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Italian Pages 288 [284] Year 2008
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SOCIETÀ E SOCIALITÀ collana diretta da Alberto Lo Presti e Rocco Pezzimenti
Luigi Compagna
L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
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LUIGI COMPAGNA
L’IDEA DEI PARTITI DA HOBBES A BURKE introduzione di Rocco Pezzimenti
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Prima edizione pubblicata nel 1987 da Bibliopolis. Edizioni di filosofia e scienze, © 1986.
Grafica di copertina di Rossana Quarta
© 2008, Città Nuova Editrice Via Pieve Torina, 55 - 00156 Roma tel. 063216212 - e-mail: [email protected] ISBN 978-88-311-2443-0 Finito di stampare nel mese di novembre 2008 dalla tipografia Città Nuova della P.A.M.O.M. Via S. Romano in Garfagnana, 23 00148 Roma - tel. 066530467 e-mail: [email protected]
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INTRODUZIONE ALLA NUOVA EDIZIONE
Questo lavoro di Luigi Compagna – apparso per la prima volta più di vent’anni fa – si presenta quanto mai attuale nel panorama italiano della riflessione politica, non solo perché tratta un tema sempre attuale come quello dei partiti, ma anche perché analizza problematiche sempre importanti come quelle dell’impegno politico e dei suoi risvolti morali. Tutto questo a partire da una riflessione storica ad ampio respiro che ancora condiziona, per molti spesso inconsapevolmente, l’odierno dibattito politico. La grande cornice di riferimento di questa ricerca è data dal confronto non solo tra le idee di partiti, ma dai loro imprescindibili riferimenti istituzionali tra l’esperienza britannica e quella francese. Realtà ricche e differenti, alle quali si sono richiamate le diverse concezioni di Costituzione e di Stato che sono state generate nel vecchio continente. A questo proposito, giova ricordare che uno dei temi di fondo di queste pagine è dato dal tentativo di arginare la “presunta o reale parzialità” dei partiti con la necessaria imparzialità dello Stato. I partiti nascono suscitando, nell’immaginario dei loro avversari, la minacciosa idea di fazioni che, in qualche modo, tendono a minare l’unità dello Stato moderno che si era faticosamente, e spesso senza scrupoli, attuata all’inizio dell’età moderna. Siamo in pieno Seicento e Settecento quando si trattava di dover ribaltare una decisa ostilità verso lo “strumento” politico dei partiti. Questi con-
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Introduzione alla nuova edizione
cretizzano la loro azione politica non unicamente in base ad un insieme di interessi, sia pur legittimi, ma presupponendo una “funzione” che determina una buona ottimizzazione della struttura statale al fine di garantire giustizia e libertà. Acutamente Compagna sottolinea come la tradizionale diffidenza nei confronti della piazza, per natura instabile e umorale, si trasformi in azione politica capace di non soffocare le giuste istanze popolari, ma trovando le modalità per convogliare alcune recriminazioni e farle salire in parlamento. Da questo tentativo scaturisce l’istituzione “tutta politica del partito” che sottintende una nuova concezione della libertà e della politica “non angustamente individualistica”. Il popolo, tramite i partiti, diventa attore politico ed esce dall’anonimo termine di folla. Ottiene spazio e rilevanza politica andando a sottrarre ad uno Stato assolutista, che si sentiva arbitro e depositario del tutto, alcune sfere di competenza. È da qui che incomincia a prendere consistenza quell’idea del lassez-faire che tanta importanza avrà nella modernità. È lo stesso concetto di unità politica ad essere rimesso in discussione in termini destinati a far scuola. Il che queste pagine, oggi come allora (1986), ripercorrono in un orizzonte che dall’assolutismo raggiunge il costituzionalismo, dal liberalismo lascia intravedere la democrazia. L’esperienza “costituzionale” inglese, recuperando temi ampiamente discussi, come ci ricorda ad esempio Mc Ilwain, nel Medioevo, si avvia a riformulare l’idea di unità articolata che si contrappone a quella di unità monolitica, anche questa, purtroppo, recuperata nel XX secolo con i drammatici esiti che tutti, disgraziatamente, conosciamo. È qui che le due tradizioni continentali divergono e si scontrano. A quella inglese basata sul confronto e l’alternanza, affermatasi comunque tra tante difficoltà, si contrappone quella opposta, che potremmo definire del moderno Leviatano, tesa a
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Introduzione alla nuova edizione
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negare la competizione dei partiti e ad affermare la visione monopartitica ed univoca democratico-giacobina. I partiti avversari tornano ad essere visti come fazioni da sopraffare in quanto la nuova “concezione totale” si riteneva legittimata, sarebbe meglio dire autolegittimata, a sopprimere o ad inglobare qualunque altra “visione di parte”. Bellissime sono a questo riguardo le pagine del capitolo VI nel quale, tra l’altro, si parla senza mezzi termini di fondamentalismo giacobino. Certo, non tutta l’analisi francese si esaurisce in questa pericolosa autolegittimazione. Opportunamente viene ricordato Tocqueville e la sua distinzione tra grandi e piccoli partiti, distinzione non certo quantitativa, ma qualitativa, perché la grandezza richiama gli ideali e la piccolezza i “particolari” interessi. Considerazioni, queste, che in Francia verranno nel XIX secolo, ma nella seconda metà del Settecento la musica è ben diversa. Non è certo un caso che il territorio “dei partiti”, allora, divenne il territorio “del partito”. Tutto ciò è dovuto al fatto che il 1789 francese non riuscì, a differenza del 1688 inglese, a costituzionalizzare la lotta politica che culminò con l’epoca napoleonica. Questo è quanto non pochi liberali francesi, a partire da Constant e Tocqueville, furono costretti ad ammettere. La rivoluzione “conservatrice” inglese del 1688 presenta, invece, sin da allora, partiti che si alternano alla guida dello Stato senza pretendere di rifondarlo secondo un disegno razionale volutamente perfetto ed universale. Su questa scia si muove, per Compagna, anche l’autentico liberalismo italiano. Tutto ciò si evince non soltanto dalle appendici, tra cui occorre segnalare la prima dedicata a Gaetano Mosca, ma soprattutto dai costanti riferimenti a Benedetto Croce. Ecco quindi che i partiti sono visti come quelle entità capaci di arricchire e perfezionare la libertà di agire “da soli” e fornire di responsabilità l’agire “in comune”. Ne deriva, sempre in
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Introduzione alla nuova edizione
termini crociani, che i partiti debbono mirare al “bene comune” e, per questo, debbono essere dotati di “virtù e consistenza morale”. Da qui il rispetto dell’“altro” inteso non solo come entità individuale, ma come entità dello stare insieme, vale a dire come partito. Ecco perché, l’autentico spirito liberale, non solo li accetta e li vuole tutti, ma anzi li richiede e lamenta la loro assenza. La loro assenza non è segno di un superamento di una fase politica, ma l’approdo a quella fase giacobina che vuole raccogliere le differenze per annullarle nella totalità. Ma, in questo caso, la volontà comune non può che essere fittizia perché i partiti, tra l’altro, sono in grado di organizzare non solo diversità di intenti, ma anche di interessi concreti che determinano la quotidianità delle scelte. Posizioni tanto ovvie che viene da chiedersi come sia stato possibile che proprio quell’Europa, che ha iniziato e sviluppato questo ricchissimo dibattito, abbia potuto dimenticarlo nel corso del XX secolo, precipitando in autoritarismi e totalitarismi di ogni genere. Le ragioni sono note a tutti e sono state ampiamente analizzate dagli studiosi delle dottrine politiche, da quelli almeno che guardano all’aspetto dottrinario della politica, in modo plurale e non certo con l’intento di ridurre il dibattito all’interno di una sola dottrina, cosa che significherebbe la fine, non solo di una disciplina, ma dello stesso dibattito politico. ROCCO PEZZIMENTI
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I. La società che si fa Stato
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I. LA SOCIETÀ CHE SI FA STATO
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1. LA CITTÀ DEI PARTITI «Laddove in uno Stato si muove con libertà la vita politica ivi si mostrano i partiti politici. Sol dove in una nazione domina una infingarda indifferenza per i pubblici affari, o dove una violenta oppressione di chi esercita il potere impedisce ogni manifestazione d’opinione, che non sia la imposta, di tutti i gruppi della popolazione, ivi i partiti non si manifestano. Là manca la capacità alla vita politica, qua lo sviluppo della stessa è artificiosamente strozzato. In tutte le nazioni, le quali son atte alla formazione dello Stato, si trovano anche le forze e le tendenze per la formazione dei partiti. Ma alle volte sonnecchiano, alle volte manca loro l’aria e la luce per svilupparsi e libero spazio per i loro movimenti» 1. Con questa affermazione Johann Kaspar Blüntschli, più di cent’anni fa, stabiliva un nesso di solidarietà fra partiti politici e vita politica. Identificando tale nesso, e con tale nesso la stessa categoria della vitalità politica, nella forma e nella realtà dello Stato fondato sul riconoscimento e sulla promozione del libero associazionismo politico. «Quanto più riccamente e li1 J.K. Blüntschli, La politica come scienza, Napoli 1879, p. 409. (Il saggio del Blüntschli sui partiti, prima di essere inserito come capitolo dell’opera generale, era apparso come monografia a sé stante, pubblicata dalla libreria Bek di Nördlingen nel 1859).
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
beramente – aggiungeva Blüntschli – si forma la vita politica, tanto più decisivamente si presentano i partiti politici. I popoli di maggior sentimento politico mostrano la più perfetta formazione di partiti. La storia della repubblica romana e lo sviluppo dello Stato inglese e dell’Unione dell’America del Nord si comprende soltanto dalle lotte dei partiti politici in cui ebbero parte le nazioni romana, inglese e americana. Solo la lotta e l’attrito delle antitesi dei partiti produsse le più alte creazioni politiche, di cui un popolo è capace, e portò a luce la ricchezza delle occulte forze popolari» 2. Non per questo, però, competeva ai partiti, secondo Blüntschli, la dignità di corpo dello Stato, la fisionomia di istituzione di diritto pubblico 3. La costituzione e l’ordinamento dello Stato non dovevano conoscere partiti: neppure partiti consapevoli di come quanto perché la loro esistenza ed il loro sviluppo fossero possibili solo accanto ad altri-avversi-partiti. La giusta imparzialità dello Stato avrebbe parificato e a suo modo pacificato la giusta parzialità dei partiti. Né l’una avrebbe oppresso l’altra, come solitamente si era reputato. «I più grandi uomini politici romani ed inglesi – notava Blüntschli – 2 Ibid., p. 410. 3 «Il diritto pubblico
con i suoi doveri e i suoi diritti non conosce partiti; la costituzione e l’ordinamento dello Stato sono un diritto comune fermamente fondato per tutti, senza differenza di partiti. Essi limitano pure gli impulsi e le lotte di questi. Il giudice il quale decide la controversia delle parti contendenti secondo le ragioni giuridiche deve stare al di sopra dei partiti, e pesare nella bilancia della giustizia la gravità delle loro asserzioni. Il funzionario amministrativo non deve spendere il comune denaro dello Stato a favore del partito e non deve determinare le prescrizioni di polizia mediante il riguardo di partito invece che mediante il riguardo del pubblico bisogno. E neppure le leggi son fatte per amore o in odio dei singoli partiti, ma esprimono imparzialmente il diritto uguale per tutti. Solo colà, dove entro l’ordinamento giuridico incomincia una nuova e libera vita, cioè sol dove incomincia la politica, ivi si fanno innanzi anche i partiti» (ibid., p. 412).
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I. La società che si fa Stato
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furono sempre magistrati e ministri imparziali, e noti capi di partito. I presidenti degli Stati Uniti sono stati portati da un partito alla presidenza» 4. Non più male pericoloso, sorta di infermità che corrode la salute dello Stato, il partito politico assurgeva a segno della congiunzione e conciliazione fra Stato e libertà. Lo stesso egoismo di partito era tenuto distinto dall’egoistico amor di sé della fazione, considerata degenerazione dello spirito politico del partito. Prima e più che di partito, si ragionava di partiti. La dottrina dello Stato moderno ne accettava la realtà, senza temerne la invadenza e la prepotenza. «L’efficacia dei partiti – diceva con bella immagine Blüntschli – s’eleva o s’abbassa con l’onda della vita politica, e s’acqueta nell’imparziale esercizio dei doveri dell’amministrazione dello Stato» 5. Da un simile “giudizio”, oltre al superamento del vecchio “pregiudizio”, per usare il lessico crociano, si ricava l’impressione di una nuova attenzione e considerazione nei confronti dei partiti. Una nuova attenzione e considerazione che sarebbero state fatte proprie nel secolo XIX dalla gran parte della cultura politica e giuridica, ribaltando così quello che era stato l’atteggiamento di tutto il pensiero seicentesco e di quasi tutto il pensiero settecentesco, in vario modo presidiati da sentita e diffusa ostilità verso i partiti 6. Quale che sia, in questo o in altri casi, l’intensità di rapporto fra l’“onda” della vita politica e l’“onda” della riflessio4 Ibid., p. 413. 5 Ibid., p. 413. 6 Cf. S. Cotta,
La nascita dell’idea di partito, in «Il Mulino», Bologna 1959, pp. 445-486. (Lo studio di Cotta riproduceva, con numerose aggiunte e modificazioni, un suo precedente scritto, Les partis et le pouvoir dans les théories politiques du début du XVIII siècle, apparso in «Annales de philosophie politique», Paris 1956, vol. I, pp. 91-123).
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
ne, i partiti appartengono tangibilmente alla città politica dell’Ottocento ed assai impercettibilmente alle città politiche costruite nei secoli precedenti. Il fatto che la riflessione politica dei secoli XVII e XVIII abbia per lo più negato i partiti deve essere visto alla luce dei sentimenti e degli argomenti più generali di quella riflessione politica. La minaccia delle fazioni all’unità dello Stato; la frammentazione particolaristica limitatrice della esigenza di costruzione e ricomposizione; il momento della passione contrapposto al momento della ragione; la piena integrità della libertà individuale insidiata dalla fedeltà di gruppo. Tutto induceva a guardare con diffidenza e con sospetto ai partiti; tutto mostrava come essi recassero intrecciati in sé, non facilmente separabili, motivi del nuovo che si annunciava e motivi del vecchio che resisteva o risorgeva. Di qui il tormentato radicarsi dell’idea di partito: spesso estranea al radicarsi dei principi che nella loro concatenazione via via legittimano il tipo di Stato nell’ambito del quale vivono e crescono i partiti, e tuttavia obbligata a legarsi a quei medesimi principi tanto nel sentimento etico-politico quanto nel tracciato istituzionale. L’idea di partito complica e pone in crisi quei principi, ma non può al di fuori di essi acquisire legittimità. Non è impertinente, perciò, rilevare che «i classici del pensiero politico moderno hanno generalmente trattato in modo piuttosto fuggevole il tema del partito, e spesso anzi con un certo sfavore» 7. Ma sarebbe impertinente e fuorviante dedurne che liberalismo e democrazia siano da annoverarsi come dottrine politiche le quali – originariamente, strutturalmente, logicamente – escludano i partiti. 7 M.A. Cattaneo, Il partito politico nel pensiero dell’illuminismo e della rivoluzione francese, Milano 1964, p. 3.
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I. La società che si fa Stato
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Nel partito, per un verso, rivive il ricordo, emotivo magari ma non per questo poco persuasivo, della fazione nelle repubbliche antiche e nei comuni medievali. Il partito, per altro verso, al liberalismo e alla democrazia viene – originariamente, strutturalmente, logicamente – a turbare il contatto, e se si vuole il contratto, fra Stato e cittadini individualisticamente pensato ed individualisticamente realizzato 8. Eppure non può che inserirvisi, rispettandone e facendone propria la portata e la prospettiva. Per quanto enfatico, e al tempo stesso schematico, possa apparire il nesso fissato da Blüntschli fra vita politica e partiti politici, è certo che nella vita politica concepita e praticata rappresentativamente i partiti politici sono protagonisti irrinunciabili. Dove e quando la libertà non è più in piazza ma sale e si ordina in parlamento, secondo una formula cara a Cesare Balbo non meno che a Marco Minghetti, alle “parti” subentrano i “partiti”, gli istituti nei quali si attua la rappresentanza sono da essi verificati e vivificati ogni giorno; quelle che in piazza potevano risultare lacerazioni distruttive dell’unità collettiva diventano in parlamento occasioni e condizioni per costruire una unità collettiva non immobile e non uguale a se stessa, fondata sulla varietà, sulla diversità, sulla libertà. Sicché «sarebbe forse esatto dire che non sono nuovi i partiti, ma nuovo è il parlamento e che proprio il loro rapporto sostanziale con questa imponente novità ha fatto sì che, anch’essi, siano risultati nuovi» 9. Istituzione tutta politica, il partito esprime ed implica una concezione della libertà ed una concezione della politica. 8 Cf.
D.V. Verney, The Analysis of Political Systems, London 1959, pp.
122ss. 9 S.
Valitutti, I partiti politici e la libertà, Roma 1966, p. 49.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
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Una concezione non angustamente individualistica della libertà. Una concezione non aggressivamente antagonistica della politica. La libertà come libertà individuale che collettivamente si organizza. La politica come lotta politica che intende l’asprezza dei suoi contrasti come competizione e non più come sopraffazione.
2. LIBERTÀ INDIVIDUALE E LOTTA POLITICA «Après la liberté d’agir seul – scrive Tocqueville nella Democrazia in America – la plus naturelle à l’homme est celle de combiner ses efforts avec les efforts de ses semblables et d’agir en commun». I partiti politici incarnano la libertà di agire in comune, esercitata ed esercitabile grazie alla libertà d’agire soli. Due libertà che, pertanto, si prolungano e si completano l’una nell’altra e non possono, senza contraddirsi, mirare a sopprimersi, perché reciprocamente si realizzano e reciprocamente si alimentano. Nella illimitata libertà d’associazione che esiste negli Stati Uniti in materia politica, la quale pure potrebbe “europeisticamente” apparire meno necessaria e più rischiosa della libertà di stampa, Tocqueville riconosce una effettiva ed operante garanzia contro la tirannia della maggioranza: uno di quei casi in cui, tocquevillianamente, avviene che l’estrema democrazia prevenga i pericoli della democrazia. La libertà d’associazione stempera la faziosità, bandisce la cospirazione, introduce tratti più nobili, passioni più generose, convinzioni più salde, procedimenti più franchi. I partiti diventano un “male” dei governi liberi: inevitabili, e persino desiderabili, strumenti del nuovo «manuale della li-
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bertà di un ordinamento che a tutti fornisca piena cittadinanza politica» 10. Ed è significativo che Tocqueville giudichi un sistema di grandi partiti senz’altro preferibile a quello di piccoli partiti. Egli intuisce che nel nuovo mondo ai corps intermédiaires del vecchio equilibrio monarchico, le istituzioni feudali e municipali in cui Montesquieu aveva ravvisato i cardini delle libertà nella società dell’antico regime, devono opportunamente sostituirsi libere associazioni, le quali, consentendo e promuovendo una assidua partecipazione dei cittadini alla vita politica e sociale, impediscano il cristallizzarsi del potere in un sistema di piccoli partiti, quelli appunto che traevano la loro forza non dal consenso ma dalla possibilità di utilizzare lo Stato burocratico per dispensare onori, favori, posti. Presupponendo e a suo modo consolidando la libertà di agire soli, la libertà di agire in comune non esce dal solco delle libertà individuali; ma, anzi, permette alla libertà individuale di estendere la propria area di intervento. Congiuntamente all’essere liberi “contro”, si delinea l’essere liberi “per”. Senza che la seconda sfera di libertà riduca la prima. «Tocqueville sviluppa e rovescia – ha osservato Nicola Matteucci – la distinzione posta da Benjamin Constant fra la libertà degli antichi e la libertà dei moderni. La sviluppa nella misura in cui la libertà dei moderni non è una mera sfera privata di liceità garantita all’individuo, ma è anche e soprattutto la libertà politica, e quindi reale partecipazione. La rovescia nella misura in cui la libertà degli antichi, e cioè la possibilità di partecipare collettivamente e direttamente alla formazione della volontà dello Stato, non è necessariamente 10 S. Tosi, Prefazione, in A. Tocqueville, La democrazia in America, Bologna 1957, p. 10.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
qualcosa di contrapposto alla libertà dei moderni, ma deve essere in qualche modo mantenuta in un grande Stato, pena la perdita della libertà. In altre parole, per Tocqueville, l’utopia rousseauiana della democrazia diretta, del piccolo Stato, deve essere parzialmente realizzata anche nel grande Stato, anche in una società di massa, altrimenti non solo non c’è democrazia, ma non c’è neppure libertà» 11. Ed infatti non aveva condotto alla libertà, stando alle pagine de L’antico regime e la rivoluzione, l’incontro fra la vocazione democratico-giacobina e la tradizione del centralismo amministrativo. Si era preteso, per Tocqueville, di coniugare «un illimitato centralismo amministrativo con un corpo legislativo preponderante; il potere della burocrazia col governo degli elettori. L’insieme della nazione ebbe tutti i diritti sovrani, ogni cittadino singolarmente considerato fu rinchiuso nella dipendenza più stretta: si chiesero alla collettività le virtù e le esperienze di un popolo libero, al singolo le qualità di un buon servitore» 12. La scelta democratico-giacobina negò la competizione dei partiti, pregiudizialmente bollati come fazioni o come corporazioni, ma finì col consumarsi nella sopraffazione di parte: tanto più parte quanto più protesa ad essere tutto. Ammesso e non concesso che si possa prescindere dall’epilogo dittatoriale, il giacobinismo fu sotto molti aspetti autoritarismo monopartitico; e come tale esso sarebbe stato analizzato non solo nella accesa interpretazione di Jacob Talmon, ma pure nella pacata indagine di Hannah Arendt 13. 11 N. Matteucci, Introduzione, in A. Tocqueville, Scritti politici, Torino 1969, vol. I, p. 37. 12 A. Tocqueville, Scritti politici, cit., vol. I, p. 757. 13 Secondo la Arendt, «at the very beginning of the party system, the one-party dictatorship developed out of a multy-party system. For Robespier-
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I. La società che si fa Stato
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Insomma, il territorio “dei partiti” divenne territorio “del partito”. Per non ripetere quelle che sembravano le incongruenze e le inadempienze del 1688 inglese, il 1789 francese non approdò ad una equilibrata costituzionalizzazione della lotta politica. La libertà d’associazione rimase mortificata in una struttura di libertà razionali, invece di incardinarsi in una struttura di libertà storiche. La formula stato-cittadino, in cui tutto monisticamente, e un po’ misticamente, si risolveva e si annullava, non mise capo ad una salda organizzazione delle istituzioni politiche. Ricorrendo ad una efficace immagine di Giuseppe Maranini, «la rivoluzione vittoriosa non arrivò a diventare regime, restò rivoluzione: e questo doveva essere il suo insanabile dramma» 14. Quando si restringe la libertà alla libertà di agire “soli” e quindi si vede nell’associazione, come Tocqueville denunciava fossero propensi a vedere i francesi, un’arma di guerra che si appresta frettolosamente, per sperimentarla subito sul campo di battaglia, quelle che si avvantaggiano sono le posizioni individualisticamente autocratiche. «On ne peut se flatter – argomenta Constant nei Principes de politique – d’exclure les factions d’une organisation politique, où l’on veut conserver les avantages de la liberté. Il faut donc travailler à rendre ces factions les plus innocentes qu’il est possible, et comme elles doivent quelque fois êrre victorieuses, il faut, d’avance, prévenir ou adoucir les inconvénients de leur victoire» 15. re’s rule of terror was indeed nothing else but the attempt to organize the whole French people into a single gigantic party machinery… through which the Jacobin club would spread a net of party cells all over France». (H. Arendt, On Revolution, London 1963, p. 250). 14 G. Maranini, Classe e stato nella rivoluzione francese, Firenze 1964, p. 81. 15 B. Constant, Oeuvres, Plèiade, Paris 1957, p. 1158.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
Una sorta di ammonimento postumo, quello di Constant, all’ispirazione della rivoluzione francese, culminata nell’esperienza napoleonica. Il quale Napoleone, all’indomani del colpo di Stato del 18 brumaio, aveva detto al Consiglio degli Anziani: «Les différentes factions sont venues sonner à ma porte; je ne les ai point écoutées parce que je ne suis d’aucune coterie, parce que je ne suis que du grand peuple francais» 16. Quasi a ricongiungersi al disegno giacobino di «tutti i partiti riconciliare, anzi opprimere» 17. D’altro canto, è anche vero che i partiti non possono risparmiare a nessuno, e in nessun momento, le responsabilità e le imprevedibilità dell’azione politica. Nel senso che la libertà di agire in comune arricchisce e perfeziona la libertà di agire soli, ma non ne sminuisce la sovranità, sempre “assoluta” e mai “costituzionale” potrebbe dirsi. Fra i partiti e nei partiti, al di là di ogni diversa predisposizione, contro ogni irregimentazione esteriore, non devono attenuarsi l’originalità e la creatività dell’azione individuale nella vita politica. Croce, per esempio, nel saggio del 1924 su I partiti politici, poi confluito in Etica e politica, poneva proprio il concetto della individualità dell’azione politica alle origini di quei «vari e mobili aggruppamenti» che sono i partiti politici; e testualmente scriveva «i partiti, cioè gl’individui» 18. Il che pienamente autorizzerebbe la classica battuta di Disraeli, che spesso Vittorio de Caprariis ripeteva nella polemica sulla par16 Cf. «Moniteur», t. XXIX, p. 892. 17 Così sarebbe stato interpretato il ruolo
di Bonaparte in un articolo attribuito a Foscolo, apparso in un giornale giacobino genovese del 1800. Cf. I partiti, in «Il redattore italiano» (18-25 gennaio, 28 Nevoso-5 Piovoso anno VIII), riportato in I Giornali Giacobini Italiani, a cura di R. De Felice, Milano 1962, p. 308. 18 B. Croce, Etica e politica, Bari 1967, p. 195.
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I. La società che si fa Stato
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titocrazia: tra la propria coscienza e il proprio partito un galantuomo sceglie sempre il proprio partito 19. E nel saggio del 1938 su I partiti politici e il loro carattere storico, poi ne La storia come pensiero e come azione, Croce andava ancora più avanti, nitidamente congiungendo la vita politica costruibile mediante la libertà, e quindi il liberalismo, ai partiti e al loro ufficio. Al pari degli “uomini veri”, anche i partiti, scriveva Croce, «sempre che abbiano virtù e consistenza morale, cioè volontà del bene comune, e non si riducano a fazioni e a bande, sono anch’essi tutti, nel loro intrinseco, liberali. In effetti, lo spirito liberale li accetta tutti, li vuole, li richiede, li invoca, e lamenta la loro assenza o la loro scarsa efficienza; e sente mancare o piuttosto scemare la sua propria libertà quando quella varietà e quei contrasti scemano e vengono meno o tendono ad adeguarsi nell’inerzia dell’acrisia, del docile assenso e dell’indifferenza» 20. Era l’approdo alla concezione dei partiti come rappresentanti della libertà. Una concezione che il liberalismo innestava sul tronco di una concezione della politica come lotta politica, percorsa da un generale antagonismo. «Io intendo qui per antagonismo – aveva spiegato Kant – la insocievole socievolezza degli uomini, ossia la loro tenden19 «…Disraeli, che di sistemi liberali si intendeva molto più che di barbe finte, disse una volta che tra la propria coscienza e il proprio partito un galantuomo sceglie sempre il proprio partito: e il suo paradosso era più altamente etico di tutti i patemi d’animo di coloro che gemono sulle coscienze violate dai partiti. Perché l’adesione ad un partito è una scelta primaria della coscienza, e la coscienza è una cosa troppo seria perché possa essere messa in crisi dal bilancio delle Poste. Benedetto Croce ci ha abituati a diffidare di coloro che hanno troppo frequenti crisi morali: egli osservava acutamente, infatti, che un’eccessiva frequenza di crisi morali non era segno di un’etica austera, ma, nella migliore delle ipotesi, di nervi troppo fragili…» (V. de Caprariis, Le garanzie della libertà, Milano 1966, pp. 102s.). 20 B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Bari 1943, p. 224.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
za a riunirsi in società, congiunta, tuttavia, ad una generale resistenza, che continuamente minaccia di dividere questa società. Qui c’è, in modo palese, la disposizione della natura umana. L’uomo ha una inclinazione ad associarsi, perché egli, in una tale condizione, si sente più uomo, avverte, cioè, lo sviluppo delle sue disposizioni naturali. Ma egli ha anche una potente tendenza a separarsi (isolarsi), perché egli possiede in sé, contemporaneamente, la caratteristica antisociale di voler indirizzare ogni cosa soltanto a suo piacimento e perciò egli attende dappertutto opposizione, così come egli sa di essere incline, da parte sua, a opporre resistenza agli altri. Ora, dunque, è questa resistenza quella che risveglia tutte le forze dell’uomo e lo porta a superare tutta la sua tendenza alla pigrizia… Senza quelle qualità dell’insocievolezza… da cui deriva la resistenza, che necessariamente ognuno deve incontrare nelle pretese egoistiche, tutte le capacità rimarrebbero per sempre nascoste nei loro germi, in una vita da pastori di Arcadia, in perfetta armonia, sobrietà ed amore reciproco…» 21. Nella kantiana insocievole socievolezza degli uomini è da vedersi quanto offre ai partiti materia per costituirsi e insieme per differenziarsi e contrastarsi. Nel liberalismo giuridico di Kant 22, che pur l’esplicarsi di tale “insocievole socievolezza” aspirava a regolare sub specie aeterni, quei contrastanti impulsi naturali che Hobbes e Rousseau volevano repressi erano ritenuti in grado di produrre i migliori effetti: «come gli alberi in un bosco, per ciò che ognuno cerca di togliere aria e sole 21 I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, tr. di G. Solari e G. Vidari, Torino 19652, p. 127. 22 Per l’interpretazione di Kant alfiere del “liberalismo giuridico”, e come tale distinto da Locke alfiere del “liberalismo empirico” e da Rousseau alfiere del “liberalismo etico”, cf. G. Solari, La formazione storica e filosofica dello Stato moderno, Napoli 1974, pp. 56-94.
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all’altro, si costringono reciprocamente a cercare l’una e l’altro al di sopra di sé e perciò crescono belli e diritti, mentre gli alberi che in libertà e lontani tra loro mettono rami a piacere, crescono storpi, storti e tortuosi» 23. Ma se è vero che i partiti realizzano una sorta di «originaria necessità della vita; che è tale in quanto si differenzia e si oppone continuamente in se stessa» 24, non per questo deve ricavarsene che precedenti e lineamenti del partito politico possano trovarsi in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni azione. Solo nel quadro di una società che abbia espulso o che comunque voglia espellere da sé ogni limitazione del diritto di liberamente associarsi fra cittadini egualmente liberi, per indirizzare le proprie forze verso comuni idealità e programmi, è possibile non azzardatamente e non arbitrariamente mettere in comunicazione partiti, istituzioni e dottrine politiche. Solo nel passaggio dalla vecchia formula assolutistica de lo Stato sono io alla nuova formula costituzionale-rappresentativa de lo Stato siamo noi possono cercarsi punti di riferimento non di maniera alla comparazione fra il partito politico degli antichi ed il partito politico dei moderni. Una comparazione che ai nostri giorni si riproduce nelle diagnosi dei politologi più frequentemente di quanto non si riproduca nelle prognosi dei giuristi. E ciò proprio perché storicamente il tramonto dell’assolutismo e l’affermarsi del costituzionalismo hanno in varia misura svuotato gli schemi della tradizionale rappresentanza giuridica delle volontà dei mandanti facendovi subentrare la moderna trama della rappresentanza politica, in cui il primato gerarchico-autoritario 23 I. Kant, Scritti politici e di filosofia della 24 A. Volpicelli, Il concetto speculativo di
storia e del diritto, cit., p. 129. partito politico, in AA.VV., Il partito nella dottrina e nella realtà politica, Roma 1931, p. 82.
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dello Stato sulla società civile si scompone, e a suo modo si ricompone, «sulla base di un sistema, capace di rappresentare la concreta volontà del popolo e di esprimere contemporaneamente l’unità dello Stato» 25. Nella prima fase del processo, quando il rapporto fra istituti rappresentativi e parti politiche è ancora nascente e non ancora stabilizzato, i partiti sono, come amava dire James Bryce, «mediatori di idee»: con il compito di ridurre l’infinita varietà delle decisioni possibili a poche categorie fondamentali, e cioè ad alternative politiche. «Ma al di là di tale trasposizione di specifiche richieste di gruppi nell’arena politica, i partiti hanno un compito ancor più importante, quello di operare una prima aggregazione di interessi particolari e di inserirli poi nella struttura generale dello Stato» 26. Viene, quindi, il momento in cui il dispiegarsi e il dilatarsi del sistema rappresentativo impone i partiti come necessità obiettiva urbis et orbis. Non scaturivano da necessità obiettiva le fazioni nella formula de lo Stato sono io; scaturiscono da necessità obiettiva i partiti nella formula de lo Stato siamo noi. Tanto era e si presentava come portatrice di disgregazione politica la guerriglia fra famiglie, senza scopi riconoscibili e senza ambiti precisi, quanto è e si presenta come strumento di integrazione politica la guerra fra grandi eserciti che si combattono per la vittoria su obiettivi riconoscibili e su ambiti non più imprecisi. Vittoria che significa potere; e potere che significa responsabilità. La rappresentatività si traduce in responsabilità. Rappresentatività e responsabilità, delle quali si nutre la lotta politi25 A. Colombo, La dinamica storica dei partiti politici, Milano 1970, p. 21. 26 A. Neumann, La democrazia nella società che cambia, tr. a cura di R.
Löwenthal, Milano 1967, p. 39.
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ca concepita e praticata secondo costituzionalismo, diventano i valori e al tempo stesso le strutture che i partiti contribuiscono a fondare. Grazie ai partiti, la fatidica asserzione di Renan, secondo cui lo Stato è «un plébiscite de tous les jours», può acquisire credibilità. Grazie ai partiti, le classiche esigenze del “governo di leggi” e del “governo di uomini”, su cui da Platone in poi si era affaticato il pensiero politico, possono definire le loro priorità e le loro compatibilità. Nella loro presenza e nella loro azione è scandita la dialettica «della società che si fa Stato. Si fa Stato – parole di Costantino Mortati – non occultando in una fittizia e presunta volontà comune il reale contrasto degli interessi, bensì organizzando tali interessi e mostrando la loro suscettibilità di porsi a base di sintesi politiche» 27. Perché una dialettica della società che si fa Stato? Non perché fra società e Stato si arrivi, o si debba arrivare, ad una risolutiva compenetrazione. Ma perché attraverso tale incessante dialettica si realizzi quella combinazione di libertà ed ordine che forma l’essenza dello Stato costituzionale e moderno. Ed il partito politico dei moderni, nel quale la pubblicità del programma implica richiesta aperta di consenso e possibilità di controllo, nel quale ideali e procedure di parzialità si fondono con ideali e procedure di generalità, esprime storicamente una combinazione di libertà ed ordine. Una combinazione che merita di essere ripensata e ristudiata alla luce di un equilibrato rapporto fra prerogative della lotta politica e prerogative della libertà individuale. 27 C. Mortati, Note introduttive ad uno studio sui partiti politici nell’ordinamento italiano, in Scritti giuridici in memoria di Vittorio Emanuele Orlando, II, Padova 1957, ed ora anche in Problemi di diritto pubblico nell’attuale esperienza costituzionale repubblicana, in Raccolta di scritti, III, Milano 1972, p. 385.
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3. LE PARTI E IL TUTTO Un equilibrato rapporto fra prerogative della lotta politica e prerogative della libertà individuale non è valso soltanto a fornire ad ognuno una privata riserva di laissez-faire, ma a costruire su esso le istituzioni di tutti. Tali istituzioni, al pari dei partiti, diventano concepibili «nel momento in cui – come rileva Giovanni Sartori – si afferma la credenza che un ordine politico può essere costruito su parti, e che un mondo monocromatico e unicentrico non è il solo fondamento possibile di un sistema politico» 28. La società si fa Stato nella sua varietà, nella sua diversità, nella sua libertà. La “parte” non è più necessariamente eversione o minaccia del “bene comune”. Né l’acquisizione si ferma al dato sociologico e al dato politologico. Luigi Settembrini, che sociologo non era e politologo neppure, osserva: «Caduta ora l’aristocrazia, e rimasto il principe ed il popolo, come si comporrà lo Stato? È necessario che il popolo si distingua in ordini: che sorga (e va sorgendo) in esso un’altra aristocrazia, un’altra persona, che non può essere l’uomo individuo che non forma ordine, ma è l’associazione. L’associazione è la natural forma che piglia lo Stato, composto di popolo e di principe, lo stato senza aristocrazia feudale… Nell’associazione il popolo acquista persona concreta, si solleva e diviene parte dello Stato, anzi tutto lo Stato» 29. Questa intuizione dell’associazione come “un’altra aristocrazia”, come “un’altra persona”, come promozione del popolo a “parte dello Stato, anzi tutto lo Stato”, sarà pure un’immagine letteraria; ma è un’immagine letteraria che penetra nel28 G. 29 L.
Sartori, Partiti e sistemi di partito, Firenze 1965, p. 3. Settembrini, Lezioni di letteratura italiana, Firenze 1964 (1ª ed. 1866-1872), p. 786.
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la storia dei fatti e nella storia delle idee con sguardo attentamente globale. Insidiosa sotto il profilo strettamente giuridico, lo è assai meno ed è pienamente utilizzabile sotto il profilo storico, per ricavarne integrazioni e confini fra una “parte” e il suo “tutto”. Il lessico di Settembrini non è quello di Sartori. Ma può egualmente – correttamente – dedursene un «intero pluralistico; e se la città politica è concepita come una totalità pluralistica, allora ciò che si richiede è un tutto fatto di parti, o derivato da parti (al plurale). Il che equivale a dire che l’intero non può essere identificato con un’unica parte, perché in questo caso una parte non è una parte, e un tutto non è un tutto» 30. Accanto all’acribia politologica, l’affermazione di Sartori ha anch’essa un suo respiro storico. Ci si dischiude una prospettiva ideale, e in qualche modo anche funzionale, nella quale i partiti sono correlativi al mondo del liberalismo. Possono esserlo pure a quello della democrazia, in quanto e per quanto essa riesce a crescere sul tronco del liberalismo. Non lo sono più se la democrazia quel tronco recide. Ed infatti “parti” contro il “tutto”, o per lo meno fuori dal “tutto”, si configurano i partiti per quei democratici, giacobini alla Rousseau, i quali ritenevano che la volontà generale del popolo dovesse esprimersi nella sua unità sostanziale, e non particolarizzandosi e diversificandosi nei partiti. E così per quei democratici, girondini alla Condorcet, i quali accettavano la regola della maggioranza, ma la vedevano, con molto intellettualismo, come una somma di volontà uguali divenuta universale perché maggioritaria, e non realisticamente come una combinazione politica di volontà diverse. 30 G.
Sartori, Partiti e sistemi di partito, cit., p. 9.
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Insomma, ogni concezione finalisticamente “meta-politica” della democrazia porta a rifiutare il fenomeno politico dei partiti, riassorbendolo nel suo monismo e nel suo moralismo, totalizzanti e tendenzialmente totalitari. Vengono in mente le tesi gramsciane, deterministicamente condizionate più di quanto non si dicessero storicisticamente orientate, nelle quali fra “parte” e “tutto” si cancellava pressoché irrimediabilmente ogni possibile confine. «Il moderno Principe – per Gramsci – sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali, in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume» 31. Il riferimento a Gramsci serve a notare come i partiti, a differenza delle fazioni, siano “parti” che vivono e agiscono in funzione del “tutto”. Ed è appunto qui che costituzionalismo e liberalismo apprestano i loro meccanismi di limitazione e di garanzia: a tutela delle “parti”, non meno che a tutela del “tutto”. Proprio perché non sono fazioni, i partiti sono chiamati a rifarsi a una visione non parziale e non faziosa del tutto. E comunque a rispettare, con laico lealismo, quell’imperativo del costituzionalismo, esso sì “moderno Principe”, che esige dal31 A. Gramsci, Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Torino 1949, p. 8 (cf. sulle tesi gramsciane, e non solo sulle tesi gramsciane, le considerazioni di U. Cerroni, Per una teoria del partito politico, in «Critica marxista», settembre-dicembre 1963, pp. 15-60).
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la “parte” vincitrice un comportamento “imparziale”. Governare, legiferare, giudicare in forza di tale imperativo diventa titolo di legittimità e motivo di orgoglio delle “parti”. Il tutto non è mai di parte (al singolare), perché è sempre di parti (al plurale). La società che si fa Stato secondo costituzionalismo e secondo liberalismo colloca al primo posto, fra le funzioni di un sistema partitico, la funzione espressiva. «I partiti – avverte Sartori – sono nati e si sono sviluppati per esprimere e non per reprimere, come strumento di libertà e non come strumento di coercizione. Ciò significa che i partiti appartengono alla strumentalità della rappresentanza, e cioè che sono un veicolo, un mezzo, per rappresentare il popolo, esprimendone le richieste. Con ciò non intendo asserire che tutti i partiti sempre esprimono e rappresentano; sto soltanto dicendo che la loro ragione d’essere essenziale è di servire lo scopo di assicurare un governo rappresentativo e responsabile» 32. Un governo rappresentativo e responsabile del tipo di quello che, come nuova prassi costituzionale, comincia ad avere applicazione nell’Inghilterra di Walpole. Rappresentativo e responsabile di fronte al parlamento, beninteso, ma anche, a più largo spettro, nei confronti del paese. Inevitabilmente, seppur lentamente, le “parti” di un parlamento e di una ristretta cerchia interna, diventano “partiti”, cioè divisioni che hanno un fondamento e una rispondenza fuori del parlamento, nel paese. Divisioni alle quali tradizionalmente si era attribuito tutto il sospetto e tutta la diffidenza riassumibili nella vicenda etimologica di fazioni e partiti. Il latino factio denotava un facere politico dannoso, distruttivo e perciò biasimevole. Laddove il partito risaliva al la32 G.
Sartori, Partiti e sistemi di partito, cit., p. 10.
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tino partire, cioè dividere; ma gli scrittori politici, almeno fino al diciassettesimo secolo, gli preferivano per lo stesso significato secare; sicché la setta evocava divisione, il partito evocava fazione, la parte smarriva il suo significato originario, che era analitico e non spregiativo. Quando poi la parte diviene partito, ci si ritrova con un termine sottoposto a due diverse sollecitazioni semantiche: da un lato il dividere e da un altro il prender parte, cioè il partecipare. Con in più la complicazione per cui, nel momento in cui il partito entra nel vocabolario politico, tende ad uscirne la setta, che acquista un senso prevalentemente, se non esclusivamente, religioso. Di qui, dunque, per il partito nel diciottesimo secolo il singolare destino di vedersi assegnata una valutazione meno negativa di quella assegnata alla fazione, ma di restarne ancora sostanzialmente un sinonimo. Si pensi a come era redatta da Voltaire (in modo assolutamente identico alla corrispondente voce del Dictionnaire Philosophique) la voce Faction nell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert. «Le terme de parti par lui-méme n’a rien d’odieux, celui de faction l’est toujours» 33. Così dicendo, Voltaire sacrificava gli elementi di una distinzione che non riusciva pienamente a far sua. «With his versatile genius for synthesis, Voltaire – ricostruisce Sartori – epitomized in this sentence a debate opened by Bolingbroke in 1732 and after that pursued for about a century» 34. Un dibattito in cui di fazioni e partiti molte e frequenti sono le classificazioni, ma – magari anche per questo – fra fazioni e partiti stentano ad emergere le distinzioni. 33 Encyclopédie, Genève 1778, t. XIII, p. 765. 34 G. Sartori, Parties and party systems, Cambridge
1976, vol. I, p. 3.
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«There is little doubt – nota ancora Sartori – that no eighteenth-century author, aside from Burke, really disentangled the two concepts. Yet all our authors – and notably Bolingbroke and Hume – were struggling, at some point, with a distinction that carried a difference. If as we read the literature we pay attention to the exact difference is that faction applies to a concrete group, whereas party is far more an analytic partition, a mental construct than a concrete entity. And this explains why the distinction is quickly blurred and does not hold tight. If faction is the concrete group and party the abstract grouping, reference to the real worid makes the two indistinguishable» 35. E neanche Montesquieu, secondo Sartori, avrebbe saputo invertire il corso della parabola semantica, diradandone le oscurità, riducendone le ambiguità e inaugurando una corretta distinzione fra fazioni e partiti. Quel Montesquieu che, invece, per Sergio Cotta, avrebbe contribuito più di ogni altro a rimuovere i maggiori ostacoli concettuali che si opponevano ad un fecondo sviluppo dell’idea di partito 36. E non solo per Cotta 37. Non che Montesquieu amasse lo scatenarsi delle discordie intestine o approvasse gli eccessi partigiani: le une e gli altri più volte aspramente stigmatizzati nelle sue Pensées. Ma tra libertà e contrasti politici esisteva per Montesquieu un legame necessario, che già in una delle Lettres Persanes lo por35 Ibid., pp. 4s. 36 Cf. S. Cotta, La nascita dell’idea di 37 Cf. M. Minghetti, I partiti politici
partito, cit., pp. 474-486. e l’ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione (1881), Roma 1944, p. 72; M. Leroy, Histoire des idées sociales en France: de Montesquieu à Robespierre, Paris 1947, p. 122; A. Esmein, Eléments de droit constitutionnel français et comparé, Paris 1927, t. I, p. 240.
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tava a notare come in Inghilterra la libertà uscisse «des feux de la discorde et de la sédition» 38. Fino ad arrivare a indicare, nelle Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence, la regola generale di ogni divisione politica, cioè a teorizzarne la ragion d’essere e la universale validità. Polemizzando con i numerosi autori che parlano delle divisioni interne che perdettero Roma, ai quali oppone che tali divisioni erano inevitabili e indispensabili, Montesquieu dal piano della psicologia sociale risale a quello della composizione delle forze e del loro equilibrio. La tensione della società che si fa Stato gli appare ricerca di un equilibrio non statico ma dinamico, che la lotta delle parti perpetuamente realizza, distrugge e rinnova secondo una legge immanente a se stessa. Conviene rileggere la pagina di Montesquieu: «Il fallait bien qu’il y eût à Rome des divisions: et ces guerriers si fiers, si audacieux, si terribles au dehors, ne pouvaient pas être bien modérés au dedans. Demander, dans un Etat libre, des gens hardis dans la guerre, et timides dans la paix, c’est vouloir des choses impossibles; et, pour règle générale, toutes les fois qu’on verra tout le monde tranquille dans un Etat qui se donne le nom de république, on peut être assuré que la liberté n’y est pas. Ce qu’on appelle union, dans un corps politique, est une chose tres équivoque, le vrai est une union d’harmonie, qui fait que toutes les parties, quelque opposées qu’elles nous paraissent, concourrent au bien général de la société; commes des dissonances, dans la musique, concourent à l’accord total. Il peut y avoir de l’union dans un Etat où on ne croit voir que du trouble; c’est-à-dire une har38 Montesquieu, Lettres Persanes, CXXXVI, in Oeuvres complètes, Plèiade, Paris 1956, t. I, p. 336.
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monie d’où résulte le bonheur, qui seul est la vraie paix. Il en est comme des parties de cet univers, éternellement liées par l’action des unes, et la réaction des autres» 39. La regola generale fissata da Montesquieu si nutre della duplice analogia dell’unione del corpo civile con l’armonia musicale da un lato e con l’armonia cosmica dall’altro. Due analogie entrambe radicate nella tradizione del pensiero classico, ma da Montesquieu diversamente interpretate e diversamente orientate 40. In particolare, quella con l’armonia musicale. «In essa Montesquieu, sottolineando il fatto che a dar luogo all’accordo musicale sono non già delle consonanze – come invece avevano affermato Cicerone e sant’Agostino – bensì proprio delle dissonanze, mette in luce la capacità dei contrasti politici a creare dialetticamente l’accordo» 41. Rilevando il significato di libertà delle dissonanze politiche dei Romani, Montesquieu ne accetta la passionalità e la antepone alla moderazione, cara ai pensatori greci, capace di produrre consonanze e di impedire dissonanze. Sembra di risentire Machiavelli 42, il quale nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio aveva scritto: «Io dico che coloro che dannano i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma; e che considerino più a’ romori e alle grida che di tali tumulti nascevano che a’ buoni effetti che quelli parto39 Montesquieu, Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence, IX, Paris 1954, p. 50. 40 Cf. S. Cotta, La nascita dell’idea di partito, cit., pp. 477-482. 41 Ibid., pp. 481s. 42 Cf. E. Levi-Malvano, Montesquieu et Machiavel, Paris 1912, pp. 74s.; cf. anche, seppur non direttamente sulla questione dei partiti, A. Bertière, Montesquieu lecteur de Machiavel, in «Actes du Congrès Montesquieu» (1955), Bordeaux 1956, pp. 141-158.
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rivano; e che e’ non considerino come e’ sono in ogni repubblica due umori diversi, quello del popolo e quello dei grandi, e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà nascano dalla disunione loro, come facilmente si può vedere esser seguito in Roma; …e le buone leggi [nascono] da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano» 43. Ma per Machiavelli, e per Vico che spiegava anch’egli la divisione fra nobili e plebei in base a «due contrarie eterne proprietà» 44, l’antinomia romana non andava generalizzata. Negli altri casi, non era nella struttura del corpo sociale che nascevano i partiti. Essi avevano all’origine un vizio “privatistico”, che non gli consentiva di pubblicamente, e “pubblicisticamente”, operare per il bene comune, ma anzi gli intimava di sovvertirlo. Machiavelli, sempre nei Discorsi, vedeva scaturire i partiti da una «offesa da privati a privati, la quale offesa genera paura; la paura cerca difesa; per la difesa si procacciano partigiani; da’ partigiani nascono le parti nelle cittadi; dalle parti la rovina di quelle» 45. E Vico riteneva che «nelle repubbliche libere tutti guardano a’ loro privati interessi, a’ quali fanno servire le loro pubbliche armi in eccidio delle loro nazioni» 46. Sicché quella di Montesquieu, se è una nuova concezione dei partiti, lo è in quanto si configura come una nuova concezione del bene comune, «di questa nozione così antica – parole di Cotta – con cui tradizionalmente è definito lo Stato nel suo profilo o, per lo meno, nella sua rilevanza etica. Il bene 43 N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, 4, in Opere, Milano 1939, vol. II, p. 115. 44 G.B. Vico, Scienza Nuova Seconda, ed. F. Nicolini, Bari 1953, vol. I, p. 288. 45 N. Machiavelli, Discorsi…, cit., I, 7, p. 125. 46 G.B. Vico, Scienza Nuova Seconda, cit., vol. II, p. 108.
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comune non si presenta più come una caratterizzazione oggettiva della realtà sociale che tutti i membri del corpo politico debbono accettare come precostituita e alla quale debbono adeguare le loro opinioni e le loro azioni, in quanto essa è univocamente (perché oggettivamente) determinata e determinabile. Esso appare invece a Montesquieu come una realtà creata dagli uomini nel vivo della storia, attraverso un laborioso travaglio, che supera bensì i contrasti, ma li presuppone; come il risultato, insomma, di una dialettica concordia discors, di cui i partiti sono gli elementi indispensabili. Alla concezione classica dello Stato fondata sulla giustizia come uguaglianza si sostituisce, pertanto, una concezione nuova fondata, sia pure in termini schematici, sulla giustizia come libertà, che il secolo XIX si incaricherà di sviluppare e di realizzare. Nello Stato nuovo (lo Stato repubblicano di cui parla Montesquieu), in cui il potere non è più il privilegio di pochi bensì il diritto di tutti, il bene comune si identifica con la libertà e questa si realizza nella lotta delle ideologie contrastanti» 47. In fondo, anche fra la diversa collocazione da Cotta e da Sartori assegnata a Montesquieu rispetto al problema dei partiti può stabilirsi una certa dialettica concardia discors. Può desumersene che Montesquieu introduca soprattutto una nuova idea del tutto, di un tutto fatto di parti (per dirla con Sartori) in cui il bene comune si identifica con la libertà (per dirla con Cotta). Del resto, per Montesquieu nell’Esprit des Lois la trasformazione dei partiti inglesi è dovuta all’esistenza di «due pote47 S. Cotta, La nascita dell’idea di partito, cit., pp. 482s. (Sul bene comune, problema “antico”, ma non per questo “vecchio”, e quindi tema della filosofia politica e dell’etica sociale, prima e più che della ricerca storica, cf. A.M. Quintas, Analisi del bene comune, Roma 1979).
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ri visibili, il potere legislativo e quello esecutivo» e all’indipendenza dei cittadini i quali decidono seguendo le loro passioni. Montesquieu non teme lo scatenarsi delle passioni, che appariranno «dans tonte leur étendue». In politica, le passioni contano più della ragione. «Si cela était autrement, l’Etat – secondo Montesquieu – serait comme un homme abbattu par la maladie, qui n’a point de passions parce qu’il n’a point de forces». L’equilibrio dei poteri non segna la fine delle lotte fra i partiti. Proprio in esse tale equilibrio viene continuamente raggiunto e continuamente negato. La competizione e l’alternarsi dei due partiti inglesi – difensori del potere esecutivo i tories e difensori del potere legislativo i whigs – è l’espressione del vigore e della vitalità del corpo sociale, così come le passioni lo sono del corpo fisico. La lotta fra i partiti trova la sua misura equilibratrice in se stessa, per il fatto di esser lotta nella e per la libertà. «Ces partis étant composés d’hommes libres, si l’un prenait trop le dessus, l’effet de la liberté ferait que celui-ci serait abaissé, tandis que les citoyens, comme les mains qui secourent le corps, viendraient relever l’autre» 48. A giudizio di Cotta, «questi stessi principi (forse più ancora della sua celebre teoria della divisione dei poteri) costituiscono i fondamenti essenziali dello Stato liberale moderno, che si basa e vive della varietà dei contrasti dell’opinione pubblica e di cui Montesquieu si rivela pertanto uno dei profeti più chiaroveggenti e sicuri. È dunque nel quadro di questa nuova concezione dello Stato, di cui vengono a costituire un elemento indispensabile, che i partiti trovano una piena giustificazione alla loro esistenza, non più soltanto sul piano 48 Montesquieu,
Esprit des Lois, XIX, 27, Paris 1949, t. I, p. 335.
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dei fatti, come aveva ammesso Hume, ma anche sul piano teorico» 49.
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4. L’INGHILTERRA E LA FRANCIA Quanto alla distinzione piena ed esplicita, e non soltanto intuita a legittimazione dei partiti, fra fazioni e partiti, ha ragione Sartori, la si sarebbe avuta «only with Burke, almost one-half century after Montesquieu» 50. Eppure alla distinzione fra fazioni e partiti, senza voler anticipare Burke, occorre sempre in certa misura rifarsi. È arduo altrimenti definire i partiti, e quindi analizzare i modi più o meno intensi e i tempi più o meno serrati attraverso cui la società va a farsi Stato. Già prima di Sartori, nonché prima di Duverger che della «scienza dei partiti» (l’espressione è sua) è punto di riferimento decisivo 51, alla definizione dei partiti si era associata la distinzione dalle fazioni. «Se una definizione – per Friedrich – non distingue il partito dalla fazione, o consideriamo partito e fazione di fatto identici, oppure modifichiamo la definizione in modo da distinguerli» 52. Storicamente, partito e fazione possono talvolta apparire di “fatto identici”. Ma ad una osservazione non superficiale si delinea a poco a poco una discriminante abbastanza profonda. L’idea di partito richiama e presuppone una funzione, non altrettanto l’idea di fazione. 49 S. Cotta, La nascita dell’idea di partito, cit., p. 484. 50 G. Sartori, Parties and party systems, cit., p. 6. 51 Cf. soprattutto M. Duverger, Les partis politiques, Paris 1951. 52 C.J. Friedrich, Constitutional Government and Democracy, Boston
1950, p. 420.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
«Brevemente, un partito è parte di un tutto che cerca di realizzare le finalità del tutto, laddove una fazione è soltanto una parte che fa parte a sé, che opera pro domo sua» 53. Il che, se non consente di avvicinare la fazione a quel che politologicamente si intende con la nozione di “gruppo di interesse”, consente certamente di considerare personali le lotte fra fazioni e generali perché funzionali ad un “tutto fatto di parti” le lotte fra partiti. Se ne possono ricavare e se ne sono ricavate tantissime tipologie. Orbene, tornando a Tocqueville e con lui a Matteucci, «forzando tutte queste tipologie, non possiamo forse dire che, fra i partiti moderni, quello che realizza un’adeguata partecipazione politica è del tutto simile a quel paleo-partito che nel Settecento e nel primo Ottocento è stato opposto alla fazione? Basta porre attenzione non al momento organizzativo, ma a quell’ideale che ne costituisce l’anima, contrapponendosi all’interesse… Sono stati forse forzati i passaggi, ma era l’unico modo per arrivare alla distinzione posta dal Tocqueville fra grandi e piccoli partiti, dove, sia ben chiaro, grande e piccolo non indicano una dimensione quantitativa (il numero di aderenti), ma qualitativa (il fine che li anima: i grandi ideali appunto, o i piccoli interessi)» 54. Ed è proprio l’approdo, nella storia delle idee, a quel «paleo-partito che nel Settecento e nel primo Ottocento è stato opposto alla fazione» che le pagine che seguono intendono ricostruire. In tutte le antinomie che quel “paleo-partito” offre alla riflessione teorica e alla elaborazione costituzionale, per le quali l’“isola” inglese resta disgiunta dal “continente” francese: senza che la via che da Bolingbroke condu53 G. 54 N.
Sartori, Partiti e sistemi di partito, cit., pp. 7s. Matteucci, Il problema del partito in A. Tocqueville, in «Il Pensiero Politico», Firenze, 1, 1968, p. 47.
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I. La società che si fa Stato
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ce a Burke si incontri con la via che da Rousseau conduce a Robespierre; senza che la rivoluzione “conservatrice” del 1688 (come tale interpretata e difesa da Burke) illumini la rivoluzione rivoluzionaria del 1789 (come tale interpretata e difesa da Robespierre e dagli uomini del 1793); senza che il gradualismo liberale appaghi l’ansia di rinnovamento democratico. La Rivoluzione francese merita certamente la centralità riconosciutale nella creazione dei concetti, delle categorie del moderno pensiero politico 55. Nondimeno, tale centralità – relativa e non assoluta – implica al suo interno il problema della marginalità – un po’ meno relativa e un po’ più assoluta – dei partiti politici. Può ritenersi troppo netto e troppo brusco il giudizio di Duverger: «on sait la méfiance des gens de 1789 à l’égard des corps intermédiaires; il n’est pas douteux qu’ils n’auraient pas admis le pluralisme des parties» 56. Ma egualmente insoddisfacente può risultare il generoso tentativo, che più di vent’anni fa impegnò a fondo uno studioso della sensibilità liberale di Mario A. Cattaneo, di inserire i partiti nell’ambito dell’edificio politico creato dalla Rivoluzione francese, come «un ulteriore prodotto del principio della libertà dell’individuo, e della libertà d’associazione che questa conteneva in nuce» 57. Non sono direttamente figlie della Rivoluzione francese istituzioni imperniate su un sistema di partiti che si alternino pacificamente al potere e si facciano protagonisti della vita po55 Cf. G. Burdeau, Traité de science politique, Paris 1953, t. V, p. 116; cf. anche J. Touchard, Storia del pensiero politico, Milano 1963, p. 368, ove si afferma che tra il 14 luglio e il 18 termidoro nascono «i simboli, i termini e le idee politiche attuali». 56 M. Duverger, Les partis politiques, cit., p. 292. 57 M.A. Cattaneo, Il partito politico..., cit., p. 115.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
litica, accantonando partigianerie e faziosità, arrotondando nella circolarità istituzionale le punte e gli spigoli del proprio bagaglio di “idee armate” (come le chiamava Burke). Sono direttamente figlie della Rivoluzione francese, piuttosto, quelle divisioni ideologiche, e quando non propriamente ideologiche comunque indirettamente ideologizzate, tipiche dei partiti politici continentali, originate da estraneità alle istituzioni ed inclini a perpetuarsi anche all’interno delle istituzioni. Lo sviluppo costituzionale inglese, nel senso in cui lo avrebbe celebrato Macaulay nella sua Storia d’Inghilterra, vale a dire come sistema di partiti che in forma ordinata si stabilizzano con la riapertura del lungo parlamento e da allora si alternano al governo senza pretendere di rifondare lo Stato secondo la loro ragione e passione di parte, è dichiaratamente rifiutato dalla rivoluzione francese. Il sistema politico nel quale si fronteggiano whigs e tories è considerato un sistema unicamente legato alla court, lontano dal respiro del country, ristretto ad una oligarchia modellata sulla corruzione parlamentare, incapace di autogestirsi ed autorigenerarsi per rappresentatività reale, povero di tensione ideologica. Come nota Boris Mirkine-Guetzévitch, «le régime anglais n’a évidemment pas pu être adopté par la Constituante: les deux partis anglais au XVIII siècle, qui prenaient alternativement le pouvoir, n’étaient point démocratiques; l’arrivée au pouvoir de chacun d’eux n’apportait aucun changement aux prérogatives de la couronne, pas plus qu’à la situation des citoyens. Et c’est justement l’absence de séparations idéologiques entre les deux partis en Angleterre à la fin du XVIII siècle qui a detourné les hommes du 1789 de l’exemple anglais» 58. Se si 58 B. Mirkine-Guetzévitch, De l’Esprit des Lois à la démocratie moderne, in La pensée politique et constitutionnelle de Montesquieu, Paris 1948, p. 17.
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I. La società che si fa Stato
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eccettua il piccolo gruppo capeggiato da Mounier alla Costituente, gli uomini ed i principi del 1789 si sentono e si dicono fieramente avversi al modello inglese. In loro agisce una duplice pregiudiziale: individualismo antipartitico da un lato, statalismo anticorporativo dall’altro. Due pregiudiziali che, saldandosi, incidono sulla dialettica della “società che si fa Stato”, condizionando alle radici gli adempimenti e gli svolgimenti del “tutto fatto di parti”. Non c’è posto per il partito politico dei moderni fra i principi istituzionali cui ancorare l’incedere continentale della libertà. Gli esiti, non meno delle premesse, della Rivoluzione francese si incaricheranno di dimostrarlo, rinviando al secolo XIX la attuazione e la suggestione esercitabili dal sistema dell’isola su quello del continente. Ogni rapporto e raccordo fra istituzioni e partiti nel corso della Rivoluzione francese si consuma in tempi brevissimi, e si rivela più o meno invariabilmente “di parte”. La libertà di agire soli vivrà la sua grandiosa età di codificazione. Non altrettanto, cooperando a ciò le due pregiudiziali ora richiamate, la libertà di agire in comune. La costruzione empirica dell’organizzazione politica non arriva a riempire di sé le forme costituzionali. Le fazioni non riescono a tradursi definitivamente in partiti.
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II. LE PASSIONI E LE FAZIONI
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1. SOVRANITÀ E PARTICOLARISMI Dalla storia del passato giungevano al secolo XVII il fascino e l’incitamento di grandi ideali di libertà e il ricordo suggestivo di eroiche lotte combattute per la loro affermazione. Ma certo non l’idea ed il costume di parti lealmente opposte e competitivamente inserite nell’unità di un integro sistema politico. Il contrasto delle parti evocava per lo più l’immagine di tumulti e di disordini. La contesa politica era avvolta dall’esecrazione delle risse civili in cui sembrava inevitabilmente destinata a degenerare. L’unità dello Stato veniva al primo posto fra le finalità della costruzione politica; e non doveva essere menomata da sopravviventi aggregazioni corporative, né da emergenti formazioni associative. Sicché tutto il pensiero del Seicento sembra teso a riportare al metro di un bene comune imprescindibilmente unitario le divisioni e i punti di vista diversi che percorrono la società. Ai partiti che la realtà storica propone si rifiuta diritto di cittadinanza in seno allo Stato. Dell’assetto ideale e razionale della convivenza politica e giuridica i partiti appaiono la negazione più radicale, dovuta all’irrazionale passionalità e all’interesse egoistico. Fra passioni e fazioni si presume esista un nesso perverso, che la ragione e l’etica statuale hanno il compito di recidere.
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II. Le passioni e le fazioni
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«Il rifiuto di ammettere i partiti trova, pertanto, la propria spiegazione filosofica profonda nel rifiuto, logicamente anteriore, di ammettere l’aspetto positivo delle passioni in quanto elemento costitutivo della natura umana e più in generale nell’incapacità di intravvedere la conversione del reale e del razionale» 1. Eppure, senza contraddire tale rifiuto, si manifesta talvolta anche un altro atteggiamento. A beneficio dell’uomo e dell’umanità, le malefiche passioni possono essere in qualche modo imbrigliate, schierandole l’una contro l’altra, attuandone una reciproca compensazione che ne riduca gli effetti 2. Quando si rivela impraticabile l’attacco simultaneo contro tutte le passioni, può convenire distinguere «fra le varie passioni – combattendo il fuoco col fuoco – e utilizzare una categoria di passioni relativamente innocue per neutralizzarne altre più pericolose e distruttive; o forse anche indebolire e addomesticare le passioni mercé lotte intestine, secondo il principio del divide et impera» 3. Il ricorso alla passione controbilanciante era nel Seicento anch’esso frutto della fosca visione della natura umana propria di quel secolo, e non si discostava dalla tenace convinzione che le passioni come tali fossero perniciose e distruttive. Solo nel Settecento le passioni sarebbero state riabilitate e considerate non più pericolose, ma largamente salutari, senza per questo riunciare alla dinamica dei contrappesi accennata nel secolo precedente. 1 S. Cotta, La nascita dell’idea di partito, in «Il Mulino», Bologna 1959, pp. 451s. 2 Cf. A.O. Hirschman, Le passioni e gli interessi, tr. a cura di S. Gorresio, Milano 1979, pp. 15-54. 3 Ibid., p. 22.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
Ed è significativo che Helvétius, massimo araldo delle passioni nel secolo XVIII 4, sarebbe stato un continuatore di Bacone nella polemica contro i moralisti incapaci di “armare” le passioni 5. Il quale Bacone era stato il primo a coltivare l’idea di controllare le passioni attizzandole l’una contro l’altra. Forte della sua personale esperienza politica, non meno che del carattere sperimentale e innovatore della sua filosofia, Bacone riteneva che le fazioni dovessero esser di esempio alle passioni, il governo dello Stato al governo dell’anima. «Operando pressappoco – diceva – come fanno i cacciatori di animali che si servono di altri animali, e i cacciatori di uccelli che si servono di altri uccelli… E perciò se nel governo dello Stato non di rado accade che una fazione riesce a mantenere entro i limiti del dovere un’altra fazione, lo stesso deve accadere nel governo interiore dell’anima…» 6. 4 Si pensi a quali erano i titoli di alcuni capitoli dell’opera principale di Claude-Adrien Helvétius, De l’esprit, uscita anonima nel 1758, posta all’Indice nel 1759, e oggetto poi di una pubblica ritrattazione dell’autore: Della potenza delle passioni; Della superiorità di spirito delle persone appassionate sulle persone assennate; Come si diventa sciocchi non appena si cessa di essere appassionati. 5 «Fra i moralisti pochi sono quelli che sanno armare l’una contro l’altra le nostre passioni per utilmente servirsene allo scopo di far adottare le loro opinioni; la maggior parte delle volte i loro consigli non sono che invettive. Essi dovrebbero tuttavia sentire che le invettive non valgono a combattere con successo i sentimenti: che solo una passione può trionfare su di un’altra passione; che per esempio se si vuole ispirare ad una donna vivace più modestia e ritegno, bisogna far giocare la sua vanità contro la sua civetteria e farle sentire che il pudore è un’invenzione dell’amore… È sostituendo il linguaggio dell’interesse agli accenti dell’invettiva che i moralisti possono riuscire a far osservare i loro precetti» (De l’esprit, Paris 1758, pp. 159s.). Per un’analisi più generale e al tempo stesso più dettagliata, cf. D.W. Smith, Helvétius: A Study in Persecution, Oxford 1965, pp. 125-135. 6 F. Bacone, Della dignità e del progresso della scienza, in Opere filosofiche, a cura di E. De Mas, Bari 1965, vol. II, pp. 401s.
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II. Le passioni e le fazioni
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Non che Bacone fosse un estimatore dei movimenti delle fazioni o partiti, termini da lui indifferentemente adoperati per indicare quel legame che si stringe nella lotta politica fra individui tesi ad acquistare potenza. In fisica come in politica, egli aveva per assioma fondamentale la preminenza dell’interesse del tutto (bonum communionis) sugli interessi delle parti (bonum suitatis). Una preminenza che lo induceva a parlare di «un caso disperato se quelli che parteggiano per il governo dello Stato sono pieni di discordie e fazioni e quelli che sono contro di essi sono integri e uniti» 7. Suo costante impegno, anche quando ricoprì le alte cariche di guardasigilli e di cancelliere, sarebbe stato quello di ridurre al minimo le occasioni di litigiosità che riscontrava nel popolo inglese, il più incline a far valere i propri diritti con ogni mezzo legale. Sua maggiore preoccupazione l’imbarazzo del giudice posto in mezzo ad un gran numero di leggi oscure, incerte, antinomiche, sovrapposte, e quindi il continuo intralcio dei conflitti di competenza determinati dalla mancanza di netti confini nella giurisdizione delle corti. Suo proposito quello di dare maggior forza, ma anche maggior rigore, alla giurisdizione equitativa, che era ormai interamente laicizzata e posta nelle mani del cancelliere, il quale era al servizio diretto del Re. «Bacone – osserva Enrico De Mas – era convinto che anche il diritto comune (common law) potesse essere sottoposto a regole oggettive (massime giuridiche) capaci di assicurargli universalità e razionalità e di sottrarlo così all’arbitrio dei giudici e degli avvocati. Era un estremo tentativo di uscire dal mero tecnicismo giuridico. Principalmente, il diritto non è 7 F. Bacone, Scritti politici giuridici e storici, a cura di E. De Mas, Torino 1971, vol. I, p. 353.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
fatto di mere formule legali, ma è tale da aderire continuamente alle esigenze degli operatori e degli attori delle istanze giudiziarie, in pratica di coloro che se ne avvalgono come legittima tutela di interessi legittimi. Di qui la necessità di quella storicizzazione della casistica giudiziaria, che costituisce il pregio maggiore della giurisprudenza britannica e che ha in Bacone un notevole esponente» 8. Nel sistema baconiano il diritto sfociava inevitabilmente nella politica, dalla quale traeva la sua concretezza storica, al di là di ogni schema di norme inalterabili e di casi ipotizzati nella loro fattispecie. Dal che si deduceva come la sovranità fosse attributo del “tutto”, e neppure minimamente delle “parti”. A questa sovranità attentavano i partiti, portatori di un’obbligazione che per nessun motivo ed in nessun momento doveva risultare più sentita dell’obbligazione nei confronti del sovrano. «Così, come ben nota Machiavelli, quando i principi che dovrebbero esser padri a tutti, fanno partito e pendono da una parte, è come una barca che sia rovesciata da un lato da un peso ineguale: come si vide bene al tempo di Enrico III di Francia, poiché prima egli entrò nella Lega per l’estirpazione dei protestanti e subito dopo la stessa Lega si rivolse contro di lui. Perché quando l’autorità dei principi è resa nient’altro che un accessorio a una causa, e ci sono altri vincoli che legano più saldamente del vincolo della sovranità, i re cominciano a esser messi quasi fuori del loro possesso» 9. 8 E. De Mas, Introduzione, in F. Bacone, Scritti politici…, cit., vol. I, p. 37. Tale considerazione e collocazione di Bacone rispetto alle grandi linee della cultura giuridica si muove nel solco della considerazione e collocazione delineata da T. Ascarelli, Hobbes e Leibniz e la dogmatica giuridica, in «Testi per la storia del pensiero giuridico», I, Roma 1960, pp. 29ss. 9 F. Bacone, Scritti politici…, cit., vol. I, p. 348.
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II. Le passioni e le fazioni
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Incapaci di coabitare e tesi ad escludersi reciprocamente, i partiti apparivano a Bacone irrimediabilmente particolaristici e sempre contingenti. Occorreva una forza estranea e superiore per imporre ad essi vincoli più saldi e meno inquieti. Nel sistema politico di Bacone questa forza non poteva scaturire che dal Principe. Il Principe deve essere e restare il primo motore, assolutamente estraneo e superiore ai partiti: primo motore nel quale questi si muovano come satelliti, che hanno moto proprio, ma ordinato in quello generale. Solo il Principe è in grado di far prevalere il momento del “tutto” sul momento delle “parti”. Proprio perché non è come uno di noi, il Principe proietta la sua autorità al di fuori e al di sopra dei partiti. «I re debbono guardarsi dal prender partito essi stessi, e dal partecipare a una fazione o partito: perché le leghe, entro lo Stato, son sempre perniciose alle monarchie; perché promuovono obbligazioni superiori all’obbligazione verso la sovranità, e rendono il re come uno di noi: come s’è visto nella Lega di Francia. Quando le fazioni si lanciano troppo in alto, e con troppa violenza, questo è un segno della debolezza dei Principi; e con molto danno, sia della loro autorità, sia dei loro affari. I movimenti delle fazioni, sotto i re, dovrebbero esser simili ai movimenti (come dicono gli astronomi) delle orbite inferiori; che possono avere i loro propri movimenti, eppure ancora sempre sono tranquillamente trasportate dal movimento più alto del primo mobile» 10. Il timore di «obbligazioni superiori all’obbligazione verso la sovranità» era in Bacone l’altra faccia della sua incrollabile fedeltà all’ideale dello Stato elisabettiano, non scalfita 10 Ibid.,
pp. 470s.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
dalle mutate condizioni politiche e dalle nuove possibilità istituzionali. Anche i compiti del parlamento erano da lui limitati ad “orbite inferiori”. Organo consultivo per eccellenza, convocato dal sovrano in occasione delle “benevolenze” finanziarie da procurarsi periodicamente, il parlamento non doveva usurpare funzioni legislative o giudiziarie, ma doveva restare confinato nella sua opera minore di collaborazione e di sistemazione, come ai tempi di Elisabetta. «Vissuto fino alla vigilia della rivoluzione – osserva ancora De Mas –, quando già se ne preannunciavano le prime avvisaglie (e lo stesso processo contro di lui fu chiaramente intentato con mire politiche, dagli avversari del Buckingham), Bacone non vide né presentì la grande forza d’urto dei rappresentanti del popolo (molti dei quali provenivano dai cosiddetti borghi marci), che si apprestavano a fare causa comune contro l’autoritarismo sovrano» 11. Tanto il conservatorismo politico quanto il riformismo scientifico di Bacone contenevano elementi di grande rigore, ma al tempo stesso di eccessiva rigidità. «Il mondo baconiano della politica – rileva Salvatore Valitutti – offre, in conclusione, la visione di un moto armonizzato e composto, il cui impulso viene dall’alto. Vi sono accolti i partiti come germinazioni spontanee dal basso, e questi vi appaiono turgidi di vigore, ma la loro vitalità non si risolve nell’energia che anima e tiene questo cosmo politico. Di loro, cioè dei partiti, baconianamente concepiti, può dirsi quel che lo stesso Bacone ebbe a dire delle innovazioni politiche che pur aveva asserito essere indispensabili come rimedi intesi ad evitare il crescere dei mali, che cioè essi non vanno ripudiati per principio, ma che è buona regola sospet11 E.
De Mas, Introduzione, cit., p. 21.
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II. Le passioni e le fazioni
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tarli sempre. Pesa su di essi, e li trattiene e comprime, il sentimento della loro incapacità a superare il limite degli interessi e delle aspirazioni particolari da cui nascono. Non è perciò sorprendente il contrasto che si fa palese nel mondo intellettuale dell’autore, tra il mondo del pensiero operoso e risuonante, e il mondo della pratica tenuto fermo e chiuso per timore che si dissolva» 12. Non è un caso che, nella premessa al Tractatus de Justitia universali, Bacone abbia condannato e l’astrattezza dei filosofi, i quali fabbricano leggi per i loro stati immaginari, e l’astrattezza dei giuristi, i quali non vedono più in là delle leggi dei loro paesi. La parola concreta e definitiva spettava, nella sua concezione, agli “uomini di Stato”: i soli in grado di «conoscere quello che la società richiede, quale sia il bene del popolo, che cosa siano l’equità naturale, il costume delle nazioni, e le diverse forme degli Stati» 13. Era lo Stato a doversi fare società. E non viceversa. Senza anticipazioni di costituzionalismo 14. 2. IL NEMICO ENTRO I CONFINI Ben più drastica nei confronti dei partiti la tesi di Hobbes, il cui modello dicotomico – o tanti sovrani quanti sono gli individui, o un unico sovrano fatto di tutti gli individui 12 S. Valitutti, I partiti politici e la libertà, Roma 1966, p. 270. (Alla visione baconiana dei partiti si sarebbe rifatto, per attribuire ad essi i caratteri della unilateralità, della moralità e della volontà, H. von Treitschke, La politica, tr. di E. Ruta, Bari 1918, vol. I, pp. 141-149). 13 F. Bacone, Opere filosofiche, cit., vol. II, p. 481. 14 Una interpretazione che presenta, invece, Bacone quasi come un progenitore del costituzionalismo liberale è stata avanzata da J.W. Gouch, Fundamental laws in English constitutional history, Oxford 1961, pp. 28ss.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
uniti in un solo corpo – vuol essere una costruzione razionale che vanifichi ogni istituzione prodotta, o producibile, dalla passionalità. La tavola del frontespizio del Leviatano è categorica: vi si imprime un uomo gigantesco, con la corona in testa e nelle due mani la spada e il pastorale, simbolo dei due poteri “tradizionali”, il cui corpo è composto di tanti uomini piccoli. Concezione individualistica dello Stato; e accanto ad essa concezione statualistica della società. O gli individui senza Stato o lo Stato composto di soli individui. Gli enti intermedi, corporazioni o associazioni che siano, sono nel Leviatano «come tanti stati minori nelle budella di uno maggiore, simili a vermi negli intestini di un uomo naturale» 15. Le fazioni, è un punto sul quale Hobbes sarebbe stato sempre irremovibile, vanno eliminate. Sono fazioni quelle risultanti da obbligazioni di parentela o di mutua difesa (leghe di sudditi), da solidarietà di religione (papisti e protestanti), da vincoli introdotti per il governo dello Stato (patrizi e plebei a Roma, aristocratici e democratici in Grecia). Le fazioni sono sempre ingiuste: perché contrarie alla pace e alla solidità dello Stato; perché, hobbesianamente parlando, tolgono la spada dalle mani del sovrano. «In tutti gli stati, se un privato tiene più servi di quanto richiede il governo del proprio Stato ed il legale uso, per cui egli li vuole, ne risulta una fazione, che è illegale, poiché, avendo egli la protezione dello Stato, non ha bisogno di difendersi con la forza privata. È vero che in alcune nazioni non interamente incivilite parecchie famiglie numerose sono vissute in continua ostilità, assalendosi l’un l’altra con la forza 15 Leviatano, ossia la materia, la forma e il potere di uno stato ecclesiastico e civile, tr. di M. Vinciguerra, Bari 1911, vol. I, p. 274.
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II. Le passioni e le fazioni
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privata; ma è evidente che esse non agivano in modo giusto, o almeno che esse non avevano ancora uno Stato» 16. Del resto, anche nel Dialogo fra un filosofo e uno studioso del diritto comune d’Inghilterra, l’opera che tanto avrebbe interessato Tullio Ascarelli 17, scritta nel periodo della tarda vecchiezza, nel 1666, all’età di 78 anni, quando i foschi bagliori della guerra civile si erano diradati, «la rovina che la ferocia delle fazioni può provocare in tempi di guerra civile» 18 si configura per Hobbes come uno dei cardini sui quali la ragioneforza si oppone alla ragione-tradizione. La ragione del re non è altro per Hobbes che quella anima legis o quella suprema lex, della quale parla sir Edward Coke. Ma mentre Coke aveva affermato che la parola sovranità era estranea e sconosciuta al diritto inglese, Hobbes recepisce ed oltrepassa Bodin, imperniando la sovranità sulla forza, abilitando come sovrano chi è capace di farsi obbedire a tutti i cambiamenti e a tutte le innovazioni 19. «Dietro questa antitesi – suggerisce Nicola Matteucci – vi è il problema su cosa tenga unita la comunità: la forza del so16 Ibid., vol. I, p. 195. 17 Cf. T. Ascarelli, Interpretazione
del diritto e studio del diritto comparato (1954), in Saggi di diritto commerciale, Milano 1955, pp. 489s. 18 T. Hobbes, Opere politiche, a cura di N. Bobbio, «Classici politici», Torino 1959, I, p. 406. 19 Il grande giurista Sir Matthew Hale (1609-1676) conobbe A dialogue between a Philosopher and a Student of the Common Laws of England prima ancora che l’opera apparisse, e vi scrisse sopra alcune considerazioni che sarebbero state poi pubblicate col titolo Reflections by the Lord Chief Justice Hale on Mr. Hobbes His Dialogue of the Law (cf. l’appendice del quinto volume della History of English Law, 1904, pp. 500-513). Replicando a Hobbes, dopo aver distinto diversi significati di ragione, Hale afferma che la razionalità del diritto è diversa dalla razionalità della matematica, perché la materia giuridica non è costruibile razionalmente come un trattato di geometria. Cent’anni dopo, a Hale si rifarà Edmund Burke nella sua polemica contro coloro che vogliono fondare la scienza politica su delle certezze matematiche.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
vrano o la common law? Gli eredi della concezione medievale, per cui la società è un organismo vivente e un prodotto storico, sostengono la seconda tesi, per cui il re è soltanto il capo o la testa del corpo politico; Hobbes, invece, proprio per la sua premessa rigorosamente individualistica, deve optare per una forza esterna (ed esterna anche al contratto sociale), che dia unità a un insieme di individui atomizzati. Da una tesi potrà maturare il concetto di società civile, come di una realtà autonoma e indipendente dal governo; nell’altra, proprio perché chiusa nella logica assolutistica della sovranità, questo non era possible» 20. Non sarà perciò in Hobbes che, cent’anni dopo, il costituzionalismo inglese riscoprirà la sua continuità, scegliendo lo iustum invece dello iussum, ogni volta che lo iustum potrà dirsi legittimato dal consenso dei secoli. Non saranno le pagine di Hobbes, ma quelle dei legisti in lotta contro l’assolutismo, a rivivere nell’opera di Burke, che al costituzionalismo dei moderni perverrà in nome del costituzionalismo degli antichi. «Da un’ottica inglese – osserva Matteucci a proposito di Burke – e tenendo ferma l’angolatura costituzionale, nessuno, meglio di lui, esprime quella merce, così difficilmente esportabile proprio per un paese nato dal commercio, che è il costituzionalismo inglese» 21. Burke opporrà ad Hobbes la sapienza “politica” della giurisprudenza, «orgoglio dell’intelletto umano», connessione nel tempo fra le passate e le future generazioni, combinazione dei principi originari della giustizia con l’infinita varie20 N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà, Torino 1976, pp. 67s. (Questo libro di Matteucci riproduce, con alcune modifiche, i saggi Le origini del costituzionalismo moderno e Dal costituzionalismo al liberalismo, scritti per la Storia delle idee politiche, economiche e sociali, diretta da Luigi Firpo). 21 Ibid., p. 123.
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tà dei rapporti umani. E si richiamerà proprio al Coke, «il nostro grande maestro di diritto», che illustrò «l’albero genealogico» delle libertà inglesi, e al Selden, che preferì, per difendere le libertà dei suoi concittadini, gli argomenti della tradizione alle astrazioni individualistiche dei diritti dell’uomo. Contro l’arbitrio del re – inglese – o della maggioranza – francese – per Burke la common law incarnerà «un grande capitale collettivo della nazione e dei secoli». Hobbes è invece risolutamente avverso alla common law; non ammette altro diritto che quello fissato dalla volontà del sovrano. Lo ius deve coincidere con lo iussum. L’elevazione dello Stato ad unica sede pensabile di vita razionale è perentoria. «Al di fuori dello Stato – si legge nel De cive – si può venir depredati o uccisi da chiunque; nello Stato, da una sola persona. Fuori dello Stato, siamo protetti solo dalle nostre proprie forze; nello Stato, da quelle di tutti. Fuori dello Stato, nessuno è sicuro dei frutti della sua attività; nello Stato, tutti lo sono. Infine, fuori dello Stato, è il dominio delle passioni, la guerra, la paura, la povertà, l’incuria, l’isolamento, la barbarie, l’ignoranza, la bestialità. Nello Stato, è il dominio della ragione, la pace, la sicurezza, la ricchezza, la decenza, la socievolezza, la raffinatezza, la scienza, la benevolenza» 22. L’extra ecclesiam nulla salus si volge nell’extra rempublicam nulla salus. Lo Stato si erge ad ente di ragione per eccellenza. Le ragioni dello Stato si impongono giusnaturalisticamente come ragioni della ragione. La statualizzazione della ragione assume vigore e rigore di irrinunciabile idea regolativa. «Com’è stato più volte osservato, uno degli aspetti – avverte Norberto Bobbio – del processo di razionalizzazione 22 T.
Hobbes, Opere politiche, cit., p. 21.
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dello Stato, considerato (si pensi a Max Weber) una caratteristica fondamentale della formazione dello Stato moderno, è prima di tutto la riduzione di ogni forma di diritto a diritto statale, con la conseguente eliminazione di tutti gli ordinamenti giuridici inferiori o superiori allo Stato, tanto che vengono a poco a poco a trovarsi di fronte soltanto due soggetti di diritto, gli individui, il cui diritto è il diritto naturale (che peraltro è un diritto imperfetto) e lo Stato, il cui diritto è il diritto positivo (che è il solo diritto perfetto); in secondo luogo la riduzione di ogni possibile forma di diritto statale a diritto legislativo, da cui nascerà quella (presunta) positivizzazione del diritto naturale che è costituita dalle grandi codificazioni, in ispecie da quella napoleonica, e che pretende, attraverso l’eliminazione della pluralità delle fonti di diritto, di assicurare la certezza del diritto contro l’arbitrio, l’eguaglianza, se pure soltanto formale, contro il privilegio, insomma lo Stato di diritto contro ogni forma di dispotismo» 23. La diversa ideologia politica – conservatrice (Hobbes), liberale (Spinoza, Locke, Kant), rivoluzionaria (Rousseau) – non impedisce alla filosofia del giusnaturalismo di convergere nella critica al potere tradizionale, indicando i principali elementi della forma di potere che Weber avrebbe poi chiamato legale-razionale: laicizzazione dello Stato, a tutela delle leggi naturali che sono le leggi della ragione; primato della legge sulla consuetudine e sulle norme create di volta in volta dai giudici; rapporti impersonali, tramite le leggi, tra sovrano e funzionari, donde nasce lo Stato a struttura burocratica, e tra funzionari e sudditi, donde nasce lo Stato di diritto; considerazione dello Stato non come una famiglia in grande ma come un 23 N. Bobbio, Il modello giusnaturalistico, in N. Bobbio - M. Bovero, Società e Stato nella filosofia politica moderna, Milano 1979, pp. 89s.
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grande individuo, di cui sono parte indissolubile i piccoli individui che gli hanno dato vita. A vario titolo ed in varia misura, sono tutti svolgimenti riconducibili al modello hobbesiano. «Per quel che riguarda il problema cruciale del fondamento e della natura dello Stato si può – per Bobbio – a buon diritto parlare, a cominciare da Hobbes, di un modello giusnaturalistico, che viene adottato, se pure con notevoli variazioni, per lo meno sino a Hegel incluso-escluso, da alcuni tra i maggiori filosofi politici dell’età moderna. Se nella teoria generale del diritto ciò che accomuna gli scrittori del diritto naturale, e permette di parlare di una scuola del diritto naturale, è il metodo, soprattutto quando lo si confronti con il metodo delle grandi scuole giuridiche che l’hanno preceduta e l’hanno seguita, nel diritto pubblico o nella dottrina dello Stato, le opere giusnaturalistiche, quelle che i loro creatori e gli stessi avversari considerano tali, sono contraddistinte, oltre che dal procedimento razionalizzante, cioè da un metodo, anche da un modello teorico (tanto generale da essere riempibile dei più diversi contenuti), che risale a Hobbes e nei riguardi del quale sono debitori, più o meno consapevoli, tanto Spinoza quanto Pufendorf, tanto Locke quanto Rousseau (e cito di proposito autori diversissimi, rispetto al contenuto ideologico dei loro scritti)» 24. Al suo interno, il modello hobbesiano è straordinariamente compatto: modello per il “tutto”, senza varchi per le “parti”. Il miglior regime è quello in cui i cittadini sono proprietà ereditaria del sovrano. Gli argomenti che potrebbero indurre a preferire la democrazia alla monarchia sono da Hobbes rovesciati. La libertà individuale non è minore in un regime monarchico che in uno democratico. 24 Ibid.,
p. 37.
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Dal fatto che non tutti siano ammessi alle discussioni delle deliberazioni che interessano la collettività, non deriva ai cittadini alcun inconveniente. Anzi. «Il veder anteporre alla nostra opinione quella di un altro che disprezziamo; il veder sottovalutata la nostra competenza al nostro cospetto; l’attirarsi certissime inimicizie in una incerta lotta per una vuota parvenza di gloria (questo non ce lo possiamo evitare, vincitori o vinti); l’odiare e l’essere odiati per la disparità di idee; il rivelare a tutti, senza bisogno e senza risultato, quel che pensiamo e vogliamo; il trascurare i nostri affari privati per quelli pubblici: tutti questi, dico, sono svantaggi. L’astenersi dalle lotte politiche, benché piacciano tanto a chi ha il dono dell’oratoria, non è poi un fastidio più grande di quel che sia per un uomo robusto l’esser trattenuto dal combattere, mentre sarebbe felice di mettere a prova la sua forza» 25. Dalle grandi assemblee è probabilissimo e presumibilissimo che scaturisca la formazione di partiti. «Infatti, quando oratori dello stesso valore – prosegue Hobbes – scendono in lizza con opinioni diverse ed argomenti contrastanti, chi rimane soccombente odia il vincitore e odia insieme tutti quelli che si sono schierati dalla parte di lui come spregiatori delle sue idee e della sua competenza; e si arrovella per trovare il modo di rendere dannoso per lo Stato il consiglio del suo vittorioso rivale, sperando che in tal modo venga tolta al rivale la gloria d’averlo dato, e riconosciuta a lui quella d’averlo contrastato. Inoltre, quando la votazione non ha dato un risultato così netto da togliere ai soccombenti la speranza di poter avere per sé, in una nuova adunanza e solo con l’adesione di pochi altri partecipanti, la maggioranza, i capi della mi25 T.
Hobbes, Opere politiche, cit., pp. 219s.
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noranza convocano tutti gli altri; deliberano tra loro, separatamente, in che modo possano annullare la decisione già presa, si accordano per essere in molti ad arrivare primi alla prossima adunanza; determinano quel che ciascuno deve dire, e in che ordine, perché la questione sia rimessa sul tappeto, e perché sia annullata, approfittando di qualche assenza occasionale nel campo avverso, la deliberazione che era stata presa quando gli avversari erano quasi tutti presenti» 26. Questa attività si chiama per Hobbes “fare un partito”, ed è l’anticamera della guerra civile. Perché un partito, che si trovi ad essere battuto in una votazione, ma quanto a forza sia superiore o almeno non inferiore agli altri, cercherà di ottenere con le armi quel che non ha potuto ottenere con l’eloquenza o con l’abilità politica. Nel modello hobbesiano, se devono essere sciolti i partiti in luce, devono parimenti venir soffocati i partiti in nuce. È una teoria sediziosa quella che mira ad attribuire ai privati cittadini la distinzione fra il bene e il male, il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto. «Poiché dunque è prerogativa dei re – afferma Hobbes – discernere il bene dal male, sono inique le parole che si sentono dire tutti i giorni: è re chi agisce rettamente, non bisogna obbedire ai re se non ordinano cose giuste, e altre simili. Il giusto e l’ingiusto non esistevano prima che fosse istituita la sovranità; la loro natura dipende da ciò che è comandato; e ogni azione, per se stessa, è indifferente; che sia giusta o ingiusta, dipende dal diritto del sovrano. Pertanto i re legittimi, se ordinano una cosa, la rendono giusta per il fatto stesso che la ordinano, e, vietandola, la rendono ingiusta appunto perché la proibiscono. I privati cittadini, nel rivendi26 Ibid.,
pp. 221s.
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care a sé la distinzione tra bene e male, vogliono sostituirsi al re; e questo non può accadere che con grave danno dello Stato» 27. Ma quale Stato? Quello che ha consentito agli individui di uscir fuori dallo stato di natura, sostiene Hobbes, il quale vede appunto lo stato politico sorgere in antitesi allo stato naturale, di cui ha la funzione di eliminare i difetti, e lo stato naturale risorgere in antitesi allo stato politico, qualora questo venga meno allo scopo per cui è stato istituito. «La contrapposizione fra i due stati – secondo Bobbio – consiste nel fatto che gli elementi costitutivi del primo sono individui singoli, non associati, se pure associabili, che agiscono di fatto seguendo non la ragione (che rimane nascosta o impotente), ma le passioni o gl’istinti o gl’interessi; l’elemento costitutivo del secondo è l’unione degli individui isolati e dispersi in una società perpetua ed esclusiva che sola permette l’attuazione di una vita secondo ragione» 28. Ciò perché alle origini della costruzione hobbesiana vi è l’identificazione dello stato di natura con lo stato di guerra. Ed è espressione hobbesiana quella con cui Spinoza nel Tractatus politicus afferma che gli uomini, essendo soggetti alle passioni, «sono tra loro naturalmente nemici» 29. Ripiomberebbero gli uomini, insiste Hobbes, nella condizione della lotta di tutti contro tutti propria dello stato di natura, qualora si ammettessero i partiti. Il partito «è come uno Stato nello Stato: come lo Stato sorge dall’unione di più uomini viventi allo stato naturale, così, con una nuova unione fra i cittadini, sorge il partito… Se dunque è vero che gli Sta27 Ibid., p. 233. 28 N. Bobbio, Il modello giusnaturalistico, cit., pp. 38s. 29 B. Spinoza, Trattato politico, a cura di A. Droetto, «Pubblicazioni del-
l’Istituto di scienze politiche dell’Università di Torino», 1958, p. 171.
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ti si trovano tra loro allo stato naturale, che è stato di guerra, i sovrani che permettono il costituirsi di partiti agiscono come se ricevessero il nemico entro i confini» 30. In questa immagine del partito “nemico entro i confini” si può vedere quanto Carl Schmitt avrebbe avuto in Hobbes il “suo autore” nel teorizzare che ovunque c’è “politica” là si incontra l’antitesi “amico-nemico” 31. L’esistenzialità concreta di un nemico possibile, in un sistema di pensiero specificamente politico, per cui Hobbes ribadiva che la sovranità del diritto significa solo sovranità degli uomini che pongono le norme giuridiche, cioè capacità politica di dominare attraverso un “ordinamento superiore” ogni “ordinamento inferiore”, sarebbe diventata motivo fondamentale del decisionismo schmittiano, del suo severo antinormativismo, teso a separare categorie del diritto e categorie della politica. «La polizia – per Schmitt – non è qualcosa di apolitico. La politica mondiale è una politica molto intensiva, risultante da una volontà di pan-interventismo; essa è soltanto un tipo particolare di politica e non certo la più attraente: è cioè la politica della guerra civile mondiale [Welt-bürgerkriegspolitik]. In tal modo continua a sussistere il nostro problema relativo ai nuovi soggetti, statali e non statali, della politica: il criterio del politico da me proposto – la distinzione fra amico e nemico – costituisce appunto un approccio (Ansatz) a questo riconoscimento della realtà politica» 32. Un approccio decisamente hobbesiano. 30 T. Hobbes, Opere politiche, cit., pp. 257s. 31 Cf. C. Schmitt, Le categorie del politico: Saggi
di teoria politica, a cura di G. Miglio e di P. Schiera, Bologna 1972: volume che raccoglie una serie di testi tratti da opere di Carl Schmitt apparse fra il 1922 e il 1963. 32 Ibid., p. 25.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
Nel diritto e grazie al diritto, dopo Hobbes, il liberalismo aveva lavorato ad inserire “il nemico entro i confini”. Nuovi soggetti, come i partiti, e non solo come i partiti, avevano “contrattato” e “rappresentato” l’ostinato tentativo «di far coesistere – per dirla con Gianfranco Miglio – l’utopia del diritto con la realtà della politica» 33. Un tentativo che gli Schmitt e i Miglio ritengono oggi fallito, nello stesso senso in cui ieri Hobbes lo riteneva fallimentare. Forse non può essere altrimenti, quando il problema del “nemico” prevale sul problema dei “confini”: oggi come ieri.
3. LIBERALISMO IN CAMMINO «Se Hobbes è radicalmente ostile ai partiti – ed è logico, data la sua qualità di fautore dell’assolutismo più estremo – si potrebbe credere di trovare un’opinione del tutto diversa negli scritti del suo grande oppositore, Locke. Ma il Secondo Trattato sul governo civile è estremamente delusivo al riguardo. Per la verità Locke non vi tratta ex professo dei partiti, ma quando se ne occupa indirettamente non sembra averne compreso la funzione e la natura e rimane diffidente nei loro confronti considerandoli sempre come elementi di divisione» 34. Locke aveva una ben precisa, e costante, preoccupazione. La varietà di opinioni e il contrasto di interessi non possono intaccare il diritto della maggioranza di deliberare e decidere per tutti, e perciò anche per la minoranza: diritto che non si 33 G. Miglio, Presentazione, in C. Schmitt, Le categorie del politico…, cit., p. 11. 34 S. Cotta, La nascita dell’idea di partito, cit., p. 449.
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può contestare senza ridurre l’entrata di un individuo in società simile all’ingresso di Catone in teatro, il quale vi entrava solo per uscirne 35. «In altri termini – ne deduce Cotta –, il principio maggioritario, lungi dall’essere espressione di un pluralismo di opinioni, mira nella dottrina di Locke a soffocarlo, con esso evidentemente soffocando anche quel pluralismo di tendenze politiche che costituisce l’essenza stessa dei partiti» 36. Non si deve però sottovalutare come in Locke il problema da politico diventi costituzionale. Per cui, se è vero che Locke non delinea l’idea di partito, «è ancora più vero che egli dà uno dei più significativi e validi contributi, nella sfera del pensiero, alla delineazione di quel nuovo tipo di Stato che postula e insieme rende possibile la formazione dei partiti. Locke è nella storia della formazione dell’idea moderna di partito sia per aver affermato la supremazia del potere legislativo identificandolo nel parla35 «Infatti, se ragionevolmente il consenso della maggioranza non può accogliersi come la deliberazione della totalità, né decidere per ogni individuo, si dovrà necessariamente dire ch’è il consenso di ogni individuo che fa di qualcosa una deliberazione della totalità, ma tale consenso è pressocché impossibile ad avere, se si considerano le infermità di salute e gl’impegni d’affari, che, in un gruppo e tanto più in una società politica, necessariamente impediranno a molti d’intervenire alla pubblica assemblea. Se a ciò si aggiungono la varietà di opinioni e il contrasto d’interessi, che inevitabilmente han luogo in ogni collettività, l’entrare in società a tali condizioni equivarrebbe all’entrata di Catone a teatro, che vi entrava soltanto per uscirne. Una costituzione come questa renderebbe il potente Leviatano di durata più breve che le più deboli creature, e non lo lascerebbe sopravvivere al giorno in cui è nato, il che non si può supporre sino a che non si possa pensare che le creature ragionevoli desiderino e costituiscano società soltanto perché si dissolvano; perché dove la maggioranza non può decidere per il resto, la società non può deliberare come un sol corpo, e per conseguenza si dissolverà immediatamente» (J. Locke, Secondo Trattato, in Due trattati sul governo, a cura di L. Pareyson, «Classici politici», Torino 1968, pp. 317s.). 36 S. Cotta, La nascita dell’idea di partito, cit., p. 450.
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mento eletto, in parte, dal popolo, e sia per aver unificato tutti i poteri nella fonte della volontà collettiva» 37. La sovranità del popolo, anche se non espressamente dichiarata, è implicita nella dottrina costituzionale di Locke. Dal cielo del giusnaturalismo discendendo sulla terra inglese, dalla legge di natura passando ai diritti naturali, il magistrato civile che ha un potere “assoluto e arbitrario” nelle cose “indifferenti” altri non è che il parlamento d’Inghilterra. Al quale Locke può far presente «che i partiti e le fazioni crescono lentamente e per gradi, ed hanno un periodo di infanzia e di debolezza proprio come hanno un periodo di forte crescita e di potenza, e non diventano formidabili in un baleno, ma concedono il beneficio del tempo per sperimentare varie specie di cure senza che questo dilazionare nel tempo crei pericoli irrimediabili. Ma se il magistrato si trovasse innanzi dei dissenzienti così numerosi da potergli riuscire pericolosi, non riesco a vedere che cosa egli possa guadagnare con la forza e la severità, quando a questo modo fornisce loro il pretesto di stringersi assieme, di armarsi e di far corpo per resistergli ancora più fermamente» 38. Non è la forza che può dominare le opinioni degli uomini o piantarne di nuove nei loro cervelli. Sicché, tanto nel Saggio sulla tolleranza quanto nel Saggio sull’intelletto umano, accanto alla legge divina e alla legge civile, Locke introduce la legge dell’opinione, o legge filosofica, che è la norma della virtù e del vizio. Gli uomini, unendosi in società politiche, hanno rinunciato a favore del potere pubblico alla libera disposizione di 37 S. 38 J.
Valitutti, I partiti politici e la libertà, cit., p. 89. Locke, Saggio sulla tolleranza, in Antologia degli scritti politici di John Locke, a cura di F. Battaglia, Bologna 1962, pp. 131s.
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tutta la loro forza, ma hanno conservato il potere di giudicare il bene e il male, approvando le azioni di coloro fra i quali vivono e con cui hanno rapporti. Compare per la prima volta l’“opinione pubblica”, come sede del giudizio morale, ed in tal senso viene posta l’autonomia della società civile (nella quale si forma, appunto, l’opinione pubblica) dal potere politico. La teoria contrattualistica del governo basato sul consenso è matura per una sua moderna articolazione costituzionale; e lo è proprio in quanto da Locke innestata sulla vecchia tradizione dei Bracton, dei Fortescue, dei Coke, dei Selden. Il Secondo Trattato diventa necessario punto di riferimento del costituzionalismo non solo inglese, ma europeo, e soprattutto americano. Del resto, del Secondo Trattato appendice significativa, e per certi aspetti decisiva, deve considerarsi l’Epistola de tolerantia (scritta nell’esilio olandese e pubblicata anonima nel 1689) 39. Vi si ritrova il nuovo orgoglioso fondamento della ricerca di equilibrio costituzionale: la libertà politica. Si è detto e si dice più volte, e da più parti, che le origini del liberalismo siano da rintracciarsi nel sofferto intreccio fra il dibattito costituzionale e la richiesta di una tolleranza “religiosa”, che col tempo si erge ad affermazione di un diritto alla libertà religiosa, e poi alla libertà politica. Sotto questo profilo, Locke è il pensatore che più e meglio di ogni altro può collocarsi alle origini del liberalismo. Con Locke la tolleranza non è più la richiesta di una setta perseguitata, ma il valore esistenziale dello Stato secondo ragione. La libertà religiosa contiene in sé non solo la libertà di culto, ma anche la libertà di associazione, la libertà di pensie39 Cf.
ibid., pp. 147-198.
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ro, la libertà di diffonderlo con ogni mezzo. Pur essendo una richiesta “politica”, per raggiungere la pace ed il benessere, Locke ne interpreta il respiro “religioso”: la tolleranza è il segno distintivo della vera Chiesa, perché la religione è istituita non in vista del potere, ma per regolare la vita secondo valori di virtù e di carità. I partiti del suo tempo erano essenzialmente partiti religiosi e la religione era per essi uno strumento per discriminare gli avversari. Chiedere la libertà religiosa significava, dunque, chiedere la libertà politica. I partiti religiosi erano agli occhi di Locke portatori di tensioni e sovrapposizioni pericolosissime; essi tendevano alla “persuasione” dell’avversario, utilizzando un potere che nessun magistrato aveva. Di qui la sua fermezza nel distinguere radicalmente la funzione politica, e i bisogni che essa deve soddisfare, dalla funzione religiosa, non meno importante, ma con tutti altri compiti e fini 40. Il magistrato deve avere il compito di conservare e di favorire il progresso della società civile, senza esercitare alcun potere sul bene delle anime, sull’interiorità della coscienza, la quale deve essere lasciata libera di esprimersi e di cercare la salvezza dell’anima secondo la propria convinzione. La Chiesa, dal canto suo, deve essere un’associazione volontaria di 40 «…Infatti, la società politica non ha altro scopo che assicurare i beni terreni di ognuno, mentre la cura dell’anima e delle cose spirituali, che non dipendono dalla società politica e non possono quindi esserle soggette, spetta interamente ad ogni singolo cittadino. Quindi la società politica si occupa della custodia della vita umana, e delle cose appartenenti all’esistenza terrena, ed il magistrato ha il compito di assicurare ai legittimi proprietari il possesso di questi beni terreni; non può togliere, però, ad un uomo o ad una classe le proprie ricchezze per darle ad altri, né scambiare la proprietà tra i sudditi, nemmeno per legge, per un motivo estraneo ai fini del governo civile. Per motivo estraneo alludo alla religione, che, vera o falsa che sia, non pregiudica gli interessi terreni dei cittadini, di cui lo stato si deve esclusivamente occupare…» (ibid., p. 184).
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II. Le passioni e le fazioni
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uomini, per servire Dio in pubblico nelle forme che essi ritengono adatte alla salvezza dell’anima. La società politica è regolata da leggi civili, eguali per tutti; le Chiese hanno una autoregolamentazione di leggi morali. Mentre lo Stato nulla può in materia puramente spirituale, la Chiesa nulla può in materia temporale, dove è sottoposta alla giurisdizione dello Stato. La distinzione, così, non è tanto fra Stato e Chiesa, ma fra lo Stato politico, che a tutti assicura libertà di religione e di culto, perché non ha diritto di intervenire nelle questioni di coscienza, e le Chiese, libere associazioni di individui che agiscono liberamente al suo interno, nella società civile. «Solo questa impostazione teorica – osserva Matteucci – può dare spazio a una vera libertà politica, posta fra una libertà religiosa e una libertà economica (degli individui come delle associazioni), della quale sono protagonisti non tanto i singoli individui, fermi a rivendicare i diritti civili, quanto i partiti politici, espressione della società civile, sede della libertà religiosa come di quella economica, luogo in cui si forma l’opinione pubblica, in un libero confronto nel campo delle cose mondane. Con il passaggio dallo stato di natura allo stato civile, gli uomini non rinunciano ad essere legislatori, lo sono soltanto attraverso il parlamento, passando, così, dalla libertà naturale di autodeterminarsi alla libertà politica, e cioè alla possibilità di influire sull’indirizzo politico dello Stato. Locke non giunge ancora a teorizzare i partiti politici, chiuso nei due storici conflitti inglesi dell’epoca, quello fra re e parlamento e quello fra parlamento (anglicano) e paese, e nella tematica del giusnaturalismo, che vedeva solo il rapporto fra popolo e magistrato. Ma le premesse teoriche le aveva poste: aveva implicitamente sostenuto la necessità di una secolarizzazione dei partiti; aveva, inoltre, individuato un potere filo-
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sofico o morale accanto a un potere economico, nella cornice di un potere politico, e aveva mostrato come fossero poteri diversi, e quindi logicamente distinti» 41. * I testi classici di Locke sulla libertà e sulla tolleranza erano stati preceduti da quelli di Spinoza e sarebbero stati seguiti da quelli di Montesquieu. Perciò, nella ricostruzione di un itinerario ideale del liberalismo che riconosca la centralità di Locke, non sarà inopportuno un riferimento a Spinoza prima ed uno a Montesquieu poi. L’uomo hobbesiano, l’uomo cioè dominato da passioni che possono essere regolate solo dalla forza, non è assente nella riflessione di Spinoza. Una riflessione anch’essa anelante a superare nel momento unificante della ragione le divisioni della passione; una riflessione anch’essa percorsa da diffidenze e dubbi nei confronti delle “parti”. Non vi si arriva a parlare di associazioni e corporazioni «come tanti stati minori nelle budella di uno maggiore, simili a vermi negli intestini di un uomo naturale» 42. Ma vi si avvertono preoccupazioni abbastanza analoghe. «Si sa, infatti, che gli uomini – si legge nel Trattato politico – tendono naturalmente ad associarsi o per far fronte a un comune timore o per il desiderio di risarcirsi di un danno comune; e poiché il diritto sovrano viene definito dalla potenza comune della moltitudine associata, è ovvio che la potenza e il diritto dello Stato diminuiscono in ragione del motivo che esso stesso offre al costituirsi di associazioni. Anche per lo Stato esistono motivi di timore, e, come i singoli cittadini o i singoli 41 N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà, cit., p. 108. 42 Così nel Leviatano, come riportato nella precedente nota n. 15.
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II. Le passioni e le fazioni
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individui allo stato naturale, così anche lo Stato è tanto meno autonomo quanti più motivi ha di timore. E questo è quanto concerne il diritto dell’autorità sovrana verso i sudditi» 43. L’autorità sovrana dello Stato spinoziano è però carica di vibrazioni liberali. Basta pensare al tema dell’individualità e dei limiti della funzione emendativa della politica. Qui le prospettive di Hobbes e di Spinoza si contrappongono nettamente. Il primo nella politica risolve la vita nella sua complessità, dalla politica facendo dipendere non solo la sicurezza del vivere, ma ogni umana qualità ed attitudine. Il secondo alla politica ritiene invece si debba fissare un limite e un compito ben preciso: tutelare l’individualità nella sua diversità. Sicché il saggio di Spinoza è al tempo stesso il cittadino migliore ed il meno politico di tutti. Quasi che la politica non abbia accesso nella sfera della libertà. Quasi che la libertà sia tale perché irriducibile alle stesse necessarie forme della convivenza. Insomma, è la libertà dalla politica – così come la opporrà il liberalismo al totalitarismo – quella che Spinoza vuol salvaguardare. Egli intende cioè «che la politica – lo dice assai bene Mario Corsi –, nella sua forma più alta, è tutela della individualità, non promozione di essa, poiché in realtà la promozione affidata alla politica significa annullamento individuale. Secondo Spinoza la politica non può offrire la verità, né render nessuno beato o saggio, ma può solo consentire una più facile acquisizione della verità e della saggezza, poiché riguarda la vita nella sua immediatezza, quella vita rispetto alla quale gli uomini sono uguali. Ma al di là di questo, là dove la vita è conquista di verità, la politica cessa di esercitare la sua funzione, sot43 B.
Spinoza, Trattato politico, cit., pp. 192s.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
to pena di ristabilire quella violenza teologica che il filosofo ben conosceva e che aveva vigorosamente combattuto» 44. In termini di organizzazione politica, Spinoza è portato a preferire la democrazia. L’organizzazione democratica viene posta al servizio della valorizzazione aristocratica, l’uguaglianza al servizio della diversità. Dovendo lo stato civile fungere da garante dello stato naturale, quest’ultimo si troverà tanto più garantito, quanto meno la forma dello stato civile si discosterà da quella naturale. Ora, la forma politica che più gli si avvicina è proprio quella democratica, nella quale omnes manent, ut ante in statu naturali, aequales. Nella democrazia la sicurezza e la diversità sono tutelate in tutti e il diffuso consenso che ne deriva procura allo Stato una maggiore saldezza e durata. Delle passioni costitutive dello stato civile, la paura e la speranza, quest’ultima nella democrazia decisamente prevale. Più che dal freno della paura, i cittadini sono governati dal motore della speranza. I partiti non avviliscono la libertà nella città di Amsterdam, da Spinoza idealizzata per dar corpo ed espressione alla sua filosofia. Certo, sono partiti tutt’altro che moderni, perché lo Stato spinoziano è uno Stato cittadino, accentrato nella sola città che ne è la capitale. Ed è certo difficile concepire e collocare l’idea moderna di partito politico nell’idea antica della democrazia diretta di Spinoza (una democrazia diretta che è pur sempre ed ancora una variante dello Stato assoluto). «Ciò chiarito e riconosciuto, non si può peraltro non porre in rilievo che dalla rivendicazione spinoziana della libertas philosophandi si sprigiona una grande forza d’impulso per la formazione dei partiti nello Stato moderno, per cui il pensie44 M.
Corsi, Politica e saggezza in Spinoza, Napoli 1978, p. 12.
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II. Le passioni e le fazioni
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ro del filosofo, nell’essenziale e non nei particolari, nella parte in cui è rivolto verso l’avvenire e non in quella in cui è rivolto verso il passato, può e deve esser citato non tanto contro i partiti quanto a favore di essi» 45. Il che con assai più forti ragioni può esser detto a proposito di Montesquieu. Il quale Montesquieu l’utilità delle lotte dei partiti e delle divisioni riteneva antidoto alla corruzione e alla indifferenza nel reggimento della cosa pubblica. Sicché, se da Locke l’esigenza dei partiti era stata secolarizzata, da Montesquieu viene funzionalizzata. Ed ecco perché, nell’insieme del pensiero di Montesquieu, l’aspetto repubblicano e “romano” è altrettanto importante dell’aspetto monarchico, feudale, “gotico”, o dell’aspetto costituzionale e “inglese”. Del resto, sono nel senso “romano”, e non nel senso “inglese”, i suoi passi più significativi sulla funzione dei partiti negli stati 46. «La brigue est dangereuse dans un sénat; elle est dangereuse dans un corps de nobles; elle ne l’est pas dans le peuple, dont la nature est d’agir par passion. Le malheur d’une république, c’est lorsqu’il n’y a plus de brigues; et cela arrive lorsqu’on a corrompu le peuple à prix d’argent: il devient de sang froid, il s’affectionne à l’argent, mais il ne s’affectionne plus aux affaires: sans souci du gouvernement et de ce qu’on y propose, il attend tranquillement son salaire» 47. Anche per Montesquieu, dunque, le divisioni traggono la loro origine dalle passioni; «in ciò egli segue l’opinione tradi45 S. Valitutti, I partiti politici e la libertà, cit., p. 92. 46 Cf. B. Mirkine-Guetzévitch, De L’Esprit des Lois à
la démocratie moderne, in La pensée politique et constitutionnelle de Montesquieu, Paris 1948, p. 16; nonché R. Shackleton, Montesquieu. A critical biography, Oxford 1961, pp. 291-293. 47 Montesquieu, Esprit des Lois, II, 22, Paris 1949, t. I, p. 16.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
zionale, ma in maniera del tutto antitradizionale, poiché a questa loro origine passionale attribuisce un valore positivo e non negativo» 48. Politicamente, le passioni vengono riabilitate; l’atteggiarsi del secolo precedente completamente ribaltato. «Tous les établissements humains – per Montesquieu – son fondés sur les passions humaines et se conservent par elles: ce qui combat et détruit les passions n’est donc propre à fortifier ces établissements». Hobbes sembra lontanissimo. Montesquieu ha spezzato il circolo teorico che dal nesso perverso fra passioni e fazioni ricavava il rifiuto, o quanto meno l’incomprensione, del crociano carattere “pratico” dei partiti. Il liberalismo si apre alla considerazione etico-politica della diversità di sentimenti, di temperamenti, di precedenti, di cultura, di educazione, di vocazione, che vive ed opera nei partiti. L’individualismo non implica più rassegnazione all’atomismo. Nella tensione del liberalismo, i partiti diventano davvero «modi offerti alle varie personalità per foggiarsi strumenti d’azione e affermare se medesime, e con se medesime i propri ideali etici, e compiere sforzi per asseguirli; onde l’importanza che hanno nei partiti i capi e conduttori, e non solo essi ma anche gli altri che par che tengono i secondi posti e che modestamente si traggono nell’ombra, e pur muovono i fili delle azioni. Quel che vale è, dunque, il vigore della personalità, in cui si raccoglie e si esprime l’ideale etico: i partiti (si suol ammettere) sono quel che sono gli individui che li compongono e li impersonano» 49. 48 S. Cotta, La nascita dell’idea di partito, cit., p. 483. 49 B. Croce, Etica e politica, Bari 1967, pp. 192s.
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II. Le passioni e le fazioni
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III. L’ESIGENZA DEI PARTITI
1. FRA GOVERNO E PARLAMENTO «Un governo democratico è sempre un governo di partito», disse una volta Churchill. Ed è utile soffermarsi un attimo su chi fosse a pronunziare tale affermazione. Quel Churchill che deve la sua fortuna “partitica” al deliberato distacco dalla leadership di Chamberlain, consumato nel 1938 insieme ad altri “uomini di partito” come Eden e Cooper, per differenziarsi da una linea troppo accomodante verso la Germania nazista. Quel Churchill, quindi, che, rispetto ai pregi di “un governo di partito”, potrebbe quasi considerarsi l’eccezione “demiurgica”. Solo che poi, a ben vedere, di fattori “demiurgici”, più o meno eccezionali, se ne incontrano tanti altri, risalendo il corso delle vicende di un sistema partitico, come quello inglese, che, per comodità di schema, si vorrebbe tutto compatto, tutto disciplinato, tutto lineare. In verità, l’affermazione di Churchill vale di per sé, senza sforzarsi di legare l’esigenza di un “governo di partito” a nessuna predeterminata esperienza politica. Il suo valore sta nel definire il carattere moralmente e tecnicamente “orientato” della responsabilità governativa in un paese libero. Al carattere moralmente e tecnicamente “orientato” della responsabilità governativa in un paese libero, e pertanto ad una rappresentanza che identificasse ideologia e potere, ed
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
organizzasse le sue forze, la sua tattica, la sua risonanza esterna, per realizzare i suoi contenuti programmatici, si è pervenuti tramite i partiti. Tramite partiti che non fossero fazioni. Invertendo l’ordine e l’andamento di tante considerazioni sul passaggio dalle fazioni ai partiti, si può ricordare come fosse diventata massima assai diffusa nell’Inghilterra di fine Settecento e inizio Ottocento quella che poneva, sulla scia di Burke, l’estinzione dei partiti all’origine delle fazioni 1. Se culla dei partiti è un’esigenza di “parlamento”, essi sono sorti pure per interpretare un’esigenza di “governo”: per introdurre rappresentatività nell’esercizio della responsabilità; per imporre una “politica” che universalizzasse ed integrasse il carattere “sezionale” degli interessi rappresentati, nella linea di una tendenziale convergenza fra nazione e Stato. Esiste governo rappresentativo nella formazione non meno che nell’assunzione delle decisioni. Ed i partiti servono ad orientare entrambi questi momenti. Lo si ricava dalla definizione data da Burke del partito come «di un gruppo di uomini uniti per promuovere mediante i loro sforzi congiunti l’interesse nazionale sulla base di un principio specifico sul quale sono tutti d’accordo» 2. Coloro che pensano e parlano liberamente non sempre pensano e parlano allo stesso modo; sicché il parlamento è tale se in esso si incontrano partiti. E parimenti coloro che governano non possono non raccordarsi a qualche principio generale e non generico che ne guidi e ne consenta di valutare l’operato; sicché il governo è pur esso responsabilità di partiti. 1 Cf. G. Hello, Du régime constitutionnel dans ses rapports avec l’état actuel de la science sociale et politique, Bruxelles 1849, 3ª ed., p. 420. 2 La definizione di Edmund Burke fu formulata nei suoi Thoughts on the Present Discontent, su cui si avrà ampiamente modo di tornare nel capitolo successivo.
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III. L’esigenza dei partiti
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Nondimeno, tanto sul piano politologico quanto sul piano storico, dei partiti si parla soprattutto con riferimento a quella che il lessico più ricorrente chiama «trasmissione della domanda politica» 3. I partiti, si dice, rispetto agli altri gruppi sono in grado di presentare la domanda politica in termini più generali, anticipando la statualità dell’interesse rappresentato, cioè della domanda da trasmettere. E ciò non soltanto per motivi ideali, ma anche per una precisa necessità ed un preciso calcolo. Se è vero infatti che i partiti non sempre presentano unicamente domande generali, improntate al “bene comune”, bensì anche, in misura maggiore o minore, e in certi periodi magari in misura esclusiva, domande improntate al “bene di alcuni”, è egualmente vero che il partito è sempre tenuto a calarne l’eventuale particolarismo in una certa visione degli interessi generali. Di qui la convinzione della moderna scienza politica che mentre i gruppi individuano la domanda, le danno voce, i partiti hanno il compito di aggregarla 4. Di qui la stessa opinione di chi, pur sostenendo l’idea che i partiti non si distinguano dagli altri gruppi per la natura della domanda trasmessa, propone poi una distinzione nel fatto che i partiti, a differenza dei gruppi d’interesse, assumono in proprio l’insegna di lottare per l’esercizio del potere politico 5. A lottare in proprio per l’esercizio del potere, o ad aggregare la domanda politica, non pensavano affatto quei corpi 3 Cf. D. Easton, Approach to the Analysis of Political System, in «World Politics», IX, 1957, pp. 383ss., riprodotto in appendice a Il sistema politico, Milano 1963. 4 Cf. G.A. Almond, in Antologia di scienza politica, a cura di G. Sartori, Bologna 1970, pp. 75ss. 5 Cf. J. Kaiser, Die Rapräsentation organisierter Interessen, Berlin 1956, citato e analizzato da P. Rescigno, Persona e comunità, Bologna 1966, pp. 113ss.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
“rappresentativi” chiamati a sedere in parlamento, con funzioni consultive o di parziale controllo nei confronti del potere esecutivo, che esistevano in Europa dal Medioevo. Ciò che ne distanzia e ne distingue completamente la capacità rappresentativa ed espressiva rispetto ai partiti moderni è che essi non partecipano alla iniziativa della politica dello Stato, non intervengono né alla progettazione delle leggi, né all’indirizzo della politica estera, restano estranei a qualunque radice di sovranità. «La storia del partito moderno – avverte Umberto Segre – è, in questo senso, legata necessariamente alla storia delle costituzioni, dei regimi rappresentativi e dei sistemi amministrativi. Ma nello stesso tempo, i partiti a loro volta sono all’origine dei regimi costituzionali, li fondano di fatto, conferiscono loro forza e attendibilità concreta. Si ha un bell’accusarli di strapotenza e di usurpazione: parlamenti e governi non sorretti, animati e guidati da forze politiche organizzate, diventano pure forme, e decadono sotto la pressione di altre forze politiche, che, imponendosi fuori delle forme costituzionali, non offrono più nessuna delle garanzie di verifica del consenso popolare, e di azione condotta per le vie della legalità, che sono proprie appunto del sistema rappresentativo mediante partiti» 6. Il partito moderno è dunque quello che, definendosi ideologicamente, e venendo perciò a costituire il veicolo attraverso il quale cultura politica e condizione sociale si organizzano praticamente, rappresenta uno strumento di fondazione e amministrazione del potere, e di continua program6 U. Segre, Verità e politica. Verità della politica, Milano 1979, pp. 177s. (Si tratta della ripubblicazione della Storia del partito moderno, apparsa nei «Quaderni del terzo programma», Torino 1964).
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III. L’esigenza dei partiti
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mazione del suo contenuto. Vi è connessa la spinta a guardare al “tutto”, confrontandosi e lottando con le “parti”: insomma, lo “spirito di partito”. Esso ha la sua origine non nei parlamenti di antica legittimazione feudale, acquiescenti alle decisioni regie, e repressi dalle monarchie non appena si colorino di qualche velleità di indipendenza, ma allorché la vita di questi antichi “ordini” e corpi consultivi si intreccia a quella delle guerre di religione, alla sfida che corre tra dinastie e principi, a quella che divide, anzitutto in Inghilterra, l’assolutismo regio e il liberalismo delle camere, fattesi esse stesse partito contro gli Stuart, nel Seicento. Prima di esserci i partiti, nel parlamento inglese c’è stato, con Cromwell, il partito del parlamento: e al termine di una lotta durata mezzo secolo, la monarchia, per confermare la sua posizione istituzionale, ha dovuto accettare, con il partito del parlamento, un vero e proprio contratto, firmare una dichiarazione costituzionale, riconoscere che lo Stato non stava nella volontà del sovrano, ma nella confluenza di un’azione esecutiva, della corona, e di una legislativa, degli eletti dalla nazione. Il moderno sistema parlamentare inglese è scaturito da una lotta politica che metteva in questione il carattere universale, o personale, della vita religiosa. E così anche il sistema dei partiti, che ha avuto inizio solo nel Seicento, quando si contrapposero il partito che accettava la religione anglicana, la credenza della corona, e quello dei puritani, che faceva della religione un fatto di coscienza, e negava quindi al re l’autorità sia di imporre la propria religione, sia di fondarvi l’ubbidienza dei cittadini. Non si afferrerà mai l’importanza, la dignità, la moralità, che il sistema inglese attribuisce all’opposizione, se non si tiene conto dell’origine religiosa della lotta fra i partiti in Inghil-
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
terra. È solo al termine di questa lotta, quando sarà acquisito il principio della tolleranza in sede religiosa, e l’obbligo del sovrano di rispettare le indicazioni della rappresentanza nazionale attraverso la maggioranza espressa dal parlamento, che si stabilisce quel metodo di governo-opposizione fra partiti, che in Francia non sarebbe riuscito a radicarsi neppure cent’anni dopo con la rivoluzione. Tutt’altra cosa era, rispetto all’esperienza inglese, la lotta di “partiti” contro la monarchia che si svolgeva in Francia nel Seicento. Mentre il parlamento inglese già risultava da gran tempo, almeno nella camera bassa, un corpo di “eletti della nazione”, i “partiti” che ora si costituivano in Francia contro la monarchia erano null’altro che grandi alleanze privilegiate: quella della nobiltà di toga, che sedeva nei parlamenti (ma qui la parola parlamenti, a differenza che in Inghilterra, non aveva il significato di camera rappresentativa, bensì di corte di registrazione delle leggi e dei provvedimenti regi); quella dei principi, che si vedevano sopraffatti dal potente sforzo accentratore dei grandi ministri Richelieu e Mazarino. Si è parlato allora impropriamente di “partiti”. Ma fino ad un certo punto. Il maggiore storico della Fronda, il cardinale di Retz, adopera questo termine per indicare ogni raggruppamento di forze dotato di mezzi finanziari e di uomini armati, capace di svolgere un’azione diretta per il conseguimento del potere. La lotta di queste fazioni della nobiltà contro il Mazarino rivelava, per la prima volta, la tensione fra il potere formalmente costituito, quello del ministro in carica, e le forze “sezionali”, operanti nel paese, già con tutte le implicazioni di quella “disarticolazione dell’unità”, che sempre o quasi sempre si sogliono imputare ai partiti. Tuttavia i partiti della Fronda, prima quella del parlamento, poi quella dei principi, si differenziano totalmente dai
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III. L’esigenza dei partiti
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partiti inglesi del Seicento. Essi non risultano da alcuna tendenza della volontà popolare; la loro influenza non è verificabile attraverso il consenso e l’appoggio di maggioranze, ma solo mediante la capacità di disporre di mezzi finanziari ricavati dalla guerra, di detenere uffici venali e di abusarne il più possibile. L’Inghilterra conosce viceversa nel Seicento una peculiare irripetibile evoluzione di “modernità” della lotta politica. La vecchia idea della rappresentanza in parlamento dell’intera nazione, per cui, come si esprime uno scrittore destinato a diventare primate d’Inghilterra, il consenso di ogni individuo privato è racchiuso nel consenso del parlamento 7, viene ad incrinare l’altrettanto vecchia idea dell’unità del corpo politico. Si dischiude una nuova prospettiva. Sono nuovi i contenuti, sono nuovi gli schieramenti. Gli uni e gli altri oscurano irrimediabilmente la convinzione che voleva non fosse lecito alla “parte” sottrarsi alla volontà del “tutto” 8, in forza della quale Hooker aveva polemizzato contro i puritani nel secolo precedente. La controversia religiosa anima lo scontro politico. «Calvinisti e Cattolici – scrive Alessandro Passerin d’Entrèves – contro la teoria dell’unità del corpo politico, proclamano la distinzione dei due regni, quello temporale e quello spirituale; e colla difesa del regno spirituale ad essi spetta, in questo periodo, una grande missione. Il latitudinarismo anglicano poteva condurre alla tolleranza ed al giurisdizionalismo libe7 J. Whitgift, Works, Parker Society, Cambridge 1851, vol. II, p. 573. (Ovviamente, l’idea della rappresentanza dell’intera nazione in parlamento era uno degli argomenti preferiti dai difensori del sistema ecclesiastico di Elisabetta: la forza delle leggi ecclesiastiche era, appunto, fatta derivare da questa loro sanzione costituzionale). 8 Cf. R. Hooker, Ecclesiastical Polity, Oxford 1868, Prefaz., V, 2 e I, XVI, 5 e 6.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
rale; ma un significato liberale pure assumeva la lotta per l’esistenza delle società religiose che rifiutarono sempre di riconoscere il controllo e la supremazia del sovrano civile; il partito dell’intransigenza e dell’intolleranza contribuiva così, in un momento critico, a salvaguardare i diritti della coscienza, le cose che non appartengono a Cesare ma a Dio» 9. Le parti religiose potranno essere moderate e garantite solo ancorando la città politica ad una laica religione delle parti, che gradualmente stemperi ogni prevaricazione delle “parti” sul “tutto”. Il costituzionalismo inglese giunge così ad innestare una precisa sanzione per i diritti dei sudditi contro la volontà arbitraria del principe sul tronco delle antiche limitazioni legali al governo ereditate dal Medioevo. «Nella trasmissione ai nostri tempi di tali limiti – osserva Charles Howard Mc Ilwain, con evidente simpatia per la rivoluzione “conservatrice” dell’Inghilterra ed altrettanto evidente antipatia per la rivoluzione “rivoluzionaria” della Francia – la parte dell’Inghilterra è certamente più importante di quella di qualsiasi altro paese europeo: e ciò resterebbe largamente vero anche se le nostre peculiari istituzioni ed idee politiche non fossero inglesi d’origine» 10. Il sistema inglese si ancorò comunque alla laica religione delle parti attraverso una faticosa, dura, “singolare” trasformazione, che sempre ne avrebbe limitato, se non il grado di ammirazione, certamente la possibilità di “trapianto”. 9 A. Passerin d’Entrèves, La teoria del diritto e della politica in Inghilterra all’inizio dell’età moderna, Memorie dell’istituto giuridico della R. Università, Torino 1929, pp. 19s. 10 C.H. Mc Ilwain, Costituzionalismo antico e moderno, a cura di V. de Caprariis, Vicenza 1956, p. 107. (Alla pagina successiva, Mc Ilwain nota come la violenza iconoclastica della Rivoluzione francese sia riuscita a «mettere in ombra i principi costituzionali che lottavano per la sopravvivenza nella Francia dell’Ancien Régime»).
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III. L’esigenza dei partiti
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Non solo e non tanto perché, come apparirà agli uomini della rivoluzione francese, i partiti inglesi si presentano ancora nel Settecento poco vincolati a un tangibile impegno ideologico, bensì legati a gruppi di potere rappresentati da singole personalità, espressi da un elettorato straordinariamente ristretto e non equilibratamente distribuito sul territorio nazionale, alimentati da una certa disinvolta maniera di conferire incarichi e favori pubblici. Ma perché la libertà di opinione e la tolleranza delle idee, effettivamente radicatesi in Inghilterra già da un secolo quando scoppiò in Europa la Rivoluzione francese, il rispetto della personalità individuale e dei gruppi che si costituissero in base a comuni credenze, per farle valere nella competizione politica, furono tutti valori instaurati a prezzo di aspre contrapposizioni, di guerre civili tra parlamento e corona, di una condanna a morte eseguita su un sovrano, di una seconda rivoluzione “pacifica” che, solo dopo decenni di conflitti, aveva potuto insediare pleno iure il regime costituzionale. Insomma, ad essere madre dei parlamenti, madre dei partiti, madre dei governi di partito, e dell’alternarsi fra essi, l’Inghilterra fu sollecitata dallo scatenarsi di passioni, di tensioni, di fazioni. E la stessa ordinata immagine, in cui tali maternità si succedono, e l’una in forza dell’altra si dispiegano e si stabilizzano, fu sviluppo operoso eppur turbinoso di violenti contrasti. L’Inghilterra aveva conosciuto durante il ’600 la lotta fra Cavalieri e Teste Rotonde, tra fautori dell’assolutismo regio e fautori del parlamento; ma questi due gruppi non si erano affrontati e combattuti come due partiti che l’avversario mirassero a sconfiggere e non a cancellare. Ognuno di essi, infatti, aveva negato la possibilità stessa di esistere dell’altro; entrambi aspiravano alla formazione di uno stato senza partiti.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
La dura repressione da parte di Cromwell, non soltanto dell’opposizione monarchica, ma anche dei dissidenti democratici, i Levellers e i Diggers, ne è una prova incontestabile. D’altronde i Levellers stessi criticavano severamente le divisioni del paese e ne attribuivano la responsabilità ad un parlamento che essi giudicavano corrotto 11. Il riconoscimento più autorevole dell’esclusivismo che caratterizzò la lotta tra Cavalieri e Teste Rotonde ci è offerto da James Harrington, l’uomo che Maitland avrebbe ricordato come «il più grande dei nostri repubblicani» 12. Harrington 13, infatti, deplora lo spirito di parte che informa ancora la vita politica inglese, nonostante la vittoria repubblicana, poiché la monarchia è definitivamente morta («the dissolution of the late monarchy was as natural as the death of a man»). I repubblicani, i commonwealthsmen, se vogliono essere fedeli al loro nome (Common-wealth uguale bonum commune), non devono governare secondo un programma di parte, non devono escludere i monarchici dalla vita pubblica (con evidente riferimento critico alla politica di Cromwell), poiché proprio tale esclusione obbliga costoro a costituirsi in partito. Harrington polemizza contro l’esclusivismo delle formazioni politiche inglesi non già perché difenda il diritto all’esistenza dei diversi partiti, bensì perché si accorge che tale tendenza porta a mantenere vive, anzi ad inasprire, le divisioni interne del corpo politico. 11 Si vedano a questo proposito alcuni passi significativi dei loro scritti citati da V. Gabrieli nel suo primo studio sui Radicali inglesi del Seicento: i Levellers, in «Rivista storica italiana», LXI, 1949, pp. 207-222. 12 F.W. Maitland, Collected Papers, Cambridge 1911, p. 21. 13 Al pensiero politico di Harrington, offrendo anche elementi per una ricostruzione delle diverse interpretazioni di tale pensiero, si è dedicato con efficace capacità di sintesi L. D’Avack, I nodi del potere: la teoria del governo misto nell’Inghilterra del Seicento, Milano 1979, pp. 162-201.
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III. L’esigenza dei partiti
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Il sistema politico di Oceana 14 si distacca dalle tradizionali concezioni del governo misto, nel fissare l’articolazione dei poteri. Il discorso sociologico sulle forze politiche ed il discorso giuridico sulle istituzioni si erano fino ad allora per lo più sovrapposti l’uno all’altro, ed al governo misto si era sostanzialmente pensato come ad una forma di organizzazione legale delle forze reali. Harrington parte, invece, dalla effettiva omogeneità sociale realizzata in Inghilterra dallo sviluppo economico commerciale e dalla legge agraria, ed insiste sul fatto che ad una sempre più sentita uguaglianza di proprietà debba corrispondere una sempre più sentita uguaglianza di potere. Come suggerisce Matteucci, «il governo misto dell’Harrington consiste nella pacifica ed armonica coesistenza di funzioni, ciascuna delle quali fa capo ad un organo…, ma questi organi non esprimono classi diverse: il magistrato non è il re, il senato non è la camera dei lords, perché tutti, con complesse tecniche, sono eletti dal popolo. Se si vuole, siamo passati dalla tradizionale teoria del governo misto a quella moderna dei contrappesi o dell’equilibrio fra diversi organi istituzionali, ciascuno investito di determinate funzioni» 15. Non sono per Harrington i “buoni ordinamenti” frutto dei “buoni uomini”, ma viceversa. Di qui l’esigenza del voto segreto, non soltanto per l’elezione di quei membri che avrebbero costituito il senato e il parlamento, ma anche per le de14 La prima edizione dell’opera principale di Harrington, Oceana, uscì a Londra (Pakeman) nel 1656. Ma della prima raccolta delle opere complete di Harrington (The Oceana of James Harrington and his other Works, London 1700, in fol.) si fece editore (come avrebbe fatto con i testi di altri grandi esponenti della tradizione repubblicana) John Toland nel 1700, con una sua prefazione ed un suo saggio sulla vita di Harrington. (Edizione che fu dedicata da Toland al ricco mercante e “mayor” whig di Londra, Robert Clayton). 15 N. Matteucci, Machiavelli, Harrington, Montesquieu e gli ordini di Venezia, in «Il pensiero politico», 1970, 3, p. 355.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
cisioni prese da questi organi. Di qui l’esigenza di una continua, ordinata, funzionale rotazione delle cariche. Entrambe queste esigenze sono da Harrington indicate come antidoto all’azione e all’influenza dei gruppi precostituiti, in una parola dei partiti, che Harrington non vuole si riproducano nel suo equal Commonwealth. A similitudine dei senatori veneziani, gli eletti, scelti in base alla loro intelligenza ed integrità, sono chiamati nei consessi rappresentativi ad esprimere un voto in quanto uomini liberi, a prescindere da coloro che li hanno eletti. La superiorità del voto “segreto” sul voto “aperto” è proprio nel non doversi mai sapere dall’eletto, e parimenti dal non eletto, chi ringraziare e chi combattere. Pur rifiutando i partiti, Harrington non rifiuta però, ed anzi auspica, quello che i partiti potrebbero assicurare. Egli avverte in tutta la sua importanza «il problema della circolazione della classe politica, per non farne una casta chiusa, con interessi separati da quelli del popolo» 16. Il corpo politico è da lui sentito come un corpo naturale, provvisto anch’esso di un’anima. L’anima del corpo politico è data dalla relazione intercorrente fra aristocrazia e democrazia, fra l’intelligenza riflessiva, o “saggezza”, dei pochi ed il giudizio collettivo, o “interesse”, dei molti. Un ruolo differenziato, ma pur sempre di governo, compete rispettivamente al diverso organizzarsi della democrazia e dell’aristocrazia: debate e result. Sicché quella di Harrington, e del repubblicanesimo inglese da Harrington a Toland, più che come una fuga verso il passato per spiegare il presente, si pone come una tradizione che al dibattito costituzionale dell’Europa avviata verso i lumi offre una sua peculiare modernità e profondità. Se far rivivere Venezia e Londra era impossibile, equilibrare e com16 Ibid.
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III. L’esigenza dei partiti
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porre l’interesse dei molti e la saggezza dei pochi, il debate ed il result, riproponendo politicamente i valori etico-civili della repubblica, non era esercitazione di angusto intellettualismo. Non come appello a risuscitare l’oligarchia veneziana sarebbe, infatti, stata accolta in Europa, in Olanda come in Germania, in Francia come in Italia, la lettura dei testi dei repubblicani inglesi. «Non l’elemento aristocratico – secondo Franco Venturi –, ma quello libertario, lo si sarebbe visto ben presto, era il seme più vivo dell’eredità repubblicana» 17. Essa aveva cercato di impostare nella libertà politica e per la libertà politica le regole e le procedure di un sistema di governo efficiente. L’ideale di Harrington rimane quello di uno Stato la cui struttura egualitaria soddisfi pienamente le diverse attese dei cittadini, impedendo così loro di unirsi in partiti per difendere i propri interessi sezionali. Uno Stato siffatto (l’equal Commonwealth) non avrebbe più da temere gli antichi partiti, poiché «its orders are such as they neither would resist, if they could, nor could if they would» 18. In altri termini, osserva Cotta, «l’equal Commonwealth, lo Stato giusto, porta inevitabilmente, naturalmente, per così dire, alla fine dei partiti» 19. La concreta vicenda politica inglese della seconda metà del XVII secolo vede invece il consolidarsi dei partiti. Nel pe17 F. Venturi, I repubblicani inglesi, in Utopia e riforma nell’illuminismo, Torino 1970, p. 87. 18 The Commonwealth of Oceana, in Works, a cura di J. Toland, London 1747, 3ª ed., pp. 74s. Vi sono anche altri passi nei quail Harrington si dimostra ostile ai partiti: cf. in particolare, ibid., pp. 216s. e The Prerogative of Popular Government, I, 8, pp. 260s. (Sulla interpretazione dell’equal Commonwealth come assetto politico che non contempla i partiti, si veda R. Polin, Economie et Politique au XVII siècle: l’«Oceana» de J. Harrington, in «Revue française de Science Politique», 1952, II, p. 37). 19 S. Cotta, La nascita dell’idea di partito, in «Il Mulino», Bologna 1959, p. 455.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
riodo fra le due rivoluzioni i partiti whig e tory appaiono di fatto come la nuova duratura realtà della storia d’Inghilterra. Uomini abituati per tradizione o per disposizione propria ad allinearsi con la corona, o che preferivano a una buona opposizione un cattivo re, pur sempre nella loro mentalità re per diritto divino e al quale quindi non si poteva opporre resistenza, difensori della prerogativa regia, uomini di Chiesa che nel re vedevano il caposaldo della religione, formarono il partito tory. Ad esso si opponevano gli uomini del partito whig: sostenitori della sovranità del parlamento, che nella loro concezione doveva essere garantita da frequenti convocazioni, dal controllo sulle imposte, dalla libertà dalle influenze della corte; essi ritenevano che Giacomo II si sarebbe ancor meno del fratello Carlo adattato a regnare da sovrano parlamentare e che, alleatosi con la Francia, avrebbe tentato di riportare l’Inghilterra sotto la Chiesa di Roma e di introdurvi l’assolutismo; essi erano perciò disposti, contro un simile sovrano, a mutare la linea di successione. Ciò che distingueva whig e tory non era pertanto l’origine sociale, quanto il modo di concepire il governo del paese e la vita politica. Ciò che in certa misura li accomunava era un gusto della politica come contesa che richiedeva nuovi ambienti, nuovi metodi, nuova intensità d’impegno. «Allora il club – nota Venturi – cominciò a prendere sempre maggior importanza nella vita del paese, accanto al salotto e alla taverna. Allora la discussione sui principi primi del governo e della religione si diffuse largamente anche al di fuori di Londra» 20. Del lento progredire verso la costituzione di partiti politici “permanenti” sono testimonianza efficace le istruzioni 20 F. Venturi, I repubblicani inglesi, cit., pp. 66s. (cf. anche R.J. Allen, The Clubs of Augustan London, Cambridge 1933, pp. 33ss.).
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III. L’esigenza dei partiti
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che Anthony Ashley Cooper, conte di Shaftesbury, uno dei principali esponenti della opposizione whig, inviava ai membri dei Comuni per la contea di Dorset, in occasione dell’elezione al parlamento nel marzo del 1681. «Signori – diceva il conte di Shaftesbury, quasi a protendere sugli eletti il nuovo peso “partitico” esercitato dagli elettori –, noi vi abbiamo scelti, come nostri membri, a rappresentare questa contea nel parlamento che si terrà a Oxford, il 21 marzo prossimo, e vi concediamo facoltà di agire in nostro nome in tutto ciò che per comune decisione dei membri del parlamento sarà deciso essere, nostro bene comune, il che noi dobbiamo lasciare alla vostra integrità e prudenza. Vi sono solamente alcuni particolari manifestamente e indubitabilmente necessari che noi non possiamo tralasciare di darvi nelle nostre istruzioni…» 21. Seguiva l’indicazione di un “primo”, un “secondo”, un “terzo” e un “quarto” punto, enunciati e collocati come in una vera e propria piattaforma di partito. Certo, ci si muoveva ancora nella logica di gruppi imperniati sulle persone prima che sulle idee, nonché privi di requisiti organizzativamente partitici. Ma la via al political and parliamentary party era ormai aperta.
2. IL VECCHIO E IL NUOVO «La Rivoluzione inglese fu dovuta – può ben dirsi – a cause politiche e religiose, e solo in senso molto lato a cause economiche e sociali. Essa si propose un obiettivo sostanzial21 Il testo è riportato in English historical documents: 1660-1714, vol. VIII, a cura di A. Browning, London 1953, pp. 256-258, ed è riprodotto anche in G. Garavaglia, Società e rivoluzione in Inghilterra (1640-1689), Torino 1978, p. 221.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
mente conservatore, il ristabilimento cioè di una prassi politica, e di un sistema istituzionale che era stato di recente intaccato… La Dichiarazione dei Diritti chiedeva una riparazione, non una riforma» 22. Da tale “restaurazione” della monarchia limitata scaturiva per tutti i gruppi politici una nuova decisiva “centralità” del parlamento. Nel senso che in esso sarebbero state le idee, non più soltanto le persone, ad unire o a dividere i gruppi. Dei principi della monarchia limitata, della indipendenza del parlamento, e quindi di questa sua nuova “centralità” rispetto all’azione di governo, tories e whigs avrebbero dato leale applicazione. Non si sarebbe più puntato sulla eliminazione degli avversari della propria parte. Sono gli anni in cui i tories, che sostanzialmente avevano sostenuto gli Stuart, escono dall’area della “grande politica”, dedicandosi con impegno alla politica locale e ad un tempo attrezzandosi nel parlamento e nel paese per essere ed agire come forza di opposizione. Mentre come vero e proprio gabinetto si insedia e governa fra il 1695 e il 1699 la “giunta whig”, beneficiaria del favore del sovrano Guglielmo III, ma beneficiaria anche e soprattutto di una maggioranza ai Comuni e di un nutrito appoggio di vari Lords. Ispirato da Bolingbroke, un tory del prestigio di Robert Harley invoca il costituirsi di un sano country-party: partito dalle “mani pulite” che subentri alle spregiudicate oligarchie whig. Non senza ammonire, in una sua lettera del 1700, che di fronte all’«emergere di determinate circostanze un gentiluomo come lui potrebbe essere provok’d into an Opposition» 23. 22 E.S. De Beer, La Rivoluzione Inglese, in AA.VV., Storia del Mondo Moderno, vol. VI, Cambridge 1972, p. 264. 23 Cf. D. Rubini, Court and Country 1688-1702, London 1968, p. 211.
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III. L’esigenza dei partiti
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Ed invece, dopo la breve parentesi di governo tory Harley-Bolingbroke sotto la regina Anna, la successione hannoveriana e la reazione al tentativo dell’Old Pretender Giacomo III Stuart riaprono un lungo periodo di “egemonia” whig. Con l’ascesa al trono di Giorgio I, re non più per diritto divino ma per volontà del parlamento, l’Inghilterra vede realizzarsi in tutte le sue implicazioni un assetto di monarchia costituzionale e parlamentare. Con un sovrano che non parla inglese, che è complessivamente indifferente al gioco politico, che lascia volentieri ai suoi ministri le redini del potere, non è difficile l’instaurarsi di un effettivo dominio whig. Brilla la stella di Sir Robert Walpole, che splenderà fino al 1742. Si afferma con essa la consuetudine delle riunioni di gabinetto senza la presenza del re e contestualmente si imprime nel costume politico quell’etica della rappresentatività del parlamento, di cui l’“establishment” whig si mostra geloso custode. Non è più esposta alle vicende e agli esiti della lotta politica la sistemazione istituzionale. Si discute, piuttosto, attorno a quello che i whigs considerano lo strumento della loro supremazia parlamentare: il partito politico. I partiti sembrano ormai vistosamente assurti al rango di protagonisti del gioco costituzionale 24. Lo si ricava dagli argomenti di chi li contesta, non meno che da quelli di chi li difende. Per i whigs, in un “tutto” fatto di “parti”, il potere di “tutto” il parlamento doveva esprimersi al governo nel potere di “una parte” di esso: l’ala whig, appunto. La quale non aveva come l’ala tory il problema di rifarsi una “verginità po24 Cf. R.R. Walcott jr., English Party Politics in the Early Eighteen Century, Cambridge, Mass., 1956; J.H. Plumb, The Growth of Political Stability in England, 1675-1725, London 1967; H. Horowitz, The Structure of Parliamentary Politics, in G. Holmes, Britain after the Glorious Revolution, 16891715, London 1969.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
litica”, di “degiacobinizzarsi” in una parola; ma si reputava, invece, e non immotivatamente, il naturale fulcro del nuovo sistema politico. Di qui la convinzione, schiettamente whig, di godere di una sorta di “diritto di prelazione” sulla cosa pubblica, di aver titolo ad esercitare una forma di “possesso”, o meglio di “utilizzazione integrale” dell’apparato statale e di poter così assegnare cariche ed onori sul metro di una “politica di partito”: privilegiando, cioè, la fedeltà all’idea whig più della fedeltà all’uomo Walpole. Di qui l’aspirazione a praticare l’aurea massima measures, not men: vale a dire, l’aspirazione a far dipendere tanto il sostegno quanto l’opposizione ai governi dal giudizio sui loro programmi anziché sulla loro composizione. Nondimeno permaneva un sensibile divario fra ruolo del partito e ruolo dell’opposizione 25. Il governo, prima che con la cosiddetta country tradition, che solo dal 1726 Bolingbroke avrebbe cercato di promuovere ed aggregare come autentica opposizione parlamentare, era chiamato quasi ogni giorno a fare i conti con l’anima “frondista” che si agitava nel partito. Molti parlamentari si vantavano ripetutamente del proprio whiggism, ma altrettanto ripetutamente non esitavano a votare contro Walpole. Una vera disciplina di partito era ancora lontana. All’interno del sistema di partiti sopravvivevano metodi e compor25 «In the early eighteenth century – osserva J.A.W. Gunn, Factions no more (Attitudes to Party in Government and Opposition in Eighteenth-Century England), London 1971, pp. 6s. –, England had neither party nor opposition in highly developed form and furthermore, the fluid nature of political life meant that the most respectable basis for opposition, the Country Tradition, was a cause different from either Whig or Tory parties. This gap between party and opposition was to be reflected in political ideas for a long time to come».
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III. L’esigenza dei partiti
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tamenti legati al sistema di fazioni. Ed era difficile riuscire a temperare gli inevitabili elementi di continuità fra l’uno e l’altro, né potevano sempre appiattirsi le punte di quella certa contiguità che può determinarsi fra “faziosità” e “partiticità” dell’opposizione. Esisteva, però, nella realtà inglese un fondamentale profondo fattore di equilibrio: l’autonomia nell’applicazione e nell’esecuzione delle leggi. Tale fattore – Self-government rettamente inteso, al di fuori di ogni fraintendimento continentale – impediva, e sempre avrebbe impedito, il degenerare dello “spirito di partito” nel reggimento della cosa pubblica in “spirito di fazione”, arginando ab origine ogni prepotenza dei vincitori sui vinti. Il Self-government inglese, ebbe a documentare Gneist, concepito nel suo vero senso, non già di decentramento o di esercizio di locali franchigie, ma d’una obbedienza spontanea alle leggi generali dello Stato, era il solo efficace correttivo della tirannia delle maggioranze e dell’alternarsi dei partiti politici al governo dello Stato. E questo modulo d’amministrazione non toglieva al governo alcuna delle sue necessarie attribuzioni, né restringeva arbitrariamente la sfera di competenza del potere centrale. Anzi, esso presentava l’opportunità di consentire una giurisdizione amministrativa equa e ad un tempo severa, con la quale si esercitava un controllo permanente su tutti i pubblici funzionari stipendiati ed onorifici 26. 26 Cf. R. Gneist, Lo Stato secondo il Diritto (ossia la giustizia nell’amministrazione politica), tr. di I. Artom, in Biblioteca di Scienze Politiche, diretta da A. Brunialti, vol. VII, Torino 1891, pp. 1164-1182 (l’interna costruzione giuridica del sistema inglese, prima che nelle classiche pagine de Lo Stato secondo il Diritto, era stata sistematicamente studiata da Gneist nei due saggi rispettivamente dedicati a Englisches Verwaltungsrecht nonché a Self-government Communal Verfassung).
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
Tanto il Self-government quanto la giurisdizione amministrativa che ad esso era sottesa, sviluppata con una vastissima giurisprudenza di precedenti parlamentari e giudiziari, si trovavano in Inghilterra già completamente radicati nel tessuto delle istituzioni e dei costumi, assai prima che la naturale evoluzione del sistema parlamentare producesse come obbligata conseguenza il governo di gabinetto. Nella piena sicurezza che l’applicazione della legge non venisse deviata, e magari fuorviata, in senso partigiano, il popolo inglese poteva rimettersi con fiducia al governo della maggioranza ed alla competizione fra i partiti. Da Gneist il Self-government era chiamato Das Gerüste, ossia l’impalcato. Grazie ad esso, nella sua analisi, lo Stato e la società venivano armonicamente congiunti e nella formazione e nell’applicazione della legge. Il potere giudiziario manteneva rigidamente il limite dell’uno e dell’altra attraverso il diritto privato, per i diritti individuali, attraverso il diritto pubblico amministrativo, per l’esercizio dei poteri pubblici. «La nazione inglese – secondo Gneist – era divenuta nel XVIII secolo su tali basi una società governantesi da se stessa nel suo intimo organismo. La fiducia nella volontà arbitraria del re, un tempo così potente, era stata scossa profondamente dalle gravi colpe degli Stuardi, da quattro cangiamenti di dinastia, da un abuso senza esempio del potere politico ed ecclesiastico. La poca importanza della burocrazia e la posizione precaria dell’esercito permanente accanto all’importanza d’una potente aristocrazia territoriale ed al diritto delle Camere di consentire il bilancio, posero sempre più il centro di gravità del governo nel parlamento, specialmente nella Camera Bassa. Ma prima ancora che si affermasse questa onnipotenza del parlamento, l’Inghilterra aveva stabilito il governo giuridi-
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co e lo aveva assicurato contro gli abusi dei partiti politici. Limiti precisi erano stati posti all’ingerenza dei partiti nel governo, l’approvazione del bilancio fu sottoposta alla legge, il controllo del parlamento nell’amministrazione era limitato dai tribunali e così si era guarentito il carattere di un governo secondo le leggi. L’interpretazione delle leggi, e l’intiera sfera dell’amministrazione interna furono sottratte all’arbitrio ministeriale. I capi di partito che dal parlamento passano nel Consiglio ristretto della Corona trovano funzioni ben definite, con una giurisprudenza amministrativa completa, e con una precisa giurisdizione in ogni contestazione amministrativa. Ogni ministro ha davanti a sé una sfera ben tracciata d’attribuzioni, nella quale il più zelante uomo di partito non può rendere equivoca la norma amministrativa, o mutarla altrimenti che per via di legge, cioè col consenso del re e dell’Alta Camera. Non si cambia una massima, non un copista nell’amministrazione comunale e provinciale, in seguito al mutarsi dei ministri. Che un ministro Whig od uno Tory sia al potere, ciò non ha influenza sull’amministrazione interna del paese» 27. Ed in effetti l’Inghilterra dei primi decenni del XVIII secolo sembrava innestare il nuovo crescere dei partiti sul tronco delle vecchie radici della propria tradizione e vocazione di Self-government. Alla ricerca di una governabilità, secondo rappresentatività di “governo di uomini”, che non oscurasse il nitore di una trama del rapporto fra Stato e società, disegnata secondo rigore di “governo di leggi”. Non a caso, ci si richiamava alla massima measures, not men. Una massima, e con essa una prassi, che la caduta di Walpole e l’ascesa di Henry Pelham alla metà del secolo parvero ad 27 R.
Gneist, Lo Stato secondo il Diritto…, cit., p. 1180.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
un certo punto mettere in pericolo. Quello stesso Horace Walpole, che in sede storica non si sarebbe esentato dal riconoscere nel successore di suo padre uno statista vissuto senza abusare del suo potere, così nel 1751 descriverà la condizione di sofferenza del regime parlamentare creatasi in Inghilterra durante il governo dei fratelli Pelham: «Opposition, which had lasted from the days of Queen Elizabeth, and even the distinctions of parties having in a manner ceased at this period…; all the factions which had distracted King William, possessed Queen Anne, and ridiculed the House of Hannover; and the Babel of parties that united to demolish Walpole, and separated again to pursue their private interests; all were now sunk into a dull mercenary subjection to two brothers…» 28. Concetto di partito e concetto di opposizione, istanze particolari ed istanze generali nel moto della società che si fa Stato, eredità antiche e contenuti nuovi del governo giuridico, arrotondamento degli atteggiamenti “faziosi” nei comportamenti “partitici”, del resto, avevano fortemente dominato il pensiero ed il dibattito dei decenni precedenti, penetrando nel cuore della cultura e della politica costituzionale con radici che si sarebbero rivelate più profonde delle contingenze e degli accadimenti che la storia dei fatti avrebbe intrecciato alla storia delle idee. Ecco perché a tale pensiero e a tale dibattito conviene tornare. Senza sottovalutare «quanto sia stato inaspettato, difficile il raggiungimento della stabilità politica in Inghilterra al passaggio tra i due secoli» 29. Una stabilità politica fondata 28 H. Walpole, Memoirs of the Reign of King George the Second, ed. Lord Holland, London 1846, vol. I, p. 228. 29 F. Venturi, I repubblicani inglesi, cit., p. 63 (Venturi si richiama esplicitamente alle analisi dello splendido piccolo libro di J.H. Plumb, The Growth of Political Stability in England, cit.).
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III. L’esigenza dei partiti
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sulla legittimità ideale ed istituzionale delle “parti”, e quindi aperta agli svolgimenti moderni non meno di quanto Gneist la vedesse segnata dalle vecchie attitudini. «Sembra davvero – dice Venturi – che la stabilità politica raggiunta dall’Inghilterra nel primo Settecento sia ancora così solida da mettere fuori gioco a tutt’oggi coloro che la combatterono o vollero modificarla e che seppero trasmettere al nuovo secolo il messaggio della loro opposizione e della loro battaglia» 30.
3. PARTITO, FAZIONE, OPPOSIZIONE Per molto e per molti prevalse nel XVII secolo in Inghilterra un giudizio-pregiudizio sul party as faction; ricavato vuoi dalla sensazione, vuoi dalla convinzione, che un mondo abitato da whigs e tories non sarebbe stato granché differente da quello temporibus illis lacerato da Guelfi e Ghibellini. Così la pensarono studiosi di Machiavelli come Francis Osborne e studiosi di Guicciardini come Robert Dallington 31. E così anche, suggerendo al Principe di equilibratamente giostrare fra le diverse fazioni, utilizzando di volta in volta a proprio fine le loro reciproche ostilità, si espresse un classico pamphlet del 1685, The Mischief of Cabals, dedicato al gruppo whig che si opponeva a Giacomo II 32. 30 Ibid., p. 64. 31 Cf. F. Osborne,
A Miscellany of Sundry Essays, Paradoxes, and Problematical Discourses…, 1659, in Works, London 1689, pp. 620-624, nonché R. Dallington, Aphorisms Civill and Militarie, London 1613, p. 241. 32 «…Besides, when a Prince has several Factions, whether Religious or Civil in his Dominions, as Protestant and Papist, Guelph and Gibelline, which he cannot easily reconcile, ’tis his Interest, by employing them indifferently according to their Parts and Loyalty, to keep the Ballance in an equal Libration;
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
Già indicativi di una più fine ed articolata analisi delle possibilità e potenzialità dei partiti – non per questo distinti dalle fazioni, ma attentamente riconsiderati come frutto di pace, di ricchezza, di spavalderia, anziché di guerra, di povertà, di insicurezza – gli scritti di George Savile primo marchese di Halifax alla fine del secolo 33. Protagonista della vita pubblica inglese sotto Carlo II, Giacomo II e Guglielmo III d’Orange, membro della Camera dei Lords dal 1668, ambasciatore a Parigi per le trattative sui cattolici inglesi nel 1672, guardasigilli, membro del consiglio privato della corona, nonostante l’opposizione dei Comuni, che ad un certo punto ne richiesero con un voto l’allontanamento dalla corte e dalle cariche pubbliche, Halifax riservò ai partiti una serie scoppiettante e quasi inesauribile di stoccate 34. Stoccate durissime, ma non sempre a senso unico 35.
that while they are at emnity among themselves, they shall have no Aversion to him, who impartially rewards them in proportion to their Deserts: which must needs create such an Emulation betwixt his Subjects, that they will strive to outdo each other to serve their Prince, to the great Advantage of the Publick; and every one, instead of depending on the idle Interest of his Party, will endeavour to lay a better and a more useful Foundation, that of his own Merit, to raise him to Preferment…» (The Mischief of Cabals: or, the Faction Expos’d, London 1685, p. 26: brano riportato in J.A. Gunn, Factions no more…, cit., p. 40). 33 «…That Parties – si legge ad un certo punto nelle Maxims of State, scritte nel 1693 ed attribuite ad Halifax nel 1700 – in a State generally, like Freebooters, hang out False Colours; the pretence is the Publick Good; the real Business is, to catch Prizes; like the Tartars, where-ever they succeed, instead of Improving their Victory, they presently fall upon the Baggage…» (The Complete Works of George Savile, Firsf Marquess of Halifax, Oxford 1912, p. 182). 34 «…Most men – si legge in Political Thoughts and Reflections – enter into a Party rashly, and retreat from it as shamefully. As they encourage one another at first, so they betray one another at last: And because every Qualification is capable of being corrupted by the Excess, they fall upon the extream, to fix mutual Reproaches upon one another…» (ibid., p. 226). 35 Cf. A. Ranney - W. Kendall, Democracy and the American Party System, New York 1956, p. 119.
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III. L’esigenza dei partiti
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Associarsi nei partiti era per Halifax certamente inescusabile, ma al tempo stesso in qualche modo ineluttabile. Nelle sue pagine sul “girella” – The Character of a Trimmer – la costanza partitica sembra configurarsi come un effetto della incostanza politica, ed in termini “istituzionali” come un antidoto: quasi un rimedio di dignità all’implacabile ed inappagabile svolgersi di contese ed alleanze, rivalità ed amicizie, tanto povere di dignità. Egualmente critico dei partiti, egualmente impietoso censore di opportunismi e faziosità, insieme coniugati da molti suoi contemporanei, il pensiero politico dell’economista Charles Davenant. La sua concezione Of Private Men’s Duty in the Administration of Public Affairs escludeva ogni divisione determinata da perfide etichette partitiche. Ma non in assoluto. Perché poteva ad un certo punto subentrare una esigenza dei “buoni” a far partito anch’essi come i “cattivi”: per legittima difesa dei diritti e delle libertà minacciate; rifacendosi ad un Machiavelli diverso da quello studiato da Francis Osborne, un Machiavelli – se così può dirsi – per i “buoni” contro i “cattivi”. «If bad men – scriveva Davenant nel 1699 – shall have meetings to consult how they may destroy our civil rights, good patriots ought to meet calmly to communicate counsels which way those rights are to be preserved; for Machiavel says, There is not a better or more secure way to suppress the insolence, or crossbite the designs of an ambitious citizen, than to take the same way to prevent, which he takes to advance them» 36. 36 Of Private Men’s Duty in the Administration of Public Affairs, 1699, in The Political and Commercial Works of that celebrated Writer Charles D’Avenant, ed. Sir Charles Whitworth, London 1770, vol. II, p. 340. (Il brano è riportato anche in J.A.W. Gunn, Factions no more…, cit., p. 47).
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
Ed ha ragione Gunn nell’avvertire in questo passo di Davenant un’anticipazione di quella che diverrà la famosa affermazione di Burke: «When bad men combine, the good must associate…» 37. Filosoficamente più complesso, illuministicamente proteso alle certezze della ragione, lo sguardo gettato sui partiti da deisti come Matthew Tindal e come John Toland. Dio come mera razionalità, al di fuori di ogni “mistero”, senza distinzioni tra il sopra-razionale e l’irrazionale: così il deismo mirava a trasferire sul piano filosofico e religioso lo slancio politico che aveva percorso la rivoluzione puritana. Poteva apparire una ripresa delle correnti eretiche del passato. Ma in realtà si trattava di qualche cosa di nuovo: di una decisa volontà di non ammettere nulla che fosse «contrary to reason or above it»; dell’invito a guardare al common people; dell’impegno ad arrivare, politicamente e filosoficamente, alla società razionalmente costituita. «Il nuovo deismo – osserva Venturi – vivrà in Inghilterra in mezzo alla gran folla delle sette e delle correnti religiose, cercando e trovando appoggio e conforto in alcune di esse, ma non si confonderà mai completamente con loro. Non avrà delle sette religiose la forma organizzativa, cercandone anzi delle nuove, come il Pantheisticon di Toland ci dimostra. Né si chiuderà in una corrente specifica, restando fermamente razionalistico ed illuministico in mezzo alle più diverse correnti religiose ereditate dal passato» 38. Si reputano i partiti entità che non coinvolgono – come tradizionalmente le fazioni – disegni ed aspirazioni di “pochi”, ma che coinvolgono interessi ed attese di “molti”. Lo 37 Cf. J.A.W. Gunn, Factions no more…, cit., p. 251. 38 F. Venturi, I repubblicani inglesi, cit., pp. 74s.
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III. L’esigenza dei partiti
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comprendeva Tindal 39. Lo spiegava ancora meglio Toland: reinterpretando, già in The Art of Governing by Partys del 1701, il detto di Solone sugli ambiti ed i limiti entro i quali al cittadino è concesso restare “neutrale” 40; ed in The State-Anatomy of Great Britain del 1717 additando ai partiti negli Stati la missione che hanno di solito le eresie nelle Chiese, talvolta di renderle peggiori, sempre di tenerle vive 41. Il che avrebbe indotto nel 1723 Daniel Defoe a considerare Toland, per la verità esagerando, l’ardente avvocato difensore dei partiti 42. Meno enfatica, più pacata, ma non meno interessante, l’accettazione dei partiti propugnata da John Shute Barrington, il quale la inseriva in una più generale traiettoria dell’idea di tolleranza, religiosa prima e politica poi, che comprendeva e conciliava filosofia del whiggism e filosofia del dissent. 39 «…The Dispute – per Tindal – is not only about Places and Preferments, but concerning all that can be valuable to an English-man: There are but Two Grand Parties in the Nation, and scarce a Man, or Woman, which is not of one, or t’other; and tho’ there may be several Things, done by their own Side, which some may dislike, yet if they do not dislike them more than they like their Party, they will come into ev’ry Thing essential to it». (The Defection Consider’d, and the Designs of those who divided the Friends of the Government, set in a True Light, London 1717, p. 10). 40 «…Did I follow my natural Inclination I shou’d be always for a Neutrality, and I promise to be a very indifferent Judge when the critical Opportunity presents itself; but when there’s a Sedition in the city, I think (with Solon) it ought to be capital for a Man to remain an unconcern’d Spectator, but that he shou’d be necessitated to ingage on the side he most approv’d, as the fittest means to appease the tumult, or to keep the best Party from being overpowr’d» (The Art of Governing by Partys, London 1701, p. 178). 41 «…Every Division, however, is not simply pernicious: since Parties in the State, are just of the like nature with Heresies in the Church: sometimes they make it better, and sometimes they make it worse; but held within due Bounds, they always keep it from stagnation…» (The State-Anatomy of Great Britain, London 1717, p. 102). 42 Cf. J.A.W. Gunn, Factions no more…, cit., pp. 86-88.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
Barrington avvertiva tutti i rischi della imposizione di obbedienza alla Chiesa anglicana, prevista dall’Occasional Conformity Bill del 1711 per i non anglicani che avessero voluto accedere a cariche pubbliche: ad essi si imponeva l’obbligo di ricevere una volta all’anno i sacramenti del credo anglicano. I Protestant Dissenters – egli temeva – sarebbero stati privati di influenza locale e quindi della possibilità di conseguire rappresentanza parlamentare; i cittadini, non meno delle coscienze, si sarebbero allontanati da quelle esigenze di pacificazione fra le “parti” che la vicenda inglese e quella europea reclamavano. «Can Conformity – si domandava Barrington, in Letter from a Lay-Man – render the Dissenters more peaceable Subjects…? Will the Balance of Parties be better preserv’d, on which the Balance of Power in England and Europe does in a good Measure depend?» 43. Di qui la sua battaglia per ottenere, come ottenne nel 1718, l’abrogazione dell’Occasional Conformity Bill. Di qui soprattutto la sua visione dell’equilibrio di partiti come strettamente legato alla tutela delle libertà inglesi, al pari dell’equilibrio dei poteri rispetto alla tutela delle libertà europee. «The Constitution of England – per Barrington, in The Interest of England Consider’d in Respect to Protestants Dissenting from the Establish’d Church – consist in a Ballance of Partys, as the Libertys of Europe do in a Ballance of Powers. We find to our Cost that they are not to be maintained by meer Treatys; nor by the Honor of Sovereign Princes, and 43 Cf. ibid., p. 59. (Sulla complessa questione della natura e della finalità delle limitazioni civili imposte in vari momenti e a vario titolo ai Protestant Dissenters, cf. R.B. Barlow, Citizenship and Coscience, Philadelphia 1962; E. Neville Williams, The Eighteenth-Century Constitution 1688-1815: Documents and Commentary, Cambridge 1960).
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III. L’esigenza dei partiti
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their want of Inclination to invade them: But that they are supported and preserv’d by keeping every Government in such Circumstances, as to be afraid to undermine the Libertys of Europe, or openly to attack them, lest the rest call them to account. But as when we suffer any Power in Europe to become exorbitant, and out of reach of the Rest, we destroy the Libertys of Europe: So when we allow one of the Partys in England to be above the Check of the other, we must bid farewell to its Libertys too» 44. Si assegnava da Barrington ai partiti una capacità di balance – concetto e termine fra i più tipici del pensiero inglese del diciottesimo secolo – con implicazioni religiose, politiche, costituzionali. Il vecchio pregiudizio antipartito sembrava deposto, ed in certa misura capovolto. Ma fino ad un certo punto, o meglio soltanto guardando dall’esterno a quel che era o avrebbe potuto essere il ruolo dei partiti. Dall’interno del mondo dei partiti permaneva una notevole sfiducia sulla loro capacità di essere fattore di balance, e non piuttosto turbamento di una balance, che si considerava storicamente scaturita da un riannodarsi del “tutto” più che da un aggiustamento fra le “parti”. Era il punto di vista di Bolingbroke, uomo che incarna forse come nessun altro le lotte “di partito” del proprio tempo ed i cui scritti politici riguardano tutti, direttamente o indirettamente, i partiti, ma che – come uomo di pensiero, non certo come uomo d’azione – all’accettazione di un sistema dove vigesse governo di partito rifiutò di pervenire. La figura e l’opera di Bolingbroke non furono affatto estranee al processo di legittimazione dei partiti. Ma all’opposizione e non al governo. Il partito poteva costituzionalmente 44 Cf.
J.A.W. Gunn, Factions no more…, cit., p. 66.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
garantire opposizione, in senso parlamentare ed in senso per così dire extraparlamentare; non valeva ad assicurare costituzionalmente un indirizzo di governo che non sfociasse ineluttabilmente nel governo di fazione. Dalla sua idea costituzionale di opposizione Bolingbroke era portato ad ammettere la possibilità di distinguere fra partito e fazione (nel momento, appunto, dell’opposizione). Ma dalla sua idea, in fondo alquanto assolutistica, di un superiore patriottismo istituzionale era poi portato a perseguire l’annullamento di ogni divisione di parte nell’emergere di un country-party, troppo intrinsecamente schierato a presidio dell’unanimismo per non recidere estrinsecamente il filo di quello stesso costituzionalismo nel cui seno sarebbe sorto. Sicché per Bolingbroke il partito era diverso dalla fazione all’opposizione, ma non al governo (salvo il country-party che comunque non era un partito, o quanto meno non un partito fra altri partiti). Implacabile antagonista di Walpole e della sua maniera di concepire e praticare l’azione di governo, interprete di una unità nazionale che affondasse le sue radici nei principi della ragione anziché nella storia, Bolingbroke nutriva la preoccupazione che fra “costituzione” e “governo” si potesse confondere, consentendo alla mutabilità del secondo di aggirare la immutabilità della prima. Ed i partiti, proprio in quanto elemento di privatizzazione e di particolarizzazione della comunità politica, tale confusione fra “costituzione” e “governo” avrebbero potuto ingenerare, ritornando ad essere fazioni. Questo il motivo centrale di A Dissertation upon Parties, to the Right Honorable Sir Robert Walpole, pubblicata da Bolingbroke sulle pagine di «The Craftsman» fra il 1733 e il 1735. «Per costituzione – scriveva Bolingbroke – intendiamo, quando parliamo con proprietà ed esattezza, quell’insieme
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III. L’esigenza dei partiti
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di leggi, istituzioni e consuetudini, derivate da certi immutabili principi di ragione e dirette a certi immutabili fini di pubblico bene, che costituiscono il complesso del sistema secondo il quale la comunità ha convenuto e accettato di essere governata. Per governo intendiamo, sempre quando parliamo nel medesimo modo sopra accennato, quel particolare tenore di condotta che un supremo magistrato, e i magistrati a lui inferiori che agiscono secondo la sua direzione e influenza, mantengono nella amministrazione della cosa pubblica» 45. Alla costituzione il governo deve essere e deve sentirsi sempre sottoposto. Di qui la sua natura di organo cui tocca eseguire e cui non tocca in niente e per niente rappresentare. Al governo, nel pensiero di Bolingbroke, non dovevano trovar posto, o meglio dovevano costituzionalmente scomparire, come se mai precedentemente fossero esistite, tendenze, inclinazioni, e valutazioni di partito. Affinché l’esecuzione delle leggi, l’osservanza delle istituzioni e delle consuetudini fosse attuata in esclusiva conformità ai principi ed ai fini della costituzione. Il suo costituzionalismo, benemerito fondatore di quel che in Inghilterra si definisce loyalism, cioè senso della costituzione come realtà che è al di sopra di qualsiasi parzialità, finiva così con l’irrigidirsi in un illuminismo meccanicistico che alla statica perfezione del modello costituzionale sacrificava quella libera dinamica di diverse prospettive politiche che pur avrebbe dovuto determinare. Risentiva forse Bolingbroke di una stentorea fedeltà alla Glorious Revolution del 1688: una 45 H. Bolingbroke, Saggio sui partiti, in Antologia dei costituzionalisti inglesi, a cura di N. Matteucci, Bologna 1962, p. 160 (traduzione ricavata da The Works of Lord Bolingbroke, Carey and Hart, Philadelphia 1841, vol. II).
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
fedeltà che, per tutelarne i risultati, ne cancellava gli sviluppi. Sia sotto il profilo filosofico-dottrinario, sia sotto il profilo storico-politico. Da un lato, alla integrità del contratto bilaterale fra il principe ed il popolo, in corrispondenza di quello allora stabilitosi fra gli organi rappresentativi e la collettività della nazione, si negava articolazione di svolgimento. Da un altro lato, invocando il formarsi di un nuovo-vecchio country-party, si mirava a ripristinare, in condizioni e situazioni ormai troppo differenti, lo stesso tipo di coalizione con la quale tories e whigs alla fine di quegli anni Ottanta si erano sentiti uniti contro i disegni di Giacomo II. Gli avvenimenti posteriori alla rivoluzione del 1688 e le conseguenze del nuovo regime costituzionale non offrivano più, a suo giudizio, una base reale e nazionale alle divisioni di partito. Il successo dell’esperienza costituzionale inglese si misurava per Bolingbroke proprio nell’esaurirsi di ogni contrasto fra i partiti prodotti dalle vicende anteriori al 1688. Per quel che concerneva i partiti, ripensando alle scelte ed ai tormenti di una aspra e tutt’altro che rettilinea battaglia politica, il costituzionalismo di Bolingbroke nutriva una sua aspirazione irenistica. Non diversamente da Harrington. Non diversamente dal suo grande amico Swift. Della magnificenza ed eccellenza della costituzione inglese, dal tory Bolingbroke enfatizzata perfino più che dal whig Barrington, garante supremo e dichiarato era il diritto del popolo ad eleggere liberamente, frequentemente, al di fuori di ogni influenza della corona o del governo, o di entrambi, i propri rappresentanti in parlamento. «Una giusta fiducia – per Bolingbroke – nei sicuri, legali, parlamentari metodi di raddrizzare i torti ha sovente indotto il più libero, e non il più paziente, popolo della terra a sop-
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III. L’esigenza dei partiti
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portare i peggiori mali molto più a lungo di quanto popoli tenuti sotto freni più stretti, e più avvezzi all’oppressione, ma che peraltro non avevano la stessa fiducia, né le stesse legittime speranze e aspettative, non abbiano sopportato. I lamenti e le grida del popolo, e la tema delle vicine elezioni, hanno sconfitto i più avventati e pericolosi disegni di ridurre la nazione alla miseria e al servaggio; e la maggioranza fuori delle porte del parlamento ha costretto la maggioranza dentro queste porte a portare ossequio alla minoranza» 46. Ma come assicurare senza i partiti il necessario contatto fra una “maggioranza fuori del parlamento” ed una “maggioranza dentro queste porte”? Come continuare a rivendicare alla country tradition il merito di aver forgiato «il più libero, e non il più paziente, popolo della terra»? Come incanalare il farsi stato di una società che della sua costituzione, del suo parlamento, del suo governo, della sua stessa opposizione, volesse sentirsi intensamente ed assiduamente partecipe? Lo schema di Bolingbroke a questi interrogativi non poneva attenzione. Teso alla saldezza della compagine nazionale, che i partiti ieri avevano favorito ed oggi avrebbero sgretolato, egli mirava a fissare fra i diversi momenti e strumenti costituzionali un confine che li mantenesse separati 47. Per salvaguardarne indipendenza ed autonomia. Per impedire che fra essi si instaurassero forme di continuità-contiguità, o soltanto di comunicazione. 46 Ibid., p. 165. 47 Nei Remarks
of the History of England, Bolingbroke sosteneva che «in a constitution like ours the safety of the whole depends on the balance of the parts, and the balance of the parts on their mutual independency on each other» e che «…the resolutions of each part… be taken independently and without any influence, direct or indirect, on the others» (The Works, cit., vol. I, p. 338).
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
Fra popolo, parlamento e governo non doveva sussistere rapporto politico di forza propulsiva dall’uno all’altro, ma misurata ed immobile divisione costituzionale delle sfere di intervento. Ed un sistema indipendente doveva essere anche l’opposizione 48: unico terreno sul quale, in certe circostanze ed a certe condizioni, un partito poteva contribuire al diffondersi di vero ed autentico spirito pubblico 49. Era, comunque, una sorta di eccezione “partitica” a conferma di una regola “antipartitica”. Del governo, Bolingbroke svalutava non soltanto la caratterizzazione “partitica”, ma la stessa caratterizzazione “politica”. Nella sua intellettualistica divisione dei poteri, non esisteva alcuna possibilità di compenetrazione fra governo e parlamento. Un governo di partito, che walpolianamente straripasse, influendo sulla durata in carica e sull’esercizio del mandato degli eletti, snaturava ai suoi occhi ogni balance, strumentalizzando la propria responsabilità in danno dell’altrui rappresentatività: l’una e l’altra costituzionalmente concepite come “corpi separati”. Per Bolingbroke gli ambiti di attività del governo dovevano ridursi ad una meccanica e subalterna attuazione della vo-
48 «Every administration – scrive Bolingbroke in The Letter on the Spirit of Patriotism – is a System of conduct: opposition therefore, should be a system of conduct likewise; an opposite, but not a dependent system (ibid., p. 358). 49 «…It were easy – aggiunge Bolingbroke – to demonstrate what I have asserted concerning the duty of an opposing party: and I presume there is no need of labouring to grove, that a party who opposed, systematically, a wise to a silly, an honest to an iniquitous, scheme of government, would acquire greater reputation and strength, and arrive more surely at their end, than a party who opposed occasionally, as it were, without any common system, without any general concert, with little uniformity, little preparation, little perseverance, and as little knowledge or political capacity…» (ibid.).
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III. L’esigenza dei partiti
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lontà della nazione, precludendosi ogni determinazione squisitamente politica. Sarebbe stato Burke a contrapporgli una concezione “politica”, nella quale il governo ridiventava centro di azione e luogo di scelta, potere attivo che rende attiva la costituzione, che valorizza, in chiara ed esplicita antitesi alla fazione, la funzione del partito politico.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
IV. DA BOLINGBROKE A BURKE
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1. IDEOLOGIA E POLITICA DEL COUNTRY PARTY Non fu l’aristocratico tory Henry Saint-John primo visconte di Bolingbroke ma il borghese whig Edmund Burke ad essere giudicato da Marx «il sicofante al soldo dell’oligarchia inglese». Il che può essere marginale, ma non del tutto irrilevante. Pensatore e scrittore tutt’altro che sistematico, anzi spesso diseguale e perfino contraddittorio, Bolingbroke fu sempre insistentemente antioligarchico, antiaristocratico (fatta salva la perorazione di una «aristocrazia dei talenti», ben diversa dalla «vera, naturale aristocrazia» cui avrebbe inneggiato Burke), fautore di una rigenerazione “nazionale” e “popolare” del country dalla corruzione governativa e dalla venalità parlamentare. E questo gli valse non solo e non tanto a schivare la sprezzante condanna di Marx, ma soprattutto ad interpretare nella storia inglese un ruolo di effettiva contestazione, di potenziale alternativa, di aspra denuncia dei metodi del patronage e della influence dei partiti: un ruolo al quale programmaticamente si richiamerà il regno di Giorgio III. Deputato tory, ministro della guerra dal 1704 al 1708 nel governo presieduto da Godolphin e ispirato da Marlborough, Bolingbroke contribuì largamente alla formazione di un governo di soli tories nel 1710, nel quale ottenne il posto di se-
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IV. Da Bolingbroke a Burke
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gretario di Stato. La morte della regina Anna nel 1714 gli costò il potere. Obbligato a fuggire in Francia in seguito al trionfo dei whigs, condannato all’esilio e alla confisca dei beni, non esitò a cambiare schieramento, diventando segretario di Stato del pretendente Giacomo Stuart, dal quale fu poi licenziato dopo l’insuccesso della spedizione di Scozia. Rientrato in Inghilterra nel 1723, senza tuttavia aver riottenuto il suo seggio alla Camera dei Lords, condusse dalle colonne del «Craftsman» la sua implacabile opposizione a Walpole e ai suoi governi, appoggiando la lotta parlamentare di Pulteney e di Wyndham. In fondo, tutta la sua vita 1 fu testimonianza di come e quanto «the party system is perhaps the most difficult of all the elements of a parliamentary system» 2. Politicamente, oltre che giornalisticamente, il «Craftsman» da lui lanciato nel 1726 rappresentò il primo vero giornale di partito: alla ricerca di aggregazioni “sociali” che risolutamente sfidassero le aggregazioni “statuali” praticate da Walpole. Uomo a suo modo di tutti i partiti (tory pronto ad allearsi con gli oppositori whigs del suo grande rivale Walpole) e al tempo stesso ideologo di un partito che doveva segnare la scomparsa di tutti i partiti (il country party raccolto attorno al Patriot King), Bolingbroke visse ed espresse l’ennesimo sovrapporsi del vecchio al nuovo nello sviluppo delle istituzioni inglesi. La “nuova” dicotomia fra whigs e tories si ammorbidiva; la vecchia dicotomia fra court e country si ristabiliva. 1 Cf. T. MacKnight, The Life of Henry St. John, Viscount Bolingbroke, London 1863; C. Petrie, Bolingbroke, London 1937; P. Baratier, Lord Bolingbroke et ses écrits politiques, Paris 1939; W. McIntosh Merrill, From Statesman to Philosopher: A Study in Bolingbroke’s Dream, New York 1949. 2 E. Barker, Essays on Government, Oxford, 19512, p. 77.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
La conformazione dualistica dei partiti in whigs e tories, legata a differenti «issues of principle, policy, interest», sembrava incrinata da un segmentarsi dei gruppi politici su linee, o appunto segmenti, eminentemente personali. Venivano in luce, accentuati dal patronage e dalla influence, legami familiari, di amicizia privata, di piccolo interesse, che determinavano essi le varie connexions 3. Il che Bolingbroke avvertiva, traendone motivo per sostenere una restaurazione ab imis dei principi costituzionali, non più innestati o innestabili su dislocazioni partitiche ormai evanescenti. Fra whigs e tories, osservava, «even the appearances were now rectified» 4. Il gioco politico e lo stesso sistema di potere prescindevano da partiti che avevano avuto origine e giustificazione «in the absurd system of divine right first broached by that anointed pedani, James I», da partiti che, completatosi il corso della “gloriosa” rivoluzione, sopravvivevano come “fantasmi”. Non si trattava, dal suo punto di vista, di far recuperare ai tories una identità storica che fosse altrettanto legittima di quella whig. Il suo intento era piuttosto di mostrare come entrambi non avessero più ragione di esistere, e quindi solo in tal senso impedire che fosse esercitata contro i tories la “tutela” whig dei principi del 1688. Di qui anche la sua autocritica, nella Letter to Sir William Wyndham (scritta nel 1717 ma pubblicata postuma nel 1753), del modo in cui avevano go3 Nell’Essay de politique, pubblicato nel 1719, Michael Ramsay, noto amico di Fénelon e Montesquieu, illustrava in questi termini la situazione: «Il y a souvent cinq ou six différentes espéces de Whigs et de Torys… Les divisions et subdivisions parmi les Whigs et les Torys se multiplient chaque jour… Les Whigs deviennent Torys et les Torys deviennent Whigs selon leur intérét». 4 H. Bolingbroke, The Works, Philadelphia 1841, II, p. 67.
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IV. Da Bolingbroke a Burke
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vernato i tories, lui compreso; tesi ad impadronirsi delle leve di comando per ricompensare i propri fidi, pure i tories erano divenuti fazione e si erano adeguati alla logica perversa del governo di partito 5. All’affievolirsi dell’operare dei partiti come associazioni politiche legate a ben definiti orientamenti di principio, che cominciava a manifestarsi dopo la morte di Anna (mentre la Dissertation bolingbrokeana tendeva piuttosto a retrodatarlo agli inizi del secolo), faceva riscontro nella realtà, e si rifletteva anche nella polemica di Bolingbroke, un nuovo intenso riproporsi della “older distinction” tra court e country. Pur riallacciandosi sotto molti aspetti alla tradizione, la distinzione acquistava ora una diversa e più significativa dimensione, «dando luogo a una struttura dicotomica, la quale – rileva intelligentemente Mario Galizia – se non è il moderno two partys system, si pone in modo preciso tra le vicende storiche che direttamente vi hanno dato origine» 6. Per Bolingbroke, invece, la dicotomia court - country non era in alcun modo riferibile a partiti reali. La distinzione fra country party e court party gli appariva come la distinzione tra la nazione tutta ed una semplice fazione: quindi inammissibile sul terreno dei principi, o meglio dei “primi principi” per usare il linguaggio di Bolingbroke, e tale da produrre netta contrapposizione tra i partigiani della costituzione e quelli della corruzione. Il suo country party serviva ad eliminare quella distinzione, illuministicamente e dottrinariamente negandone le radici storiche e politiche, mirando a realizzare non tanto un partito nazionale quanto una politica nazionale, che reinserisse 5 Cf. ibid., I, pp. 113-132. 6 M. Galizia, Caratteri del
regime parlamentare inglese del Settecento, in AA.VV., Studi in memoria di Carlo Esposito, Padova 1974, IV, p. 2393.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
principi di interesse comune in luogo di pregiudizi privati. «A party, thus constituted, is improperly called party; it is the nation, speaking and acting in the discourse and conduct of particular men» 7. Né il court-party, ispirato e sorretto da interessi meramente particolaristici, potrà mai coincidere con i veri interessi del re, che, stando ai ragionamenti ed agli argomenti della sua Idea of a Patriot King, erano limitati (ma anche esaltati) dalla coincidenza con la voce ed il volere del popolo. Al suo costituzionalismo, troppo intriso di populismo nazionale per poterlo essere parimenti di liberalismo politico, sfuggiva la considerazione di come e quanto l’articolarsi degli schieramenti entro la dicotomia court e country possedesse una sua carica integratrice, e non disgregatrice, dei principi e dei rapporti sanciti dal 1688. Lo stesso patronage – vale a dire l’utilizzazione di offices, honours, titles, pensions, government contracts per influire sulle elezioni e, successivamente, nell’ambito del parlamento, per dare “strength” al court party, sostenere i ministri e appoggiare i provvedimenti da essi presi – contribuiva alla vitalità della relazione King and Parliament. Quello che a Bolingbroke sembrava essenzialmente uno strumento di corruption aveva una sua funzione, o meglio funzionalità, costituzionale. Nel senso che con il patronage si fissava il principio che l’azione di governo non dovesse essere condotta fuori del parlamento; che il re non potesse governare senza il parlamento; e che il legame tra corona e parlamento dovesse essere costante, realizzando effettivamente «a balance and a working relationship». Guardando alle esigenze di separazione, piuttosto che di interazione, fra i poteri legislativo ed esecutivo, Bolingbroke considerava irrinunciabile la massima indipendenza del parla7 H.
Bolingbroke, The Works, cit., II, p. 48.
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IV. Da Bolingbroke a Burke
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mento dalla corona. Con singolare peculiarità rispetto ai tradizionali sentieri di teoria politica, egli era contemporaneamente e contestualmente sostenitore sia dello Stato misto, come forma di governo, sia della divisione dei poteri, come presidio della libertà. Sul numero 219 del «Craftsman» del 12 settembre 1730, Stato misto e separazione dei poteri erano, appunto, congiuntamente celebrati. «Se il legislativo, come l’esecutivo, risiedesse completamente nel Re, come in taluni paesi, egli sarebbe assoluto; se risiedesse nei Lords, il nostro governo sarebbe un’aristocrazia; se nei Comuni, una democrazia. È questa divisione del potere, questi distinti privilegi attribuiti al Re, ai Lords e ai Comuni, che costituiscono una monarchia limitata… Poiché tale divisione del potere, e questi distinti privilegi costituiscono e mantengono il nostro governo, ne consegue che la confusione di essi tende a distruggerlo». Dalle governative pagine del «London Journal» si sarebbe risposto a Bolingbroke giudicando una pura utopia l’asserire che gli affari di una nazione possono essere compiuti e il governo mantenuto, con poteri assolutamente distinti e assolutamente indipendenti. Fu comunque il «Craftsman» e non il «London Journal» a diventare fonte di documentazione, e di elaborazione, del pensiero di Montesquieu, allora in Inghilterra attento a seguire la polemica di Bolingbroke sulla corruption dell’esecutivo e sulla separazione dei poteri come limite invalicabile da porre all’umana bramosia di potere («insaziabile, continuamente stimolata e mai saziata dal possesso»; parole di Bolingbroke che Montesquieu farà sue). Ed a questo proposito si è osservato che «Montesquieu non riesce, come anche Bolingbroke non era riuscito, a ren-
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
dersi conto dell’importanza della solidarietà (e non del distacco) dei poteri legislativo ed esecutivo, nello sviluppo della costituzione inglese. Il risultato cui Walpole giunse, per fas et nefas, fu proprio il consolidamento di questa solidarietà. La separazione dei poteri non era più che un idolo; Bolingbroke trasmise a Montesquieu una concezione della costituzione inglese interessata, tendenziosa e irreale. Montesquieu la nobilitò e la razionalizzò, ma non le tolse i difetti d’origine…» 8. Con buona pace delle prese di posizione politiche e dottrinali di Bolingbroke, l’esperienza costituzionale inglese del tempo vedeva frattanto emergere con sempre maggiore evidenza un vital link fra corona e parlamento, nel segno di un «harmonius under standing and cooperation». Ed a impersonarlo erano proprio i ministri, e proprio in quanto uomini di partito, nel senso più avversato da Bolingbroke, cioè direttamente (in prima persona) o indirettamente (attraverso placemen di fiducia) dotati di ability to manage i comuni. Sensibilmente discostandosi da Bolingbroke, nella seconda metà del secolo, Hume avrebbe rilevato che «some degree and some kind» di influenza governativa erano inseparabili «from the very nature of the constitution and necessary to the preservation of our mixed government». Sicché, per quanto concerne la storia delle istituzioni, anche dopo le ricerche del Namier, può ben dirsi che «il patronage si inserisce in una visione della vita politica secondo la quale la tutela di interessi settoriali e lo scambio di favo8 R. Shackleton, Montesquieu, Bolingbroke e la separazione dei poteri, in «Occidente», VIII, 1952, p. 125. (Ad una conclusione diametralmente opposta, secondo la quale Bolingbroke non sostenne la separazione dei poteri, e quindi non influenzò in alcun modo Montesquieu, era pervenuto H.N. Fieldhouse, Bolingbroke and the idea of non-party government, in «History», 1939, XXIII, pp. 41-56).
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IV. Da Bolingbroke a Burke
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ri reciproci è, entro certi limiti, perfectly legitimate and honourable» 9. Una visione della vita politica che Bolingbroke rifiutava e condannava, in nome di una superiore ortodossia costituzionale, che il suo Patriot King avrebbe ripristinato «by rendering public virtue and real capacity the sole means of acquiring any degree of power or profit in the state» 10. L’avere Bolingbroke dato l’impulso più vivo al radicarsi del country party nell’esperienza del secolo, o l’avere egli per tanta parte ispirato nel secolo successivo (si pensi alla sua influenza su Disraeli) lo sviluppo della «modern Tory democracy» 11, non impedisce di sottolineare l’incapacità – ancor più evidente nel confronto con Burke – di cogliere la modernità dell’idea dei partiti, contrapposti più che giustapposti alle fazioni – come in Burke – per incanalare empiricamente, gradualmente, congiuntamente, le nuove esigenze di governabilità e di rappresentatività. «Governing by party – per Bolingbroke – must always end in the government of a faction… Party is a political evil, and faction is the worst of all parties» 12. Tra partito e fazione esisteva soltanto una differenza di grado. La fazione stava al partito come il superlativo al positivo, nel senso che la fazione altro non era che un partito ancor più particolaristico. «I partiti – a suo dire – prima di degenerare in fazione assoluta sono sempre un gruppo di perso9 M. Galizia, Caratteri del regime parlamentare inglese del Settecento, cit., p. 2379. 10 H. Bolingbroke, The Works, cit., II, p. 396. 11 Cf. F.J.C. Hearnshaw, Henry St. John, Viscount Bolingbroke, in The Social and Political Ideas of Some English Thinkers of the Augustan Age, London 1928; W. Sichel, Bolingbroke, London 1902 (soprattutto II, pp. 448-455); K.G. Feiling, Second Tory Party (1714-1832), London 1838. 12 H. Bolingbroke, The Works, cit., II, p. 401.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
ne associate tra loro per cause e interessi determinati sui quali il resto della comunità non concorda». Di qui la critica all’appoggio accordato da Giorgio I ai whigs, che aveva così favorito «una parte della nazione a spese del tutto». Di qui l’ideale del Re Patriota, garante di un’autorità finalmente e definitivamente in grado di «non sposare la causa di alcun partito, bensì di governare il suo popolo come un padre comune». Si è notato a proposito di Bolingbroke che «tutta la sua opera è esaltazione del valore dello Stato di contro a tutti gli altri valori» 13. Ed il suo deismo, che estendeva la sfera dello Stato ben oltre quei limiti indicati da Locke, facendolo penetrare di pieno diritto in quei campi che il liberalismo aveva ed avrebbe ritenuto di esclusiva spettanza della sfera religiosa 14, autorizza questo tipo di considerazione, così come autorizza quelle “affinità elettive” e addirittura quei rapporti di parentela con Hobbes che si è soliti attribuirgli. Il valore dello Stato era per Bolingbroke assai simile a quello della famiglia: ed ecco l’assurdità delle divisioni intestine; ed ecco la compattezza sui “primi principi”; ed ecco il “governo misto” e la “separazione dei poteri” realizzabili entrambi sul terreno di una incorrotta uniformità di idem senti13 C. Motzo Dentice di Accadia, La supremazia dello Stato secondo Bolingbroke, in «Giornale critico della filosofia italiana», XVII, 1936, p. 235. 14 A proposito dell’aspirazione di Bolingbroke ad una religione unica, di Stato, significativo il giudizio che ne avrebbe dato Rémusat, il quale avrebbe guardato a Bolingbroke come a colui che «dégoûté dès sa jeunesse des rigueurs du puritanisme, débauché avec éclat, incrédule avec fierté, n’avait embrassé la religion de l’Etat qu’en homme d’Etat, et devait finir par haïr ou mépriser la foi sous toutes ses formes; présbytérienne, parce qu’elle était fervente et démocratique; episcopale, parce qu’elle n’avait pas su lui prêter un pouvoir durable; chrétienne, parce qu’elle contrariait sa raison, son orgueil et ses passions» (C. de Rémusat, L’Angleterre au dix-huitième siècle, Paris 1856, I, p. 439).
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IV. Da Bolingbroke a Burke
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re et idem velle; ed ecco la necessità di un “patriarcale” contenimento, ed impedimento, al manifestarsi di reali e non nominali diversità di opinione. «The true image of a free people, governed by a Patriot King, is that of a patriarcal family, where the head and all the members are united by a common interest, and animated by one common spirit» 15. Parole scritte da Bolingbroke nel 1738 (l’anno in cui fu pubblicata la Idea of a Patriot King) nello spirito in cui repubblicanesimo e deismo avevano portato John Toland, in The Art of Governing by Partys del 1701, ad affermare che «divisions ought carefully to be avided in all good Governments, and a King can never lessen himself more than by heading of a Party; for thereby he becomes only the king of a faction, and ceases to be the common Fafher of his people» 16. Il costituzionalismo di Bolingbroke, nella ricerca di uno stabile allineamento del country party al Patriot King e parimenti di un definitivo riconoscimento da parte del Patriot King della identità “nazionale-popolare” del country party, si configurava come una sorta di dottrina del “padre comune”, chiamata a sostituire il “diritto divino” dell’assolutismo. Il che consente di comprendere come, nella sua interpretazione della storia d’Inghilterra, la divisione ad esempio fra churchmen e dissenters, a differenza di quella fra court e country, avesse un carattere “di principio”, riconducibile a ragioni non occasionali di divergenza. Spesso nella sua Dissertation sembra sentir risuonare l’eco anti-partiti del secolo precedente. Come quando, quasi alla Spinoza, si parla di giustizia morale “founded in reason” e di giustizia di partito che al contrario «takes its colour from the 15 H. Bolingbroke, The 16 J. Toland, The Art of
Works, cit., II, p. 401. Governing by Partys, London 1701, p. 41.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
passion of men, and is another name for injustice». Ma non per questo può dirsi che il suo atteggiamento sia una ripetizione – hobbesiana più che spinoziana – di altre precedenti chiusure ai partiti, dei quali egli è obbligato a riaccreditare la legittimità passata per poterne contestare la legittimità attuale. «I partiti – osserva Cotta – hanno acquistato troppa importanza nella vita pubblica, sono una realtà storica troppo evidente perché basti negarli in sede teorica. È nella storia e per mezzo della storia che bisogna criticarli e combatterli, e infatti Bolingbroke dedica la maggior parte della sua Dissertazione ad un esame storico dei partiti inglesi. Si tratta, com’è evidente, di un punto di vista di grande interesse, poiché pone finalmente il problema dei partiti sul piano concreto della storia» 17. In questo senso, accanto alla considerazione delle profonde implicazioni politiche dei movimenti religiosi che avevano attraversato il paese, Bolingbroke rilevava pure «sul piano concreto della storia» una continuità tory rispetto agli interessi terrieri ed una whig rispetto agli interessi finanziari. È vero che egli si sforzava di sfumare la portata ed il significato di siffatta diversa conformazione di rappresentatività politica – landed interest da un lato e moneyed interest da un altro lato –, pur ripetutamente affermando che soltanto ai proprietari terrieri «appartiene la nostra nave politica», mentre «gli uomini d’affari… non ne sono altro che i passeggeri», poiché non aggiungono nulla al patrimonio comune 18. 17 S. Cotta, La nascita dell’idea di partito, in «Il Mulino», Bologna 1959, pp. 459s. 18 Con assai maggiore finezza di accenti e di argomenti, Burke ancorerà alla «solida sostanza della terra» il radicarsi non solo di virtù sociali e morali più alte ma anche di più solide capacità politiche e di più robusti equilibri sociali. (cf. E. Burke, Reflections on the Revolution in France, tr. in Scritti politici, a cura di A. Martelloni, Torino 1963, pp. 201ss.).
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IV. Da Bolingbroke a Burke
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«Ma checché ne dica Bolingbroke – osserva ancora Cotta – il suo riconoscimento del fondamento economico di talune distinzioni politiche rimane per noi della maggior importanza oggettiva – destinato com’era a venir sviluppato in compiuta dottrina dal pensiero socialistico del secolo successivo – e costituisce una nuova prova del carattere reale della divisione in partiti. Gli sforzi stessi del nostro autore per minimizzare il valore di questa sua ammissione ci sembrano dimostrare come egli vedesse in tale distinzione, fondata su un contrasto di interessi economici, uno dei più seri ostacoli alla sua negazione teorica dei partiti» 19. Negazione teorica, nella quale comunque non era mai assente un preciso programma politico. Un programma, per ora, di opposizione e, per ora, di partito; ma con l’ambizione tutta illuministica di riportare, a più lunga scadenza, le istituzioni inglesi alla perduta perfetta geometria. «He did not plan his opposition party as the first in a long succession of opposition parties, nor did he mean to be only the first opponent of government with the deliberate intent not to make himself a hero of the constitution. His party was, on the contrary, planned as the last party, the party whose aim was to destroy every future excuse for party» 20. Non era per Bolingbroke la rispettabilità dell’opposizione a conferire rispettabilità al governo di partito. Ma viceversa era la illegittimità di quest’ultimo a rendere non solo tollerabile ma benemerita la volontà di opporvisi. Ideologia e politica del suo country party diventavano così quelle di un non party party: esso si opponeva, quale pa19 S. Cotta, La nascita 20 H.C. Mansfield jr.,
dell’idea di partito, cit., p. 464. Statesmanship and Party Government: a study of Burke and Bolingbroke, Chicago 1965, p. 11.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
triotic coalition, alla corruption del court party e del governo in carica, ed avrebbe necessariamente cessato di esistere al momento della ricostruzione di una national unity, capace di trasformare «the narrow spirit of party into a diffusive spirit of public benevolence», schierando «all persons into a Body… against the common Enemies of their Country, whether foreign or domestick». Il che si realizzerà con l’avvento di un Patriot King, che verrà a porsi alla guida «of his people in order to govern, or more properly to subdue all parties». Le cariche di governo non saranno allora più date in base all’influence ed alle divisioni di partito; il Re potrà fare ricorso liberamente ai men of ability, formando un grande ministero di coalizione nazionale, imperniato su un vasto tangibile “broad bottom”. E soprattutto verrà a cadere il presupposto del patronage, cioè il bisogno di un collegamento continuo fra esecutivo e legislativo nell’ambito stesso del parlamento, ripristinando una autentica divisione dei poteri. Divisione dei poteri che attribuisca precisi confini e «distinct privileges to the King, to the Lords and to the Commons», i quali, in tal modo, operando in una free constitution e sulla base di first good principles, non potranno non dar vita a una profonda armonia di azione, concord and unanimity. Puniti con l’impeachment i colpevoli di «enormous crimes», raccolti tutti i cittadini «together at once» in una libera, fraterna community, lo «spirit of the constitution» e la pubblica virtù saranno così forti da conciliare «all the great interest of the country» e garantire pertanto «all the ends of good government», e cioè «private security, public tranquillity, wealth, power and fame». Non era, quello di Bolingbroke, un richiamo di moralismo costituzionale, come sarebbe parso a Macaulay e ad
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IV. Da Bolingbroke a Burke
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altri 21. Era piuttosto il tentativo di cancellare ogni immagine di parzialità e di partigianeria nella ricerca dei consensi necessari ad una politica che rivendicava per sé, con tipico esclusivismo di “parte”, la nobiltà dei principi generali contro la viltà degli interessi particolari. Bolingbroke anticipava i “principi repubblicani” di Jefferson 22 assai più di quanto non sembrasse risuscitare la tradizionale condanna dei partiti per esigenze di bene comune. Il Republican party di Jefferson, infatti, si sarebbe rifatto ai principi del 1776 americano come il Country party di Bolingbroke a quelli del 1688 inglese, entrambi definendosi the last party: strumento transitorio, autorizzato dalla volontà del paese, per restituire le istituzioni al dettato dell’originario contratto. Sicché il country party può ben essere ascritto all’incedere della moderna idea di partito in questa sua aspirazione “di parte” ad esprimere “il tutto”, nonché per essere stato pensato, in senso avversativo ai grandi partiti inglesi del diciassettesimo secolo, come nuova dimensione e dislocazione della lotta politica. Nella sua visione storica e nella sua visione costituzionale, Bolingbroke rifiutò l’idea dei partiti; nondimeno ideologicamente e politicamente fondò l’idea di partito. «The first modern party – sostiene il Mansfield – was the party which regarded itself as the last party. Jefferson, the founder of party in America, who, unlike Bolingbroke, was able to 21 Cf. T. Babington Macaulay, Miscellaneous Works, Boston, VI, p. 326; D.A. Wiatanley, Personal and Party Government, Cambridge 1910, pp. 22s.; H.N. Fieldhouse, Bolingbroke and the idea of non-party government, cit., p. 50; K. Kluxen, Das Problem der politischen Opposition, Freiburg 1956, p. 111. 22 Cf. The Writings of Thomas Jefferson, ed. P.J. Ford, New York 1896, VII, pp. 333-373; VIII, pp. 7, 22; IX, pp. 387, 425. Su un piano più generale, cf. W.N. Chambers, Political Parties in a New Nation: The American Experience 1776-1809, Oxford 1963, pp. 106-112, 181-184.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
carry through a party program to organization and victory, also believed that the success of republican principles would conclude the possibilities of legitimate partisanship. The respectability, the praise-nay, even the incitement of partisanship, had its origin in the belief that parties can and should be abolished. When Bolingbroke’s party was conceived and formed in its separate divisions, the basis for the respectability of party was laid» 23. Ideata e formulata per riassorbire le divisioni scaturite dalla vicenda dei great parties, la dottrina del country party contribuiva – non diversamente dagli accomodamenti del patronage – a farne sbiadire la memoria, come avrebbe capito Burke nella sua critica all’impostazione bolingbrokeana. «Burke – aggiunge il Mansfield nella sua attenta comparazione fra Bolingbroke e Burke in tema di Statesmanship and Party Government – never tried to refute the traditional view of parties with respect to the great parties of the seventeenth century. Instead he argued for the possibility of reasonable and tolerable parties on the grounds that the great parties were gone beyond recall. If these parties were gone beyond recall, the reason was the success of the belief, propagated by Bolingbroke and others, that a society can and must be organized in a non-partisan way. The modern respectability of party has resulted from a heightened hostility to party in the sense of the great parties» 24. L’esito, paradossale ma incontestabile, della sfida di Bolingbroke alla dicotomia fra court e country fu quello di rafforzarla. Il suo country party era esso stesso per molti versi interno alla dinamica funzionale court e country, subentrata a 23 H.C. Mansfield jr., Statesmanship and Party Government…, cit., p. 113. 24 Ibid.
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IV. Da Bolingbroke a Burke
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quella fra i great parties, nella determinazione complessiva dell’indirizzo politico. Montesquieu, che nell’Esprit des Lois non fece esplicita menzione di tories e whigs, parve intuire tale dinamica funzionale e le sue implicazioni partitiche nella vita politica inglese, sottolineando il raggrupparsi des gens intorno all’uno o all’altro dei «deux pouvoirs visibles, la puissance legislative et l’executive». Al di là della loro instabilità e mutevolezza come schieramenti, court e country erano venuti ad assumere il ruolo di congegni essenziali del sistema, penetrando in profondità nelle sue strutture, “bipolarizzandolo” tecnicamente ed insieme idealmente. Quando, nell’ultimo trentennio del diciottesimo secolo, whigs e tories riemergeranno con programmi più precisi e più chiaramente differenziati, e con qualche segno di nuove articolazioni organizzative, dovranno per forza di cose raccordarsi alla dicotomia court - country e dentro il suo tracciato promuovere le nuove honourables connexions. Erano sì court e country aggregazioni composite e cangianti, poco omogenee e molto elastiche, anche a causa del vario flusso degli independent members. Tuttavia, ciò nonostante, presentavano ognuna nel suo background una saldatura di base, anche se variabile a seconda dei diversi momenti storici e della situazione politico-sociale, forgiata non solo da interessi economici, da vincoli familiari, dalla suggestion di un successful politician, bensì pure da orientamenti di principio. Miglior “scienziato politico” di Bolingbroke, lo avrebbe percepito Hume, il quale avrebbe classificato court e country come «a kind of mixed parties», legati nella loro formazione e nella loro ossatura sia a vincoli di interessi sia a distinzioni «from principle».
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
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2. HUME POLITOLOGO DEI PARTITI «Invece di asserire con assolutezza che l’influenza esercitata dalla corona sul parlamento è quale che ne sia il grado una violazione della libertà inglese, il country party dovrebbe fare delle concessioni ai propri avversari ed esaminare il grado di influenza oltre il quale essa diventa pericolosa alla libertà. Una simile moderazione non è però da aspettarsi in uomini di parte di nessuna specie» 25. Così David Hume nei suoi Essays prendeva le distanze dalla polemica di Bolingbroke, che nell’ossessiva denuncia di “corruzione” e “dipendenza” aveva creduto di poter racchiudere il fenomeno dell’influenza della corona sui membri del parlamento. Una influenza, «entro un certo grado e sotto una certa forma», per Hume, viceversa, inseparabile dalla stessa natura della costituzione inglese, così come l’influenza del senato e dei censori aveva costituito uno dei pesi regolari e costituzionali che avevano preservato l’equilibrio del governo romano. «Ci sono – sosteneva Hume – partiti di principio impliciti nella natura stessa della nostra costituzione, che possono con bastante proprietà esser denominati della Corte (courtparty) e del paese (country-party)… Oltre a questa differenza di principio, quei partiti sono però fomentati da una differenza di interesse… Perciò Court e Country, genuina prole del governo inglese, sono una specie di partiti misti e sono influenzati dal principio e dall’interesse. I capi delle fazioni sono ordinariamente guidati da quest’ultimo motivo, i loro membri inferiori dal primo» 26. 25 D. Hume, Antologia degli scritti politici, a cura di G. Giarrizzo, Bologna 1962, pp. 172s. 26 Ibid., p. 156.
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IV. Da Bolingbroke a Burke
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I due partiti, court-party e country-party, impersonavano i due principi, monarchico e repubblicano, insiti nella costituzione inglese. Una costituzione che aveva portato le forme politiche sempre più vicine alla struttura sociale dell’Inghilterra moderna e che quindi non era, come volevano i common lawyers e i whigs, antica quanto la nazione inglese, ma aveva altresì la stessa età della società postfeudale di cui traduceva sul piano politico le esigenze. Con tutte le precarietà e le fragilità dei suoi delicati equilibri – essi pure “misti”, “di principio” e “di interesse” – fra monarchia e repubblica, fra autorità e libertà. Un ordinato funzionamento della costituzione sembrava a Hume estremamente difficile. Esso era tale da non poter «non suscitare differenti opinioni anche tra le persone del miglior intelletto» 27; e quindi, oltre che incerto, in qualche misura sempre – ex parte monarchica o ex parte repubblicana – partitizzabile; in maniera per così dire fisiologica, non necessariamente patologica. Fino ad arrivare ad ammettere: «Abolire tutte le distinzioni di partito può non essere realizzabile, forse neppur desiderabile, in un regime libero» 28. Il problema, costituzionale e politico, era comunque quello di raggiungere una coalizione dei partiti: per «impedire ogni irragionevole insulto e trionfo dell’un partito sull’altro, incoraggiare opinioni moderate, trovare il giusto mezzo in tutte le dispute, persuadere ciascuno che il suo antagonista può essere talora nel giusto, e mantenere l’equilibrio nella lode e nel biasimo che dispensiamo dall’una parte e dall’altra» 29. 27 Ibid., 28 Ibid., 29 Ibid.,
p. 155. p. 162. p. 163.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
Il che, stando anche ad alcune pagine della sua History of Great Britain 30, Hume considerava un prodotto della «Gloriosa Rivoluzione». Essa aveva segnato sul terreno giuridico un efficace compromesso – un “giusto mezzo”, appunto – fra le diverse forze sociali e politiche in conflitto. Se dunque la costituzione non poteva abolire l’esistenza di quegli stessi partiti che avevano contribuito a realizzarla, ma poteva solo contemperare, senza eluderli, i vari interessi del corpo nazionale, i partiti dovevano a loro volta mostrarsi effettivamente capaci di convivere. Secondo moderazione, in spirito di coalizione, nell’incessante ricerca del “giusto mezzo”. E qui il richiamo era rivolto a tories e whigs, considerati entrambi, a pari titolo, «aggiunte accidentali ma naturali ai principi del court-party e del country-party, che sono le genuine divisioni del governo inglese» 31. Hume si discostava così dalla affermazione bolingbrokeana secondo cui ogni reale motivo di distinzione tra tories e whigs era scomparso con la Rivoluzione, e che da allora essi erano stati meri partiti personali, come i Guelfi e i Ghibellini dopo che gli imperatori ebbero perduto in Italia ogni autorità. E soprattutto rimuoveva la bolingbrokeana asserzione di incompatibilità tra costituzione ed esistenza dei partiti. Avendo fatto risalire la formazione del court-party e del country-party ad una diversità di “principi”, sulla quale peraltro si era innestata una diversità di “interessi”, Hume offriva un elemento di giustificazione costituzionale dei partiti e con esso un elemento di critica ad ogni loro esclusivismo. Poiché una distinzione di principi è coessenziale a qualsiasi governo, nel senso che «in ogni governo vi è una conti30 Cf. D. Hume, The Hislory of Great Britain, London 1970, pp. 154 e 170. 31 D. Hume, Antologia…, cit., p. 161.
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IV. Da Bolingbroke a Burke
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nua lotta intestina, aperta o nascosta, tra Autorità e Libertà, che non riescono mai, né l’una né l’altra, ad assicurarsi il predominio assoluto», la vita associativa e la dinamica stessa dello Stato avranno sempre una tendenza antinomica, di cui i partiti saranno i mezzi di concreta espressione. Ed era a questa riflessione di ordine generale che Hume faceva seguire una preoccupazione per gli antagonismi – esagerati – e per le animosità – esasperate – dei partiti del suo tempo. Per trasformare la vecchia lotta ispirata a rivalità personali in un pacato confronto politico che bandisse il ricorso alla guerra civile e facesse rispettare, nelle sue articolazioni e nelle sue antinomie, la struttura costituzionale dello Stato, occorreva si instaurasse e si diffondesse la convinzione di una necessità di “coesistenza” prima e di “coalizione” poi fra i partiti. Tanto più che, in tema di divergenze teoriche e pratiche, insisteva Hume, «nessuna delle parti è, sotto tali riguardi, così interamente sostenuta dalla ragione come essi cercano di persuadersi». Senza deformazioni o accentuazioni unilaterali alla Bolingbroke, non poteva del resto non riscontrarsi come tories e whigs a partire dalla rivoluzione del 1688 avessero trovato una certa base di convergenza, la quale non aveva eliminato i loro caratteri differenziali ma li aveva piuttosto equilibrati, nella logica di un costituzionalismo del “giusto mezzo”. Se da un lato Hume riconosceva che la camera dei comuni doveva funzionare come giusto “motore” del sistema, dall’altro lato vedeva nella ricchezza e nel potere concentrati nella corona un giusto “freno”. L’appello alle antiche costituzioni e alle antiche forme di governo per rivendicare innovazioni, vittimizzandosi di inesistenti prevaricazioni della corona a danno del parlamento, non aveva più senso. In questo Hume nulla accoglieva della mitologia “antichistica”, e addirittura “archeologica”, del costituzionalismo
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
inglese. Gli pareva «ridicolo sentire i Comuni che parlano di ridar vita ad antiche istituzioni, mentre assumono usurpandolo tutto il potere esecutivo. Non è noto che, sebbene i rappresentanti della Camera bassa ricevessero uno stipendio dai loro costituenti, farne parte era sempre considerato un onere e l’esserne esonerati un privilegio? Vogliamo forse convincerci che il potere, il quale di tutte le umane acquisizioni è la più desiderata, e al cui confronto persino reputazione e piacere e ricchezze son spregiate, possa esser mai ritenuto un onere?». La proprietà – notava Hume – «di recente acquisita dai Comuni, si dice, li intitola a maggior potere di quello goduto dai loro avi. Ma a cosa è dovuto questo aumento della loro proprietà se non ad un aumento della loro libertà e sicurezza? Riconosciamo perciò che i loro antenati, quando la Corona era frenata dai sediziosi baroni, godevano realmente di minor libertà di quanta essi non ne godano ora dopo che il sovrano ha guadagnato la partita; e godano con moderazione di questa libertà e non la mettano a repentaglio con nuove esorbitanti pretese e col far di essa un pretesto per infinite innovazioni» 32. La costituzione inglese non era per Hume la soluzione definitiva, o quella “oggettivamente” migliore, del rapporto autorità-libertà in una società civile. Consapevole dei suoi difetti, non meno che dei suoi pregi, egli non condivideva l’entusiasmo nutrito da Montesquieu in materia. E glielo avrebbe detto in una lettera del 10 aprile 1749, quando, dopo alcune osservazioni su L’Esprit des Lois, Hume concludeva: «Nos compatriotes sont fort vains de l’approbation que vous donnez à leur forme de gouvernement, dont ils sont, et avec quelque raison, si amoureux. Mais ne peut-on pas remarquer que, 32 Ibid.,
pp. 166s.
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IV. Da Bolingbroke a Burke
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si le formes simples de gouvernement sont par leur nature sujettes a l’abus parce qu’il n’y a aucun contrepoids, d’un autre côté les formes compliquées où une partie réprime l’autre, sont, comme les machines compliquées, sujettes à se déranger par le contraste et l’opposition des parties» 33. Sicché i partiti finivano con l’assurgere – nel bene e nel male – al ruolo di massimi responsabili della stabilità costituzionale dell’Inghilterra. Non senza una evidente contraddizione fra diagnosi e prognosi, Hume, dopo aver sottolineato tutti i fattori che avrebbero consentito o favorito la coesistenza competitiva dei partiti, non esitava ad affermare che il suo maggior desiderio sarebbe stato di vederli unirsi. La coesistenza doveva essere un primo passo verso l’abolizione delle “distinzioni di partito”, verso una loro fusione, considerata «la prospettiva più luminosa della città futura», che come tale «dovrebbe essere con ogni cura accarezzata e favorita da chiunque ama il proprio paese». Insomma, dopo aver ravvisato in ogni sistema di governo principi diversi, o addirittura opposti, da cui derivano partiti diversi, anche se non necessariamente opposti, era alquanto deludente che Hume finisse anch’egli con l’auspicare la scomparsa dei partiti. Un po’ alla maniera di Harrington, del resto esplicitamente confessato come proprio modello, Hume approdava all’utopia di un distaccato quietismo politico, proiettato fuori della storia, anticipatore della democrazia diretta di Bentham più che del liberalismo rappresentativo di Burke. Egli, osserva intelligentemente Giorgio Candeloro, «quando si lascia andare per un momento alla speranza di un progresso negli ordinamenti politici, abbandona il terreno della 33 The Letters of David Hume, edited by J.Y.T. Greig, Oxford 1932, vol. I, p. 138.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
realtà per entrare in quello dell’utopia. Che il grande scettico abbia ceduto alla tentazione di costruire uno Stato non deve far meraviglia. L’atteggiamento di Hume, se è anti-illuminista ed antirivoluzionario, non può, in ultima analisi, dirsi nemmeno conservatore. Infatti, se da un lato egli mette in luce in diverse occasioni, specialmente nella critica al contrattualismo, il valore della tradizione, dall’altro, svuota la tradizione stessa del suo contenuto e riduce la storia, come tutta la realtà, ad una successione di fenomeni contingenti» 34. Si direbbe quasi che Hume sia restato irrimediabilmente prigioniero del suo meccanico ideale di “giusto mezzo”, di quel senso profondo della medietas della storia umana, ed a maggior ragione della storia inglese: una sorta di certezza provvidenziale che alla società umana non sia dato mai permanere in estremi innaturali, o peggio essere esposta ad estremismi sovvertitori. Il che rende pienamente comprensibile la sua aspirazione ad una coalition of parties, figlia di un costituzionalismo vissuto e sentito come grande ideale di mediazione e di moderazione in un’Inghilterra che mediazione e moderazione doveva ritrovare. Gliene si può dare atto con le parole di Giuseppe Giarrizzo: «Egli aveva cercato di tenere, nel conflitto aspro di tesi, una posizione intermedia, convinto che questa medietas fosse naturalmente più vicina alla verità, e pertanto i risultati della sua indagine potessero costituire la base adeguata per quella coalition of parties, che ponendo fine agli scontri di fazione aprisse definitivamente il campo allo spirito della libertà e a un unitario sentimento nazionale. Si può considerare ingenua 34 G. Candeloro, Il pensiero politico di David Hume, in «Giornale critico della filosofia italiana», Firenze, anno XVIII, II serie, fascicolo VI, novembre-dicembre 1937, p. 421.
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IV. Da Bolingbroke a Burke
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la fiducia di Hume, ma occorre considerare che nella politica inglese da più di un secolo ormai la mitologia della costituzione aveva giuocato un ruolo non minore di quello di taluni dogmi religiosi: lo sforzo di Hume, su questo terreno, assume quindi il carattere proprio di tutta la sua azione culturale, distruggere miti e superstizioni quando hanno perduto la funzione positiva che li ha fatti sorgere e prosperare» 35. Ecco perché l’analisi di Hume è sempre tesa a mettere in luce il significato politico di tutto ciò che è particolare e contingente. Come appunto i partiti. Dove il suo aperto ed esplicito individualismo empirico gli consente una spregiudicatezza e finezza di analisi, a torto sottovalutate da Gunn 36 e a ragione sottolineate da Sartori 37 e da Plamenatz 38. Costituzionalista del giusto mezzo, egli non è impedito dal sentirsi anche politologo dei partiti, indagatore scrupoloso di questa malattia secolare di ogni forma di governo, che attecchisce spiccatamente nei governi liberi, e cui il costituzionalismo, essenzialmente in sede di assemblea legislativa, deve prestare tutte le sue cure di mediazione e di moderazione. «Quanto – scrive Hume nel suo saggio Of parties in general – legislatori e fondatori di Stati dovrebbero essere onorati e rispettati tra gli uomini, altrettanto dovrebbero i fondatori di sette e fazioni essere detestati e odiati, perché l’influenza della fazione è direttamente contraria all’influenza delle leggi. Le fazioni sovvertono il governo, rendono impotenti le leggi e generano le più violente avversioni tra gli uomini della stes35 G. Giarrizzo, David Hume politico e storico, Torino 1962, p. 272. 36 Cf. J.A.W. Gunn, Factions no more (Attitudes to Party in Government
and Opposition in Eighteenth-Century England), London 1971, p. 258. 37 Cf. G. Sartori, Parties and party systems, Cambridge 1976, pp. 7-9. 38 Cf. J. Plamenatz, Man and Society. A critical exammation of some important theories from Machiavelli to Marx, London 1963, I, pp. 299-324.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
sa nazione che dovrebbero prestarsi l’un l’altro reciproca assistenza e protezione. E quel che dovrebbe rendere ancor più odiosi i fondatori dei partiti è la difficoltà di estirpare queste male piante una volta che han preso radice in uno Stato. Esse si propagano naturalmente per molti secoli e di rado muoiono prima della totale dissoluzione del governo in cui vengono fuori. Sono inoltre piante che crescono in abbondanza nel suolo più fecondo, e benché i governi assoluti non ne siano del tutto liberi si deve confessare che nascono più facilmente e si diffondono con maggior rapidità nei governi liberi, dove infettano lo stesso organo legislativo che solo può essere in grado, attraverso una costante applicazione di compensi e pene, di sradicarli» 39. Come si vede, pur incentrando la sua vis polemica soprattutto sulle fazioni, egli non intende affatto stabilire una distinzione in favore dei partiti; i due termini gli appaiono sostanzialmente equivalenti, e come tali egli li adopera indifferentemente. È vero piuttosto che, pur continuando a respingerli, egli ne accetta la realtà, «per non dire fatalità», suggerisce Cotta 40. Il quale Cotta rileva pure come i due diversi atteggiamenti di Hume rispetto ai partiti – un giudizio di valore (del tipo: i partiti sono un male) e un giudizio di fatto (del tipo: i partiti sono una realtà storica) – vadano chiariti alla luce della sua filosofia generale. «Se con il primo – avverte Cotta – egli si adegua alla condanna tradizionale dei partiti, con il secondo riconosce la loro esistenza sul piano fenomenologico. Certo anche i pensatori precedenti avevano sempre ammesso la realtà di fatto dei partiti, ma ciò non aveva minimamente scalfito il peso della condanna morale da essi pronunziata, né lo 39 D. Hume, Antologia…, cit., pp. 149s. 40 S. Cotta, La nascita dell’idea di partito,
cit., p. 467.
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poteva, ché nel quadro di una concezione razionalistica l’esistenza di fatto nulla prova. Ma per Hume l’ammettere la realtà dei partiti, la loro natura di fatti, significava deferirne la spiegazione non già alla ragione e al suo processo deduttivo a priori, bensì all’esperienza, ciò che legittimava perfettamente da un punto di vista teoretico l’indagine volta ad esaminarli nella loro dimensione fenomenologica, in piena autonomia dal giudizio negativo di valore che anche Hume, come si è visto, su di essi pronunziava» 41. Proprio dall’esame dei partiti nella loro dimensione fenomenologica Hume è spinto a cercar di darne una tipologia, ricavandone classificazioni, e poi ulteriormente articolando tali classificazioni. Egli sente l’esigenza di sistematizzare l’osservazione empirica dei partiti, di farsene politologo in modo assai meno embrionale e frammentario di quanto non avesse fatto Bolingbroke. Ed è significativo che, in sede di ricognizione storica della politologia dei partiti, uno studioso come Sartori, più che addebitare ad Hume il limite di non avere terminologicamente distinto partiti e fazioni, si preoccupi di accreditargli il merito di avere per primo offerto alla scienza politica una efficace typology of partisanship, frutto di accorta ed autentica sensibilità politologica, senza concessioni al determinismo bolingbrokeano. «The reader – per Sartori – is somewhat baffied by Hume’s intermingling of party with faction, for Hume surely was less consistent than Bolingbroke in allocating the two words. It should be borne in mind, therefore, that Hume was classifying, and that the distinction between party and faction as drawn by Bolingbroke was insufficient for sustaining a 41 Ibid.,
p. 468.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
classification. If party also ends in faction, it appeared to Hume – presumably – that his typology had to be of any and all political group» 42. Di qui una tipologia tesa a classificare prima e a distinguere poi. Giusta, in questo senso, la considerazione di Luigi Bagolini, secondo cui «accade che in tema di partiti politici la loro classificazione, sul piano della psicologia speculativa humiana, non abbia soltanto un significato sistematico ma voglia soprattutto offrire una spiegazione delle possibilità del loro costituirsi e delle necessità umane che ne sono le condizioni determinanti» 43. Hume inizia col dividere i partiti in due grandi categorie: i partiti personali e i partiti reali. I primi – i partiti personali – derivano da contrasti particolari di persone o di famiglie e sono tipici del mondo medievale, di piccole dimensioni statuali, e Hume ricorda i Neri e i Bianchi a Firenze, i Fregosi e gli Adorni a Genova, i Colonna e gli Orsini a Roma. I secondi – i partiti reali – sono viceversa originati da una differenza reale di interessi o di sentimenti, per cui, pure quando sia venuta meno tale differenza, il contrasto che ne è sorto continua e si perpetua nelle diverse generazioni. Consentendo così alle divergenze reali di trasformarsi in divergenze anche personali. «Non v’ha nulla – osserva Hume – di più consueto che vedere dei partiti che han cominciato per un reale dissenso continuare anche dopo che quel dissenso sia risolto. Gli uomini, una volta arruolati dalle opposte parti, contraggono un certo attaccamento per le persone cui s’uniscono e dell’avversione per i loro antagonisti, e queste passioni spesso trasmet42 G. Sartori, Parties and party systems, cit., pp. 7s. 43 L. Bagolini, Esperienza giuridica e politica nel pensiero
di Hume, Sie-
na 1947, pp. 190s.
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tono alla posterità. Il reale motivo di dissenso tra Guelfi e Ghibellini in Italia era ormai svanito da un pezzo prima che queste fazioni si estinguessero. I Guelfi aderivano alla causa del Papa, i Ghibellini a quella dell’Imperatore; e tuttavia quando la famiglia degli Sforza, alleati dell’Imperatore, benché fossero Guelfi, fu espulsa da Milano dal re di Francia assistito da Jacopo Trivulzio e dai Ghibellini, il Papa diede a questi ultimi il proprio appoggio; ed essi fecero lega col Papa contro l’Imperatore» 44. Perciò, dal momento che caratteri personali e caratteri reali storicamente si intrecciano e si mescolano fra loro nei partiti, la corrispondente classificazione si risolve per Hume in una questione di prevalenza di tali rispettivi caratteri. Ed egli volge la sua attenzione soprattutto ai partiti reali, che gli paiono meritevoli di una ulteriore classificazione. Essi sono classificabili in tre specie, a seconda che sorgano e si perpetuino per interesse, per principio, per affetto. La prima specie – partiti di interesse – è per Hume di gran lunga la più naturale, e quindi la più giustificabile. Essa si fonda su differenze di classe o di categoria (order of men) – come quella esistente fra nobili e plebei, soldati e mercanti – le quali determinano ragionevoli e sopportabili divergenze d’interesse, che un governo «bene equilibrato e modellato» può, come già pensava Harrington, riuscire a conciliare. Fra «the landed part and the trading parf of the nation» la contrapposizione non doveva diventare frontale, né approfondirsi secondo certo manicheismo bolingbrokeano o secondo certo manicheismo whig. Pur convinto che la supremazia politica dovesse avere una base reale nella supremazia sociale, e che i singoli dovessero disporre di una propria fonte d’autori44 D.
Hume, Antologia…, cit., pp. 150s.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
tà e di prestigio (il che lo portava a preferire il landed interest rispetto al monied interest), Hume auspicava un’Inghilterra di individui economicamente autosufficienti e quindi effettivamente indipendenti, a prescindere dalle specifiche radici economiche e sociali di tale autosufficienza ed indipendenza. «In una società siffatta – nota Giarrizzo – i membri del parlamento sarebbero eletti da uomini indipendenti e ragionevoli, e non da masse agitate e turbolente, resterebbero indipendenti una volta in parlamento, poco docili agli inviti di corruzione della Corona e alle seduzioni di partito dei grandi, creerebbero infine la premessa reale per la coalizione dei partiti (per Hume il massimo raggiungimento liberale) che distruggerebbe la fazione personale e quella di principio (quest’ultima troppo simile all’ideologia religiosa per avere la simpatia di Hume tollerante e illuminista), lasciando in essere il solo partito naturale, quello dell’interesse, il quale consentirebbe raggruppamenti tra i più vari in risposta ai vari interests rappresentati in parlamento» 45. L’interesse assurgeva così per Hume a criterio ampiamente “ragionevole” e “scusabile” di comportamento politico. Anzi, da un punto di vista istituzionale, esso era l’unico fattore di aggregazioni parlamentari che non mortificasse l’indipendenza dei membri del parlamento. Solo una esorbitante dilatazione del debito pubblico avrebbe potuto in Inghilterra dividere insanabilmente proprietari terrieri e uomini d’affari 46. Nel senso che un debito 45 G. Giarrizzo, Introduzione, in D. Hume, Antologia…, cit., p. 13. 46 «C’è stato in Inghilterra un tentativo di dividere la nazione nelle
due parti dei proprietari terrieri e degli uomini d’affari, ma senza successo. Gli interessi di questi due corpi non sono realmente distinti e non lo saranno mai finché il debito pubblico non cresca ad un grado tale da diventare totalmente oppressivo e intollerabile» (D. Hume, Antologia…, cit., p. 152).
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pubblico crescente avrebbe offerto possibilità di speculazione sempre più larghe e profitti sempre maggiori al monied interest, i capitali non sarebbero quasi mai andati alla terra ma sarebbero stati quasi sempre investiti in titoli, il landed interest si sarebbe sempre più indebolito, e con la sua crisi sarebbe entrata in crisi la vera fonte di autorità indipendente, e quindi la reale indipendenza del parlamento. Al di là di questo drammatico scenario, che Hume riteneva avrebbe degradato la costituzione inglese in un dispotismo peggiore di quello orientale, gli interessi, e cioè i partiti di interesse, erano più o meno sempre conciliabili. Non così i principi, e quindi i partiti di principio. Di questi egli mette in luce la complessa novità di comportamento politico introdotta dalla loro apparizione. «Partiti per principio, specie un principio speculativo astratto, son noti solo ai tempi moderni, e son forse il fenomeno più straordinario e inesplicabile mai comparso negli affari umani» 47. Ecco perché, nell’ambito di questa seconda specie, Hume si preoccupa di distinguere ulteriormente i partiti basati su principi politici e quelli basati su principi religiosi. I primi gli sembrano comprensibili nella loro ragion d’essere, poiché i principi politici hanno inevitabili ripercussioni sulla condotta esteriore degli uomini, mentre i secondi gli appaiono una “follia”, perché i principi religiosi non dovrebbero determinare alcun “contrasto nell’azione”, visto che nel foro interiore ognuno dovrebbe seguire il suo credo senza interferire in quello altrui. «Due uomini – scrive Hume – che viaggiano su una grande arteria, l’uno verso est l’altro verso ovest, possono agevolmente passare l’uno accanto all’altro se la strada è larga abba47 Ibid.,
p. 152.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
stanza; ma due uomini che ragionano secondo opposti principi di religione non possono passare l’uno accanto all’altro senza urtarsi, per quanto si possa credere che anche in questo caso la strada fosse sufficientemente larga, e che ognuno potesse procedere senza interruzione nel proprio senso. Ma tale è la natura della mente umana che essa è spinta ad afferrarsi ad ogni mente che le si accosti; e come è mirabilmente fortificata da un’unanimità di sentimenti, è sconvolta e sconcertata da ogni opposizione. Da qui l’avidità con cui i più si impegnano in dispute: da qui l’insofferenza di opposizione, anche nelle opinioni più speculative e indifferenti» 48. Si sprigiona per Hume un deplorevole “spirito di partito” allorché il fatto religioso, per sua natura tutto e solo interiore, viene trasformato in programma d’azione politica. L’individuo stesso, diviso fra l’esigenza della più assoluta interiorità e l’esigenza della socialità, che lo porta a testimoniare, propagandare e persino imporre la propria fede, quasi che essa abbia bisogno di una verifica esterna, si trova sospinto a “far partito”. Con esasperato esclusivismo. Vale a dire, con esasperato individualismo. Come osserva Bagolini, «il contrasto dei principi nella lotta dei partiti politici non è generato dalla insuperabilità di mondi individuali fra loro indipendenti; alla sua radice c’è invece la stessa essenza intersubiettiva del mondo individuale» 49. Il che avviene anche nella terza specie di partiti reali delineata da Hume, i partiti per affetto. Essi si fondano su legami affettivi che ci fanno desiderare per motivi sentimentali di essere governati da un dato individuo o da una data famiglia. 48 Ibid. 49 L. Bagolini,
Esperienza giuridica e politica…, cit., p. 194.
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IV. Da Bolingbroke a Burke
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Hume ne pone in rilievo l’aspetto irrazionale. «Queste fazioni sono spesso molto violente, per quanto, debbo ammetterlo, possa apparire inspiegabile che degli uomini s’attacchino tanto fortemente a persone che non conoscono da vicino, e dalle quali non hanno mai ricevuto ne possono mai aspettarsi favore alcuno. Eppure spesso questo è il caso, ed anche con uomini che in altre occasioni non mostrano grande generosità di spirito ne sono facilmente trascinati dall’amicizia oltre il loro interesse» 50. Capita soprattutto che sia lo splendore del trono ad incantare tanti che sono ben lungi dall’avere rapporti diretti o interessi comuni con i sovrani 51. Agisce quello che Hume definisce un “interesse immaginario”, che non vuol dire interesse soltanto presunto e quindi vuoto di contenuto, ma che invece ha in sé quella particolare pregnanza psicologica propria per Hume della “immaginazione”. Oppure, quando non entra in gioco l’interesse immaginario, agisce quella parte della natura umana rivolta al perseguimento del piacere che l’individuo prova ad opporsi alle opinioni altrui per il solo fatto di essere contrastanti con le sue. Questa, in definitiva, la tipologia humiana dei partiti. Anche in essa, potrebbe dirsi utilizzando la prospettiva tracciata da Mario Corsi 52 a proposito dell’etica humiana, è fortissima la coscienza del valore della particolarità e singolarità affetti50 Nell’analisi dei partiti per affetto, le considerazioni di Hume tendono naturaliter ad abbandonare il terreno della filosofia, della storia, della politologia, per addentrarsi in quello della psicologia, con fortissimo spiccato “argomentare tecnico”. 51 «Chiunque abbia una sia pur piccola esperienza dei movimenti popolari monarchici non potrà negare la penetrazione psicologica della caratterizzazione qui data da Hume» (S. Cotta, La nascita dell’idea di partito, cit., p. 471). 52 Cf. M. Corsi, Natura e società in David Hume, Firenze 1953.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
va. I diversi tipi di partito restano legati alla immediatezza passionale degli uomini che li formano: «portare il cuore a ragione non può voler dire perdere l’istintività alienandola nella statica regolarità intellettiva» 53. Ed ecco perché quella di Hume si caratterizza più come una politologia degli uomini che agiscono nei partiti, anziché dei partiti come tali. Pur originati da un fatto positivo come le passioni, i partiti sono da Hume invariabilmente confinati sul piano dell’espressione individualistica. E non necessariamente della migliore. Dal momento che per Hume «gli uomini in genere sono più onesti nella loro privata capacità che da uomini pubblici e per servire un partito andrebbero molto più in là di quel che non vanno quando è in causa solo il loro privato interesse» 54. E ciò, evidentemente, era sufficiente a fargli accettare i partiti tutt’al più come conseguenza, ma mai come condizione, dei governi liberi. Nondimeno, vale la conclusione di Sartori, «there is, doubtlessly, a world of difference between viewing parties as de facto inevitables and the Burkeian view that parties are both respectable and an instrument of free government. Yet Hume provided some of the material on which Burke was to build his case. Hume’s typology not only allowed a more analytic understanding of the matter but provided – as any classification does by its very nature – stable elements on which to ground further reasoning. As a political writer, Hume was by no means profetic. His class of factions from political principle is still a far from what we shall come to call ideological parties; but it does provide a bridge across which the party will be perceived and conceived as a concrete group. Parties 53 Ibid., pp. XIs. 54 D. Hume, Antologia…,
cit., p. 170.
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IV. Da Bolingbroke a Burke
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outgrow factions because they are based not merely on interests, and not merely on affect, but also, and principally, on common principles. This is Burke. But Hume paved the way by indicating that the factions from principle were a new entity appearing on the scene of politics and that political principles had to be distinguished from religious principles» 55.
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3. LE ONOREVOLI CONNESSIONI La Idea of a Patriot King, da Bolingbroke concepita per la formazione politica del figlio di Giorgio II, Frederick, che invece non regnò mai, avrebbe influenzato, segnandone intensamente la figura intellettuale e politica, suo figlio, Giorgio III. Asceso al trono nel 1760, egli si mostrò deciso a reinserire, dopo più di mezzo secolo di assenteismo, o forse più pertinentemente di astensionismo, la monarchia nella contesa politica, tornando ad esercitare di nuovo le antiche prerogative della corona ed assegnando a se stesso il ruolo di patriot King, in grado di unificare «his people», al di là delle «party distinctions», servendosi di tutti gli «able men» ed effettuando una redistribuzione delle «functions of state by rofation». Di questa eliminazione dei gruppi politici, di questa avversione alle organizzazioni storicamente legittimatesi, di questa condanna, in quanto soprastrutture dannose allo stato sociale, dei ruoli istituzionali elaborati dal tempo, di questa esaltazione della condizione naturale contrapposta all’“artificio umano” della costruzione politica, Edmund Burke non avrebbe esitato a denunciare l’avventato e pretenzioso illuminismo. Del resto, una delle prime opere di Burke nel 1756, 55 G.
Sartori, Parties and party systems, cit., pp. 8s.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
cinque anni dopo la morte di lord Bolingbroke e due anni dopo l’edizione postuma dei suoi scritti, era stata proprio una spietata parodia, Vindication of Natural Society: or, a view of the miseries and evils arising to mankind from every species of artificial society, volta a svelare per assurdo le paradossali conseguenze del razionalismo applicato alla politica. Ed ora, posto di fronte al bolingbrokismo di Giorgio III, Burke, deliberatamente enfatizzandone la profondità 56, ne additava una minacciosa carica autoritaria, un duro carattere illiberale, un perverso spirito antitradizionale e pertanto – nella sua visione – anticostituzionale. La diretta relazione fra sovrano e popolo, vale a dire l’annullamento della dicotomia court-party e country-party, fondendo l’ideologia del secondo con il potere del primo, non solo avrebbe determinato per Burke una continua oscillazione fra dispotismo e anarchia, ma avrebbe finito con l’eliminare politicamente proprio il popolo, risolvendolo in una molteplicità di unità fra cui la connessione, quando non fosse quella estrinseca della forza, era puramente postulata. Insofferente al notabilato whig, per dar vita ad un country-party che apparisse emanazione diretta dell’unità nazionale, Giorgio III era sceso in campo in proprio. Avallando come “proprio” il raggruppamento di uomini a lui devoti, stretti attorno al suo favorito John Stuart, terzo conte di Bute, il re mirava a fondere un sistema di gabinetto dichiaratamente superpartitico, oltre che – a maggior ragione – antipartitico. Era l’opposto del gabinetto di maggioranza, che da Walpole in poi aveva assicurato il nesso politico fra governo e parlamento. Ne derivava una specie di “doppio gabinetto”: da un la56 Cf.
H.C. Mansfield jr., Statesmanship and Party Government…, cit.,
p. 30.
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to un governo de jure, responsabile di fronte al parlamento, ma senza reale potere; dall’altro un governo nascosto, che aveva la fiducia della corte ma era anche politicamente irresponsabile, il quale esercitava de facto tutti i poteri di un vero governo. La vecchia area whig veniva così a trovarsi di fronte a un bivio: transitare nelle fila – cortigiane – del nuovo schieramento di Bute, confondendo ed attenuando, fino ad annullarla, la propria fisionomia partitica, oppure cercar viceversa di rafforzare tale fisionomia per farla valere come irriducibile prerogativa parlamentare, e quindi “di governo”, della nazione: non della nazione tutta intera, né tutta unita, ma della nazione nelle sue connessioni, nelle sue aggregazioni, nelle sue divisioni. Ed è appunto quest’ultima la via indicata da Burke nei Thoughts on the Cause of the Present Discontent del 1770. Dei partiti Burke nei Thoughts difende la positiva funzione di cinghie di trasmissione fra il popolo e il parlamento, fra il parlamento e il governo, fra le loro reciproche sfere di responsabilità ed influenza, teorizzandone – nel passato, nel presente, nel futuro – l’ineliminabile necessità costituzionale contro il perfido disegno di «un’amministrazione senza rapporti col popolo, e senza connessioni tra i suoi stessi membri» 57. Il suo bersaglio è molto preciso: la pretesa dei King’s men di cancellare i partiti e rendere così impossibili le connessioni, l’idea di separare la corte dall’amministrazione, la tesi, tutta bolingbrokeana, che ogni measure possa essere valutata in se stessa, indipendentemente dagli interessi coinvolti e dagli schieramenti politici. «Il partito – denuncia sarcastico Burke – doveva essere abolito, e con esso tutti i suoi nefasti. La corruzione doveva es57 E. Burke, Pensieri sulla causa dell’attuale scontento, in Antologia dei costituzionalisti inglesi, a cura di N. Matteucci, Bologna 1962, p. 185.
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sere bandita dalla corte, come Atè dal paradiso. D’allora in poi il potere doveva essere l’eletta sede dello spirito pubblico, e nessuno doveva essere considerato sottoposto a influenze sinistre, tranne quelli che avevano la sfortuna di essere in disgrazia presso la corte, che doveva prendere il posto di tutti i vizi e di tutte le corruzioni. Era un progetto di perfezione da realizzarsi in una monarchia molto migliore della repubblica ideale di Platone. L’intero scenario era disposto in modo da accattivarsi quelle candide anime la cui credula moralità è un tesoro così inestimabile per gli astuti politicanti. Vi era davvero di che affascinare tutti, tranne quei pochi ai quali non piacciono molto le professioni di virtù sovrannaturali, che sanno come siano concepite tali professioni, a quali scopi siano dirette e in che cosa sempre finiscano. Molti ingenui gentiluomini, che avevano parlato in prosa per tutta la vita senza saperlo, finalmente cominciano ad aprire gli occhi sui propri meriti, e ad attribuire il fatto di non essere ministri del Tesoro e del Commercio già da molti anni unicamente al prevalere di un partito e al potere ministeriale, che avevano frustrato le buone intenzioni della corte in favore dei loro diritti. Era venuta l’ora di aprire la fontana sigillata della liberalità regia, che era stata indegnamente monopolizzata e barattata, e di lasciarla scorrere libera sull’intero popolo. Era venuta l’ora di riportare la dignità regale al suo primitivo splendore. Mettre le roi hors de page divenne una specie di parola d’ordine. Era sempre sulla bocca di tutti i galoppini della corte che nulla avrebbe salvato l’equilibrio della costituzione dall’essere rovesciato dalla plebaglia, o da una fazione della nobiltà, se non si liberava efficacemente il sovrano da quella tirannide con la quale era stata oppressa la dignità reale nella persona dell’avo di Sua Maestà» 58. 58 Ibid.,
p. 184.
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IV. Da Bolingbroke a Burke
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Ma era essa, fuor di sarcasmo, “tirannide”? O non lo era, piuttosto, quella che ad essa mirava a sostituirsi, rivendicando ad una fazione guidata dall’inclinazione privata di una corte il diritto di stabilire che tutte le connessioni fossero per la loro natura faziose? E dove erano, allora, pericoli di “tirannide” e attentati all’“equilibrio della costituzione”? L’unanimismo nazionale, decantato e invocato dai King’s men, altro non è per Burke che «un pavimento a mosaico senza cemento», sotto il cui disegno si nasconde l’antico proposito tory di restaurare la piena prerogativa reale, annullando il parlamento, disfacendo la nazione, sovvertendo la costituzione. Ecco perché i whigs che a questo proposito abbiano volontà e capacità di opporsi non saranno una fazione, che, con spirito ristretto, bigotto e fanatico, insegue l’interesse privato dei suoi membri, ma un partito: «a body of men united, for promoting by their joint endeavours the national interest, upon some particular principle in which they are all agreed». Fazioni e partiti, annuncia Sartori, non possono essere più confusi: sono diversi per definizione. «The argument no longer is that party always ends in faction but that in such a case a party is not a party. When Burke means faction, he says faction, when he means party, he says party» 59. Ed uno sviluppo della “faziosità”, non della “partiticità”, produrrebbe quello che egli chiama il «cant of Not men but measures». Gli uomini che pensano liberamente, spesso pensano diversamente. Di qui l’esigenza di non coltivare «an odium for political connections», ma viceversa di renderle, oltre che rispettabili, onorevoli, oltre che legittime, esplicite. In quanto esse «are essentially necessary for the full performance of our 59 G.
Sartori, Parties and party systems, cit., p. 9.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
public duty», anche nel senso delle ricompense, degli onori, delle risorse d’influenza, che ne derivano. Del resto, sostiene Burke, «the best patriots in the greatest commonwealth have always commended and promoted such connections». Le quali devono rimanere tradizione e costituzione d’Inghilterra. Dal momento che incarnano «una ragione migliore, in un paese e in un parlamento liberi, per appoggiare i ministri della corona, di quella pura e semplice: Che il Re ha considerato giusto nominarli. Questa è una ragione che si adduce da chi vuole amicarsi il Re. Ma è un principio gravido di tutti i generi di mali, in una costituzione come la nostra, sviare gli sguardi degli uomini attivi dal paese alla corte. Quale che sia la strada al potere, sarà quella la strada che verrà seguita. Ove l’opinione del paese divenga inutile come mezzo di potere o d’influenza, le qualità che generalmente procurano quell’opinione non saranno più coltivate» 60. Rispetto ad un costituzionalismo, tutto intriso di perfezionismo, come quello di Bolingbroke, si avverte in Burke il respiro di un costituzionalismo, viceversa, tutto intriso di storicismo 61. Nel primo, l’accento era posto esclusivamente sul momento dell’integrazione, escludendo il momento del conflitto, valutato come un fatto eccezionale. Ed ecco la visione statica, meccanicamente razionalizzante, dei processi costituzionali. Nella prospettiva rigida e formale della divisione dei poteri. Nella convinzione che il bene comune altro non fosse che la risultante senza residui della naturale confluenza al vertice degli interessi economici e politici. 60 E. Burke, Pensieri..., cit., p. 196. 61 Cf. F. Meinecke, Le origini dello storicismo,
Firenze 1954, pp. 217-228.
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IV. Da Bolingbroke a Burke
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Nel secondo, emerge invece il momento del conflitto politico, immanente entro certi limiti in ogni organismo sociale e strumento esso stesso di un processo di integrazione costituzionale, inteso non in maniera sommaria ed astratta ma nel vivo della sua effettiva articolazione. Ed ecco la centralità delle connessioni, che sono il terreno – sociale ma anche politico, politico ma anche giuridico – dove si svolge la dinamica costituzionale. Una dinamica costituzionale che deve realizzare un duplice controllo, del popolo sul parlamento e del parlamento sul governo. Trattandosi d’Inghilterra, il secondo costituzionalismo sembra forse “più vecchio” del primo, ma proprio per questo “più moderno”. Molto lontano dalla democrazia degli antichi, non tanto lontano dalla democrazia dei moderni. Il popolo di uno stato libero non deve per Burke lasciarsi reggere da «persone su cui non ha alcuna fiducia, e che nessuna prova di pubblico attaccamento e fiducia ha innalzato a quelle posizioni di potere, dal cui uso dipende l’esistenza stessa dello Stato. L’elezione popolare dei magistrati, e la facoltà popolare di disporre di ricompense e onori, sono tra i principali benefici d’uno Stato libero. Senza di esse, o di qualcosa d’equivalente, forse il popolo non può godere a lungo di una sostanziale libertà, e certamente per nulla dell’energia vivificante d’un buon governo. La costituzione del nostro Stato non ammette un tipo di elezione diretta quale il sopraddetto, ma provvede altrettanto bene, e (allorquando lo spirito della costituzione venga rispettato) addirittura meglio, a tutti i suoi scopi, che col metodo di suffragio in uso presso qualsiasi Stato democratico. Sempre, fino a qualche tempo fa, fu ritenuto primo dovere del parlamento rifiutare l’appoggio al governo finché il potere non fosse in mano a persone gradite al popolo, o mentre predominavano a corte fazioni che non godevano la fi-
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
ducia della nazione. In tal modo si credeva che tutti i buoni effetti dell’elezione popolare dovessero esserci assicurati, senza i danni derivanti dai perfetti intrighi e senza le sollecitazioni esercitate sul popolo al fine di ottenere ogni singola carica. Questa era la parte più nobile e ingegnosa della nostra costituzione. Al popolo, mediante i suoi rappresentanti e i suoi grandi, era affidato un potere deliberativo nel fare le leggi, al re la facoltà di porre il proprio veto. Al re era affidata la scelta deliberativa e la nomina del governo, il popolo aveva diritto al veto mediante un rifiuto parlamentare di appoggio. Anticamente, era questo potere di controllo che faceva temere ai ministri i Parlamenti, e ai Parlamenti rispettare il popolo. Se l’uso di questo potere di controllo sul sistema e sulle persone dell’amministrazione è scomparso, ogni cosa è perduta, parlamento e tutto il resto» 62. L’indipendenza della camera dei comuni consiste così nel far valere in seno ad essa una maggioranza parlamentare capace di trasformarsi in maggioranza governativa, per indirizzare la politica nazionale su obiettivi precisi. Tali maggioranze (e quella parlamentare e quella governativa), tali obiettivi (riconoscibili e controllabili), tali rapporti politici (fra uomini non meno che fra provvedimenti), possono scaturire solo da “onorevoli connessioni”: quelle che nei partiti e fra i partiti avvengono e che, tanto in termini individuali quanto in termini sociali, il costituzionalismo deve assicurare. Sicché in Burke sono le connessioni “di parte” (cioè di partito) a fondare la legittimità “del tutto” (cioè dello Stato), e quindi a determinare collaborazioni, o viceversa opposizioni, che non occultino, ma evidenzino, il retto sentimento politico dell’attaccamento alla propria parte. Alla filosofia 62 E.
Burke, Pensieri..., cit., pp. 194s.
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IV. Da Bolingbroke a Burke
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bolingbrokeana dell’armonia data, immediata, diretta, del sistema naturale, Burke 63 contrappone, senza concessioni a moralismi politici e costituzionali di nessun tipo, l’armonia come ideale penosamente perseguito, attraverso il difficile e non sempre rettilineo realizzarsi di connessioni: nel paese, in parlamento, al governo. Ha ragione Sartori quando definisce la connection come Burke’s key word 64. Ed ha ragione Matteucci quando sottolinea come, rispetto ad altri costituzionalismi, assai più intellettualistici ed assai meno politici, in Burke l’analisi istituzionale si sposti «dall’assemblea, luogo del consenso, al governo, luogo dell’esecuzione» 65. Burke critica, infatti, i ministeri non omogenei, disconnected, composti di individui non tenuti insieme da un denominatore comune. E ritiene indispensabile che l’administration, la cui azione, pur rispettando le attribuzioni della corona, deve essere affidata «at large, to the prudence and upperightness of ministers», sia «correspondant to its legislature». In tal modo il governo verrà a collegarsi ai «sentiments and opinions of the people», mentre, nel contempo, coordinandosi l’attività legislativa alla esplicazione dei discretionary powers, si eviterà quel mostruoso disordine nel dar corso all’indirizzo politico, che rende «government, in all its grand operations, languid, uncertain, ineffective» e perciò «odious and feeble». Ma qual è il meccanismo idoneo a realizzare una simile benefica corrispondenza, insomma una simile connection, fra 63 Cf. E. Garin, Introduzione alla dottrina politica di Burke, in «Civiltà Moderna», 1938, n. X, pp. 173-196, poi ricompreso ne L’illuminismo inglese. I moralisti, Milano 1942. 64 G. Sartori, Parties and party systems, cit., p. 9. 65 N. Matteucci, Introduzione, in Antologia dei costituzionalisti inglesi, cit., p. 29.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
esecutivo e legislativo? Questo meccanismo è per Burke il sistema dei partiti, i quali, adottando una struttura libera e articolata, dovrebbero essere in grado a suo parere di superare gli inconvenienti emersi al riguardo in alcuni momenti dell’esperienza inglese dell’epoca. Da un lato, cioè, il pericolo di un indiscriminato sostegno del parlamento a tutti i governi, che, conducendo in sostanza il parlamento a «partake in every considerale act of government», rende evanescente la responsabilità politica e fa venire meno l’«old office of control». Dall’altro lato, la cosiddetta onnipotenza parlamentare, e il distacco della Camera dei comuni dal popolo, che falsano egualmente il contenuto e i caratteri di quella funzione di controllo che è «the very end of Parliament». Si rinuncia, come si vede, a quella geometrica distinzione e contrapposizione fra esecutivo e legislativo, che Montesquieu e ancor più Delolme avevano divulgato in quegli anni per tutta l’Europa. E vi si rinuncia grazie all’idea dei partiti, che nel costituzionalismo di Burke contiene e sostiene l’idea della responsabilità politica, assicurando un attivo collegamento fra administration e legislature. Burke teorizza in dottrina politica quel che gli sembra la nuova opportunità costituzionale della situazione inglese al passaggio tra gli anni Settanta e Ottanta: il riemergere dei partiti, del loro peso e della loro identità, accanto al ritorno a discussioni su problemi generali di indirizzo politico e di motivazione ideologica 66. «La rivolta dei coloni – scrive Venturi – mutò il carattere stesso della lotta politica dentro e fuori del parlamento britannico. Se è vero che negli ultimi anni di Giorgio II la classe dirigente aveva preso la forma d’una elastica federa66 Cf. F. O’Gorman, The rise of party in England. The Rockingam whigs. 1760-82, London 1975.
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IV. Da Bolingbroke a Burke
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zione di gruppi familiari e locali, quale ce l’ha descritta Namier, non appena le scelte si fecero difficili e severe le conseguenze d’ogni decisione, la vita politica andò riorganizzandosi secondo le linee delle antiche divisioni tra whigs e tories, mentre andavano risvegliandosi nuove e più virulente passioni. La tradizionale diffidenza contro l’idea stessa di partito non cessò per questo, ma irresistibili si dimostrarono le esigenze d’una più stretta organizzazione dentro e fuori del parlamento, mentre più acceso divenne il dibattito ideologico» 67. E addirittura, come osserva Galizia, lo stesso Giorgio III paradossalmente «viene a dar vita a un’azione politica che in realtà contribuisce a rafforzare l’intero sistema dei partiti» 68. Burke lo intuisce e si dedica con grande vigore ad immettere il partito fra le concrete e operanti garanzie della libertà individuale e collettiva della nazione. Esso è espressione della libertà di pensiero e di associazione, momento di «life and energy of the state itself». Esso è condizione di una più articolata vita della comunità e consente di conciliare la variety della costituzione «in its unity». Esso rende effettiva la partecipazione politica del singolo: unendosi together, i cittadini diventano capaci di vera azione politica «with uniformity, perseverance, efficacy»; e così anche «the most inconsiderable man, by adding to the weight of the whole, has his value and his use». È il partito che conferisce forza e significato alla rappresentanza politica, promuovendo la «interposition of the body 67 F. Venturi, Settecento riformatore, IV, La caduta dell’Antico Regime (1776-1789), tomo I, Torino 1984, pp. 162s. 68 M. Galizia, Caratteri del regime parlamentare inglese del Settecento, cit., p. 2407.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
of the people itself» nello svolgimento dell’indirizzo politico, congiungendo, senza interruzioni, la responsabilità degli organi supremi ai «feelings of the nation». E quindi esso, mentre è luogo della vita spontanea della nazione, è al tempo stesso congegno della organizzazione statale, «inseparable from the government». Ribaltando le più diffuse impostazioni sull’argomento, Burke ritiene che il partito permetta di ridurre gli evidenti inconvenienti del patronage, dell’mfluence, dei placemen, mantenendo i vantaggi di questi istituti. In quanto esso sostituisce ad un «system of favoritism» una «honorable connection», ad una «interested struggle for place and emolument» una «generous contention for power», mossa e guidata da «leading general principles in government». Orientandosi su tali principles le varie «measures which arise in the cause of public business» possono venire deliberate con scelte adeguate, risolvendosi così la ricorrente polemica fra measures e men nel senso di attribuire la funzione di indirizzo politico a «these men because they supported these measures». È un tipo di governo politicamente rappresentativo ed istituzionalmente responsabile quello che Burke oppone alla concezione bolingbrokeana, e più in generale settecentesca, del governo come cervello meccanico che, in modo del tutto analogo a quello del giudice, deve stabilire un ponte fra le leggi ed i fatti. Ed è da tale nozione di governo che egli giudica inseparabile il ruolo dei partiti. Solo che così, secondo Sartori 69, dei partiti verrebbe privilegiata da Burke la funzione di dar luogo a connessioni “parlamentari” rispetto a quella di organizzare, anche fuori 69 Cf.
G. Sartori, Parties and party systems, cit., pp. 18-24.
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IV. Da Bolingbroke a Burke
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del parlamento, connessioni “elettorali”. Sicché, adoperando la terminologia di Tocqueville, il partito di Burke si configurerebbe a suo giudizio come schiettamente “aristocratico” (cioè rappresentativo della propria identità politica) anziché “democratico” (cioè rappresentativo della propria base elettorale). In effetti, Burke nutre la preoccupazione di salvaguardare “in alto” l’istanza di governo, nel suo svolgimento costituzionale, dal frammentarsi “in basso” della rappresentanza, nelle sue dimensioni sociali e geografiche. Ma questa preoccupazione non è specificamente riferita ai partiti, i quali restano sempre ben distinti e ben diversi dalle fazioni e dalle corporazioni. Rileggiamo le parole del celebre indirizzo rivolto nel 1774 agli elettori di Bristol: «…Il mio stimato collega afferma che la sua volontà ha da essere sottomessa alla vostra. Se questo fosse tutto, la cosa è innocente. Se governare fosse in ogni sua parte una questione di volontà, non è dubbio che la vostra dovrebbe essere superiore. Ma governare e far leggi sono questioni di ragione e di giudizio…; e che sorta di ragione sarebbe mai quella nella quale un gruppo di persone delibera e un altro decide…? Esprimere un’opinione è il diritto di ogni uomo, quella degli elettori è un’opinione che pesa e da rispettare, che un rappresentante deve essere sempre lieto di ascoltare, e che egli dovrà sempre soppesare con grande attenzione. Ma istruzioni imperative, mandati ai quali il membro [dei Comuni] deve espressamente e ciecamente obbedire, per i quali deve votare e in favore dei quali deve discutere…, queste sono cose del tutto sconosciute alle leggi di questa terra, e che derivano da un fondamentale errore sull’intero ordine e tenore della nostra costituzione. Il parlamento non è un congresso di ambasciatori di opposti e ostili interessi, interessi
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
che ciascuno deve tutelare, come agente e avvocato, contro altri agenti e avvocati, il parlamento è invece una assemblea deliberante, con un solo interesse, quello dell’intero, dove non dovrebbero essere di guida scopi e pregiudizi locali, ma il bene generale…» 70. A questa tesi, sempre saldissima, circa il ruolo di “governo” del parlamento (assemblea deliberante, appunto, e non congresso di ambasciatori), Burke non sembra venir meno quando insiste, come spesso gli capita di fare, su un piano “etico-civile” più che “politico-costituzionale”, sugli aspetti e sugli ambiti della rappresentanza da lui definita “virtuale”, considerata titolo di vanto del sistema inglese. «La rappresentanza virtuale – si legge in una sua lettera del 1792 a Sir Hercules Langrishe – è quella nella quale si dà una comunione di interessi, e una simpatia nei sentimenti e nei desideri, fra coloro che agiscono in nome di una qualsivoglia accezione del popolo, e il popolo nel cui nome agiscono, nonostante che i fiduciari non siano stati scelti effettivamente da quello… Questa rappresentanza è in molti casi, io penso, anche migliore di quella effettiva. Ne possiede gran parte dei vantaggi, e ne elimina molti degli inconvenienti. Tuttavia questo tipo di rappresentanza virtuale non può avere esistenza lunga e sicura, se non ha per substrato quella effettiva. Il deputato deve avere un qualche rapporto con l’elettorato» 71. In tal modo la rappresentanza virtuale non viene da Burke contrapposta a quella elettiva, ma destinata ad integrarla e completarla, senza pretendere di sostituirla. Ed i partiti politici gli sembrano combinare ed incanalare nelle giuste pro70 E. Burke, 71 Ibid., vol.
The Works, London 1834, vol. I, p. 180. I, p. 557.
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IV. Da Bolingbroke a Burke
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porzioni elementi di rappresentanza elettiva ed elementi di rappresentanza virtuale. Il che Sartori non condivide, ritenendo in Burke la rappresentanza virtuale predominante su quella elettiva, ed in tal senso i partiti slegati dalle procedure di conferimento della rappresentanza politica. «Parliament – ritiene Sartori – was conceived by Burke as a representative body, but the representation that was spoken of was virtual for more than electoral. In this view parties were not only extraneous to the representational process but inimical to it. Burke’s representative was not a delegate bound by the instructions of his electors. By the same token, Burke would have been horrified by party instructions and party discipline» 72. In verità, l’opinione di Sartori, soprattutto per quel che attiene a quest’ultima affermazione, non sembra pienamente accettabile. Più convincente al riguardo quella di Galizia 73, il quale non deduce che l’opposizione al mandato imperativo conduca Burke ad escludere la disciplina di partito, che anzi viene da lui configurata in termini piuttosto rigidi, come un potenziale consenso sui «leading general principles… nine times in ten», così da non rompere «concord, or disturb arrangement». L’importante è che questa disciplina si colleghi con una organizzazione della connessione politica che non sia tyrannical, che non riduca in servitù gli aderenti al partito, obbligandoli a seguire blindly le direttive del partito contro le «own clear ideas». Come in tutta la vita sociale, anche nell’azione dei partiti la vera libertà non può essere per Burke confusa con l’anar72 G. Sartori, Parties and party systems, cit., pp. 19s. 73 M. Galizia, Caratteri del regime parlamentare inglese
del Settecento,
cit., p. 2411.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
chia, la opportuna subordinazione con l’odiosa servitù. Nel suo liberalismo, la libertà deve essere «limited in order to be possessed». La costituzione non è, secondo la sua definizione, né un modello «visionary», né «a schema upon paper», né può essere compresa da una angolazione orientata, fuori della esperienza storica e sociale, «metaphisically or mathematically». La costituzione è attitudine «living, active, effective», essa si sviluppa storicamente come «a vestment which accommodates itself to the body», che racchiude «an idea of continuity which estends in time as well in numbers and in space». E poiché la costituzione non è «a single thing» ma piuttosto una «machine intricate as delicate», ogni visione unilaterale, bolingbrokeana o rousseauiana che sia, del popolo, del principio di maggioranza, della legge, del potere esecutivo, del potere giudiziario, è inevitabilmente fuorviante. Lo stesso «power of the people», anche se fondamentale, deve includere in sé l’esigenza di essere controllato attraverso congegni idonei per «checking popular excesses». Nessun tipo e nessun grado di rappresentatività può essere e sentirsi “corpo separato”. La rappresentanza è sempre contestualmente effettiva e virtuale. La corona, i Lords, i judges, i ministers sono tutti «trustees for the people» e hanno ciascuno un aspetto «of popular representative». In un armonico sistema costituzionale esiste un nucleo di rappresentatività di base che «belongs equally to all parts of government and in all forms». Del resto, il bene comune, l’one interest, che Burke mai avrebbe fatto coincidere con la semplice mediazione degli interessi particolari, andava pur connesso alla realtà di questi interessi. La rappresentanza politica, per essere tale, doveva mirare a comprenderli in modo efficace nella
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IV. Da Bolingbroke a Burke
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sua sfera. Ed i partiti servivano appunto a realizzare connessioni che non fossero soltanto delle mediazioni. Questa la modernità di Burke rispetto a Hume e a Bolingbroke 74. Analoga, in fondo, a quella di Kelsen, il quale, centocinquant’anni dopo Burke, avrebbe opposto alla Staatslehre germanica, portata a vedere nei partiti un elemento frantumatore dell’unità dello Stato, che «la moderna democrazia si fonda interamente sui partiti politici, la cui importanza è tanto maggiore, quanto maggiore applicazione trova il principio democratico» 75. Mutatis mutandis, Burke e Kelsen erano entrambi consapevoli del fatto che i processi di iniziativa politica non vengono promossi né attivati dalla sovranità popolare in sé e per sé, ed avevano entrambi compreso come fosse illusoria, e comunque perdente, tanto teoricamente quanto politicamente, l’ipotesi di escludere dal sistema rappresentativo i partiti, che ne erano viceversa l’irrinunciabile connessione di responsabilità. Non a caso Kelsen, come sarebbe piaciuto a Burke, ma certo non a Rousseau, avrebbe esplicitamente affermato: «la democrazia coincide con il liberalismo politico» 76. E potrebbe ricavarsene un’ulteriore considerazione, forse meno solenne ma forse più specifica, da ubicarsi nel vivo 74 «Bolingbroke and Hume saw the anticonstitutional menace coming from the divide et impera formula… Burke understood – and this was his genius – that since Parliament could not be a monolith, it was in a far better position to resist the crown if its members were connected, i.e., organized in honorable connections. The essence is, then, that with Burke the axis of the argument had rotated. Bolingbroke justified party only as the opposition (when necessary) of the country to the unconstitutional sovereign. Burke, instead, placed party within the realm of government, reconceiving it as a partition that no longer was between subjects and sovereign but among sovereigns (G. Sartori, Parties and party systems, cit., p. 10). 75 H. Kelsen, Democrazia e cultura, Bologna 1955, p. 23. 76 H. Kelsen, Teoria generale del Diritto e dello Stato, Milano 1952, p. 293.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
della miglior cultura liberaldemocratica italiana. Si tratta della considerazione del rapporto fra Burke e Minghetti. Incalzato dalle immagini e dalle vicende connesse ai «difetti che nascono quando lo spirito di parte, dalla politica si insinua nell’amministrazione, e nella giustizia civile e penale» 77, e teso ad indicare i “rimedi” di tali “difetti”, neppure allora, nel 1881, Minghetti si sentirà indotto ad escludere dal novero dei “suoi autori” Burke (e nella sua scia Ballo e Blünthscli). Minghetti ha ben chiara la prospettiva storica della moderna idea dei partiti. Sordi Voltaire e Rousseau, egli dice, «che diedero come il vangelo alla rivoluzione francese… in quel tempo il Burke fondava forse pel primo la teorica dei partiti…» 78. Una “teorica”, che anche in vista di successivi “difetti” e conseguenti “rimedi”, Minghetti insisteva a ritenere indissolubile dalla “teorica” del governo parlamentare 79.
77 M. Minghetti, I partiti politici e la pubblica amministrazione, (1881), a cura di B. Widmar, Bologna 1969, pp 62s. 78 Ibid., p. 71. 79 «…Ma intanto, se vogliamo esser pratici, fa mestieri considerare le cose quali sono al presente. Laddove è libertà di opinioni politiche, laddove la maggioranza decide le questioni, udita la discussione in contraddittorio, convien rassegnarsi ad avere un governo di partito…» (ibid., p. 91).
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V. Da Rousseau a Robespierre
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V. DA ROUSSEAU A ROBESPIERRE
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1. LA TOGA E LA FILOSOFIA «Faute d’un débat sur la gestion des hommes et des choses, la France est passée à la discussion des fins et des valeurs comme du seul contenu, et du seul fondement de l’activité publique» 1. Così, in termini che evocano Burke, viene delineata da François Furet l’occasione mancata della Rivoluzione francese, prima del suo “rousseauiano” dérapage nel “totalitarismo” giacobino. Questi termini, celebrativi-avversativi della tendenza anglofoba a «substituer le droit au fait, les principes à l’équilibre des intérêts et à l’application des moyens», vengono anche a riproporre, con ulteriore approfondimento della vicenda del Settecento francese, i vari passaggi politici, sociali, intellettuali, istituzionali, che scandiscono i fallimenti della tendenza anglofila a favorire l’alleanza fra thèse parlementaire e philosophie. Se c’è, insomma, un “rousseauiano” dérapage nel “totalitarismo” democratico, viene anche in luce come non vi fu, o comunque fu soccombente, un “montesquieuiano” décalage 1 F. Furet, Penser la Révolution française, Paris 1978, p. 58. (La citazione è tratta dall’estroso, eppur ormai classico, capitolo La Révolution française est terminée).
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
verso il costituzionalismo liberale. E quindi la Francia è stata lontana da Burke molto prima, e forse molto più di quanto Burke si sia sentito lontano dalla sua rivoluzione. La lotta politica nella Francia del XVIII secolo, ed anche, seppur in misura minore, salvo che per il periodo della Fronda, nel secolo precedente, non può che esser riportata al lungo, tenace, insolubile conflitto tra le corti “sovrane” e la “sovranità” del potere centrale 2. Un conflitto che per la sua stessa natura, oltre che per il suo concreto svolgimento, nulla poté avere di “inglese”. Nel senso che al groviglio di funzioni giudiziarie, amministrative, finanziarie – proprie dei parlamenti francesi – restò sempre estranea qualsiasi possibilità, o addirittura soltanto potenzialità, di rappresentanza politica. La voce Représentants pubblicata nel volume XIV dell’Encyclopédie, e cioè nel 1756, voce attribuita a d’Holbach ma che riflette sicuramente il pensiero di Diderot, pur sviluppando la tesi contrattualista e rappresentativa contro quella dell’assolutismo regio, polemizzando contro forme di rappresentanza in cui non fossero previsti meccanismi di rinnovamento a scadenze fisse, avrebbe avuto come bersaglio proprio i parlamenti 3. I quali non riuscirono a configurarsi come consessi rappresentativi delle forze nazionali neppure quando, una decina d’anni dopo, proprio dai loro ambienti furono messi in cir-
2 In proposito cf. soprattutto l’importante e documentata ricognizione di P. Alatri, Parlamenti e lotta politica nella Francia del ’700, Roma-Bari 1977. 3 «Nessun ordine di cittadini deve godere del diritto permanente di rappresentare la nazione; bisogna che nuove elezioni ricordino ai rappresentanti che da essa deriva il loro potere. Un corpo i cui membri godessero ininterrottamente del diritto di rappresentare lo Stato ne diverrebbe ben presto il padrone e il tiranno». (Cf. D. Diderot, Scritti politici, a cura di F. Diaz, Torino 1967, pp. 119s.).
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V. Da Rousseau a Robespierre
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colazione concetti e richiami tipici del costituzionalismo inglese, quali nazione, costituzione, diritti di legislazione. Ciò perché appariva, ed era, troppo equivoca la pretesa di promuovere il loro ruolo (ma non la loro composizione) in qualcosa di analogo al parlamento rappresentativo e, sia pur limitatamente, elettivo inglese, facendosi riconoscere organi di rappresentanza in luogo degli Stati generali. Limite invalicabile era che «questa pretesa veniva fatta discendere di rado (o per nulla affatto) dalle idee di rappresentanza generale del tempo, bensì, in primo luogo dalle funzioni giuridiche dei magistrats. Lo sguardo era in altre parole rivolto al passato, quando le corti di giustizia elevavano a fondamento di un diritto generale di rappresentanza le tradizionali funzioni di controllo del magistrato nell’ambito della propria giurisdizione» 4. Ed era evidente come non potessero crearsi stretti rapporti fra rappresentatività parlamentare, così rivendicata, ed illuminismo riformatore. «La magistratura – sintetizza Paolo Alatri – che in fondo rappresentava alle origini il fior fiore della borghesia francese, fu penetrata, tra la fine del XVII e il principio del XVIII secolo, da quella prima forma, più timida e limitata, di philosophie, che dalla metà del Settecento doveva portarsi su posizioni molto più avanzate e radicali. Ma quando quest’ultima attinse il suo pieno sviluppo, la toga, che nel frattempo si era integrata nella nobiltà, ne rimase solo molto scarsamente influenzata. Avendo ormai una salda posizione sociale e intenzionati a difendere o a restaurare privilegi e prerogative, i parlamentari non intendevano spingersi sul4 E. Hinrichs, «Giustizia» contro «amministrazione». Aspetti del conflitto politico interno al sistema nella crisi dell’ancien régime, in C. Capra (a cura di), La società francese dall’ancien régime alla Rivoluzione, Bologna 1982.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
la via della philosophie, che era diventata un’ideologia combattiva» 5. Ed ecco allora che, invece di assurgere ad onore ed onere della thèse parlementaire, la mediazione fra re e popolo divenne funzione della philosophie. Fino al punto in cui la toga e la corona, duellanti secolari, parvero insieme relegate ai margini della vicenda storica. Era lo scenario, tutto tocquevilliano, della famosa pagina de L’ancien régime et la Révolution française. «Quando il popolo vide cadere e sparire quel parlamento quasi contemporaneo della monarchia e che fino ad allora era sempre sembrato non meno incrollabile di essa, comprese vagamente che ci si avvicinava a quei tempi di violenza e di pericolo in cui tutto diventa possibile, in cui non vi sono cose tanto antiche da essere rispettabili, né tanto nuove da non poter essere sperimentate…». La incomunicabilità politica fra i parlamenti e l’ideologia riformatrice avevano determinato il naufragio di Turgot. Ed egli, da sempre vicinissimo ai philosophes, vittima di una recisa opposizione parlamentare (ovviamente, nel senso francese e non inglese dell’espressione) nell’esperienza di governo consumatasi fra il 1774 ed il 1776, ne avrebbe amaramente dedotto: «I magistrati hanno sempre cercato di presentarsi come i protettori del popolo contro la Corona, ma la Corona farebbe bene a smascherarli e a mostrarli quali realmente sono, corporazioni poco interessate al benessere delle masse» 6. Nella puntuale ricostruzione di Furio Diaz, con riferimento alla restaurazione dei parlamenti, che fu uno dei primi atti del regno di Luigi XVI, le forme in cui essa si svolse, le forze che la promossero, le conseguenze che i messieurs subito ne tras5 P. Alatri, Parlamenti e lotta politica nella Francia del ’700, cit., p. 79. 6 D. Dakin, Turgot and the Ancien Régime in France, London 1939.
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V. Da Rousseau a Robespierre
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sero non sembrano aver contribuito alle speranze progressive che avevano avuto la loro manifestazione più cospicua nella chiamata di Turgot al contrôle général. E, comunque, quello che avverrà in occasione dei sei editti presentati dal ministro economista e filosofo nel 1776, nel ribadire che la prova di forza tentata contro i parlamenti degli ultimi anni del regno del Bien Aimé era passata senza lasciare quasi traccia nella situazione politica e istituzionale della monarchia francese, dimostrerà ancora la repugnanza di questa alle possibilità del riformismo illuminato» 7. E parimenti, «la crisi del ministero Turgot è davvero l’espressione di tutta la crisi dello sforzo delle lumières per inserirsi nel vivo dell’azione politica» 8. Ed è interessante come proprio la caduta di Turgot abbia fatto cambiare opinione a Horace Walpole sul sistema politico e istituzionale francese e sui parlamenti. «Credo – ebbe a dire – che la resistenza del parlamento alle mirabili riforme progettate da Turgot e Malesherbes sia più freddamente scandalosa che la più dura tirannia del dispotismo» 9. E quindi, agli occhi di Walpole e dell’opinione inglese, la sconfitta di Turgot implicava, non senza accenti autocritici, una riconsiderazione delle esigenze di un governo più forte, libero dai condizionamenti di una troppo potente opposizione 10. In passato, come si è già avuto modo di notare, non era stato affatto unanime in Inghilterra il senso di superiorità per il proprio sistema di governo rispetto a quello francese. I 7
F. Diaz, Filosofia e politica nel Settecento francese, Torino 19732,
p. 470. 8 Ibid., p. 635. 9 Cf. A. Reimeringer,
L’opinion anglaise sur les institutions françaises au XVIII siècle, Paris 1938. 10 Cf. D. Jarret, The Begetters of Revolution. England’s Involvement with France, 1759-1789, London 1973, pp. 26 e 147-150.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
membri dell’opposizione in Inghilterra, così severi verso il loro parlamento e verso la corruzione che caratterizzava la vita politica del loro paese nel XVIII secolo, guardavano alla Francia con una malcelata punta d’invidia, perché al di là della Manica i partiti, considerati come i generatori di quella corruzione, non esistevano. E poi, con Bolingbroke negli anni ’30 e con John Brown negli anni ’50, si era diffusa in Inghilterra l’idea che di contro al “dilettantismo” che caratterizzava la struttura governativa e amministrativa britannica (con i suoi “giudici di pace” volontari e non retribuiti), la macchina dello Stato francese, con la sua classe di magistrati, presentasse un grado molto più elevato di “professionalità”, nonostante la venalità delle cariche. Un’idea, questa, cui verrebbe da opporre quanto sostenuto da Malesherbes, in una lettera del 27 luglio 1776 al barone di Breteuil: «Per quanto fossi magistrato, ho sempre pensato, come, credo, tutte le persone ragionevoli, che non si debba dare ai parlamenti un’influenza principale nell’amministrazione. Primo, perché questo corpo è composto di persone che non vi sono mai state iniziate, che non hanno mai fatto studi ad essa relativi e non ne hanno alcuna competenza. Secondo, perché la magistratura non è affatto, in Francia, un corpo scelto dalla nazione e da essa investita, e i nostri magistrati, al contrario, sono scelti in un solo ordine di cittadini e di conseguenza hanno un mucchio di pregiudizi e d’interessi contrari al vero bene dello Stato» 11. Al di là comunque di ogni considerazione in materia di “dilettantismo” e “professionalità”, l’opposizione dei parlamenti allo slancio riformatore di Turgot avrebbe minato anche in Inghilterra la credibilità del sistema francese. Un siste11 P.
Grosclaude, Malesherbes et son temps, Paris 1961, p. 139.
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V. Da Rousseau a Robespierre
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ma senza partiti, certo, ma anche senza sedi e possibilità di legittimazione istituzionale della rappresentanza politica. Ed è in questo senso significativo l’atteggiamento di Walpole. Così come è significativo, dopo Turgot, l’impegno di Necker, anch’esso vanificato dalla resistenza dei parlamenti, per una riforma dei corpi rappresentativi. Si trattava, nel suo progetto, di concedere a tutta la Francia, mediante l’istituzione di assemblee provinciali, le libertà locali fino allora godute dai soli Pays d’Etat. Per Necker, le corti sovrane non erano affatto, come pretendevano, dei corpi rappresentativi, e i loro membri, lungi dall’avere il diritto di parlare a nome della nazione, erano dei privilegiati che difendevano i loro privilegi; mentre le assemblee provinciali sarebbero state veramente rappresentative 12. Del resto, vent’anni dopo, nelle vesti di storico, dallo stesso Necker del conflitto tra il governo monarchico e i parlamenti si sarebbe colta con efficace schematismo la comune impotentia generandi in fatto di istituzioni rappresentative. Egli avrebbe definito in questi termini i due “sistemi” duellanti: «Il primo sistema, riunendo sotto la stessa autorità il potere esecutivo e il potere legislativo, presentava l’idea del dispotismo. Il secondo, sottoponendo tutte le disposizioni di ordine generale all’assenso di tredici Parlamenti, ciascuno dei quali deliberava a parte nell’ambito della propria giurisdizione, offriva un modello di confusione» 13. Dispotismo e confusione, dunque, questi i duellanti. E tra dispotismo e confusione, la philosophie non aveva molti margini per prospettare concretamente le condizioni e le connessioni politico-istituzionali di un pensiero riformatore, che 12 Cf. H. Grange, Les idées de Necker, Paris 13 J. Necker, De la Révolutìon française, vol.
1974, p. 384. I, 1796, p. 3.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
avesse alla sua base valori e procedure di rappresentanza, rappresentabilità, rappresentatività. Ed ecco perché la critica illuministica al potere costituito, suggeriscono Alatri ed Eugenio Di Rienzo, è apolitica, e volutamente superpartitica, caratterizzata dalla «rimozione di ogni concreto problema di organizzazione del potere, dato che la petizione di principio di un indefettibile avvento del futuro regno della morale esenta il movimento illuministico dalla ricerca di una nuova configurazione istituzionale e politica che, pure, si levava come necessità da più di un settore della nazione» 14. Se la comunione tra Etat royal e nazione – il grand mystère de la monarchie – presuppone, in qualche modo congenitamente, l’unanimismo della società, dove la stessa dialettica di passioni ed interessi contrastanti viene connotata negativamente con l’epiteto di factions, non si può affatto dire che la funzione politica della philosophie del XVIII secolo fosse in Francia antiunanimistica, e quindi anglofila, in grado di coniugare gli imperativi di rappresentatività con i congiuntivi di partiticità dell’azione politica. Tutt’altro. L’idea che il bene generale della nazione non debba essere contaminato dall’egoismo delle fazioni, idea-forza dell’anglofobia filo-assolutistica settecentesca, la si ritrova, ben poco modificata, in Voltaire, in Thomas 15, in Rousseau. La polemi14 P. Alatri - E. Di Rienzo, Istituzioni e partiti politici prima e dopo la Rivoluzione francese, in AA.VV., Il modello politico giacobino e le rivoluzioni, a cura di M.L. Salvadori e N. Tranfaglia, Firenze 1984, p. 40. 15 Cf. A.L. Thomas, Eloge de Sully, in Oeuvres complètes, Paris 1825, III, p. 99. (Nell’Eloge de Sully, pronunciato all’Académie française nel 1761, la tesi di Thomas di un’obbedienza passiva al potere, tipica di pensatori sei-settecenteschi come Spinoza e Bayle, conosce come alternativa la supplenza della philosophie ad ogni forma di partecipazione politica della nazione. Ovviamente, con la massima accentuazione del carattere radicalmente superpartitico di tale supplenza della philosophie).
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V. Da Rousseau a Robespierre
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ca francese contro i partiti inglesi è intensissima 16. L’equazione sistema partitico uguale corruzione, tipica dell’ideologia bolingbrokeana del country-party, è accolta da d’Holbach e da Mably 17; costituirà l’argomento principe con cui De Condorcet, nelle Idées sur le despotisme e nell’Essai sur la constitution des assemblées provinciales, rifiuterà implacabilmente le factions d’Angleterre 18; ed un’eco fortissima se ne avvertirà nelle Chaînes de l’esclavage del giacobino Marat e nel Testament politique d’Angleterre del girondino Brissot. Hanno ragione Alatri e Di Rienzo a riscontrare «la forte affinità che l’opposizione politica francese avvertiva tra il dispotismo ministeriale e la sovranità delle coteries della madrepatria da una parte, e, dall’altra, l’autocrazia del Gabinetto, delle lobbies economiche e dei gruppi di potere parlamentari inglesi. Motivo sufficiente a spingere il partito filosofico prima e poi quello patriota prerivoluzionario nella ideologia radicalmente antipartitica del country-party, fino a privare i progetti monarchico-costituzionali di un Malesherbes, di un Necker, di un Morellet di ogni riferimento alla dialettica parlamentare maggioranza-governo / minoranza-opposizione nella progettazione delle nuove assemblées des propriétaires» 19. L’aspirazione ad assemblee impermeabili alla valorizzazione partitica del gioco politico; la concezione dei partiti come società parziali, mero veicolo di interessi particolari, avulsi dal16 Cf. F. Acomb, Anglophobia in France (1763-1789), Durham 1950; G. Bonno, La constitution britannique devant l’opinion française de Montesquieu à Bonaparte, Paris 1931. 17 Cf. P.H. d’Holbach, La politique naturelle, 2 voll., Londres 1773, vol. II, p. 91; G.B. De Mably, Doutes sur l’ordre naturel des sociétés politiques, lettre X (tr. it. Scritti politici, Torino 1965, vol. II, pp. 173-187). 18 Cf. M.J.A. De Condorcet, Oeuvres, Paris 1847-1849, cap. VIII, pp. 156s., cap. IX, pp. 161-163. 19 P. Alatri - E. Di Rienzo, Istituzioni…, cit., p. 47.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
l’interesse generale, considerato come qualcosa di direttamente tangibile ed immediatamente verificabile; l’aspettativa di un itinerario – riformatore o rivoluzionario – che approdi ad un certo punto all’unanimità; sono aspirazioni, concezioni, aspettative, che non possono farsi risalire esclusivamente, o pregiudizialmente, alla filosofia di Rousseau. Nondimeno, essa occupa una propria imprescindibile “centralità”, di schieramento e di contenuti, che storicamente ha determinato, per usare la bella immagine di Anna Maria Battista, un “Rousseau dei giacobini”, cioè una lettura del Contratto Sociale tutta politica, addirittura pragmatica, che ne ha lasciato cadere la tematica pessimistica, intimistica, esistenziale, accentuandone viceversa la “grinta” ideologica di elemento propulsore di azione politica 20. Nella voce Economie politique, da lui scritta per l’Encyclopédie, Rousseau mostra già sui partiti idee precise ed esplicite: più hobbesiane che lockiane; molto alla Bolingbroke, e niente affatto alla Burke. «Toute société politique – egli dice – est composée d’autres sociétés plus petites, de differentes espèces doni chacune a ses intérêts et ses maximes; … … Ce sont toutes ces associations tacites ou formelles qui modifient de tant de manières les apparences de la volonté publique par l’influence de la leur. La volonté de ces sociétés particulières a toujours deux relations; pour les membres de l’association, c’est une volonté générale; pour la grande société, c’est une volonté particulière, qui très-souvent se trouve droite au premier égard, et vicieuse au second» 21. 20 Cf. A.M. Battista, Il Rousseau dei giacobini (introduzione metodologica), in «Trimestre», Pescara, anno X, n. 1-2, gennaio-giugno 1977, pp. 3-22. (Testo della relazione d’apertura ai lavori del convegno di studi su «Rousseau e la Rivoluzione francese», svoltosi il 26 maggio 1967 a Teramo). 21 J.J. Rousseau, voce Economie politique, in Encyclopédie, Genève 1778, t. XI, pp. 810s.
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V. Da Rousseau a Robespierre
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Nel Contratto Sociale il ragionamento viene completato, e diventa in qualche modo definitivo. Ai partiti Rousseau ascrive due maledizioni: quella procurata all’unità sociale e consistente nella sua disgregazione, e quella arrecata alla vita individuale e consistente nella sua oppressione. In un popolo che delibera, se i cittadini non avessero fra loro alcuna connessione, anzi addirittura alcuna comunicazione, dal gran numero delle piccole differenze immancabilmente scaturirebbe per Rousseau la volontà – se così può dirsi – della volontà generale: «sempre retta, pur se le deliberazioni del popolo non hanno sempre la stessa rettitudine». Ecco perché «quand il se fait de brigues, des associations partielles aux dépens de la grande, la volonté de chacune de ces associations devient générale par rapport à ses membres, et particulière par rapport à l’Etat: on peut dire alors qu’il n’y a plus autant de votants que d’hommes, mais seulement autant que d’associations. Les différences deviennent moins nombreuses et donnent un résultat moins général. Enfin quand une de ces associations est si grande qu’elle l’emporte sur toutes les autres, vous n’avez plus pour résultat une somme de petits différences mais une différence unique; alors il n’y a plus de volonté générale, et l’avis qui l’emporte n’est qu’un avis particulier. Il importe donc, pour avoir bien l’énoncé de la volonté générale, qu’il n’y ait pas de société partielle dans l’Etat, et que chacun citoyen n’opine que d’après lui» 22. Fra Stato e cittadini per Rousseau non devono esserci intermediari. La virtù consiste nella «conformité de la volonté particulière à la générale». Le garanzie della libertà stanno nell’impedire l’incunearsi, nella società e a maggior ragione nello Stato, di tirannie parziali che attentino all’integrità della libera 22 Contrat
Social, II, 3, Garnier, Paris 1960, pp. 252s.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
determinazione degli individui, così come tante tirannie parziali erano le corporazioni privilegiate dell’ancien régime. La libertà di pensare con la propria testa esclude la libertà di pensare a più teste. La varietà delle opinioni individuali, cioè di quelle différences che diventano meno numerose quando esistono le associazioni, si configura come una sorta di equazione matematica. Lo Stato non può consentire partiti. Fino a disegnare un nuovo volto di centralismo statuale, stavolta in funzione dell’atomismo sociale. La concezione centralistico-atomistica del giusnaturalismo, già delineata da Turgot, viene da Rousseau sviluppata e portata alle estreme conseguenze 23. Il popolo è messo al posto del sovrano illuminato fisiocratico. Gli interessi e i sentimenti “di parte” vengono indicati come i peggiori nemici dell’armonia sociale. Un po’ come per gli utilitaristi razionalisti, all’individuo tocca farsi strumento di propagazione dell’uniformità. Poi, alla fine del cammino, dopo una sempre più accorta eliminazione delle differenze e delle ineguaglianze, ci sarà l’unanimità. Con rigore liberale, mai disgiunto da sarcasmo antidemocratico e da furore antigiacobino, Jacob Talmon a proposito di Rousseau insinua: «Quanto più sono estreme le forme di sovranità popolare, quanto più democratica è la procedura, tanto più si può essere certi dell’unanimità… Il capo dei giacobini britannici, Horne Tooke, processato nel 1794, definiva il suo fine come un regime con parlamenti annuali, basati sul suffragio universale, con l’esclusione dei partiti politici e che votava all’unanimità» 24. 23 Cf. O. Gierke, Giovanni Althusius e lo sviluppo delle teorie politiche giusnaturalistiche, tr. di A. Giolitti, Torino 1943, pp. 194s. 24 J.L. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, Bologna 1967, pp. 68s.
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V. Da Rousseau a Robespierre
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Più misurato, ma anch’esso centrato in sostanza sullo stesso obiettivo, il giudizio di Salvatore Valitutti, che al pensiero di Rousseau attribuisce «lo scambio tra principi spirituali e forme istituzionali, onde gli accade di assegnare ai primi, in quanto materializzati in istituzioni, compiti organizzativi, e di riconoscere alle seconde, in quanto elevate a principi spirituali, poteri e virtù educative. La volontà generale, in quanto asserita come necessariamente retta, non può voler significare nel suo pensiero che una forma della vita spirituale, e precisamente la volontà morale, la quale soltanto cessa di esser tale cessando di esser retta, e che perciò o è retta o non è. Senonché la volontà generale, definita come la stessa volontà morale, si trasforma subito nel pensiero di Rousseau in un’entità politica, ond’egli ha necessità di render automatico – e a ciò servono i suoi schemi matematici – quel che è necessario solo idealmente» 25. Non si tratta qui, ovviamente, di inoltrarsi sul fin troppo accidentato e frastagliato terreno del “Rousseau dei professori” 26. Anzi, ci si vuole assolutamente tenere aggrappati al Rousseau dei giacobini, e nel nostro caso anche dei girondini. Ma senza esimersi dal rilevare come la filosofia rousseauiana eloquentemente, ed insistentemente, assieme alle corporazioni bandisca i partiti dalla propria città politica. Una città politica, fin dal 1789, costruita dalla Rivoluzione sulle fondamenta di questo bando speculativo. Nel senso di una dominante, ed in termini istituzionali determinante, ideologia bolingbrokeana del country-party, alla quale nessuno in Francia, diversamente da quanto aveva fatto Burke in Inghilterra, seppe contrapporre l’esigenza di “onorevoli connessioni”. 25 S. Valitutti, I partiti politici e la libertà, Roma 1966, p. 276 (cf. anche, per meglio intendere e collocare l’interpretazione di Valitutti, O. Vossler, Rousseaus Freiheitslehre, Göttingen 1963, pp. 245-250). 26 A.M. Battista, Il Rousseau dei giacobini…, cit., p. 15.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
Sarebbe stato come opporsi alla “volontà generale”. Ed in pari misura, alla autentica legittimità nazionale. Rousseau era stato davvero tassativo. La volontà generale è forse la somma algebrica delle volontà particolari o singole? Sì, se deliberano i singoli uomini; no, se i loro raggruppamenti. Con evidente e profonda separazione della “moralità” del popolo dalla immoralità dei partiti. Non tutto, è vero, si spiega con Rousseau. Ma tutto induce di doverne tener conto nel tirar la «somma di motivi certo difformi, ma che uniti insieme renderanno improponibile, anche a livello d’ipotesi storica retrospettiva, la costituzione, nell’Assemblea Nazionale, di quella maggioranza parlamentare e partitica di stampo whig che avrebbe assicurato la stabilizzazione dell’evento rivoluzionario» 27. Se ne accorgerà Mirabeau quando, nella seduta dell’Assemblea Nazionale del 7 novembre 1789, si discuterà la sua proposta di permettere la compatibilità tra mandato parlamentare ed incarico ministeriale. Sarebbe stato, nelle intenzioni di Mirabeau, il primo passo verso l’instaurazione di un governo di gabinetto, espressione della maggioranza di un partito. Ma la proposta sarà bocciata con larghissimo margine dopo l’intervento di un deputato bretone, Francois-Pierre Blin, il quale, citando prima il Contratto Sociale e poi le Lettres de Junius (uno dei libelli più significativi del nuovo radicalismo anglosassone, tutto in polemica con Burke), avrebbe affermato che lungo questa via si sarebbe giunti al dispotismo del governo, al sequestro della volontà dell’assemblea, al tramonto della libertà della nazione, allo scatenarsi dei partiti ed all’incatenamento dei francesi 28. Sono motivi e concetti che si 27 P. Alatri - E. Di Rienzo, Istituzioni…, cit., p. 47. 28 Cf. A. Saitta, Costituenti e Costituzioni della Francia
rivoluzionaria e
liberale (1789-1875), Milano 1975, pp. 186-189.
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V. Da Rousseau a Robespierre
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ritrovano, più o meno identici, corredati di analoghe citazioni rousseauiane, nelle prese di posizione antipartitiche di tutti gli uomini della Rivoluzione, da Brissot a Danton, da Robespierre a Saint-Just. Il che rende molto remota, e comunque poco convincente, l’idea di un Rousseau disposto ad ammettere un «futuro sviluppo dei partiti» 29. La storia, in questo caso figlia della filosofia, si sarebbe incaricata di negarlo completamente. Nel vuoto voluto dalla formula Stato-cittadino, senza connessioni intermedie, insieme al passato delle corporazioni la Francia avrebbe preso di mira proprio il futuro dei partiti. E poiché, per rifarsi a Maranini, «fra lo Stato e il cittadino, i due termini esclusivi fra i quali si dibatte il pensiero degli uomini della rivoluzione, in realtà stanno molte altre cose» 30, queste “molte altre cose”, che sono poi il farsi Stato di una società sviluppata e complessa, la filosofia finiva col demandarle ad una sorta di teologia. E non solo in termini intellettuali. Col suo nitido liberalismo, in un suggestivo profilo di Rousseau, Luigi Einaudi poté dire una volta: «Non il voto dei cittadini, ma il riconoscimento degli dèi afferma la volontà generale. Rousseau forse non prevedeva che la sua dottrina sarebbe stata feconda di effetti tanto gravi. A decine gli dèi sono comparsi ed hanno assunto l’ufficio di guide dei popoli. 29 «Si può dire quindi che Rousseau è avverso alle associazioni particolari o partiti in quanto questi sono simili alle corporazioni o gruppi intermedi dell’ancien régime, in quanto cioè costituiscono una sovrapposizione di volontà esterne e parziali alle volontà individuali: ma che, proprio con questa difesa della libertà individuale, ammette implicitamente un futuro sviluppo dei partiti… (M.A. Cattaneo, Il partito politico nel pensiero dell’illuminismo e della rivoluzione francese, Milano 1964, p. 40). 30 G. Maranini, Classe e Stato nella Rivoluzione francese, Firenze 1964, p. XIII.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
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Da Robespierre a Babeuf, da Buonarroti a Saint-Simon, da Fourier a Marx, da Mussolini a Hitler, da Lenin a Stalin, si sono succedute le guide ad insegnare ai popoli inconsapevoli quale era la volontà generale, che essi ignoravano, ma che una volta insegnata e riconosciuta, i popoli non potevano rifiutarsi di attuare» 31.
2. LE CORPORAZIONI DA SRADICARE All’indomani dell’abolizione dei diritti e dei privilegi feudali, avvenuta nella famosa notte del 4 agosto 1789, la legge Le Chapelier del 14 giugno 1791 si incaricava di vietare il ristabilimento su base volontaria delle associazioni di mestiere. «Il doit sans doute – si leggeva nella relazione di Le Chapelier – être permis à tous les citoyens de s’assembler; mais il ne dois pas être permis aux citoyens de certaines professions de s’assembler pour leurs prétendus intérêts communs. Il n’y a plus de corporations dans l’Etat: il n’y a plus que l’intérêt particulier de chaque individu, et l’intérêt général. Il n’est permis à personne d’inspirer aux citoyens un intérêt intermédiaire, de les séparer de la chose publique par un esprit de corporation» 32. L’anticorporativismo di Le Chapelier era quello di Rousseau. Il suo divieto traduceva in diritto scritto la filosofia del diritto che aveva fatto dire a Rousseau, nelle Considérations 31 L. Einaudi, Gian Giacomo Rousseau, le teorie della volontà generale e del partito guida e il compito degli universitari (discorso pronunciato all’Università di Basilea il 22 maggio 1956), dispensa quarta delle Prediche inutili, Torino 1957, p. 198. 32 Cf. La rivoluzione borghese contro le coalizioni operaie, in G. Maranini, La Rivoluzione francese nel «Moniteur», Milano 1962, p. 205.
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V. Da Rousseau a Robespierre
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sur le gouvernement de Pologne, «la loi qui n’est que l’expression de la volonté générale, est bien le résultat de tous les intérêts particuliers combinés et balancés par leur multitude; mais les intérêts de corps, faisant un poids trop considérable, rompraient l’équilibre, et ne doivent pas y entrer collectivement. Chaque individu doit avoir sa voix, nul corps, quel qu’il soit, n’en doit avoir une» 33. Nel principio per cui fra lo Stato e l’individuo nulla dovesse esserci, e nulla potesse inserirsi, la Rivoluzione francese lanciava la propria sfida tanto all’antico quanto al nuovo regime delle relazioni politiche. Mutavano i soggetti della politica, ma il loro reciproco atteggiarsi e svilupparsi veniva circoscritto, delimitato e definito in partenza. Se non dovevano più essere corporati, e quindi associazionisticamente corporativi, non per questo i nuovi soggetti della politica potevan pretendere di esser parti, e quindi associazionisticamente partitici. Anzi, gli uni non venivano neppur distinti dagli altri, perché su entrambi ricadeva una medesima interdizione: quella di essere comunque istituzioni esterne alla volontà generale, lesive del rapporto diretto ed immediato fra individuo e Stato. Da un lato l’individuo, e solo l’individuo. Dall’altro lato lo Stato, e solo lo Stato. Al di là della sua stessa importanza legislativa e del suo significato economico-sociale, la legge Le Chapelier diventava emblematica di un anticorporativismo inteso anche come antiassociazionismo, e parimenti di un individualismo inteso anche come statalismo. Nel classico saggio di Lucièn Febvre, Dallo Stato storico allo Stato vivente, pubblicato nel 1935, quale introduzione ai 33 J.J. Rousseau, Considérations sur le gouvernement de Pologne, ed. Garnier, Paris 1960, p. 368.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
due tomi sullo Stato della Encyclopédie Française, della legge Le Chapelier è ricordata proprio questa ispirazione. «Tra lo Stato e l’individuo non c’è nulla. Formula lapidaria. Una di quelle che si iscrivono sul frontone di un regime» 34. Il che è pienamente riferibile a come, oltre a Rousseau ed oltre a Robespierre, il quale a differenza di Marat 35 alla legge Le Chapelier non fu affatto avverso, pure Sieyès, grande artefice di quel “frontone”, avesse impostato nel 1789 la questione degli interessi parziali. Le volontà individuali, per Sieyès, erano i soli elementi costitutivi della nazione. Chiunque aspirasse ad affinità o solidarietà – di ceto, di professione, di idee – non comprese nella cittadinanza comune sarebbe stato nemico, al modo hobbesiano, di tutti gli altri cittadini. Di qui l’implacabile rifiuto di ogni spirito di corpo, di gruppo, di partito. Il suo era un liberalismo monolitico, ostile (non importa per quali e quante buone ragioni) al pluralismo. Il suo linguaggio era stato esplicito: «l’intérêt personnel n’est point à craindre; il est isolé. Chacun a le sien. La diversité est son véritable remède. La grande difficulté vient donc de l’intérêt par lequel un citoyen s’accorde avec quelques autres seulement. Celui-ci permet de se concerter, de se liguer; 34 L. Febvre, Dallo Stato storico allo Stato vivente, in AA.VV., Crisi dello Stato e storiografia contemporanea, a cura di R. Ruffilli, Bologna 1979, p. 80. 35 Marat avrebbe detto che i costituenti «ont enlevé à la classe innombrable des manoeuvres et des ouvriers le droit de s’assembler pour délibérer en règle sur leurs intérêts, sous pretexte que ces assemblées pourraient ressusciter les corporations qui ont été abolies. Il ne voulaient qu’isoler les citoyens, et les empêcher de s’occuper en commun de la chose publique. Ainsi c’est au moyen de quelques grossiers sophismes et de l’abus de quelques mots que les infâmes représentants de la nation l’ont dépouillée de ses droits (cf. «L’Ami du Peuple», 18 giugno 1791, in Marat-Textes Choisis, a cura di M. Vovelle, Paris 1963, p. 226).
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V. Da Rousseau a Robespierre
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par lui, se combinent les projets dangereux pour la communauté; par lui, se forment les ennemis publics les plus redoutables. L’histoire est pleine de cette triste vérité. Qu’on ne soit donc pas étonné si l’ordre social exige avec tant de rigueur de ne point laisser les simples citoyens se disposer en associations… Dans une Assemblée nationale, les intérêts particuliers doivent rester isolés, et le voeu de la pluralité doit y être toujours conforme au bien général» 36. Il pregiudizio sfavorevole, lessicale non meno che concettuale, nei confronti dei partiti scaturiva dalla condanna, tutta bolingbrokeana, della possibilità di accordi fra alcuni cittadini soltanto e dalla convinzione che in un’assemblea politica ad interessi ed opinioni particolari (vuoi perché “parziali”, vuoi perché “di parte”) altro non competesse che l’isolamento. E coerentemente con questo assunto Sieyès non temeva – ma viceversa auspicava – che misure di prevenzione anticorporativa agissero anche in veste di misure di prevenzione antiassociativa. Come, appunto, sarebbe risultato dalla legge Le Chapelier. Del resto, nello scarso dibattito che ne accompagnò l’emanazione, il collegamento fra anticorporativismo ed antiassociazionismo fu segnalato da due opposti punti di vista. Due punti di vista, per quanto antitetici, coincidenti nella violazione di quella abitudine del “galateo” legiferante, per cui nella redazione e discussione dei testi «pas tonte vérité est bonne à dire». Da un lato, un abate, non nominato dal «Moniteur», volle portare alle sue estreme conseguenze i principi della relazione e della formulazione di Le Chapelier, estendendo il divieto delle coalizioni operaie anche ai clubs politici. «Je de36
E. Sieyès, Qu’est-ce-que le tiers-état?, in Ecrits, ed. C.F. Cramer, pp.
443s.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
mande – egli disse – que l’article qui défend aux sociétés des personnes de la même profession de se donner des présidents et de prendre des delibérations, soit étendu à toute société quelconque (on murmure)…» 37. Dall’altro lato, Biauzat espresse, seppur timidamente, una opinione di ben diverso tenore. «…A la simple lecture qui vient d’être faite – osservò – je crois entrevoir quelque discordance entre l’article qui interdit des assemblées de personnes qui se trouveraient avoir la même profession, et les décrets constitutionnels sur la liberté de tenir des assemblées» 38. Questi due interventi, gli unici in seno all’assemblea, non furono raccolti e sviluppati in nessun emendamento; rapidissimamente nella stessa seduta fu messo ai voti e approvato l’articolato originario. Il che testimonia, e per così dire sancisce, quanto poco in quel momento la libertà d’associazione fosse al centro delle preoccupazioni costituzionali dei costituenti francesi 39. Sette giorni dopo, il 21 giugno, ci sarebbe stata la fuga del re a Varennes, ed un mese dopo, il 17 luglio, il massacro di Campo di Marte. L’incalzare degli avvenimenti, con tutto il suo scalpitare di sentimenti e di risentimenti, avvinceva la Francia più di ogni disquisizione di costituzionalismo. La legge Le Chapelier, che rimase sempre in vigore anche durante il governo del comitato di salute pubblica, esprimeva e sintetizzava la operosa ed operante saldatura fra liberismo, sul terreno economico-sociale, e statalismo, sul terreno politico ed istituzionale. Senza le esplicite crudezze, che sarebbero 37 Cf. «Moniteur» n. 166 del 15 giugno 1791, p. 688 (in G. Maranini, La rivoluzione…, cit., p. 208). 38 Ibid. 39 Cf. J. Godechot, Les Institutions de la France sous la Révolution et l’Empire, Paris 1951, p. 37.
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V. Da Rousseau a Robespierre
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piaciute all’abate, ma con le implicite interdizioni, paventate da Biauzat. «On ne visait sans doute – avrebbe detto Leon Duguit, critico comtiano dell’anticorporativismo rivoluzionario – que les associations professionelles; mais il y avait là certainement l’application de cette idée générale que l’association est contraire à la véritable liberté individuelle» 40. Tanto più che – a differenza della libertà di opinione o di manifestazione del pensiero (articoli 10 e 11) – la libertà d’associazione non era stata affatto menzionata nella Dichiarazione del 1789 fra i diritti naturali dell’uomo come tale, il solo in definitiva cui giusnaturalisticamente riconoscere rilievo e rango costituzionale. L’anticorporativismo non era per la Rivoluzione francese sullo stesso piano della libertà d’associazione. Era su un piano più alto, più sentito, più intenso, più significativo: da iscriversi, appunto, «sul frontone di un regime». Perché fosse chiaro che la «organizzazione corporativa della totalità» 41 era stata sradicata, e ne era invece stata instaurata l’organizzazione individualistica. Giustapposto, e addirittura contrapposto al 1688 inglese, il 1789 francese non riteneva che l’antidoto all’egoismo dei particolarismi potesse risiedere nella libertà di pluralismo. Il popolo di Rousseau e la nazione di Sieyès rifiutavano gli stessi intermediari. Di ieri, le corporazioni; di oggi e di domani, i partiti. Con identica, vibrante, anglofobia. Più hobbesiano che lockiano, il contrattualismo democratico di Rousseau. Più bolingbrokeano che burkiano, il liberalismo monolitico di Sieyès. La libertà di associazione aveva per
40 L.
Duguit, Traité de droit constitutionnel, 2ª ed., Paris 1925, t. V, pp.
615s. 41 L’espressione è di O. Hintze, Tipologia delle costituzioni per ceti in Occidente, in Stato e Società, Bologna 1980, p. 222.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
entrambi ben precisi limiti, quos ultra citraque nequit consistere rectum. E per rectum si doveva intendere l’irrinunciabile carattere monocratico del rapporto fra Stato e cittadino e quindi la garanzia “istituzionale ” che nulla vi si frapponesse. «Questo principio – avverte Paolo Pombeni – era rivoluzionario se lo riferiamo alla critica illuministica allo stato assoluto (ed in particolare alla teoria di Rousseau sulla volontà generale), ma aveva altresì un contenuto che venne poi accolto da tutti i sistemi: cioè l’idea che solo lo Stato fosse un sistema giuridico originario e che tutto il resto esistesse solo in funzione della sua concessione» 42. Come ebbe a notare Pietro Piovani, per lunghissimo tempo capitò che la legge Le Chapelier, per forza di cose e per forza di idee, venisse considerata «l’autentico atto di nascita dello Stato moderno» 43. O più precisamente, dell’«antico Stato moderno» 44, sulla base di tutta una serie di vicende storiche, sociali e politiche, che, come finemente argomentava già Piovani, vietano alla «scienza giuridica di considerare validi suoi antichi dogmi svuotati ormai della loro qualità etico-politica di miti». Nel 1791, la legge Le Chapelier era destinata a diventar dogma perché era soprattutto mito. L’ideologia rivoluzionaria non consentiva articolazioni di prospettiva. Quel che s’imponeva era un’unica ed unitaria fonte della rappresentanza politica, che esprimesse un unico ed unitario interesse comune, 42 P.
Pombeni, Introduzione alla storia dei partiti politici, Bologna 1985,
p. 56. 43 P. Piovani, Dommatica, teoria generale e filosofia del diritto, Atti del VI congresso nazionale di filosofia del diritto, in «Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto», anno XL, serie III, 1963, p. 58. 44 L. Ornaghi, Stato e Corporazione (Storia di una dottrina nella crisi del sistema politico contemporaneo), Milano 1984, p. 292.
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V. Da Rousseau a Robespierre
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nazionale e generale. E da questa fonte dovevano essere tenuti lontani due ben identificati cattivi esempi, la Francia delle corporazioni e l’Inghilterra dei partiti, portatori dello stesso tasso d’inquinamento sulla vita pubblica, evocato da Sieyès 45 non meno che da Condorcet 45bis, e quindi entrambi da seppellire nello storico antistoricismo della rivoluzione. «Il mito unitario della nazione-popolo – scrive Salvo Mastellone – fu alimentato tanto dall’ideale del mondo classico, inteso come esempio di virtù patria, quanto dalla polemica contro l’Inghilterra, la cui vita politica era dominata da due corrotti partiti politici aristocratici. La parola parti aveva, infatti, un significato peggiorativo, ed era troppo simile alla parola faction… La lotta politica all’interno dell’assemblea nazionale diede l’impressione che la nobiltà formasse un partito capace di mettere in pericolo l’opera di trasformazione delle strutture della Francia. Ogni partito avrebbe potuto ostacolare il corso degli eventi, perché negava il principio rivoluzionario della collettiva sovranità nazionale. Gli stessi organismi corporativi esistenti nella società di ancien régime avrebbero potuto costituirsi in centri di opposizione e, quindi, appoggiare le mene del partito controrivoluzionario. Da questo spi45 «Le gouvernement est en Angleterre le sujet d’un combat continuel entre le ministère et l’aristocratie de l’opposition. La nation et le roi y paraissent presque comme simples spectateurs. La politique du roi consiste à adopter toujours le parti le plus fort. La nation redoute également l’un et l’autre parti. Il faut, pour son salut, que le combat dure; elle soutient donc le plus faible, pour l’empêcher d’étre tout-à-fait écrasé» (E. Sieyès, Qu’est-ce-que le tiers-état?, cit., p. 376). 45bis «L’Angleterre est en général gouvernée par des partis, par des associations de gens accrédités, et ces partis conservent soigneusement le fanatisme comme un instrument dont chacun espère se servir à son tour; aussi à peine est-il attaqué par un d’eux, que les autres s’empressent de le protéger» (Condorcet, Idées sur le despotisme, in Oeuvres complètes, Paris 1804, t. XII, pp. 215s.).
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
rito generale scaturì la famosa legge Le Chapelier… Interesse del singolo e interesse collettivo dovevano incontrarsi, secondo la concezione democratica di Rousseau, senza passare attraverso organismi intermedi…» 46. Non era così possibile separare, o solo distinguere, polemica anticorporativa e polemica antipartitica. Il «mito unitario della nazione-popolo» le assorbiva tutte e due. Del resto, già in una lettera, letta alla Costituente nella seduta del 31 gennaio 1791, l’abate Raynal, celebrato autore della Histoire philosophique, aveva dettagliatamente ripreso l’originaria ideologia rivoluzionaria della rappresentanza politica. «Quelle sorte de gouvernement – domandava Raynal – pourrait résister à cette domination des clubs? Vous avez détruit les corporations, et la plus colossale de toutes les agrégations s’élève sur vos têtes, et menace de dissoudre tous les pouvoirs… Il est temps de faire cesser celle qui nous désole, d’arrêter les vengeances, les séditions et les émeutes, de nous rendre enfin la paix et la confiance. Pour arriver à ce but salutaire, vous n’avez qu’un moyen, et ce moyen serait, en révisant vos décrets, de révenir et de renforcer des pouvoirs affaiblis par leur dispersion; de confier au roi toute la forco nécessaire pour assurer la puissance des lois, de veiller surtout à la liberté des assemblées primaires, dont les factions ont éloigné tous les citoyens vertueux et sages. (On applaudit et l’on murmure)» 47. Come le corporazioni, dovevano essere sgominate pure le fazioni. L’atto di accusa contro i clubs si faceva forte dell’argomento anticorporativo. Non solo in Raynal. 46 S. Mastellone, Storia ideologica d’Europa da Sieyès a Marx, Firenze 1974, pp. 62s. 47 Cf. L’abate Raynal contro i clubs, in G. Maranini, La Rivoluzione…, cit., pp. 200s.
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V. Da Rousseau a Robespierre
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Il 29 settembre del 1791, Le Chapelier – coincidenza decisamente non fortuita – avrebbe presentato alla Costituente il rapporto del comitato per la costituzione volto a limitare la libertà di riunione. La Rivoluzione, nella persona dello stesso Le Chapelier, tornava di nuovo, con lo stesso spirito, a preoccuparsi di arginare quelle divisioni da cui era nata e che, proprio grazie ai clubs, le avevan dato espressione e vigore 48.
3. LE FAZIONI DA ESORCIZZARE Ancor più hobbesiano di Rousseau, Robespierre presumeva che il “popolo” ed i “nemici del popolo” fossero realtà direttamente riconoscibili, nitidamente visibili, geometricamente identificabili. Al “popolo” ed ai “nemici del popolo” egli naturaliter attribuiva, rispettivamente, il monopolio della virtù e il monopolio dei vizi. Rispetto al teorema hobbesiano, quello robespierriano era più moralistico che politico. Ma conteneva lo stesso “mostruoso” comandamento: il popolo doveva essere e sentirsi “Leviatano”, ed i nemici del popolo dovevan essere aggrediti come «vermi nell’intestino di un organismo sano». Addirittura, se con Hobbes eravamo ancora in sede di “terapia”, con Robespierre si avverte decisamente un’ansia di “chirurgia”. I partiti sono “nemici del popolo”, per definizione. In quanto fini a se stessi, essi sono mali in se stessi. Il loro sorgere, ancor prima del loro agire, è il male allo stato puro. La loro soppressione, o meglio la vigilanza del “popolo” volta ad impedirne l’istituzione, è il diritto-dovere fondamentale della Rivoluzione. Il che Robespierre avrebbe incessantemente ri48 Cf.
J. Godechot, Les Institutions de la France…, cit., p. 68.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
petuto, a proposito dei più disparati argomenti e nei più diversi momenti, nell’arco della sua ossessiva, metallica eppur passionale, invettiva contro le fazioni. «Si può quasi dire – ha notato Mario Cattaneo – che non vi è discorso o scritto di Robespierre in cui non sia contenuto un attacco, una frase polemica contro le fazioni» 49. Come se una pregiudiziale, dettata da motivazioni psicologiche e pedagogiche talmente forti da esser diventate in certo modo maniacali, inducesse il suo illuminismo ad anteporre, o comunque a frapporre, ad ogni considerazione “di merito” questa stentorea precisazione “di metodo”. Una specie di parola d’ordine, che garantisse della sua credibilità ed attestasse la sua virtù. Ma anche una specie di esorcismo, che tenesse lontano i vizi, dissipasse i sospetti e lo tenesse in comunione col “popolo”. Ad esempio, in uno dei suoi primi discorsi alla assemblea costituente, quello sulla libertà di stampa, da tanti punti di vista il più liberale di Robespierre, la massima estensione della libertà di stampa viene perorata come strumento della lotta contro le fazioni. Come è possibile, egli domanda, «dévoiler les desseins perfides de tous ces chefs de parti, qui s’apprêtent à déchirer le sein de la république» 50, se manca la libertà di stampa? Interrogativo, lo si percepisce nell’economia complessiva del discorso, che serve a Robespierre solo per porre in antitesi – morale – la libertà dei cittadini e quella dei partiti. Nel senso di una verità naturale, sopraordinata rispetto alle verità effettuali dell’azione politica. 49 M.A. Cattaneo, Il partito politico nel pensiero dell’illuminismo e della rivoluzione francese, cit., p. 88. 50 M. Robespierre, Discours sur la liberté de la presse, in Discours et Rapports, a cura di C. Vellay, Paris 1908, p. 35.
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V. Da Rousseau a Robespierre
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I partiti sono espressione di interesse particolare, di intrigo, di ambizione, di occultamento dell’interesse generale, di smembramento della sovranità popolare. Non è questione di fatto. È questione di principio. E Robespierre il suo esorcismo lo compie tutto sul piano dei principi. In un discorso al Club dei Giacobini del 27 aprile 1792, rispondendo agli attacchi di Brissot e di Guadet, egli afferma: «…Partout où j’aperçois l’ambition, l’intrigue, la ruse et le machiavélisme, jé reconnais une faction; et toute faction tend de sa nature à immoler l’intérêt général a l’intérêt particulier… je crois que sur les ruines de toutes les factions doivent s’élever la prospérité publique et la souveraineté nationale; …quels que soient le nombre et les menaces des différents partis, je les vois tous ligués contre l’égalité et contre la Constitution; ce n’est qu’après les avoir anéantis qu’ils se disputeront la puissance publique et la substance du peuple…» 51. Per il club di cui fa parte, egli del resto avrebbe preferito la denominazione di Société des Amis de la Constitution a quella di Giacobini. Ciò al fine «d’éviter d’adopter uniquement une dénomination qui fait naître sur le champ l’idée de corporation et même de faction, grâce aux calomnies dont nos ennemis ne cessent de nous honorer» 52. Preoccupazione tipicamente rousseauiana. Così come tipicamente rousseauiana è in Robespierre l’idea che la volontà generale scaturisca dal convincimento individuale di ciascuno, il quale deve ascoltare esclusivamente la propria coscienza, in un rapporto di cui tutelare la 51 M. Robespierre, Réponse aux discours de Brissot et de Guadet, in Discours et Rapports, cit., p. 172. 52 M. Robespierre, Oeuvres, a cura di G. Lefebvre e A. Soboul, Paris 1953, t. VIII, p. 207.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
singolarità ed impedire la pluralità. «Déjà – egli sostiene il 28 dicembre 1792 –, pour éterniser la discorde, pour se rendre maîtres des délibérations, on a imaginé de distinguer l’Assemblée en majorité et en minorité… Je ne connais point ici ni minorité ni majorité. La majorité n’est point permanente, parce qu’elle n’appartient à aucun parti; elle se renouvelle a chaque délibération libre, parce qu’elle appartient à la cause publique et à l’éternelle raison; et quand l’Assemblée reconnait une erreur, comme il arrive quelquefois, la minorité devient alors la majorité. La volonté générale ne se forme point dans les conciliabules ténébreux, ni autour des tables ministerielles. La minorité a partout un droit éternel, c’est celui de faire entendre la voix de la vérité, ou de ce qu’elle regarde comme telle» 53. Più che una concezione illiberale, la sua è una concezione moralistica, non politica, oltre che non partitica, del sistema rappresentativo. Sistema rappresentativo che, a differenza di Rousseau, Robespierre accetta, ma che, fedele a Rousseau, di continuo denuncia come congenitamente esposto al rischio di degenerare da istituzione a corporazione, da simbolo di libertà a strumento di dispotismo, da espressione di democrazia a segno di aristocrazia. La volontà generale, la volontà della vera maggioranza popolare, non può assimilarsi alla maggioranza o alla minoranza parlamentari, numericamente e partiticamente considerate. La maggioranza, nel senso morale più che politico del termine, sarebbe stata là dove risiede la vera volontà generale, anche se espressa da una minoranza numerica. Con evidente – voluto – discredito politico del sistema rappresentativo. 53 M. Robespierre, Second discours sur le jugement de Louis Capet, in Discours et Rapports, cit., p. 242.
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V. Da Rousseau a Robespierre
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«Je n’aime point – aveva detto Robespierre alla Costituente, quando aveva proposto la non rielezione nell’Assemblea legislativa dei membri della Costituente – cette science nouvelle qu’on appelle la tactique des grandes assemblées: elle ressemble trop à l’intrigue; la vérité et la raison doivent seules régner dans les assemblées législatives» 54. Quasi a dire che l’indipendenza e la sovranità di un’assemblea, anche eletta su libero scrutinio, andavano comunque sottoposte al controllo del “popolo” e alla sua diretta inalienabile ispezione e vigilanza contro i “nemici del popolo”. Robespierre, osserva Talmon, «sognava una sala di assemblea con una tribuna riservata al pubblico abbastanza vasta per contenere dodicimila spettatori. Sotto gli occhi di una così larga rappresentanza del popolo, nessun deputato avrebbe osato difendere interessi antipopolari. Da una parte, Robespierre insisteva che ogni ostacolo posto sulla strada del popolo in una libera scelta dei rappresentanti era inutile, dannoso e pericoloso. Dall’altra, egli approvava vivamente ogni norma che fosse deliberata per proteggere il popolo dalle disgrazie di una cattiva scelta e dalla corruzione dei suoi deputati» 55. I quali, come rileva Sartori in Democrazia e definizioni, erano da lui definiti «mandatari del popolo» e non «rappresentanti del popolo» 56. Proprio per non conferir loro, neppure lessicalmente, alcun margine di «dispotismo rappresentativo». Per sancire, ancor più rousseauianamente che nella democrazia diretta di Rousseau, se così può dirsi, che vi è un solo tribuno del popolo ammissibile ed accettabile: il popolo stesso. 54 M. Robespierre, Discours sur la réélection de l’assemblée nationale, in Discours et Rapports, cit., p. 48. 55 J.L. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, cit., p. 138. 56 G. Sartori, Democrazia e definizioni, Bologna 1972, p. 147.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
Di qui la sua «estrema sfiducia verso il potere esecutivo» 57. Di qui la sua ricorrente preoccupazione di veder delinearsi alleanze, o peggio connessioni, fra legislativo ed esecutivo, nella logica di un governo dipendente dalla maggioranza dell’assemblea, che operi in stretto contatto con il partito maggioritario e sia da questo sostenuto. Di qui, in definitiva, la sua invettiva contro il sistema inglese. Invettiva tutta incentrata sulla perfida collusione fra poteri rivali ai danni del popolo, con conseguente disattivazione partitica della sovranità. Se nel discorso tenuto alla Convenzione il 10 maggio 1793 sulla Costituzione, Robespierre, per smascherare le lusinghe dell’equilibrio dei poteri, non esita a parlare della Gran Bretagna come della terra dove «l’or et le pouvoir du monarque font constamment pencher la balance du même côté; où le parti de l’opposition même ne paraît solliciter, de temps en temps, la réforme de la représentation nationale, que pour l’éloigner, de concert avec la majorité qu’elle semble combattre» 58, nel discorso in risposta al manifesto dei regnanti coalizzati contro la repubblica, tenuto alla Convenzione il 5 dicembre 1793, andrà ancora più in là. «Vous avez – egli esclama, inorridito dalle implicazioni partitiche della lotta politica inglese – un parti d’opposition. Chez vous le patriotisme s’oppose; la majorité est donc corrompue. Peuple insolent et vil, ta prétendue représentation est vénale sous tes yeux et de ton aveu… les talents de tes députés sont un objet d’industrie» 59. Quanto al famoso discorso dell’8 termidoro, anch’esso avrà come bersaglio le fazioni. Robespierre vuole allontanare 57 M.A. Cattaneo, Libertà e virtù nel pensiero politico di Robespierre, Milano 1968, p. 90. 58 M. Robespierre, Discours sur la Constitution, in Discours et Rapports, cit., p. 261. 59 Ibid., p. 309.
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V. Da Rousseau a Robespierre
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dalla propria immagine di rivoluzionario ogni raccordo che non sia, o non sia stato, quello di genuino protagonista dell’autoespressione del popolo. La polemica contro le fazioni gli serve a congiungere entrambi i volti che può assumere l’azione diretta del popolo. Ora, la valanga che supera tutti gli ostacoli, che travolge tutto quello che incontra sulla sua strada, e che è legittimata ad aggirare ogni “legalità” e perfino ad operare con “crudeltà”. Ora, il modesto, magnanimo ed umano, depositario di tutte le virtù, forgiato alla scuola del dolore e dell’umiliazione. La repubblica, egli ricostruisce, ha trovato continuamente la potenza delle fazioni organizzata intorno a sé, per cui fin dalla nascita è stata perseguitata nelle persone dei suoi uomini di buona fede. I capi delle fazioni e i loro agenti si sono annidati nelle forme e nelle istituzioni della repubblica, mimetizzando al suo interno il loro intatto spirito di consorteria 60. E qual è, viceversa, egli si chiede, «la faction à qui j’appartiens? C’est vous-même. Quelle est cette faction qui, depuis le commencement de la révolution, a terrassé les factions, a fait disparaître tant de traîtres accrédités? C’est vous, c’est le peuple, ce sont les principes. Voilà la faction à laquelle je suis voué, et contre laquelle tous les crimes sont ligués» 61. La Rivoluzione non può ammainare il proprio vessillo antipartitico, che la caratterizza come la prima rivoluzione concepita ed attuata non soltanto per conseguire una diversa distribuzione del potere, ma per imporre la virtù. «Je ne connais – dichiara Robespierre – que deux partis, celui des bons et des mauvais citoyens» 62. 60 Cf. A. Mathiez, Etudes sur Robespierre, Paris 1958, p. 240. 61 M. Robespierre, Discours du 8 Thermidor, in Discours et Rapports, cit.,
p. 397. 62 Ibid.,
p. 391.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
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Una maniera, tutta moralistica, di rifiutare ai partiti ogni partecipazione alla formazione della volontà generale. Anche per Robespierre, come per Rousseau, essa doveva sovranamente eliminare corporazioni, fazioni, partiti. Senza distinzioni. Senza rimorsi, e se necessario senza pietà. In definitiva, ne avrebbe tocquevillianamente dedotto Furet, giacobinismo ed assolutismo si inseguivano e si incrociavano come «deux images symétriques et inverses d’un pouvoir sans partage» 63.
63 F.
Furet, Penser la Révolution française, cit., p. 60.
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VI. L’avversione ai partiti
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VI. L’AVVERSIONE AI PARTITI
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1. RESPONSABILITÀ POLITICA E VOLONTÀ GENERALE Il partito è il moderno centro di imputazione della responsabilità politica: vale a dire il soggetto “presente a rispondere”, al di là di ogni formalismo, del mantenimento o della trasformazione della società politica. Questa, schematizzata ma non forzata, la tesi sostenuta nel 1981 a Pavia da Vittorio Frosini, relatore al congresso della Società Italiana di filosofia giuridica e politica. Il tratto fisionomico distintivo del partito, per Frosini, «è dato dalla seguente caratteristica: che il partito politico è composto da governanti e da governanti insieme, e perciò partecipa dei poteri degli uni e degli obblighi degli altri verso lo Stato, ma – ed è questo il punto decisivo, vorrei dire fulminante – esso si presenta al contempo come una parte e come un tutto, come un universo politico concluso» 1. Di qui l’inevitabile venir meno nel rapporto fra i partiti, quindi nel concreto esercizio di responsabilità politica, di un interesse collettivo superiore, il fatidico bene comune, kelsenianamente rubricato fra le «locuzioni oscure della metafisica sociale o metapolitica». Ed ecco anche l’inevitabile prevalere, 1 V. Frosini, La responsabilità politica, Atti del XIII congresso nazionale della Società Italiana di filosofia giuridica e politica, Milano 1982, p. 25.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
spesso esplicitamente dichiarato, del senso dell’appartenenza a un partito su quello di immedesimazione nello Stato. Si direbbe, alla luce di questo moderno intendere attribuzioni e prerogative della responsabilità politica, da Frosini tenute ben distinte da quelle della responsabilità morale e della responsabilità giuridica, che il rifiuto dei partiti, fatto proprio dagli uomini, dai principi, dalle costituzioni della Francia rivoluzionaria, non abbia poi troppo ostacolato, viste nel lungo periodo, le magnifiche sorti e progressive dei partiti nei secoli successivi. Quasi che una storia dei fatti partitica abbia sopraffatto nel tempo una storia delle idee antipartitica, fino ad imporre, anche su un terreno per tanti aspetti dottrinario, se non filosofico, come quello della responsabilità politica, i risultati del proprio successo. Eppure, a non voler considerare “corpi separati” storia dei fatti e storia delle idee, la vistosa e a tratti straripante ascesa di responsabilità dei partiti, rispetto ad altre organizzazioni politiche e sociali, ha comportato – e nei fatti e nelle idee – rifiuti, condanne, esecrazioni, riserve, polemiche, che finiscono col rendere ancora attuale e sentita l’avversione ai partiti della Rivoluzione francese. Perfino, forse più attuale e più sentita della contestuale adesione ai partiti del costituzionalismo inglese. Del resto, in antitesi alla prospettiva di Frosini, non tanto sul piano dell’analisi abbastanza coincidente, ma su quello, assolutamente diverso della veemente denuncia dell’immoralità dei partiti e dell’aspirazione a sperimentare una democrazia che realizzi una rappresentanza pluralistica senza ricorrere ai partiti, si può collocare la prospettiva di Simone Weil. È un editoriale di «Comunità» del 1951, Appunti sulla soppressione dei partiti politici, che ripropone con forza quei richiami al bene comune ed alla volontà generale, contro le magni-
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VI. L’avversione ai partiti
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fiche sorti e progressive della partiticità democratica, che erano i fondamentali presupposti ideologici del Movimento di Adriano Olivetti. «Quando – scrive la Weil – vi sono in un paese dei partiti, ne deriva presto o tardi uno stato di fatto tale da rendere impossibile un efficace intervento nella vita pubblica senza entrare in un partito e fare la propria parte. Chiunque si interessi della cosa pubblica desidera interessarsene efficacemente. Pertanto coloro che tendono a interessarsi del bene pubblico o rinunciano a pensarci e si volgono ad altro, oppure passano attraverso il laminatoio dei partiti. In questo caso sorgono in essi delle preoccupazioni che escludono quelle per il bene pubblico. I partiti sono un formidabile meccanismo, in virtù del quale, in un’intera nazione, non vi è un solo spirito che presti tutta la sua attenzione allo sforzo di discernere nella vita pubblica il bene, la giustizia, la verità. Ne deriva che, salvo un piccolissimo numero di coincidenze fortuite, non vengono decise ed eseguite che misure contrarie al bene pubblico, alla giustizia e alla verità. Se si affidasse al diavolo l’organizzazione della vita pubblica, non potrebbe immaginare nulla di più ingegnoso» 2. La Weil, come riferimento ideale, sceglie Rousseau e la sua nozione di partito “male da evitare” e parimenti, proprio al principio del saggio, si preoccupa di isolare dal continente europeo Burke e la sua nozione, che segnerebbero una “tradizione non trapiantabile”. L’esempio inglese viene dalla Weil giudicato, per un verso, colpevole di aver introdotto i partiti nella vita pubblica europea e, per altro verso, privo di effettivo respiro democratico. 2 S. Weil, Appunti sulla soppressione dei partiti politici, in «Comunità» (rivista bimestrale del Movimento Comunità), gennaio-febbraio 1951, anno V, n. 10, Milano, p. 4.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
«C’è – a suo dire – nei partiti anglosassoni un elemento di gioco, di sport, che non può esistere se non in una istituzione di origine aristocratica; tutto invece è serio in una istituzione che è plebea in partenza» 3. Per quanto appropriata e suggestiva possa apparire l’osservazione, non c’è dubbio che la considerazione della Weil serva ad eludere il profilo storico ed istituzionale del problema, per meglio evidenziarne, piuttosto, quello antropologico e morale. Ma fra Inghilterra e Francia, fra insularità partitica dell’una e continentalità antipartitica dell’altra, la questione è soprattutto di rapporto inglese e di mancato rapporto francese, fra organizzazione delle forze politiche e parlamentarismo. Nel senso che l’apertura, o viceversa la chiusura, ai partiti, è in buona misura precedente alla loro concreta tipologia. E quindi il parlamento non può assurgere a categoria unificante, e tanto meno esclusiva, dell’origine dei partiti. Il retroterra sociale – sostiene Pombeni – da cui muovono i partiti politici è costituito dalle istituzioni di autonomia della società di antico regime: è lungo la frattura fra Stato e società che si organizzano le forme di resistenza che debbono essere ammesse alla soglia di legittimazione. In questo contesto il parlamento non è il luogo d’origine dei partiti, se non là dove esso continua ad esercitare funzioni di contenimento del conflitto tra potere politico e società» 4. Questo è il caso dell’Inghilterra, dove, avendo avuto il parlamento “schmittianamente” una funzione di custode della costituzione, ed essendo stato in grado di interpretare le esigenze di rappresentanza politica delle articolazioni sociali, si 3 Ibid., p. 1. 4 P. Pombeni,
Introduzione alla storia dei partiti politici, Bologna 1985,
p. 87.
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è realizzata una attrazione naturale delle divisioni partitiche nella sede più adatta a valorizzarle e insieme a disciplinarle. Ma assolutamente non è il caso della Francia, dove rappresentanza politica e parlamenti hanno storie diverse e contrapposte e quindi dove anche nella rivoluzione la centralità del parlamentarismo non significa affatto istituzionalizzazione dei partiti, ma viceversa affermazione di volontà generale, certezza di bene comune, trionfo della buona causa, senza ammettere nessuna “sportiva” competizione politica. In Francia, la rappresentanza nazionale, ideata e voluta da Sieyès, nasce come forma assembleare, più che parlamentare nel senso inglese, della volontà generale. Non solo non c’è l’idea che possano esserci o crearsi partiti, ma c’è devozione sacerdotale ad impegnarsi che così non sia. Una missione di vigilanza e interdizione antipartitica, consapevolmente eserciata in parlamento in coerenza ed in continuità con quella anticorporativa da svolgersi nella società: ecco il cuore del nuovo mandato rappresentativo, che non ha nulla a che fare col vecchio mandato imperativo proprio per questa piena assoluta individualità e globalità di ambito 5. Come rileva Albert Mathiez, con particolare riferimento all’epoca della Convenzione, «tous les députés considéraient comme injurieuse l’idée qu’on pût les soupçonner de s’entendre à plusieurs avant la séance pour se distribuer des rôles et pour concerter une action déterminée. A cette aurore du parlementarisme, le représentant du peuple était entouré d’un prestige tout neuf, il paraissait une sorte de prêtre du bon-
5 Cf. L. Compagna, Dal mandato imperativo al mandato rappresentativo nella costituzione francese del 1791, in Assemblee di Stati e istituzioni rappresentative nella storia del pensiero politico moderno, Atti del convegno internazionale tenuto a Perugia dal 16 al 18 settembre 1982, t. I, pp. 421-434.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
heur social. C’était une maxime reçue, indiscutée, qu’il ne devait suivre que les impulsions de son cœur et que la garantie du bien public résidait dans son indépendance absolue. Arranger en petit comité un plan prémedité, promettre d’avance de voler dans tel ou tel sens, c’était aliéner cette précieuse indépendance, c’était fermer l’oreille aux enseignements de la délibération publique, c’était sacrifier la conscience, le bien général, pour à l’intérêt particulier d’un parti» 6. Massimo atomismo e insieme massima onnicomprensività, perciò, nell’interpretare il proprio ruolo sociale e la propria funzione politica. La pretesa di legiferare, governare, giudicare, secondo volontà generale, fuori da ogni connessione e distinzione fra le varie sfere e i vari momenti di responsabilità, veniva a negare in radice quell’esigenza dei partiti che il sistema inglese, troppo “aristocraticamente” e “pluralisticamente” corrotto per poter essere d’esempio, aveva a un certo punto maturato come esigenza in qualche misura vitale. Più che di esprimere diffidenza verso i partiti, la rivoluzione francese si preoccupava di segnarne l’estinzione dell’idea, della funzione, della legittimità. Solo che un certo grado di “totalitarismo” psicologico, dalla Weil addebitato allo spirito di partito, non è che non sia, perfino con maggiore intensità, riscontrabile anche nel rifiuto dei partiti. E così tanto l’ammettere quanto l’avversare l’idea dei partiti può rivelarsi ora troppo platealmente “plebeo”, ora troppo platealmente “aristocratico”. E ugualmente l’esclusivismo intollerante e prevaricatore, lungi dall’essere monopolio di divisioni partitiche, può prodursi pure dalla negazione di tali divisioni.
6 A.
Mathiez, Girondins et Montagnards, Paris 1930, p. 3.
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Potrebbe a lungo proseguirsi, rovesciando una dopo l’altra le asserzioni della Weil, per incrinarne la compattezza e sfumarne la carica libertaria (più che liberale). Fino ad opporle, oggi assai più diffusa di trent’anni fa, la ben nota tesi del giacobinismo rousseauiano, prefigurazione quasi bolscevica, di un partito unico. Ma non è esercizio in cui è onesto, né utile, esibirsi. Ed è decisamente troppo ardita la tesi di una dottrina della volontà generale, che precluda l’idea dei partiti per farsi deliberatamente incubatrice dell’idea di un solo partito. Tesi comprensibile, autorevole, ricorrente, ma forse staccata dal concreto contrapporsi all’ancien régime di una complessiva mentalità e prassi rivoluzionaria, giacobina quanto girondina, democratica quanto liberale. La non partiticità del nuovo assetto politico, o meglio la sua intrinseca antipartiticità, non è ascrivibile, se non nella peculiare accentuazione dei toni ed esasperazione dei mezzi, al giacobinismo. Essa è piuttosto espressione dell’idea antica, rivoluzionariamente rilanciata, di imputare la responsabilità politica all’intero corpo politico, secondo le prescrizioni del classicheggiante contrattualismo rousseauiano 7.
7 «…Al posto della persona singola di ciascun contraente, quest’atto di associazione produce subito un corpo morale e collettivo composto di tanti membri quanti sono i voti dell’assemblea; da questo atto tale corpo morale riceve la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona pubblica, che si forma così dall’unione di tutte le altre, prendeva una volta il nome di città, e adesso quello di repubblica o di corpo politico, il quale a sua volta è chiamato dai suoi membri stato quando è passivo, corpo sovrano quando è attivo, potenza in relazione agli altri corpi politici. Gli associati poi prendono collettivamente il nome di popolo, e singolarmente si chiamano cittadini in quanto partecipi dell’autorità sovrana, e sudditi in quanto sottoposti alle leggi dello Stato…» (J.J. Rousseau, Antologia di scritti politici, a cura di S. Testoni Binetti, Bologna 1977, pp. 112s.).
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In termini di teoria politica si vuole andare in avanti guardando all’indietro. L’obiettivo è quello di ritrovare, nella memoria delle repubbliche antiche, quel tutto che non può essere mai “di parte”, perché è “senza parti” che la forma-stato francese aveva smarrito e che la forma-partito inglese era andata corrompendo. Il pensiero rivoluzionario francese, sulle orme di Montesquieu e di Rousseau, è dominato dal culto per le democrazie e le repubbliche dell’antichità, del resto ampiamente propagato dal tipo di educazione impartita nelle scuole dei gesuiti 8. Le repubbliche greche e la repubblica romana erano state teatro di lotte, spesso sanguinose, tra fazioni, i cui capi avevano avuto di mira la conquista del potere per il vantaggio proprio e del loro gruppo. Perciò il formarsi di gruppi, di partiti, di conventicole, vien visto dai rivoluzionari con l’identico sfavore che essi riversavano sulle fazioni dell’antichità. L’associarsi fra cittadini è concepibile ed ammissibile dal punto di vista pedagogico, ma non dal punto di vista politico. Alla volontà generale ci si deve educare. Ma per recepirne il tutto; non per interpretarne le parti, e tanto meno per farne voce di parte. Sicché le società popolari della Rivoluzione non sono, né possono considerarsi, una fase embrionale dei partiti moderni, come si deduceva dallo studio, The Jacobins, di Crane Brinton nel 1930 9. Piuttosto, esse possono vedersi come luoghi e occasioni di radicamento sociale di una nuova fede pa8 Cf. R. Labrousse, Ensayo sobre el Jacobinismo, Tucuman 1946, pp. 62s. 9 Il quale Brinton, a proposito dell’opera minuta, umile, prosaica, cui si
dedicarono i giacobini nelle amministrazioni locali, arrivava a paragonarla a quella della Croce Rossa, del Rotary Club, della Società per la protezione degli animali. (Cf. C. Brinton, The Jacobins. An Essay in the New History, New York 1961 [1930], pp. 129-134).
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triottica, di un nuovo zelo morale, di una nuova attenzione alla propaganda, con la esplicita finalità di impedire il determinarsi di divisioni all’interno del corpo politico. La Costituzione del 1793 contiene un riferimento alle sociétés populaires, là dove, secondo l’articolo 122, ai cittadini è riconosciuto «le droit de se réunir en sociétés populaires». Ma questo godimento giuridico «de s’assembler paisiblament» è inteso, pur sotto forma di «garantie des droits» di tutti i francesi, in funzione dell’interesse unitario della repubblica. E quindi assolutamente non c’è l’idea di favorire, o soltanto tollerare, strumenti associativi per la formazione degli organi legislativi 10. Alla “società popolare” o al “club” non è data possibilità di contribuire alla definizione della volontà generale, partecipando come tale all’elezione dei rappresentanti. Vi compete, su tutt’altro piano, la funzione di illuminare ed educare l’opinione pubblica ai dettati di una volontà generale, tutta e tutta intera spiegata e spiegabile. Lessicalmente, la Rivoluzione francese si serve di “fazione” come termine di denigrazione, di interdizione del confronto politico, di conventio ad excludendum: fazione d’Artois, fazione d’Orléans, fazione brissotina, fazione dantonista, e via dicendo. Ma rispetto a “fazione”, il termine “partito” acquista un senso ancor più pericoloso e detestabile. «Gli uomini della rivoluzione – riassume Mastellone – furono convinti che le factions fossero nocive, ma ancora più nocivi sarebbero stati i partiti, per cui essi si dichiararono ap10 M.A. Cattaneo, Il partito politico nel pensiero dell’illuminismo e della rivoluzione francese, Milano 1964, p. 72, pur ritenendo la costituzione del 1793 «la costituzione più democratica della storia politica moderna», ammette che «anche per gli autori della Costituzione del ’93, le società popolari avevano la funzione di aiutare, illuminare i membri del corpo legislativo, ma non avevano una funzione specifica nel meccanismo elettorale».
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
partenenti a un solo partito, quello della nazione, e si difesero dall’accusa di essere chefs de parti. La rivoluzione francese riconosceva solo il partito dei buoni, oppure il partito del genere umano» 11. Pertanto in entrambi gli schieramenti sarebbe stata comune la volontà di considerare l’antagonismo tra Gironda e Montagna come mero antagonismo di due fazioni, o meglio tra una fazione e la nazione, e comunque non come la possibile matrice di due partiti in lotta costituzionale, più o meno “all’inglese”. Ed ancor più significativo è il caso di un fervente ammiratore della costituzione britannica, e cioè del capo dei “moderati” alla Costituente, Jean Joseph Mounier. Nelle sue Recherches sur les causes qui ont empêché les Français de devenir libres, egli parla di un partito federalista operante all’epoca della convocazione degli Stati Generali (l’allusione è diretta evidentemente ai primi repubblicani e futuri girondini, Brissot e Condorcet), il quale aveva eletto a proprio riferimento la costituzione americana, e lo definisce «une faction criminelle» 12. Certo, è un’avversione ai partiti tutta monarchica, e niente affatto democratica, ma non per questo meno intensa. In tema di partiti, perfino Mounier sente di dover prendere le distanze dal modello inglese. Anche per lui, la responsabilità politica deve essere questione di volontà generale.
11 S. Mastellone, Storia ideologica d’Europa da Sieyès a Marx, Firenze 1974, p. 64. 12 Cf. H. Hintze, Staatseinheit und Föderalismus im alten Frankreich und in der Revolution, Berlin 1928, p. 265.
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2. COSTITUZIONALISMO GIRONDINO Ai girondini sarebbe toccato il marchio di “rolandini”. I loro avversari li avrebbero condannati, additandoli all’esecrazione popolare come adepti del partito di Madame Roland, la quale, in effetti, sul “partito” ebbe talvolta a mostrare idee problematicamente aperte, ben al di là delle categoriche negazioni dei suoi amici. Indicative in proposito due sue lettere a Bancal des Issarts del 25 giugno e del 15 luglio 1791 13. Sia pure indirettamente, sia pure limitatamente alle circostanze, il partito vi si configura un male necessario, in grado di agire da freno allo scatenarsi delle fazioni. «Ieri – scrive Manon Roland nella prima di queste due lettere – ci siamo consigliati a lungo sui mezzi per fondare un partito; infatti anche la verità ha bisogno di un partito: è molto tardi, le fazioni sono divenute molto potenti». Letteralmente, ed è rarissimo in scritti e discorsi della Francia rivoluzionaria, “partito” non è adoperato come termine peggiorativo rispetto a “fazione”. In qualche misura, esso ne appare una potenziale struttura di contenimento. «Tutte le passioni – si legge nella seconda lettera –, tutti gli interessi sono sulla scena, tutti gli ambiziosi si riuniscono, e se la virtù non crea anch’essa un partito, deve necessariamente soccombere. Un partito tuttavia, quali possano essere i suoi scopi, viene a esistenza attraverso l’opera unitaria di un certo numero di persone, che sono dedite alla stessa causa e sono pronte a ricercare e a mettere in opera tutti i mezzi che possono condurre al successo». Qui il partito, contrapposto alla fazione, si erge a possibile raggruppamento degli uomini 13 Cf.
ibid., pp. 294s.
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onesti, dei buoni patrioti seguaci della virtù, con proprie risorse di coesione e di determinazione politica. Evidentemente, l’ultrademocratico barone prussiano JeanBaptiste Clootz, detto Anacharsis, sostenitore della repubblica universale, avrebbe rimproverato ai “rolandini” proprio questo attimo di cedimento partitico. Cedimento meramente teorico, ed abbastanza fugace, ma sufficiente a fargli intitolare Ni Marat ni Roland l’opuscolo con cui volle distaccarsi dai Girondini 14. Quel che è certo è che fra Girondini e Montagnardi lo scontro politico sarebbe avvenuto all’insegna del più tipico processo alle intenzioni. La denigrazione “partitica” dei propri nemici e l’autoassegnazione della propria parte all’ideale “partito del genere umano” non avrebbero conosciuto alcun limite, e soprattutto avrebbero improntato di sé il nuovo lessico politico. Se una frazione giacobina, come era in radice la Gironda, aveva in qualche modo finito con l’ereditare la sostanza della politica fogliante, non per questo nelle forme e negli atteggiamenti che si delineavano poteva ritenersi acquisita una prospettiva di consolidamento del nuovo regime rappresentativo. Viceversa, ogni tutela degli interessi “borghesi”, così come ogni affermazione di costituzionalismo “liberale”, poteva esser fatta solo in nome della rivoluzione e dei suoi principi. Fra i quali, in primo luogo, l’avversione ai partiti. «Né la Gironda né la Montagna – ricostruisce Maranini furono due partiti nel senso moderno della parola. Fu la mancanza assoluta, nella Francia d’allora, di forze politiche organizzate, che, dopo il crollo subitaneo della Monarchia, rese la forma14 «…Malgré les petits sophismes et les petites passions, la vérité triomphera sous le règne de la liberté; la faction du genre humain l’emportera sur la faction Marat et sur la faction Brissot…» (J.B. Clootz, Ni Marat ni Roland, Paris 1792, p. 5).
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zione di un regime nuovo così lenta e faticosa. Alla organizzazione poi di gruppi parlamentari si opponeva la convinzione profonda, e in un certo senso non ingiustificata ma in altro senso ingenua, che il deputato dovesse attingere ispirazione solo dalla sua libera coscienza, fuori da ogni pressione di partito. Naturalmente, in pratica non mancavano tentativi di intesa e di coordinamento: e i capi della Gironda si riunivano spesso, particolarmente in casa Roland: così come i montagnardi cercavano di collegarsi attraverso i dibattiti al Club dei giacobini. Ma si trattava sempre di embrioni, di rudimenti d’organizzazione, senza disciplina, senza gerarchia, con poco ordine» 15. La formazione ex novo di partiti politici non fu mai, in nessun momento e per nessun motivo, all’orizzonte della prima repubblica francese. Girondini e Montagnardi furono uomini e non partiti. Ed è appunto questo vuoto “partitico”, questa mancanza di ogni possibile riferimento politico “all’inglese”, che rende straordinariamente confusa la loro lotta ed assai difficilmente definibile la loro ideologia. Vi è un irriducibile individualismo al fondo di quel che talvolta capita di avvertire come altrettanto irriducibile totalitarismo. Nei momenti decisivi, quelle dei Girondini e dei Montagnardi saranno inevitabilmente storie personali, non riconducibili a distinzioni di ambiente e di gruppo. «Gli uni e gli altri – scrive Marc Bouloiseau, lo storico che ha avuto per maestri Albert Mathiez e Georges Lefebvre – appartenevano alle stesse categorie professionali, avevano ricevuto la stessa educazione ed erano abituati a un modo di vivere e di pensare molto simile. Fra questi fratelli nemici l’onestà, il disinteresse, il coraggio, l’autorevolezza e la perseveranza erano 15 G. Maranini, Classe e Stato nella Rivoluzione francese, Firenze 1964, pp. 169s.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
egualmente rappresentati; tutti ricorrevano agli stessi mezzi, né li spaventava il sangue, quando fosse sparso utilmente. Si è voluto vedere in essi dei partiti politici e attribuirvi a ogni costo una disciplina di voto, mentre in realtà si limitarono a seguire la propria coscienza. Qualunque etichetta gli sia stata affibiata, i Convenzionali furono degli irriducibili individualisti, e il loro dissidio si manifestò molto più chiaramente negli atteggiamenti personali che negli imperativi dottrinali» 16. Quello di non essere e di non fare “partito” rientra tanto fra gli “atteggiamenti personali” quanto fra gli “imperativi dottrinali” cui i Girondini, se si eccettua la opinione di Madame Roland nel 1791, non riterranno mai di poter venir meno. Al pari dei loro avversari. Brissot, che per quel che concerne il conflitto politico con la Montagna è forse l’esponente principale della Gironda, in uno scritto del 1792 parla del proprio partito, cioè appunto la Gironda, come del “partito della nazione”, di quel partito della nazione che vuole l’ordine e la sicurezza della repubblica. L’epiteto di faction Brissofine, egli osserva, è stato inventato dagli “anarchici” per spaventare il popolo con una chimera; sicché delle due l’una: o questa fazione non esiste, o è composta da tutta la nazione 17. Polemiche di questo genere, con l’intento di ritorcere sui Montagnardi l’accusa di mirare a dividere la repubblica, saranno ricorrenti in casa girondina: per lo più sulla difensiva, anche se ovviamente protese a delineare una controffensiva. Le condurranno, di volta in volta, con accenti antipartitici più o meno uniformi, i Louvet, i Pétion, lo stesso Condorcet 18. 16 M. Bouloiseau, La Francia rivoluzionaria: la repubblica giacobina (1792-1794), Roma-Bari 1975, pp. 64s. 17 Cf. H. Hintze, Staatseinheit und Föderalismus…, cit., p. 296. 18 Cf. M.A. Cattaneo, Il partito politico…, cit., pp. 81-86.
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Il quale Condorcet, il 15 febbraio del 1793, avrebbe presentato il progetto di costituzione 19, destinato a passare alla storia con il nome di Costituzione girondina, ma che sarà discusso e votato solo nella Dichiarazione dei diritti. Un progetto nel quale non è difficile sentire l’eco 20 di un costituzionalismo avverso al “mito dell’Inghilterra”, al bicameralismo, ai partiti, entusiasta della Costituzione della Pennsylvania perché più democratica di quella della Virginia, teso a conciliare il massimo di liberalismo individualistico alla Turgot con il massimo di democraticismo collettivistico alla Rousseau 21. Il repubblicanesimo di Condorcet alla Convenzione non è meno risoluto di quello di un Gilbert Romme 22. Nel suo Plan de constitution la monarchia, soprattutto nelle gotiche forme inglesi, è imputata di inguaribile anti-illuminismo e quindi irreversibilmente posta al di fuori della nuova ragione 19 Ogni successiva citazione della relazione di Condorcet, Plan de constitution, présenté à la Convention Nationale, le 15 et le 16 février 1793, è tratta da Condorcet, Œuvres, Paris 1847-1849, t. XII, pp. 335-415. 20 Si pensi a De l’influence de la Révolution d’Amérique sur l’Europe del 1786, alle Lettres d’un bourgeois de New Haven à un citoyen de Virginie, sur l’inutilité de partager le pouvoir législatif en plusieurs corps del 1787, alle Lettres d’un citoyen des États-Unis à un Français sur les affaires présentes del 1788, all’Examen sur cette question: est il utile de diviser une assemblée nationale en plusieurs chambres? del 1789, fino al De la nature des pouvoirs politiques dans une nation libre apparso nel novembre del 1792. 21 Sul pensiero politico di Condorcet, cf. soprattutto K.M. Baker, Condorcet: from natural philosophy to social mathematica, Chicago-London 1975. (Fra gli studi precedenti maggiormente utilizzati da Baker, cf. anche F. Alengry, Condorcet, guide de la Révolution Française, théoreticien du droit constitutionnel et précurseur de la science sociale, Paris 1904; L. Cohen, Condorcet et la Révolution Française, Paris 1904; J.S. Schapiro, Condorcet and the rise of liberalism, New York 1934; G.G. Granger, La mathématique sociale du marquis de Condorcet, Paris 1958; J. Boissounouse, Condorcet: le philosophe dans la Révolution, Paris 1963). 22 Sui rapporti fra il “girondino” Condorcet ed il “montagnardo” Romme particolarmente attenta e penetrante è l’analisi di A. Galante Garrone, Gilbert Romme, storia di un rivoluzionario, Torino 1959, pp. 347-439.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
comune. «Questo rispetto – secondo Condorcet – per un individuo, questa specie di ebbrezza, con cui la pompa che lo circonda colpisce le immaginazioni deboli; questo sentimento di una devozione cieca che ne è la conseguenza; questo uomo messo al posto della legge, della quale si chiama immagine vivente; questi motivi vuoti di senso, coi quali si vuol condurre gli uomini come se fossero indegni di obbedire solo alla ragione: tutti questi mezzi di governare con l’errore e la seduzione non si addicono più a un secolo illuminato, a un popolo che i lumi hanno condotto alla libertà». Al posto della monarchia subentrerà una repubblica una e indivisibile. Senza varchi né possibilità per quelle che Burke avrebbe definito manifestazioni di rappresentanza virtuale. La forma di governo sarà sì rappresentativa, ma con una propria ben ferma radice rousseauiana, nel senso che le leggi votate potranno essere sottomesse alla ratifica popolare, ad un referendum. Il nuovo regime si fonderà sull’unità del potere, contro ogni divisione “istituzionale”, e soprattutto contro ogni divisione “partitica” che di essa si avvalga. Bersaglio di Condorcet è esplicitamente il modello inglese. Due opinioni, egli argomenta, si sono finora contese il campo in tema di organizzazione costituzionale: quella dell’unità e quella della separazione e dell’equilibrio dei poteri; contro quest’ultima sta l’esperienza di tutti i paesi, che ha «provato, o che le macchine complicate si spezzano con la loro stessa azione, o che a fianco del sistema legale se ne formava un altro fondato sull’intrigo, sulla corruzione, sull’indifferenza». Col risultato che si finirebbe con l’avere due costituzioni: «l’una legale e pubblica, ma esistente solo nel libro della Legge; l’altra segreta ma reale, frutto di una convenzione tacita fra i poteri stabiliti». Del resto, Condorcet qui è davvero ultimativo, «queste costituzioni fondate sull’equilibrio dei poteri suppongono o
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causano l’esistenza di due partiti, e uno dei primi bisogni della Repubblica Francese è di non conoscerne nessuno». L’esigenza di non avere partiti, legata appunto all’esigenza di non avere due costituzioni (l’una “formale”, l’altra “materiale”, si direbbe oggi), è forse il motivo centrale del Plan de constitution. Il problema da Condorcet maggiormente avvertito è quello di non esporre la repubblica una e indivisibile a contrapposizioni e negoziazioni nei suoi meccanismi rappresentativi, cioè di rendere i rappresentanti del popolo responsabili all’interno di un sistema che consenta un’adeguata espressione della volontà del popolo, senza per questo permettere ad una parte della popolazione di parlare in suo nome. Soluzione ottimale sarebbe stato l’insediamento locale di assemblee primarie, non con funzioni di governo locale, ma come “parte del tutto”, insiste Condorcet, garanzia di razionale e responsabile esercizio della sovranità popolare. «As in his earlier constitutional proposals, Condorcet – scrive Keith Michael Baker – devoted much of the Plan de constitution to a discussion of the mechanics of rational decision-making. His aim was to organize the deliberations of the primary assemblies in a way that would ensure their reliability as a true expression of the general will, while at the same time minimizing the potential for disorder. To achieve the first goal, he fell back on proposals developed in earlier writings. The sum of the particular decisions of the primary assemblies would amount to an expression of the general will, only if the particular question to be decided were submitted to each assembly in exactly the same form, logically reduced to a proposition or series of propositions requiring only a simple yes or no answer, and voted upon in each assembly without prior publique discussion. Such decisions would not require long meetings and would not allow the development of an “esprit
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
de corps” contrary to the public interest. The assemblies would be attended by peaceable and respectable citiziens and their business would be over quickly enough to prevent their becoming dominated by a rump of idle troublemakers as other citizens were forced to return to their occupations. Finally, the assemblies would bear no relation to other more permanent institutions of local government. They would not therefore become occupied with questions other than those for which they were specifically convoked to act» 23. C’è il richiamo alla virtù pubblica delle antiche democrazie, c’è il desiderio di una geometria costituzionale che appiattisca le sinuosità della politica, c’è l’aspirazione a ridurre il più possibile i poteri che il popolo delega. Quasi che in definitiva la democrazia rappresentativa, ancor più della democrazia diretta, dispieghi la massima identificazione del popolo con le istituzioni: «se il popolo è uno – evidenzia Matteucci – una dev’esser pure la rappresentanza, uno (e non tre) il vero potere delegato allo Stato» 24. Condorcet, infatti, non solo propone l’unità del legislativo e dell’esecutivo ma vuole l’unità anche nel legislativo. Con la stessa energia con la quale aveva deprecato il dualismo nel parlamento inglese, determinato dai partiti, egli respinge il dualismo del parlamento inglese, cioè il bicameralismo. Entrambi i dualismi scaturiscono da un potere di governo che Condorcet rifiuta di ritenere insito nella natura dei processi politici. Ecco perché sarà solo uno strumento del corpo legislativo l’organo che egli chiama Conseil d’agents nationaux, ma il progetto indica come Conseil exécutif de la République. Esso opererà come un organe, non come un véritable pou23 K.M. Baker, Condorcet…, cit., pp. 321s. 24 N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà, Torino 1976, p. 198.
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voir. Nel senso, precisa Condorcet, che «questo consiglio non deve volere, ma deve vegliare: esso deve fare in modo che la volontà nazionale, una volta espressa, sia eseguita con precisione, con ordine, con sicurezza». Ed ovviamente non dovrà avere un capo, che sarebbe un simulacro di forma regale («esso presenterà sempre all’immaginazione l’idea di un uomo, quando è così importante il colpirla solo con quella della Legge»). Ogni figura ed ogni istanza di governo viene così relegata ai margini degli interessi generali dell’organizzazione politica. Nella sua democrazia rappresentativa, al legislativo non compete tanto di contenere e controllare l’esecutivo, quanto di farne venir meno l’esigenza; invece che di esprimerlo, si tratta di sopprimerlo. La sua «nazione libera», arriva a dire Matteucci, «si svela come un’utopia razionale, dove è assente il potere, e cioè la politica» 25. Del resto, alla sua famosa teoria del voto Condorcet era pervenuto attraverso uno schema logico molto simile a quello pascaliano del gioco, applicando il ragionamento matematico del calcolo delle probabilità al fenomeno del voto. Per questo, anche nel Plan de constitution, la sua attenzione si incentra sulle regole di organizzazione delle votazioni, sulle forme attraverso le quali si prendono le decisioni, per trovare quelle più favorevoli al raggiungimento di un giudizio vero, temendo soprattutto le coalizioni di interessi e i partiti, che impedirebbero il funzionamento di queste strutture (“logiche” e non “politiche”). Nell’Essai sur l’application de l’analyse à la probabilité des décisions rendues à la pluralité des voix un potere politico della maggioranza egli non lo aveva riconosciuto, limitandosi a regi25 Ibid.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
strare – probabilisticamente, e non politicamente – la capacità che una maggioranza possiede di attingere la verità 26. Se non della volonté générale, certo della raison commune il cittadino “rappresentato” di Condorcet doveva sempre sentirsi suddito fedelissimo, e quindi rigorosamente precludersi rapporti politici che fossero con alcuni invece che con tutti gli altri 27. Dall’Essai sur l’application de l’analyse al Plan de constitution la prospettiva non è mutata: la vita politica non può avere svolgimento partitico; gli interessi generali non ammettono interpretazioni diverse; la maggioranza è un giudizio collettivo di verità, ma è privo di volontà politica. La matematica sociale stravolge, in partenza e in arrivo, le soluzioni del costituzionalismo. Lo stesso suffragio universale maschile 28, che Condorcet con perorazione serrata e appassionata inserisce nel suo pro26 «…Nous devons donc chercher principalement ici quelle est la probabilité qui donne une assurance de la bonté d’une loi admise à la plus petite pluralité, telle qu’on puisse croire qu’il n’est pas injuste d’assujettir les autres à cette loi, et qu’il est utile pour soi de s’y soumettre… alors le citoyen, en obéissant a la même loi, sentirait que s’étant soumis, par une condition nécessaire dans l’ordre social, à ne pas se conduire conformément à sa raison seule dans une certaine classe de ses actions, il a du moins l’avantage de ne suivre que des opinions, qu’en faisant abstraction de son jugement, il doit regarder comme ayant le degré de probabilité suffisant pour diriger sa conduite…» (Condorcet, Essai sur l’application de l’analyse à la probabilité des décisions rendues à la pluralité des voix, Paris 1785, p. CVI). 27 «…Il ne s’agit pas ici de moi seul, mais de tous; je ne dois donc pas me conduire d’après ce que je crois être raisonnable mais d’après ce que tous, en faisant, comme moi, abstraction de leur opinion, doivent regarder comme étant conforme a la raison et à la vérité…» (ibid., p. CVII). 28 «Abandoning the restricted suffrage envisaged by his mentor, Turgot, and retained in modified form in his own Essai sur les assemblées provinciales he now defended universal male suffrage as the logical implication of the rights of man. To be consistent with his feminism, Condorcet should also have argued for universal female suffrage. It seems likely, however, that the committee discussions had convinced him that the French were not yet ready to take such a step» (K.M. Baker, Condorcet…, cit., p. 321).
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getto 29, finisce con l’apparire un dato di matematica sociale più che un valore di democrazia liberale. Un suffragio universale senza partiti, esclusiva traduzione in diritti politici del di29 «In chi – si chiede Condorcet – la Costituzione riconoscerà la facoltà di esercitare i diritti politici che gli uomini hanno ricevuto dalla natura, e che, come tutti gli altri, derivano essenzialmente dalla loro qualità di esseri sensibili e suscettibili di idee morali, e capaci di ragionare? I pubblicisti si sono divisi, su questa questione, tra due opinioni opposte. Gli uni hanno considerato l’esercizio dei diritti politici come una specie di funzione pubblica per la quale si potessero esigere delle condizioni appoggiate sull’utilità comune. Essi hanno creduto che si potesse affidare esclusivamente a una parte di cittadini l’esercizio dei diritti di tutti, purché questa parte non avesse alcun interesse, non potesse avere alcun motivo di abusarne, e soprattutto nel caso in cui si avesse motivo di credere che essa li eserciterebbe meglio per l’interesse generale della società. Essi hanno pensato che non vi sarebbe vera ingiustizia in questa distinzione, se questi uomini privilegiati non potessero fare leggi per essi soli, soprattutto se l’esclusione stabilita dalla legge potesse in qualche modo essere considerata come volontaria per la facilità di sottrarvisi. Altri hanno ritenuto, invece, che i diritti politici dovessero appartenere a tutti gli individui con una intiera eguaglianza, e che se fosse possibile sottoporne legittimamente l’esercizio a delle condizioni, sarebbe soltanto a quelle che fossero necessarie per constatare che il tale uomo appartiene a tale nazione e non a tale altra; e nel caso in cui i cittadini non possono votare in un medesimo luogo, per determinare a quale assemblea ogni individuo deve appartenere. Sino ad oggi tutti i popoli liberi hanno seguito la prima opinione, la Costituzione del 1791 vi si era pure conformata; ma la seconda ci è sembrata più conforme alla ragione, alla giustizia, e anche a una politica veramente illuminata. Noi non abbiamo creduto che fosse legittimo di sacrificare un diritto naturale, riconosciuto dalla natura più semplice, a delle considerazioni la cui realtà è per lo meno incerta. Noi abbiamo sentito che occorreva o limitarsi a delle distinzioni insignificanti e senza oggetto reale, o dare a queste esclusioni una estensione alla quale un popolo amico dell’eguaglianza, generoso e giusto, non si avvilirebbe ad acconsentire. Non abbiamo creduto che fosse possibile, in una nazione illuminata sui suoi diritti, proporre alla metà dei cittadini di rinunziarne a una parte, né che fosse utile alla tranquillità pubblica di separare un popolo, attivamente occupato dagli interessi politici, in due parti, delle quali l’una sarebbe tutto, e l’altra nulla, in virtù della legge, malgrado il voto della natura che, facendoli uomini, ha voluto che restassero tutti uguali. Nei tempi antichi, le nazioni erano un aggregato di famiglie alle quali si supponeva un’origine comune, o che per lo meno risalivano a una riunione prima. I diritti politici erano ereditari, ed era attraverso un’adozione legale che esse si affiliavano nuove
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
ritto naturale, non sembra portatore di moderna vitalità democratica. E l’avversione ai partiti, per altro verso, contribuisce pure a rendere più “tecnocratico” che “liberale” il suo élitisme. Anche se, come avverte Baker, permane «a profound difference between the social mathematics envisaged by Condorcet and the technocratic social science later developed by Saint-Simon and Comte. Condorcet clearly shared with these later prophets of Paris the desire to replace the political conflicts of the revolutionary period with a scientific politics. But while for Saint-Simon and Comte this involved exiling politics in favor of the rational administration of things, their prefamiglie. Ora è per il territorio che le nazioni si distinguono; e sono gli abitanti di questo territorio che sono essenzialmente i membri di ogni associazione. Si è preteso che i diritti politici dovessero appartenere ai soli proprietari delle terre. Ma, osservando l’ordine attuale delle società, non si può appoggiare questa opinione che su un solo motivo; si può dire che essi soli esistano sul territorio in una maniera indipendente, e non possono esserne esclusi dalla volontà arbitraria di altri. Ora, ammettendo questo motivo, si vede innanzitutto che esso si erge con una forza eguale in favore di coloro che mercé una convenzione hanno acquisito il diritto di esistere pure sul territorio in una maniera indipendente, per un tempo determinato, e se si ammette questa conseguenza si vede la forza di questo motivo indebolirsi a poco a poco, e i limiti del tempo durante il quale si esigerebbe che dovesse durare questo diritto di residenza non poter essere fissati che in una maniera incerta e puramente arbitraria. Si vedrebbero anzi ben presto quelli ove si arresta questa specie d’indipendenza non essere più abbastanza distinti per servire di base a una distinzione tanto importante quanto quella del godimento o della privazione dei diritti politici. La dipendenza che non permette di credere che un individuo obbedisca alla volontà propria, potrebbe indubbiamente essere un motivo legittimo di esclusione; ma noi non abbiamo creduto che fosse possibile di supporre resistenza di una tale dipendenza sotto una Costituzione veramente libera, e presso un popolo nel quale l’amore dell’eguaglianza è il carattere distintivo dello spirito pubblico. Le relazioni sociali che presupporrebbero una tale umiliazione non possono sussistere tra di noi, e devono prendere ben presto un’altra forma. Infine, poiché il codice intiero delle nostre leggi consacra l’eguaglianza civile, non val meglio che l’eguaglianza politica vi regni pure tutta intiera, e serva a far scomparire quel che resta di questa indipendenza, invece di consacrarla in qualche modo nelle nostre leggi nuove?».
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decessor resolutely refused to take this step. He wished to assimilate the language of politics to the language of science, but he was not prepared to accept Comte’s argument that liberty of opinion was as inapplicable to politics as it was irrilevant in physics» 30. Col suo élitisme, troppo impregnato di illuminismo per venir rubricato come un’anticipazione di positivismo, Condorcet aveva sempre soprattutto voluto teorizzare un dirittodovere degli intellettuali (letterati e scienziati) di guidare la rigenerazione della società francese, impegnandosi politicamente senza degradarsi a partito politico. La celebre Société de 1789, che insieme a Mirabeau e a Sieyès egli aveva fondato nella primavera del 1790, mirava proprio ad essere un “gruppo di pressione” (come oggi si direbbe), un’associazione per ispirare le misure legislative da adottare nelle diverse situazioni, nonché per istruire l’opinione pubblica sulla natura dei problemi che la rivoluzione era chiamata ad affrontare. Ed apertamente veniva ribadita avversione, e più ancora ostracisme, ai partiti. «Les lumières, les talents – scriveva Condorcet nell’indirizzo programmatico dell’associazione – doivent sans doute y obtenir ce pouvoir que la nature leur a donnés; mais ce pouvoir ne doit s’exercer que par l’usage même des talents et des lumières. C’est surtout contro la médiocrité intrigante que l’on doit avoir recours à l’ostracisme; c’est contre ces hommes qui veulent être chefs de parti, parce qu’ils ne peuvent être chefs d’opinion, et gouverner par adresse ceux à qui ils ne peuvent commander au nom de la raison. Le despotisme du génie est toujours plus doux» 31. 30 K.M. Baker, Condorcet…, cit., p. 340. 31 Condorcet, A M*** sur la Société de 1789,
in Œuvres, cit., vol. X, p. 75.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
Esplicita insofferenza per la quotidiana prassi politica, dominata dalla médiocrité intrigante; sentito disprezzo per i chefs de parti; netto primato della dottrina sull’azione politica, e quindi insofferenza nei confronti di qualsiasi germe di “professionismo politico”, inevitabile contrapposizione al mondo dei partiti del mondo dell’opinione pubblica, su cui esercita il doux despotisme dei lumi. Condorcet certo, suggerisce Sergio Moravia, rappresenta «il tramite principale fra la generazione dei philosophes e quella degli ideologues» 32 ed è come tale che merita di essere considerato nella storia del costituzionalismo liberaldemocratico. Ma nei confronti dei partiti la sua visione è sempre “filosoficamente” preclusiva. Anche sul girondino Condorcet prevalgono, e dall’interno del suo pensiero, le interdizioni del Rousseau dei giacobini.
3. FONDAMENTALISMO GIACOBINO Primo di tutti a prender la parola contro la Costituzione girondina, opponendole un proprio progetto, sarebbe stato il 24 aprile Saint-Just. Del costituzionalismo molto “tecnico” ed in quanto tale, come si è detto, poco “politico” di Condorcet, Saint-Just mira a colpevolizzare quel che gli sembra un riprovevole allontanamento dal fondamentalismo etico delle repubbliche antiche. «Fra uomini come Condorcet – avverte Paolo Viola –, di mentalità scientifica, e con un passato ricco di discussioni concrete e di intervento riformatore nella crisi dell’antico regime, 32 S. Moravia, Il tramonto dell’Illuminismo: filosofia e politica nella società francese (1770-1810), Roma-Bari 1986, p. 50.
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e uomini come Saint-Just, di formazione filosofica, e nuovi alla concretezza politica, ci fu incomprensione totale, ci fu un abisso culturale che li separò assai più radicalmente del divergere delle scelte politiche» 33. Ed il discorso del 24 aprile di Saint-Just, tutto intriso di fondamentalismo, volto a celebrare la virtù repubblicana sul modello di Licurgo e di Giunio Bruto, con la mente rivolta a Plutarco assai più che a Turgot e a Necker, eppur non privo di taglienti furbizie oratorie, ne è una conferma. «Quando – dice Saint-Just – ho letto, con l’attenzione che merita, l’esposizione dei principi e degli scopi della Costituzione presentata dal Comitato, considerando che il principio della legislazione in uno Stato libero è la volontà generale, e che il principio determina ogni cosa, io ho cercato in questa esposizione quale idea si fosse avuta della volontà generale, poiché da questa idea sola deriva tutto il resto. La volontà generale propriamente detta, nel linguaggio della libertà, è formata dalla maggioranza delle volontà particolari, individualmente raccolte senza influenza estranea; la legge così formata consacra necessariamente l’interesse generale, perché, dato che ognuno regola la sua volontà sul proprio interesse, dalla maggioranza delle volontà deve risultare quella degli interessi. Mi pare che il Comitato abbia considerato la volontà generale sotto il suo aspetto intellettuale, in modo che, risultando la volontà generale puramente speculativa, derivante piuttosto dalle opinioni astratte che dall’interesse del corpo sociale, le leggi risultano l’espressione del gusto piuttosto che della volontà generale. Sotto questo aspetto, la volon33 P. Viola, Premesse del giacobinismo in Montesquieu e Rousseau, in Il modello politico giacobino e le rivoluzioni, a cura di M.L. Salvadori - N. Tranfaglia, Firenze 1984, p. 29.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
tà generale viene snaturata: la libertà non appartiene più al popolo, è una legge estranea alla prosperità pubblica; è Atene che vota verso la sua fine, senza democrazia, e decreta la perdita della propria libertà» 34. Strumentalmente, Saint-Just polemizza contro la eccessiva importanza accordata dal progetto di Condorcet al potere esecutivo. Ovviamente, è una polemica contro un fantasma. Ma politicamente è efficacissima, nel momento in cui la Montagna lavora ormai, più che a combattere, a distruggere la Gironda. Il piano di Saint-Just prevede un’Assemblea eletta con suffragio diretto e un Consiglio esecutivo scelto da assemblee elettorali secondarie e subordinate all’Assemblea. Con l’intento di assicurare ai giacobini un meccanismo che ne massimizzi l’incidenza a danno dei girondini. Non è, si è giustamente notato, che «i Robespierristi fossero ferventi ammiratori della Costituzione inglese e dell’equilibrio dei poteri. Ciò che essi volevano era sicuramente il potere ai Giacobini. Saint-Just lo rimetteva loro interamente affidando il potere legislativo a un’assemblea eletta nel quadro di una circoscrizione nazionale, il che poteva favorire le personalità sostenute da una organizzazione rappresentata su tutto il territorio, a detrimento di uomini che, come i Girondini, avevano soprattutto un’influenza locale; e rimettendo il potere esecutivo a un consiglio che eserciterebbe un controllo sull’Assemblea, nella ipotesi in cui le elezioni legislative fossero sfavorevoli, e che fosse nominato dalle assemblee secondarie che facilmente i Giacobini influenzerebbero. Ciò 34 A. Saitta, Costituenti e costituzioni della Francia rivoluzionaria e liberale (1789-1875), Milano 1975, pp. 369ss. (Del discorso di Saint-Just viene da Saitta utilizzata la traduzione di Paolo Basevi in Saint-Just, Terrore e libertà, Roma 1966, pp. 88-103).
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implicava che la società dei Giacobini fosse trasformata in un vero partito politico» 35. L’espressione «vero partito politico» può essere qui intesa alla maniera di Lenin, ma certo non di Burke. Stando a Talmon, saremmo alle «origini della democrazia totalitaria». Stando a Vittorio Mathieu, saremmo al «cancro in Occidente» 36. Comunque sia, quanto più il giacobinismo ha necessità di farsi partito, tanto più categorico diventa il suo rifiuto dell’ammissibilità dei partiti. La compattezza della volontà generale deve essere senza incrinature. Nel suo progetto Saint-Just giunge ad interdire all’Assemblea di dividersi in comitati, di articolarsi in commissioni tra i suoi stessi membri. Nessuna via deve venire aperta allo sviluppo di volontà parziali. La volontà generale è una e indivisibile. Può accadere, e nel passaggio del giacobinismo da “movimento” a “istituzione” accade, che la volontà generale richieda atteggiamenti diversi in momenti diversi. Ciò che conta è che la illuminata avanguardia giacobina, custode e signora del fondamentalismo rivoluzionario, sia pronta ad assumere tali atteggiamenti diversi in tali momenti diversi. «Era necessario – secondo Talmon – mobilitare e agitare le masse in modo da consentire all’avanguardia rivoluzionaria di realizzare la vera volontà del popolo. Una volta che l’avanguardia fosse giunta al potere, le si doveva concedere la libertà di realizzare tale volontà in tutta la sua purezza. Il consenso a priori delle masse a quanto l’avanguardia voleva fare può essere considerato scontato, e dunque la perpetua35 M. Troper, Saint-Just et le problème du pouvoir exécutif dans le discours du 24 avril 1793, in Actes du Colloque Saint-Just (Sorbonne, 25 juin 1967), Paris 1968, p. 21. 36 Cf. V. Mathieu, Cancro in Occidente: le rovine del giacobinismo, Milano 1980.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
zione dell’attività politica popolare, superflua nelle nuove circostanze, avrebbe dato soltanto un’opportunità all’astuzia controrivoluzionaria» 37. In vista del potere, si accentua nei giacobini la considerazione della libertà come un insieme di valori e non semplicemente come assenza di costrizione. Il richiamo alla oggettività della “libertà positiva” viene anteposto alla soggettività della “libertà negativa”. E di conseguenza, distrutti i girondini, l’invito all’esercizio effettivo della sovranità popolare, come modo essenziale per arrivare alla volontà generale, avrebbe cominciato ad esser ripetuto un po’ meno spesso 38. Non così, inalterabilmente ribaditi, sempre più perentori, i riferimenti alla proscrizione dei partiti. Li si sono già visti in Robespierre. Son forse ancor più vistosi, e veementi, in Saint-Just. Anche nella sua polemica con Condorcet. Al “federalismo” del progetto girondino, che prevedeva un potere legislativo eletto indirettamente dai consigli dipartimentali, e non dal “concorso simultaneo della volontà generale”, cioè dal “popolo in concreto”, Saint-Just oppone un istinto per l’unità nazionale più forte della stessa logica del contratto sociale. L’unità e l’indivisibilità della repubblica è trasformata in qualcosa che è precedente anche al contratto sociale. Essa costituisce una parte essenziale della volontà ge37
J.L. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, Bologna 1952,
p. 149. 38 «La concezione giacobina della democrazia diretta senza delega, o basata su un controllo diretto degli eletti, è rimasta sulla carta dei loro programmi del 1792, smentita da un anno e mezzo di potere senza nessuna forma di controllo democratico, e con la sola contropartita, teorica e alquanto generica, dell’identificazione di sovranità popolare e di resistenza all’oppressione; identificazione affermata, ma non invocata nel momento della crisi finale, santificata a parole, ma comunque repressa a fatti» (P. Viola, Premesse del giacobinismo…, cit., p. 28).
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nerale e della libertà oggettiva, al di fuori della sfera della volontà transitoria degli uomini e dei partiti. L’insieme è più importante delle sue componenti. «Una repubblica, una e indivisibile, è – a suo dire – nella stessa natura della libertà; essa non durerebbe più di un momento, se fosse basata su un fragile accordo tra uomini o tra partiti». Vi è nel costituzionalismo girondino, insinua Saint-Just, un inevitabile rischio di degenerazione “partitica”. Un deputato eletto come avrebbe voluto Condorcet rappresenterebbe per Saint-Just soltanto la parte del popolo che ha votato per lui, e non la nazione indivisibile. Tutti i deputati si riunirebbero quali rappresentanti delle frazioni del popolo. Essi non esprimerebbero e non incorporerebbero la volontà generale; formerebbero un congresso invece di un’Assemblea nazionale. La maggioranza in un congresso trae la sua autorità dall’adesione volontaria delle parti. La sovranità così cessa di esistere, in quanto essa è divisa. Una volontà generale ottenuta in tal modo è una volontà “speculativa”, non una volontà reale. Coloro che esprimono una volontà devono farlo in primo luogo come membri di una entità indivisibile, e non come possessori di volontà parziali. La nazione è entità organica e integrale, e non conglomerazione di particelle unite meccanicamente. Se ogni dipartimento fosse destinato a rappresentare una porzione del territorio, il “diritto di cittadinanza del popolo in concreto” diverrebbe “astratto”, e soprattutto la repubblica sarebbe esposta ad ogni insidia, come la rivolta vandeana. Questa idea giacobina dell’unità nazionale, poco propensa a servire come base per una riconciliazione nazionale fondata su un passato comune, avrebbe dato origine ad un processo di eliminazione dal corpo nazionale degli elementi considerati non assimilabili al nuovo principio dell’esistenza nazionale francese. Ed il Rapporto sulla necessità di dichiarare il
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
governo rivoluzionario fino alla pace di Saint-Just del 10 ottobre 1793 ne avrebbe tracciato le direttive. «Esso – scrive Talmon – è ben lontano da quella concezione della libertà che considera scontato il diritto di ogni individuo di esprimere la sua volontà particolare e di difendere il suo interesse personale spontaneamente e senza costrizione esterna. Esso è ben lontano anche dal credo fiducioso che se ognuno formasse la sua volontà sulla base del suo interesse, la volontà generale risulterebbe da una maggioranza di volontà» 39. Quel che Saint-Just proclama è un nuovo principio, che «d’ora innanzi non dovrebbe mai abbandonare le menti di quelli che governano». Un principio di “virtù” non meno che di “terrore”: la repubblica «non sarà mai fondata finché la volontà del sovrano non si imporrà sulla minoranza monarchica e regnerà su di essa per diritto di conquista». Potenza e religione civile della democrazia consistono, quindi, nell’eliminazione del partito sospetto di non allineamento alla rivoluzione. Rispetto al costituzionalismo di Condorcet, che tra maggioranza e volontà generale aveva indicato linee di probabilistico avvicinamento, il fondamentalismo di Saint-Just fissa con ben altra nettezza ciò che alla maggioranza compete di decidere e di attuare. La sua idea della democrazia, mondo di valori oggettivi ed esclusivi, non consente alcun margine al diritto di opposizione, alle libertà individuali, o alla tolleranza. Lo ispira e lo sorregge, più che in ogni altro rivoluzionario francese, l’antica concezione greca della democrazia come vittoria della maggioranza dei “molti” sulla minoranza dei “pochi”, con la soppressione di quest’ultima da parte della prima. Saint-Just, e con lui Robespierre, non vedono distinzioni fra il “nemico esterno” ed il “nemico interno”. Anzi, chi ope39 J.L.
Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, cit., p. 155.
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VI. L’avversione ai partiti
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ra in patria contro la rivoluzione è ancora più “nemico” di chi la combatte dal di fuori. Ed in tal senso, nel rapporto di SaintJust, si afferma che in un regime democratico la sovranità contro i nemici costituisce un elemento essenziale, e vi sostiene una parte più importante che in uno stato tirannico 40. «Se, però, la rivoluzione – suggerisce Mathieu – esige che ciascuno pensi con la testa del Tutto (che non si sa che cosa pensi), e non con la propria, allora è inevitabile che chiunque sia sospettato di lavorare contro la rivoluzione, per il fatto stesso che ha una testa. Quindi non solo c’è qualche nemico interno, ma è nemico chiunque, all’interno» 41. Dopo l’Ottantanove il pensare diversamente non può più credibilmente attribuirsi a differenze di ceto, e neppure sostanzialmente a fedeltà monarchica. Ed ecco allora che la virtù, il più evasivo di tutti i criteri, ma per Saint-Just il più tangibile, viene elevata a criterio decisivo. Unica ed esclusiva verità della democrazia, la virtù repubblicana non può consentire la possibilità di partiti politici che rappresentino oneste differenze di opinione. Partiti e fazioni, che promiscuamente Saint-Just accomuna, potevano avere una funzione utile nell’ancien régime, perché contribuivano all’isolamento del dispotismo. Ma in un regime di libertà e di virtù, quale quello del quale egli si dichiara fautore, i partiti e le fazioni costituiscono un anacronismo e un crimine. 40 «Non c’è nessun governo – dice Saint-Just – che possa preservare i diritti dei cittadini senza una politica di severità, ma la differenza tra un sistema libero e un regime tirannico è costituita dal fatto che nel primo tale politica è usata contro la minoranza che si oppone al bene generale, mentre nel secondo la severità del potere dello Stato è diretta contro gli sfortunati in balia dell’ingiustizia e dell’impunità con cui i poteri vengono esercitati». 41 V. Mathieu, Cancro in Occidente…, cit., p. 105.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
Nel suo Rapporto alla Convenzione contro gli hebertisti, il 13 marzo 1794, Saint-Just sarebbe stato esplicito. «Ogni partito è quindi criminale, perché opera in favore dell’isolamento del popolo e delle società popolari, e in favore dell’indipendenza del governo. Ogni fazione è quindi criminale, perché neutralizza il potere della pubblica virtù… La sovranità del popolo richiede di essere una sola… essa è opposta alle fazioni. Ogni fazione costituisce quindi un attentato alla sovranità. Le fazioni andavano bene per isolare il dispotismo e ridurre l’influenza della tirannia; esse sono oggi un delitto, perché isolano le libertà e riducono l’influenza del popolo» 42. La libertà è raggiungibile solo quando la volontà generale può esprimersi come un sovrano unico e indiviso che delibera sul bene comune del popolo intero. Saint-Just è incapace di vedere nei partiti – categoria talmente negativa da attenuare le stesse positività delle “società popolari” – uno strumento per l’espressione e l’organizzazione delle diverse tendenze della pubblica opinione. Al pari di Robespierre, egli colloca il popolo da una parte e i partiti che cospirano contro di esso dall’altra. Di qui l’aggressiva esortazione al popolo e alla Convenzione a governare con fermezza e ad imporre la loro volontà sulle “fazioni criminali”. Nel discorso non pronunciato del 9 Termidoro in difesa di Robespierre, i mali di un sistema pluripartitico sono descritti da Saint-Just in termini che paradossalmente evocano i mali ascritti nel nostro tempo al regime di un solo partito 43. «L’orgoglio – egli dice – genera le fazioni. Le fazioni sono il più terribile veleno del corpo politico, esse mettono in 42 L.A. Saint-Just, Rapport sur les factions de l’étranger (contre les Hébertistes), in Œuvres, éditions de la Cité Universelle, 1946, p. 217. 43 Cf. J.L. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, cit., p. 161.
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VI. L’avversione ai partiti
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pericolo la vita dei cittadini con il loro potere di calunnia; quando esse regnano in uno Stato, nessuna persona è certa del suo futuro, e l’impero che esse tormentano è una bara; esse mettono in dubbio la falsità e la verità, il vizio e la virtù, la giustizia e l’ingiustizia; è la forza che fa legge… Dividendo il popolo le fazioni mettono la violenza di partito al posto della libertà: la spada della legge e i pugnali degli assassini cozzano insieme; nessuno osa parlare o stare in silenzio; gli individui audaci, che giungono al comando nei partiti, costringono i cittadini a scegliere tra delitto e delitto» 44. Saint-Just – lo si ricava anche dai suoi Fragments sur les Institutions Républicaines – avrebbe nutrito sempre la convinzione che con lo stabilirsi delle “istituzioni” cesseranno le “fazioni”. Allora sì, definitivamente, le istituzioni repubblicane avrebbero posto «l’orgoglio umano sotto il giogo della libertà pubblica» e sotto «la dittatura della giustizia». Che i partiti potessero «sparire in modo che restasse la libertà sola»; che le divergenze di opinione fossero fatto innaturale in democrazia; che esse fossero segno di egoismo e di perversione; che le istituzioni avessero il fine di impedirle. Di tutto questo Saint-Just sarebbe stato teorico vivacissimo, più o meno con gli stessi accenti dei suoi discorsi alla Convenzione. «Il faut – si legge nel primo frammento – substituer par les institutions, la force et la justice inflexible des lois à l’influence personnelle. Alors la révolution est affermée; il n’y a plus de jalousie ni de faction; il n’y a plus de prétention ni de calomnie. Les institutions ont pour objet d’établir de fait toutes les garanties sociales et individuelles, pour éviter les dissentions» 45. 44 L.A.
Saint-Just, Discours sur la défense de Robespierre, in Œuvres, cit.,
p. 254. 45 L.A. Saint-Just, Frammenti sulle Istituzioni repubblicane, a cura di A. Soboul, Torino 1952, p. 35.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
La sua avversione ai partiti non è determinata da esigenze politiche, o da schemi intellettuali, ma nasce tutta quanta, intensissima, da un fondamentalismo etico troppo teso alla democrazia degli antichi per essere sensibile alla democrazia dei moderni. Il suo Montesquieu non ha nulla di “inglese”, ma è tutto “greco”. La sua è una società civile che si regge da sé, “virtuosamente”, senza più bisogno dello Stato e del diritto, o con sempre meno bisogno dello Stato e del diritto, in un’area di federalismo sociale, che è l’opposto di ciò che allora si intendeva con “federalismo”, l’opposto dell’isolamento, dell’individualismo, in certa misura del liberalismo. Saint-Just aspira ad una società civile fondata su istituzioni di tipo spartano, che mantengano il legame fra società e natura, fra bene comune e volontà generale. Nella sua ansia «de substituer l’ascendant des mœurs à l’ascendant des hommes», la criminalizzazione dei partiti è assoluta ed intransigente. Solo che allorché puntano a rubricare i partiti politici come fenomeno di antropologia criminale, e come null’altro che questo, sono poi le istituzioni ad apparire – esse – faziose. La virtù diventa principio di terrore. La volontà generale di Rousseau e di Condorcet si rivela introvabile. «Buono o malvagio, l’uomo – per Mathieu – ha una volontà, nonostante tutti i tentativi di interpretarla come determinata da condizioni meccaniche, chimiche, biologiche e sociali. Questa volontà decide qualcosa, o, almeno, ha tutta l’apparenza di decidere. La volontà generale, per contro, nessuno l’ha mai incontrata. Nessuno ha mai saputo indicare un indizio attendibile per desumerla. Quando c’è qualcosa da fare veramente, essa non può che farsi rappresentare dalla volontà di qualcuno, di qualche singolo; e, per quanto grande sia la buona fede di costui, è fatale che qualcun altro non ci creda; o che pensi, per lo meno, che sarebbe meglio
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VI. L’avversione ai partiti
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capace lui, d’interpretare la volontà generale, se gliene si desse il modo» 46. Nella democrazia dei moderni, profondamente intrisa di liberalismo, tra la presunta volontà generale e la effettiva volontà dei singoli non c’è incompatibilità, né incomunicabilità. Grazie alla presenza e all’azione dei partiti. Un’idea inglese che in Francia la Rivoluzione ha avversato e che la Restaurazione avrebbe riproposto.
46 V.
Mathieu, Cancro in Occidente…, cit., p. 97.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
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VI. L’avversione ai partiti
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APPENDICI
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
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VI. L’avversione ai partiti
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INTRODUZIONE
Idealmente, e sotto molti aspetti anche “tecnicamente”, vicine ai temi delle pagine precedenti, queste tre appendici, ricavate da interventi pronunciati in questi ultimi anni a convegni di studio variamente articolati, consentono, in modo ovviamente limitato ma abbastanza significativo, di ripercorrere anche nel nostro secolo e nel nostro paese taluni momenti particolarmente suggestivi di una riflessione sui partiti, destinata per forza di cose ad apparire “classicissimo” e ad un tempo “attualissimo” motivo di costituzionalismo liberale. La prima appendice, Il costituzionalismo senza partiti di Gaetano Mosca, ripresa da Governo e governabilità nel sistema politico e giuridico di Gaetano Mosca, a cura di E.A. Albertoni, Istituto giuridico della Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Milano, Comitato Internazionale Gaetano Mosca per lo studio della classe politica, Milano 1983, pp. 316-330, risale ad una comunicazione presentata al «Secondo Seminario Internazionale Gaetano Mosca» tenutosi a Milano il 27 e 28 novembre del 1981. La seconda appendice, ripresa dal volume Dalla politica alla storia. Atti delle giornate di studio in memoria di Vittorio de Caprariis, a cura di G. Buttà, Messina 1986, pp. 241-257, risale alla relazione tenuta in occasione delle giornate di studio dedicate a Vittorio de Caprariis, promosse dall’Università di Messina e ivi svoltesi dal 1º al 3 ottobre del 1984.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke
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La terza, infine, è il frutto di un intervento al convegno tenutosi il 1º giugno del 1985 a Milano su iniziativa del circolo «Il Politecnico», per ricordare il quarantennale della rivista «Lo Stato Moderno», ed è stata ospitata nel fascicolo di aprile-giugno 1985 di «Archivio Trimestrale», pp. 389-394.
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Appendice I. Il costituzionalismo senza partiti di Gaetano Mosca
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I.
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IL COSTITUZIONALISMO SENZA PARTITI DI GAETANO MOSCA
Costituzionalismo senza partiti quello di Gaetano Mosca? Costituzionalismo secondo liberalismo, ma non secondo democrazia? 1. Parrebbe proprio di sì, se è vero, parole di un giurista come Hans Kelsen, che «la moderna democrazia si fonda interamente sui partiti politici, la cui importanza è tanto maggiore quanto maggiore applicazione trova il principio democratico» 2. E soprattutto se è vero, parole di un politologo come Giovanni Sartori, che «i partiti non sono soltanto diventati un protagonista di primissimo piano dei nostri sistemi politici, ma sono anche il tipo di organismo politico che più somiglia, o dovrebbe accostarsi, al prototipo ideale di ogni democrazia: le associazioni volontarie» 3. Idealmente, non meno che storicamente, Mosca non nutriva illusioni e non nutriva fiducia nella creazione volontaria di piccole e libere comunità inter pares. Non da uno spirito di associazione – libertà di agire “in comune” esercitata ed esercitabile grazie alla libertà di agire “soli” – egli vedeva sorgere
1 Nella intervista concessa a Mario Calderoni per «Il Regno» nel 1904, Mosca dichiarava di essere antidemocratico ma non antiliberale, anzi di essere contrario alla democrazia proprio perché liberale. (Cf. G. Mosca, Aristocrazie e democrazie, in Partiti e sindacati nella crisi del regime parlamentare, Bari 1949, pp. 331-337). 2 H. Kelsen, Democrazia e cultura, Bologna 1955, p. 23. 3 G. Sartori, Democrazia e definizioni, Bologna 1969, p. 100.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke - Appendici
i partiti. Era piuttosto l’«istinto di attrupparsi e di combattere contro gli altri attruppamenti» a fornire «la prima base ed il fondamento più primitivo tanto delle lotte esterne, che accadono fra società diverse, che delle fazioni, delle sette, dei partiti, ed in certo modo anche delle varie Chiese e di tutte le divisioni e suddivisioni che sorgono in seno ad una stessa società e vi occasionano lotte morali e qualche volta materiali» 4. Precedenti e lineamenti del partito politico, ispirati a quella che Kant aveva definito «insocievole socievolezza degli uomini» e sempre da Mosca ricondotti alla continuità del prevalere di minoranze organizzate su maggioranze prive di coesione, possono così rinvenirsi in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni azione. Legami «di famiglia, di classe, di setta o di partito politico» ricorrono e concorrono, sostanzialmente equivalenti, nella formazione delle minoranze organizzate anche in regime rappresentativo: «la partecipazione di un certo numero di valori sociali al reggimento dello Stato, la influenza e l’organizzazione di molte forze politiche, che in uno Stato assoluto, cioè retto dalla sola burocrazia, sarebbero rimaste inerti ed escluse» 5, non è mai ascritta alla presenza e alla azione dei partiti. Neppure implicitamente tali legami vengono identificati come nuove strutture di rappresentatività e di responsabilità della nuova dialettica fra società e Stato che il costituzionalismo ha introdotto, a livello di “parlamento” prima, e a livello di “governo” poi. Nuove strutture – i partiti – diverse e per tanti aspetti antitetiche rispetto alle vecchie – le fazioni, le famiglie, le classi, le sette – che “strutture” non erano e che piuttosto tendevano a comparire, scomparire, riapparire come “congiunture” 4 G. Mosca, Elementi 5 Ibid., p. 207.
di scienza politica, Bari 1939, vol. I, p. 240.
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I. Il costituzionalismo senza partiti di Gaetano Mosca
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della lotta politica. Nuova dialettica – quella «della società che si fa Stato», come amava dire dei partiti Costantino Mortati 6 – che nel tramonto dell’assolutismo e nel radicarsi del costituzionalismo vedeva svuotarsi gli schemi della tradizionale rappresentanza giuridica delle volontà dei mandanti facendovi subentrare la moderna trama della rappresentanza politica, in cui il primato gerarchico-autoritario dello Stato sulla società civile si scompone «sulla base di un sistema, capace di rappresentare la concreta volontà del popolo e di esprimere contemporaneamente l’unità dello Stato» 7. Mosca cerca, invece, di spiegare le nuove strutture insieme alle vecchie. Basti soltanto pensare al titolo, Chiese, partiti e sette, del capitolo degli Elementi di scienza politica che traccia i profili attraverso i quali ricostruire l’emergere e lo stabilizzarsi dei gruppi dirigenti in seno alle collettività umane. Il passaggio dalla vecchia formula assolutista de “lo Stato sono io” alla nuova formula costituzional-rappresentativa de “lo Stato siamo noi”, e contestualmente dallo scatenarsi delle fazioni al competere dei partiti, sembra impotente ad attenuare la portata delle sue amare, quasi metalliche, deduzioni di «compassione per le qualità contraddittorie della povera razza umana» 8.
6 C. Mortati, Note introduttive ad uno studio sui partiti politici nell’ordinamento italiano, in Scritti giuridici in memoria di Vittorio Emanuele Orlando, II, Padova 1957, ed ora anche in Problemi di diritto pubblico nell’attuale esperienza costituzionale repubblicana. Raccolta di scritti, III, Milano 1972, p. 385. 7 A. Colombo, La dinamica storica dei partiti politici, Milano 1970, p. 21. 8 «In verità il sentimento, che nasce spontaneo da una rapida e spregiudicata sintesi della storia dei popoli, è la compassione per le qualità contraddittorie della povera razza umana: così ricca di abnegazione, così pronta alle volte al sacrificio individuale e nella quale, nello stesso tempo, ogni tentativo più o meno indovinato, e qualche volta non indovinato affatto, per raggiungere un miglioramento morale e quindi materiale, va unito allo sfrenarsi di
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke - Appendici
La nuova dialettica non si mostra in grado di determinare un effettivo ribaltamento della dialettica permanentemente connaturata alla vicenda politica. «Quel che avviene – per Mosca – colle altre forme di governo, avviene pure, e perfettamente, malgrado le apparenze contrarie, col sistema rappresentativo. Quando si dice che gli elettori scelgono il loro deputato, si usa una locuzione molto impropria; la verità è che il deputato si fa scegliere dagli elettori, e se questa frase sembrasse in qualche caso troppo rigida e severa, potremmo temperarla dicendo che i suoi amici lo fanno scegliere. Accade nelle elezioni, come in tutte le altre manifestazioni della vita sociale, che gl’individui, che hanno voglia e soprattutto i mezzi morali, intellettuali e materiali per imporsi agli altri, primeggiano su questi altri e li comandano» 9. Mandato politico di diritto pubblico e mandato civile di diritto privato non sono assimilabili perché, nei rapporti privati, la delegazione di poteri e di facoltà presuppone sempre nel mandante la più ampia libertà nella scelta del mandatario. La quale invece, ritenuta amplissima in teoria, diventa quasi nulla ed irrisoria nella pratica delle elezioni politiche. A ridurre tale libertà di scelta, si argomenta nel sesto capitolo della Teorica dei governi, meno limpidi dei prefetti, meno influenti dei grandi elettori in proprio, contribuiscono i partiti, odii, di rancori, delle passioni peggiori. Tragico destino quello degli uomini: i quali, pur aspirando sempre a conseguire ed attuare il bene, trovarono nello stesso tempo il modo di scannarsi e perseguitarsi a vicenda, fino a ieri, per l’interpretazione di un dogma o di un passo della Bibbia; hanno continuato a scannarsi e a perseguitarsi oggi per inaugurare il regno della libertà, dell’uguaglianza e della fratellanza; e probabilmente si scanneranno, si perseguiteranno, si martirizzeranno atrocemente domani, quando in nome della democrazia sociale, si vorrà fare sparire dal mondo ogni traccia di violenza e d’ingiustizia» (G. Mosca, Elementi…, cit., vol. I, p. 286s.). 9 G. Mosca, Elementi…, cit., vol. I, p. 206.
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I. Il costituzionalismo senza partiti di Gaetano Mosca
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aggregazioni prevalentemente cittadine promosse da quanti, avendo un certo valore elettorale ma non potendo costituire ciascuno un grande elettore riconosciuto, «s’uniscono in molti per farsi valere» 10. Sicché la sua attenzione di costituzionalista della “costituzione materiale e di politologo del “sociale” non considera i partiti una necessità obiettiva, una tipica esigenza, un elemento caratterizzante del sistema rappresentativo. Nella Teorica, nelle Costituzioni moderne, negli stessi Elementi (dove pur dei partiti si analizza e si distingue un certo tipo di ragion d’essere e di operare), nei tanti scritti ed articoli ad essi direttamente o indirettamente dedicati, i partiti finiscono col sembrare i grandi assenti. Proprio perché non vi si afferma mai che della vita politica concepita e praticata rappresentativamente i partiti politici sono protagonisti irrinunciabili. Affermazione che dalla riluttanza di Mosca a far sua potremmo essere indotti ad attribuire al costituzionalismo democratico e non al costituzionalismo liberale. Quasi che il liberalismo sia da annoverarsi come dottrina politica che congenitamente, strutturalmente, logicamente, escluda i partiti, correlativi alla Weltanschauung della democrazia ma non anche a quella del liberalismo. Quasi che i partiti rechino in sé ab origine aspetti di risorgente feudalesimo, di frammentazione particolaristica, di nuova minaccia all’integrità della libertà individuale, insidiata dalla fedeltà di gruppo, fino a configurarsi portatori di malessere e di instabilità del regime rap10 G. Mosca, Teorica dei governi e governo parlamentare, in Ciò che la storia potrebbe insegnare. Scritti di scienza politica, Milano 1958, cap. VI, par. III, p. 280. (Per una efficace sintesi del pensiero di Mosca sui diversi protagonisti e sulle diverse fasi del circuito rappresentativo-potestativo del sistema parlamentare in Italia, cf. E.A. Albertoni, Gaetano Mosca e la teoria della classe politica, Firenze 1974, pp. 79-84).
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke - Appendici
presentativo, anziché condizione e conseguenza del suo esprimersi nelle istituzioni e del suo dispiegarsi nella società. «Se Mosca – rileva Norberto Bobbio – finì per accettare il regime parlamentare, continuò a rifiutare energicamente ed ostinatamente la democrazia sia formale sia sostanziale» 11. Dalla cui matrice, formalmente e sostanzialmente illiberale, gli pareva fosse scaturita quella «classe dei mestieranti di elezioni, che poi vuole essere ricompensata» 12, frutto della competizione fra partiti nell’età del costituzionalismo non meno tossico e perverso, per l’unità dello Stato, del contrapporsi di sette e fazioni nell’età dell’assolutismo. Del resto, dopo che nel 1926 il regime rappresentativo in Italia fu spento, rispondendo ad un’inchiesta dell’Unione Interparlamentare, nel 1928, Mosca sarebbe giunto a fare un elogio pieno ed aperto della “grande epoca”, il cui sviluppo era stato accompagnato ed assecondato dal fiorire e dal diffondersi dei parlamenti; senza che tale elogio e tale rimpianto fosse in nessun punto e per nessun motivo estensibile ai partiti, che di quel sistema, «titolo di onore e di gloria per il secolo decimonono», avevano segnato un fattore di disgregazione e di scardinamento 13. Costituzionalismo senza partiti, insomma, e perfino contro i partiti. Ben lungi, in questo senso, da quel costituzionalismo – a lui tanto caro – dei d’Azeglio e dei Balbo che nei partiti aveva ravvisato la vera alternativa alle fazioni; da quel 11 N. Bobbio, Introduzione a G. Mosca, La classe politica, Roma-Bari 1975, p. XXVI. 12 G. Mosca, Uomini e cose di Sicilia: i partiti, in «Corriere della Sera», ottobre 1905. Cf. G. Mosca, Il tramonto dello stato liberale, a cura di A. Lombardo, con prefazione di G. Spadolini, Catania 1971, p. 424. 13 Cf. G. Mosca, Cause e rimedi della crisi del regime parlamentare, in Partiti e sindacati…, cit., p. 115.
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I. Il costituzionalismo senza partiti di Gaetano Mosca
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costituzionalismo italiano, certamente non democratico, ma che pure, nella crisi post-quarantottesca, aveva ripensato ai partiti come opportuni ed auspicabili nuovi soggetti di politica costituzionale; da quel costituzionalismo che non aveva esitato ad affermare con Balbo «esser virtù dei governi rappresentativi portar le parti dalle piazze alle Camere» 14. A ben vedere, la legittimità dei partiti nella città politica rappresentativamente costruita e rappresentativamente presidiata non derivava affatto da dogmi di costituzionalismo democratico. E tanto meno risaliva, per usare il linguaggio di Mosca, all’avere Rousseau e con lui Robespierre elevato a “verità indiscutibile” il “falso mito della sovranità popolare”. Anzi, Rousseau e Robespierre avevano rifiutato l’idea stessa dei partiti, pregiudizialmente bollati come fazioni dalla loro risoluta determinazione anticorporativa. E comunque, nel caso della Rivoluzione francese, ogni rapporto e raccordo fra istituzioni e partiti si era consumato in tempi brevissimi e si era rivelato “di parte”, non certo “di partito”: tanto più “parte”, l’esperienza democratico-giacobina, nel suo prologo non meno che nel suo epilogo, quanto più protesa ad essere “tutto”. Di lì sarebbe ripartita nella Restaurazione la riflessione del costituzionalismo liberale, significativamente riavviata da Constant 15.
14 C. Balbo, Della Monarchia rappresentativa in Italia, Firenze 1857, p. 289. (Per un discorso complessivo su questo ripensamento in tema di partiti della dottrina politica e costituzionale italiana dopo il 1848, pertinenti e stimolanti si rivelano ancor oggi le considerazioni di G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Milano 1971 no 288-313). 15 «On ne peut se flatter – argomenta Constant nei Principes de politique – d’exclure les factions d’une organisation politique, où l’on veut conserver les avantages de la liberté. Il faut donc travailler à rendre ces factions les plus innocentes qu’il est possible, et comme elles doivent quelquefois être victorieuses, il faut d’avance, prévenir ou adoucir les inconvénients de leur victoire» (B. Constant, Œuvres, Paris 1957, p. 1158).
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke - Appendici
Dove e quando la libertà non è più “in piazza” ma sale e si ordina “in parlamento”, secondo una “formula” che certo Mosca non farebbe rientrare nell’area del costituzionalismo democratico più di quanto non rientri direttamente ed a pieno titolo in quella del costituzionalismo liberale, alle “parti” subentrano i “partiti”; gli istituti nei quali si attua la rappresentanza sono da essi verificati e vivificati ogni giorno; quelle che “in piazza” potevano risultare lacerazioni distruttive dell’unità collettiva diventano “in parlamento” occasioni e condizioni per costruire una unità collettiva non immobile e non uguale a se stessa, fondata sulla varietà, sulla diversità, sulla libertà. Sicché, come suggerito da Salvatore Valitutti, «sarebbe forse esatto dire che non sono nuovi i partiti, ma nuovo è il parlamento e che proprio il loro rapporto sostanziale con questa imponente novità ha fatto sì che, anch’essi, siano risultati nuovi» 16. Ma se culla dei partiti è un’esigenza di “parlamento”, essi sono sorti pure per interpretare un’esigenza di “governo”: per introdurre rappresentatività nell’esercizio della responsabilità; per imporre una “politica” che universalizzasse ed integrasse il carattere “sezionale” degli interessi rappresentati, nella linea di una tendenziale convergenza fra nazione e Stato. Esiste governo rappresentativo nella formazione non meno che nell’assunzione delle decisioni. Ed i partiti servono a garantire entrambi questi momenti. Lo si ricava dalla definizione data da Burke del partito come di «un gruppo di uomini uniti per promuovere mediante i loro sforzi congiunti l’interesse nazionale sulla base di un principio specifico sul quale sono tutti d’accordo» 17. Coloro che pensano e parlano li16 S. Valitutti, I partiti politici e la libertà, Roma 1966, p. 49. 17 La definizione fu avanzata da Edmund Burke negli ormai
classici
Thoughts del 1770.
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I. Il costituzionalismo senza partiti di Gaetano Mosca
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beramente non sempre pensano e parlano allo stesso modo; sicché il parlamento è tale se in esso si incontrano partiti. E parimenti coloro che governano non possono non raccordarsi a qualche principio generale (e non generico) che ne guidi e ne consenta di valutare l’operato; sicché il governo è pur esso responsabilità di partiti. Del resto, al carattere idealmente e tecnicamente orientato della responsabilità governativa in un paese libero, e pertanto ad una rappresentanza che identificasse ideologia e potere, ed organizzasse le sue forze, la sua tattica, la sua risonanza esterna, per realizzare i suoi contenuti programmatici, si è pervenuti storicamente grazie ai partiti. Grazie a partiti che non fossero fazioni. Ad un Mosca che fazioni e partiti vede generarsi lungo una eguale traiettoria di contenzioso politico, potrebbe opporsi il ricordo di come fosse diventata massima assai diffusa nell’Inghilterra di fine Settecento e inizio Ottocento quella che poneva la estinzione dei partiti all’origine delle fazioni 18. Come se l’Inghilterra dei partiti, l’Inghilterra di Hume e di Burke, continuatrice dell’Inghilterra di Walpole e non di quella del suo grande avversario Bolingbroke, volesse scolpire nel marmo del senso comune la sua irriducibile opposizione alla Francia senza partiti, alla Francia di Rousseau, di Robespierre, di Napoleone. Di fazioni e partiti non mancano negli scritti di Mosca frequenti ed anche pertinenti classificazioni e tipologie; quelle che mancano sono viceversa le distinzioni. Distinzioni tan18 In ciò capovolgendo l’ordine e l’andamento abituale delle considerazioni su fazioni e partiti. Cf. C.G. Hello, Du régime constitutionnel dans ses rapports avec l’état actuel de la science sociale et politique, Bruxelles 1849, 3ª ed., p. 420.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke - Appendici
to trascurate da Mosca, politologo del “sociale”, e tanto curate da Sartori 19, politologo del “politico” assai più che del “sociale”. Distinzioni, comunque, costituzionalmente, oltre che politologicamente, necessarie e, se così può dirsi, funzionali: nel senso che un partito si configura parte di un tutto che mira a realizzare le finalità del tutto, laddove una fazione è soltanto una parte che fa parte a sé, operando esplicitamente pro domo sua; nel senso soprattutto che in regime di governo rappresentativo e responsabile l’idea di partito richiama e presuppone una funzione, non altrettanto l’idea di fazione. Teso ad analizzare, anche del governo rappresentativo e responsabile, una traiettoria di contenzioso politico che permanga in qualche modo immutabile, al di là degli stessi nuovi valori del liberalismo e degli stessi nuovi congegni del costituzionalismo, Mosca finisce sempre col privilegiare, fra le funzioni di un sistema partitico, quella repressiva anziché quella espressiva. Ed anche qui verrebbe da contrapporgli Sartori. «I partiti – dice infatti Sartori – sono nati e si sono sviluppati per esprimere e non per reprimere, come strumento di libertà e non come strumento di coercizione. Ciò significa che i partiti appartengono alla strumentalità della rappresentanza, e cioè che sono un veicolo, un mezzo, per rappresentare il popolo esprimendone le richieste. Con ciò non intendo asserire che tutti i partiti sempre esprimono e rappresentano; sto sol19 Cf. G. Sartori, Partiti e sistemi di partito, Editrice Universitaria, Firenze 1965. Si tratta di un corso di lezioni universitarie in larga parte incentrato sulla esigenza di mantenere concettualmente distinte e separate le nozioni di partito e di fazione, indicando tutta una serie di criteri ed argomenti discriminanti. Il tema è stato poi ripreso, con anche un excursus sulla dottrina politica in tema di partiti e di fazioni nei secoli XVIII e XIX, in G. Sartori, Parties and party systems, Cambridge 1976, vol. I.
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I. Il costituzionalismo senza partiti di Gaetano Mosca
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tanto dicendo che la loro ragione d’essere essenziale è di servire lo scopo di assicurare un governo rappresentativo e responsabile» 20. È all’interno di un governo rappresentativo e responsabile che dei partiti si parla con riferimento a quella che il lessico più ricorrente chiama «trasmissione della domanda politica» 21. I partiti, si osserva, rispetto agli altri gruppi sono in grado di presentare la domanda politica in termini più generali, anticipando la statualità dell’interesse rappresentato, cioè della domanda da trasmettere. Se è vero che i partiti non sempre presentano unicamente domande generali, improntate al “bene comune”, bensì anche, in misura maggiore o minore, e in certi periodi magari in misura esclusiva, domande improntate al “bene di alcuni”, è ugualmente vero che il partito è sempre tenuto a calarne l’eventuale particolarismo in una certa visione degli interessi generali. Di qui la convinzione della scienza politica “post-moschiana” che mentre i gruppi individuano la domanda, le danno voce, i partiti hanno il compito di aggregarla 22. Di qui la stessa opinione di chi, pur sostenendo che i partiti non si distinguano dagli altri gruppi per la natura della domanda trasmessa, propone poi una distinzione nel fatto che i partiti, a differenza dei gruppi d’interesse, assumono in proprio l’insegna di lottare per l’esercizio del potere politico 23. 20 G. Sartori, Partiti…, cit., p. 10. 21 Cf. D. Easton, Approach to the Analysis
of Political System, in «World Politics», IX, 1957, pp. 383s., riprodotto in appendice a Il sistema politico, Milano 1963. 22 Cf. G.A. Almond, Un approccio funzionalista allo studio della politica comparata, in Antologia di scienza politica, a cura di G. Sartori, Bologna 1970, pp. 75s. 23 Cf. T. Kaiser, Die Repräsentation organisierter Interessen, Berlin 1956, citato ed analizzato da P. Rescigno, Persona e comunità, Bologna 1966, pp. 113s.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke - Appendici
A lottare in proprio per l’esercizio del potere, o ad aggregare la domanda politica, non pensavano affatto quei corpi “rappresentativi” chiamati a sedere in “parlamenti”, con funzioni consultive o di parziale controllo nei confronti del potere esecutivo, che esistevano in Europa dal Medioevo. Ciò che ne distanzia e ne distingue completamente la capacità rappresentativa ed espressiva rispetto ai partiti moderni è che essi non partecipano alla iniziativa della politica dello Stato, non intervengono né alla progettazione delle leggi, né all’indirizzo della politica estera, restano estranei a qualsiasi radice (anche mediata ed indiretta) di sovranità. «La storia del partito moderno – si legge nella ricostruzione di Umberto Segre – è, in questo senso, legata necessariamente alla storia delle costituzioni, dei regimi rappresentativi e dei sistemi amministrativi. Ma nello stesso tempo i partiti a loro volta sono all’origine dei regimi costituzionali, li fondano di fatto, conferiscono loro forza e attendibilità concreta. Si ha un bell’accusarli di strapotenza e di usurpazione: parlamenti e governi non sorretti, animati e guidati da forze politiche organizzate, diventano pure forme, e decadono sotto la pressione di altre forze politiche, che, imponendosi fuori delle forme costituzionali, non offrono più nessuna delle garanzie di verifica del consenso popolare, e di azione condotta per le vie della legalità, che sono proprie appunto del sistema rappresentativo mediante partiti» 24. Il partito moderno è dunque quello che, definendosi ideologicamente, e venendo perciò a costituire il veicolo attraverso il quale cultura politica e condizione sociale si con24 U. Segre, Verità e politica. Verità della politica, Milano 1979, pp. 177s. Si tratta della ripubblicazione di pagine riprese dalla Storia del partito moderno già apparsa nei «Quaderni del terzo programma», Torino 1964.
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I. Il costituzionalismo senza partiti di Gaetano Mosca
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giungono, ribalta il rapporto da Mosca stabilito tra classe politica e formula politica: rapporto negli Elementi meno rigidamente fissato di quanto non fosse nella Teorica, ma pur sempre concepito come un a posteriori della formula rispetto alla classe politica. «Una classe politica – gli avrebbe obiettato Vittorio de Caprariis –, in nessun momento della storia, ha mai conquistato il potere senza avere una formula politica che fosse già strumento della conquista stessa del potere: l’analisi storico-politica mostra a sufficienza che nessuna formula politica è mai stata invenzione post factum di un puro strumento di esercizio. D’altra parte il nesso di ideologia, di cultura e politica è un fatto storicamente accettabile e filosoficamente dimostrato, ed è un nesso dialettico, tale cioè che non può essere prospettato come qualcosa che dia luogo ad un’operazione simile a quella di un sarto che utilizza i suoi modelli di carta. Se questo è vero, il processo di formazione della formula politica si configura in modo profondamente diverso da come il teorico siciliano aveva immaginato» 25. Obiezione, questa di De Caprariis, abbastanza analoga a quella a suo tempo avanzata da Guglielmo Ferrero. «A me pare – scriveva Ferrero a Mosca, il 6 maggio del 1923, dopo aver letto ed accingendosi a recensire gli Elementi – che tu non dia ancora la necessaria importanza a quella che tu chiami la formola politica e che io chiamo il principio di legittimità dei governi. Tu sembri considerarlo ancora come una specie di pia fraus o di menzogna convenzionale, utile per giustificare il potere soprattutto agli occhi della massa ignorante. Io mi vo persuadendo sempre più che è la parte essenziale del 25 V. De Caprariis, Profilo di Gaetano Mosca, in «Il Mulino», maggio 1954, p. 363.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke - Appendici
governo e che la forza non è che un elemento subordinato, il quale non ha un’efficacia vera se non si appoggia al primo» 26. Ed era forse proprio la disattenzione di Mosca all’incessante interagire delle varie formule sulle varie classi politiche a generare la sua disattenzione alla straordinaria novità dei partiti: nuova moderna alternativa alle fazioni; effetto e ad un tempo alimento del sistema rappresentativo. Troppo spesso, più che al partito di Burke, egli sembra aver mente al partito di Lenin, che certo non è nuovo moderno strumento della formula liberale e rappresentativa ma che anzi aspira a cancellarne prerogative e potenzialità. Il partito che è subentrato alla fazione, teorizzato da Burke come attributo irrinunciabile della forma di governo inglese, apprezzato da Tocqueville 27 come moderna risorsa liberale della democrazia americana, non contiene implicazioni totalizzanti, e tanto meno totalitarie. Vi è connessa la spinta a guardare al “tutto”, confrontandosi e lottando con le “parti”. Insomma, lo “spirito di partito”. Spirito di partito che negli Stati Uniti d’America, secondo Mosca, destituiva di credibilità lo stesso tessuto di “difesa giuridica”, denotando tutta l’«impotenza della democrazia a 26 Gaetano Mosca e Guglielmo Ferrero. Carteggio (1896-1934), a cura di C. Mongardini, Milano 1980, p. 331. 27 In uno studio di Nicola Matteucci sul problema del partito in Tocqueville, si legge ad un certo punto: «…forzando tutte queste tipologie, non possiamo forse dire che, fra i partiti moderni, quello che realizza un’adeguata partecipazione politica è del tutto simile a quel paleo-partito che nel Settecento e nel primo Ottocento è stato opposto alla fazione? Basta porre attenzione non al momento organizzativo, ma a quell’ideale che ne costituisce l’anima, contrapponendosi all’interesse… Sono stati forse forzati i passaggi, ma era l’unico modo per arrivare alla distinzione posta dal Tocqueville fra grandi e piccoli partiti, dove, sia ben chiaro, grande e piccolo non indica una dimensione quantitativa (il numero di aderenti), ma qualitativa (il fine che li anima: i grandi ideali appunto, o i piccoli interessi)…» N. Matteucci, Il problema del partito in A. de Tocqueville, in «Il pensiero politico», I, 1968, n. 1, p. 47.
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I. Il costituzionalismo senza partiti di Gaetano Mosca
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controllare e limitare se stessa» 28. Di qui la sua ammirazione per presidenti come Johnson, Hayes e Cleveland che egli riteneva si fossero opposti «con tenacia e coraggio ai peggiori eccessi dei partiti, che li avevano eletti» 29. Di qui la sua insofferenza a certi argomenti liberaldemocratici di Tocqueville in favore dei “grandi partiti” americani 30. L’avversione di Mosca al radicarsi dello spirito di partito si muoveva simmetricamente – secondo “convergenza parallela”, può ben dirsi – alla sua avversione al radicarsi del suffragio universale. Esplicito anche qui quanto si legge negli Elementi a proposito del «vizio fondamentale di tutto il regime politico ed amministrativo dell’Unione americana. Vizio, che è stato molto aggravato dalla tendenza, che fra il 1820 ed il 1850 cominciò a prevalere e che ora è diventata quasi generale, per la quale il suffragio è quasi in tutti gli Stati divenuto universale; sicché un’unica categoria di elettori dà i suffragi in tutte le elezioni e si son rese direttamente elettive e tempora28 G. Mosca, Elementi…, cit., vol. I, p. 199. 29 G. Mosca, Elementi…, cit.., vol. I, p. 200 («Johnson – annota Mosca
–, arrivato alla Presidenza alla morte di Lincoln, si oppose costantemente a che il Sud, già vinto, fosse abbandonato al saccheggio dei politicanti repubblicani, conosciuti sotto il nomignolo di carpets baggers. Hayes, anch’egli repubblicano, benché arrivato al potere per mezzo di spostamenti di voti poco corretti, sanzionati dal lodo, evidentemente parziale, del magistrato della suprema corte, fece subito cessare il regime di spoliazione e di terrore, durato per otto anni negli Stati democratici del Sud, durante la doppia Presidenza del troppo famoso Simpson Grant. Cleveland, presidente democratico eletto nel 1884, fra gli altri atti sommamente meritori, ebbe il coraggio di mantenere al loro posto alcuni funzionari repubblicani, che i suoi partigiani volevano destituiti; generoso tentativo di abolire il sistema di Jackson, secondo il quale ogni partito vincitore si attribuisce tutti i posti retribuiti»). 30 «Il Tocqueville, il cui valore come osservatore è stato alquanto esagerato, non vide che il principio di questo movimento democratico e non ebbe modo di esaminare la democrazia pienamente trionfante (G. Mosca, Elementi…, cit., vol. I, p. 201).
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke - Appendici
nee le nomine di giudici dei vari Stati, che prima erano a vita e generalmente attribuite ai rispettivi governatori. In questo modo la stessa cricca elettorale elegge infallibilmente le autorità federali e quelle locali; governatori, giudici e parlamento sono in fondo gli istrumenti delle stesse influenze, le quali diventano le padrone assolute ed irresponsabili di tutto uno Stato. Tanto più che i politicanti americani, che fanno un mestiere delle elezioni, sono abilissimi nell’arte di stabilire il Ring (letteralmente tradotto l’anello, il circolo), cioè il sistema mediante il quale tutti i poteri, che dovrebbero controllarsi e completarsi a vicenda, diventano l’emanazione di un solo caucus o comitato elettorale» 31. Un potere o soltanto un’influenza derivati come emanazione di comitati elettorali, per Mosca, degradavano il costituzionalismo ad aritmetica. Significativo in questo senso un articolo, Il suffragio femminile in Italia, sul «Corriere della Sera» del 18 maggio 1907, nel quale dell’elettorato – e maschile e femminile – si circoscrive la funzione a “giudice” della competizione tra élites politiche: strumento di selezione, ma non per questo di legittimazione 32. Nella sua preoccupazione, talvolta vera e propria ossessione, del carattere brutalmente numerico e antiqualitativo che informa la scelta delle rappresentanze politiche alle elezioni, la classe politica veniva pensata e dedotta come staccata – oltre che dalla formula – dal resto dell’umanità. Nulla il suo positivismo concedeva all’idealismo di un Guido De Ruggiero, che alla accettazione della democrazia del suffragio perveniva con argomenti schiettamente umanistici e liberali. «Quando – per De Ruggiero – si parla del trionfo del numero nella democra31 G. Mosca, Elementi…, cit., vol. I, pp. 201s. 32 Cf. G. Mosca, Il tramonto dello stato liberale,
cit., pp. 105-111.
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I. Il costituzionalismo senza partiti di Gaetano Mosca
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zia, si dimentica che non è un numero di pecore o di buoi quello di cui si parla, ma di uomini, e che quindi la quantità è l’espressione simbolica di un valore qualitativo. La estensione dei suffragi è in realtà un’estensione dei consensi, un’adesione a qualcosa di ideale, a un partito, a un programma, a una personalità; essa è pertanto il principio di una sintesi» 33. Invece del “principio di una sintesi”, Mosca sembra avvertire nel circuito elettori-partiti-parlamento-governo un ritorno di feudalesimo. E con esso un pericoloso declino del ruolo degli intellettuali nella società democratica. Declino dettato dall’invadenza e dalla prepotenza delle forze economiche e dei centri di potere partitico: le une e gli altri beneficiati dall’«accrescere l’influenza politica delle grandi masse e quella della ricchezza, che le sa comprare, a detrimento degli elementi che rappresentano l’intelligenza e la superiore coltura scientifica: il che val quanto dire aumentare il potere delle forze materiali, naturalmente sostenitrici del regime arbitrario, a scapito di quelle morali, che sole nella società rendono possibile il regime di Diritto» 34. Il regime di diritto per Mosca non poteva realizzarsi calpestando quella che Burke avrebbe definito la “vera naturale aristocrazia”. Ed ecco la sua straordinaria coerenza di grande conservatore e di grande liberale, nell’accezione più alta dei termini, che ha indotto Antonio Lombardo a parlare di Mosca come di un mancato «Burke italiano» 35. 33 G. 34 G.
De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, cit., p. 362. Mosca, Studi ausiliari del diritto costituzionale, Prolusione al Corso Libero di Diritto Costituzionale, in «Il Circolo Giuridico», (Palermo), XVII, fasc. V, 1886, pp. 11s. (Sul valore attribuito da Mosca alle forze della cultura, cf. P. Gobetti, Un conservatore galantuomo, in «Rivoluzione Liberale» [Torino], 29 aprile 1924, n. 18, ora in Scritti politici, a cura di P. Spriano, Torino 1960). 35 Cf. A. Lombardo, Gaetano Mosca e la classe politica nell’età giolittiana, introduzione a G. Mosca, Il tramonto dello stato liberale, cit., pp. 28-31.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke - Appendici
A voler riprendere questa suggestiva immagine, al di là di ogni distanza di tempi e per così dire di scenari, non c’è dubbio che fra Burke e Mosca, due grandi conservatori e insieme due grandi liberali, venga immediatamente in luce proprio la diversa interpretazione e la diversa dislocazione del partito politico nel contesto del loro costituzionalismo. «Burke – avverte Nicola Matteucci – è il primo a far compiere una radicale svolta al costituzionalismo inglese, e tutta la sua nuova costruzione si appoggia alla scoperta, con David Hume, della funzione del partito politico, che consente di avere un legame con i sentimenti e le opinioni del popolo, e alla rivalutazione della funzione esecutiva, del momento squisitamente politico del governo. Egli distingue il partito dalla fazione: se il primo è un gruppo di uomini unito per promuovere, attraverso tentativi congiunti, l’interesse nazionale sulla base di alcuni particolari principi, sui quali sono tutti d’accordo, la fazione è un gruppo, senza alcun principio pubblico, che dispensa favori e piaceri; il primo serve a collegare la rappresentanza alla nazione, il secondo a dividerle. Attraverso i partiti si articola l’influenza dei grandi interessi del regno – da quelli terrieri a quelli commerciali – mentre le fazioni hanno solo una funzione disgregatrice del tessuto sociale» 36. Mosca, invece, non accoglie nel suo costituzionalismo la distinzione fra partiti e fazioni, ed anche la sua scienza politica, che pur sui partiti indaga, non impernia le indagini su tale distinzione. Sulla base di certo empirismo storicista, in qualche grado comune ad entrambi, potrebbe dedursene la maestosa, insulare, inesportabilità di «quella merce, così difficilmente esportabile proprio per un paese nato dal commercio, che è il costituzionalismo inglese» 37. 36 N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà, Torino 1976, pp. 161s. 37 Ibid., p. 207.
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Appendice II. Democrazia e partiti politici nel liberalismo di V. de Capraris
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II.
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DEMOCRAZIA E PARTITI POLITICI NEL LIBERALISMO DI VITTORIO DE CAPRARIIS
Recensendo su «Il Messaggero» l’opera postuma di Vittorio de Caprariis su Le garanzie della libertà 1, Alfonso Sterpellone, che tutta la recensione incentrava sul come de Caprariis avesse inteso ed affrontato la questione dei partiti in democrazia 2, richiamava ad un certo punto un volume apparso in quegli stessi giorni, a cura dell’ufficio di studi legislativi del segretariato generale del Senato della repubblica, dedicato a I progetti di legge sull’ordinamento e le finalità dei partiti nella Repubblica Federale Tedesca, che si apriva con un ampio saggio introduttivo di Leopoldo Elia. Il quale Elia poneva in rilievo la «profonda ambiguità connaturata ad ogni esperienza partitica nello Stato democratico moderno, in cui si oscilla insensibilmente tra una configurazione meramente privatistica (appartenente alla società civile) ed una configurazione pubblicistica (assimilabile ad alcune parti dello Stato-apparato)… 3. Contro questa “profonda ambiguità” riscontrata dal “chierico” Elia (chierico nel senso di giurista di professione), 1 V. de Caprariis, Le garanzie della libertà, Milano 1966, prefazione di M. Pannunzio. 2 Cf. A. Sterpellone, Demoni all’assalto del regime dei partiti, in «Il Messaggero», 6 maggio 1966. 3 L. Elia, Introduzione, in I progetti di legge sull’ordinamento e finanziamento dei partiti nella Repubblica Federale Tedesca, a cura del Senato della Repubblica, Roma, dicembre 1965, p. 23.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke - Appendici
il “laico” de Caprariis (laico nel senso di non professionalmente giurista) ha combattuto una delle sue più sentite e più continue battaglie politiche, intellettuali, giornalistiche. Una di quelle in cui, per dirla con Aldo Garosci, «vibra nella sua esposizione una passione che sembra voglia rompere la cornice strettamente individuata nel tempo e nello spazio, e esigere accostamenti più remoti, come accadeva in Croce e Omodeo» 4. Sono, infatti, proprio il liberalismo etico-politico di Croce – di quel Croce che nello scritto del 1924 su I partiti politici, poi confluito in Etica e politica, poneva proprio il concetto della individualità dell’azione politica alle origini di quei «vari e mobili aggruppamenti» che sono i partiti politici, e testualmente scriveva «i partiti, cioè gli individui» 5 – ed il liberalismo democratico di Omodeo – di quell’Omodeo assai più di Croce sensibile all’esigenza di definire in nitide forme giuridiche i valori del vivere liberale – a ispirare a de Caprariis, non meno del suo Tocqueville e del suo Hamilton, una spiccata attenzione, molto spesso ad attribuire vera e propria priorità, al problema dei partiti nella più vasta disamina dei problemi istituzionali della democrazia moderna 6. E in questo collocare i partiti al centro dei problemi istituzionali della democrazia moderna c’è già una evidente presa di posizione – di metodo e di merito – a proposito della “profonda ambiguità” rilevata da Elia, e da de Caprariis sofferta nella sua duplice identità (sempre coerente, senza scissioni di personalità) di osservatore e di attore delle vicende dei parti4 A. Garosci, La mente di de Caprariis, in «Il Mondo», 22 giugno 1964. 5 B. Croce, Etica e politica, Bari 1967, p. 195. 6 Problemi istituzionali della democrazia moderna si intitola un fonda-
mentale articolo di de Caprariis, in «Nord e Sud», giugno 1959, poi ricompreso ne Le garanzie della libertà.
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II. Democrazia e partiti politici nel liberalismo di de Caprariis
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ti italiani. Una presa di posizione antitetica alla dislocazione tutta sociale, niente affatto statuale, anzi più o meno consapevolmente antistatuale, dei partiti rispetto alle istituzioni. La denuncia, seppur in nome di sua maestà il liberalismo, della partitocrazia, seppur della più scomposta e proterva, de Caprariis la lascia volentieri ad altri (giuristi o uomini politici, sociologi o politologi, idealisti o realisti, che siano). Il suo obiettivo è di studiare e prospettare sì freni, regole, limiti, ambiti, controlli sui partiti e nei partiti, ma di studiarli e prospettarli in rapporto alle dimensioni e alle implicazioni nuove del problema. Perché le istituzioni non esistono, o comunque ben poco resistono, fuori delle forze politiche concretamente operanti. Non a caso, quando si era occupato di Guicciardini, tutto ciò che Guicciardini dice e vagheggia in fatto di equilibrio politico e costituzionale da restaurare o conservare in Firenze non aveva incantato de Caprariis e non gliene aveva fatto ricavare una prefigurazione di liberalismo moderno. De Caprariis, come ebbe a notare Carlo Antoni 7, aveva piuttosto ravvisato in Guicciardini la straordinaria attitudine a percepire la assoluta prammaticità e relatività di ogni ordinamento istituzionale, nonché, lo ha rilevato Giuseppe Galasso, «il senso vigoroso e profondo della natura schiettamente e oggettivamente politica dei problemi dello Stato» 8, nell’arco di una prospettiva che andava oltre le grandi intuizioni machiavelliane sulla fondazione dello Stato e quasi aggirava in anticipo il piano «schiettamente e oggettivamente giuridico» sul quale si sarebbe attestato Bodin. Sicché de Caprariis aveva 7 Cf.
C. Antoni, La coscienza del Guicciardini, in «Il Mondo», 2 giugno
1951. 8 G. Galasso, Da Socrate a Tocqueville, in «Nord e Sud», giugno-luglio 1965 (numero speciale dedicato a Vittorio de Caprariis), p. 27.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke - Appendici
potuto, appunto, concludere che le istituzioni non stanno «fuori della vita politica che l’uomo crea» 9. Una identica convinzione, se si vuole un analogo argomento e un analogo sentimento, induce de Caprariis a ritenere che il cammino dei partiti, per quanto turbolento e perfino lacerante si riveli il loro incedere, sia un cammino necessario. Ed il fatto che per tale cammino il costituzionalismo liberale non abbia in Italia, a differenza che altrove, predisposto un adeguato binario istituzionale, gli sembra un vuoto da colmare e non un fossato da difendere. Affannarsi ad innalzare ostacoli ed argini provvisori al cammino dei partiti è sforzo inconcludente, e perfino controproducente. Ed egualmente non si tratta di escogitare espedienti tecnicamente accorti contro il prepotere degli apparati dei partiti, ma di sviluppare come nuovo moderno imperativo categorico, e del costituzionalismo e del liberalismo, l’ordinarsi politico e giuridico del “partito moderno” in una articolazione istituzionale e in una dottrina (nell’accezione omodeianamente “dottrinaria”) dell’organizzazione democratica, che sia frutto di concreta intelligenza dei processi politici in atto. I partiti sono per de Caprariis «la forma moderna dell’organizzazione politica degli individui, sono i figli dell’intervento delle masse nella lotta politica e del suffragio universale. Il che vuol dire che le esigenze che li hanno prodotti in quella forma che attualmente essi hanno (e che fa fremere di orrore i vuoti laudatores temporis acti) sono non solo in molta parte benefiche, ma anche di tale entità che non può bastare una legge sul loro finanziamento a regolarli e ad impedire le degenerazioni che inevitabilmente si accompagnano ad ogni cosa 9 V. de Caprariis, Francesco Guicciardini. Dalla politica alla storia, Bari 1950, p. 86.
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II. Democrazia e partiti politici nel liberalismo di de Caprariis
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umana. È necessaria, insomma, una regolamentazione totale, che riconosca nei partiti stessi una istituzione indispensabile della lotta politica democratica e che pertanto li sottoponga ad uno statuto pubblico; è necessaria una riforma vasta ed organica di tutte le articolazioni della vita pubblica, nella quale si mettano a giusto frutto tutte le esperienze straniere» 10. Si avverte in lontananza l’eco della suggestiva formula nenniana del ’45, allorché Nenni definiva i partiti la “democrazia che si organizza”. Ma si avverte soprattutto, assai meno lontana e pienamente fatta propria, la visione energicamente liberaldemocratica con la quale «L’Acropoli» di Adolfo Omodeo e «Stato Moderno» di Mario Paggi avevano guardato ai partiti, nella trama di una complessiva mai generica riflessione di politica costituzionale. C’è un articolo di Mario Paggi, Assemblee costituzionali e partiti politici, su «Stato moderno» del 20 maggio 1946, estremamente significativo. «Non è forse – si domanda a un certo punto Paggi – giunta l’ora di disciplinare giuridicamente i partiti? E nel caso positivo, non si possono trasferire giuridicamente ad essi poteri costituzionali, a impedire che se ne impossessino di fatto? E tutto ciò non potrebbe avere riflessi decisivi sul tipo costituzionale da costruire? Se si vuole uno Stato nuovo, bisogna guardare alla realtà nuova» 11. Sono proprio gli accenti, le parole, le cose di de Caprariis. E se ne potrebbero citare tanti altri di articoli di Paggi 12 10 V. de Caprariis, Costituzione e democrazia (1960), in Le garanzie della libertà, cit., p. 105. 11 M. Paggi, Assemblee costituzionali e partiti politici, in «Lo Stato moderno», 20 maggio 1946. 12 Cf. M. Paggi, in «Lo Stato moderno»: Il governo e i partiti, 5 luglio 1945; La crisi dello Stato, 20 dicembre 1945; Sondaggi, 5 luglio 1946; Un attentato e parecchi problemi, 20 agosto 1948.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke - Appendici
e ripubblicarli insieme a tanti di de Caprariis, facendone venir fuori un volume che non avrebbe nulla di occasionale e sarebbe tutt’altro che un’“antologia” di mera celebrazione. Valga al riguardo una bella, e come al solito intelligente, testimonianza di Paolo Ungari del 1967. «Ognuno di noi – spiegava Ungari – ha amato un Mondo particolare. Il mio era innanzitutto quello di Mario Paggi e di Vittorio de Caprariis. Se ne andarono, negli anni scorsi, portando con sé l’uno l’inquietudine e l’altro il programma di trarre la cultura del neoliberalismo a qualche più stringente conclusione di teoria» 13. Di teoria, di teoria dei partiti, su cui fondare – in termini di liberalismo ed in termini di costituzionalismo – il diritto, il diritto dei partiti. Tanto più che de Caprariis, giusta anche qui un’osservazione di Garosci, in Propaganda e pensiero politico in Francia durante le guerre di religione aveva spesso ragionato, si pensi alle analisi delle forze e controforze che avevano operato nella congiura di Amboise e nella notte di San Bartolomeo, secondo una sua penetrante storicistica “teoria” dei partiti 14; ma sempre, volgendo lo sguardo dall’Europa del sedicesimo a quella del ventesimo secolo, alla luce di una teoria, e magari di una politologia e di una sociologia, dei partiti che mira a veder fissati nel diritto, e dal diritto, le proprie ragioni storiche. La funzione che i partiti svolgono è una funzione pubblica; in quanto tale, essa non può restare abbandonata a se stessa. «Noi sappiamo – insiste de Caprariis – che un regime di libertà è innanzitutto un regime di garanzie della libertà: ora quando i partiti politici siano senza uno statuto pubblico si la13 P. Ungari, «Il Mondo» e Carlo Antoni, in «La Voce Repubblicana», 13-14 luglio 1967. 14 Cf. A. Garosci, La mente di de Caprariis, cit.
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II. Democrazia e partiti politici nel liberalismo di de Caprariis
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scia scoperto uno dei settori più delicati della vita politica contemporanea e si lasciano senza garanzie i cittadini. Una situazione del genere poteva ancora andar bene quando i partiti erano semplici macchine elettorali, che praticamente entrano in catalessi una volta terminata la battaglia delle elezioni: allora il sistema di garanzie della vita parlamentare copriva anche il settore dei partiti. Ma oggi che i partiti sono organi permanenti, che una battaglia all’interno di un partito può avere conseguenze sulla direzione della cosa pubblica, e dunque su tutti i cittadini, anche su quelli che non militano nel partito in questione, non si può tollerare una lacuna così grave nel sistema delle garanzie della libertà» 15. Declamare ogni giorno sulle virtù dello Stato di diritto, e negare poi a questo Stato di affermarsi nella sua funzione giuridica, significa per de Caprariis rinunciare alle virtù del liberalismo nella costruzione dello Stato. Quale che sia, ed è certo forte e sentita, la sua tocquevilliana attenzione alla spontaneità e vitalità della società civile nelle sue più spontanee e vitali manifestazioni, egli si guarda da ogni enfatizzazione in tal senso, incessantemente ribadendo come esigenza autenticamente liberale quella di conferire concreta istituzionalità politica e giuridica ai partiti. Né ad essi soltanto. Ma accanto ad essi ai grandi centri di azione e pressione politica, insomma alla costellazione di gruppi e associazioni politiche, “partiti” sotto un certo aspetto anche loro. Il suo liberalismo, tensione di pensiero e di volontà, si protende nella lotta creativa per estendere le massime fondamentali del diritto dello Stato a forze e situazioni storiche nuove. Ci sono Hamilton e Tocqueville, ci sono Croce e Omodeo: e questo lo si è detto. Ma ci sono pure, e li si avver15 V. de Caprariis, Il problema degli apparati, in «Nord e Sud», agosto 1957, in Le garanzie della libertà, cit., pp. 59s.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke - Appendici
tono, Spaventa e Fortunato, nella straordinaria continuità di quella propensione del liberalismo meridionale ad uno Stato di diritto che non attenui, ma anzi pienamente realizzi, il diritto dello Stato ad essere tale. La legalità dei partiti, e nei partiti, si configura così per de Caprariis come il tema di una grande battaglia liberale, non diversamente da come lo era stata la giustizia nell’amministrazione per la Destra di Spaventa 16. Egli ha presente (spesso per esperienza in qualche modo diretta) i rischi connessi alla ingerenza del potere nella vita interna dei partiti politici, ma ritiene che siano rischi legati ad una concezione liberale della democrazia politica e che quindi sia possibile prevenirli traducendoli in dettato costituzionale. Dice de Caprariis: «lo statuto pubblico dei partiti politici, che fissi cioè come legge dello Stato certe norme fondamentali che devono regolare la vita interna dei partiti e che stabilisca un controllo di democraticità, tale statuto deve avere la forma di emendamento costituzionale. Il che vuol dire che per la sua approvazione sarà necessaria una maggioranza tale che nessun partito da solo potrà mai avere, e che quindi la legge in questione sarà il frutto di una discussione spassionata e approfondita di tutti i partiti. In secondo luogo, il carattere di emendamento costituzionale dello statuto pubblico dei partiti darà la possibilità di applicare il controllo di costituzionalità da parte della Suprema Corte degli atti di governo nei confronti dei partiti» 17. De Caprariis si mostra consapevole di come e quanto, al pari che in ogni costruzione giuridica liberale, anche nella teoria del diritto dei partiti sia insito un elemento di “ideologia”, se si 16 Cf. P. Ungari, Il diritto dei partiti, in «Nord e Sud», anno VI, 61, dicembre 1959, pp. 15-36. 17 V. de Caprariis, Le garanzie della libertà, cit., p. 61.
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II. Democrazia e partiti politici nel liberalismo di de Caprariis
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vuole un punto di vista “di parte”. Solo che si tratterà dell’unico elemento di “ideologia”, o dell’unico punto di vista “di parte”, possibile e proponibile: quello della Costituzione. Ed è su questo terreno che de Caprariis incontra come risoluti avversari intellettuali e politici non tanto gli antipartitocratici alla Maranini quanto i fautori e tutori delle “società intermedie” alla Rescigno. Al di là di tante polemiche giornalistiche (in molti casi determinate da contrapposizioni più temperamentali che culturali), anche Giuseppe Maranini guardava ai partiti come a elementi necessari del sistema di governo, dunque istituzioni costituzionali, e condivideva la necessità di una loro disciplina giuridica 18. Non così Pietro Rescigno 19. Relatore al convegno dell’«Unione Giuristi Cattolici Italiani», nel novembre del 1957, Rescigno ebbe allora ad interpretare quella del 1948 come la Carta di uno Stato “pluralista”, scaturita da un compromesso tra ordinamenti giuridici vivi e vigenti, ciascuno dei quali si era riservato, serrandola dietro cancelli costituzionali, una propria sfera intangibile dall’azione dei poteri pubblici. Egli lamentava, ricalcando un po’ le orme di Dossetti, che tra queste “immunità” figurasse quella dell’ordinamento proprietario borghese, ma questo non gli impediva di inneggiare ai «piccoli mondi dove lo Stato – il funzionario il giudice la legge il regolamento – non può entrare, liberi mondi che si sviluppano per una intima forza propria» 20, dove è dato 18 Cf. soprattutto l’intervento di G. Maranini nel dibattito sugli apparati promosso da «Tempo presente», fascicolo di febbraio 1958, pp. 143-147. 19 Cf. P. Rescigno, Le società intermedie (relazione al convegno dell’«Unione Giuristi Cattolici Italiani», novembre 1957), in «Il Mulino», gennaio 1958, pp. 3-34; nonché Sindacati e partiti nel diritto italiano (prolusione tenuta nell’Aula magna dell’Università di Macerata, 28 novembre 1954), in «Jus», 1956, pp. 1-34. 20 P. Rescigno, Le società intermedie, cit., p. 24.
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all’uomo fuggire l’angoscia esistenziale del vivere moderno, e ritrovare la perduta esperienza mitica della comunità. Tra queste “società intermedie”, antica eppur ricorrente nostalgia della cultura cattolica, venivano a trovar posto pure i partiti, con il loro illeso diritto originario, analogo a quello delle famiglie, delle comunità locali, dei sindacati, della Chiesa di Roma. Questa tesi de Caprariis non la accetta, opponendole, da storico e da storicista, che i partiti da tempo hanno cessato di essere «società intermedie» da tutelare di fronte allo Stato, ma sono proprio, e sotto più di un profilo, lo Stato. Scrive de Caprariis: «Coloro che, come Rescigno, respingono una regolamentazione dei partiti muovono da una visione sostanzialmente esatta della società e delle sue articolazioni, da una concezione il più possibile totale della vita della libertà e dei modi con cui essa si incarna, e vorrebbero lasciare il più possibile libera (ci si perdoni il gioco di parole) questa vita della libertà. Ora questa esigenza, validissima in sé, non sembra potersi applicare ai partiti contemporanei: questi non sono più un gruppo intermedio tra l’individuo e lo Stato, ma sono, o almeno tendono ad essere, lo Stato: se è vero che essi tendono ad assumersi l’intera rappresentatività del paese, a mescolarsi all’amministrazione, se è vero che le loro funzioni sono diventate decisive nella vita di tutta la società (non sono forse i partiti che definiscono la politica nazionale o che creano gli eletti del popolo?), non è più possibile assimilarli ai tradizionali gruppi intermedi e si deve, anzi, ritenere che la libertà sia meglio garantita da una loro regolamentazione piuttosto che da un’assenza di regole» 21. Tocquevilliane eppur spaventiane, le garanzie della libertà di de Caprariis non stanno là dove le aveva poste Rescigno, secondo il quale «la richiesta dei partiti e 21 V.
de Caprariis, Le garanzie della libertà, cit., p. 88.
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dei sindacati di rimanere nel diritto privato, retti dalle brevi e povere norme sulle associazioni non riconosciute, si traduce in una esaltazione del diritto privato, come ultima garanzia della libertà, e in un atto di sfiducia verso lo Stato» 22. Nella visione decaprariisiana fra partiti e Stato la garanzia della libertà deve viceversa valere contro leggi private che si impongono (come in Italia avviene che si impongono) in uno spirito e per fini divergenti da quelli della legge pubblica. Né sembri giuridicamente azzardata, o provocatoria, l’asserzione di de Caprariis secondo cui i partiti «sono, o almeno tendono ad essere, lo Stato». Non accoglibile dal privatista Rescigno, essa non è certo lontana dall’ottica con la quale il costituente e costituzionalista Mortati aveva visto il rapporto fra i partiti e lo Stato. Nella presenza e nell’azione dei partiti politici si sarebbe espressa per Mortati la dialettica della società che si fa Stato. Si fa Stato non occultando in una fittizia e presunta volontà comune il reale contrasto degli interessi, bensì organizzando tali interessi e mostrando la loro suscettibilità di porsi a basi di sintesi politiche» 23. De Caprariis una dialettica della società che si fa Stato la ritiene idealmente legittima, profondamente liberaldemocratica. Non perché fra società e Stato si arrivi, o si debba arrivare, ad una risolutiva compenetrazione. Ma perché attraverso tale costante dialettica si realizzi quella combinazione di libertà ed ordine che forma l’essenza dello Stato costituzionale moderno. Ed il partito politico dei moderni, nel quale la pubblicità del programma implica richiesta aperta di consenso e possibilità di controllo, nel quale ideali e procedure di parzia22 P. Rescigno, Sindacati e partiti nel diritto italiano, cit., p. 34. 23 C. Mortati, Note introduttive ad uno studio sui partiti politici
nell’ordinamento italiano, in Scritti giuridici in memoria di Vittorio Emanuele Orlando, II, Padova, 1957.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke - Appendici
lità si fondono con ideali e procedure di generalità, contiene storicamente in sé una combinazione di libertà ed ordine. Una combinazione cui non può rifiutarsi diritto pubblico, in nome di un immaginario superiore interesse costituzionale alla stabilità ed intoccabilità dei gruppi intermedi. Ungari scriverà su «Nord e Sud» nel dicembre 1959, in un articolo, Il diritto dei partiti, sollecitatogli dallo stesso de Caprariis: «Pur tra lesioni e lacune, le linee dell’edificio innalzato dai costituenti restano fondamentalmente quelle di uno Stato di cittadini, non di uno Stato di gruppi, di corporazioni e di privilegi (e non importa se, ricorrendo a più suggestive terminologie letterarie, si riesce a mutare il segno da negativo a positivo, permanendo il fatto obiettivo dell’ipoteca posta su quella che, la si designi come sovranità, o universalità, o altrimenti, è ciò che fa di uno Stato uno Stato). Si tratta appunto di decidere se proseguire in quella costruzione, colmandone progressivamente le lacune, o se costruire una teoria dei suoi limiti iniziali, per sottolinearli e ribadirli» 24. Non si tratta, né per de Caprariis né per Ungari, di trarre formali corollari legislativi da questo o quell’articolo della Carta del 1948, ma di ricondurre ogni soluzione dei diversi problemi di struttura dei partiti (dalla “democrazia interna” al rapporto politica organizzazione) ad una concezione dinamica e non immobilista dell’assetto costituzionale. Sulla scia di Omodeo 25, de Caprariis intende per Costituzione qualcosa di vivo, che sia attivo dispiegarsi dell’“idea” che la regge fin dentro le istituzioni “private”. Perché senza una effettiva aderenza dei partiti alla Costituzione, non può esistere Stato rappresentativo. 24 P. Ungari, Il diritto dei partiti, cit., pp. 30s. 25 Cf. A. Omodeo, Per la creazione di una libera
democrazia, in «L’Acropoli», ottobre 1945; Id., Democrazia e coscienza giuridica, in «Realtà politica», n. 1, p. 9.
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Egli non aveva atteso che Mario D’Antonio e Guglielmo Negri pubblicassero nel 1958 la meritoria Raccolta degli Statuti dei partiti politici in Italia 26 per riflettere sulle battaglie statutarie che si erano combattute, con diversi esiti, nel secondo dopoguerra: da quel che fu lo statuto di palazzo Barberini dopo la dura esperienza del PSIUP alle contese sul nuovo statuto liberale, dalle lotte per la proporzionale nei precongressi democristiani alle procedure di “nuovo corso” che si profilavano in casa socialista. Tutte vicende che, per de Caprariis, non meritavano di essere pregiudizialmente svuotate di contenuto e passione reali. Quel che egli rifiutava dell’atteggiamento di Maranini era proprio la pregiudiziale di incompatibilità e di incomunicabilità fra i “baroni della politica” (il termine usato da Maranini, che tanto offendeva il liberalismo democratico di de Caprariis) e gli studiosi della politica (all’epoca non ancora additati pur essi come “baroni”), schierati da Maranini su due opposte trincee fra le quali ogni mera ipotesi di frequentazione veniva esclusa in partenza. Replica de Caprariis: «Sarò l’ultimo a negare la legittimità della libera critica politica e dell’analisi scientifica dei problemi politici, e sarò l’ultimo a negare che si debbano chiamare le cose col loro nome: un regime libero si nutre anche di ciò. Ma non credo, al di là dei dissensi a volte anche di fondo sui singoli problemi, che uno stile di polemica aspra e distruttiva contro le cosiddette streghe della politica si addica alle analisi scientifiche. E in secondo luogo non credo che sia vera la con26 Cf. di tale volume la nuova edizione, Il partito politico di fronte allo Stato e di fronte a se stesso. Raccolta degli statuti dei partiti, dei regolamenti dei gruppi parlamentari, rassegna della giurisprudenza, progetti di disciplina legislativa, legge sul finanziamento e bilancio, a cura di M. D’Antonio - G. Negri, Milano 1983.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke - Appendici
trapposizione tra lo studioso, preoccupato solo del bene dell’universale, e i baroni della politica, spasimosi di oligarchia» 27. Avversario del garantismo tutto sociale e in definitiva antistatuale di Rescigno, de Caprariis non poteva certo neppure riconoscersi nel garantismo tutto statuale e in definitiva antipolitico di Maranini. Quello di de Caprariis è un liberalismo innamorato della politica, non necessariamente della politologia. E quindi gli sembra una scorciatoia assai semplicistica quella di presumere che le libertà individuali ed il buon funzionamento della vita politica possano bellamente ripristinarsi in società democratiche di massa sulle ormai vuote classicità, o meglio staticità, di un costituzionalismo votatosi a demonizzare i partiti che degli schemi interpretativi guastano la geometria e che dei parlamenti violano una verginità non si sa come difendibile in tempi di suffragio universale. I partiti, aveva metallicamente sentenziato Maranini, un po’ alla maniera di Michels, «sono organismi per vocazione naturale oligarchici, e nei quali nessuna delle garanzie e cautele create da secoli di esperienza per liberalizzare e democratizzare lo Stato (legalità, divisione dei poteri, controlli reciproci, giudici indipendenti dall’esecutivo e dal legislativo) trova alcun principio di attuazione» 28. Del che de Caprariis non si dichiara affatto convinto: «non è vero – a suo dire – che, nella generalità dei casi, nei partiti democratici italiani si giunga ad una definizione della linea politica in modi contorti ed antidemocratici. Questa è una leggenda che è smentita dalla storia dei partiti politici italiani di questo dopoguerra: se, anzi, si vanno a guardare le cose da vicino si vedrà che, 27 V. de Caprariis, Le streghe e la politica (1962), in Le garanzie della libertà, cit., p. 220. 28 G. Maranini, Il tiranno senza volto, Milano 1963, p. 78.
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semmai, è accaduto proprio il contrario, che la politica decisa dagli organi responsabili dei partiti non si è potuta attuare perché vere rivolte di gruppi minoritari l’hanno impedito» 29. E de Caprariis, al di là di tante vicende democristiane, aveva soprattutto in mente quel che era avvenuto nel 1956 al congresso di Venezia del Partito socialista italiano, da cui aveva preso avvio la sua analisi sugli apparati 30. La posizione di Maranini, compresa la sua quasi ossessiva invocazione del collegio uninominale, non lo affascina affatto. Quella di una “partitocrazia” colpevole di aver vanificato le tradizionali garanzie del parlamento gli sembra una diagnosi che spiega in apparenza troppo ed in sostanza troppo poco. Certo, egli riconosce, i partiti si sono frapposti fra il parlamento ed il paese, pretendendo essi di assumerne l’intera rappresentatività, sminuendo, o creando in proprio, il che è lo stesso, la “sovranità” degli “eletti del popolo”. Ma la verità, sostiene de Caprariis, è che «il sistema, che riusciva ad esprimere e a tradurre in energia politica le spinte e i contrasti di poche migliala di elettori per ogni collegio, non può servire più quando le poche migliaia son diventate decine e centinaia di migliaia. L’assurdità non sta nel regime dei partiti, ma nel non aver ripensato le funzioni parlamentari sullo sfondo della democrazia di massa, e nell’avere, in conseguenza, ritenuto di poter far rientrare in un recipiente più piccolo quello infinitamente più grande» 31. La sua attenzione ai partiti non è comunque viziata da pregiudizi di indulgenza. Egli ne evidenzia più 29 V. de Caprariis, Le garanzie della libertà, cit., p. 218. 30 Cf. V. de Caprariis, Il problema degli «apparati» (1957),
in Le garanzie della libertà, cit., pp. 49-62. 31 V. de Caprariis, Società egualitaria e democrazia (1961), in Le garanzie della libertà, cit., p. 172.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke - Appendici
volte la arrembante inclinazione a spazzar via il fragile schermo che separa la politica dall’amministrazione e a mescolarsi a quest’ultima per ispirarla e possederla (il che, naturalmente, crea un movimento di rimbalzo dell’amministrazione verso la politica), nonché ad installarsi nel possesso degli strumenti che la tecnica moderna delle comunicazioni di massa ha creato, a pervadere, insomma, ogni segmento della società 32. E se si tiene conto del fatto che queste inclinazioni de Caprariis le individuava nel 1959, non si potrà negare che egli guardasse bene e guardasse lontano. Ogni partito – aggiunge de Caprariis – «tenterà a costituirsi come una monade autosufficiente, ad organizzarsi come uno Stato, e nel suo seno avverrà ciò che accade nella società politica tutta intera, dalla distinzione tra classe dirigente e classe diretta alla creazione di burocrazie, dalla sclerosi dei processi di ricambio all’immobilistica difesa delle posizioni di privilegio: anche nei partiti, cioè, vi sarà un più o meno graduale trapasso dal fisiologico al patologico che porta la società al limite delle rotture rivoluzionarie. Il rapporto di ciascuna di queste monadi tra loro e quello di ciascuna di esse con gli istituti tradizionali dello Stato, l’involuzione che si verifica in ognuna, deteriorano i meccanismi istituzionali e rendono asfittica l’atmosfera politica; le difficoltà non si sommano, ma si moltiplicano, e la fisionomia dello Stato medesimo subisce una deformazione grottesca ed impressionante: i partiti da istituti della vita democratica si trasformano in elementi di accelerazione dei mali propri della democrazia» 33. Ecco perché il diritto dei partiti non può rimanere come il diritto feudale, ricco di regole e povero di sanzioni. 32 Cf. V. de Caprariis, Problemi istituzionali della democrazia moderna (1959), in Le garanzie della libertà, cit., pp. 80-98. 33 Ibid., p. 86.
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Lo Stato deve intervenire come garante di giustizia, non di equità, perché trattasi del concreto esercizio della capacità di diritto pubblico dei cittadini. Non si può ammettere che quelle stesse pratiche, che costituirebbero reato all’interno di una sezione elettorale, se poste invece in essere per alterare i risultati di un’assemblea o di un congresso di partito, non trovino altra sanzione se non quella remota, e comunque solo indirettamente attendibile, dell’opinione pubblica. L’autodisciplina dei partiti, o come oggi si dice l’autoriforma, non è per de Caprariis cosa politicamente perseguibile né istituzionalmente credibile. Se questioni di coscienza sorgono, l’unico modo che egli indica per risolverle è di rimettersi alla famosa battuta di Disraeli: «tra la propria coscienza e il proprio partito un galantuomo sceglie sempre il proprio partito» 34; perché l’adesione ad un partito è una scelta primaria della coscienza. Qui de Caprariis si erge a implacabile censore dei facili e disinvolti moralismi di maniera. «Un uomo d’onore – sostiene – che senta veramente incompatibilità tra la propria coscienza e le posizioni del partito in cui milita, e che senta di non poter violare la propria coscienza, si dimette dal partito. Ma l’onore, la coscienza sono cose serie, con cui non si gioca: e dunque un uomo d’onore che sia stato eletto deputato col simbolo di quel partito da cui sente lontana la propria coscienza, non può dimettersi solo dal partito, ma deve dimettersi anche dal mandato parlamentare. La moralità non è a partita doppia: una cosa per il partito e un’altra per lo scanno di deputato; è una cosa intera, che si prende o si lascia tutta» 35. Sono affer34 Cf. V. de Caprariis, Costituzione e democrazia (1960), in Le garanzie della libertà, cit., pp. 102s. 35 V. de Caprariis, Einaudi e i partiti (1960), in Le garanzie della libertà, cit., p. 115.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke - Appendici
mazioni che Croce probabilmente avrebbe interamente condiviso ma che probabilmente, e con buone ragioni, nessun giurista si sentirebbe mai di sottoscrivere. Si avverte in esse quell’antigiuridicità etico-politica tipicamente crociana. A conferma di come e quanto l’adesione di de Caprariis al crocianesimo sia sempre stata profonda e in certo modo irrinunciabile 36. Il quale Croce, certo, una esigenza di statuto pubblico dei partiti non la aveva concretamente rilevata. Anche se dei partiti aveva tanto a lungo ragionato 37. «In luogo dello Stato liberale – ha notato Giovanni Sartori – il problema che monopolizza sempre più l’attenzione del Croce è, a partire dal 1924, il problema dei partiti» 38. Al pari degli “uomini veri”, anche i partiti, secondo Croce, «sempre che abbiano virtù e consistenza morale, cioè volontà del bene comune, e non si riducano a fazioni e a bande, sono anch’essi tutti, nel loro intrinseco, liberali. In effetti, lo spirito liberale li accetta tutti, li vuole, li richiede, li invoca, e lamenta la loro assenza e la loro scarsa efficienza; e sente mancare o piuttosto scemare la sua propria libertà quando quella varietà e quei contrasti scemano e vengono meno o tendono ad adeguarsi nell’inerzia dell’acrisia, del docile assenso e dell’indifferenza» 39. In questo saggio del 1938 su I partiti politici e il loro carattere storico, poi incardinato ne La storia come pensiero e come azione, Croce congiungeva, dunque, la vita politica costruibile mediante la libertà, vale a dire il liberalismo, ai partiti e al loro ufficio. La sua filosofia politica aveva finito con l’approdare alla concezione dei partiti come rappresentanti della libertà, e quindi come istituti dell’ordine liberale. 36 Cf. G. Galasso, Da Socrate a Tocqueville, cit., pp. 18-26. 37 Cf. S. Valitutti, I partiti politici e la libertà, Roma 1966, pp. 38 In «Studi politici», Firenze, a. IV, n. 3, 1957, p. 376. 39 B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Bari 1943,
313-383. p. 224.
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II. Democrazia e partiti politici nel liberalismo di de Caprariis
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Di tale concezione il liberalismo di de Caprariis nulla aspirava ad appannare. Il diritto dei partiti da lui instancabilmente auspicato sarebbe valso a garantire al sistema politico la circolazione e l’alternanza non arbitrarie delle classi dirigenti in una ordinaria democrazia liberale. Crocianamente accolta come idea liberale l’idea dei partiti, egli aveva omodeianamente proposto di sanzionare giuridicamente tale idea. Perché nessuno potesse consacrare in faccia alla legge una immunità privilegiata di gruppo, di fazione, di banda. Perché i partiti fossero e apparissero tangibilmente le istituzioni di ognuno e di tutti. Ed il fatto che oggi, a vent’anni dalla sua morte, queste “istituzioni” non siano cresciute, ma siano invece andate sempre più degradandosi, può essere solo motivo di sconforto per la nostra democrazia, non certo imputazione di inattualità della sua impostazione. Più attuali che mai diventano le parole con cui, un anno dopo la scomparsa di Vittorio de Caprariis, un suo antico collega di palazzo Filomarino, Gaetano Arfè, concludeva il suo saggio sul numero di «Nord e Sud» a lui dedicato. Ammoniva Arfè: «Chi nel sistema dei partiti vede il fondamento di un accettabile regime democratico, chi ad esso non vede alternative presenti e neanche vicine, non può limitarsi ad un’azione di difesa, deve adoperarsi perché l’idea di un necessario rinnovamento si faccia strada: o potremmo arrivare ad una fase nella quale i partiti non siano più in grado di governare e manchino tuttavia le condizioni per un superamento del sistema, lungo una linea che non sia di reazione terroristica e totalitaria» 40.
40 G. Arfè, Il problema del partito, in «Nord e Sud», giugno-luglio 1965, p. 148.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke - Appendici
III.
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PARTITI E SINDACATI NELLO «STATO MODERNO» DI MARIO PAGGI
Alla conclusione di un lungo saggio di Mario Paggi, Assemblee costituzionali e partiti politici, su «Lo Stato Moderno» del 20 maggio 1946, si poteva leggere: «Non è forse giunta l’ora di disciplinare giuridicamente i partiti? E in caso positivo non si possono trasferire ad essi giuridicamente poteri costituzionali per impedire che se ne impossessino di fatto? E tutto ciò non potrebbe avere riflessi essenziali sul tipo costituzionale da costruire? Se si vuole uno Stato nuovo si deve badare alla realtà nuova…» 1. Nel trapasso dalle formule splendenti delle ideologie alla concreta istituzionalizzazione politica, la rivista, con Paggi non meno che con Albasini Scrosati, con Mortati non meno che con Segre, identificò come proprio il tema di studiare e prospettare freni, regole, limiti, ambiti, controlli sui partiti, e nei partiti, studiandoli e prospettandoli in rapporto alle dimensioni e alle implicazioni nuove del problema. Sicché, questo della configurazione costituzionale dei partiti politici e dei sindacati, insieme a quello delle barriere da opporre all’arbitrio amministrativo, nonché all’altro decisivo accento sulla forza dell’esecutivo (le dittature generandosi dialetticamente dalla debolezza dei governi democratici e non viceversa), appaiono tangibilmente temi 1 M. Paggi, Assemblee costituzionali e partiti politici, in «Lo Stato Moderno», 20 maggio 1946.
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III. Partiti e sindacati nello «stato moderno» di Mario Paggi
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e problemi sui quali «Lo Stato Moderno» anticipa di circa dieci anni una pubblicistica politica – da Vittorio de Caprariis a Paolo Ungari – che a tali temi e a tali problemi dalle pagine della rivista di Paggi era stata educata (più insistentemente, più intensamente, più nitidamente che sulle pagine delle riviste di Omodeo, di Salvatorelli, di Bauer, per restare nel bel paesaggio della “destra azionista”). In effetti, sin nella testata, «Lo Stato moderno (critica politica, economica e sociale)» si discostava da certo libertarismo (prima e più che liberalismo) antistatale di tradizione “giellista”, che aveva i suoi incunaboli in scritti come quello di Rosselli Contro lo Stato 2, e che combinava una visione giacobina della lotta per il potere statale e della sua prima organizzazione con l’altra, finalistica, magari un po’ proudhoniana, e comunque anarchicheggiante, della democrazia come libera federazione di “istituzioni” plasmate dalla spontaneità creativa delle masse (la Fabbrica, il Comune, l’Azienda contadina, la Scuola autonoma), tutte, oggi si direbbe, dislocate nel “sociale”, con più o meno evidente rilievo antistatuale. Al contrario, la rivista milanese intendeva rivendicare l’attualità di una irrinunciabile funzione liberale e liberatrice dello Stato nella società moderna. Qui era fatta passare la linea di confine tra il nuovo liberalismo e quello ancora legato all’antico pregiudizio secondo il quale lo Stato è nemico ed è cattivo, mentre la società è amica ed è buona, anche quando attraverso essa, ed in suo nome, si protendono vecchie e nuove insorgenze feudalizzanti e feudalizzatrici. Non si poteva dimenticare, per Paggi, «che la crisi fascista fu anche una crisi del diritto costituzionale» e che ciò «ri2 Cf. A. Garosci, La vita di Carlo Rosselli, Roma-Firenze-Milano s.d., vol. II, pp. 78s. e pp. 142s.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke - Appendici
propone a una mentalità – speriamo ormai più scaltrita e cosciente dei limiti – il vecchio tema della valorizzazione costituzionale dei sindacati e dei partiti politici» 3. Così come doveva esser chiaro, ammonirà in un altro suo articolo, che «se la democrazia si affida ad organismi assolutamente inadeguati, noi potremo sognare una romantica morte in loro difesa, ma la democrazia cadrà travolta dal crollo delle sue antiquarissime travi» 4. Di qui la centralità, o meglio la priorità, di un nuovo sistema di garanzie istituzionali e giuridiche, cioè di un più saldo riferimento, e affidamento, di legalità obiettiva contro il pericolo di tentazioni e degenerazioni illiberali. Alla luce dell’esperienza totalitaria del partito unico, il costituzionalismo moderno doveva ripensare e ridefinire i suoi compiti, le sue responsabilità, le sue potenzialità. Ed ecco perché la rivista si riprometteva di cercare, a maggior ragione dopo la Liberazione, nella critica costituzionale, legislativa, amministrativa, quell’allargamento di respiro e di prospettiva, necessario complemento e completamento, della stessa critica politica. Una revisione del pur benemerito costituzionalismo ottocentesco andava fatta, se non si voleva costringere il nuovo Stato a «vivere sanando pragmatisticamente la contraddizione flagrante tra una classe dirigente ristretta ed una legalità costituzionale dilatata all’estremo» 5. Né siffatta revisione poteva, in alcun modo e per alcun motivo, prescindere dai «rapporti tra l’organizzazione di fatto delle forze politiche e gli schemi giuridici che quei rapporti dovranno contenere e disciplinare».
3 M. Paggi, Sondaggi, in «Lo Stato Moderno», 5 luglio 1946. 4 M. Paggi, «Lo Stato Moderno», 5 agosto 1948. 5 M. Paggi, La crisi dello Stato, in «Lo Stato Moderno», 20
dicembre
1945.
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III. Partiti e sindacati nello «stato moderno» di Mario Paggi
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Forte di quell’aperta professione di storicismo giuridico, che risaliva all’articolo siglato Victor, Diritto politico e diritto sistematico, in «Lo Stato moderno», serie clandestina, marzo ’45, la rivista di Paggi affrontava storicisticamente il passaggio dai partiti del secolo precedente a quelli attuali e vi connetteva una profonda trasformazione dell’idea e quindi del concetto stesso di rappresentanza politica. «Allora – vi si legge – vigeva ancora l’aureo principio – e non era soltanto scolastica finzione, buona soltanto per i trattati di diritto costituzionale – per cui ogni deputato rappresentava gli interessi della Nazione intera. E questo era vero non solo nei confronti dell’origine territoriale a cui il deputato era allora legato in virtù del sistema del collegio uninominale, ma anche nei confronti dell’origine politica, per cui il deputato – settentrionale o meridionale che fosse, eletto coi voti delle destre o delle sinistre – una volta in parlamento si sentiva rappresentante dell’intera anima nazionale nella interpretazione della propria coscienza. I partiti erano allora poco più – quando lo erano – di semplici organizzazioni elettoralistiche che o si scioglievano o si mettevano in quiescenza subito dopo le elezioni. La durata della legislatura era la loro grande invernata durante la quale si addormentavano profondamente, salvo a svegliarsi non appena si levava la brezza annunciatrice di prossime gare elettorali. Gli iscritti ai partiti erano pochi in quei tempi, né si pensava a una organizzazione totalitaria come quella che si profila adesso; né dietro ai partiti c’erano pile di libri, analisi sottili e esegesi minute, sicché il passaggio da un campo all’altro era cosa che impegnava a dir molto la coscienza e quasi mai il cervello, la cultura, la fatica di una vita. Tutto questo aveva due rinessi politici di primaria importanza; nessuna forza estranea al parlamento ne regolava gli atteggiamenti, e le maggioranze e minoranze parlamentari po-
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke - Appendici
tevano facilmente variare perché i singoli deputati, non ancorati a una disciplina di gruppi (per lo più inesistenti), si spostavano a favore o contro il governo per mille motivi rapidi e frequenti: l’altezza e la forza di un discorso (ahi, la inarrestabile decadenza dell’oratoria parlamentare), la stanchezza di una seduta interminabile, un incidente internazionale, uno sciopero, l’errore di un prefetto, una campagna giornalistica, erano, ciascuno per se stesso, elementi capaci di determinare bruschi rovesciamenti di situazioni e di forze. Tutto ciò non aveva riflessi costituzionali e di governo evidenti sinché i ministri erano soltanto segretari del Re non sottoposti al giudizio del parlamento. Ma quando, attraverso una continua evoluzione, essi divennero semplicemente dei mandatari delle maggioranze, revocabili con un semplice voto di sfiducia, allora quella mancanza di coesione politica tra i deputati che abbiamo sopra lumeggiata dette luogo a quel fenomeno che, con parola ora descrittiva e ora critica, si suol chiamare il parlamentarismo» 6. Nel “parlamentarismo”, e nella sua congenita logica di instabilità e precarietà, il costituzionalismo moderno avrebbe dovuto, secondo Paggi, inserire una forte, effettiva ed efficace, disciplina di legge. Tanto in relazione alla vita interna dei partiti, quanto in relazione alle loro attribuzioni, e quindi responsabilità, costituzionali. Paggi non aveva mai creduto nella opportunità di una mera restaurazione della prassi politica e parlamentare prefascista con il suo «stanco costituzionalismo ortodosso, che è il surrogato laico del conformismo gesuitico» 7. E più volte, da diverso eppur simmetrico punto di vista, avrebbe polemizzato con la deficiente educazione e vocazione statuale della sini6 M. 7 M.
Paggi, Assemblee costituzionali e partiti politici, cit. Paggi, La crisi liberale, in «Lo Stato Moderno», 5 dicembre 1945.
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stra italiana, scarsamente penetrata dal «grande tema della dignità dello Stato… abbandonato dalla democrazia e ripreso da De Gaulle, e che è certo una delle sue carte più cospicue, se la lezione non sarà avvertita in tempo dai partiti. E non si tratta di scimmiottare una parola d’ordine che può aver fortuna tra le disorientate masse di questo dopoguerra: si tratta di capire che in realtà lo Stato, come massima istituzione politica, deve avere un grande prestigio, che si confonde poi temporalmente con il prestigio delle classi al potere: e se queste classi abbassano il prestigio dello Stato finiscono in realtà con l’abbassare il prestigio lor proprio» 8. I partiti moderni, rispetto a quelli del secolo precedente, denotavano agli occhi di Paggi «la stessa differenza che passa tra la fragilità dell’infanzia e la durezza della virilità» 9. La loro natura di “ordine militante”, con il nuovo conformismo cui piegare intelligenze e coscienze, tendeva a determinare il sovrapporsi, a quella costituzionale e democratica, di un’altra “legalità”, intimamente illiberale. Mutatis mutandis, l’esperienza del partito unico aveva un po’ dovunque rivelato, quasi plasticamente, nella prassi interna non meno che nei metodi di lotta, il muovere dei partiti contemporanei verso il potere assoluto. E Paggi ne teneva conto. «Anche questo – per lui – resta un fenomeno da indagare per vedere quanto ci sia in esso di pura e semplice volontà di potenza, e quanto di una tendenza generale delle cose, cioè degli spiriti e dell’economia. Se Russia, Germania, Italia, Spagna, Turchia, Portogallo (e non vogliamo aggiungere la Francia per la eccezionalità di guerra e di occupazione in cui si è svolto l’esperimento) han-
8 M. Paggi, De Gaulle e la crisi della democrazia, in «Lo Stato Moderno», 20 aprile 1947. 9 M. Paggi, Assemblee costituzionali e partiti politici, cit.
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L’idea dei partiti da Hobbes a Burke - Appendici
no tutte, così diverse tra loro, ceduto alla lusinga del partito unico, ci si consentirà di ritenere che non di solo caso o capriccio si tratta. E in realtà, di ben altro si trattava. Per limitarci al solo campo di analisi di questo studio, si trattava di una irresistibile tendenza del partito a diventare il padrone dello Stato, a dominare dal di fuori il meccanismo dello Stato. Per rendersi esatto conto, almeno dal punto di vista formale, della forza di questa esigenza, occorrerebbe rifare il processo storico attraverso il quale il partito, da semplice organizzazione elettorale, si venne trasformando in istituto permanente, capace di convogliare masse sempre più vaste, di rispondere a interessi sempre più profondi, di creare una nuova disciplina, peggio, un nuovo conformismo, al quale dovevano piegarsi intelligenze e coscienze. Questo fenomeno è uscito ingigantito dalle esperienze del partito unico, tanto che mentre cosiffatti organismi si incontravano prima soltanto presso i partiti proletari, oggi essi si sono estesi a tutte le organizzazioni politiche anche dei ceti più schiettamente conservatori. È un fenomeno questo che andrebbe minutamente analizzato per i riflessi, non tutti felici, che esercita sul piano nazionale, anche dal punto di vista morale, ma qui ci basta soltanto prenderne atto e vedere, in confronto a questa situazione politica, come può modellarsi la nuova costituzione. Procedere altrimenti, o peggio ancora ignorare questo elemento del problema, sarebbe come procedere a un disegno di costruzione senza sapere di quali materiali ci si può servire» 10. Nel suo guardare alla realtà dei partiti, la rivista avverte una esigenza di statualità, prima e più che di socialità: «non in odio ai partiti la cui esistenza e il cui funzionamento sono stret10 Ibid.
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III. Partiti e sindacati nello «stato moderno» di Mario Paggi
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tamente necessari per una democrazia, ma perché la responsabilità sia tutta dei responsabili, e il potere degli organi dello Stato» 11. Si tratta, anche qui, di quella che Paolo Ungari giustamente considera la costante inclinazione “girondina” 12 di «Stato Moderno», diffidente di quella illiberale parola d’ordine «tutto il potere ai C.L.N.» che venne ad un certo punto a diffondersi anche tra gli azionisti del Nord, ma alla quale Paggi ed i suoi collaboratori avrebbero invece opposto, appunto, il tema tutto “girondino” e tutto “antigiacobino” della assunzione da parte dei partiti del rango e della responsabilità di istituzioni costituzionali. D’altro canto, il nesso fra Stato e partiti si era snodato abbastanza secondo democrazia nel girondino Condorcet e viceversa decisamente secondo autoritarismo, e forse financo totalitarismo, nel giacobino Robespierre. Ovviamente, non è che «Stato Moderno» non fosse consapevole di tutte le distinzioni ineliminabili dal raccordo Stato-partiti. Ma ogni esitazione, comunque motivata, a legiferare su tale materia sarebbe stata, in definitiva, un’abdicazione. Ragioni analoghe, remoti ormai il tempo e il clima di idee delle einaudiane “lotte del lavoro”, inducevano «Stato Moderno» ed il suo direttore a sostenere le ragioni di un ampio riconoscimento dei sindacati nel diritto pubblico, che assegnasse ad essi un legittimo e trasparente ruolo nella vita delle istituzioni. Lo stesso problema di una disciplina legislativa degli scioperi non doveva essere anteposto a questa prospettiva e a questa esigenza, per Paggi decisamente prioritarie. «Disciplinando lo sciopero – sostiene Paggi – non si farà che aggiungere problematica giuridica alla inarrestabile forza di propul-
11 Ibid. 12 Cf. P.
Ungari, «Lo Stato Moderno», in «Nord e Sud», maggio 1961,
pp. 74-91.
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sione delle masse lavoratrici; disciplinando il sindacato si risolverà più facilmente la questione stessa dello sciopero, e in più si tenterà almeno di risolvere quel potenziale conflitto tra lo Stato e la grande organizzazione dei lavoratori, che troppo spesso si atteggia a suo antagonista. Questo antagonismo fu fecondo una volta, quando lo Stato era poco più che un arbitro, e neanche molto sollecito, né molto sollecitato, nel campo della economia, e la organizzazione dei lavoratori aveva la funzione liberale di preparare alle rivendicazioni politiche ed economiche grossi strati di cittadini. E fu non dimenticato merito di Luigi Einaudi di avere, in tempi non facili, sostenuto la felicità di questo antagonismo. Ma esso oggi ha cessato di essere benefico. Il sindacato è giunto a quella pienezza di espressione in cui le grandi manifestazioni sociali o si inquadrano nel diritto, e danno i loro frutti migliori; o languono e decadono, isterilendo se stesse e la organizzazione giuridicopolitica che le accoglie» 13. Anche in tema di sindacati, così come in tema di partiti, la rivista delineava, dunque, concretamente e coerentemente le istituzioni di uno Stato democratico “forte”, ordinato in salde e convincenti forme di legalità, in grado di opporsi ad ogni ritorno di dispotismo. Ed è questo, a quarant’anni di distanza, motivo non secondario della sua straordinaria modernità, e diciamo pure – proprio pensando a partiti e sindacati – attualità.
13 M. Paggi, Un attentato e parecchi problemi, in «Lo Stato Moderno», 5-20 agosto 1948.
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Indice dei nomi
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INDICE DEI NOMI
Acomb F.: 163 Alatri P.: 156, 157, 158, 162, 163, 168 Albasini Scrosati V.: 264 Albertoni E.A.: 225, 231 Alembert, J. Le Ronde d’: 28 Alengry F.: 201 Allen R.J.: 82 Almond G.A.: 71, 237 Althusius J.: 166 Antoni C.: 247, 250 Arendt H.: 16, 17 Arfè G.: 263 Artom I.: 87 Ascarelli T.: 44, 49 Babeuf F.P.: 170 Bacone F.: 42, 43, 44, 45, 46, 47 Bagolini L.: 130, 134 Baker K.M.: 201, 203, 204, 206, 208, 209 Balbo C.: 13, 232, 233 Bancal des Issarts J.H.: 197
Baratier P.: 105 Barker E.: 105 Barlow R.B.: 96 Barrington J.S.: 95, 96, 97, 100 Basevi P.: 212 Battaglia F.: 60 Battista A.M.: 164, 167 Bauer R.: 265 Bayle P.: 162 Bentham J.: 125 Bertière A.: 31 Biauzat G. de: 174, 175 Blin F.P.: 168 Blüntschli J.K.: 9, 10-11, 13 Bobbio N.: 49, 51, 52, 53, 56, 232 Bodin J.: 49, 247 Boissounouse J.: 201 Bolingbroke, H. Saint John: 28, 29, 36, 84, 85, 86, 97, 98, 99, 100, 101, 102, 104, 105, 106, 107, 108, 109, 110, 111, 112, 113, 114,
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Indice dei nomi
115, 116, 117, 118, 119, 120, 123, 129, 137, 138, 142, 153, 160, 164 Bonno G.: 163 Bouloiseau M.: 199, 200 Bracton H. de: 61 Breteuil, L.-A. le Tonnelier de: 160 Brinton C.: 194 Brissot J.P.: 163, 169, 181, 196, 198, 200 Brown J.: 160 Browning A.: 83 Brunialti A.: 87 Bryce J.: 22 Buckingham G.V.: 46 Buonarroti Ph.: 170 Burdeau G.: 37 Burke E.: 29, 35, 37, 38, 50, 51, 70, 94, 103, 104, 111, 114, 115, 118, 125, 136, 137, 138, 139, 141, 142, 143, 144, 145,, 146, 147, 148, 149, 150, 151, 152, 153, 154, 155, 156, 164, 167, 168, 189, 202, 213, 234, 235, 240, 243, 244 Bute J.S.: 138, 139 Buttà G.: 225
Carlo II: 92 Cattaneo M.A.: 12, 37, 169, 180, 184, 195, 200 Cerroni U.: 26 Chamberlain A.N.: 69 Chambers W.N.: 117 Churchill W.L.S.: 69 Clayton R.: 79 Cleveland S.G.: 241 Clootz J.B.: 198 Cohen L.: 201 Coke E.: 49, 51, 61 Colombo A.: 22, 229 Comte A.: 208, 209 Condorcet, M.J.A. de: 25, 163, 177, 196, 200, 201, 202, 203, 204, 205, 206, 207, 208, 209, 210, 212, 214, 215, 216, 220, 271 Constant de Rebeque B.: 7, 15, 17, 18, 233 Cooper D.: 69, 83 Corsi M.: 65, 66, 135 Cotta S.: 11, 29, 31, 32, 33, 34, 35, 41, 58, 59, 68, 81, 114, 115, 128, 135 Croce B.: 7, 18, 19, 68, 194, 246, 251, 262 Cromwell O.: 73, 78
Calderoni M.: 227 Candeloro G.: 125, 126 Capra C.: 157
Dakin D.: 158 Dallington R.: 91 Danton G.J.: 169
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Indice dei nomi
D’Antonio M.: 258 D’Avack L.: 78 Davenant C.: 93, 94 d’Azeglio M.: 232 De Beer E.S.: 84 de Caprariis V.: 18, 19, 76, 225, 239, 245, 246, 247, 248, 249, 250, 251, 252, 253, 254, 255, 256, 257, 258, 259, 260, 261, 262, 263, 264 De Felice R.: 18 Defoe D.: 95 Delolme J.L.: 146 De Mas E.: 42, 43, 44, 46 De Ruggiero G.: 233, 242, 243 Diaz F.: 156, 158, 159 Diderot D.: 28, 156 Di Rienzo E.: 162, 163, 168 Disraeli B.: 18, 19, 111, 262 Dossetti G.: 253 Droetto A.: 56 Duguit L.: 175 Duverger M.: 35 Easton D.: 71, 237 Eden, A. d’Avon: 69 Einaudi L.: 169, 170, 261, 272 Elia L.: 245, 246 Esmein A.: 29 Esposito C.: 107
275
Febvre L.: 171, 172 Feiling K.G.: 111 Fénelon, F. de Salignac de La Mothe: 106 Ferrero G.: 239 Fieldhouse H.N.: 110, 117 Firpo L.: 50 Fortescue J.: 61 Fortunato G.: 252 Foscolo U.: 18 Fourier C.: 170 Friedrich C.J.: 35 Frosini V.: 187, 188 Furet F.: 155, 156, 186 Gabrieli V.: 78 Galante Garrone A.: 201 Galasso G.: 247, 262 Galizia M.: 107, 111, 147, 151 Garavaglia G.: 83 Garin E.: 145 Garosci A.: 246, 250, 265 Giacomo Stuart: 105 Giacomo II: 82, 91, 92, 100 Giacomo III: 85 Giarrizzo G.: 120, 126, 127, 132 Gierke O.: 166 Giolitti A.: 166 Giorgio I: 85, 112 Giorgio II: 137, 146
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Indice dei nomi
Giorgio III: 104, 137, 138, 147 Gneist R.: 87, 88, 89, 91 Gobetti P.: 243 Godechot J.: 174, 179 Godolphin S.: 104 Gorresio S.: 41 Gouch J.W.: 47 Gramsci A.: 26 Grange H.: 161 Granger G.G.: 201 Grant U.S.: 241 Grosclaude P.: 160 Guadet M.E.: 181 Guglielmo III: 84, 92 Guicciardini F.: 91, 247, 248 Gunn J.A.W.: 86, 92, 93, 94, 95, 97, 127 Hale M.: 49 Halifax G.S.: 92, 93 Hamilton A.: 246, 251 Harley R.: 84, 85 Harrington J.: 78, 79, 80, 81, 100, 125, 131 Hayes R.B.: 241 Hearnshaw F.J.C.: 111 Hegel G.W.F.: 53 Hello G.: 70, 235 Helvétius C.H.: 42 Hinrichs E.: 157 Hintze H.: 196, 200
Hintze O.: 175 Hirschman A.O.: 41 Hitler A.: 170 Hobbes T.: 20, 44, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 56, 57, 58, 65, 68, 112, 179 Holbach P.H.D. d’: 156, 163 Holmes G.: 85 Hooker R.: 75 Horowitz H.: 85 Hume D.: 29, 35, 110, 119, 120, 121, 122, 123, 124, 125, 126, 127, 128, 129, 130, 131, 132, 133, 134, 135, 136, 137, 153, 235, 244 Jackson A.: 241 Jarret D.: 159 Jefferson T.: 117 Johnson L.B.: 241 Kaiser J.: 71, 237 Kant I.: 19, 20, 21, 52, 228 Kelsen H.: 153, 227 Kendall W.: 92 Kluxen K.: 117 Labrousse R.: 194 Langrishe H.: 150 Le Chapelier I.R.G.: 170, 171, 172, 173, 174, 176, 178, 179
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Indice dei nomi
Lefebvre G.: 181, 199 Leibniz G.W.: 44 Lenin N.: 170, 213, 240 Leroy M.: 29 Levi-Malvano E.: 31 Licurgo: 211 Locke J.: 20, 52, 53, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 67, 112 Lombardo A.: 232, 243 Louvet J.B.: 200 Löwenthal R.: 22 Luigi XVI: 158 Mably G.B. de: 163 Macaulay T.B.: 38, 116, 117 Machiavelli N.: 26, 31, 32, 44, 79, 91, 93, 127 MacKnight T.: 105 Mc Ilwain C.H.: 6, 76 Maitland F.W.: 78 Malesherbes, C.G. de Lamoignon de: 159, 160, 163 Mansfield jr. H.C.: 115, 117, 118, 138 Maranini G.: 17, 169, 170, 174, 178, 198, 199, 253, 257, 258, 259 Marat J.P.: 163, 172, 198 Marlborough J.C.: 104 Martelloni A.: 114 Marx K.: 104, 127, 170, 178, 196
277
Mastellone S.: 177, 178, 195, 196 Mathieu V.: 213, 217, 220, 221 Mathiez A.: 185, 191, 192, 199 Matteucci N.: 15, 16, 36, 49, 50, 63, 64, 79, 99, 139, 145, 204, 205, 240, 244 Mazarino J.: 74 McIntosh Merril W.: 105 Meinecke F.: 142 Michels R.: 258 Miglio G.: 58 Minghetti M.: 154 Mirabeau G.H.R. de: 168, 209 Mirkine-Guetzévitch B.: 38, 67 Montesquieu, Ch. de Sécondat de: 15, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 38, 64, 67, 68, 79, 106, 109, 110, 119, 124, 146, 163, 194, 211, 220 Moravia S.: 210 Morellet A.: 163 Mortati C.: 23, 229, 255, 264 Mosca G.: 225, 227, 228, 229, 230, 231, 232, 233, 234, 235, 236, 239, 240, 241, 242, 243, 244
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Mounier J.J.: 39, 196 Mussolini B.: 170 Namier L.B.: 110, 147 Napoleone: 18, 235 Necker J.: 161, 163, 211 Negri G.: 257 Nenni P.: 249 Neumann A.: 22 Neville Williams E.: 96 Nicolini F.: 32 O’Gorman F.: 146 Olivetti A.: 189 Omodeo A.: 246, 249, 251, 256, 265 Orlando V.E.: 23, 229, 255 Ornaghi L.: 176 Osborne F.: 91, 93 Paggi M.: 249, 250, 264, 265, 266, 267, 268, 269, 271, 272 Pannunzio M.: 245 Pareyson L.: 59 Passerin d’Entrèves A.: 75, 76 Pelham H.: 89, 90 Pétion J.: 200 Petrie C.: 105 Piovani P.: 176 Plamenatz J.: 127
Platone: 23, 140 Plumb J.H.: 85, 90 Plutarco: 211 Polin R.: 81 Pombeni P.: 176, 190 Pufendorf S.: 53 Quintas A.M.: 33 Ramsay M.: 106 Ranney A.: 92 Raynal G.: 178 Reimeringer A.: 159 Rémusat C. de: 112 Renan E.: 23 Rescigno P.: 71, 237, 253, 254, 255, 258 Retz, J.F.P. de Gondi: 74 Richelieu, A.J. du Plessis: 74 Robespierre M.: 16-17, 29, 37, 155, 169, 170, 172, 179, 180, 181, 182, 183, 184, 185, 186, 214, 216, 218, 219, 233, 235, 271 Roland M.P.: 197, 198, 199, 200 Romme G.: 201 Rosselli C.: 267 Rousseau J.J.: 20, 25, 37, 52, 53, 153, 154, 162, 164, 165, 166, 167, 168, 169, 170, 172, 175 176, 178,
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179, 182, 183, 186, 189, 193, 194, 201, 210, 211, 220, 233, 235 Rubini D.: 84 Ruffilli R.: 172 Ruta E.: 47 Saint-Just L.A.: 169, 210, 211, 212, 213, 214, 215, 215, 216, 217, 218, 219, 220 Saint-Simon C.H.: 208 Saitta A.: 212 Salvadori M.L.: 162, 211 Salvatorelli L.: 267 Sartori G.: 24, 25, 27, 28, 29, 33, 35, 36, 71, 127, 129, 130, 136, 137, 141, 145, 148, 151, 153, 227, 236, 237, 262 Schapiro J.S.: 201 Schiera P.: 57 Schmitt C.: 57, 58 Segre U.: 238 Selden J.: 51, 61 Settembrini L.: 24, 25 Shackleton R.: 67, 110 Shaftesbury, A.A.C. conte di: 83 Sichel W.: 111 Sieyès E.J.: 172, 173, 175, 177, 178, 191, 196, 209
279
Smith D.W.: 42 Soboul A.: 181, 219 Solari G.: 20 Solone: 95 Spadolini G.: 232 Spaventa S.: 252 Spinoza B.: 52, 53, 56, 64, 65, 66, 113, 162 Spriano P.: 243 Stalin I.: 170 Sterpellone A.: 245 Swift J.: 100 Talmon J.: 16, 166, 183, 213, 214, 216, 218 Testoni Binetti S.: 193 Thomas A.L.: 117, 162 Tindal M.: 94, 95 Tocqueville A. de: 7, 14, 15, 16, 17, 36, 149, 240, 241, 246, 247, 251, 262 Toland J.: 79, 80, 81, 94, 95, 113 Tooke J.H.: 166 Tosi S.: 15 Touchard J.: 37 Tranfaglia N.: 162, 211 Treitschke H. von: 47 Troper M.: 213 Turgot A.R.G.: 158, 159, 160, 161, 166, 201, 206, 211
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Indice dei nomi
Ungari P.: 250, 252, 257, 267, 273
Vossler O.: 167 Vovelle M.: 172
Valitutti S.: 13, 46, 47, 60, 67, 167, 234, 262 Vellay C.: 180 Venturi F.: 81, 82, 90, 91, 94, 146, 147 Verney D.V.: 13 Vico G.: 32 Vidari G.: 20 Vinciguerra M.: 48 Viola P.: 210, 211, 214 Volpicelli A.: 21 Voltaire: 28, 154, 162
Walcott jr. R.R.: 85 Walpole H.: 159 Walpole R.: 27, 85, 86, 89, 90, 98, 105, 138, 161, 235 Weber M.: 52 Weil S.: 188, 189, 190, 192, 193 Whitgift J.: 75 Whitworth C.: 94 Wiatanley D.A.: 117 Widmar B.: 154 Wyndham W.: 105, 106
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INDICE
INTRODUZIONE ALLA NUOVA EDIZIONE (di Rocco Pezzimenti) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. I.
LA. SOCIETÀ CHE SI FA STATO . . . . 1. La città dei partiti . . . . . . . . . 2. Libertà individuale e lotta politica 3. Le parti e il tutto . . . . . . . . . 4. L’Inghilterra e la Francia . . . . .
II. LE PASSIONI E LE FAZIONI . . 1. Sovranità e particolarismi . 2. Il nemico entro i confini . 3. Liberalismo in cammino .
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9 9 14 24 35
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40 40 47 58
III. L’ESIGENZA DEI PARTITI. . . . . 1. Fra governo e parlamento . 2. Il vecchio e il nuovo. . . . . 3. Partito, fazione, opposizione
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69 69 83 91
IV. DA BOLINGBROKE A BURKE . . . . . . . 1. Ideologia e politica del country party 2. Hume politologo dei partiti . . . . . 3. Le onorevoli connessioni . . . . . . .
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104 104 120 137
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V. DA ROUSSEAU A ROBESPIERRE . 1. La toga e la filosofia. . . . . 2. Le corporazioni da sradicare 3. Le fazioni da esorcizzare . .
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VI. L’AVVERSIONE AI PARTITI . . . . . . . . . . . 1. Responsabilità politica e volontà generale 2. Costituzionalismo girondino . . . . . . . 3. Fondamentalismo giacobino . . . . . . .
. pag. 155 . » 155 . » 170 . » 179 . . . .
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187 187 197 210
INTRODUZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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225
I. IL COSTITUZIONALISMO SENZA PARTITI DI GAETANO MOSCA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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227
II. DEMOCRAZIA E PARTITI POLITICI NEL LIBERALISMO DI VITTORIO DE CAPRARIIS . . . . . . . .
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245
III. PARTITI E SINDACATI NELLO «STATO MODERNO» DI MARIO PAGGI . . . . . . . . . . . . . . . .
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264
INDICE DEI NOMI . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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APPENDICI
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