al film. Come è facile osservare, il cadavere inquadrato di spalle mostra gli occhi chiusi, ma lo stesso cadavere inquadrato dall’alto evidenzia gli occhi spalancati. Occhi aperti/chiusi. Il desiderio di Bill di chinarsi per baciarne le labbra, e l’impossibilità di realizzare tale desiderio, sono il frutto del viaggio nelle tenebre newyorchesi, protetti sotto la direzione di Alice. Il maschile, ossia Bill, deve prendere atto della capacità del femminile di sostenere gli occhi aperti/chiusi, e il fatto che ciò si manifesti in un corpo cadaverico raddoppia persino l’enigma. Il cadavere, come fosse una mummia egizia che esce dalla cella frigorifero/sarcofago, è la figura dell’enigma del femminile, il femminile, nudo, che attraversa il fare e il nonfare della sessualità nel tempo imbalsamato del corpo morto, occhi chiusi, «addormentato», quindi assente, ma capace pur sempre di sguardo, occhi aperti, «sveglio», quindi presente. Bill, trovandosi davanti al corpo «morto/vivo» di Mandy, «occhi aperti/chiusi», è posto di fronte all’enigma stesso del cinema, la soglia indescrivibile tra il desiderio di vedere, il corpo della ragazza, e la realtà di toccare, il bacio impossibile. Cosa altro è il cinema se non un incredibile viaggio sul crinale sottile tra vedere e toccare, un toccare con gli occhi, come nei sogni? L’aspetto davvero rilevante è che l’enigma del cinema, dal punto di vista iconografico, figurativo, sia inteso da Kubrick come enigma tutto declinato al «femminile», procedendo quindi all’opposto rispetto alla vulgata del cinematografo come arte tipicamente maschile, perché attività rigorosamente voyeuristica. Per Kubrick, almeno alla fine del proprio percorso artistico, il cinema è invece arte intesa in chiave innanzitutto femminile, ossia capacità di mantenere gli occhi «aperti/chiusi» sul crinale sottile dell’ambiguità tra il reale e l’immaginario.
La «direzione artistica» di Alice, quindi, la regia della donna/moglie conduce Bill lungo il viaggio sui sentieri della sessualità, vedere/toccare, che sono i sentieri del cinema, che risultano i sentieri dell’arte. La questione si spinge fino all’immagine enigmatica in prefinale, ossia la maschera di Bill adagiata sul letto accanto ad Alice che dorme, che è l’esatto doppio speculare della figurazione analizzata nella sequenza dell’obitorio, che immediatamente la precede. Gli occhi chiusi, ma sognanti della donna, e gli occhi vuoti/aperti, ma ciechi della maschera. La dialettica tra desiderio e realtà racchiude esattamente il cinema, e l’arte in generale. Ma stavolta il cinema in particolare, ossia lo sguardo chiuso ma aperto del «femminile», Alice, che guida e dirige, il regista, gli occhi vuoti/ciechi ma comunque spalancati, lo spettatore, del «maschile», Bill, lungo le frontiere della sessualità e del desiderio. Perché è certamente vero: il maschile è un disperato voyeur, l’ossessione del guardare, e il femminile è uno straordinario regista, il controllo del vedere. Entrambi, toccano l’enigma dell’arte cinematografica. E, insieme, l’arte cinematografica raggiunge l’enigma del mondo, ossia il mistero della sessualità, mistero cruciale che il capitalismo tra XX e XXI secolo ne fa la posta in gioco di ciò che si dice il Potere. Chi detiene il denaro, gestisce il sesso. Insieme, sesso e denaro, dominano, con cerimoniosa crudeltà, il mondo. Il denaro è privato della capacità di sconfiggere l’indigenza e la povertà; il sesso è sciolto da ogni promessa possibile di libertà e liberazione. Questo, il passaggio epocale tra secondo e terzo millennio. Tale, la strategia del capitalismo. Lo ripeto: il dato antropologico è che il femminile, pur in assenza, non guarda ma sa vedere, mentre il maschile, anche in presenza, guarda e non sa vedere. Come dimostra, in chiave persino didascalica, la primissima sequenza del film in cui Bill, aggirandosi in camera da letto, chiede alla moglie se ha per caso visto il suo portafoglio, e Alice, non inquadrata, seduta sul water in bagno, da un altro spazio, risponde che il portafoglio sta proprio lì, sul comodino. Bill, il maschile, è sul
posto, presente, guarda e non vede; Alice non è sul posto, assente, non guarda ma vede. Eyes Wide Shut. Lo abbiamo già detto: Alice è il monolito, ossia il «femminile» che sa attraversare la soglia tra il sogno e la veglia, il reale e l’immaginario. Colei che mentre dorme, lo fa. Mentre sta desiderando, soddisfa al tempo stesso il desiderio. Mentre balla con il seduttore ungherese, chiude gli occhi e sogna la trasgressione, alimentando il desiderio che si nutre della propria stessa energia. Il bacio che Alice lancia col dito sulle labbra dell’ungherese alla fine del ballo è rivelatore. Il vedere e il toccare si sintetizzano, e rilanciano il desiderio: Alice, oltre lo specchio, nel ballo a occhi chiusi, ha visto la trasgressione, e ora tocca con il dito indice della mano le labbra dell’ungherese. A prova dell’avvenuto con-tatto tra immagine e desiderio. Contatto, a occhi aperti/chiusi, che solo il femminile può articolare da dentro e da fuori. E che solo il regista può controllare da fuori e da dentro. In una parola, Stanley Kubrick, e tutta la vita compresa sia nella dimensione artistica del cinema, sia nella sfera umana e sociale del mondo. 1
Cfr. M. Chion, Un’odissea del cinema. Il «2001» di Kubrick, Lindau, Torino 200, p. 170: «È in posizione verticale, con un vestito nero, la sua schiena e le sue natiche sono magnifiche, rappresenta qui in qualche modo il monolito…». 2
Cfr. G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002.
3
Ivi, p. 61.
4
Ivi, p. 62.
5
Ivi, p. 68.
6
Ivi, p. 73.
7
Ivi, pp. 79-80. Cfr. anche l’avvertenza a C. G. Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, Boringhieri, Torino 1977, p. 11: «L’inconscio collettivo è un patrimonio ereditario di possibilità rappresentative non individuale, ma comune a tutti gli uomini e forse a tutti gli animali…». 8
Cfr. D. Hughes, The Complete Kubrick, Virgin Publishing Ltd, London 2001, p. 259. 9
A proposito di rilancio e speranza, Gianni Canova ha proposto la formula «eyes wide shut» come concetto teorico chiave per comprendere la dimensione cinema della postmodernità. Cfr. G. Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani, Milano 2000, p. 153: «A fronte di una
visione che si dà sempre più come esperienza disturbata, imperfetta, interrotta, priva di garanzie e di stabili sistemi di identificazione, si profila la possibilità di veder emergere un nuovo spettatore […]. Si tratta certo di uno spettatore potenziale che non può più contare sulla centralità dello sguardo, ma che è disposto a operare (e a correre il rischio di perdersi) in un nuovo regime scopico: quello suggerito dal titolo dell’ultimo, bellissimo film di Stanley Kubrick. Eyes Wide Shut, occhi aperti chiusi. Non aperti e chiusi, né aperti o chiusi, ma simultaneamente e ossimoricamente apertichiusi. Nella tensione di uno sguardo che vuole tenere aperti gli occhi ma che al contempo è anche disposto a chiuderli e a fare a meno di loro, si delinea cioè la fisionomia di uno spettatore che è disposto a tutto – anche a guardare con le dita – pur di non perdere il contatto con un cinema che magari non ha più rapporti con un possibile referente “reale”, ma che continua tuttavia a relazionarsi in modo tutt’altro che virtuale proprio con lo spettatore, e a fornirgli – se non un’immagine o un’identità – almeno una possibilità di percezione di sé».
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La «fotografia della fotografia della realtà» 2001: Odissea nello spazio Arancia meccanica Barry Lyndon Shining Full Metal Jacket Eyes Wide Shut Bibliografia
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