L'economia nello Stato totalitario fascista 8825503725, 9788825503722

Dopo la seconda guerra mondiale gli studi sul fascismo sono stati pesantemente condizionati da due principali teorie int

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Italian Pages 240 [243] Year 2017

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PrefazioneA. James Gregor ewline AE @cftauthorfont
Introduzione ewline AE @cftauthorfont Antonio Messina=0pt 5mm to*. [1]=0pt5mm to* Direttore della rivista «Il Pensiero Storico».00Direttore della rivista «Il Pensiero Storico».00
Il fascismo italiano e la “dittatura di sviluppo” ewline AE @cftauthorfont Antonio Messina=0pt 5mm to5. [1]=0pt5mm to5 Direttore della rivista «Il Pensiero Storico».00Direttore della rivista «Il Pensiero Storico».00
From Malthus to Mussolini ewline AE @cftauthorfont Maria Sophia Quine=0pt 5mm to248. [1]=0pt5mm to248 Senior Research Fellow in Storia della razza, fascismo, ed eugenetica presso il Centre for Medical Humanities della Oxford Brookes University.00Senior Research Fellow in Storia della razza, fascismo, ed eugenetica presso il Centre for Medical Humanities della Oxford Brookes University.00
Corporativismo, stato sociale, sviluppo (1922–1945) ewline AE @cftauthorfont Francesco Carlesi=0pt 5mm to172. [1]=0pt5mm to172 Dottorando in Studi politici presso la Sapienza – Università di Roma.00Dottorando in Studi politici presso la Sapienza – Università di Roma.00
Historia del Corporativismo en Italia ewline AE @cftauthorfont Sergio Fernández Riquelme=0pt 5mm to181. [1]=0pt5mm to181 Historiador y Profesor de Política social – Universidad de Murcia.00Historiador y Profesor de Política social – Universidad de Murcia.00
Economia e popolazione in Africa orientale italiana e Libia (1936–1941) ewline AE @cftauthorfont Gian Luca Podestà=0pt 5mm to38. [1]=0pt5mm to38 Laureato in Storia all’Università degli Studi di Genova e ha conseguito il PhD in Storia economica e sociale e un MBA all’Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano.00Laureato in Storia all’Università degli Studi di Genova e ha conseguito il PhD in Storia economica e sociale e un MBA all’Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano.00
Autori ewline AE @cftauthorfont
PrefazioneA. James Gregor ewline AE @cftauthorfont
Introduzione ewline AE @cftauthorfont Antonio Messina=0pt 5mm to*. [1]=0pt5mm to* Direttore della rivista «Il Pensiero Storico».00Direttore della rivista «Il Pensiero Storico».00
Il fascismo italiano e la “dittatura di sviluppo” ewline AE @cftauthorfont Antonio Messina=0pt 5mm to5. [1]=0pt5mm to5 Direttore della rivista «Il Pensiero Storico».00Direttore della rivista «Il Pensiero Storico».00
From Malthus to Mussolini ewline AE @cftauthorfont Maria Sophia Quine=0pt 5mm to248. [1]=0pt5mm to248 Senior Research Fellow in Storia della razza, fascismo, ed eugenetica presso il Centre for Medical Humanities della Oxford Brookes University.00Senior Research Fellow in Storia della razza, fascismo, ed eugenetica presso il Centre for Medical Humanities della Oxford Brookes University.00
Corporativismo, stato sociale, sviluppo (1922–1945) ewline AE @cftauthorfont Francesco Carlesi=0pt 5mm to172. [1]=0pt5mm to172 Dottorando in Studi politici presso la Sapienza – Università di Roma.00Dottorando in Studi politici presso la Sapienza – Università di Roma.00
Historia del Corporativismo en Italia ewline AE @cftauthorfont Sergio Fernández Riquelme=0pt 5mm to181. [1]=0pt5mm to181 Historiador y Profesor de Política social – Universidad de Murcia.00Historiador y Profesor de Política social – Universidad de Murcia.00
Economia e popolazione in Africa orientale italiana e Libia (1936–1941) ewline AE @cftauthorfont Gian Luca Podestà=0pt 5mm to38. [1]=0pt5mm to38 Laureato in Storia all’Università degli Studi di Genova e ha conseguito il PhD in Storia economica e sociale e un MBA all’Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano.00Laureato in Storia all’Università degli Studi di Genova e ha conseguito il PhD in Storia economica e sociale e un MBA all’Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano.00
Autori ewline AE @cftauthorfont
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L'economia nello Stato totalitario fascista
 8825503725, 9788825503722

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CRONOGRAMMI SEZIONE I POLITICA, STORIA E SOCIETÀ

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Direttori Paolo Armellini Sapienza – Università di Roma

Angelo Arciero Università degli Studi “Guglielmo Marconi”

Comitato scientifico Nicola Antonetti Università di Parma

Maria Sofia Corciulo Sapienza – Università di Roma

Francesco Maiolo Università di Utrecht

Andrej Marga Università Napoca–Cluji

Gaspare Mura Urbaniana, Roma

Philippe Nemo European School of Management, Parigi

Rocco Pezzimenti Lumsa, Roma

Alfred Wierzbick Katolicki Uniwersytet Lubelski Jana Pawla II

CRONOGRAMMI SEZIONE I POLITICA, STORIA E SOCIETÀ

Ispirandosi all’arte di istituire, all’interno di una frase latina, una corrispondenza tra lettere e numeri in grado di rimandare a uno specifico evento temporale (e, per estensione, alla costruzione di una correlata dimensione spaziale) la collana “Cronogrammi” intende oVrire, a studiosi, personalità della politica e lettori interessati ai problemi della vita comunitaria, una serie di monografie, saggi e nuovi strumenti critici aperti a una pluralità di linee interpretative e dedicati a temi, questioni, figure e correnti del pensiero politico. La consapevolezza del complesso e, talvolta, controverso rapporto fra verità e storia costituisce, in tale prospettiva, il presupposto di un approccio critico concepito come una riflessione sul pensiero occidentale incessantemente attraversato da problemi e situazioni che coinvolgono al massimo grado la dimensione della politica sia nella sua fattualità empirica, sia nella sua normatività razionale. Le diverse sfere della convivenza umana hanno da sempre imposto alla politica di aVrontare e risolvere (attraverso la decisione o la teorizzazione intellettuale) il nesso spesso ambiguo fra la ragione, il bene comune, l’universalità dei diritti e l’insieme degli interessi individuali e collettivi. Questo insieme di relazioni ha sollecitato pensatori, personalità politiche e osservatori sociali a disegnare una pluralità di modi diversi di regolare l’attività politica, presente sia nella società civile, sia nella sfera istituzionale, in modo da scorgere un terreno di diVerenziazione e di convergenza fra la forza legittima della decisione e la ragione dell’esattezza legale, tenendo conto della distinzione e a un tempo dell’indissociabilità dell’astrattezza normativa con la molteplicità degli interessi in gioco nella ricerca del consenso. Le distinte sfere della noumenicità della giustizia e della fenomenicità dell’utilità, sempre finalizzate alla felicità della persona e della comunità, hanno presentato nella storia dell’uomo diversi gradi di approssimazione e vicinanza che corrispondono anche alla formulazione dell’estesa quantità di teorie politiche, antiche e moderne. Per questo motivo “Cronogrammi” si propone di oVrire un quadro critico, sia dal punto di vista filologico che ermeneutico, della geostoria del pensiero politico aVrontando i suoi diversi volti ideali, storici e istituzionali. La sezione “Politica, storia e società” comprende studi e monografie dedicati all’analisi del percorso dialettico e diacronico di pensatori, correnti e personalità politiche aVermatesi in Occidente, sulla base di una dupli-

ce prospettiva, dell’analisi dottrinale e della concreta realtà storico-politica, che tenga sempre conto del nesso fra teoria e prassi. La sezione “Testi e antologia di classici” è dedicata alla pubblicazione di opere (in particolare inedite o rare), traduzioni e antologie dei grandi pensatori della storia e delle principali ideologie, corredate da aggiornate introduzioni e commenti critici di studiosi e specialisti che ne mettano in rilievo prospettive stimolanti e originali. La sezione “Protagonisti e correnti del Risorgimento” intende valorizzare, nell’attuale contesto internazionale di studi politici e sociali e a fronte della mutevolezza delle circostanze storiche, l’idea di una ricorrente centralità di valori, in linea con la presenza nella storia di una philosophia perennis, che i diversi politici, pensatori e storici (dal Rinascimento al Risorgimento, dal Barocco all’Illuminismo), hanno espresso nei loro studi insistendo sulla specificità di una storia italiana mai disgiunta dal contesto europeo. La sezione “Rosminiana” intende pubblicare studi e ricerche sul pensiero teologico e politico di Antonio Rosmini Serbati e sulla relativa storiografia, che a partire dall’Ottocento e passando per tutto il Novecento, ha fatto risaltare l’originalità di questo pensatore, la cui fedeltà al cattolicesimo ha contribuito a rinnovare il nesso fra tradizione e innovazione alla luce dell’eterno problema del rapporto fra fede e ragione e in vista della difesa della persona contro ogni forma di dispotismo.

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L’economia nello stato totalitario fascista a cura di

Antonio Messina Prefazione di A. James Gregor Contributi di Francesco Carlesi Sergio Fernàndez Riquelme Antonio Messina Gian Luca Podestà Maria Sophia Quine

Aracne editrice www.aracneeditrice.it [email protected] Copyright © MMXVII Gioacchino Onorati editore S.r.l. – unipersonale www.gioacchinoonoratieditore.it [email protected] via Vittorio Veneto, 20 00020 Canterano (RM) (06) 45551463

isbn 978-88-255-0372-2

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: giugno 2017

Indice

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Prefazione A. James Gregor

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Introduzione Antonio Messina

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Il fascismo italiano e la “dittatura di sviluppo” Antonio Messina

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From Malthus to Mussolini Maria Sophia Quine

151

Corporativismo, stato sociale, sviluppo (1922–1945) Francesco Carlesi

203

Historia del Corporativismo en Italia Sergio Fernández Riquelme

215

Economia e popolazione in Africa orientale italiana e Libia (1936–1941) Gian Luca Podestà

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Autori

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L’economia nello stato totalitario fascista ISBN 978-88-255-0372-2 DOI 10.4399/97888255037221 pag. 9–10 (giugno 2017)

Prefazione A. James Gregor⇤

Raccomandiamo al lettore i seguenti saggi accademici, in quanto fanno parte di una tradizione che in passato ha fornito gran parte del materiale per gli studi sul fascismo. Fin dal suo principio, il fascismo italiano è stato a volte soggetto di ricerche sconclusionate. I risultati di questi variano a seconda del tipo di ricerca intrapresa. Lo studio sul fascismo italiano si è diramato principalmente in due branche. Una di queste è stata denominata la “Tradizione di Denis Mack Smith” ed è caratterizzata dalla presentazione del fenomeno storico del fascismo sotto forma di storie di briganti e buVoni. Secondo questa tradizione di ricerca non si troveranno idee tra i fascisti. Il loro comportamento è la semplice conseguenza di un impulso irrazionale. Per una persona qualunque, i fascisti erano completamente privi di raziocinio. Sono arrivati al potere tramite la violenza — e vi rimasero attraverso cavilli e coercizioni. Come conseguenza di queste convinzioni, molti ricercatori hanno trovato il “fascismo” ovunque ci fossero stati movimenti politici o regimi (oltre a quelli di convinzione di “Sinistra”) che hanno utilizzato violenza e irrazionalità per raggiungere i loro obbiettivi. Durante la Seconda guerra mondiale, come prevedibile conseguenza, hanno trovato il fascismo nel Partito delle Croci Frecciate Ungherese, nella Guardia di Ferro della Romania, e nei leader del Giappone Imperiale. Ovviamente anche il Nazionalsocialismo di Hitler era fascista. Oltre al fatto che questi fenomeni politici erano caratterizzati dalla violenza, sappiamo ben poco. Dalla Seconda guerra mondiale in poi gli studiosi appartenenti a questa tradizione hanno scoperto fascisti ovunque con altrettanta semplicità. Tutti gli antisemiti sono fascisti. Quindi, tutti gli “skinheads” sono fascisti, così come tutti i jihadisti musulmani. Visto che tutti i fascisti sono stati etichettati come irrazionali e violenti, ⇤

Professore emerito presso l’Università della California, Berkeley.

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A. James Gregor

tutti i sociopatici sono potenzialmente dei fascisti. Di conseguenza il numero dei fascisti è aumentato in maniera esponenziale. Con l’aumento dei loro numeri, le informazioni aYdabili sul fascismo sono diminuite in proporzione. Questi ricercatori aVermano che i fascisti si possono manifestare sotto ogni forma e dare voce a qualunque ideologia. L’unico requisito, così, è che i soggetti e i loro movimenti siano violenti e irrazionali. Come risultato, questo modo di pensare si è rivelato ottimo per denigrare e liberarsi dei propri avversari politici — ma ci fornisce scarse informazioni riguardo il fascismo italiano. Nel secondo caso invece, regolarmente identificato con il metodo di Renzo de Felice, si prevede l’attento impiego di metodologie storiografiche standard per lo studio del fascismo. Le scoperte sono il risultato di documenti pubblici riproducibili riguardo un preciso evento storico. I risultati sono solitamente composti da una serie di proposizioni probabilistiche adeguatamente collegabili logicamente tra loro. È raro trovare vari tipi di generalizzazioni tra i risultati che poi entreranno a far parte degli studi. Questi sono i pregi che caratterizzano i saggi di questa raccolta. Antonio Messina fornisce un resoconto generale di una delle interpretazioni del fascismo che viene ormai utilizzata da più di mezzo secolo. Maria Sophia Quine ci consegna un attento studio delle politiche demografiche e di benessere pubblico del fascismo. Francesco Carlesi e Sergio Fernandez Riquelme aVrontano il tema del ruolo avuto dal corporativismo nel corso dei due decenni di governo fascista. Infine, il saggio di Gian Luca Podestà sulle politiche coloniali fasciste completa un ampio studio sull’esperienza storica fascista. In questa raccolta, i lettori scopriranno informazioni diYcili da trovare altrove. L’esperienza del fascismo viene aVrontata con l’attenzione metodologica che gli si deve. La casa editrice e l’editore meritano i complimenti per aver accettato questo progetto, che ci fornisce un importante contributo alla continua discussione riguardante un periodo importante della storia italiana, europea e mondiale.

L’economia nello stato totalitario fascista ISBN 978-88-255-0372-2 DOI 10.4399/97888255037222 pag. 11–14 (giugno 2017)

Introduzione Antonio Messina⇤

Questa pubblicazione non costituisce un punto d’arrivo, ma un punto di partenza, ed ha l’ambizione di voler stimolare il dibattito e la discussione intorno all’economia italiana del periodo fascista, evidenziandone i tratti di originalità e di discontinuità rispetto al periodo precedente. In particolar modo, s’è voluto porre in risalto lo stretto connubio tra economia e totalitarismo, attingendo a quegli studi che hanno riconosciuto nel fascismo gli intenti di una progettualità rivoluzionaria pienamente espressi nella costruzione di uno Stato totalitario. Nella prima parte di questo volume si è voluto indagare sulla validità degli studi sociologici che hanno focalizzato la loro attenzione sullo stretto legame tra fascismo e sviluppo economico, mostrando come un paese economicamente arretrato e subordinato all’egemonia di alcune Grandi Potenze, possa presentare quelle condizioni predisponenti all’aVermazione di un pensiero antiegemonico che — se portato alle sue estreme conseguenze — può dar vita a fenomeni di massa come il fascismo. Lo sviluppo economico della nazione italiana era iscritto tra i fini del fascismo proprio perché quest’ultimo era l’erede di un pensiero critico, nazional–sindacalista e rivoluzionario, che vedeva nell’industrializzazione, nella modernizzazione e nella crescita economica e sociale gli strumenti necessari per permettere all’Italia di svincolarsi ed emanciparsi dalla forte egemonia esercitata dalle cosiddette «plutocrazie». In un mondo dominato dallo scontro e dalla competizione, il fascismo dovette aVrontare lo sviluppo economico facendo ricorso a politiche autarchiche e corporative, le quali erano una diretta e logica derivazione della sua natura totalitaria. La sequela di saggi raccolti nel presente volume hanno indagato aspetti molto importanti del periodo, come il modello corporativo, la politica assistenziale e la determinazione dei processi economici che hanno caratterizzato le colonie italiane in Africa. Il filo conduttore ⇤

Direttore della rivista «Il Pensiero Storico».

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Antonio Messina

che lega tutti questi svariati aspetti è costituito dalla convinzione che non è possibile comprendere alcuna delle politiche fasciste in campo economico se non ponendole in relazione al suo progetto totalitario. D’altronde gli stessi fascisti si compiacevano di aver subordinato l’economia alla politica e sostenevano senza mezzi termini di non vedere nello Stato «un distributore di beni materiali, ma un valore ben più alto e sublime: una manifestazione dello spirito, un assoluto di volontà e di potenza, il portatore della civiltà del secolo nuovo»1 . Da ciò si comprende bene come i fascisti non concepissero l’autarchia ed il corporativismo come delle soluzioni di natura contingente, ma mezzi che avrebbero permesso allo Stato fascista di diversificarsi dai sistemi liberal–democratici, di traghettare l’Italia fuori dalla sua arretratezza economica, ed al contempo di esprimere un nuovo modello peculiare di civiltà dai connotati intrinsecamente totalitari. Questa pubblicazione si è resa quindi necessaria per sopperire ad un deficit metodologico che ha caratterizzato quasi tutti gli studi sulla politica economica del periodo. Gran parte di essi infatti, pubblicati tra gli anni Sessanta e Settanta, non si erano mai posti il problema del totalitarismo, forse perché condizionati dagli studi di Hannah Arendt, che aveva classificato il fascismo come un regime autoritario e nazionalista, ideologicamente inconsistente2 . Altri studi invece, pubblicati in anni più recenti, hanno negato che il totalitarismo possa aver influenzato il massiccio intervento pubblico dello Stato, essendo quest’ultimo soltanto l’esito di circostanze del tutto accidentali3 . Credo sia opportuno, alla luce degli spunti di riflessione suggeriti dai saggi raccolti nel presente volume, rivedere questi ed altri giudizi al fine di superare certi preconcetti e riconoscere la forte connessione tra il totalitarismo e l’intervento pubblico dello Stato fascista. Marcelo Gullo ha dimostrato che nazioni periferiche e arretrate, subordinate al potere egemonico delle nazioni industrialmente più avanzate, al fine di portare avanti con successo il processo di insubordinazione (o emancipazione), hanno bisogno che lo Stato rinneghi i precetti liberisti e si faccia promotore dello sviluppo e del1. C. Curcio, “Socialismo”, in Dizionario di Politica, Roma, Istituto della Enciclopedia Treccani, 1940, p. 296. 2. Sui limiti dell’interpretazione della Arendt, cfr. E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Roma, Carocci, 2008, pp. 315–339. 3. D. Fausto (a cura di), Intervento pubblico e politica economica fascista, Milano, FrancoAngeli, 2007, pp. VIII–IX.

Introduzione

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l’industrializzazione. Da parte sua, Alfredo Rocco sosteneva che non era suYciente rinnegare il liberalismo sul piano economico, ma che occorresse rinnegarlo anche sul piano politico e filosofico. Queste furono le premesse ideologiche che portarono alla nascita ed all’affermazione del fascismo, il quale stabilì che soltanto un forte potere totalitario avrebbe potuto condurre la nazione italiana verso la più completa insubordinazione dall’egemonia straniera. Solo uno Stato totalitario possedeva infatti gli strumenti necessari per accumulare la ricchezza, dislocare e allocare le risorse, incentivare lo sviluppo industriale, regolamentare il mercato, imporre la pace sociale e indirizzare l’iniziativa privata verso ciò che veniva considerato l’interesse nazionale. Tali obiettivi erano fondamentalmente incompatibili con i principi economici dell’ortodossia liberista, incentrata sul liberoscambismo e sull’equilibrio spontaneo della domanda e dell’oVerta. Alla vecchia scienza economica, accusata di favorire il «privilegio plutocratico»4 , i fascisti contrapposero la nuova economia corporativa e mobilitarono gli economisti e gli scienziati sociali per elaborare l’idea di uno Stato nuovo capace di superare i deficit delle economie liberali. Le università sono chiamate dal potere politico a creare una cultura sulla crisi del capitalismo e la regolamentazione del mercato [. . . ]. Il nuovo intellettuale–tecnico è chiamato a dare contenuto alla parola d’ordine della rivoluzione corporativa che vorrebbe risolvere il conflitto tra capitale e lavoro. Molti degli studi culturali dell’epoca sono rivolti particolarmente all’ambito delle rappresentazioni e al contributo degli intellettuali al progetto di Giovanni Gentile e Giuseppe Bottai di costruzione dell’«italiano nuovo». Gli economisti sociali danno vita al disegno di una «terza via» tra capitalismo e socialismo, capace di superare il conflitto tra stato liberale e impero sovietico. Sono artefici di un disegno di politica culturale, organizzano i convegni di Ferrara e Pisa, creano centri di ricerca e iniziative universitarie, dirigono riviste, pubblicano libri ed elaborano, con significati diversi, il mito di una rivoluzione fascista. Sono attori di una competizione culturale per la conquista dell’egemonia in Europa, inventano un proprio modello che acquista rilevanza internazionale.5

La «nuova scienza economica», corporativa ed autarchica, costituì uno snodo fondamentale in direzione della più completa insubordinazione dall’egemonia culturale esercitata da quelle nazioni 4. V.E. Brusca, Dal mercantilismo al corporativismo fascista, Catania, AEI, 1937, p. 82. 5. P. Barucci, S. Misiani, M. Mosca (a cura di), La cultura economica tra le due guerre, Milano, FrancoAngeli, 2015, p. 13.

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Antonio Messina

che nutrivano tutti gli interessi nel promuovere, presso le nazioni economicamente arretrate, il modello economico liberista. Lo studio delle vicende legate alla politica economica fascista può aiutarci a comprendere meglio il mondo contemporaneo, e le forti tensioni tra paesi sottosviluppati, paesi emergenti ed in via di sviluppo, e paesi pienamente sviluppati. Finché esisteranno nel mondo nazioni egemoniche e nazioni subordinate, la potenziale ascesa di un movimento di insubordinazione dai forti connotati nazionalistici e totalitari, sarà un’eventualità sempre incombente. Per la stesura di questo lavoro ringrazio vivamente il professor A. James Gregor, i cui consigli e la cui vasta e profonda produzione scientifica sono stati per me fonte di inesauribili riflessioni. Ringrazio il dott. Loris De Nardi ed il prof. Filippo Gorla per l’appoggio ed i consigli forniti per migliorare il lavoro. Ringrazio altresì il direttore editoriale Mario Scagnetti e la dott.ssa Cecilia Ragone per l’interesse e la disponibilità mostrata al fine della pubblicazione del manoscritto. Infine, un ringraziamento a tutti i collaboratori della rivista «Il Pensiero Storico», che hanno reso possibile l’esistenza di questo progetto.

L’economia nello stato totalitario fascista ISBN 978-88-255-0372-2 DOI 10.4399/97888255037223 pag. 15–83 (giugno 2017)

Il fascismo italiano e la “dittatura di sviluppo” Un problema storiografico aperto Antonio Messina⇤

1. Sindacalismo nazionale e nazionalismo di sviluppo Quando nel 1861 l’Italia raggiunse l’unità, la classe dirigente di allora si trovò ad aVrontare i gravissimi problemi che aZiggevano la penisola. La povertà endemica della popolazione e la crescente migrazione verso l’estero, costituivano solo alcune delle conseguenze derivanti dalla mancanza di un solido ed eYcace apparato industriale. Mentre già sul fine dell’Ottocento nazioni come Inghilterra, Francia e Germania raggiungevano la piena maturità industriale, l’Italia mostrava segni di notevole ritardo o quantomeno «stentava a decollare»1 . Vale la pena ricordare che la fine dell’Ottocento era anche il periodo in cui non solo le tre grandi potenze d’Europa raggiungevano la succitata maturità, ma con un passo altrettanto spedito viaggiavano le nazioni del Nord Europa e, chiaramente, gli Stati Uniti. L’Italia sembrò dunque rimanere indietro, mostrando una «crescita lenta e insoddisfacente»2 . La scarsità di risorse e di materie prime, l’arretratezza economica del Paese e l’assenza di capitali da investire furono tra le cause di questo ritardo. C’erano tuttavia altre concause. Gerschenkron ha focalizzato l’attenzione sul forte impulso che determinate ideologie hanno conferito ai processi di industrializzazione nei rispettivi paesi (come il liberismo in Inghilterra, il sansimonismo in Francia e il nazionalismo in Germania), mentre «ciò che colpisce chi osservi lo [. . . ] sviluppo italiano è l’assenza di un vigoroso stimolo ⇤

Direttore della rivista «Il Pensiero Storico». 1. V. Zamagni, Dalla rivoluzione industriale all’integrazione europea, Bologna, il Mulino, 1999, p. 72. 2. E. Felice, Ascesa e declino. Storia economica d’Italia, Bologna, il Mulino, 2015, p. 129.

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Antonio Messina

ideologico all’industrializzazione»3 . In altre parole, ciò che mancava all’Italia era un’ideologia interessata a favorire ed incentivare lo sviluppo economico della Nazione. Mentre il liberismo cavouriano «apparteneva a un’era ormai tramontata [. . . ] i marxisti italiani mostrarono uno scarso, se non addirittura nullo interesse per i problemi dello sviluppo industriale del loro paese»4 . Fu solo durante la cosiddetta «età giolittiana» che vennero eVettuati i primi passi in direzione del decollo industriale. Il periodo giolittiano coincise con una fase di forte crescita dell’economia mondiale, la «belle époque» della società borghese, una sorta di «età dell’oro» del capitalismo industriale5 . Fu sempre in questo periodo che si assistette al lento decollo del capitalismo italiano, indubbiamente favorito da «un notevole interventismo in ambito economico» dello Stato (che si è discostato in ciò «dai postulati liberisti»)6 , dall’introduzione del protezionismo e dalla nazionalizzazione di alcuni settori pubblici. Tuttavia, questo iniziale sviluppo italiano appare più condizionato dalle pressioni esercitate da interessi privati, piuttosto che da una uniforme, lineare e coerente visione di uno sviluppo nazionale. Tale sviluppo fu infatti il frutto di una singolare collusione tra lo Stato liberale e il grande capitale privato, al punto che «l’interesse pubblico appariva apertamente sacrificato alla prepotenza dei grandi interessi finanziari o industriali»7 . Questa situazione, unita al coinvolgimento delle alte sfere del Governo nello scandalo della Banca Romana, alla corruzione dilagante della classe politica e al malcostume del regime parlamentare8 , contribuì ad alimentare il malcontento delle masse 3. A. Gerschenkron, Il problema storico dell’arretratezza economica, Torino, Einaudi, 1965, p. 84. 4. Ivi, pp. 84–85. 5. G. Toniolo, Storia economica dell’Italia liberale 1850–1918, Bologna, il Mulino, 1998, p. 159. 6. E. Felice, op. cit., p. 138. 7. R. Romeo, Breve storia della grande industria in Italia 1861–1961, Milano, il Saggiatore, 1988, p. 86. 8. Uno tra i più severi critici del regime parlamentare fu il sociologo Gaetano Mosca, secondo cui nel parlamento italiano predominavano «la vigliaccheria morale, la mancanza di ogni sentimento di giustizia, la furberia, l’intrigo», al punto che «vediamo migliaia d’iniquità, di soperchierie, di soprusi, compiersi davanti i nostri occhi coll’indiVerenza e la tranquillità dì cose ordinarie e naturali: è procedendo così, che siamo ridotti a tale, che ormai in molti rami della pubblica azienda, non si può più aver che fare col Governo usando dei soli modi onesti e legali, e bisogna fare il camorrista se non si vuole subire un atto di camorra» (G. Mosca, Sulla teorica dei Governi e sul Governo parlamentare, Palermo, Tipografia dello Statuto, 1884, pp. 304–305).

Il fascismo italiano e la “dittatura di sviluppo”

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e l’influenza che su di esse esercitavano le correnti rivoluzionarie dell’epoca, come quella anarchica e quella socialista. In retrospettiva, il processo di industrializzazione dell’età liberale sembra essere stato quanto mai vago e contraddittorio, l’esito di una serie di fattori favorevoli, interni ed internazionali, piuttosto che il risultato di un piano organico e razionale di sviluppo intrapreso consapevolmente dalla classe dirigente liberale. Le parole di Emilio Gentile ben riassumono quanto appena detto: Lo stato giolittiano, adeguandosi meccanicamente alla dinamica sociale, non svolse un ruolo attivo di promotore, coordinatore e razionalizzatore dello sviluppo, per impedire la dispersione clientelare delle risorse finanziarie e per garantire la loro destinazione verso settori che interessavano la collettività nazionale e non soltanto singoli gruppi. Gli interventi dello Stato non furono eVettuati secondo un programma organico di sviluppo di lungo periodo ma, in molti casi, risposero alle pressioni di interessi privati o di categoria, spesso di settori parassitari e meno competitivi, o vennero concessi per motivi di politica locale. Le collusioni fra politica governativa e interessi particolari o extraeconomici, la mancata elaborazione di un piano programmato degli interventi, la visione generalmente tradizionale della gestione del potere in un’epoca di intensi conflitti sociali e politici furono gli ostacoli principali, oltre quelli oggettivi, che impedirono un processo più ordinato ed eYciente di industrializzazione.9

Fu in questo contesto che si venne aVermando prepotentemente il fenomeno dell’antigiolittismo, costituito dalle molteplici correnti di pensiero che da destra a sinistra si opponevano al sistema di potere giolittiano. La politica giolittiana era accusata, tra le altre cose, di aver tutelato gli interessi dei ceti industriali, finanziari e commerciali, nonché di aver costituito una sorta di «dittatura parlamentare»10 . Fu dal fenomeno dell’antigiolittismo che si originò e si alimentò il mito dello Stato nuovo, ossia la convinzione — comune tanto ai nazionalisti quanto ai sindacalisti rivoluzionari — che occorresse dar vita ad un regime politico nuovo, ad una nuova Italia capace di soddisfare le esigenze e le aspirazioni della nazione11 . All’interno di questo variegato fronte antigiolittiano si distinsero i nazionalisti, sia per il fervore politico che li animava che per le idee 9. E. Gentile, Le origini dell’Italia contemporanea. L’età giolittiana, Bari, Laterza, 2011, p. 61. 10. Ivi, pp. 198–208. 11. Per una disamina completa del mito dello Stato nuovo nella cultura politica italiana della prima metà del Novecento cfr. E. Gentile, Il mito dello Stato nuovo. Dal radicalismo nazionale al fascismo, Bari, Laterza, 2002.

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originali che misero in campo. I nazionalisti reclamavano lo sviluppo della produzione, esaltavano la dirompente vitalità della borghesia industriale e sostenevano che la classe operaia dovesse essere disciplinata e organizzata per lo sviluppo della produzione. Gli appartenenti a questo gruppo si appellavano alla solidarietà nazionale, al dovere ed alla disciplina per il conseguimento della grandezza della nazione. Enrico Corradini fu tra quegli intellettuali nazionalisti che più si impegnarono nella divulgazione del nuovo credo politico. Corradini deprecava l’«animo servile» dell’Italia liberale, denunciando «l’invasione dei capitali stranieri, i prodotti delle nostre industrie battuti in casa nostra dai prodotti stranieri»12 . Ancor più interessante risulta essere la sua trasposizione del concetto di lotta di classe sul piano internazionale, tale da contrapporre in una antinomia dialettica le nazioni proletarie alle nazioni ricche13 . Corradini sosteneva che allo stesso modo in cui esistono le classi proletarie, esistono anche le nazioni proletarie, nazioni in cui «le condizioni di vita sono con svantaggio sottoposte a quelle di altre nazioni»14 : così era per l’Italia, nazione «materialmente e moralmente proletaria», debole e sottoposta all’egemonia delle altre nazioni15 . Nel 1911 Corradini esplicò in alcuni punti il pensiero centrale e fondamentale del nazionalismo16 : a) le condizioni di vita d’una nazione sono coordinate alle condizioni di vita delle altre nazioni; b) per alcune nazioni questa coordinazione è subordinazione, è dipendenza, dipendenza economica e morale, anche se non esista la dipendenza politica; c) verità, l’Italia è appunto una di quelle nazioni che dipendono economicamente e moralmente dalle altre, sebbene da cinquant’anni sia cessata la sua dipendenza politica; d) verità, questa dipendenza dell’Italia è oltremodo grave; e) ed ultima, l’Italia deve riscattarsi da questa dipendenza economica e morale, come già si riscattò da quella politica, perché può e ne ha l’obbligo. 12. E. Corradini, Principii di nazionalismo, in L. Strappini (a cura di), Scritti e Discorsi. 1901–1914, Torino, Einaudi, 1980, p. 167. 13. Per un approfondimento del pensiero di Corradini cfr. E. Corradini, L’unità e la potenza delle Nazioni, Firenze, Vallecchi, 1922. 14. E. Corradini, Principii di nazionalismo, in L. Strappini (a cura di), Scritti e Discorsi. 1901–1914, cit., p. 173. 15. Ibidem. 16. E. Corradini, Le nazioni proletarie e il nazionalismo, in L. Strappini (a cura di), Scritti e Discorsi. 1901–1914, cit., p. 181.

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Una delle soluzioni proposte da Corradini per il riscatto dell’Italia dall’oppressione morale ed economica straniera, era lo sviluppo della produzione, concetto che l’intellettuale toscano contrapponeva a quello di distribuzione, caro al socialismo. Noi tutti vediamo ormai che la distribuzione socialista è diventata distruttiva. Non è più distribuzione, ma distruzione. Distruzione delle forze produttive della terra e dell’industria, distruzione della stessa civiltà del mondo [. . . ]. Di contro sta la legge nostra, la legge della produzione, legge della nazione e delle nazioni.17

A Corradini faceva eco Alfredo Rocco, altra eminente personalità del nazionalismo italiano. Rocco sosteneva che l’Italia fosse una nazione povera, priva delle materie prime utili allo sviluppo industriale, e costretta a competere con nazioni più potenti e ricche. Egli criticava duramente il socialismo, che a suo dire si preoccupava solo di distribuire la ricchezza italiana fra le varie classi sociali, dimenticando quindi di «tutelare gli interessi della nazione italiana, che è una nazione di lavoratori, contro le nazioni capitaliste straniere che la opprimono, e la sfruttano»18 . Dunque, oltre ad evidenziare il carattere di povertà dell’Italia, Rocco ne enfatizzava quello proletario, descrivendola come una Nazione il cui reale problema non consisteva nella distribuzione, ma nella produzione della ricchezza19 . Il nazionalismo doveva «mirare a rendere più intensa e più ricca la produzione interna»20 , disciplinando e contenendo la lotta di classe nell’ottica di una concezione organica della Nazione, nell’auspicio della nascita di un nuovo e moderno «sindacalismo nazionale»21 . Il nazionalismo dice che il problema economico italiano, non è un problema di distribuzione, ma di aumento della ricchezza. Non è distribuendo diversamente le nostre ancor miserabili ricchezze, che i lavoratori italiani aumenteranno il loro benessere: con una diversa distribuzione del reddito 17. E. Corradini, Nazionalismo e socialismo, in L. Strappini (a cura di), Scritti e Discorsi. 1901–1914, cit., pp. 259–260. 18. A. Rocco, Il problema economico italiano, in Scritti e discorsi politici, vol. I, Milano, GiuVrè, 1938, p. 14. 19. «La politica economica nazionale parte da due premesse aVatto opposte a quella del socialismo: essa aVerma che il problema economico italiano è problema di produzione e non di distribuzione della ricchezza» (A. Rocco, Il problema economico italiano, cit., p. 18.). 20. Ivi, p. 21. 21. Ivi, p. 25.

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Antonio Messina italiano sparirebbero alcuni pochi ricchi, ma tutti resterebbero egualmente poveri. Il benessere economico dei lavoratori italiani crescerà solo con l’aumento globale del reddito e della ricchezza italiana.22

Rocco considerava l’aumento della produzione non soltanto come la migliore strategia per risolvere il problema economico italiano, ma anche la soluzione per accrescere la ricchezza e il benessere degli individui, che avrebbero così potuto assolvere pienamente i loro doveri nazionali23 . Alla base del pensiero del politico e giurista campano stava la critica al liberismo ed al liberoscambismo, considerati una seria minaccia per lo sviluppo economico della nazione. A giudizio di Rocco, il libero scambio «è ottimo nei paesi che hanno condizioni naturalmente favorevoli per alcune grandi industrie, e in cui tali industrie hanno raggiunto un grado eminente di sviluppo economico e tecnico e si sono aVermate vittoriosamente sui mercati mondiali; ma è pessimo nei paesi naturalmente poveri e con industrie ancora bambine. In questi, una protezione consapevole, illuminata e contenuta nei limiti suYcienti, rappresenta la salvezza guadagnata a presso di uno sforzo penoso ma indispensabile»24 . Le idee di Rocco e dei nazionalisti trovarono terreno fertile anche in campo artistico, che vide l’aVermarsi del futurismo, movimento che esaltava l’industria ed auspicava una forte spinta modernizzatrice per l’Italia, all’insegna del mito produttivista e dell’unità di capitale e lavoro. I precetti del futurismo erano talmente simbiotici con quelli del nazionalismo da rendere il primo «l’espressione letteraria del nazionalismo spinta all’iperbole»25 . Ma i nazionalisti ed i futuristi non furono le uniche correnti politiche e culturali a propagandare il mito del produttivismo. Ad essi si aggiunsero infatti i sindacalisti nazionali, i cui teorici sostenevano che «fosse la nazione e non il movimento internazionale della classe operaia il veicolo adeguato per lo scopo rivoluzionario»26 . Le divergenze tra i sindacalisti nazionali ed i marxisti ortodossi erano sostanziali: «I sindacalisti erano fautori della produzione rivoluzionaria; i mar22. A. Rocco, Che cosa è il nazionalismo, cit., p. 85. 23. A. Rocco, Economia liberale, economia socialista ed economia nazionale, cit., p. 54. 24. Ivi, p. 58. 25. A.J. Gregor, L’ideologia del fascismo, Milano, Il Borghese, 1974, p. 88. 26. A.J. Gregor, Riflessioni sul fascismo italiano. Un’intervista di Antonio Messina, Firenze, Apice libri, 2016, p. 54.

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xisti ortodossi erano fautori della distribuzione rivoluzionaria»27 . I sindacalisti nazionali riconoscevano che nessuna rivoluzione sociale sarebbe stata possibile fintanto che l’Italia fosse rimasta in uno status pre–industriale. La priorità era quindi quella di spingere verso una rapida industrializzazione della penisola, sostituendo alla lotta di classe la collaborazione nazionale, ai fini della produzione e dello sviluppo. Sindacalisti come Sergio Panunzio sostenevano la necessità di «inculcare un’etica della produzione tra le classi operaie» e di industrializzare l’Italia incanalando l’impulso creativo del capitalismo «verso un massiccio sviluppo economico»28 . Per Filippo Corridoni la missione storica del sindacalismo consisteva nell’aiutare la borghesia capitalista nel processo di industrializzazione dell’Italia, e per far ciò era indispensabile il conseguimento della pace e della stabilità sociale29 . All’incirca nello stesso periodo, Angelo Oliviero Olivetti propagandava l’avvento di un sindacalismo elitario e aristocratico, che tendesse ad «instaurare una civiltà specifica e nuova dei produttori»30 . Olivetti era convinto che la classe non dovesse «negare la patria», ma armonizzarsi con essa: L’interesse operaio non è di negare la patria, ma di avervi una sempre maggiore parte. Come non è nel campo economico di voler diminuire la produzione della ricchezza, ma anzi di intensificarla e di conquistarne una maggiore porzione.31

L’auspicio di Olivetti era quello di una società di produttori che avrebbe dovuto ordinare l’Italia di domani nei termini di una «grande azienda produttiva», sulla base dell’istanza produttivistica del sindacalismo: Spingere l’azienda produttiva alla più alta produzione, ossia alla maggior ricchezza, è la nota originale del sindacalismo, e volere che questo aumento generale sia nell’interesse di tutti è la sua interpretazione rivoluzionaria del divenire sociale.32 27. Ibidem. 28. A.J. Gregor, Sergio Panunzio. Il sindacalismo ed il fondamento razionale del fascismo, Roma, Volpe, 1978, p. 19. 29. Cfr. F. Corridoni, Sindacalismo e Repubblica, Roma, Idrovolante, 2015. 30. A.O. Olivetti, Dal sindacalismo rivoluzionario al corporativismo, Roma, Bonacci, 1984, p. 42. 31. Ivi, p. 53. 32. Ivi, p. 54.

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Le idee dei sindacalisti nazionali e dei nazionalisti di sviluppo si intersecarono tra loro e uscirono raVorzate dal crogiolo della Grande Guerra. Sindacalisti interventisti e nazionalisti si batterono aYnché l’Italia entrasse in guerra, per la realizzazione di una rivoluzione nazionale. Molti di loro, come Filippo Corridoni, partirono volontari nel conflitto, e tutti loro vedevano nella guerra l’unica possibilità di una rigenerazione nazionale, una «profonda rigenerazione etica collettiva destinata a cancellare ogni egoismo individuale o di classe»33 . E fu proprio nel fango delle trincee che si realizzò quella coesione sociale tanto agognata dai rivoluzionari radicali. Proletari e borghesi si ritrovarono a combattere insieme per una entità collettiva destinata a trascendere le classi e imporsi come mito preponderante della prima metà del XX secolo: l’idea della comunità nazionale. 2. Il programma produttivistico del fascismo Al termine della prima guerra mondiale Alfredo Rocco e i nazionalisti avevano abbozzato un programma economico piuttosto articolato, il cui fulcro era il rapido sviluppo della nazione34 , quest’ultima considerata come un’entità superiore ai singoli individui. Rocco assegnava allo Stato il compito di realizzare i fini supremi ed immanenti della nazione, e quindi di «stimolare, favorire, determinare [. . . ] la intensificazione fino agli estremi limiti possibili della produzione agricola ed industriale»35 . Lo Stato avrebbe dovuto dare un forte impulso anche all’agricoltura, attraverso una sua progressiva meccanicizzazione, con l’ausilio di macchine e concimi chimici; avrebbe inoltre dovuto perfezionare le colture e trasformare il latifondo, nonché imporre una politica doganale di eVettiva protezione delle attività produttive 33. A. Ventrone, La seduzione totalitaria, Roma, Donzelli, 2003, p. 29. 34. Bisogna precisare che Alfredo Rocco volle sempre ribadire la diVerenza sostanziale tra il suo nazionalismo ed il materialismo socialista. Lo sviluppo economico auspicato da Rocco era parte di una concezione organica di più ampio respiro. Diceva infatti Rocco: «Noi ci preoccupiamo soprattutto della produzione, perché senza una grande produzione l’Italia sarebbe schiacciata rapidamente e irrimediabilmente nella gara della concorrenza mondiale non per una concezione materialistica dello Stato o della Nazione o in omaggio ad un materialismo storico che abbiamo sempre ripudiato, ma perché nella vita moderna, fra gli strumenti necessari della grandezza della Nazione, è la ricchezza economica» (A. Rocco, Il programma politico dell’Associazione nazionalista, cit., vol. II, p. 483.). 35. A. Rocco, Il programma nazionalista, cit., vol. II, p. 502.

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nazionali. Per sviluppare l’industria era necessario una forte espansione economica verso i mercati stranieri, per cui Rocco auspicava un incremento del tonnellaggio mercantile, sino a raggiungere la soglia minima dei cinque milioni di tonnellate36 . Sul piano sociale, Rocco si appellava ai principi della solidarietà nazionale e della disciplina, aYnché sorgesse «nella classe operaia la coscienza della sua intima solidarietà con l’industria per cui lavora», rendendosi necessaria «una politica di collaborazione fra i vari elementi della produzione»37 . Per agevolare questa collaborazione, lo Stato sarebbe dovuto intervenire per regolare i conflitti, nell’interesse supremo della nazione e della produzione. Nel congresso nazionalista tenutosi a Roma il 16 marzo 1919, Rocco aVermò che il principio corporativo sarebbe diventato la base della vita sociale e politica della nazione, e che occorreva trasmettere negli spiriti una coscienza nazionale, aYnché quel principio corporativo potesse «adempiere adeguatamente alla sua funzione nazionale»38 . Mentre i nazionalisti delineavano questo programma, il 23 marzo 1919 un ex esponente di spicco del Partito Socialista Italiano, Benito Mussolini, fondava a Milano i Fasci Italiani di Combattimento. Mussolini era stato un socialista molto vicino alle correnti del sindacalismo rivoluzionario, e nel corso degli anni aveva maturato una sua concezione del socialismo. La «teoria mussoliniana del socialismo nazionale [. . . ] sorse progressivamente e in parallelo ad un processo di revisione del marxismo»39 , fino alla rottura del 1914, quando il futuro duce, riconosciuta l’importanza costituita dal sentimento dell’identità nazionale all’interno di una comunità storica, decise di optare per l’interventismo nella considerazione che la guerra avrebbe costituito l’inizio della rivoluzione. Fu questo un momento molto delicato della storia politica e sociale d’Italia: il «socialismo nazionale» di Mussolini costituì una «tappa fondamentale nella transizione verso il fascismo»40 . Nella sintesi socialista nazionale di Mussolini convergevano idee che erano state proprie del nazionalismo e del sindacalismo nazionale, ma che egli rielaborò in maniera originale, talvolta diVerendo profondamente da queste41 . Ciò che rimase invariato, tuttavia, fu il desiderio 36. 37. 38. 39. 40. 41.

Ivi, p. 503. Ivi, p. 504. A. Rocco, Il programma politico dell’Associazione nazionalista, cit., vol. II, p. 490. Z. Sternhell, Nascita dell’ideologia fascista, Milano, Baldini&Castoldi, 2002, p. 297. Ibidem. Così scrive Sternhell: «Diventato ideologicamente autonomo, il “mussolinismo” è il

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di una spinta verso un rapido sviluppo dell’Italia. «C’è dunque — scriveva Mussolini nel 1919 — un interesse comune, che a un dato momento elide e cancella la lotta di classe: l’interesse di produrre, [. . . ] al vecchio socialismo politico e parassitario va sostituendosi il sindacalismo nazionale o socialismo produttivista»42 . Un anno prima aveva cambiato il sottotitolo del suo giornale da «Quotidiano socialista» a «Quotidiano dei combattenti e dei produttori». Mussolini si appellava alla «collaborazione intensa, armonica degli industriali e degli operai, nella produzione»43 ; in quanto erede del nazionalismo e del sindacalismo nazionale, il fascismo intendeva portare l’Italia fuori dalla sua condizione di paese economicamente arretrato, in un mondo competitivo e dominato dalle potenze industrialmente avanzate. All’incontro tenutosi a San Sepolcro per la fondazione dei Fasci italiani di Combattimento, Mussolini aVermò di volersi mettere «sul terreno del sindacalismo nazionale», riconoscendo due sole realtà: «La realtà della produzione e quella della nazione»44 . Vedeva nell’Italia una nazione proletaria che doveva opporsi ad ogni «imperialismo straniero» ed in particolar modo all’«egemonia delle attuali potenze plutocratiche»45 . Nel luglio 1919 Mussolini sintetizzò il programma del fascismo con la formula «massimo di produzione; massimo di benessere», considerando i mezzi per raggiungere tale scopo contingenti alle necessità del momento46 . In un discorso agli operai di Dalmine, Mussolini disse che il proletariato non doveva «negare la nazione», ma armonizzarsi con essa47 . Ecco perché più tardi Sergio Panunzio poteva sostenere che «l’oririsultato finale di un miscuglio di elementi diversi che, fusi insieme, contribuiscono a dar luogo ad un tutto che non ha più molto in comune con le componenti di partenza. E qui l’impronta personale di Mussolini è decisiva. È anzi necessario insistere su questo punto. Contrariamente a quanto pensa, per esempio, uno studioso assai avvertito quale R. Vivarelli (che ben rappresenta del resto l’interpretazione comunemente accettata), il nazionalismo di Mussolini diVerisce sostanzialmente dal nazionalismo classico. Mussolini non è un nazionalista nel senso tradizionale del termine, e non fa proprie tutte le abituali rivendicazioni del nazionalismo» (Z. Sternhell, Nascita dell’ideologia fascista, cit., p. 298.). 42. B. Mussolini, Opera Omnia, a cura di E. e D. Susmel, 44 voll., Firenze, La Fenice, 1951–1963, vol. XII, p. 250. 43. B. Mussolini, Opera Omnia, cit., vol. XII, p. 12. 44. R. De Felice (a cura di), Autobiografia del fascismo. Antologia di testi fascisti 1919–1945, Torino, Einaudi, 2001, p. 15. 45. Ivi, p. 17. 46. B. Mussolini, Opera Omnia, cit., vol. XIII, p. 254. 47. B. Mussolini, Opera Omnia, cit., vol. XII, pp. 314–316.

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ginalità sociale del fascismo sta nella fusione del Sindacalismo e del Nazionalismo»48 ; concetto che sarà ripetuto più tardi da Georges Sorel, principale teorico del sindacalismo rivoluzionario, il quale scriverà che Mussolini aveva inventato qualcosa che mancava nei suoi libri: «L’unione del nazionale e del sociale»49 . Nei Postulati del 1920, i fascisti sostenevano che il «massimo di produzione e il massimo di benessere» poteva ottenersi indifferentemente con la proprietà privata o con l’istituzione della proprietà collettiva: «In certi casi è soltanto col mantenere la proprietà privata che si può ottenere il massimo di produzione; in certi altri casi, il massimo di produzione attraverso forme varie di proprietà o di economia collettiva»50. A questo punto i temi fondamentali dell’ideologia fascista erano già chiari: glorificazione e sublimazione della Nazione e dei suoi sacrifici in guerra; coesione e disciplina nazionale; produttivismo e rapido sviluppo economico; collaborazione tra le classi e corporativismo; lotta contro l’oppressione egemonica delle «potenze plutocratiche». Gli anni che seguirono furono quelli della crescita esponenziale del fascismo, che arrivò ad imporsi in ogni città, borgo e paese della penisola. Come conseguenza naturale, nel novembre 1921 i Fasci di Combattimento furono trasformati in Partito Nazionale Fascista. Il nuovo programma fascista prevedeva l’istituzione delle corporazioni sia «come espressione della solidarietà nazionale» che come «mezzo di sviluppo della produzione», e preconizzava un deciso intervento statale per la protezione di alcuni rami dell’industria «da una troppo pericolosa concorrenza estera», stimolando in tal modo «le energie produttive del Paese» per salvaguardarlo da un «parassitario sfruttamento dell’economia nazionale da parte di gruppi plutocratici»51. Nello stesso anno Mussolini, influenzato dall’idealismo gentiliano, accettò lo «Stato etico» quale fulcro della dottrina fascista52. Da 48. S. Panunzio, Il Sindacalismo Nazionale, in A. James Gregor, Sergio Panunzio. Il sindacalismo ed il fondamento razionale del fascismo, Roma, Volpe, 1978, p. 174. 49. Disse Sorel: «Mussolini n’est pas un homme moins extraordinaire que Lénine [. . . ] Il n’est pas un socialiste à la sauce bourgeoise; ce n’est pas lui qui ait jamais cru au socialisme parlementaire; il a une étonnante compréhension de la masse italienne et il a inventé quelque chose qui n’est pas dans mes livres: l’union du national et du social [. . . ]. C’est plutôt la théorie de la violence prise comme seul moyen d’imposer ses buts, qui a pu lui donner certaines ideés» (B. Bauchau, Entre le farfelu et l’humain: les marques du sorélisme dans “Les Conquérants”, in «Revue d’Histoire littéraire de la France», LXXXVII, n. 1, gennaio–febbraio 1987, p. 96). 50. R. De Felice (a cura di), Autobiografia del fascismo, cit., p. 27. 51. R. De Felice (a cura di), Autobiografia del fascismo, cit., pp. 92–94. 52. A.J. Gregor, L’ideologia del fascismo, cit., pp. 152–153.

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quel momento il fascismo impresse un nuovo slancio alla sua vocazione totalitaria53, e si preparò alla conquista ed al monopolio del potere per mezzo del neonato partito–milizia rigidamente armato e disciplinato. Il 28 ottobre 1922 i fascisti marciarono su Roma e Vittorio Emanuele III affidò a Mussolini l’incarico di formare un nuovo Governo. Era giunta l’ora per i fascisti di mettere in pratica i postulati produttivistici che nazionalisti, futuristi e sindacalisti avevano auspicato. 3. Il fascismo al potere: una fase liberista? Qualcuno ha sostenuto che ai fascisti mancava «una chiara linea di politica economica da proporre al paese in alternativa a quelle sino ad allora seguite», in quanto «il fascismo non possedeva una propria visione coerente dell’economia e del modo di aVrontarli»54 . Giudizi simili sono stati ripresi in una più recente opera dedicata alla politica economica fascista, dove viene evidenziata l’apparente contraddizione tra le «proclamazioni roboanti di ispirazione liberista (“basta con lo Stato postino, ferroviere, assicuratore”) delle fasi iniziali all’elaborazione di “un piano regolatore dell’economia” al tempo delle sanzioni e dell’autarchia»55 . Alla stregua di questi giudizi, sembrerebbe che il fascismo fosse giunto al potere “ideologicamente disarmato”, «una tabula rasa da un punto di vista teorico, un campo di conquista» entro cui «battagliano nazionalisti corporativisti (Rocco) e liberisti (Pantaleoni)»56 . In realtà, come qui si è cercato di dimostrare, il fascismo giunse al potere con un programma economico di ampio respiro per la penisola, che trovava le sue basi nel produttivismo dei sindacalisti nazionali e nella teoria dell’“economia nazionale” elaborata qualche anno prima da Alfredo Rocco. Si può quindi condividere il giudizio di Sternhell, secondo cui «fin dall’inizio della loro azione politica, Mussolini ed i suoi uomini sono ben consapevoli degli 53. Tuttavia è bene precisare che il fascismo non divenne totalitario nel 1921, ma che sorse già totalitario nel 1919, come sostenuto in F. Germinario, Fascismo 1919. Mito politico e nazionalizzazione delle masse, Pisa, BFS, 2011. 54. G. Toniolo, L’economia dell’Italia fascista, Roma–Bari, Laterza, 1980, pp. 43–44. 55. D. Fausto (a cura di), Intervento pubblico e politica economica fascista, Milano, FrancoAngeli, 2007, p. IX. 56. L. Michelini, Liberalismo, nazionalismo, fascismo. Stato e mercato, corporativismo e liberismo, nel pensiero economico del nazionalismo italiano (1900–1923), Milano, M&B, 1999, pp. 25–26.

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obiettivi da raggiungere. Al potere giungono, quindi, muniti di un corpus ideologico consistente, che si presenta come un’alternativa globale al liberalismo e al marxismo»57 . Se, come aVerma Sternhell, vi fu coerenza nei progetti istituzionali dei fascisti, è dunque illogico sostenere che il pensiero fascista abbia attraversato una fase liberista, per poi approdare ad una fase dirigista in nome di un mero pragmatismo senza idee. Al contrario, è suYciente leggere i programmi economici del fascismo per rendersi conto di come essi «confermano un indirizzo d’interventismo corresponsabilizzante delle categorie sociali ed economiche che non è nella tradizione del pensiero liberista»58 . I tentativi di Pantaleoni di influenzare il fascismo per condurlo all’ortodossia liberista «nella speranza di vedere realizzati i propositi della Destra storica, anti democratica, ma eYciente»59 , si rivelarono fallimentari. Liberisti come Luigi Einaudi, che credettero di scorgere nei capisaldi economici del fascismo i «vecchi principi immortali del liberalismo»60 , dovettero presto ricredersi. Pochi esponenti dell’élite tradizionale avevano infatti compreso che il fascismo rappresentava un modello alternativo di sistema, rivoluzionario e totalitario, non ascrivibile alle categorie di “destra” o di “sinistra”61 . In una società borghese che pratica la democrazia liberale, un’ideologia che spinge l’esaltazione dello Stato fino a identificarlo con la nazione e aVerma il primato del politico fino a concepire lo Stato come unico signore di tutta la vita sociale e di ogni valore spirituale, un’ideologia che si concepisce, in ultima analisi, come l’antitesi del liberalismo e dell’individualismo è un’ideologia rivoluzionaria.62 57. Z. Sternhell, Nascita dell’ideologia fascista, cit., p. 320. 58. G. Rasi, La politica economica e i conti della nazione, in «Annali dell’economia italiana», vol. VII, t. 1 (1923–1929), Milano, Ipsoa, 1982, pp. 72–73. 59. L. Michelini, Liberalismo, nazionalismo, fascismo, cit., p. 25. 60. R. vivarelli, Liberismo, protezionismo, fascismo. Un giudizio di Luigi Einaudi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011, p. 133 61. Come scriverà più tardi Giovanni Gentile: «In realtà, Mussolini non appartiene né alla destra né alla sinistra; e perciò può essere il Duce di un popolo e l’eroe di un’epoca storica [. . . ]. Il suo Stato non si divide e non si disperde. È totalitario, perché concentra ed unifica tutte le forze della Nazione in un’idea che è persona, e perciò ha coscienza di sé, e volontà. Non può lasciare fuori del proprio ambito né forze spirituali né materiali; e come si sforza di assorbire e disciplinare gli elementi intellettuali (arte, scienza, religione), non poteva non proporsi di contenere e risolvere in sé le stesse attività economiche» (G. Gentile, Politica e cultura, a cura di H.A. Cavallera, Firenze, Le Lettere, 1991, pp. 439–443). 62. Z. Sternhell, Né destra né sinistra. La nascita dell’ideologia fascista, Napoli, Akropolis, 1984, p. 16.

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Fin dalle sue origini il fascismo si propose di eliminare la distinzione liberale fra vita pubblica e vita privata, in vista di una «nazionalizzazione integrale della vita umana»63 . Agli inizi del 1922 Sergio Panunzio, uno dei più influenti teorici del fascismo, aveva pubblicato Lo Stato di diritto, opera nella quale auspicava la formazione di uno «stato totale», di uno stato inteso come organismo «etico–pedagogico», che «diYcilmente avrebbe potuto essere l’individualistico stato “manchesteriano” così caro ai liberisti economici»64 . Già «nei primi tempi del fascismo al potere» il regime di Mussolini «rivelava la vocazione totalitaria di una esordiente religione politica, che si apprestava a servirsi degli altari della patria per celebrare, in un nuovo Stato integralista, il culto del littorio»65 . Se tutti questi giudizi sono corretti, è chiaro che lo “Stato integralista” (o “stato totale”, come lo definiva Panunzio) di Mussolini non avrebbe mai potuto accettare le teorie economiche del liberismo ortodosso. Difatti è evidente che «nella concezione mussoliniana dello Stato erano implicite preoccupazioni tutorie, organizzative, imprenditoriali, politiche, economiche, educative e morali, che andavano al di là di qualsiasi cosa ritenuta legittima per uno Stato liberale di tipo manchesteriano»66 . La concezione dello Stato manchesteriano si innesta nel solco del contrattualismo e della teoria atomistica della società. Per la contradizion che nol consente il fascismo non poteva essere liberista (e quindi una diretta filiazione del pensiero giusnaturalista) ed al contempo essere totalitario (e quindi negazione recisa di ogni liberismo). Escluso che il fascismo fosse liberista67 , come spiegare dal 1922 al 1925 la prassi politica del ministro Alberto de Stefani, molto vicina alle teorie liberiste? 63. F. Germinario, Fascismo 1919, cit., p. 147. 64. A.J. Gregor, La politica economica del fascismo, in «La memoria storica e la sua difesa», Roma, Volpe, 1977, pp. 148–149. 65. E. Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Roma–Bari, Laterza, 2007, pp. 53–54. 66. A.J. Gregor, L’ideologia del fascismo, cit., p. 155. 67. Non vi è alcuna prova che dimostri che i teorici del fascismo abbiano mai preso in considerazione l’idea che il liberismo economico potesse essere la base sostenibile del loro sistema economico. Esistono, invece, molte prove che dimostrano il contrario. Ad esempio Rocco sosteneva che «l’indiVerenza dello stato liberale, ligio al dogma ottimistico che la libertà sana tutti i mali che essa stessa produce» aveva «incoraggiato» tutte le «degenerazioni» (A. Rocco, Crisi dello stato e sindacati, cit., vol. II, p. 639).

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Una spiegazione convincete sembra essere quella fornita da Antonio Cardini, in un saggio pubblicato nel 1990, dove riassume chiaramente l’«apparente contraddizione tra fase liberista e fase interventista del regime»: L’interventismo statale dei nazionalisti, tanto organicamente concepito sulla base delle idee di Rocco, subì un’attenuazione all’inizio degli anni venti, all’avvento del fascismo, e al momento della crisi dello stato liberale, per ragioni espresse dallo stesso Rocco, limpidamente e senza contraddizione con le posizioni precedenti. Sostenne infatti al congresso nazionalista del 1919, e ribadì più volte in seguito, che egli, per il momento, combatteva “l’ingerenza sempre maggiore che lo Stato prende nella vita economica della Nazione”. Era dunque divenuto liberista? No, aggiungeva significativamente in un brano assai importante, che delineava la futura duplice condotta economica del fascismo, inizialmente liberista, poi fortemente interventista, e la spiegava: “Non intendiamo certo che lo stato si disinteressi delle funzioni economiche”. Da accantonare era solo il debole stato liberale: l’economia andava purificata dal suo inconcludente intervento, essendo stato assolutamente “incompetente” in materia. Occorreva l’azione potente, coordinata, organizzatrice del nuovo Stato. Allora si sarebbe avuto non solo “intervento”, ma “direzione” dell’economia. Tutto era perciò rimandato a quando “saranno creati gli organi che possono eVettivamente intervenire in modo competente”. Il che avvenne nel 1925 con le riforme legislative ideate da Rocco e dai “18 Soloni”, tra i quali l’economista Arias. Allora sarebbero stati “creati i grandi sindacati di produzione che saranno anche organi degli interessi statali”; allora “potremo pretendere che lo Stato si ingerisca con mezzi ed organi adatti nella vita economica della nazione”. Questo era il programma del fascismo, lucidamente espresso da Rocco ed esposto come eVettivamente si svolse. Ciò spiega l’apparente contraddizione tra fase liberista e fase interventista del regime.68

Nell’attesa, quindi, di edificare gli organi rivoluzionari dello “Stato Nuovo” (unica entità che nazionalisti e fascisti giudicavano come “legittimata” ad intervenire nella sfera economica della nazione), il fascismo dovette attuare la sua politica produttivistica liberando l’iniziativa privata dalle rigidità di un controllo statale che si era dimostrato un ostacolo allo sviluppo economico della nazione69 , senza 68. A. Cardini, L’elaborazione di una “Teoria dell’Economia Nazionale” fra il 1914 e il 1930, in «Quaderni di Storia dell’Economia Politica», anno VIII, n. 2–3, 1990, p. 388. 69. Così si legge in una pubblicazione del 1924: «I Governi del periodo postbellico, fino all’avvento del Governo Fascista, hanno seguito una politica economica e finanziaria demagogica di confisca del capitale e di inceppi molteplici alia libera produzione della ricchezza [. . . ]. L’incremento naturale della produzione era dunque disturbato oltre che da quei fattori di carattere economico, insiti all’atto medesimo, e dai rischi di carattere internazionale, anche

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tuttavia sposare la dottrina del liberismo ortodosso, ma preparando il terreno per la fase successiva. 4. Lo sviluppo economico dal 1922 al 1929 Giunto al potere, Mussolini aVermò che l’Italia non sarebbe più stata disposta a subire l’umiliazione dell’arretratezza70 , ma avrebbe, al contrario, intrapreso il cammino verso «un’era di sviluppo»71 . I lavoratori furono chiamati alla collaborazione e alla disciplina nell’interesse della nazione. Era solo «con la collaborazione fra tutti gli elementi della produzione»72 che, secondo Mussolini, sarebbe stato possibile aumentare il benessere individuale e collettivo, una collaborazione che per esplicarsi presupponeva la «pace sociale» e la «continuità del lavoro»73 . I risultati di questa politica non tardarono ad arrivare: le giornate di lavoro perdute dall’industria erano state 18 milioni e 800 mila nel 1919, 16 milioni e 400 mila nel 1920, 7 milioni e 700 mila nel 1921, 6 milioni e 600 mila nel 1922, per poi calare repentinamente nel primo anno di governo fascista ad appena 295.92974 . In quegli anni l’Italia conobbe un tasso di crescita rimasto insuperato fino al «miracolo economico» degli anni Cinquanta. Il reddito nazionale, che nel 1921 era di 95 miliardi (prezzi del 1938), salì a 124 miliardi e 600 milioni nel 1929 (+ 31%), con il conseguente aumento del reddito pro–capite da 2.486 lire a 3.079 lire. L’indice della produzione manifatturiera (facendo uguale a 100 il prodotto del 1938) passò da 54 nel 1921 a 90 nel 1929 (incremento del 66%). I risparmi aumentarono da un minimo di 2.596 milioni di lire nel 1921 (prezzi 1938) a 13.053 nel 1925. La disoccupazione scese da 541.775 unità alla fine del 1921 a 122.200 alla fine del 1925. da quelli politici e sociali interni. Un sistema di equilibrio è sottoposto a leggi che non si possono impunemente violare senza far cadere il sistema in un equilibrio instabile che rende oltremodo diYcile la formazione del risparmio e il suo aZusso verso impieghi produttivi» (L. Gangemi, La politica economica e finanziaria del Governo Fascista nel periodo dei pieni poteri, Bologna, Zanichelli, 1924, p. 9). 70. B. Mussolini, Opera Omnia, cit., vol. XIX, p. 58. 71. B. Mussolini, Opera Omnia, cit., vol. XIX, p. 3. 72. B. Mussolini, Opera Omnia, cit., vol. XX, p. 56. 73. B. Mussolini, Opera Omnia, cit., vol. XXI, p. 124. 74. P. Melograni, Gli industriali e Mussolini. Rapporti tra Confindustria e fascismo dal 1919 al 1929, Milano, Longanesi, 1980, p. 52.

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La produzione di energia elettrica passò da 4.540 milioni di kWh nel 1921 a 10.380 milioni nel 1929, con un incremento del 128%. La produzione di ghisa passò da 61.000 tonnellate prodotte nel 1921, a 671.000 tonnellate nel 1929. L’acciaio da 700.000 a 2.122.000 tonnellate. La produzione cantieristica raggiunse nel decennio 1921–31 la media, non mai toccata dall’industria italiana, di 107.000 tonnellate di naviglio varato ogni anno, con un vertice di 250.000 tonnellate nel 1926. Il tonnellaggio netto totale della marina mercantile aumentò da 835.000 tonnellate nel 1920 a 1.887.000 tonnellate nel 1926. Anche nel settore chimico si registrarono ingenti progressi: il valore prodotto da 451 milioni nel 1921, registrava un incremento di 1.733 milioni nel 1929. Nel 1926 venne fondata l’AGIP, e la produzione di benzina passò da 100 tonnellate nel 1924 a 22.000 nel 1929. La produzione dei filati di cotone crebbe del 65%, passando da 133 a 220.000 tonnellate. La produzione di seta artificiale passò da 1.480 a più di 32.300 tonnellate, collocandosi al secondo posto nel mondo dopo gli Stati Uniti. Anche l’industria alimentare vide la crescita del suo prodotto lordo fra il 1923 e il 1929 da 6,74 miliardi di lire (a prezzi 1938) a 7,31 miliardi. Sviluppo parimenti intensissimo veniva registrato dall’industria edilizia, che quadruplicava la sua attività75 . In quel periodo l’Italia fascista sostenne un ritmo di crescita che, escluso il Giappone, non aveva eguali nel mondo: gli Stati Uniti sostennero un ritmo di crescita inferiore, mentre Austria, Germania, Gran Bretagna e Unione Sovietica videro un regresso delle loro economie76 . Fu in quegli stessi anni che il Regime, attraverso l’istituzione dell’ENIOS, introdusse la razionalizzazione scientifica del lavoro negli impianti industriali italiani, fornendo così un forte impulso all’incremento della produzione77 . 75. Tutte le cifre riportate sono state desunte dai seguenti volumi: R. Romeo, Breve storia della grande industria in Italia 1861–1961, cit., pp. 105–118; S.B. Clough, Storia dell’economia italiana dal 1861 ad oggi, Rocca San Casciano, Cappelli, 1965, pp. 298–299; F. Minnitti, Gli sviluppi della produzione, in «Annali dell’economia italiana», vol. VII, t. 2 (1923–1929), cit., pp. 93–105; A.J. Gregor, Italian Fascism and Developmental Dictatorship, New Jersey, Princeton University Press, 1979, pp. 142–144; P. Melograni, Gli industriali e Mussolini, cit., p. 50; S. La Francesca, La politica economica del fascismo, Roma–Bari, Laterza, 1973, pp. 29–31; V. Castronovo, Storia economica d’Italia. Dall’Ottocento ai giorni nostri, Torino, Einaudi, 2013, pp. 183–184. 76. W.A. Lewis, Breve storia economica del mondo (1919–1939), Napoli, Giannini, 1968, p. 39. 77. F. Steri (a cura di), Taylorismo e fascismo. Le origini dell’organizzazione scientifica del lavoro nell’industria italiana, Roma, Editrice Sindacale Italiana, 1979, pp. 22–23, 261; G. Pedrocco, Fascismo e nuove tecnologie, Bologna, CLUEB, 1980, pp. 55–56.

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Oltre ai progressi del settore industriale, il Regime comprese che per raVorzare le basi dell’economia italiana dovevano essere risolti alcuni problemi che si trascinavano dal dopoguerra, come quelli relativi all’aumento della liquidità e della circolazione monetaria, che rischiavano di condurre il paese verso l’inflazione e la svalutazione della lira. Il problema si fece tanto più urgente quando la continua svalutazione della moneta rendeva sempre più onerose le importazioni, che data la notevole quantità di beni agricoli e alimentari importati, determinava un crescente passivo della bilancia dei pagamenti (a causa delle spinte inflazionistiche il deficit tra esportazione ed importazioni passò da 5 miliardi nel 1924 ad 8 miliardi nel 1925, con un aumento del 57%)78 . Durante l’estate del 1926 la lira era caduta a livelli mai raggiunti: 31,60 per il dollaro, 153,68 per la sterlina79 . In un discorso tenuto a Pesaro il 18 agosto 1926 Mussolini manifestò la decisione di stabilizzare la lira ad un tasso internazionale di circa 90 lire per sterlina80 . In una intervista rilasciata lo stesso anno, Mussolini precisò i termini del problema: aVermò che l’Italia importava troppo, con «deleteri eVetti sull’economia del paese». Ammise che la stabilizzazione della lira avrebbe potuto danneggiare qualche categoria della popolazione, soggiungendo però: «Meglio che qualche minoranza soVra anziché tutta intera la nazione». Si disse ancora una volta risoluto a «sviluppare la prosperità economica dell’Italia fino al maggiore punto possibile»81 . Nel 1927 la stabilizzazione della lira venne finalmente raggiunta, sulla base di 19 lire per un dollaro e di 92,46 lire per ogni sterlina82 . Come previsto da Mussolini, la stabilizzazione ebbe delle ricadute negative su alcuni settori industriali, ed i critici hanno addebitato ciò ad una deflazione troppo rapida ed alla scelta di allinearsi ad una quota considerata eccessiva. Economisti come Keynes preconizzarono una crisi, convinti che la politica deflazionistica di Mussolini avrebbe danneggiato le capacità italiane di esportare beni all’estero e di ricavare investimenti dal mercato internazionale. In realtà nel 1928 la crisi era già stata superata83 , e si può concordare con il giudizio di De Felice secondo cui la politica di quota novanta 78. 79. 80. 81. 82. 83.

P. Melograni, Gli industriali e Mussolini, cit., p. 174. S. La Francesca, La politica economica del fascismo, cit., p. 17. B. Mussolini, Opera Omnia, cit., vol. XXII, p. 197. Ivi, pp. 169–170. R. Romeo, Breve storia della grande industria in Italia 1861–1961, cit., p. 121. V. Zamagni, Dalla rivoluzione industriale all’integrazione europea, cit., p. 156.

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sarebbe stata, senza la grande crisi del ’29, «un intervento chirurgico utile e in grado, bene o male, di far uscire l’economia italiana da una situazione instabile di crisi latente e d’insicurezza perniciosa per il suo sviluppo»84 . Quanto alle motivazioni che indussero Mussolini ad una deflazione così rapida ed eccessiva, con i costi ed i sacrifici che ne derivarono85 , non sembra che possano ridursi ad una semplicistica questione di prestigio. L’operazione si rese necessaria, secondo Valerio Castronovo, a causa delle «ristrettezze dei margini di manovra» e delle «riserve inglesi sulle garanzie oVerte dall’Italia per il successo dell’operazione», per cui era «impraticabile un piano di risanamento non troppo pesante, analogo a quello belga»86 . Da parte loro, i fascisti sostennero che una stabilizzazione della lira a quota 120 avrebbe danneggiato i risparmiatori e i lavoratori, tutti coloro cioè che vivevano di reddito fisso e di pensioni87 . Oltre a ciò, pesarono indubbiamente delle motivazioni di natura politica. La stabilizzazione della lira a quota 90 servì a Mussolini per estendere il suo potere sulla leadership economica, una «mossa volta a depoten-

84. R. De Felice, Mussolini il fascista, vol. II, Torino, Einaudi, 1995, p. 263. 85. Per far fronte ai sacrifici imposti dalla stabilizzazione della lira furono ridotti i salari del 10% (Mussolini scrivendo al Re aveva riconosciuto che «gli operai e i contadini hanno pagato il loro contributo alla rivalutazione»), ma si cercò di compensare questa decurtazione con una bilanciata riduzione dei prezzi. Tra i principali provvedimenti vanno ricordati: «L’alleggerimento del carico fiscale, la riduzione dei salari e dell’indennità di carovita, la riduzione dei canoni di aYtto a non più di quattro volte l’anteguerra, la fissazione dei prezzi dei generi di prima necessità da parte dei comuni» (G. Rasi, La politica economica e i conti della nazione, in «Annali dell’economia italiana», vol. VII, t. 1 (1923–1929), cit., pp. 102–103). Ad ogni modo, dal 1922 al 1929 le masse popolari poterono avvantaggiarsi per l’aumento dell’occupazione industriale, la maggior spesa per i consumi pubblici e per le politiche assistenziali del sistema previdenziale fascista. Nei quinquenni ’21–25, ’26–30 e ’31–35 l’indice dell’aumento del reddito nazionale pro–capite (1938=100) e l’indice delle retribuzioni reali, seguivano il seguente andamento medio: 85,6, 92,1, 90,7 il primo; 117,6, 117,0 e 120 il secondo (S. La Francesca, La politica economica del fascismo, cit., pp. 30–31). 86. V. Castronovo, Storia economica d’Italia, cit., p. 187. 87. Si legge in una pubblicazione curata dal Partico Nazionale Fascista: «Fedele al suo programma il Governo aVrontò i rischi e i sacrifici che imponeva la stabilizzazione a quota 90, pur di recare vantaggio ai risparmiatori, ai portatori di titoli di Stato e alla grande massa dei lavoratori che almeno in un primo tempo si sarebbe certamente avvantaggiata dal minor costo della vita. Rifiutò la stabilizzazione a quota 120; questa si presentava più facile e comoda, sia per il tesoro, sia per l’adattamento al nuovo metro monetario dell’economia del Paese, ma avrebbe colpito duramente i risparmiatori e i lavoratori: cioè la Nazione» (PNF, L’Economia fascista, La Libreria dello Stato, 1936, pp. 60–61).

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ziare le capacità di condizionamento dell’alta banca sul regime»88 e «per far comprendere al mondo economico che in Italia l’unica volontà politica doveva essere quella del duce»89 . Sintomatico appare in quest’ottica il giudizio espresso nel 1942 da Nello Quilici, giornalista e scrittore fascista: Mussolini non ha fatto la rivoluzione per riportare l’Italia alle forme politiche ed economiche dell’anteguerra [. . . ]. Quello che egli vuole è proprio l’antitesi del sistema liberal–borghese [. . . ]. La borghesia salva bensì il principio di proprietà [. . . ] ma deve consentire a non esercitarla a suo libito: [. . . ] deve rinunciare, senza proteste, alla libertà economica, che ha trascinato il paese presso l’abisso [. . . ]. Mussolini, con il discorso di Pesaro, su quota novanta, dà l’ultimo colpo di maglio [. . . ]. Gli orgogliosi e refrattari superstiti del capitalismo di guerra o grossi proprietari terrieri, che tentano il sabotaggio della nuova politica sociale, sono obbligati a cadere in ginocchio: lo Stato fascista è padrone di loro, può farli fallire se non ubbidiscono, o salvarli se rientrano nei ranghi. La politica della deflazione è una terribile macchina stritolatrice di egoismo individuali. È il rullo compressore delle estreme resistenze borghesi.90

Qualsiasi danno la politica di stabilizzazione della lira poté aver arrecato all’economia italiana fu solo breve e momentaneo e non intaccò la più ampia politica di sviluppo intrapresa dal fascismo. L’indice generale della produzione italiana, che da 165,8 nel 1926 era sceso a 163,7 nel 1927, riprendeva l’andamento ascensionale, risalendo a 182,9 nel 1928 e a 204,5 nel 192991 . In definitiva, si può concordare con il giudizio espresso da Vera Zamagni, secondo cui «in complesso, gli anni Venti furono abbastanza positivi per l’economia italiana, che vide la sua produzione industriale aumentare sensibilmente un po’ in tutti i settori», e che quindi «non è accettabile l’interpretazione tradizionale di un’economia italiana che ristagnò durante il fascismo»92 .

88. S. La Francesca, La politica economica del fascismo, cit., p. 46. 89. R. De Felice, Mussolini il fascista, vol. II, Torino, Einaudi, 1995, p. 282. 90. N. Quilici, La borghesia italiana. Origini, sviluppo e insuYcienza, Varese–Milano, Istituto per gli studi di politica Internazionale, 1942, pp. 416–417). 91. G. De Angelis, La politica monetaria e creditizia e i rapporti con l’estero, in «Annali dell’economia italiana», vol. VII, t. 1 (1923–1929), cit., p. 174. 92. V. Zamagni, Dalla rivoluzione industriale all’integrazione europea, cit., p. 156.

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5. La “battaglia del grano” e la bonifica integrale La politica di quota novanta fu accompagnata dalla promulgazione — avvenuta il 21 aprile 1927 — della Carta del Lavoro, un documento che ribadiva le linee d’azione che avrebbero ispirato la politica economica fascista. Secondo i principi espressi sulla Carta, lo Stato fascista avrebbe tutelato il lavoro in quanto dovere sociale. Nell’interesse dei produttori (lavoratori e datori di lavoro) e della potenza nazionale, gli obiettivi della produzione sarebbero stati unitari. Il documento precisò il concetto di Corporazione quale organizzazione unitaria della produzione, riconosciuta come organo dello Stato. In quanto funzione di interesse della comunità nazionale, l’iniziativa privata sarebbe stata responsabile dell’indirizzo della produzione di fronte allo Stato. Lo Stato fascista si riservava di intervenire nella produzione economica, qualora lo avesse ritenuto opportuno, sancendo quindi la disciplina della produzione nell’interesse collettivo. In quegli anni gli sforzi del Regime si indirizzarono verso una più intensa politica di sviluppo della produzione nazionale di grano, con lo scopo di rendere l’Italia autosuYciente sul piano produttivo, ridurre le importazioni di frumento e coprire così l’intero fabbisogno nazionale. Fra il 1921 ed il 1925 le importazioni agricole ammontavano in media a 5,6 miliardi di lire l’anno, il che corrispondeva a un terzo appena delle importazioni complessive del paese. Nello stesso lasso di tempo le esportazioni agricole non raggiungevano che i 3 miliardi di lire l’anno, con un conseguente deficit medio di 2,6 miliardi93 . Nel 1925 Mussolini annunciò l’avvio di un sistematico programma d’accrescimento della produzione di cereali e grano nella penisola. La «battaglia del grano», come fu definita dalla propaganda, rappresentò il primo sforzo programmatico fascista di rendere la nazione il più autosuYciente possibile. I risultati non si lasciarono attendere: i rendimenti aumentarono del 50% in pochi anni e la produzione passò dai 50 milioni di quintali del 1924 a circa 80 milioni di quintali all’inizio degli anni trenta, cosa «che consentì all’Italia di coprire totalmente il proprio fabbisogno»94 . Le importazioni di grano dall’estero calarono da una media di 23 milioni di quintali nel 1925–28 a 5 milioni nel 93. A. N¸tzenadel, “Battaglia del grano”, in Dizionario del fascismo, vol. I, Torino, Einaudi, 2005, p. 150. 94. P. Milza, Mussolini, Roma, Gruppo Editoriale L’Espresso, 2005, p. 419.

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1935–4095 . Oltre a raggiungere una certa autosuYcienza alimentare, la «battaglia del grano» permise all’Italia di ridurre il crescente disavanzo della bilancia commerciale, non essendo più il paese costretto a spendere il 15% del totale per le importazioni di grano e cereali96 . Il successo della battaglia fu favorito dal protezionismo introdotto dal Regime, con l’aumento del dazio sul grano d’importazione, portato nel 1928 a lire 40,40, nel ’29 a 51,40, nel ’30 a 60,60 e nel ’31 a lire 7597 . Oltre ai benefici immediati, la «battaglia del grano» diede un forte impulso alla modernizzazione del settore agrario. Venne sviluppato e modernizzato in maniera efficace il settore primario con contributi finanziari mirati, l’impiego delle trebbiatrici e delle più moderne macchine agricole introdotte massicciamente dopo il 1925, la diffusione dei concimi chimici, l’uso di fertilizzanti azotati salini in dosi elevate, la promozione di nuove varietà di cereali resistenti a determinate malattie parassitarie, un miglior processo della semina e una più forte diffusione della rotazione soprattutto nelle regioni meridionali, dove spesso il frumento era monocolturale. Le autorità governative distribuirono un milione circa di stampati e materiale informativo con consigli per migliorare le tecniche colturali. Le Cattedre ambulanti d’agricoltura, squadre agro–biologiche viaggianti il cui personale docente arrivò a toccare le 350 unità98 , furono mandate in tutta la nazione per introdurre le più moderne tecniche di coltivazione e di innovazione tecnologica nel settore primario. Nel 1928, un vasto programma di redistribuzione e potenziamento delle terre fu introdotto, in ultima analisi vennero impiegate più di tre volte delle risorse spese da tutti i precedenti governi dall’unità d’Italia in poi99 . Il programma di redistribuzione delle terre e di rinnovamento tecnologico dell’agricoltura vanno ricordate tra gli sforzi più riusciti del regime. Furono estese le superfici di coltivazione da 300.000 a 400.000 ettari, con un notevole aumento dei raccolti. La produzione media di quintali di grano per ettaro salì da 10,5 quintali del periodo 1909–1913 a 15,9 quintali nel 1933100 . La battaglia del grano fornì dunque un impulso importante all’ammodernamento dell’agricoltura italiana. 95. 96. 97. 98. 99. 100.

V. Castronovo, Storia economica d’Italia, cit., p. 194. Ivi, p. 190. M. Ruzzenenti, L’Autarchia verde, Milano, Jaca Book, 2011, pp. 20–21. A. N¸tzenadel, Battaglia del grano, cit., pp. 150–151. A.J. Gregor, Italian Fascism and Developmental Dictatorship, cit., p. 145. S.B. Clough, Storia dell’economia italiana dal 1861 ad oggi, cit., p. 317.

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Il 24 dicembre 1928 venne approvata la legge Mussolini per la bonifica integrale, allo scopo di risanare e bonificare vaste zone di territorio della penisola al fine di renderle abilitabili e trasformarle in aree di agricoltura fiorenti. Complessivamente vennero spesi 2 miliardi e mezzo di lire, di cui due terzi a carico dello Stato e un terzo distribuito tra i proprietari101 . Le motivazioni economiche della bonifica integrale sono evidenti: attraverso di essa il Regime mirava a rilanciare gli investimenti privati per «allargare il mercato sia industriale che agrario e provocare un aumento dei consumi, incidendo quindi attivamente sul sistema economico»102 . Lo Stato assunse un ruolo attivo «per trasformare larghe zone del paese in strutture produttive di tipo moderno, in un processo funzionale sia all’industria chimica e meccanica, sia ai settori più avanzati del settore agricolo»103 . Alla fine degli anni trenta, lo Stato fascista aveva investito oltre 6,5 miliardi di lire nel progetto di bonifica, contro i 702 milioni spesi da tutti i precedenti governi tra il 1870 ed il 1922104 . I Consorzi di bonifica coprirono una superficie di oltre 3 milioni di ettari, in tutte le regioni del paese. La superficie che subì trasformazioni più incisive dall’attività di bonifica si aggirò intorno ai 250.000 ettari105 , dando lavoro a 77.776 uomini106 . La bonifica integrale fu accompagnata da un ingente piano urbanistico che vide la nascita di nuove città e di tanti piccoli centri urbani. Nel breve periodo la politica rurale intrapresa dal governo fascista conseguì risultati positivi. Entro il 1927 l’indice generale della produzione agraria (che era caduto dopo il 1928 da 97 a 88) risalì all’indice 100. E, grazie alla promozione di un mercato agricolo energicamente sostenuto dalla spesa pubblica, i settori industriali dediti alla produzione di fertilizzanti e di impianti di lavorazione ebbero la possibilità di risollevarsi rapidamente dalle diYcoltà sopraggiunte in seguito alla stabilizzazione monetaria.107

Contemporaneamente a questi impegni, il Governo fascista varò un intenso programma edilizio di opere pubbliche, così da espan101. P. Bevilacqua, Bonifica, in Dizionario del fascismo, cit., p. 182. 102. A. Staderini, Agricoltura, in «Annali dell’economia italiana», vol. VII, t. 2 (1923–1929), cit., p. 59. 103. Ibidem. 104. P. Bevilacqua, Bonifica, in Dizionario del fascismo, cit., p. 183. 105. Ibidem. 106. S.B. Clough, Storia dell’economia italiana dal 1861 ad oggi, cit., p. 318. 107. V. Castronovo, Storia economica d’Italia, cit., p. 192.

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dere le infrastrutture di trasporto e comunicazione, e sviluppare il sistema ferroviario, stradale e marittimo della nazione. Tutto il paese divenne un enorme cantiere impegnato nella costruzione di strade, scuole, ospedali, case popolari, stazioni ferroviarie, uYci postali, palazzi governativi, città nuove e risanamenti urbanistici, al punto che «la produzione architettonica italiana è stata enorme, tale da superare ampiamente quella di molte altre nazioni», giacché «nella prima metà del Novecento nessuno Stato ha investito politicamente nell’architettura pubblica come l’Italia fascista»108 . Tra i risultati più tangibili del periodo si può annoverare l’elettrificazione delle ferrovie, che assurse quasi a simbolo dell’opera di modernizzazione intrapresa dal Regime. Come scriveva Il Popolo d’Italia nel 1938: Prima dell’avvento del fascismo, il nostro Paese, pur segnando un’opera da pioniere nel campo della trazione elettrica, era riuscito ad estendere il nuovo sistema su 700 km in 20 anni di lavoro. Dal 1922 al 1932, lo sviluppo complessivo si è elevato a 1950 km.109

Secondo Stefano Cecini, il fascismo aspirava a presentarsi «come il principale protagonista del progresso civile della nazione», contrapponendo «alla società tradizionale, lenta e arcaica, una società nuova, proiettata verso il futuro, impostata su ritmi automatici e sempre più veloci»; dati questi presupposti, «il ventennio fascista rappresentò un periodo di sviluppo per le ferrovie italiane [. . . ] un simbolo di quanto il fascismo aveva realizzato in questi anni in ogni settore della vita nazionale»110 . 6. La seconda fase dello sviluppo (1929–1939) Nel 1929 gli Stati Uniti e l’Europa furono investiti da una crisi senza precedenti, determinata dal crollo della borsa di Wall Street, che provocò la caduta degli indici della produzione e dell’occupazione in 108. P. Nicoloso, Mussolini architetto. Propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista, Torino, Einaudi, 2008, p. XV. 109. Primati delle ferrovie italiane, in “Il Popolo d’Italia”, 25 ottobre 1938. 110. S. Cecini, Italia “cantiere sonante”. I flussi di spesa per i lavori pubblici: età liberale ed epoca fascista a confronto (1871–1940), Tesi di Dottorato, La Sapienza – Università di Roma, 2009, pp. 423, 425, 433.

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tutti i paesi industrializzati. La crisi determinò in Italia un aumento della disoccupazione, nonché una contrazione della produzione e delle esportazioni. Le misure adottate dai governi non fascisti in Europa e negli Stati Uniti furono improntate a forti interventi pubblici in economia e all’adozione di politiche protezionistiche, così come era stato prefigurato nella pubblicistica dottrinaria del fascismo111 . In Italia, infatti, la crisi ebbe come eVetto quello di accelerare le ambizioni totalitarie del fascismo, la riduzione della diVerenza tra pubblico e privato, l’allargamento delle sfere d’intervento da parte di uno Stato che aspirava a controllare ogni aspetto della vita della nazione. Lo Stato dirigista ed imprenditore che si sviluppò in Italia a partire dagli anni Trenta non fu soltanto una risposta alla crisi economica del ’29, ma il risultato della forte vocazione totalitaria del fascismo, che proseguì il suo corso senza soluzione di continuità. Nel 1925 Mussolini era stato quanto mai esplicito: «Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato»112 . Due anni più tardi Arnaldo Mussolini scriveva su Il Popolo d’Italia che il fascismo, dopo la sua vittoria politica, era pronto a dominare «i posti di comando delle forze economiche» della nazione113 . Nel ’27 un altro dirigente fascista, aVermava che il fascismo, dopo aver «aVrontato e sgominato sul terreno politico le forze disgregatrici della nazione», si apprestava a combattere la «vecchia classe dirigente economica»114 . Negli stessi anni il fascismo si impegnava nella progressiva «fascistizzazione» dello Stato. Mentre la «rivoluzione fascista» smantellava l’intera impalcatura dello Stato liberale, Mussolini si preparava ad estendere il controllo politico sull’economia italiana. La politica di quota 90 gli servì per imporre la sua autorità sull’élite economica tradizionale, che malgrado gli sforzi compiuti non riuscì a frenare o bloccare l’avanzata del totalitarismo fascista. La Carta del Lavoro del 1927 gli diede modo di preannunciare l’intervento dello Stato nella produ111. Così dirà Mussolini a Yvon De Begnac: «Prima ancora che la cultura economica di Keynes indicasse nell’ingresso dello Stato entro il devastato campo dell’imprenditoria privata la via di uscita dalla crisi del 1929, abbiamo fatto quel che egli, poi, consigliò agli inglesi, agli americani» (Y. De Begnac, in F. Perfetti (a cura di), Taccuini mussoliniani, Bologna, il Mulino, 1990, p. 442). 112. B. Mussolini, Opera Omnia, cit., vol. XXI, p. 425. 113. A. Mussolini, «Il Popolo d’Italia», 5 luglio 1927. 114. Il discorso di Giacomo Suardo, sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, è citato in R. De Felice, Mussolini il fascista, vol. II, Torino, Einaudi, 1995, p. 283.

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zione economica per mezzo del controllo, dell’incoraggiamento o della gestione diretta. In un articolo su Educazione fascista, Carmelo Licitra scrisse che «nessun documento uYciale ha mai aVermato così chiaramente questa natura etica dello Stato in generale ed in specie rispetto all’attività economica, come la Carta del Lavoro nelle sue premesse fondamentali e in tutto lo spirito che la governa»115 . In effetti, terminata la prima fase della politica economica fascista, era giunto il tempo della seconda fase: la creazione di un’economia autosufficiente, capace di resistere alle imposture e alle prepotenze delle nazioni «plutocratiche» e capitalistiche. Nella prima fase il Regime aveva sviluppato rapidamente l’industria e raddoppiato la produzione, raggiungendo traguardi simili a quelli conseguiti negli anni culminanti della rivoluzione industriale116 . La «battaglia del grano» aveva modernizzato il settore agricolo e garantito all’Italia una certa autosufficienza alimentare. Occorreva adesso gettare le basi dello sviluppo autarchico delle industrie–chiave della penisola, per fare dell’Italia una grande potenza, libera dalla soggezione economica — e quindi politica — esercitata dalle «demoplutocrazie». In un discorso tenuto il primo ottobre 1930, Mussolini disse che lo Stato non poteva disinteressarsi delle sorti dell’economia del paese117 . Nel dicembre dello stesso anno affermò che lo Stato, in quanto «espressione politica, giuridica, morale, volitiva della Nazione», non poteva estraniarsi dall’intervenire, perché quando «un’industria, un istituto di credito, un commercio, una banca controlla miliardi e dà lavoro a diecine di migliaia di persone» è impensabile che «la sua fortuna o la sua sfortuna sia un affare personale del direttore dell’azienda o degli azionisti di quella industria»118 . Nel 1933, presiedendo l’assemblea generale del Consiglio nazionale delle corporazioni, Mussolini si chiese se la crisi economica scoppiata nel ’29 fosse una crisi “nel” sistema o “del” sistema, rispondendo: La crisi è penetrata così profondamente nel sistema che è diventata una crisi del sistema. Non è più un trauma, è una malattia costituzionale. Oggi possiamo aVermare che il modo di produzione capitalistica è superato e con esso la teoria del liberalismo economico che l’ha illustrato ed apologizzato.119 115. 116. 117. 118. 119.

C. Licitra, La Carta del Lavoro, in «Educazione Fascista», anno V, n. 4, 1927, pp. 228–229. V. Castronovo, Storia economica d’Italia, cit., p. 183. B. Mussolini, Opera Omnia, cit., vol. XXIV, p. 259. Ivi, pp. 324–325. B. Mussolini, Opera Omnia, cit., vol. XXVI, p. 87.

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Sentenziando la morte del capitalismo e del liberismo, Mussolini esaltò la nuova economia corporativa come un’economia controllata e disciplinata dallo Stato. Per tutto il ventennio i teorici fascisti presentarono il loro modello economico non soltanto come la soluzione più efficace per risolvere la crisi, ma soprattutto come un’alternativa globale al liberalismo economico. Leggiamo in uno dei testi per i corsi di preparazione politica curati dal PNF: Lo Stato fascista non crede alle armonie economiche realizzantisi con il totale assenteismo di uno Stato abulico che si limita a prendere atto dei risultati raggiunti dai singoli individui; lo Stato fascista è Stato etico appunto perché ha una sua consapevolezza e una sua volontà da realizzare. È lo Stato che non si estrania dai problemi dell’economia, ma li studia, li incita, li guida, li frena, perché non concepisce il divorzio fra politica ed economia ma considera che questa discenda da quella.120

È in quest’ottica che va inquadrata la creazione dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), che sarebbe riduttivo spiegare soltanto come una «conseguenza involontaria della crisi»121. Se l’occasione offerta per la creazione dell’IRI fu la necessità di salvare il sistema bancario italiano esposto alla crisi, de facto l’IRI si può configurare come uno dei tanti enti parastatali creati dal fascismo «non come espedienti temporanei ed episodici per risolvere problemi specifici e contingenti, ma come il mezzo più immediato ed efficace per sottoporre l’economia al controllo politico»122. Grazie all’IRI lo Stato riuscì ad espandere il controllo fascista su quasi tutti i settori dell’economia. Lo Stato, che come asseriva Ugo Spirito era «obbligato dai principi stessi della rivoluzione fascista a trasformare l’economia nazionale in un’economia consapevolmente organica»123, si servì dell’IRI come strumento per estendere sull’economia un controllo sempre più esteso e onnicomprensivo, segnando il definitivo trapasso dall’economia liberale–liberista alla nuova economia autarchico–corporativa. Entro la fine degli anni Trenta, circa l’80% del credito disponibile nell’economia italiana era controllato, direttamente o indirettamente, dallo Stato. Più precisamente, l’IRI si trovava a controllare il 100% dell’industria 120. PNF (a cura di), L’Economia fascista, cit., p. 9. 121. G. Toniolo (a cura di), L’Italia e l’economia mondiale. Dall’Unità a oggi, Venezia, Marsilio, 2013, p. 28. 122. A.J. Gregor, La politica economica del fascismo, cit., pp. 173–174. 123. U. Spirito, Il Corporativismo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009, p. 618.

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siderurgica bellica, dell’industria di costruzioni di artiglieria e dell’estrazione di carbone, il 90% dei cantieri navali, l’80% delle società di navigazione e delle imprese produttrici di locomotori, il 40% della siderurgia, il 30% dell’elettricità, quasi tutta la telefonia, varie imprese meccaniche (fra cui l’Alfa Romeo), più quote minori di altri settori, oltre ad un consistente patrimonio immobiliare e alle tre ex–banche miste124. In sostanza, l’IRI controllava il pacchetto di maggioranza in imprese con un capitale azionario pari al 44,15% delle S.p.A. e quasi il 18% del capitale complessivo della nazione125. All’epoca, nessun altro Stato esercitava un controllo tanto esteso sulla propria economia, ad eccezione dell’Unione Sovietica126. Un altro tassello fondamentale di questo mosaico fu la riforma bancaria operata dal regime fascista per porre gli istituti di credito «alle dipendenze della pianificazione economica dello Stato corporativo»127 . Con la legge bancaria del 1936 si attuò una separazione fra banca e industria, fra credito a breve e a lungo termine, e l’attività bancaria venne definita come funzione d’interesse pubblico, ponendo «le basi per l’acquisizione allo Stato di una funzione sia d’indirizzo generale sia di controllo selettivo del credito», conferendo in tal modo al governo «la gestione e l’impiego delle risorse finanziarie a sostegno del bilancio dello Stato e della politica economica governativa»128 . Grazie alla politica dei salvataggi attuata dall’IRI, gestita da esperti funzionari come Beneduce e Menichella, l’Italia resse alla crisi e si avviò verso la ripresa, che avvenne a partire dal 1934–35. Ad aiutarla concorse un evento destinato ad aprire nuovi scenari sul piano internazionale: la guerra d’Abissinia, che ruppe i delicati equilibri geopolitici dell’Europa. L’impresa etiopica fu certamente concepita da Mussolini come soluzione per attingere a potenziali fonti di materie prime fondamentali per lo sviluppo autarchico della penisola129, e come valvola di sfogo per la

124. V. Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia (1861–1990), Bologna, il Mulino, 1990, p. 385. 125. S. La Francesca, La politica economica del fascismo, cit., p. 70. 126. R. Romeo, Breve storia della grande industria in Italia 1861–1961, cit., p. 136; R. Sarti, Fascismo e grande industria, 1919–1940, Milano, Moizzi, 1977, p. 154. 127. G. De Angelis, La politica monetaria e creditizia e i rapporti con l’estero, in «Annali dell’economia italiana», vol. VIII, t. 1 (1930–1938), cit., p. 228. 128. V. Castronovo (a cura di), Storia dell’IRI. Dalle origini al dopoguerra, vol. I, Roma–Bari, Laterza, 2012, p. 33. 129. G.L. Podest‡, Il mito dell’Impero. Economia, politica e lavoro nelle colonie italiane dell’Africa orientale 1898–1941, Torino, Giappichelli, 2004, pp. 240–242.

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potenziale espansione demografica italiana130. Ma, sopra ogni cosa, la campagna servì a Mussolini per conseguire un più grande traguardo, ossia «quello di arrivare a un profondo riassetto dell’equilibrio strategico del Mediterraneo che avrebbe consentito all’Italia di proiettarsi, su un piede di parità con Francia e Inghilterra, verso il Medio Oriente e gli Oceani»131. L’avventura coloniale costituiva per Mussolini l’occasione di riscatto di una nazione giovane e proletaria, che ambiva a «sottrarsi al destino di Media Potenza al quale una secolare e infausta dinamica storica l’aveva condannata»132. Quando nel 1935 l’Italia fascista invase l’Etiopia, la Società delle Nazioni si affrettò ad applicare delle sanzioni economiche contro l’Italia, e la propaganda fascista ebbe buon gioco nel presentarle come atto di «una solidarietà mai fin’allora constatata fra grandi plutocrazie e piccoli Stati» allo scopo di «strozzare la Nazione italiana, impegnata in una guerra lontana e rischiosa»133. Mussolini parlò delle sanzioni economiche come di un’arma in mano alle nazioni ricche per mantenere le nazioni povere in uno stato di perenne sudditanza134. Le conseguenze della campagna etiopica furono duplici: da una parte l’Italia si ritrovò politicamente isolata, considerata dai maggiori paesi industrializzati come una potenza aggressiva e irresponsabile, quindi inevitabilmente costretta a stringere rapporti diplomatici sempre più intensi con la Germania di Hitler. Dall’altro si sviluppò una generale corsa agli armamenti da parte di tutte le nazioni, in previsione dello scoppio di un nuovo futuro conflitto135. Come conseguenza di tutto ciò, 130. A.J. Gregor, Riflessioni sul fascismo italiano, cit., p. 99. 131. E. Di Rienzo, Il «Gioco degli Imperi». La Guerra d’Etiopia e le origini del secondo conflitto mondiale, Roma, Società Editrice Dante Alighieri, 2016, p. 6. 132. Ibidem. 133. PNF (a cura di), Venti Anni, vol. I, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1942, p. 67. 134. «La pena di morte, per asfissia economica, decretata dagli umanitari di Ginevra, non fu mai irrogata prima del 1935, non sarà probabilmente mai più tentata e viene soltanto oggi inferta all’Italia, perché povera di materie prime, il che mette a riparo dalle pene del codice ginevrino i popoli armati delle loro ricchezze e delle maggiori armi che la ricchezza consente» (B. Mussolini, Opera Omnia, cit., vol. XXVII, pp. 198–199). 135. Il 21 dicembre 1935 il Presidente americano Roosvelt aveva rivelato all’ambasciatore italiano a Washington, Augusto Rosso, di «nutrire serie apprensioni per la possibilità di un conflitto europeo provocato dalla gara di armamenti da lui considerata una conseguenza della tensione originata dal conflitto etiopico». Roosvelt condivideva in larga misura le obiezioni di Rosso, secondo cui «non era certamente da imputarsi all’Italia ma piuttosto all’Inghilterra se una questione puramente coloniale si era trasformata in crisi europea nonostante gli sforzi del governo di Roma di risolvere i suoi problemi di sicurezza e di espansione col minimo disturbo possibile della situazione mondiale» (E. Di Rienzo, Il «Gioco degli Imperi», cit. p. 2).

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Mussolini intensificò i programmi autarchici dell’economia italiana, allo scopo di accrescere lo sviluppo militare della nazione. Su questa scia, Il 23 marzo 1936 Mussolini parlò della creazione di un piano regolatore per lo sviluppo autarchico dell’economia italiana, grazie al quale l’Italia avrebbe potuto «liberarsi nella misura più larga dalle servitù economiche straniere», raggiungendo al contempo «il massimo livello utile di autonomia economica per il tempo di pace e soprattutto per il tempo di guerra»136. Non furono le sanzioni ad inaugurare il piano regolatore, seppur fornirono un clima ideale per la sua più efficace realizzazione. Il discorso di Mussolini impresse un’ulteriore accelerazione alla politica autarchica e totalitaria dello Stato fascista. Esemplare in questo clima l’intervento di Niccolò Giani, direttore della Scuola di Mistica Fascista, che nel 1939 partecipò al primo convegno di studi autarchici. Secondo Giani il «punto rivoluzionario d’origine del pensiero fascista nel campo economico» era rappresentato dalla «assoluta e totale dipendenza della economia dalla politica». Partendo da questo assunto, Giani affermava che corporativismo ed autarchia rappresentavano «la successione logica e storica dell’affermarsi dei principi politici del fascismo», e che pertanto «solo i superficiali possono aver pensato, ieri al corporativismo, e possono oggi pensare all’autarchia come a un sistema eccezionale, come a un regime economico di guerra destinato ad essere smobilitato appena le circostanze lo consentiranno»137. L’indirizzo autarchico emerso in modo così accentuato negli anni Trenta s’intrecciò con i principi totalitari dello Stato fascista, al punto che come ha scritto Gian Luca Podestà: L’autarchia rappresentava dunque anche una concezione politica totalizzante per la mobilitazione del paese per almeno quattro ragioni: accelerava lo sfruttamento delle risorse naturali nazionali e dell’Impero; rafforzava l’intervento e il controllo dello Stato in ambito economico anche nelle relazioni con l’estero; inoculava nelle masse quell’etica della povertà e della sobrietà concepita dal duce come strumento fondamentale per educare fascisticamente gli italiani ai sacrifici a beneficio della collettività [. . . ]; infine, mobilitava in modo permanente (in apparenza, almeno) l’intera comunità nazionale verso quell’idea della guerra concepita dal duce come il momento più elevato della vita degli Stati e degli uomini, e tale da esaltare le qualità morali e spirituali delle singole collettività nazionali.138 136. B. Mussolini, Opera Omnia, cit., vol. XXVII, p. 245. 137. N. Giani, Mistica del fascismo, Corporativismo e Autarchia, in «Dottrina Fascista», anno III, marzo–maggio 1939, pp. 184–188. 138. G.L. Podest‡, Nell’economia fascista: autarchia, colonie, riarmo, in Storia dell’IRI. Dalle origini al dopoguerra, cit., p. 423.

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Tra il 1935 ed il 1937 furono redatti i cosiddetti piani autarchici, i cui obiettivi sarebbero stati conseguiti entro il 1941. Un ruolo fondamentale nell’attuazione di questi piani venne rivestito dalle corporazioni, istituite per legge nel 1934. Ad ogni singola corporazione spettò l’elaborazione del piano autarchico per il proprio specifico settore di competenza, mentre fu devoluto al Comitato corporativo centrale, costituito in Commissione suprema dell’autarchia, il coordinamento dei singoli piani. La politica autarchica s‘intrecciò strettamente con il corporativismo fascista. Se l’autarchia fu, in sostanza, un ambizioso progetto di programmazione industriale, finalizzato a riorientare i legami internazionali della struttura produttiva italiana a ridefinire la gerarchia e le interdipendenze tra settori, il corporativismo costituì, per lo più, il tentativo di ripensare le forme, i principi e i contenuti della rappresentanza e i confini tra Stato e attori economici.139

I risultati di tale politica non si lasciarono attendere. L’IRI, che nel 1937 fu trasformato in ente permanente, colse l’occasione oVerta dall’autarchia «per procedere a una complessiva ristrutturazione dei settori portanti dell’industria nazionale e per porre le basi della modernizzazione del settore chimico», al punto che «gli investimenti operati allora sarebbero stati strategici nel momento in cui dall’economia di guerra si fosse passati a più normali condizioni dei mercati internazionali, oVrendo all’industria italiana, raVorzata dall’innovazione tecnologica e dall’aumento della produttività, prospettive più favorevoli»140 . Gli investimenti e le innovazioni apportate dall’IRI e dalla politica autarchica del regime nel campo industriale diedero subito i loro frutti: nel triennio 1935–37 il prodotto interno lordo aumentò a una media annua del 5,2%, la produzione agricola del 3,7% e quella manifatturiera del 7,5%141 . Facendo base 100 la produzione industriale del 1929, l’industria meccanica salì, tra il 1934 ed il 1937, dall’indice 72 a 126, quella elettrica da 117 a 145, la siderurgia da 82 a 103, la chimica da 91 a 126142 . Più precisamente, nel 1938 il prodotto delle industrie estrattive salì del 45% rispetto a tre anni prima, quello delle industrie metallur139. 140. 141. 142.

A. Gagliardi, Il corporativismo fascista, Roma–Bari, Laterza, 2010, p. 118. G.L. Podest‡, Nell’economia fascista: autarchia, colonie, riarmo, cit. p. 450. G. Toniolo, L’economia dell’Italia fascista, cit., p. 274. V. Castronovo, Storia economica d’Italia, cit., p. 224.

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giche e metalmeccaniche del 31%, la chimica del 30%, le alimentari del 14,18%, le elettriche del 13,40%, e le tessili dell’8,6%. I salari reali registrarono un incremento del 5% nel periodo del 1935–1936, e del 10% nel 1937–1938143 . Ciò, unito all’erogazione degli assegni familiari e di altri benefici previdenziali emanati dal regime fascista, ebbe delle ricadute positive sulle classi lavoratrici. In quegli anni la produzione industriale superò per la prima volta la produzione agricola, cosicché l’Italia — alla vigilia della Seconda guerra mondiale — si presentava come una nazione industriale moderna. Gli indici di Angus Maddison, citati da Gregor, mostrano come l’Italia, malgrado l’enorme scarsità di risorse, riuscisse a competere in termini di produttività con le maggiori nazioni d’Europa: nel 1938 il volume complessivo di produzione dell’Italia era salito a 153,8 (1913 = 100), in confronto al 132.9 ottenuto nel 1929. Negli stessi anni l’indice della Germania era 149,9, quello del Regno Unito 158,3, della Francia 109,4. La produzione individuale nell’Italia fascista crebbe da 126,3 nel 1929 a 145,2 nel 1938, un risultato che superava quello di ogni altra nazione industrializzata o in via di industrializzazione, escluse Norvegia e Svizzera144 . In una pubblicazione del 1941, Mario Missiroli cercò di documentare «quanto sia stato vasto e profondo il rinnovamento operato da Mussolini in tutti i settori della vita nazionale», presentando un dettagliato resoconto dei risultati della politica autarchica nel campo industriale. Vale la pena riprodurlo integralmente, sia per la precisione statistica che oVre sia per la panoramica complessiva dei risultati raggiunti dalla politica economica fascista alla vigilia del secondo conflitto mondiale. Dal 1934 al 1938 l’industria elettrica ha aumentata la propria produzione del 27 per cento. L’industria estrattiva ha aumentato la produzione di lignite del 225 e quella di litantrace del 160 per cento. La produzione della bauxite, che era già che più che raddoppiata dal 1931 al 1934, segna nel successivo quadriennio un incremento del 192 per cento, soddisfacendo, così, non solo il consumo interno, ma rendendo possibile una larga esportazione. La produzione dei minerali di ferro è aumentata del cento per cento; quella dei minerali di piombo si è raddoppiata, per cui mentre nel 1934 la metallurgia del piombo impiegava ancora il 50 per cento di minerale importato, oggi tale percentuale è appena del 20 per cento. Non inferiore è stato lo sviluppo del settore dei minerali non metallici. La produzione complessiva del caolino e delle caoliniche è più che triplicata; quella delle sabbie silicee e quella dei 143. F. Minniti, Industria e Artigianato, in «Annali dell’economia italiana», vol. VIII, t. 2 (1930–1938), cit., p. 85. 144. A.J. Gregor, Italian Fascism and Developmental Dictatorship, cit., p. 161.

Il fascismo italiano e la “dittatura di sviluppo” materiali refrattari sono enormemente aumentate e sono pure aumentate in misura sensibile le produzioni della dolomia, del quarzo e della magnesite. L’incremento dell’estrazione dei minerali metallici è stato seguito da vicino da quello della loro metallurgia. La produzione dell’alluminio ha segnato dal 1934 al 1938 un aumento del 95 per cento. La produzione dello zinco ha presentato un aumento del 41 per cento, riuscendo a coprire il fabbisogno nazionale e favorendo una notevole esportazione. La produzione di piombo ha registrato un aumento del 4 per cento e quella del mercurio del 421 per cento. La produzione dei coloranti organici sintetici è risultata nel 1938 superiore del 60 per cento a quella del 1934; quella dell’acido solforico del 41. Sensibilissimi aumenti hanno avuto le produzioni dell’ammoniaca sintetica (21), del cloro liquido (39), dell’ipoclorito di sodio (50), della potassa caustica (111), del carbonato potassico (159), del nitrato potassico (73), dell’acido acetico (70), di amidi di mais (39), del riso (167), frumento (13). Nel campo dei derivati della distillazione del carbon fossile, notevole incremento ha avuto la produzione del coke metallurgico, che dal 1934 al 1938 è aumentata del 22 per cento e quella del benzolo, che, nello stesso periodo, è cresciuta del 145. La produzione di benzina ha segnato, nel 1938, un aumento del 218 rispetto al 1934; quella del petrolio raYnato del 281; quella di olio per motori del 580; quella di bitume e coke di petrolio del 182; quella, infine, degli olii lubrificanti e residui combustibili, del 437. La produzione di cellulosa per carta è cresciuta del 395 per cento. Nelle industrie tessili notevoli progressi ha presentato la surrogazione, facilitata dall’enorme sviluppo della produzione delle fibre artificiali, salita nel complesso dei vari tipi (raion, fibre tagliate vegetali, lanital, ecc.) di circa il 148 per cento. L’industria cotoniera, che nelle filature impiegava nel 1934 il 91 per cento di cotone naturale e 1’8 per cento di cascami di cotone ed altre fibre, ha diminuito la percentuale del cotone al 73 per cento, portando quella delle altre fibre al 27. Nelle tessiture la proporzione dei filati di cotone impiegati nella confezione dei manufatti, che nel 1934 era dell’89 per cento, è scesa al 63. Trasformazioni di pari portata si sono avute nelle varie lavorazioni dell’industria laniera. Mentre nel 1934 la materia prima lavorata dalle filature laniere era costituita per il solo 52 per cento da lana rigenerata ed altre fibre, la percentuale di questa è passata, ora, a rappresentare il 70 per cento. L’industria della juta, tributaria interamente dell’Estero della propria materia prima, ha provveduto a integrarne il consumo con fibre nazionali, mescolando la juta con stoppa di canapa in una misura che sale al 50 per cento. Il volume complessivo della produzione industriale nel 1937 è risultato superiore a quello del 1936 del 13 per cento; a quello del 1935 del 6; a quello del 1934 del 24. Una obiezione mossa al programma autarchico si riferiva, come è noto, ai costi di produzione. Si temeva una depressione generale dell’economia, un suo impoverimento, determinato dalla necessità di porre su nuove basi il sistema produttivo. Ma la realtà ha smentito queste previsioni. Basta consultare le statistiche delle società italiane per azioni. Nel biennio 1933–34 le società per azioni toccavano il numero di 10.952 con un capitale versato di 41.195 milioni. Utili netti: 440 milioni; utile percentuale 1,07. Nel biennio 1934–35 il numero delle società saliva a 12.015 con un capitale di 40.209 milioni. Utili netti 1.290 milioni; utile

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Antonio Messina percentuale 3,21. Nel biennio 1935–36 le società aumentavano a 13.053 con un capitale di 40.193 milioni. Utili netti 1.947; utile percentuale 4,85. Nel biennio 1936–37 si aveva un ulteriore incremento del numero delle società: 14.098 con un capitale di 41.200 milioni. Utili netti 2.583 milioni; utile percentuale 6,27. Da questi dati risulta che il capitale versato si aggira sempre intorno ai 40 milioni, mentre gli utili netti passano da 440 milioni a 2 miliardi e 583 milioni e gli utili in percentuale da 1,7 per cento al 6,27 per cento. Dal che si deduce che il capitale azionario è rimasto invariato, mentre il suo reddito si è sestuplicato.145

Malgrado i risultati conseguiti dall’industria italiana del periodo, agli occhi dei fascisti persisteva nel mondo l’iniquità perpetrata dai paesi ricchi nella distribuzione delle materie prime essenziali, da questi controllate e monopolizzate a tutto svantaggio dei paesi poveri. Si raVorzò così l’idea di una soluzione militare ai problemi che gravavano sull’Italia. Solo una guerra su vasta scala, secondo i fascisti, avrebbe permesso all’Italia di stabilire una nuova e più equa ridistribuzione delle risorse, per attingere a quelle materie prime e a quegli «spazi vitali» che avrebbero permesso di spezzare l’egemonia delle potenze plutocratiche sulle nazioni proletarie e povere di risorse. Nazioni proletarie come l’Italia e il Giappone, che nel corso della loro storia avevano dovuto subire l’umiliazione e le angherie da parte delle nazioni industrialmente avanzate, e che erano state confinate in uno spazio economico ristretto, avrebbero finalmente avuto l’occasione di riscattarsi e di raggiungere lo status di grandi potenze economicamente e politicamente sovrane. 7. La guerra fascista contro le «plutocrazie» e le ragioni della disfatta Il 10 giugno 1940 Mussolini dichiarò che l’Italia «proletaria e fascista» scendeva in guerra contro le «democrazie plutocratiche» Francia e Inghilterra, presentando lo scontro come uno «sviluppo logico» della rivoluzione fascista, ossia come una «lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli aVamatori che detengono ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l’oro della terra»146 . Per tutta la durata del Ventennio, teorici ed intellettuali fascisti indirizzarono 145. M. Missiroli, Cosa deve l’Italia a Mussolini, Roma, Società Editrice di Novissima, 1941, pp. 56–59. 146. B. Mussolini, Opera Omnia, cit., vol. XXIX, p. 404.

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argomentate critiche contro le «plutocrazie», ossia quelle «nazioni ricche di materie prime e di capitali, le quali dominano non solo i mercati ma hanno instaurato un regime internazionale di supremazia sulle nazioni povere», denunziando ripetutamente «l’ingiustizia e l’immoralità del predominio delle grandi potenze arricchite in imprese coloniali o per l’ineguale distribuzione di materie prime a danno dei popoli dotati soltanto di virtù e di coraggio»147 . Fascisti come Gherardo Casini auspicavano «l’abbattimento del prepotente dominio anglo–sassone» per «rompere il cerchio che ci imprigionava nel nostro mare» e per «riscattarci dalla miseria e dall’oppressione»148 . La verità è che i fascisti erano consapevoli del fatto che «l’Italia, tra le grandi potenze, è la sola che sia aZitta da una quasi totale mancanza di materie prime, e da una certa scarsezza di materie alimentari», a cui faceva riscontro «una enorme ricchezza di braccia che si accumulano ogni anno e che non trovano un normale e proficuo impiego», per cui non restava altro che aVrontare «gli eventi e il destino con duro coraggio, piuttosto che subire passivamente la nostra condizione di popolo povero»149 . L’egemonia anglosassone nel mondo era garantita dal monopolio delle grandi quantità di materie prime presenti negli Stati Uniti e nell’Impero britannico, al punto che essi disponevano del 99,5% della produzione mondiale dello juta, il 94,5% di quella del nichel, il 75% di quella dell’oro, il 73,4% del cotone, il 63,2% della lana, il 63,6% della produzione mondiale di petrolio, il 59,8% di carbone, il 59,8% di caucciù, il 58% di rame, il 46,6% di grano150 . Ecco perché l’Italia si riprometteva di «liberare il mondo dalla soVocante egemonia anglosassone» ed assicurare a tutti i popoli le risorse necessarie ai loro «spazi vitali»151 . In questo modo la guerra assunse le sembianze di uno scontro tra «Imperi capitalisti», giudicati ormai in declino, e i nuovi «Imperi proletari». Fra i due schieramenti, i primi hanno — secondo Mario Gianturco — «organizzato lo sfruttamento del mondo, a profitto 147. C. Curcio, “Plutocrazia”, in Dizionario di Politica, Roma, Istituto della Enciclopedia Treccani, 1940, p. 439. 148. G. Casini, Una volontà, una fede, Milano, Mondadori, 1942, p. 162. 149. INCF, Ragioni di questa guerra, in «Quaderni di divulgazione», serie I, n. 1, Roma 1941, pp. 34–44. 150. INCF, L’imperialismo degli Stati Uniti, in «Quaderni di divulgazione», serie II, n. 2, Roma 1942, p. 27. 151. Ivi, p. 30.

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esclusivo delle loro oligarchie», mentre i secondi «hanno abbondanza di lavoro e penuria di capitali» e quindi «combattono per realizzare un ideale di giustizia economica e politica fra gli Stati»152 . Gianturco vedeva nella guerra una lotta di classe internazionale, dovuta al «predominio economico degli Imperi capitalisti, basato su quel possesso naturale delle materie prime, che è una forma di appropriazione indebita della ricchezza collettiva» cosa che ha «accresciuto nel mondo le diYcoltà degli altri paesi» determinando fatalmente lo scontro153 . Al termine della Seconda guerra mondiale Silvano Gastone Spinetti, ex membro di spicco della Scuola di Mistica fascista, interpretò la ventennale esperienza fascista come il tentativo di contrapporre all’imperialismo capitalistico delle democrazie occidentali un imperialismo proletario caratterizzato dal rifiuto del sistema economico liberista, che col suo principio della libera concorrenza sanzionava il diritto del più forte e si tramutava in un sistema di sfruttamento del lavoro operaio. L’imperialismo proletario fascista, secondo Spinetti, reclamava una ridistribuzione delle colonie e delle materie prime tra i diversi Stati, nonché una ridistribuzione delle ricchezze all’interno dei singoli Stati154 . Si è molto discusso sulla mancata preparazione bellica italiana, sulla «follia del regime nel voler mantenere l’Italia in guerra in uno stato di totale inadeguatezza di mezzi»155 , cosa di cui lo stesso Mussolini era sicuramente consapevole156 . Ma l’ingresso in guerra dell’Italia 152. M. Gianturco, La guerra degli imperi capitalisti contro gli imperi proletari, Firenze 1940, p. 5. 153. Ivi, p. 37. 154. G. Silvano Spinetti, Civiltà in crisi. Verso un nuovo umanesimo, Roma, Fratelli Bocca, 1955, pp. 50–52. 155. V. Zamagni, Come perdere la guerra e vincere la pace, Bologna, il Mulino, 1997, p. 40. 156. Il 25 agosto 1939 Mussolini scrisse ad Hitler: «Per quanto riguarda l’atteggiamento pratico dell’Italia, nel caso di un’azione militare, il mio punto di vista è il seguente: se la Germania attacca la Polonia e il conflitto rimane localizzato, l’Italia darà alla Germania ogni forma di aiuto politico e economico che le sarà richiesto; se la Germania attacca la Polonia e gli Alleati di questa contrattaccato la Germania, vi prospetto l’opportunità di non assumere io l’iniziativa di operazioni belliche, date le attuali condizioni della preparazione militare italiana, ripetutamente e tempestivamente segnalate a voi, Führer, e a von Ribbentrop. Il nostro intervento può tuttavia essere immediato se la Germania ci darà subito i mezzi bellici e le materie prime per sostenere l’urto che i franco–inglesi dirigeranno prevalentemente contro di noi. Nei nostri incontri la guerra era prevista dopo il 1942, e a quell’epoca sarei stato pronto per terra, per mare e per aria, secondo i piani concordati» (B. Mussolini, Opera Omnia, cit., vol. XXIX, pp. 416–417).

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non può essere capito se non si comprende sino in fondo quello stato d’animo e quel sentimento, latente sin dagli scritti dei nazionalisti e dei sindacalisti nazionali del primo decennio del Novecento, che spinse molti italiani a vedere nella lotta contro le «plutocrazie» il riscatto morale, economico e politico di una intera nazione157 . Il problema principale quindi non era quello di prepararsi militarmente per una guerra considerata inevitabile, poiché nazioni sottosviluppate come Italia e Giappone, o nazioni precedentemente umiliate e private dei propri territori come la Germania, non sarebbero mai state del tutto preparate a reggere l’impari scontro con nemici infinitamente più potenti, ricchi di risorse e con grandi riserve di materie prime cui attingere. Il problema era quando intervenire, ossia quando cogliere il momento migliore per una vittoria sicura, rapida e veloce. Il momento buono a Mussolini parve arrivare nel giugno 1940, quando le armate tedesche sbaragliavano in pochi giorni la Francia e conquistavano mezza Europa. La performance italiana durante il secondo conflitto mondiale è stata spesso citata come prova del fallimento delle politiche di sviluppo intraprese dal fascismo. Da un’altra prospettiva, è possibile ricercare la causa della sconfitta dell’Italia e — più in generale — dell’Asse, nella enorme disparità di forze e di risorse che separava le due coalizioni belligeranti. Le potenze dell’Asse si ritrovarono a combattere con avversari non solo molto più preparati alla guerra, ma anche in grado di mobilitare enormi quantitativi di risorse e incrementare ulteriormente la produzione complessiva. La sconfitta italiana nel secondo conflitto mondiale è da addebitarsi alla carenza di risorse e di materie prime, piuttosto che ad un ritardo nello sviluppo industriale. La politica autarchica del fascismo aveva suYcientemente sviluppato e modernizzato l’apparato 157. Sulla rivista «Critica Fascista», Bottai definiva la guerra contro le plutocrazie come «un moto di giustizia e di liberazione, il coronamento vero del Risorgimento, che ha operato in nome della libertà. Sarà l’ultima guerra per la libertà del popolo italiano. Per la libertà e l’indipendenza del suo Impero» («Critica Fascista», anno XVIII, n. 14, p. 227). E ancora: «Non si combatte, non si combatterà, per il privilegio di un popolo contro altri popoli; per le fortune di una gente contro altre genti. Non si combatte per modificare una carta geografica, per estendere il giallo o il verde a territori che fino ad oggi erano segnati con altro colore. Questa non è una guerra di nazionalismi l’un contro l’altro armati [. . . ]. Noi domandiamo libertà e lavoro a parità di condizioni: libertà assoluta di vita e di movimento nel nostro mare; libertà e parità di vita e di condizioni di vita in questo mare e nel mondo» («Critica Fascista», anno XVIII, n. 15, pp. 242–243).

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industriale, cosicché, al momento dell’ingresso dell’Italia in guerra, esso si presentava come «una macchina produttiva già progettata, montata e funzionante», la cui potenzialità non fu però possibile sfruttare appieno158 . La crescita esponenziale delle potenzialità produttive italiane, anche durante la guerra, fu accompagnata dalla progressiva diminuzione di materie prime e dalle distruzioni provocate dai bombardamenti. Per citare un esempio, «nel corso del 1941 il 72,9 per cento degli stabilimenti controllati dal Fabbriguerra interruppe, parzialmente o totalmente, la lavorazione per mancanza di materie prime e di combustibili»159 . Le industrie IRI preposte alla produzione di materiale bellico furono «proprio quelle che hanno subito i più gravi bombardamenti»160 . Nonostante le diYcoltà la capacità produttiva durante la guerra fu triplicata mediamente; in particolare fu triplicata per le grosse artiglierie, quintuplicata per i cannoncini da 20 a 57 mm, triplicata per le armi automatiche, quintuplicata per i siluri, triplicata per i mezzi corazzati, quasi raddoppiata per gli aeroplani e i motori.161

Se si effettua una comparazione tra lo sforzo bellico sostenuto dall’Italia nel primo conflitto mondiale e quello sostenuto nel secondo, ci si può forse rendere conto dei progressi fatti: rispetto alla Grande Guerra, nel secondo conflitto mondiale l’Italia mobilitava mediamente il 15% in più di uomini, la disponibilità complessiva di materiali siderurgici aumentò del 75%, produsse quasi il 200% in più di mitragliatrici (calibro 8, rispetto al calibro 6,5 adoperato nella precedente guerra), il 60% in più di cannoni e mortai, oltre a carri armati, aeroplani e stazioni radio che nella guerra precedente non venivano prodotti, o erano prodotti in quantità piuttosto limitate. Le ore lavoro impiegate furono almeno il doppio rispetto al primo conflitto162 . 158. V. Zamagni, Come perdere la guerra e vincere la pace, cit., p. 146. 159. G. Rasi, La politica economica e i conti della nazione, in «Annali dell’economia italiana», vol. IX, t. 1 (1939–1945), cit., p. 111. 160. E.F. Damascelli, La «Restaurazione antifascista liberista». Ristagno e sviluppo economico durante il fascismo, in Il regime fascista, a cura di A. Aquarone, M. Vernassa, il Mulino, 1974, p. 305. 161. G. RASI, La politica economica e i conti della nazione, cit., p. 119. 162. Miproguerra, Cenni sullo sforzo sostenuto dal Paese per la produzione bellica nella guerra 1940–1943 e sue entità nei confronti della guerra 1915–1918, Roma, Ministero dell’Aeronautica, luglio 1943.

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In sostanza, le cause della sconfitta in guerra non vanno ricercate tanto nella debolezza italiana, quanto piuttosto nella più generale disparità di forze tra le potenze dell’Asse e gli Alleati (inclusa l’Unione Sovietica). I dati raccolti da Mark Harrison sono eloquenti circa l’enorme disparità delle capacità produttive: nel 1939 il PIL degli Alleati ammontava a 1721 (dollari a prezzi del 1990) contro i 747 dell’Asse, nel 1940 il divario era di 1757 a 835, nel ’41 di 1798 a 911, nel ’42 di 1862 a 903 e nel ’43 di 2064 a 895. In termini militari, il divario era mastodontico: tra il 1942 ed il 1944 gli Alleati produssero 22 milioni e 701 mila fucili contro gli 8 milioni e 460 mila prodotti dall’Asse; 184 mila e 200 carri armati contro 39 mila e 600; quasi 300 mila aerei da combattimento contro 114 mila e 600, e 7.461 navi da guerra contro 1.359 prodotte dall’Asse163 . Stando così le cose, l’unica possibilità di vittoria per le potenze dell’Asse sarebbe stata quella di concludere rapidamente il conflitto nei primi anni di guerra, quando la tecnica tedesca del blitzkrieg si era mostrata vincente. Più il conflitto si sarebbe prolungato, maggiore sarebbe stato il divario che avrebbe separato le potenze in lotta. La frenetica corsa contro il tempo finì per infrangersi contro lo strapotere degli Alleati, come nel ’45 riconobbe amareggiato l’ormai ex duce: «Il fattore tempo era a nostro svantaggio»164 .

8. Il concetto di «dittatura di sviluppo» nel dibattito storiografico Giunti al termine di questa analisi si può quindi cercare di rispondere all’interrogativo se il fascismo italiano possa essere o meno classificato come una «dittatura di sviluppo». Prima di rispondere, è opportuno tracciare brevemente l’interesse, le polemiche e il dibattito che questo concetto ha suscitato nella storiografia italiana e straniera. Dalla fine della Seconda guerra mondiale aveva guadagnato sempre più credito un’immagine del fascismo visto come parentesi di ristagno economico, ossia come un regime dittatoriale oppressivo e soVocante che per un ventennio ha impedito lo sviluppo economico 163. Per un’analisi comparativa delle capacità economiche e militari delle principali potenze in campo (Stati Uniti, Regno Unito, Unione Sovietica, Germania, Italia e Giappone), cfr. M. Harrison, The Economics of World War II: An Overview, in The Economics of World War II: Six Great Powers in International Comparison, Cambridge, Cambridge University Press, 1998, pp. 1–42. 164. B. Mussolini, Opera Omnia, cit., vol. XXXII, p. 174.

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e la modernizzazione della nazione italiana. La tesi di fondo di questa interpretazione, di chiara connotazione politica, era quella di presentare un nesso di casualità diretta tra istituzioni democratiche e sviluppo economico: se per vent’anni il fascismo aveva precluso la crescita economica, alleandosi con ceti agrari precapitalistici e cricche di industriali parassitari, la politica antifascista e democratica aveva invece portato al «miracolo economico» del dopoguerra. Questa interpretazione è stata criticata a partire dagli anni Settanta da Ester Fano Damascelli, che in contrapposizione all’idea del ristagno ha posto l’accento sulla crescita qualitativa e strutturale dell’industria italiana negli anni Trenta165 . Oggi, quasi tutti gli studiosi più autorevoli sono pronti a riconoscere che il fascismo non rappresentò una fase di stagnazione dell’economia italiana166 . Nel corso degli anni sono poi emersi numerosi studi che hanno portato ad uno stravolgimento radicale della vecchia interpretazione “stagnazionista”. Negli anni Sessanta alcuni ricercatori (A. Gerschenkron, W.W. Rostow), svilupparono diverse teorie sullo sviluppo economico, vedendo nel processo di industrializzazione il problema fondamentale che i paesi arretrati e sottosviluppati devono aVrontare. L’approccio originale seguito da questi studiosi consisteva nell’elaborare ipotesi generali desunte dallo studio di una serie di dati empirici. Gerschenkron ha formulato un processo schematico a più fasi, ipotizzando una connessione tra i caratteri assunti dai vari paesi nel processo d’industrializzazione ed il loro grado di arretratezza economica, pervenendo alla conclusione che ad economia più arretrata corrispondono nella fase del «grande slancio» (great spurts) una serie di fattori comuni167 . Rostow, dal canto suo, ha cercato di dimostrare che ogni paese 165. E.F. Damascelli, La «Restaurazione antifascista liberista». Ristagno e sviluppo economico durante il fascismo, op. cit., pp. 281–305. 166. Così ad esempio si esprime Vera Zamagni: «Il periodo fascista non segnò una battuta d’arresto nel processo di industrializzazione del paese, a dispetto della retorica ruralista di cui talora il regime si fregiava; le tesi “stagnazioniste”, accreditate in passato da un antifascismo politico che riteneva che il discredito del regime dittatoriale di Mussolini dovesse necessariamente far leva anche sul suo “fallimento” economico, sono state criticate a partire dagli anni ’70 [. . . ]. Le ambizioni imperialistiche di Mussolini portarono alla nascita di una serie di novità nel campo delle industrie tecnologicamente più avanzate, novità che si riveleranno strategiche per la ricostruzione dell’economia italiana dopo la fine del II conflitto mondiale» (V. Zamagni, Dalla periferia al centro, cit., pp. 350–352). 167. Cfr. A. Gerschenkron, Il problema storico dell’arretratezza economica, Torino, Einaudi, 1965.

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attraversa un processo sequenziale di sviluppo, contraddistinto da diverse fasi: a) nel primo stadio la società arcaica e pre–scientifica utilizza l’agricoltura come fonte principale di sostentamento, e la cultura dominante si basa sulla superstizione; b) nel secondo stadio si formano i presupposti per lo sviluppo, ed essi sono culturali (formazione di una mentalità scientifica e aVermazione dell’idea di progresso), politici (formazione dello Stato nazionale), sociali (formazione di un ceto imprenditoriale disposto ad investire capitali nella produzione e nel commercio) ed economici (ad es. l’introduzione di innovazioni in campo agricolo e la nascita del sistema creditizio bancario); c) nella terza fase si verifica il decollo (take oV ), una vera e propria rivoluzione industriale che vede la diVusione massiccia di nuove industrie e una forte innovazione tecnica e tecnologica; d) nel quarto stadio viene raggiunta la maturità, caratterizzata dalla crescita esponenziale dell’industrializzazione, dalla formazione di attività terziarie e da un miglioramento delle condizioni di vita; e) la quinta fase è quella della diVusione dei consumi di massa e di un diVuso e generalizzato alto livello di benessere168 . Benché l’analisi di Rostow non sia esente da critiche, essa ha influenzato diversi importanti studi sul fascismo. Nel 1965 A.F.K. Organski tentò di adattare lo schema di Rostow ad una serie di quattro stadi di sviluppo politico169 , che sono: a) stadio dell’unificazione primitiva: è lo stadio in cui si forma lo Stato, la cui unica funzione è quella di costruire l’unità nazionale; b) stadio politico dell’industrializzazione: è un periodo di transizione, caratteristico dei paesi in via di sviluppo. In questo stadio vi possono essere tre tipi di regime politico: borghese, stalinista e fascista. La funzione principale di questi tre 168. Cfr. W.W. Rostow, Gli stadi dello sviluppo economico, Torino, Einaudi, 1962. 169. Cfr. A.F.K. Organski, Le forme dello sviluppo politico, Bari, Laterza, 1970.

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regimi in questo stadio è quella di favorire e promuovere l’industrializzazione e lo sviluppo economico; c) stadio politico dello Stato assistenziale: è caratteristico dei paesi industrialmente sviluppati, ed in questa fase lo Stato ha il compito di garantire la prosperità economica e assicurare un livello di vita più elevato; d) stadio politico dell’abbondanza, caratterizzato dall’abbondanza di risorse e dalla presenza di tecnologie molto evolute. Finora nessun paese è entrato nella fase avanzata di questo stadio. Nell’analisi di Organski il fascismo si è manifestato nella fase dell’industrializzazione, dove una nuova classe dirigente ha assunto il potere, ha costruito un nuovo tipo di economia ed ha integrato le masse nella vita della nazione. La funzione fondamentale dello Stato in questo secondo stadio di sviluppo politico consiste nel consentire e favorire il processo di sviluppo economico moderno. Tutti e tre i regimi descritti — borghese, stalinista e fascista — hanno svolto tale funzione, e sebbene le diVerenze fra essi siano grandi e sostanziali, tutti assolvono tre compiti importanti che favoriscono il processo di industrializzazione.170

I tre compiti di questi regimi sono quelli di: trasferire il potere politico dall’élite tradizionale ai dirigenti industriali che vogliono uno sviluppo moderno dell’economia; favorire l’accumulazione di capitali essenziali per lo sviluppo industriale; favorire l’inurbamento. Secondo Organski «tutti i paesi che si sono industrializzati nel XIX secolo hanno seguito il modello borghese, mentre tutti i paesi che si sono industrializzati nel XX secolo hanno avuto, in un momento cruciale del processo, un regime autoritario»171 , inoltre: Nessun paese può sfuggire a questi stadi di sviluppo: non è possibile, per esempio, saltare dal primo al terzo stadio, o evitare del tutto il secondo e terzo, perché lo Stato deve assolvere in ogni singolo stadio un determinato e importante compito, e nel farlo prepara il terreno per lo stadio successivo. Senza l’unificazione primitiva, un paese non può industrializzarsi; senza l’industrializzazione, non può garantire un livello di vita decente e la de170. Ivi, p. 16. 171. Ivi, p. 216.

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mocrazia di massa; senza una società di consumi elevati, non è possibile l’automazione.172

Nel 1972 uno storico ungherese, Mihaly Vajda, ha pubblicato un saggio173 (poi confluito come capitolo in un libro)174 , destinato ad aprire nuove ipotesi interpretative sul fenomeno fascista. Benché di formazione marxista, Vajda riconobbe che il fascismo fu un movimento rivoluzionario, progressista e modernizzatore, che riuscì ad impegnarsi nel rinnovamento di un paese povero e sottosviluppato, laddove la borghesia aveva fallito175 . Secondo Vajda infatti: Il fascismo italiano ha compiuto una funzione storica [. . . ] L’Italia era un paese sottosviluppato al tempo in cui il fascismo lo conquistò [. . . ] Il compito che il fascismo dovette aVrontare fu di assicurare una crescita estesa, e precisamente le condizioni che permettevano l’accumulazione di capitali [. . . ] Il rapido progresso dell’Italia dopo la Seconda guerra mondiale e il fatto che oggi essa si stia avviando ad uno sviluppo capitalistico intensivo non sarebbe stato immaginabile senza il progresso sociale compiuto durante il periodo fascista.176

Dal momento che il fascismo di Mussolini rappresentava «l’unica soluzione progressista» al problema del sottosviluppo italiano, Vajda sostenne che «la difesa della democrazia contro il fascismo da posizioni di democrazia proletaria era reazionaria dal momento che l’alternativa tra democrazia borghese e fascismo era quella tra ristagno e sviluppo economico»177 . La posizione di Vajda non era nuova nell’ambito marxista. Già negli anni Trenta lo scrittore tedesco Franz Borkenau, in un saggio pubblicato nel 1933178 , vedeva nel fascismo un movimento modernizzante aVermatosi in un paese relativamente arretrato, e che aveva assolto alla sua funzione storica di sviluppare rapidamente l’economia italiana179 . 172. Ivi, p. 215. 173. M. Vajda, Crisis and the Way Out: The Rise of Fascism in Italy and in Germany, «Telos», 12, 1972, pp. 3–26. 174. M. Vajda, Fascism as a Mass Movement, London, Allison & Busby, 1976. 175. Ivi, p. 63. 176. M. Vajda, Crisis and the Way Out: The Rise of Fascism in Italy and in Germany, cit., pp. 12 e ss. 177. Ivi, pp. 5 e ss., 11 e ss., 13. 178. F. Borkenau, Zur Soziologie des Faschismus, “Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik”, vol. LXVIII, 1933, n. 5, pp. 513–547. 179. «Il fascismo ha adempiuto ai compiti assegnatigli dalla storia. La produzione industriale

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Tutti questi studi hanno avuto una grande influenza nelle scienze sociali. Un importante indirizzo di ricerche sociologiche, rappresentato in particolar modo da Anthony James Gregor, ha analizzato il fascismo come paradigma delle «dittature di sviluppo». È a Gregor che, molto probabilmente, si deve l’invenzione della formula «dittatura rivoluzionaria di sviluppo» ed il suo accostamento all’esperienza storica fascista180 . La differenza sostanziale tra l’analisi di Gregor e quella degli studiosi che lo hanno preceduto (Organski, Vajda), risiede nell’approccio euristico da lui adottato. Mentre le analisi precedenti si focalizzavano sui dati oggettivi della correlazione tra il fascismo e lo stadio di sviluppo dei paesi in cui si è affermato, Gregor ha individuato nel fascismo di Mussolini una determinazione soggettiva, ossia «un progetto consapevolmente perseguito di modernizzazione dell’economia italiana e di raggiungimento di una piena maturità industriale»181 . Grazie ad un attento studio della letteratura dottrinaria dei sindacalisti nazionali e dei nazionalisti di sviluppo, Gregor ha definito il fascismo come l’erede di una lunga tradizione intellettuale desiderosa di «andare incontro ai bisogni particolari e specifici di una comunità nazionale economicamente arretrata, condannata, come nazione proletaria, a competere con le più avanzate plutocrazie del suo tempo per la conquista di spazi, risorse e prestigio internazionale»182 . Secondo il giudizio di Gregor, molte delle azioni sociali e politiche intraprese si è moltiplicata. Si è dato mano all’elettrificazione e così, la mancanza di carburante fossile è stata in parte superata. L’Italia ha dato vita ad almeno due industrie che vengono annoverate tra le maggiori del mondo: l’industria dell’automobile e quella dei tessili artificiali. Le tendenze preindustriali della popolazione sono state vinte. Il sistema bancario è stato accentrato e l’isolamento delle banche meridionali è scomparso. L’agricoltura è stata ampiamente ammodernata, mentre la provincialità feudale del meridione è stata intaccata dal sistema stradale vastissimo e dalla riabilitazione della terra. Il fascismo ha garantito il necessario tasso di incremento continuo dell’accumulo di capitale. . . Un governo accentrato ha imposto il suo pugno di ferro su un Paese che fino ad allora era stato caratterizzato dal settarismo regionale» (F. Borkenau, Zur Soziologie des Faschismus, cit. in A.J. Gregor, Lo Stato totalitario, “Linee per uno Stato moderno”, Roma, Volpe, 1975, pp. 92–93). 180. La tesi di Gregor è stata pienamente espressa nel suo Italian Fascism and Developmental Dictatorship, New Jersey, Princeton University Press, 1979. Per una presentazione più concisa cfr. il suo Fascism and Modernization: Some Addenda, in «World Politics», vol. XXVI, n. 3, aprile 1974, pp. 370–384. 181. L. Rapone, Gregor: la razionalità del fascismo, in «Democrazia e diritto», anno XXXIV, n. 1, gennaio–marzo 1994, p. 320. 182. A.J. Gregor, Italian Fascism and Developmental Dictatorship, cit., p. 121.

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dai fascisti diventano comprensibili soltanto se viste in funzione dell’industrializzazione e dello sviluppo economico. Se l’intenzione palese del fascismo era quella di restaurare la posizione di grande potenza dell’Italia nel mondo, esso poteva conseguire questo obiettivo soltanto attraverso finalità di tipo produttivistico e di sviluppo. Sotto questo profilo mi sembra che si possa stabilire un collegamento tra fascismo e movimento di modernizzazione. Un movimento di modernizzazione, per raggiungere i suoi obiettivi, ha bisogno di un organismo centralizzato per la mobilitazione, la dislocazione e la direzione delle risorse. Ed ecco che compaiono lo Stato totalitario ed il partito unico autoritario. Non è un caso che avversari dichiarati del fascismo fossero le nazioni ricche, o, come si diceva allora, «plutocratiche». Il carattere rivoluzionario, e rivoluzionario progressista, del fascismo non può essere messo in dubbio. Andrei addirittura oltre: il fascismo è stato il primo rappresentante di quelle rivoluzioni che oggi vengono definite «rivoluzioni progressiste». Anche l’Unione Sovietica, più o meno nello stesso periodo, assunse caratteri simili. Gli aspetti internazionalistici, libertari, distributivi e democratici del marxismo classico si risolsero in aspetti nazionalisti, autoritari, produttivistici ed elitistici di un fascismo incoerente ed incongruente.183

Nell’analisi di Gregor vi è un nesso di continuità tra il socialismo rivoluzionario ed il fascismo, in quanto quest’ultimo costituisce un adattamento della dottrina marxista alle nuove consapevolezze storiche, quali l’importanza del fattore nazionale, il ruolo dell’élite nella mobilitazione delle masse e i problemi del sottosviluppo. Proprio questa arretratezza rendeva impossibile — nell’Italia dei primi decenni del Novecento — una rivoluzione marxista, che presupponeva il raggiungimento della maturità industriale e la formazione di un proletariato potenzialmente capace di dirigere tecnicamente le industrie. Poiché l’Italia era in condizioni pre–marxiste, i sindacalisti rivoluzionari come Olivetti e Panunzio si fecero sostenitori di un rapido sviluppo economico della penisola (produttivismo). Il fascismo, secondo Gregor, si fece carico di queste aspirazioni, mettendo lo Stato al servizio della crescita economica accelerata, sotto la direzione di un élite consapevole, al fine di rendere l’Italia una grande potenza e di riscattarsi dai capricci delle «plutocrazie»184 . 183. A.J. Gregor, Il fascismo. Interpretazioni e giudizi, Firenze, LoGisma, 2016, p. 223. 184. «Le potenze industrialmente più avanzate esercitavano il controllo su circa l’ottanta per cento della terra abitata. Controllavano il passaggio sui mari. Stabilivano arbitrariamen-

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Oltre a queste analisi, Gregor ha ravvisato nel fascismo un precursore delle «dittature di sviluppo» che hanno costellato il XX secolo: stalinismo, maoismo, castrismo e diversi regimi postcoloniali dell’Africa e dell’Asia, che nel tentativo di portare i loro paesi fuori dall’arretratezza economica hanno tutti inconsapevolmente ripercorso il paradigma fascista185 . Lo stesso regime bolscevico sovietico, in quanto produttivista, nazionalista, totalitario e autarchico, finì per trasformarsi in una sorta di «fascismo imperfetto», perché privo della consapevolezza teorica che animava il fascismo classico186 . L’approccio di Gregor si è rivelato indubbiamente originale e suggestivo, ed è stato esposto da alcuni studiosi italiani. Pressappoco nello stesso periodo in cui Gregor presentava le sue analisi, Ludovico Garruccio pubblicava un saggio nel quale inquadrava il fascismo come una ideologia di sviluppo, ed in quanto tale fenomeno transitorio destinato ad aVermarsi nei paesi aZitti da notevoli ritardi nel processo di industrializzazione. Secondo Garruccio, per identificare le ideologie di sviluppo (siano esse totalitarie o pluraliste) bisogna accertare che si verifichino una serie di condizioni predisponenti (il dualismo, l’umiliazione nazionale, l’industrializzazione tardiva, la disgregazione nazionale e l’«evento»), e le modalità peculiari che le caratterizzano: «L’esigenza unitaria, l’avvento al potere di una nuova generazione, di una personalità carismatica, di una nuova classe dirigente, un tentativo te i confini di comunità che avevano adeguatamente preservato le proprie caratteristiche da tempo immemorabile. Umiliavano regolarmente le comunità minori, deploravano il loro comportamento collettivo, respingevano la loro creatività, criticavano i loro giudizi e ostacolavano le loro aspirazioni. Le potenze avanzate sminuivano ulteriormente il significato storico di quelle Nazioni che consideravano meno potenti, sostenendo che, pur godendo di una storia di successo e originalità, avessero contaminato i loro talenti a causa della mescolanza ricorrente con persone inferiori. L’Italia era compresa tra questi popoli “difettosi”. I primi fascisti erano animati dalla convinzione che l’Italia potesse considerarsi alla pari di ogni comunità politica e che la sua storia fosse un’eredità vivente. Annunciarono, pertanto, l’avvento di una Terza Roma. Freschi della vittoria nella Grande Guerra i fascisti cercarono, attraverso quella che oggi chiamiamo “protesta virile”, di ristabilirsi come eredi di una comunità che fin dall’antichità si era sempre dimostrata eroica e vitale. Indossavano le uniformi e portavano le armi di un esercito che aveva respinto i nemici dal suolo della patria. I loro leader li incitavano con annunci di vasti sviluppi, di espansione economica e di rinascita culturale. Non c’è dubbio che tutto ciò fosse al centro del fascismo mentre mobilitava milioni di persone» (A.J. Gregor, Riflessioni sul fascismo italiano, cit., pp. 88–89). 185. A.J. Gregor, L’ideologia del fascismo, cit., pp. 324–340. 186. A.J. Gregor, Italian Fascism and Developmental Dictatorship, cit., pp. 207, 317.

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d’integrazione delle masse, l’eclettismo dottrinario, la promozione dello sviluppo industriale, l’impiego di formule dirigistiche, l’adozione dell’autarchia economica e psicologica (protezionismo radicale), la proposta di uno stile di vita peculiare, il ricorso alla violenza contro ogni forza nazionale centrifuga o conflittiva»187 . Ideologie dello sviluppo sarebbero i regimi di Mussolini, Stalin, Nasser, Sukarno, Perón, Kemal, Castro (il regime di Nkrumah è stato definito da Garruccio «un’imitazione caricaturale e insieme oscena» del fascismo europeo). Per quanto riguarda il fascismo di Mussolini, a giudizio di Garruccio il corporativismo, l’autarchia, l’«economia programmatica» e il «dirigismo» furono gli strumenti con cui lo Stato si sostituì al capitale come protagonista dello sviluppo. Lungi l’autarchia dall’aver arrestato il processo di modernizzazione, ne è stato invece il fattore propulsivo, perché grazie ad essa lo sviluppo industriale dell’Italia fascista realizzò un eVettivo balzo in avanti: In Italia durante il fascismo, si riesce a contenere gli eVetti della crisi mondiale e si attua il passaggio dalla società agricola alla società industriale. Nel 1937 la manodopera impegnata nell’industria supera quella impegnata nell’agricoltura; l’Italia diviene un paese industriale [. . . ]. Lo sforzo di sviluppo è accompagnato da una mistica creatrice, una vera e propria mistica del lavoro.188

L’interpretazione del fascismo quale «dittatura di sviluppo» (come l’ha definita Gregor) o «ideologia dell’industrializzazione» (come l’ha definita Garruccio), non è stata esente da critiche. Queste possono essere ricondotte a due filoni principali: il primo — rappresentato da Piero Melograni — sostiene che la politica rurale del fascismo abbia costituito un ostacolo al processo di industrializzazione. Il secondo filone — rappresentato da Jon S. Cohen — sostiene che Mussolini ed i fascisti non avessero alcuna consapevolezza degli obiettivi economici di sviluppo da conseguire, e che alcune delle politiche fasciste abbiano danneggiato pesantemente l’economia italiana. Secondo Piero Melograni la ruralizzazione fascista, la politica di rivalutazione della lira e la politica sindacale erano dirette «al conseguimento di un obiettivo unico: il contenimento dello sviluppo 187. L. Garruccio, L’industrializzazione tra nazionalismo e rivoluzione. Le ideologie politiche dei paesi in via di sviluppo, Bologna, il Mulino, 1969, p. 58. 188. Ivi, p. 140.

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industriale»189 . I motivi per i quali il fascismo cercò di contenere lo sviluppo industriale vanno ricercati, a detta di Melograni, nella volontà di scongiurare: a) lo sviluppo di un proletariato urbano «refrattario» al regime; b) la spinta inflazionistica legata alla crescita delle città; c) l’esplosione di una crisi tra fascismo e campagna come conseguenza dello sviluppo industriale. Se la politica rurale del fascismo «forse contribuì in qualche misura a rallentarlo», tuttavia «non arrestò il progresso delle industrie», cosicché — sempre secondo Melograni — si ebbe anzi «questo fatto singolare: che l’Italia diventò paese industriale proprio durante gli anni della ruralizzazione fascista»190 . Renzo De Felice ha fortemente contestato le conclusioni di Melograni, definendole come inaccettabili e potenzialmente «dannose per il progresso degli studi storici», dal momento che nulla può far ritenere che il fascismo «fosse ruralista sino al punto da poter essere definito antindustriale», e che al contrario «il ruralismo mussoliniano non fu antindustrialismo» ma una «conseguenza della convinzione che la grande città sradicasse e corrompesse moralmente (e politicamente) gli uomini e determinasse quel processo inarrestabile di flessione della natalità che Mussolini considerava il sintomo più eloquente della crisi storica di un popolo e di una nazione»191 . Nella sua ampia analisi sulla politica rurale del fascismo, anche Gregor ha posto in correlazione il fenomeno della ruralizzazione con la politica demografica del fascismo. Il problema immediato che l’Italia doveva aVrontare, come disse Mussolini nel “discorso dell’ascensione” del 1927, era quello della popolazione in diminuzione. Tutti i dati a disposizione indicavano che nei centri urbani si era verificata una diminuzione delle nascite, e soltanto fuori dai centri urbani la popolazione italiana si riproduceva in maniera suYciente da garantire l’incremento demografico. Questa ragione, unita alla convinzione che gli agglomerati urbani fossero una pericolosa fonte disgregatrice della personalità umana, determinarono il graduale sfol189. P. Melograni, Gli industriali e Mussolini, cit., p. 194. 190. Ivi, pp. 260–261. 191. R. De Felice, Fascismo e economia, in L’economia italiana tra le due guerre 1919–1939, Milano, IPSOA, 1984, pp. 30–31.

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lamento dei centri cittadini. Tuttavia, secondo Gregor «è evidente che il programma fascista di ruralizzazione non ambiva ad impedire lo sviluppo industriale e la modernizzazione economica»192 . Notevoli personalità del fascismo, come Robert Michels, non vedevano «niente di contraddittorio nel limitare la crescita delle città e, contemporaneamente, sostenere un programma di industrializzazione». Secondo Michels infatti «l’industrializzazione non per forza avrebbe comportato l’espansione incontrollata dei centri urbani». Egli negava che l’industria moderna richiedesse necessariamente masse di popolazione in un numero limitato di centri. Se è vero che tale processo si era storicamente verificato e che l’industrializzazione avvenuta in numerose nazioni era stata accompagnata da un esodo massiccio della popolazione agricola verso i centri urbani, era pur vero che esistevano delle alternative193 . Michels corroborava un programma di decentralizzazione urbana senza che ciò mettesse in pericolo la produzione industriale ed agricola. Ugo Spirito sosteneva che il fascismo, attraverso la sua politica rurale, non intendeva combattere l’urbanesimo tout court, ma bensì «la sua attuale forma disorganica e tumultuaria», che portava in sé «pericoli per la sanità fisica e morale del cittadino». Per questo Spirito proponeva per la città di «abbandonare il sistema degli alveari umani, che vanno dai nostri mastodontici palazzi ai grattacieli americani, e ad assumere la fisionomia delle città— giardino»194 . Spirito aVermava che i due primari obiettivi del fascismo — l’aumento della popolazione ed il massimo sviluppo dell’agricoltura — sarebbero stati raggiungibili soltanto grazie a un forte sviluppo industriale e ad una accentuata industrializzazione della stessa agricoltura. Una industrializzazione, beninteso, alternativa a quella americana ed in perfetta armonia con la tradizione italiana che si esprimeva in una civiltà «meno meccanica, più umana, più aderente alla madre terra»195 . Giuseppe Pagano, direttore della sezione artistica della Scuola di Mistica Fascista, ed uno dei più importanti architetti italiani durante il regime, valutò la possibilità di dirigere la crescita delle città industriali «orizzontalmente», attraverso lo sviluppo di «comunità satellite» di 192. 193. 194. 195.

A.J. Gregor, Italian Fascism and Developmental Dictatorship, cit., p. 277. Ivi, p. 278. U. Spirito, Il Corporativismo, cit., pp. 665–666. Ivi, p. 667.

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lavoratori industriali, allocati al di fuori dei centri urbani. Queste comunità (composte da circa 25.000–50.000 abitanti), avrebbero provveduto a fornire lavoratori per le grandi città, ma preservando un ambiente verde che i centri urbani tendevano a far sparire. In queste comunità gli edifici sarebbero dovuti essere bassi per permettere la massima penetrazione possibile del sole, così da ridurre il rischio della tubercolosi, di sporcizia e di condizioni sanitarie precarie, mentre si sarebbe dovuta creare una cintura verde tra i centri urbani e le comunità satelliti196 . È chiaro che nulla di tutto ciò avrebbe compromesso l’eYcienza industriale, né tanto meno pregiudicato lo sviluppo e la modernizzazione economica. Si può quindi concludere con Gregor dicendo che: La ruralizzazione fu parte integrante del programma demografico fascista. Essa era implicita nella politica di “de–urbanizzazione” ed era a sua volta impegnata a mantenere un alto tasso di natalità tra la popolazione italiana. Esso non implicava l’abbandono della modernizzazione economica ed industriale. Considerati insieme, la preoccupazione per l’industrializzazione, la modernizzazione economica, l’autarchia, il tentativo di mantenere alto il tasso di natalità, la ruralizzazione per sostenere la popolazione crescente, e la ricerca di un adeguato spazio vitale, costituiscono un coerente programma politico avente delle sue logiche interne collegate all’ideologia fascista.197

Verso la fine degli anni Ottanta comparvero critiche più articolate all’interpretazione di Gregor, avanzate in particolare dallo studioso americano Jon S. Cohen198 . Secondo Cohen Gregor ha totalmente frainteso l’economia del fascismo. Le politiche economiche dei fascisti non erano basate su un quadro teorico logicamente coerente, Mussolini non aveva alcun obiettivo principale a lungo termine, e, per la maggior parte, i risultati economici del regime furono piuttosto modesti, con ogni probabilità inferiori a quelli che i governi non–fascisti avrebbero raggiunto.199 196. A.J. Gregor, Italian Fascism and Developmental Dictatorship, cit., pp. 278–279. 197. Ivi, p. 281. 198. J.S. Cohen, Was Italian Fascism a Developmental Dictatorship? Some Evidence to the Contrary, in «The Economic History Review», vol. XLI, n. 1 (Feb., 1988), pp. 95–113; J. Cohen, G. Federico, Lo sviluppo economico italiano 1820–1960, Bologna, il Mulino, 2001, p. 34. Tali critiche sono state poi riproposte in R. Ricciuti, Fascism was not a Developmental Dictatorship. Evidence from Simple Tests, in «Historical Social Research», 39 (2014) 3, pp. 337–346. 199. Ivi, p. 112.

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Cohen ha accusato Gregor di aver attribuito alle politiche di Mussolini una coerenza ed una consistenza che in realtà non avevano, in quanto il dittatore italiano non era un «riformatore», ma un «mediocre giornalista» divenuto uomo politico interessato soltanto alla sua carriera, ossia ad ottenere e mantenere il potere. In sostanza, le sue politiche economiche sono state determinate da tecnocrati e uomini d’aVari (che non erano fascisti), e furono dettate non da qualche obiettivo a lungo termine, ma dalle condizioni nazionali ed internazionali. Mancando di una progettualità solida, le politiche economiche fasciste sarebbero state soltanto il riflesso di problemi contingenti, pressioni politiche e analisi puramente economiche. A giudizio di Cohen non vi sono prove che testimonino l’intenzione di Mussolini di sostituire lo Stato al controllo privato di allocazione, distribuzione ed accumulazione della ricchezza. Le tesi di Cohen sembrano stridere nettamente con le più avanzate interpretazioni storiografiche del fenomeno fascista, le quali hanno posto in rilievo l’esistenza di una progettualità intrinseca alle politiche fasciste, ossia l’edificazione di uno Stato totalitario. Fin dalla sua nascita come partito–milizia il fascismo aveva come suo proposito quello di «costruire una civiltà politica alternativa a quella liberale»200 , ed era un proposito certamente rivoluzionario, che non poteva coesistere con una logica di tipo liberal–liberista. È vero che Mussolini non fu un «riformatore», ma era sicuramente un «rivoluzionario», ed è «altrettanto certo che negli anni Trenta egli si proponeva di svincolare il più possibile la sua politica dal condizionamento della borghesia e delle forze tradizionali, di edificare un Regime con caratteri spiccatamente autonomi e rispondenti in larga misura alle istanze del fascismo rivoluzionario e totalitario»201 . Se si tiene presente l’esistenza di una progettualità intrinseca al fascismo, al suo tentativo di fondare un nuovo Stato caratterizzato dal monopolio totalitario del potere e da una ideologia che intendeva permeare l’intera società per cambiarla dal profondo, è chiaro che — inquadrate in questo contesto — le politiche economiche del fascismo assumono un significato preciso. Possiamo decidere, come suggerisce Cohen, di vedere nelle politiche fasciste soltanto il tentativo di salvaguardare la carriera politica 200. L. Di Nucci, Nel cantiere dello Stato fascista, Roma, Carocci, 2008, p. 15. 201. P. Buchignani, La rivoluzione in camicia nera. Dalle origini al 25 luglio 1943, Milano, Mondadori, 2006, p. 305.

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di Mussolini — valutandole, quindi, come meri espedienti tattici — consapevoli tuttavia di smarrire la prospettiva storica che ci permette di inserire la parabola fascista in una cornice più ampia. Il fatto che il fascismo si sia servito di fiancheggiatori per edificare il suo Stato totalitario, o di tecnici per estendere il suo controllo totalitario sull’economia, non inficia di certo l’esistenza di un progetto politico (e quindi anche economico) di più ampio respiro. La caratterizzazione sintetica dello Stato fascista come «dittatura di sviluppo» si armonizza con l’interpretazione totalitaria del fascismo, perché presenta le seguenti proprietà: identifica nei sistemi totalitari di sviluppo «l’intenzione di sviluppare su scala nazionale un sistema economico che pur mantenendosi legato alle leggi del mercato fosse “regolato” da interventi statali», e chiarisce la natura totalitaria di questi interventi, in quanto «lo Stato sarebbe potuto intervenire attraverso gli strumenti del partito unico ovunque lo ritenesse necessario», nel contesto di un mercato capace di fornire «una guida razionale per l’allocazione delle risorse, i prezzi e i salari: tutti soggetti alla revisione politica»202 . Sembra che le critiche avanzate da Cohen rientrino nell’alveo di quel fenomeno che Emilio Gentile ha definito defascistizzazione retroattiva del fascismo, e che consiste nel «negare qualsiasi consistenza e autonomia al fascismo come ideologia, partito, regime politico oppure negando che il regime fascista fosse stato una dittatura totalitaria coerente nelle idee e nell’azione, dalla conquista del potere alla fine»203 . Fin dagli inizi i fascisti avevano manifestato una chiara volontà produttivistica e di sviluppo, che presupponeva necessariamente il ricorso a politiche autarchiche. Nel dicembre 1919 Mussolini scriveva su Il Popolo d’Italia: «L’indipendenza politica di un paese è in rapporto diretto con la sua indipendenza economica, o, in altri termini, per avere il maximum di autonomia politica nel vasto gioco delle competizioni internazionali, bisogna aver raggiunto il maximum di autonomia economica», e aggiungendo: «L’Italia deve, nei prossimi anni, raggiungere il maximum possibile di autonomia economica. Gli obiettivi fondamentali sono questi: primo: ridurre al minimo la nostra importazione di grano; secondo: ridurre al minimo la nostra importazione di carbone e di ferro»204 . 202. A.J. Gregor, Riflessioni sul fascismo, cit., pp. 95–96. 203. E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Roma, Carocci, 2008, p. 343. 204. PNF, Dizionario di Politica, cit., p. 248.

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E nel gennaio 1921 ribadiva: Nel momento nuovamente tipico e tragico della storia europea, quando gli infiniti nodi verranno fatalmente al pettine, noi italiani potremo o non potremo scegliere, potremo o non potremo fare una politica della nazione libera a seconda della maggiore o minore libertà economica che ci saremo conquistati nell’intervallo di tempo [aggiungendo] noi siamo oggi economicamente schiavi, schiavi di chi ci da il carbone, schiavi di chi ci da il grano.205

Ancora nel 1924, Mussolini scriveva che nella «guerra avvenire» gli apparati militari sarebbero diventati «enormi consumatori di mezzi oVensivi e difensivi», proseguendo così: Gli approvvigionamenti delle materie prime e del carbone, indispensabili a tale enorme sforzo e di cui in genere difettiamo, incideranno fortemente nella economia del Paese ed esigeranno perciò che sia posto freno rigoroso ad ogni spesa e consumo e sia ridotto al minimo il dispendio per acquisto di altre materie prime o derrate.206

Tutto ciò dimostra che Mussolini non giunse al potere di certo sprovveduto, ma aveva ben chiaro l’indirizzo che avrebbe dovuto assumere la sua politica economica. Cohen, minimizzando l’originalità della politica economica fascista, si è spinto a sostenere che l’interventismo statale del regime non fu il risultato di una scelta politica consapevole, ma un lascito tramesso dai precedenti governi liberali207 , e che venne parallelamente adottato anche nella Repubblica di Weimar e nella Francia di Clemenceau e Poincaré208 . In realtà questi giudizi peccano di un’eccessiva dose di superficialità. Sembra, invece, che Mario Abrate abbia colto il punto quando ha scritto che, pur essendo indubbio «che una certa componente empirica possa essere individuata nella politica economica fascista», tuttavia «la politica economica italiana degli anni 1923–39 presenta anche indubbi caratteri di originalità, talché essa può essere riguardata come uno sviluppo logico e coerente di determinate concezioni 205. Ibidem. 206. Promemoria sullo schema di disegno di legge concernente l’organizzazione della Nazione per il tempo di guerra, citato in R. Petri, Storia economica d’Italia. Dalla Grande guerra al miracolo economico (1918–1963), Bologna, il Mulino, 2002, p. 131. 207. J.S. Cohen, Was Italian Fascism a Developmental Dictatorship?, cit., p. 105. 208. Ivi, p. 101.

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economiche. Questo secondo aspetto o criterio di valutazione complessiva presupporrebbe per l’appunto l’analisi della dottrina a cui l’economia del regime pretendeva di ispirarsi», proseguendo: Le concezioni economico–sociali via via elaborate nell’ambito del regime fascista, specialmente a partire dal 1926, rappresentano un tentativo di fornire una cornice ideologica originale alla diYcile fase della storia italiana tra le due guerre. Senza entrare pregiudizialmente nel merito della validità obbiettiva di tali concezioni, bisogna riconoscere che, forse per la prima volta dal conseguimento dell’unità, fu data al Paese, anzi alla Nazione, una sequenza di obbiettivi da raggiungere ed una gerarchia di valori economico–sociali da realizzare. Comunque possano ora essere giudicati, tali obbiettivi e tali valori costituirono i parametri ideologici con i quali si presentava uYcialmente l’Italia nel mondo politico ed economico internazionale nato dal trattato di Versailles e, agli occhi di vari osservatori contemporanei (e non dei meno provveduti), essi assunsero una funzione di guida valida non soltanto in termini italiani.209

Per dimostrare che la politica economica fascista non rispondeva ad alcun principio ideologico, Cohen ha duramente criticato le analisi di Gregor sulla politica di Quota 90. Gregor aveva infatti sostenuto che la rivalutazione della lira a quota 90 mirò — oltre che a fermare l’inflazione — anche ad aumentare l’autosufficienza della nazione, attraverso una riduzione delle importazioni, contribuendo inoltre a sviluppare settori chiave ed estendere il controllo fascista sull’economia. Viceversa, a giudizio di Cohen la politica di quota 90 rese l’Italia ancora più dipendente dalle importazioni, e fu attuata da Mussolini soltanto allo scopo di far guadagnare prestigio al suo regime in Italia e all’estero. La rivalutazione della lira avrebbe quindi ridotto i prezzi di tutte le merci, colpendo sia le imprese importatrici che quelle esportatrici, non giovò a nessuno e influenzò negativamente le esportazioni210 . Gregor ha risposto alle critiche sostenendo che la rivalutazione della lira a quota 90, se da un lato ridusse temporaneamente il tasso di sviluppo, dall’altro stimolò la crescita della produzione di manufatti tecnologici più avanzati. La rivalutazione infatti «rese vantaggioso importare materie prime invece di prodotti industriali. Al tempo stesso, divenne più facile esportare prodotti industriali, favorendo 209. M. Abrate, Gli aspetti economici, in Il problema storico del fascismo, a cura di R. Pavetto, Firenze, Vallecchi, 1970, pp. 84–85. 210. J.S. Cohen, Was Italian Fascism a Developmental Dictatorship?, cit., p. 99.

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ulteriori avanzamenti tecnologici», smentendo quindi «l’ipotesi che la rivalutazione abbia compromesso la crescita economica e la modernizzazione della nazione»211 . Studi più recenti hanno attenuato l’impressione che la stabilizzazione a quota 90 avesse causato notevoli danni economici. Da più recenti calcoli statistici risulta infatti che la rivalutazione «non vide alcuna sostanziale contrazione del nostro interscambio, neppure nelle esportazioni»212 . Anche secondo Toniolo «è improbabile che la rivalutazione abbia danneggiato le esportazioni italiane»213 . Un’altra critica avanzata da Cohen concerne le condizioni di nascita dell’IRI, sorto nel 1933 come ente provvisorio allo scopo di risolvere problemi contingenti e guidato da tecnici, che a giudizio dello studioso americano, formularono politiche indipendenti da ideologie preconcette. In altre parole, i progettisti dell’IRI avrebbero attuato una politica solo superficialmente conforme alla dottrina fascista, ma in realtà utilizzarono investimenti statali per implementare capacità produttive che avrebbero dovuto essere impiegate dopo il conflitto. Inoltre il giudizio di Cohen sull’autarchia è negativo poiché, fortemente voluta dal governo fascista, essa avrebbe sacrificato i guadagni derivanti dal commercio. Ora, è molto diYcile credere che negli anni cruciali del totalitarismo fascista l’IRI abbia potuto agire e operare senza alcun genere di condizionamento politico, in totale indipendenza, se non addirittura in contrasto, con la politica governativa stabilita da Mussolini. Più realistiche appaiono ricostruzioni avanzate di recente sul rapporto tra potere politico e IRI. Benché quest’ultimo non fu sottoposto al controllo di nessun organo politico, i suoi responsabili rispondevano direttamente al capo del fascismo della linea politica da seguire. Beneduce si era impegnato «nel perseguimento dell’indirizzo politico stabilito dal capo del governo», al punto che l’IRI «si propose, fin da subito quale organo precipuo per la realizzazione del Piano regolatore dell’economia»214 delineato da Mussolini. Per ovvie ragioni, Beneduce non 211. A.J. Gregor, Il fascismo. Interpretazioni e giudizi, cit., p. 243. 212. G. De Angelis, La politica monetaria e creditizia e i rapporti con l’estero, in «Annali dell’economia italiana», vol. VII, t. 1 (1923–1929), cit., pp. 181–186. 213. Ivi, p. 185. 214. V. Castronovo (a cura di), Storia dell’IRI. Dalle origini al dopoguerra, vol. I, cit., pp. 35–36.

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poteva agire indipendentemente dalla politica fascista, come Cohen tende a ad aVermare. Sin dal 1925 Mussolini aveva avvisato che nel suo regime tutto sarebbe rientrato nello Stato, e nulla — quindi nemmeno l’economia — ne sarebbe rimasto al di fuori. Nel 1929 in un discorso alla Camera precisò che «più si andrà avanti più crescerà l’area di intervento dello Stato», e nel ’33 dichiarò che «ormai non c’è campo economico dove lo Stato non debba intervenire». Nel marzo 1936, infine, sottolineò la necessità di organizzare la «grande industria che lavora direttamente o indirettamente per la difesa della Nazione» in «grandi unità corrispondenti a quelle che si chiamano le industrie–chiave», le quali dovevano assumere un «carattere speciale nell’orbita dello Stato». In una confidenza rilasciata al giornalista Yvon De Begnac, Mussolini si disse accarezzato dall’idea di passare «dallo stadio della proprietà privata a quello della collettivizzazione dei mezzi di produzione» come unica soluzione «per porre fine alla civiltà del profitto»215 . La verità è che almeno sin dal 1932 Mussolini si era accorto del fallimento del sistema capitalistico, come aveva confidato ad Emil Ludwig216 . Se in un primo momento pensò che il capitalismo dovesse — almeno in Italia — compiere il suo ciclo, a partire dagli anni Trenta si era radicata in lui la convinzione che il sistema capitalistico dovesse essere gradualmente rimpiazzato dalla nuova economia corporativa. Il regime fascista intendeva plasmare la fisionomia e il corso del sistema economico alle sue direttive in modo assai più accentuato di quanto non fosse mai avvenuto sino a quel frangente. Anche perché disponeva adesso di mezzi e strumenti che gli permettevano di operare in tal senso [. . . ] data la possibilità di trasformare l’IRI in una propria «cabina di regia».217

Secondo Gian Luca Podestà, il fatto che Mussolini «avesse voluto inserire tra i compiti statutari dell’Istituto l’autarchia e la valorizzazione dell’Aoi sembrava comprovare l’ipotesi della volontà di rappresentare l’IRI come organo della politica economica e sociale del Regime»218 . È praticamente certo che il sistema totalitario fascista abbia voluto sfruttare l’IRI come strumento rivoluzionario per i suoi fini politici. Le riforme operate nel 1936 e 1937 avevano dato allo Stato 215. 216. 217. 218.

Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani, a cura di F. Perfetti, cit., p. 443. E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, Milano 2000, p. 113. V. Castronovo (a cura di), Storia dell’IRI. Dalle origini al dopoguerra, vol. I, cit., pp. 34–35. Ivi, p. 440.

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tutti gli strumenti necessari per aumentare il controllo sull’economia nazionale. È molto probabile che nell’eventualità di un esito vittorioso della guerra, l’IRI avrebbe ampliato il numero delle società controllate e avrebbe perduto la sua natura «privatistica», lasciando sempre più spazio al controllo dello Stato219 . L’unica cosa certa è che l’IRI rappresentò «di gran lunga il risultato raggiunto dal fascismo più prossimo a quell’ordine economico post–capitalista che esso si riprometteva di attuare per mezzo delle sue riforme sindacali e corporative»220 . Tutti i regimi totalitari apparsi nel mondo (Germania di Hitler, URSS di Stalin, Cina di Mao) hanno esercitato forti controlli sulle loro economie ed hanno sviluppato politiche autarchiche per una rapida crescita delle rispettive nazioni. Non diversamente dagli altri totalitarismi, anche l’Italia fascista cercò di sfruttare l’autarchia come mezzo più eYcace per conseguire un accelerato sviluppo economico della penisola. Dopo la Seconda guerra mondiale le politiche autarchiche sono state valutate negativamente, sia per un pregiudizio ideologico sul complesso dell’opera del regime fascista, sia per i confronti, in termini di costi ed eYcienza, operati da storici ed economisti sulla base di improbabili e anacronistici (negli anni Trenta) scenari liberoscambistici.221

L’autarchia, considerata da Cohen come antitetica allo sviluppo economico, negli ultimi decenni è stata oggetto di profonde rivalutazioni. Persino gli studiosi più scettici hanno riconosciuto che «alcune industrie (soprattutto la chimica e alcuni settori della meccanica) non si sarebbero sviluppati senza l’autarchia», e che «in alcuni casi le ricerche sui cosiddetti materiali autarchici diedero frutti interessanti»222 . Recentemente, lo studioso Rolf Petri ha rilevato come l’autarchia avesse dato un forte incentivo alla ricerca scientifica e al progresso tecnico, senza i quali «gli obiettivi autarchici sarebbero rimasti irraggiungibili». È solo in quegli anni che la ricerca industriale venne avviata «su una scala quantitativamente e qualitativamente rilevan219. Ivi, p. 478. 220. R. Sarti, Fascismo e grande industria, 1919–1940, cit., p. 153. 221. V. Castronovo (a cura di), Storia dell’IRI. Dalle origini al dopoguerra, vol. I, cit., p. 450. 222. G. Federico, R. Giannetti, Le politiche industriali, in Storia d’Italia, Annali, vol. XV, L’industria, Torino, Einaudi, 1999, p. 1143.

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te»223 . Tra le innovazioni più significative riconducibili alla politica autarchica si possono ricordare in ambito scientifico lo sviluppo del polipropilene, la polimerizzazione delle olefine, la gomma sintetica e lo sviluppo della cellulosa. I risultati dell’autarchia fascista sembrano dimostrare che tale politica sortì i suoi eVetti positivi: dal 1939 al 1943 l’industria meccanica sperimentò un incremento del 40% nel valore dei suoi impianti produttivi; nel settore energetico gli investimenti dei piani autarchici permisero di elevare la soglia di energia continua all’80% della potenzialità massima, nonché di stimolare la ricerca e lo sviluppo dell’industria elettrotecnica ed elettrochimica; la fondazione dell’Anic nel 1936 permise all’Italia di adottare le più avanzate tecnologie di raYnazione in quel momento disponibili per la produzione di gasolio, cherosene, benzine di varia qualità, paraYna e oli lubrificanti; le conquiste tecniche acquisite grazie all’autarchia permisero al settore chimico di «diventare un fattore particolarmente dinamico della crescita industriale», al punto da assumere un ruolo «non secondario nella crescita accelerata degli anni cinquanta»224 . Salvatore La Francesca ha così riassunto il bilancio storico dell’autarchia fascista: Un’industria delle costruzioni ad alto livello di eYcienza; un’industria alimentare dotata di ottime tradizioni e suscettiva di ulteriori sviluppi; un’industria tessile avanzatissima e capace, consentendolo le condizioni del commercio internazionale, di aVermarsi con un grosso volume di esportazioni; una grande industria elettrica in grado di sopperire per buona parte a quelle deficienze energetiche che, diversamente, avrebbero impedito il decollo industriale italiano; un’industria meccanica ed elettrotecnica consistente, avanzata ed in fase di progressiva espansione; una marina mercantile tra le prime del mondo.225

Nonostante la presenza di pregiudizi ideologici che per molti decenni hanno ostacolato un’analisi obiettiva della politica autarchica del fascismo, alcuni studiosi sono giunti alla conclusione che il boom economico del secondo dopoguerra fu costruito sulla base delle fondamenta industriali e tecnologiche edificate nel periodo fascista226 . 223. R. Petri, Storia economica d’Italia, cit., p. 143. 224. R. Petri, Storia economica d’Italia, cit., p. 342. Per una analisi completa dei risultati delle politiche autarchiche nel periodo fascista confrontare anche pp. 327–354. 225. S. La Francesca, La politica economica del fascismo, cit., pp. 108–109. 226. M. Vajda, Crisis and the Way Out: The Rise of Fascism in Italy and in Germany, cit., pp. 12 e e ss.; S. La Francesca, op. cit., p. 109; V. Castronovo, Storia dell’IRI, cit., p. 450; R. Petri, op.

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Se il fascismo cercò di basare lo sviluppo economico della nazione facendo ricorso a «capitali italiani autonomi»227 , l’Italia post–fascista riuscì ad ottenere un rapido sviluppo anche grazie all’ausilio di capitali stranieri e alle sovvenzioni derivanti dal Piano Marshall. In conclusione, le critiche di Cohen alla categorizzazione del fascismo quale «dittatura di sviluppo» sembrano avere poche fondamenta su cui poggiare. Diversi storici hanno preferito accettare le ipotesi interpretative di Gregor. Pierre Milza, uno dei più accorti studiosi francesi sul fascismo, ha scritto che l’esperienza fascista «si può interpretare come un tentativo di adattamento rapido a un’economia in piena trasformazione», giacché «solo un forte potere era in grado di imporre alle masse i sacrifici necessari alla accumulazione del capitale». Per tali ragioni Milza ha definito il fascismo come «lo sforzo di integrazione della nazione italiana, fino allora trattata da parente povera, in un’Europa dominata dalle grandi potenze»228 . Alberto De Bernardi ha analizzato il fascismo nel quadro di una modernizzazione autoritaria, o «modernizzazione corporativa», che ha guidato la «transizione a una fase più avanzata della modernizzazione», cosicché: Dietro il mito della “nuova Roma” non stavano soltanto le ambizioni imperialistiche, o l’esaltazione della “razza italiana”, ma anche l’idea di un regime “faber”, che bonifica le paludi, fonda città e abbatte quartieri fatiscenti, che edifica strade, ospedali e scuole, che, insomma, cambia il volto di un paese arretrato e ne costruisce un altro dove la definizione di “fascista” è sinonimo di moderno e di civile. La crescita economica e sociale era dunque iscritta nei fini del fascismo.229

Si può ritenere che la categoria interpretativa del fascismo come regime modernizzatore e di sviluppo abbia una sua indubbia validità, a patto che non si corra il rischio di generalizzare questo concetto, facendone il comun denominatore per definire come «fascista» regimi politici e ideologie tra loro profondamente diVerenti230 . Non tutte le cit., p. 183; A.J. Gregor, Italian Fascism and Developmental Dictatorship, cit., p. 158. 227. A.J. Gregor, Il fascismo. Interpretazioni e giudizi, p. 176. 228. P. Milza, S. Berstein, Storia del fascismo. Da Piazza San Sepolcro a Piazzale Loreto, Milano, Rizzoli, 1982, p. 486. 229. A. De Bernardi, Una dittatura moderna. Il fascismo come problema storico, Milano, PBM, 2006, p. 52. 230. R. Eatwell, Fascismo. Verso un modello generale, Roma, Antonio Pellicani Editore, 1999, pp. 145–146.

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dittature di sviluppo furono fasciste, anche se lo sviluppo era intrinseco all’ideologia del fascismo. Esistono molti elementi di matrice dottrinaria e di prassi politica che diVerenziano il fascismo dal maoismo, dallo stalinismo e dai vari «socialismi nazionali» aVermatisi nel corso del secondo dopoguerra in Africa, in Sudamerica e nei Paesi Arabi. Sarebbe parimenti scorretto ascrivere al nazismo di Hitler la qualifica di «dittatura di sviluppo», dal momento che la Germania non presentava le medesime condizioni di arretratezza che aZiggevano l’Italia all’inizio del XX secolo231 . Inoltre, il fascismo non fu soltanto il modello paradigmatico delle «dittature di sviluppo», ma un fenomeno così originale e complesso da non trovare raVronto in nessun’altra esperienza coeva o successiva, tale dunque da poter essere definito «idiografico, un unicum nel tempo e nello spazio», il quale «contiene alcuni elementi che possono condividere delle somiglianze con altri elementi sperimentati altrove e in tempi diversi, ma resta comunque unico»232 . Ad ogni modo, la categoria interpretativa della «dittatura di sviluppo» rimane certamente valida, e può fornire interessanti spunti di riflessione per nuove possibili interpretazioni sul fenomeno fascista. 9. Nuove ipotesi interpretative: il fascismo come insubordinazione fondante Recenti studi condotti dallo studioso argentino Marcelo Gullo hanno analizzato il percorso di sviluppo seguito da molteplici paesi economicamente arretrati, ed hanno evidenziato che il loro sviluppo è stato reso possibile soltanto grazie all’adozione di politiche protezioniste e all’intervento statale. Gullo ha individuato nella dottrina liberista un’«arma ideologica» di sfruttamento delle nazioni arretrate, ad opera delle nazioni ricche per perpetuare il predominio economico e politico dell’Occidente. Nell’analisi di Gullo, gli Stati periferici «si organizzano attorno a strutture egemoniche di potere politico ed economico il cui nucleo è formato dagli Stati centrali», che sono il risultato di un lungo 231. G. Allardyce, Cosa non è «fascismo». Riflessioni sulla deflazione di un concetto, in R. De Felice (a cura di), Il fascismo. Le interpretazioni dei contemporanei e degli storici, Milano, Mondolibri, 1998, pp. 773, 777–778. 232. A.J. Gregor, Riflessioni sul fascismo italiano, cit., p. 84.

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processo storico iniziato a partire dal XV secolo con la formazione dei grandi Stati nazionali233 . Ciò che contraddistingue questi Stati centrali è l’alleanza — sviluppatasi al loro interno e durata sino agli anni Settanta del Novecento — tra la borghesia industriale (ossia il “capitale produttivo”) e l’élite politica. Questi Stati hanno raggiunto una elevata soglia di potere, per cui partecipano come attori principali alla costruzione dell’ordine internazionale. Gli Stati periferici con una bassa soglia di resistenza, cioè dotati di scarsa autonomia politica, sono compresi «nell’orbita delle Potenze egemoniche», e non dispongono delle condizioni necessarie per opporsi, o stabilire un limite, a tali egemonie234 . Gli Stati periferici sono così subordinati alle Potenze egemoniche, e tale processo è permanente «dato che la subordinazione della periferia è la condizione necessaria per la sussistenza stessa delle strutture egemoniche di potere»235 Il processo di subordinazione del mondo extraeuropeo ha avuto origine nel 1492 e fu contraddistinto da tre fasi: «La prima vide la conquista del continente americano, la seconda gravitò attorno all’assoggettamento dell’Asia ed ebbe come evento storico principale il controllo su India e Cina, paesi di grande importanza strategico–economica. La terza fase, infine, consistette nella sottomissione dei paesi islamici e dell’Africa subsahariana»236 . Le potenze egemoniche cercano di fare in modo che lo sviluppo politico, economico e militare degli Stati subordinati non colpisca i loro interessi. Tramite la subordinazione ideologico–culturale «gli Stati centrali sostituiscono la minaccia o l’uso della forza con la seduzione e la persuasione per realizzare i propri scopi»237 , ed è un processo che è stato definito «imperialismo culturale», indispensabile per mantenere la struttura egemonica del potere. Questa subordinazione culturale permette la formazione — negli Stati subordinati — di una «sovrastruttura culturale», che serve ad impedire l’aVermazione di un pensiero antiegemonico. A questo punto è chiaro che l’obiettivo principale degli Stati periferici è quello di «raggiungere la soglia di potere e di sviluppo» 233. M. Gullo, Insubordinazione e sviluppo, Roma, Fuoco Edizioni, 2014, pp. 34–35. 234. Ivi, pp. 43–44. 235. M. Gullo, La costruzione del potere. Storia delle nazioni dalla prima globalizzazione all’imperialismo statunitense, Milano, Vallecchi, 2010, p. 44. 236. Ivi, p. 41. 237. Ivi, p. 45.

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necessaria per uscire dallo stadio di subordinazione in cui si trovano. Molti Stati sono riusciti nell’impresa: la Germania uscì dalla sua condizione subordinata quando Otto von Bismark portò a termine il processo di unificazione nazionale, cui fece seguito una rapida industrializzazione. Il Giappone riuscì a non sottomettersi all’egemonia europea grazie alla rivoluzione Meiji. Gli Stati Uniti, paese periferico e storicamente subordinato alla Gran Bretagna, riuscirono a compiere un arduo processo di insubordinazione e — col tempo — a divenire a loro volta uno Stato subordinante. La pre–condizione necessaria per uscire dallo stato di subordinazione è rappresentata dalla nascita di un pensiero critico: In alcuni degli Stati che sono stati sottomessi dalle Potenze egemoniche ad una politica di insubordinazione culturale sorge, come reazione, un pensiero critico che porta avanti una “insubordinazione ideologica” che è sempre la prima tappa di ogni processo di emancipazione riuscito. Quando tale pensiero critico riesce a plasmarsi in una politica di Stato, allora inizia un processo di “insubordinazione fondante” che, se riuscito, riesce a rompere le catene che legano lo Stato, sia culturalmente, che economicamente e politicamente, alla Potenza egemonica.238

Lo sviluppo economico e tecnologico intrapreso da una nazione arretrata è una tappa fondamentale nel processo di insubordinazione. La chiave dello sviluppo economico è costituita dall’industrializzazione, che implica un processo di accumulo e di organizzazione delle risorse. La costruzione del potere nazionale e l’uscita dall’arretratezza economica richiede necessariamente un forte impulso statale, perché è solo grazie ad esso che si possono mobilitare le risorse potenziali e indirizzarle all’emancipazione nazionale. Per “impulso statale” Gullo intende «tutte le azioni svolte da una unità politica che tendono a incoraggiare, potenziare, indurre o stimolare lo sviluppo o il raVorzamento di qualsiasi elemento che integra il potere nazionale»239 . Il potere nazionale di uno Stato è determinato da diversi elementi che Hans Morgenthau colloca in uno schema piramidale. Partendo dalla base e scorrendo fino al vertice ritroviamo: la geografia, l’autosuYcienza alimentare, le materie prime, la produzione industriale, l’infrastruttura militare, la dimensione e la qualità della popolazione 238. M. Gullo, Insubordinazione e sviluppo, cit., p. 56. 239. Ivi, p. 47.

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dello Stato, carattere e morale nazionali, diplomazia e — infine — personalità di un grande uomo/statista al vertice240 . Le nazioni egemoniche, attraverso il dominio culturale da esse esercitato, tentano di impedire lo sviluppo economico delle nazioni subordinate, inculcando e diVondendo le teorie liberiste e liberoscambiste. Il principio del libero mercato (laissez faire) viene diVuso come dogma proprio da quelle stesse nazioni che hanno raggiunto il loro sviluppo mediante politiche improntate su forti interventi statali e protezionismo. Attraverso la falsificazione della storia, le grandi Potenze perseguono l’obiettivo che gli Stati periferici ignorino come esse hanno raggiunto il proprio potere nazionale [. . . ]. La falsificazione della storia nasconde che tutte le nazioni sviluppate arrivarono ad esserlo rinnegando alcuni dei principi fondamentali del liberalismo economico, soprattutto quello del libero commercio, cioè applicando un forte protezionismo economico, ma consigliano ai Paesi in via di sviluppo o sottosviluppati l’applicazione severa di una politica economica ultraliberale e del libero commercio come cammino al successo.241

Come può essere utile l’interpretazione di Gullo per comprendere il fascismo? Se si analizzano le condizioni dell’Italia dalla sua unità ai primi decenni del Novecento, è facile scorgere come essa presentasse tutte le caratteristiche di una nazione arretrata e subordinata all’egemonia di nazioni più potenti. Situata nella periferia d’Europa, l’Italia era considerata una «pedina» nelle relazioni internazionali tra le grandi Potenze. Come ha scritto Renzo De Felice, ciò che «Londra concedeva all’Italia, e che quest’ultima non poteva realisticamente pretendere di mutare, era un ruolo subalterno, di pedina sullo scacchiere europeo e mediterraneo della politica britannica»242 . Questa situazione fu resa evidente a tutti all’indomani del primo conflitto mondiale: I trattati di pace che chiusero la guerra mondiale, con le loro clausole economiche, con i loro trasferimenti territoriali [. . . ] consacrarono la supremazia economica e politica di un piccolo gruppo di Stati, nei quali ravvisiamo oggi le cosiddette Grandi Democrazie, a danno degli Stati non abbienti, nei quali oltre ai Paesi vinti, colpiti nei loro possedimenti, nelle loro flotte, nei loro commerci e nelle loro principali risorse, venne a trovarsi anche 240. M. Gullo, La costruzione del potere, p. 61. 241. M. Gullo, Insubordinazione e sviluppo, cit., pp. 71–72. 242. R. De Felice, Breve storia del fascismo, Milano, Mondadori, 2002, p. 66.

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Antonio Messina l’Italia, tradita nelle sue aspirazioni e misconosciuta nei suoi diritti. Tutta la politica del dopoguerra delle Grandi Democrazie è volta a consolidare la loro supremazia [. . . ] a perpetrare l’egemonia dei «beati Possidentes».243

Il sentimento della “vittoria mutilata” che si impose nell’opinione pubblica con prepotenza, fu solo l’esacerbamento di una situazione umiliante che i nazionalisti avevano denunciato fin dall’inizio del secolo. Alfredo Rocco, Enrico Corradini e i nazionalisti avevano rigettato i precetti economici liberisti ed auspicato la nascita di un solido apparato industriale per permettere all’Italia di aVrancarsi dall’egemonia delle potenze capitalistiche. Rocco vedeva nel sistema liberista «tutte le caratteristiche del dogma, dell’idea religiosa» che gli economisti difendevano «con tutta l’intolleranza con cui si difende la verità contro l’errore». E poiché all’interno del sistema liberale «non vi è altra politica doganale possibile, che quella del libero scambio. . . tutti i tentativi di giustificare un diverso sistema doganale, ponendosi dallo stesso punto di vista teorico dell’individualismo economico, debbono considerarsi impossibili e destinati all’insuccesso»244 . Le idee propagandate dai nazionalisti italiani rappresentavano per la prima volta la nascita di un pensiero critico destinato a confluire nella insubordinazione ideologica alle Potenze egemoniche da parte del fascismo di Mussolini. Insubordinazione che divenne fondante quando il fascismo assunse il potere, con il proposito di fare dell’Italia una «Grande Potenza», libera dai vincoli economici, politici e culturali esercitati dalle potenze egemoniche e «plutocratiche». Ed ecco spiegato il ruolo di propulsore dello sviluppo economico esercitato dallo Stato totalitario, attraverso l’autarchia, e la necessità di accumulare il capitale ai fini di una rapida industrializzazione. I fascisti erano pienamente consapevoli del ruolo di nazione subordinata cui l’Italia era costretta, e si impegnarono per sviluppare l’economia della nazione, riducendo il più possibile la dipendenza dalle importazioni dall’estero. Dal canto suo, il partito totalitario provvide a mobilitare tutta la popolazione per il raggiungimento di questa grande impresa, facendo largo uso di miti politici per creare quel senso di unità e di coesione morale indispensabili per il raggiungimento degli obiettivi politici del fascismo. I fascisti sostenevano che l’economia mondiale 243. E. Massi, Democrazie, colonie e materie prime, in «Geopolitica», anno I, n. 1, 31 gennaio 1939–XVII, p. 18. 244. A. Rocco, Scritti e discorsi politici, vol. I, pp. 39–40.

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era nelle mani di poche nazioni ricche, che «detenevano di fatto il monopolio delle materie prime stabilendone anche i prezzi sul mercato mondiale, esse avevano acquisito un controllo indiretto su tutti gli altri Paesi, poveri di materie prime sui propri territori, che volevano aVrancarsi da un’economia prevalentemente agricola per avviarsi sulla strada dell’industrializzazione: frustandone gli sforzi e alimentando una eccessiva discrepanza nella distribuzione delle risorse, delle ricchezze mondiali e nelle capacità di produzioni belliche»245 . Il fascismo non esitò a scendere in guerra contro queste Potenze egemoniche, credendo di poter edificare una nuova Europa, plasmata sui principi economici, sociali e politici della «rivoluzione fascista». Ideologi fascisti come Carlo Costamagna sognavano una «autarchia delle nazioni», ossia «l’indipendenza politica e la pienezza spirituale» delle nazioni, in opposizione agli «imperialismi plutocratici». Costamagna auspicava la collaborazione tra tutte le nazioni povere di materie prime in una «economia plurinazionale associata» aperta a tutti i paesi interessati a partecipare, decisi ad unirsi in un «assetto federativo plurinazionale politico», ossia una «etnarchia imperiale europea»246 . In conclusione, se questa interpretazione ha delle basi “scientifiche”, se ne possono evincere i seguenti punti: a) tutti i Paesi che nel corso della storia hanno raggiunto un elevato stadio di sviluppo hanno potuto farlo percorrendo la strada del processo d’industrializzazione, che ha permesso loro di raggiungere la crescita economico–tecnologica in perfetta contraddizione con i principi dell’economia classica liberista. Tali nazioni, una volta sviluppatesi, sono diventate le principali propagatrici del libero commercio e della libera azione del mercato, per impedire ai Paesi arretrati di seguire il medesimo percorso di sviluppo. In tal modo diversi paesi sono diventati dei mercati passivi per i prodotti industriali dei Paesi più avanzati; b) i Paesi che hanno accettato i principi del liberismo si ritrovano nella condizione di “Stati subordinati”, solitamente periferici, sottomessi alle Potenze egemoniche industrialmente 245. G. Sinibaldi, La Geopolitica in Italia (1939–1942), Padova, Libreria Universitaria, 2010, pp. 65–66. 246. C. Costamagna, Dottrina del fascismo, Torino, UTET, 1940, pp. 457–458.

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sviluppate. Il superamento di questa condizione è possibile solo per mezzo di una insubordinazione fondante, ossia una totale contestazione del pensiero dominante liberista, e dall’applicazione dell’impulso statale per assicurare una rapida industrializzazione; c) l’Italia prefascista era una nazione industrialmente ed economicamente arretrata, e come tale trattata “da pedina” nel sistema delle relazioni internazionali. I primi a contestare questo stato di cose e a promuovere una severa critica all’ideologia dominante furono i nazionalisti di sviluppo e i sindacalisti nazionali, assertori della necessità di un accelerato sviluppo economico e di una emancipazione dell’Italia «proletaria» dall’egemonia delle nazioni ricche; d) i nazionalisti e i sindacalisti nazionali confluirono nel fascismo, il primo movimento di massa deciso ad impegnare la totalità delle forze nazionali per un rapido sviluppo economico della penisola. In tal senso il fascismo fu una «dittatura di sviluppo» ( James Gregor), che per mezzo delle politiche autarchiche diede un forte impulso statale all’industrializzazione (L. Garruccio). Ciò che distinse il fascismo dagli altri modelli di insubordinazione ideologica fu il rifiuto netto e globale dell’ideologia dominante, sia sul piano politico che sul piano economico, nella convinzione che solo lo Stato totalitario avrebbe potuto educare le masse, nazionalizzarle, integrarle nella disciplina di un partito–milizia e mobilitarle per il conseguimento dei suoi scopi rivoluzionari. Questi scopi consistevano nella distruzione dell’egemonia delle nazioni ricche sulle nazioni povere e nell’edificazione di un nuovo assetto politico, sociale ed economico su scala globale. In tal senso l’imperialismo fascista fu il tentativo disperato di riequilibrare gli assetti geopolitici ed uscire dallo status di “paese subordinato” che sino ad allora caratterizzava l’Italia; e) il processo di insubordinazione fondante conduce inevitabilmente ad uno scontro tra progetti politico–economico–culturali opposti, che può essere risolto soltanto con il trionfo — pacifico o violento — di una concezione sull’altra. La “rivoluzione americana” è stata l’esempio di un trionfo violento di un progetto di insubordinazione riuscito. La guerra fascista contro le «plutocrazie» è stata il tentativo, fallito, di far trionfare i principi della via italiana all’insubordinazione fondante;

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f ) categorie interpretative della storiografia quali il «totalitarismo» e la «dittatura di sviluppo» sono comprensibili se inquadrate in una più ampia visione del fascismo come insubordinazione ideologica alla democrazia liberale e al socialismo marxista, propugnante l’aVermazione di una «terza via» capace di emancipare l’Italia dall’egemonia delle nazioni «plutocratiche», e di proiettarla sul piano internazionale nella funzione di creatrice di una «nuova civiltà». In tal senso il fascismo fu una rivoluzione culturale ed etica (Giuseppe Bottai), alternativa all’individualismo ed al collettivismo, con forti radici nell’humus culturale della tradizione italiana (Giovanni Gentile). Conclusioni Per diversi decenni lo studio della politica economica fascista è stato falsato da una sequela di pregiudizi che ne hanno inficiato una corretta comprensione, cosicché è prevalsa l’attitudine ad analizzare le azioni intraprese dai fascisti come il risultato di una politica spregiudicatamente pragmatista, irrazionale e disorganica. Solo a causa di questi pregiudizi è stato possibile sostenere che i fascisti non avessero un programma economico razionale e coerente, che la loro politica economica (almeno nella prima fase) fosse ispirata all’ortodossia liberista, e che l’autarchia e l’intervento pubblico che ne caratterizzarono la successiva fase fossero una conseguenza empirica della crisi economica mondiale. Se si è disposti a studiare la politica economica fascista ponendola in correlazione con la sua politica totalitaria, si può avere una visione d’insieme più chiara e lineare. L’Italia era una nazione storicamente arretrata e subordinata all’egemonia di alcune Grandi Potenze, e di questa egemonia soVrivano in particolar modo i nazionalisti ed i sindacalisti nazionali, che sognavano un destino di grandezza e di potenza per la nazione. Fu dalla mente di alcuni nazionalisti italiani che furono via via elaborate le critiche al sistema economico liberista ed a quello socialista, ponendo le basi di una nuova teoria economica nazionale, che fu assimilata dal fascismo con il proposito dichiarato di portarla a compimento. Sin dal 1919 Mussolini e i fascisti parlarono di autarchia, di corporativismo e di rapido sviluppo economico della nazione come presupposti necessari per la rinascita della nazione. Il nascente fascismo, approfittando del-

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l’inettitudine delle istituzioni, dei partiti e dell’élite tradizionale, oVrì un insieme coerente di politiche “nazionali” e “sociali”, promettendo di ristabilire l’ordine, proteggere la proprietà privata e promuovere lo sviluppo economico della nazione, ma anche di implementare una vasta gamma di misure di assistenza sociale. Il PNF sottolineò ripetutamente come la ricchezza comportasse responsabilità, così come i privilegi, e che dovesse essere somministrata in conformità con l’“interesse superiore della nazione”. Il PNF si impegnò a superare le divisioni che aZiggevano l’Italia e promuovere l’unità nazionale, dando la priorità agli interessi della nazione rispetto a quelli di qualsiasi classe, ceto o gruppo. Alfredo Rocco fu estremamente sincero nel 1922 quando scrisse che «il nazionalismo e il fascismo possono dire veramente che sono andati al potere per realizzare ciò che è l’essenza stessa della loro dottrina. Siamo in grado di essere logici nell’azione, perché siamo stati logici nel pensiero»247 . Il fatto che prima di giungere al potere Mussolini invocasse un ritorno allo Stato manchesteriano non deve trarre in inganno: ciò che i fascisti volevano spogliare da tutti i suoi attributi economici era lo Stato liberale, giudicato incapace di poter incidere positivamente sullo sviluppo della nazione. Nei primi anni di Mussolini al Governo la priorità dei fascisti era stata quella di acquisire il monopolio totalitario del potere, e solo quando i partiti antifascisti furono neutralizzati il fascismo poté avviare ad una più intensa fascistizzazione dello Stato, che ebbe come logica conseguenza quella di subordinare l’economia agli scopi politici del fascismo. Nel corso di questi sviluppi, la borghesia e la leadership industriale italiana furono costrette a sottomettersi politicamente al fascismo, che spogliò la proprietà della sua natura “privatistica” per assegnarle una funzione “sociale”. La crisi economica mondiale del 1929 rivelò a Mussolini il generale fallimento della civiltà occidentale, perennemente arroccata su posizioni liberal–capitalistiche, e rafforzò in lui la convinzione che il fascismo dovesse presentarsi come un modello alternativo, fornito di «un suo proprio inconfondibile punto di vista, di riferimento — e quindi di direzione — dinnanzi a tutti i problemi che angustiano [. . . ] i popoli del mondo»248 . Il risultato della crisi fu quello di accelerare il totalitarismo fascista, che si servì di solidi strumenti economici, come l’IRI, per con247. A. Rocco, Il principio economico della Nazione, cit., vol. II, p. 717. 248. B. Mussolini, La dottrina del fascismo, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1937, p. 12.

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trollare l’economia ed indirizzarla verso una crescita autarchica della nazione. I fascisti erano pienamente consapevoli del fatto che il processo di insubordinazione della nazione italiana dall’egemonia delle nazioni plutocratiche potesse essere conseguito solo attraverso finalità di tipo produttivistico e di sviluppo e quindi, esattamente come i bolscevichi in URSS, si impegnarono in un’intensa opera di industrializzazione della nazione. Questo ha permesso a diversi studiosi di ritenere il fascismo una «dittatura di sviluppo», cioè come un regime politico interessato a portare l’Italia fuori dall’arretratezza economica che la caratterizzava. Lo sviluppo, l’industrializzazione e la crescita economica prima, l’imperialismo e la guerra contro le plutocrazie poi, rispondevano tutti ad un’unica logica coerente: quella di emancipare l’Italia, proletaria e fascista, dal predominio delle nazioni potenti e “ricche”. La peculiarità del fascismo rispetto agli altri modelli di insubordinazione ideologica che hanno fatto la loro apparizione nel mondo, sta in ciò: mentre le altre nazioni, nella maggioranza dei casi, hanno affrontato il processo di insubordinazione opponendosi esclusivamente al liberismo economico, l’opposizione fascista fu triplice; insubordinazione filosofica al materialismo e al positivismo, insubordinazione politica alla democrazia e al liberalismo, insubordinazione economica al liberismo e al capitalismo. In tal senso l’insubordinazione fascista fu un modello di insubordinazione totalitario, estremamente unico e originale, che non sembra aver trovato riscontri in altri modelli simili.

L’economia nello stato totalitario fascista ISBN 978-88-255-0372-2 DOI 10.4399/97888255037224 pag. 85–149 (giugno 2017)

From Malthus to Mussolini The Politics of Population, the Fascist “Welfare–Warfare” State and Working–Class Women in Italy Maria Sophia Quine⇤

For much of the time since the end of the Second World War, the dominant view of Italian Fascism, as both movement and regime, was that it was without purpose or coherence. Beyond the attainment of power, the argument went, Italian fascism lacked substance and direction, and had no clear–cut vision for the future. In Great Britain, the historiography was for a long time dominated by the single voice of Denis Mack Smith, who, as is obvious today, tended to trivialize the ideological and political commitments of Italian fascism and depict Mussolini as a blustering buVoon1 . Fascism seemed directionless, slapdash, and improvised in its handling of the hard graft of governance, planning, and policy. Fascism was all image and propaganda. Like Juan Linz, most commentators emphasized that the Italian fascist dictatorship was authoritarian, rather than totalitarian (and weak, rather than strong); or even that it was a “Mussolinian” dictatorship, rather than a one–party state2 . In those decades after the fall of Nazi–Fascism, the magnitude of the Holocaust overwhelmed scholars, so much of the attention fell upon the Third Reich, rather than Fascist Italy. People forgot that Italian Fascism was the first fascism and that it provided a model and a template for those, like Hitler, that followed its lead, — not just in Europe, but also in kindred “Latin” and South American countries, and, indeed, throughout the globe. ⇤

Senior Research Fellow in Storia della razza, fascismo, ed eugenetica presso il Centre for Medical Humanities della Oxford Brookes University. 1. D. Mack Smith, Mussolini’s Roman Empire (London 1976) and Mussolini (London 1981). 2. J.J. Linz, Some Notes towards a Comparative Study of Fascism in Sociological Historical Perspective, in W. Laqueur (ed.), Fascism: A Reader’s Guide: Analyses, Interpretations, Bibliography (Berkeley and New York 1976), 3–121; R.J.B. Bosworth, The Italian Dictatorship: Problems and Perspectives in the Interpretation of Mussolini and Fascism (London and New York 1998), chs. 3 and 6.

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Historians seeking to make sense of the horrors of the gas chambers saw, in Nazism, either an “exceptional State” or “generic” fascism in its “purest” and most “perfect” form, — a murderous, genocidal, nihilistic “Racial State”» single–mindedly intent upon the realization of its goals. As the intentionalist–structuralist debate raged, in the so–called Historikerstreit (Historians’ Dispute) in West Germany in 1986–1989, and amongst Germanists writing in Britain (and, then, the USA) throughout the 1990s, advances in the understanding of the workings of Italian fascism were few3 . The 1930s in Italy were an “unknown” decade, and even less work had been done on the 1940s. The view of Italian fascism as devoid of imperatives, racial or otherwise, seemed fixed and unshakable. Compared to the study of the Third Reich, which dominated and still dominates history curricula in British schools and universities, and holds an unhealthy fascination in the popular imagination, revisionism was slow to take root in British interpretations of Italian fascism and, sadly, there was not much of any debate at all. This sorry state of aVairs prompted Tim Mason, the specialist in Nazism, who, before his death, had turned his attention to the study Italy, to ask “Whatever Happened to Fascism?”4 Things started to change and move forward, eventually; however, only in the last few decades have major studies been published which have deepened understanding of how fascism governed Italy, what it hoped to achieve, and what the impact of its institutions actually was. Some of the stimulus for this belated growth–spurt came from the United States5 ; but, in recent years, Britain has been home to some of the most interesting and innovative approaches to the study of Italian Fascism6 . 3. I. Kershaw, The Nazi Dictatorship: Problems and Perspectives of Interpretation (London 1985), which outlines his view of the Nazi Germany as a variant of generic fascism and as a chaotic collection of rival bureaucracies, rather than a totalitarian monolith. 4. T. Mason, Whatever Happened to Fascism?, «Radical History Review», 49 (Winter 1991), 89–98. 5. From scholars like V. De Grazia, How Fascism Ruled Women: Italy 1922–1945 (Berkeley and Los Angeles 1992) and R. Ben–Ghiat, Fascist Modernities: Italy 1922–1945 (Berkeley and Los Angeles 2001). 6. The new, so–called “popular history” of fascism arose in Italy, first, of course, but it had its flowering in the work of the British academic, Christopher Duggan: see his Fascist Voices: An Intimate History of Mussolini’s Italy (New York 2012). Also, see K. Ferris, Everyday Life in Fascist Venice, 1929–1940 (Basingstoke 2012); P. Bernhard, Renarrating Italian Fascism: New Directions in the Historiography of a European Dictatorship, «Contemporary European History», 23:1 (February

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In the past, the historiographical tendency was to emphasize the dysfunctionality, ineYciency, and amateurishness of fascist institutions. The study of Italian fascism is now experiencing a period of renovation and renaissance; this is unlikely to cease in the foreseeable future, as the rise of populist racism–nationalism and the “Alt–Right” in Europe and North America, with their disturbing parallels to historic fascisms, will keep this interest current. The pendulum has swung in the opposite direction, as new works make the claim that the dictatorship was totalitarian not just in intent, but also, and more importantly, in practice. Employing the interpretative framework of totalitarianism, a concept devised by political scientists, historians have begun to re–examine some of the most fundamental assumptions about fascism in power7 . Most notably, the works of Anthony James Gregor have undergone a much–needed resuscitation8 . Historical writing is cyclical, as “hot” topics and trends move it along, often en bloc, and dictate changing trends and fashions. The latest tendency is for “intentionalism”, Italian–style, and the theory of “totalitarianism” to be the dominant ontology for the study of fascism. A new, hegemonic paradigm reigns supreme; this narrative maintains that fascism, along the lines which A. James Gregor suggested repeatedly, enacted a modernist, totalitarian “revolution” in Italy. Perhaps the strongest expression of this tendency has been the recent work of Michael Ebner, which attempts to show the centrality of violence to fascist rule and depict the regime as a “totalitarian” police 2014), 151–63; and M. Lyons, Ordinary Writings or How the “Illiterate” Speak to Historians, in M. Lyons (ed.), Ordinary Writings, Personal Narratives: Writing Practices in Nineteenth and Early Twentieth–Century Europe (Bern and Berlin 2007), 13–32, 24. This new field, like so many of the impulses behind the historiography of Italian fascism, emanated originally from Germany: the micro–historical methods associated with Alltagsgeschichte, and developed in the 1980s by Alf Lüdtke and Detlev Peukert, put the emphasis firmly upon the lived experience of “everyday fascism”. 7. P. Grieder, In Defense of Totalitarianism as a Tool of Historical Scholarship, «Totalitarian Movements and Political Religions», 8 (September 2007), 562–589: On 25–26 November 2016, The Association for the Study of Modern Italy hosted its Annual Conference on the theme of “The Force of History: Critical Perspectives on the Historiography of Modern Italy” at the Institute of Historical Research and the Italian Cultural Institute, London. I organized, and co–chaired, along with Adrian Lyttleton, three sessions on “Fascism and Totalitarianism” in which these issues were discussed; Paul Corner served as the keynote speaker. 8. A.J. Gregor, The Ideology of Fascism: The Rationale of Totalitarianism (New York 1969), Italian Fascism and Developmental Dictatorship (Princeton 1979), and Young Mussolini and the Intellectual Origins of Fascism (Berkeley 1979).

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state projecting its immense repressive power deeply and diVusely throughout Italian society. It is certainly not my attention to diminish the coercive aspects of Italian fascist rule; however, in my opinion, it is quite wrong to assert, as defenders of this thesis do, that Fascist Italy was just as repressive as Nazi Germany or Stalinist Russia9 . Though it is diYcult to “quantify” the pain, misery, and oppression visited upon the victims of repressive regimes, — and the Italian dictatorship was certainly not benign, — it is absurd, and almost oVensive, to argue that no degree of diVerence separates Himmler’s system or the Soviet gulags from Italian fascist barbarism and brutality10 . Indeed, levels of repression were far greater in Franco’s Spain (not conventionally considered a member of the fraternity of “totalitarian” regimes), where a dictatorship built, as the Generalissimo proudly proclaimed, by “Blood and Bayonets” used massive repression and “extermination” on a grand scale; through its “cleansing” operations against opponents, Franco’s National Catholic State executed or allowed to die in prison approximately 200,000 people, while the regime’s systematic recourse to torture, rape, forced labour and exile was routine and commonplace11 . The use of violence against its own citizenry, or against external enemies, was, in the past, and is not, in the present, confined to fascist or communist states, making the whole problem particularly intractable and contentious. During the “Mau Mau” rebellion in Kenya, for example, the British imprisoned 1.5 million suspected insurgents, 300,000 of whom died in political prisons12 . Though a potentially useful construct, with many valuable insights, the theory of totalitarianism, when applied indiscriminately and un9. M.R. Ebner, Ordinary Violence in Mussolini’s Italy (Cambridge 2010); and the review of it by Philip Morgan in «European History Quarterly», 43:2 (April 2013), 355–356. Ebner and Morgan’s figures diVer, but, by their estimates, there were between 15,000–17,000 people sent to confino between 1926 and 1943, and about 160,000 appeared in police files over the same period as having received the ammonizione, or the sanction placing a person under restrictive surveillance for two years. 10. S. Wheatcroft, The Scale and Nature of German and Soviet Repression and Mass Killings, 1930–1945, «Europe–Asia Studies», 48:8 (1996), 1319–1353. 11. M. Richards, The Limits of Quantification: Francoist Repression and Historical Methodology, «Hispania Nova», 7 (2007); http://hispanianova.rediris.es, accessed on 2 March 2017; A. Costa Pinto, Introduction: Repression and Cooptation in Mass Dictatorship, in P. Corner, J.H. Lim (eds.), The Palgrave Handbook of Mass Dictatorship (London 2016), 101–104. 12. J. Newsinger, Revolt and Repression in Kenya: The “Mau Mau” Rebellion, 1952–1960, «Science and Society», 45:2 (Summer 1981), 159–185.

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critically to Fascist Italy, can be taken to the extreme and ad absurdum. Nonetheless, the new historiography has, at last, taken the totalizing aims of the fascist modernist project seriously and has placed this at the forefront of research and thinking. Historians have always talked about their sources, of course; however, fascist studies have been revived in recent years by the multiplication of the sources consulted, a proper dialogue about the nature of the documentation available, the extension of questioning into new areas (such as the interface between the private and public domains under the dictatorship, the impact of science and scientism upon fascist policy and institutions, and the realities of daily life in the dictatorship) and the formulation of new kinds of questions altogether. Theoretical and philosophical considerations have also enriched the historical method and deepened understanding. The theory of fascism can, however, sometimes take precedence over the study of fascism. Fixation over concepts such as “polycentrism” and the like can blinker the historical vision. To my mind, one must never forget the very wise counsel of Stanley Payne, whose work has shown that the theory must come out of the history, not the reverse, and that to understand fascism is to write its history13 . This rather schematic outline of mine, which follows, will describe some of the lineaments of the Italian Fascist Welfare State. It derives from my own work in the history of welfare provision towards mothers, children, and the family in liberal and fascist Italy. The theme of this special issue of the journal seeks to reassess the contribution of A. James Gregor to fascist studies. The main thrust of Gregor’s work has been the depiction of Italian fascism in power as a “developmental dictatorship”, with a totalitarian character. Given the constraints of space, I will limit my exploration only to those aspects of Gregor’s thesis which have direct relevance to the social sphere. Gregor was quite right to assert that Italian fascism, the most intellectual, modernizing, pioneering and trend–setting of all inter–war fascisms, cannot be characterized, as so many scholars have done, as a movement and a regime “entirely lacking a reasoned rationale”, “empty of cognitive content”, and reducible to nothing more than “irrationalism and criminal violence”14 . Critics have found 13. S. Payne, A History of Fascism, 1914–1945 (Madison and London 1995); see too, R.O. Paxton, The Anatomy of Fascism (New York 2004). 14. A.J. Gregor, Mussolini’s Intellectuals: Fascist Social and Political Thought (Princeton 2005), quotes on pp. 1 and 3.

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fault in the view that “fascism was a mass mobilizing developmental dictatorship” based upon “a coherent, logically consistent theory of modernization”15 . My point of departure in this piece is acceptance of Gregor’s interpretation of fascism as being programmatical and purposeful in nature; fascism had its own agency and its own political objectives, chief amongst which was the goal of population increment. Imperial and industrial expansion depended, it was felt, upon the success of the demographic campaign. The realization of its political programme was dependent upon its ability to re–structure the state along “totalitarian” lines. Fascism’s attempts to modernize and transform society and the economy were subject to the “primacy of politics”, to borrow an expression aptly used by Tim Mason to describe how National Socialism in Germany used economic policy as an instrument of its political aims16 . In Fascist Italy, social policy, too, was subject to overriding political exigencies. The new histories have finally discredited the old–fashioned view of Italian Fascism as empty of all but rhetoric; in so doing, they have brought thinking more in line with Gregor’s perspective17 . Fascism, as scholars now recognize, obliterated the distinction between the “public” and “private” domains and represented a complete negation of social, economic, and political liberalism in favour of statism, activism, and interventionism in all spheres. However, fascism in power was neither tyrannical, nor monolithic, as some recent historians have claimed. Totalitarianism was an on–going, shifting, and evolving project and process: it was a state of becoming, not being in fascist Italy. There were successes and failures along the way; and, there was ever a diVerence between promise and praxis, intent and actuality, myth and reality.

15. J.S. Cohen, Was Italian Fascism a Developmental Dictatorship?: Some Evidence to the Contrary, «Economic History Review», 2nd series, XLI:1 (1988), 95–113, esp. 95; Cohen criticized Gregor for ascribing to fascism a high degree of political autonomy and the will to use this to further its aims. 16. T. Mason, The Primacy of Politics: Politics and Economics in National Socialist Germany, in Henry A. Turner (ed.), Nazism and the Third Reich (New York 1972), 175–200. Fascism did not destroy capitalism, of course; nonetheless, it was no pawn of the “big agrarians” or proverbial “bourgeoisie” and no agent of capitalism. It promoted the interests of native industry and agriculture of strategic importance to its vision and plan. 17. See, for example, M. Palla, Mussolini e il fascismo (Florence 2006).

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1. Welfare as Social Control In much of the vast literature on the growth and expansion of the regulatory and administrative functions of modern European states, accompanying industrialization, the rise of mass society, and “total” war in the nineteenth and twentieth centuries, there is a marked tendency to see welfare as a form of social control. This trend is most evident in studies of the classic German model, the first comprehensive “welfare state” — the Bismarckian social —insurance state. Workers in Germany were given extensive social insurance benefits in compensation for their lack of political power in a repressive and autocratic “feudal–dynastic” state, the arguments went. Bismarck’s claims that he learned from Napoleon III’s style of governance the valuable lesson that popular reforms could buy social peace are taken seriously by scholars who describe a “Bonapartist” model of the welfare state. Bismarck’s “reactionary” motives are commonly held to lay behind the introduction of old–age pensions, sickness insurance, and workers’ compensation. The Iron Chancellor wished only to domesticate the working class and prevent the Social Democrats from increasing their influence over the proletariat. Social policy served the dual political function of compensating workers for their disempowerment by the state and of stabilizing the capitalist order by minimizing class conflict18 . Welfare–state building, in Imperial Germany, Fascist Italy, and elsewhere, was neither so successful, nor so simple as this interpretation would have us believe. Palmiro Togliatti was the first commentator to note the importance of fascism’s social policies to the consolidation of Mussolini’s dictatorship. In his Lectures on Fascism, he alluded to the “ideological hold” which the fascist regime seemingly gained over the working class through its mass–mobilizing organizations. Although he failed to mention the Opera Nazionale per la Protezione della Maternità e dell’Infanzia (hereafter ONMI)19 in his list of relevant institutions, or women specifically as a special category for consideration, he recognized the importance of social policy as a means by which to cultivate consent. Togliatti believed that the Duce possessed a keen understanding of the political benefits of state and party–run welfare 18. P. Baldwin, The Politics of Social Solidarity: Class Bases of the European Welfare States, 1875–1975 (Cambridge and New York 1990), 39–40. 19. M.S. Quine, Population Politics in Twentieth–Century Europe, ch. 1.

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programmes. He portrayed the winter–relief work of the PNF’s Ente Opera Assistenza (EOA) as an especially ingenious scheme to ward oV popular discontent in a period of high unemployment20 . Renzo De Felice’s fourth volume on Mussolini received much fierce criticism because of its bold assertion that the dictatorship enjoyed its greatest “consensus” and “solidarity” in the years 1929–1934, a period which curiously coincided with a profound economic crisis21 . Evidenced in its many social promises and initiatives, fascism’s chief ambition, De Felice argued, was to gain the genuine loyalty of the masses22 . In her study of the regime’s regimentation of workers’ leisure–time activities, Victoria de Grazia also made reference to the “mediating” eVects of welfare. According to her, fascism used public provision as a particularly eVective diversionary tactic during a prolonged depression23 . Other historians, too, have argued that the fascist government devised strategies for social pacification because its deflationary measures of 1927–1935 proved to be so damaging to the living standards of “ordinary” Italians24 . Much of this literature takes a functionalist and reductivist approach by emphasizing how welfare can stabilize the capitalist order by minimizing class conflict. Scholars describe fascist welfare as an instrument of “social control”25 . Underlying this interpretation are often unspoken assumptions about “good” and “bad” welfare regimes. An implicit contrast is often made between manipulative Nazi–Fascist–Totalitarian–type welfare (and Bismarckian, even though Bismarck himself described 20. P. Togliatti, Lectures on Fascism (New York 1976), 46; 48; 73 and 144: first published as Lezioni sul fascismo (Rome 1970). 21. R. De Felice, Mussolini il duce: Gli anni del censenso, 1929–1936, vol. I (Turin 1974), 55. 22. R. De Felice, Mussolini il fascista: L’organizzazione dello stato fascista, 1925–1929, vol. II (Turin 1968), 264–265: although this volume examines fascism’s integrative social initiatives, welfare is left unexplored because of De Felice’s restrictive definition of social policy. 23. V. De Grazia, The Culture of Consent: Mass Organization of Leisure in Fascist Italy (Cambridge 1981), viii; ch. 1. 24. C. Saracena, La famiglia operaia sotto il fascismo, «Annali Feltrinelli», 20 (1979 —1980), 189–321; D. Preti, Per una storia sociale dell’Italia fascista: la tutela della salute nell’organizzazione dello stato corporativo, in M.L. Betri, A.G. Marchetti, F. Angeli (eds.), Salute e classi lavoratrici in Italia dall’unità al fascismo, (Milan 1982), 797–834. R. De Felice, Interpretations of Fascism (Cambridge 1977), 12, for a view of welfare as a “social concession”. 25. P. Corner, Il ruolo della previdenza e dell’assistenzialismo sotto il fascismo, in G. Procacci, L. Tomassini, N. Labanca et. al (eds.), Assistenzialismo e politiche di controllo sociale in Italia liberale e fascista (Siena 2001), 201–10, and Fascismo e controllo sociale, «Italia contemporanea», 228 (2002), 381–405.

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his system as “state socialism” in action and wanted his measures to be far more generous than his parliament would allow) and altruistic “social–democratic welfare”. The social–democratic welfare regime common to Scandinavian nations seemingly represents a “model” of a benevolent state dispensing relief generously and copiously as a form of “social citizenship” and as the foundational principle of thoroughly just and egalitarian societies. Countries like Sweden, under the command of the Social Democrats and the influence of the stanchly anti–Nazi, Nobel–prize–winning economist, Karl Gunmar Myrdal, and his wife, Alva Myrdal, a distinguished demographer, supposedly pioneered the use of welfare entitlements as universal benefits of membership in a “special” national community, based entirely upon progressive notions of social inclusiveness, justice, and equality for all. This concept of a superior “Nordic” or Scandinavian model of good, consensus–driven welfare became deeply entrenched in the historical literature and in perceptions of Denmark, Norway, and Sweden (and, sometimes Finland and Iceland) in Europe and globally26 . What appears, superficially, to be the direct antithesis of the “fascist welfare state” is, on closer inspection, revealed to be a hideous chimera. The close relationship between the inter–war Left and the more hereditarian, eliminationist, anti–natalist eugenics associated with the United States and Nazi Germany is only now being examined27 . Underneath the surface of the idealized, imaginary construct of a “Social–Democratic Welfare State” was the reality, we know now, of policies which were highly selective, favouring as they did only those families defined as being “valuable” to the nation, and which were predicated upon the deprivation of reproductive–human rights to those deemed unworthy of inclusion in the nation–race and the rewards of social citizenship28 . Along with Nazi Germany, 26. The idea of a special Nordic or Scandinavian welfare regime was first proposed by Gösta Esping–Andersen in his Three Worlds of Welfare Capitalism (Cambridge 1990); see too M. Hilson, The Nordic Model: Scandinavia since 1945 (London 2008). 27. M.S. Quine, Population Politics in the Twentieth Century, ch. 3. 28. The atrocities committed in Sweden were made public, when, in 1997, a leading newspaper uncovered that a forced (though, insidiously, never “compulsory”) sterilization programme aimed at the “feeble–mined”, the “deviant”, and the “unfit” was undertaken there on eugenic grounds in the years 1934–1975 and that some 21,000 people, mainly women, were “forcibly” sterilized, another 6,000 were coerced into having “voluntary” sterilizations, and 4,000 more individuals may or may not have been sterilized (the estimates do vary and some are as high as 63,000, mostly female victims); furthermore, in 1973–2012, transgendered

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the Nordic–Scandinavian countries (including Iceland and Estonia) all introduced racially–motivated eugenic sterilization laws, beginning in 1929 in Denmark, while most other inter–war European nations, including Fascist Italy, did not. Easy and overly–simplified depictions of the function of welfare in modern societies either as “social control” to domesticate the working class, if implemented under non–democratic auspices, as they were in Fascist Italy, or, if introduced by the Left, as a pioneering form of “social right” need to be challenged. In the last few decades, historians have begun more resolutely to examine the impact of fascism upon women specifically. Perhaps in keeping with the rise of “culturalism” as a dominant and domineering methodology29 within historical writing, and the retreat of feminist, Marxist, and social historical perspectives, much of the newer literature on women “under” fascism has focused on the problem of how the regime’s control of propaganda and the media aVected women; fascism is seen primarily as a discursive, cultural, and rhetorical ideological–ideational nexus assigning conflicting “modernist” and “traditional” gender and sex roles to women (and men). The theme of the fascist imaginary, the topic of the immagine della donna nella stampa (with a long pedigree, dating back to the early endeavours of the journal, DWF: donnawomanfemme, which was founded in 1975), and the dissemination of models of motherhood and “feminine fascism” have received much attention30 . Accompanying the more people seeking gender reassignment in Sweden faced discrimination, as sterilization was made a precondition for sex change: G. Broberg, N. Roll–Hansen, Eugenics and the Welfare State: Sterilization Policy in Denmark, Sweden, Norway and Finland (East Lansing, MI, 1996); M.S. Quine, Introduction, M.S. Quine (ed.), Reproductive Rights and Wrongs: The “Protection” of Mothers and Children under Fascism, Socialism, Democracy, Empire and Islam (forthcoming). 29. I apologize to those whom the following remark may oVend, though I name no names; however, in my opinion, some of the worst excesses of “culturalism”, which emanated from the USA, had the consequence of de–politicizing Italian fascism and making it appear hip, “sexy”, and trendy by emphasizing its attractiveness and appeal. A positive outcome of the cultural turn, however, has been the rise of the new “people’s history”, the history of the emotions, and the “discovery” of the “self ” and the individual in history, which, by utilizing new archival sources, have contributed much to our empirical understanding of the impact of the regime. 30. E. Mondello, La nuova italiana: la donna nella stampa e nella cultura del ventennio (Rome 1987); M. Addis Saba (ed.), La corporazione delle donne: ricerche e studi sui modelli femminili nel ventennio fascista (Florence 1988); M. De Giorgio, Le italiane dall’unità a oggi: modelli culturali e comportamenti sociali (Rome 1992); L. Passerini, Costruzione del femminile e del mashile, dicotomia

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recent trend towards a reinterpretation of fascism as totalitarianism (rather than some variant of Mussolinism or authoritarianism), the mobilization and presumed “fascisticization” of women by the fascist party and state machine has also become a major theme in the literature31 . Sometimes in this historiography, a sense of fascism as a distinct political system and a concrete material reality, which brought real changes to the lives of millions of people, is diminished somewhat in favour of an essentialist view of fascism as being, at the core, best defined as aesthetics, discourse, spectacle — a mere modernist cultural experiment. Nonetheless, the works which have stressed the mediating or compensatory functions of welfare have touched upon important issues concerning the nature of fascist rule. How serious was fascism’s attempt to create a welfare state? How substantive were fascist reforms? Population policy professed to protect Italian mothers at home, but did the stato assistenziale do much to improve the position of women at the workplace? Since labouring women from earliest childhood to advanced old —age made a major contribution to the national economy and to family income, their treatment as workers, especially at a time of high unemployment and reduced earnings, tells us much about the material standing of the working class and the “condition of women” during the dictatorship. Recent historiography has gone well beyond that old question of whether Mussolini’s regime ruled by consent or coercion. For De Feliceans, of course, the Italians were thoroughly “fascistized” masses and willing accomplices in dictatorship, empire, and war. For the anti–De Feliceans, the weight of a “totalitarian” dictatorship bore down heavily upon a people who suVered, but endured or struggled heroically against their oppression. The simplistic binary model of consent/coercion never made much sense, though, as “consent” can never, truly, be given in the context of dictatorship and in the absence of political, civil, and personal freedoms. Even the worst dictators, moreover, want to be liked, on some level. Though not without sociale, e androginia simbolica (Roma and Bari 1995); C. Saraceno, Costruzione della maternità e della paternità, in A. Del Boca, M. Legnani, M. Rossis (eds.), Il regime fascista (Rome and Bari 1995), 475–97. 31. V. De Grazia, Le donne nel regime fascista (Venice 1997); S. Vicini, Fasciste: La vita delle donne nel ventennio mussoliniano (Bresso 2009); V. De Grazia, Femminismo latino: Italia 1922–1945, in La sfera pubblica femminile: percorsi di storia delle donne in età contemporanea (Bologna 1992), 137–54; R. Pickering–Iazzi (ed.) Mothers of Invention: Women, Italian Fascism, and Culture (Minneapolis 1995).

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shortcomings of their own, the new histories of people’s lives have added complexity and nuance. They uncover hitherto uncharted terrain in their exploration of the interface between the individual and the regime; they bring the vast new world of the interiority of human existence under scholarly scrutiny32 . With regard to study of the welfare of the Italian people, much, indeed, has been learned in recent decades, though very much more research on the ground and in the archives, exploring, from all angles, the nature of Italian institutions and the fascist party and state (at the central, regional, provincial and municipal levels, nationwide and through the prism of that favorite endeavor of Italian historiography — the micro–study based on local history, as well as institutional histories) and the lived experience of fascist dictatorship must still be done. And, in the final analysis, as I have said elsewhere33 , whether welfare could cause the Italian people to embrace fascism, as some scholars have suggested, depends largely upon whether the regime could deliver the goods which it promised.

2. Italian Fascist Biopolitics Health and welfare initiatives under fascism were part of a comprehensive, systematic, consistent and coherent programme of social reclamation and socio–biological engineering. Biological racism and pro–conceptive, pro–life and “positive–reformist” eugenics became the matrix of fascism’s vision of a New Man, New Woman, and New Order and informed policy choices and initiatives within this purposeful and programmatical dictatorship determined to improve the “quality” (biology) and increase the “quantity” (number) of the Italian “race”. Far from being inchoate and incoherent, the Italian fascist dictatorship possessed an unwavering commitment to an overarching racial prime directive and pursued a “total” and totalizing racio–bio–political programme no less obsessively than Nazi Germany did. However, fascist Italy sought to increase, by each and every 32. R. Pergher, The Ethics of Consent: Regime and People in the Historiographies of Fascist Italy and Nazi Germany, «Contemporary European History», 24:2 (2014), 309–315. 33. M.S. Quine, Population Politics in the Twentieth Century: Fascist Dictatorships and Liberal Democracies (London 1996) and Italy’s Social Revolution: Charity and Welfare from Liberalism to Fascism (Houndsmills and New York 2002).

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socio–biological means, racial “prolificity”, rather than seek, above all, to safeguard (through anti–conceptive, anti–life, anti–humanistic, “negative” eugenics), racial “purity”34 . As I have stated elsewhere, scholars still tend to define Italian fascist “racism” only in relation to developments after 1938 and, especially, in relation to the laws against the Jews. Razzismo is seldom seen apart from antisemitismo35 . The ultimate “rationale” of fascism, to use Gregor’s phraseology, was the prevention of “race suicide”; the biological racism that lay at the core of fascism informed all governmental directives once an initial stabilization of the regime was achieved in 1922–1925. The goal of racial regeneration through an increase in the quantity and the quality of the population represented the highest aim (altissime finalità)36 of fascism in power and is the crux of the very definition of fascism, when we see it as “palingenesis”37 . In fascism’s ever forward–looking and long–term perspective, imbued as its vision was by considerations and plans for the longevity of its rule and the protection of future generations, all social policy initiatives (azione assistenziale sociale) and, indeed, all actions directed by party, state, and institutions, in society and the economy, were racially motivated and were single–mindedly and relentlessly working towards the twin imperatives of demographic increment and health–welfare betterment. The Ascension Day Speech of 26 May 1927 marked not just the launch of the demographic campaign, but also the transformation of fascism as a movement, a party, and a government into a regime, a state, and a dictatorship38 . In this parliamentary address, Mussolini defined for the first time the programme and aims of the political order which he had been gradually consolidating since the “seizure of power”. Mussolini the socialist had been a believer in the power of birth control to liberate women from the tyranny of unwanted pregnancies and to free the working class from abject poverty. Now, 34. M.S. Quine, Racial “Sterility” and “Hyperfecundity” in Fascist Italy: Biological Politics of Sex and Reproduction, «Fascism», 1 (2012), 92–144. 35. S. Falconieri, La sfida all’oblio: Fonti per la storia giuridica del razzismo e dell’antisemitismo fascisti, in E. Betta (ed.), Studiare il razzismo in Italia: Una questione di fonti?: Interventi di Michele Sarfatti, Giorgio Fabre, Silvia Falconieri, Micaela Procaccia, Luc Berlivet, Giovanni Paolini, Mauro Capocci e Gilberto Corbellini,«Contemporanea», 4 (October–December 2016), 623–29. 36. Partito Nazionale Fascista, La politica sociale del fascismo: Testi per i corsi di preparazione politica (Genoa 1936), 6. 37. R. Griffin, The Nature of Fascism (London 1991), viii; 32–36. 38. E. Gentile, Fascismo: Storia e interpretazione (Rome and Bari 2005), ch. 8.

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Mussolini, under the commanding influence of Corrado Gini, committed Italy to a policy dedicated to the achievement, as Mussolini stated in his “Numbers as Force” essay (Il numero come forza, in Gerarchia, 1 September 1928), of “maximum natality” in the hope that it would somehow be accompanied by “minimum mortality”39 . The rationale for this drive toward racial betterment through demographic increment derived from the broad Catholic–eugenic–fascist pronatalist consensus which existed in Italy. Gini’s theoretical model of a fecund and productive new Italy dominated bio–political discourse from the early 1900s to the mid–1930s and represented the most important intellectual source for the politics of population which emerged under fascism. As Gregor and other scholars have recognized, the fascist state enjoyed a relatively high degree of political autonomy; it used this, moreover, to launch a eugenically–inspired programme of biological politics40 . In the field of political economy, Corrado Gini’s radical, innovative approach was to factor what he called “human capital” into discussions of national wealth and the future of humankind. This is not to say that his thinking was solitary or singular. For example, Gini worked within the parameters set out by the science of biometrics, pioneered by Karl Pearson, the British statistician, eugenicist, and disciple of Francis Galton. Pearson and his followers in Europe and the United States championed a view of demography as a biologically–based discipline whose aim was the discovery of the means by which governments could promote the improvement, advancement, and progress of the human race by research into the problems connected with population. The essential “problem” of population, as outlined by both Malthus and Darwin, was how to control demographic growth and decline to the advantage of people and nations41 . The extreme biologistic perspective adopted by Gini placed greater emphasis upon biological factors (as opposed to social ones) in the evolution of populations than did most demographers writing in the first half of the twentieth century. Demography at this time focused upon cultural, economic, 39. M.S. Quine, Population Politics, ch. 1, Italy’s Social Revolution, ch. 5, and The First–Wave Eugenic Revolution in Southern Europe: Science sans frontières, in A. Bashford, P. Levine (eds.), The Oxford Handbook of the History of Eugenics (New York 2010), 377–397. 40. M.S. Quine, Racial “Sterility” and “Hyperfecundity” in Fascist Italy, 142–144. 41. C.R. McCann, Figuring the Population Bomb: Gender and Demography in the Mid–Twentieth Century (Seattle and London 2017), 61–62.

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and social changes wrought by modernity, and their impact upon individual psychology and reproductive choices, as the chief factors behind the decline in the birthrate experienced by Western European countries since the nineteenth century. Gini acknowledged that many in the upper and middle classes were guilty of a “voluntary and deliberate reduction of progeny” through their increasing use of contraception and birth control to limit family size. However, his model rested upon “biologic” (as he called it) concepts like fecundity and fecundability; he presented these as the primary and underlying physiological basis of prolificity and argued that variations in human biology accounted for the pronounced “reproductivity differentials” which the data from many different countries revealed42 . Fecundity was the biological capacity to reproduce, in the sense of reproductive fitness, in Darwinian terms, and this could diminish within the individual and the nation–race. Fertility was merely the social manifestation of this biological state. Biology caused all differences in class, race, and national fertility patterns. Gini’s radical organicism linked the reproductive capacity found in individual reproductive–sexual cells within the body to the reproductive and productive capacities of human beings and national economies. His position stood in opposition to the views of many critics, including such noteworthy commentators on the “population question” as Sir William Beveridge, the economist and reformer, whose paper on the “Fall of Fertility among European Nations”, first presented in 1923, argued that physiological factors could not possibly account for the decline in the birthrate experienced by many European countries43 . Whereas Beveridge, who went on to help found 42. C. Gini, Il sesso dal punto di visto statistico: le leggi della produzione dei sessi (Palermo 1908), 457–462; first presented as a paper to the Italian Association for the Advancement of Science, his Il diverso accrescimento delle classi sociali e la concentrazione della ricchezza (Rome 1909); and, first published in Economia, 12: 8–9 (August–September 1927), his Alcune ricerche italiane sulla riproduttivià differenziale (Trieste 1927). 43. W. Beveridge, The Fall of Fertility among European Races, «Economica», n. 13 (March 1925), 10–27; like other commentators in Western societies, Beveridge defined the “population question” as the race suicide of White Europe in the face of the higher birthrates of non–white peoples throughout the globe. Those scholars who see in the post–1945 British welfare state another example, like the “Social–Democratic” one, of a “social state” utterly devoted to the realization of “social justice”, entirely devoid of considerations about the “quality” of population, and entirely free of eugenic impulses, should reconsider such facile interpretations. Political self–interest on the part of politicians of all persuasions and various conceptions of the need for bio–social engineering informed all welfare–state–building in the modern period.

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the British welfare state after the Second World War, emphasized the economic factors influencing the marriage rate, fertility levels, and family planning decisions, Gini discounted these entirely as being symptomatic, rather than causative. Gini did not consider later marriage or the greater propensity to use birth control and practice family limitation in the “higher social orders” to be the determinants of class diVerences in fertility. Rather, he defined these social factors as the consequences of the real cause, which was a diminished sex vigour in the middle and upper classes of society. The upper orders possessed a “lesser aptitude, due to organic or functional causes, of the reproductive apparatus to fulfill its functions”. This condition derived from the “greater capacity of our intellect to reason”, the “weakening of the instincts related to reproduction”, such as the “sexual instinct, the wet–nursing instinct, parental aVection and also the religious instinct, inasmuch as the latter leads to believe, without reasoning, in the good of having a numerous progeny”44 . The “superior orders” experienced higher rates of infertility, impotence, and sexual abnormality and dysfunction than did the more prolific peasantry and proletariat. In contrast to many of his fellow demographers, writing in Britain, Germany, and the United States, Gini defined higher fertility and greater prolificity in positive terms and associated these attributes of the “lower orders” with other desirable racial characteristics, such as decreased morbidity and mortality, as well as greater mental health and personal happiness. In so doing, Gini redefined and broadened the Darwinian conception of reproductive fitness to include issues surrounding well–being and health. His position on the one hand was an extreme biological–materialist and deterministic one, even for those within the international population movement who were pronatalists and biologically–minded. Greater fecundity was accompanied, in his understanding, by greater physical robustness. Extremely importantly, he also made fecundity subject to artificial or social selection and engineering by science and the state. He was expanding the domain of reproductive fitness — not limiting it solely, as Darwin and Pearson had done, — to the laws of natural selection and inheritance. 44. C. Gini, Prime ricerche sulla fecondabilità della donna, Atti del Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, LXXXIII, parte 2 (Venice 1924), 315–344; Nuove ricerche sulla fecondabilità della donna, “Atti del Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti”, LXXXIV, parte 2 (Venice 1924), 269–308.

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Gini viewed a population system as a sophisticated biological organism, subject to irrevocable laws of natural evolution. According to his theory of demographic metabolism, high reproductive output correlated positively with a range of desirable racial traits, like longevity and resistance to disease. Gini attributed the cause of a number of symptoms of racial degeneration, such as predisposition to alcoholism, syphilis, tuberculosis, stillbirth, miscarriage, sickness and early death, to diminished sex vigour45 . Prolific people with an abundance of sexual energy, he argued, were a superior breed of human with strong bodies and sound nervous systems. The connection made between reproductive fitness and physical health explains why the fascist regime could argue, seemingly so illogically, that the implementation of a pronatalist policy would result in reduced mortality and morbidity in Italy. Presented as a “law of population”, Gini’s theory of the cyclical rise and fall of populations also linked production and reproduction systematically. He was concerned to show the biological factors behind demographic decline and to link biology, economics, and demography. According to Gini, population size and density were important factors in economic development, wealth, and progress. A decline in population was ruinous for both industry and agriculture; “proletarian prolificity” would promote “national productivity”. Gini rejected Malthus’s and Marx’s strict model of an adverse correlation between subsistence and population, which postulated that a more plentiful supply of labour depressed wages and caused under–consumption. Like his mentor, Adam Smith, to whom he owed a life–long great debt, in some of his principal works in economics, Gini saw increased competition through population increment as a positive factor in economic development. He defined labour supply or “human capital” as the primary factor in commodity production and capitalist accumulation. He divided society into productive and non–productive spheres of economic activity. As mental workers, the professional middle classes, he argued, inhabited a world divorced from production and contributed little to increasing national wealth. As manual workers, the proletariat engaged in productive labour by creating commodities. He believed that the rate of 45. C. Gini, I fattori demografici della evoluzione delle nazioni (Turin 1912), 34; M. Sanger (ed.), Considerations on the Optimum Density of Populations, Proceedings of the World Population Conference, Held at the Salle Centrale, Geneva 29 August–3 September 1927 (London 1927), 118–122.

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economic development increased in direct proportion to the quantity of society’s producers46 . Gini’s political demography provided fascism with an appealing prospect of what the future might hold for its political programme of industrial and imperial expansion. Like Adam Smith, Gini proposed that the “wealth of the nation” under fascism would increase along with its population capacity. The land would be cultivated more rationally under fascism, so a “Malthusian crisis” of hunger and misery in the countryside could be averted. Population growth would increase the demand and the division of labour, thereby augmenting output for domestic use and external markets. A growing population reflected a country’s rising aZuence. Any surplus population could be distributed evenly and accommodated fairly through “rational” government policies on issues like colonies, education, and the environment. Under the supreme, guiding command of fascism, such a noble and gifted race as the Italian would be able to encourage economic modernization by stimulating the reproductive powers of the people. Most significantly, Gini argued consistently that this change could occur within one generation alone of between 34–36 years. According to him, an inspired state, working closely with eugenic bio–science, could transform, through active social or “artificial” intervention in the processes of natural selection, the reproductive profile and potential of an entire population. Gini argued that it was possible to accelerate and control evolutionary change. His prewar works in political economy and political demography prefigured the strategy behind the pronatalist campaign of the fascist dictatorship. Fascism chose to ignore over a century of socio–scientific thinking about the apparent “fixity of human types”, dating right back to the taxonomical and pre–Darwinian evolutionary traditions. What Gini promised was that it would be possible for fascism to alter, consciously and quickly, according to its own specifications, the reproductivity of Italian society — the idea being that the un–reproductive minority should and would become the reproductive majority. Essentially, in what Gini called his “hedonistic” 46. Gini’s views were not “neo–mercantilist”, as some historians have argued. His perspective was anti–Malthusian and it followed the lines of Adam Smith’s thinking of population as the engine of capitalism. C. Gini, I fattori demografici della evoluzione delle nazioni, 46–52, 68–69, 426; L’ammontare e la composizione della ricchezza delle nazioni (Turin 1914), 431–434; Le basi scientifiche della politica della popolazione (Modena 1931), 105, 260–261.

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or “carnal” theory of population, the goal was to get people back in touch with their animal/primordial/or sexual instincts. A key component of this thinking was the view that both human biology and behaviour could be manipulated at will by a state with the volere and the potere to persuade people to become more prolific. This was an idea which Mussolini later embraced warmly when he spoke of his desire to create a New Italian “according to our own fascist imagination and likeness”, he said. In his conversations with Emil Ludwig in 1932, furthermore, Mussolini spoke about his conviction that the fascist enterprise of remaking Italians had to begin at the core somatic and cellular level of human biology47 . Under fascism, the social, economic, and political policies pursued by the regime were all connected48 . Moreover, these policies followed the dictates of the regime’s prime directive, which was an increase in population. The regime found its modernizing, developmental, revolutionary, and programmatical purpose and potential in pronatalism. Population politics should be seen as a totality of initiatives and institutional changes pertaining to race, population, welfare, health, the family, gender, sex and reproduction49 . At the core of the eugenic imaginary in Italy was the belief that fertility, sex and reproduction were the keys to racial progress. Highly prolific people were defined as the most select and desirable group within a biologically well–endowed, still fecund, and racially–superior Italian race. The thinking was that an increase in the quantity of population would be accompanied by and would cause directly an increase in the quality of population. The scientific, policy, and political work which Corrado Gini and other eugenicists completed for the fascist government in the interwar period makes this point very clear. The research which Gini undertook as director of the fascist regime’s statistical institute and as director of the Italian Committee for the Study of Population Problems had a direct impact upon policy formation during the dictatorship. The thrust of this extensive work for the regime was to demonstrate the positive eugenic eVects of population increase upon health and wellbeing. This had crucial implications for 47. M.S. Quine, Racial “Sterility” and “Hyperfecundity” in Fascist Italy: Biological Politics of Sex and Reproduction, 92–144. 48. R. Griffin, Modernism and Fascism: The Sense of a New Beginning under Mussolini and Hitler (Basingstoke and New York 2007), 64–65; 189V. 49. M.S. Quine, Biopolitics, Fascisms, and Modernity (forthcoming monograph).

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women’s health and welfare and the policy initiatives which were undertaken. Gini’s work, for example, completely separated the problem of infant and maternal mortality from social factors, such as the number of pregnancies and children that a woman had, or other important determinants of health, wellbeing, and quality of life, such as poverty, nutrition, housing and health care. Involving many academics and scientists from diVerent disciplines, Gini’s long–term project on Italian large families, which commenced in 1928, and was extremely influential within fascist oYcialdom, presented a very pretty, glossy, and positive picture of highly prolific people as a superior and healthier variety of Italian. His enormous influence, which extended throughout the human and social sciences and party and government circles for over a decade, was evidenced by the obsessive focus in fascist Italy on drawing connections between “prolificity” and positive racial characteristics. Indeed, the procreative abilities of the Italian people were esteemed as being the source of their racial superiority over other dying and degenerate races. Gini and other scientists and thinkers during the “Fecund Decade” which began in 1928 fixated on this single issue, to the exclusion of other potentially rewarding avenues of research and scholarship which might have resulted in other policy choices. The most tenuous and, on occasion, risible correlations were drawn between prolificity and health; numerous studies were published on the relation between fertility and “sterility” and dress, class, intellectual pursuits, physical activities and the like. In Gini’s on–going research into prolificity and the occurrence of multiple births, for example, he posed the question of whether there was a positive connection between the relatively high frequency of multiple births within the Italian population and the superior heredity endowment of the race. It was possible, he concluded, that Italians reproduced more prolifically because of their inherited vitality and reproductive fitness; furthermore, he held out the possibility, as he did repeatedly in his written works, that this biological capacity might be enhanced at will by government through social and environment alterations50 . The most damaging impact of Gini’s 50. C. Gini, in collaboration with A. Ferrarelli, Altri risultati delle indagini sulle famiglie numerose, in Comitato Italiano per lo Studio dei Problemi della Popolazione (CISP), in C. Gini (ed.), Atti del Congresso Internazionale della Popolazione, Roma, 7–10 Settembre 1931, vol. V (Rome 1933), 355–393.

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reign as the chief government advisor on policy and reforms was his presentation of demography not as a branch of statistics based upon the cautious hypothetic–deductive method, but rather as a universal eugenic science (indeed, the most eminent, ambitious, and “fascist” of all sciences) with applicability to all aspects of modern government activity and interventionism in society and the economy. Good work that was being done on the quality of life and living standards of highly “prolific” factory and peasant labourers was ignored, under–funded, and unsupported by government and universities. The consequences of high fertility upon the health of poor women and children did not receive much attention. For example, the social worker, Fanny Dessau, conducted sociological investigations in Rome on “family budgets” and the working poor. She alerted Gini and the Comitato Italiano per lo Studio dei Problemi della Popolazione (CISP) to the fact that what little progress had been made during the liberal period with economic research and parliamentary inquests (following the guidelines set out by the French economist, Frédéric Le Play) into the conditions of the labouring poor had not progressed under fascism. The “problem of the working classes and how they lived is more unknown than ever”, she stated, eloquently and movingly, in a work which, in her words, revealed the reality of the abject “economic misery” behind the myths surrounding the classic Italian–Catholic large family. Her study focused on a group of families living in Rome who occupied a piece of land on the outskirts of the city which had been donated to them by a charitable organization. Dessau’s sample–group comprised people whom she described as “peasants” by birth and recent “economic migrants” to the capital. The economic situation of these families was dire, she reported; “they accept whatever work they can find” and, “except for the fathers, few family members have regular, fixed employment”. Though they cultivated the land surrounding their tiny case–caserma, constructed before the war, in which their families lived in crowded, dirty accommodation without any of the modern amenities of heating, running water, or electricity, feeding their families was a daily struggle. Paying the rent and the baker was the priority, so the families regularly cut back on food to nothing more than meagre daily rations of bread and only had meat and wine on religious holidays. Dessau provided detailed family profiles: in one family, the mother and father had experienced the death of three children at a young age and had three surviving children, of whom two were school–age boys, but both working,

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and another, a daughter of twenty–four who was married, was a self–employed seamstress, had two children of six and three years and been rendered physically disabled and in chronic pain by her pregnancies. Though many of the families investigated had lost children at a “tender age”, the average family size was eight and the average number of living children was 5.4. The most noteworthy features of family life for these disadvantaged people, whose histories she traced for the period 1900–1930, was that the “fecundity pattern” had not changed from the start of the century. The three generations of each family unit which she studied were characterized by the same pattern of high fertility–high mortality: marriages abounded, and these occurred early; parents became grandparents young; many children died before they reached five years old. Even the younger generation, who married in the years 1925–1930 was already beginning to repeat this pattern and had lost children to death by entirely preventable causes, due, Dessau believed, to over–crowding, malnutrition, poor hygiene at home, tuberculosis and infant and childhood infections51 . Dessau made a case on “ethical and social” grounds for the adoption of another approach to the “problem of population” which did not fixate so obsessively upon the achievement of “hyper–fecundity” and did not prioritize fertility over health. Her message was not what fascist ideologues and government authorities wished to hear, as it pointed to the damaging eVects of an oYcial policy which privileged women as breeders (fattrici), but undervalued and undermined their contribution to the family and the economy. The connection made between reproductive fitness and general health and wellbeing was a distinct feature of Italian eugenics and of fascist biological politics. Fascist pronatalism in theory and in praxis possessed logic, a rationale, and consistency. However, Gini and the eugenic lobby, along with Mussolini and his government, were blind to the reality that Italy had all the attributes of a largely agrarian country suVering from a chronic “Malthusian” crisis of over–population and under–consumption: millions of those highly prolific people so esteemed by the regime lived on the edge of hunger or even below subsistence.

51. F. Dessau, Contributo allo studio etico–sociale della struttura della famiglia, CISP, in C. Gini (ed.), Atti del Congresso Internazionale della Popolazione, Roma 7–10 Settembre 1931, vol. II (Rome 1934), 37–65.

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3. The Fascist Welfare State The oft–repeated aims of the fascist “welfare revolution” were the modernization, centralization, secularization, nationalization, fascistization and staticization of all health and welfare agencies and institutions in Italy. As articulated by ambitious fascist technocrats, party loyalists, and the Duce himself, at the core of fascist thinking was a corporatist and collectivist conception of state–directed solutions to social problems. Worship of the state and its awesome power was the essence of fascism. For without a “totalitarian state” to organize, mobilize, regulate, control and revolutionize the various collective entities which comprised national society (such as families, classes, men, women, communities and corporations), there could be no rebirth of the Italian people. Fascist statolatry served as a justification for dictatorship; fascism defined itself in opposition to liberal democracy, which it saw as too enfeebled to eVect positive social change. The liberal project had ended in failure, the reasoning went; only fascism possessed the ability to modernize, transform, and empower the ineVectual state which it had inherited. This transformation of the structures of the state was essential to the fulfillment of fascist aims; it was the means of the fascist revolution. Italian fascism also saw social revolution as being so central to its aims that it invented a new language to convey the message that social policy in the dictatorship was no longer going to be a peripheral and undervalued form of politics, as it had been under liberalism52 . Fascism used the term politica sociale (social politics) in order to stress that the realm of “the social” was all important to the realization of its aims; this term emphasized the scientization and modernization of the domain of the social which fascism sought to eVect53 . The fascist state was not just a totalitarian state; it was a stato nuovo (new state), a stato sociale (social state), and a stato assistenziale (welfare state). 52. M.S. Quine, Italy’s Social Revolution, Part 1: “The Social Mission of Nineteenth–Century Liberalism”, chs. 1–3. 53. D.G. Horn, Social Bodies: Science, Reproduction, and Italian Modernity (Princeton 1994); Part 2: “Recasting Europe” and Part 5: “Politics, Culture, and Ideology, 1924–1940”, in N. Doumanis (ed.), The Oxford Handbook of European History, 1914–1945 (Oxford 2016); B. Ziemann, R.F. Wetzell, D. Schumann and K. Br¸ckweh, Introduction: The Scientization of the Social in Comparative Perspective, K. Br¸ckweh, D. Schumann, R.F. Wetzell, B. Ziemann (eds.), Engineering Society: The Role of the Human and Social Sciences in Modern Societies, 1880–1980 (Houndmills and New York 2012), 1–40.

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As fascism recognized, the Italian urban and rural working classes had, indeed, made huge sacrifices during the war which were not accompanied by immediate government concessions. In some European countries, such as Britain and Germany, state–run welfare programmes expanded considerably during the First World War, as authorities sought to facilitate economic mobilization and maintain social peace54 . By contrast, the Italian government did not launch a policy of “war socialism”, so the kingdom did not traverse much new ground during the hostilities. During the postwar crisis, however, a dramatic extension of social entitlements occurred as part of a conscious political strategy of “bourgeois stabilization” through legislative, institutional, and social innovation. Panic–stricken liberals introduced truly path–breaking legislation with uncharacteristic haste as part of their post–war settlement with the Italian masses. At the initiative of the government, a royal decree law of 19 October 1919 (no. 2214) introduced a state–run system of compulsory unemployment insurance for male and female waged workers (aged between 15 and 65) who were in regular, full–time employment in industry and agriculture. The enactment, which came into eVect on 1 January 1920, was a major advance for those workers who qualified. The inclusion of agricultural labourers, in particular, was ambitious and innovative in international terms. This provision, for example, made the Italian legislation far broader in scope than its British predecessor. The enactment signified a change in attitudes towards the reality of unemployment: politicians who had previously seen it as a problem best solved by massive emigration rather than public policy now accepted that unemployment had to be tackled eVectively for society and the economy to function properly. Though the legislation set a new precedent, the coverage which it provided was very restricted. The period of relief and the amount of aid were severely limited; in practice, too, so–called obligatory relief was actually very discretionary in nature. Though deficient in many respects, unemployment insurance established in law the principle of worker’s statutory right to protection. Other post–war reforms also expanded the domain of the social state: most notably, presented to parliament on 20 November 1918 by the Ministry of Industry, Trade, and Labour, a bill 54. G. Procacci, Welfare–Warfare: Controllo Sociale, assistenza, e sicurezza, 1880–1919, in G. Procacci, L. Tomassini, N. Labanca, et. al (eds.), Assistenzialismo e politiche di controllo sociale in Italia liberale e fascista (Siena 2001), 5–50.

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on compulsory pension insurance became “Decree 603”, an urgent transitory measure issued on 21 April 1919 ( with eVect from 1 July 1920), and was intended to be replaced by subsequent legislation. Just about all manual and non–manual workers (aged between 15 and 65) who earned below 350 lire a month (raised to 800 lire on 27 October 1922) gained entitlement, at age 65 (reduced to 60 on 22 October by royal decree law), to an old–age pension after making at least 240 fortnightly contributions; disability pensions could be drawn after 120 fortnightly payments to the contributory scheme. The government’s intention with this German–style reform was to cover as many of the estimated 10.3 million eligible people (of whom 6.4 million were agricultural workers) as quickly as possible55 . As historians have long recognized, fascism made a diYcult transition to power in its early years, when the principal tasks at hand were the stabilization of society after the post–war crisis and the “total” conquest of the state56 . Initially, fascism worked within the existing framework of the liberal system in 1922–1924; it consolidated its dictatorship in 1925–1927; and it was still constructing its own political system in 1927–1929 by the twin processes of fascistizzazione dello stato (fascistization of the state) and statazzazione del fascismo (statization of fascism). With the exception of the ideologically driven demographic campaign, which began with the creation of the ONMI in 1925, fascist social policy during this transitional phase was not directional or expansionist in character. The issue of continuity and discontinuity from liberalism to fascism remains just as significant today as it was for earlier scholars57 ; this problem must be examined empirically on a case by case basis. With regard to social insurance, only very gradually did the regime formulate a set of overarching goals, demonstrate clear direction in policy decisions, and start to plan initiatives strategically; and only in the 1930s did a social security system with distinctly “fascist” characteristics and features begin to emerge. The regime began to restructure the system which is inherited in the 1920s; in the 1930s, however, it began more systematically to mould the social security system to fit its own image of 55. M.S. Quine, Italy’s Social Revolution,103–108. 56. A. Aquarone, L’Organizzazione dello stato totalitario (Turin 1965), 435–436; E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, 1918–1925 (Rome and Bari), 358–69 and his Il mito dello stato nuovo dall’antigiolittismo al fascismo (Rome and Bari 1982), 30–76. 57. S. Cassese, Le istituzioni del fascismo, «Quaderni storici», 12 (1969), 424–437.

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the “totalitarian state.” During that decade, the organization of social insurance underwent profound changes, and what can meaningfully be called a “fascist social policy” emerged. Significantly too, although some pre–fascist legislative traditions survived the fascist era, many of the dictatorship’s institutional initiatives of the 1930s became the foundation of Italy’s post–1945 democratic welfare state58 . Early pronouncements seemed to suggest that fascism sought to pull back the boundaries of the liberal welfare state. In his first speech as a deputy in the chamber on 21 June 1921, Mussolini announced that he favoured the abolition of the “collectivist state” which the war had engendered and a return to the minimalist “Manchester state” of the old liberal order. At the Rome party congress in November 1921, the Duce aYrmed that, in economic matters, fascists were “liberals”; the newly formed PNF, moreover, stood firmly opposed to the notion of a “paternalistic, monopolistic, and bureaucratic state” with excessive social obligations towards its people. Despite all the hype about it, the Charter of Labour of 21 April 1927, which supposedly represented a grand statement of the regime’s high–minded social principles, was quite vague about some of the most substantive issues aVecting workers” wages and welfare; furthermore, it suggested, in perfunctory passages such as Article 27, that the fascist state’s financial stake in social insurance was to be very limited. In its early years in power, the regime worked towards dismantling the form and substance of post–war liberalism’s progressive social policy; it did so with the support and approval of the nation’s employer class. Many agrarians and industrialists resented the liberal state’s imposition of binding social insurance accords which committed them to investing in their workforce. They blamed the Bismarckian–type reforms of the post–war “insurer state”, introduced rather belatedly in Italy, for increasing production costs, decreasing profit margins, and empowering “subversive” workers. The regime presented the new royal decree of 30 December 1923 (no. 3158) as a slight modification to the 1919 unemployment insurance act; in reality, it was very radical and regressive. Article 2, for example, stipulated that the scheme “does not cover agricultural workers”; that one phrase set back the Italian welfare state by decades. Agricultural workers would have to wait until 1949 and beyond (the new legislation of 58. M.S. Quine, Italy’s Social Revolution, 108; see also, S. Vinci, Il fascismo e la previdenza sociale, «Annali della Facoltà di Giurisprudenza di Taranto», 4 (Bari 2011), 709–29, esp. 72–78.

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that year was not actually implemented until 1955) to regain the legal right to insurance–based unemployment benefit, which they had first obtained under the liberals’ landmark legislation of 1919, which was aimed at the achievement of social reconstruction and social peace after the war. Only industrial workers in fixed and regular employment (of at least six months per year) retained the right to unemployment relief. The regulation of 7 December 1924 (no. 2270), which contained the administrative guidelines governing the application of the 1923 decree, also gave welfare in new political purpose. The regolamento amplified the powers of local agencies to compel the unemployed to attend “back–to–work” vocational training programs and to participate in state–run public works schemes. Welfare became workfare. Moreover, the insured worker now had to present a detailed insurance record and employment history to oYcials in order to claim benefit; and he or she was subjected to a now heavily bureaucratized procedure that enlarged the ability of both party and state to uncover potential opponents of the regime and to discriminate against “unworthy” applicants. The introduction of the compulsory libretto di lavoro (worker’s passbook) in 1933, which contained extensive personal details about individuals, increased the information available to the various organs of the party and state and allowed employers to make choices about whom they should hire, based on a worker’s date of membership in the PNF, life history, and military record. Even before the introduction of formal identity cards in 1933, the “corporate state in action”, to borrow a phrase59 , showed a marked tendency to use even seemingly mundane forms of documentation as a means to “observe” the population and to uphold internal security60 . The lineaments of fascist welfare were emerging in the 1920s; from the start, fascism aimed to maximize its control of the management of social welfare with a view towards minimizing the direct costs to the state. Already in 1923, with the royal decree of 30 December, the management of the unemployment insurance fund was transferred to a semi–autonomous council of administration within the Cassa Nazionale per le Assicurazioni Sociali. The national social insurance board was “fascistized” as bureaucratic re–organization led to the proliferation of peripheral branches in all provincial ca59. C.T. Schmidt, The Corporate State in Action: Italy under Fascism (New York 1939). 60. M.S. Quine, Italy’s Social Revolution, 109–110.

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pitals and permitted the appointment of party loyalists within this branch of public administration. Very significantly too, the regime decided, with eVect from 1 January 1924, to abolish permanently the “guaranteed” state subsidy (provisionally fixed at 50 million lire per year) to unemployment insurance altogether. Thereafter, the regime contributed nothing to the scheme. As employer and employee contributions to unemployment insurance amounted to 618.87 million lire from 1 July 1922 to 31 December 1927 to a measly 197.89 million lire, the fund was performing quite well anyway; partly because of the huge gap between contributions and benefits, the fund amassed patrimonial reserves which totaled 668.9 million lire in 1927. In 1925, the governors of the unemployment administration within the cassa nazionale agreed to the regime’s request that the unemployment and pension funds be unified. The fascist take–over was completed in 1927, when the Ministry of the National Economy imposed a single administration, with direct links to the government, over the united funds of the national board. These institutional transformations gave the state access to its para–state organization; the dictatorship took advantage of this “harmonious coordination” by “borrowing” heavily from the national board. By 1929, the National Social Insurance Institute had made “loans” worth half a billion lire to the state treasury; the dictatorship used the money drawn from the “people’s patrimony” to finance public–works and private industry. The unemployment relief fund paid for many of fascist Italy’s new bridges, roads, and aqueducts. It helped salvage the declining silk industry; and, it also invested heavily in state bonds, since the regime required it by law to set aside about a fifth of its available capital for this patriotic purpose61 . In Fascist Italy, both Party and State were committed to the realization of these aims62 . As is well known, the theory of the corporate economy was founded upon socialistic tenets: the stated aims were to lift living standards and “defend” the consumer against inflation and the worker against low wages and unemployment; fascist syndicates, working in tandem with state and party organs, would introduce 61. G. Bronzini, Legislazione sociale ed istituzioni corporative, Le classe operaia durante il fascismo: Annali Feltrinelli 1979/1980, vol. XX (Milan 1981), 315–327, 322; M.S. Quine, Italy’s Social Revolution, 111. 62. C. Giorgi, The Allure of Welfare, In the Society of Fascists: Acclammation, Acquiescence, and Agency in Mussolini’s Italy (New York 2012), 131–148.

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“active and decisive intervention for the discipline of prices and the defense of the consumer”. All economic activity throughout the nation would be organized and coordinated by new para–state, state, and autarchic institutions created by the regime63 . Though it stopped short of pursuing frantic, targeted growth along Stalinist lines, the heavily government–controlled Italian fascist economy was founded upon productivist and protectionist principles, which, it was hoped, would promote native industry and agriculture and cater to the dictates of war and empire. As its own directives to the party faithful clarified, fascism would operate at diVerent levels and re–organize and modernize the administrative state along a centralized model which allowed for polycentric points of axis and control: the formulation of economic policy directives would be highly centralized, but diVerent spheres of activities would be regulated by specialized agencies under government control. The traumatic experience of the economic crisis after 1927, which thrust government social policy into confusion and chaos, propelled the regime towards a decisive “totalitarian” phase of “organic co–ordination”, which was characterized by major initiatives aimed at the centralization of state control over the social insurance system. The regime began to consolidate its welfare state by encouraging the proliferation of para–state agencies and expanding the domain of the administrative state64 . With their national, provincial, and local branches, big, new enti pubblici had extensive horizontal and vertical linkages to the organs of the state and party, private institutions, and social groups, who were organized into their distinct clienteles and stakeholders. The “entification”, statization, and fascistization of welfare provision under fascism did not lead to improvements in social entitlements. In the field of industrial accidents, for example, the process of re–structuring the administration of social provision was evidenced by a new law in December 1929, which gave the state an insurance monopoly. Subsequently, party syndicates organized this type of relief. Then, in 1933 the state accomplished a complete takeover when it converted the old cassa nazionale infortuni into the new Istituto Nazionale Fascista per l’Assicurazione sul Lavoro nell”Industria (INFAIL). 63. Partito Nazionale Fascista, La politica sociale del fascismo: Testi per i corsi di preparazione politica (Genoa 1936), 6. 64. On the theory of modern public administration, see S. Cassesse (ed.), Istituzioni di diritto amministrativo (Milan 2009; 3rd edition), 71–123.

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For economic reasons, the superior council of the national economy decided in 1929 to defer introducing compulsory general health insurance and to encourage the growth of privately funded occupational schemes. A universal system would have required an expensive overhaul of the nation’s hospitals. Only in 1943, when it was attempting unsuccessfully to cling to power, did the regime introduce a national contributory scheme of health insurance (open to waged workers and salaried employees) with the foundation of INAM or INFAM (Istituto Nazionale [Fascista] per l’Assistenza di Malattia ai Lavoratori). Organizations such as these typified the curious kind of “contradictory modernization” of welfare which fascism promoted65 . Lasting institutional and social innovation occurred, but it was contradictory because it was directed at expanding the organizational potential of the “totalitarian” state in order to maximize private investment in the insurance system. Moreover, modernization occurred within the context, firstly, of economic crisis, during the depression, and then, in the second half of the 1930s, of economic development which delivered poor living standards to the working class. As it expanded the scope and range of its welfare state, the regime asked workers to pay an ever larger portion of their pay towards social entitlements. In return, fascism gave them low wages, limited consumption, and meagre benefits. The theory of the corporate economy was founded upon socialistic tenets: the stated aims were to lift living standards and “defend” the consumer against inflation and the worker against low wages and unemployment; fascist syndicates, working in tandem with state and party organs, would introduce “active and decisive intervention for the discipline of prices and the defense of the consumer”. All economic activity throughout the nation would be organized and coordinated by new para–state, state, and autarchic institutions created by the regime66 . Though it stopped short of pursuing frantic, targeted growth along Stalinist lines, the heavily government–controlled Italian fascist economy was founded upon productivist and protectionist principles, which, it 65. N. Tranfaglia, La modernizzazione contraddittoria negli anni della stablilizzazione del regime, 1926–36, in A. Del Boca, M. Legnani, M.G. Rossi (eds.), Il regime fascista (Rome and Bari 1995), 127–138. 66. Partito Nazionale Fascista, La politica sociale del fascismo: Testi per i corsi di preparazione politica (Genoa 1936), 6.

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was hoped, would promote native industry and agriculture and cater to the dictates of war and empire. As its own directives to the party faithful clarified, fascism would operate at different levels and re–organize and modernize the administrative state along a centralized model which allowed for polycentric points of axis and control: the formulation of economic policy directives would be highly centralized, but different spheres of activities would be regulated by specialized agencies under government control. These developments had disastrous consequences for the rural and urban working classes, especially during the years of the prolonged economic crisis from 1927 to 1932–34 (recovery varied by sector). For example, a series of government–imposed wage cuts between 1927 and 1934 brought real wages in agriculture and industry down by an estimated 20 percent in the four years from 1927 to 1930; and with respect to the levels of 1920–21, real wages in industry declined by as much as 15–40 percent (depending on the branch) in 1927–3467 . Some fascist commentators, who were ideologically committed to the goal of social revolution, were prepared to admit that unemployment benefit was far too low to keep the unemployed and their families at a level of bare subsistence. They pointed out that rising rates of poverty add firstly affect the health of growing numbers of children and this would have a long–lasting “diseugenic” effect on the race. PNF political leaders, however, ignored calls for an increase in the amount of aid given. The government could comfortably have afforded to raise the benefit without increasing insurance premiums since the unemployment fund ran at a huge surplus. In the years from 1922 to 1929, the unemployment fund collected 966.367 million lire in contributions, but it paid out only 365.829 million in benefits, thereby accumulating a surplus of 600.537 million. In 1930 to 1934, which were years of big spending, due to mass unemployment, the fund accumulated 607.603 million lire in contributions and disbursed 708.272 million in benefits. The surplus rose in subsequent years, nonetheless, reaching over a billion lire in 1938. The “welfare gap” between the burden of premiums levied upon workers and the amount of aid distributed by the regime was enormous68 . 67. A. Mortara, Osservazioni sulla politica dei “tagli salariali” nel decennio 1927–1936, in G. Toniolo (ed.), Industria e banca nella grande crisi, 1929–1934 (Milan 1978), 65–72, 67. 68. M.S. Quine, Italy’s Social Revolution, 113–114.

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Because Italian workers were so badly paid, consumption levels and living standards stagnated69 , and structural unemployment was in–built in the Italian economy70 , the fascist welfare state bore down heavily upon the working classes. In 1929, social insurance coverage cost the worker 3.25 per cent in deductions from ay, while employers in industry paid 5.75 per cent of their annual wage bill. After the creation of the INPS, and the unification of insurance for disability and old age, tuberculosis, maternity and unemployment, workers were paying between 4.2 and 5.6 percent of their wages, depending upon their wage category. And women workers who were subject to maternity insurance paid an additional annual subscription fee of 3 lire. With further increases in subsequent years, due to the rise in the rates of contributions for pensions (introduced in April 1939) and the addition of family allowances, and marriage and birth premiums, workers were paying between 8 and 10 percent of their earnings to the INPS by 1939, while the employers’ share rose to almost 20 percent71 . And what did the working class receive in return for this drain on their income? They got episodic, selective, fragmentary, discriminatory and insubstantial “protection” from life’s risk, some of which, like unemployment, the regime’s policies actually increased. The hard–earned cash that they pumped into the “corporate social security system” paid the dividends of an unemployment benefit which was fixed at a level of starvation wages for a maximum of four months a year, a pension that was set well below subsistence level for low–earners (the maximum pension came to about a third of average earnings in each wage category), access to a tiered system of health care which confined them to third–class treatment as tuberculosis patients in “popular sanitoria” and a few one–oV marriage and birth “bonuses” for their conformity and prolificity. The dictatorship halted a process of welfare–state building which post–war liberalism began belatedly by moving towards the creation of a universal and 69. ISTAT, Sommario di statistiche storiche italiane, 1861–1955 (Rome 1958), 172–203; B. Barberi, I consumi nel primo secolo dell”Unità d’Italia, 1861–1961 (Milan 1961); V. Zamagni, The Economic History of Italy, 1860–1990: Recovery after Decline, (Oxford 1993), 308–314. 70. V. Zamagni, Distribuzione del reddito e classi sociali nell’Italia fra le due guerre, «Annali Feltrinelli», 20 (1979), 17–50 and her Dalla periferia al centro: La seconda rinascita economica dell’Italia, 1861–1981 (Bologna 1990), ch. 8; F. Piva, G. Toniolo, Sulla disoccupazione in Italia negli anni ’30, «Rivista di storia economica», 3(1987), 345–83; M. Alberti, Senza lavoro: La disoccupazione in Italia dall”Unità a oggi (Rome and Bari 2016), Part II. 71. M.S. Quine, Italy’s Social Revolution, note 114, p. 328.

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comprehensive system of social security. For political, ideological, and economic reasons, fascism introduced significant changes to the social insurance system which it inherited. Many of its big parastate institutions, such as the INPS, INFAIL, and INAM, and social programmes, like family allowances, survived the collapse of dictatorship and became the foundation of the democratic welfare state which replaced fascism’s corporate order. But the enduring legacy of the fascist welfare state is not a measure of its quality72 . Fascism in power did very little to support working mothers; no coherent, national programme of welfare towards factory women, home–workers, or women working in small and artisanal enterprises was ever forthcoming, despite the fact that these were significant categories of the female working population73 . Working–class women lacked basic improvements to their living standards. Many women workers worked in the most unprotected sectors of the economy, in “traditional” female occupations, where they were unorganized and insecure. One of the peculiarities of the Italian economy was the numerical preponderance of small firms and artisanal enterprises over large factories74 . Despite fascism’s drive to modernize the economy and develop “big industry” of strategic importance to the political objectives of the regime, 78.7 percent of all Italian firms in 1937 employed fewer than 50 to 100 workers, the figures which entitled them to be called “industrial” concerns. The clothing industry, for example, counted 169,000 firms in 1937, but only 2,600 of these were “industrial”, while the overwhelming majority employed fewer than five workers. In textiles, where women comprised 75.6 percent of the labour force, 430,000 women worked in factories and just under 30,000 in shops in 1937. The 1937–1940 census confirmed that the number of small shops in clothing and textiles had risen during the fascist period, but the regime had done 72. Ibid., 128. 73. Of the roughly 20 million women aged 15 to 55 in 1926, for example, over 698,000 were gainfully employed in industry. With over 500,000 female workers and little more than 140,000 male workers, fabric manufacture prevailed over any other branch of the economy as the almost exclusive preserve of underpaid, women workers. While women in mining and metals averaged just under 5 percent of the total workforce, those in silk, cotton, wool, and linen production comprised almost 79 percent of all workers. Census reports, however, did not include those enterprises engaging fewer than 10 persons. 74. A. Colli, Piccole imprese e “piccole industrie” sino al 1945, in F. Amatori, D. Bigazzi, R. Giannetti and L. Segreto (eds.), «Storia d’Italia: Annali Einaudi, XV: Industrie» (Turin 1999), 758–840.

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nothing to improve the conditions of homeworkers. As many women were expelled from the labour force because of the economic crisis and the rationalization of industry which occurred in the 1930s, they were increasingly ghettoized in these sectors of industry. The actual number of these women workers, who toiled under sweated conditions for piece–rate wages evaded official tabulations. Italian censuses do not reflect the distinct pattern of women’s employment either. As a category in official statistics, women workers refer only to those engaged in some form of regular and contractual employment. The structural imbalances of Italian industry, though, made women’s work casual and shifting. The 1936 census results state that 48,406 women engaged in homework in clothing and furnishings, while 8,900 engaged in domestic textile work. But, as the census was completed in the spring, when homework declined in importance, the results are wholly inaccurate. By giving a static picture of the labour force, the censuses do not capture the changing rhythms of women’s involvement in paid work. Because of the seasonal nature of textile production and the high turnover in the labour force from one year to the next, many women mixed factory work with farm and domestic by–employments. Bouts of unemployment and under–employment regularly punctuated a woman’s working life75. Scholars have long recognized the plight of female homeworkers in Italy: the growth of this sector under fascism and the increasing segregation of married women in the “black economy” of unregulated work belie reality behind the hype given to the regime’s “protection” of the “mothers of the race” through such organizations as the Massaie rurali (Rural Housewives), founded only after the depression in 1934, and the la Sezione operaie e lavoranti a domicilio (Homeworkers’ Section), founded rather belatedly in 193876. The reality was that, with the full complicity of the state, party organs, fascist trade unions and employers, married women workers were a supply of cheap, exploited labour for the Italian economy. Elaborate on how the regime ghettoized women further by putting them in sweated workshops77. 75. ISTAT, Censimento industrial e commerciale, 1937–1940, Parte prima: Risultati generali, I (Rome 1942), 16–17, 38, 29; ISTAT, VIII Censimento generale della popolazione, 21 Aprile 1936, Parte seconda: Provincie, IV (Rome 1939), 215–16. 76. M.V. Ballestrero, Dalla tutela alla parità: la legislazione italiana sul lavoro delle donne (Bologna 1979), 75–81; C. Venturoli, Il fascismo e la Seconda guerra mondiale, in R. Ropa, C. Venturoli (eds.), Donne e lavoro: un identità difficile: lavoratrici in Emilia Romagna, 1860–1960 (Bologna 2010), 125–66, esp. 141–57. 77. M.S. Quine, Italy’s Social Revolution, 74–75; 168–70.

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The structure of the female labour force underwent significant changes during the fascist period. The immediate impact of the economic crisis was disastrous for female factory labour as over 1 million women lost jobs between 1927 and 193278 . This short–term eVect was accompanied by two other important trends, which have a direct bearing on the question of whether welfare, and in this case programmes aimed at women as mothers, could oVset material losses experienced by the working class in the 1930s. Women workers in the “oYcial” labour market were declining in age during the dictatorship, although the weaknesses of census reports make cross–comparisons diYcult. By 1936, the average woman worker was aged between 15 and 24 years of age. Historians have noted that employers in artificial textiles were trendsetters with regard to company welfare schemes79 . While this “modern” growth industry still employed only 11,499 women in 1937, the vast majority of these were minors80 . When the Baron Alberto Fassini Camossi opened a new nursery at his rayon works in1927, ONMI oYcials lavished attention on this scheme. Employing more than 2,000 women at the Prenestina plant in Rome, the Baron also provided worker housing in the form of dormitories on the large industrial estate. But over 85 percent of his female labour force were under the age of 18, a fact which rather diminished the beneficial impact of the daycare centre81 . The attachment of married women to work outside the home, and their involvement in regular employment, declined during the dictatorship. According to the oYcial statistics, out of a total female population of roughly 21 million, 5.2 million of these worked in factories and another 2.4 million in agriculture in 1936. But those figures do not reveal the millions of women who worked in the unoYcial labour market as street hawkers, home workers, workers in sweat shops, and the like. Also, the proportion of married women to the total female industrial workforce dropped from 41.3 percent in 1927 to 22 percent in 1931, then rose slightly to

78. Notiziario del lavoro e della previdenza, «Difesa sociale», XII ( July 1934), 401–2. 79. V. De Grazia, The Culture of Consent: The Mass Organization of Leisure in Fascist Italy (Cambridge and London 1981), 67; 84–7. 80. ISTAT, Censimento industrial e commerciale, 1937–1940, Parte prima: Risultati generali, I, 38. 81. G. D’Ormeo, Il nido della Società Generale Italiana della Viscosa, «Maternità ed Infanzia», II ((February, 1927); 40–47; see, too, B. Bianchi, I tessili: lavoro, salute, conflitti, «Annali Feltrinelli», XX (1979–1980), 973–1071.

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23.5 percent by 193682 . Married women were not leaving factories in droves for more comfortable, better–paid jobs in oYces, as, here too, the majority of Italy’s growing female white–collar labour force were young and single83 . They left the workforce to become attendenti a casa, category which rose by 2 million in the years 1921 to 1931, or they became part of the increasing number of so–called “housewives” who participated in part–time and irregular home and casual work to help make ends meet84 . The expulsion of married women from the oYcial labour force, together with men’s feeble earnings, adversely aVected many of the laboring poor, who were dependent upon a dual income to support their families. Other families, with a single head of household, would feel the eVects of women’s segregation impoverishing occupations. Demographic trends revealed that the number of families with a woman as the primary breadwinner had increased by over 40 percent from 1921 to 1931; over 1.5 million of the nation’s 9 million families were headed by a woman in 193185 . Fascism’s exaltation of motherhood and maternity represented an attempt by the state to regulate women socially and sexually and to subordinate their interests to those of the nation and state. As the primary institution for the implementation of population policy, OMNI embodied these aims86 . The regime had complex and contradictory beliefs: fascist pronatalism was based on social Darwinist and eugenic assumptions that motherhood was the fulfilment of women’s “natural destiny” and “feminine nature”, but also that it had to be taught and learned; that women wanted to become mothers, but that they also had to be actively “persuaded” to do so; that the state 82. ISTAT, Compendio statistico italiano, XII (Rome 1938), 107. 83. Il lavoro delle donne e una inchiesta Milanese, «Maternità ed Infanzia», XIII ( July–October 1929), 389–90; Censimento generale della popolazione, Prima parte: Professioni, IV, 27. 84. VIII Censimento generale della popolazione: Parte seconda: Regno, IV (Rome 1939), 237; P. Meldini, Sposa e madre esemplare: ideologia e politica della donna e della famiglia durante il fascismo (Rimini 1975), 72. 85. ISTAT, Annuario statistic, I (Rome 1927), 28–29; VIII Censimento generale della popolazione, Parte prima: Relazione, III (Rome 1938), 50–52. 86. Based on extensive archival material, drawn from central–state, PNF, provincial, communal and institutional archives, Italy’s Social Revolution was the first institutional analysis of the L’Opera Nazionale per la Protezione della Maternità e dell’Infanzia (ONMI), a vast ente nazionale (like the INPS) and opera nazionale (like the Dopolavoro and the Balilla) with the power of vigilance and control over all private and public institutions for the assistance and protection of motherhood and infancy.

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should support mothers by providing welfare services and prenatal care, but that rearing healthy children was ultimately the responsibility of women. The much–vaunted modernization of motherhood87 under fascism took place within the context of a dictatorship which retained the traditional Catholic–patriarchal social–sexual–familial order and inflicted regressive economic policies upon rural and urban women workers. Fascist maternalism and welfarism sent conflicting messages to the “mothers of Italy” and, in exchange for their lowly position within the labour force, public life, and the private domain, delivered a mixed bag of social rewards to them for their patriotic service. ONMI, nonetheless, was far more than just an ideological siphon for fascist rhetoric. It was also a serious attempt at profound, far–reaching, and lasting social innovation; it was, moreover, a showpiece of the regime, used to garner prestige and admiration both home and abroad; and, significantly, it was the instrument of fascism’s promised welfare revolution for mothers and babies. Through ONMI, fascism tried to bring women all the benefits of modern medicine, hygiene, and welfare so that they might become good mothers of the race. The organization’s primary purpose, its leaders repeatedly claimed, was to transform the nation’s patchy network of institutions catering to mothers and children (which numbered 5,733 in 1921) into a comprehensive and co–ordinated national system of health care and social welfare88 . Historians are using ONMI and other fascist institutions as examples of fascist “totalitarianism” in action; however, ONMI was heavily dependent upon private sources of funding and an army of volunteers to enact the “welfare revolution”, so it never developed a nationwide, comprehensive system of medical care, health provision, or social welfare assistance. So much fascist centralization and modernization of social institutions was directed at facilitating of state’s control of private sources of funding for public purposes. The reach of fascist welfare institutions, moreover, never matched the aspirations of the regime’s statalismo and interventismo.

87. V. De Grazia, How Fascism Ruled Women: Italy 1922–1945 (Berkeley and Los Angeles 1992), 59–68. 88. M.S. Quine, Italy’s Social Revolution, 140–41; see, too, especially, M. Bettini, Stato e assistenza sociale in Italia: L’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, 1925–1975 (Pisa 2008) and note. 33, in C. Giorgi, Le politiche sociali del fascismo, «Studi storici», 1 ( January–March 2014), 93–108, 103.

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4. Fascist Public Health and Welfare Policy in Action: The Case of Female Rice Workers “Fecund Italy” was rural Italy, as Gini and other fascist ideologues recognized; however, the record of social improvements in the countryside, through ONMI and the broader politica sociale of the regime, was unsatisfactory. The reach of Mussolini’s “totalitarian” state, the PNF, and fascist institutions, like ONMI, were limited throughout the 1930s; this reality helps to explain the internal crisis of the regime after the “high” of the years 1935–1936 and the rapid disintegration of Fascism during the Second World War89 . Hitler was right to observe that, during the war, popular support for Nazism withstood the pressures of mass privations and hardship, while fascism in Italy simply melted away like snow in the midday sun. Had the reality of the fascist welfare “revolution” been closer to the hype generated in the 1920s, then the roots of fascism within Italian society may have been much harder to deracinate. There was, indeed, much to be done, as the regime realized, and many social improvements to be made. For a start, the position of working–class women in the economy was bad when fascism took power and the regime’s economic policies were aggravating this situation even more. Moreover, rural women workers had the lowliest place of all in the workforce and within the family. Female agricultural workers, according to censuses, were a disparate group, which comprised small proprietors, renters, peasants on fixed contracts, leaseholders, casual day labourers and sharecroppers. Because of the relatively high proportion of widows amongst the agricultural population, and the nature of the rural household economy, women took an active part in family farm work and engaged in numerous casual and irregular bye–employments, a fact which is not fully reflected in census reports. By far the largest percentage of economically active women were engaged in intermittent and seasonal fieldwork in corn, flax, wheat, olive and rice cultivation, which provided fewer than 50 days of regular employment a year. Many of these came from sharecropping families, and especially from the compartecipanti in Lombardy, the Veneto, and Emilia; these strata enjoyed less profitable contracts than traditional mezzadri90 . Moreover, the Italian 89. P. Corner, The Fascist Party and Popular Opinion in Mussolini’s Italy (Oxford 2012), 8. 90. ISTAT, La struttura della popolazione rurale italiana e le nuove figure agricole rilevante nell’VIII censimento (Rome 1937), 16–17.

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countryside experienced profound changes during the fascist period91 , many of which adversely aVected women. The proportion of women within the rural labour force fell from well over 60 percent in 1881 to just over 35 percent in 1938; the greatest drop occurred in the period 1921 to 1931, when the size of the female labour force in agriculture shrank by over 50 percent from 3,116,885 to 1,582,50392 . Although the number of male workers, a category which comprised peasant smallholders, tenant farmers, and landless labourers, also decreased, as a consequence of fascist agrarian policy93 , men shared much less in this process of dis–employment (rather than re–employment in industry) from the “oYcial” labour market. The male rural workforce fell by a little more than 9 percent, from 7,085,124 in 1921 to 6,392,639 in 193194 . The fascist regime’s politica salariale of reduced wages, coupled with high unemployment and limited consumption, had a more disastrous impact upon women workers than it did upon men workers95 . Female rural unemployment grew higher than that of men during the height of the agricultural crisis from 1927 to 1931, when some fascist trade unions proved unable to stop employers from firing women and children and rehiring men at lower wages. Women workers also failed to share equally in the trend towards the partial transference of labour from agriculture to industry in the 91. Relatively, very little remains written about the lives of rural women in general. Economic histories often neglect to mention female agricultural workers entirely: see Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, vol. II, in P. Bevilacqua (ed.) Uomini e classi (Venice 1989) and P.P. D’Attorre, A. De Bernardi (eds.), Studi sull’agricoltura italiana: società rurale e modernizzazione, «Annali Feltrinelli», 29 (Milan 1993). 92. ISTAT, La struttura della popolazione rurale italiana e le nuove figure agricole rilevate nell’VII censimento (Rome 1937), 16; ISTAT, Compendio statistico italiano, XII (Rome 1938), 42; P. Corner, Fascist Agrarian Policy and the Italian Economy in the Inter–War Years, in J.A. Davis (ed.), Gramsci and Italy’s Passive Revolution (London 1974), 239–274. 93. J.S. Cohen, Rapporti agricoltura–industria e sviluppo agricolo, in P.L. Ciocca, G. Toniolo (eds.), L’economia italiana nel periodo fascista, (Bologna 1976), 379–407 and his Fascism and Agriculture in Italy: Policies and Consequences, «Economic History Review», 32:1 (February 1979), 70–87. 94. La struttura della popolazione rurale italiana e le nuove figure agricole rilevate nell’VII censimento, 16. 95. Mortara, Osservazioni sulla politica dei “tagli salariali”, in G. Toniolo (ed.), Industria e banca nella grande crisi, 65–72; G. Tattara, La battaglia del grano, in G. Toniolo (ed.), L’economia italiana, 1861–1940 (Rome 1978), 337–380; D. Preti, Economia e istituzioni nello stato fascista (Rome 1980), 179–207; P. Willson, Peasant Women and Politics in Fascist Italy: The Massaie Rurali (London 2002), 16–21.

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period of stabilization from 1932 to 1936. Corrado Gini and Baron Alberto Blanc, the president of the ONMI, who acted as government advisors on issues of female employment, as they served as members of the Consiglio Superiore dell’Economia Nazionale, were well aware of the plight of working women. Amongst the poorest sector of the population, many peasant women experienced hunger and deprivation and lived lives on the brink of subsistence. In breakdowns of average daily diets, for example, the calorie intake of peasant woman was far lower than that of any other category in the economically active population. Disparities in the wages which men and women received, even for the same work, grew wider during the depression as agrarian capitalists in the North and Centre followed oYcial policy, aimed at salvaging the packets of male earners, by sacrificing those of women and children. Less than half those of men at the peak of the agricultural crisis, the average monthly earnings of female casual labourers in agriculture continued to fall by a larger percentage than did those of men from 1931 to 193696 . The deterioration in the income and living standards of women agricultural workers must be set against patterns of female fertility. While almost 20 percent of urban working–class mothers who completed their childbearing years in the 1920s gave birth to seven or more babies (excluding stillbirths), just under 25 percent of peasant women produced the same number of live offspring97 . The demographic censuses and statistical analyses undertaken by ISTAT, ONMI officials, and demographers during the dictatorship revealed marked differentials in family size and fertility levels amongst the various social classes, 96. See Gini’s report on consumption and the cost of living for the council’s meeting in November 1927: Ministero dellEconomia Nazionale, Consiglio Superiore dell’Economia Nazionale, Atti del Consiglio Superiore dell’Economia Nazionale, Sessione V (Rome 1927). Min. Interno, Direzione Generale della Sanità Pubblica, Sui fatti e sui provvedimenti più notevoli riguardanti l’igiene e la sanità pubblica nell’anno 1932, II (Rome 1932), 42–47; ISTAT, Compendio statistico italiano, X (Rome 1936), 137; Bureau of Labour Statistics, Labor Conditions in Italy, «Monthly Labor Review», 57:5 (November 1943), 911–31; V. Quadrini, The Great Depression in Italy: Trade Restrictions and Real Wage Rigidities, Paper Presented to the Conference on “Great Depressions of the Twentieth Century”, New York, 20–21 October 2000. 97. C. Alessandrini, Nuzialità, natalità e mortalità nell’ultimo cinquantennio, «Maternità ed infanzia», 6 (February 1931), 201–3; L. Lenti, La fecondità legittima, secondo l’età delle madri, «Giornale degli economisti», L (March 1935), 22–24; G. Mortara, Nuovi dati sulla natalità in Italia, «Giornale degli economisti», XLIX (August 1934), 552–63; M. De Vergottini, Tavola di fecondità della donna italiana secondo l’età ed il numero dei figli avuti, «Giornale degli economisti e Rivista di statistica», Fourth series, 77: 2 (February 1937), 89–107.

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as Gini and others knew very well. For example, in 1931, the average middle–class household contained three children; that of industrial workers five; that of the lower–middle–class of artisans, shopkeepers, and merchants five; that of white–collar employees in services and administration three; and that of agricultural labourers six. Numerous studies revealed that rural women began to have children at an earlier age than urban women did and prolonged their fertility well into advanced middle–age98 . The on–going inquest into the geographic distribution of large families, which was conducted by ISTAT (and CISP: Comitato Italiano per lo Studio dei Problemi della Popolazione) during the presidency of Corrado Gini, showed that the burden of child upkeep fell far more heavily upon the rural than urban poor99 . Out of Italy’s 9 million families, over 1.5 million were comprised of seven or more children, and almost half a million households contained seven or more child dependents. These “hyper–fecund” families had produced about 13.4 million children altogether, which, together with their parents, comprised about 16.5 million people, amounting to 41 percent of the total population of Italy in 1928. The official data revealed too that the new twentieth–century demographic model of the two–child family, already making incursions in other Western European countries, was only slowly making inroads in Italy and was almost exclusively an urban phenomenon. A “Malthusian” pattern of high fertility and high mortality, more common to the ancièn régime than a modern society, still blighted rural Italy well into the twentieth century. The nation’s most prolific families were concentrated in rural Italy, in some of the poorest regions; Apulia, Basilicata, and the Abruzzi had the highest density of “big families” in the whole of the country. Millions of Italian women, mainly rural, of course, were still producing children at regular two–year intervals throughout their reproductive lives, and producing families with 12 or more children, many of whom would not reach adulthood, because of high mortality100 . The selfless 98. “Documenti statistici”, Maternità ed Infanzia, 2 (January 1927), 33–40; ISTAT, VIII censimento della popolazione, 21 Aprile 1936, Popolazione, Prima Parte: Relazione, vol. III (Rome 1939), 41–44; C. Saracena, La famiglia operaia sotto il fascismo, in «Annali Feltrinelli», 20 (1979), 189–230; A. Manoukian, La famigia dei contadini, in P. Melograni (ed.), La famiglia italiana dall’ottocento a oggi, (Rome and Bari 1988), 3–59. 99. F. Cassata, Building the New Man: Eugenics, Racial Science, and Genetics in Twentieth–Century Italy (Budapest and New York 2011), 172–173. 100. G. Pietra, Agricoltura e la politica dell’alta natalità, in L. Lojacano (ed.), Popolazione e fascismo (Turin 1933), 74–78.

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contribution of rural women to the “battle for births”, the regime’s spokesmen stated, deserved special commendation and oYcial recognition in bonuses and rewards101 . One sector of the female rural population did, in fact, receive much attention by fascism and its trade unions — women rice workers. The government was aware that the syndical organization of female rural workers proceeded haphazardly, especially amongst landless labourers in northern and central regions102 . Party–run labour exchanges controlling the movement of migrant rice workers were amongst the very first such institutions to be established in fascist Italy; furthermore, national contracts covering planters, weeders, and harvesters on rice farms were such a priority that they came into eVect as early as 1924103 . A severe crisis aVecting the kingdom’s rice–growing regions prompted the government to make this sector a focus of autarchic polices aimed at protecting national production. Already troubled by a sharp decline in agricultural prices after 1925, rice farmers acutely felt the eVects of the crash in the world economy in 1929; the depression had a devastating impact on agricultural incomes. The average price for paddy paid to the farmer fell from 95 lire per quintal in 1929 to 70 the following year and 64 the next. And the drop continued104 . What happened in the epicentre of Italian rice production illustrates just how deeply rice–producing communities went into crisis. Rice paddies extended over scattered patches of wetland in Sicily, Tuscany, Emilia and Latium. While heat retarded plant growth in Sicily, rice flourished in the north–western Po delta because of the natural abundance of water supply and the presence of marsh land, as well as a moderate climate. Each year, the Piedmontese province of Vercelli produced around 48 percent of the nation’s rice crop105 ; the most productive farming was conducted close to the provincial capital on 101. G. Pietra, Agricoltura e la politica dell’alta natalità, in L. Lojacano (ed.), Popolazione e fascismo (Turin 1933), 74–78. 102. A. Lo Monaco–Aprile, La politica assistenziale dell’Italia fascista (Rome 1931), 267–74; C. Alessandri, La riforma della legge sul lavoro delle donne, Maternità ed Infanzia, VII (April 1932), 438–444; VIII censimento generale della popolazione, Parte seconda: Regno, IV, 744. 103. W.C. Welk, Fascist Economic Policy: An Analysis of Italy’s Economic Experiment (Cambridge 1938), 97; ONMI, ONMI dalla sua fondazione (Rome 1962), 103–104. 104. Food and Agriculture Organization of the United Nations, The World Rice Economy in Figures (Rome 1965), table 15, p. 97. 105. Visitando l’agro vercellese, “La Sesia”, 20 January 1931; copies of the trade newspaper, “La Sesia”, can be found in the Biblioteca Civica di Vercelli.

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45,404 hectares of well–irrigated land divided into sizeable estates. On the outskirts called the baraggia, 6,277 hectares of poor–quality terrain were broken into small–holdings106 . When conditions were favourable, rice farming here could be very profitable indeed for growers, especially as the superior vercellese paddy commanded higher prices than other national varieties. The result of over–production in the 1920s, persistent price deflation from 1926, the decline in export trade after 1930, and stagnation in the home market from 1925 onwards, the crisis in rice farming caused many farm closures and had profound repercussions on local economies throughout the region107 . As the regional economy slipped into depression, rice farmers organized themselves into a lobby which put pressure on government to bail them out of trouble108 . In addition to attempting to salvage the production of this important cash crop, the government also focused its eVorts on providing aid towards rice workers. Italy was Europe’s biggest producer and exporter of rice; risicoltura also had importance because its labour–intensive methods made the size of its labour force considerable. On 8 June 1927, the fascist government asked the Opera Nazionale per la Protezione della Maternità e dell’Infanzia to mount a broad campaign for social assistance in those Lombard and Piedmontese provinces which constituted the largest rice–producing region in Italy109 . It was quite a–typical of the regime and OMNI to treat and target women as workers, rather than as mothers, so this policy choice was a special case. Quite apart from the imperative of the demographic campaign, political considerations, undoubtedly, played a major part in the decision–making behind the move to prioritize welfare policy towards risaiae. The bulk of the nation’s rice production took place in the Po Valley, where the early development of capitalist and commercial agriculture and the presence of large–scale farms had produced a huge and very militant female rural proletariat, with political and personal ties to women textiles workers in the 106. Archivio di Stato di Vercelli (ASV), Gabinetto della Prefettura (GP), serie I, mazzo (m.) 22, Federazione Provinciale dei Sindacati Fascisti degli Agricoltori della Provincia di Vercelli, fascicolo (f.) 187, report to the prefect, 3 June 1932. 107. ASV, GP, serie I, situazione sindacale, m. 21, fascicolo (f.) 184, monthly report of the Unione Industriale Fascista della Provincia di Vercelli to the prefect, 30 September 1933. 108. D. Brianta, Il riso tra Stato e mercato: un commercio agricolo padano, in P. Bevilacqua (ed.), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, III, Mercati e istituzioni (Venice 1991), 75–98. 109. Partito Nazionale Fascista, Assistenza fascista alle mondariso (Vercelli 1942), 3.

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many factories which were located in neighbouring areas, such as Biella. Before the First World War, the strikes and protests of the weeders, such as those during an intense period of protracted militancy in 1905–1907 and during the “Red Week” of 7–14 June 1914, “were among the most radical” of all farm labourers in Italy110 . The rice–growing provinces of the upper Po basin continued to erupt into periodic unrest, even during the fascist onslaught in the countryside in 1919–1922 and even after the fascist “seizure of power”. In the spring of 1920, for example, rice workers throughout Piedmont started a strike which severely disrupted the planting season. This action was met by a show of solidarity by mondine, who were normally employed at the height of the summer weeding season. This strike went on record as the longest to date since organized rebellion began at the end of the nineteenth century. Lasting fifty–four days, the strike completely paralyzed national production. In the summer of 1923, mondine and braccianti throughout Vercelli came out in full force to support a strike on the large latifundium of San Damiano in Carisio, which was long considered to be a model of landlord entrepreneurship and technical eYciency111 . Women and children, almost exclusively, performed the most gruelling, badly paid, and unhealthy work, the mondatura, which involved uprooting dead plants infested with algae and clearing away weeds in wet paddy–fields. Mothers carrying infants on their backs, young children, and old women alike, the mondine stood bent over, sometimes knee deep in water, from dawn until dusk. In 1926, a labour force of some 233,000 women and children worked as risaiae in north–western Italy; 195,000 of these were migrant labourers112 . Often travelling by special trains from destinations as far afield as Emilia, rice workers arrived in places like Vercelli, Novara, and Pavia to find work conditions very bad. Huddled in crowded and humid dormitories without furnishings, drinking water, or amenities, they slept on dirt floors on the dank hay their employers provided for the duration of their month–long stay. Though contracts varied by locality, most mondine brought their own bedding, but received room and board 110. E. Gentili Zappi, If Eight Hours Seem Too Few: Mobilisation of Women Workers in the Italian Rice Fields (Albany 1991), ch. 6; 280. 111. E. Termini, Crisi e lotta di classe in risaia, «Lo stato operaio», 2:1–2 ( January–February 1928), 14–16. 112. C. Alessandri, Donne e minorenni in risaia, «Maternità ed Infanzia», 2 (March 1927), 32–35.

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in exchange for a fixed portion of their wages. In local legend, the agrarians of Vercelli, some of whom owned or managed great estates, were mean providers of food for their labourers. They reputedly provided broth made with rice and only a few bits of old sausage as daily fare. But, since workers typically received rations of rice soup and stale bread, the Vercellese mondine were relatively lucky in being offered some meat. In general, food and hygiene were poor everywhere, a fact that was evidenced by the high incidence of gastro–intestinal and water–borne diseases afflicting the mondine. It had become customary for government authorities to send local police, carabineri, and the army to maintain public order in the politically–sensitive rice–producing belt. Growing concern prompted new regulations in 1907 which limited the workday to nine hours for local women working the monda (but not migrant women), prohibited the employment of minors younger than 14, of pregnant women in the last month before term, and of postpartum women in the first month after giving birth. The enactment entitled nursing mothers to breast–feeding time off work, set at two half–hour breaks per day; and it outlined some schematic provision for mandatory health certification from authorities in the home commune and weekly health visits by district doctors in their place of work113 . But, like legislation on maternity leave and factory nurseries, employers largely ignored these rulings, because they preferred to plough profits into investment on farm machinery, chemical pesticides and fertilizers, and irrigation works. Improvements in the conditions of the working environment which they provided for their workers came very low on the list of employers’ priorities. Because of the huge health risks associated with rice work, the 1907 sanitation act outlined a set of financial accords that made employers and municipal governments jointly responsible for the costs of medical provision for rice workers. The act held communes responsible for providing resources to combat disease in rice–producing areas. Public health oYcials were meant to distribute quinine, which was used widely in the prevention and treatment of malaria114 . Municipal authorities were also 113. Ministero dell’Economia Nazionale, Atti del consiglio dell’economia nazionale, Sessione IX, May 1929 (Rome 1930), 75–81 on the failings of the sanitary law of 1 August 1907; E. Gentili Zappi, If Eight Hours Seem Too Few, 177–181. 114. F.M. Snowden, The Conquest of Malaria: Italy, 1900–1962 (New Haven and London 2006), 111–114.

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supposed to provide general practitioners on the government payroll with radium lamps for tuberculosis therapy, and disinfectants and medicines for the cure of such common ailments amongst the risaiae as water–borne rashes, infections, and fevers115 . The law dictated that some of the financial burden for these services be carried by employers, who were asked to pay municipalities a fixed portion of the costs of the expenses incurred by doctors in the public sector. This amount was determined on a fixed per capita rate. The problem with this law was that, like so much other well–intentioned and progressive social legislation in liberal Italy, it simply was not enforced properly. The fascist regime may have had “totalitarian” aspirations, but it too found it diYcult to enforce existing laws and extend social protection. Beginning with a circular dated 23 May 1928, Mussolini’s government put pressure on local prefects and the police to force employer compliance with the 1907 public health act116 . The promulgation of amendments to this legislation on 22 March 1934 (r.d.l. no. 654 and the Testo Unico approved with r.d.l. 27 June 1934, no. 1265) set even more stringent guidelines on statutory provision117 . Despite eVorts to impose norms, conditions improved only nominally for the risaiae during the fascist period. Fascism probably monitored infractions more closely than did liberalism, but the dictatorship found it just as diYcult to break employer intransigence. Having used public expenditure to pay public practitioners to care for rice workers, local governments then found themselves powerless to extract reimbursements from employers. After 1925, the price of rice experienced a catastrophic collapse on international markets, and the ensuing crisis inflicted years of diminishing profits on agrarians. The prolonged agricultural depression that began in 1926 and continued throughout the following decade made employers more determined 115. S. Ravicini, Per la difesa sanitaria e morale delle risajole, «Difesa sociale», XII (April 1934), 192–196. 116. Archivio di Stato di Novara (ASN), Prefettura (P), AVari Generali (AG), serie I, categoria 26 — “ONMI”, assistenza alla mondariso, busta (b.) 2, relazione of 23 May 1928 on the diYculties of law enforcement; relazione of 18 July 1931 on the transport of medicines to paddy —fields; relazione of 24 October 1933 on communal medical services; copy of a memo sent by the PNF to all prefects, 24 April 1935; all the documents in this box pertain to diYculties surrounding the implementation of directives on medical services and working conditions. 117. ASN, P, AG, serie I, categoria 26 – “ONMI”, assistenza alla mondariso, b. 2, copy of the relazione sent by the Interior Ministry to all prefects concerning the royal decree law of 22 March 1934 (no. 654) and the testo unico approved by royal decree on 27 June 1934 (no. 1265).

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than ever to evade expenditure on their workers which they considered to be inessential. Perfect reports covering the 1920s and 1930s show just how commonplace were open contraventions of the law and just how powerless fascist unions and authorities were to protect workers’ rights118 . Prefects reported, for example, that the high incidence of miscarriage and neonatal mortality amongst rice workers was linked to the fact that employers illegally hired pregnant women and new mothers and subjected both categories of women workers to poor conditions which jeopardized their health and that of their oVspring119 . While few farmers provided on–site facilities for the treatment of minor ailments with medicines, even fewer voluntarily contributed to the cost of health visits by general practitioners. Migrant labourers comprised the bulk of the workforce involved in the cultivation of rice, and many of these travelled long distances. Agrarians deducted a portion of their wages for room and board, but provided only the most elementary living quarters for migrant rice workers. Farmers simply flouted sanitary regulations by not building proper shelters to house migrants, not providing running water on site, and not installing windows in existing huts for proper ventilation120 . Others were lax about paying their statutory contribution to municipal governments for the provision of health visits by condotti. Less than a handful of the serious violations of the norms which the police in Pavia reported to the prefect after the 1926 weeding season had been corrected by the following year121 . Workers paid a terrible price for the harsh conditions of labour in rice farming. In a small commune in the province of Novara in 1936, as many as 1,053 of the 2,383 migrant workers, and 349 local workers, fell ill with diseases identified as typhoid fever, tuberculosis, malaria, diphtheria and skin disorders, like rashes

118. ASN, P, AG, serie I, categoria 26 – “ONMI”, assistenza alla mondariso, b. 2, prefect reports, from the UYcio di Collocamento dei Prestatori d’Opera Addetti ai Lavori in Risaia, by commune, covering the years from 1927 to 1939. 119. ASN, P, AG, serie I, categoria 26 – “ONMI”, assistenza all mondariso, b. 2, ONMI report to the prefect about this illegality, defined as commonplace, dated 4 June 1935. 120. ASN, P, AG, serie I, categoria 26 – “ONMI”, assistenza all mondariso, b. 2; see, for example, the report sent by oYcials of the commune of Briona on 7 January 1937 to the prefect; report from commune of Casavolone, 5 December 1936, to the prefect; and report from commune of Novara, 11 July 1936, to the prefect. 121. C. Alessandri, Donne e minorenni in risaia, 34.

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and boils122 . These sorts of working conditions seemed unacceptable to reformers who took fascism’s social pronouncements seriously. Many progressives from both the moderate liberal and leftist camps found fascism’s promises of “social justice” for the working class to be very attractive. Even before the advent of fascism, they took up the cause of the risaiae because these women and children were so obviously being oppressed. Apart from the political considerations, the fascist regime chose to focus on this single issue because it addressed so many of its wider social and demographic concerns. Government oYcials, for example, voiced concern about the moral implications of poor working and living conditions on campsites. They were motivated by the desire to see employers build proper dormitories to segregate male and female workers. Rumours and fears of late–night parties and sexual liaisons provoked this response. They also called for the regime to enforce observance of laws on child labour partly because they wanted to protect young and nubile women from predatory males123 . These larger concerns coalesced when disturbances erupted because of the deteriorating wages and conditions provoked by the agricultural depression that began in 1926. Many producers in Lombardy and Piedmont had borrowed during the boom years of 1923–1925 in order to finance technical improvements, boost production, and increase crop yields. In response to plummeting prices and reduced profits, employer associations in Lombardy and Piedmont announced that they would be slashing wages on 1 June 1927, just as the first influx of mondine arrived. This proposed cut of 5 lire per day amounted to a hefty 30 percent reduction on the rate of pay. Not consulted beforehand, fascist trade unionists from the major rice–producing provinces of Novara, Vercelli, Pavia and Alessandria complained about the measure, which they argued was completely illegal. Workers’ representatives issued an unconditional demand that agrarians respect the terms of binding labour contracts which both parties had negotiated the previous March. Submitted for arbitration, the dispute, nonetheless, dragged on as the Magistracy of Labour in Rome stalled indecisively. While awaiting a judgement, employers 122. ASN, P, AG, serie I, categoria 26 – “ONMI”, assistenza all mondariso, b. 2, verbale del commune di Casalbeltrame, 22 April 1936. 123. C. Alessandri, Donne e minorenni in risaia and Ravicini, Per la difesa sanitaria e morale delle risajole.

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oVered a compromise settlement of a 16 percent wage reduction on 29 June. When the court in Rome finally took a decision on 14 July, magistrates supported this proposal. This bitter dispute revealed the powerlessness of trade unions in the fascist dictatorship. Despite their lack of eVective leadership, however, workers organized resistance amongst themselves. Underground communist cadres began to stir the masses into mounting an oVensive after the announcement of the proposed 30 percent cut was heard back in June. Strike action started on the 28 of the month in Trecate, when weeders abstained from work for two days; then it spread throughout the provinces of Novara, Vercelli, Pavia, Milan and Alessandria. As many as 20,000 workers came out in full support of the action. Local communists, who had contacts with comrades in the nearby textile towns of Biella, Gallarate, and Busto Arsizio, had already begun a campaign to unite factory women and risaiae into a political force of resistance against the regime. Beginning on the 20 June, they distributed clandestine newspapers by courier throughout the region. These denounced Mussolini as a pawn of the bourgeosie and the agrarians. On the 30 June, round–ups and arrests began. Although the police detained over 100 strikers, they charged only seven with subversion. The special tribunal then condemned each of these agitators to two months imprisonment in a labour colony. The forces of repression showed some clemency in order to diVuse the turmoil124 . ONMI’s provincial federations in rice–growing areas began to implement policy in this tense and hostile environment. The briefs which the police periodically sent to ONMI leaders made no attempt to hide the political character of welfare in this region. The police commissioner of Vercelli asked ONMI federali to assist his oYcers in their eVorts to “keep discipline” and pacify nervosismo, especially during winter months when discontent rose because of increased unemployment. He also asked those involved in welfare services to help authorities uncover troublemakers amongst the populace125 . The 1927 programme of action undertaken by the ONMI federa124. ASN, P, I serie, categoria 15 – “Risaie”, b. 14, f. 1, report from the Federazione Provinciale Sindacati Fascisti degli Agricoltori to the prefect, 13 June 1931; ASV, GP, serie I, m. 22, fascicolo (f.).187, Federazione Provinciale Sindacati Fascisti degli Agricoltori, relazione of 3 June 1932. 125. ASV, GP, m. 22, f. 192, Pro Memoria of 15 January 1932; see also ASN, GP, categoria 26 – “ONMI”, AG, b. 90, f. 4, organizzazioni sanitarie–assistenza ai bambini delle mondariso, circular from national ONMI leaders to provincial federations of ONMI and the PNF, prefects, and the police, 30 April 1941.

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tion of Novara stressed the “delicate nature” of social provision in a province whose one cash crop gave local peasants only four months of regular work a year126 . Prefects encouraged ONMI to build a tight network of home visitors by using activists from the fasci femminili as recruits in a drive to cement “political collaboration amongst mothers of diVerent classes”. Domiciliary aid, they stressed, kept people from gathering outside government oYces requesting relief. One of the concerns was to control crowds, while another was to minimize public awareness of the visible symptoms of poverty. Prefects also stressed that home aid gave authorities the continuous contact that was needed to monitor public opinion and keep a close check on the forces of subversion127 . And the communiqués which passed between police and prefects revealed just how anxiously they waited to see whether welfare could in fact pacify the people128 . As part of the broad programme of social action in rice–growing areas, party and parastate authorities were keen to organize “mass spectacles” whose aim was to deflect attention from real poverty and politics. Local prefects asked party and ONMI federali to organize festivities coinciding with the Giornata della Madre e del Fanciullo, declared a public holiday in 1932 and first celebrated on Christmas eve the following year when 5,788 municipalities across the nation, oYcial reports claimed, held events ranging from baby beauty contests to exhibitions of Italian–produced kitchen ware129 . In Pavia, Vercelli, and Novara, authorities defined these occasions as a “maximum political priority” and began planning for them months in advance. Local PNF and ONMI functionaries gave speeches on the tutela della razza and Magna Mater, themes which focused on the wholesomeness of peasant toil and the benevolence of the state130 . Determined to ex126. ASN, P, serie I, categoria 26 – “ONMI”, AG, ONMI, b. 88, f. 1, programma d’azione della federazione provinciale dell’ONMI per il 1928. 127. Archivio di Stato di Alessandria (ASA), GP, b. 27, Cartelle Speciali (CS), relazioni periodiche sulla situazione politica, f. 4.1, relazione of the gabinetto, 29 December 1931, on the work of ONMI. 128. ASV, GP, m. 79 (old number, 86), f. 363, letter from the commander of the military police to the prefect, 31 January 1931. 129. ISTAT, L’azione promossa dal governo nazionale a favore dell’incremento demografico e contro urbanesimo, Rome 1934, 65–66. 130. ASN, GP, serie I, categoria 26 – “ONMI”, AG, b. 90, f. 1, commune di Dormoletto, report on the distribution of winter–relief subsidies to coincide with local Mother’s Day Celebrations, 1939; see also, ASN, P, b. 88, ONMI, f. 1, on Mother’s Day Celebrations and

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ploit all channels of mass mobilization, the regime pursued a policy which blurred the distinction between welfare and propaganda. Mussolini showed a keen appreciation of the power of special benefits and privileges to influence public opinion. Each annual Mothers’ Day celebration ended with public gatherings where PNF and ONMI authorities distributed cash premiums to carefully selected winners. After the creation of empire in 1936, the state sponsored nationwide competitions for the title of “Prolific Mothers of the Year” which also culminated on the Giornata della Madre e del Bambino. ONMI leaders lavished publicity on these annual events and encouraged all party and public institutions to participate. According to guidelines on entry, women contestants wrote letters describing themselves and their families; many of these contained detailed and desperate pleas for housing, jobs, and pay increases. While ONMI oYcials vetted applicants, prefects, the police, and PNF federali conducted investigations concerning the moral character and the political persuasion of candidates. The letters were sent to Rome for Mussolini’s final decision131 . In local celebrations, and at the final reception at the Palazzo Venezia in Rome, fascist oYcialdom made a great display of public gratitude by granting a few of the requests made by mothers and by bestowing financial benefits like income tax rebates, public transport discounts, food coupons, and free holidays on the most prolific132 . In addition to medals of honour and childrearing diplomas, these elected exemplars of Italian motherhood received especially large premi di natalità, commemorating those who had borne the most oVspring since 1929133 . The birth premiums were scaled according to public festivities, 1939; the children of the mothers who were rewarded received automatic life membership in the fascist party. 131. Archivio Centrale dello Stato (ACS), Segreteria Particolare del Duce (SPD), 1922–1943, Carteggio Ordinario (CO), b. 1261, f. 509817, elenco delle coppie prolifiche con numero dei figli, by year from 1929 to 1940; and an un–numbered file containing letters from women contestants. 132. Archivio di Stato di Milano (ACM), GP, categoria 24 — “Demografia”, b. 498, famiglie numerose, circolare of 2 May 1928, somme stanziate, and file, famiglie con più di 20 figli, reports and investigations about each family; and b. 499, f. 3629 containing letters from the women; b. 500, b. 501, and 502, sussidi a famiglie numerose, 1927 —1937, annual organization of the festivities and selection process. 133. ASM, GP, categoria 24 – “Demografia”, b. 503, premi di nuzialità e natalità, 1936–1940, individual files on families.

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reproductive output, with 50 lire given for each child produced up to the sixth, 100 lire for each child up to the tenth, and 200 lire for each child up to the twentieth. Though political allegiance mattered, not all winners were members of the fascist party. And each year’s theme diVered so factory workers, peasants, public employees, and artisans all had a chance at the cash prizes. In 1937, Novara sent its first prolific couple, both braccianti who worked the rice fields, to Rome to be received by the Duce134 . An economical form of propaganda, the benefit scheme included premi di nuptialità, which were given to young married women who had produced a child annually in their first five years of marriage. Somewhat more diYcult to organize, and considerably more costly to run, welfare–state–building in the localities focused on opening state nurseries for risaiae. For access to free childminding facilities available from May until September each year, mondine paid a small inscription fee of 2 lire, which was waived for party members. This provision constituted the single largest expenditure in the budget of the provincial federation of ONMI in Vercelli, which was the main receiving province for migrant labour and had the highest number of rice workers. Secondary policy targets included the creation of clinics for migrants, home visits for resident workers, and forms of poverty relief such as the distribution of milk, food, and occasional subsidies. Expenses for these initiatives varied enormously in rice–producing provinces. As in all other projects, ONMI tried to minimize its share of the funding by soliciting donations from employer and labour organisations, other public institutions, private charities, citizens and local governments. Provincial federations, however, encountered a great deal of indiVerence to ONMI and its campaign for rice workers. And the administrative and organizational diYculties experienced by most ONMI federali across the nation disrupted welfare development here too. When in April 1926 ONMI authorities in Novara began to implement the finance procedure outlined by new funding guidelines135 , municipal governments, beneficient institutions, and Congregations of Charity refused to part with those funds which comprised their statutory contributions to 134. ASN, P, serie I, categoria 26 – “ONMI”, AG, b. 88, f. 1, sf. 5, verbali del Consiglio Direttivo della Federazione dell’ONMI, 29 November 1937. 135. M.S. Quine, Italy’s Social Revolution, 147–154 on the shortcomings of ONMI financial arrangements.

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the institution. Failure to create an eYcient bureaucratic mechanism for the collection of money from these sources aVected social programmes by obstructing institutional growth on a local level, nationwide and in the localities. By early 1928, about 150 of the 230 communes in ONMI’s provincial administration of Novara still lacked ONMI committees or services of any kind; and 50 of the roughly 80 standing comitati had yet to begin eVecting any form of assistenza mondariso because of what authorities defined as a “total lack of sufficient resources”136 . Another obstacle to institutional development, many poor communes simply could not aVord to invest a portion of their tax revenue in ONMI at a time when revaluation caused government debts to swell. And other municipalities lacked private charitable institutions altogether, so the contributions which they made to ONMI’s central social fund proved negligible137 . By 1928, some communes and institutions in Novara began to pay their quarterly dues in arrears, but the federation accounts for the whole of the following decade show that backlogs and indebtedness continued138 . A significant amount of the administrative work of provincial federations consisted of this constant haggling over finance. But some of the responsibility for the slowness of institutional development lay with the rigidity of financial rulings in the 1926 regulation. Though an important ricegrowing area, the commune of Oleggio in Novara had not yet received any grant from ONMI provincial headquarters by 1941. Authorities based in the ONMI headquarters in the provincial capital repeatedly rejected requests for funding on the grounds that municipal leaders had failed to open a clinic, a condition for the release of funds laid down by ONMI’s founding statutes. ONMI leaders in Oleggio had been unable to do so, however, because local government had never donated suitable buildings. When the commune finally found an abandoned villa in the centre of town in the spring of 1941, the provincial federation came up with a grant of 3,500 136. ASN, P, serie I, categoria 26 – “ONMI”, AG, b. 88, f. 1, sf. 5, relazione sull’attività svolta nel 1927, ONMI federation report to the prefect. 137. ASN, P, serie I, categoria 26 – “ONMI”, AG, b. 107, contributi, f. 2, ONMI circular to the prefect of 1 July 1926, reprimanding him for not having sent a list of all institutions in the province to facilitate the collection process; f. 3, elenci by year from 1926–1941 of contributions from congregations of charity, opere pie, and comunes. 138. ASN, P, serie I, “carte da ordinare” (files without an inventory), maternità ed infanzia, b. 16, prefect’s letter, 17 April 1926 to all communes on the implementation of ONMI’s statutes; and responses from communes dated from 1926–1928 in the un–ordered files.

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lire for its upkeep. The clinic never opened during the fascist period, however, since ONMI authorities could find no doctors or nurses to run the consultancy on a volunteer basis139 . ONMI provincial leaders in Novara deferred welfare development in Oleggio because of their strict adherence to the law. They never even considered the policy option of bending regulations by supporting Oleggio authorities in their eVorts to organise programmes which were more appropriate to local resources and needs. Plans for a food and milk distribution service for mothers who worked the rice fields remained frustrated. ONMI never got oV the ground in Oleggio, despite years of wasteful bureaucratic negotiations140 . Welfare organization at the local level proceeded at a piecemeal pace because ONMI had to appeal not just to government agencies but also to the general public to provide buildings, money, and volunteers for projects. When ONMI federali in Novara approached the association of rice producers in the autumn of 1927 with a plan to share the costs of campsite nurseries, they discovered that not one agrarian in the province was prepared to comply141 . The federation received assurances from provincial leaders of the fasci femminili that the party would assist them in their eVorts. But the ensuing process of creating these impromptu nurseries in an area where neither local élites nor the general public were keen supporters of the regime went badly. Members of the female fascio promised to make arrangements for the Giovani Italiane organization to launch training courses in puericulture and cultura igienica to prepare young fascists to become a corps of childminders. Negotiations though fell through abruptly in November 1927, partly because the tenuous hold the PNF had in these provinces precluded an active involvement in welfare organisation142 . The president of the ONMI federation in Novara turned to the directors of the public hospital and the foundling home in the provin139. ASN, GP, serie I, categoria 26 – “ONMI”, AG, b. 90, f. 1, report to ONMI from the commune of Oleggio, 2 June 1941. 140. ASN, GP, serie I, categoria 26 – “ONMI”, AG, b. 90, f. 4, letter from the provincial federation of ONMI to all communes, 2 January 1941. 141. ASN, P, serie I, categoria 26 – “ONMI”, AG, b. 2, ONMI’s report to the prefect on assistance towards figli della mondariso, 4 June 1935; and federation circular to local ONMI committees about ongoing negotiations with employers, 26 April 1935. 142. ASN, P, serie I, categoria 26 – “ONMI”, AG, b. 88, f. 1, letter from Carlo Garampazzi, ONMI federation president, to the secretary of the fasci femminili, 29 December 1927; and letters to vice–podestà inquiring about the possibility of creating collaboratrici, 1926–1929.

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cial capital for help, but both proved unwilling to provide space and personnel for a crèche. And when he appealed to the general public to open up improvised daycare centres in their homes, this strategy achieved fewer results than he had anticipated143 . Federal leaders of ONMI abandoned all hope of ever creating a network of nurseries in rural communes since they had failed to do so in the provincial capital, where most of the welfare institutions were located and where landowning élites resided. They decided instead to concentrate funds on poverty and unemployment relief through the distribution of small subsidies and food packets to families in extreme hardship144 . In Vercelli, the nursery scheme had more success due mostly to the presence of local backing. Here too rice producers refused to fund the project, but private citizens and public organizations filled this gap by setting up nurseries. The active involvement of female party members in welfare activities proved an important asset, as did the participation of prominent women philanthropists. While ONMI carried almost the full cost for the maintenance of nurseries and for the food given to children at lunchtime, the federation received a substantial contribution from the union of agricultural labourers. In addition to these funds, provincial leaders managed to negotiate an agreement for a sizable annual donation from two local banks145 . By October 1932, however, the provincial federation in Vercelli had managed to create public asili nidi in only 32 of the hundreds of communes in its administration. Most functioned as casual shelters in private homes or public venues provided by the local Congregation of Charity, the foundling home, or a similar institution. The provision of free meals, and in some cases medical care, may have filled a real social need in this province where wage reductions, unemployment, and the cost of living rose dramatically after 1927. But the total number of children minded at public expense seems minute in 143. ASN, P, serie I, categoria 26 – “ONMI”, AG, b. 88, f. 1, deliberation of the commune of Novara, 2 January 1935, about the provision of locali for ONMI; and f. 4, with responses from private citizens, 1928–1933, such as that from a woman in a small frazione of Novara who oVered to open up an asilo in her home, 1928. 144. ONMI, ONMI dalla sua fondazione, Rome 1962, table on p. 74 gives details of the geographic distribution of asili–nidi stagionali and their absence in Novara; see too, Fasci Femminili, Assistenza alle mondariso, Vercelli 1942, 8–12. 145. La prolifica ed intensa attività di patronato dell’ONMI, “La Sesia”, 21 July 1931; see also, ASV, Archivio dell’ONMI, mazzo (m.) 162, corsi di puericultora prenatale e postnatale per medici e per levatrici, 25 September 1935, for the favourable response of the medical community.

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comparison to the actual size of the agricultural labour force involved in rice production. With over 40,000 migrant women, 16,000 local female rice workers, and 30,000 male harvesters, Vercelli was the largest producing province in Italy. Throughout the period 1927 to 1932, however, ONMI assisted little over 2,300 children under the age of six years in the agency’s nurseries; and in any one season during those years, only between 400 and 700 children of the risaiae could be found in state nurseries146 . Although the federation in Vercelli blamed employer disregard for the failure of the nursery campaign, leaders encountered the same problem which had influenced their colleagues in Novara to abandon the project completely. Women rice workers, ONMI oYcials admitted reluctantly, simply refused to relinquish their children to the care of impersonal government agencies. ONMI authorities encountered a great deal of popular hostility to their intrusions in private life, some of which was clearly politically motivated. While many women resisted state incursions because of the longstanding custom for risaiae to bring their children with them into the paddies, others did so because they did not want to be associated with a fascist institution. Especially in those few communes where ONMI had managed to secure the involvement of female party members, working women seemed almost defiant in their renunciation of any collaboration with the regime’s agents. Even when in 1929 the PNF and ONMI together decided to launch a premio di monda scheme in Vercelli oVering women 50 lire to abstain from work or to bring their babies to public nurseries, the scheme failed to attract any popular support whatsoever147 . In the localities, other programmes had a limited impact too. Plans to establish permanent clinics for working families in all communes under rice cultivation never materialized. By 1932, the federation in Vercelli had managed to open only one such consultorio in the 146. ASV, GP, serie I, ONMI, m. 23 (old number, 20), f. 199, relazioni of the Federazione Provinciale Vercellese dell’ONMI to the prefect (by trimester), 14 April 1927 to 7 October 1932, which give full details about the rising costs of this programme and the presenze complessive of infants. 147. ASV, GP, serie I, ONMI, m. 23 (old number, 20), f. 199, relazione sull’attività svolta nel terzo trimestre, 1932, 7 October 1932, about the lack of success of the premium monda scheme; and ASN, P, AG, serie I, categoria 26 – “ONMI”, b. 2, relazione of 18 May 1932 from the prefect to Sileno Fabbri, the national president of ONMI, about the sistema patriacale of rural families and women’s continued resistance to the programme.

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province, and even this was run directly by the nuns who governed a foundling home in the capital city. Far from providing medical services, the centre administered alms to the poor by distributing olive oil, powdered milk, and bread to a couple hundred women a year148 . Because the federation had been unable to create a permanent social fund for mondariso aid by banking residual cash and using interest payments to cover costs, leaders lived hand to mouth accruing debts in their accounts which were only partially relieved by annual grants from ONMI central headquarters in Rome149 . The plan for mothers’ kitchens had seemed a sensible way to alleviate the chronic malnutrition of working women. But this programme too had a limited impact, since mondine in rural outposts were eVectively excluded from taking part in free–lunch programmes established in the provincial capital. Because of the anticipated costs and transport problems, a mobile unit carrying food parcels to campsites and the surrounding villages of the baraggia proved to be an impractical objective. In the end, ONMI federali in Vercelli expressed some considerable dissatisfaction that they had been reduced to providing only occasional relief to unemployed townfolk. Created in 1928, the province’s only refectory was located in the city centre, was managed by the Congregation of Charity on OMNI’s behalf, and provided free meals for roughly fifty women and their children daily. But the kitchen was open for only four months of the year150 . In the neighboring province of Alessandria, where unemployment rose considerably after local agrarians curtailed rice production by over 50 percent in 1927, ONMI leaders also witnessed their plans for lasting welfare organization collapse into frantic emergency–relief operations. Reflecting the gravity of the economic crisis, ONMI’s provincial delegation decided in late 1927 to provide continuous cash subsidies to the poor rather than one–oV handouts. Following this unusual course of action in 1928, the agency supported 116 families 148. ASV, GP, serie I, ONMI, m. 23 (old number, 20), f. 199, relazione sull’attività svolta nel terzo trimestre, 1932, 7 October 1932: the costs for the centre amounted to 3,596 lire for the 1932 cultivation season. See also, ASV, ONMI, m. 163, consultorio, 1936–1943, on the frequenza which remained very low. 149. ASV, GP, serie I, ONMI, m. 23 (old number, 20), f. 199, relazione dello secondo trimestre 1932, which contains a full elenco of institutions and budget breakdowns for the whole period. 150. ASV, GP, serie I, ONMI, m. 23 (old number, 20), f. 199, relazione sull’attività nel secondo trimestre del’anno 1932: daily admissions numbered between 35 and 50 women and the cost for public authorities came to roughly 4 lire for every meal served.

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from Asti, Casale, Novi, and Tortona for over a year with monthly allowances covering food and housing expenditure151 . Between 1927 and 1931, ONMI leaders in Alessandria also instituted an independent initiative for assistenza invernale or winter relief which involved the mass collection and distribution of clothing, coal, sugar, rice flour, and powdered milk to 21,816 families throughout the province, who numbered 64,082 people in all152 . Despite donations from institutions and individuals, the federation reported to the prefect, who kept in close contact with welfare leaders, that as of April 1932 all resources for this costly project were “spent”. Because of these financial constraints, ONMI was forced to suspend this invaluable form of continuous economic aid in order to rebuild its budget. Only in the most urgent cases involving the death of a parent or extreme hardship could the agency now oVer prolonged cash benefits. As a consequence of this cost–cutting initiative, only 14 families received subsidies for a three–month period each during the winter of 1932 when unemployment reached unprecedented levels153 . This situation did not improve after 1932. The economic troubles plaguing ONMI’s central headquarters in Rome aVected budgeting and planning in all provincial federations. While subsidies comprised a major cash outlay only in Alessandria, other provinces in this region were forced to cut back on their more costly initiatives. As elsewhere in Italy, forms of social assistance shifted to become more periodic and less substantial after 1932154 . Increased welfare demand and expenditure during the worst of the depression thrust ONMI at national and provincial levels into crisis. In rice–producing provinces, as in many parts of Italy, welfare did not develop in the 1930s so much as stagger 151. Archivio di Stato di Alessandria, GP, b. 27, CS, relazione periodiche sulla situazione politica, relazione of ONMI provincial president, F. Carbone, to the prefect, 30 December 1929, about continuous subsidies. 152. ASA, GP, b. 27, CS, relazione periodiche sulla situazione politica, Carbone’s report of 11 September 1929 to the prefect; and, in the same holding, f. 4.1, relazioni trimenstrali, relazione of 4 April 1932. 153. ASA, GP, b. 27, CS, relazione periodiche sulla situazione politica, f. 4.1, relazioni trimestrali, relazione of 31 March 1932; relazione of primo trimestre, 29 March 1933; relazione of the carabiniere about the political eVects of cutbacks, 29 December 1932. In some cases, subsidies to individual families were enlarged to as much as 300 lire per month to compensate for the shorter period of recovery. 154. ASA, GP, b. 27, CS, relazione periodiche sulla situazione politica, f. 4.1, relazioni trimestrali, relazione of 2 June 1933, which makes reference to the “soVerenza” of the people that ONMI could not alleviate because of the organization’s total “mancanza di mezzi”.

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along at a faltering pace. To no avail, the Interior Ministry’s Department of Public Health issued repeated directives to local prefects instructing them to ensure that all provisions concerning the health and welfare of female rice workers be observed155 . The government’s own inspectorate of labour reported back to oYcials in Rome in 1937, for example, that rice workers suVered some of the worst working conditions in all of Italy and “something must be done” to remedy this “horrible” situation156 . The Prefects were still sending circulars to ONMI leaders in 1941 imploring them to create the broad collaboration with the fasci femminili needed in order to implement reforms fully157 . The regime recognized that in most places the much vaunted “class collaboration” of working–class women and their female “protectors” in the party “hardly existed at all in rice–growing areas, because no volunteers amongst the “better–oV ” could ever be mobilized158 . By recognizing the acute hardship suVered by risaiae, the regime did set in motion a long overdue process of building an institutional infrastructure for social welfare. But the loose framework of services which ONMI built during and after the depression would have to wait until the postwar period for further development. The deplorable working and living conditions of rice workers, and the inability of fascist institutions like ONMI to remedy these, were compounded by the oVensive against labour which agrarians mounted in the 1920s and 1930s. The stirrings of discontent did not disappear after 1927. Police reports stressed that the public mood grew tense as the depression worsened. Salaries, they confirmed, were far below subsistence given rising costs of food and housing. While shopkeepers in Vercelli had widely publicized 10 percent price cuts on all goods in the aftermath of the initial wage reduction in 155. ASN, P, AG, b.2, copy of circular from Direzione Generale Sanità Pubblica to prefects, dated 30 October 1935; and an undated foglio, number 392, from the PNF segretaria in Rome, outlining the importance of the “special” norms for the protection of rice workers. 156. ASN, P, I serie, categoria 15 – “Risaie”, b. 14, f. 1, copy of a report from the Prefecture’s Ispettorato dell’Industria e del Lavoro to the Ministry of the National Economy, 27 April 1937. 157. ASN, GP, serie I, AG, categoria 26 – “ONMI”, b. 90, f. 4, circular from ONMI national president to the president of the provincial federation, 1 April 1941; and letter from ONMI provincial federation to the prefect and to the secretary of the fasci femminili, 11 July 1941. 158. ASN, GP, AG, categoria 26 – “ONMI”, b. 90, circulars from A. Frontoni, ONMI President, in Rome, to the heads of provincial federations, dated 1 April 1941 and 30 April 1941, on the failure to secure the support of female party cadres and the urgent need to improve the living and working conditions of female rice workers.

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June 1927, they quickly reverted to standard business practice to insure growing profits. The police revealed to party oYcials that the clandestine literature and the public graYti which they uncovered in greater frequency reflected popular desperation at a crisis which had turned the whole ricegrowing area into a national disaster. The police attempted to keep a close grip on the situation in these provinces by intensifying surveillance operations to discover communist cells159 . The wage oVensive which began in 1927 gained momentum as the earnings of female rice workers shrank from 21 to 14 lire a day by 1930. Employers also introduced wider diVerentials between the pay rates of local and migrant labourers. By oVering migrants lower wages, agrarians made considerable savings because forestieri comprised the bulk of the labour force in all rice–producing provinces. In Novara, 9,700 local inhabitants worked the mondatura, while over 13,000 migrant women weeded. And while the number of migrant workers in Vercelli had dropped from 40,000 in 1927 to 23,000 in 1931, they still predominated over the local labour force which remained constant at just over 16,000 weeders. The forestieri suVered greater unemployment than local labourers as growers now discriminated against them in hiring practice. The staV of local labour exchanges were instructed to give employment preference to local residents in producing provinces. Part of the economizing trend, Piedmontese growers took advantage of the competition for jobs in a shrinking labour market by imposing harsher employment terms on workers. They began to make larger proportional deductions for room and board from the already reduced wage packets of impoverished risaiae. Evidence about bailiVs on the big estates who charged a percentage of wages as bribe money in exchange for scarce jobs reached trade union oYcers who were powerless to prohibit illegalities of this nature160 . The assault on the livelihood of women agricultural workers did not abate during the fascist period. OYcial day rates for mondine fell to 11 lire for locals and 10 for migrants in 1931, but remained somewhat stationary in the following two years. They dropped again to 9.75 lire for locals and 9.50 for migrants in the period 1934 to 1935. 159. ASV, GP, serie I, m. 79 (old number, 86), f. 363, situazione politica della provincia, commander of the carabinieri to the prefect, 31 January 1931. 160. ASV, GP, serie I, m. 71, f. 331, Sindacati Fascisti dell’Agricoltura, relazione to the prefect, 3 September 1931; in one such documented case a migrant harvester was forced to pay one quarter of his wages to secure a place on the squads.

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Pay scales began to rise again in 1936 for the first time in almost a decade, but they failed to reach earlier levels. By 1938, women’s salaries arrived at 13.22 lire for locals and 12.93 for migrants. The wages women workers received in 1938 were 62 percent lower than they had been in 1927. Fascist unions continued to oppose employers despite government pressure on them to support the policy of wage cuts. Labour syndicates proved unable to combat illegal wage reductions. While they managed to bring wages up to 11 lire in 1931 from the 8 lire proposed by the agrarian association, they failed to enforce the agreement so some employers oVered desperate workers only 6 lire a day161 . Violations of labour contract stipulations on mimimum pay and a growing awareness of employers’ exploitation of the unemployment crisis provoked a massive strike action in 1931. Notwithstanding the increased police presence at labour exchanges and train stations after 1927, an organized labour oVensive began on the 3 June 1931, when thousands of mondine throughout the Piedmontese plains refused to accept the meagre pay oVers of agrarians162 . For the next two weeks, abstentions and delays in the arrival of migrants continued to cripple rice production. Communist cadres, some arriving from the textiles zones in and around Biella163 , encouraged labour insurgency by distributing resistance literature and by holding sporadic underground meetings throughout Novara, Vercelli, Pavia, Alessandria and Milan164 . The police arrested agitators, rounded up hundreds of workers, and attempted to impose some discipline on campsites by encircling them with roadblocks. But it was employers who gained the upper hand in the dispute and managed to deflect the movement. Agrarians lured risaiae back to work with promises to pay their wages in full before weeding 161. Istituto Nazionale di Economia Agraria, I salari agricoli nelle zone ad economia capitalistico della Bassa Lombardia nel 1881–1930 (Pavia 1931), 269; Disoccupazione invernale, “La Sesia”, 22 September 1931. 162. ASV, GP, Questura, m. 22, f. 192, Pro Memoria of 15 January 1932, on the system of continuous surveillance in winter, in particular, of “potential subversive elements amongst the masses of the unemployed”. 163. ASV, GP, Questura, m. 22, f. 192, report dated 9 October 1932 on the process of identifying “communist groups” from Biella and other textile towns. 164. ASN, P, m. 71, f. 331, copy of the broadsheet, Il Lavoro Fascista, with details of wage reductions; La monda del riso, “La Sesia”, 8 May 1931; La vertenza per la tariVa, “La Sesia”, 19 May 1931; Le tariVe per la monda del riso, “La Sesia”, 19 June 1931; see the testimonies of D. Facelli, L. Balocco, Lo sciopero delle mondariso Vercelli 1931, Donna e politica (February 1977), 12–13.

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began. By the end of the month, militancy subsided everywhere as mondine begrudgingly accepted their 8 lire a day in advance. Reduced demand for labour and rising unemployment had made rice workers desperate enough for jobs to conclude the stoppage for a mere cash advance. But the political quiescence which economic depression and police repression brought to the region proved to be fragile. First in 1943 and again in 1944 and 1945, rice workers and factory women throughout Piedmont and Lombardy rose up in support of mass strikes against the regime165 . 5. Fascism’s “New Deal”? The glossy images of smiling “mothers of the race”, chubby babies, and healthy peasant families had little relation to the lived experience of many poor laboring women under fascist dictatorship. For all the fears and anxieties about racial extinction, the truth was that, when fascism came to power in 1922, Italy was a poor, largely agricultural, and developing nation. It had long exported excess population to the Americas and exploited a surplus of cheap labour at home. One of the defining features of the Italian economy was that it was a chronically low–waged economy, due mainly to the excess of labour. And it was predominantly a plentiful supply of cheap child and female labour which gave Italian industry and agriculture a competitive edge in European and world markets. The Italian working class was amongst the worst paid, most badly skilled, most highly taxed, most under–insured, most poorly fed and poorly housed, least protected and most exploited working classes in all of Western Europe166 . The impact of this chronic Malthusian crisis of over–population and poverty, hunger, and malnutrition was that by all the indicators of what some historians call “social backwardness”, such as newborn and infant mortality and maternal mortality, Italy was a country whose working classes suVered from an extremely poor quality of life and low living standards. Diseases of poverty, such as the “White Plague” of tuber165. Histories of war–time anti–fascism and resistance often overlook the active participation of women in the struggle: T. Behan, The Italian Resistance: Fascists, Guerrillas, and the Allies (London 2009), ch. 3. In Piedmont, female agricultural workers organized war–time protests together with female textile workers, and the role of women communists played a key role in this activity. 166. M.S. Quine, Italy’s Social Revolution, parts 1 and 2.

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culosis, remained rife167 . The fascist government may have taken credit for having eradicated malaria, another disease of the poor, but it was largely American money and resources, channelled through the Rockefeller Foundation and the League of Nations, which was responsible for any success which this public health campaign could claim168 . In the end, the Italian fascist dictatorship proved to be more of a “warfare” than a “welfare” state. It promoted significant and lasting institutional and structural changes, such as the foundation of ONMI, which created the framework for post–war social policy and programmes. Nonetheless, the self–avowedly “all–powerful” fascist state proved unable to deliver both “guns and butter” to the people. A distinctly “fascist welfare state” had been constructed, but one of its most important characteristics was its reliance upon private sources of revenue and its haphazard and chaotic presence throughout the nation. Another important eugenicist in the 1930s bore witness to the contradictory policies which Gini helped to unleash in Italy. We know much less about her than we do about other male scientists, like Gini and most of his fellow eugenicists. Nora Federici (1910–2001) was an extremely interesting character. She obtained her degree in political science, with a thesis in statistics, under the direction of Corrado Gini in 1933 and, in many respects, she remained his pupil throughout the fascist period, standing beside him — defending the principles of pronatalism and receiving ample rewards169 . She wrote Gini’s obituary in the journal which he founded170 . She participated 167. D. Preti, La modernizzazione corporativa, 1922–1940 (Milan 1987), 127–190. 168. League of Nations, Health Organization, Malaria Commission, Registry Number 26–31, “Some Aspects of the Problem of Malaria in Italy by Prof. N.H. Swellengrebel” (Geneva, 5 October 1924), on the poor progress of the “bonifications” and League of Nations, Health Organization, Malaria Commission, Registry Number 204–217, “Ten Years of Activity of the Commission” (Geneva 1 March 1934), on their support of the work of malaria therapy. See too, The Rockefeller Foundation, Annual Report, 1936 (New York 1937), 402–406. 169. Nora Federici took over the editorship of Gini’s journal, Genus, after his death in 1965; her student at La Sapienza University in Rome, Antonio Golini, assumed this role in 1994, and his tenure as editor continued until 2008, after which Graziella Caselli, Golini’s student, assumed this position. In this way, Gini’s conception of demography as a branch of political economy, as well as a statistical science, was transmitted from decade to decade for over 75 years: see A. Golini, The Long Journey of Genus in its first 75 Years (1934–2008), Genus, LXV, no. 0, 3–10. 170. N. Federici, L’opera di Corrado Gini nell’ambito della demografia e delle scienze sociali (sintesi ragionata), «Genus», 22:1–4 (1966), 7–41.

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in Gini’s scientific investigations on the damaging eVects of racial interbreeding in North Africa and the position of women in these primitive and “backward” societies; in these researches, she noted the striking subjection and degradation of women grinded down by poverty, but she did not elaborate on how similar the lives of Berber or Dauada women were with those of some of her own compatriots171 . Federici achieved leading positions in scientific journals, the Italian Statistical Institute, and the Faculty of Statistics in Rome; she received a professorship at Rome’s La Sapienza University with Gini’s backing and support; she had the honour to teach his courses there in racial demography to undergraduates. She is an interesting character, partly because her life was in two, almost entirely separate parts that seemed so contrasting — like that of any “collaborator” of the time, I suppose. From being a champion of fascist population policy, a dedicated and obedient pupil of Gini (his first student, in fact), and a dutiful eugenicist, towing the oYcial line that there was no connection between female fertility and women’s health, she became, after the fall of fascism, an entirely diVerent person. She became one of the leading figures of the feminist movement, fighting for the emancipation of women in national organizations, like the UDI (L’Unione delle Donne Italiane), and in international feminist forums. And, very significantly, she became one of the leading figures in global population, sustainability, and development studies. In the 1950s and 1960s, she helped carve out an area within this field which was very woman —centric. From the 1970s onwards, she was very involved in the work of global aid agencies and non–governmental organizations which were funding and running grass–roots projects in Africa and Asia. She had a complete turnaround in her post–fascist life and thinking, as she became a passionate advocate of the view that, for economic and social development to stand any chance of improving people’s lives, women had to have full equality with men, not just within the family, but also in the workplace too172 . She sought to shatter finally the patriarchal biases of social policy and social institutions in Italy and liberate women from the tyranny of 171. C. Gini, N. Federici, Appunti sulle spedizioni scientifiche del Comitato Italiano per lo Studio dei Problemi della Popolazione (Febbraio 1933–Aprile 1940 (Rome 1943). 172. See, for example, N. Federici, Procreazione, famiglia, lavoro della donna (Turin 1984); N. Federici, K. Oppenheim Mason, S. Sogner (eds.), Women’s Position and Demographic Change (Oxford 1993).

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ideologies which exalted their achievements as mothers, but made it impossible for women to feed and care for themselves and their families adequately. It is a great pity for the millions of Italian women workers and “mothers of the race” in fascist Italy that she, and others like her, who were in positions of real power over their bodies and lives, did not realize that hard reality sooner.

L’economia nello stato totalitario fascista ISBN 978-88-255-0372-2 DOI 10.4399/97888255037225 pag. 151–202 (giugno 2017)

Corporativismo, stato sociale, sviluppo 1922–1945 L’«insubordinazione fondante» italiana? Francesco Carlesi⇤

1. L’idea corporativa 12.000 volumi. L’impressionante numero di testi citati nella Bibliografia sindacale e corporativa di Alfredo Gradilone1 aiuta a far capire l’importanza che i temi sociali e del lavoro ebbero per il regime fascista. Intellettuali, tecnici e sindacalisti si spesero in uno sforzo teorico la cui intensità raramente è stata pareggiata nella storia unitaria del nostro paese. Dibattiti, polemiche e propaganda non restarono solo sulla carta, in quanto l’elaborazione dottrinaria accompagnò, con alterne fortune, la costruzione dell’edificio corporativo e dello stato sociale, che proseguì con coerenza fino al 1945. Strappi e indecisioni furono dettate dai concomitanti eventi internazionali (pensiamo alla Grande Depressione o alla Seconda guerra mondiale), dalle resistenze di alcuni settori dell’economia nazionale (all’interno della grande industria in primis) e dal fatto che le concezioni sociali fasciste ambivano a porsi in netta antitesi con quelle dominanti (liberalismo e comunismo), pagando quindi lo scotto della propria novità. Nonostante tutto, la classe dirigente fascista diede vita nel campo sociale a istituzioni ed esperimenti di rilievo, che molti paesi esteri studiarono con interesse. Tema dominante del dibattito economico durante il Ventennio fu l’idea di «terza via», cioè la costruzione di un sistema alternativo sia all’individualismo liberale, caratterizzato dal predominio del mercato, che al comunismo, incentrato sul materialismo storico e sull’idea di ⇤

Dottorando in Studi politici presso la Sapienza – Università di Roma. 1. A. Gradilone, Bibliografia sindacale–corporativa (1923–1940), INCF, Roma 1942.

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lotta di classe2 . Diversamente da queste due letture «materialistiche» la Dottrina del fascismo esaltava lo Stato, quale realtà spirituale all’interno della quale il cittadino avrebbe potuto dare espressione alla sua personalità e dispiegare le sue vere potenzialità. Classi e competenze avrebbero dovuto collaborare in nome del supremo interesse nazionale, superiore ai singoli cittadini. Proprio nel «nesso tra comunità e fascismo» Marco Tarchi ha individuato il punto focale per capire il Ventennio3 . Nessuna traccia di atomismo, diritti umani o progresso, ma una concezione sacrale della patria, del combattimento, del lavoro. La Dottrina del fascismo (1932) chiarì: L’uomo del fascismo è uomo che è nazione e patria, legge morale che stringe individui e generazioni in una tradizione e in una missione, che sopprime l’istinto della vita chiusa nel breve giro del piacere per instaurare nel dovere una vita superiore libera dei limiti di tempo e di spazio: una vita in cui l’individuo, attraverso l’abnegazione di sé, il sacrifico dei suoi interessi particolari, la stessa morte, realizza quell’esistenza tutta spirituale in cui è il suo valore di uomo [. . . ]. Il fascismo vuole l’uomo attivo e impegnato nell’azione con tutte le sue energie: lo vuole virilmente consapevole delle diYcoltà che ci sono, e pronto ad aVrontarle. Concepisce la vita come lotta pensando che spetti all’uomo conquistarsi quella che sia veramente degna di lui, creando prima di tutto in se stesso lo strumento (fisico, morale, intellettuale) per edificarla. [. . . ] per il fascista, tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dallo Stato. In tal senso il fascismo è totalitario, e lo Stato fascista sintesi e unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo.4

L’ordinamento «sindacale–corporativo» sarebbe stato «la pietra angolare»5 che avrebbe consentito il realizzarsi di questo progetto di netta discontinuità con il precedente ordinamento liberale. Numerose furono le esperienze e le influenze che contribuirono all’aVermarsi del corporativismo nel dopoguerra in Italia, e d’altronde sarebbe impossibile cercare di capire un fenomeno senza partire 2. Su questa idea Roger Eatwell ha basato la sua definizione di fascismo: «Il fascismo è un’ideologia che ha cercato di determinare una rinascita sociale sulla base di una Terza Via radicale di tipo olistico–nazionale, anche se nella pratica il fascismo ha teso a sottolineare lo stile, specialmente l’azione e il leader carismatico più che programmi dettagliati [. . . ]», come riportato nell’importante volume E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma Bari 2002, p. 48. 3. M. Tarchi, “Fascismo”. Teorie, interpretazioni, modelli, Laterza, Roma–Bari 2003, p. 135. 4. B. Mussolini, G. Gentile, Dottrina del fascismo (1932), in B. Mussolini, Opera omnia, a cura di E. Susmel, D. Susmel, 44 voll., La Fenice, Firenze 1951–1963, Vol XXIV, p. 118. 5. Ivi, p. 258

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dalle sue radici storiche. Si possono allora tracciare alcuni brevi e indicativi passaggi fondamentali: sin dal Settecento un ramo importante della tradizione nostrana di economia politica, quello storicista e antipurista, aveva tentato di rovesciare le premesse individualistiche liberali in nome della Stato sociale, o solidale, mediando tra economia, morale e diritto6 . Questo filone si dipanò fino ai primi del Novecento, con Giuseppe Mazzini tra i personaggi più importanti. Il «profeta del Risorgimento» avversò l’utilitarismo e il liberalismo promuovendo l’idea di «collaborazione di classe», tanto da divenire per molti fascisti e teorici dell’epoca, Giovanni Gentile per primo, un indubbio precursore e punto di riferimento7 . Inoltre, Gioacchino Volpe, nel 1935, diede il suo contributo al recupero della sinistra risorgimentale richiamandosi, nella Storia del movimento fascista, non soltanto al «primato» giobertiano e mazziniano, ma anche al «socialismo nazionale», quali fonti del fascismo.8

Lo storico fascista attraverso interpretazioni non banali: Aveva dato dignità all’azione dei socialisti nella formazione della nazione italiana e aveva fatto entrare nella storia, a pieno diritto, il problema del lavoro come centrale nella evoluzione della nazione.9 6. Crf. R. Faucci, Un’epoca di transizione? Le coordinate teorico–istituzionali del periodo, in Id. (a cura di), Il pensiero economico italiano tra le due guerre, «Quaderni di storia dell’economia politica», VIII, 1990, n. 2–3. 7. Per molti intellettuali e giovani rivoluzionari dell’epoca il Risorgimento divenne un vero e proprio mito, da richiamare e “completare”, coinvolgendo realmente le masse e inserendole nello Stato. Concetti alla base di quello che alcuni hanno definito l’idea di «democrazia totalitaria». Cfr. J. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, il Mulino 1967 (edizione originale del 1952) e G. Parlato, La sinistra fascista, il Mulino, Bologna 2008, pp. 27–73. Un comunista del calibro di Palmiro Togliatti e il filosofo liberale Bertrand Russell descrissero il corporativismo fascista in stretta linea di continuità con l’associazionismo mazziniano, come rilevato da Valerio Benedetti nel saggio L’ideale corporativo presente in: V. Benedetti, F. Burla (a cura di), Corporativismo del Terzo Millennio, Aga Edtrice, Milano 2013, pp. 65–89. 8. G. Parlato, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, il Mulino, Bologna 2000, p. 43. 9. Ivi, p. 47. Sulla stessa linea il “fascista di sinistra” Armando Lodolini, che nei suoi scritti del Ventennio formulò un giudizio positivo sul socialista Andrea Costa, sottolineando la necessità dello spirito antiborghese e popolare per portare a termine il Risorgimento. Ivi, pp. 50–51. Questo personaggio, intellettuale e archivista di primo piano, ebbe una carriera singolare: allontanato ingiustamente dall’Archivio di Stato nel 1935, trovò nuova linfa culturale all’interno del sindacato, fino a guidare la segreteria particolare del segretario del PNF Capoferri. Il suo riferimento rimase sempre Mazzini, a cui dedicò impegno e studio per tutta la vita. Nel

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Assonanze col pensiero corporativo, seppur in stridente contrasto nella concezione del ruolo dello Stato, si possono trovare nella dottrina sociale cattolica, espressa in encicliche come la Rerum Novarum (1891), e che si sviluppò per tutto il Novecento. All’inizio del XX secolo, il nostro paese fu infiammato da spinte antiparlamentaristiche e da un «radicalismo nazionale» antiliberale arricchito dal concetto di «politica dei produttori» (con «La Voce» di Papini e Prezzolini tra i tanti esempi), come riportato da Emilio Gentile ne Le origini dell’ideologia fascista e ne Il mito dello Stato nuovo. Già da queste prime affermazioni si capisce come risultino poco fondate le dichiarazioni di chi ha collocato la nascita dello spirito fascista, e dei suoi fermenti sociali, fuori dalla penisola10 . Sempre in Italia, il futurismo parlò esplicitamente di rappresentanze dei produttori in un suo manifesto datato 1918, mentre la Carta del Carnaro del 1920 (Costituzione della “dannunziana” Fiume) menzionò le Corporazioni quali organi fondamentali del processo economico. Le parole «produttori» e «Corporazioni» saranno l’architrave della speculazione fascista sul tema: il programma del Partito Nazionale Fascista del 1921 ne fu il plastico esempio. Pulsioni e connessioni puntualmente descritte da Valerio Benedetti nell’Ideale corporativo, un’agile e profonda disamina effettuata attraverso le parole e gli scritti del duce, nonché di alcuni teorici di spicco quali Ugo Spirito11 , Sergio Panunzio e Arnaldo Volpicelli. Quest’ultimo autore dopoguerra tornerà a svolgere un ruolo fondamentale nell’Archivio di Stato. Cfr. le pagine a lui dedicate in: A. Attanasio (a cura di), 1943–1945. La ricostruzione della storia. Atti del convegno per il LX anniversario dell’Archivio centrale dello Stato, Archivio centrale dello Stato, Roma 2014, pp. 259–306. Vedi anche: M. Cassetti (a cura di), Repertorio del personale degli archivi di Stato, MIBAC, Roma 2008, pp. 716–736. 10. Zeev Sternhell ne individua le origini in Francia, dove il fascismo si sarebbe sviluppato nella sua forma più pura partendo da un filone di sinistra che operò una revisione antimaterialistica del marxismo. Cfr. il libro Nascita dell’ideologia fascista, Baldini e Castoldi, Milano 1993 (edizione francese originale 1989). Altri pensatori di destra, come Giorgio Locchi e Adriano Romualdi, rifacendosi in particolare a Nietzsche e alla Rivoluzione conservatrice tedesca (e trascurando la parte relativa alla «terza via» e alla «rivoluzione sociale») si riferiscono alla Germania. Cfr. ad esempio: G. Locchi, Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista, Akropolis, Roma 1982. 11. Questo filosofo fu uno dei più interessanti teorici sul tema, e la sua vitalità culturale continuerà a caratterizzare anche il dopoguerra. Nel Ventennio, oltre che per via del suo celebre intervento al Congresso di Ferrara del 1932, in cui propose la «corporazione proprietaria», fu protagonista del dibattito economico–filosofico scrivendo numerosi volumi (tra i tanti: U. Spirito, Critica dell’economia liberale, Sansoni, Firenze 1930; Id. I fondamenti dell’economia corporativa, Sansoni, Firenze 1933; Id., Capitalismo e corporativismo, Sansoni, Firenze 1933; Id., Dall’economia liberale al corporativismo, Sansoni, Firenze 1939) e dirigendo la rivista «Nuovi studi di diritto, economia e politica» dal 1927 al 1935.

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contribuì a definire l’idea corporativa con rigore e chiarezza, dopo che soprattutto negli anni immediatamente successivi la Marcia su Roma la confusione teorica aveva regnato sovrana tra i vari protagonisti dell’epoca12 . In uno scritto datato 1930 la questione venne colta nel suo più ampio respiro: Il corporativismo non è soltanto una dottrina economica, non aVerma solo il carattere statuale e politico della produzione e del lavoro, non mira solo a ricondurre e disciplinare nell’unità dello Stato e del suo sistema istituzionale le categorie e le classi organizzate nei sindacati e nelle corporazioni, ma è una dottrina politica di carattere universale. Essa importa e significa: natura e rilevanza statale di tutta la vita individuale e sociale, solidarietà organica indissolubile e, quindi, carattere e responsabilità statuale di tutte le forme e forze della vita della nazione.13

E ancora: Il corporativismo non è aVatto un principio e un ordinamento economico, come grossolanamente ritiene la generalità dei teorici e dei politici, ma un principio e un ordinamento politico, una intera forma caratteristica di organizzazione statale. [. . . ] Il corporativismo è, appunto, una dottrina politica «generale», contrassegnata da ciò: che riassorbe, insieme, tutta la vita dell’individuo nell’organizzazione statale, e tutta quanta l’autorità di governo, in tutti i suoi gradi, nella stessa organizzazione sociale; meglio ancora, nella volontà diretta e continua, gerarchicamente ordinata, di tutti i cittadini.14

Influenza decisiva nell’elaborazione teorica ebbero, soprattutto nei primi anni di vita del movimento (sorto nel 1919), i sindacalisti rivoluzionari, la cui importanza per la nascita del fascismo fu sottolineata dallo stesso Mussolini, il quale scrisse: Nel grande fiume del fascismo troverete i filoni che si dipartono dal Sorel, dal Peguy, dal Lagardelle, dal Mouvement Socialiste e dalla coorte di sindacalisti 12. A questo proposito un’antologia critica ha ricostruito evoluzioni e limiti della teoria corporativa, analizzando gli articoli e i contributi dei maggiori economisti dell’epoca: E. Zagari, O. Mancini, F. Perillo, La teoria economica del corporativismo, II voll., Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1982. Parimenti critica, ma ricca di spunti, l’analisi di D. Cavalieri, Il corporativismo nella storia del pensiero economico italiano: una rilettura critica, «Il pensiero economico italiano», 2, Pisa 1994. 13. A. Volpicelli, I fondamenti ideali del corporativismo, «Nuovi studi di diritto, economia, politica», maggio–agosto 1930, p. 172. Questo scritto è riportato integralmente nel volume: V. Benedetti, F. Burla (a cura di), Corporativismo del Terzo Millennio, cit., pp. 219–238. 14. A. Volpicelli, Corporativismo e scienza giuridica, Sansoni, Firenze 1934, pp. VI–VII.

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Francesco Carlesi italiani, che tra il 1904 ed il 1914 portarono una nota di novità nell’ambiente socialistico italiano, già svirilizzato e cloroformizzato dalla fornicazione giolittiana, con le «Pagine libere» di Olivetti, «La Lupa» di Orano, «Il Divenire Sociale» di Leone.15

Non pochi di questi «combattenti sociali» aderirono al fascismo, mentre altri (Alceste De Ambris tra i più noti) scelsero l’opposizione al regime in nome di un ideale libertario. Il già citato Panunzio16 , Filippo Corridoni (fondatore dell’Unione Italiana del Lavoro, caduto nel primo conflitto mondiale) e Angelo Oliviero Olivetti17 sono tre nomi fondamentali all’interno di quella galassia di pensatori che spostò l’attenzione teorica dal concetto di «classe» a quello di «nazione», influenzando la scelta interventista di Mussolini alla vigilia della Prima guerra mondiale. La centralità di questi personaggi nella costruzione dell’ideologia fascista è stata sottolineata con dovizia di particolari da A. James Gregor, che l’ha collocata accanto al nazionalismo “di sviluppo” di Enrico Corradini e al pensiero di Gentile nella cornice razionale e organica (seppur senza trascurare l’importanza che giocarono pragmatismo e volontarismo) del regime18 . Il teorico siciliano è citato non a caso, in quanto risulta diYcile capire le aspirazioni e la cultura del fascismo scindendo il corporativismo dall’attualismo gentiliano e dalla sua carica rivoluzionaria19 . Il massimo filosofo italiano del Novecento, con cui si confrontarono non solo le camicie nere ma l’intero mondo della cultura da Gramsci a Gobetti20 , contribuì in maniera decisiva all’elaborazione del pensiero fascista, in cui corporativismo e «Stato etico» ambivano a richiamare 15. B. Mussolini, Dottrina del fascismo, cit., 1932. 16. Per inquadrare il suo pensiero un volume fondamentale, curato da Francesco Perfetti, è: S. Panunzio, Il fondamento giuridico del fascismo, Bonacci, Roma 1987. 17. Anche qui è doveroso indicare un’altra opera curata da Perfetti: A.O. Olivetti, Dal sindacalismo rivoluzionario al corporativismo, Bonacci, Roma 1984. 18. Cfr. uno dei volumi che tra i primi ha cominciato a descrivere con rigore scientifico l’esperienza fascista: A.J. Gregor, L’ideologia del fascismo, Il Borghese, Milano 1974 (prima edizione americana 1969). 19. La figura di Gentile fu molto discussa sia durante il Ventennio, quanto nel dopoguerra. Sul tema, una recente e importante pubblicazione ha aperto nuovi orizzonti interpretativi: V. Benedetti, Riprendersi Giovanni Gentile, Aga edtrice, Milano 2014. Da segnalare inoltre: A. Tarquini, Il Gentile dei fascisti, il Mulino, Bologna 2009 e H.A. Cavallera, L’immagine del fascismo in Giovanni Gentile, PensaMultimedia, Lecce 2008. 20. P. Buchignani, La Rivoluzione in camicia nera. Dalle origini al 25 luglio 1943, Mondadori, Milano 2006, pp. 167–168.

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il lavoratore e il cittadino alla massima partecipazione e alla massima responsabilità, in un’ottica diversa da quella della democrazia parlamentare. Lo Stato etico di Giovanni Gentile con il suo idealismo era l’anima indispensabile del corporativismo. Senza lo Stato etico il corporativismo era un marchingegno di complessi organismi nati morti. L’idealismo di Gentile era la linfa vitale che permetteva la realizzazione di un nuovo ordine che avrebbe educato il cittadino a essere non più uomo economico ma uomo sociale, un uomo pensoso più d’altrui che di se stesso,

notò lo studioso americano Anthony Galatoli Landi21 . proprio il fatto di non aver compreso questa connessione e il suo fondamento politico–spirituale22 ha generato fraintendimenti nelle analisi storiografiche sul tema, e problematizza l’interpretazione di quanti hanno intravisto nella rappresentanza degli interessi (che “inchioderebbe” il cittadino al suo status lavorativo) un aspetto solamente antipolitico e materialista in contraddizione con le premesse fasciste. 2. I primi passi del fascismo Prima di analizzare il percorso della costruzione corporativa bisogna fare chiarezza su un aspetto fondamentale, cioè il ruolo di Mussolini. Il dittatore fu convinto assertore dell’opzione corporativa, come ha chiarito Renzo De Felice, i cui studi rimangono base di partenza imprescindibile: È fuori dubbio e ampiamente documentato che Mussolini era un convinto sostenitore del “sistema corporativo” e lo considerava l’unico sistema in grado di evitare le contraddizioni tipiche del “supercapitalismo” [. . . ], la premessa indispensabile per un nuovo sistema politico veramente “democratico” e “rappresentativo”.23 21. A.G. Landi, mussolini e la rivoluzione sociale, isc, roma 1983, pp. 86–87. 22. «Convinti che la politica costituisse l’“integrale di ogni avvenimento” e che la “più gratuita azione, i più intimi pensieri di ogni individuo”, avrebbero acquistato “concreto significato” solo se fossero stati “ricondotti direttamente a un valore politico”, i fascisti celebravano il primato della politica su tutte le altre manifestazioni della vita moderna e credevano che la cultura fosse uno strumento per realizzare la nuova civiltà nata con la presa del potere nell’ottobre 1922». A. Tarquini, storia della cultura fascista, cit., p. 7. 23. R. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso (1929–1936), Einaudi, Torino 1974, p. 176. Completamente intrise di socialità e anticapitalismo sono d’altronde i colloqui di Mussolini

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Aperture, chiusure, intermediazioni e mosse del duce in questo ambito furono dettate esclusivamente da quello che egli considerava il suo ruolo di guida del processo rivoluzionario, attento a non far crollare gli equilibri politici e considerare pragmaticamente le esigenze del momento. L’«astratto fantoccio» rappresentato per lui dall’homo oeconomicus e l’opposizione al lavoro come «merce» tornano spesso nei suoi scritti e discorsi («l’ideale del supercapitalismo sarebbe la standardizzazione del genere umano dalla culla alla bara», si legge nella Dottrina). Proprio la volontà del capo del fascismo, chiara fin dal dopoguerra, consentì la costruzione economica e sociale del regime: con tutti i suoi limiti, il processo di cambiamento fu graduale ma incessante. In tema economico, le mosse iniziali del governo Mussolini furono caute, muovendosi spesso in direzione liberale. Tra i tanti esempi dei primi mesi dopo la presa del potere con la Marcia su Roma (1922), si pensi all’abolizione della nominatività dei titoli azionari e della tassa sulle successioni. Il rigore e il risanamento economico insieme alla ricerca di capitali americani furono le priorità del momento. Allo stesso tempo, è in questo contesto che cominciò a maturare la legislazione previdenziale e a decollare la «fase sindacale», che prevedeva la rappresentanza paritetica di Confindustria e sindacato fascista al tavolo delle decisioni sul mondo del lavoro. I passaggi principali furono le proposte di diverse Commissioni di specialisti (come quella del gennaio 1925 definita dei “Soloni”) e i Patti di Palazzo Chigi (1923) e di Palazzo Vidoni (1925), attraverso i quali l’organizzazione degli industriali e il sindacato fascista si “riconobbero” quali unici enti deputati alla contrattazione sociale. A farne le spese tutti gli altri sindacati, estromessi dalla rappresentanza dopo violenti scontri e strenue lotte sul piano concreto e teorico. Anche per questo motivo il regime faticherà a guadagnare il pieno consenso delle classi lavoratrici. Questi passaggi furono accompagnati da una notevole varietà di posizioni che animarono riviste e dibattiti24 (non senza confusione e ambiguità nella definizione stessa della parola «Corporazione»), individuate con con il giovane Yvon De Begnac, una sorta di monologo–memoriale tenuto dalla secondo metà degli anni ’30 fino a poco prima il 25 luglio e pubblicato nel 1990: Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani, il Mulino, Bologna 1990. 24. Il corporativismo costituì, secondo molti, pressoché l’unico argomento sul quale il regime lasciò ampio spazio a opinioni diVormi. Cfr. ad es. F. Chabod, L’Italia contemporanea (1918–1948), Einaudi, Torino 1961, p. 87.

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precisione da Perfetti. Le speculazioni più rilevanti sull’argomento spaziarono da quelle estreme dei nazionalisti, sostanzialmente antisindacali e finalizzate alla riaVermazione dell’idea dello Stato come entità e principio autonomo, a quelle dei «corporazionisti integrali» alla Costamagna25 , che pur rifiutando il sindacalismo vedevano nella corporazione lo strumento per giungere alla rappresentanza degli interessi; da quelle dei «sindacalisti puri» che puntavano in fondo ad una esaltazione del sindacato attraverso il modello dello Stato appunto sindacale, a quelle infine tecnocratiche dei revisionisti.26

A occuparsi della costruzione dell’architettura del nuovo Stato nei primi anni fu Alfredo Rocco, nazionalista e giurista di primo piano. A lui si devono, ad esempio, il Codice Penale e le «leggi fascistissime», che spianarono la strada al monopolio delle camicie nere sul paese e sulla stampa mettendo la pietra tombale sul pluralismo partitico. Questa concezione autoritaria dei rapporti sociali consentì la riorganizzazione dell’esecutivo e dell’apparato statale liberale in crisi sin dalla Prima guerra mondiale27 , ma suscitò anche i malumori, oltre che degli oppositori sconfitti, di diversi sindacalisti, rivoluzionari della prima ora e bottaiani. Questi ultimi erano impegnati nel superamento degli eccessi degli anni precedenti28 , nella «creazione» di una 25. Giurista di altro profilo, scrisse pagine importanti per capire gli aspetti politici, sociali e spirituali del fascismo, impegnandosi anche nel dopoguerra. Alcuni testi rilevanti sono: C. Costamagna, Elementi di diritto costituzionale corporativo fascista, Bemporad, Firenze 1929, Id., Storia e Dottrina del fascismo, Utet, Torino 1938 e Id., Discorso sulla socializzazione, Edizioni Rivolta Ideale, Roma 1951. 26. F. Perfetti, Il Sindacalismo fascista. Dalle origini allo Stato Corporativo (1919–1930), Bonacci, Roma 1988, p. 123. L’ampia gamma dei “diversi corporativismi”, dalle diVerenti interpretazioni giuridiche fino a quelle sindacali, passando per Bottai e Spirito, è stata richiamata, tra gli altri, da Gagliardi in Id., Il corporativismo fascista, Laterza, Roma Bari 2010, pp. 6–25 e da Rasi nella prefazione della raccolta di scritti U. Spirito, Il Corporativismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, pp. 26–29. 27. Una crisi profonda a livello sociale e politico, con il parlamento già “esautorato” in occasione della scelta dell’intervento e incapace di rispondere alle aspettative dei combattenti e del popolo sin dall’immmediato dopoguerra. Vedi la dettagliata analisi, ricca di statistiche, dei mutamenti socio–politici del paese in quel periodo contenuta in: G. Rasi, Tutto è cambiato con la Prima guerra mondiale. Società ed economia dal 1915 al 1922, Tabula Fati, Chieti 2015. 28. Gli scontri tra «rossi e neri» infiammarono il dopoguerra causando centinaia di morti. Lo squadrismo fascista nacque anche come reazione al sistema delle leghe rosse e alle violenze di anarchici, socialisti e comunisti (pensiamo al periodo definito «biennio rosso») che avevano quale modello la rivoluzione bolscevica. Per fare un esempio, Pietro Nenni parlava apertamente di distruzione dello «Stato borghese» (come si legge nelle memorie Vent’anni di fascismo, Avanti,

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nuova classe dirigente e infine nella definizione del ruolo del partito quale elemento propulsore della rivoluzione. Essi vagheggiavano la costruzione di uno «Stato–comunità» a base popolare, in questo chiaramente influenzati dal Gentile che ricordava: Lo Stato fascista invece è Stato popolare; e in tal senso Stato democratico per eccellenza. Il rapporto tra lo Stato e non questo o quel cittadino, ma ogni cittadino, che abbia diritto di sentirsi tale, è così intimo [. . . ] che lo Stato esiste in quanto e per quanto la fa esistere il cittadino. [. . . ] Lo Stato corporativo mira ad approssimarsi a quella immanenza dello Stato nell’individuo che è la condizione della forza, e cioè dell’essenza stessa dello Stato.29

Ugo D’Andrea sostenne dalle colonne di «Critica Fascista» (diretta da Bottai) che se si fosse aVermata la concezione che Rocco aveva del fascismo, la rivoluzione si sarebbe trasformata in una «restaurazione [. . . ] cara al principe di Metternich», che poco avrebbe avuto del fascismo, dal momento che questo era «un profondamento e una estensione della massa nazionale e un vigoroso balzo in avanti nella formazione di una unitaria coscienza nazionale come ripresa e conclusione del Risorgimento», e non avrebbe certo potuto «concludersi con una limitazione dei diritti civili e politici dei più»30 . Possiamo collocare questi fermenti nel quadro di quell’ambiente rivoluzionario, definito “sinistra fascista” da Giuseppe Parlato31 , messo spesso ai margini ma che animerà con il suo slancio ideale tutto il Ventennio, Milano 1964, p. 212). Ma non ci fu solo la «reazione»: dalle squadre provenivano gerarchi di primo piano come Dino Grandi e Italo Balbo, e uomini di cultura come Marcello Gallian, e questo fenomeno merita di essere approfondito al di là dei pregiudizi ideologici. Un’analisi importante quanto poco nota si trova in: L.L. Rimbotti, Il fascismo di sinistra. Da Piazza S. Sepolcro al Congresso di Verona, Settimo Sigillo, Roma 1989, pp. 49–74. Di recente pubblicazione: G. Reale, “Se non ci conoscete. . . ”. Racconti squadristi, Aga editrice, Milano 2016. Fa riflettere comunque che «i morti da lavoro, anche nei mesi “caldi” del ’21 e ’22, furono più numerosi di quelli provocati dagli scontri tra fascisti e socialisti». A. grandi, T. alquati, Eroi e cialtroni, Politeia edizioni, Torino 2011, p. 86. 29. G. Gentile, Origini e dottrina del fascismo, in Id., Politica e cultura, a cura di H.A. Cavallera, vol. I., Le Lettere, Firenze 1990, pp. 405, 407. 30. U. D’andrea, Note sul discorso Rocco, «Critica Fascista», 15 settembre 1925, pp. 341–342. 31. «Sinistra fascista» è un termine che ha acquistato importanza soprattutto in tempi recenti, quando la storiografia ha superato l’interpretazione semplicistica del fascismo come blocco granitico, privo di sfaccettature e asservito agli interessi del grande capitale nella politica sociale. Sotto questo nome vengono indicati sindacalisti rivoluzionari, futuristi, squadristi, intellettuali e dissidenti che tentarono di imprimere una connotazione antiborghese, anticapitalistica, comunitaria e rivoluzionaria al fascismo. L’opera di G. Parlato, La Sinistra Fascista, cit.,

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con costante impegno e originalità. Proprio per via di queste caratteristiche uomini e citazione provenienti dalla “sinistra” del regime costituiranno il fulcro di questa trattazione, insieme alla «Critica» di Bottai. Il tutto tenendo presente i fattori di “delusione” ricordati da Landi: Il crollo della fede nella dinamica rivoluzionaria del fascismo fu dovuto a vari fattori, fra i quali la gestione serpentesca e ottusa del partito, la mancanza di una profonda e radicale rivoluzione culturale, il sabotaggio di ogni riforma economica e sociale da parte della borghesia e della destra fascista, le ignobili leggi razziali, l’intervento in Spagna a fianco della reazione più codina e l’opera nefasta di Galeazzo Ciano il giovane delfino di Mussolini che si compiaceva di essere “forcaiolo”.32

3. Politica sociale e industriale: lo sviluppo italiano Come si può notare dall’ultima citazione, per il fascismo il crescere dei consensi fu accompagnato anche da numerosi momenti diYcili e compromessi con la vecchia classe dirigente, il mondo imprenditoriale e gli agrari. Si trattava in sintesi del mondo della «conservazione» che voleva trarre solo benefici dai cambiamenti senza mettersi in gioco, come storicamente abituato a fare33 . A tal proposito è stato notato correttamente: La più definita, consistente e omogenea sacca di resistenza frapposta al corporativismo non è dubbio che fosse quella in cui si rinserrava la destra economica. Imprenditori, ambienti finanziari, ostinati vessilliferi del liberismo teorico (tra i quali è bene non dimenticare l’antifascismo conservatore di Luigi Einaudi): da queste sponde vennero i più significativi contributi allo sfrangiarsi dell’idea corporativa. E’del resto comprensibile che tra tutti coloro che si concedettero un valzer corporativo — e nessuno a ben vedere è lo studio più interessante sul tema. Meritano di essere menzionati anche: S. Lanaro, Appunti sul «fascismo di sinistra». La dottrina corporativa di Ugo Spirito, in A. Aquarone, M. Vernassa (a cura di), Il Regime fascista, il Mulino, Bologna 1974; L.L. Rimbotti, Il fascismo di sinistra, cit.; P. Neglie, Fratelli in camicia nera. Comunisti e fascisti dal corporativismo alla Cgil (1928–1948), il Mulino, Bologna 1996; P. Buchignani, La Rivoluzione in camicia nera cit. Quest’ultimo autore ha definito la variegata schiera «di sinistra» come «fascismo rivoluzionario», mentre Landi, precursore sul tema, ha parlato di «sinistra populista» del regime: A.G. Landi, Mussolini e la Rivoluzione sociale, cit. 32. Ivi, p. 114. 33. Una graYante e puntuale critica dei limiti e dei vizi del capitalismo italiano si trova in: A. Grandi, T. Alquati, Eroi e cialtroni. 150 anni di contro storia, cit.

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Francesco Carlesi poté davvero farne a meno — i più riluttanti fossero coloro che da sempre avevano ancorato la loro visione sociale al trionfo delle virtù economiche individuali. Per costoro corporativismo voleva dire controllo e regolamentazione; ossia trappole e lacciuoli di cui si sarebbe disseminato l’itinerario produttivo. Il polverone corporativo, ai loro occhi, sarebbe venuto ad oscurare lo sconfinato azzurro della libera attività economica. Si poteva reagire chiudendosi in un eloquente silenzio o si poteva cercare di rimontare la corrente puntando i piedi o sibilando velenose critiche; ma non v’è dubbio che per i Conti, i Benni, i Rotigliano, gli eVetti del corporativismo avrebbero potuto essere assai temibili.34

L’idea di «terza via», seppur nelle diYcoltà dei primi passi al potere, minacciava i vecchi equilibri maturati negli anni dello Stato liberale. Per molti rivoluzionari in camicia nera la lotta antiborghese si collocava sullo stesso piano di quella alle sinistre del «biennio rosso», e il «lavoro» costituiva l’indubbia stella polare del progetto politico fascista. Tanto che secondo Landi, la fede nel fascismo venne dal convincimento che il fascismo avrebbe creato una società più equa e più prospera capace di assicurare un migliore avvenire. Se il fascismo fosse rimasto un movimento di borghesi sarebbe stato come il partito nazionalista un «cervello senza braccia». Furono le migliaia di lavoratori fascisti che fecero correre i treni e ripristinarono i servizi pubblici durante gli innumerevoli scioperi indetti nel ’21 e nel ’22 che dettero agli italiani la prova che il fascismo non era solo retorica e manganello ma anche organizzazione e fede, un movimento di massa deciso a difendere «tutti i diritti che i lavoratori avevano conquistato in trent’anni di lotta». Come scrisse Italo Balbo nel ’22, i fascisti erano decisi a non cedere «un palmo di terreno all’ingordigia della destra» con lo stesso spirito con cui avevano rintuzzato «la prepotenza di sinistra». Senza i lavoratori Mussolini sarebbe rimasto un brillante giornalista ex socialista prediletto dai benpensanti e dai piccolo borghesi. Con i lavoratori Mussolini riuscì a imporre le proprie tesi all’attenzione di tutta la nazione dimostrando che erano il programma di migliaia di seguaci.35

Proprio questa impostazione sociale aveva portato il duce a intavolare trattative con sindacalisti di sinistra quali Ludovico D’Aragona 34. P.G. Zunino, L’ideologia del fascismo, il Mulino, Bologna 1995, pp. 257–258. La stessa “destra economica” non risparmiò nel dopoguerra un’analisi critica e un giudizio negativo sulle realizzazioni corporative. Valga per tutti il commento di un industriale di primo piano nel Ventennio come Felice Guarneri, che descrisse le corporazioni come strutture pesanti e macchinose, «campate nel vuoto», ed incapaci di incidere sulla produzione. F. Guarneri, Battaglie economiche, Garzanti, Milano 1953, p. 282. 35. A.G. Landi, Mussolini e la Rivoluzione Sociale, ISC, Roma 1983, p. 61.

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e Gino Baldesi, per includerli in un nuovo gabinetto di «conciliazione e pacificazione»36 . Porte che si chiusero bruscamente a causa del delitto Matteotti (1924), i cui contorni lasciano tutt’oggi la porta aperta a nuove interpretazioni: alcuni ambienti dell’alta finanza vicini a monarchia e grande industria potrebbero aver favorito l’omicidio per tentare di impedire a Mussolini un’apertura troppo audace verso sinistra in nome delle riforme sociali37 . In questo contesto, di estremo interesse risulta la figura del socialista Carlo Silvestri: dapprima tra i maggiori accusatori di Mussolini per l’omicidio negli anni Venti, dopo una serie di incarcerazioni e punizioni nel Ventennio, lo ritroveremo poi attivo culturalmente nella Repubblica Sociale Italiana, convinto dell’innocenza del duce e aVascinato dalle riforme socializzatrici del fascismo38 . In ogni caso, la svolta autoritaria successiva alla morte di Matteotti (considerata l’inizio della dittatura) rappresenta nella storia del fascismo un momento controverso, che diede fiato, oltre all’ala dura del partito, a gruppi reazionari e conservatori, come ha rilevato ancora Landi39 . Lo sforzo sociale riprese poco dopo: la Legge sindacale n. 563 del 1926 venne convenzionalmente indicata come l’inizio della «fase corporativa». Il sindacato fascista fu riconosciuto quale ente di diritto pubblico, e dalla sua mediazione con i datori sarebbero nati i Contratti Collettivi, aventi valore di legge. Prendeva vita inoltre la Magistratura del Lavoro (di cui già si era ampiamente discusso negli anni precedenti), che avrebbe rivestito la funzione di arbitro ed extrema ratio nel caso di insanabili divergenze tra le parti: con essa lo Stato si ergeva a mediatore tra i corpi sociali, che avrebbero dovuto operare ben coscienti dell’interesse nazionale. Questo aspetto fu ricordato solennemente nel documento dell’anno successivo con 36. Ivi, p. 74. 37. Tra i diversi esempi a questo proposito, una rivista ha recentemente ricostruito con dovizia di particolari tutte le teorie contrarie alla “versione uYciale” (ad esempio di Enrico Tiozzo, Franco Scalzo e Fabio Andriola) dedicandovi un numero: Storia in rete, n.104, Roma, Giugno 2014. Sia detto per inciso, un attivista comunista uccise poco tempo dopo per rappresaglia il mazziniano Armando Casalini, ex segretario del Partito Repubblicano e vicesegretario delle Corporazioni sindacali fasciste. 38. Nel primissimo dopoguerra questo autore, democratico e anticomunista, scrisse un libro in cui scagionava Mussolini dalle responsabilità per il delitto Matteotti, accusando esponenti del «capitalismo deteriore e cainamente speculatore»: C. Silvestri, Matteotti, Mussolini e il dramma italiano. Il delitto che ha mutato il corso della nostra storia, RuVolo, Milano 1947. 39. A.G. Landi, Mussolini e la Rivoluzione Sociale, ISC, Roma 1983, p. 78.

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il quale il regime volle lanciare un messaggio di civiltà: «La Carta del Lavoro». Oltre a confermare l’importanza del Contratto Collettivo («espressione concreta della solidarietà tra i vari fattori della produzione, mediante la conciliazione degli opposti interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori, e la loro subordinazione agli interessi superiori della produzione») e delle tutele previdenziali, il documento espresse alcuni concetti fondamentali. Eccone alcuni punti: I. La Nazione italiana è un organismo avente fini, vita, mezzi di azione superiori per potenza e durata a quelli degli individui divisi o raggruppati che la compongono. E una unità morale, politica ed economica, che si realizza integralmente nello Stato fascista. II. Il lavoro, sotto tutte le sue forme organizzativi ed esecutive, intellettuali, tecniche, manuali è un dovere sociale. A questo titolo, e solo a questo titolo, è tutelato dallo Stato. Il complesso della produzione è unitario dal punto di vista nazionale; i suoi obiettivi sono unitari e si riassumono nel benessere dei singoli e nello sviluppo della potenza nazionale. VII. Lo Stato corporativo considera l’iniziativa privata nel campo della produzione come lo strumento più eYcace e più utile nell’interesse della Nazione40 . L’organizzazione privata della produzione essendo una funzione di interesse nazionale, l’organizzatore dell’impresa è responsabile dell’indirizzo della produzione di fronte allo Stato. Dalla collaborazione delle forze produttive deriva fra esse reciprocità di diritti e di doveri. Il prestatore d’opera, tecnico, impiegato od operaio, è un collaboratore attivo dell’impresa economica la direzione della quale spetta al datore di lavoro che ne ha la responsabilità.

Sebbene la «Carta» sia stata definita da più parti come una mera patina propagandistica, non si può fare a meno di notare un aZato sociale e un’originalità di rilievo: anti–individualismo, funzione sociale del lavoro e della proprietà, primato della nazione e del senso di comunità erano concetti sicuramente innovativi nel panorama dell’epoca. Questi principi saranno poi posto a fondamento e premessa sia del Codice Civile (1942) che del Manifesto di Verona (1944) 40. A questi proposito va detto che la politica autoritaria, il raVreddamento delle tensioni sociali e la fiducia nello Stato consentirono un incessante svilupparsi di iniziative private e la nascita di industrie di alto profilo, ad esempio: Rinascente, Giotto, Olivetti, Guzzi, Campari, Perugina, Gancia, Fabbri, Zucchi, BuVetti, Fiorucci, Lete, Sasso. Il tutto è elencato, anno per anno, in: M.G. Bontempo, Lo Stato sociale del Ventennio, I Libri del Borghese, Roma 2010. Si tratta di un libro divulgativo di orientamento apertamente filo–cattolico, comunque valido punto di partenza per inquadrare lo sviluppo dell’economia e delle riforme sociali durante il fascismo.

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in un ideale “filo rosso”. Alcuni sostenitori della «Carta del Lavoro» cercarono la via che portasse a un concreto inserimento delle masse nella vita dello Stato, al punto che Bottai descrisse l’idea corporativa come il completamento e superamento dei principi scaturiti dalla Rivoluzione Francese. Ha scritto in proposito la Tarquini: «Sacralizzando la nazione, i fascisti proseguirono sulla strada inaugurata dai rivoluzionari francesi che conferirono carattere religioso alla politica e diedero allo Stato una missione educatrice»41 . Il 21 aprile 1927, in occasione della promulgazione della «Carta», Bottai scrisse sulle colonne di «Critica Fascista»: Oggi il fascismo aVerma i diritti del lavoro e la supremazia assoluta della Nazione sui cittadini. Né l’uno né l’altro concetto sono in antitesi con la Rivoluzione Francese, in quanto né alcuna parità dei cittadini quali lavoratori, potrebbe esistere se non si riconoscesse come cosa ovvia l’uguaglianza dei cittadini quali uomini, né potrebbe esistere supremazia di Nazione dove esisteva supremazia di caste. Perciò la «Carta del Lavoro», nel suo concetto egualitario e nell’aVermazione dei diritti del lavoro, non è un’antitesi ma un superamento dei Diritti dell’uomo.42

Concetto ribadito in una celebre conferenza: Il liberalismo è [. . . ] uno stadio forse necessario e inevitabile, ma certo non può essere lo stadio d’arrivo, di completa realizzazione dei principi dell’89. [. . . ] L’individuo è padrone della sua storia e autore dello Stato, e deve coincidere completamente con esso: non più sottoposto ad un potere eteronomo, non più soggetto passivo di uno stato estraneo e perciò despota, deve, una volta costituito il proprio Stato, realizzarsi tutto in esso e coincidere come con la sua forma. La conclusione e la soluzione esauriente dei principi dell’89 è dunque uno Stato in cui si realizzi davvero e completamente tutta la vita del cittadino, in cui il cittadino trovi e componga davvero la sua personalità morale, in cui trovi una regolamentazione eVettiva e totale della sua vita. Lo Stato liberale è una forma vuota che non serve al cittadino. Questo ha aVermato, invece, come proiezione della sua coscienza autonoma e padrona di sé, uno Stato che sia la sua forma sostanziale, uno Stato che sia lo strumento e la meta, al tempo stesso, della sua vita storica. Ma questo è lo Stato che il fascismo ha concepito e attuato: lo Stato Corporativo.43 41. A. Tarquini, Storia della cultura fascista, il Mulino, Bologna 2011, p. 145. 42. Dal cittadino al produttore, «Critica Fascista», 15 aprile 1927, pp. 141–142. 43. Parole pronunciate durante la conferenza tenuta a Pisa il 30 novembre 1930 dal titolo Corporativismo e principi dell’Ottantanove, come riportato in: R. De Felice, Autobiografia del fascismo, Einaudi, Torino 2004, pp. 286–294.

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L’idea del fascismo quale «nuova democrazia» animò molti teorici dell’epoca44 , convinti della possibilità di creare una comunità capace di coinvolgere e integrare le masse popolari. Non a caso diversi studiosi, De Felice in primis, hanno collegato alcuni aspetti del regime a Rousseau, i giacobini, la Rivoluzione Francese e la modernità45 . Le spinte ideali non rimasero lettera morta, e l’azione del governo Mussolini portò di lì a poco alcuni risultati concreti, elencati puntualmente da Landi: I salari minimi, la settimana di quaranta ore, le maggiorazioni per le ore di lavoro straordinario, le ferie e le indennità per licenziamento, il principio del «salario corporativo» — basato sulla capacità e i bisogni del lavoratore e sulle possibilità dell’azienda in modo che il costo del lavoro fosse allineato ai profitti del capitale. Per aumentare l’occupazione furono istituiti «uYci di collocamento» e furono istituite norme per la previdenza e per l’educazione del lavoratore.46

A questo proposito, sarà utile elencare le principali leggi in materia promulgate durante l’arco del Ventennio, che andarono di pari passo con l’edificazione corporativa: a) tutela lavoro donne e fanciulli (Regio Decreto 653 26/04/1923); b) maternità e infanzia (Regio Decreto 2277 10/12/1923); c) assistenza ospedaliera per i poveri (Regio Decreto 2841 30/12/ 1923); d) assicurazione contro la disoccupazione (Regio Decreto 3158 30/12/1923); e) assicurazione invalidità e vecchiaia (Regio Decreto 3184 30/12/ 1923); f ) riforma «Gentile» della scuola (Regio decreto 2123 31/12/1923); g) assistenza illegittimi e abbandonati (Regio Decreto 798 08/05/ 1927); h) assicurazione obbligatoria contro la tubercolosi (Regio Decreto 2055 27/10/1927); i) esenzioni tributarie famiglie numerose (Regio Decreto 1312 14/06/1928); 44. Si veda a mero titolo d’esempio il libro: B. Spampanato, Democrazia fascista, Politica Nuova, Roma 1933. 45. Cfr. G. Belardelli, Il Ventennio degli intellettuali, Laterza, Roma–Bari 2005, pp. 237–257. 46. A.G. Landi, Mussolini e la Rivoluzione Sociale, cit., p. 89.

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j) assicurazione obbligatoria contro malattie professionali (Regio Decreto 928 13/05/1929); k) opera nazionale orfani di guerra (Regio Decreto 1397 26/07/ 1929); l) istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro INAIL (Regio Decreto 264 23/03/1933); m) istituzione libretto di lavoro (Regio Decreto 112 10/01/1935); n) istituto nazionale per la previdenza sociale INPS (Regio Decreto 1827 04/10/1935); o) riduzione settimana lavorativa a 40 ore (Regio Decreto 1768 29/05/1937); p) ente comunale di assistenza ECA (Regio Decreto 847 03/06/1937); q) assegni familiari (Regio Decreto 1048 17/06/1937); r) casse rurali ed artigiane (Regio Decreto 1706 26/08/1937); s) tessera sanitaria per addetti servizi domestici (Regio Decreto 1239 23/06/1939); t) istituto nazionale per le assicurazioni contro le malattie INAM (Regio Decreto 318 11/01/1943). Il cammino, per quanto accidentato, procedeva nella convinzione che le tutele sociali fossero un cardine fondamentale dell’inclusione dell’individuo nella «cittadella dello Stato», in contrasto con gli occasionali interventi dei precedenti governi su questo tema principale. Con un corposo apparato di leggi il regime tentava di varare un moderno welfare state (Gaetano Rasi ne intravide l’ispirazione per il «Piano Beveridge» inglese del dopoguerra) che sganciasse in buona parte le dinamiche sociali dalle incertezze e dalle speculazioni del mercato. Si pensi ad esempio che l’INAIL (originariamente INFAIL), rappresentò un passo rilevante verso l’edificazione di un sistema di garanzie sociali basato, da un lato, sulla sottrazione di significativi flussi di capitale e quote di profitto alla compagnie assicurative private e, dall’altro, sul raVorzamento del ruolo delle istituzioni pubbliche.47

Nasceva una nuova concezione del lavoro, «un pensiero quasi etico»48 secondo Bontempo, che portò a un miglioramento sensibile grazie ad un attento e coordinato studio che condusse alla prima codificazione di una serie di provvedimenti legislativi finalizzati a 47. A. Gagliardi, Il corporativismo fascista, Laterza, Roma–Bari 2010, p. 97. 48. M.G. Bontempo, Lo Stato sociale del Ventennio cit., p. 7.

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tutelare nel concreto la posizione dei lavoratori e la loro dignità nelle aziende. Un’impostazione «progressista» che andava di pari passo con una decisa politica demografica volta ad arrestare il declinante tasso di natalità, simboleggiata dallo slogan «Il numero è potenza»49 . Le spese dello Stato per sanità, maternità e previdenza salirono per tutto l’arco del Ventennio. I contributi prelevati dai salari per l’edificazione dello Stato sociale, inoltre, furono utilizzati anche per fornire capitali d’investimento utili ai piani di sviluppo del fascismo. L’idea di fare dell’Italia una nazione di primo piano non poteva essere perseguita, infatti, senza il potenziamento industriale che l’avrebbe avvicinata ai paesi egemoni e le avrebbe consentito una politica estera indipendente. Una serie di organismi scientifici (ad esempio l’Istituto per l’esportazione, 1926) coordinò questo sforzo, con l’IMI (1931, Istituto Mobiliare Italiano) e l’IRI (1933, Istituto per la Ricostruzione Industriale) quali esempi paradigmatici, sorti dopo la crisi del ’29. Il primo istituto serviva a «gestire il credito a medio periodo ed aiutare contemporaneamente sia le aziende che non ricevevano più prestiti dalle banche sia le banche stesse che erano alle prese con enormi immobilizzi»50 . Seguendo l’interpretazione di Grandi, l’IRI (che avrebbe dovuto essere temporaneo) fu un «capolavoro» della politica economica fascista: con esso «lo Stato acquisì titoli e proprietà industriali delle banche», accentuando l’impostazione dirigista e controllando la stragrande maggioranza delle attività economiche nel nome dell’interesse nazionale. L’istituto divenne «un’arma di pressione nei confronti di centri di potere ostili come Confindustria ed il sistema finanziario»51 , sopperendo «alla mancanza d’iniziativa dei privati, alla loro ignavia, al totale disinteresse nei confronti delle necessità della nazione»52 . Il nodo del problema era proprio questo: con il regime liberale le banche e gli industriali erano stati abituati a periodici interventi di salvataggio da parte dello Stato che si faceva carico dei problemi e delle perdite e lasciava che i capitalisti proseguissero a fare utili a danno del paese. Con Mussolini la situazione era radicalmente cambiata e i benefici dei salvataggi finivano nelle casse dello Stato e non nelle tasche dei pescecani.53 49. Si legga al proposito la prefazione del duce al libro: R. Kohrrer, Regresso delle nascite, morte dei popoli, Libreria del Littorio, Roma 1928. 50. A. Grandi, Eroi e cialtroni, cit., p. 103. 51. Ivi, p. 105. 52. Ibidem. 53. Ivi, p. 109.

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L’IRI riuscì a garantire una buona produttività in settori importanti quali navigazione e acciaio, favorendo la nascita di una classe manageriale pubblica competente. Tutti aspetti che saranno vitali per la creazione di quell’industria moderna che generò il boom del dopoguerra. A ulteriore testimonianza di questi progressi c’è un evento spartiacque datato 1938: per la prima volta la quota dell’attività industriale nella formazione del Pil superò quella dell’agricoltura, il 34, 2 % contro il 29, 4%. D’altronde era aumentata la quota delle esportazioni rispetto al totale di quelle europee, era cresciuta la vendita all’estero di prodotti finiti invece che di semilavorati, si erano sviluppati settori strategici come la siderurgia, la metalmeccanica, la chimica: tra settori che rappresentavano insieme il 40% del valore aggiunto, 8 punti in più rispetto al ’29, prima della crisi mondiale. Si erano raVorzate l’aeronautica, il settore delle fibre artificiali, la meccanica ed il comparto automobilistico (indotto compreso), le attività minerarie, l’industria della trasformazione alimentare, il settore cementiero, il cartario, l’industria delle costruzioni stradali. Quanto al settore elettrico, nell’era fascista aveva quadruplicato la produzione di energia e triplicato la potenza installata. Era evidente che Mussolini aveva trasformato l’Italia in una potenza industriale, nonostante le resistenze degli industriali stessi. Oltre 4 milioni di addetti industriali nel ’38, quasi un milione in più rispetto a 10 anni prima. Per di più gli incrementi occupazionali si erano registrati nei settori più moderni, a scapito di una riduzione percentuale nel settore tessile.54

A questo proposito, già nel 1971 Carlo Vallauri aveva sottolineato [l’]esigenza delle classi dirigenti di una società che nel processo di trasformazione da uno stadio prevalentemente agricolo ad uno stadio di maggior impegno industriale hanno necessità di controllare il moto di evoluzione e di raccogliere in fascio le energie del paese per raggiungere risultati più eYcaci con minore dispendio di mezzi e per competere con i più potenti organismi produttivi stranieri, e pertanto, se è arretrato sul piano dei rapporti sociali, è in grado di suggerire soluzioni per far fronte, in singoli settori, alla crisi del capitalismo: da questo punto di vista il corporativismo rappresenta un tentativo — autoritario — di risposta allo sfaldamento liberale che consente di mettere in opera strumenti più moderni di adeguamento alle necessità del sistema.55 54. Ivi, p. 112. Considerazioni positive riguardo l’aumento della produzione industriale e agricola e della produttività pro capite, insieme al progresso tecnico e scientifico si trovano nel provocatorio volume: F. Ritter, Fascismo Antifascismo, Nuova Edizione, Milano 1992. Su un piano scientifico fondamentali sono gli «Annali di Economia», Ipsoa, Milano 1981 e i libri: R. Romeo, Breve storia della grande industria in Italia 1861–1961, il Saggiatore, Milano 1988 e V. Castronovo, Storia economica d’Italia. Dall’Ottocento ai giorni nostri, Einaudi, Torino 2013. 55. C. Vallauri, Le radici del corporativismo, Bulzoni, Roma 1971, pp. 11–12.

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Pur perdendo peso, l’agricoltura rimase comunque al centro della politica fascista. Il modello di vita rurale era una formidabile arma propagandistica da opporre a individualismo ed edonismo. Il proliferare di agenzie e interventi pubblici interessò anche il settore primario, pensiamo alle Cattedre Ambulanti (squadre agrobiologiche ambulanti, mandate in tutta la nazione per introdurre le più moderne tecniche di coltivazione, ideate nell’800 e portate dal fascismo alla massima diVusione) o ai programmi di «Battaglia del grano», bonifica integrale56 (Agro Pontino la più nota) e assalto al latifondo. Con questi passaggi epocali, il fascismo si sforzava di rendere la nazione maggiormente autosuYciente sul piano alimentare ed economico (nonostante la carenza di materie prime), mobilitare le masse e rilanciare in maniera particolare il meridione, dove già la mafia era stata colpita duramente dal prefetto Mori. I risultati furono contraddittori ma non mancarono diversi aspetti positivi e di taglio modernizzatore, come ha segnalato nelle sue analisi Gregor, sostenitore della visione del fascismo quale «dittatura di sviluppo»57 . Accanto a questi programmi, altrettanto imponenti furono gli sforzi nella costruzione di città58 , quartieri e infrastrutture, improntati al razionalismo e al rispetto per l’ambiente, favoriti e guidati dalla mobilitazione sociale promossa dal regime. Ancora una volta, per quanto sotto l’impulso di una politica autoritaria, emergono risultati raramente raggiunti prima, base essenziale per lo sviluppo del paese.

56. Cfr. F. Marasti, Il fascismo rurale. Arrigo Serpieri e la bonifica integrale, Settimo Sigillo, Roma 2001. Serpieri fu un teorico e un tecnico di alto livello, al pari di diversi uomini impegnati con profitto nel settore (ma poco conosciuti) come Nazareno Strampelli. Vedi anche: M. Zaganella, Dal fascismo alla DC. Tassinari, Medici e la bonifica tra gli anni Trenta e Cinquanta, Cantagalli, Padova 2010. Da un protagonista dell’epoca: A. DI Crollalanza, L’epilogo vittorioso della Bonifica Pontina. Relazione al Duce, Colombo, Roma 1941. 57. Cfr. il suo volume, ricco di dati e analisi economiche, Italian fascism and development dictatorship, Princeton University Press, Princeton 1979. Le sue tesi sul fascismo sono state raccolte in un recente libro intervista curato da Antonio Messina: A.J. Gregor, Riflessioni sul fascismo italiano, Apice libri, Sesto Fiorentino 2016. 58. Cfr. il curioso viaggio di uno studioso sui generis: A. Pennacchi, Viaggio nelle città del Duce, Laterza, Roma–Bari 2010. A ulteriore riprova dell’importanza del corporativismo, l’idea di «città corporativa», organizzata secondo i principi fascisti, fu uno dei temi più discussi dagli esperti dell’epoca. Interessanti alcuni articoli riportati in: C.F. Carli (a cura di), Architettura e fascismo, Volpe, Roma 1980, pp. 103–124. Spirito propugnò in questo senso un sviluppo e un’urbanizzazione in linea con la tradizione italiana, secondo lui antitetica alla massificazione capitalista simboleggiata da città simili ad alveari umani.

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Altri pilastri furono costruiti nel settore finanziario, con la creazione delle Banche di Interesse Nazionale e l’emanazione della legge bancaria (1936), che separava le banche d’investimento da quelle commerciali, impedendo molte deleterie speculazioni per oltre un cinquantennio. Di estremo interesse risultò il ruolo delle Corporazioni per la stesura del provvedimento: Se l’IRI mise a punto il progetto, la corporazione svolse comunque un’azione non irrilevante: oVrì ai diversi interessi coinvolti la possibilità di esprimere uYcialmente rivendicazioni e proposte, consentendo di calibrare i diversi aspetti della riforma in relazione alle forze in campo. La corporazione, inoltre, non si limitò a seguire il lavoro del gruppo guidato da Menichella, perché fu attivata prima. Nel momento in cui [. . . ] fu eVettuata la riunione in cui vennero messe a punto le linee guida del riordinamento del sistema creditizio — a cui sarebbe seguita la progettazione operativa dell’IRI — la corporazione aveva già tenuto due sedute preparatorie, durante le quali tutte le posizioni in campo avevano avuto modo di esprimersi.59

Strutture statali come l’IRI, magistralmente guidato dall’ex socialista Beneduce, insieme a un proliferare di enti e agenzie pubbliche (impegnati nelle ricerche economiche e scientifiche) ebbero un rapporto col mondo corporativo spesso diYcoltoso. Il rischio della “sovrapposizione” di ruoli era evidente, tanto da suscitare le rimostranze di molti uomini del mondo sindacale e corporativo, che faticava notevolmente a prendere le redini dell’economia. La trasformazione dell’Italia in un vasto campo sperimentale attraverso il quale realizzare la concordia di classe, l’«uomo nuovo» inserito in un «armonico collettivo», rimaneva un progetto lungo e travagliato. 4. Sindacato e Stato corporativo: il lavoro come mito Nonostante i benefici della legislazione previdenziale, sul piano sindacale i passaggi dolorosi non furono pochi: le sigle avverse al regime erano state gradualmente neutralizzate con la forza, e l’enorme peso che andava acquistando di conseguenza il sindacato fascista, guidato negli anni ’20 da Edmondo Rossoni, non era considerato positivamente da tutti gli esponenti politici. Proprio il progetto rossoniano fu uno dei principali obiettivi da colpire nel quadro delle riforme 59. A. Gagliardi, Il corporativismo fascista, cit., pp. 123–124.

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autoritarie di Rocco. Tra partito e sindacato si acuì una delle molte frizioni che animarono il Ventennio e non solo60 (pensiamo alle diverse visioni sull’economia di ampi settori della cultura fascista o ai dualismi Strapaese/Stracittà, intransigenti/moderati e vecchia/nuova guardia nella RSI). Primo esempio di questa tensione fu l’esperimento dei Gruppi di Competenza (poi Consigli Tecnici), che si rivelò di scarsa eYcacia, attraverso i quale il partito voleva inserire iscritti specializzati nelle questioni sindacali e del mondo del lavoro61 . Alcune leggi (come il Regio Decreto 64 del 24 gennaio 1924, che disciplinava la vigilanza dell’autorità politica sulle associazioni dei lavoratori) e provvedimenti salariali furono aspramente contestati, tanto che il sindacato fascista fu protagonista di diversi scioperi nel Valdarno, nella Lunigiana e a Orbetello e Milano, in cui si misero in mostra leader capaci come Domenico Bagnasco, Bramante Cucini e Luigi Razza62 . Di lì a poco sciopero e serrata (blocco assunzioni da parte dei datori) saranno messi fuori legge, in quanto considerati contrari alla logica di collaborazione e interesse nazionale. Ma l’armonizzazione dei conflitti sociali non era semplice, e se gli imprenditori organizzati dimostrarono di saper far valere la propria influenza, dall’altro lato il processo fu impervio: il frazionamento dell’organizzazione fascista dei lavoratori, il cosiddetto “sbloccamento” (scissione in sei diverse confederazioni), deciso da Mussolini nel 1928, è riconosciuto dall’intera storiografia sul tema come passaggio estremamente negativo per il coordinamento e il peso dei suoi componenti. Ha scritto Gagliardi: Molteplici erano le ragioni che avevano indotto Mussolini ad approvare il provvedimento: svuotare il sindacato della sua forza e subordinarlo al partito, anche perché, con l’approvazione alcuni mesi prima della cosiddetta riforma della rappresentanza politica, esso sembrava destinato ad acquisire 60. Una tensione di cui si videro i riflessi nelle diVerenze tra la voce Sindacalismo fascista (firmata Panunzio) e Corporativismo (redatta da Costamagna e Tassinari) all’interno del Dizionario di politica del PNF. Cfr. A. Pedio, La cultura del totalitarismo imperfetto. Il Dizionario di politica del Partito Nazionale Fascista (1940), Milano 2000, pp. 158–162. 61. Cfr. F. Carlesi, Rivoluzione Sociale, cit., pp. 109–120. Successivamente un tentativo simile (ancora una volta senza troppa fortuna) fu fatto con l’istituzione del Comitato intersindacale centrale. Cfr. F. Perfetti, Il sindacalismo fascista. Dalle origini alla vigilia dello Stato corporativo (1919–1930), Bonacci, Roma 1988, p. 160. 62. Cfr. L.L. Rimbotti, Il fascismo di sinistra, cit., pp. 83–86. Oltre a spiccare sul campo sociale, Razza fu anche un teorico di discreto livello sui temi economici e sindacali dell’epoca, cfr. L.Razza, Aspetti e vicende del sindacalismo fascista, Pacini–Mariotti, Pisa 1928 e Id., La Corporazione nello Stato Fascista, Il Lavoro Fascista, Roma 1933.

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un maggiore peso politico; limitare il potere personale di Rossoni, l’unico potenzialmente in grado, dopo l’uscita di scena di Farinacci, di interpretare il ruolo di vice duce; tranquillizzare gli imprenditori, ancora inquieti per come il governo aveva gestito l’operazione di «quota 90» e preoccupati dalla residua aggressività dei sindacati.63

Le numerose delusioni non comportarono tuttavia una resa a discrezione davanti a industriali e mondo della politica. L’influenza sindacale aveva ricevuto una boccata d’ossigeno dalla legge, ricordata da Gagliardi, sulla «rappresentanza politica» relativa al plebiscito del 1928, che «prevedeva che degli ottocento nominativi di possibili candidati da proporre al Gran Consiglio da parte delle organizzazioni sindacali, padronali e dei lavoratori, ben quattrocentoquaranta spettassero alla Confederazione rossoniana»64 , e lo spirito combattivo dei sindacalisti non verrà mai meno. Bisognerà aspettare la seconda metà degli anni ’30 per (ri)trovare i rappresentanti del mondo del lavoro prepotentemente al centro della scena, dopo enormi diYcoltà descritte con rigore da Perfetti e Parlato65 . Nel frattempo, avevano visto la luce enti come il ministero delle Corporazioni e il Consiglio Nazionale delle Corporazioni, «cervello pensante che prepara e coordina» l’economia italiana nelle aspirazioni fasciste, preludio alla concreta istituzione delle Corporazioni nel 1934. Erano queste ultime degli organi statali, divisi per ciclo produttivo, all’interno dei quali avrebbero trovato pari importanza e dignità lavoratori e datori; la loro funzione consisteva nell’elaborazione di leggi e proposte da sottoporre agli organi esecutivi competenti. Ne furono costituite 22 (tessile, abbigliamento, mare e aria ecc.) ed organizzate perlopiù per ciclo produttivo, cioè comprendevano al loro interno i sindacati di ogni ramo produttivo coinvolto nella filiera produttiva. Una decisione che scontentò Confindustria, che le avrebbero volute organizzate per categoria, così da “ricalcare” la struttura già esistente e mutare la situazione il meno possibile. Al loro interno, Maria Vittoria Luzzi, alla testa del sindacato delle ostetriche, fu la prima donna a far parte di un organo rappresentativo, per quanto non 63. A. Gagliardi, Il corporativismo fascista, cit., pp. 64–65. 64. F. Perfetti, Il sindacalismo fascista cit., p. 160. 65. F. Perfetti, Il sindacalismo fascista cit., e G. Parlato, Il sindacalismo fascista. Dalla “Grande crisi” alla caduta del regime (1930–1943), Bonacci, Roma 1989. Oltre all’accurata analisi dei due autori, un’antologia di testi posta in appendice a entrambi i volumi consente di capire il clima e le proposte del mondo sindacale nella loro complessità.

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elettivo. La costituzione delle Corporazioni fu voluta fortemente da Bottai (che fece del ministero summenzionato un «suscitatore e coordinatore della politica culturale fascista»)66 , il quale, superando un’iniziale “diYdenza” verso il mondo sindacale, si avvicinò gradualmente ad esso per poter realizzare concretamente la tanto agognata «rivoluzione sociale», fino a portare la sua rivista «Critica Fascista» a parlare esplicitamente di «estremismo sindacale e corporativo»67 durante la guerra. Il sindacato vide eVettivamente aumentare le sue competenze, mentre «il dirigente sindacale assunse uno status di funzionario “semipubblico” [. . . ] che consentiva una notevole mobilità, sia orizzontale che verticale»68 . In questo contesto Riccardo Del Giudice fu un protagonista sia a livello di federazioni sindacali che di incarichi governativi69 , che i dirigenti dell’organizzazione dei lavoratori ricoprivano in quote sempre più consistenti. Pensiamo a: Bruno Biagi, sottosegretario al ministero delle Corporazioni (1932–1935), Edmondo Rossoni, ministro dell’Agricoltura e delle Foreste (1935–1939), Razza, ministro dei Lavori Pubblici (1935), Augusto De Marsanich, sottosegretario al ministero delle Comunicazioni (1935–1943), Tullio Cianetti, ministro delle Corporazioni (1943, sottosegretario nei quattro anni precedenti). Quest’ultimo, da tempo alla ricerca della via per potenziare il ministero, assunse importanza particolare in quanto si fece promotore di un progetto di socializzazione delle massime aziende e di partecipazione agli utili dei lavoratori nel pieno del secondo conflitto, per portare fino in fondo i principi corporativi e coronare un lunghissimo periodo di proposte70 . Una mossa che allarmò monarchia e alta finanza, tanto che potrebbe addirittura aver giocato un ruolo non irrilevante nell’accelerazione del «colpo di Stato» del 25 luglio 1943 con cui la corona e i gerarchi posero fine al regime fascista gettando nel caos il paese71 . Un passaggio che, per gli attori in campo, ricorda la crisi suc66. Ivi, p. 103. 67. V. Panunzio, Estremismo sindacale e corporativo, «Critica Fascista», 1 maggio 1943, pp. 161–163. 68. S. Cassese, Lo Stato fascista, cit., pp. 112. 69. Cfr. G. Parlato, Riccardo Del Giudice dal sindacato al governo, Fondazione Ugo Spirito, Roma 1992. 70. Una lunga serie di polemiche e speranze in buona parte tradite accompagnò questa temperie politica, come riportato in: G. Parlato, La Sinistra fascista, cit., p. 285. 71. Vedi ad. es. F. Giannini, Perché fu anticipato quel 25 luglio 1943, «Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale», anno XVI, n. 47, agosto 2014, pp. 248–250.

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cessiva al delitto Matteotti, sottolineando la diYcoltà del regime ad uscire definitivamente dai condizionamenti dei gruppi di potere più influenti. Da quanto sopra esposto si evince comunque chiaramente come, dopo diversi anni duri e complessi, il sindacato fosse riuscito a svolgere una funzione politica all’interno delle strutture corporative, al contrario di quello che si è sostenuto per lungo tempo (pensiamo solo all’opera di Cordova)72 . Luigi Ganapini ha riconosciuto che: [C]i sono elementi per sostenere invece che esso ha adempiuto un suo compito preciso e ha operato come tramite di esigenze e richieste dei lavoratori. Nel quadro — è fuori discussione — delle direttive del regime e con funzioni che non possono essere confuse con quelle di un sindacato operante in un regime democratico. Non è stata tuttavia una pantomima. La storiografia ne ha ricostruito un percorso complesso e contraddittorio che ha portato a riconoscerne un ruolo autonomo e originale nel contesto della dittatura.73

Non solo, «in nessun periodo precedente della storia unitaria era stata aperta una strada così larga all’accesso di sindacalisti al governo»74 , e anche per questo il sindacato seppe giocare un ruolo “propulsivo” a livello di idee e iniziative, nel pieno dell’«accelerazione rivoluzionaria e totalitaria» promossa da Mussolini nella seconda metà degli anni Trenta. Si tratta precisamente della cosiddetta «terza fase» che va «dalla guerra d’Etiopia fino alla caduta del regime», segnata dalla: Presenza di un agguerrito mondo universitario, la progressiva acquisizione di un ruolo politico del sindacato, il concomitante aVermarsi dello stato sociale — scandito dal decollo del diritto del lavoro e delle garanzie normative e previdenziali —, i progetti di supermento del salario capitalistico, le istanze di rinnovamento non più proposte da intellettuali isolati ma soste72. Cfr. gli scritti di questo autore e di tutti quegli studiosi (come Claudio Schwarzenberg) che hanno fornito una prospettiva parziale e incentrata sul controllo e lo svuotamento di qualsiasi ruolo del sindacato. F. Cordova, Le origini dei sindacati fascisti, Laterza, Roma–Bari 1974 e Id., Verso lo Stato totalitario, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005. Nel cambiamento di prospettiva utili sono stati gli studi di Alberto Aquarone, vedi G. Parlato, Gli studi sindacali e corporativi di Alberto Aquarone, in: G. Dessì, G. Parlato (a cura di), Interpretazioni del Novecento italiano. Storiografia, cultura e politica, Fondazione Ugo Spirito, Roma 2003, pp. 107–121. 73. L. Ganapini, Il corporativismo fascista in Italia: modernizzazione, Stato totalitario, dottrina sociale cristiana, in: M. Pasetti (a cura di), Progetti corporativi tra le due guerre mondiali, Carocci, Roma 2006, p. 187. 74. S. Cassese, Lo Stato fascista, cit., p. 113.

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Richieste pressanti dei lavoratori, come il riconoscimento dei fiduciari di fabbrica (1939), cominciavano ad essere esaudite (col sindacalista Pietro Capoferri vicesegretario del partito) mentre l’Opera Nazionale Dopolavoro passava sotto controllo sindacale. L’istituzione di biblioteche, Gruppi culturali e dell’Infapli (Istituto nazionale fascista per l’addestramento e il perfezionamento dei lavoratori dell’industria) furono notevoli aspetti positivi, insieme alle Scuole sindacali che espressero quadri preparati nelle questioni socio–economiche, tanto che la CGIL se ne servirà ampiamente nel dopoguerra76 . Da questo ambiente e dalle sue riviste («La Stirpe» e «Il Lavoro fascista» tra le più importanti), troppo spesso chiuse o osteggiate da burocrati e conservatori fascisti, giunsero numerose proposte in direzione popolare, partecipativa ed elettiva, mentre il razzismo fu accolto quasi all’unanimità con molte riserve, e anche l’alleanza con la Germania nazista non venne vista sempre di buon occhio, come emerge dalle memorie di Mario Gradi e Francesco Grossi77 . Il lavoro si stava aVermando sempre più quale architrave e cifra della civiltà fascista. Gli esempi in questo senso furono innumerevoli, riportati ancora una volta da Parlato: Dall’umanesimo del lavoro di Gentile, al concetto di lavoro come elemento indicativo della nuova aristocrazia del regime (Roberto Mazzetti), dalle tesi di Volpicelli sulla cultura del lavoro al lavoro come soggetto dell’economia; dalla visione della storia del lavoro come storia tout court di Dal Pane e Del Giudice al lavoro come pedagogia rivoluzionaria in Bottai e Volpicelli; dal primato della tecnica come momento scientifico del lavoro (Pellizzi) alla rappresentazione rivoluzionaria del lavoro e del lavoratore nella letteratura e nell’arte; dalla previdenza sociale come momento etico del lavoro alla sua tutela giuridica testimoniata dallo sviluppo degli studi giuslavoristici.78 75. G. Parlato, La sinistra fascista, cit., p. 21. Di «terzo tempo» per imprimere una decisa svolta rivoluzionaria la fascismo aveva parlato «Il Popolo d’Italia», fondato da Mussolini, sin dal 1929. 76. Ivi, pp. 81–88 e 170. Armando Lodolini tenterà senza successo di inserire nella CGIL un gruppo, il “Movimento sindacalista” (Mo.Si.) di ex esponenti del sindacalismo fascista di ispirazione corridoniana, facendo da tramite a incontri riservati tra Giuseppe Di Vittorio e Amilcare De Ambris. 77. Cfr. M. Gradi, Il sindacato nel fascismo, ISC, Roma 1988 e F. Grossi, Battaglie sindacali. Intervista sul fascismo rivoluzione sociale incompiuta, ISC, Roma 1988. 78. Ivi, p. 180.

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La macchina fascista si era messa indiscutibilmente in moto: Le istituzioni corporative non risultarono aVatto ininfluenti, perché costituirono la sede in cui vennero discussi provvedimenti relativi alla politica economica e industriale e ai temi del lavoro e dell’assistenza. Nella mediazione formalmente paritaria tra classi e categorie oVerta dalle corporazioni si trasferirono le dinamiche conflittuali e rivendicative, altrimenti represse nell’illegittimità. Attraverso le discussioni corporative prese forma una modalità non democratica di mediazione e contrattazione tra gruppi di interesse e Stato.79

Inoltre, «l’azione del sistema corporativo accompagnò e favorì trasformazioni profonde nell’organizzazione delle classi e dei ceti e nel rapporto tra società e Stato»80 , tanto che si può concordare con il giudizio di Cassese: Sia il lato sindacale, sia quello economico del corporativismo produssero, in ultima istanza, una verticalizzazione della società, perché ricondussero antichi particolarismi locali e nuove aggregazioni di corpo nazionali nell’ambito dello Stato. Concessero un accesso privilegiato ai processi decisionali ad alcuni interessi organizzati (non solo a quelli padronali, bensì anche a quelli delle classi lavoratrici), assegnando loro un notevole potere di autoregolamentazione, ma sotto il controllo dello Stato.81

A fronte delle diYcoltà nel rendere operative le nuove strutture, la classe dirigente fascista era riuscita a dare vita alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni (1939), con la quale i rappresentanti del Consiglio Nazionale delle Corporazioni (e di altri enti quale il Dopolavoro) entravano in parlamento al posto della Camera dei Deputati, e al Codice Civile (1942), che puntava alla socializzazione economica del tessuto produttivo e divenne la base dell’ultimo «momento»82 del corporativismo: la socializzazione delle imprese della Repubblica So79. Gagliardi, pp. XI. 80. Ivi, p. 196. 81. S. Cassese, Lo Stato fascista, cit., p. 141. 82. Vedi, tra i tanti, gli articoli 2099 e 2102 sulla suddivisione degli utili aziendali.«La socializzazione è un momento stesso del corporativismo: l’idea basilare del corporativismo è quella di tenere uniti (anche se gerarchicamente subordinati) capitale e lavoro, facendoli collaborare, il passo successivo è materializzare il corporativismo nell’azienda, ponendo sullo stesso piano i due soggetti dell’economia e responsabilizzandoli entrambi nei confronti del tessuto sociale e industriale». G. Passera, La Nobile Impresa. Socializzazione: storia di un’ottima idea maledetta dalle ipocrisie degli eventi e dell’economia, Il Cerchio, Milano 2015, p. 142.

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ciale Italiana83 . Con questo passaggio, le rappresentanze dei lavoratori entravano nella vita dell’azienda da protagoniste attraverso i Consigli di Gestione, da cui era escluso il capitale puramente speculativo. Nonostante le avversioni della grande industria, dell’occupante–alleato tedesco e degli attivisti comunisti tornati sulla scena dopo il crollo del regime nel 25 luglio 1943, questo provvedimento interessò diverse imprese. Riprendendo ancora Landi, si può considerare questa tappa quale il soVerto coronamento di lungo percorso: La socialità del fascismo fu espressa non solo a parole ma con concrete realizzazioni quali il Dopolavoro, il sabato teatrale, le colonie estive, i treni popolari, i concerti in fabbrica, e una sostanziale legislazione sociale: il riconoscimento giuridico dei sindacati, le leggi per la previdenza sociale, le leggi per proteggere le bellezze naturali ed artistiche — solo patrimonio dei non abbienti che non hanno come i ricchi la possibilità di possedere opere d’arte — la cassa integrazione guadagni, che si dimostrò utilissima durante la recessione degli anni Settanta, e le leggi per la socializzazione delle imprese che cominciarono a essere applicate nel ’44 nonostante l’imperversare della guerra e la lotta fratricida. Furono socializzate ottantasei imprese con 129.000 dipendenti — fra le quali la Dalmine, l’Alfa Romeo, le Cartiere Burgo, la Ricordi e le case editrici Garzanti, Bompiani e Mondadori. Il 22 marzo 1945 il Consiglio dei Ministri annunciò che entro il 21 aprile sarebbero stati promulgati nuovi decreti per socializzare «tutte le aziende industriali aventi almeno 100 operai e capitali di almeno un milione di lire».84

Parafrasando Attilio Tamaro, nelle ultime ore disperate «il fascismo repubblicano aveva seguito l’esempio della Repubblica Romana di Mazzini e Garibaldi che nel 1849 continuò a varare leggi rivoluzionarie anche quando i francesi stavano già scalando le mura dell’Urbe»85 . Intellettuali e giornalisti provarono a spingere la rivoluzione fino in fondo, contro i troppi compromessi e conformismi che avevano caratterizzato il Ventennio. In primo luogo si distinsero giornali come «Repubblica fascista» e uomini come Giorgio Pini, Giuseppe Spinelli, operaio e ministro del Lavoro, e Giuseppe Solaro, 83. Questo percorso è stato tracciato con rigore nel libro di Passera, esperto di temi sindacali e giuridici, che si è avvalso in particolar modo di fonti dell’epoca e della rivista «Diritto del Lavoro» nella stesura della sua opera. Sul piano giuridico, testo di rilievo sul periodo fascista è: I. Stolzi, L’ordine corporativo. Poteri organizzati e organizzazione del potere nella riflessione giuridica dell’Italia fascista, GiuVrè, Milano 2007. 84. A.G. Landi, Mussolini e la Rivoluzione Sociale, cit., p. 163 85. Come riportato in: ivi, p. 159.

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ultimo federale di Torino, «il fascista che sfidò la Fiat e Wall Street»86 . Giornalisti di spessore come Sebastiano Caprino, Enzo Pezzato e Concetto Pettinato (da molti osteggiato e censurato per le sue feroci critiche al PFR)87 espressero tesi originali e ferocemente anticapitaliste, oggi dimenticate. Pezzato sottolineò i punti di contatto tra Rivoluzione Francese e Repubblica Sociale: per lui, se nell’89 vi fu «la lotta del terzo stato contro i privilegi feudali, oggi è la lotta del lavoro contro i privilegi capitalistici»88 . Dalla sua penna arrivarono anche queste parole: Il duce ha chiamato la repubblica “sociale” non per gioco; i nostri programmi sono decisamente rivoluzionari, le nostre idee appartengono a quelle che in regime democratico si chiamerebbero “di sinistra”, il nostro ideale è lo stato del lavoro. . . noi siamo i proletari in lotta per la vita e la morte contro il capitalismo.89

I sogni e le speranze di questo manipolo di idealisti si spensero nel sangue, spesso proprio a causa di quel fronte di sinistra a cui alcuni fascisti avevano cercato utopicamente di lasciare il loro «patrimonio sociale»90 . In ogni caso, nonostante le molte diYcoltà e i compromessi col variegato mondo della “reazione”, dalla borghesia all’alta finanza, ciò che emerge prepotentemente è il valore e l’originalità di una vasta schiera di uomini che si batterono per una «rivoluzione sociale» profondamente italiana. Un’idea che già con la crisi del ’29 si era attirata un interesse dall’eco internazionale.

86. Dal sottotitolo della sua biografia: F. Vincenti, Giuseppe Solaro, Ciclostile, Carrara 2016. 87. Un’interessante raccolta dei suoi scritti per «La Stampa», anche quelli censurati, fondamentale per capire i suoi principi politici (e le molte polemiche di quel periodo) è: C. Pettinato, Se ci sei, batti un colpo. . . , Editrice Lo Scarabeo, Bologna 2008 (prefazione di Giuseppe Parlato). 88. Come riportato in: A.G. Landi, Mussolini e la Rivoluzione Sociale, cit., p. 169. 89. Ivi, p. 171. 90. Sui tentativi a vuoto e i contatti dei fascisti con repubblicani e socialisti nel periodo 1943–1945 cfr. G. Passera, La Nobile Impresa cit. e S. Fabei, I Neri e i Rossi. Tentativi di conciliazione tra fascisti e socialisti nella Repubblica di Mussolini, Mursia, Milano 2011. Nel dopoguerra il PCI tenterà di attrarre a sé diversi ex fascisti rivoluzionari, attraverso un’attività “sotterranea” che vide «Il Pensiero Nazionale» di Stanis Ruinas (fascista sui generis e combattente della RSI) in prima fila. Cfr. P. Buchignani, Fascisti rossi. Da Salò al Pci, la storia sconosciuta di una migrazione politica, Mondadori, Milano 1998.

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5. Crisi del capitalismo e corporativismo universale La crisi del capitalismo iniziata nel ’29 aiutò e stimolò la diVusione dei principi della «terza via». Le enormi diYcoltà in cui si trovarono gli Stati liberali favorirono la visione del corporativismo quale strumento capace di superare le teorie economiche classiche e di dare vita ad una «nuova scienza economica», così che l’Italia recitò senza dubbio un ruolo da protagonista nel dibattito sulle soluzioni alla crisi: nel ’30 e nel ’32 si tennero due Convegni di studi sindacali e corporativi (a Roma e Ferrara) di discreto rilievo. A questo proposito occorre notare come già nel corso del 1928 «Critica Fascista» aveva ospitato un intrigante scontro tra teorici di estrazione liberale e sostenitori del corporativismo (quale disciplina che superava Adam Smith e l’homo oeconomicus) a cui parteciparono Giuseppe Bottai, Lello Gangemi, Massimo Fovel, Gustavo Del Vecchio, Ettore Lolini, Gaetano Napolitano. Per quanto fossero emerse le fragilità delle nuove concezioni fasciste, rimaneva salda nei corporativisti l’idea di continuare e perfezionare il cammino rivoluzionario. Di lì a poco, la crisi darà loro ulteriore linfa. Non poche riviste e intellettuali del regime concorsero a dare un respiro internazionale alle proposte italiane in campo economico91 , con conseguenze significative sugli orientamenti di molti studiosi92 . Santomassimo, riferendosi a economisti di primo piano come Gustavo Del Vecchio, Ulisse Gobbi e Giorgio Mortara, ha scritto che si poteva notare un’evoluzione nell’atteggiamento degli economisti nei confronti del corporativismo, indotta certamente dalle ripercussioni, anche intellettuali, che la crisi economica cominciava a diVondere in Italia. Non si trattava aVatto di una conversione esplicita, che non sarebbe mai avvenuta, ma di casi isolati in cui cominciavano a cadere barriere e preclusioni, a volte anche in base a considerazioni critiche sulla capacità di resistenza dei modelli teorici fino ad allora sostenuti.93 91. Giova menzionare il fatto che «gli studiosi dell’epoca ebbero chiara consapevolezza che la loro riflessione non fosse legata alla situazione politica italiana», come evidenziato da Massimo Finoia in: Il pensiero economico italiano degli anni ’30, «Rassegna Economica, Banco di Napoli», maggio–giugno 1983, p. 583. 92. In questo contesto, Alberto De Stefani compì «un lento decorso dal liberismo al solidarismo cattolico attraverso l’esperienza corporativa». G. Santomassimo, La Terza Via fascista, cit., p. 219. 93. Ivi, p. 131.

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La tematica corporativa cominciò a circolare al di fuori dei confini nazionali94 : tanto che essa fu, come ha osservato ancora Santomassimo, «una delle leve fondamentali del successo internazionale del fascismo»95 . Bisogna rilevare come già da lungo tempo, a prescindere dal fascismo, in tutta Europa si erano diffusi dibattiti a proposito della crisi del sistema liberale e di nuovi tipi di rappresentanza basati sul mondo produttivo e del lavoro, pensiamo al caso francese e a nomi come Leon Duguit e Guillaume de Greef. Anche esuli politici (come i fratelli Rosselli) e antifascisti dei più diversi paesi trattarono la materia, rendendosi spesso conto della fragilità ma anche della “pericolosità” e dell’importanza dell’idea di «terza via». Nei suoi scritti Gramsci considerò il fascismo, ma non il corporativismo, avente carattere «transitorio»96 . Persino un protagonista della storia del sindacalismo mondiale, Albert Thomas, responsabile dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro per lungo tempo, manifestò apprezzamento per l’esperimento sociale fascista97 . Schivelbusch ha scritto che: I più schietti antifascisti, tra i socialisti, erano quelli che invitavano a imparare la lezione dai fascisti e dai nazisti. Uomini come StaVord Cripps in Inghilterra, Marcel Deat e Barthelemy Montagnon in Francia e Hendrik De Man in Belgio erano accomunati dal disprezzo per gli apparati di partito fossilizzati, che ai loro occhi avevano sottratto al socialismo il vigore di un tempo. Non c’era da stupirsi se le masse che in passato si univano sotto la bandiera del socialismo erano state conquistate dal fascismo, che oltre ad aver preso dai partiti di sinistra lo spirito vitale e giovanile, la determinazione, la disponibilità alla lotta e al sacrificio, aveva raggruppato i suoi seguaci in movimenti di massa capaci di attrarre non solo il proletariato.98 94. Lo «stretto rapporto» tra espansione del fenomeno fascista e crisi (e l’attenzione verso le teorie economiche italiane all’estero) è stato approfondito da De Felice in Mussolini il duce. Gli anni del consenso 1929–1936, Einaudi, Torino 1974, pp. 538–587. 95. G. Santomassimo, La Terza via fascista, cit., p. 11. Ancora una volta fu la «grande crisi» a spingere il regime verso il rafforzamento delle sue velleità universalistiche, si pensi in prima battuta ai CAUR (Comitati d’Azione per l’Universalità di Roma). Molti giovani e intellettuali negli anni Trenta vollero proporre l’esperienza italiana come modello per gli altri Paesi, progettando la costruzione di un’«internazionale delle camicie nere» che avrebbe dovuto soppiantare la «vecchia democrazia borghese», come descritto da Michael Ledeen nel suo L’internazionale fascista, Laterza, Roma–Bari 1973. Cfr. anche: M. Cuzzi, Antieuropa. Il fascismo universale di Mussolini, MB Publishing, Milano 2006. De Felice ha affrontato il tema in: R. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso 1929–1936, cit., pp. 307–311. 96. Cfr. A. Gagliardi, Il problema del corporativismo nel dibattito europeo e nei «Quaderni», in F. Giasi (a cura di), Gramsci nel suo tempo, vol. II, Roma, Carocci, 2008. 97. G. Santomassimo, La Terza via fascista, cit., p. 188. 98. W. Schivelbusch, 3 NewDeal. Parallelismi tra gli Stati Uniti di Roosevelt, l’Italia di

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Nella pubblicistica del regime, attenzione particolare venne riservata alla situazione americana, dove la crisi fu più dirompente. D’altra parte, proprio a causa delle diYcoltà economiche, oltreoceano si cominciava a guardare con sempre più interesse ai provvedimenti d’impostazione sociale e dirigista delle socialdemocrazie europee e del fascismo. A seguito dell’insediamento di Franklin Delano Roosevelt alla Casa Bianca nel 1933 e del varo del New Deal, si intensificarono notevolmente i rapporti culturali e istituzionali tra Italia e USA, come è stato notato anche recentemente da Lucio Villari99 e Ennio Caretto100 , oltre che (ad un livello divulgativo) da Paolo Mieli sulle colonne del «Corriere della Sera»101 . Bottai si distinse ancora una volta come uno dei protagonisti del dibattito, tentando di esaminare il problema «alla luce di una definizione più precisa di corporativismo»102 e firmando l’articolo Corporate State e NRA su «Foreign AVairs»103 («voce uYciosa ma autorevole del Dipartimento di Stato»)104 del luglio 1935, dedicato a un’esposizione teorica del corporativismo e a un’analisi delle diVerenze e somiglianze sul piano sociale ed economico fra Italia e Stati Uniti105 . Non fu casuale l’impegno profuso dalla scuola di Scienze Corporative di Pisa (voluta dal gerarca romano) nella raccolta e nella traduzione di libri di numerosi autori americani, quali Stuart Chase, Thorstein Veblen106 , Henry A. Wallace, segretario Mussolini e la Germania di Hitler, Tropea, Milano 2008 (edizione americana 2006), p. 19. 99. L. Villari, America amara, Salerno editrice, Roma 2013. 100. E. Caretto, Quando l’America si innamorò di Mussolini, Editori Riuniti, Roma 2014. 101. P. Mieli, Quell’amicizia finita male tra Mussolini e Roosevelt. Le forti sintonie tra fascismo e New Deal, Corriere della Sera, 26 novembre 2013. Sulle interpretazioni a proposito del rapporto corporativismo—New Deal, chi scrive ha ricostruito tutte le analisi sul tema (di Maurizio Vaudagna e Wolfgang Schivelbusch le più importanti), più che mai aperto a nuovi contributi: F. Carlesi, Uno studio su corporativismo e New Deal, «Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale», n. 49, anno XVII, Roma aprile 2015, pp. 126–134. 102. M. Vaudagna, New Deal e corporativismo nelle riviste politiche ed economiche italiane in: G. Spini, M. Teodori, G.G. Migone, Italia e Stati Uniti dalla Grande Guerra a oggi, Marsilio, Roma 1976, p. 110. 103. G. Bottai, Corporate State e NRA, «Foreign AVairs», XIII, n. 4 luglio 1935. 104. M. Vaudagna, New Deal e corporativismo nelle riviste politiche ed economiche italiane, cit., p. 106. 105. Ibidem. 106. Questo nome ci consente di aprire una parentesi per citare il tema della “tecnica” e della tecnocrazia, che accomunò le elaborazioni teoriche di alcuni protagonisti–chiave nel contesto preso in esame, Bottai per primo insieme ad altri autori come Eraldo Fossati. Cfr. A. Masoero, Un americano non edonista, Economia, n. 2, febbraio 1931, pp. 151–172; E. Fossati, New Deal. Il nuovo ordine di F.D. Roosevelt, Cedam, Padova, 1937; A. De Grand, Bottai e la cultura

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all’Agricoltura dell’amministrazione Roosevelt, e dello stesso presidente americano, profilandosi all’epoca una delle più complete sul tema107 . Nello stesso ambiente culturale, autori come Fovel, Benigno Crespi e Attilio Fontana si concentrarono sull’analisi del taylorismo e dell’organizzazione industriale americana, mettendone in luce i lati positivi108 . Ancor più audaci furono studiosi come Fritz Ermarth e Andrè Rouast, che descrissero un’America «sulla via delle realizzazioni corporative»109 , con il primo addirittura invitato a intervenire su «Plan Age», il periodico dei “pianificatori” americani diretto da Lewis Lorwin110 . Sulla stessa scia troviamo il «sostenitore più deciso e preciso della somiglianza tra i due casi»111 : Giovanni Fontana, che ebbe occasione di studiare il caso statunitense attraverso un soggiorno alla Yale University112 . Le maggiori critiche rivolte a chi proponeva paralleli riguardavano, in particolare, la mancanza di coinvolgimento dei lavoratori nel processo formativo delle leggi (come si pretendeva avvenisse in Italia) e diVerenze di carattere spirituale e morale quali divergenze più eclatanti tra le due esperienze113 . Numerosi risultarono coloro, quindi, che negarono qualsiasi parentela tra il National Recovery Act (NRA, istituto centrale dell’economia rooseveltiana) fascista, Laterza, Roma 1978 e A. Salsano, L’altro corporativismo. Tecnocrazia e managerialismo tra le due guerre, Il Segnalibro, Torino 2003. 107. Sull’attività, le pubblicazioni e gli studi internazionali della Scuola di Scienze Corporative di Pisa: F. Amore Bianco, Il Cantiere di Bottai. La scuola corporativa pisana e la formazione della classe dirigente fascista, Cantagalli, Siena 2012, pp. 185–191. 108. B. Crespi, Il taylorismo nell’Italia fascista, «Critica Fascista», 15 febbraio 1929, pp. 88–91; Id., Cosa insegna l’America, 15 settembre 1929, pp. 351–353; A. Fontana, Presupposti e finalità del taylorismo, «L’Ordine Corporativo», II, 7, maggio–giugno 35, pp. 11–14. Da segnalare inoltre: M. Pierro, L’esperimento Roosevelt e il movimento sociale negli Stati Uniti, Mondadori, Milano 1937. 109. M. Vaudagna, New Deal e corporativismo nelle riviste politiche ed economiche italiane cit., p. 118. 110. Ivi, 138. Lorwin, direttore della National Economic and Social Planning Association, collaborò in prima persona con Spirito, scrivendo su un volume promosso dalla scuola pisana, a cui parteciparono economisti da tutto il mondo: L. Brocard, C. Landauer, J.A. Hobson, G. Dobbert, U. Spirito, L.L. Lorwin, L’Economia Programmatica, Sansoni, Firenze 1933. 111. Ivi, p. 126. 112. Ivi, p. 117. Tra le sue ricerche più interessanti da mettere in evidenza, spicca l’accurato studio dei codes americani, che regolamentavano la concorrenza e “limitavano” il libero mercato: G. Fontana, La disciplina della concorrenza e i codici di Roosevelt, «Diritto del Lavoro», Roma 1935 e il volume: Id., La concorrenza sleale negli Stati Uniti d’America, Cya, Firenze 1936. 113. In proposito cfr. le posizioni degli economisti Alberto De Stefani, Luigi Amoroso, Felice Vinci e Renzo Sereno (M. Vaudagna New Deal e corporativismo nelle riviste politiche ed economiche italiane, cit., p. 113) o del giornalista Piero Campana. Ivi, p. 130.

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e le politiche fasciste, come i nazionalisti e i reazionari114 . Emerge comunque un quadro composto da una vasta schiera di intellettuali e scrittori in grado di esprimere critiche documentate e spiccare per capacità d’analisi e vitalità di pensiero. Non solo Spirito115 e Bottai, ma personaggi meno noti quali Beniamino De Ritis116 e Guglielmo Masci, economista capace di fare costante riferimento alla teoria dello sviluppo di Schumpeter e agli scritti di Keynes, esprimendo un pensiero talvolta addirittura anticipatore di alcuni aspetti delle loro opere successive, secondo Massimo Finoia117 . A proposito di Keynes, considerato da alcuni il maggiore economista del XX secolo, giova aprire una corposa parentesi per esaminare il rapporto dell’autore inglese con le teorie italiane118 . L’idea corporativa fu «un momento della storia del pensiero economico, nel quale lo spostamento dell’attenzione dal comportamento del singolo individuo al comportamento di gruppi sociali considerati globalmente ha 114. Valgano per tutti i numerosi corsivi dell’epoca presenti ne La Vita Italiana dell’antisemita Giovanni Preziosi, ne L’Economia Italiana, rivista improntata allo «statalismo autoritario», che non esitò a definire il capitalismo americano come «un’economia di rapina» (ivi, pp. 112–113) e negli scritti di Giuseppe Attilio Fanelli, caratterizzati da un’ideologia «ruralistica e antiamericanistica». G. Santomassimo, La Terza Via fascista, cit., p. 273. 115. Come già osservato, Spirito fu protagonista nel dibattito intorno alle questioni sociali, politiche ed economiche degli anni Trenta. Il filosofo aretino, tentando di dare alle sue intuizioni respiro internazionale, espresse interesse per il fordismo americano (U. Spirito, Il problema del salario nella trasformazione del capitalismo, «Critica fascista», 15 settembre 1932, pp. 365–367), formulando al contempo una critica all’economia liberale «per certi versi in notevole sintonia con i primi scritti di Keynes». M. Finoia, Il pensiero economico italiano degli anni ’30, «Rassegna Economica», Roma 1983, p. 585. 116. Si veda in primis: B. De Ritis, Roosevelt sulla difensiva, «Critica Fascista», 15 giugno 1934, pp. 233–234; Id., I conflitti del lavoro, «Critica Fascista», 15 settembre 1934, p. 354; Id., Il plebiscito di Roosevelt, «Critica Fascista», 15 novembre 1936, p. 28. Sulla stessa linea di grande interesse: E. Brunetta, Esperimento di Roosevelt, «Critica Fascista», 1 settembre 1933, p. 335; S. Volta, Il corporativismo di Roosevelt, «Critica Fascista», 1 ottobre 1934, pp. 377–378. 117. M. Finoia, Il pensiero economico italiano degli anni ’30, cit., pp. 573–574. Riferendosi a lui, con un’aVermazione tutt’oggi valida, l’economista Federico CaVè scrisse che: «Si è indotti a chiedersi perché un pensiero così fecondo, vivace, stimolatore sia oggi praticamente ignorato» (Id., Frammenti per lo studio del pensiero economico italiano, Milano, GiuVrè, 1975, p. 125). Riguardo alla politica americana dei primi anni ’30, Masci espresse apprezzamenti per quello che considerava un esperimento «vasto e interessante». Ivi, p. 583. 118. Spunti in proposito in: P. Bolchini, La fortuna di Keynes in Italia, «Miscellanea Storica Ligure», anno XIV, Genova 1982, pp. 7–70; A. Marchioro, Il keynesismo in Italia nel periodo a cavallo della Seconda guerra mondiale, «Studi di storia del pensiero economico», Milano 1970, pp. 628–652 e G. Beccantini, L’acclimatamento del pensiero di Keynes in Italia: introduzione ad un dibattito, «Passato e presente», II, luglio–dicembre 1983, pp. 85–104.

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portato gradualmente all’approccio macroeconomico»119 e i fattori di interesse e convergenza con il pensatore britannico (che rimase comunque sempre all’interno del “discorso” liberale) non risultarono pochi. Secondo Rasi: Il punto centrale della convergenza fra la teoria corporativa e quella keynesiana stava nel riconoscere l’esistenza di forze, prima sottovalutate nella concezione statica dell’equilibrio, che in Keynes assumevano la denominazione di «propensione» e «aspettative», mentre nella dottrina corporativa erano da Amoroso e De Stefani definite «forze di inerzia» e «forze direttrici» e venivano meglio individuate dal Gambino in «forze vive» e «forze propulsive». Di qui nasceva — al posto di una visione ottimistica nei confronti degli automatismi del mercato — una visione realistica volta a considerare le forze capaci di promuovere lo sviluppo ma anche di comprometterlo, per cui nasceva la necessità, sul piano operativo, dell’intervento dello Stato specialmente nel momento della formazione di nuovi capitali. In sostanza, corporativismo e keynesianesimo diVerivano soltanto nella forma e non nella sostanza. Tale accordo appare ancora più completo se si considerano gli elementi definitori degli equilibri di sottoccupazione, sull’impossibilità del saggio di interesse di raggiungere il livello che avrebbe assicurato la piena occupazione, sulla definizione dei meccanismi moltiplicativi ed accelerativi delle fasi di recessione e di crescita.120

Non solo: Gli economisti corporativi già verso la fine degli anni ’30 avevano teorizzato, in maniera più concreta e realistica di Keynes, un sistema di piena occupazione tanto che De Stefani in una serie di articoli su «La Stampa» di Torino sostenne al tesi che era «la disponibilità di lavoro che doveva determinare i piani di produzione e non viceversa». [. . . ] Lanzillo, utilizzando gli spunti che gli venivano dal pensiero keynesiano, identificò nelle corporazioni gli strumenti essenziali di una programmazione economica capace di indirizzare il sistema verso una piena occupazione. Attraverso queste strutture, l’intervento pubblico [. . . ] avrebbe inciso su tutto il sistema, modificando l’assetto della distribuzione dei redditi (attraverso i contratti collettivi), e della produzione (attraverso la disciplina degli investimenti) senza tuttavia sostituirsi alla volontà dei produttori espressa appunto attraverso la forma corporativa dell’azione statale.121

Come ha scritto Perillo, emergevano pensatori del corporativismo, quali ad esempio Celestino Arena, che si collocavano in 119. M. Finoia, Il pensiero economico italiano degli anni ’30, cit., p. 589. 120. G. Rasi, Necessità di strutture unitarie e finalizzate per l’economia italiana, ISC, Roma 1984, p. 32. 121. Ivi, p. 33.

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Il contributo del nostro paese emerse in sostanza quale parte integrante della fase di «più intenso ripensamento del rapporto tra economia, società e politica»123 sul piano mondiale, come osservato da Alessio Gagliardi124 . Tornando al rapporto con gli USA, lo stesso Mussolini fu protagonista del dibattito, recensendo positivamente il libro di Roosevelt Looking Forward125 , e facendo pervenire una cordiale lettera al presidente americano, recapitata dall’allora ministro delle Finanze Guido Jung, giunto in visita ufficiale a Washington nel 1933126 . Questo avvenimento si inseriva nel preciso periodo in cui diversi intellettuali e membri del Brain Trust effettuarono studi e viaggi in Italia. Tra i nomi più importanti figurarono Hugh Johnson, James Farley127 , Harry Ho122. F. Perillo, Introduzione a: La teoria economica del corporativismo, cit., p. 345. A questo proposito ha scritto Giacomo Beccantini: «Io credo che con tutti i loro equivoci [. . . ], le critiche di Spirito e compagni all’economia liberale, contenessero molti grani di verità e fossero comunque meno anacronistici delle pur labili e dotte difese dei custodi del tempio. E credo anche che quelle controversie e coloro che ne furono protagonisti non siano da considerare come un momento di smarrimento della ragione economica o come il prezzo pagato ad una dittatura invadente sul terreno della cultura». G. Beccantini, Alberto Bertolino (1898–1978), in Aa. Vv., L’inflazione oggi: distribuzione e crescita, Giuffrè, Milano 1981, p. 129. 123. G. Santomassimo, La Terza Via fascista, cit., p. 11. 124. Ibidem. 125. B. Mussolini, Roosevelt e il sistema, «Il Popolo d’Italia», 7 luglio 1933, riportato in Bollettino del Ministero degli affari esteri, 7 luglio 1933, pp. 715–717. Gli apprezzamenti verso la figura del presidente USA e la sua politica di interventismo statale furono confermati l’anno successivo da una nuova recensione del duce, questa volta a un libro di Henry A. Wallace, chiusa enfaticamente: «Dove va l’America? Questo libro non lascia dubbi: è sulla strada del corporativismo, il sistema economico di questo secolo». I provvedimenti americani erano visti anche come un’occasione propagandista da sfruttare, come suggerisce Wolfgang Schivelbusch in 3 NewDeal cit., pp. 27–28. 126. La lettera fu recapitata il 24 aprile 1933, neanche due mesi dopo l’elezione del presidente democratico. Tale fu l’attenzione verso Roosevelt che nel luglio 1933 l’Ufficio stampa del duce diramò l’ordine di non definire “fascista” il New Deal, per non offrire argomenti agli oppositori politici del presidente americano. Le azioni italiane in questo periodo furono ricambiate da parole lusinghiere da parte di Roosevelt, che definì Mussolini «that admirable Italian gentleman», vedi J.P. Diggins, L’America, Mussolini e il fascismo, Laterza, Roma–Bari 1982 (edizione americana 1972), p. 362. 127. R. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso, cit., p. 554.

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pkins128 insieme ai professori Raymond Moley e Rexford Tugwell129 . Tutti si espressero con giudizi sostanzialmente positivi riguardo alle politiche economiche fasciste e alle loro capacità di affrontare la crisi economica. Da qui le polemiche e i confronti nel dibattito americano si fecero più serrati, orchestrati in molti passaggi significativi dall’abile figura del presidente Roosevelt130 . La rivista «Fortune» si spinse fino a dedicare un numero speciale al corporativismo, in cui, oltre a diverse considerazioni critiche, venivano elencati i «vantaggi» che una programmazione economica di stampo fascista avrebbe potuto offrire alla situazione critica del Paese131 . Non dissimili le analisi di molti studiosi e giornalisti, poco noti in Italia, che firmarono pagine importanti di questo complesso rapporto. Roger Shaw, ad esempio, scrisse: La NRA, con il suo sistema di norme, le clausole che regolano l’economia, e certi aspetti tesi a migliorare la situazione sociale, è stata un semplice adattamento americano dello Stato corporativo italiano nei propri meccanismi. La filosofia del New Deal assomiglia da vicino a quella del partito laburista inglese, ma i suoi meccanismi sono stati presi a prestito dall’antitesi italiana al laburismo.132

Sullo stesso piano si posero nomi delle più diverse estrazioni politiche come William Welk133 , Mauritz Allegren134 , Gilbert Monta128. G. Santomassimo, La Terza Via fascista cit., p. 208. 129. W. Schivelbush, 3 New Deal cit., pp. 34–35. 130. «Primo grande presidente “mediatico”, Franklin D. Roosevelt fu maestro nel controllo dell’opinione pubblica: allestì un efficiente servizio di monitoraggio dei giornali, inaugurò l’abitudine di tenere regolari conferenze stampa, coltivò rapporti di amicizia personali con i principali cronisti politici, curò scrupolosamente la sua immagine». O. Bergamini, La democrazia della stampa. Storia del giornalismo, Laterza, Bari 2006, p. 231. 131. «Fortune», X, luglio 1934, pp. 137–138. Proprio questa rivista ospitò anche alcune considerazioni sull’Italia fascista del presidente Roosevelt: cfr. in proposito J.P. Diggins, L’America, Mussolini e il fascismo cit., pp. 365–366. 132. R. Shaw, Fascism and the New Deal, «North American Rewiew», vol. CCXXXVIII, 1934, p. 472. 133. Su «Foreign AVairs» questo politologo firmò una lunga e lusinghiera inchiesta sull’economia fascista: W. Welk, Fascist economic policy and Nra, «Foreign AVairs» XXI, ottobre 1933, 98–108. Welk successivamente pubblicò un libro sul tema: Id., Fascist Economic Policy; An Analysis of Italy’s Economic Development, Harvard University Press, Cambridge 1938. Oltre a questa, non poche le opere significative che videro la luce negli anni ’30: C. Haider, Capital and Labour under fascism, Columbia University Press, New York 1930; E. Basch, The Fascist: His state and His Mind, Morrow, New York 1937; G.L. Field, The syndacal and corporative institution of Italian fascism, Columbia University Press, New York 1938; C.T. Schimdt, The Corporate State in Action. Italy Under Fascism. Oxford University Press, New York 1939. 134. Giornalista liberale, Allegren si occupò di questioni estere e socio–economiche sulle pagine dello Spectator, toccando spesso temi riguardanti l’Italia a confronto con gli Usa, e

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gue135 , il leader dell’American Socialist Party Norman Thomas e lo storico Charles Beard136 . Ben poche, tra le riviste più importanti e diVuse137 , non toccarono l’argomento. Quest’attenzione verso l’Italia destò allo stesso tempo preoccupazioni e forti rimostranze da parte di politici (principalmente dello schieramento conservatore, come Hoover) e di studiosi quali Leon Samson e Waldo Frank, timorosi riguardo alla possibile perdita dei valori democratici del Paese138 . Tra i critici più pungenti verso il fascismo e la sua economia spicca il nome di George Seldes che, nel libro Sawdust Caesar. The Untold history of Mussolini and fascism, mise in luce quelle che considerava le contraddizioni e le finzioni propagandistiche del regime fascista139 . Ciò che stupisce di più, comunque, è il fatto che in ambito americano «i paralleli fra New Deal e corporativismo fascista erano ancor più diVusi in patria che nella stessa Italia»140 . L’attenzione del mondo culturale e della classe diriguardando con interesse alle riforme fasciste (W. Schivelbush, 3 New Deal cit., p. 31). Su posizioni simili il direttore del New Republic George Soule (Ivi, p. 32). Sull’importanza centrale di questa rivista nel contesto del New Deal: F. Villari, Il New Deal, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 264. 135. Anche lui liberale, fino al 1935 fu uno dei più strenui sostenitori delle somiglianze tra corporativismo e New Deal. Cfr. Ivi, p. 35 e J.P. Diggins, L’America, Mussolini e il fascismo, cit., p. 212. 136. Beard si occupò a lungo di economia e corporativismo, vedi in primis il libro: C. Beard, The future comes. A study of the New Deal, McMillan, Londra 1933. 137. Uno dei più grandi magnati della stampa americana come William Randolph Hearst fu un ammiratore del capo del fascismo ( J.P. Diggins, L’America, Mussolini e il fascismo, cit., pp. 59–60), mentre Henry Luce, altro uomo di punta dell’editoria americana, fu un repubblicano d’impostazione liberista e antifascista. Tra le tante riviste che si dedicarono a critiche e paralleli, ci furono in primis «New York Times» (di proprietà di Hearts), «Fortune» (di Luce) e l’«Harper’s Magazine» (W. Schivelbush, 3 New Deal, cit., pp. 32–33), dove apparse uno degli scritti più significativi nel quadro della ricerca: J.B. Matthews e R.E. Shallcross, Must America go fascist?, «Harper’s Magazine», vol. CLXXX, 1935, p. 159. 138. Questi due autori si occuparono diVusamente delle analogie tra i sistemi economici italiano e americano, al punto di firmare due articoli dal titolo e dai contenuti simili: L. Samson, Is fascism possible in America?, «Common Sense», agosto 1934, p. 17 e W. Frank, Will fascism come to America?, «Modern Monthly», vol. VIII, 1934, p. 135. La rivista «Common Sense» fu una delle tribune di discussione più interessanti riguardo all’economia degli anni Trenta. Tra i suoi collaboratori spicca il nome di John T. Flynn, uno dei più attivi critici sia del New Deal che del fascismo. Cfr. J. Moser, Right Turn: John T. Flynn and the Transformation of American Liberalism, New York University Press, New York 2005. 139. G. Seldes, Sawdust Caesar. The Untold history of Mussolini and fascism, Harper, New York 1935. 140. G. Santomassimo, La Terza Via fascista cit., p. 208.

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gente a stelle e strisce verso l’Italia fu d’aiutò per concepire strade volte alla soluzione della crisi, pensiamo ad esempio al ruolo dello Stato, all’idea di collaborazione di classe o ai provvedimenti di riconoscimento del sindacato, studiati esplicitamente dalla Research and Planning Division della NRA141 . Anche per via di queste aYnità il giornalista conservatore Jonah Goldberg ha polemicamente notato: It seems impossible to deny that the New Deal was objectively fascist. Under the New Deal, governamental goons smashed down doors to impose domestic policies. G–men were treated like demigods, even as they spies dissidents. Captains of industry wrote the rules by which they were governed. FDR secretly taped his conversation, used the postal service to punish his enemies, lied repeteadly to maneuver the United States into war, nad undermined Congress’s war making power at several turns. [. . . ] In 1942 he flatly told the Congress that if it didn’t do what he wanted, he’d do it anyway. He questioned the patriotism of anybody who opposed his economic programs, never mind the war itself. He created the military–industry complex so many on the left decry as fascist today.142

La realtà fu però complessa: nel 1935 la Corte Suprema bocciò come incostituzionali alcune misure del New Deal, l’NRA per prima. Un passaggio che, unito a vistose frizioni in politica estera, contribuì a raVreddare lo scambio culturale e ad allontanare gradualmente Italia e Stati Uniti. Questi ultimi non riuscirono a superare definitivamente le diYcoltà economiche negli anni Trenta, e solo la Seconda guerra mondiale consentirà al gigante americano di rimettersi in piedi143 . Avvicinandosi alla Germania, L’Italia allentò i contatti con diverse potenze e si interessò ad alcune tematiche come l’antisemitismo e il razzismo (centrale anche sul piano dei rapporti con le popolazioni delle colonie nel quadro dell’Impero) che indebolirono il valore e la dignità di diverse riflessioni144 . Si crearono in questo frangente anche casi dolorosi e paradossali come quello di Gino Arias, economista che coniò il termine «coscienza corporativa» da opporre al materialismo, 141. J. Goldberg, Liberal Fascism. The secret history of the American Left from Mussolini to the Politics of Meaning, Doubleday, New York 2008, p. 156. 142. Ivi, p. 158. 143. A proposito dell’«eccezionalismo» americano e delle cause economiche e di potenza che spinsero gli States in guerra cfr. G. Damiano, L’espansionismo americano. Un destino manifesto?, Edizioni Ar, Padova 2006. 144. Si veda a titolo d’esempio l’acritica adesione di «Critica Fascista» a una tematica come quella antisemita che non l’aveva mai interessata prima. Cfr. Corporativismo senza ebrei, «Critica Fascista», 15 dicembre 1938, pp. 50–51.

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costretto a riparare in Argentina per scappare dalle leggi razziali. In ogni caso, il messaggio sociale italiano continuò ad attrarre molti paesi145 , pensiamo solo all’America Latina, alle esperienze austriache, portoghesi e spagnole degli anni ’30, o a nomi come quelli di Werner Sombart e Mihail Manoilesco, più volte richiamati da autori importanti come De Felice, Santomassimo e Lorenzo Ornaghi146 . L’opera dello studioso rumeno Mainolesco Le siecle du corporatism sarà alla base di un saggio di Philippe Schmitter (autore fondamentale di questo contesto insieme a Charles Maier) del 1974 che riaccese prepotentemente l’attenzione sul tema corporativo. Sulla «Rewiev of politics» l’autore americano si chiese se fosse Still the century of corporatism?, e ancor oggi il dibattito storico–politico sull’argomento rimane aperto, a maggior ragione considerando il lungo periodo di crisi, apertosi nel 2008, che impone riflessioni e domande sulla tenuta del sistema economico liberal–capitalista. Tra i lavori più interessanti apparsi nel nostro paese ci sono sicuramente quelli di Matteo Pasetti sull’Europa corporativa147 , quando tra le due guerre l’idea di «terza via» veniva discussa da uomini delle più diverse culture politiche mentre intermediari e teorici animavano uno scambio d’idee più vasto di quanto si possa pensare. Infine, un caso degno di nota fu quello della Russia sovietica, verso cui ci fu da parte di molti intellettuali fascisti un’attenzione particolare148 . Su impulso di Bottai, vennero tradotti numerosi testi di dirigenti sovietici, tra cui Stalin, e di studiosi marxisti, quale la

145. Movimenti ispirati al fascismo sorsero in tutto il mondo: M. Fraquelli, Altri Duci, Mursia, Milano 2014. 146. Cfr. L. Ornaghi, Stato e corporazione, GiuVrè, Milano 1984. 147. M. Pasetti, Progetti corporativi tra le due guerre mondiali, cit. e Id., L’Europa corporativa. Una storia transnazionale tra le due guerre mondiali, Bononia University Press, Bologna 2016. 148. Sin dall’inizio degli anni ’30, l’interesse verso i provvedimenti bolscevichi fu a dir poco intenso. Nel dibattito riguardante «Roma e Mosca o la vecchia Europa?», apertosi sulle pagine di «Critica Fascista», diversi giornalisti ravvisarono somiglianze tra bolscevismo e fascismo, ed altri addirittura predissero futuri incontri (G. Santomassimo, La Terza Via Fascista, cit., pp. 198–207). Bruno Spampanato e Riccardo Fiorini furono tra i più accesi sostenitori delle somiglianze tra le due rivoluzioni, in una discussione che, nel corso degli anni, interessò un grande numero di personaggi che espressero posizioni anche molto diverse, al punto che per contrastare la cosiddetta “moscofilia” il PNF promosse una pubblicazione di spiccata impostazione antisovietica: P. Sessa, Fascismo e bolscevismo, Mondadori, Milano 1933. p. 786). Una delle più curiose opere sul tema fu: R. Bertoni, Russia: il trionfo del fascismo, La Prora, Milano 1937.

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storia del bolscevismo scritta da Arthur Rosenberg149 . Contemporaneamente libri come quelli di Ettore Lo Gatto150 , Gaetano Ciocca e Gerhard Dobbert (L’economia sovietica), studioso tedesco trasferitosi a Milano per il suo interesse verso il corporativismo fornivano validi spunti d’interpretazione sulla situazione economica russa. Nel pieno di questi fermenti culturali, significativo fu l’articolo di Federico Pacces (con nota di Bottai) Verso un piano economico–corporativo, mentre Carlo Costamagna arrivò a parlare di un «piano quinquennale europeo», in “concorrenza” e opposizione ai sovietici151 . Nel 1936 il duce varò eVettivamente un «piano regolatore» che avrebbe dovuto lanciare ancora «più avanti» la politica sociale del regime152 . Come notato in precedenza, questo clima favorì lo sviluppo delle tesi più ardite in direzione anticapitalista. Difatti, nel sindacato si parlava di «democrazia organica» e «autogoverno delle categorie», mentre la borghesia, l’arrivismo e la mentalità materialista venivano messi sul banco degli imputati da giovani intellettuali come Edgardo Sulis e Berto Ricci nel celebre Processo alla Borghesia153 . I Gruppi Universitari Fascisti, avanguardia del movimento e fucina di pensiero154 , entrarono in contatto diretto con il mondo del lavoro negli anni della «Carta della Scuola» (1939), che ribadiva la funzione politica totalitaria del fascismo e inseriva i moderni concetti pedagogici di collegamento tra formazione umanistica e scientifica, dando spazio anche ai lavori manuali: «Il Bò», ad esempio, periodico del GUF padovano, organizzava incontri con gli operai nel tentativo di stabilire un legame – improntato al «massimo cameratismo», si precisava — tra universitari e lavoratori, e agevolava così la creazione di un’elite operaia che fosse educata alla responsabilità politica immessa nella classe dirigente.155 149. A. Rosenberg, Storia del bolscevismo da Marx ai nostri giorni, Sansoni, Firenze 1933. 150. E. Lo Gatto, Dall’epica alla cronaca nella Russia soviettista, Istituto per l’Europa Orientale, Roma 1929 e Id., URSS 1931: vita quotidiana, piano quinquennale, Istituto per l’Europa Orientale, 1932. 151. C. Costamagna, Per un piano quinquennale europeo. (La marca orientale), «Lo Stato», giugno 1932, pp. 453–455. 152. R. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso 1929–1936, cit., p. 786. 153. Aa.Vv., Processo alla Borghesia, Edizioni Roma, Roma 1939. 154. Gli studi più importanti sul tema sono: L. La Rovere, Storia dei GUF, Bollati Boringhieri, Torino 2003 e S. Duranti, Lo Spirito Gregario. I Gruppi Universitari Fascisti tra politica e propaganda (1930–1940), Donzelli, Roma 2008. 155. L.L. Rimbotti, Il fascismo di sinistra, cit., p. 129.

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Seppur controllati dalle gerarchie del partito, dibattiti e riviste di moltiplicarono, tanto che Belardelli, pur fortemente critico verso l’autoritarismo del regime, ha parlato di «Ventennio delle riviste» e «Ventennio degli intellettuali»156 . Tra gli esempi più significativi: L’«Archivio di studi corporativi» [. . . ] si poneva quale rassegna eclettica e aperta ai contributi delle tendenze più varie all’interno del dibattito corporativo, collocandosi al fianco delle riviste più caratterizzate e militanti: come, per non citare che le maggiori, i «Nuovi studi di diritto, economia e politica» dei gentiliani Spirito e Volpicelli, «Nuovi problemi di politica, storia ed economia» che Nello Quilici e Giulio Colamarino avrebbero fondato a Ferrara alla fine del 1930, «Lo Stato» di Carlo Costamagna e Ettore Rosboch, la «Politica Sociale» di Renato Trevisani e la rivista «Economia».157

Con i loro limiti e diVerenze, i nomi sopra elencati insieme ad altri come Luigi Fontanelli, Agostino Nasti, Nicolò Giani (fondatore della Scuola di Mistica Fascista), Guido Pallotta, Carlo Ravasio, Felice Chilanti (che passerà poi al comunismo) scrissero pagine stimolanti e appassionate, ancor oggi degne di studio da parte della cultura italiana storicamente lontana dai temi della patria e dell’interesse nazionale. Si trattava di una giovane “covata” intellettuale che avrebbe costituito la futura ossatura del fascismo, esprimendo molto raramente un velato antifascismo, al contrario di quello che è stato sostenuto per lungo tempo dagli storici. Sotto la bandiera corporativa nacquero fermenti politico–culturali di valore, con una varietà di proposte che può essere considerata indice di confusione teorica quanto di ricchezza di spunti158 . Lo scoppio della guerra non fece che raVorzare le convinzioni della necessità della lotta alla finanza e alle potenze egemoni159 , oltre che della costruzione di un nuovo ordine basato sui principi corporativi. A questo proposito: 156. G. Belardelli, Il Ventennio degli intellettuali, cit. 157. G. Santomassimo, La Terza Via fascista, cit., pp.104. Fondamentale per avere un quadro d’insieme rimane: D.G. Pecenko, L.N. Zitelli, Bibliografia dei periodici del periodo fascista 1922–1945, Camera dei Deputati, Roma 1984, pp. 67–70. Lo studio dei fogli del regime in tutta la loro complessità (aVrontato da Luisa Mangoni ne L’Interventismo della cultura ormai più di 40 anni fa) rimane aperto a nuovi contributi e interpretazioni. 158. Tra i numerosi libri che ricostruiscono tensioni e dibattiti dell’epoca: G. Longo, L’Istituto nazionale fascista di cultura. Gli intellettuali tra partito e regime, Pellicani, Roma 2000. 159. Gli interessi imperiali di Francia e Inghilterra dietro lo scoppio della guerra sono stati indagati, tra gli altri, da autori inglesi del calibro di Alan J. Taylor e Richard Overy. Vedi ad. es. R. Overy, Le origini della Seconda guerra mondiale, il Mulino, Bologna 2009 (prima edizione 1987).

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i numerosi discorsi sull’«ordine nuovo» che nel volgere di poche settimane fiorirono su gran parte delle riviste politiche, giuridiche ed economiche permisero una insperata ripresa del dibattito corporativo (almeno nelle sue suggestioni internazionali e pianificatrici), aprendo quasi un “secondo tempo” del confronto sul corporativismo — che era andato aYevolendosi dopo la guerra d’Etiopia — introno al quale, almeno fino a oggi, la ricerca storica ha poco insistito.160

La rivista «Geopolitica», animata da Ernesto Massi, esperto di temi geopolitici e corporativi, e sostenuta fortemente da Bottai161 , individuò nel “soVocamento” italiano sul Mediterraneo da parte inglese e nell’interesse imperiale ed economico delle democrazie liberali alcune delle cause scatenanti il conflitto. Uno scritto di Longo può essere preso ad esempio di queste speranze: Noi non siamo i negatori del socialismo ma i superatori. Il fascismo in quanto tende alla progressiva immedesimazione di stato e popolo, al raccorciamento delle distanze, alla realizzazione di una più alta giustizia sociale, all’autodisciplina delle categorie produttive, alla elevazione spirituale culturale economica delle classi lavoratrici, realizza largamente e supera i motivi essenziali del socialismo, trasvalutandoli al fuoco di una più verace e integrale umanità.162

Durante il conflitto, le critiche più profonde e pungenti sui limiti e i compromessi delle edificazioni fasciste arrivarono proprio dagli ambienti più rivoluzionari: Ruinas, Manunta, Fontanelli [. . . ] e giovani universitari, giornalisti e intellettuali in genere [. . . ] ritengono [. . . ] che il crollo del regime sia da imputare tanto alle manovre della borghesia e della monarchia, quanto al distacco e alla sfiducia delle masse, dovuti al fatto che, come denuncia Fontanelli, «non si fece nulla di rivoluzionariamente importante di ciò che si era promesso a livello sociale».163 160. F. Amore Bianco, Il Cantiere di Bottai, cit., p. 126. Dal ’40 fiorirono convegni e dibattiti su economia, pianificazione e idea d’Europa, con Pellizzi, Giuseppe Bruguier e Carlo Alberto Biggini tra i protagonisti. Quest’ultimo, successore di Bottai all’Educazione Nazionale, si distinse per l’assiduo impegno culturale. L’idea di un’impostazione italiana in economia e nelle relazioni con i popoli da attuare in “concorrenza” alla Germani emerse diverse volte, ad es. G. Bottai, Contributi dell’Italia fascista al “nuovo ordine”, INCF, Roma 1941. 161. G. Sinibaldi, La Geopolitica in Italia, Libreria Universitaria, Padova 2010. Rivista animata da giovani e ricca di spunti, capace di progettare uno spazio vitale autonomo non solo nei confronti delle democrazie ma anche del nazismo. 162. G.A. Longo, Nostro socialismo «Critica Fascista», 1 agosto 1941, pp. 292–293. 163. P. Buchignani, La Rivoluzione in camicia nera, cit., p. 395.

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Si individuarono i maggiori punti critici del Ventennio nei compromessi con i conservatori, nella difficoltà di rendere effettiva la rappresentanza dei lavoratori e di far funzionare le nuove strutture corporative164, e infine nelle ripetute difficoltà salariali nella cornice della politica deflattiva del regime165. I primi tre punti costituiscono l’accusa più ricorrente formulata nel dopoguerra, spesso anche da protagonisti dell’epoca come Pellizzi o lo stesso Bottai, che criticò le nomine dall’alto e parlò di «corporativismo senza corporazioni»166 per sottolineare la scarsa incidenza delle nuove strutture sul coordinamento economico. Un giudizio di «fallimento» di cui la «terza via» ha risentito fino ad oggi. In effetti, anche per via delle problematiche sopra elencate il fascismo della Repubblica Sociale cercò di “correggere” alcuni aspetti del regime operando il «ribloccamento» del sindacato, aprendo al «diritto di controllo e responsabile critica sugli atti della pubblica amministrazione» e al principio elettivo, valorizzando al contempo il ruolo rivoluzionario ed elitario del partito, come si evince dai 18 punti di Verona, in due passaggi in particolare: 4 La negativa esperienza elettorale già fatta dall’Italia e l’esperienza parzialmente negativa di un metodo di nomina troppo rigidamente gerarchico contribuiscono entrambe ad una soluzione che concili le opposte esigenze. Un sistema misto (ad esempio, elezione popolare dei rappresentanti della Camera e nomina dei Ministri per parte del Capo della Repubblica e del Governo e, nel Partito, elezione di Fascio salvo ratifica e nomina del Direttorio nazionale per parte del Duce) sembra il più consigliabile. 5 L’organizzazione a cui compete l’educazione del popolo ai problemi politici è unica. Nel Partito, ordine di combattenti e credenti, deve realizzarsi un organismo di assoluta purezza politica, degno di essere custode dell’idea rivoluzionaria. La sua tessera non è richiesta per alcun impiego o incarico.

Lo stesso spirito animò i progetti di Costituzione presentati al duce da esponenti della cultura come Vittorio Rolandi Ricci, Biggini e Spampanato167 . 164. Tra i tanti esempi, un duro editoriale della rivista di Bottai: Ritorno al sindacato, «Critica Fascista», 1 giugno 1943, pp. 185–186. 165. Cfr. le considerazione riportate in G. Parlato, Il sindacalismo fascista, cit. o l’articolo: A. Mortara, Osservazioni sulla politica dei «tagli salariali» nel decennio di 1927–1936, in G. Toniolo (a cura di), Industria e banca nella grande crisi 1929–1934, Etas Libri, Milano 1978. 166. Cfr. le biografie: C. Pellizzi, Una rivoluzione mancata, Longanesi, Milano 1948; G. Bottai, Vent’anni e un giorno, Garzanti, Milano 1949; T. Cianetti, Memorie dal carcere di Verona, Rizzoli, Milano 1983. 167. F. Franchi, Le Costituzioni della Repubblica Sociale Italiana. Vittorio Rolandi Ricci il Socrate di Mussolini, Settimo Sigillo, Roma 1987; P. Siena, La perestroijka dell’ultimo Mussolini. Dalla dittatura cesaristica alla democrazia organica, Solfanelli, Chieti 2012.

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Bisogna in conclusione notare che la cosiddetta interferenza politica nelle questioni sociali durante il regime era in larga parte dettata dalla novità delle concezioni corporative. Da parte fascista si voleva, cioè, sorvegliare l’avanzamento graduale delle riforme e della nuova mentalità di collaborazione attraverso la presenza di esponenti del partito e della rivoluzione negli istituti economici del regime, lasciando allo stesso tempo in vita, in un diYcile equilibrio, l’idea di «autogoverno delle categorie». Senza questi passaggi, presumibilmente, non sarebbe stato possibile tentare l’esperimento socializzatore di Salò e elaborare i punti sopra ricordati, fondati sul «lavoro» quale base della Repubblica e tesi all’utopica «abolizione del sistema capitalistico» e alla lotta alle «plutocrazie mondiali» (punti 8 e 9). Pur nell’evidenza dello scollamento popolare, della disastrosa condotta di guerra e dell’opportunismo di ampi settori del paese (tra industriali e forze armate), l’idea di «terza via» sarà difesa fino all’ultimo respiro e considerata da più parti quale esempio italiano in direzione di una più giusta civiltà. Bottai, prima di compiere un clamoroso voltafaccia nelle ultime ore del regime, rivendicò con forza l’idea sociale del corporativismo: Rivendichiamo una responsabilità storica fondamentale: quella d’aver covata e fatta venire alla luce, con il corporativismo, una profonda revisione etico–organizzativa del sistema capitalistico nell’interno degli Stati e nella società internazionale. La rivoluzione sociale di stampo marxista era ormai addomesticata e si corrompeva nei torbidi contatti parlamentaristici con il potere “borghese”, tradendo qualunque solidarietà internazionale, anzi alleandosi sempre col potere capitalistico, quando si trattava di violentare gli interessi di qualche nazione proletaria. Noi, liberando le rivendicazioni sociali dalla bandiera antinazionale, abbiamo annullato l’alibi della resistenza dei poteri capitalistici e abbiamo antiveduto e preparata la nuova economia dei popoli. La corporazione, proposta nel 1931 alla Società delle Nazioni come modello di collaborazione tra le classi e le nazioni, era ed è la leva per spingere l’ordine capitalistico verso gli inevitabili nuovi orizzonti intravisti sia dall’economia che dall’etica. Riconosciamo e rivendichiamo, insomma, la responsabilità d’aver acceso il fuoco del rinnovamento politico e sociale d’Europa, perché questa si salvasse e potesse continuare la sua funzione di elaboratrice e sostenitrice della civiltà occidentale.168

168. Noi, i responsabili, «Critica Fascista», 15 luglio 1943, pp. 229–230.

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6. L’«insubordinazione fondante» italiana? Gli elementi portati alla luce nelle pagine precedenti ci permettono di rilevare la necessità di ampliare le prospettive riguardo al tema corporativo, le cui interpretazioni non sono uscite dalla valutazione di irrimediabile «fallimento», come emerge anche nei recenti lavori di Cassese, Santomassimo e Gagliardi, che pure hanno problematizzato con dovizia di particolari il tema e superato definitivamente l’interpretazione di bluV 169 . La capacità di porsi in sintonia e dialogo con l’elaborazione economica all’estero; il dibattito stimolato a tutti i livelli accademici, con il nostro paese quale «Mecca di studiosi della scienza politica, di economisti, di sociologi»170 ; l’ispirazione fornita dalle teorie italiane a numerose nazioni; l’edificazione, per quanto farraginosa, di strutture completamente nuove e il loro ruolo su diversi livelli (pensiamo ai piani autarchici); lo spirito della «Carta del Lavoro» che permeò leggi e proposte fino alla linfa di Gentile e del suo «umanesimo del lavoro» suggerirebbero l’approfondimento della tematica e la revisione di alcuni giudizi171 . Su questa scia possiamo collocare un lavoro come quello di Amore Bianco sulla politica culturale di Bottai, capace di evidenziare limiti, complessità ma anche i successi di alcuni corporativisti: 169. Sullo stesso piano anche l’opera datata (ma ancor oggi molto considerata a livello storiografico) di Louis R. Franck, che eVettuò le sue ricerche e le sue analisi dei dati economici nel corso degli anni ’30, potrebbe essere aggiornata. Cfr. la ristampa (curata da Nicola Tranfaglia) L. Franck, Il corporativismo e l’economia dell’Italia fascista, Bollati Boringhieri, Torino 1990. Una rassegna di tutte le maggiori interpretazioni sul corporativismo dal dopoguerra a oggi si trova in: F. Carlesi, Rivoluzione Sociale, cit., pp. 21–40. 170. Come scrisse l’antifascista Salvemini nel 1935, riportato in: G. Santomassimo, La Terza Via fascista, cit., p. 181. 171. Un ostacolo alle ricerche è rappresentato dalla scomparsa, difficilmente casuale, di numerosissimi archivi corporativi e sindacali. Cfr. l’analisi di Elio Lodolini, ex direttore dell’Archivio Centrale dello Stato e figlio di Armando: E. Lodolini, Gli archivi sindacali fascisti e l’opera di Armando Lodolini, «Rivista di Studi Corporativi», N. 3, maggio–giugno 1991, pp. 375–390. La revisione in questo senso dovrebbe andare di pari passo con quella relativa al fascismo nel suo complesso, al quale diversi autori stanno dedicando un’attenzione scientifica che sta gradualmente portando a una maggiore comprensione del fenomeno nella sua essenza. Molti concetti, come quello di totalitarismo, sono ancora al centro della polemica. Vedi ad es. i lavori di Emilio Gentile, Stanley G. Payne, Roger Griffin o i testi M. Tarchi, Fascismo. Teorie, interpretazioni, modelli, cit.; A. Tarquini, Storia della cultura fascista, il Mulino, Bologna 2011.

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Significativo [. . . ] fu il grado di ricezione culturale — e in fondo politica — degli insegnamenti impartiti a Pisa in ambito corporativo: una ricezione, questa, che a giudicare dall’andamento delle carriere scolastiche e dell’assiduità e dell’ampiezza della collaborazione giornalistica dei singoli allievi “corporativi” fu oltremodo positiva. In altre parole, messa da parte la tentazione — tramandata dalla memorialistica, ma ormai smentita a livello storiografico — di leggere la partecipazione dei giovani universitari alla vita politica e culturale del Regime secondo la figura zangrandiana dell’“antifascismo inconsapevole”, diventa chiaro come all’interno del “cantiere di Bottai” il Regime, grazie alla suggestione corporativa (con forti venature tecnocratiche, tipiche del gerarca romano), fosse riuscito sostanzialmente a centrare l’obiettivo di creare un embrione di classe dirigente, da inserire a vario titolo nelle strutture dello Stato corporativo. Una classe dirigente, oltretutto, di elevata preparazione culturale e specializzazione in ambito giuridico ed economico.172

Inoltre la ricchezza delle polemiche e dei dibattiti, riportati puntualmente dai più accurati volumi sull’argomento, come quelli di Buchignani e Parlato (che ha definito «progetto mancato» il fermento acceso dalla «sinistra»), ci portano a una riflessione firmata Rasi, che riconobbe alla teoria corporativa una sua autonoma caratterizzazione nell’ambito del pensiero scientifico. Purtroppo la guerra ormai iniziata vedeva il passaggio dall’economia corporativa di pace all’economia statalista di guerra e le necessità di questa sommergevano ogni ulteriore evoluzione. Nel dopoguerra il livore antistorico (e anche la viltà di molti chierici) facevano partire da sotto zero gli studi e molti giovani ricercatori erano fuorviati dai maestri, «pentiti» rimasti in cattedra o di nuova nomina. [. . . ] Lo storico ed economista Massimo Finoia, proveniente dal filone marxista–sraffiano [. . . ] ha affermato, in risposta a chi sosteneva il fallimento del corporativismo, che, al contrario non può storicamente parlarsi di fallimento perché esso era in pieno svolgimento teorico e sperimentale quando il conflitto mondiale ne interruppe il corso. [. . . ] Al contrario, ha affermato sempre Finoia, un fallimento è stata la cosiddetta programmazione democratica che ha avuto più di un ventennio per prepararsi ed esprimersi e che dal 1954 (Piano Vanoni) al 1974 è stata tentata in un periodo tra i più tranquilli e prosperosi della storia economica del mondo.173 172. F. Amore Bianco, Il Cantiere di Bottai, cit., p. 24. Il passo si chiude mettendo in evidenza i nodi centrali della questione fascismo–corporativismo e del suo ipotetico futuro: «Tale successo, beninteso, lasciava del tutto irrisolti quegli interrogativi che molto probabilmente, nel caso di sopravvivenza del Regime alla guerra, si sarebbero drammaticamente aperti davanti allo stesso gerarca, e cioè il problema dell’autonomia della classe dirigente e, non meno importante, quello della capacità del fascismo di succedere al suo capo». Ibidem. 173. G. Rasi, Necessità di strutture unitarie e finalizzate per l’economia italiana, cit., pp. 33–34. Il passaggio si conclude poi ribadendo validità e attualità che secondo l’autore conserva la teoria

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L’idea della scientificità del pensiero corporativo è stata d’altronde il leit motiv della produzione di questo studioso vicino al Movimento Sociale Italiano: Nella visione corporativa la scienza economica non limita il suo compito alla discussione del rapporto mezzi–fini, ma analizza l’eticità di entrambi, e ciò in quanto tutti i fini intermedi sono rapportati ai fini ultimi della giustizia sociale e del benessere nazionale, come sintesi del bene comune, in cui interesse individuale e interesse dello Stato non debbono trovarsi in alternativa, ma debbono trovarsi in intrinseca coincidenza. Da qui deriva la nuova concezione, autenticamente scientifica, del concetto di legge economica non più fondata sull’astrattezza dell’homo oeconomicus, ma sulla concretezza dell’uomo sociale.174

Nonostante le assonanze, si tratta di un’idea da non confondere col socialismo e le sue basi, che restano nello stesso “campo” dell’idea liberale. Lo stesso Rasi rispose a chi, come Landi, lasciò trasparire l’idea di un corporativismo quale «socialismo senza Marx»: Il corporativismo di Mussolini non è un socialismo senza Marx se non nel senso in cui talvolta si usa il termine socialismo per indicare la socialità dell’uomo, quel superiore sentimento cioè che risolve i contrasti nati tra gli egoismi degli individui. Quel “senza Marx” è più significativo di quanto si creda: il filosofo di Treviri infatti ha costruito il suo socialismo scientifico partendo dall’egoismo di Smith e dalla divisione in classi di Ricardo; in altre parole il marxismo è un filone dell’economia classica fondata sul principio del tornaconto individuale. Senza Marx il socialismo non può sfociare che nel corporativismo, ossia nella dottrina dello Stato unitario articolato nelle categorie che lo compongono e che concepisce l’economia come scienza dei mezzi e l’interesse generale superiore all’interesse dei singoli proprio per aVermare la moralità della persona umana.175

L’attuazione di questa dottrina ha portato Gregor a sostenere, in controtendenza con la visione storiografica prevalente: in questione: «Oggi la dottrina corporativa, nelle sue basi filosofiche, giuridiche ed economiche, assume una particolare validità non soltanto quale risposta alla crisi delle vecchie concezioni — ossia non solo quale rimedio alle insufficienze dello Stato liberaldemocratico — bensì quale concezione specifica per interpretare ed esprimere la nuova società della partecipazione diffusa e delle decisioni decentrate nell’ambito della programmazione unitaria e per realizzare la nuova economia prodotta dalle tecniche avanzate e dalle comunicazioni in tempo reale. Il sistema dottrinale corporativo [. . . ] si presenta perciò come l’unico in grado di assicurare un livello di civiltà superiore per i singoli e per i popoli». Ivi, p. 34. 174. G. Rasi, F. Tamassia, Fondamenti di Corporativismo, ISC, Roma 1979, p. 85. 175. Prefazione a: A.G. Landi, Mussolini e la Rivoluzione Sociale, ISC, Roma 1983, p. 6.

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I fascisti giunsero a controllare l’economia italiana molto più ampiamente di quanto potesse fare qualsiasi governo «liberale» o «capitalista». E, in ultima analisi, fu il fascismo, e non la coalizione di classi possidenti a giungere a controllare il sistema politico ed economico. [. . . ] I fascisti stabilizzarono il sistema e gli elementi possidenti furono compensati per il loro impegno nel sistema, ma il fascismo andò con una certa regolarità contro i loro «concreti e reali interessi» e si impose all’Italia come una nuova classe dirigente che godeva di notevole autonomia nella determinazione della politica.176

Partendo da questi commenti si può formulare un’interpretazione che vuole essere un’ipotesi di lavoro in vista di ulteriori dibattiti e approfondimenti sul tema: la «terza via» sembra emergere quale «insubordinazione fondante» (termine coniato dallo studioso argentino Marcelo Gullo, influenzato dalle teorie di Friedrich List) italiana177 . Con questa definizione si vuole indicare il momento storico in cui un paese si ribella ai precetti economici liberisti per garantirsi l’unica possibilità di sviluppo autonomo: intervento statale e nascita di un solido settore industriale basato sulle eccellenze nazionali. Per capire meglio il concetto si possono usare le parole del politico e prof. argentino Aldo Ferrer, in cui non mancano richiami all’attualità: Lo sviluppo implica l’organizzazione delle risorse di ogni paese per mettere in moto i processi di accumulo in senso lato. Il processo non è delegabile a fattori esogeni che, abbandonati alla propria dinamica, disarticolano lo spazio nazionale e lo organizzano attorno a centri decisionali extranazionali. Pertanto rendono vani i processi di accumulo e quindi lo sviluppo. Un paese può crescere, aumentare la produzione, l’occupazione e la produttività dei fattori sotto lo stimolo di fattori esogeni come avvenne in Argentina nella fase di economia primaria di esportazione. Ma può crescere senza sviluppo, e cioè senza creare un’organizzazione dell’economia e della società capace di muovere i processi di accumulo inerenti allo sviluppo o, per dirla in un altro modo, senza incorporare le conoscenze scientifiche e le loro 176. A.J. Gregor, Il fascismo. Interpretazioni e giudizi, Pellicani 1997, pp. 235–236. La prima edizione originale vide la luce negli Stati Uniti d’America con il titolo: A.J. Gregor, Interpretations of fascism, General Learning Press, Morristown (NJ), 1974. Interessanti in particolare i dati e le considerazioni relativi all’economia italiana sotto il fascismo: ivi, pp. 126–139. Sulle stesse posizioni Mosse: «La supremazia dell’azione politica fascista sull’aspetto economico rimane un fatto: il mito spinse gli interessi economici in una posizione servile». G.L. Mosse, Il fascismo. Verso una teoria generale, Laterza, Bari 1996, p. 44. 177. M. Gullo, Insubordinazione e sviluppo. Appunti per la comprensione del successo e del fallimento delle nazioni, Fuoco Edizioni, Cosenza 2014.

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Francesco Carlesi applicazioni tecnologiche nell’insieme della loro propria attività economica e sociale. [. . . ] Come sostiene Raul Prebisch, il primo requisito di una strategia eYcace è rifiutare il pensiero “centrale” e cioè l’insieme di teorie elaborate dai paesi dominanti per regolare le relazioni internazionali e le politiche pubbliche nel resto del mondo a beneficio dei propri interessi. Ad esempio, i vantaggi comparativi della teoria classica del commercio internazionale o, attualmente, la razionalità inerente al comportamento dei mercati finanziari della teoria delle aspettative razionali. Da questa teoria nascono le raccomandazioni di subordinare le politiche pubbliche alle aspettative dei mercati e la riduzione dello Stato alla condizione di mero garante del libero gioco tra le forze economiche. [. . . ] Nella cornice degli straordinari cambiamenti prodotti dalla continua rivoluzione tecnologica e scientifica, lo sviluppo continua a essere essenzialmente un processo di costruzione nazionale e lo Stato lo strumento di vocazione e capacità di trasformazione di una società.178

Nella ricostruzione di Gullo, dalla fine del XV secolo ogni paese (dalla Spagna all’odierna superpotenza americana) ha storicamente trovato la sua dimensione, sovranità e potenza grazie alla creazione di un forte sentimento comunitario e un industria protetta dalle interferenze estere. Momento che, nel caso italiano, non può che coincidere con il varo dello stato sociale, dell’IRI e del sempre più convinto dirigismo durante il Ventennio, accompagnati dallo sforzo teorico del corporativismo, che ambiva a lanciare un autonomo messaggio di civiltà a livello internazionale e a mettere in crisi la fortuna delle teorie liberali. Prima di allora, semplificando, la situazione era stata controversa: alcune politiche protezionistiche avevano favorito una discreta crescita economica e industriale (periodo Depretis in particolare), senza però progetti di ampio respiro 178. Introduzione a ivi, pp. 13–14. «Lo sviluppo dell’Italia del dopoguerra ha le sue basi in ciò che era stato impiantato negli anni ’30 e nei primi anni ’40 (perché lo sviluppo dell’economia italiana è avvenuto anche durante la guerra fino a tutto il ’42). Tale sviluppo deriva dalla politica volta a porre la media e piccola impresa in condizione di accedere ai prodotto di prima lavorazione, cioè ai prodotti di base e ai semilavorati. Ebbene queste produzioni di base furono garantite dalle aziende a prevalente capitale pubblico. Le lavorazioni successive, quelle intermedie, e le lavorazioni dei prodotti finali, hanno sviluppato la piccola e media impresa, ossia il tessuto imprenditoriale autonomo. Consideriamo la siderurgia. Non si sarebbe potuto produrre automobili, elettrodomestici, macchine utensili (ossia nessuna di quelle merci che hanno consentito l’espansione di quel periodo) se non ci fossero stati prima i laminati, se prima non ci fossero stati i prodotti di base. E la produzione di base non può essere avviata, specialmente in un’economia in fase di sviluppo, che attraverso un capitale pubblico». G. Rasi (a cura di), La Nuova Rivoluzione Culturale. Dibattito sul futuro del corporativismo, ISC, Roma 1990, p. 225.

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e reali cambiamenti sul piano sociale (pensiamo a Bava Beccaris “promosso” senatore) e nella condotta dei grandi gruppi privati che si stavano sviluppando. Un primo vero “decollo” industriale si ebbe solo con Giolitti, frenato poi dal fallimento del suo progetto di allargamento della base sociale dello Stato liberale e dai suoi errori di valutazione sia di fronte alla guerra che all’ascesa di Mussolini. Inoltre, la massiccia emigrazione verso l’estero, che il fascismo riuscirà a frenare con successo, costituiva un aspetto tra i più dolorosi per la popolazione, irrisolto da decenni. Grandi ha così fotografato la situazione immediatamente successiva all’unità d’Italia: Troppo debole la struttura economica interna, troppo forti le pressioni internazionali che tendevano a conservare l’Italia in questo stato di sudditanza, di dipendenza economica, di specializzazione in settori assolutamente non strategici. Rotschild e le altre società finanziarie parigine controllavano banche, industrie, ferrovie. Detenevano titoli pubblici italiani e determinavano il cambio franco–lira a seconda dei propri interessi, che non erano mai quelli dell’Italia.179

Il fascismo cercò invece di basare sempre più lo sviluppo su «capitali italiani autonomi»180 , controllando e coordinando elementi come i consumi e le migrazioni interne, al fine dello sviluppo e della potenza nazionale. Con tutti i suoi limiti, la spasmodica ricerca della massima indipendenza economica e industriale (e non secondariamente culturale), dettata anche dall’autarchia iniziata successivamente alle sanzioni della Società delle Nazioni (causa guerra all’Etiopia, 1935–1936), darà vita a istituti di cui beneficerà nel dopoguerra tutto il paese. Posizione su cui, per chiudere, troviamo ancora Gregor: Dopo vent’anni di governo fascista, quasi completamente priva delle risorse naturali necessarie per l’industrializzazione, dopo essere stata coinvolta in una recessione mondiale, dopo diverse avventure militari e una guerra disastrosa, l’Italia del secondo dopoguerra ereditò una base economica 179. A. Grandi, T. Alquati, Eroi e cialtroni, cit., p. 26. 180. A.J. Gregor, Il fascismo. Interpretazioni e giudizi, cit., p. 229. Per capire: «Fu per ridurre il deficit commerciale con l’America che venne intrapresa la battaglia del grano e per sottrarsi alla soggezione della Standard Oil (e della Shell) che nel 1926 fu costituita l’AGIP, tramite la quale l’Italia importava dalla Russia un terzo dei prodotti petroliferi ad un prezzo “politico”, ridotto rispetto a quello delle società anglosassoni». C. Damiani, Mussolini e gli Stati Uniti (1922–1935), Cappelli, Bologna 1980, p.308.

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Francesco Carlesi inaspettatamente solida. In meno di un decennio dopo la Seconda guerra mondiale, l’Italia ebbe il suo «piccolo miracolo economico» e divenne una società a forti consumi di massa.181

181. A.J. Gregor, Il fascismo. Interpretazioni e giudizi, cit., p. 229. «La stessa espansione avutasi in Italia con le Partecipazioni Statali nel dopoguerra, il “dirigismo” di Enrico Mattei, i tentativi falliti di una “programmazione democratica” negli anni ’60 dopo il convegno di San Pellegrino soprattutto a iniziativa di Fanfani, la riforma agraria degli anni ’50 sarebbero stati tutti impensabili senza le bonifiche integrali fasciste, la fondazione dell’IRI [. . . ], l’autarchia. Molti degli economisti e dei meridionalisti del nuovo regime, come Menichella e Saraceno, erano stati allevati alla scuola dell’IRI fascista». G. Fergola, Le «politiche di piano» negli anni Trenta, «Rivista di Studi Corporativi», anno XVI, 4–5, p. 333.

L’economia nello stato totalitario fascista ISBN 978-88-255-0372-2 DOI 10.4399/97888255037226 pag. 203–214 (giugno 2017)

Historia del Corporativismo en Italia Del desarrollismo económico al Estado fascista Sergio Fern·ndez Riquelme⇤

Introducción A inicios del siglo XXI sigue siendo necesaria una síntesis historiográfica del Corporativismo italiano, cuyo Estado fascista es considerado, y sigue siendo considerado, como el paradigma interpretativo del modelo de construcción político–social corporativo, especialmente de su modalidad autoritaria/totalitaria. Pese a que fue España, de la mano del ministro Eduardo Aunós, quién institucionalizó bajo la dictadura de Miguel Primo de Rivera (1926) el primer gran sistema estatal corporativo, la historia sigue dando la génesis del mismo al fascismo transalpino, quizás por el amplio debate teórico protagonizado, quizás por la profunda huella dejada por el régimen político que la alumbró1 , quizás por la propaganda político–mediática en sus años de desarrollo. Asimismo, como muestra Gonzalo Fernández de la Mora el corporativismo desarrollado en Italia entre 1922 y 1945 se limitó, fundamentalmente al ámbito económico y laboral; en el político solo se llegó establecer un Consejo de Corporaciones de carácter meramente consultivo, convertido de facto en instrumento estatal de encuadramiento de las masas sindicales2 . Pero ⇤

Historiador y Profesor de Política social – Universidad de Murcia. 1. Huella también marcada, a modo de ejemplo y a nivel religioso–espiritual, en las relaciones entre Estado e Iglesia. Vid. A. Messina, La religione cattolica nell’“armonico collettivo” fascista, en «Il Pensiero Storico», 1, 2016, págs. 128–141. 2. «Efectivamente, el fascismo italiano propugnaba un Estado corporativo, pero mucho más en los económico que en lo político, ya que la representación orgánica y profesional apenas fue ensayada». Por ello representaba un medio de control estatal del pluralismo socioeconómico de carácter obrero–asalariado; ante el individualismo profesional y el sindicalismo de clase, el corporativismo fascista sometía al trabajo organizado en un ordenamiento jurídico y una estructura institucional jerárquico y unitario, que subordinaba directamente la corporación al Estado fascista. Véase G. Fern·ndez de la Mora, Los teóricos izquierdistas de la Democracia Orgánica. Barcelona, Plaza y Janés. 1985, pág. 10.

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la experiencia corporativa italiana también nos muestra los orígenes socialistas, no solo del corporativismo, sino del mismo ideario político–social del fascismo; el filósofo Ugo Spirito [1896–1979]3 , ejemplo de esta raíz socialista, se dio cuenta de la realidad limitada de la corporación fascista, e intentó llegar más allá con su corporativismo integral, comunista y jerárquico4 . Claves que nos introducen en un tema complejo y polémico en el campo de la Historia de las Ideas (IdeenGeschichte). F.J. Conde señaló al respecto que Italia aspiró crear el paradigma del Estado corporativo como Estado total; para ello estableció, progresivamente, una nueva organización jurídico–política de las relaciones económicas como realidad histórica concreta. Partiendo del objetivo político de regular jurídicamente los intereses colectivos formados en el campo de las relaciones económicas, el Estado al asumir ese objetivo y crear su ordenamiento (alterando con ello la estructura constitucional demoliberal), se convertía en “Estado corporativo” donde el poder público se erigía así en “representante político único del interés general” controlando el desenvolvimiento de la producción nacional y extendiendo el orden jurídico–político a la esfera de las relaciones socioeconómicas colectivas5 . Pero la realidad fue bien limitada. Dos de las primeras propuestas corporativas en este sentido las encontramos en el programa autoritario y corporativo de la Asociación nacionalista italiana (ANI), para erigir la futura Italia imperial, y en ciertas medidas del gobierno de Salandra–Sonnino, que buscó fórmulas de reforma corporativa de la Constitución liberal desde 19156 . 1. El nacionalismo: la necesidad del desarrollismo económico La pluralidad inicial de concepciones en su seno se agrupaba en tres conjuntos de teorías sobre «la relación entre Estado y Sociedad”: en primer lugar se encontraban los autores que defendían la instauración de un sistema de economía corporativa (Arias, Forel y Carli), en función de un principio de organización subordinada a los intereses 3. Círculo Capitolio, Ugo Spirito: del fascismo disidente al marxismo heterodoxo, en «Hespérides», 13, Madrid, Primavera 1997, págs. 134–139. 4. U. Spirito, Capitalismo y corporativismo, Firenze, Sansoni, 1933, págs. 3–24. 5. F.J. Conde, Introducción al Derecho político actual. Granada, Comares, 2006, págs. 258 sq. 6. Ídem, págs. 286–288.

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superiores de la economía nacional y que fundamentaría un orden jurídico adecuado a esos fines (concepto social del corporativismo propio del demoliberalismo); en segundo lugar aparecían los teóricos de la “identificación entre Individuo y Estado” (Spirito y Volpicelli), que soñaban con crear un “Estado ético” que trascendiera las fronteras italianas, identificando totalmente Estado y Sociedad bajo unos valores universales de organización y jerarquía (siguiendo al filósofo Gentile); en tercer lugar surgían un conjunto de doctrinas defensoras del Estado corporativo como “sistema especial de organización jurídica de las relaciones”, capaz de resolver institucionalmente el dualismo Estado–Sociedad, dando una estructura especial a las relaciones jurídicas7 . A ellos se unían el sindicalismo revolucionario de Adriano Olivetti [1901 —1960], Sergio Panunzio [1886–1944] y R. Michels [1876–1936]; de notables marxistas heréticos (entre ellos el mismo Mussolini8 ); el nacionalismo irredentista de Gabriele D´Annunzio [1863–1938]9 y Alceste de Ambris [1874–1934]; el corporativismo gremial de C. Rava10 y G. Mosca [1858–1941]; o el nacionalismo conservador de A. Rocco y C. Costamagna [1881–1965]11 . Ahora bien, el nexo común de todas estas propuestas fue la idea del nacionalismo desarrollista. Sindicalistas revolucionarios, futuristas, católico–sociales integrados o antiguos marxistas coincidieron en la necesidad de una base económica desarrollada y madura como paso previo para la creación de una auténtico y sostenible Stato organico. 7. Sobre estos primeros proyectos, el Estado corporativo italiano o «modo peculiar de organización política que Italia adopta al constituirse como gran potencia» — como apuntaba F.J. Conde — gozaba solo de una aparente unidad doctrinal. Ídem, págs. 268 sq. 8. Ernst Nolte fue uno de los primeros historiadores en señalar las decisivas «influencias ejercidas por Marx como por Nietzsche sobre el pensamiento socialista del joven Mussolini». Véase “Diálogo François Furet. Ernst Nolte”, en Hespérides nº18, 1998–1999, págs. 954–955. 9. Cuya obra clave fue Lo Stato come organismo etico (1914). 10. En La constituzione moderna (1887) hablaba de una nueva Cámara senatorial, con representantes de los gremios, las universidades y las profesiones liberales y obreras. 11. Carlo Costamagna, uno de los principales teóricos del fascismo, participó en el grupo de juristas oficiales que puso las bases legales del régimen corporativo italiano. Sus obras Diritto corporativo (1926), Elementi di Diritto Costituzionale (1929) y Dottrina del fascismo (1938) marcaron un camino intelectual continuado por su revista “Lo Stato”. En 1930 Costamagna fundó esta revista de ciencia política que cesó de aparecer en 1944 al ser derrotada Italia por los aliados. Convertida en publicación de relevancia europea, en ella no solo colaboraron filósofos e iuspublicistas de la talla de S. Pannunzio, R. Michels o J. Evola, sino también teóricos corporativistas de la talla de los austriacos O. Spann y W. Heinrich. Véase Alberto Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario. Turín, Einaudi, 1995/2, págs. 477–481.

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El “productivismo” fue el principio central de este nacionalismo, exigencia histórica y material para la renovación espiritual y material de la política y la economía italiana. Para A. Olivetti, la Italia agraria de principios del siglo XX solo sería una nación verdaderamente “soberana” con una industrialización acelerada y una clase obrera consciente de su unidad nacional12 ; R. Michels señalaba al respecto que la subordinación política, militar y económica de Italia respecto a las “plutocracias” industriales solo se superaría combinando desarrollo industrial y expansión militar13 . Este principio desarrollista sería la alternativa político–social italiana frente a una revolución rusa esencialmente “campesina”, muestra del fracaso de las teorías y predicciones marxistas. Frente a ella, el fascismo podría llevar a cabo una verdadera revolución social no desde el materialismo y mediante la lucha de clases, sino desde el organicismo y mediante el corporativismo. Ante la burocracia soviética, Sergio Panunzio14 defendía la statocrazia como criterio rector la Revolución fascista; sería la dictadura del Estado nacional sobre toda la nación, frente a una dictadura del proletariado que se limitaba a reproducir el dominio de una clase sobre otra. B. Ricci proclama así la superioridad del fascismo sobre el leninismo, hecho advertido por el propio Stalin15 . Pero finalmente, esta unidad ideológica se consiguió, en gran medida, tras la ruptura del socialismo histórico italiano, clave para el desarrollo ulterior del fascismo16 . 12. A.O. Olivetti, Cinque anni e di lotta porletaia in Italia. Nápoles, Partenopea, 1914, págs. 3 y 4. 13. R. Michels, L´Imperialismo italiano. Roma, Libraria, 1914, págs. 8 y 9. 14. Sergio Panunzio, filósofo, jurista y sindicalista revolucionario, en La Persistenza del Diritto. Discutendo di Sindacalismo e di Anarchismo (1909) exponía las líneas maestras del nuevo edificio jurídico–político que debía levantarse sobre la realidad del sindicalismo. El Estado corporativo de Pannunzio debía ser la representación de este esquema a través de una amplia y concisa regulación jurídica (La Camera dei fasci e delle corporazioni, 1939; Teoria generale dello stato fascista 1939), Teoria generale dello stato fascista, 1939; Spagna nazionalsindacalista, 1942; y Motivi e metodo della codificazione fascista, 1943). 15. Publicado como B. Ricci, I´l fascismo di Stalin, en «Critica fascista», nº 18. Roma, julio de 1937. 16. Muchos de los primeros fascistas italianos fueron destacados militantes del marxismo de principios del siglo XX; se unieron a un nacionalismo desarrollista, corporativo, irrendentista y estatista, que al calor de su contrarrevolución anticomunista alojó una propia revolución nacional de tintes sociales y colectivistas. El mismo Mussolini proclamaba que Italia, como nación atrasada materialmente pero dotada de un vasto espíritu histórico trascendente, debería encabezar una revolución, primero nacional, después internacional, frente a las plutocracias

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Por ello, y no tan paradójicamente, a esta empresa se sumaron el sindicalismo revolucionario y el marxismo herético, participando en la “solución corporativa” como tecnificación de la política ante la crisis del sistema demoliberal italiano, y ante la crisis material y moral derivada de la “humillación” de la primera posguerra mundial. Andrea Ruini recuperó años antes las preocupaciones corporativas del sector “gremialista” del sindicalismo socialista; éste, encabezado por Rinaldo Rigola [1868–1954], fundador de la Confederazione Generale del Lavoro (1908), defendía una doble representación legislativa: un Parlamento político y una Asamblea corporativa (económica, sindical, profesional); en la misma línea se manifestaba su órgano de prensa Bataglie Sindicale (1919), que proclamaba en sus editoriales o una asamblea Constituyente del trabajo o un Consejo Superior del Trabajo con funciones legislativas17 . Asimismo, entre 1921 y 1922, surgieron propuestas corporativistas de otros sectores políticos socialistas italianos, como las del líder sindical de correos, telégrafos y teléfonos Odon Por, o del mismo F. Turati, fundador del Partido Socialista italiano, quien apostaba por convertir al Consejo Superior del Trabajo en un auténtico Parlamento del Trabajo. Mientras, desde el socialismo político, Filippo Turati, Antonio Gramsci y Henri de Man (con su corporativismo “societario”) irán más lejos al hablar de una fase transitoria de “estado corporativo” capaz de sustituir el Estado liberal y la Economía capitalista18 . El corporativismo italiano respondió al intento de erigir una nueva y original “economía política”, alternativa y mediadora ante el Socialismo y el Liberalismo19 . occidentales; estas, monopolizadoras de las riquezas mundiales, se enfrentarían a Estados nacionales sostenidos por ciudadanos obreros y soldados, concientes de una misión nacional e histórica “superior de alcanzar el propio “spazio vitale” (como sostenían Dino Grande, Domenico Soprano y Sergio Panunzio). Véase B. Mussolini, La nueva politica stera, en Opera omnia, vol. XIX. Florencia, La Fenice, 1964, págs. 130 sq. Cfr. S. Panuzio, Il sentimiento dello Stato. Roma, Vittorio, 1929; y Curzio Malaparte, Impropietà naturale e storica del socialismo nostrano, en L’Europa vivente e altri saggi politici (1921–1931), Firenze, Vallechi, 1961. 17. A. Ruini, Socialismo corporativo en Italia, en «Razón Española», 51, Madrid, enero de 1992, págs. 31 sq. 18. D. de Napoli, El corporativismo en Italia, «Revista de estudios políticos», 206–207, 1976, págs. 325–326. 19. A. Cardini, L’elaborazione di una “teoria dell’economia nazionale” fra il 1914 e il 1930, en «Quaderni di storia dell’economia politica», vol. VIII, n. 2–3, 1990; E. Zagari, La teoria economica del corporativismo, en La teoria economica del corporativismo di Luigi Amoroso, «Quaderni di storia dell’economia politica», vol. VIII, 2–3, 1990, y Gino Arias, Economia corporativa. Firenze, Casa edit. poligr. univ., 1934.

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Sobre este bagaje ideológico, el punto de partida para la institucionalización estatal del corporativismo organicista se sitúa, usualmente, en un hecho simbólicamente relevante: el militar y literato Gabriele d´Annunzio y el sindicalista A. de Ambris plantearon, el 27 de agosto de 1920, un “Estado libre de Fiume”, curiosa utopía de restauración gremial–medieval, proyectada tras la invasión de la región yugoslava de Fiume, y sancionada en la autotitulada “Regencia Italiana”; esta regencia proclamaba en la “Carta de Carnaro” lo siguiente: Ampliamente y por arriba de cualquier otro el derecho de los productores, anulaba y reducía la excesiva centralidad de los poderes constituidos, dividía las fuerzas y los cargos, de manera tal que por el juego armónico de las diversidades se vigorice y enriquezca cada vez más la vida común.

2. El fascismo: el inconcluso Estado corporativo Estas tradiciones estuvieron durante la primera fase de construcción del régimen fascista [1922–1925]20 . A través de un inicial sistema autoritario y semipluralista, se integró a los sectores radicales de izquierda (comunistas), derecha (annuzistas) y a los militares de carrera (mediante el MVSN)21 , y comenzó a controlar de manera total los resortes institucionales (1924). El fascismo no inventó el corporativismo, sino que fue un modo específico, con distintas versiones, de entender la ideología corporativa; pero pese a ser elevada a doctrina económica oficial del Estado fascista, apenas tuvo alcance político. El primer pilar del ordinamento corporativo fascista se dio el Congresso sindacale di Bologna (enero de 1922), donde las organizaciones sindicales fascistas adoptaron como organismo común, reagrupándose en cinco grandes corporaciones por sectores productivos. El nuevo organismo se llamó Confederazione generale dei sindacati nazionali, dirigida por Edmondo Rossoni. Tras un crecimiento cuantitativo notable, estas corporaciones fascistas se enfrentaron mediante las squadre d’azione contra el sindicalismo católico y socialista. Pese a la aparente unidad interna, Rossoni encabezaba la corriente defensora de un sindacato unico e obbligatorio independiente (con funciones más de formación obrera que de defensa de derechos clasistas); de 20. Véase Primo Bino Bellamo, Dallo stato liberale alla politica corporativa, Pádova, CEDAM, 1936. 21. S.G. Payne, El fascismo, Madrid, Alianza Editorial, 1982, págs. 77–81.

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otro, los políticos fascistas, temiendo una excesiva expansión del sindicalismo unitario, lo limitaron a organo sussidiario dello Stato. Esta última corriente consiguió imponer sus tesis al organismo consultivo conocido como la Commissione dei Diciotto (o “dei Soloni”), presidida por Giovanni Gentile y con tres economistas políticos en su nómina: Arias, Gini e Lanzillo. La segunda fase de este proceso [1925–1929] alumbró la definición doctrinal del Estado corporativo. En este periodo, el corporativismo jugó un papel decisivo en la delimitación de la táctica y de la teoría del régimen, fundamentando desde 1925 un organismo que preparase «la nuova legislazione dello Stato fascista». Se promocionó la idea de un nuevo instituto de derecho público que coordinase y limitase la acción de los sindicatos del trabajo, formalmente libres de organizarse como asociaciones de hecho pero no de derecho (reconocimiento jurídico reservado al sindicato fascista). En este proceso, la sinistra sindacalista de Rossini persistió en su ideal de un capitalismo di Stato socialmente avanzato, intentado que el Gran Consiglio del fascismo reconociese la l’istituzione del sindacato unico e il riconoscimento alle corporazioni di alcune funzioni normative (en materias de disciplina laboral y coordinación de la producción22 ). Pero en octubre de 1925, el acuerdo del patto di Palazzo Vidoni abolía las comisiones internas de fábrica, y hacía que la Confederazione generale dell’industria reconociera al sindicato fascista como legítima contraparte socioprofesional en la elaboración de los convenios colectivos del trabajo (desarrollado en abril de 1926 con una ley sobre contratti collettivi). En julio se creó finalmente Ministero delle Corporazioni, aunque solo empezó a funcionar en 1929 de la mano de G. Bottai. Al mismo tiempo, y por la misma ley, se creó el Consiglio nazionale delle corporazioni, inicialmente concebido como órgano consultivo del ministerio. El ordinamento corporativo fue completado administrativamente cuando, en 1939, se produjo la transformación del Consiglio nazionale en una Camera dei fasci e delle corporazioni, sustituta definitiva de la vieja Camera dei deputati. Este modelo corporativo fascista nacía como exigencia de las clases dirigentes de encauzar de manera controlada y eficaz, a través del encuadramiento corporativo del trabajo organizado, la transición de un modelo económico eminentemente agrícola a otro de 22. A.J. Gregor, Los rostros de Jano. Marxismo y fascismo en el siglo XX, Madrid, Biblioteca Nueva–Universidad de Valencia, 2002, págs. 217–220.

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acelerada industrialización. Las leyes laborales sancionadas en 1926 y 1927 insistían en la responsabilidad del Estado en el control de las organizaciones sindicales. La Corporazione aparecía como un elemento funcional de unificación político–social, subordinada totalmente a la autoridad del Estado, como defendía Farinacci, y reflejo de la movilización nacionalista. Así lo concibió Alfredo Rocco, quién la dibujó sometida las exigencias generales de desarrollo económico, y que así prevaleció sobre las creaciones puristas o integrales de Spirito23 . La corporación se sometía al Estado, como creación y como organismo24 . La visión integral de Spirito, en cuanto a ideal práctico, remitía al art. 1 de la Carta del Trabajo: el individuo se encontraba subordinado a la Nación, dotada ésta de una existencia, de unos fines y medios de acción superiores en poder y duración, y a la Nación identificada con el Estado fascista en el cual ella se realiza íntegramente. Spirito participaba con ello en una generación de juristas y pensadores dedicados a fundamentar la totalidad del Estado fascista en la sociología, en la política, la economía, en la psicología, e incluso en la mística. La biología social de A. Rocco y la necesidad espiritual de S. Panunzio convergían, como idealismo y socialización en Ugo Spirito. Así, el Estado fascista nacido como expresión absoluta del devenir del espíritu, como síntesis entre lo universal y de lo individual, encarnaba los derechos y deberes individuales al servicio de la totalidad nacional25 . Éste era el proceso, mutatis mutandis, para alcanzar el Estado orgánico, formulado en el plano heurítico por Othmar Spann [1878–1950]26 . El corporativismo aparecía, en todo momento, como el instrumento político–social adecuado; como una nueva síntesis absoluta entre las 23. V.B. Mussolini, Lo stato corporativo. Firenze, Sansoni, 1936, pág. 8. 24. Para Farinecci “el corporativismo no puede prevalecer sobre las funciones del Estado”, ya que “el Estado crea la corporación, llama a los sujetos que allí trabajan y producen en un determinado ramo de la producción, los hace discutir, los organiza, los disciplina y los orienta”. Por ello, para el mismo Mussolini, el sindicalismo no era un fin en su mismo, ya que o derivaba en el socialismo político o en la corporación nacionalista; esta última era el lugar donde se realizaba el fin de colaboración de todas las fuerzas productivas de la nación. Recogido por L. Incisa (1982); “Corporativismo”, en BOBBIO, Norberto Bobbio y Nicola Matteucci, Diccionario de política, vol. I (A–J), Madrid, Siglo XXI, 1982, págs, 433–435. 25. U. Spirito, Dall’economia liberale al corporativismo, Messina Milano, Stampa, 1939 26. La obra de Spann se difundió por Italia gracias a su colaboración con Julius Evora en la revista Régimen Fascista (en concreto en la página cultural “Diorama filosofico”) y en la revista jurídica de Carlo Costamagna Lo Stato.

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esferas de lo político y lo económico, que partía de la reorganización y modernización de las formas de producción y relación económicas (sometiéndolas a un ideal colectivo superior, bien nacional, bien internacional), y se completaba con una transformación de la forma política estatal (integrando los criterios técnicos de la revolución científica). De la fusión y mutación de ambas esferas nacía un nuevo régimen social: el comunismo jerárquico. El desmantelamiento teórico del liberalismo era el punto de partida, el corporativismo constituía el instrumento para alcanzar los fines, y el colectivismo y la industrialización eran las recetas de Spirito. La corporación se convertía, así, en un bloque industrial–productivo autónomo destinado a resolver el ulterior desarrollo del aparato económico italiano y alcanzar la constitución orgánica de la nación. Los criterios técnicos dirigirían su implantación, eliminado los elementos semi–feudales, individualistas y “parasitarios”, y reconociendo derechos sociales a la propiedad solo a los “productores”27 . Pero la Ley de 3 de abril de 1926 mostraba a Patrick de Laubier como las corporaciones fascistas fueron simples órganos burocráticos del Estado para regular y centralizar la actividad económica, y someter al movimiento sindical; esta fue la función «intermédiairie des organisations corporatives». El corporativismo fascista resultó ser un simple mito para Laubier; un myhte terminológico inspirado en doctrinas católicas tradicionalistas del siglo XIX adaptado al ideario revolucionario sorealiano, a los principios estatistas y a la técnica dictatorial. “Ce mythe c´etait le Corporatisme” apuntaba De Laubier; se llegó a convertir en la “panacea universal” para hacer desaparecer obligatoriamente los antagonismos de clases y las divergencias entre las categorías productivas”. Así, el Decreto–ley de 24 de enero de 1924 establecía una distinción entre los sindicatos de “hecho” y los 27. El control político de la economía, el nuevo centro de gravedad del espíritu europeo, que llevaba al pluralismo autoorganizado, fue el gran objetivo del sistema corporativo del totalitarismo fascista. A través de la dictaduras técnicas se sustituiría los ineficaces regímenes parlamentarios del “liberalismo agnóstico” y se frenaría, imitando parte de su discurso revolucionario, al bolchevismo internacionalista. El corporativismo se volvía a conceptuar como alternativa político–social, pero en este caso en clave “estatista” (superando las fases pluralistas y constitucionalistas sobre lo corporativo); controlando la economía y su “pluralismo disgregador”, se recompondría la unidad de mando, la unidad de soberanía del Estado moderno. U. Spirito, Capitalismo e corporativismo, cit., págs. 110–120. Vid. S.F. Riquelme, La utopía del comunismo jerárquico. Política y sociedad en Ugo Spirito. Murcia, ISabor, 2010.

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“legales”, siendo solo estos últimos capaces de representar jurídicamente los intereses salariales de los trabajadores. Asimismo, la ley de abril de 1926 reservaba a los sindicatos fascistas el monopolio legal de la asociación y representación obrera–profesional; y en 1927 fueron eliminados los sindicatos no fascistas dentro de las Corporaciones, contempladas por la Carta del trabajo como «la organización unitaria de las fuerzas de la producción y el representante integral de sus intereses». En febrero de 1934 se instauró oficialmente el sistema corporativo, iniciando la burocratización de un sindicato fascista que llegaría a cinco millones de afiliados en 193628 . Sergio Panunzio, como Spirito desde 1932, denunció esta realidad burocrática: la parálisis revolucionaria del Estado corporativo tanto en su constitución antiliberal, como en su actuación nacionalsindicalista29 . Mussolini había proclamado en 1933 que tras la primera fase de cierto liberalismo económico, el Estado fascista emprendería la fase final de implantación del corporativismo como «total regulación orgánica y totalitaria de la producción, con vistas a la ampliación de la riqueza, el poder político y el bienestar del pueblo italiano»; esta solución llegaría incluso el modelo para la URSS. Pero la “economía mista” volvió a triunfar, y a someter a la Corporación como mecanismo de unión entre sindicatos y patronales, como regulaba la Ley de 5 de febrero de 1934; esta ley la definía simplemente “emanación de Estado” legitimada por decreto gubernamental30 . Así se encontrarían presididas por un ministro, un subsecretario estatal o el secretario del Partido nacional fascista; sus miembros serían designados por las asociaciones coaligadas y aprobadas por el Jefe de gobierno; su función normativa se centraría en la regulación colectiva de las relaciones económicas y se coordinaban a través del Consejo Nacional de Corporaciones; y dependerían jerárquicamente de la consultiva Cámara de los Fascios y de las Corporaciones, creada el 19 de enero de 1939, como sustitución de la antigua Cámara de Diputados de la monarquía liberal31 . El filósofo Spirito, cercano al socialismo revolucionario, compartió con el movimiento fascista la primera crítica 28. P. de Laubier, La Polítique sociale dans les societés industrielles. 1800 à nos jours. París, Economica, 1984, págs. 124–125 y 130. 29. S. Panunzio, L´Economia mista: dal sindacalismo giuridio al sindacalismo economico. Roma, Hoepli, 1936, págs. 8–11. 30. B. Mussolini, Lo stato corporativo. Vallechi 1936, págs. 9 y 10. 31. Véase G. Toniolo, L´Economia della Italia fascista. Roma, Laterza, 1980.

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al materialismo marxista, el desarrollismo industrializador, la fusión entre Estado y sociedad propugnada, y la ideología revolucionaria. Mussolini había definido a la Revolución fascista como la nueva era de desarrollo” de las naciones proletarias subdesarrolladas, como la italiana32 . El “productivismo” de la economía nacional propuesto resalta esta limitación del modelo corporativo italiano; fue meramente definido en términos eclécticos entre corporativismo y capitalismo, tal como proclamaba la liberal–conservadora Alianza Económica Parlamentaria en 1922. Para Tannenubaum, el corporativismo fascista se restringió, por ello, a un «control verdaderamente absoluto sobre el movimiento obrero», sin capacidad de intervención directa sobre las grandes industrias (Fiat, Pirelli, Banco de Italia). La arquitectura constitucional y los pactos intersectoriales desplegados durante la década de los veinte, pretendían construir una vía intermedia entre el liberalismo y el socialismo, un Estado que controlase a la empresa privada y que implantase la justicia social de manera ordenada y jerárquica; pero Tannenbaum insistía en su carácter propagandístico y controlador de los grupos sindicales, hasta equipararlo con el New Deal de F.D. Roosevelt33 . Lo corporativo aparecía, en el bagaje final, como la simple reorganización de la gestión de la economía por parte de la administración pública, aprovechando los medios únicos y obligatorios de encuadramiento profesional y obrero. El ordenamiento corporativo fascista, desde la Carta del lavoro (1927), contenía el ideal político–social que G. Bottai resumía de la siguiente manera: Superamento della contrapposizione tra capitale e lavoro mediante l’autogoverno delle categorie rappresentate nelle corporazioni, organo dello stato, senza il venir meno della proprietà privata, costituiva l’originalità delle linee di indirizzo in campo economico vantate dall’ideologia del regime fascista, che si poneva in alternativa all’ideologia liberale ed a quella socialista.34 .

De la mano de los ministros nacionalistas Rocco ( Justicia) y Federzoni (Interior), el sistema sindical fascista pasó de una estructura integrada por 13 sindicatos generales de regulación y representación de las principales esferas de la economía nacional (1926) a una estructura de 22 corporaciones de representación orgánica (1934). Todo ello 32. B. Mussolini, L´Italia e la grandi potenze en Opera omnia, vol. XIX, págs. 3 sq. 33. Véase E.R. Tannenbaum, La experiencia fascista: sociedad y cultura en Italia, págs. 120–123. 34. Guiseppe Bottai, Esperienza corporativa (1929–1934). Firenze, Vallecchi, 1934, pp. 22 sq.

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pese a la resistencia de Rossoni, dirigente de los sindicatos obreros fascistas, quién intentó sin éxito mantener viva una organización sindical autónoma35 . De este intento solo quedó cierta libertad a nivel regional y local, especialmente tras el sbloccamento (desbloqueo) de dichos sindicatos a nivel nacional, y la existencia de una gran patronal como Confindustria al lado de las instituciones corporativas de representación nominal. Este sistema se vio completado por la elaboración de un Diritto sindacal y corporativo (en el que participaron, entre otros, C. Sforza, V. Feroci, N. Jaeger, M. Pierro)36 que no contemplaba la corporativización integral y comunista del filósofo Spirito37 . Las tesis de autonomía, propiedad y decisión política de las corporaciones, propuestas por el filósofo Spirito para dar verdadera sustancia al Corporativismo fascista fue rechazada por la línea oficial del corporativismo subordinado de C. Costamagna y de los gerarchi del Partido, verdadero resultado histórico del proyecto corporativista en la nación transalpina38 .

35. Idea ya contenida en E. Rossoni, Le idee della riconstruzioe: discorsi sul sindacalismo fascista. Florencia, Bemporad, 1923 36. La importancia del desarrollo doctrinal del nuevo Derecho corporativo italiano, se puede observar en las siguientes obras: C. Sforza, Corso di Diritto corporativo Pádova, Cedam, 1935; Virgilio Feroci, Instituzioni di Diritto corporativo. Pádova, Cedam, 1940; N. Jaeger, Princippi di Diritto corporativo, Pádova, Cedam, 1939; M. Pierro, Princippi di Diritto corporativo, Bologna Nicola Zanichello ed., 1938. 37. Spirito, citando en todo momento la Carta del Lavoro, asumía el postulado industrializador, la necesidad de la colaboración jerárquica y autoritaria entre todos los elementos productores y el diagnóstico internacional del Duce, pero no lo limitaba a las fronteras italianas. El Estado no podía ser un simple intermediario entre las “asociaciones profesionales de dadores de trabajo” y los sindicatos de los trabajadores como defendía la patronal Confindustria; esta última exigió al Estado que impidiese la existencia de otras asociaciones patronales que pudiesen competir con ella, pero condenaba el sindicalismo no fascista, dejado al margen de la ley. Véase U. Spirito, Critica della democracia. Firenze, Sansoni, 1963, págs. 32 sq. Aunque años después definió sus propuestas como “comunistas”, para Tannenbuam éstas estaban más cercanas a las ideas de Proudhon, de los anarcosindicalistas y de los Comités de fábrica italianos de los años 1917 y 1918. Véase Edward R. Tannenbaum, La experiencia fascista. Madrid, Alianza, 1972, págs. 123 y 124. 38. G. Santomassimo, Ugo Spirito e il corporativismo, en «Studi storici», 1, 1973, págs. 61–113.

L’economia nello stato totalitario fascista ISBN 978-88-255-0372-2 DOI 10.4399/97888255037227 pag. 215–234 (giugno 2017)

Economia e popolazione in Africa orientale italiana e Libia 1936–1941 Gian Luca Podest‡⇤

1. L’Africa orientale italiana 1.1. Politiche economiche Il progetto imperiale corporativo congegnato dal regime fascista avrebbe dovuto coniugare la colonizzazione demografica contadina — che, oltre a mantenere vitali i tassi di natalità, avrebbe dovuto sostenere progressivamente i consumi cerealicoli — con l’installazione di una attrezzatura industriale di base per la produzione di beni di consumo e di materiali da costruzione al fine di ridurre la dipendenza dalla madrepatria. Nell’impero il duce intendeva creare un nuovo sistema sociale organico che coniugasse la colonizzazione demografica alle altre forme di valorizzazione dislocandovi «tutta l’attrezzatura della propria civiltà»1 . La colonizzazione fascista andava intesa, nello spazio e nel tempo, come «insediamento e potenziamento di popolo», ovvero come la trasposizione nei domini di tutti gli elementi produttivi della madrepatria, come contadini, operai, artigiani, impiegati, commercianti, piccoli imprenditori e intellettuali, aborrendo con ciò la colonizzazione di matrice capitalistica volta esclusivamente a beneficio di un ristretto ceto di privilegiati. Questa concezione esaudiva tre obiettivi fondamentali: preservare e moltiplicare la potenza numerica del paese, cementare la coesione razziale degli italiani nell’impero e in patria e, infine, promuovere l’elevazione sociale di grandi masse popolari. In Africa orientale italiana ⇤ Laureato in Storia all’Università degli Studi di Genova e ha conseguito il PhD in Storia economica e sociale e un MBA all’Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano. 1. R. Meregazzi, Lineamenti della legislazione per l’impero, «Gli Annali dell’africa Italiana», II, 1939, 3, p. 12.

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avrebbero dovuto coesistere assieme la colonizzazione demografica e quella capitalistica, la prima avrebbe dovuto assicurare, assieme ai contadini africani, l’autosuYcienza alimentare del dominio, mentre alla seconda (composta da imprese private e pubbliche) era aYdato il compito di creare le condizioni per assicurare alla madrepatria l’approvvigionamento delle materie prime. La politica economica elaborata per valorizzare l’Africa orientale italiana (AOI) si discostava dai modelli coloniali tradizionali: «Predisporre tutte le misure pratiche per vivere il possibile nel posto et chiedere alla madre patria lo strettamente indispensabile» aveva telegrafato Mussolini al maresciallo Graziani nel maggio 19362 . L’impero doveva tendere progressivamente all’autosuYcienza economica, sia per le risorse naturali, sia, almeno parzialmente, per i prodotti industriali: L’Africa orientale deve essere messa in grado di bastare a se stessa in ogni evenienza — ribadiva Alessandro Lessona nelle istruzioni programmatiche dell’agosto 1936 — cioè deve poter vivere, difendersi e oVendere senza l’aiuto della Madre Patria in previsione di qualsiasi eventualità politico —militare. L’attrezzatura agricola e industriale — ivi comprese le più elementari industrie di guerra, a cominciare nei primi tempi, dalla fabbricazione delle armi portatili — deve essere pertanto indirizzata a questo scopo fondamentale.3

Naturalmente l’AOI doveva concorrere anche all’approvvigionamento della madrepatria, nel quadro di quel sistema che poteva definirsi dell’autarchia imperiale, che tendeva idealmente al conseguimento della massima autosuYcienza possibile delle risorse per limitare al minimo indispensabile le importazioni dall’estero. Tuttavia, il prevedibile sviluppo della popolazione implicava necessariamente di assicurare nel tempo ai nazionali e agli africani l’autosuYcienza alimentare, e quel minimo indispensabile di attrezzatura industriale volta sia alla manutenzione e rigenerazione dei veicoli e degli impianti, sia alla produzione di merci di prima e assoluta necessità e di più largo consumo, come i materiali da costruzione, i prodotti tessili, le bevande, ecc., quando ne fosse accertata la convenienza della lavorazione in loco. L’autarchia dell’impero avrebbe conseguito tre obiettivi: 2. Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli AVari Esteri (d’ora in poi ASDMAE), Roma, Archivio Storico del Ministero dell’Africa Italiana (d’ora poi ASMAI), Archivio Segreto di Gabinetto (d’ora poi ASG), b. 160, Mussolini a Graziani, 26 maggio 1936. 3. ASDMAE, ASMAI, ASG, Alessandro Lessona (ministro dell’Africa Italiana) a Rodolfo Graziani, 2 agosto 1936.

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a) ridurre l’aggravio alimentare e finanziario della madrepatria (il costo dei noli e del passaggio del Canale di Suez, per esempio); b) consentire la disponibilità di risorse per almeno un anno in caso di guerra; c) avviare il ripristino delle esportazioni di prodotti dell’AOI (come il caVè e il sale, per esempio) al fine di accrescere le riserve valutarie e contribuire al miglioramento della bilancia dei pagamenti della madrepatria4 . Libera da condizionamenti e in perfetta coerenza con le concezioni totalitarie del regime, l’economia avrebbe dovuto essere strettamente controllata dallo stato, in misura assai superiore a quello che avveniva in patria: Abbiamo quindi oggi sia nel Regno che nell’Africa Italiana un sistema di economia controllato dallo Stato [. . . ] Si ha precisamente un controllo minore nel Regno, più accentuato in Libia e infine più rigoroso nell’Africa orientale italiana [. . . ] Il diverso controllo esercitato dallo Stato nel regno, in Libia e nell’Africa Orientale italiana è stabilito tenendo conto del diverso stadio raggiunto dall’economia nei vari territori.5

Capitale e lavoro avrebbero dovuto operare in concordia, secondo criteri e indirizzi preordinati formulati dal governo, e sempre sotto lo stretto controllo della pubblica amministrazione e del partito. Tutte le iniziative imprenditoriali e le domande di lavoro sarebbero state accuratamente vagliate e selezionate, e solo quelle giudicate idonee ai fini ideali e ai criteri definiti dalle autorità, sarebbero state approvate. Le finalità e i vincoli che conformavano il modello imperiale fascista possono essere adeguatamente definite come «colonialismo corporativo». Naturalmente per controllare e indirizzare l’economia fu creata un’apposita organizzazione corporativa composta dai Consigli coloniali dell’economia corporativa e dalle Consulte corporative dell’Africa Italiana6 . Fulcro di tutte le decisioni era il ministero dell’Africa Italiana (MAI), la cui funzione, almeno secondo Alessandro Lessona, era quella di essere una vera e propria «grande segreteria 4. Archivio Centrale dello Stato (d’ora in poi ACS), Fondo Graziani, b. 46, Lessona a Graziani, 10 novembre 1937. 5. ASDMAE, ASMAI, ASG, b. 66, Controllo delle attività economiche nell’Africa Italiana, s.d. (ma 1939). 6. G.L. Podest‡, Il mito dell’impero. Economia, politica e lavoro nelle colonie italiane dell’Africa orientale 1898–1941, Giappichelli, Torino 2004, p. 267.

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per gli aVari africani» alle dirette dipendenze di Mussolini7 , il quale ne seguiva e indirizzava giornalmente l’attività anche nei dettagli insignificanti8 . Una regolamentazione rigida era stata stabilita, come in Italia, anche in materia di commercio con l’estero, di cessione delle divise, del possesso di titoli emessi in altri stati e del commercio delle valute in genere. Rilevante avrebbe dovuto essere l’apporto delle imprese pubbliche riunite nell’Istituto per la Ricostruzione Industriale9 . Il regio decreto 26 giugno 1937, n.905, mediante il quale l’IRI diveniva ente permanente, prevedeva esplicitamente che l’istituto utilizzasse i propri mezzi per la partecipazione in grandi aziende che si proponessero la valorizzazione industriale e agricola dell’AOI o che avessero come fine precipuo la risoluzione dei problemi posti dalla necessità di conseguire il massimo dell’autarchia economica. L’intervento pubblico in AOI era finalizzato a due obiettivi: da un lato sostituire il capitale privato nei settori più rischiosi (come quello minerario, o in alcuni monopoli, come quello delle banane, o in quello turistico) che avevano evidenti implicazioni politiche, dall’altro creare alcune grandi società miste, a capitale pubblico e privato, per razionalizzare l’economia imperiale e ridurre i costi. Per sfruttare le risorse agricole e minerarie e contribuire al programma autarchico il regime favorì la costituzione di alcuni grandi sindacati, composti dalle principali imprese nazionali del settore, al fine di attuare le ricerche e gli studi preliminari all’avvio delle iniziative economiche10 . 7. ACS, Segreteria Particolare del Duce (d’ora innanzi SPD), Carteggio riservato (d’ora innanzi CR), b. 87, Alessandro Lessona a Davide Fossa (capo dell’Ispettorato fascista della produzione e del lavoro per l’AOI), 16 settembre 1937. 8. Per le autorizzazioni relative alle attività economiche di maggior rilievo (quelle il cui capitale sociale superasse le 500.000 lire; le industrie dello spettacolo e quelle dei carburanti e lubrificanti qualunque fosse il capitale impiegato; le imprese di autotrasporto con un parco di almeno dieci automezzi) era competente il MAI, sentite le consulte; per quelle minori erano competenti i singoli governi dell’AOI, ascoltati i locali Consigli dell’economia corporativa. 9. G.L. Podest‡, Nell’economia fascista: autarchia, colonie, riarmo, in Storia dell’IRI, 1. Dalle origini al dopoguerra, a cura di V. Castronovo, Laterza, Roma–Bari 2012, p. 441. 10. La Compagnia nazionale per il cotone d’Etiopia, la Compagnia delle fibre tessili, la Compagnia italiana semi e frutti oleosi, la Compagnia italiana per la valorizzazione della flora etiopica, la Compagnia tannini d’Etiopia, la Compagnia imperiale per l’utilizzazione delle essenze legnose d’Etiopia, la Compagnia etiopica industrie alimentari agricole, la Compagnia italiana studi e allevamenti nelle colonie, la Compagnia etiopica esplosivi, la Compagnia forniture e impianti telegrafonici in AOI e la Compagnia nazionale imprese elettriche. La maggior parte di questi consorzi era ancora nella fase di studio nel 1940.

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Le esportazioni dall’Italia all’impero invece crebbero in misura colossale passando da 71 milioni di lire nel 1934 a oltre 2.100 milioni nel 1937. Esse costituivano il 20% circa delle esportazioni complessive del paese ed erano costituite soprattutto da derrate alimentari (farina, pasta, bevande e liquori), tessuti di cotone, fibre artificiali, prodotti metallurgici, macchinari, autoveicoli e parti di ricambio, materiali da costruzione, carburanti e oli minerali, pneumatici11 . Nel 1936, a causa delle sanzioni economiche, le esportazioni in AOI, pari a oltre 1.350 milioni, costituivano quasi il 25% dell’export italiano. Se per le imprese nazionali ciò rappresentava una boccata d’ossigeno, d’altra parte, come sottolineava il ministro per gli Scambi e Valute, Felice Guarneri, le esportazioni erano finanziate dalla madrepatria grazie alla spesa pubblica, equivalevano quindi a consumi fatti all’interno del paese e non apportavano alcun beneficio alla bilancia dei pagamenti, e anzi ne incrementavano il passivo12 : a) per l’acquisto all’estero delle materie prime necessarie a fabbricare i manufatti e per sostenere gli enormi consumi di carburante in AOI; b) per l’impiego di naviglio mercantile, sottratto ai traYci esteri, con perdita dei noli; c) per il costo del pedaggio dovuto al passaggio del canale di Suez; d) per le conseguenze indirette generate dall’abbandono delle normali correnti di esportazione, le sole che fruttavano divisa estera o contropartite in merci, poiché gli esportatori distraevano quantità sempre più elevate di prodotti per inoltrarli in AOI. Nel 1937 la situazione valutaria divenne preoccupante e nell’estate Mussolini concordò con Guarneri il contingentamento delle merci indirizzate nell’impero13 , convinto altresì che il provvedimento avrebbe accelerato il raggiungimento almeno dell’autarchia alimentare. EVettivamente questa misura avrebbe dato slancio alla produzione locale di beni di largo consumo. 11. G.L. Podest‡, Il mito dell’impero, cit., p. 259. 12. F. Guarneri, Battaglie economiche fra le due guerre, il Mulino, Bologna 1988, p. 751. 13. Ivi, p.764.

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Si delineò una sostanziale divergenza tra l’Eritrea e la Somalia. Nella divisione del lavoro dell’impero fascista quest’ultima avrebbe dovuto fornire quasi esclusivamente prodotti agricoli tropicali (come le banane, il cotone, il ricino) sia per la madrepatria sia per le altre regioni dell’AOI, secondo il modello dell’economia di piantagione, utilizzando anche il lavoro coatto degli africani, e non era previsto che dovesse ospitare una consistente colonizzazione italiana. La creazione dell’impero e la politica autarchica avrebbero avvantaggiato la crescita dell’agricoltura somala, legandola però a un modello di sviluppo non riproducibile se non nell’ambito delle particolari condizioni determinate da un regime totalitario volto alla preparazione della guerra. Anche se dall’inizio del secolo si era registrato un consistente aumento della popolazione somala (da poche centinaia di migliaia a circa un milione di abitanti secondo le stime del 1939)14 il problema della scarsità della manodopera era emerso in tutta la sua gravità proprio negli anni Trenta per l’aumento del numero delle concessioni e per le nuove necessità dell’economia imperiale. Per risolvere la questione il governo prima istituì per i somali dei turni di lavoro obbligatori bimensili o semestrali nelle fattorie italiane e in seguito determinò l’obbligo di permanenza nell’azienda agraria, trasformando con ciò d’imperio un contratto di lavoro salariato in uno di compartecipazione e introducendo di fatto in colonia il lavoro coatto con il duplice obbiettivo di garantire, pur in un regime di coercizione, la disponibilità di manodopera per le coltivazioni industriali e di raggiungere, delegando agli indigeni le coltivazioni tradizionali, l’autosuYcienza alimentare che il sistema fondato sul mercato del lavoro non riusciva a garantire. Le banane divennero il principale prodotto agricolo della Somalia. La produzione era destinata quasi esclusivamente al mercato nazionale ed era acquistata a prezzi politici dal nuovo monopolio creato dal regime fascista, la Regia Azienda Monopolio Banane (Ramb), che provvedeva al trasporto e alla commercializzazione in patria. Se nel breve periodo questo regime favorì gli agricoltori italiani, nel lungo periodo esso certamente indirizzò rigidamente lo sviluppo agricolo del paese poiché incoraggiò la diffusione della monocultura. Se questo era vero, in pratica, per quasi 14. A.M. Morgantini, Contributo alla conoscenza demografica della Somalia sotto amministrazione fiduciaria italiana, 28 Session de l’Institut International de Statistique, Rome, 6–12 septembre 1953, estratto dal «Bollettino dell’Istituto Internazionale di Statistica», vol. XXXIV–3° parte, Stabilimento Tipografico Fausto Failli, Roma 1954, pp. 1–17.

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tutte le colonie, era però tanto più grave in un paese praticamente privo di risorse come la Somalia. L’equilibrio artificiale dell’economia era garantito peraltro solo dal sostegno finanziario dello stato che assicurava la tenuta dell’intero sistema. Il colonialismo aveva generato la progressiva disintegrazione della società tradizionale avviando un modello economico la cui sopravvivenza non poteva prescindere da uno stretto legame con la madrepatria. A diVerenza di quello che avvenne in Eritrea, ove la crescita del territorio era generata piuttosto dagli investimenti italiani nell’industria (in particolare, nel settore dei beni di consumo) e nel commercio, agevolando anche la crescita dell’occupazione africana in quei comparti, la preminenza del settore agricolo legato all’autarchia cristallizzò ancor più rigidamente l’economia somala. Incomparabili erano poi i raVronti per quanto riguardava l’istruzione: pur con tutti i limiti imposti dal razzismo fascista in Eritrea era sorto un sistema scolastico per gli africani che garantiva una preparazione scolastica di base e per i più meritevoli anche l’accesso alla formazione professionale, mentre in Somalia non si era fatto nessuno sforzo per istruire la popolazione autoctona. Dal modello economico configuratosi in Somala ne derivò quindi uno sviluppo artificiale ed eYmero, sostenibile esclusivamente in un sistema fortemente autarchico. 1.2. Il lavoro Il fattore lavoro avrebbe avuto un ruolo fondamentale nell’opera di valorizzazione in AOI e, non a caso, il duce amava enfatizzare questo fatto proclamando il dominio italiano come l’impero del lavoro15 . Come tutte le attività economiche anche l’arruolamento dei lavoratori in AOI sia per le imprese pubbliche sia per quelle private era stato completamente istituzionalizzato e direttamente gestito e controllato dalle autorità statali, che svolgevano la funzione di intermediari del lavoro, regolandone rigidamente la domanda e l’offerta. I primi contingenti di operai italiani inviati in Eritrea e in Somalia nell’estate 1935 erano inquadrati direttamente nelle legioni della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale (MVSN), e utilizzati per la costruzione delle infrastrutture necessarie ad accogliere il corpo di spedizione e per preparare l’avanzata oltre il 15. G. Mondaini, I problemi del lavoro nell’Impero, «Rassegna economica dell’Africa Italiana», giugno 1937, pp. 747–752.

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confine con l’Etiopia16 . L’arruolamento e la formazione dei lavoratori in Italia era affidata al Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione. Il Partito Nazionale Fascista (PNF) svolgeva un ruolo fondamentale nel settore economico e sociale. Il duce non volle che, almeno in quella fase, i sindacati fossero presenti in AOI. Le loro prerogative furono attribuite al partito, che, oltre alle normali funzioni politiche e assistenziali, svolgeva anche compiti di patrocinio e difesa dei lavoratori nei confronti dei datori di lavoro privati e della pubblica amministrazione. Agli appositi organi creati dal PNF il MAI e il Governo generale dell’AOI riconoscevano quindi, in mancanza dell’ordinamento sindacale corporativo, la rappresentanza di tutte le categorie economiche. Il PNF collaborava con il governo anche nel monitoraggio dei prezzi e degli aYtti. Già nel 1935 il PNF aveva istituito presso i governi dell’Eritrea e della Somalia gli Uffici del lavoro, suddivisi in due sezioni (lavoro e assistenza sociale): la prima provvedeva rispettivamente all’ordinamento del lavoro e degli organi relativi, alla disciplina e alla tutela delle categorie professionali nei rapporti di lavoro, e alla domanda e offerta di lavoro; mentre la seconda si occupava della previdenza sociale, delle assicurazioni per gli infortuni e le malattie, monitorava le questioni internazionali per la tutela del lavoro, e studiava le norme per l’attuazione dell’ordinamento corporativo. La sezione lavoro aveva provveduto anche a unificare i contratti collettivi tipo17 . Nel 1936, dopo la creazione dell’impero, questi organi furono istituzionalizzati come Uffici della produzione e del lavoro presso ogni governo regionale dell’AOI. Essi, sulla base delle direttive del segretario federale del PNF, svolgevano le seguenti funzioni: a) segnalavano le inosservanze dei patti di lavoro, delle norme e delle disposizioni sulla previdenza e sull’assistenza sociale; b) svolgevano opera di conciliazione nelle controversie relative ai rapporti di lavoro e di impiego privato; c) formulavano proposte al governo e al partito per la regolazione dei rapporti di lavoro; 16. G.L. Podest‡, Building the Empire. Public Works in Italian East Africa (1936–1941), «Entreprises et Histoire», 70, avril 2013, p. 43. 17. Il lavoro e l’assistenza sociale, «Gli Annali dell’Africa Italiana», 2, 1940, pp. 1045–1109.

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d) eVettuavano rilevazioni, indagini e inchieste nel settore economico e sociale; e) assistevano le categorie produttrici nella loro attività; f ) provvedevano al collocamento degli smobilitati e dei disoccupati; g) trattavano ogni altra attività delegata dal governo e dal partito. Nel settore dell’assistenza sociale, infine, l’uYcio svolgeva funzioni di sostegno e propaganda come le ispezioni nei cantieri di lavoro, l’invio di notizie e denaro alle famiglie in patria, la diVusione di giornali e riviste e l’organizzazione di proiezioni cinematografiche anche nelle aree più remote dell’AOI. Per sovrintendere a tutta l’attività di assistenza e di patrocinio dei lavoratori al vertice fu creato l’Ispettorato fascista della produzione e del lavoro per l’AOI che aveva sede presso il Governo generale. In AOI furono emanati una serie di istituti e di norme per disciplinare e tutelare il lavoro, che fissavano l’organizzazione delle attività produttive, degli orari e dei salari, e degli alloggi destinati alle maestranze. Dopo i primi provvedimenti elaborati tra il 1935 e il 1936, finalmente, nel dicembre 1938, i rapporti di lavoro tra le imprese e gli operai furono definitivamente determinati con uno speciale decreto del Governo generale dell’AOI, basato su quarantotto articoli ripartiti in dodici capitoli18 . Nel novembre 1939 il governo istituiva una commissione per favorire l’emigrazione delle famiglie dei lavoratori e distribuirle gradualmente nelle regioni dell’AOI sulla base della disponibilità e delle condizioni economiche. Nel 1938 fu definitivamente regolato anche il settore dell’impiego privato, suddiviso in quattro categorie, per ciascuna della quale era previsto il minimo di stipendio (3.000, 2.000, 1.500 e 1.000 lire mensili). Era stato anche previsto che gli impiegati, già occupati in Italia, e trasferiti in AOI per necessità dalle proprie aziende avrebbero avuto diritto a percepire, oltre allo stesso stipendio, anche un’indennità coloniale di pari importo.

18. L’organizzazione del lavoro e la legislazione sociale, «Gli Annali dell’Africa Italiana», 3, 1939, pp. 114–123. L. Ruiu, Sulla legislazione del lavoro in Africa orientale italiana (AOI), «Clio», 3, 1997, pp. 551–583.

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1.3. Popolazione e società Il dominio italiano sarebbe durato troppo poco perché se ne possano distinguere esattamente le coordinate sociali, eppure alcuni indizi sembrano palesare che la società italiana in AOI si stesse avviando a divenire una cosa assai diversa da quella concepita da Mussolini di contadini–guerrieri. Una valutazione compiuta nella primavera 1939 indicava un numero di civili italiani pari a 165.267, mentre gli africani sarebbero stati circa 12 milioni19 . Se la colonizzazione demografica contadina procedette con grande lentezza tra mille diYcoltà, invece si generò una diVusa vocazione imprenditoriale. Per migliaia di coloni l’AOI rappresentò «la frontiera», ove l’abilità e la volontà dei singoli potevano fruttare nuove ricchezze e una mobilità sociale negata in patria. Le condizioni eccezionali in cui si formò l’economia dell’impero, la creazione di un mercato di massa dal nulla, le mille smagliature che caratterizzavano l’apparentemente rigida e burocratizzata organizzazione economica e la colossale spesa pubblica garantivano un sicuro ritorno economico. L’Eritrea, in particolare, era l’epicentro di questo fenomeno. Qui si era verificata una situazione particolare, senza eguali nell’intera storia del dominio europeo in Africa. La popolazione di Asmara, pari nel 1935 a 4.000 italiani e 12.000 africani, era cresciuta nel 1939 rispettivamente a 48.000 e 36.00020 . Complessivamente la comunità italiana eritrea era pari a 72.000 residenti, con una consistente presenza femminile e di nuclei familiari21 (il numero delle donne potrebbe coincidere con una stima seppur imprecisa dei nuclei familiari eVettivi). Questo aveva favorito una crescita eccezionale delle attività economiche: migliaia erano le aziende industriali, commerciali e artigianali. Nella regione circolavano già oltre 12.000 veicoli civili (uno ogni sei abitanti), di cui 4.000 autovetture e 8.000 autocarri22 . Il diVuso benessere e il nuovo livello dei consumi stavano generando la nascita di un nuovo stile di 19. R. Ciferri, I cereali dell’Africa Italiana, «Rassegna economica dell’Africa Italiana», 1942, 1, p. 12. 20. L’opera delle amministrazioni locali, «Gli annali dell’Africa Italiana», 1940, 1, p. 892. 21. Al 31 dicembre 1939 le donne in Eritrea sarebbero state 14.827 (il 20% della popolazione italiana) a fronte di un numero complessivo in AOI di 26.628 (in Libia erano 28.690). I dati pubblicati sono in ACS, Fondo Ministero dell’Africa Italiana (d’ora in poi MAI), b. 2123, Popolazione nazionale femminile residente in AOI e iscritte ai fasci femminili. 22. Guida dell’Africa orientale italiana, Consociazione Turistica italiana, Milano 1938, p. 30; Le comunicazioni e i trasporti, «Gli annali dell’africa Italiana», cit., p. 606

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Tabella 1. Popolazione complessiva dell’Africa orientale italiana nel 1939. Governi Eritrea Somalia Amara Galla e Sidama Harar Scioa Totale

Popolazione

Densità presunta per km2

1.500.000 1.150.000 2.000.000 4.000.000 1.600.000 1.850.000 12.100.000

6,05 1,6 10,1 12,4 7,7 28,2 7,0

N.B. La popolazione africana era stimata. Fonte: Istituto Fascista dell’Africa Italiana, Annuario dell’Africa italiana e delle isole italiane dell’Egeo, anno XVIII, Società Tipografica Pio X, Roma 1940.

vita. Anche se la fine del conflitto inferse un duro colpo alle attività economiche eritree, una parte consistente di esse sopravvisse alle vicende postbelliche. In Somalia il numero degli italiani residenti era pari a 19.200 unità, di cui circa 9.000 vivevano a Mogadiscio (assieme a 60.000 somali). La maggior parte era impiegata nella pubblica amministrazione o nelle piantagioni tropicali come concessionari, tecnici, impiegati e maestranze. In AOI una parte rilevante dei civili italiani (circa 25.000) lavorava nel settore pubblico. I loro stipendi erano sensibilmente più elevati che in patria anche per eVetto delle numerose indennità, pur variando naturalmente rispetto alla funzione: si passava così da oltre 1.200 lire di media per gli impiegati alle 5.000 dei magistrati. I lavoratori dipendenti privati erano stimati in circa 20.000, ma probabilmente erano molti di più contando anche i residenti temporanei. I loro assegni variavano da 1.000 a 3.000 lire mensili. I liberi professionisti che esercitavano la propria attività nel 1939 erano 871. Il gruppo professionale più numeroso era quello dei medici, seguito dagli ingegneri, dai geometri, dagli avvocati, dai farmacisti e dai veterinari, ma non mancavano gli architetti, i notai, le ostetriche, i giornalisti e gli artisti. Nel 1939 il MAI elaborò un censimento delle imprese industriali e commerciali presenti in AOI e il capitale investito per ciascun settore, ripartite per i singoli governatorati23 . Secondo il ministero 23. ASDMAE, ASMAI, ASG, b. 151, Situazione delle aziende industriali e commerciali, giugno 1939, e Le industrie e il commercio, «Gli annali dell’Africa Italiana», cit., p. 1117. La stima degli investimenti complessivi è in Lineamenti della legislazione per l’impero, «Gli annali dell’Africa

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Gian Luca Podestà Tabella 2. I residenti italiani in Africa orientale italiana nel 1939.

Governo Eritrea Scioa Somalia Galla e Sidama Amara Harar Totale

Residenti

Percentuale

72.408 40.698 19.200 11.823 11.103 10.035 165.267

44,0 25,0 11,0 7,0 7,0 6,0 100,0

Fonte: R. Ciferri, I cereali dell’Africa italiana, in «Rassegna economica dell’Africa italiana», n. 1, 1942, p. 12; Annuario dell’Africa italiana e delle isole italiane dell’Egeo, a. XVIII, Società Tipografica Pio X, Roma 1940.

Tabella 3. Le donne italiane in Africa orientale italiana nel 1939. Governo

Donne

Percentuale

Eritrea Scioa Somalia Harar Amara Galla e Sidama Totale

14.827 6.564 2.287 1.350 946 654 26.628

20,4 16,3 11,9 13,4 8,5 5,7 100

Fonte: ACS, MAI, b. 2123, Popolazione nazionale femminile residente in AOI e iscritte ai fasci femminili al 31 dicembre 1939.

erano state censite solo le imprese private. Le rilevazioni furono certamente abbastanza approssimative, specie per quanto concerne i dati relativi agli investimenti. Inoltre le statistiche non comprendevano le imprese agrarie, quelle della pesca e dell’industria estrattiva, e le piccole aziende artigianali e quelle che esercitavano il commercio al dettaglio. Tuttavia i dati sono molto interessanti e oVrono un quadro piuttosto dinamico dell’economia italiana nell’impero. Secondo le stime elaborate dal MAI gli investimenti complessivi dei privati (comprese le attività non valutate nei dati presentati) sarebbero ascesi a circa cinque miliardi di lire. Risultavano operanti 4.007 imprese industriali con un capitale complessivo investito di oltre 2,7 miliardi di lire. Il governo con la più alta concentrazione era l’Eritrea con 2.198 Italiana», 1939, 3, cit., p. 124 e in ASDMAE, ASMAI, ASG, b. 67, Investimenti fatti da privati in Africa orientale italiana, 14 aprile 1943.

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imprese (54,8% del totale) per circa 2,2 miliardi (81,4%), seguito dallo Scioa con 561 per 305 milioni e dalla Somalia con 584 e poco più di 75 milioni. Il settore più importante era quello degli autotrasporti con 1.262 imprese (31,4% del totale) per circa 1,7 miliardi (63%), seguito da quello delle costruzioni con 823 (20,5%) per circa 745 milioni (27,2%). In entrambi i comparti a fianco delle più grandi imprese nazionali operavano anche società di piccolissime dimensioni. Naturalmente le imprese aeronautiche nazionali, come la Caproni ad Asmara e la Piaggio ad Addis Abeba, avevano creato grandi complessi logistici, dotati di oYcine per la manutenzione e le riparazioni. Mentre le società più piccole potevano chiedere l’autorizzazione a esercitare la propria attività direttamente ai singoli governi dell’AOI, quelle più grandi, dotate di un capitale sociale superiore a 500.000 lire, dovevano chiedere l’autorizzazione al MAI. Secondo le rilevazioni di Confindustria, nel maggio 1939, risultava che 1.140 imprese avevano ottenuto il permesso, di cui 499 operavano già nell’impero24 . Di esse, 407 avevano provveduto all’impianto di stabilimenti industriali, mentre le rimanenti si erano limitate a creare una rete commerciale. I settori più rappresentati erano le costruzioni (193), la meccanica e la metallurgia (59), gli alimentari e le bevande (48), i trasporti (38), la chimica (34), i materiali da costruzioni (29) e il legno (25). Ben 28 permessi erano stati rilasciati al settore dello spettacolo (cinematografi e teatri). La maggior parte delle imprese proveniva dalla Lombardia (102), dal Piemonte (55) e dal Lazio (52), e si concentrava in Eritrea (185) e nello Scioa (179). Il MAI aveva censito anche 4.785 imprese commerciali in AOI per un capitale investito pari a oltre 1,1 miliardi di lire. Il settore mercantile era più frammentato rispetto a quello industriale. L’Eritrea primeggiava con ben 2.690 aziende (56,2%) per circa 486 milioni di lire (44,1%). Anche se le statistiche sono abbastanza generiche, offrono però elementi suYcienti per aVermare che in AOI vi era un rapporto piuttosto elevato fra il numero delle imprese e la popolazione civile residente. In Eritrea questo fenomeno era più evidente. Nell’estate 1939 il MAI pubblicò dei nuovi dati relativi alle attività economiche complessive esercitate nella ex–colonia sia da italiani che dagli africani, scomponendo le imprese commerciali anche in una prima sommaria suddivisione fra grossisti e dettaglianti, pur se la 24. Confederazione fascista degli industriali, L’industria nell’A.O.I., USILA, Roma 1939, pp. 350 e ss.

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definizione delle singole categorie era abbastanza sommaria25 : Le imprese commerciali erano complessivamente 5.074, di cui 1.154 per la vendita all’ingrosso e 3.920 al dettaglio, mentre quelle industriali ammontavano a 2.769. Il rapporto enumerava anche 653 imprese di servizi (agenzie di assicurazione, commissionari, agenti marittimi e spedizionieri, ecc.) e 1.737 aziende artigianali. Complessivamente le aziende italiane censite erano 10.333. La crescita della popolazione europea stimolava una forte domanda di prodotti alimentari, mobili, materiali da costruzione, ecc. Il contingentamento imposto nel 1937 per alcuni beni incentivò la creazione di imprese locali destinate a sopravvivere fino ai giorni nostri come la Birra Melotti (oggi Asmara) e l’Acqua Minerale Fenili e molte altre. Le impellenti necessità dell’intendenza militare prima, e la volontà di creare rapidamente le condizioni di vita materiale indispensabili per accogliere una popolazione civile in rapida crescita dopo, crearono condizioni eccezionali per lo sviluppo di un mercato di massa. Il programma di colonizzazione demografica avrebbe dovuto essere graduale, ma, per non scalfire il prestigio politico del regime in patria e all’estero, i tempi furono accelerati26 . Essa avrebbe dovuto insediarsi nei territori più favorevoli dell’ex–impero etiopico, ma già alla fine del 1937, per esplicita volontà di Mussolini, la colonizzazione fu rallentata sia per ragioni politiche determinate dal timore che l’immissione dei contadini italiani aggravasse la guerriglia sia per i costi che oltrepassavano le possibilità economiche dell’amministrazione imperiale27 . Da allora essa avrebbe assunto prevalentemente un carattere sperimentale, anche se la propaganda avrebbe continuato, per mobilitare il consenso delle masse, a dipingere un quadro idilliaco, indicando cifre del tutto inattendibili sulla capacità di accoglienza 25. Attività economiche esercitate nell’Eritrea al 30 aprile 1939, «Rassegna economica dell’Africa Italiana», agosto 1939, pp. 763–765. 26. «Ragioni politiche ed economiche rendono necessario iniziare subito, già alla fine stagione piogge, nostra colonizzazione demografica in Etiopia». ASDMAE, ASMAI, ASG, Lessona a Graziani, 13 giugno 1936, b. 160. Alessandro Lessona era il ministro dell’Africa Italiana e Rodolfo graziani il governatore generale dell’AOI. 27. «Alcuni progetti devono essere realizzati, ma non è pensabile — allo stato degli atti — una colonizzazione demografica in grande stile, che porti oltre il Canale di Suez milioni di italiani. Lo sfruttamento razionale e intelligente delle risorse dell’Impero deve quindi farsi sul piano che chiamerò capitalistico e deve puntare risolutamente sulle seguenti sostanziali voci: cotone, lana, pelli, carni, oli, caVè, minerali. Perché tale sfruttamento avvenga rapidamente bisogna ridurre al minimo gli intoppi di carattere burocratico centale e locale». ACS, Carte della cassetta di zinco. Autografi del duce, b. 10, f. 15.2.4, Viatico duca d’Aosta, 18 novembre 1937.

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dell’impero, tanto da sollevare le proteste degli stessi enti di colonizzazione28 . Il numero delle concessioni eVettive, cioè le famiglie contadine immesse nei poderi, secondo le fonti più attendibili sarebbero oscillate tra 425 e 520, mentre la stampa italiana ne dichiarava 85429 . Paradossalmente, nonostante il duce avesse proclamato che la vera ricchezza dell’impero era il lavoro degli italiani, la nuova situazione economica coinvolse una parte consistente della popolazione africana. Lo stato e i privati avevano necessità di manodopera. Nel 1940 le stime indicavano in 750.000 i lavoratori africani impegnati nei lavori edili, stradali e agricoli. Se a essi assommiamo quelli arruolati nelle forze armate e i lavoratori nelle imprese private il numero supera il milione, pari al 10% della popolazione stimata. Anche nel settore agricolo si era ormai rinunciato per motivi economici al programma di emigrazione dei contadini italiani e si riteneva più opportuno coinvolgere gli agricoltori africani e le loro famiglie in accordi di compartecipazione. Nel settore stradale, nonostante la proibizione del duce di evitare rapporti tra le razze, alla fine del 1938 migliaia di operai africani affiancavano ancora gli operai italiani. Molti di loro erano dipendenti diretti dei governi italiani come operai non di ruolo: 800 in Somalia, 1.000 nello Scioa, 3.200 nel Galla e Sidama, 1.800 in Eritrea e 400 nell’Amara. Le paghe erano in media circa il 25% di quelle dei lavoratori italiani anche se variavano a seconda delle regioni e delle mansioni. In Eritrea le paghe erano più alte: 17,25 lire al giorno per un operaio qualificato, 10 lire per un operaio semplice e 7 lire per un apprendista. La scarsità della manodopera e la concorrenza dell’esercito contribuivano ad elevare i salari nonostante il governo cercasse di limitarli per legge. In Eritrea alcune imprese industriali come il cementificio di Massaua e poi, durante la guerra, la fabbrica di fiammiferi di Asmara occupavano migliaia di operai eritrei. Dato il miglior livello delle scuole una minoranza di eritrei poteva accedere a professioni più qualificate come interpreti, autisti, commessi e altro. La Compagnia Italiana Alberghi Africa Orientale (CIAAO) occupava 250 lavoratori italiani e 450 africani. 28. Alcuni documenti farebbero supporre che lo stesso Governo generale dell’AOI frenasse per ragioni politiche l’ampliamento delle concessioni agli enti di colonizzazione: «Sembra che gli Enti di colonizzazione non siano graditi. Mentre si è d’accordo che [. . . ] seguano un programma di gradualità e di assoluta prudenza occorre d’altra parte che essi non appaiano dei tollerati, ma sempre più considerati, in tutti i loro aspetti». ASDMAE, ASMAI, ASG, Segreteria Particolare del Duce a MAI, 27 luglio 1938, b. 158. 29. A. Sbacchi, Il colonialismo italiano in Etiopia 1936–1940, Mursia, Milano 1980, p. 324.

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Un numero elevato di africani partecipava al commercio e all’artigianato. Senza i mercanti autoctoni la popolazione europea delle città non poteva rifornirsi. In Eritrea erano registrate 2.698 imprese commerciali africane. Ad Addis Abeba nel 1940 le concessioni complessive per il commercio erano circa 3.000, mentre quelle per gli artigiani erano 1.000. In queste cifre erano certo inclusi molti africani. Nella capitale vivevano ormai 100.000 etiopici e 40.000 italiani. Per evitare rapporti razziali il duce aveva proibito l’accesso al mercato africano per gli italiani, ma dopo pochi giorni il governo dovette revocare l’ordine per evitare la carestia. Il municipio costruì un nuovo mercato e organizzò le botteghe per migliorare le condizioni sanitarie. Certamente la partecipazione di un numero crescente di africani agli scambi di mercato contribuì alla crescita dell’economia capitalistica, a diVondere l’uso della moneta (sia i talleri di Maria Teresa sia le lire italiane), e a stimolare un aumento dei consumi di tipo occidentale, almeno per quelle fasce di lavoratori più a contatto con gli italiani. Così l’impero fu una vicenda che incise significativamente nella vita di una consistente parte della popolazione africana.

2. La Libia 2.1. Popolazione e società Alla vigilia della Seconda guerra mondiale nella colonia si integravano due modelli di società: quella urbana che si differenziava assai poco dalla madrepatria e quella rurale della colonizzazione demografica strutturata sui villaggi e i poderi statali, composta da famiglie contadine selezionate sulla base di requisiti morali, politici e fisici, cui il regime fascista affidava gli obiettivi di conseguire l’autarchia alimentare del dominio e l’incremento delle nascite in modo da compensare il decremento progressivo dei tassi di natalità urbani. La crescita della popolazione nazionale era stata molto veloce: se nel 1927 gli italiani erano ancora circa 26.000 crebbero a 119.139 nel 1939. In quell’anno gli italiani residenti nei principali centri urbani (Tripoli, Misurata, Bengasi e Derna) erano 75.814 (64%), mentre 43.325 vivevano nei villaggi demografici o nelle altre località. I coloni demografici erano circa 41.000 (34% degli italiani), di cui 27.000 emigrati in soli due anni nel 1938 e

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Tabella 4. La popolazione della Libia nel 1939. Italiani Arabi Ebrei Totale

119.139 744.057 30.578 893.774

Fonte: Annuario generale della Libia, Pubblicazione UYciale dei Consigli e UYci dell’Economia Corporativa della Libia 1940–41 XIX E.F., Unione Coloniale Italiana Pubblicità e Informazioni, Tripoli 1941.

Tabella 5. La popolazione delle principali città della Libia nel 1939.

Tripoli Misurata Bengasi Derna Totale

Italiani

Arabi

Ebrei

Totale

47.442 1.735 23.075 3.562 75.814

47.123 44.387 40.331 13.555 145.396

18.467 977 3.395 391 23.410

113.212 47.099 66.801 17.508

Fonte: Annuario generale della Libia, Pubblicazione UYciale dei Consigli e UYci dell’Economia Corporativa della Libia 1940–41 XIX E.F., Unione Coloniale Italiana Pubblicità e Informazioni, Tripoli 1941.

1939. Nel 1936 le donne italiane erano 28.701 (43% della popolazione nazionale)30 , mentre nel 1939 sarebbero state circa 34.200 (29%). Anche la popolazione araba residente nelle aree urbane era cresciuta molto. Nel 1939 gli arabi erano 744.057, di cui 145.396 vivevano nelle quattro città principali (19,6%), e circa 51.000 nel Sahara libico (6,8%), mentre gli ebrei libici, di lingua e cultura italiane, erano 30.578, di cui 23.410 abitavano nei quattro centri (77%) e ben 18.647 nella sola Tripoli (61%). In soli dieci anni il rapporto fra la popolazione italiana e quella araba era passato da 1:17 a 1:6,2. A Tripoli, fra il 1929 e il 1939, i residenti arabi erano cresciuti di circa 1/3, mentre a Bengasi erano praticamente raddoppiati, passando da 20.255 a 40.331, e a Misurata addirittura quintuplicati, crescendo da circa 7.500 a 44.387. La mobilità verso le città era indubbiamente determinata dal crollo dei prezzi agricoli e dei capi d’allevamento durante la grande depressione fra il 1929 e il 1934. Molti libici cercavano quindi impiego nei grandi lavori pubblici finanziati dal governo come la costruzione della strada litoranea, dei nuovi villaggi colonici e delle infrastrutture 30. ACS, MAI, b. 2123, Popolazione nazionale femminile residente in A.O. e in Libia e iscritta ai fasci femminili al 31/12/1940 (dati approssimativi).

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militari, oppure nell’edilizia urbana e nei settori che la crescita della popolazione italiana stava stimolando come l’industria, il commercio e i trasporti. 2.2. Economia e redditi Fino al 1937, prima che le migrazioni demografiche del 1938 e 1939 accrescessero il numero degli addetti dell’agricoltura, la maggior parte degli italiani era occupata nell’industria e nella pubblica amministrazione. Secondo stime ufficiali, nel 1936 la distribuzione degli addetti era la seguente in percentuale: industria 30,4; pubblica amministrazione 29,8; agricoltura, caccia e pesca 16,7; commercio 10,7; trasporti e comunicazioni 5,8; lavori domestici 3,8; libere professioni e insegnanti 1,3; credito e assicurazioni 1,1; altri 0,431 . Nel 1936 le aziende industriali registrate a Tripoli erano 2.943, di cui 1.158 censite come arabe, 968 italiane, 691 ebree e 126 straniere32 . Gli italiani prevalevano nettamente nel settore delle costruzioni, mentre gli arabi in quello tessile, nell’alimentare e in quelle connesse all’agricoltura. Si trattava però per lo più di piccole o piccolissime aziende. Le aziende commerciali erano 7.915, di cui 921 italiane, 5.384 arabe, 1.415 ebree e 195 straniere. Il commercio al minuto di generi alimentari era il settore preponderante con oltre il 57% degli esercizi, di cui l’84% aveva un titolare arabo. In Cirenaica nel 1938 erano registrate 1.779 imprese industriali, mentre le aziende commerciali erano 7.27933 . La distribuzione settoriale era abbastanza simile a quella della Tripolitania. Nel 1936 l’Ufficio di collocamento di Tripoli censiva 3.971 lavoratori italiani dipendenti di cui 3.007 impiegati nell’industria (1.593 nel 1928) e 964 nel commercio (123 nel 1928). La maggior parte degli addetti nazionali dell’industria lavorava nell’edilizia e nell’industria estrattiva (57,3 per cento), nella meccanica e metallurgia (17,4 per cento) e nell’arredamento (9,3 per cento), mentre quelli del commercio erano impiegati prevalentemente presso i grossisti e gli spedizionieri (57,5 per cento) e 31. J. Herkommer, Libyen von Italien Kolonisiert. Ein Betrag zur vordbild lichten KolonialpolitikItaliens in Nordafrika. Libyens Geschichte–Land und Leute–Industrie und Handels, J. Bielefelds Verlag, Freiburg im Bresgau 1941, pp. 29–30. 32. A.M. Morgantini, La Libia occidentale nei suoi principali aspetti economici–statistici nel quinquennio 1931–1935, Edizione del Consiglio Coloniale dell’Economia corporativa per le provincie di Tripoli e Misurata, Tripoli 1938, pp. 51 e ss. 33. J. Herkommer, Libyen von Italien Kolonisiert, cit., pp. 165–166.

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nel turismo (36,2 per cento). I salari erano più elevati rispetto a quelli della madrepatria, ma non in misura così rilevante come in AOI, mentre il costo della vita era leggermente inferiore rispetto all’Italia, salvo che per il mercato immobiliare. I salari dei lavoratori indigeni erano inferiori di circa 1/3 rispetto a quelli italiani. Nel 1936 un muratore italiano di seconda classe percepiva 2,70 lire all’ora, mentre il muratore libico guadagnava solo 2 lire; un operaio specializzato italiano prendeva fino a 3,45 lire all’ora, mentre il lavoratore specializzato libico percepiva al massimo 2,25 lire. Una elaborazione della distribuzione dei redditi mobiliari nei gruppi etnici del municipio di Tripoli relativa al 1938 attestava la crescita sia in termini assoluti che in termini percentuali del reddito d’impresa (industria e commercio)34, anche se i dati fiscali confermavano le sperequazioni dell’economia libica: le imprese italiane erano quelle di maggiori dimensioni che producevano la quota più elevata del reddito della colonia, mentre le imprese arabe erano per lo più di piccole dimensioni e generavano un profitto inferiore (seppur in crescita). Grazie ai dati raccolti dallo statistico Adolfo Mario Morgantini è possibile costruire alcune stime sulla distribuzione dei redditi dei diversi gruppi etnici che componevano la popolazione di Tripoli nel 1937. La ricerca si basa sui redditi derivanti da investimenti finanziari, attività commerciali e industriali, professioni e artigianato. Quelli accertati dal fisco che superavano le aliquote minime erano 3.696: gli italiani denunciavano circa il 50% del totale, gli ebrei il 30%, gli arabi il 15% e gli stranieri il 6%. La colonizzazione demografica, integrata dall’agricoltura indigena e dalle concessioni capitalistiche, avrebbe dovuto accelerare l’aumento della produzione agricola al fine di conseguire progressivamente l’autarchia alimentare. L’industria libica sarebbe stata complementare all’agricoltura, provvedendo alla trasformazione dei prodotti agricoli e alla fabbricazione dei beni di consumo necessari ai coloni europei e ai libici che si stavano urbanizzando. Fino all’aprile 1937 erano state create 840 aziende agricole italiane. Ma l’autentica rivoluzione fu costituita dalla progettazione e costruzione, fra il 1933 e il 1940, di 36 insediamenti agricoli (i villaggi), di cui otto riservati ai coloni arabi, ma non tutti furono effettivamente completati e messi in attività a causa della guerra35. 34. A.M. Morgantini, Distribuzione dei redditi mobiliari nei gruppi etnici della popolazione di Tripoli, ABETE, Roma 1947. 35. F. Cresti, Non desiderare la terra d’altri. La colonizzazione italiana in Libia, Carocci, Roma 2011, pp. 179 e ss.

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Tabella 6. Popolazione residente a Tripoli, superiore a 10 anni, addetta all’industria e al commercio al 21/4/1936, e imprese iscritte all’uYcio dell’economia al 30/6/1937. Gruppo etnico Italiani Arabi Ebrei stranieri totale

Popolazione

%

Imprese iscritte

%

6.044 9.937 4.569 628 21.178

28 47 22 3 100

1.826 1.873 1.483 258 5.440

34 34 27 5 100

Fonte: nostre elaborazioni da A.M. Morgantini, Distribuzione dei redditi mobiliari nei gruppi etnici della popolazione di Tripoli, A.Be.Te., Roma 1947, pp. 12 e ss.

Tabella 7. Dichiarazioni dei redditi e redditi per gruppi etnici. Gruppi etnici Italiani Arabi Ebrei Stranieri Totale

Dichiarazioni (numero)

Reddito (lire)

Dichiarazioni (%)

Reddito (%)

1.271 957 1.287 181 3.696

8.095.141 2.489.398 4.825.813 1.005.583 16.415.935

34,39 25,89 34,82 4,90 100,00

49,31 15,16 29,40 6,12 100,00

Fonte: nostre elaborazioni da A.M. Morgantini, Distribuzione dei redditi mobiliari nei gruppi etnici della popolazione di Tripoli, A.Be.Te., Roma 1947, pp. 12 e ss.

L’accelerazione delle trasformazioni economiche e sociali nei domini coloniali tra il 1936 e il 1939 era generata dalle infinite possibilità che un moderno regime totalitario aveva di incidere nel vivo delle strutture sociali, come nessun governo democratico avrebbe mai potuto concepire. Gli eVetti più rilevanti furono lo sviluppo rapido dell’urbanizzazione, la quasi definitiva disarticolazione dell’economia tradizionale e la crescente partecipazione della popolazione africana all’economia di mercato (generando anche nuovi ceti urbani), e la creazione (nelle aree più urbanizzate) di un tessuto industriale leggero gestito da italiani (e anche da africani) sopravvissuto in buona misura alla guerra e alla decolonizzazione.

Autori

Antonio Messina è laureato in Scienze politiche e delle relazioni internazionali, dirige la rivista italiana di storia delle idee denominata «Il Pensiero Storico», ed è socio del Centro internazionale di cultura filosofica “Giovanni Gentile” e dell’Istituto euro–arabo di Mazara del Vallo. Ha curato insieme al professor A. James Gregor la pubblicazione di un volume intitolato Riflessioni sul fascismo italiano. Un’intervista di Antonio Messina (Firenze 2016), ed attualmente prosegue le sue ricerche con particolare riferimento alla politica culturale e alla storia intellettuale del regime fascista. Francesco Carlesi è dottorando in Studi politici presso la Sapienza – Università di Roma. Ha conseguito la laurea specialistica in Scienze politiche e relazioni internazionali e due master, in Europrogettazione e Geopolitica e sicurezza globale. Ha collaborato a diversi giornali online e scritto articoli per i periodici scientifici «Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale» e «Nuova Rivista Storica». Ha scritto i libri Rivoluzione sociale. “Critica Fascista” e il Corporativismo (1923–1943) (Milano 2015) e Craxi, l’ultimo statista italiano (Roma 2016) e ha collaborato ai volumi Corporativismo del Terzo Millennio, Neolingua e Rinascita di un Impero. La Russia di Vladimir Putin. Sergio Fernández Riquelme è uno storico. Dottore in Politica sociale e professore presso l’Università di Murcia (Spagna). Direttore della rivista «La Razón histórica» e dell’IPS (Instituto de Política social). Ha pubblicato, tra gli altri, Corporativismo y Política social. Un ensayo sobre Mijail Manoilescu (2005); La ciencia histórica. Métodos e Ideas para el estudio historiográfico (2009); General Theory of Corporatism. A historical pattern of European social Policy (2009); La utopía del comunismo jerárquico. Política y Sociedad en Ugo Spirito (2010). 235

236

Autori

Gian Luca Podestà si è laureato in Storia all’Università degli Studi di Genova e ha conseguito il PhD in Storia economica e sociale e un MBA all’Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano. Insegna Storia economica all’Università degli Studi di Parma ed è professore a contratto all’Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano. Ha pubblicato, tra gli altri, Dal delitto politico alla politica del delitto. Finanza pubblica e congiure contro i Farnese nel Ducato di Parma e Piacenza dal 1545 al 1622 (1995); Sviluppo industriale e colonialismo. Gli investimenti italiani in Africa orientale 1896–1897 (1996); Il mito dell’impero. Economia, politica e lavoro nelle colonie italiane dell’Africa orientale 1898–1941 (2004); Mito e realtà del progetto demografico, in G.P. Calchi Novati (a cura di), L’Africa dell’Italia. Una storia coloniale e postcoloniale (2011); Nell’economia fascista: autarchia, colonie, riarmo, in V. Castronovo (a cura di), Storia dell’IRI, 1. Dalle origini al dopoguerra 1933–1948 (2012); I luoghi della cultura nell’impero fascista, in S. Luzzatto, G. Pedullà, Atlante della letteratura italiana, vol. III, D. Scarpa (a cura di), Dal Romanticismo a oggi (2012). Maria Sophia Quine è Senior Research Fellow in Storia della razza, fascismo, ed eugenetica presso il Centre for Medical Humanities della Oxford Brookes University. Ha ricoperto il ruolo di Senior Lectureship in Storia moderna europea all’Università di Londra, presso il Queen Mary College. I suoi scritti si sono focalizzati sullo studio del fascismo italiano, storia moderna italiana, storia della scienza e storia del welfare. È co–autrice, con Marius Turda, di un libro sulla cultura occidentale e la politica razziale (Historicizing Race, Bloomsbury Press, 2017). Ha pubblicato, tra gli altri, Italy’s Social Revolution. Charity and Welfare from Liberalism to Fascism (Londra 2002).

CRONOGRAMMI SEZIONE I POLITICA, STORIA E SOCIETÀ

1. Claudio Zuccaro Max Scheler. Percorsi interpretativi isbn 978-88-548-2287-0, formato 14 x 21 cm, 192 pagine, 12 euro

2. Giovanni Scatena Impero, nazione e democrazia nell’opera di James Bryce isbn 978-88-548-3265-7, formato 14 x 21 cm, 224 pagine, 15 euro

3. Flavio Silvestrini Iugum libertatis. Dante e la lettura politica del libero arbitrio isbn 978-88-548-4977-8, formato 14 x 21 cm, 408 pagine, 23 euro

4. Paolo Armellini Introduzione al pensiero federalista isbn 978-88-7999-471-2, formato 14 x 21 cm, pagine, 15 euro

5. Francesco M. Maiolo Focault e la sovranità isbn 978-88-548-5068-2, formato 14 x 21 cm, 144 pagine, 13 euro

6. Maurizio Serio Percorsi dell’Unità d’Italia isbn 978-88-548-5143-6, formato 14 x 21 cm, 156 pagine, 11 euro

7. Angelo Arciero Percorsi dell’Unità europea isbn 978-88-548-5280-8, formato 14 x 21 cm, 236 pagine, 16 euro

8. Antonio Macchia Due idee di nazione isbn 978-88-548-5435-2, formato 14 x 21 cm, 120 pagine, 10 euro

9. Duccio Chiapello Il fantasma bulimico isbn 978-88-548-5612-7, formato 14 x 21 cm, 272 pagine, 17 euro

10. Carla San Mauro Unità federativa o indivisibile isbn 978-88-548-5390-4, formato 14 x 21 cm, 100 pagine, 10 euro

11. Giuseppe Bottaro Federalismo e democrazia in America isbn 978-88-548-5989-0, formato 14 x 21 cm, 184 pagine, 15 euro

12. Mariaconcetta Basile Il dibattito politico–culturale nella Messina del Settecento isbn 978-88-548-6085-8, formato 14 x 21 cm, 148 pagine, 13 euro

13. Lorella Cedroni Aspetti del realismo politico italiano isbn 978-88-548-5953-1, formato 14 x 21 cm, 560 pagine, 33 euro

14. Giuseppe Casale Cicerone a Firenze isbn 978-88-548-6366-8, formato 14 x 21 cm, 540 pagine, 30 euro

15. Mauro Bontempi Cattolicesimo e liberalismo nei primi scritti di Angelo Costa isbn 978-88-548-6474-0, formato 14 x 21 cm, 320 pagine, 20 euro

16. Marco Vanzulli Il marxismo e l’idealismo. Studi su Labriola, Croce, Gentile, Gramsci isbn 978-88-548-6625-6, formato 14 x 21 cm, 312 pagine, 18 euro

17. Francesco Lesce Il corpo esausto isbn 978-88-548-7506-7, formato 14 x 21 cm, 204 pagine, 12 euro

18. Gianni Spulcioni L’organizzazione del consenso nel ventennio fascista isbn 978-88-548-7512-8, formato 14 x 21 cm, 408 pagine, 18 euro

19. Giulio Battioni La nozione di potestas civilis e il rapporto tra Stato e Chiesa in Francisco de Vitoria isbn 978-88-548-7685-9, formato 14 x 21 cm, 476 pagine, 20 euro

20. Marialuisa Scovotto Bosnia–Erzegovina: uno Stato contemporaneo isbn 978-88-548-7661-3, formato 14 x 21 cm, 184 pagine, 10 euro

21. Michele Azzerri Rivoluzione e internazionalismo isbn 978-88-548-8214-0, formato 14 x 21 cm, 428 pagine, 20 euro

22. Antonio Alessio Andreozzi La democrazia possibile isbn 978-88-548-8244-7, formato 14 x 21 cm, 188 pagine, 12 euro

23. Giangiuseppe Pili Filosofia pura della guerra isbn 978-88-548-8716-9, formato 14 x 21 cm, 704 pagine, 30 euro

24. Laura Fotia La crociera della nave “Italia” e le origini della diplomazia culturale del fascismo in America Latina isbn 978-88-255-0041-7, formato 14 x 21 cm, 262 pagine, 14 euro

25. Vincenzo Pirro Filosofia e politica in Giovanni Gentile isbn 978-88-255-0088-2, formato 14 x 21 cm, 328 pagine, 17 euro

26. Antonio Messina (a cura di) L’economia nello stato totalitario fascista isbn 978-88-255-0372-2, formato 14 x 21 cm, 240 pagine, 13 euro

Compilato il 28 giugno 2017, ore 16:21 con il sistema tipografico LATEX 2✏ Finito di stampare nel mese di giugno del 2017 dalla tipografia «System Graphic S.r.l.» 00134 Roma – via di Torre Sant’Anastasia, 61 per conto della «Gioacchino Onorati editore S.r.l. – unipersonale» di Canterano (RM)