Legato con amore in un volume. Quasi un diario 9788855292122, 9788855292139

Lucilio Santoni convoca i suoi anarchici e cristiani per affrontare la insensatezza della vita, per darle una risposta d

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Legato con amore in un volume. Quasi un diario
 9788855292122, 9788855292139

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Lucilio Santoni

Legato con amore in un volume Quasi un diario

Margini

Collana diretta da Filippo La Porta

Margini | 5

Lucilio Santoni

Legato con amore in un volume Quasi un diario

© 2020, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Margini ISSN: 2612-7229 n. 5 – luglio 2020 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-212-2 ISBN – Ebook: 978-88-5529-213-9 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: man walking in the night © francesco chiesa – stock.adobe.com

soy la muerte y la belleza F. G. Lorca

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I. In certe ore fortunate

Ricordati di me quando entrerò nel regno che mi attende, e che non conosco – disse. Stasera scriverò il tuo nome nel registro delle cose perdute – gli rispose – e ti condurrò in quel posto segreto, dentro di me, che confina con l’eterno.

Lo so, non si dovrebbe fare un libro mescolando ciò che per l’universo si squaderna. Perché l’insieme dei frammenti non può essere detto in un unico genere letterario. Anzi, non bastano neppure le infinite parole della lingua, articolate in infiniti stili e forme, per dirlo. Bisognerebbe avere l’impossibile capacità di legare con amore in un volume il fiume di detriti e pepite, gli scrittori e i commedianti, e poi gli amici, i conoscenti, la nostra città, il nostro quartiere, ma anche le città oltre confine, i luoghi belli e anche quelli brutti, dove abbiamo lasciato la memoria e dove l’oblio ha lasciato dentro di noi un segno che non si cancella; tutte le cose che non abbiamo più e che ci mancano, al pari di quelle che non abbiamo mai avuto. I desideri rimasti tali. Gli sguardi di chi abbiamo visto un attimo in uno scompartimento affollato oppure in riva al mare

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a settembre. I regni di quiete della preghiera. Gli anarchici e le ragazze che amavano i poeti.

Lucilio Vanini non lascia nella storia del libero pensiero così vasta orma come Tommaso Campanella o Giordano Bruno. Non ebbe del primo gli ozi della trentennale prigionia, non ebbe come Bruno le tregue felici e feconde della Sorbona. E visse meno di tutti e due, poiché sul rogo venne arso che non aveva raggiunto i trentaquattro anni. Ma forse supera i due suoi contemporanei nella sagacia dell’intuito e nel coraggio delle conclusioni. Da frate carmelitano, arriva a ripudiare la Chiesa e le leggende creazioniste; cerca allora le fonti della vita e ne intravede le scaturigini nella decomposizione, nel doppio fattore chimico-fisico al quale torneranno tre secoli più tardi Haeckel e De Vries. Dalle forme primordiali, secondo lui, la vita organica, in perfezionamenti successivi e continui, è addivenuta alle forme superiori. È un precursore di Lamarck e di Darwin. Non bisogna credere che parlasse così chiaro e così liberamente come possiamo fare noi riassumendo il suo pensiero. Erano le aurore magnifiche della rinascenza, è vero; ma anche dell’Inquisizione e delle grandi guerre religiose; e Lucilio Vanini, peregrinando in mezza Europa, era costretto a presentare «sotto il velame delli versi strani» (si veda anche l’altro illustre contemporaneo Galileo Galilei) ai suoi uditori, numerosi e sospettosi, le domande che dentro gli ribollivano e lo spingevano a una continua ricerca. Avrebbe potuto essere un grande prelato, ne aveva le doti. Decise di essere se stesso. L’Inquisizione, che ne spiava da tempo la vita errabonda e l’apo­stolato sacrilego, alla fine lo smascherò. A Tolosa lo fecero arrestare sotto la precisa e terribile imputazione di ateismo. Dopo sei mesi di istruttoria, che furono sei mesi di tormenti,

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su requisitoria di Guillaume de Catel, il Parlamento di Tolosa condannò Lucilio (noto anche come Giulio Cesare) Vanini ad avere la lingua strappata e a essere poi arso sul rogo: 9 febbraio 1619. Era nato a Taurisano nel 1585.

Chi è soddisfatto vive la propria stolida tranquillità in modo semplice. Non è portato a farsi domande infinite sulla vita e la morte, sull’inquietudine e il dolore, su cosa siamo e dove andiamo, sul perché il mondo abbia un peso talvolta insopportabile, e, pertanto, non produce opere d’arte o d’ingegno, poiché tali opere sono sempre tentativi disperati di risposta a quelle domande. In tal senso, possiamo dire che la bellezza creata dall’essere umano derivi sempre dalla ferita e dalle lacrime. La ferita, inoltre, rendendo l’essere umano imperfetto, lo apre al dialogo con l’altro.

«È l’animo che ci fa ricchi. Esso ci segue nell’esilio e nella solitudine più desolata», scrive Seneca al suo amico e discepolo Lucilio, nel quale mi identificavo fin da ragazzo. In seguito, la lezione di Seneca mi divenne chiara quando ricevetti l’invito al matrimonio di Francesco d’Assisi con Povertà. Quel santo mi mostrava come l’altissima povertà ti liberi da tutti gli orpelli che pesano a dismisura e ti renda ricco di quella ricchezza duratura, che però si vede solo dentro gli occhi, per chi la sa osservare.

Ad ogni modo, non bisogna dimenticare che anche le esistenze di persone completamente appiattite sulle semplici realtà

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quotidiane, affatto prive di interesse, presentano un loro lato misterioso che può essere materia di poesia.

Porto ancora e sempre nelle orecchie la voce profonda di Leo Ferré che canta La mémoire et la mer1: Sur la plage le sable bêle comme des moutons d’infini… quand la mer bergère m’appelle.2 Federico aveva diciassette anni quando Paola andò a trascorrere il mese di agosto in vacanza nella sua città, insieme alla famiglia. Lei di anni ne aveva quindici. Il suo amico Valerio gliela presentò, in spiaggia, allo stabilimento Bacio dell’Onda, gestito allora da una vecchia gloria della Sambenedettese Calcio, Gigi Traini detto Verdò. “Sono di Milano”, disse. Lui si perse nei suoi occhi, nel suo sorriso. Sembrava uguale agli dèi. La sua lingua si intorpidì e pronunciò solo qualche parola smozzicata. Ma questo non gli impedì la mattina seguente di volare col suo motorino nuovamente allo stesso chalet (lì si chiamano così gli stabilimenti balneari) e poi scendere la passerella fino all’ombrellone sotto la cui ombra lei leggeva un libro. Andarono a fare il bagno e lui stette a guardarla mentre usciva dall’acqua. Non tornò neppure a pranzo. I cellulari non esistevano. I suoi lo diedero per disperso. Si fece rivedere all’ora di cena. Da quel giorno fu così per tutto il mese, in un tempo sospeso che forse era la felicità.

1.  Contenuta nell’album Amour Anarchie del 1970. 2.  «Sulla spiaggia la sabbia bela / come pecore d’infinito / quando il mare pastore mi chiama».

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A settembre andò a trovarla a Milano. Lei lo fece entrare nella sua cameretta. Sul muro c’era un poster di Roberto Vecchioni, suo professore al Liceo. Non fu come al Bacio dell’Onda: tutto più grigio. Il perché l’avrebbe scoperto qualche anno dopo, leggendo un disegno di un suo grande concittadino, Andrea Pazienza. Questi aveva scritto: nelle città senza mare i sogni s’inaridiscono. Il giorno dopo tornò a casa. Non l’avrebbe più rivista né sentita. Mes désirs dès lors ne sont plus qu’un chagrin de ma solitude.3 Oggi, dopo tanti anni, se fosse possibile, vorrebbe recitarle due versi: io sono la tua prima parola, / tu il mio ultimo colloquio. E ha capito una cosa della sua vita. Con tutte le donne che ha avuto, ha sempre cercato di far ritornare quel mese di agosto; e forse sarà così fin quando il cuore gli batterà nel petto. Sur cette mer jamais étale d’où me remonte peu à peu cette mémoire des étoiles.4

Negli ultimi cinquant’anni, diciamo dopo il ’68, “aggregazione” è stata la parola d’ordine per illudersi di agguantare la felicità. Assessorati e ministeri hanno stanziato denaro a volontà per aggregare le persone: giovani e anziani, lavoratori e disoc-

3.  «I miei desideri da allora non sono altro / che il dolore della mia solitudine». 4.  «Su questo mare mai domo / dal quale arriva fino a me lentamente / la memoria delle stelle».

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cupati. Fiducia piena nella formazione di greggi che così avrebbero evitato la temuta solitudine. Anche l’attività culturale è stata vista come funzionale all’aggregazione. Ma il tempo, come si dice, è galantuomo. Alla lunga, abbiamo scoperto, con somma nostra disillusione, che la felicità non è arrivata, anzi, pur nell’aggregazione, siamo sempre più soli. Cominciamo a capire oggi, forse, che con la solitudine bisogna farci i conti comunque, e che non serve essere accanto ad altri per scacciarla. Forse quegli assessori e ministri, in questi cinquant’anni, avrebbero fatto meglio a devolvere una parte di quel denaro alla cultura autentica, quella che non vuole aggregare nessuno, quella che viene dalla ferita e dalle lacrime, dalla solitudine, e che proprio in quanto tale può compiere il miracolo di trasformare la disperazione del sentirsi soli in innalzamento dell’anima.

Prima del ’68, invece, dominava la solitudine, il sociale s’affacciava timido ma non aveva definitivamente vinto. E proprio dentro quel rapporto, che era ancora fra individui, potevano manifestarsi giovani turbolenti e selvaggi, un po’ esistenzialisti e anarchici, coi pugni in tasca e le porte sbattute in faccia ai genitori, che facevano riunioni piene di fumo e rubavano dolcissimi amori nelle Cinquecento, tessevano amicizie impastate di purezza e ferocia. Non si era ancora competitivi: si avvertiva, seppur confusamente, che non c’erano abbastanza lettere sulla tastiera del linguaggio per esprimere le sfumature infinitamente diverse del pensiero e della passione.

Bisogna essere seri fuori e pagliacci dentro. Oppure, pagliacci fuori e seri dentro. Quelli che sono seri dentro e fuori, quelli sì che sono insignificanti!

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In esergo a questo libro ho messo un verso di Federico García Lorca, il mio poeta preferito. Laddove il poeta preferito, per ognuno di noi, è proprio quello che meglio fruga nelle nostre ferite. E allora faccio miei due versi di Miguel Hernández: «come se passeggiassi con la tua ombra, / passeggio con la mia». Tratti da Elegia prima, omaggio a Federico dopo la sua uccisione.

Da qualche parte, nel frattempo e nell’inquieto, ci troviamo a parlare al di là delle parole, dentro una musica dell’inespresso che va avanti e indietro in onde di allegrezza o di angoscia. È una musica impura che tende verso la musica pura per arrivare al silenzio, perché le parole tentano disperatamente di essere all’altezza dell’eterna giovinezza dei suoni. I poeti allora si sfiniscono nello sforzo di far cantare un materiale aspro che, in principio, non era destinato a un uso musicale. In tal senso, la poesia è come la farfalla con la fiamma: si avvicina il più possibile all’armonia ma, appesantita nel suo volo dalla goffaggine dei significati storicizzati, non può raggiungere l’infinita gamma delle sue metamorfosi e delle sue modulazioni. Si dà allora un passaggio incessante da un rumore all’altro, dalla tristezza alla speranza, dalla nostalgia al trionfo, dalla tenerezza alla violenza, dalla bellezza alle lacrime. E dalle finestre aperte si sente solo il pianto. Ma in fondo… «a chi piace la musica se può sentire il pianto?», domandava Calderón de la Barca.

Il canto poetico è quanto di più vicino ci possa essere al pianto. Dalle lacrime scaturisce la bellezza, lo vado ripetendo. Ma allora la domanda cruciale è la seguente: non sarebbe meglio un mondo senza bellezza e senza lacrime (domanda rivolta

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a un creatore onnipotente)? Anche senza essere credenti, la domanda s’impone. È come se, per entrare in un museo, dovessimo consegnare un cadavere: non sarebbe un prezzo troppo alto? Hanno senso gli slogan del tipo «la bellezza salverà il mondo» ed esaltazioni simili quando, invece, conosciamo il prezzo altissimo che comporta ammirarla e fruirla? «That agony is your triumph», cantava Joan Baez celebrando Sacco e Vanzetti, morti innocenti sulla sedia elettrica.

Velázquez: Bacon. Il pennello intinto nel colore rosso, il papa, come a voler rappresentare lo spirito incagliato in un turbinio di carne, sangue e vita. I bastoni, le sbarre lo chiudono in una gabbia da cui non sfugge. L’urlo è urlato, la bestia sgozzata, il sacro macellato. Gli occhi sono alla ricerca di qualcosa. Tutto è verticale. La scalinata del Potëmkin. Luce che balza sulla tela. Preghiere e conti sono da rifare. Il tempo è fuori dai cardini, allora come oggi. Lo spettatore vede il suono del dolore.

Ogni mattina faccio una passeggiata. Di cinque minuti o di un’ora. Mi piace farla soprattutto quando l’aria è tersa e si può guardare lontano. Mentre cammino lentamente, chiedo ai poeti di parlarmi, di donarmi l’essenza segreta, dorata e avvelenata delle parole. Chiedo loro di rivelarmi quel luogo, che sta oltre l’inquietudine, dove, in certe ore fortunate, la nostra storia sembra essere una scia di silenzio in mezzo al vociare.

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Lei si aspettava che l’amore la colmasse, invece l’amore accentuò il vuoto che aveva nella testa e l’abisso che aveva nel cuore. Lui credeva di costruire la sua vita, invece la vita, più si sentiva murata, più si richiudeva su di lui e lo soffocava. Viene l’ora in cui sentiamo la necessità di un pensiero più profondo, smagato ma senza limite, che ci faccia essere consapevoli di come i voli sognati vadano a cadere in fetidi stagni e che le promesse non verranno mantenute. Ma, proprio dentro questa riconquistata sobrietà, come dopo una sbronza che pareva interminabile, la vita potrà darci molto di più.

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II. Una pagina dell’universo

Molti, oggi, odiano il nostro Paese per il turbocapitalismo che va a braccetto col mondo della finanza, per l’alta concentrazione di mafia e per i rifiuti che periodicamente ci sommergono. Ma queste innegabili perversioni della civiltà non ci piombano dall’alto; ne faremmo volentieri a meno, certo, ma non possiamo, poiché rispecchiano l’anima nera che è dentro ognuno di noi, e che ci fa costruire la parte più brutta del mondo. Possediamo, però, anche un’altra anima, più chiara e pura, che ha un collegamento diretto con la speranza e che noi abbiamo il compito di non soffocare, anzi, di aiutare a crescere. Spiriti come Lucrezio Caro, Virgilio Marone, Francesco d’Assisi, Dante Alighieri, Michelangelo Buonarroti, Raffaello Sanzio, Giacomo Leopardi, Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, nel passato, e tanti altri anche nel presente, affondano le radici fra poesia e infinito, radici che, a volte, come un fiume carsico, affiorano e ci danno linfa per vivere.

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Non parlava quasi mai di bene e male, in contrapposizione. Non pensava di stare dalla parte del bene e non pensava neppure che ci fosse una parte che stava col bene e una che stava col male. Chi pensa di stare nel bene, rimane immobile, non si mette in discussione e si sente giustificato in ogni cosa che fa. Chi pensa di stare nel male, allo stesso modo non si muove perché sente la condanna che gli pesa addosso. Lui invece preferiva parlare di logos e di caos: il primo fa mentre il secondo disfa. Le filosofie orientali, in questo, sembravano più vicine alla verità della vita: yin e yang. Entrambi necessari per porre bene quelle domande che possono aprire scorci inediti sulla realtà, purificati da sensi di colpa e mondati da narcisismo patologico.

Ognuno dice di vivere in città, o in campagna, o sul luogo di lavoro, o in casa. Ma, in verità, noi tutti non viviamo in un luogo fisico, che ha valore solo per l’anagrafe. La nostra segreta residenza è in una lingua, nella quale esprimiamo le speranze, cantiamo i desideri e pronunciamo i nostri riti, senza sapere, per altro, cos’è che ci fa sperare, cantare e parlare con voce rotta. Il bello è che più ci troviamo bene nella nostra lingua, più viviamo in armonia con la nostra residenza fisica.

A lei avevano detto che nessun uomo vuole una donna più intelligente di lui; e lei era convinta di questo. Lei, inoltre, pensava che un uomo che non accetta che la sua donna sia più intelligente di lui non sia intelligente. Poi pensava che, come in tutte le regole, ci fossero delle eccezioni, cioè uomini che

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accettano che la loro donna sia più intelligente. Ma lei, certamente, non voleva un uomo meno intelligente di lei.

Una tragedia di Heinrich von Kleist. Pentesilea è la regina delle Amazzoni e si confronta (non può fare altrimenti, gliel’aveva predetto anche la madre, in punto di morte) con il re degli avversari, Achille, il guerriero invincibile. Se ne innamora. Ma, per unirsi a lui, come è legge fra le Amazzoni, deve sconfiggerlo in battaglia. Perciò gli lancia la sfida; sfida personale rivolta solo a lui, che la ama altrettanto. A questo punto, però, si trova a deflagrare in una contraddizione irrisolvibile: se lo sconfiggesse, in quel preciso istante lui non sarebbe più imbattibile e, quindi, non più desiderabile; stessa impossibilità se lui sconfiggesse lei, poiché verrebbe infranta la legge sovrana delle Amazzoni. Via d’uscita non c’è. Solo una violenza erotica che confonde l’amore con l’orrore e i baci con i morsi, un’orgia di sangue, di corpi e di morte, potrà porre termine alla tragedia.

Una dissimmetria. Luogo: un locale all’ora dell’aperitivo, o happy hour, come si dice oggi. Entra un uomo. Nel giro di un minuto al massimo ha già guardato tutte le donne presenti e fatto la sua personale selezione. Sa già quale sarà la geografia dei propri spostamenti e obiettivi. Solo in una seconda fase, guarda se c’è qualche amico o conoscente con cui parlare, privilegiando ovviamente quello che potrà avvicinarlo ai suddetti obiettivi. Entra una donna. Ha bisogno di qualche minuto per scrutare tutte le donne presenti. Verifica la propria possibilità di com-

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petere con loro e quindi, dopo essersi collocata in una personale immaginaria classifica, solo allora rivolge uno sguardo agli uomini. Con i quali, in seguito, magari scambia qualche parola, ma sempre tenendo un occhio rivolto alle competitor. Potremmo aggiungere una postilla. Ogni uomo deve confessare che il motivo o obiettivo di detta competizione, alla semplice mente maschile, non è dato neppure lontanamente conoscere. O, forse, motivo o obiettivo non esiste, cosicché la natura del desiderio femminile mantiene inviolate le sue tenebre.

Le Sirene dicono a Ulisse soltanto questo: noi conosciamo tutto di te, della tua ferita di guerriero e di ogni cosa che accade sulla terra, per questo la nostra voce è di miele e «innonda di diletto il core e di molto saver la mente abbella» (Ippolito Pindemonte). Nient’altro dicono. Non è ancora un canto. È una semplice promessa. Il canto verrà dopo e, in ogni caso, Omero non può trascriverlo, perché il canto è indicibile, forse addirittura un silenzio, come suggerisce Kafka. Ma quella promessa è già tutto ciò che ci occorre per farci innamorare e seguirla superando ogni timore, a dispetto di ogni ragionevole avviso. Perché noi umani ci innamoriamo veramente, non della persona che risponde ai canoni o alle misure prescritte dalla moda dei tempi, bensì di chi mostra di conoscere qualcosa della nostra ferita. Più essa sanguina, più cerchiamo disperatamente chi sappia dirci qualcosa di come ce la siamo procurata e, magari, di come guarirne. E, quando troviamo quella persona, il cuore ci si inonda di diletto e la mente fiorisce di bellezza.

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C’è chi pensa da solo ed è encomiabile. Ci sono due che fanno l’amore e sono invidiabili. Poi ci sono altri due che, insieme, osano pensare l’impensato, si divertono a spingere l’intuito oltre i confini conosciuti e frequentati: così facendo, arrivano a toccarsi il corpo con la mente; essi sono gli eternamente giovani, perché per ogni giorno, speso nella ricerca, viene restituita loro l’antica anima di bambini.

Prima di dormire, come tutte le sere, abbiamo letto qualche storia, e le storie della letteratura sono piene di morti. Il pensiero allora è corso a Romeo, il nostro gatto che era scomparso nel nulla il giorno prima. “Forse Romeo non è morto”, mi ha detto Zoe, che ha sette anni, come per scacciare la tristezza, “magari l’ha preso un bambino e, quando il bambino lascia la porta aperta, lui può tornare da noi, se vuole”. Le ho dato un bacio e le ho detto “buona notte, amore”.

Figlia, osservo una vita piena di ore perdute nell’oscurità, tranne la luce di questo amarti. Ma so che tra non molto ti dovrò lasciare. È questo l’orrore.

Niente di più, niente che manchi. Ecco la formula della perfezione. L’ideale assoluto sia per la poesia che per la vita. Difficile per la poesia; quasi impossibile per la vita, che urla e si dimena fra eccessi furibondi e mancanze d’essere.

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Mio nonno materno, Torquato Tomassini, era anarchico. Nato nel 1893, aveva ventotto anni quando avviò una tipografia a Civitanova Marche ma, con l’avvento del fascismo, dovette chiuderla e andare a fare il proto in una tipografia di Ascoli Piceno. Negli archivi di Stato di Macerata e Ascoli Piceno ci sono fascicoli che lo riguardano, con tanto di foto segnaletiche. Mio padre, Mario, era anarchico. Nato nel 1926, faceva il ferroviere e, per via del suo pensiero, ebbe la vita non facile nel dopoguerra democristiano. Ma negli archivi di Stato non ci sono fascicoli che lo riguardano.

Mio padre aveva superato i cinquanta. Aveva ancora lo sguardo in alto, verso l’utopia. Mia madre non lo seguiva, persa nei meandri labirintici della mente femminile. Gli abitanti del borgo selvaggio cavalcavano il boom economico. Io stavo fuori, a studiare e correre dietro alle ragazze. Lui era solo col suo dolore, che purtroppo avrei capito molto più tardi. Eppure tirava avanti; e d’estate faceva lunghe nuotate al mare e d’inverno giocava a carte al bar. Se mi dicessero che potrei veder avverato un desiderio, senza dubbio, chiederei di passare un’ora con lui. Per farmi raccontare ancora una volta l’inaugurazione di piazza Errico Malatesta ad Ancona; per dire ai suoi occhi smagriti che ci ritroveremo, eccome se ci ritroveremo, dopo il corpo, dopo la corruzione, magari a cantare Addio Lugano bella insieme all’Adunata dei Refrattari, a parlare di tutto ciò che fa nascere un figlio da un padre.

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Riconoscere ciò che conta da ciò che passa – diceva – e noi esseri umani passiamo, ma ci è stato assegnato il compito di rivolgere lo sguardo verso l’infinito. Dall’essere soltanto nostri, libera nos domine. Dall’essere innovativi, libera nos domine. Lo sguardo verso l’infinito implica, in qualche modo, un’etica a stretto contatto con la poesia. S’i’ fosse foco scalderei il cuore mio e del mondo, s’i’ fosse acqua laverei le ferite, s’i’ fosse vento trasporterei il polline della poesia, s’i fosse amore non toglierei la solitudine ma le darei un compimento, s’i’ fosse vita farei sì che le lacrime siano come l’olio profumato che scendeva sulla barba di Aronne.

lui – Una cosa ancora, prima di lasciarci. lei – Sì… lui – Una cosa soltanto, prima di tornare a desiderare le stelle. A ricordare un brivido nella schiena, un brivido nella vita mia. lei – Sì… lui – Torneranno poi nel sogno anche le voci delle famiglie illuminate a cena. Gli steli al vento. La natura in sintonia con le anime. lei – Sì… lui – Il sollievo di vederti calma nell’attesa. Il desiderio d’incontrarci a sera per caso in un inverno. lei – Sì… dimmi… lui – (silenzio) lei – Ascolta l’aria prima della pioggia, che da millenni ignora se la voce è fatta di silenzio o di parole. lui – Perché l’amore nella morte, nel congedo, trova la sua ora vera d’incontro? lei – Quale cosa prima di lasciarci? Prima che lasciamo questo campo di tenerezza seminato di pensieri.

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lui – Addio. lei – (silenzio) lui – Tutta la poesia dell’universo è nella profondità del tuo sguardo. lei – Con lo sguardo che si spegne, devi sapere, si spegne subito anche l’infinito. lui – Se io fossi pescatore, pescherei l’aurora; se fossi cacciatore, catturerei il sole. lei – L’aurora non è l’addio, eppure ogni addio è l’emozione chiara di un’aurora. lui – … Non capisco… lei – L’importante non è amare, ma è trattare con amore, capisci ora? lui – Ti amo… sono solo. lei – Anch’io.

La sua scrittura è dentro i fatti, talvolta anche in anticipo, ma in ogni caso gli permette di accedere direttamente a quelle pagine della sua vita che altrimenti rimarrebbero perdute. Nell’incapacità di ritrovare il linguaggio originario e, con esso, tutti i linguaggi che compongono il libro intero dell’universo, sceglie le parole più graffiate dal tempo per dire come ha visto se stesso attraversare quel libro fino a oggi, concentrandosi sull’unico punto di fuga che lo rapisce e che però gli sfugge. Passa con pazienza dall’incompiutezza di un vocabolo all’incompiutezza del vocabolo seguente, fino a che l’insieme delle lettere finisce col comporre un’intera frase chiara, nitida.

Date a Cesare tutto ciò che è suo, perché si tratta di un fardello che vi impedisce di seguirmi – disse. Alla fine morì e fu sepol-

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to, come tutti gli uomini, ma il terzo giorno resuscitò. Il suo simbolo, a rigor di logica, dovrebbe essere proprio la resurrezione, ché è solo sua e di nessun altro. Invece il suo simbolo è la croce, perché la bellezza viene dalla ferita e dalle lacrime, anche se sei il Figlio di Dio.

Parla Van Gogh. Qui si compie la mia storia, anche se la vita non vuole andarsene mentre i corvi volano sui campi di grano. Comincia ora lo stillicidio delle parole vuote, delle ore e dei minuti senza senso. Mi sento andare a fondo nella cavità dell’essere, dove non c’è voce, dove il buio si è aperto al buio e la terra alla terra. Alla fine più nulla. Ma io non smetto di sfinirmi, in un tempo imprevedibile, misterioso tanto quanto quello passato, nelle carezze, e quello futuro, nel quale mi dissanguo.

«Ho esposto le mie idee. Costituiscono una parte di me stesso. Non posso prescindere da esse, e anche se volessi non ci riuscirei. E se pensate che potrete annientare queste idee, che ogni giorno guadagnano terreno, mandandoci alla forca; se ancora una volta applicherete la pena di morte per esserci azzardati a dire la verità – e vi sfidiamo a dimostrare che abbiamo mentito in qualche occasione –, io vi dico: se la morte è la pena che imponete per proclamare la verità, allora sono disposto a pagare questo prezzo così caro. Impiccateci! La verità crocifissa in Socrate, in Cristo, in Giordano Bruno, in Jan Hus e in Galileo, vive ancora oggi. Questi e molti altri ci hanno preceduti nel passato: noi siamo pronti a seguirli». Con queste parole August Spies chiude la propria difesa nel processo che lo vedrà condannato a morte insieme ad altri sei imputati, l’ottavo

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subirà quindici anni di reclusione. Il 1° maggio 1886 a Chicago si era svolto lo sciopero generale per la riduzione dell’orario di lavoro: la richiesta era di otto ore. Nel corso della manifestazione esplose una bomba: morirono otto poliziotti, altri rimasero feriti. Otto anarchici vennero messi alla sbarra. Gli avvocati difensori prepararono tutte le prove volte a dimostrare l’estraneità degli imputati al fatto criminoso, ma il processo, vista la loro evidente innocenza, prese un’altra piega. L’accusa che veniva rivolta loro non riguardò più principalmente l’omicidio degli agenti, bensì l’idea politica che gli imputati propugnavano. A quel punto, l’azione della difesa perse ogni forza e motivo di essere in quanto gli imputati, da questa accusa, non intendevano difendersi. E non si difesero, anzi, riaffermarono con forza la loro colpevolezza. Sui giornali filo-governativi comparve il titolo: Crocifiggeteli! Sulla stampa anarchica, da allora, gli otto sono diventati “I martiri di Chicago”. La richiesta avanzata da quegli operai era nell’aria. Ben presto, in tutti gli Stati Uniti, e poi anche in Europa, la giornata lavorativa fu portata a otto ore. In seguito, il 1° maggio è diventato, in molti paesi nel mondo, il giorno di una generica festa dei lavoratori. Io preferisco ricordarne l’origine, con il sacrificio di quegli otto coraggiosi.

L’esistenza non si presenta mai come una certezza, ma è tutto un agitarsi nella ricerca, senza essere padroni di ciò che si trova. Quanto c’è di infinito in un’anima dichiara l’impossibilità di una collocazione definitiva. Non si sa dove finisce l’esperienza e dove comincia la traccia nascosta del desiderio, dove finisce il canto delle parole e dove comincia l’allegria del respiro ampio. Ecco, allora sono sempre stato affascinato da questo tipo di persona, di ricercatore, che ha osato il pensiero più impervio e, come cieco alle cose di poco conto, ha curato

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soprattutto la propria tensione verso l’infinito. Come diceva di fare Lucrezio nei confronti di Epicuro: di lui io calco la traccia.

Nei decenni appena trascorsi tutto ha congiurato nel costruire la convinzione di appartenere a una gaudente comunità di emancipati, una comunità ricca di eventi, dove le vecchie parole della moralità sono state sostituite da parole che esaltano i gesti, i comportamenti e i sentimenti alla luce dell’edonismo. Sono andate di moda parole come “frustrazione” e “gratificazione” per dire se stessi sul grande palcoscenico del mondo. L’importante è stato assaporare il relax, il comfort: un misto di sicurezza per sé e indifferenza verso gli altri. Le cose non sono state più esistenziali, ma antiche o moderne, con irresistibile attrazione per queste ultime. Tutto è stato misurato in termini di modernità e innovazione. Tutti hanno confuso “libero” con “liberale”, pensando di essere in una società avanzata che permette di avere il massimo dei diritti e delle merci.

“Everything is gonna be ok” è la frase ricorrente nei filmacci americani. E noi l’abbiamo ripresa pari pari come fedeli sudditi di quella cultura: “andrà tutto bene”, anche nella variante al presente “va tutto bene”. La usiamo nei nostri momenti peggiori. Non ci sforziamo neppure di dire qualcosa in parole nostre. Tutti luoghi comuni e frasi fatte che ci piacciono tanto. Con un lieto fine anticipato che ci rassicura. Invece, probabilmente, “nothing is gonna be ok”. Nei nostri momenti peggiori, ci sono e ci saranno lacrime e sangue. Rimangono ferite nella nostra anima e nella nostra mente. Non serve mettere bandierine arcobaleno sui balconi, cioè guardare la vita solo da lontano. Certo, se la guardi solo da lontano, la vita, con i

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suoi strepiti e le sue risate, è una commedia. Ma, se la guardi da vicino, ti accorgi che è una tragedia: di questo bisognerà cominciare a farsene una ragione, e nella tragedia quasi mai “va tutto bene”. Se si è tragici, si può camminare nei cimiteri costituiti dai nostri cuori senza essere lugubri, anzi, si può danzare leggeri ai margini della sofferenza e del lutto, stando spensierati sull’uscio della casa segreta della morte prima che essa ci raggiunga.

Non amo chi costruisce, muri e palazzi, recinzioni e televisioni, famiglie, imperi. Penso a quel primo imperatore cinese, Shi Huang Ti, che fece costruire la grande muraglia e fece anche bruciare tutti i libri scritti prima di lui. Chi costruisce lo fa sempre per paura, e la paura porta a richieste sempre crescenti, porta all’inferno. L’uomo moderno si arroga il potere frustrante di chiedere ogni cosa come fosse un bisogno. Non riesce a immaginare niente che l’istituzione non gli possa dare. Crea bisogni più rapidamente che soddisfazioni. L’agricoltura, l’industria, la medicina, l’istruzione, consumano suolo e anima, ambiente e desiderio, in una coltivazione, una produzione, una pratica sanitaria e una scolarizzazione che fanno del mondo un unico stagno. Ora penso a quanto queste considerazioni che vado facendo siano vicine a quel che afferma uno scrittore cristiano come Christian Bobin: «Dio è un nome per dire tutti i nomi, un nome per dire qualcuno che è dappertutto, meno che nelle chiese, nei municipi e nelle scuole, e in tutto ciò che somiglia, poco o tanto, a un edificio chiuso». I geni non hanno mai costruito nulla. I mediocri hanno costrui­ to tutto. I primi hanno ricercato un futuro aperto all’immaginazione creatrice. I secondi hanno sfruttato il mito dell’homo faber per imporre modelli di vita tecnologici. Dalla caccia ai diavoli e alle streghe si è passati repentinamente alla fede nei

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codici binari e nella pratica medica che costruisce malattie cadute dall’alto e consiglia una chirurgia preventiva. Nel passaggio abbiamo perso di vista il mistero di cui siamo fatti, e senza mistero anche la carne e la materia non hanno più niente di sacro, divengono oggetti di consumo in costante attesa di un tecnico che aggiusti i difetti di fabbrica.

Nella vita sarebbe bene seguire il proprio personale desiderio, ma è la cosa più difficile che possiamo fare, poiché tanti sono i bisogni che ci assediano, travestendosi da affluenti del desiderio, e ci confondono i pensieri. In attesa di fare chiarezza, una strada privilegiata potrebbe essere quella di lasciarsi guidare da chi riteniamo più autorevole di noi. Ma non la pratichiamo, poiché la paura più grande che ci paralizza il cervello è quella di non contare niente e, pertanto, non riconosciamo nessun maestro. Godiamo nel dare il potere non al migliore ma a chi ci assomiglia di più. Inoltre, quella confusione generata dai bisogni, non avendo essi nulla a che fare col desiderio, è fonte, spesso, di vita inabitabile e di violenza.

Non si muoveva quasi mai dai cortili in penombra intorno alla sua casa. Raramente camminava lungo viali e deliri, per tornare sempre fra le mura amiche. Oggi, dopo il disastro della Storia e l’illusione globale, che ne sarà del mio quartiere? – domandava.

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Le truppe del generale romano Pompeo recalcitravano a mettersi per mare, perché i flutti erano grossi e perigliosi. “Navigare è necessario, vivere non è necessario”, lui disse loro, e le convinse. Poeti e filosofi di tutti i tempi hanno ripreso il monito di quel generale (cogliendone il significato simbolico, al di là delle motivazioni contingenti). Non serve contare i battiti del cuore o i respiri che si fanno per essere umani viventi: serve, invece, navigare, cioè avere un porto. Perché in quel porto c’è l’amore che aspettavamo da tanto. I giorni, i mesi e gli anni sono nulla se davanti abbiamo quel porto e quell’amore. Magari ci capiterà di morire durante il viaggio, e allora sarà una morte dignitosa, non venuta invano. E se anche, arrivati in porto, l’amore non lo troveremo più, sarà stato un bel vivere, sarà stato un dolce naufragio: ci rimarrà il verde di quegli occhi, l’azzurro del mare che avremo dentro.

Loro la ameranno per ciò che la distrugge. Lei ha scritto cose di una lucidità devastante, dei dolcissimi pugni allo stomaco. E loro continuano a mettere in scena le sue parole, perché ne sono innamorati. È un genio del teatro, della letteratura, del pensiero. Ogni sua parola è verità che ci colpisce nelle parti più intime, mette a nudo il bubbone maligno che c’è nel profondo di ognuno di noi e, così facendo, ci innalza l’anima. Ma Sarah Kane era anche una ragazza che voleva vivere come tutti e non ci riusciva, e allora scriveva per tentare di dire il bubbone che aveva dentro, ma quel maledetto, alla fine, ha avuto la meglio e l’ha distrutta. Loro amano quel bubbone che lei ha trasformato in parole sublimi: un bubbone di parole che ora innalza la loro anima. Lo stesso vale per tutti gli artisti, che lo hanno trasformato in versi, tele dipinte o note musicali.

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Nella ferita lei è parola. Nelle lacrime lei esiste attraverso la parola. Ma, allora, chi sono io senza ferita e senza lacrime?

Nel ventunesimo del Purgatorio, in una scena cinematografica memorabile e potente, Stazio viene a sapere da Dante che chi ha di fronte è proprio il venerato maestro Virgilio. Allora gli si getta ai piedi per abbracciarlo. Ma non può, per lo stesso motivo per cui non avevano potuto, dopo essere scesi nell’Ade, Ulisse nei confronti della madre e Enea nei confronti del padre: perché non si possono abbracciare le ombre. Ma l’amore talvolta è così grande che dismentiamo nostra vanitate e cominciamo a trattare le ombre come cosa salda, cioè usciamo dalla nostra sostanza materiale e ci avventuriamo nel regno delle intensità. La lezione di Dante è chiara: solo quando abbandoniamo il mondo delle materie visibili ed entriamo in quello delle intensità invisibili, l’amore e la vita ci scaldano il cuore. «E solo l’ombra dura», ribadisce uno dei migliori intellettuali del Novecento, Nicola Chiaromonte. In altre parole: non esiste una vita vera, ma esiste una verità della vita, e questa risiede nel fatto che essa non appartiene né al vero né al falso, bensì appartiene a una zona di fragilità, di complessità, di tenerezza, di sensibilità; la verità della vita non dipende dal suo contenuto codificato o dalla sua relazione con la materia reale, ma è verità perché è vera la relazione con qualcosa di altro da se stessa: qualcosa di celestiale che sa di utopia e speranza, di grembo dal quale siamo usciti e capacità di assediare l’assedio al quale siamo sottoposti. «La terra ed io siamo una sola cosa intensa che solleva l’azzurro», scriveva Sibilla Aleramo.

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Il Parnaso di Raffaello Sanzio. I poeti si raddoppiano, si triplicano; ci sono ancora Dante, Virgilio e Stazio. Un teatro di gesti, il suono della viola e della lira. Saffo col cartiglio, che sembra Miss Mondo. Le tenere membra, i panni azzurri: tutto chiede di cantare. L’alloro, i riccioli al vento, la pace sull’Elicona. Ecco come si compone una scena d’eternità. Quando del mio corpo non saranno rimaste che occhiaie, con familiare amore, vorrei essere messo in fotografia sull’affresco che si fa teatro. E così uscire dalla vita, come il sangue dalla ferita.

Giacomo Leopardi, nella Canzone ad Angelo Mai, celebra Cristoforo Colombo, «ligure ardita prole» lo chiama. E poi, ancora, ne mette in evidenza la grande statura nell’operetta morale in dialogo con Pietro Gutierrez. Colombo è colui che sta «agl’infiniti flutti commesso» e per una «congettura» si gioca la vita nella ricerca. Il grado più alto di umanità. C’è un filo rosso che collega Lucrezio, Giordano Bruno e Leo­ pardi: tutti e tre viaggiano con la mente e con l’anima negli spazi infiniti del mondo e dell’universo. E tutti e tre disprezzano chi viaggia per conquistare, chi viaggia senza «congettura», rimanendo nella melma tediosa del finitum. A ben vedere, nella sostanza materiale, il viaggio di Colombo è lo stesso identico del conquistatore Hernán Cortés: ma quanta differenza c’è invece fra i due viaggi! La vita è davvero definitivamente una faccenda di intensità.

Quella che chiamo intensità non ha nulla a che fare con la quantità (di emozioni, di sensazioni o di relazioni), bensì è

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imparentata con la leggera purezza alla quale anelavano gli antichi egizi quando, dopo morti, gli veniva pesato il cuore su una bilancia a doppio piatto. Dall’altra parte c’era una piuma, la piuma di Maat, dea della giustizia e della verità, e solo se il cuore pesava come la piuma, Osiride concedeva la vita eterna. Se, invece, pesava di più, voleva dire che era pieno di scorie e allora il mostro Ammut ne faceva un sol boccone.

Non esiste una morale possibile. Non esistono comandamenti che dicano ciò che è buono e ciò che non lo è. Sant’Agostino aveva capito tutto benissimo: ama e dopo fa’ ciò che vuoi. L’amo­re è l’intensità che non si discute.

Probabilmente è davvero felice colui che, dopo essersi amato a lungo, parte per il lungo viaggio verso quella splendente follia che è il dono di sé.

Insieme alla Canzone ad Angelo Mai, Leopardi scrisse Sopra il monumento di Dante, dove sostanzialmente afferma che l’autore della Divina Commedia è il vero padre della patria. E, se è vero quel che dice Paul Celan, cioè che si abita una lingua e non una terra, allora davvero Dante è nostro padre. I tanto celebrati (con massima retorica) padri costituenti, avrebbero potuto dare ascolto al poeta quando dovevano scrivere il primo articolo della Costituzione. Invece di quello che abbiamo, il cui valore è difficilmente sostenibile, avrebbero potuto scrivere: l’Italia è una Repubblica uscita a riveder le stelle. Sono convinto che, se l’avessero fatto, il nostro Paese sarebbe oggi un poco migliore.

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Lui aveva sempre detto che si doveva fare: infrangere le statue e le immagini di re, imperatori e conquistatori, ma, oggi che lo fanno davvero, si vede costretto a diventare reazionario e prendere le difese della tradizione. Sempre più convinto che, per essere iconoclasti, bisogna amare le icone e le pale d’altare, per essere veramente rivoluzionari, bisogna essere conservatori nello spirito.

Goffredo Mameli era un poeta puro e le ragazze s’innamoravano di lui. Un giorno entrò nella sua vita Geronima: appariva bella e delicatissima nei lineamenti, occhi cilestri e capelli castani. Lui aveva vent’anni e vi vide la sua sposa per sempre. I due si promisero il futuro. Ma la marchesa Feretto, di lei madre, molto bigotta, vedeva in Goffredo un «irreligioso, pazzo giovane in preda a tutte le sfrenate passioni» amorose e politiche. Per evitare che sua figlia finisca nelle mani di cotanto amante, in soli tre giorni la fa sposare, in un eremo solitario fuori città, con un nobile rampollo, già vedovo con figli, molto più grande di lei. Goffredo, quando viene a sapere del progetto, inforca il cavallo e si precipita verso l’eremo per bloccare la cerimonia. Ma giunge solo dopo che gli sposi hanno celebrato e se ne sono andati. Lui è disperato. Per tre giorni non dorme e non mangia. Poi scrive una straziante poesia: «La man Dio ci separa / Ognuno di noi rovina, / Spinto da proprio turbine, / e per diversa china». Una crudele profezia la sua. In seguito, combatterà in difesa della Repubblica Romana, sarà ferito e, mentre gli stanno amputando una gamba andata in cancrena, lui chiede se potrà tornare a combattere! Non potrà, perché di lì a poco l’infezione tornerà e lo porterà alla morte. Una vita oltre ogni romanzo, da eroe, senza aver raggiunto i ventidue anni. Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò… Aveva capito che l’Italia o è un fatto poetico o non è.

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Forse davvero l’unica grande libertà cui possiamo aspirare, come diceva Pasolini, è scegliere la nostra morte. Per la cronaca, il matrimonio di Geronima fu massimamente infelice: si consolò soltanto dedicando il poco tempo che le restò da vivere ai poveri e agli emarginati. Morirà solo due anni dopo Goffredo.

«In un mondo ostile alla morte, non ci si prepara più ad andare verso la morte, ma a morire senza andare da nessuna parte», dice Ivan Illich. L’epidemia che ci ha colpiti è questa. Una necrosi del futuro, un timore, un orrore che non vogliamo vedere, e allora facciamo tante cose senza arrivare a capo di nulla. Cerchiamo di stare con tutti, senza soddisfare nessuno. Uno sfinimento che ha la maschera dell’efficienza. Massimamente contagioso, fa scempio di ogni spiritualità. Parole senza carne e senza corpo. Corpi senza grazia. Innovazioni del mercato che puzzano di muffa ammuffita. Rutilanti insegne luminose tengono lontana ciò che san Francesco chiamava Madonna Povertà. In tale scenario rinunciamo a una morte naturale, non ci curiamo del sano desiderio autunnale di scivolare via. Abbiamo fede solo nei medici e nel loro dare il consenso alla nostra dipartita. Dimenticata invece la consolazione di lasciar cadere l’ombra della Croce sulla condizione umana. E poi ancora: rifiuto della sofferenza; disgusto per la vecchiaia; distruzione della pulsione di vita, frustrazione sessuale organizzata. Un’infinita serie di invenzioni della modernità, che preserva i corpi e prosciuga le anime. Il primo ideale, oggi, è di essere purificati farmacologicamente e capaci di restare malati il più a lungo possibile. Diciamo di avere un corpo dimenticando, invece, di essere un corpo.

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«Le sorelle non devono parlare troppo e, in ogni caso, non tanto da generare ammirazione nelle altre», dice la regola delle carmelitane. Il futuro arriverà da questi interstizi dell’umanità. Starà a noi coglierlo o ignorarlo. Se decideremo di parlare troppo ci condanneremo a un’agonia senza fine e senza dignità. Se, invece, le nostre parole saranno poche e misurate potrebbe accadere l’imprevisto. Potremmo arrivare al nostro ultimo respiro col senso della terra, della carne e dell’amicizia. Prendere esempio dai prati e dai gatti. Lasciarsi cullare dal tempo, senza perseguire il profitto e senza provare insofferenza. Accompagnare le anime belle. Non avere paura di un’altissima povertà. Chiudersi in casa e scoperchiare il tetto per guardare il cielo, le nuvole. Guardarsi dalle piccole ambizioni. Occuparsi solo di grandi questioni, come l’amore e la morte. Salutare dal balcone i rari, i non ancora contagiati, i poeti, i mendicanti d’affetto. Diffidare di coloro che parlano solo di bisogni: sono gli untori più pericolosi, perché negano l’inevitabile distanza che c’è sempre fra desiderio e realtà, sopprimendo la speranza disperata. E poi coltivare la solitudine dell’anima, il colloquio interiore, l’immersione nei destini degli ultimi della terra. Accettare l’amore e il deserto in un unico vertiginoso orizzonte di senso. E, pure, molto più semplicemente, lasciarsi andare a un’andatura lieve che dà spazio alle cose e alle persone, avere poco da dire e niente da fare. «Siccome non ho niente da fare, / mi avanza tempo per fare molte cose», è una poesia di Gloria Fuertes.

Mia zia da anni era affetta da cancro con metastasi. Ripetutamente operata, si accingeva di nuovo a entrare in ospedale, probabilmente per l’ultima volta. Era a conoscenza di tale eventualità, anche se in sua presenza tutti parlavano degli anni a venire. Ricordo lei che, prima di uscire, rifà il letto, spazza

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il pavimento della cucina, lava e asciuga un paio di tazzine e bicchieri che sono nel lavandino. Quella scena è rimasta stampata nella mia memoria. Quei gesti senza senso che sfidano la morte, irriducibili a ogni spiegazione ma, allo stesso tempo, chiari nel non senso del reale, fino a sopportarlo, forse addirittura ad amare ciò che facciamo attraverso le sue minime increspature. Gesti semplici e naturali, inevitabili, che vorrebbero abbracciare tutto il tempo e fare del tempo un’estasi, perché – pensai in quel momento – non si muore mai nel presente ma in un futuro nel quale tutto sarà compiuto.

Anni fa, io e Zoe. Marano, il borgo, intorno le colline. Un cespuglio che in autunno è rosso vivo di bacche e brilla di pendule gocce a lacrima. Il mare, accovacciato nella sua tana d’orizzonte, ringhia, mostra i denti. Sventola, non sventola: la bandiera consumata merita applausi dalle voci di bimbi festanti, che si rincorrono in un linguaggio a me sconosciuto e che mi attraggono come una promessa di felicità. Poi le voci sfumano. Rimaniamo soli, con il gatto che ci osserva dal muretto. Il treno, da lontano, corre sui binari come una serpe tra le pietre. Arriviamo al presepe aperto tutto l’anno. Qualcuno ha dipinto la carta nera di stelle, la luna, il sole che si nasconde. La neve sui monti gonfi, il fiume d’argento s’attorciglia fra le pecore. I magi esausti hanno perso le mani e i doni. Tutto affonda nel muschio. Giovanni Battista per sempre accanto a Salomè, fatti a pezzi. La capanna è vuota, almeno così sembra. Il Bambino è uscito e chissà se torna. Zoe mi chiede, vuole sapere, s’è portata un foglio e una matita. Traccia un segno che va verso l’alto, collina, angelo, mare, la criniera scura dell’imbrunire. Sarà quella la realtà? La verità? E che dire poi di un mondo ingiusto da

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riscattare? Il linguaggio determina le cose. Zoe mi guarda con occhi sgranati, impenetrabili e misteriosi. Io ragiono in silenzio di logica e paesaggio. Ma vorrei trascendere i limiti di quella logica, della ragione e anche dell’arte, per insegnarle (tenera illusione) l’intimo linguaggio del cuore. Incontriamo una donna e un uomo, abituati alla solitudine, si direbbe, che quando pregano o bestemmiano le parole gli escono in dialetto, perché le radici sono le ultime a morire. Il silenzio all’intorno è lo stesso silenzio del fondo del mare e, forse, del cielo sopra le nubi. Forse qui, davvero, si possono evocare le cose dal loro odore o, addirittura, si può salvare la linea della lontananza e da lì partire per districare la dolce malinconia dalle pastoie del vivere indaffarato. Fra queste antiche pietre, verrebbe da pensare, né corpi né anime inaridiscono, poiché si concentra tutta l’Europa in un sogno bagnato dal mare: la dea Cupra fece un balzo e affiorò vicino al peschereccio che lottava con le onde, rivelando ai marinai, nel momento estremo, il mistero dell’amore in carne e ossa. Ma è tardi, i pensieri si liquefanno nel buio, la magia sembra svanire. Sventola, non sventola: la bandiera non si vede più mentre torniamo verso il viale svergolato, dopo aver visitato il nostro regno di pietra e cipressi. Un cane ci precede. Il vento soffia sulla nuca. Ho cercato di disimparare, non so se ci sono riuscito; ad ogni modo mi pare di curvarmi, come gli alberi intorno, a quella brezza che viene dall’orizzonte. La gita a Marano è stata l’esperienza della solitudine occupata da una perla: la perla della memoria, delle voci perdute e del silenzio. I cuori che un tempo si strapparono, qui sembrano ricomporsi e tornare a battere nei petti. Le lacrime delle cose, che formavano una marea, qui lavano le pietre e le rendono belle. Accendo il motore e so che vi tornerò. E continuerò a tornarvi. Per ascoltare ancora e ancora le voci di quei bimbi festanti portate dal vento. E l’ultima volta che tornerò mi si strapperà il cuore, e sarò da solo e mi saranno rimaste poche lacrime da spargere, ma il momento sarà dolce

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perché avrò fatto mia un po’ di quella terra che, nella sua lingua segreta, parla di un amore lontano che è il centro esatto della nostra ferita.

Uno dei ricordi più belli della mia vita è quello di una notte d’agosto del 1975. Avevo dodici anni. Guardai in televisione, insieme a mio padre, il film Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo. Al termine, rimanemmo a chiacchierare a lungo, fino a notte inoltrata. Mi raccontò tante storie di anarchia e mi promise che il giorno dopo mi avrebbe raccontato la più bella di tutte: quella di Carlo Pisacane. Sceser con l’armi, e a noi non fecer guerra, ma s’inchinaron per baciar la terra, ad uno ad uno li guardai nel viso; tutti aveano una lagrima e un sorriso. Soldati che s’inchinano per baciare la terra, un’immagine meravigliosa, by Luigi Mercantini, mio conterraneo. Una lacrima e un sorriso, che avevo anch’io dopo aver ascoltato, rapito, quelle storie.

Si deve fare la rivoluzione, e sovvertire qualcosa, per amore di qualcos’altro: senza l’amore è meglio stare fermi nel dolore della tradizione. Prima di ogni vera rivoluzione, quindi, c’è l’amore. Ma, dopo la rivoluzione, sempre il potere. Prima della rivoluzione c’è la poesia, dopo c’è la prosa. Il rivoluzionario vero procura bene di morire in battaglia, di rimanere amante.

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Olof Palme aveva capito che se la moglie non lavorava, dipendeva economicamente e, di conseguenza, sentimentalmente dal marito. Prima di essere ucciso, promosse riforme che permettessero a tutti i cittadini di essere indipendenti economicamente. Era sicuro che in tal modo ci sarebbe stato un maggior grado di giustizia e felicità nel Paese. Altri, dopo di lui, portarono avanti quelle politiche. Ormai da molti anni, in Svezia, lo Stato si occupa della sopravvivenza materiale di ogni persona, dalla culla alla tomba. Sulla base di tale indipendenza, un gran numero, sempre in aumento, di donne compra a 80 euro un kit di inseminazione artificiale per avere figli in autonomia. Inoltre, hanno dovuto istituire appositi uffici che rintracciano coloro che muoiono soli senza che nessuno ne reclami il corpo. Facendo un bilancio generale, il grado di giustizia è aumentato, ma non quello della felicità. Il welfare non migliora i rapporti affettivi e sessuali.

Fino alla metà del secolo scorso, se una persona si sentiva male, il vicino la soccorreva e, se necessario, la accompagnava all’ospedale. In seguito, soccorrere è diventato facoltativo, potendo delegare alle istituzioni. Oggi si rivela addirittura vietato, poiché può portare conseguenze penali. Al massimo, si può telefonare al 118. Il welfare è importante, ma non va d’accordo con la solidarietà.

I veri poveri si tengono chiuso dentro il loro segreto, non ne parlano, vivono con dignità, a volte come quel personaggio del Don Chisciotte che all’ora di pranzo, senza avere nulla da mettere nello stomaco, usciva con lo stuzzicadenti in bocca per far vedere che aveva mangiato bene. Per questo motivo non li vediamo e non li conosciamo.

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I falsi poveri sono quelli che sbandierano a ogni piè sospinto di non poter arrivare alla fine del mese e sbraitano altri luoghi comuni ugualmente fastidiosi. Ne vediamo e ne conosciamo tanti. Le vere vittime si tengono chiuso dentro il loro segreto, perché sanno che, in un altro tempo e in un altro luogo, potrebbero essere loro i carnefici, sanno che tra vittima e carnefice c’è una sorta di gioco delle parti. Per questo motivo non le vediamo e non le conosciamo. Le false vittime sbraitano continuamente contro i presunti carnefici, perché ignorano che il proprio disagio di vivere dipende dalla natura lacerata dell’essere umano e non da qualcuno in carne e ossa. Spesso diventano intoccabili persone di potere. Ne vediamo e ne conosciamo tante.

Coloro che si commuovono per un tramonto o per una poesia, di solito, non perdono il proprio tempo e, soprattutto, non sacrificano la propria intelligenza, fonte di fascino, in una infinita teoria di rivendicazioni, piagnistei e imprecazioni contro presunti tiranni. Le persone con spirito poetico hanno la capacità di gustare la libertà vera, cioè non mancano all’appuntamento col desiderio, correndo il rischio di cambiare davvero la propria vita.

Non sono credente, ma la preghiera verso Dio, quando è richiesta disperata rivolta all’Assoluto, rappresenta oggi il più alto grado di poesia. «Signore, di’ soltanto una parola e io sarò salvato», e la parola non arriva, lo sappiamo, ma in quello spazio lancinante che c’è fra l’invocazione e la disperazione sta tutta la possibilità dell’essere umano di attingere al sacro o,

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quanto meno, alla dignità di una vita fatta di carne e spirito, quella cantata dalla tragedia greca e dai poeti di tutti i tempi: fuori dalla quale ci sono solo tacchi a spillo e prozac nel grande stagno del politicamente corretto.

Il cantico di Francesco (prima parte) Non fu vano tanto scandalo. Altri uomini e donne condivisero il viaggio. Vissero con noi le domande, la nudità e la nostalgia dell’assoluto. Anche loro desideravano avvicinarsi a ciò che non ha un nome: al sacrale e celestiale infinito, legato come non mai al nutrimento che viene dal suolo. E allora abbiamo imparato ad amarla questa terra, a partire da una vita che si fa regola, l’unica possibile verso la quale orientare gli occhi. Al di là del linguaggio dell’esilio, verso un’altra vita. Ma era forse il saio un presentimento del vuoto e, insieme, il desiderio di essere per sempre amati. Perciò non canto la bellezza della città assente, con le colonne e gli archi, e la lucentezza datale dai secoli. Canto solo le creature, che non appartengono a nessun mortale, e non apparterranno, col sorriso adombrato sulle labbra, ka la morte secunda no ’l farrà male. Come a dire un sole forte d’inverno. La pelle che cerca uno spazio innominato dove dimenticare il dolore immenso del mondo; nel silenzio che tutto significa. A volte mi chiedo: a cosa porta questo essere solo con la mia pena? Ma cosa importa? Visto che adesso sono in cammino, e, mentre muoio, scolpisco l’eternità.

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(seconda parte) Questo dono. Questa bellezza che non merito. Ascolto addosso a me una leggenda di angeli che vivono secondo quella forma. Ebbene, tu vuoi che io da qui mi allontani, da questa legge? Lo farò e raggiungerò la mia patria celeste, che mi salvi e mi accompagni. Per cercare il luogo, la distanza e il rispetto sovrano. Quale regione immensa, impossibile da conquistare, è l’uomo che ha il cantico nel cuore! Francesco e Povertà, per questi amanti prendi oramai nel mio parlar diffuso. Ora il niente è diventato tutto; ora… che bella memoria, di me, dei frati, di questa luce che non si spegne, dei giorni andati, del nostro tempo crivellato! In una dimora che sta sulla frontiera della ragione, c’è da cercare la traccia, il rivolo di sangue che discende dalla perfezione. E nessuno, nessuno sia padrone di niente.

Nel 1220 Francesco fece la “rinuncia al governo dei frati”: sancì per sempre l’impossibilità di governare le anime. Oggi che le anime sono rinsecchite, disidratate, ognuno vuole governare e ognuno chiede a gran voce di essere governato. Tutti governano qualcosa, ma tutti governano l’inessenziale. La fede nella tecnica è stata eletta a criterio universale: una sorta di ascesi mondana che ci rende orfani di limiti, di relazioni e di infinito. Ci rende orfani di ciò che è essenziale, per il quale, invece, vale ancora la rinuncia di Francesco.

Lui si dice anarchico, e sta dalla parte della libertà, insensatamente, si potrebbe anche dire “per fede”. Sa bene che l’essere umano non è fatto per la libertà: poiché vuole un condottiero che lo renda felice. Ma a lui ripugna anche solo l’idea di essere quel condottiero. Sa, inoltre, che pochi sono quelli capaci

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di vivere senza condottiero. Però, anche l’idea di amare solo quei pochi, lo ripugna. E allora lui percorre per fede la contraddittoria strada che non vuole fedeli: la strada che va dritta al cuore, costellata di domande. Se la libertà è il mio cammino, dove andrò senza di voi?

Oggi è come se quasi tutti, davanti a un quadro d’autore, guardassero di sfuggita solo la cornice, restandone estasiati, prima di riprendere la corsa affannata e caparbia tra i relitti del passato e nell’incubo del futuro. Pochissimi, invece, cercano di ricostruire lo spazio mancante della storia che viene rappresentata nel dipinto, lo spazio della propria esperienza, in un cammino che li porti a tornare là dove non erano mai stati.

Nella Torah (Levitico), Dio ripete spesso: «la terra è mia», e poi ammonisce: «voi siete soggiornanti, davanti a me siete tutti meticci soggiornanti e dovete vivere insieme allo straniero». Sentirsi stranieri in ogni luogo, quindi: stranieri fra stranieri. Ecco la condizione umana che Dio suggerisce agli uomini per vivere in pace e con il conforto della dignità nel cuore. Naturalmente ritroviamo lo stesso suggerimento nei testi cristiani. E poi in tante altre correnti di pensiero: prima fra tutte quella anarchica. Tale condizione è difficile però da tollerare, poiché la maggior parte delle persone ha bisogno di una patria, di una terra, di un’identità e di una casa di proprietà da poter chiudere a chiave. Poi c’è una minoranza che, invece, comprende tale condizione e ne subisce il fascino, ma solo con la mente, con

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la razionalità, non ancora con il cuore, vale a dire senza ancora farla diventare carne e sangue. Per farla diventare carne e sangue, l’unica possibilità è innamorarsene. Innamorarsi della vita da déraciné, da sradicati, senza certezze e senza proprietà. Per arrivare a questo tipo di amore è necessario però qualcosa d’altro: non bastano semplici ragionamenti politici o da intellettuali. È necessario quello che potremmo chiamare il sentire poetico, che sa rendere talmente dolce il naufragio quotidiano da innamorarsene.

(versi e ragioni) Tu non sarai mai così in alto che io non ti possa raggiungere – fu la sua dichiarazione, la più bella che avesse mai fatto. Lei aprì la bocca come per parlare ma decise per un semplice sorriso. Fa’ che da un eterno esilio eternamente io possa ritornare – continuò lui. Lei sembrò intonare un motivo a fior di labbra. Capirono come il loro grumo d’amore fosse irrevocabile, perché erano fatti di tempo e libri, libri come lacrime che si trasformano in fiori e mai cancellano il mistero della mancanza.

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Ritengo che sia inutile edificare fisicamente biblioteche se prima non le abbiamo costruite nell’anima. Dirò di più: è dannoso fare collezione di libri se a chiederlo non è il desiderio ma solo la brama di possesso, se dietro non c’è un’amorosa cura per il mondo ma solo una sicumera da imbonitori culturali. La biblioteca non è il luogo che racchiude i libri; è, piuttosto, il luogo nel quale i libri hanno una possibilità di esistere fra gli uomini. Ecco il compito, quindi: allargare quel luogo fino agli estremi confini della terra, cioè, fino all’intimità più profonda e inconoscibile di noi stessi.

Ogni vero libro deve tendere a rimettere in sesto l’universo. Impossibile compito, certo, perché il tempo è fuori dai gangheri, e quindi le cose vanno a pezzi, sono sconnesse, senza misura e senza musica; solo frantumi e polvere, sui quali nessuna solida architettura è possibile. Dentro la pagina possiamo trovare echi, riverberi, racconti, visioni, ombre, spettacoli, recite e canzoni. Tutte cose che rimandano a ciò che sta fuori da essa, dove risiede l’essenziale, dove potrebbe ricomporsi l’universo: «Ora si spezza un nobile cuore. Buona notte, / dolce principe, e voli d’angeli / ti conducano cantando al tuo riposo», dice Orazio non appena Amleto ha emesso l’ultimo respiro. Sublime contraddizione, per dire la quale solo la poe­ sia più alta ha parole adeguate.

Non dire: la mia vita va sottosopra nello squadernarsi del tempo. Di’: ho sete di parole dolci, anche se sono una menzogna. Di’: sono una pagina dell’universo, dalla quale sgorgheranno ruscelli e ombra.

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III. Mentre ospita il vento

Dante fa una serie di salti mortali per dire: io no che non sono come Paolo e Francesca, il mio amore è diverso, purificato finanche dal fuoco; io no che non sono come Ulisse, il mio desiderio di conoscenza è diverso, viene dall’alto; è vero che aggiungo il mio odio a quello del conte Ugolino, ma è un odio che viene da fuori, da cause oggettive e, quindi, giustificato. Ma, in cuor suo, lui sa di essere Paolo e Francesca, sa di essere Ulisse e sa che il suo odio, come quello di Ugolino, ha mille finestre. Ciò che lo renderà immortale non è la dottrina, ma la poesia.

Alcuni maestri della Cabalàh sostengono che l’inizio delle scritture, «in principio», in ebraico è anagramma di “voluttà di un canto”. In tal senso, il mondo sarebbe stato creato per voluttà di un canto. E l’ultima parola «israel» è anagramma di “canto a Dio”. Tutto viene dal canto. Strumento principe del canto è la lingua, che è chiave dell’ani­ ma per aprire orizzonti, per cancellare confini, per scalare le vette del desiderio, inaugurare altre significanze, improvvisan-

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do l’indicibile, parlando l’ineffabile. Accogliendo la solitudine, cantare l’ospitalità scompigliata, l’universo che si squaderna per donare una vita possibile. E allora, forse, arriverà l’angelo a liberarci dal tormento di chi semplifica le cose in vincitori e vinti, in buoni e cattivi, in giusto e sbagliato; arriverà l’angelo ad accompagnarci in quel mare aperto e voluttuoso dove avvengono i naufragi più belli. «Alcuni di noi, / tra cui io / hanno continuato a cercare l’angelo / che si è nascosto tra i nostri volti / ed è vissuto in un canto», scrive la poetessa palestinese Lyāna Badr.

(versi e sragioni) per salvarti dalla morìa dei vocaboli che vedono ciò che il cielo non vede, davanti a gennaio, il generale inverno, di’ che hai liquidato il banchetto dei ricordi in nome della gioventù, anche se a volte c’erano delle infezioni, e poi di’ che andavi verso aprile, il mese che ti è stato assegnato per un altro ritmo, nel tempo diverso e uguale più uguale a niente. E poi, non dire altro: poesia alla poesia

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Tempo fa ero stato invitato a partecipare a una bella antologia, Poeti in classe, con una mia poesia. Mi venne chiesta anche una breve autopresentazione. Eccola. Sono uno scrittore di grande insuccesso. Ho iniziato con la poesia. Poi l’ho abbandonata, ma è stato da quel momento che l’ho amata per sempre. Affianco alla scrittura (compresa traduzione) l’attività di conversatore teatrale. Mi piace creare sinfonie letterarie per l’anima e la terra, nelle quali intreccio pensieri, versi, ragionamenti, lingue di vento. Per fare questo, amo collaborare con musicisti e attori. Apprezzo l’ozio e la lentezza. Ho come compagni di vita gli anarchici e i cristiani evangelici. Mi sento parte integrante del regno animale: mia figlia si chiama Zoe. Il mio nome, invece, è vicino a Lucifero, che per noi italiani è il diavolo, ma per tutte le altre lingue è portatore di luce. In realtà, è soprattutto vicino a Lucignolo, l’amico di Pinocchio, al quale mi sento intimamente legato. Un monello che ha saputo giocare, senza sottostare alle leggi degli adulti, i quali poi si sono presi la rivincita, certo, lo hanno trasformato in asino e lo hanno portato alla morte, ma non importa, perché lui comunque ci ha provato a divertirsi ed è questo che conta. E poi l’asino, a dispetto di quello che pensano tutti, è splendido, perché parla poco, raglia forte e, con le grandi orecchie, ascolta il mondo: è il mio preferito.

«Ecco l’asino di Dio», disse il grande Robert Bresson col suo capolavoro intitolato Au hasard Balthazar. Un film asciutto, senza un fotogramma più del necessario, che alla fine ti fa piangere dentro, nell’anima. Così dovrebbe essere ogni opera d’arte, ogni preghiera. «O Dio del Paradiso / se arriverò lassù / ascolta questo avviso: / non occorre che tu / mi venga incontro all’uscio / ma manda il cane, l’asino / il gatto a farmi struscio, / a darmi due

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zuccate / a leccarmi la faccia / con lor lingue beate / finché a loro e a te piaccia»; è una poesia del teologo amico degli animali Paolo De Benedetti, morto qualche anno fa. «L’uomo che crede nella preghiera è sempre superiore all’idiota che nulla desidera, nulla spera e nulla teme», sono parole del rivoluzionario più temuto da tutti i governi e le questure del regno d’Italia: Errico Malatesta. E la preghiera della quale parlava non è quella che si dice in chiesa, ma quella che si ascolta dentro di noi quando ci si sente fragili, quando si vogliono scambiare col resto del mondo sorrisi e lacrime, quando si marcia insieme agli altri, verso un luogo della memoria o verso una rivoluzione, quando ci si sussurra qualcosa durante l’amore.

Se per un’ora sola fossi santo, di fatto oltre che di nome, darei la parola a un animale. Magari a un maiale, uno di quelli che fanno un lungo viaggio, in camion sull’autostrada, per finire ammazzato in un macello. Gli farei raccontare la sua storia e quella della sua razza condannata a un destino miserabile. Sarebbe qualcosa di sconvolgente.

Le ragazze andarono verso l’adunata dei poeti. Proprio quel giorno Orfeo stava vivendo il sogno della fine. Aveva in testa le ultime parole prima del silenzio, il corpo ormai un leggero involucro. Euridice entrò, perentoria, in quel sogno e vi giocò, come se tutta la vita avesse chiesto quell’allegria. Orfeo gridò a se stesso per aver dubitato di lei.

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Si erano amati fin dall’inizio. Poi, non viaggi, non cene, non assicurazioni, non sabato sera, non professioni, non spiagge, non denaro… poi, niente.

Trenta anni fa era venuta da me. Mi disse di aver dipinto un film. Tempo dopo era tornata e mi aveva confessato di non riuscire più a coniugare i tempi dei verbi. Tutto appariva ormai al presente. Viveva in un marasma di oggetti, nomi e persone in cui le cose cambiavano nome, i secondi e i minuti contenevano uomini e animali. Le pareti mutavano di colore e il tetto si apriva al freddo, lo spazio si apriva allo spazio. Mi disse che spesso tornava di corsa nella sua casa di via Stalingrado, come una bambina, ma che non aveva paura. Quel film era Andrej Rublëv. Lei aveva dipinto colui che contemplava i pensieri di Dio negli esseri e nelle cose.

Mi sono dato il compito di ascoltare le parole che hanno leggerezza e peso. Ascolto incessantemente, perché la vita è l’incessante: è la mia sposa, il mio incubo e la mia speranza. E poiché organizzo tutti i miei giorni secondo il piano della poesia, per lei ho scritto un canto. Forse è solo un odore. Su questo letto dove il sogno è pianto, la visita passeggera. Non te ne andare. Anche se spesso ti ho voltato le spalle, quasi incurante. Preferendo il non essere, il silenzio assoluto. Invece tu entra nella mia casa. Percorrila tutta. Rimanici dentro il più possibile. Potrà capitare ancora che io ti voglia buttare fuori, ma tu non mi ascoltare. A volte sei il mio profumo, soprattutto quando sai di tanfo insopportabile. Sicuramente di razza bastarda. Fatta di fedeltà alla terra. Di violenza e ragnatele. La droga del ricordo. La pioggia fredda di marzo. Anni di

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compravendita. E il prezzo… qual è il prezzo delle cose? Quale, poi, quello delle leggi morali alla deriva? Ma adesso ascoltami, mia innominabile, come non mai. Niente e nessuno possano togliere la chiamata alla quale obbedisco, l’ordine che non discuto. Il mandato della mia felicità senza distanza né tempo. Stammi vicina, ti dico, negli anni che restano.

Lei vorrebbe essere amata, certo, ma vorrebbe anche amare. Nella sua vita ha incontrato tante persone che volevano più essere amate che amare. Alcune di esse sono riuscite nell’impresa e in tal modo hanno sfiorato la felicità. Sono riuscite anche a modificare il proprio carattere pur di raggiungere l’obiettivo. Gli anni, per loro, sono volati. Il loro essere è stato pieno di cose, in certi momenti traboccante. Il mistero della vita tenuto sotto controllo, o addirittura governato. I volti di chi ha dato loro l’amore ben stampati nella memoria, con nostalgia e anche qualche rimpianto per non aver osato di più. Se focalizza l’attenzione, invece, ne ricorda anche altre che innanzitutto volevano amare. Sono molte meno, naturalmente, le potrebbe contare sulle dita di una mano. E si chiede se siano riuscite nel loro compito. Persone un po’ anonime, vissute quasi sempre da sole, spesso leggermente trasandate. Con lo sguardo rivolto lontano, che non si concentrava sui particolari: non avrebbero saputo dire il colore degli occhi o il taglio di capelli di chi avevano conosciuto. Se pensava a questo secondo tipo di persone, però, non poteva non essere conquistata da un pensiero fisso. Sempre lo stesso, fino a sembrare una verità assoluta. Esse, quando iniziano a trovarsi al cospetto dell’Assoluto, dopo gli anni e le rughe, senza rimpianti, possono dire: sono qui, ho amato, la mia vita non è stata invano. E poi chiudere gli occhi, con la pace nell’anima.

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Giacobbe fa uno dei sogni più belli che essere umano possa concepire: una scala appoggiata alla terra con la cima che tocca il cielo, e gli angeli di Dio che salgono e scendono. Poi soffre, ama Rachele e lotta con Dio: diventa Israel. Il popolo di Israel, in Egitto, è un mucchio selvaggio di sbandati. Sono debosciati e cialtroni senza arte né parte. Ma hanno un’intuizione: trovano, o si inventano, il Dio dei miserabili. Tutto il resto è un percorso, fatto di infiniti fallimenti, per trovarlo, o inventarselo, ancora e ancora. E lui li ripaga aprendo per loro nuove strade ed essendogli fedele. Nella vita contano poche cose, magari addirittura una soltanto: un sogno, un’intuizione.

C’era una volta un giovane di nome Enrico che nella pur breve vita, trentatré anni in tutto, aveva vagato e conosciuto molte persone e molti luoghi. Ma il mondo gli era estraneo e lui era estraneo al mondo. Le sue parole non gli bastavano, anzi, erano proprio poco adatte a esprimersi, a entrare nelle persone e nelle cose. Allora provava a usarne delle altre, ma niente, e mentre tutti si accontentavano di parole vuote, che portavano di conseguenza a rapporti vuoti, lui si sforzava di cercare quel linguaggio che potesse aprire il suo petto e il mondo. Scriveva anche, soprattutto tragedie, perché tragedia era la sua, e in esse ogni volta si avvicinava a quel linguaggio magico, gli sembrava di entrarvi ma subito dopo era di nuovo immerso nel rumore. Ormai disperava. Si ricordò che il grande Shakespeare negli ultimi anni di vita non aveva scritto più e credette che quel maestro avesse scoperto una risposta nel silenzio. Vi entrò dritto e, per qualche tempo, sembrò trovarvi la pace, quasi l’amore. Proprio per questo la delusione, quando venne, fu immensa, tanto che lo portò a gettare in un abisso significati e cose, persone e nomi. Divenne randagio. Chiedeva a tutti la

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disponibilità di uccidersi con lui, ma nessuno comprendeva. Finché un giorno incontrò Enrica: il suo petto si aprì, per la prima volta, e meravigliosamente piegò la voce in un discorso e in una proposta che entrarono in lei con la potenza di un lampo e la dolcezza di un bacio. Fu l’abitazione in due dello stesso pensiero. Capì in quel momento che anche Shakespeare non aveva chiuso col silenzio. Si spararono nella tempia, sulla riva del fiume. Centoventitré anni dopo, un poeta scrisse una poesia che raccontava di quello stesso desiderio di Enrico, e poi chiuse la propria pagina terrena in una camera d’albergo. Ora Enrico, Enrica e il poeta sono insieme, sotto una veranda, a raccontarsi le storie che tu e io, amore mio, ascoltiamo ogni giorno.

La lettura ci rende migliori? E partecipare a eventi culturali? A giudicare dal fatto che molti lettori, più o meno acculturati, sono stati, e sono, scarsi di umanità, di sensibilità, la risposta sembrerebbe più no che sì, diciamo: raramente. I quaccheri credevano che si dovesse seguire la Luce Interiore presente in ogni uomo; senza di essa tutti i sacramenti – compresi eucarestia e battesimo – e ogni forma di cerimoniale e di clero organizzato erano contenitori vuoti. Secondo loro persino la lettura delle Sacre Scritture risultava del tutto inutile se non era guidata dalla stessa ispirazione di chi le aveva scritte. Probabilmente questo approccio dei quaccheri al rito e alle Scritture spiega un po’ anche la risposta data a quelle domande.

La letteratura, ivi incluse le Scritture, è logos e dia-logos: ci parla solo se le facciamo domande, e ogni giorno ha parole per noi se noi abbiamo parole per essa.

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Nel 1894, Cesare Lombroso stava scrivendo un libro sugli anarchici, che lui considerava gli esseri più ripugnanti dell’umanità. Ma, lavorando alla sua ben nota dottrina classificatoria, si imbatté in un ostacolo. Dovendo trattare la figura di Sante Caserio, che proprio in quell’anno aveva accoltellato il presidente francese Sadi Carnot, si accorse che quel povero panettiere di Motta Visconti non rispondeva ai lineamenti fisici e mentali della teoria che andava costruendo. «Non ha nulla del tipo criminale […], ha l’occhio dolce, mite, bellissime forme del cranio e del corpo». Era un essere sensibile, che non sopportava le ingiustizie e piangeva quando vedeva i bambini lavorare troppo duramente. Quando lo arrestarono, all’indomani dell’omicidio, disse che «era stato il suo cuore a prendere il pugnale», poiché il presidente era crudele e spietato contro il popolo indifeso. Lombroso ne riconobbe la «rettitudine morale e l’esagerazione dell’onestà». In base a tali constatazioni, il criminologo coniò una nuova definizione per quelli come Sante Caserio: i «rei per passione». Così facendo, Lombroso, forse inconsapevolmente, ribadiva un interrogativo eterno e immenso: dove collocare quel tipo di colpevoli nella nostra cultura, nella nostra morale e nella nostra giurisprudenza?

Mi accorgo ora che la maggior parte dei corpi che vado nominando hanno avuto poca carta per scrivere il libro della propria vita. «Muor giovane colui ch’al cielo è caro», direbbe Giacomo Leopardi citando Menandro. Il volto che vedo allo specchio avrebbe preferito essere caro al cielo e togliere presto il disturbo. Ma il destino non si può forzare e gli anni portano a un lento, inutile disfacimento.

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Lei lo amava tanto. Lui la ama ancora. Bastavano poche semplici frasi, imparate da vecchi commedianti. Non avevano avuto tempo di leggere, non sapevano nulla dei pensieri dei filosofi e dei sogni dei poeti. Lei si chiamava Emmott e viveva a Eyam, lui Rowland e la sua casa era a Stoney Middleton. I due paesini erano divisi dal fiume Cucklet Delph. Alla fine del 1665 a Eyam arrivò la peste, forse da Londra. Il paese fu messo in isolamento, per decreto del sindaco William Mompesson. Allora i due fidanzati decisero di trasgredire un po’ la legge: iniziarono a vedersi sulle rive del fiume. Lui da una parte e lei dall’altra. In silenzio, per non farsi scoprire. E così, ogni giorno, si guardavano a lungo, e la distanza accresceva il loro amore. Fino a quando, in una mattina tersa di primavera, nell’aprile del 1666, Emmott non arrivò all’appuntamento. Rowland non la vide neppure il giorno dopo e quelli successivi. Lui tornò al fiume per settimane, per mesi, ma non poté rivedere la sua promessa sposa. Verso la fine dell’anno l’epidemia finì. Rowland fu il primo a entrare in paese, quando Eyam riaprì le porte, per cercarla. Ben presto gli dissero che Emmott era morta in aprile. Quando aveva sentito i sintomi della peste, pensando a Rowland e al loro amore spezzato, era morta di crepacuore, prima ancora che di malattia. Ora i due amanti sono chissà dove, da lontano arriva fino a loro la musica degli angeli. Dolci note, teneri accordi. Semplici frasi d’amore per i due giovani che non avevano avuto il tempo di leggere i pensieri dei filosofi e i sogni dei poeti.

Tanti anni fa andai a visitare il Monastero di Yuste, in Estremadura. Luogo in cui si era ritirato, per morire in pace, Carlo V imperatore, uno che il potere lo aveva avuto tutto nel vero senso della parola. Nella casa-museo, fra le altre cose, mi im-

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battei in due lettere che furono per me fulminanti. Trascrissi su un pezzo di carta due brevi frammenti, che ho conservato fino a oggi. Il primo, dalla lettera che lei, la moglie e regina, Isabella d’Aviz del Portogallo, scrisse a lui: «Benché sappia, mio carissimo e amatissimo sposo, che i vostri obblighi vi mantengono lontano dalla mia persona, vi chiedo il consolo della vostra presenza in questo carcere d’amore che mi consuma, poiché presento che, data la precarietà delle mie condizioni di salute, la morte mi si stia facendo intorno». Il secondo, dalla lettera che lui scrisse a lei: «Arriverà il soffio della morte, e tutto passerà, e colui che fu re dei re e carolino imperatore sarà perituro come una foglia secca». Lei sarebbe morta di lì a poco, giovane e bella come appare nel ritratto che le fece Tiziano Vecellio. Lui avrebbe vissuto gli anni che gli restavano nel ricordo di lei, senza risposarsi. Mentre ero sulla corriera che mi riportava a Madrid, appuntai un commento: Tutto questo è triste come la nostalgia dei giorni che non tornano. Tutto questo è bello come il sentiero luminoso dell’amore. Il re e la regina gettarono così il loro potere.

Nel 1961 Jacques Brel scrive una meravigliosa canzone intitolata Le prochain amour. Canta l’amore che verrà come la prossima battaglia, fatta di baci, catene e vittorie effimere e, uomo avvisato mezzo salvato, dice che quell’amore, come tutti gli altri, non arriverà all’estate! Nel 1962 Sergio Endrigo scrive una poesia in musica altrettanto bella: Io che amo solo te. Canta di un amore unico, che dura tutta la vita, supera le estati e gli inverni, senza mai perdersi e senza cercare nuove avventure. Le stesse cose cantate da Brel e Endrigo vengono dette ogni giorno nei programmi televisivi del pomeriggio con le coppie assortite che seguono copioni scritti da autori di basso profilo.

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Se c’è la poesia che detta, si può dire ogni cosa e avrà sapore di verità. Senza poesia, ogni cosa che diciamo avrà un perentorio sapore di falsità.

Avere un pensiero all’altezza della poesia vuol dire fare pulizia intorno alle parole. E fare pulizia intorno alle parole non significa abolire le narrazioni, i riti e le preghiere, poiché abbiamo bisogno di tutto questo. Come potremmo dare nome alle cose, ai sentimenti, alle passioni, al dolore, alla speranza, all’amore, senza un corredo di linguaggio, di immaginazione, di storia, di memoria? Fare pulizia vuol dire, dunque, lasciare che ci sia quel vuoto necessario intorno alle parole: un vuoto che fa cadere ogni orpello e che valorizza la nuda essenza delle cose e della nostra condizione umana.

Erano i capei d’oro a l’aura sparsi – pensò, mentre vi affondava la faccia. Nel disordine, i due corpi sfatti, stretti in un abbraccio, senza fine. Immaginavano le parole antiche di amanti che muoiono poco a poco. Dalla finestra vedevano un paesaggio che riproduce se stesso, e cumuli di nubi che il vento spinge verso l’immenso. Lui non la conosceva, non l’aveva mai conosciuta, nella differenza che li separava al buio, fra le gambe. Eppure riversò dentro di lei le lacrime che lo riempivano. Poi pensò ad altri corpi, alle foci dei fiumi, chiare fresche e dolci acque, e alla piaga che non guariva.

Una persona, che chiamo xy, è dotata di grande intelligenza logica e di ampia cultura. Scrive su alcune riviste, soprattutto

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recensioni e articoli di carattere politico-sociale. Parla sempre dello sfacelo italiano (e mondiale), sotto ogni punto di vista, letterario compreso. Le sue argomentazioni, spesso, sono convincenti: è difficile dargli torto. Lui trova anche nel migliore il momento di debolezza, momento nel quale proprio quel migliore ha detto o scritto qualche sciocchezza, e su quella sciocchezza costruisce il suo castello critico accusatorio. Da anni non riesco a parlare con questa persona. Credo che il suo sia un sapere sterile, che non dà frutti. Il compito che si è dato il mio amico jw, invece, con tutti i limiti che lui stesso si riconosce di scarsa intelligenza e cultura lacunosa, è di cercare la persona più stupida al mondo e individuare quell’unica parola di verità che quella persona avrà detto nella sua vita, perché è sicuro che l’ha detta, e poi valorizzarla. Questo suo compito è utopico, certo, appartiene al fragile cielo della speranza e del dialogo con l’altro, ma «è solo cercando l’impossibile che l’uomo ha sempre realizzato e riconosciuto il possibile», come diceva Michail Bakunin. Oppure, detto in modo più poetico da Emily Dickinson: «fai che io per te sia l’estate quando saranno fuggiti i giorni estivi». Se mai il mio amico dovesse riuscirci un giorno, solo per un attimo, sono certo che la sua vita non l’avrebbe vissuta invano.

Di una cosa sono convinto: l’età dell’anima non corrisponde a quella anagrafica. A volte la prima può superare la seconda, un’anima vecchia in un corpo giovanile; talvolta, invece, può fermarsi a dieci anni, o a dodici, e lì rimanere per sempre mentre il corpo invecchia. In base a tale convinzione, posso dire che l’anarchico ha un’anima da bambino, e più lui diventa adulto, più l’anima rimane indietro, a giocare, a perdersi nelle sere di festa.

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Vendeva fiori e aveva un dolore. Vendeva fiori in inverno e li vendeva in estate: per i defunti e per le partorienti, per gli amanti dei profumi e per i playboy da strapazzo. Ogni giorno, però, riponeva una rosa rossa in un angolo del negozio, fino a sera: per il suo amato. Vendeva tulipani e crisantemi, violette e ciclamini. Ce n’era per tutti i gusti. Ogni giorno riponeva una rosa rossa per l’amato, che non venne mai.

Sentì dire: per essere se stesso è uscito da se stesso – per vedere meglio s’è accecato. Sentì rispondere: sono la prima pagina, e anche l’ultima; sono ciò che rimane della tua calligrafia. E poi sentì ancora: sii il fuoco e sii il fiammifero che lo accende; distruggi ciò che sei per costruire ciò che sei. Rispose: anche se sono un fantasma vivente ed è notte, anche se davanti a me vedo oggetti più sanguinanti di un cuore, sappi che ti amo e ho una grande nostalgia di te – ti sento alla distanza di un respiro.

Qualcuno ti regala la libertà: e non sai che fartene, la usi per cazzeggiare senza dignità. Qualcuno ti mette alle corde e ti dà schiaffi che non capisci: così facendo ti obbliga a farti quelle domande imprescindibili che nutrono la tua dignità.

Pepe Mujica dice che è quello che è grazie ai dodici anni di prigione durissima. Senza quelli, probabilmente, sarebbe stato un presidente frivolo e innamorato di se stesso.

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Molti, quasi tutti, dopo essere scesi all’inferno, se ne escono fuori, cercano di rimuovere quell’esperienza dolorosa. Pochissimi, invece, distillano quell’esperienza terribile in bellezza. I primi sono i piccoli, i secondi sono i grandi.

Brady è un discendente dei pellerossa, un san Francesco dei cavalli: parla con loro, e loro parlano con lui. I più selvaggi, con lui, diventano mansueti. Ed era anche un campione del Rodeo. Ma una volta, prima degli otto secondi fatidici, è caduto e il mustang gli ha calpestato la testa, spaccandogli il cranio. Una delicata operazione lo ha salvato, ma gli è rimasto un difetto al sistema nervoso e una fragilità nel corpo. Da quel giorno non ha più potuto fare rodei. Spesso va a trovare l’amico Lane. A lui è andata peggio: la caduta, in un rodeo, lo ha reso paraplegico. Ciò che ci dà la vita, ce la toglie. In seguito Soul, il cavallo personale di Brady, è rimasto ferito. Lo hanno dovuto abbattere. Di fronte a quel triste spettacolo Brady era con la sorellina Lilly, che lo incalzava con le domande, quasi a volerci capire qualcosa dell’umana tristezza. A un certo punto Brady le dice: “Soul si era ferito a una zampa, e in questi casi non si può fare altro che abbatterlo… anche io mi sono ferito, ma io sono un uomo e devo vivere”.

Ciò che ci dà vita, ce la toglie. L’arte e la malattia hanno il potere di metterci di fronte allo squilibrio strutturale dell’essere umano. Possono costituire la molla decisiva per decidere di non partire più verso orizzonti soleggiati di guarigione, ma di avere solo il proprio sintomo come compagno fedele: sintomo inteso come sinapsi persona-

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lissima che fa vita al contatto con la morte, con la malattia, o con l’arte che ce lo rivela.

Un breve commento. Prima del 1789, Brady sarebbe morto, ucciso da ciò che amava di più, come un eroe del passato. Dal 1789 al 1989, due secoli di transizione nella storia dell’essere umano (occidentale), Brady sarebbe potuto morire oppure, grazie alla tecnica in via di sviluppo, vivere, lottando in ogni caso per un destino migliore. Dopo il 1989, pur desiderando di lasciarsi andare, Brady decide di sottomettersi ai comandamenti della tecnica, ormai dominante, e lasciarsi vivere: in fondo, pensa, ha una sorella che ama e deve proteggere e degli amici che sono nella sua stessa condizione.

Nel mondo, soprattutto quello industrializzato, le religioni tradizionali sono da tempo in declino. La vera grande religione in costante ascesa è quella della tecnica, davanti alla quale ci inginocchiamo ormai tutti in modo acritico. Siamo in costante attesa messianica dei suoi ritrovati che ci facilitino la vita e tolgano di mezzo la morte. La tecnica ci promette la vita eterna qui sulla terra. Per le religioni tradizionali, che promettevano la vita eterna nell’aldilà, non c’è partita! Una grave confusione che facciamo, però, è quella di confondere la tecnica con la scienza. La confusione deriva dal fatto che la tecnica prende alcuni semplicistici risultati della scienza e li assolutizza in dogmi. Tali dogmi, indiscussi come tutti i dogmi, vengono affidati ai sacerdoti di turno, che chiariscono ogni dubbio, destinando all’inferno i corpi affetti da sregolatezza e al paradiso quelli che osservano il nuovo catechismo.

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La scienza, invece, non si lascia addomesticare dal linguaggio ordinario dei suddetti sacerdoti e dei loro fedeli: la scienza è simile alla poesia, che supera all’infinito le risorse della lingua per dire ciò che non può essere detto; poiché delle cose ultime non si può parlare che per metafore o con l’astrazione matematica (anch’essa una sorta di metafora).

Dicono: è stato due giorni, forse tre, senza lavarsi e cambiarsi d’abito – che schifo! E chi gli si avvicina?! Oppure: è stata due settimane senza andare dal parrucchiere e senza truccarsi – che persona trasandata! Non si vuole bene. Da tenere a distanza! Ma io dico: è stato giorni interi, forse settimane o mesi, senza che gli uscisse dalla bocca una parola autentica, solo luoghi comuni, battute televisive, espressioni di finto amore e conati di odio. Ma questo sembra non importi a nessuno. Nessuno dice: che schifo! Alla larga! Oppure dico: lavora così tanto a testa bassa che non ha il tempo di leggere libri, vedere film, ascoltare musica. Anche questo, dai più, è considerato normale. Per la maggioranza delle persone conta solo l’igiene del corpo e non quella verbale (e di conseguenza mentale).

Marta s’affannava mentre Maria ascoltava e prendeva la parte migliore di Lui. La prima s’affannava perché non era capace di ascoltare e non era capace di ascoltare perché s’affannava (l’igiene, il lavoro…). Oggi, definitivamente, sappiamo che il modello Marta rappresenta la tronfia maggioranza. Chi non sa godersi la vita, lavora. Chi non sa stare solo con se stesso, lavora. Chi non sa contemplare il creato, lavora. Chi non sa ascoltare l’altro e la parola che lo può salvare, lavora. Il

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lavoro a testa bassa è l’alibi per la spiritualità che non abbiamo, per il sacro al quale non sappiamo attingere, per la poesia che offendiamo continuamente. Del resto, la nostra Repubblica è fondata sul lavoro! Quando abbiamo scritto i suoi fondamenti, l’abbiamo da subito condannata alla piccolezza e alla vita miserabile.

Nella lingua russa la verità è la правда (pravda, come il famoso giornale sovietico). È la verità dei fatti, così come accadono, sotto gli occhi di tutti. Ma poi c’è un’altra parola che indica sempre la verità: истина (istina). Quest’ultima indica quel luogo “vero” in cui la materialità si dissolve: più precisamente, è un non-luogo in cui le contraddizioni trovano la loro armonia, dove non esistono tracce del mondo descrivibile dal linguaggio ordinario; истина è la verità delle ombre, dove regna lo splendore astratto della matrice eterna, un limite estremo verso il quale condurre la mente; una palude in cui la mente si impantana ma contemporaneamente sente il bisogno di costruire una nuova dimora che consenta ancora la possibilità di vivere. Un momento di luce che, non appena si lascia intravedere, sparisce, lasciando l’illusione di aver sfiorato la grazia della conoscenza.

La grazia della conoscenza non risolve tutto, perché a ogni conoscenza incompleta, appartenente al passato, viene sostituita un’altra conoscenza che è altrettanto incompleta. Si tratta di una tensione continua per imparare a vedere al di là delle materie comprensibili con i vecchi calcoli ma, alla fine, unendo tutti i puntini del percorso, compaiono sempre streghe, fantasmi e chimere.

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Detto in altre parole: cosa significa pensare? Non certo fare calcoli, e neppure sintesi logiche, men che meno rispondere ai test dei professionisti. Pensare è, piuttosto, una malìa fatta di fragilità e potenza insieme, una dolce crudeltà frutto di dolore ed estasi: in definitiva, una ferita sanguinante alla quale si tenta continuamente di operare una sutura. E il tentativo è disperato perché consapevole che non si raggiungerà mai il fondo delle cose. Non per una cattiva impostazione del problema, non per miopia dello sguardo, non per qualcuno che ce lo impedisca ma, semplicemente, perché le cose non hanno un fondo.

La precisione del pensiero l’hanno inventata i Greci. Ma, quando ragioniamo di ombre, aggiungiamo una specie di voluttuosità alla precisione. «Chi sei tu che usurpi quest’ora della notte…?». Atto d’accusa e sinfonia malinconica, come un Amleto del ventunesimo secolo che dica: io sono qui, nonostante tutto, ho preso parte al miracolo della vita su questo pianeta.

Jazz Il singhiozzo si può cancellare con una canzone. Il dolore può diventare musica inghiottita e rinnovata. Chiarità che abbaglia. Dove sprofonda l’amarezza e il ricordo esce fuori limpido. Per chi va a tentoni e vede ombra. Vede il cipiglio del cielo e vive la condanna sulla terra. La distanza dalle persone amate. Il contrabbasso e il sassofono, perfettamente sotto controllo, restituiscono la pace. Cancellano la morte, per un minuto o per l’eternità. Se l’autore è l’inconscio, l’interprete improvvisa. Metafora delle pulsioni in una felice combinazione armonica. Non sentimenti, ma solo un al di là dello spazio e del tempo. Non scrittura, bensì raggiungimento di un luogo senza storia e senza frontiere, che

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convoca tutte le storie e tutte le lingue. Mentre sappiamo già che il lamento vero non fa rumore. Assomiglia a una vibrazione profonda. Un sussurro che si fa solitudine, placa la discordia, sputa in faccia all’ingiustizia. È voce che ascolto in raccoglimento. Pochi segni, poche parole. Nessuna significazione. Solo musica, priva di dettati. Suono che attraversa il cuore. Un dolore immenso che è la mia vittoria.

Miranda e Ferdinand giocano a scacchi. M. – Mio adorato, tu bari. F. – No, carissimo amore, non lo farei nemmeno per il mondo. M. – Sì, invece, ma anche se lo facessi solo per qualche regno, ugualmente ti direi che il tuo gioco è leale. Entrare nel mistero dell’amore parlando di scacchi. Solo Shakespeare può farlo.

Tanti anni fa, solitamente nel giorno consacrato della domenica, la donna, passando, lasciava cadere un fazzoletto vicino all’uomo che da tempo si struggeva e la trafiggeva con lo sguardo. Lui raccoglieva il fazzoletto e lo riconsegnava nella mano della donna. In quel modo lei poteva guardarlo da vicino e capire dai suoi occhi se c’era un Oltre a quello struggimento. Nelle settimane appresso lui era ancora lì e lei passava di nuovo. Se lei in quegli occhi aveva scorto quell’Oltre, lasciava cadere il fazzoletto per la seconda volta. Lui lo raccoglieva e, solo adesso, le rivolgeva alcune parole. Poche. Lei poteva capire, così, se anche nelle sue parole ci fosse un Oltre, lo stesso che aveva visto negli occhi. Passato ancora qualche tempo, se pure nelle parole lei aveva letto quell’Oltre, lasciava cadere il fazzoletto per la terza volta. Il significato era chiaro: va’ dai

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miei genitori e chiedi la mia mano. Se i genitori accordavano, arrivava il momento del quarto fazzoletto, il più importante. Salendo i gradini della chiesa lei lo lasciava cadere per l’ultima volta. Lui lo raccoglieva, con gli occhi bassi e senza parole; era la dichiarazione, fatta con un gesto, che dava respiro sacro allo struggimento: quando mi farai vedere cosa c’è di soave sotto il vestito bello, io dedicherò a te la mia vita, per venerare la tua diversità dal basso della mia povertà. Poi risa e baci e sguardi e abbracci d’amore, e accensione di desideri e i due che dicono di uccidersi e vivere in corpi e labbra in uno spasimo. E poi ancora, nei momenti in cui la notte sarà più buia, lei, come Sherazade, continuerà a raccontare con sapiente dolcezza; e lui ascolterà rapito, pur nella sofferenza delle viscere. È forse illusione tutto questo? Io credo possa essere poesia.

La ninfa Chelone aveva osato deridere Zeus e Hera proprio il giorno delle nozze. Gli dèi infuriati la precipitarono in mare e la condannarono a portare sul dorso la propria casa, fino alla fine dei tempi. Così ebbe origine la tartaruga. Ma un giorno, ce ne fu una, particolarmente ambiziosa, che volle trasformare quella maledizione in un peccato di grandezza. Decise di accrescere la propria casa oltre il consentito dalla natura. Voleva diventare l’animale più grande e temuto al mondo. Voleva fare del carapace una fortezza inespugnabile e invincibile. Ci si mise d’impegno: mangiò in continuazione per giorni, mesi e anni. Il guscio cresceva e cresceva; più cresceva più lei si sentiva potente, più si sentiva potente e più mangiava di tutto, divorava ogni cosa commestibile intorno a sé. Divenne gigante, e questo la inorgoglì. Ormai nessun animale poteva farle paura, anzi, era lei che li comandava e li sfruttava per procurarsi sempre più cibo. Il suo sogno di grandezza finì per essere un

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delirio. Ogni giorno misurava il carapace e ogni centimetro in più la rendeva pazza di soddisfazione. Non ricordava neppure il tempo in cui cercava la felicità nel contemplare il mondo, nel gustare ciò che la natura le offriva, nel godere dell’amore e dell’amicizia. La sua mente aveva cancellato tutto, che non fosse il folle sogno di svilupparsi all’infinito. Aveva ridotto al minimo anche il piacere del sonno. Ma una mattina, dopo aver passato l’ennesima notte agitata da incubi nei quali si vedeva piccola e impotente, svegliandosi, non riuscì a sollevarsi sulle zampe. Provò e riprovò ma fu tutto inutile. Realizzò improvvisamente la dura realtà: la sua casa era diventata una fortezza impossibile da trasportare. Si sentì schiacciata. Nessuno poté né volle aiutarla. Rimase lì, come un’immensa opera abbandonata che ora le faceva da prigione inesorabile. Prima di morire, di stenti e in solitudine, ebbe il tempo di pensare a quanto fosse stato folle il suo progetto di crescita infinita.

La confusione del mio spirito ha mille porte – diceva. Dalla più stretta di esse dovrai uscire fino a cantare negli usignoli – gli rispose la natura.

La vita che viviamo è talmente brutta e insignificante che qualsiasi evento (un terremoto, un’epidemia, una guerra) è atteso con ansia, perché ci scuote quel tanto da ricordarci di essere vivi. E se, dopo ogni evento catastrofico, sapremo offrire al mondo solo i nostri corpi salvati dalla tecnica, non avremo ottenuto niente. Se non sapremo offrire un senso, una poesia e una preghiera, non servirà a niente campare fino a cento anni.

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La bruttezza della nostra vita si riverbera nella bruttezza del nostro linguaggio, orribilmente politicamente corretto.

«Siamo una folla, io solo, centinaia / le anime in fuga / da Henry Ford, da Taylor, dalla tecnica, / anime che non fabbricano nulla / e, tra nubi vagabonde, impiegano / occhi che non si affittano», scrive Pedro Salinas. Non è un caso che parole così nitide sul “fabbricare nulla” le scriva un poeta che massimamente nel Novecento ha cantato l’amore e le sue magie. Ma, del resto, già lo aveva detto il grande Ovidio: «come il platano ama la vita, il pioppo l’acqua, la canna palustre la terra limacciosa, così Venere ama l’ozio: tu che vuoi la fine di un amore datti al lavoro e sarai al sicuro: l’amore si ritira di fronte all’attività».

Il lavoro senza vocazione ha vinto. L’eros è sconfitto, definitivamente. Laddove per eros s’intende tutto ciò che accende la vita e le sue attività fatte per passione: la fantasia, il gioco, l’entusiasmo e il desiderio al giorno che viene. Ma una società produttiva deve reprimere le pulsioni erotiche, non può permettersele, pena la mancanza di competitività. E tutti i movimenti, politici e antipolitici, facce della stessa medaglia, aspirano proprio a tale competitività che è sinonimo di libertà di sfiancarsi, prima ancora che acquistare. Le relazioni amorose assomigliano sempre più a proposte di lavoro. Le parole, senza eros, sono vuote; il pensiero, senza eros, non si dà. La morte è espunta dal vocabolario. E, senza più la morte come sorella e come traguardo, si può solo essere servi e lavorare a testa bassa.

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Negli ultimi due secoli l’umanità ha fatto diverse rivoluzioni, ma non quella decisiva sregolata dall’eros: troppo rischiosa; abbiamo preferito una confortevole, deforestata, ragionevole, democratica servitù.

Una larga fetta della ricchezza planetaria, oggi, è prodotta da un lavoro gratuito che facciamo tutti, usando apparecchi di comunicazione elettronici, stando sui social, detto in una parola: essendo connessi. Tale ricchezza che produciamo va nelle tasche di pochissimi nel mondo. Sarebbe minimamente giusto che una parte di quella ricchezza tornasse indietro a chi la produce, cioè a noi tutti. Ecco la radice dell’idea di reddito universale. Diverso da stipendio, che viene dato per una prestazione. Reddito viene da reddere, cioè rendere.

Diffido sempre delle sceneggiature di ferro, che avvincono lo spettatore; diffido dei romanzi ben confezionati, delle drammaturgie solide. L’opera degna di essere ricordata, invece, è come la vita (quella altrettanto degna) dopo che è finita: sempre una questione di frammenti che misteriosamente sono andati al loro posto. Frammenti che costituiscono le scorie di un processo perduto, scorie viepiù preziose perché contengono il segreto alchemico di quel processo che va dalle lacrime alla bellezza. Perché non riesci a fondare dentro di te la vita? – gli chiesero, ignari dell’opera.

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Mia madre è agli ultimi giorni di esistenza terrena. Ieri sera le abbiamo fatto ascoltare le arie delle opere di Verdi, le sue preferite. Va’ pensiero sull’ali dorate… Il viso le si è addolcito; è sembrata accennare un sorriso. In questa notte appena passata ho vegliato per accompagnarla. Le ho tenuto la mano cercando di esserci quando la vita decidesse di andarsene. Ma la vita è ancora lì che respira. Allora stamattina sono salito nello studio per scrivere queste righe, per tentare di far andare il pensiero sulle ali, il più dorate possibile. Quando questo libro uscirà, mia madre sarà un cassetto nella mia memoria. Sicuramente lei mi avrà perdonato ogni cosa: soprattutto, l’aver vissuto una vita senza misericordia.

La nostalgia portoghese, la saudade, è tutta riassunta in due versi di una meravigliosa canzone: «Minha canção é saudade / Do amor sonhado em vão». Scritta da Vaz Fernandes e cantata dalla divina Amália Rodrigues. La mia canzone è saudade di un amore sognato invano, cioè di un amore che non arriverà. Non quindi una semplice perdita, ma qualcosa di più universale, che ha a che fare con l’essere gettati sulla terra, avendo solo una pena sconfinata come compagna, con l’unica consolazione che, anche se l’amore finisce, non smette mai di finire.

Pittura e fotografia (1483, 1967). Lo circondano. Gli sono stati tolti i nervi e le parole. Accanto, sulla nuda terra della lavanderia, i due ladroni. Al centro, la deposizione. Una barella a sostenere il corpo appena schiodato. Era caduto lentamente, si dice. Intanto un andirivieni di militari: un piccolo teatro di menzogne. Il braccio sinistro ricade nella vasca. I segni delle ferite lasciati dai chiodi. Le

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suore dell’ospedale sono impressionate dalla somiglianza. Alcuni riferiscono che la sua ombra aveva fatto sembrare la terra incurvarsi ed essere attraversata da un’onda. Ma poi fu il silenzio a dominare. E a noi non restano che associazioni e concatenazioni di forme e cose.

La profonda trasparenza della tua amata presenza – cantava. E per cercarla mi danno l’anima. Nel fondo del buio, la feroce tenerezza. Dannartela, l’anima, è l’unico modo per salvarla – gli rispose, dall’alto, la voce di un dio libertario. «Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,10).

Tradurre poesia da una lingua all’altra sarebbe impossibile. La parola profonda di un umano trasformarla nella parola di un altro umano: una vertigine. Sarebbe impossibile senza avere, innanzitutto, la consapevolezza che tutti i poeti, di tutti i tempi e di tutte le latitudini, dicono sempre e solo due cose: mi manchi e si muore. E questi due abissi dell’essere vengono da lontano, da quella lingua pre-babelica, unica, nella quale era scritto il volume originario, andato perduto da sempre e per sempre. Tradurre, allora, sarebbe impossibile, soprattutto, senza avere la dote amorevole di saper rivolgere le due orecchie verso fonti diverse, in un doppio ascolto: la parola dell’umano, col quale instauriamo il rapporto quaggiù sulla terra, e la voce dall’alto che, in un idioma misterioso, legge da quel volume scritto fin dall’inizio dei tempi e che chiede dov’ero io prima di essere qui.

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Tanti anni fa mi imbarcai nell’avventura del dettato poetico: la traduzione di Moby Dick. Alla fine, raccontai così quel mio cimento teologico/letterario. L’oceano sta nel fondo della mia lingua. Cioè nel fondo di me stesso. Mi ci vedo. (Nella voce, il blu intenso). Ci sono nato? Amo quella lingua; e tanto basta. Ricordo le prime calligrafie. Segni che inventavano l’universo. Nel silenzio e nella lettera. Chi, poi, ha riconosciuto le mie parole, me le ha rivelate. E allora ho iniziato ad ascoltare. Senza più riconoscermi. Ho vagato. Nei meandri di un pensiero. Che non era il mio. Non sarebbe mai più stato il mio. Straziante estraneità, più intima delle mie stesse viscere. Ascolto incessantemente. Proteggo il segreto del desiderio. Fino a quando non mi rimarranno che pochissime parole. Tutta la vita. Per morire sereno. Per terminare l’ascolto di quella paura. Di quella balena. Mi hanno detto qualcosa, una volta. L’ho dimenticata. Era la verità. Ora è irraggiungibile, in fondo all’abisso. Nel cuore esatto della lingua che non conosco più. Spaesamento della voce. Congedo. Farò vela. Issata nell’azzurro. Guardatela. Mentre ospita il vento. Rivendicatela ai vostri occhi. Ospitate il nulla e siate inquieti nella sua pace.

Due grandi poemi epici, uno dell’antichità e uno della modernità: l’Eneide e il Moby Dick. Nel primo si narra di come Roma sia destinata ad essere Caput Mundi per mezzo della guerra, che è necessaria ma verso la quale Virgilio non spende mai nessuna parola di apprezzamento. Nel secondo si narra dell’odio sconfinato tra una balena e il suo cacciatore, senza che Melville abbia mai una parola di apprezzamento per la baleneria. Ma in tutti e due i poemi c’è la necessità dell’obiettivo da raggiungere: il primo voluto dagli dèi e dal fato, i quali nel secondo diventano i fantasmi della mente e a loro volta spingono perentoriamente Ahab alla caccia. Ciò che prima è il fato, poi diventa l’inconscio, la pulsione, con il suo linguag-

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gio logico ma impossibile da decifrare. Freud nascerà qualche anno dopo, nel 1856. Negli ultimi versi del poema latino, Enea ha di fronte il prode Turno, l’ultimo avversario rimasto. Questi gli chiede di essere risparmiato, non già perché tema la morte ma forse per suggerirgli che la vittoria è più apprezzata dagli dèi se non affonda nella crudeltà totale. E Enea ha un attimo di esitazione, un attimo che è eterno per noi lettori, ma poi pensa a Pallante e a tutte le altre giovani vite spezzate e lo abbatte. Nel finale del romanzo americano, capitolo La sinfonia, il primo ufficiale Starbuck vede una lacrima cadere dagli occhi di Ahab nell’oceano e crede di cogliere in quella statua fatta di odio e follia una possibilità di ravvedimento. Come Turno con Enea, Starbuck prega il capitano di cambiare rotta e fare vela verso Nantucket, verso casa, dove ci sono le famiglie ad attenderli con tutta la salvezza e la dolcezza che può offrire la terraferma. E anche Ahab ha un attimo di esitazione, un attimo dilatato in cui noi che leggiamo crediamo quasi che possa prendere in considerazione la preghiera dell’ufficiale. Ma poi il capitano pensa alla propria gamba strappata e pensa alla pazzia che lo divora ma contemporaneamente gli dà vita: e allora ordina di ammainare per cacciare la balena dalla bianca gobba, oggetto del suo odio mostruoso. Il momento di esitazione che hanno Enea e Ahab è la pietas. Il momento in cui, nei loro occhi dell’anima, passa tutto il film della propria vita, il film dell’universo sconfinato, il film del bene e del male che si abbracciano, della bellezza che viene dall’inferno e ci fa intravedere il paradiso.

Prima della dittatura dell’uguale; prima che tutti diventassimo uguali nella stupidità e nella disperazione, quando ancora maschi e femmine avevano occupazioni diverse nella vita

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e c’erano meno soldi ma questo non era un grosso problema, compito delle madri era di raccontare favole e cantare ninne nanne ai figli. E dentro quelle storie, un po’ tramandate e un po’ inventate, ci mettevano tutta la loro angoscia, in forma di mostri; l’angoscia di vivere e la paura di morire. Come diceva Chesterton, insegnavano non già che i mostri esistono, perché questo i piccoli lo sanno già, ma insegnavano che i mostri possono essere sconfitti. Era un compito altissimo. Oggi madri e padri, in nome dell’uguale morbo che gli secca l’anima, vogliono solo convincere se stessi e i propri figli che i mostri non esistono, che tutto è spiegabile dalla tecnica e che, se ci fosse qualche piccolo problema, i dottori lo risolveranno. Ma i mostri invece esistono e, ora che nessuno può più nulla contro di loro, ci tengono in gabbia e ridono di noi. I mostri non hanno pietà per chi non sa farsi domande e creare visioni: quelle domande esistenziali e quelle visioni poetiche che spesso riempiono la testa di chi sta nel punto più basso di un’altissima povertà.

La vita, nella sua insensatezza, è insopportabile. Per questo, l’essere umano uccide, si distrugge, ama e crea. La Storia, nella sua insensatezza, è un vicolo cieco. Per questo, i popoli creano miti, fanno guerre e sacrificano gli ultimi per far splendere i primi.

Occhi cattivi che si sforzano di essere buoni; bocche amare, fatte per il silenzio, che non smettono di parlare e parlare e parlare. Questo sarebbe il mio soggetto per un film sul tempo presente. Ma poi mi accorgo che era già tutto scritto nel tempio di Delfi.

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E allora, una volta di più, ribadisco che ragionare è sinonimo di poetare, altrimenti tacere.

Quando saremo morti, vivremo per un po’ nella memoria dei nostri figli. Poi, più nulla; oblio completo. Forse anche Dio ci dimenticherà. Del resto, come potrebbe ricordarsi di noi; come potrebbe la terra ricordare il semino che un giorno era caduto e aveva germogliato.

Questo figlio ripudiato dalle viscere della madre – diceva. Questo grumo di cellule che non sa riposare nella cicatrice del padre – pensava. Ma quelli, «entrati nella casa videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese». La vita sarebbe impossibile da vivere se non fosse per quel sapore aspro d’amore che ogni giorno ci condanna e ogni giorno ci salva. Per un’altra strada fecero ritorno…

È possibile che un nuovo umanesimo si affacci, da qualche parte sulla scena del mondo, prima che sia finito il ventunesimo secolo. Se ciò accadrà, è molto probabile che venga dopo un catastrofico bagno di sangue.

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Quando dico che la nostra Costituzione non ha parole per l’ecologia e la difesa dell’ambiente, mi rispondono che allora era troppo presto per avere una coscienza di quel tipo e che in quel momento bisognava pensare solo a costruire. Allora io ribatto: andatevi a leggere gli scritti del geografo anarchico Élisée Reclus (1830-1905). Aveva una perfetta consapevolezza di quello che oggi chiamiamo il moderno disastroso antropocene. E poi aggiungo: che siate o meno cristiani, ripassatevi le parole di Francesco d’Assisi sul rispetto assoluto che dovremmo avere verso il creato. L’unico possibile connubio felice tra il sentire antico e quello moderno è l’incrocio poetico fra Cristianesimo e Anarchia. Due forme di vita che convergono nella spiritualità. Dentro di esse possiamo trovare ancora tracce del sacro, nonché gli anticorpi per difenderci dalle manifestazioni più virulente del tecnocapitalismo imperante. Negli ultimi anni, su questo, ho scritto due libri: Cristiani e anarchici e Il mondo che viene.

Nella prima metà del secolo, il sindacalismo (soprattutto quello anarchico) ha avuto un grande ruolo nella società: quello di difendere gli ultimi della terra. Il sindacato si prendeva cura di chi era più fragile e gli dava un posto nel mondo. Ormai da molti anni, invece, non svolge più quel nobile compito. Negli ultimi decenni il lavoro è completamente cambiato, i lavoratori non sono più gli stessi. Ma i sindacati non hanno elaborato alcuna analisi della nuova situazione. Sono rimasti colpevolmente a un secolo fa. Il risultato è drammaticamente sotto gli occhi di tutti. Sono, ormai da tempo, solo luoghi di potere che, oltre a difendere principalmente i propri privilegi, sostengono in larga parte benestanti e ricchi burocrati, timbratori di cartellini e imboscati non-lavoratori.

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Una cosa è certa: utilità di un determinato lavoro ed emolumenti sono inversamente proporzionali. Quando un’attività è dannosa per il mondo, viene ben pagata. E questo la dice lunga sul livello di giustizia in cui viviamo. Personalmente, però, la cosa che più mi disturba è il commercio che si sviluppa a volte intorno al lavoro di un artista quando questi, dopo aver vissuto una vita di stenti e da emarginato, muore.

Il giornale della sera gli fece un’intervista. – Lei non è straniero? – No, sono un residente. – Vive in città? – Sì, fra migliaia di voci e di anime in pena. – In chi si riconosce? – Nello straniero. – Ha qualcuno che l’aspetta a casa? – Forse, se non mi hanno dimenticato. – Cosa chiede alla vita? – Che mi leghi all’essenziale, sempre di più. – C’è un luogo sulla Terra dove le piacerebbe andare? – No. Vorrei andare in paradiso, fra gli angeli. – Ha persone che vorrebbe incontrare? – I maestri, anche quelli morti. – Ha mai odiato qualcuno? – Il mondo, quando sono venuto alla luce. – Ha mai amato qualcuno? – Il mondo, un attimo dopo averlo odiato. – Ha un desiderio particolare? – Morire in pace. – Cosa le piacerebbe fare che non ha mai fatto?

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– L’amore. – Che lavoro fa nella vita? – Cerco di contemplare Dio negli esseri e nelle cose, come fossi un pittore di icone. – E, nel presente, ha un progetto che sta portando avanti? – Mi avvicino alle parole non dette per vedere se è possibile dire altro. – Per concludere, vuole aggiungere qualcosa? – A chi leggerà questa intervista, e che sa, chiedo: se puoi, scrivi il mio nome sul tuo quaderno.

La malinconia è il miglior colore della vita. Contiene l’allegria e la tristezza: si potrebbe dire che è l’allegria di essere tristi. Essa ci tiene al riparo dalla brama consumistica; scioglie il desiderio in qualcosa di voluttuoso; dà tempo al pensiero e dà spazio alla contemplazione; smorza il narcisismo; favorisce l’ascolto; e, soprattutto, dalla malinconia nasce l’amore più dolce. Teresa di Lisieux vi vedeva il sentiero per conoscere Dio.

Tutto è vapore, dice il Qoèlet. Ma poi dice anche che il pensiero è l’unico albero che s’innalza sul vapore. Il pensiero ci fa percepire la vaporosità del tutto, anche se esso stesso è vapore. Però è altrettanto vero che il pensatore ha superato ogni altro vapore che non sia quello del pensare. Ci si perde e ci si ritrova. La vita è una recita e, al tempo stesso, non lo è. Allora, per dare dignità anche alla vita che non è recita, bisogna recitare bene. Bisogna accettare che il vapore sia il campo nel quale operare, e non è possibile fondare il mondo su altro che sia più consistente.

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In questi anni il mondo sta operando un’inversione epocale. Sta trasferendo il potere esercitato nella sfera pubblica (politico, economico e sociale) dagli uomini alle donne, le quali tendono a conservare anche quello relativo alla sfera privata. Una conseguenza di ciò è che i primi si stanno volatilizzando, stanno perdendo la capacità di dare significato alle sfide dell’esi­stenza, condannandosi all’irrilevanza, mentre le seconde si caricano di un vitalismo oltre misura. L’altra conseguenza è che le donne stanno producendo più narrazione, per lo più rivendicativa, di quanta ne possiamo digerire, soffocando così la capacità critica di analizzare la realtà. Mi sono chiesto quale possa essere la radice forte di tale straordinario cambiamento. Mi sono dato quella che mi sembra la principale tra le risposte possibili: il mercato, alla disperatissima ricerca di come piazzare le ultime merci, sta portando a ruoli di comando coloro che consumano di più. È l’ultimo estremo tentativo di far salire il PIL. In tale operazione, il mercato trova terreno fertile nel rifiuto dei valori tradizionali, quali la maternità o l’economia domestica, e nell’esaltazione dei ruoli funzionali alla società dello spettacolo avanzata; facendosi forza di una cultura che percepisce la responsabilità pubblica come unica fonte di onori e reputa degradante quella privata. Poi, probabilmente, ci sarà solo il mondo desertificato e la vita dovrà trovare nuove strade per tornare a fiorire, strade che oggi non possiamo neppure immaginare.

Quando ti perdo, è sempre me che perdo – diceva.

Fece un sogno nel quale si affollavano i suoi amici. C’era Matteo, nel cui cuore lottavano due squali. C’era Giorgio, che ave-

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va alberi e monti nello stesso violoncello. C’era Michele, stanco di combattere contro l’oblio. C’era Giovanni, con la terra arata dai suoi occhi e poi occupata dal suo corpo. C’era Marco e un fiume di rose all’infinito. C’era Cosmè, ancorato nel porto delle sue braccia. Erano tutti lì intorno a lui e forse erano in paradiso. Mentre si apriva la mattina intera, lui disse che di tutti loro non si dimenticava. Anzi, tentò di abbracciarli, ma erano ombre: eppure tre volte ci provò e gli sembrò quasi di essere felice.

Ciascun suoni, balli e canti, arda di dolcezza il core: non fatica, non dolore! Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto, sia, di doman non c’è certezza. Lorenzo, il signore di Firenze, cantava bene il godersi la vita ma forse, in cuor suo, sapeva che è una chimera. Solo poche persone sono all’altezza di farlo, e anch’esse vengono spesso trascinate, da tutte le altre, nel gorgo profondo del sado-­ masochismo, del godimento mortifero, dell’aldilà del principio di piacere. Non può fare a Amor riparo, se non gente rozze e ingrate. Quelle poche persone che saprebbero godersi la vita sono coloro che fanno costantemente una sintesi fra cultura classica e contemporanea, perseguono la verità e contemporaneamente studiano cosa farsene della verità, cercano il connubio fra bontà e intelligenza, e in tal senso provano a ragionare con

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la propria testa e, al tempo stesso, con la testa di tutti. Ma, come dicevo, poiché non si può essere lieti senza il rapporto con l’altro, anch’esse rischiano la crocifissione al legno della torva mediocrità. E che giova aver tesoro, s’altri poi non si contenta?

La vita non è che un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo per il tempo assegnato alla sua parte e poi di lui nessuno parlerà più – dice Shakespeare per bocca di Macbeth. Chi potrebbe dargli torto? Ancora una volta, quindi, chi ama la vita può solo fare sì che le ombre siano cosa salda e i commedianti siano divini. E poi da ombre e commedianti lasciarsi portare lontano.

Quanti anni hai? – gli venne chiesto. Non li ho mai contati – rispose –, non conosco numeri, perché il desiderio mi sfinisce. Vivo la passione e la disperazione. Quanti amori hai? Dimmi almeno questo – insisté –, perché io possa conoscere la radice del tuo pianto sereno. Non li conto. Sono uno spazio di ricerca che non ha nome. Sono la mia dolce ossessione che mi tira su nell’immenso. Ti dirò solo che ognuno di essi mi pare l’incontro finale che vale la vita. E ora scusa ma devo andare.

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Zoe aveva tre anni quando le chiesero cosa facesse suo padre. Era presente la cara amica Valentina, la quale poi mi ha raccontato quale fosse stata la risposta: fa le mostre dei libri. Oggi voglio mormorare a Zoe che il mio mestiere (la parola mi fa un po’ ridere) è costruire conversazioni teatrali per divini commedianti. L’utopia che ci metto dentro è quella di presentare teatri di vita dove i bisognosi di affetto, i divoratori della sapienza antica, gli ammassi di carne e lussuria con un filo d’anima dentro, per un’ora soltanto possano trasformare l’inquietudine in dolcezza.

Nel 1771 Mozart compose la Sinfonia n. 14 in La maggiore (K 114). Per suonarla c’era bisogno di due flauti, due oboi, due corni e archi. Oggi, dopo due secoli e mezzo, viene suonata ancora con due flauti, due oboi, due corni e archi. Non la si può innovare, come si farebbe con una macchina per il caffè. Non si può andare più veloci, essere più efficienti o ridurre il dispendio energetico. Vale a dire: ci sono cose nella vita, come la musica o le parole della poesia, che resistono nel tempo e vivono nello spazio stellato dell’amore per la bellezza.

Parla Mozart. Il momento più bello della mia vita è stato quando ho udito la voce del Signore creare la musica; il secondo momento, quando io stesso ho plasmato una partitura per scale di angeli; il terzo, quando mi sono ritrovato sanguinante e libero, capace di pensare.

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Tutti vorrebbero avere le ali, tutti sognano di volare a buon mercato. I libri su gabbiani e gabbianelle vendono milioni di copie, ma nessuno ha mai ascoltato Leopardi, che dubitava: «forse s’avess’io l’ale da volar su le nubi… più felice sarei»; e rispondeva che forse no, non saremmo più felici, perché prima bisogna quanto meno imparare a pensare bene, compito certamente disagevole e faticoso. Poi magari il volo lo spiccheremo, verso gli spazi infiniti dell’anima – aggiungerebbe il poeta –, e magari sarà così folle che potremo addirittura considerarci eredi di Ulisse.

Dopo tanto perdersi, lei era tornata, ma proprio il giorno in cui lui aveva smesso di sognare. Era ancora bellissima. Ma troppo tardi… Lui non ebbe dubbi e fuggì, lasciandole solo una lettera. Cara Agnese, ho davanti, ora, una foto sciocca di me che abbasso lo sguardo mentre tu enumeri qualcosa con le dita; dietro, sfocato, c’è il muro bianco con le crepe della casa che ci ospitava, nel sud. La guardo a lungo, perché fuori piove forte e preferisco non guardare il viale in sfacelo. Ma si sa com’è novembre, dovrei saperlo, eppure non basta; la tristezza non sente ragioni. Non serve sapere che a ogni domanda soddisfatta ce n’è un’altra più fonda che apre voragini a non finire; per essere felici non basta niente. Nella foto accanto ci siamo noi, in campagna, col grano che si vede da lontano e Giulia che porta la tovaglia rossa. Ogni volta andavamo a pranzo, e ogni volta tre gatti salivano sul tavolo. Per noi erano angeli, il loro miagolio era alla misura del mondo. Poi erano i loro sguardi e le loro fusa a riempire l’aia di vita. Come per noi il linguaggio, per loro il miagolio diceva di una presenza; lo squittire dei topi, inoltre, annunciava le unghie nella carne. Agnese, il mondo si fa topo, talvolta, e noi festeggiamo il suo arrivo, con passo inconfondibile, atteso da lungo tem-

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po. Ma anche noi siamo riconosciuti dall’animale, dal mondo; anch’esso attendeva una nostra mossa, perché se è vero che avevamo parlato è anche vero che solo ora, davanti ai nostri corpi, ha inizio la vita vera. Quella vita, sola, che vale la pena di raccontare, la stessa che viene quando, per amorosa saggezza, invece di gettarci dalla rupe, torniamo sui nostri passi e riconosciamo le nostre orme, i volti di chi abbiamo di fronte. Le parole allora vanno avanti, in modo interpretabile, i gatti chiedono miagolii, e ognuno racconta al proprio simile di passioni infinite, giochi a nascondino, catastrofi, colloqui con le ombre. Poi, di nuovo, le parole non arrivano, di nuovo una tensione da folli ci fa tremare; fino a quando il topo e il mondo, forse, giungono ancora e ci riconoscono, nell’eterno giro di risposta.

Non gli piaceva il giardino curato, con l’erba tagliata, per lo stesso motivo per cui aveva rigetto per le pareti imbiancate della casa senza macchie. Entrambe le cose erano i simboli stessi della prigione, tutta contemporanea, dove risuonano i tentativi di soffocare i demoni, di tacitare le grida della natura libera. Sapeva che quei demoni e quelle grida ritorneranno, nella testa e nell’anima, fino a distruggere l’intera casa insieme al suo giardino, per lasciare di nuovo campo aperto alla bellezza abbandonata.

La forma di governo più vicina all’istinto umano è la tirannia. In effetti, tutto ciò che l’essere umano ha di più intimo è tiranno: l’amore, il linguaggio, la mente e il corpo, questi ultimi intesi come un insieme che vive in modo sintomatico. La democrazia, invece, non è naturale. Forse è più giusta, ma non è naturale: per sopravvivere, necessita di uno sforzo continuo

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della parte razionale in lotta per limitare l’influenza della parte maledetta che ognuno di noi possiede. Soluzione non esiste a questo dissidio, che spesso ci lacera letteralmente l’anima. Il cristianesimo e l’anarchia propongono la più impossibile delle strade: nessuno Stato e nessuna legge danno risposte dignitose, solo l’amore e la misericordia aprono lo spazio della beatitudine. La più impossibile delle strade, certo, ma cosa può portare di buono lo smarrirsi dietro ideologie, economie e regole senza fine?

«C’immergemmo sempre più a fondo nel cuore delle tenebre». Inizia così una delle pagine, a mio parere, più importanti di uno dei libri più intensi della storia della letteratura. Francis Ford Coppola ne trasse il suo capolavoro cinematografico: Apocalypse Now. Marlow e i suoi scendono nel fiume come se navigassero nei meandri della propria anima nera e sconosciuta. Sulle sponde vedono i selvaggi scuri e mostruosi. Ma nelle menti dei naviganti si affaccia il pensiero che quegli esseri non siano inumani. Gridano, saltano e girano su se stessi, emettendo suoni bestiali e facendo orribili smorfie, ma non sono inumani. E se sei abbastanza uomo devi confessare a te stesso che quell’orrore lo puoi ritrovare anche dentro i tuoi occhi, dentro la tua mente, dentro la tua memoria, dentro il tuo corpo. E ne hai paura per questo, fino a odiarlo: perché non vorresti avere dentro di te quella parte oscena, che è soffocata dal cuscinetto che ti sei costruito con la cultura, ma che è sempre pronta a uscire fuori quando la tempesta delle situazioni limite riduce a brandelli quel cuscinetto protettivo.

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Le situazioni limite contribuiscono a far cadere le maschere, rivelando la parte più profonda e nascosta dell’essere umano. Che è contemporaneamente bene e male, come diceva Sofocle, nel coro dell’Antigone: «tante le meraviglie, ma nessuna terribile come l’uomo». Ciò che abbiamo dentro è terribile e meraviglioso, dunque. Pensiamo agli amori nati in tempo di guerra, ai gesti eroici e altruistici. E pensiamo, invece, come sia difficile amare e darsi agli altri in tempo di pace. E allora, che sia possibile baciare solo ciò che muore?

Le parole sono fatte di una sostanza sensibile, che si consuma con l’uso. Anche la parola più bella, più terribile o più intensa, se usata ripetutamente per ottenere un effetto forzato, si consuma e non vuole, non può, dire più niente. «Non nominare Dio invano», non nominare nulla invano, non consumare le parole, perché sono preziose e, quando ne avrai davvero bisogno, non le troverai a darti conforto.

Sul Golgota vanno in rovina i miei anni – disse. – Padre mio, qual è la cura per questo scempio? Mi sento abbandonato, e non ti trovo, nell’ora più triste, mentre si consuma il supplizio della carne.

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IV. L’avvenuto passaggio del mondo

Un guardarmi dentro solo per ritrovarvi le cose vissute dagli altri – pensa –, racconto della mia esistenza, unica e irripetibile, eppure specchio della memoria collettiva. Col tempo lungo alle sue spalle, ha capito che negli occhi di suo padre, da bambino, ha cercato il segreto dell’universo. Poi, negli occhi del suo primo amore, il segreto del fascino. Negli occhi dei suoi maestri, una spiegazione. Nel tempo che ha davanti e che ora diminuisce sempre più, di nuovo, sta cercando il segreto dell’universo, aggiungendo un po’ di inutile saggezza.

Di lui che è stato qui e del tempo che ha attraversato non sa niente nessuno. E allora salvare, in un volume, l’avvenuto passaggio nel mondo, coi chiodi delle parole.

Ci ritroviamo in questo giardino d’amore e solitudine a essere stranieri; nessuno ci ha mai affidato una patria cui appartenere. Dio ce ne ha solo lasciata una promessa, scritta nella polvere.

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Dopo averci ben pensato, dopo aver amato persone e luoghi, aver ricordato gli anarchici e coloro che hanno camminato accanto alla storia, come quell’uomo di Cirene che portò la croce, dopo aver creduto di vedere la luce nelle tenebre, dopo aver composto il mosaico dei maestri, degli anni e della bellezza, dopo averci ben pensato davvero, lui ora sa di appartenere a nient’altro che a quella polvere.

Laudato tu sia – dice – perché ancora accompagni il canto allo smarrimento. Laudato tu sia, che ancora vai alla deriva e ancora sei una promessa di vita.

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Indice

I. In certe ore fortunate

p. 11

II. Una pagina dell’universo

p. 21

III. Mentre ospita il vento

p. 51

IV. L’avvenuto passaggio nel mondo

p. 93

Margini Collana di letterature e scritture non canoniche Diretta da

Filippo La Porta

1. Andrea Di Consoli, Diario dello smarrimento. 2. Aurora Bertrana, Paradisi oceanici. 3. Antonio Fiori, I Poeti del sogno. Piccola antologia. 4. Giovanni Catelli, Parigi, e un padre. 5. Lucilio Santoni, Legato con amore in un volume. Quasi un diario.

Legato con amore in un volume Lucilio Santoni convoca i suoi anarchici e cristiani per affrontare la insensatezza della vita, per darle una risposta diversa dall’odio e dalla distruzione. Come gli ha insegnato la sua famiglia ideale – Lucrezio, Gesù, san Francesco, Dante, Garcia Lorca, Elsa Morante, Ivan Illich e fino al papà e al nonno ribelli inconciliati – sa che occorre “sovvertire qualcosa per amore di qualcos’altro”. La sua scrittura è uno strumento affilato per intercettare la vita falsa, nascosta anche in parole edificanti come “aggregazione”. Provate a immaginare i Minima moralia di Adorno riscritti da De Andrè, travasati in uno stile comunicativo, poeticamente dimesso. I feticci del nostro presente, le microdinamiche di potere, ma sempre anche una apertura possibile, una felicità balenante. La bellezza della poesia nasce dalla ferita. Per approdare alla verità ultima, forse impronunciabile ma salvifica: dobbiamo continuare a cercare, come Ulisse, ma sapendo che non si è mai “padroni di ciò che si trova”.

Lucilio Santoni affianca alla scrittura (compresa traduzione) l’attività di conversatore teatrale. Crea sinfonie letterarie per l'anima e la terra, nelle quali intreccia pensieri, versi, ragionamenti, lingue di vento. Per fare questo, ama collaborare con musicisti e attori.

Margini | 5 € 5,00

Collana diretta da Filippo La Porta

ISBN ebook 9788855292139